Una voce nella foresta

di Diana924
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 parte ***
Capitolo 2: *** Storia di Gertude Gustavsson ***
Capitolo 3: *** 2 parte ***
Capitolo 4: *** La morte di Belate Dominici ***
Capitolo 5: *** 3 parte ***
Capitolo 6: *** Una scoperta del signor Tortosson ***
Capitolo 7: *** 4 parte ***
Capitolo 8: *** Scoperta della signora Andersen ***
Capitolo 9: *** 5 parte ***
Capitolo 10: *** 6 mesi dopo ***
Capitolo 11: *** L'interrogatorio ***
Capitolo 12: *** L'arresto ***
Capitolo 13: *** Degenza ***



Capitolo 1
*** 1 parte ***


X una mia amica, che ieri ha festeggaito i 18 ammi, cui dedico questa storia

Una voce nella foresta, ecco quello che odo questa notte, aprendo la finestra della mia camera da letto. Sento mio fratello nella camera accanto che russa. E di colpo mi torna in mente l’incubo in cui sono quasi precipitata due mesi fa, complice il sole di mezzanotte, da casa mia vedo distintamente questo fenomeno.

Ero andata alla redazione del “ National Geographic ” per poter ricevere il ricavato della vendita di alcune mie fotografie. Già dall’anticamera intuì che le cose si stavano mettendo male. Non era la prima volta che vendevo le mie foto al “ National Geographic ”, ma non aveva mai fatto anticamera, venivo ricevuta subito.

<< Gertude Gustavsson? Può entrare >> sentì la segretaria chiamarmi, mi feci coraggio ed entrai.

Il signor Ansem appartiene a quel gruppo di persone che sono convinte di avere sempre ragione, razza sempre più numerosa dalle nostre parti, purtroppo. Sulla cinquantina, grasso, miope e con occhiali che erano dei fondi di bottiglia apparteneva anche ad un altro gruppo: quello dei direttori bastardi.

<< Gertude cara, posso chiamarti Gertie, vero? Vieni accomodati >> mi disse con fare viscido. Mi avvicinai e mi sedetti su una sedia. << Signor Ansem, gradirei non perdere tempo, devo andare a prendere mio fratello a scuola, quindi mi dica a quanto ammonta il ricavato della vendita in esclusiva del mio servizio sulla famiglia Reale >> gli dissi con tono molto seccante, si stava facendo ora, Mark mi avrebbe atteso di fronte alla sua scuola fra un quarto d’ora.

<< Allora cara, le foto sono molto belle, si vede che ci sai fare, quindi ti posso offrire 13350.5643 corone, né una di più né una di meno. Più un altro servizio, ma all’estero >> Avevamo bisogno di quei soldi, per pagare la scuola privata di Mark, così accettai.<< Dove all’estero? >> << In Etiopia >> fu la sua risposa, breve, concisa ed arrogante. << E senza giornalista, voglio, anzi pretendo un servizio fotografico, corredato da didascalie. Le foto devono essere massimo trenta >>. Stava per dirmi dell’altro, ma non lo sentì, perchè presi la porta, che richiusi con forza, come odiavo quell’uomo.

Mentre guidavo verso la scuola di Mark ripensai a quel giorno in cui avevamo perso i nostri genitori, per dieci anni non ne avevo parlato a Mark, forse questo era il momento giusto. Avevo sempre rifiutato ingaggi all’estero perchè ero in continua apprensione per lui, ma ora che aveva quasi quindici anni potevo raccontargli tutto. Quando sarei tornata. Tre semafori rossi mi fecero fare un ritardo di dieci minuti, ma non mi preoccupai, Mark una volta mi aveva aspettato per mezz’ora.

Giunta lo vidi, che stava ascoltando la musica con il suo lettore MP3. Lo chiamai suonando il clacson. Si avvicinò, aprì la portiera dal lato del passeggero, entrò e lanciò lo zaino sul sedile posteriore.<< Allora Gertie? Quanto ti hanno dato per le foto? >> fu la prima cosa che mi chiese. << Bene, il signor Ansem mi ha dato 13350.5643 corone, più un nuovo ingaggio >>. << Fico, dove? >> mi chiese. << Devo andare in Etiopia, ma penso che non accetterò >> << E perchè? E’ una grande opportunità e io sono abbastanza grande da potermela cavare da solo, non sono più un bambino >>. << Va bene, ti lascerò a casa, ma promettimi di andare a letto presto, di non fare feste e di andare almeno una volta al giorno a trovare papà >>. << Accordato, parti tranquilla Gertie, è tutto sotto controllo >>. Sebbene non ne fossi intimamente convinta fui d’accordo con lui, era ora che Mark si assumesse le sue responsabilità.

Tornati a casa preparai la cena, erano già le sei, poi presi la macchina e mi diressi verso l’ospedale, dove in un letto al terzo piano, giaceva in stato di coma da dieci anni nostro padre.

Giunta trovai il dottor Andersen, che da quasi sei anni si occupava di mio padre. Mio padre giaceva a letto, immobile, secondo i medici sordo ad ogni contatto che proveniva dall’esterno. Fissai il monitor sistemato alla sua destra, il battito era buono.

Avevo comprato dei fiori, li sistemai vicino al suo letto, in un vaso. Poi parlai per un po’ con il dottore, lui voleva che gli dessi il mio consenso per poter staccare la spina, ma fui contraria, ne riparliamo quando mio fratello sarà maggiorenne, così potremo discuterne meglio gli risposi. Mentre uscivo guardai se nella libreria vicino l’ospedale c’era una guida turistica dell’Etiopia. Ve n’era una, ma era decisamente vecchia, però essendo l’ultima la presi,costava soltanto 16350 corone, che mi parvero un ottimo prezzo.

Tornata a casa guardai nella casella delle lettere, c’era il mio biglietto aereo e la brochure dell’albergo dove avrei alloggiato. Andai a controllare Mark, ormai erano le dieci, lo trovai che dormiva beato.

Smetto per un secondo di ricordare, è il telefono che mi distoglie, all’ospedale va tutto bene, papà sta riprendendo a parlare, solo poche parole, ma basta a risollevarmi il morale.

Di colpo ripenso a quando all’aeroporto ho salutato Mark. Mi ricordo bene quel giorno, pioveva dalla mattina, e sembrava che gli antichi dei del nostro Paese volessero ricordarci la loro presenza con quell’acquazzone e quei tuoni e fulmini. mark mi era vicino, sarebbe tornato a casa con l’autobus, e ci salutammo, odio gli addii. Comunque mi avviai verso il gate, destinazione Adis Abeba, la capitale dell’Etiopia. Il mio aereo avrebbe prima fatto una tappa a Roma, in Italia, poi sarebbe stata la volta dell’Etiopia.

Quando fu l’ora dell’imbarco fui tra le prime a salire sull’aereo, appena mi sistemai mandai un sms a Mark, per sapere come stava. Mi rispose dopo tre minuti. Stava bene, ma voleva sapere dove si trovasse il merluzzo che avevo comprato due giorni fa. Il merluzzo era in frigo, gli risposi, bastava che lo cercasse bene. Occorrevano tre quarti d’ora affinché si scongelasse per bene nel forno a microonde, poi doveva aggiungere delle patate al forno, venti minuti al forno, e cuocere il tutto ad almeno 120 gradi, per fare in modo che il merluzzo e le patate si cocessero nello stesso tempo, gli risposi. Va bene, ma se quando torni non vedi più casa e perchè l’ho mandata a fuoco, mi scrisse. Non sapevo se ridere o aspettarmi il peggio, quando l’aereo decollò.

Il viaggio fu breve, ebbi a malapena il tempo di poter gustare il cibo, che come al solito era orribile, che già l’aereo si preparava al primo atterraggio. Ero a Roma, la Città Eterna. Mentre l’osservavo dall’alto pensavo a come poteva venire bene un servizio là, in estate o in inverno, non che ad Oslo notassimo moltissimo la differenza o l’alternanza delle stagioni.

Mentre aspettavo che l’aereo ripartisse guardai fuori dal finestrino; l’aeroporto era modesto, per nulla paragonabile a quello di Oslo.

E in più si mise a piovere.

Dopo venti minuti di attesa, durante chi doveva scendere scese, l’aereo si preparò a ripartire, destinazione finale. Adis Abeba.

Siccome si era fatta notte vidi il film, poi presi un cuscino che mi dette una hostess, lo stropicciai bene bene, abbassai lo schienale, mi distesi, chiusi gli occhi e inizia a scivolare nel sonno.

Mi svegliai che l’aereo era già arrivato da un pezzo, perchè erano scesi quasi tutti. Dopo aver preso i miei bagagli, cercai un taxi, rendendomi conto di quanto caldo facesse lì, non c’ero abituata. A Oslo faceva quasi sempre freddo, invece qui probabilmente nessuno conosceva il concetto di gelo o aveva mai visto la neve.

C’era un taxi, ma quando mi mossi per raggiungerlo un ciccione con maglietta a maniche corte e cellulare mi precedette. Irritata ne cercai un altro, trovandolo dopo mezz’ora di ricerche.

 << Dove deve andare? >> mi chiese il taxista, << Al Ghion Hotel, grazie >> gli risposi in inglese.

Giunta mi presentai e registrai alla reception, dove venni a sapere che già da il giorno dopo sarei dovuta partire per un safari, senza poter visitare la città. Ansem me l’avrebbe pagata. Una cosa sola mi piacque, aveva prenotato per me una suite, e la cena era veramente buona, da capogiro. Terminata la quale chiamai Mark, a Oslo erano le sette, aveva mangiato e stava guardando la televisione.

La notte, dormivo in un letto a due piazze, feci un sogno. Ero in una foresta, e sentivo una voce che mi chiamava, più mi avvicinavo più riconoscevo la voce: era quella di mia madre! Allora correvo verso di lei, ma cadevo cadevo, sentendo per ultima cosa una risata inumana, agghiacciante. Il giorno seguente, dopo aver fatto una colazione abbondante presi la mia macchinetta fotografica e mi incamminai.

Nella hall Belate Dominici, la mia guida mi stava aspettando. Alto,moro, con i capelli arruffati sembrava la mia nemesi, visto che io sono biondissima con lentiggini e capelli liscissimi, solo un poco ondulati.

<< Miss Gustavsson? Sono Belate Dominici, sarò la sua guida, se mi vuole seguire, la mia macchina è qui fuori >>. Ubbidiente come una bambina delle elementari lo seguì, era bellissimo.

La macchina era una jeep rossa sgangherata, che mi parve adattissima per un safari.

Mentre ci avvicinavamo al safari gli chiesi perchè avesse un cognome straniero. Risultò che il suo bisnonno aveva fatto parte dell’armata italiana agli ordini del comandante Badoglio, durante la conquista italiana dell’Etiopia, che aveva portato all’Impero, e all’esilio di Halile Selassie, il loro legittimo re.

Dopo l’entrata delle truppe vincitrici ad Adis Abeba Amedeo Dominici aveva conosciuto Farah Nindera, sua futura moglie, figlia di un generale sconfitto. Dopo tre mesi erano fidanzati e dopo sei sposati. Successivamente nacque Benito, il loro unico figlio, nonno di Belate. Amedeo era morto nel 1944, ucciso da una bomba, sua moglie aveva cresciuto il figlio da sola, non si sarebbe mai risposata.

A venticinque anni Benito avrebbe sposato una ragazza di Adis Abeba, ma la giovane era morta di parto dando alla luce il padre di Belate. nel 1979 era nato lui, sesto di nove fratelli.

la sua storia era così diversa dalla mia che mi intrigò profondamente; nel frattempo eravamo arrivati a destinazione.

Uno spettacolo stupendo mi si parò di fronte. Un’ immensa radura, la savana, con pochi, alti e gialli fili d’erba, che sembravano brillare al contatto con i raggi solari. Pochi, alti e maestosi sulla linea dell’orizzonte si stagliavano due alberi. E nel cielo volava un’aquila, maestosa ed altera. Per tre secondi rimasi ammutolita davanti ad un tale spettacolo, prima che la voce di Belate mi richiamasse alla realtà: << Miss, non scattate nessuna foto per il vostro giornale? >> mi chiese. << E’ vero, è vero >> gli risposi. Scattai diverse foto, convinta che l’obbiettivo non sarebbe mai riuscito a mostrare ciò che realmente avevo visto. Era tutto così diverso dal solito ambiente a cui ero abituata, tutto così immenso, mi suggeriva l’idea dell’infinito, del perdersi.<< E’ tutto così? >> chiesi meravigliata a Belate. << Si, Miss, quando ero bambino io e i miei fratelli passavamo le ore qui, a correre e saltare, la mia è una delle famiglie più ricche della regione, anche se siamo isolati. Pochi sono disposti ad accettarci, a causa del matrimonio della mia bisnonna, per loro siamo dei mezzosangue, indegni di poter disporre di un patrimonio non ingente, ma nemmeno modesto >> concluse, guardando da un’altra parte, come se si vergognasse.

Per un secondo rimasi pensierosa, ma poi vidi l’aquila planare su un albero e la mia attenzione fu completamente assorbita da essa.

Verso la sera, quando ci fermammo avevo già scattato almeno cento foto; sapevo che avrei dovuto eliminarne qualcuna, ma non sapevo quale, erano tutte stupende.

<< Accendo un fuoco, servirà a tenere lontani i corocotta >> << Che cosa sono? >> << Sono delle creature mitiche, forse inesistenti, ma che da queste parti ispirano terrore. Si dice che assomiglino alle iene, ma che posseggono la capacità di imitare alla perfezione la voce umana e che riescano a parlare. Attirano le vittime e poi le divorano, si dice che riescano ad inghiottire una vittima in un sol boccone >> <> << Non mi sorprende, nonostante sia antichissima è poco conosciuta, soprattutto all’estero >>. Se quel giorno gli avessi rivolto quella domanda, ora sarebbe tutto diverso, e Belate sarebbe ancora vivo. Ma posi la domanda e lui mi rispose solo tre sere dopo.

Poi mi ritirai nella mia tenda, dove telefonai a Mark. Mi rispose al terzo squillo, si stava preparando per uscire, uno dei suoi amici aveva organizzato una festa. Dopo avergli rivolto le solite raccomandazioni e i saluti riattaccò.

Accadde a mezzanotte circa.

Stavo dormendo da almeno tre ore, e profondamente, quando l’udii. Era una voce umana, dopo un po’ la riconobbi: era quella di mia madre!

La voce era suadente, come quella di una sirena, e mi attirava inesorabilmente, quando un rumore improvviso la fece cessare e mi svegliò di colpo.

Erano tre scimmie che si erano messe in testa di tenere una festicciola proprio sul ramo dell’albero che si trovava dietro la mia tenda. Tirai loro un sasso, per fortuna mancandole, ma quelle dispettose continuarono fino alle cinque, quando potei tornare a dormire. Ripensandoci mi convinsi che nel sonno avevo immaginato la voce di mia madre, avevo un disperato bisogno di sentirla e di averla vicino.

Fui risvegliata da un odore acre di caffè verso le otto; uscì dalla mia tenda tutta assonnata.

Belate stava sorseggiando il caffè da un thermos rosso e grigio. Mi avvicinai a lui. << Mi chiedevo, Miss, perchè è qui da sola, e non con un giornalista. Di solito i fotografi non vengono mai da soli; invece lei è qui >>. << Il mio è un servizio fotografico, le mie foto non accompagneranno un articolo, sarà il contrario, tramite le didascalie che verranno scritte accanto >> gli risposi, orgogliosa, era la prima volta che lavoravo senza un giornalista. Detto questo mi servì del caffè bollente, ne avevo davvero bisogno.

Il resto del giorno proseguì con un piccolo tour nella riserva, Belate mi portò al fiume, dove potei vedere gli ippopotami con i loro piccoli e i coccodrilli. O superbi coccodrilli del Nilo ci scrutavano con i loro occhi, sembrava che ci stessero aspettando. Immobile ricambiai il loro sguardo, per un secondo mi vidi riflessa negli occhi di un vecchio coccodrillo che mi osservava con curiosità e , sembrò a me, malizia.

Ero così entusiasta che mi stavo dimenticando di avere la macchinetta fotografica finchè non la sentì mentre mi sbatteva sul petto, riportandomi alla realtà. Fu in quel momento che mi resi conto che ero vicinissima a un bestione che doveva pesare almeno tre quintali, e che mi avrebbe potuto divorare in un sol boccone. Per lo spavento mi allontanai di corsa, ma misi il piede male e caddi in acqua. Mi guardai attorno, il coccodrillo mi stava osservando, poi si girò, si immerse e si allontanò. Mentre si allontanava avrei giurato che stesse ridendo divertito.

Il resto del giorno proseguì normalmente, ormai avevo imparato a non scattare le mie foto ogni cento metri, dovevo selezionarle con cura e scegliere le più belle.

La notte, mentre dormivo sentì di nuovo la voce: questa volta aveva un che di suadente che mi convinse ad alzarmi ed ad uscire dalla tenda. Non vidi nessuno, ma per un momento mi parve di avvertire la presenza di mia madre, e per un secondo mi sembrò addirittura di vederla, mentre mi salutava, nella stessa maniera in cui mi aveva salutata l’ultima volta in cui la vidi viva.

Ma come era apparsa quella visione della mia mente si dissolse, lasciandomi nel più completo sconforto.

Nei giorni seguenti si instaurò una piacevole routine, fatta di gite, foto e a volte bagni nei fiumi, sempre seguita da Belate. La sera chiamavo Mark e m’informavo su di lui e su papà.

Una sera, parlando del più e del meno Belate mi chiese informazioni sulla mia famiglia. Ammetto di essere stata in quei giorni parecchio riservata.

Decisi di accontentarlo, non mi avrebbe fatto male, non più.

<< Allora, che cosa vuoi sapere e come lo vuoi sapere? In ordine cronologico o seguendo il flusso ininterrotto dei miei pensieri? La prima sarà noiosa ma accurata, la seconda esilarante ma al contempo caotica >> gli risposi, mentre sorseggiavo un bicchiere di Coca-cola conservata fredda, per non dire ghiacciata grazie ad un frigorifero portatile.

<< Inizia dall’inizio, così capirò meglio >> mi disse, con un sorriso a trentadue denti. << Va bene, inizio >>.

 

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Capitolo 2
*** Storia di Gertude Gustavsson ***


<< Sono nata il dodici settembre, mio padre mi raccontò che quel giorno nevicava e che la neve cadeva in bianchi fiocchi sulle sognanti strade di Oslo. Era una mattina, verso le nove, mio padre non ne era sicuro perchè il suo orologio aveva le batterie che si erano scaricate alle nove, quando fu avvisato che stavo per nascere.

Mia madre era un’ avvocato, lavorava nel civile, e mio padre un giornalista. Se non mi sbaglio si conobbero all’università. Pensa, erano vicini di stanza e non si erano mai visti, poi all’ultimo anno si scontrarono in corridoio e fu un colpo di fulmine. Si sposarono tre anni dopo e dopo sei nacqui io.

Non mi ricordo bene i miei primi anni, ma ricordo il rumore della macchina per scrivere che  utilizzava mio padre, l’odore di merluzzo che mia madre preparava il sabato e il rumore che faceva quando prendeva la sua cartelletta bruna tendente al grigio per andare a lavoro.

A quattro anni scoprì la musica, ascoltando per caso un concerto di Mozart,e pensai che da grande volevo fare la musicista per poter suonare sempre quella musica stupenda che mi aveva rapito il cuore. Iniziai prendendo lezioni di violino, mi esercitavo ogni volta che avevo un minuto libero, per casa si sentiva sempre il suono dolce, lieve e delicato del violino.

A sei anni iniziò per me la scuola. Ero brava, senza impegnarmi a fondo avevo degli ottimi voti a scuola e naturalmente continuavo a suonare il violino.

Quando avevo dieci anni nacque mio fratello Mark, ricordo che era estate, diversamente da me. Un pallido sole illuminava Oslo quella mattina, me lo ricordo perchè passai tutta la mattinata a guardare fuori dalla finestra. Mio fratello nacque la sera, durante il tramonto, ne ho memoria perchè avevo appena detto “ciao” al sole che tramontava e che vedevo sempre più piccolo dalle finestre.

Fu allora che promisi a me stessa che avrei aiutato mia madre a crescerlo. promessa che mantennii e mantengo tuttora.

Per i primi cinque anni non cambio nulla, poi accadde.

Era una sera, i miei si erano recati ad un convegno, ancora oggi ignoro di cosa, e stavano tornando a casa.

Non so cosa successe di preciso, ma la macchina sbandò e finì in un fosso.

Mia madre fu fortunata, per modo di dire, infatti morì sul colpo; non avvertì nessun dolore, niente di niente.

Mio padre ebbe salva la vita, ma ci rallegrammo poco di questo.

Aveva riportato un gravissimo trauma cranico che dopo un po’ lo fece cadere in coma. Stato che perdura da dieci anni.

Lo vado a trovare ogni giorno, il dottore dice che la presenza di un familiare gli è d’aiuto, ma finora io non ho visto nessun miglioramento.

Nonostante mio padre sia un vegetale ha la potestà su di me, fino alla maturità, e su mio fratello. Ma siccome giace in un letto d’ospedale da dieci anni mi sono dovuta occupare di mio fratello. Mark non ricorda più il suono delle parole di papà, è questo è molto triste per me. Così l’educazione di Mark passò interamente a me.

All’inizio fu molto difficile, ma ora ci siamo abituati entrambi.

Quando andavo a scuola prima portavo Mark alla sua, poi mi dirigevo verso la mia.

In seguito, finita la scuola dovetti scegliere, se seguire le miei ambizioni ed iniziare l’università o pensare al bene della famiglia.

Naturalmente l’università costava  molte corone e alla fine non ero sicura che avrei trovato lavoro; così ci riflettei per bene.

Alla fine scelsi di non frequentarla, ma di mettere a fondo un mio talento: avrei fatto la fotografa.

Da piccola mio padre diceva che “avevo l’occhio”, ovvero che sapevo sempre trovare l’angolazione adatta per le foto. Mi diceva di continuo che un giorno avremmo lavorato insieme, lui avrebbe scritto gli articoli e io li avrei corredati delle miei bellissime fotografie, lui credeva in me.

Così scelsi di divenire una fotografa. All’inizio non fu facile, lo ammetto, ma in seguito le cose migliorarono, anche perchè la pubblicità mi fu fatta dagli ex-colleghi di papà, felicissimi di potermi essere d’aiuto.

Grazie a loro cominciai a collaborare con diverse riviste e giornali, rifiutandomi sempre di andare all’estero perchè non volevo lasciare da solo mark, che era solo un bambino.

Ho accettato questo ingaggio perchè sarei stata pagata il doppio e anche perchè Mark alla fine mi ha convinto che era abbastanza grande per potersela cavare da solo; gli ho dato ragione ma gli ho intimato di andare ogni giorno a trovare papà, anche se per lui è quasi un estraneo.

Questo è tutto, non ho altro da dirti >>.

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Capitolo 3
*** 2 parte ***


Aver raccontato tutta la mia storia a Belate mi fece sentire bene, era da tempo che non aprivo il mio cuore a qualcuno, dovevo ammettere che era una sensazione gradevole.

<< E su quella leggende, sul corocotta, che mi sai dire? Ammetto di avere capito poco >> gli domandai.

<< Allora, oltre a quello che le ho già detto aggiungo che secondo i Masai dall’ accoppiamento di un leone e un corocotta nasca il leucrotta, un essere muostroso, che però vivrebbe soltanto in India. Ma queste sono solo delle favole per spaventare i bambini, non c’è alcun fondamento scientifico >> terminò. Nel frattempo si era fatta notte ed iniziavo a tremare, la notte era sempre fredda, ma quella notte mi sembrò ancora più fredda, artica.

Nella mia tenda ripensai alle parole di Belate, e se aveva torto, se i corocotta e i leucrotta esistono davvero? Queste domande mi si affollarono in testa e non riuscivo ad addormentarmi.

Verso l’una risentii di nuovo la voce, identica all’altra volta. Questa volta mi alzai e uscì dalla mia tenda, non lo facevo dalla prima volta, quando le scimmie avevano organizzato quella festicciola.

Questa volta invece avanzai, illuminata solo dalla luna che splendeva luminosa in cielo.

Mi diressi verso il bosco vicino, muovendomi come se fossi in trance.

Ma non appena entrai nel bosco la voce  cessò, come per magia, lasciandomi spaventata e confusa.

Tornai più in fretta nella mia tenda, affranta e ormai decisa a scoprire da chi o da cosa proveniva quella voce. Quella voce nella foresta.

Il giorno dopo ero ancora nervosa, ma cercai di comportarmi normalmente, nessuno poteva pensare che mi stessi preoccupando di qualcosa che non poteva esistere.

Eppure mi sembrava di essere continuamente spiata, sussultavo ad ogni minimo rumore ed avevo i nervi a pezzi. Non poteva andare avanti così, dovevo fare qualcosa o sarei crollata.

La sera, dopo aver passato il pomeriggio ad esercitarmi al tiro al piattello, ero una frana, avevo colpito il piattello solo tre volte, decisi di incamminarmi verso il bosco, avrei preceduto la voce questa volta.

Ero vicina al luogo dell’altra sera quando risentì la voce. Ma questa volta era diversa: meno ammaliante, meno persuasiva, poi ne compresi il motivo ascoltando meglio: non era per me, ma per Belate!

La voce gli sussurrava che doveva correre, che ero in pericolo, che se mi avesse salvato gliene sarei stata eternamente grata.

Non so come ma il proprietario della voce aveva deciso di cambiare vittima, e così aveva scelto Belate: ignorai il perchè dello scambio, anche se ora guardando l’aurora boreale dalla finestra di casa mia l’ho compreso, o almeno intuito.

Belate infatti mi era sembrato più fragile di me, come l’avessi capito e in cosa consistesse la sua fragilità non l’ho ancora compreso. Forse per questo era risultato una vittima più facile da attirare. Qualunque cosa ci attendeva ormai ci capiva, doveva averci spiato per giorni, forse da quando eravamo giunti lì.

Vidi Belate che mi superava correndo, volevo avvisarlo, dirgli che ero lì, che stavo bene; ma dalla mia bocca non uscì nessuna parola, ero come paralizzata, paralizzata dalla paura e dalla voglia di poter vedere cosa sarebbe accaduto. Poi sentì qualcosa.

Poi con dei passi leggiadri, con la vestaglia che mi turbinava attorno sembravo una fata mi feci coraggio.

Volesse Iddio che dimenticassi subito quel che vidi, ma sento che mi perseguiterà fino alla fine dei miei giorni.

Vidi Belate che veniva squartato da un essere, aveva le zampe come una zebra; bianche a strisce nere o nere a strisce bianche, non l’ho mai capito bene; dall’estremità posteriore di esse fuoriuscivano degli artigli poco raccomandabili.

Aveva il dorso a strisce, come una zebra, ma coperto di una fitta peluria, come un carnivoro, come il leone addormentato che avevo fotografato in mattinata. La parte vicino alla bocca invece era liscia, come quella di un erbivoro, all’oscurità quella Cosa mi parve di diverse tonalità di blu, forse tutte, ma mi sbagliavo.

Le sue orecchie erano come quelle di una cane, ma più piccole.

E la faccia era come quella di una iena, un iena digiuna da giorni.

Ma fu il cucciolo che le saltellava accanto che mi terrorizzò a morte e che mi convinse che forse avevo lasciato il mondo normale per avventurarmi in quello dell’incubo.

La sua taglia era quella di un piccolo asino selvatico, con la parte posteriore di cervo, il collo, la coda e il petto di leone, la testa di tasso, gli zoccoli divisi in due parti, la bocca che si apre fino agli orecchi e al posto dei denti un osso continuo.

L’esserino presentava infatti una grande bocca che arriva fino alle orecchie, e l’aveva appena aperta.

Per un nanosecondo mi parve che avrebbe emesso un ruggito, o in ogni caso un verso che apparteneva al mondo animale.

Invece emise una risata, una risata umana, troppo umana,rideva alla luna, beffardamente, si burlava di Belate che giaceva in una pozza di sangue.

<< Sciocco, come tutti gli umani, basterai a me a mia madre per un mese, dipende quanto sei gustoso >> disse con una voce petulante da bambino, odiosa ed innaturale, quasi blasfema.

Poi gli tranciò la gola e il povero Belate esalò l’ultimo respirò.

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Capitolo 4
*** La morte di Belate Dominici ***


Belate non aveva dormito quella notte, che sarebbe stata l’ultima della sua vita. Il comportamento di Miss Gustavsson, da cui si sentiva attratto, lo sconcertava. Per tutto il giorno era stata molto tesa; più di una corda di violino, sempre pronta a scattare per un nonnulla. E sembrava che aspettasse la sera, di solito rideva e si divertiva in continuazione, mentre quel giorno era sempre assorta nei suoi pensieri e scattava poche fotografie, lei che ogni volta ne scattava tante da poter fare dieci servizi, come ironizzava.

La sera non riusciva ad addormentarsi, era roso da mille dubbi.

Ad un certo punto gli parve di sentire una voce: era la voce di Miss Gustavsson!

Uscì dalla tenda velocemente, intenzionato a raggiungerla, con il cuore in gola.

Miss Gustavsson non era nella sua tenda, e ciò lo spaventò molto.

Precipitosamente si mise alla sua ricerca, inoltrandosi nel folto degli alberi che si trovavano vicino l’accampamento

Le parve per un secondo di vederla, mentre con un passo molto simile ad una fata camminava.

La voce lo incitava a raggiungerla, lei gli diceva di andare da lei, che sarebbe stata molto felice di poter restare sola con lui; cose che emozionavano ed eccitavano Belate, che aumentò il passo.

La figura curvò verso destra, e belate, che conosceva bene la foresta andò dritto, tra un po’ avrebbe girato a destra e le avrebbe fatto una bella sorpresa. Poveraccio, non sapeva di star vivendo i suoi ultimi minuti di vita su questo mondo.

Quando stava per girare a destra sentì, improvviso e lancinante, un dolore al braccio.

Voltandosi vide due esseri muostrosi e allora sentì il terrore che lo invadeva, libero e senza freni: un corocotta e un leucrotta.

Esseri cui non aveva mai creduto, che per lui non esistevano e che erano solo frutto della superstizione e che nel XXI secolo era ridicolo crederci ora erano uno davanti ed uno di fronte a lui.

Il leucrotta, ancora cucciolo stava cercando un buon punto per poterlo uccidere, mentre il corocotta era pronto a spiccare un balzo.

Salto e lo atterrò, colpendolo alla gola; poi toccò al cucciolo, che lo colpì alla gola. Sentì il sangue che gli fuoriusciva dalla carotide, e cercò di emettere un suono, anche un sospiro, ma non vi riuscì.

Mentre il corocotta iniziava a divorarlo il leucrotta parlò. Un pensiero illuminò la mente sconvolta di Belate Dominici: erano vere le leggende: il leucrotta sapeva parlare!

Rise e poi disse alcune parole, che lui, ormai agonizzante non comprese, il suo unico pensiero era il Dolore che lo stava avvolgendo.

Non riusciva più a sopportarlo, avrebbe gridato ma sapeva che se avesse aperto la bocca il dolore sarebbe aumentato.

E poi sentì una strana sensazione, una sensazione di pace e di beatitudine e chiuse gli occhi, morendo, ucciso da qualcosa che per lui non poteva esistere.

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Capitolo 5
*** 3 parte ***


Quando il leucrotta e il corocotta iniziarono il loro pasto infernale io non ero più lì. Infatti correndo il più veloce che potevo ero tornata nell’accampamento e mi ero rannicchiata nella mia tenda. Mi ripetevo che era un sogno, che avevo sognato tutto, che la mattina avrei rivisto Belate, che quello che avevo veduto era un parto della mia fantasia.

Ma la mattina seguente, non sentendo l’ormai familiare odore del caffè mi resi conto con amarezza che quello che avevo veduto la notte scorsa era reale, e non frutto della mia mente.

Chiesi all’aiutante di Belate, un somalo di nome Serge Moussà se sapeva dov’era il suo capo. Ero infatti ben decisa a non rivelare a nessuno ciò che era accaduto quella notte, e quindi di tacere la mia vigliaccheria.

Mi rispose di non saperlo e di cominciare a preoccuparsi, Belate era sempre puntuale, doveva essergli accaduto qualcosa.

Trattenendomi replicai che anch’io ero inquieta e proposi di chiamare la polizia. Mi dette ragione, perchè quella di Belate era una famiglia agiata, e da quelle parti agiata vuol dire ricca. Ma mi consigliò di aspettare almeno fino al tramonto, infatti Belate poteva aver avuto un impegno urgente e forse già per la cena poteva essere di ritorno. accettai il suo consiglio sollevata, per poco non gli stavo per rivelare il mio segreto sulla morte di Belate e sulle voci che udivo da almeno una settimana nella foresta.

La giornata passò in uno stato di agitazione, Serge non si staccava mai dal telefono, il suo capo poteva chiamare da un momento all’altro e non voleva perdersi la telefonata.

Io invece ero all’esterno e con il mio portatile visionavo le fotografie, scegliendo quelle che avrei utilizzato per il servizio e quelle che sarebbero state eliminate.

Verso le sei del pomeriggio mi chiamò Mark. Disse solo quattro parole: << Papà si è svegliato >> e riattaccò, lasciandomi felice e con gli occhi che mi si rigavano di lacrime di felicità.

Dopo dieci anni di speranze infrante e di dolore, e di tentativi infranti mio padre, che fino a poco fa era poco più di un vegetale era tornato alla vita. So che tornato alla vita è un termine un po’ eccessivo, ma per me in quegli anni era come se mio padre fosse morto; che il suo cuore battesse ancora mi aveva lasciato indifferente. Ma ora era tutto diverso, avrebbe parlato, avrebbe camminato, avrebbe finalmente vissuto il resto della sua vita vigile, non più in stato vegetativo.

Ero così felice che entrai nella tenda con gli occhi umidi dal pianto. << Cattive notizie Miss? >> mi chiese Serge, sempre vicino al telefono.

<< No, Serge, meravigliose ed inaspettate >> gli risposi con voce rotta dalla felicità, dopo tanto tempo le miei premere erano state esaudite, e ciò mi metteva in uno stato che si avvicinava il più possibile alla beatitudine che secondo alcuni è propria degli angeli.

Per tre minuti vagai come inebita, troppa era la gioia, che non riuscivo che a pensare a quelle quattro parole che per me avevano ormai un potere quasi magico: << Papà si è svegliato >>, com’erano belle e celestiali, le parole che cancellavano come una gomma il dolore e le afflizioni che avevo patito in quei dieci lunghi anni.

Ammetto di essere  stata un po’ egoista nei confronti di Mark, che era stato presente nel momento in cui papà si svegliava dal coma, ma ero allo stesso tempo contenta che ci fosse qualcuno della famiglia con lui in quel momento cruciale.

Poi, come erano sparite tornarono l’ansia, la paura e il desiderio di raccontare tutto. Per un po’ quei pensieri erano rimasti immobili, ma poi erano tornati, e mi sembrarono più forti, tanto che temetti che quando mi avrebbero sopraffatto avrei raccontato tutto, o a Serge o ai poliziotti che avevamo intenzione di convocare.

Infatti la sera Serge prese suo cellulare e chiamò la polizia di Adis Abeba, sollecitandoli a venire; all’inizio furono riluttanti, ma gli bastò fare il nome della madre di Belate: Giselle Tayab, per farli correre. Come poi mi disse la famiglia della madre di Belate era una delle più potenti in tutta la capitale, ma essendosi ritrovati, dopo la scomparsa di Halille Selassie senza più denaro furono costretti a far sposare Giselle con Azouz Dominici, nonostante il fatto che la sua famiglia fosse tra le più emarginate; ma potevano sempre contare su un’ingente ricchezza.

Infatti già verso le nove di sera venimmo avvisati che una pattuglia ci avrebbe raggiunto almeno fra dodici ore, cosa davvero rara da quelle parti, motivata solo da due cose secondo molti: denaro e potere, i veri dei del nostro secolo che muovono tutto e sono mossi da tutto e da niente.

La notte dormì male, in perenne attesa di sentire la voce, ma stranamente non udì nulla, nemmeno un mormorio od un sospiro.

Poi venni investita da un terrore enorme: e se invece di uccidere Belate avesse preferito me? Lui mi avrebbe cercato?

Fu con questo pensiero che risvegliai, in un mare di sudore.

La mattina, verso le nove come ci avevano assicurato; quanto potere ha il denaro; giunse l’ispettore Jean-Luc Renart, fresco di nomina secondo Serge e anche totalmente incapace, vuoi per stupidità o perchè corrotto, abitudine cara da quelle parti.

Devo dire che la prima espressione non mi convinse: basso, con il pizzetto e un basco con sopra una stella sembrava una caricatura: mi sembrava uscito da un giornale satirico.

E quando iniziò a parlare ci mancò poco che scoppiassi a ridere: la sua voce era ridicola; sembrava una trombetta.

Iniziò l’interrogatorio parlando prima con Serge, o meglio aggredendolo, urlando come un pazzo, roba da spaccare i timpani.

Poi passò a me, dimostrandosi straordinariamente gentile e accomodante, ma forse lo faceva perché indossavo una T-shirt bianca che mostrava abbastanza bene il mio reggiseno, che lui sbirciava di continuo. << Deve capirci Miss, il Nostro Governo non può permettersi che una bella turista come lei rischi di essere rapita, sarebbe una catastrofe per la nostra immagine all’estero, comprende? >> blaterava da almeno trenta minuti, io mi limitava ad annuire, era da molto tempo che non lo ascoltavo.

<< Miss; cosa mi sa dire sul signor Serge Moussà? >> questa domanda mi giunse inaspettata; mai avrei sospettato Serge.

<< No, fino a due settimane fa non lo conoscevo nemmeno!!! >> urlai furiosa, come si permetteva quella caricatura di sospettare di Serge?

<< Miss, è il mio lavoro sospettare di chiunque, tranne della belle turiste >> aggiunse, con un’occhiata che mi fece accapponare la pelle, nonostante facessero 40° gradi all’ombra. Che uomo insopportabile ed odioso.

Con una scusa riusci a fargli terminare quell’odioso interrogatorio, e siccome era domenica chiamai Mark, volevo sapere di papà. Mi rispose al terzo squillo, andava tutto bene, la salute di papà faceva passi da gigante, forse fra tre giorni avrebbe ripreso a parlare correttamente. Per il momento biascicava alcune parole, e secondo i dottori era un miracolo che avesse riconosciuto subito Mark.

In quel momento papà si stava sottopendo ad una visita di controllo, ma non c’era da preoccuparsi, almeno secondo i medici.

Felice riattaccai, era ormai questione di ore prima che ritrovassero il corpo di Belate, e io ero sempre più in ansia.

Poi, verso le sei del pomeriggio lo trovarono; esattamente a come l’avevo lasciato la notte precedente. Fu Serge a trovarlo, e ciò avvalorò i sospetti dell’ispettore, che credeva che Belate fosse stato ucciso da Serge. Ignoro il movente, ma lui ne era fermamente convinto.

Infatti, verso le otto, dopo una cena che lui e i suoi uomini avevano scroccato, urlò rivolto a Serge: << Signore, siete in arresto per l’omicidio di Belate Dominici, occultamento del cadavere ed intralcio alle indagini, ci segua >>.

A nulla valsero prima l’alibi di ferro di Serge e il mio spiegare che quella notte non avevo sentito nulla, la mia tenda era vicino la sua e io ho il sonno leggero, l’avrei sicuramente sentito. Non volle ascoltarci, e si portò via Serge, ammanettato, verso Adis Abeba.

Sulle prime restai di sasso, annichilita dalla sorpresa, ma poi decisi cosa avrei fatto: avrei affrontato il corocotta e il leucrotta, l’avrei fatto per Belate; morto a causa loro, e per Serge, accusato ingiustamente.

Così, dopo aver preso una pistola mi incamminai. Questa volta non udii nessuna voce, niente di niente, evidentemente non mi aspettavano così presto.

Mentre mi avvicinavo avvertivo la loro presenza, sempre più vicina.

Infatti dopo un po’ risentii la voce, ma questa volta era meno ammaliante, più naturale.

Poi li vidi. Erano nello stesso punto dove le avevo viste ieri, sempre minacciosi, quegli orrendi mostri.

Presi la pistola e puntai, lo facevo per Belate, questo colpo sarebbe stata la sua vendetta, e per Serge, solo io sapevo che era innocente.

Per primo colpì il leucrotta, che lanciò un grido bestiale, inumano. Il corocotta, furiosa perchè avevo colpito il suo cucciolo si girò verso di me e mi vide. Colpì anche lei, ma la ferì soltanto alla zampa sinistra. Vedendo il sangue che le fuoriusciva cercò di mordermi, ma in quel momento il leucrotta iniziò a gemere. Subito l’istinto materno prese il sopravvento sulla vendetta e il corocotta si slanciò verso la sua creatura, che stava morendo.

Ne approfittai per fuggire, più veloce che potevo.

Raggiunsi l’accampamento e presi la mia roba: destinazione l’aeroporto.

Arrivata presi il primo aereo per Oslo, non intendevo restare un secondo di più in quel posto.

Il volo fu piacevole, senza soste e giunsi ad Oslo verso le sette di sera. Ad attendermi c’era Mark, con papà! felice abbracciai papà, erano anni che non lo vedevo in piedi.

Uscimmo, felici come a Natale, ancora ignari di quello che sarebbe accaduto in seguito

X kakashina97100, corretto, un errore di disattenzione, in questi giorni ho molto da fare

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Capitolo 6
*** Una scoperta del signor Tortosson ***


Alle otto, il signor Tortosson si diresse verso l’hangar dell’aeroporto, dove si trovava l’aereo arrivato mezz’ora fa da Adis Abeba, per fare rifornimento. Non appena si avvicino avvertì uno strano rumore. Non ci fece caso e proseguì. Il rumore si ripete, più forte.

Incuriositosi si avvicinò al portello dei bagagli e vi picchiò forte. Il rumore parve rispondergli. Ormai vinto dalla curiosità aprì il portellone.

Quello che vide lo paralizzò: una belva che non aveva mai visto gli saltò al collo e lo divorò con un sol boccone.

“ E così che devo morire, inghiottito da un mostro? ” pensò mentre il corocotta lo divorava. Non sentiva più nulla, solo un vago terrore, che stava sparendo. IL corocotta digerì il povero Tortosson, la sua vendetta poteva iniziare.

 

X kakashina97100, spiegazione molto semplice, ovvero mammina ha avuto la (buona?) idea di darsela a gambe, mentr eil piccolino è rimasto

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Capitolo 7
*** 4 parte ***


Ero a casa con papà e gli mostravo le fotografie che avevo scattato. Lui era ancora più indeciso di me, gli piacevano tutte, non ne voleva scartare nessuna, mentre Mark era molto più esigente di tutti e due, era spietato; questa si, questa no, forse, se avessi usato un altro obbiettivo... .

Poi papà vide una foto che avevo fatto a Belate e a Serge. << Conosco questo tipo, l’ho visto da qualche parte >>.<< Dove papà? >> insistette Mark. << Dieci anni fa, quando dovevo scrivere l’articolo sull’anniversario della scomparsa del re, e ne ho approfittato per andare a trovare lo zio Sigurd >>. Lo zio Sigurd, fratello di nostra madre viveva da almeno trent’anni in Africa, come diplomatico. << E’ mi disse che aveva un nipote, cugino di sua figlia, che si chiamava Belate Dominici, e che… >> papà parlava, perso per via delle rimembranze ed io non l’ascoltavo più, sorpresa ed inebetita da quella rivelazione: io e Belate eravamo imparentati, anche se alla lontana!

Questo spiegava molte cose, che prima mi erano oscure. E capivo anche una cosa: il corocotta per un motivo, che ignoravo e che ignoro tutt’ora, ce l’aveva con la nostra famiglia. A questo pensiero ne seguì uno peggiore: papà e Mark erano in pericolo, ma come avvisarli? Questa domanda mi vorticava nella testa.

<< Allora Gertie, hai sentito, che coincidenza, eh? >> Mark per fortuna interruppe il mulinare dei miei pensieri. << E già, ma è tardi, tu domani devi andare a scuola, io a consegnare le foto scelte, e papà deve riposare, quindi a letto >> << Ho dormito dieci anni, non voglio dormire per altri dieci! >> mi rispose mio padre dalle scale, gli ordini dei medici erano chiari, doveva riposarsi, il suo era un caso eccezionale, e doveva essere controllato ventiquattro ore su ventiquattro, otto giorni su sette.

A letto ripensai a cosa fare e decisi: con la mente stanca del viaggio non avrei risolto nulla, dovevo pensarci domani a mente fresca. Fu con questo pensiero che mi addormentai, sognando il corocotta, Belate, mio padre e… .

Il giorno dopo portai Mark a scuola e papà all’ospedale, poi mi diressi verso il centro città, dove si trovava la sede del ” National Geographic ”.

Questa volta non feci anticamera, non appena pronunciai il mio nome mi fecero entrare nel ufficio del signor Ansem.

Oggi portava una camicia rosa che sembrava sul punto di rompersi da un momento all’altro. E gli occhiali erano ancora più a fondo di bottiglia, insomma non era al massimo della forma. Mi fece sedere sulla stessa sedia dell’altra volta mi chiese di fargli vedere le fotografie che avevo selezionato. Le osservò tutte, una per una, sempre più lento, implacabile.

Io nel frattempo tremavo, e se non gli fossero piaciute le miei foto? O se avesse voluto rimaneggiarle al computer? Insomma ero in piena crisi, come quando ad un esame l’esaminatore prima di parlarti spulcia la tua scheda personale, e poi ti guarda con uno sguardo che sembra voler dire “ conosco tutto di te, tutti i tuoi segreti ”. Ecco, era così che mi sentivo.

<< Allora, le piacciono le mie foto, signor Ansem? >> chiesi emozionantissima, se mi diceva no probabilmente avrei avuto un attacco isterico.

<< Allora, Gertie, le foto sono molto belle, si vede che ti sei impegnata, ma francamente me ne aspettavo di più. Ma anche queste vanno bene; conosci le regole, verrai pagata quando uscirà il servizio, ovvero fra due settimane; puoi andare >>.

Abbastanza felice di averla scampata abbastanza bene lasciai il suo ufficio e mi diressi al supermercato, infatti Mark aveva fatto la spesa solo una volta in due settimane.

Mentre uscivo dal supermercato carica di buste per la spesa per poco non svenni: il corocotta era ad Oslo. In verità l’avevo visto tramite un lunotto di una macchina e quando mi girai, tremante, non vidi nulla. Attribuì questa mia immaginazione, allora lo credevo, alla stanchezza ed alla tensione.

Ad un incrocio, mentre attendevo il mio turno mi parve di rivedere il corocotta, e questa volta pensai che non poteva essere un allucinazione. Ma quando guardai di nuovo in quella direzione scorsi solamente una vecchia signora con il suo cane, un carlino.

Dopo essere tornata a casa andai a riprendere papà all’ospedale, e siccome era sabato, andammo tutti e due a d aspettare Mark, che usciva prima.

Mentre mettevo nel retro della mia macchina lo zaino di mark rividi il corocotta, e questa volta ne fui sicura: mi stava seguendo. Il tempo di chiudere il bagagliaio ed era scomparso di nuovo.

Mentre guidavo riflettevo sulla terribile situazione in cui mi ero cacciata. Una volta era un caso, due una coincidenza, tre è un fatto reale. Quindi il corocotta, che voleva vendetta per la morte del leucrotta mi aveva seguito e mi pedinava.

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Capitolo 8
*** Scoperta della signora Andersen ***


La signora Andersen era anziana, aveva almeno 80 anni. La signora Andersen aveva un cane, Percy, un carlino. La signora Andersen stava tornando a casa dalla passeggiata quotidiana con Percy al guinzaglio. Insomma, per la signora Andersen andava tutto bene, finchè non sentì quel rumore. All’iniziò le sembrò il rumore di un tombino, ma poi ripensandoci le sembrò quello di un cassonetto buttato all’aria. Si insospettì, e volle andare a curiosare. Dentro di sé pensava che fossero tornati i bei tempi, quando ancora giovane lavorava in polizia, era stata una delle prime donne poliziotto, la signora Andersen, e ne andava fiera.

Quindi girà l’angolo, portando con sé un riluttante Percy, che stava facendo di tutto per svicolare ed allontanarsi. Alla fine, prendendolo in braccio la signora Andersen l’ebbe vinta contro Percy, che però continuò ad uggiolare spaventassimo e terrorizzato.

Quello che i due occhi umani e i due occhi canini videro fu qualcosa che paralizzò entrambi per lo spavento. Un mostro, che assomigliava vagamente ad un cane si stava avvicinando a loro. L’essere iniziò a parlare e disse qualcosa. La signora Andersen, come in trance, lasciò Percy a terra e si avvicinò. Percy ne approfitto per fuggire, il più velocemente che gli fosse consentito dalle sue piccole zampine. La signora Andersen, nel frattempo aveva fatto dei piccoli passi verso quel mostro, ma si muoveva come se fosse sotto ipnosi, e si stava ancora avvicinando. Quando fu a poco meno di tre passi dal corocotta si fermò. Il corocotta si acquattò, pronto a saltare sulla sua preda. In quel momento la signora Andersen sembrò risvegliarsi dalla trance. Vedendo ciò che aveva di fronte urlò e cercò di fuggire come Percy.

Ma la poverina si era riavuta solo all’ultimo momento.

Infatti, non appena fini di formulare questo pensiero e aprì la bocca per chiedere aiuto il corocotta aprì la sua bocca.

E la ingogliò tutta in un sol boccone, lasciando sul gelido asfalto del vicolo dove si trovava soltanto le scarpe rosse della signora Andersen, che iniziava a digerire.

Ora che era sazia poteva ricominciare a cercare, a cercare quella maledetta donna che le aveva ucciso il suo cucciolo, il suo bel cucciolo. Si incamminò.

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Capitolo 9
*** 5 parte ***


Erano passate tre settimane da quando avevo creduto di aver visto il corocotta, ed era sera.

Stavamo cenando con il cibo cinese che avevo ordinato in un ristorante vicino casa.

Mentre stavo mangiando il mio terzo raviolo al vapore mi parve di sentire un ululato. Si ripeté, ma più forte e più vicino.

Domandai a mio padre cosa potesse averlo prodotto. << Deve essere il cane dei vicini >> mi rispose. << Ma il cane dei Joerseon è anziano, e poi i Joerseon abitano alla nostra sinistra, non alla nostra destra >> aggiunse Mark. << Allora vuol dire che qualcuno alla nostra destra ha comprato un cane che ulula alla luna. Scoperto il mistero >>. Le parole di papà, se convinsero Mark, non convinsero me, mentre un terribile pensiero si faceva strada nella mia mente; al principio lento, poi sempre più veloce: era qui! Il corocotta era qui! Sapeva dove abitavo, sapeva di Mark e di papà. Per un secondo mi dimenticai di respirare, agghiacciata dal terrore.

Dopo mezz’ora, mentre papà e Mark stavano guardando la TV, io mi stavo facendo una doccia. Da quando ero piccola, ogni volta che ero preoccupata, in ansia o spaventata, mi facevo una doccia la sera, per cacciare i cattivi pensieri.

E quella sera ne avevo davvero bisogno. Per un secondo mi parve di sentire raspare alla porta, come se un cane stesse bussando. Poi il rumore cessò.

Mentre mi insaponavo i capelli lo risentì, e questa volta nitidamente. Il corocotta, fu il mio primo pensiero, ma dopo un po’ lo rimossi, non sarebbe stato nella sua natura, mi aveva teso una trappola per quasi una settimana, ossessionandomi; non avrebbe mai osato avventurarsi in un attacco prima di conoscere tutti i suoi avversari.

Sentì Mark dal basso che diceva: << Vado a vedere cos’è >> Cercai di urlargli di no, di non farlo. Mark aprì la porta nel momento in cui io, avvolta nel mio accappatoio uscivo dal bagno. La porta si spalancò… .

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Capitolo 10
*** 6 mesi dopo ***


<< E questo è tutto dottore, ecco come mio padre è morto, ma Mark no, Mark è ancora vivo >>.<< Ma Gertie, sono sei mesi che cerco di fartelo capire, Mark è morto quella sera, con tuo padre, li hai massacrati con un coltello da cucina; ma perchè dici sempre che tuo fratello è vivo? >> << Perchè lui e vivo, il corocotta lo ha risparmiato >> << Perchè? >> << Non lo so, e non voglio saperlo >> <> Mi chiusi in un mutismo eloquente, non avevo risposte a quella domanda, non l’avevo prevista. << bene, puoi andare >> il dottore iniziò a scrivere qualcosa su un foglio.

Io d’altra parte, accompagnata da due infermieri tornai nella mia stanza.

Ora che sono sola cerco di rimettere insieme i cocci di quella notte. Ricordo il corocotta che si slanciava su Mark e lo uccideva, senza però divorarlo.

Poi fu il turno di mio padre, che subì lo stesso destino di Mark.

Io nel frattempo mi ero chiusa in bagno, a doppia mandata.

Dopo tre tentativi di sfondare la porta il corocotta desistette, si slanciò verso la finestra, ruppe il vetro in mille pezzi e fuggì nella notte. Per un po’lo seguì, grazie alla sua pelliccia blu elettrico.

Successivamente scesi in salotto, volevo vedere i loro corpi.

Sicuramente i vicini avevano sentito dei rumori, e forse avevano chiamato la polizia, o erano in procinto di farlo. E i poliziotti non mi avrebbero mai creduto, come credere che un mostro africano mi dava la caccia da quasi due mesi, e che per potermi avere aveva ucciso Belate, mio fratello Mark e mio padre?

Non restava che una cosa da fare, era orribile, ma sapevo di doverla fare, per poter sopravvivere, almeno io.

Mi diressi verso la cucina. Giunta, aprì il cassetto dove tenevo le posate e presi un coltello.

Sapevo quello che dovevo fare, quindi chiamai a raccolta tutto il mio coraggio.

Per primo scelsi Mark. Lo guardai, ormai cadavere, gli chiusi gli occhi e colpì. Colpì più forte che potevo, dovevo fargli male, doveva uscire del sangue, tanto sangue, per primo lo colpì al collo, recidendo la giugulare, facendo sprizzare il sangue, che colò a fiotti.

Poi iniziai a colpirlo anche in altre parti del corpo, per simulare un attacco di furore omicida.

Finito con Mark fu il turno di papà. Per lui adottai un modus operandi diverso.

Infatti trafissi per primo il suo cuore, per dare l’illusione che lo avessi pugnalato mentre mi abbracciava. Nel suo caso le ferite furono di meno rispetto a Mark, ma inferte con maggior ferocia, come se ormai mi fossi abituata al sangue e ne volessi di più.

Dopo aver osservato quello che avevo fatto ed aver chiuso gli occhi anche a papà mi misi a riflettere.

Decisi allora il mio comportamento: mi sarei comportata come una pazza, se fossi stata abbastanza convincente da riuscire ad ingannare tutti forse sarei finita in un ospedale psichiatrico, con le sbarre alle finestre, così il corocotta

 non mi avrebbe potuto uccidere. Sorrisi tra me e me, il mio piano era geniale, non restava altro da fare che metterlo in pratica.

Andai in bagno e lavai il coltello, ma non a fondo, e lo rimisi al suo posto.

Successivamente indossai una minigonna grigia ed un maglione azzurro di lana.

Andai nel garage e presi la macchina, dovevo comportarmi come se quella serata fosse normale. Come se mio padre e mio fratello, che mi erano cari quasi più della mia vita, fossero ancora vivi, come se il corocotta non me li avesse portati via per vendicarsi, come se io non avessi infierito sui loro cadaveri nel tentativo di evitare la morte che il corocotta aveva cercato e cercava di darmi.

Decisi di andare in discoteca, era il posto più insospettabile in cui mi avrebbero cercato, e poi avevo una parte da interpretare, quella della psicopatica che in un impeto di rabbia aveva massacrato il fratello e il padre. Mentre ero in macchina aggiunsi un ulteriore dettaglio, avrei raccontato di non ricordare nulla, di aver rimosso tutto non appena li avevo visti morti.

Ora il mio piano era perfetto, mi dissi mentre scendevo dalla mia macchina e mi dirigevo verso la discoteca. Erano le dieci e mezzo.

Ballai e bevvi diversi drink fino a mezzanotte, quando come Cenerentola uscì e risalii in macchina; destinazione: casa!

Nonostante a quell’ora per le strade di Oslo non ci fosse traffico arrivai a casa che era l’una passata,a causa dei numerosi semafori rossi in cui ero incappata.

Ancora non era arrivata la polizia,ma sentivo che era questione di minuti.

Avevo ragione, infatti per le due meno un quarto sentì bussare alla porta.

Non aprì, ma andai in bagno e mi diedi una sciacquata, era ora che il sipario si alzasse e che io recitassi la mia parte, mi dissi. Che lo spettacolo inizi.

E la festa iniziò, precisamente alle due meno dieci, quando i poliziotti stufi di suonare a vuoto sfondarono la porta.

<< Oh mio Dio! >> urlarono alcuni vicini, entrati per curiosare, quando videro i corpi di mio padre e di Mark.

Era il momento di entrare in scena, mi dissi, mentre ero in cucina.

<< Fate piano signori, perchè mio padre e mio fratello dormono, io sono appena rientrata >> dichiarai agli agenti stupefatti e ai vicini terrorizzati che mi fissavano come se fossi pazza.

Era lo sguardo che volevo, volevo che mi credessero pazza, che si convincessero fin nel profondo, volevo convincermi anch’io di esserlo, solo che non ci riuscivo.

<< Ma che cosa è accaduto qua entro? >> urlò uno dei poliziotti fissandomi. Mantennii il mio aspetto esteriore, mentre avrei voluto urlare la verità.

Fu tutto relativamente veloce, quasi irreale.

Dopo un po’ giunsero alla conclusione che potevo essere una testimone e che lo shock mi aveva cancellato dalla memoria il fatto delittuoso, come disse la vedeva Foeser.

Mi portarono prima in ospedale, nella remota eventualità che fossi stata ferita, poi alla centrale di polizia.

Fu in quel momento che tremai, e se mi avessero sottoposto al test della macchina della verità?

Non mi ero mai allenata a mentire e temevo che mi avrebbero smascherata in fretta.

Per mia fortuna non volevano farlo, altrimenti sarei stata perduta.

Giunti a destinazione mi fecero sedere su una sedia pieghevole e mi offrirono del caffè che bevvi bollente.

Poi, nonostante il caffè mi raggomitolai su un divano e chiusi gli occhi.

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Capitolo 11
*** L'interrogatorio ***


Mi risvegliai verso le otto di mattina. Seppi qual era l’ora perchè fu la prima cosa che vidi con i miei occhi assonnati, l’orologio, rotondo e grande, rosso con le lancette blu.

Mi alzai, per un momento sorpresa di non trovarmi nel mio letto, ma poi mi ricordai quello che era successo la notte prima. Fu terribile, i ricordi entravano prepotentemente e si sovrapponevano fra loro, creando un incubo che sarebbe piaciuto ad un regista di film horror.  Li sentivo pigiare e pigiare all’interno della mia testa, volevano entrare tutti nello stesso momento e alla fine non entrava nessuno. Forse era meglio così, non ricordare.

<< Gertude Gustavsson?> > sentì una voce che mi chiamava.

<< Si, sono io >> risposi con aria sognate.

<< Mi segua >> mi sentì dire << nel mio ufficio >>.

Camminai in trance, o come se stessi sognando fino ad una porta. Sulla porta vi era una targhetta, vi lessi: “ commissario B. Sorenson ”. Quindi sarebbe stato lui ad interrogarmi. Sempre con aria sognante aprì la porta.

Il commissario Sorenson mi aspettava seduto alla sua scrivania.

Era alto, sulla trentina, biondo con gli occhiali da sole, così non vidi mai i suoi occhi.

Con un gesto mi fece capire che voleva che mi sedessi. Lo accontentai, per così poco.

<< Allora, Signorina Gustavsson, cosa può dirmi di quello che è accaduto la scorsa notte a casa sua? >>

Sapevo che questo momento sarebbe venuto, prima o poi. Riuscì ad evitare quella domanda affermando che non ricordavo nulla, un modo un po’ squallido per prendere tempo, lo ammetto.

Mi prepari spiritualmente, pronta a rispondere a tutte le domande che mi avrebbe posto.

Le prime furono di ordine generale, che lavoro facevo, la mia famiglia, ecc… .

Poi, proprio quando stavo iniziando a rilassarmi il commissario mi rifece quella domanda, facendomi gelare, nonostante fino ad un minuto prima sentissi caldo.

Poi decisi, avrei raccontato la verità, mi avrebbe sicuramente preso per pazza; cosa che puntualmente accadde nel momento in cui vuotai il sacco su quello che era capitato.

Per tre secondi mi guardò come se fossi impazzita, poi chiamò uno dei suoi agenti e gli disse di riaccompagnarmi a casa e di avvertirlo quando i risultati dell’autopsia e della scientifica sarebbero arrivati.

Così tornai a casa mia, scortata da due agenti con cui non scambiai una parola per tutto il tragitto.

Tornata a casa preparai una valigia, ci misi dentro alcuni vestiti e il necessario, sapevo che sarebbe passato molto tempo prima che avrei rivisto casa mia. Terminata la valigia scesi di sotto, presi il violino, che tenevo in una custodia e suonai quello che per tutti era il mio cavallo di battaglia,  il Notturno opera 9 numero 2 di Chopin.

Mentre suonavo mi sembrava di dire addio alla casa dove avevo vissuto per venticinque anni, e più penso a quel ricordo più divento triste e bagno di lacrime questi fogli.

Non dovetti attendere molto, verso le nove di mattina sentì la volante della polizia e il campanello suonare.

Fingendo una calma che non avevo aprì la porta, << Cosa posso fare per lei, agente? >> << E’ lei Gertude Gustavsson? >> << Si agente, sono io >>> << Allora le devo comunicare che lei è in arresto per il duplice omicidio di primo grado di Gustav Gustavsson e di Mark Gustavsson, rispettivamente suo padre e suo fratello, mi segua >>. Non fiatai e lo seguì.

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Capitolo 12
*** L'arresto ***


Venni portata in commissariato, senza clamore, come se il mondo intero avesse deciso di dimenticarmi. Lì il commissario Sorenson mi interrogo per tre ore, sicuro che prima o poi avrei confessato. Quando si accorse che non cambiavo mai la mia versione dei fatti si spazientì e fece una telefonata. Risultò poi che la telefonata era stata fatta per ottenere i risultati dell’autopsia e della scientifica, in modo da poter avere delle prove da sbattermi in faccia. Dopo tre minuti un agente aprì la porta portando delle foto.

Il commissario me le mostrò più volte, sperando che mi tradissi, ma niente, io continuavo a confermare la mia versione, secondo cui mio padre era stato ucciso e Mark era ancora vivo. Tentando il tutto per tutto il commissario dichiaro che avevano trovato le mie impronte sull’ arma del delitto

<< Vorrei ben vedere commissario, il coltello è mio, lo uso ogni giorno, sarebbe stato strano se non vi avessero trovato le mie impronte, non il contrario >> risposi, cercando di restare calma.

Dopo quell’affermazione il commissario perse la pazienza e ribadì che ero accusata di un duplice omicidio, che non avevo un alibi e che se fosse stato per lui mi avrebbe condannata all’ergastolo; ma siccome ero pazza, usò proprio questa parola, sarei semplicemente stata ricoverata in una struttura specializzata in casi come il mio. Compresi che mi avrebbero internata in un ospedale psichiatrico specializzato in criminali.

Per un secondo restai annichilita; non della paura o dal terrore come credette il commissario, ma per la troppa felicità, sarei stata finalmente al sicuro, il corocotta non mi avrebbe potuto uccidere.

<< Ci segua >> mi disse il commissario, alzandosi. Obbediente come una bambina lo segui.

Fu così che presi posto in una volante della polizia che mi avrebbe condotto alla mia nuova casa, l’ospedale psichiatrico.

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Capitolo 13
*** Degenza ***


Ora sono qui, in una clinica vicino Hammerfest, nel nord del Paese. Ogni giorno mi interrogano, certi che prima o poi crollerò e confesserò tutto, ovvero il duplice omicidio. Ma non sanno che ho confessato già tutto quel giorno di sei mesi fa, al commissario Sorenson. Io mi sento a posto con la mia coscienza, anche se a volte di notte, nel mio letto, penso di star pagando un prezzo troppo alto per la mia salvezza. Allora ripenso all’aspetto muostroso del corocotta e mi dico che no, il prezzo è giusto, e almeno io sono viva, e che qui lui non mi potrà mai uccidere.

Durante l’ora d’aria vado fino al mare e lo fisso, seduta su uno scoglio, assorta. Il mare sembra attirarmi, delle volte mi sembra di sentirlo mentre mi sussurra di unirmi a lui, di saltare e di terminare così la mia vita. In quei momenti guardo le onde agitate, con il malcelato desiderio di unirmi a loro, di diventare anch’io schiuma di mare, di non pensare a nient’altro, solo la volontà di annegare resta.

Poi queste fantasticherie terminano bruscamente come sono iniziate e io torno nell’ospedale, pronta a nuovi interrogatori.

Va avanti così da quattro mesi, e presumo che continuerà fino alla fine dei miei giorni. Vogliono la mia confessione, ebbene io l’ho già data, non è colpa mia se non è quella che si aspettavano.

La notte, dopo che è stato dato il segnale del coprifuoco io mi siedo sul letto e osservo. Osservo quel poco di mondo che posso vedere dalla mia finestra. Anche se ha le grate è un ottimo osservatorio per poter scorgere il mondo che mi circonda.

Ciò che più cattura la mia attenzione, in questi giorni, è il sole di mezzanotte. Posso restare ore a guardare il sole che non tramonta e che mi ricorda l’eternità , l’eternità della mia prigionia. A volte, solo dopo l’una di sera smetto di osservarlo, chiudendo le tapparelle e mettendomi a letto, pronta a dormire. E’ stato il sole di mezzanotte a convincermi a scrivere queste pagine, siccome ho l’eternità di fronte a me non avevo alcun motivo per non iniziare a raccontare la mia storia.

Anche ora, mentre scrivo lo osservo, calmo placido e tuttavia scrutatore severo nel cielo.

Ora che sento di essere quasi alla conclusione chiudo gli occhi e cercò di ricordare.

E rivedo i loro visi: Belate, morto per colpa mia, Serge, accusato ingiustamente di un omicidio mai commesso, mio padre, morto perchè non ho parlato, e Mark, per cui avevo accettato la proposta del signor Ansem, per fargli avere un futuro migliore.

Non sono potuta andare al loro funerale, perchè il giorno in cui sono stati seppelliti è stato il giorno in cui io sono giunta nell’ospedale psichiatrico, in quella che ora è, e per lungo tempo sarà la mia casa.

Non passa giorno in cui non pensi a loro, anche se fingo una suprema indifferenza ogni volta che i dottori mi parlano di loro. Nonostante tutto continuò ad insistere nella mia versione dei fatti, che ho modificato solo leggermente in questi mesi.

Ho infatti dichiarato che solo mio padre è stato ucciso, ma non Mark. Ogni volta dichiaro, convinta come se fosse il primo giorno che Mark è ancora vivo. Anzi da qualche giorno ho annunciato che non solo mio fratello è sopravvissuto, ma che si trova con me, ad Hammerfest. Ricordo ancora lo sguardo allucinato dei dottori e degli infermieri, che sicuramente pensano che sia una pazza incurabile. Che lo pensino pure, non mi importa, non mi importa più cosa pensano di me.

E quando uno di loro mi ha domandato dove credevo che fosse Mark ho replicato d’istinto, velocemente, così che non possano pensare che menta: << Che domande dottore! Mark è qui con me, ad Hammerfest, è nella camera accanto alla mia. Lo vedo e parlo con lui ogni giorno >>.

Ciò li ha terrorizzati e subito dopo mi hanno fatto tornare nella mia stanza. Sicuri che avessi parlato con qualcuno nei giorni successivi mi hanno cambiato stanza, isolandomi dagli altri pazienti. Poco male, non ne conosco nessuno, non parlo mai con loro, so a malapena i loro nomi e il perchè sono finiti qui.

Devo dire che la cosa mi è indifferente, sommamente indifferente.

A volte la sento, specialmente quando dormo, risento la vice del corocotta che mi chiama, come in Africa.

Allora mi rilasso e conto fino a dieci, sicura che la voce non esiste , che la sento solo nella mia testa. Voglio convincermi anch’io, e sento che per raggiungere questo risultato mi occorreranno molte forze e una grande volontà.

Già, la voce, la causa di tutte le nostre sventure. quella voce suadente che speravo di non sentire più. quella voce che mi ha portato via mio padre e il mio adorato fratellino Mark.

Quella voce che veniva da un essere immondo dell’Africa , quella voce che mi ha stregato, quella voce nella foresta.

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