La miniera nel cielo

di Mannu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


La miniera nel cielo
LA MINIERA NEL CIELO

1.

In quasi cinquant'anni di vita sulle navi possono capitare molte cose. Verrebbe spontaneo immaginare mille avventurose esplorazioni di pianeti mai visti prima, fenomeni spaziali non ancora classificati, magari pericolosi e imprevedibili, o semplicemente strani. Niente di tutto questo. La maggior parte dei viaggi è noiosa routine e qualsiasi cosa giunga a turbare l'immobilità apparente della vita di bordo è guardata con apprensione, come minimo. Nonostante questo non ho mai cercato di scacciare dalla mia memoria il ricordo di quel viaggio che di immobile e noioso ha avuto davvero ben poco.
C'è stato un periodo della mia vita piuttosto buio e triste. Avevo perso il lavoro e non riuscivo a trovarne un altro. Nessuno sembrava interessato a un buon motorista con venti anni d'esperienza. O forse era proprio quello il problema: i miei quarantasette anni d'età erano visti come un pesante difetto. Non ero certo un giovane astronauta facile da circuire, a cui offrire una paga bassa o fuorilegge col ricatto di un posto di lavoro. Oltretutto sono sempre stato iscritto al Sindacato e chiunque avrebbe potuto verificare la mia appartenenza a esso.
Non solo sembrava che la mia figura professionale non fosse richiesta: non riuscivo a trovare un posto nemmeno come semplice tecnico di primo livello. Quando il denaro finisce, ci si adatta ai lavori più umili. Così abbassando il tiro sempre di più mi ero ritrovato a consultare gli annunci di lavoro anche delle categorie più basse. Le stesse che controllavo quando avevo diciotto anni e una gran voglia di mettere piede a bordo di una nave che non fosse quella dei miei genitori. Ma non ebbi fortuna: la concorrenza dei più giovani era spietata.
Giunse il giorno in cui con l'ultima card al portatore rimastami pagai l'affitto di un terminale pubblico per guardare un po' di annunci. Cercavo disperatamente un lavoro ed ero disposto a qualsiasi cosa. Era già da un po' che tiravo la cinghia, saltando i pasti uno dietro l'altro e dormendo dove costava meno, a volte anche per strada. Quelli erano gli ultimi soldi, il mio stomaco doleva per i crampi della fame e avevo la certezza che non sarei riuscito a mangiare nemmeno quel giorno. Con quei quindici minuti di connessione che consumarono gli ultimi miei soldi riuscii a trovare solo tre offerte tra le poche che apparivano nelle rubriche di inserzioni gratuite. Selezionate tra le montagne di trappole tese da truffatori e da armatori con pochi scrupoli, non mi lasciavano molte speranze. La prima pareva una truffa molto ben celata e mi lasciò molto incerto: il comandante di un cargo di classe Tortuga, una nave piuttosto grande, solitamente non cerca l'equipaggio con gli annunci gratuiti. Il secondo lo lessi e lo rilessi fino in fondo, controllando bene i requisiti. Era al di là delle mie capacità, ma non tanto e risposi ugualmente: facevo affidamento sulla mia anzianità di servizio e sulla mia esperienza sul campo. C'era la fila per essere contattati ma mi iscrissi ugualmente, con la speranza che venisse il mio turno prima della scadenza del mio collegamento.
Il terzo annuncio sembra scritto da un ubriaco. L'inserzione, largamente incompleta e con banali errori di battitura, era semplice, lapidaria, forse perfino sincera. Cercavano un equipaggio di complemento, con esperienza nella propulsione a spinta di fusione, disponibilità immediata per partenza in giornata, paga standard. Nient'altro. Non avevo niente da perdere: se si fosse trattato di una truffa non avrebbero certo potuto estorcermi denaro. Cercai di rispondere anche a questa inserzione, ma chi l'aveva pubblicata non disponeva un server che filtrasse le richieste di collegamento e non aveva lasciato recapiti. La cosa non era regolare e dovetti rivolgermi alle autorità del sistema per sapere il nome dell'inserzionista, il numero di registro della nave e il molo cui era attraccata. Presi nota di tutto, sperando che recarmi di persona sul posto fosse tollerato. Poco prima che la connessione scadesse fui informato che la mia richiesta di un colloquio preliminare presso il secondo inserzionista era stata respinta.
Non avevo altre possibilità: la nave del terzo inserzionista era lontana, ma avevo tutto il tempo di raggiungerla.
Attraversai la folla nella zona del porto rimuginando pensieri cupi. Avevo visto nascere e fiorire molte tecnologie oggi date per scontate, tra cui quella che dava vita ai motori a spinta di fusione. Quando mi capitava di parlarne, raccontavo con orgoglio d'aver assistito alla partenza della cosmonave Dniepr, che in quel viaggio avrebbe stabilito il record di velocità massima destinato a rimanere imbattuto per anni. Forse mi consideravano un vecchio pazzo, probabilmente anche per via del mio aspetto: sono calvo e grigio dall'età di ventinove anni. Oppure ritenevano che fossi un mitomane, che stessi cercando di darmi delle arie, in cerca di importanza. Invece stavo solo cercando un lavoro.
Passai attraverso tutta la zona del porto, un po' affollata, scansando piccoli trasporti elettrici traballanti sotto il peso di troppa merce e nugoli di persone affaccendate. Scansavo anche gli ambulanti che vendevano cibo: nella maggioranza dei casi si trattava di persone disoneste o semplicemente ignoranti in termini di igiene e regolamenti riguardanti conservazione, cottura e vendita del cibo. Ma le esalazioni di cibo cotto che mi arrivavano al naso dai loro malridotti carrelli erano per me un delizioso, irresistibile profumo e un'atroce tortura. Il mio stomaco doleva così tanto per la fame che più volte presi in considerazione di farmi servire uno dei loro cartocci untuosi e di scappare a gambe levate senza pagare.
Servendomi di quello che mi era rimasto del mio orgoglio riuscii a sfuggire a ogni minaccia e a ogni tentazione. Camminare non mi ha mai entusiasmato, ancora meno farlo a stomaco vuoto. Camminai per più di un'ora prima di giungere al molo 55 e quando arrivai dovetti sedermi su una delle panchine pubbliche della struttura di accoglienza per riposare un po'. Ne approfittai per dare uno sguardo in giro: la struttura di accoglienza del molo 55 era molto più bella di tante altre. C'erano i terminali per chiamare le navi gratuitamente, ma consentivano di contattare esclusivamente le navi ormeggiate a quel molo e di parlare solo per cinque minuti ogni mezzora. Serviva a scoraggiare i chiacchieroni, ma per me fu più che sufficiente. Mi avvicinai ansioso al terminale libero più vicino e contattai la nave del terzo inserzionista. Speravo ardentemente che andasse tutto bene.
- Chi è? - mi rispose una voce femminile. Lì su due piedi mi parve assonnata, stanca.
- Salve, sono Kaufman... ho visto l'annuncio e...
- Ah, sì... senti, non ho tempo da perdere quindi se hai qualcosa da chiedere fallo subito.
Mi piacciono le persone schiette, ma al momento mi parve un'esagerazione. Fui sul punto di salutare e togliere il disturbo, ma mi ricordai che nell'unica card che mi era rimasta in tasca non c'era denaro abbastanza nemmeno per un solo involtino primavera.
- Basta che lei mi paghi – schiettezza per schiettezza, mi dissi. In realtà ero terrorizzato dal pensiero di essere respinto per l'ennesima volta.
- Non posso andare oltre la paga standard. Sono sei giorni di viaggio, tutto compreso. Niente premi, niente extra.
Non era molto, ma non avevo scelta.
- Va bene.
- Hai il permesso di salire a bordo. Sbrigati, su.
Chiusi il collegamento, convinto di aver venduto la mia dignità. “Basta che lei mi paghi”: quelle parole mi risuonavano in testa come una eco e me ne vergognavo. Non mi sembravano nemmeno mie. Ero molto avvilito mentre aspettavo la mia tuta, trasportata gratuitamente grazie ai servizi automatizzati di quella parte dello spazioporto. Osservandola mentre il meccanismo trasportatore la avvicinava alla piazzola dove avrei potuto indossarla, mi resi conto che non era stata né lavata né ricaricata. La mia “leggera” verde brillante, vecchia come me e tutta da revisionare aveva meno di quaranta minuti di autonomia, dopodiché l'aria avrebbe cominciato a scarseggiare e l'energia a esaurirsi. Non avevo soldi per la ricarica, ma non ero preoccupato: la gabbia motrice mi avrebbe portato a destinazione in dieci minuti circa.
Con un po' di fortuna mi trovai da solo nella gabbia motrice e fui in grado di dare uno sguardo alla nave cui mi stavo avvicinando. Intravidi i motori con le loro gondole alettate: era una nave di classe Europa configurata con due propulsori. Evidentemente al comandante piace correre, pensai. Ma non ci fu tempo per troppe elucubrazioni: la gabbia motrice arrivò in breve tempo di fronte alla camera di equilibrio che si aprì davanti a me, svelando il suo interno vuoto illuminato di rosso. Saltai dentro e fui subito saldamente afferrato dalla gravità artificiale, regolata piuttosto forte. La procedura di compressione fece scricchiolare le guarnizioni della mia tuta. Probabilmente la camera di equilibrio era stata riprogrammata per ottimizzare il ciclo di compressione. Fortunatamente la mia “leggera” resse bene ancora una volta.
La camera di equilibrio si aprì e io entrai in una specie di vestibolo, ingombrato dalla discutibile installazione di un armadio robot che si stava occupando di una ingombrante tuta EVA. Mi tolsi il casco e assaggiai la fredda aria di bordo, frizzante e piacevole. Fui contento: era prassi piuttosto comune che i serbatoi dell'aria non venissero caricati con aria fresca in previsione di un viaggio di pochi giorni. Col casco in mano aggirai cautamente l'armadio robot e mi sporsi nello spinale, dove la camera di equilibrio si affacciava, chiedendo educatamente il permesso.
Mi venne incontro un tecnico della manutenzione. Doveva essere impegnata da tanto a bordo: il viso stanco, le guance paffute un po' arrossate facevano risaltare gli occhi cerchiati. La pettorina blu aveva una bretella sganciata e penzolava, svelando la curva di un pesante seno premuto contro la maglia grigia a maniche lunghe. Camminava posando i piedi scalzi direttamente sul lindo pavimento dello spinale.
- Salve – mi salutò, mettendo poi la mano davanti a uno sbadiglio.
- Non c'è il comandante? - la mia domanda le fece brillare una luce cattiva negli occhi scuri.
- Sono io – mi detti immediatamente dell'idiota. Avevo appena compiuto il primo errore grave. Così presto che avevo ancora il casco della tuta sotto il braccio. Mi fu chiaro come il sole che non aveva gradito.
- Allora, ti interessa il lavoro? - aggiunse grattandosi la testa coperta da una gran massa di capelli ricci e ribelli trattenuti da infantili mollette colorate apparentemente disposte a caso. Sperai che avesse letto il mio imbarazzo. Sperai che quella domanda fosse la prova che non si era offesa. Ma che diamine, mi era davvero sembrata un tecnico della manutenzione.
- Certo – non avrei potuto rispondere diversamente. Mi rivolse quindi parecchie domande, facendomi parlare per diversi minuti. Volle sapere dei miei incarichi e io le parlai dei miei esordi come meccanico presso i moli di Apollo, della mia carriera come tecnico specializzato in sistemi di potenza in cantiere, della promozione a motorista, dei miei viaggi. Non sbadigliò nemmeno una volta.
- Senti, per me va bene. Niente scherzi del cazzo e vedrai che andremo d'accordo. Se ti togli la tuta, io ti preparo il contratto da firmare.
Non penso che in quel momento avrei potuto udire parole più belle. Cercando di mantenere la calma mi sfilai la tuta nel vestibolo e mi presentai a lei, senza osare superare la soglia del ponte di comando e con le scarpe in mano. Ogni nave è un mondo a sé e io avrei dovuto imparare le regole di quella. Poi il modulo di comando era davvero piccolino, non c'era molto posto.
- Che ci fai con le scarpe in mano?
Si era voltata verso di me e aveva indicato le mie scarpe, vagamente stupita. Di rimando indicai i suoi piedi scalzi e per la prima volta le sue labbra rosa si piegarono in un sorriso che fuggì subito via.
- Non è obbligatorio camminare senza scarpe – disse porgendomi la penna ottica – ma sono contenta che hai anche tu quelle.
Le mie scarpe da astronauta: leggere e sottili, con la pianta in grado di aderire alle strisce di velcro nel caso venisse a mancare la gravità artificiale. Erano un po' vecchie, ma ancora presentabili. Ne avevo sempre avuto cura evitando di usarle una volta sbarcato. Ricambiai il sorriso, ma lei stava già guardando da un'altra parte. Strisciai il mio badge firmando felice il contratto, dopo averlo letto di sfuggita. Apparentemente un contratto standard, autentico.
- Ah! Che scema sono!
Mi porse la mano. Istintivamente la strinsi, calda e carnosa. Senza la tuta ero più basso di lei.
- Non mi sono nemmeno presentata! Che maleducata...
- Non c'è problema... – iniziai una banale frase di circostanza, ma lei non mi lasciò finire, per fortuna.
- Sono Michaela Patris e, anche se sembro uno spazzino, sono il comandante del Coyote.
- Piacere – sorrisi più serenamente, certo di essere stato compreso se non perdonato per la gaffe di poco prima. La sua mano stringeva fortemente la mia. Mi piace chi stringe la mano così, con forza e decisione.
- Piacere mio... Kaufan – come fanno tutti la prima volta, dovette leggere due volte il mio nome e lo sbagliò ugualmente. Lasciò la mano e chinò gli occhi sul contratto.
- Kaufman – la corressi pacatamente - … e sì, il mio nome è proprio Philo.
- Che nome curioso! Ha un significato?
Era la prima volta che qualcuno mi rivolgeva quella domanda. Non sapendo cosa rispondere, esitai.
- Non che io sappia...
- Occhei, Kaufman... te la senti di cominciare subito? Dobbiamo andare a caricare. Io ho bisogno di mettermi un po' a posto... ho un mal di testa che mi sta tagliando in due il cervello.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


La miniera nel cielo
2.

Sembrava che proprio sull'orlo del baratro fossi riuscito a sottrarmi alla caduta. Certo non mi sentivo più messo alle corde, ma ancora non avevo visto un quattrino. Mi sfogai col cibo appena potei, giungendo a un passo dallo stare male: troppo e tutto insieme. Il comandante dovette sospettare qualcosa riguardo la mia dieta prima di salire a bordo, ma si limitò a un paio di discrete osservazioni.
La nave aveva un nome piuttosto buffo, ma non poi tanto: Coyote. Non avrebbe dovuto sorprendersi un motorista che aveva già viaggiato su navi dai nomi esotici come Cuore di Lilly, Guanto di Sfida, Stella Libre e Raggio Baleno. Riuscii a sentirmi vecchio: il Coyote doveva essere stato revisionato di recente poiché trovai configurazioni energetiche piuttosto complesse e ben congegnate. Mi ci volle un po' per venirne a capo, ma alla fine ci riuscii e fummo in viaggio verso un'orbita veloce dopo aver dolcissimamente tolto gli ormeggi dal molo 55. L'orbita terminò con l'approdo al molo 106, sempre su Apollo, dove caricammo la merce. Il comandante mi sorprese lasciandomi solo sul ponte fino a oltre mezza orbita, pretendendo la sua postazione solo quando fummo nuovamente in vista di Apollo. Ma nemmeno allora interferì, limitandosi a supervisionare le mie manovre di approdo al molo commerciale per prelevare il nostro carico.
Con mio grande stupore scoprii che si trattava di un singolo container di classe K che io stesso collegai al sistema di alimentazione della stiva della nave. Come mi disse il comandante, era un container refrigerato per il trasporto di deperibili. Non sapeva esattamente di cosa si trattasse: entrambi fummo d'accordo che, trattandosi di un container piccolo, poteva trattarsi di medicinali. Ancor di più mi stupì la nostra destinazione: LV-41, meglio noto come Mastodonte. Un gigantesco asteroide incontrato anni fa da una nave militare in esplorazione ai confini più remoti dello spazio conosciuto: si diceva che avesse una massa pari a circa un quarto di quella della Luna, anche se dalle sue dimensioni non lo si sarebbe detto. Infatti era un asteroide metallico così ricco da giustificare una costosissima spedizione che aveva installato una struttura mineraria permanente e addirittura dei motori per alterare la rotta dell'asteroide. L'obiettivo della zaibatsu che aveva giocato molte carte buone e speso fiumi di denaro in quell'affare, era portare Mastodonte all'interno del sistema solare per abbassare al minimo i costi di estrazione e spolparlo tutto, fino all'ultimo chilo di metallo. Probabilmente il comandante aveva accettato un incarico così poco remunerativo per farsi notare dall'azienda che aveva avuto in appalto la fornitura di materiale: era un piccolo inizio. Ma la consegna di un solo piccolo container non avrebbe portato guadagni elevati. Di certo la mia paga minima era dovuta proprio al fatto che il Coyote viaggiava quasi vuoto.
Ci dirigemmo quindi fuori dall'eclittica per poter eseguire al più presto il balzo a velocità FTL. Comprensibilmente il comandante aveva voglia di arrivare prima possibile e tornare indietro ancora più in fretta. Così tanta fretta da programmare tre balzi FTL da venti ore ciascuno. Una bella prova per una nave appena revisionata.
- Cosa ne pensi? - mi mostrò il piano di volo, i diagrammi energetici, i tratti FTL con le entrate e le uscite, le simulazioni e i consumi previsti. Ero orgoglioso che lei chiedesse la mia opinione. Mi ci volle un po' per orientarmi in mezzo a quella mole di informazioni. Forse lei era abbastanza giovane da afferrare tutto al volo, ma io no.
- Tre salti da venti ore non è poco – le feci notare, dubbioso riguardo le gondole dei motori.
- Tutti i sistemi principali sono stati appena revisionati. Mi aspetto che tutto vada a meraviglia. Mi è costato una cifra...
Mi rispose con voce decisa, dura. La guardai, sprofondata nella poltrona del comandante: indossava una bella tuta azzurra con le maniche risvoltate, aperta davanti a mostrare una accollata maglia termica bianca dalle maniche lunghe. La tuta era stretta in vita da una cintura e non perdonava gli accumuli di cellulite sulle cosce e la pancia un po' sporgente. Ma con i capelli meglio acconciati e senza il mal di testa aveva un aspetto decisamente migliore. Era davvero giovane e suscitò in me un po' di invidia.
- Suggerisco di dividere il primo salto in due segmenti da dieci ore. Vedremo così come questa configurazione se la cava in uscita da FTL.
Piegò le labbra, pensierosa. Non era convinta del mio suggerimento, sebbene dettato dal buon senso. Nemmeno io ero convinto di far fare a un motore appena revisionato venti ore filate a fattore due.
- Dove interromperesti?
C'era una sola penna ottica e l'aveva lei tra le dita. Mi dovetti arrangiare con la tastiera e i puntatori a sfioramento, entrambi poco precisi. Le mostrai il punto: il computer calcolò nove ore e cinquantotto minuti netti di salto, evidenziando l'uscita con un cursore.
- Ciò sposta la prima finestra di salto a... cinque minuti circa da adesso.
Bene, mi dissi, contento di essere ancora capace di tracciare una rotta FTL. Ma lei non era ancora convinta.
- Simuliamo – disse alla fine. La simulazione andò a buon fine, la configurazione energetica sembrava reggere il doppio salto anche se fosse stato ravvicinato. Sarebbe stato sufficiente non eccedere con la velocità: il Coyote non avrebbe dovuto superare mai fattore due altrimenti avrebbe consumato troppo e sarebbe dovuto uscire dalla velocità FTL prima del tempo. Con tutti i rischi annessi e connessi.
Simulare ci fece perdere la prima finestra, ma la CPU di bordo ne calcolò un'altra a poco più di quindici minuti di distanza. Tra l'altro guadagnammo un po' di margine sul pozzo gravitazionale di Giove. Eravamo costretti a passare nelle sue vicinanze: il comandante non ne volle sapere di perdere otto ore per aggirarlo per bene. Un quarto d'ora lungo, che trascorse tutto in silenzio. Poi finalmente iniziai i preliminari al salto e attivai. La configurazione energetica era buona, tutti i sistemi ressero bene e quindi per le prossime dieci ore non avrei avuto nulla da fare. Impostai dei monitor piuttosto stretti: con la cabina dell'equipaggio a meno di dieci metri di distanza, avrei raggiunto la console in pochi secondi. In caso di problemi infatti il sistema avrebbe usato l'impianto di comunicazione che ho innestato nella mascella per avvisarmi. Anche il comandante ne aveva uno: avevo visto dei vecchi monitor disattivati impostati per chiamare una frequenza della stessa classe della mia.
- Col suo permesso, comandante... vorrei sdraiarmi un po'.
- Mi piacerebbe fare quattro chiacchiere con te, Kaufman. Quando vuoi.
La curiosità fu troppa e non potei resistere. Le dissi che ero disponibile anche subito e la seguii con gli occhi mentre si alzava dalla poltrona di comando. Fu allora che notai che oltre essere più alta di me, anche le sue spalle erano più larghe delle mie.
- Magari ci sediamo a tavola. Tu non hai fame?
Avevo cominciato a consumare pasti regolari solo da quando ero salito a bordo di quella corvetta. Avrei divorato una bistecca di gomma, ma mi limitai a rispondere che avrei mangiato volentieri qualcosa.
- Vieni, allora. Ti piace la verdura?
Quella ragazza così giovane sapeva come cogliermi alla sprovvista, nonostante i miei capelli bianchi. Verdura? Verdura fresca a bordo?
- Certo che mi piace. Ma solitamente non me la posso permettere.
- Nemmeno io – si girò e mi lanciò un fugace sorriso a labbra strette – ma devo... dovrei dimagrire un po' e non ho voglia di mangiare razioni per tutto il viaggio.
Entrammo nella mensa. Ci avevo già dato una buona occhiata: sufficientemente attrezzata per dare da mangiare in tempi accettabili a sei persone, era forse il locale più grande della nave dopo la stiva di carico. Aprì uno sportello rivelando un piccolo scomparto refrigerato, stracolmo di verdure confezionate. Verdure vere, non cibo industriale. Non le avevo notate in precedenza: mi ero accanito sulle razioni. Probabilmente era roba che arrivava dalle colture idroponiche di Mu4. C'erano anche pentole e stoviglie, ovviamente. Mise delle pallide patate, piccole e tonde, dentro una pentola bassa e aggiunse una busta di condimento pronto. Tagliate a pezzi delle carote, le mischiò insieme ai tuberi, per poi chiudere tutto nel forno a microonde. Soffrii nel vedere quell'invitante cibo fresco cucinato in quel modo barbaro e frettoloso, ma non riuscivo a credere che il solo vederlo preparare fosse sufficiente a farmi aumentare la salivazione fino a costringermi a deglutire più volte. Regolati l'orologio e la potenza del forno, si sedette davanti a me aggiustandosi i capelli con un gesto molto femminile. Avevo già trovato molti dei suoi capelli neri, ricci e lunghi in giro per l'astronave. Avrebbe finito per intasare tutti i filtri dell'aria.
- Allora, Kaufman... che te ne pare?
- Niente male. Piccina ma ben tenuta. Peccato viaggiare a stiva vuota.
- Lo so. Per questa volta va così – tagliò corto tirando i polsini della maglia termica fino al centro del palmo delle mani per poi lasciarli andare di scatto. Mi regalò un sorrisetto frettoloso, poco convinto. Mi parve distante, altrove.
- Possiamo darci del tu se vuoi.
Non ebbi nulla da obiettare. È giovane, imparerà a sue spese quando è necessario mantenere i sottoposti alla giusta distanza, pensai.
- Va bene, comandante – feci spallucce rispondendo, la cosa non mi interessava realmente.
- Non ti voglio offendere, sono solo curiosa... com'è che sei ancora così? Voglio dire... non sei effettivo da nessuna parte?
Porca puttana, me lo chiedevo anch'io. Forse perché aveva sì e no venticinque anni, forse perché priva di esperienza... ma ancora ignorava un paio di cosette del mondo che la circondava. Più si invecchia, più è difficile trovare lavoro. Se ti buttano fuori dalla tua azienda quando sei vecchio, sei bello che fottuto. Cercai le parole per spiegarmi senza cadere nel patetico e senza offenderla. Non è facile per un mediocre come me trovare un lavoro quando la disoccupazione sfiora l'otto per cento: nessuna azienda vuole assumere gente che ha troppa anzianità perché altrimenti la dovrebbe pagare troppo. Lei mi ascoltò con attenzione, il mento posato sul palmo di una mano e il gomito puntellato sul tavolo. Mi trovai presto invischiato in un discorso che mi piaceva poco: fortunatamente fui salvato dall'orologio del forno.
- Scusami – la guardai alzarsi e aprire il forno. Si scottò con la pentola calda, poi usò una forchetta per farla scivolare fuori fino a posarsi sul coperchio. Lo sportello non era certo progettato per reggere il peso della pentola colma di cibo, ma a quanto pare la cosa non le interessava. Cominciò a dividere in due il cibo fumante usando stoviglie di plastica. Il profumino di patate arrosto e di carote mi scatenò un terremoto nello stomaco. Evidentemente il digiuno aveva intaccato il mio fisico più di quello che pensavo. Mi mise il piatto davanti al naso e faticai ad attendere che lei cominciasse a mangiare. Cercai di non scottarmi, ma il cibo era davvero invitante. Lei schiacciò patate e carote con la forchetta fino a ridurre tutto a una pappa rosea. Ho sempre preferito mangiare i pezzi interi: per una volta che non era cibo reidratato, non vedo perché avrei dovuto mangiarlo ridotto allo stesso modo. Non era affatto male, ma forse era solo la fame a rendermelo così gradito.
- Sei sposato – lo disse a bruciapelo, senza preavviso, tra una forchettata e l'altra del purè che si era fatta nel piatto. Mi guardai l'anulare: aveva visto il mio cerchietto di metallo.
- Più o meno – cercai di glissare sul mio matrimonio durato appena il tempo di mettere al mondo un figlio sfortunato.
- Non stai con lei? - beata innocenza: la trovai nelle sue parole schiette, nella sua voce calma, nel suo morbido viso.
- È lei che non sta con me, piuttosto.
- Argomento doloroso, eh? Scusami – anche lei doveva aver letto qualcosa nelle mie parole, nel mio tono di voce e sul mio viso. Di nuovo mi strinsi nelle spalle facendo finta che non mi importasse poi molto.
Finimmo di mangiare pressoché insieme. Mi offrii di ripulire tutto e lei non si oppose. La sentii recarsi sul ponte di comando. Io finii di lavare piatti e pentole facendo sparire anche tutti gli avanzi. Mi aspettava la branda: c'erano quasi dieci ore da far passare e mi sentivo un po' stanco. Forse avrei potuto riposare un po'.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


La miniera nel cielo
3.

Azzeccare un rendez-vous con un asteroide motorizzato non è mai stata una cosa facile. Nonostante le sue dimensioni, era un oggetto piuttosto piccolo. Il fatto che potesse cambiare velocità non rendeva più facile trovarlo, ovviamente. L'unica carta da giocare era il radar del Coyote ed eventualmente il telescopio di bordo: Mastodonte era così ricco di metallo da luccicare come una pepita. Più o meno.
Ero abbastanza sorpreso dal Coyote e dal suo giovane comandante. La nave era ben configurata e aveva smentito i miei timori uno dopo l'altro. I motori non ebbero alcuna difficoltà a mantenere la velocità FTL per dieci ore filate e nemmeno per venti, il giorno seguente. Solo la manutenzione ordinaria si rendeva necessaria tra un salto e l'altro, e ciò servì a spezzare la noia di venti ore di salto senza avere molto da fare. I motori erano così ben calibrati che stare davanti ai pannelli di controllo era deliziosamente soporifero. In tre giorni di viaggio non si verificarono guasti o anomalie di nessun genere. Ero tanto tranquillo da cominciare a scrivere un mio diario di bordo.
L'altra piacevole sorpresa di quel viaggio era stata il comandante. Dedussi presto che fosse preoccupata da me, e che quella preoccupazione non era mai tramontata completamente. Cercai di farle capire che non aveva nulla da temere da me, e che è sempre una buona cosa non ridursi a cercare l'equipaggio all'ultimo minuto prima della partenza. Ma forse non riuscii a trovare il modo migliore per dirglielo. Non sono mai stato tanto bravo a parlare.
Mi resi presto conto di avere a che fare con una ragazza dal carattere piuttosto volubile: alternava momenti di moderata allegria con lunghi intervalli di malumore, durante i quali rimaneva spesso sdraiata nella sua maxi-cuccetta, cupa e ombrosa. Inconfondibile segno dei pensieri bui che le ingombrano la testa era quando, seduta al suo posto sul ponte di comando, cominciava a passare in rassegna i file di configurazione energetica della nave. A giudicare da quanto vedevo, tentava di trovare configurazioni alternative, senza però riuscirci mai. Diedi uno sguardo a quei file: non ce n'era nemmeno uno migliore di quello già in uso.
Quando era serena diventava una chiacchierona: mi raccontò di essere stata sulla Terra, descrivendomi nei particolari al-Qahira. Al momento non le credetti, ma ripensandoci più tardi, con calma, conclusi che doveva essere vero. Era stata davvero precisa: non sono mai stato sul pianeta ma ciò che mi raccontò durante quei tre giorni di viaggio era troppo ricco di dettagli per essere totalmente inventato.
Le piaceva rivolgermi domande. Io le rispondevo finché potevo: non sono molto loquace e non avevo avventure da raccontare, allora. Le accennavo dei miei viaggi e lei, molto cortesemente, mi ascoltava con attenzione. Era particolarmente ghiotta di dettagli tecnici e, dopo aver scoperto che abbiamo prestato servizio a bordo della stessa nave, la Tokarev TT, a lungo ci siamo scambiati impressioni, commenti tecnici e anche opinioni su alcuni degli ufficiali. Nonostante avessimo prestato servizio in momenti diversi, molte delle conoscenze a bordo le avevamo in comune.

Il conto alla rovescia per l'uscita dall'ultimo salto FTL mi colse alla sprovvista. Sapevo che saremmo usciti dal balzo in piena notte e avevo impostato la CPU di bordo per avvisarmi con dieci minuti di anticipo tramite il mio impianto di comunicazione personale. La vibrazione alla base della mascella mi fece sobbalzare ugualmente. Mi aspettavo di trovare il comandante già al suo posto e invece passando davanti alla sua cabina, la cui porta era spesso aperta, la sentii russare debolmente nel buio. Le avevo insegnato a nascondere la configurazione dei monitor in modo tale che non si vedesse la frequenza del suo impianto di comunicazione, simile al mio. Da quel momento era iniziata una piccola gara a chi impostava i monitor più rigorosamente. Contento di aver vinto io, mi sedetti al mio posto e cominciai dei controlli di routine.
Allo scadere dei dieci minuti, esattamente dopo venti ore e quaranta secondi, la CPU terminò la procedura di uscita e la nave scese a velocità STL con pochi scossoni. Ancora una volta lodai in silenzio il comandante, ammesso che fosse stata lei a configurare così bene il sistema di alimentazione dei motori della sua corvetta.
Grazie alla morbidezza della frenata, la manutenzione da eseguire era piuttosto poca. Lanciai i droidi di manutenzione, simpaticamente battezzati Ping e Pong, e li istruii per sistemare le gondole alettate per prime. Ero in attesa del rapporto dei droidi quando il comandante si fece viva. Era assonnata e si stava stropicciando gli occhi. I capelli ribelli erano raccolti in una coda mezza sciolta.
- Siamo appena usciti dall'ultimo tratto FTL, comandante. I droidi sono già al lavoro.
- Mastodonte? - si lasciò cadere sulla poltrona di comando, coprendosi la bocca con una mano per nascondere un profondo sbadiglio.
- Nemmeno l'ombra, per così dire – controllai i sensori per scrupolo, ma se ci fosse stato Mastodonte nelle vicinanze, sarebbero suonati degli allarmi.
- Non dovrebbe essere lontano – allungò le mani sui suoi strumenti: i sensori a lungo raggio tacevano. Nel frattempo io feci il punto: eravamo fuori rotta di circa centocinquantamila chilometri. Dopo quattro salti FTL non era affatto male.
Mi diede ordini molto precisi: voleva che la nave fosse in grado di passare di nuovo alla velocità FTL nel minor tempo possibile. Mi dedicai immediatamente a una lista di priorità e riprogrammai Ping e Pong per le nuove esigenze. Fortunatamente non si rese necessario equipaggiarli da capo: io e il comandante li avevamo già dotato dei pesanti manipolatori necessari. Ero rimasto sorpreso dalla forza che il comandante aveva dimostrato: a tendere il tessuto delle maniche non era solo ciccia molle. Quella ragazza sollevava i bracci manipolatori dei droidi, pesanti oltre trenta chili, con una facilità che mi aveva disturbato.
Il comandante programmò una rotta di ricerca che diede presto i suoi frutti: sul radar apparve una grossa eco. Non poteva essere che LV-41, Mastodonte. Ci attaccammo alla radio e presto Controllo di Mastodonte rispose, un po' troppo sgarbato per i miei gusti. Ci fu assegnato un vettore d'approccio tassativo con un margine di errore piuttosto ristretto. La sensazione che entrambi avemmo una volta conclusa la conversazione era che a Mastodonte non eravamo i benvenuti.
- Ma chi si credono di essere questi? Cinque metri di tolleranza per l'approdo? Credono di stare dentro un videogioco?
- Probabilmente la struttura del molo è rigida, oppure è chiusa o entrambe le cose – mi trovai a disagio nel cercare di giustificare quei maleducati, ma preferivo dar loro una possibilità. Il comandante era innervosita, invece. E non poco.
- È da anni che non vengono più realizzate strutture di attracco completamente rigide – ribatté lei seccata.
- Ne ho incontrate diverse in passato. Sono strutture vecchie, costruite con materiali e tecnologie sorpassati. Mastodonte è stato isolato a lungo.
Mi voltai a guardarla e le spiegai quello che sapevo. Come sempre, si trattava di una questione di soldi. Per risparmiare, strutture funzionanti, anche se vecchie, non venivano ammodernate. Pareva aver capito, ma rimase imbronciata. Quando si arrabbiava la linea della mascella, già piuttosto pronunciata e decisa, si notava ancora di più. Pensai che avrebbe fatto meglio a cambiare atteggiamento con quelli di Mastodonte: tecnologia e materiali non sono i soli a risentire di un isolamento prolungato. Oltretutto essendo quella una colonia penale, sapevano bene come trattare con tipi duri. Anche questa volta le mie parole non sembrarono impressionarla molto.
- E va bene – si alzò sbattendo i palmi delle mani sui braccioli della poltrona. Pareva intenzionata a lasciarmi ancora da solo sul ponte di comando.
- Quando Controllo si decide a mandarci in finale fammi un fischio... io vado a lavarmi la faccia e a bere qualcosa, altrimenti non mi sveglio. Anche tu, se vuoi fare colazione...
- No, grazie – avevo mangiato troppo negli ultimi giorni, complice la noia del viaggio. Magari più tardi avrei sgranocchiato qualche galletta, ma in quel momento proprio non avevo fame. Ed ero contento.
Mi mostrò il pollice puntato in alto e se ne andò a piedi scalzi lungo lo spinale. La sentii rovistare nella mensa e poi nel bagno.
Passò più di un'ora e nessuno si fece vivo: né il comandante, né Controllo di Mastodonte. Il Coyote continuava a percorrere il vettore di avvicinamento, mantenendosi entro il margine d'errore stabilito. Ci pensai io ad accertarmene: se Controllo aveva concesso cinque metri di tolleranza, doveva esserci un motivo valido. Poi finalmente la CPU di bordo segnalò l'apertura di un canale di comunicazione.
- Controllo LV-41 a Coyote, rispondete.
- Qui Coyote, avanti Controllo – mi sembrò una voce diversa, ma al momento non ci feci caso. Era la normalità non riuscire a parlare due volte con lo stesso operatore di Controllo, anche quando farebbe comodo. Evidentemente anche su Mastodonte era così, nonostante le dimensioni dello spazioporto fossero di gran lunga inferiori a quelle di Apollo.
- Avete il vostro vettore di avvicinamento finale: lo trasmettiamo in banda stretta.
Vidi affluire lentamente i dati: era poca roba e anche in banda stretta la trasmissione terminò in pochi secondi. Verificai l'integrità dei dati e il programma di navigazione confermò che il vettore era valido.
- Qui Coyote, vettore ricevuto e confermato. ETA in cinque minuti.
- Ricevuto. Controllo LV-41 chiude.
La cordialità non era proprio il loro forte. Lapidari come se avessero da gestire un gran traffico intorno al quel sasso scavato in cui sono installati. Ma pensai fosse dovuto al fatto che si trattava di militari: dopotutto Mastodonte era un carcere. Avevo il vettore ma il comandante non era sul ponte. In quei tre giorni di navigazione su quella corvetta avevo imparato che urlare da un capo all'altro dello spinale era la prassi e mi ero adeguato.
- Comandante! Siamo in finale!
Nessuna risposta. Attesi qualche secondo, poi sentii una porta scorrere sui suoi binari.
- È valido?
- Sì, ETA cinque minuti!
- Va bene, attiva!
- Sì, comandante!

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


La miniera nel cielo
4.

- Non ci posso credere.
Nemmeno io potevo. La guardavo aggiustarsi nervosamente i capelli mentre china sul monitor principale della mia console studiava le immagini di una delle telecamere di poppa. Il Coyote stava entrando in retromarcia in quella che sembrava una gola di metallo terminante con petali meccanici che si stanno lentamente schiudendo. Lei ricacciò un lungo ricciolo dietro l'orecchio per la millesima volta, stregata dalle immagini sullo schermo.
- Ma ci passiamo?
Gettai uno sguardo ai sensori. Appena appena. Pochi metri troppo a destra o a sinistra e avremmo fatto delle modifiche brusche e un po' troppo drastiche sia alle strutture portanti di quell'hangar che allo scafo. Avevo perfino dovuto richiamare i droidi da lavoro perché non avrebbero avuto spazio sufficiente per svolazzare intorno allo scafo e ai motori.
- Controllo LV-41 a Coyote. Solo motori di manovra.
Non avevano una IA in grado di telecomandarci fino all'approdo. Eravamo costretti a procedere manualmente. Il comandante aveva lasciato l'incarico a me: non aveva mai eseguito un approdo del genere e non si fidava a farlo in quel posto così stretto. Nemmeno io l'avevo mai fatto, ma c'era bisogno di qualcuno cui non tremassero le mani. Le mie erano delicatamente posate sui due grossi joystick con i quali potevo letteralmente guidare la nave. Mediante una pedaliera controllavo il rollio e con una corta leva irta di pulsanti e interruttori a quattro vie avevo controllato la propulsione STL fino al momento di spegnere tutto.
Pareggiare la velocità di Mastodonte era stato uno scherzo, così come impostare la rotta del Coyote parallela a quella dell'asteroide. Un po' meno banale era stato cominciare a frenare per entrare dritti nella bocca dell'hangar. Per motivi a noi sconosciuti non ci fecero attraccare al molo esterno ma al vecchio hangar, scavato dentro l'enorme asteroide. Quel sasso era così grosso e compatto da avere un pozzo gravitazionale: debole, ma dovevo tenerne conto manovrando.
Coyote, troppo veloce.
Ricevevo le trasmissioni di Controllo direttamente in cuffia, anche se l'impianto audio diffondeva chiaramente la voce dell'operatore in tutto il ponte di comando. Così vogliono le procedure di sicurezza. Accesi i motori di manovra di poppa e li feci spingere. L'indicatore di velocità, tarato secondo i parametri di Controllo, ritornò verde. Guardai gli altri strumenti sullo schermo MFD principale davanti a me: l'angolo di beccheggio era sbagliato. Cosa stava facendo il mio comandante?
Coyote, verificate l'angolo di beccheggio.
Non riuscii a stare zitto.
- Comandante, le spiace?
Come se l'avessi destata da una sorta di ipnosi, mi guardò un po' smarrita. Le indicai il pannello MFD di destra, quello con l'assetto della nave. L'indicatore dell'angolo di beccheggio brillava di un preoccupante giallo ambra. Mi chiese scusa e richiamò sul suo MFD la medesima mia configurazione, dandomi finalmente le indicazioni che mi servivano. Io riuscii a mettere dritta la nave con piccoli e delicati tocchi sui comandi. Mi resi conto che stavo stringendo i denti per la tensione: stavo facendo tutto da solo. Da quanto tempo?
Coyote, decelerare a massimo quindici metri al secondo.
Ci fu un'altra accensione dei piccoli motori di manovra. Le scorte di carbocomburente non mi lasciavano tranquillo: avevo dovuto correggere molto e i consumi erano stati elevati.
Sul pannello di sinistra avevo la telemetria di Controllo. Mi stavano trasmettendo dati che la CPU della nave interpretava con una struttura tridimensionale. Era lo schema dell'hangar e ci stavamo entrando proprio in quel momento.
Coyote, decelerare: massimo due metri al secondo. Preparatevi allo stop.
La telemetria parlava chiaro. Eravamo dentro la gola. Metallo e roccia erano intorno a noi, vicinissimi. Non era possibile rendersene conto: non c'erano oblò. Ma a poca distanza dal nostro scafo c'era la parete dell'hangar. Le astronavi non sono fatte per queste cose, pensai.
- Attenzione, Coyote... tre, due, uno, stop!
Maledetti! Avrebbero potuto partire da cinque! Ma ce la feci ugualmente: un'ultima accensione dei motori piccoli e la corvetta si fermò. Dopo pochi istanti sentimmo distintamente le ganasce afferrare lo scafo rendendolo solidale col resto dell'asteroide. Anche il mio stomaco se ne accorse. Eravamo dentro, ormeggiati. Teso, accaldato e soddisfatto, lasciai i joystick e mi abbandonai contro lo schienale.
- Bene, Coyote: ormeggio confermato. Rispettate la procedura di sbarco. Controllo chiude.
L'ultima trasmissione arrivò mentre mi stavo togliendo le cuffie. Mi alzai dalla poltrona del comandante: volevo bere qualcosa anche se non avevo sete. Così, per darmi un tono.
- Bel lavoro, Kaufman. Visto fare da te sembra un gioco.
- Non esattamente... - le sorrisi. Cinque metri di tolleranza: quella consapevolezza mi avrebbe tolto il sonno per qualche giorno. Il comandante non sembrava sapere esattamente quanto aveva rischiato. Entrai in mensa, cercando da bere.
- Vieni nella stiva appena puoi! - la sentii gridare dal fondo dello spinale. Stava già aprendo la pesante porta che mette in comunicazione col comparto di carico. La procedura prevedeva che l'hangar venisse pressurizzato e che il personale di Mastodonte scaricasse il container. Tutto ciò era piuttosto insolito: pressurizzare un ambiente grande come quell'hangar richiedeva una bella quantità di aria, anche se dentro c'era il Coyote. Tracannai un po' d'acqua e dovetti ricredermi: ne avevo davvero bisogno.
Raggiunsi il comandante davanti all'enorme portello della camera d'equilibrio della stiva, già completamente aperto: così grande da poter pressurizzare un container di tipo D, anche se credo che ci stia dentro appena appena. Attraverso le aperture si vedeva l'interno dell'hangar. Era buio, freddo e tutto mi parve spostato verso il basso. Era chiaramente un hangar per shuttle di piccole dimensioni. Lo confermavano le pesanti gru e le strutture per il carico e lo scarico dei container che potevo vedere rannicchiate in fondo all'hangar stesso. Le aveva notate anche il comandante: erano state tolte di mezzo per permetterci di entrare col Coyote. Un'altra stranezza che si aggiungeva alla lista: fortunatamente il container da scaricare era piccolo. Le gru però ci avrebbero fatto comodo.
La misi al corrente di tutti i miei dubbi, delle mie riflessioni: l'approdo volutamente troppo complicato, l'anomala procedura di scarico del container. Mi guardò perplessa, ma ebbi la sensazione che non fosse veramente interessata a quello che stavo dicendo.
- Vero... perché scaricare per forza in un ambiente pressurizzato? - disse infine, gettando uno sguardo alle gru lontane e appena visibili tra le ombre dell'hangar.
- Non certo per usare le gru.
Mi strinsi le braccia al petto: la temperatura nella stiva di carico era più bassa rispetto al resto della nave, quella di Mastodonte lo era ancora di più e cominciava a sentirsi. Controvoglia seguii il comandante mentre si avvicinava al portello esterno della stiva di carico della nave. Anche se aperto era impressionante: era la prima difesa contro il mortale vuoto dello spazio.
A catturare subito la nostra attenzione furono i due uomini sul pavimento dell'hangar, abbastanza lontani da non poter riconoscere nemmeno le divise che indossavano. Erano a diversi metri al di sotto del livello del pavimento della nostra stiva. Infatti giunse subito un veicolo di servizio che accostò un lungo piano inclinato regolandolo per raccordare i due pavimenti, creando una rampa. I due non aspettarono nemmeno che quella terminasse di essere regolata: tra il gemere dei meccanismi idraulici e il fischiare di motori elettrici, li vedemmo emergere dalla sommità della rampa qualche secondo prima che questa giungesse a destinazione. Con un tempismo perfetto colmarono con un piccolo salto la distanza e, non invitati, salirono a bordo. Il comandante mise le mani sui fianchi, intenzionata forse a protestare. I due che ci venivano incontro erano militari: rasati a zero, solo quello con i gradi ostentava un paio di folti baffi spioventi. Aveva in mano un datapad dove presumibilmente c'erano i documenti del container da scaricare. L'altro, una guardia, ostentava un'arma: un bastone elettrico. Lo portava appeso alla cintura come se fosse stato un manganello qualsiasi.
- Benvenuti a bordo!
Il tono del comandante era polemico, duro. Aveva ragione: non si sale così a bordo delle navi.
- Salve. Diamo uno sguardo al container, lo scarichiamo e poi potrete ripartire. Non abbiamo strutture di accoglienza, ma se avete qualche necessità documentabile cercheremo di venirvi incontro.
L'ufficiale baffuto non ci degnò di un secondo sguardo: come se fosse a casa sua si diresse subito verso il container, ancorato e alimentato solo soletto dentro la stiva. Lesse sul suo datapad la procedura di apertura e il portello d'ispezione si fece da parte senza offrire resistenza. All'interno vidi scatole che avevano tutto l'aspetto di essere medicinali. L'ufficiale ne prese qualcuna e fece dei confronti con la lista che appariva sul datapad. Non sembrò né soddisfatto né contrariato. Chiuse lo sportello d'ispezione e si voltò verso di noi.
- La merce è conforme. Ci pensiamo noi a scaricare. Da quando stacchiamo la rampa mobile avete sessanta minuti di tempo per avanzare una richiesta giustificata e documentabile, altrimenti l'hangar si apre.
- Possiamo scendere a fare quattro passi? - il comandante mi sorprese con la sua richiesta, ma riuscii a rimanere impassibile. Quattro passi mi avrebbero fatto bene, nonostante il freddo. Anche i militari sembrarono sorpresi.
- Va bene, ma non allontanatevi dalla rampa mobile.
Seguimmo le schiene dei militari nella loro divisa kaki e scendemmo lungo la rampa metallica. Era antiscivolo ed era attraversata da tracce parallele a elevata aderenza per favorire il transito di veicoli a ruote. Come quello che stava salendo in quel momento: una gru verde con ganasce orizzontali, atta a sollevare e trasportare container come quello che avevamo nella stiva. Era condotta da un detenuto: rasato a zero ma con una tuta a un pezzo grigia, con evidenti profili bianchi e il numero stampato sul petto e sulla schiena. L'individuo salendo sulla rampa col mostruoso veicolo si voltò e ci sorrise. Mi sembrò più un ghigno che un sorriso.
Ci fermammo ai piedi della rampa, guardando i due militari che si allontanavano su un piccolo e silenzioso veicolo di servizio. Alla luce dei fari del veicolo vidi che sul fondo dell'hangar si aprivano dei corridoi carrabili, uno dei quali piuttosto grande.
- Non ho mai visto il Coyote da fuori, così... senza la tuta.
Il comandante stava osservando a naso in su le gigantesche strutture dello scafo esterno. Si vedeva qualcosa dei motori di manovra e qualche dettaglio delle gondole. L'hangar era buio, nonostante la corvetta ormeggiata avesse tutti i fari esterni accesi. La luce giungeva unicamente da qualche grappolo di lampade accese qua e là, ma solo in prossimità dell'hangar reso accessibile dalla rampa mobile. Sentii un motore sotto sforzo: la gru doveva aver agganciato il container. Infatti dopo poco la vidi scendere in retromarcia, col carico appeso alle catene che scendevano tese dal doppio gancio di sollevamento e le ganasce che impedivano al container di dondolare.
- Dai, torniamo dentro. Prima ripartiamo, prima arriviamo, prima ci pagano.
Mi sembrò un ottimo ragionamento. L'hangar era davvero freddo e l'aria puzzava di lubrificante, di polvere, di filtri vecchi. Risalimmo fianco a fianco la rampa, ma quando fummo quasi giunti in cima un rumore improvviso ci fece voltare. Il container era stato appoggiato bruscamente a terra e c'era un detenuto che armeggiava con lo sportello. Si muoveva freneticamente. C'era un altro detenuto con lui che gli dava man forte. Da dove è spuntato, mi chiesi, non sospettando altro.
- Che cazzo stanno facendo quei due?
- Stanno aprendo il container, credo – dissi una banalità, lo so. Si vedeva chiaramente che stavano aprendo il container. Appena finita la frase lo sportello si scostò. Il più vicino dei due infilò un braccio attraverso l'apertura e lo ritrasse armato di pistola. La sorpresa fu tale che non riuscii a muovere un muscolo. Sorpresa, e paura: anche il secondo si fu armato. Stavano correndo sulla rampa, verso di noi.
- Dentro!
Il comandante si riprese per prima. Ci tuffammo dentro l'hangar, correndo verso il pannello di controllo della camera di equilibrio. Il portello esterno non si chiuse, lo schermo segnalava un ostacolo. La maledetta rampa!
- Cazzo! - inveì lei dando una botta al pannello dei comandi. Il portello interno iniziò a chiudersi.
- Sì! - esclamai, ma non c'era da stare allegri. Avevamo perso tempo prezioso: i due erano già dentro la camera di equilibrio e riuscirono comodamente a passare sotto il portello che si stava chiudendo lentamente. Ci raggiunsero mentre cercavamo di salire la rampa che portava allo spinale e ci puntarono contro le armi, ghignando. Rasati a zero, vestiti di grigio a bande bianche, i numeri tre-sei-sette e sette-due-nove stampati sul petto ben in grande. La tuta era un po' sporca e piuttosto consumata per entrambi. Ma la mia attenzione era tutta per le pistole che ci spianavano contro.
- Apri! - disse Tre-sei-sette al comandante. Malvolentieri quella obbedì e il portello interno della camera d'equilibrio cominciò a sollevarsi.
- Basto io qui!
L'autorità di Tre-sei-sette non si discuteva. Il suo compare corse giù lungo la rampa mobile, tornando presumibilmente al container.
- Quanti uomini possono stare su questa nave? - il galeotto si rivolse al comandante con fare brusco, deciso.
- Ho cinque cuccette – rispose lei. Non sembrava spaventata, ma solo incazzata a morte. Beata lei: io stavo morendo di paura.
- Vuol dire che ci adegueremo – Tre-sei-sette ghignò e ci fece un cenno con la pistola, indicando giù dalla rampa.
- Giù! - obbedii senza discutere, cercando di stare vicino al comandante. Mi tremavano le gambe. Non mi sono mai piaciute le armi: mi terrorizzano. Vederne una nelle mani sbagliate era più di quanto potevo sopportare.
Bel carico avevamo portato su Mastodonte: i “deperibili” in realtà erano armi. Il container era pieno di armi! Lo vidi mentre ci passavo vicino. Il nostro carceriere ci costrinse a sederci per terra poco lontano, con le mani sopra la testa. Sentimmo all'improvviso un paio di detonazioni, lontane. Arrivarono dal fondo dell'hangar. Si sentirono poi grida e un trapestio di molti piedi in corsa. Erano altri detenuti: vennero accolti festosamente. Iniziò la distribuzione delle armi. Tre-sei-sette diede loro anche delle istruzioni che non riuscii a sentire. O forse sarebbe meglio dire che gliele ricordò: ebbi la netta sensazione che ognuno sapesse già cosa fare. Tutti rasati, vestiti di grigio, indistinguibili se non fosse per il numero stampato. Mi sembrarono quasi dei soldati. Mi parve un'azione bellica, preparata, pianificata, coordinata. Purtroppo stavo dalla parte sbagliata del fronte.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


La miniera nel cielo
5.

Stavo ai comandi della corvetta. Il concetto era che io l'avevo portata lì dentro e io avrei dovuto tirarla fuori. Facile a dirsi. Non c'era bisogno che mi tenessero una pistola puntata addosso, l'avrei fatto lo stesso. Fortunatamente uscire sarebbe stato relativamente più facile che entrare: qualsiasi momento avesse Mastodonte, ora ce l'aveva anche il Coyote. I petali meccanici che chiudevano l'hangar avevano ormai terminato la separazione e nulla più ostruiva la via verso lo spazio aperto. Io controllavo la situazione grazie ai sensori e alle telecamere esterne della nave mentre il comandante fingeva di trafficare intorno ai motori. Credo temesse che gli evasi si accorgessero che la sua presenza sul ponte era inutile in quel momento. Era presto per produrre il plasma necessario alla propulsione principale, infatti. Io avrei volentieri scambiato un po' di preziosa protomateria da plasma con del banale carbocomburente per i motori di manovra: ce n'erano due praticamente a secco e la cosa mi innervosiva quasi quanto tutte quelle armi addosso agli evasi che affollavano la nave.
- Kipst e Jorge dicono che l'hangar è aperto. Vogliono sapere come faranno a salire a bordo ora che tutto è depressurizzato.
A parlare era stato uno degli evasi affacciatosi sulla soglia del ponte di comando affollato. Era quello che aveva guidato la gru e scaricato il container con la sorpresa. Sventolava una radio palmare a onde ultracorte. Sul ponte c'eravamo io e il comandante, seduti sulle uniche due poltrone, e in piedi dietro le nostre schiene c'era Tre-sei-sette, che veniva chiamato “boss” dagli altri evasi e più raramente “signor Calvin”.
- Sai, boss... non ho capito perché hai mandato quei due idioti alla sala di Controllo. C'era il rischio che premessero il pulsante sbagliato.
Alzai lo sguardo su Calvin appena in tempo per vederlo voltarsi verso il suo “collega” che gli aveva posto la domanda. Aveva un sorriso agghiacciante sul volto largo: la mascella sporgente sembrava enorme.
- Proprio per quello ho mandato loro due... perché sono degli idioti. Non sentiremo la loro mancanza.
Mi spaventai: si era voltato verso di me puntandomi addosso il suo sguardo insopportabile. Mi sventolò la pistola davanti alla faccia, usandola per indicare gli strumenti davanti a me.
- Liberati degli ormeggi!
Non c'era bisogno di minacciarmi né di essere così bruschi. Malvolentieri lanciai un segnale di emergenza a Controllo: un codice standard che provocò automaticamente il rilascio di tutti gli ormeggi che trattenevano lo scafo alle strutture dell'hangar di Mastodonte. Un piccolo trucchetto da astronauta incallito. Nessun approdo desidera avere ormeggiata una nave che ha appena comunicato di stare per espellere in emergenza del plasma direttamente dai convertitori massa-energia.
Con la massima delicatezza e prudenza possibili azionai i motori di manovra iniziando così un viaggio di cui non conoscevo la destinazione.
- Quanto tempo ci vuole prima di saltare nell'iperspazio? - chiese Calvin grattandosi il mento con aria molto seria. In condizioni normali mi sarei messo a ridere. Non esiste l'iperspazio se non negli olofilm d'avventure. O si viaggia a una velocità inferiore a quella della luce, o superiore. Ma c'era un sacco di gente che confondeva ancora la fantasia con la realtà. Per un addetto ai lavori come me era esilarante sentir parlare di salti nell'iperspazio, ma stavolta non c'era proprio niente da ridere. Avevo ancora acute fitte di dolore alle budella, dovute al solo pensiero delle armi che erano in mano a quella gente che occupava ogni angolo del Coyote.
- Dobbiamo prima allontanarci da Mastodonte. E poi dobbiamo calcolare la rotta per la destinazione. Il computer ci dirà quali sono le finestre di passaggio a FTL che possiamo usare.
Guardai il comandante e la invidiai. Il viso duro, lo sguardo cupo, quella massa di capelli neri, ricci e selvaggi che le conferivano un che di feroce. Aveva tenuto ferma la voce e sembrava sicura di sé, anche se aveva parlato un po' troppo in fretta tradendo così la tensione che la attanagliava.
Calvin si chinò sul comandante e le appoggiò la canna della pistola sulla guancia.
- Quanto tempo ci vuole? - scandì. Non invidiavo più il mio comandante. Stavo per svenire al posto suo.
- Almeno trenta minuti.
Feci due calcoli rapidamente, a memoria. Il pozzo gravitazionale di Mastodonte era piccolo, si poteva attivare già dopo una decina di minuti a patto di non allontanarsi a velocità troppo bassa. Venti minuti erano più che sufficienti per calcolare una rotta FTL anche complessa, simulazione compresa. Il comandante voleva prendere tempo: pensai che avesse in mente qualcosa e ciò mi fece stare peggio.
- Avanti, usciamo da qui.
Non me lo feci dire due volte: terrorizzato al pensiero che mi puntasse la pistola contro la faccia come aveva fatto col comandante, azionai i motori di manovra di poppa e portai docilmente il Coyote fuori dall'hangar. Durante la manovra si udirono dei rumori sinistri: la mancanza dei due motori rimasti a secco aveva impresso alla nave una rotazione indesiderata. Cercai di correggere ma quando vidi le letture dei sensori esterni lasciai perdere. Meglio grattare un po' lo scafo che spezzare in due la nave. L'unica cosa buona fu il silenzio che calò: tutte le voci si spensero e si poteva sentire il rumore dell'impianto di ventilazione.
Non appena fummo fuori non aspettai un invito per attivare i motori principali: appena vidi il grafico di produzione del plasma indicare un flusso in aumento, aprii manualmente la manetta dei motori STL e impostai una banale rotta di allontanamento da Mastodonte.
- Fatto – dichiarai quasi con soddisfazione, appoggiando la schiena alla poltrona. Sbagliavo a rilassarmi.
- Dov'è l'artiglieria? - Calvin gettò la mano libera sugli schermi MFD del comandante, che reagì allontanandola bruscamente.
- Hey, che cazzo credi di fare? Che artiglieria?
Non penso che dimenticherò facilmente la luce omicida che si accese negli occhi di quell'uomo. A denti stretti sibilò una bestemmia e afferrò il viso del comandante.
- Senti, cicciona... non dirmi cosa devo o non devo fare, se non vuoi che ti spacchi la faccia a schiaffi... mi sono spiegato?
Per sottolineare ulteriormente il concetto Calvin spinse con la mano fino a far sbattere la nuca del comandante contro il poggiatesta. Quando lasciò la presa il morbido viso della ragazza era visibilmente arrossato là dove erano affondate le dita del galeotto. Io avevo il cuore che cercava di uscirmi dalla bocca tra vampate di vergogna per la mia incapacità di muovere un solo muscolo. Calvin era incastrato tra le due poltrone di comando, comodamente a portata del mio braccio destro. Così vicino da sentire il suo odore. Avrei potuto colpirlo, cercare di disarmarlo... ma quelle sono cose che succedono solo negli olofilm. Solo gli eroi sono capaci di tanto. Io non sono mai stato un eroe.
- Avanti! Tira fuori l'artiglieria antimeteorite! Non sono un deficiente, lo so che non c'è un solo cargo che non abbia modificato l'impianto antimeteorite per essere usato come arma!
Ancora una volta l'evaso sottolineò il concetto con la violenza, colpendo al viso il comandante col rovescio della mano disarmata. Non un colpo fortissimo, ma sufficiente a umiliare. Il mio comandante si chinò e frugò con la penna ottica il menù dei sistemi di bordo finché non apparve quello dell'antimeteorite. Il criminale aveva ragione: chiunque ci penserebbe due volte a comportarsi scorrettamente al pensiero di vedersi lo scafo bucato da un momento all'altro. Le modifiche illegali e i software di puntamento pirata per i sistemi antimeteorite erano da sempre un fiorente mercato clandestino.
- Mettilo in manuale che mi devo sfogare! - sbraitò Calvin, costringendo poi la ragazza ad abbandonare il sedile. Con orrore vidi avviarsi il programma illegale che trasformava le batterie di laser semplici da sistema di difesa contro gli oggetti in rotta di collisione ad arma offensiva. Immediatamente un sonoro segnale di allarme cominciò a suonare in tutta la corvetta.
- Che cazzo hai combinato, puttana? - sbraitò inferocito l'evaso rivolto al comandante Miki. Disattivare l'antimeteorite a meno di cinquemila chilometri da un asteroide miniera non è un'idea geniale. Niente affatto. Ma Calvin non volle sentire ragioni.
- Fammi un altro scherzo così e ti ammazzo! Hai capito, troia?
Rosso in viso per l'ira, il cranio rasato lucido di sudore, il galeotto spintonò via il comandante Miki; poi si posò la pistola in grembo e cominciò a trafficare con il programma. Non era nulla di sofisticato e non poteva certo fare miracoli, ma bisognava saperlo usare. E lui non era in grado di farlo. Annaspò un poco, poi si rivolse a me chiedendomi istruzioni. Io cercai di dargliene, ma quell'uomo era preda di chissà che frenesia e non ascoltò quasi nulla di quello che riuscii a dirgli balbettando.
- Fai tu! - mi ingiunse alzandosi dalla poltrona. Avrebbe potuto semplicemente trasferire la sua configurazione alla mia console, ma evidentemente non aveva la più pallida idea di come funzionassero le cose sul ponte di comando di una nave, anche se semplice come il Coyote. Così potei incassare il torvo sguardo di rimprovero e paura del comandante che era finita tra gli altri criminali che si accalcavano sulla soglia del ponte di comando. Potei accorgermi che si divincolava e respingeva le loro invadenti mani, infastidita e spaventata. Abbassai lo sguardo, umiliato. Purtroppo non c'era posto dove scappare, né per lei né per me.
In breve spensi il segnale d'allarme e inquadrai l'asteroide coi sensori di poppa. Fui colto da un'improvvisa ispirazione: attivai anche una telecamera esterna che offrì una buona immagine di Mastodonte: si potevano addirittura vedere alcune delle strutture esterne. Era proprio quello che volevo.
- Falli saltare in aria, sbrigati! Prima che trovino il modo di trasmettere qualsiasi cosa!
Quello che il galeotto mi stava chiedendo mi fece gelare il sangue e fischiare le orecchie. Non avevo la più pallida idea di quanti fossero a bordo dell'asteroide, ma sarebbe stata una strage in ogni caso. Prigionieri, guardie, tecnici, personale di servizio... sarebbero morti tutti? Probabile. Mi tornò a galla la mia idea: non sapevo come fosse fatto Mastodonte e quindi non sapevo esattamente cosa avrei colpito. Con i sensori cercai alla svelta un bersaglio che desse l'idea di non essere vitale e feci fuoco con mano tremante, sperando di aver scelto bene.
- Beh? Ti decidi? Abbatti quelle strutture!
- Sto sparando – bisbigliai mentre attivavo i laser per la seconda volta. Sperai che Calvin vedesse lampeggiare sullo schermo la scritta “fuoco”, visto che evidentemente non riconosceva gli indicatori di stato dei condensatori dei laser che si svuotavano. Ovviamente né i sensori né le telecamere rilevavano nulla: il bersaglio era troppo lontano e la risoluzione di quegli strumenti troppo scarsa. Inoltre il raggio dei laser era invisibile. Il computer di tiro del Coyote non era certo di grado militare anche se veloce e preciso. Abbattere granelli di polvere spaziale e piccoli meteoriti non è come attaccare e distruggere un'installazione mineraria, almeno in termini energetici. Anche in questo caso la realtà non è un olofilm: Calvin si aspettava un'esplosione con una fiammata che non ci sarebbe mai stata, forse nemmeno se avessi colpito una cisterna di carbocomburente.
Fui colto da un'altra idea. Cercai disperatamente un altro bersaglio e trovai quelli che sembravano proprio dei depositi di carburante affioranti dalla roccia. Esitai al pensiero che quelle fossero strutture abitate e feci fuoco tremando. Quando la telecamera mostrò percettibilmente dei detriti andare alla deriva seppi che avevo provocato una decompressione. Non mi vergogno a dirlo: per il dolore e la paura mi si appannò la vista e cominciai a piangere.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


La miniera nel cielo
6.

Furono tre giorni d'inferno. I galeotti evasi si affollavano nell'unico spinale della nave e avevano invaso ogni locale poiché nella stiva di carico non si riusciva a mantenere una temperatura decente nemmeno col riscaldamento al massimo. Il comandante mi confessò di avere dei dubbi sull'ultima riparazione fatta proprio alla stiva, rimandando a un momento più felice la spiegazione completa.
Non so come fu possibile attraversare indenni quei tre giorni terribili. I carcerati in fuga litigavano tra loro in continuazione facendomi stare male dalla paura: molti erano armati e io ero terrorizzato al pensiero che qualcuno decidesse di sparare. Occasionalmente mi tormentavano, mi picchiavano e molestavano il comandante che però si sapeva difendere piuttosto bene. Durante il primo tratto a velocità FTL cercarono subito di abusare di lei e quella rispose parlando loro nell'unica lingua che erano in grado di capire. Con mia grande sorpresa la ragazza si esibì in una poco elegante ma piuttosto efficace tecnica di difesa e l'aggressore si dovette ritirare con una spalla slogata. Io fui costretto a correre a vomitare nel bagno alla vista dell'osso fuori posto e penso non dimenticherò facilmente le urla di dolore dell'uomo mentre gli rimettevano in sesto l'articolazione semplicemente tirandogli il braccio. Da quel momento io e il comandante non ci separammo più, dormendo a turni senza abbandonare il ponte di comando se non per usare il bagno. Solo un paio di volte riuscii ad afferrare una razione per placare i morsi della fame, sfruttando il sonno degli evasi.
Quando si viaggia nello spazio si immagina di viaggiare da soli. Incontrare un'altra nave è statisticamente improbabile. Le navi però fanno tutte più o meno le stesse rotte, quindi in fin dei conti non è insolito incontrare qualcuno. Se capita viaggiando a velocità STL, può succedere che si scambino quattro chiacchiere tramite radio: è quasi una tradizione, una forma di educazione. Come dire “buongiorno” quando si entra nella sala d'attesa del medico privato: sono tutti perfetti sconosciuti, ma si saluta lo stesso.
Rimasi impressionato dal vuoto: per tre giorni non era apparso nulla sul radar né sui sensori. Sapevo che era del tutto normale, ma ero angosciato lo stesso. Sfruttando l'ignoranza di Calvin e dei suoi complici accendevo il radar e lo lasciavo attivo il più a lungo possibile. Come all'andata il Coyote fece tre tratti a velocità FTL, ma di durata inferiore. Ciò significava arrivare prima, spremere di più i motori e fare soste più lunghe tra un tratto e l'altro, poiché i motori e le gondole di emissione necessitavano di maggiore manutenzione. La speranza era che qualcuno notasse l'emissione energetica del radar, facilmente individuabile, e passasse a salutare. Nessuno di noi due aveva idea di cosa fare dopo, ma qualsiasi cosa sarebbe stata meglio di rimanere soli, nel vuoto.
Ad aggiungere tormenti ai tormenti ci pensò Calvin. Da un lato si mostrò un po' più rispettoso dal momento in cui il comandante Miki ebbe slogata la spalla a uno dei suoi complici. Mi sembra giusto dire che impedì agli altri di mettere in pratica una ritorsione qualsiasi, anche perché io e il comandante eravamo gli unici a saper usare tutti i sistemi di bordo. Dall'altro non volle rivelare la destinazione finale, limitandosi a dire che saremmo dovuti entrare nella parte abitata del sistema solare, nei pressi della Luna. Ciò ci lasciava nell'angoscia più assoluta: non era possibile calcolare con esattezza l'ultimo tratto a velocità FTL e di conseguenza ciò rendeva indeterminato tutto il tragitto. Era probabile che avremmo dovuto concludere il viaggio con un lungo tratto a velocità STL, stando in balia di quei criminali senza niente da fare. E senza niente a renderci indispensabili.
Quello che Calvin non sapeva e che noi astronauti ci eravamo del tutto dimenticati era che il Coyote aveva un piano di volo prestabilito. Poco dopo l'ultimo tratto a velocità FTL terminato piuttosto vicino alla stazione di frontiera Finis Terrae, punto di passaggio quasi obbligato per le navi dirette fuori dal sistema solare, Controllo ci contattò per chiederci come mai non stavamo rispettando il piano di volo. Il capo degli evasi si infuriò, ma dovette arrendersi di fronte ai fatti. Avremmo dovuto comunicare a Cielo Alto, il curioso nome con cui Controllo di Finis Terrae definiva se stesso, la variazione di rotta. Si trattava poco più di una formalità che non necessitava nemmeno un contatto diretto via radio. Ma Calvin avrebbe dovuto svelare la sua vera destinazione.
- Prometeo – disse malvolentieri. La cosa lo innervosiva, mi parve evidente dal guizzare dei muscoli della mascella.
Rimasi sorpreso. Avrei scommesso tutto su La Tana, dove un criminale in più o in meno non avrebbe fatto nessuna differenza. Prometeo, pur essendo divenuta una installazione civile a tutti gli effetti da poche decine di anni, offriva ai suoi abitanti un tasso di criminalità poco più che fisiologico. La polizia di Prometeo era nota per i metodi spicci, per il buon numero di agenti e per essere difficilmente corruttibile. Forse Calvin aveva qualche genere di contatto su quella stazione che poteva sfruttare per entrare clandestinamente. Oppure contava sul fatto che la stazione non era ancora completamente abitabile e in via di espansione. Si vociferava infatti della costruzione di un terzo anello e di un certo livello di clandestinità nelle zone con cantieri aperti.
Cielo Alto non ebbe nulla da ridire, com'era prevedibile. Si limitò a registrare la nuova destinazione e a suggerire un sentiero di attraversamento nello spazio da loro controllato. Lo seguimmo anche se non c'erano navi in vista sugli strumenti e quindi apparentemente non v'era alcun rischio di collisione. Nonostante la stanchezza per quei tre giorni passati dormendo sul pavimento e sulle poltrone del ponte di comando, la meccanica del balletto gravitazionale che regolava i movimenti di pianeti, astronavi e stazioni orbitanti mi apparve subito chiara e riuscii a tracciare una rotta per Prometeo veloce e precisa usando una sola orbita terrestre per l'avvicinamento.
- Bravo – mi disse il capitano quando vide la rotta già impostata. Era un momento di calma relativa: sentivo Calvin discutere con qualcuno nello spinale affollato e ridotto a un lurido bivacco puzzolente di sudore. I galeotti infatti nella loro stupidità avevano sprecato l'acqua per uso sanitario esaurendo completamente la scorta in brevissimo tempo. Evidentemente su Mastodonte l'acqua per lavarsi era un lusso non concesso ai reclusi.
Guardai la ragazza mentre controllava i parametri di accensione dei motori per calcolare i consumi. Aveva il viso pallido e stanco, gli occhi cerchiati e un po' infossati. Teneva i capelli ricci e ribelli legati in una coda raffazzonata e il collo della tuta azzurra aperto di pochi centimetri. Nessuno di noi due si lavava da tre giorni e mi resi conto di non avere il diritto nemmeno di pensare che puzzasse fortemente; stare spalla a spalla per discutere i tempi e la modalità di accensione dei motori non era piacevole per nessuno dei due.
Infine, calcolata la finestra di accensione dei motori in modo che fosse la più vicina possibile, risultò che in meno di due ore saremmo giunti nello spazio controllato da Prometeo. Attendemmo con ansia il momento di attivare i motori, che anche questa volta fecero il loro lavoro in modo esemplare. Esaurita l'accelerazione, non ci rimase altro da fare che controllare che tutto filasse liscio.
Mi abbandonai contro lo schienale della poltrona del comandante. Ormai non mi sentivo nemmeno più a disagio nel sedermi al posto della mia datrice di lavoro. Chiusi gli occhi, preda della stanchezza, ma non avrei dormito. La tensione, la paura e il rimorso mi avevano negato sonni tranquilli e allora temevo che non sarei stato più capace di riposare serenamente in vita mia. Non appena riuscivo a rilassarmi un poco, i miei pensieri mi buttavano addosso il peso di aver aperto il fuoco contro un'installazione governativa, contro delle persone. Sarei stato accusato, processato e incarcerato. Rabbrividii al pensiero di essere recluso insieme a feccia dello stesso genere di quella che aveva riempito il Coyote e che mi aveva reso amara l'esistenza in un modo che mai avrei potuto immaginare. Mi costrinsi a pensare ad altro e, come spesso mi capita, finii per dire una banalità.
- Cosa faranno di noi? - sussurrai dopo aver verificato che nessuno oltre il comandante Miki fosse in grado di sentire. Ero stato ispirato dal conto alla rovescia che sullo schermo davanti a me scandiva i minuti rimanenti alla manovra che ci avrebbe portato in orbita sincrona con la stazione Prometeo. L'ultimo compito che ci attendeva, terminato il quale gli evasi sarebbero stati liberi di agire secondo le loro vere intenzioni.
- Non lo so – sussurrò di rimando il comandante senza nemmeno guardarmi. Disse quanto avevo appena pensato, stando scomposta sulla poltrona dello specialista di bordo, a destra di quella occupata da me. Teneva il mento appoggiato sul petto e le mani con le dita intrecciate posavano sul ventre tondo e pieno. Mi sembrò abbattuta, sconfitta. Forse anche lei stava rimuginando pensieri lugubri come i miei. In preda a un improvviso rigurgito di risentimento e desiderio di vendetta per tutto quello che avevo dovuto subire, esposi un'idea sulla quale avevo riflettuto pochissimo e che avevo accantonato subito dopo averla formulata la prima volta. Era così viscerale che la modificai man mano che la bisbigliavo al comandante, controllando in continuazione le sue reazioni e che nessuno degli ospiti indesiderati entrasse nel piccolo ponte di comando.
- Se facessimo qualcosa di strampalato, di pericoloso... intendo dire prima di ormeggiarci a Prometeo... potrebbero abbordarci i militari e a quel punto, forse...
Stavolta il comandante girò la testa verso di me.
- Siamo già ostaggi adesso. Ci userebbero come scudi per difendersi, minacciando di ucciderci in caso di abbordaggio. È abbastanza ovvio.
- Se intervenissero le forze speciali dell'Esercito, loro non si fanno intimorire – suggerii, ritenendo abbastanza probabile l'invio di militari addestrati a risolvere situazioni di crisi come la nostra.
- Bravo, l'hai detto. Non si fanno intimorire dalla presenza di ostaggi.
Complice forse la stanchezza e lo stress, ci misi un po' a capire. Mi vergognai: il capitano Miki, che mi aveva confessato di avere da pochissimo compiuto ventisette anni, mi aveva dato una dimostrazione di saggezza che avrebbe dovuto giungere da me, quasi cinquantenne. Amareggiato, mi riproposi di tenere la bocca chiusa.
- Allora, quanto manca?
La voce rude e volgare del criminale mi fece sobbalzare. Sollevai la destra a indicare lo schermo davanti a me dove si leggeva il conto alla rovescia: mancavano meno di quaranta minuti e avevamo già da tempo la sagoma di Prometeo sugli strumenti dei sensori.
- Come funziona l'approdo? - volle sapere Calvin. Esitai e fu il comandante a rispondere.
- Controllo vedrà il nostro vettore di approccio e ci chiamerà per chiederci che intenzioni abbiamo. Gli dovremo dire se intendiamo attraccare e loro ci assegneranno un molo. Manovreremo per metterci tra le mani di una IA che ci farà avvicinare e ormeggiare senza... fatica.
Temetti per un istante che il comandante Miki stesse per dire “senza fare niente”. Probabilmente si era corretta in tempo. Ritenevo essenziale che Calvin continuasse a pensare di non poter fare a meno di me e di lei. Se ne andò senza commentare ma guardandoci torvo. Di lì a pochi minuti giunse il preannunciato messaggio di Controllo di Prometeo al quale dichiarammo, controvoglia, la nostra intenzione di ormeggiarci. Ci fu assegnato un posto come previsto e, più in fretta di quanto potei gradire, ci trovammo tra le braccia di una IA che con la sua voce maschile giovane e sbarazzina ci portò fino a destinazione.
Tenevo sott'occhio le acrobazie che l'intelligenza artificiale faceva per compensare i motori di manovra rimasti a secco e, per fingere di avere qualcosa da fare, attivai i sensori e le telecamere esterne. Eravamo abbastanza vicini alle nuove strutture esterne di Prometeo da poter guardare attraverso gli occhi digitali del Coyote cosa stava succedendo intorno a noi. Per poco non trasalii dalla sorpresa. Controllai i sentieri di approccio, ma non si poteva sbagliare. In preda all'eccitazione mi permisi di richiamare l'attenzione del comandante toccandole un braccio. Stavamo andando incontro a una enorme nave da battaglia già ormeggiata ai moli esterni di Prometeo. Era così grande da occupare il posto di quattro cargo di medie dimensioni. Una volta avevo visto con grande interesse un documentario sulla fauna marina del pianeta, ormai estinta. Ne ero rimasto molto colpito e affascinato, al punto che ancora oggi mi ricordo molte delle cose che vi erano descritte. Un tempo i mari, oggi sterili e pressoché disabitati, erano popolati anche da creature fantastiche come gli squali. Potevano essere lunghi parecchi metri e crescere fino a pesare centinaia di chili standard. Denti aguzzi e affilatissimi li avevano resi predatori formidabili e pericolosissimi e piccoli pesciolini lunghi pochi centimetri viaggiavano impavidi a pochi millimetri dal loro ventre, perfettamente sincroni. Queste creature, chiamate remore, nuotavano a fianco di un feroce predatore centinaia di volte più grande di loro. Il piccolo Coyote stava affiancandosi a una corazzata tascabile di classe America. Uno squalo dello spazio interstellare. Era così vicina, o così grande, da permettermi già di leggere il numero di registro e il nome: MC 467 Ammiraglio Zarov. Ne avevo sentito parlare: una nave da battaglia varata recentemente.
- Cosa ci fa qui quella? - esclamò il comandante alla vista dell'enorme scafo nero e grigio. Si era espressa con un tono di voce troppo alto per i miei gusti e silenziosamente incolpai lei dell'apparizione di Calvin.
- Questa me la pagate, stronzi – ce l'aveva con noi. Lo vidi mettere mano alla pistola che teneva nella cintura improvvisata realizzata annodando intorno alla vita le maniche della tuta da prigioniero. Molti altri lo avevano imitato, esibendo toraci villosi o biancheria intima di vario tipo, tutto genericamente sgradevole a vedersi.
- Non posso farci niente. Siamo in mano a una IA, l'ormeggio non si può scegliere.
Apprezzai la rapidità del comandante nel rispondere con chiarezza. Rapidità che non le evitò una pistola puntata alla testa.
- Andiamo via di qui! - sbraitò l'evaso. Altri galeotti si affacciarono incuriositi sulla soglia del ponte di comando ma non osarono oltre.
- Ho detto che non posso! Guarda!
Miki, con un coraggio e una forza che invidiai vergognandomi, indicò decisa il mio schermo principale dove appariva chiaramente come il Coyote fosse telecomandato dalla IA di Controllo di Prometeo. In un angolo dello schermo si vedevano già gli ormeggi di nuovo tipo pronti ad accogliere il nostro piccolissimo scafo. Dubitai che quell'ignorante di Calvin potesse capire le indicazioni degli strumenti. Afferrò il comandante per i lunghi capelli ricci e la costrinse con la forza ad alzarsi dalla poltrona.
- Mi stai dicendo che voi due non servite più a un cazzo?
Forse Calvin non sapeva leggere gli strumenti, ma non era stupido. Non del tutto. Precipitosamente era giunto il momento tanto temuto. Il Coyote da lì a pochi secondi sarebbe approdato e sarebbe stato ormeggiato e collegato alle strutture portuali del molo esterno numero 43 di Prometeo, con o senza qualcuno ai comandi.
Sempre tenendola saldamente per i capelli costrinse il comandante a fronteggiare la soglia del ponte. La paura mi stava sciogliendo le budella e pietrificando i muscoli.
- La volevate? Eccovela! - spintonò la ragazza verso gli altri evasi che si pigiavano l'un l'altro sulla soglia, non osando varcarla. Chissà come poteva Calvin esercitare quel controllo su di loro: molti erano armati esattamente come lui.
Una foresta di mani e braccia si tese verso di lei e la afferrarono in fretta prima che riuscisse a recuperare l'equilibrio perso per lo spintone avuto dal capo dei galeotti. Fui travolto dall'orrore: me ne stavo lì seduto, contorto sul sedile del comandante per poter guardare cosa accadeva dietro le mie spalle. Non facevo nulla, non riuscivo a pensare ad altro se non alla violenza imminente. Non mi smossero le acute grida della ragazza che si impuntava e opponeva resistenza a quelle mani che già stavano violandola. Nulla poterono le immagini che mi scorrevano nella testa che sembravano in grado di anticipare di pochi secondi quelle che mi riempivano gli occhi. Qualcuno che non potevo vedere gridò dallo spinale sovrastando il ringhiare bramoso di quelle belve che avevano finalmente azzannato la preda. Furono quelle parole a farmi scattare: “grazie, boss!”. Pronunciate con sincera gioia, con la felicità di chi riceve un dono da amici. Non potei resistere a quella profanazione così intima e volgare.
Scattai in piedi e mi lanciai verso il comandante, intenzionato a strapparla da quelle braccia luride, ad allontanarla da quelle mani rapaci che le stavano facendo del male. Prima che la portassero nello spinale, prima che tutta quella carne esalante fetore umido si chiudesse su di lei.
Stupidamente, aggiungo oggi. Passai davanti a Calvin, non avevo altra scelta; questi mi tramortì colpendomi alla nuca con la mano armata di pistola. Franai malamente sul pavimento, andando a sbattere dolorosamente la faccia contro il fianco di colei che volevo salvare e poi urtando qualcosa di duro con la fronte. Non persi i sensi, purtroppo. Subito mi arrivò un colpo alle costole che mi tolse quel poco d'aria che mi era rimasta nei polmoni. La testa mi sembrava svuotata del cervello, tutto il torace mi doleva terribilmente, volevo vomitare e respirare contemporaneamente e non riuscivo a fare nessuna delle due cose. Gli urli della violenza che si stava consumando a meno di mezzo metro da me mi sembrava di sentirli appena. Emisi un suono strozzato riempendomi i polmoni tra un doloroso conato e l'altro; poi finalmente riuscii a vomitare. L'ultima cosa che ricordo prima di perdere finalmente i sensi era che non riuscivo più a vedere: tutto mi pareva immerso nel fumo grigio.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


La miniera nel cielo
7.

Ricordo ancora con piacere la prima cosa che vidi quando mi svegliai, non so quanto tempo dopo. Era il volto di un angelo. Aveva la barba nera e gli occhi grigi, un po' stempiato. La divisa dei marine non gli donava molto, ma ero troppo attratto dalla bellezza di quel volto per far caso ad altro.
- Sveglio anche questo. Trauma cranico, principio di asfissia. Tutto regolare. Via.
Disse quella frase alzandosi in piedi, accompagnando con un eloquente gesto della mano l'ultima parola. Così mi resi conto di essere sdraiato sulla schiena, sul ponte di comando del Coyote. Percepivo vagamente altre presenze intorno a me e faceva all'improvviso molto freddo.
Poi cominciai a muovermi. Una barella, conclusi. Senza riuscire a capire dove fossero i barellieri, riconobbi lo spinale prima e la camera di equilibrio poi. La barella superò l'armadio robot del comandante zigzagando agilmente e si infilò in quello che mi parve un tunnel ombelicale rigido. Un bel lusso, pensai stupidamente.
Cercai di muovermi per guardarmi intorno e mi resi conto di essere legato alla barella da larghe cinghie senza fibbia. Ebbi un capogiro per aver alzato la testa, ma ero contento di non provare dolore. Ero soltanto intontito, rallentato. Mi doleva il torace se respiravo troppo profondamente. Il condotto terminava sul molo dove percepii una discreta folla. Fui sorvolato da un drone con gli adesivi di Network 23: mi puntò contro il suo obiettivo e accese un faro supplementare, fastidiosissimo. Un soldato lo scacciò agitando le mani. Finalmente la barella con un piccolo sobbalzo si infilò in un posto stretto e ben illuminato e si arrestò. Uno sportello si chiuse, isolandomi completamente in un ambiente candido e fitto di apparecchiature dall'aspetto amichevole, rassicurante. Percepii l'accelerazione di un veicolo. Un'ambulanza, conclusi. Finalmente solo.
La mia degenza durò molto poco. L'orologio della stazione segnala le cinque e trentadue della mattina quando le ganasce del pontile 43 si erano serrate intorno allo scafo della nave del mio comandante. Venni dimesso dopo essere stato in osservazione fino alle diciassette, ora della stazione. Fu allora che scoprii di essere diventato una celebrità.
Prima i poliziotti, poi l'esercito, poi di nuovo i poliziotti. Fui interrogato ripetutamente fino alla mattina seguente. Stavo bene secondo i medici, anche se io mi sentivo un po' strano. Il trauma cranico era stato fatto regredire praticamente subito e i nano medicali avevano sistemato anche qualche altro problemino qua e là. Avevo solo cinque punti di sutura sul cranio e qualche livido sulle costole: secondo i dottori, quasi esaltati al momento dell'ultima visita prima di dimettermi, me l'ero cavata da campione. Lo stordimento era dovuto forse al gas usato per neutralizzare tutti gli occupanti della nave senza rischiare di ferire qualcuno. Sarebbe passato prestissimo, mi dissero.
Poi toccò alle principali emittenti televisive. Interviste, dichiarazioni, resoconti dell'accaduto. Tutto molto in fretta, caotico, contemporaneamente. Fui avvicinato da un sedicente avvocato e procuratore che mi suggerì di non dire più una sola parola senza vedere prima un assegno, di cui però avrei incassato solo il trentatré per cento. Mi offrì perfino la percentuale dei guadagni di una serie televisiva di sei puntate da un'ora l'una. Naturalmente avevo il diritto di recitare la parte di me stesso e pretendere una percentuale maggiore come paga. Lo mandai al diavolo e feci altrettanto con tutti gli altri che vennero a farmi proposte simili. Ma seguii quel consiglio e smisi di parlare. Non so se feci bene o male: ancora oggi vivo con i diritti d'autore, difesi con ferocia da una ossessiva IA che non ha altro scopo di esistere, di una di quelle serie televisive che furono realizzate davvero, e senza il mio consenso. Scelsi quella che incassava di più ovviamente, e costrinsi i produttori a pagarmi per non farmi andare dalla concorrenza con la storia vera. Ma questa, scusate il gioco di parole... è un'altra storia.
Tutto accadde molto in fretta, quindi. Alle nove del mattino seguente ero di nuovo solo come un cane. I notiziari avevano già sbranato la mia avventura spolpandola fino all'osso e succhiando anche il midollo, al punto che quando riuscii a raggiungere un terminale, quella stessa sera, ero diventato un trafiletto nascosto molto in fondo al notiziario. Fu grazie alla Rete e ai notiziari che ho potuto ricostruire cosa accadde. Quando aprii il fuoco contro le installazioni di Mastodonte in realtà non colpii nulla di particolare. I detriti che avevo visto con i teleobiettivi del Coyote erano i rottami da decompressione di un deposito di macchinari da scavo che non avrebbe dovuto essere dotato di atmosfera. L'autore dell'articolo faceva notare che le installazioni abitabili di Mastodonte erano ben in profondità, scavate nella roccia metallifera per difendersi dalla continua pioggia di meteoriti prodotta dalle operazioni di scavo dell'asteroide stesso. I deboli laser della corvetta non potevano fare altro che scalfire la dura superficie di quell'enorme pepita spaziale e provocare danni alle installazioni di superficie, disabitate. Leggere quelle righe mi fece stare meglio di qualsiasi cura medica avessi ricevuto il giorno prima. Nessuna vittima, nemmeno un ferito lieve. Si erano resi conto dei danni solo perché il deposito era stato dimenticato pressurizzato e la decompressione improvvisa aveva prodotto un po' di sconquasso, ma nulla di più. Mastodonte era un osso troppo duro per i denti del Coyote.
Una volta scoperto il proprio destino, i due idioti abbandonati dal loro boss Calvin erano riusciti a dare l'allarme via radio per pura e semplice vendetta. Pur avendo io mirato a quelle che mi erano sembrate antenne, non avevo distrutto nulla che potesse impedire la trasmissione del messaggio di aiuto. Non valgo nulla nemmeno come artigliere. Ricontattati dalle autorità, i due prigionieri avevano vuotato il sacco in fretta denunciando l'evasione. Il resto era stato facile. Cielo Alto sapeva già tutto quando ci aveva chiesto del cambio di piano di volo e aveva prontamente comunicato il nostro vettore di transito ai militari. Per quelli tracciare una rotta di intercettazione è un giochino divertente e non hanno avuto mai un solo dubbio sulla nostra direzione. Però la Zarov era davvero lì per caso e aveva contribuito solo alla logistica e ai soccorsi medici. La passerella rigida piena di gas narcotico in pressione era stata un'idea della polizia di Prometeo.
Infine, cosa poco importante per chiunque altro ma non per me, nonostante dalle registrazioni di bordo del Coyote si possa capire chiaramente che sono stato io ad aprire il fuoco, i danni riportati dalle installazioni minerarie di Mastodonte sono finiti in conto a Calvin. Meno male: non sarei qui ora bensì indebitato fino al collo, schiavo di una zaibatsu.
L'ultimo ricordo di quell'avventura, ricordo che conservo gelosamente solo per me stesso, è del comandante. Michaela Patris, una morettona decisamente ben piazzata, forte fuori e anche dentro. Una volta dimesso e realizzato di non essere più la stella dei notiziari, mi sentii libero. La notorietà pesa più di quanto sembra. Sollevato dalle opprimenti attenzioni di poliziotti e giornalisti, il mio primo pensiero andò a lei. Mi precipitai fuori dell'ospedale e mi diressi al molo numero 43, notando appena che ogni tanto qualcuno tra la folla mi fissava con insistenza. Cercai di scacciare il pensiero che a bordo del Coyote c'era la mia tuta, il mio bagaglio e che il comandante doveva ancora pagarmi. Non era per la mia roba o per i soldi che mi stavo precipitando laggiù.
Giunsi trafelato all'imbocco del tunnel di ormeggio. Nonostante mi sentissi bene, ero ancora provato dall'avventura. Avevo chiesto il permesso di salire a bordo tramite il terminale e mi era stato concesso senza nemmeno bisogno di parlare. Pensando al peggio mi sforzai di non mettermi a correre nel tunnel. Quando giunsi davanti al portello esterno della camera di equilibrio, chiusa, avevo il cuore in gola. Chi avrei trovato a bordo?
Il pesante portello esterno si fece da parte rivelando la candida camera di equilibrio, già aperta. Vedevo l'armadio robot e uno spicchio di corridoio spinale, illuminato al massimo. Con un improvviso timore reverenziale, più adeguato a un luogo sacro che a una nave commerciale, chiesi a mezza voce il permesso di salire a bordo.
- Permesso accordato – il mio cuore sembrò sciogliersi nel petto a quella voce.
Feci capolino nello spinale, sentendomi un sorriso cretino sulla faccia. Anche lei sorrideva, sebbene fosse un sorriso un po' lontano e spento.
- Ciao, Kaufman. Come stai?
- Come stai tu – le dissi in fretta avvicinandomi un poco. Non volevo superare quella rispettosa distanza che ero sempre riuscito a mantenere tra me e i miei datori di lavoro.
Rispose facendo spallucce. Si appoggiò al lungo manico della rotospazzola meccanica con la quale stava tirando a lucido il corridoio spinale. La capivo perfettamente: anche la sua nave era stata violata e non c'era niente di meglio di una bella pulizia approfondita per sentirsi nuovamente padroni di casa.
Doveva essere all'opera già da un bel po'. Indossava pantaloncini da atletica leggera, troppo aderenti e corti per i miei gusti. Sembravano più un paio di mutande grandi che pantaloncini corti. Gli elastici le affondavano nella cellulite delle cosce molto vicino all'inguine, lasciando vistosi segni rossi sulla pelle. Le gambe nude e grosse erano lucide di sudore mentre i piedi che calzavano dozzinali ciabatte di gomma azzurra recavano le impronte della rotospazzola sporca, segno che nella foga di pulire se l'era tirata addosso.
- Per due o tre lividi mi hanno riempita di nanoidi, sto benone. Mi sembra di essermi fatta di brutto... ho il delirio di onnipotenza!
Indossava una leggera canottiera nera, stampata col disegno di una grande ragnatela bianca e una piccola scritta: “vedova nera”. Accomodò una spallina della canottiera che le era scesa fino al gomito esponendo la bretella bianca del reggiseno. Mi spaventai vedendo quanto quella le sprofondasse nella carne della spalla. Fletté il florido e rotondo braccio per mostrarmi i muscoli gonfi. Anche la pelle delle braccia e del petto era imperlata di sudore. I capelli, ancora una volta raccolti in una coda improvvisata, sembravano brillare sotto la luce intensa e alcuni ciuffi curvi, appiccicati al collo dal sudore, facevano apparire la sua pelle sempre più bianca.
- Allora non ti hanno... - non seppi concludere la frase. Lei sorrise brevemente afferrando il mio imbarazzo, e se ne prese gioco.
- No, non hanno fatto in tempo... un paio sono arrivati ad abbassarsi i pantaloni, ma non sono andati oltre. Due cazzi flosci che avrei volentieri evitato di vedere, ma niente altro... Il danno peggiore, oltre a dover disinfettare mezza nave, è che mi hanno strappato la tuta da motorista. Per il resto... niente che non si possa rimediare con una doccia.
Nuovamente provai ammirazione per quella ragazza. Mi parve dotata di una forza interiore straordinaria e mi sentii una vera merda vicino a lei. Pensai che fossero i nano medicali a farmi sentire come un cane: forse stava finendo il loro effetto. Chissà cos'altro c'era in soluzione nella roba che mi avevano iniettato.
Passammo pochi minuti scambiandoci convenevoli sull'accaduto, raccontandoci le ferite come due veterani di guerra. Il suo carattere schietto e diretto la portò subito a quello che per lei doveva essere l'argomento principale della mia visita.
- Sei qui per la tua roba, vero? Devo anche pagarti...
- Ci tenevo a sapere come stavi – cercai di difendermi, ma ero ovviamente inefficace ai suoi occhi.
- La tua tuta da vuoto è dove l'hai lasciata... almeno quella non l'hanno toccata – si voltò per entrare sul piccolo ponte di comando, dove si era svolta tutta l'avventura. Mi sembrava che nulla fosse cambiato, lì. Un pensiero doloroso.
- Tutto quello che mi è sembrato tuo l'ho lasciato sulla prima cuccetta... non ho ancora finito di mettere in ordine lì, quindi ti prego... non guardare troppo in giro!
Aveva alzato la voce per raggiungermi dal ponte di comando, com'era usanza sul Coyote. Io entrai nel piccolo alloggio dell'equipaggio e quasi non lo riconobbi. Gli evasi l'avevano messo a soqquadro rovistando ovunque, spostando tutto secondo i loro comodi, sporcando, rompendo e guastando. Ogni cuccetta sembrava aver ospitato un animale feroce, uno di quelli che si vedevano nei documentari. Qualcosa di grosso e scatenato, in grado di mandare all'aria coperte, materasso, lenzuola... nemmeno i materassi a sacco erano stati risparmiati. Tutto quanto giaceva sparso lì in giro gridava la violazione subita. Raccolsi la mia roba, facendo mentalmente l'inventario delle cose che mancavano. Qualche capo di abbigliamento, qualche piccolo ricordo, poco altro. Misi tutto nel mio sacco da viaggio: dapprima ordinatamente, poi sempre più alla rinfusa. All'improvviso volevo andarmene e basta. Stanco, tornai verso il ponte di comando e mi fermai sulla soglia. Michaela era seduta scomposta sulla poltrona del comandante e stava trafficando con schermate fitte di dati incolonnati. Il suo conto corrente, mi parve di capire. La vista di un muscoloso polpaccio pallido mi distrasse.
- Ho quasi fatto – mi disse con quel tono di voce morbido ma impersonale che avevo imparato ad apprezzare. Aspettai pazientemente fino a quando mi mostrò la schermata con l'accredito sul mio conto. La cifra era quella pattuita. Avrei preferito qualche card al portatore, ma in quel momento mi sembrò una pretesa assurda.
- Mi spiace sia andata così – disse alzandosi dalla poltrona. Di nuovo la spallina della canottiera nera le scese fin quasi al gomito, ma lei non si curò di risollevarla. La scollatura sul petto e le aperture sotto le ascelle erano tali che non si faticava a vedere che tipo di biancheria indossasse sotto. A disagio di fronte alla sua intimità, mi imposi di distogliere lo sguardo e mi incamminai lungo lo spinale per andare a prendere la mia tuta da vuoto.
- Non è certo colpa tua – non riuscii a essere rassicurante come avrei voluto. Credo che percepì nella mia voce la nota accusatrice che mi era sfuggita. Trovai la mia tuta “leggera” esattamente come l'avevo lasciata e me la misi sotto il braccio alla bell'e meglio. Sarebbe stato meglio indossarla: era pesante e ingombrante da trasportare in quel modo. Ma mi sentivo estraneo, indesiderato, e volevo solo andarmene in fretta. Mi voltai per salutare, incerto sulle parole da usare per rompere il pesante silenzio che era calato. Era di nuovo appoggiata al manico della rotospazzola.
- Volevo... volevo dirti che... - mi anticipò, ma era anche lei in imbarazzo. La guardai, ma lei distolse gli occhi. Come se avesse trovato scritto sul pavimento ciò che voleva dire, mi gettò addosso quella frase tutta d'un fiato.
- Volevo dirti che ho apprezzato quello che hai fatto. Intendo quello che hai fatto per me.
Mi sorrise e fu come se fosse la prima volta che sorridesse davvero. Il viso le si fece luminoso e gli occhi cupi parvero brillare. Mi tese la mano e me la strinse con forza. Ricambiai come meglio potei.
- Grazie – aggiunse, poi distolse gli occhi e sciolse la stretta di mano. Tornò ad adombrarsi, incupita e lontana come l'avevo sempre vista.
- Dovere – fu l'unica, idiota risposta che fui in grado di darle prima di voltarmi e andarmene via.

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