Il ladro e il gentiluomo di cabol (/viewuser.php?uid=15027)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il gentiluomo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 1 *** Il gentiluomo ***
Capitolo uno: il gentiluomo
Elosbrand[1], Yavios[2] 11, 370 ore 6
del mattino
«No, signore, non così! Potreste cader…».
Il giovane gentiluomo ruzzolò al suolo prima che il maestro potesse
terminare la frase.
Era snello, quasi esile, di altezza media e dell’apparente età di
vent’anni. Il volto era decisamente attraente, dai lineamenti delicati,
con due occhi grandi dal taglio vagamente a mandorla, vivaci, di un
profondo colore verde. Portava due baffi sottili, secondo la moda
diffusa fra i gentiluomini di allora. La folta chioma nera gli ricadeva
fin quasi sulle spalle. Vestiva semplicemente, con una camicia di seta
bianca, un paio di pantaloni di pelle nera e stivali dello stesso
colore. Indossava un giubbetto imbottito da allenamento per poter
tirare di scherma più tranquillamente. Pur sbilanciato, era riuscito a
correggere la sua caduta, riuscendo a sdraiarsi dolcemente al suolo e
dimostrando cosa potevano fare i suoi muscoli affusolati.
«Per gli Dei! Non riuscirò mai a maneggiare decentemente
quest’affare!».
Il giovane guardava tristemente lo stocco che, dopo essergli sfuggito
di mano, era rotolato giù dalla pedana.
«Sono certo di sì, milord, lo farete quando avrete compreso che l’arma
che avete in mano deve essere usata in un altro modo. Un modo,
peraltro, assai più consono alle vostre capacità».
Il maestro aiutò il gentiluomo a rialzarsi, sorridendo sotto i folti
baffi.
Era un uomo imponente, alto snello e muscoloso, a dispetto dei suoi
cinquantacinque anni e spiccioli, vestito semplicemente ma con gusto,
come si addiceva alla sua professione. I capelli, che portava corti,
erano spruzzati di grigio e cominciavano a rarefarsi sulla sommità del
capo. Il volto aperto e gioviale era incorniciato da una lunga e folta
barba, accuratamente intrecciata. La sua presa, ferma e vigorosa,
permise al giovane di rimettersi rapidamente in piedi. Le maniche
arrotolate scoprivano due braccia robuste, segnate da molte cicatrici
che tradivano un passato certamente più movimentato del presente.
«Lo stocco è un’arma gentile, leggera. Non può essere maneggiato come
un’ascia o uno spadone. Quest’arma è tutt’altra cosa. Come, d’altronde,
voi siete profondamente diverso dalla maggioranza degli uomini d’arme».
Il maestro, alto quasi una testa di più, guardava intensamente
l’allievo, mentre parlava. Il giovane gentiluomo scese dalla pedana per
recuperare la spada. Un sorriso divertito comparve sul volto
dell’esperto istruttore, mentre osservava i movimenti eleganti
dell’altro.
La stanza d’allenamento era ampia, rettangolare, rischiarata da alcuni
candelieri a più braccia posti vicino alle pareti. Al centro spiccava
la pedana rialzata sulla quale si svolgeva la maggior parte degli
allenamenti. L’unica porta della sala era su una delle pareti corte
mentre due alte finestre chiuse da preziose vetrate e parzialmente
coperte da pesanti tendaggi azzurri erano sul muro lungo, alla sinistra
dell’entrata. Addossate alla parete di fondo c’erano alcune
rastrelliere cariche di armi di vario tipo. Fra queste si potevano
contare possenti asce e affilate scimitarre, spade lunghe e corte,
stocchi e persino due enormi spadoni. Il muro dirimpetto alle finestre
era decorato con preziosi dipinti che ritraevano duelli e battaglie.
«Dovete imparare a conoscere e apprezzare le vostre doti, che sono
tante, e accettare e gestire i vostri limiti, che sono pochi, ma ci
sono».
Il maestro raggiunse il giovane, scendendo con movenze eleganti la
piccola scala di legno che portava al pavimento, un metro più in basso.
«La vostra agilità è fuori del comune, credetemi, ma difettate in
potenza: d’altronde raramente queste caratteristiche riescono a
coesistere. Dovete fare affidamento sull’intelligenza, sulla velocità e
sulla precisione. Evitate di accettare uno scontro basato solo sulla
forza fisica perché non avreste molte speranze di cavarvela. Inoltre,
cercare di potenziare la vostra muscolatura andrebbe a scapito
dell’agilità. Forse eliminerebbe un punto debole ma sacrificherebbe la
vostra dote migliore. Se avrete la costanza di seguirmi, io credo che
abbiate le potenzialità per diventare un duellante straordinario».
Come per mostrare cosa intendeva dire, con un colpo preciso dello
stocco spense una candela del candeliere accanto a lui senza farla
nemmeno vacillare. L’allievo tentò di imitarlo col risultato di spedire
una candela dall’altro capo della stanza e spegnere le altre. I sottili
baffetti alla moda si torsero verso il basso, in una smorfia di
disappunto. Lentamente raggiunse la candela e la riportò al candeliere.
Quella parte della stanza era piombata in un’oscurità quasi totale ma
il giovane si muoveva come se fosse in piena luce. Pareva che avesse
mutuato dai gatti anche la vista, oltre alle movenze.
«Ahimè, sembra facile… ma se affronterò un avversario armato di spada,
mi farà a fette…».
Il gentiluomo, evidentemente avvilito, si grattò il capo e si aggiustò
il giubbetto imbottito. Il maestro riaccese le candele e si girò verso
di lui per guardarlo negli occhi.
«Dovrà prendervi, prima. E non sarà affatto facile, credetemi».
Si voltò sorridendo verso la pedana di allenamento e ci balzò agilmente
sopra. Poi indicò la scala al giovane allievo che la ignorò e saltò
accanto a lui con l’eleganza di un acrobata.
«Ora, se non vi dispiace, ricominciamo. In guardia!».
L’allievo, un po’ titubante, riprese posizione di fronte a lui, si
ravviò i capelli arruffati, guardò con espressione sospettosa
l’elegante impugnatura dello stocco, poi sollevò l’arma. Quel mattino
avrebbe fatto numerosi viaggi su e giù dalla pedana.
Un’ora dopo, mentre il primo chiarore dell’alba tingeva il cielo di
rosa e scacciava la foschia che, come ogni notte, aveva riempito le vie
della città, il giovane gentiluomo uscì furtivamente dalla porta
posteriore della scuola d’armi, avvolto in un mantello nero e con il
capo coperto da un cappello a tesa larga dello stesso colore del
mantello, ornato da una grande piuma nera. Sparì nell’ombra dei vicoli,
rapido e silenzioso come un gatto, seguito dallo sguardo sorridente del
maturo istruttore.
Douglas Fairblank era un uomo di non comune intelligenza, nonché il più
apprezzato maestro d’armi di Elosbrand. Era stato un avventuriero di
qualche fama, in gioventù, poi, dopo un increscioso scontro con uno
stormo di viverne dal quale si era salvato a stento (ma con un notevole
bottino in pietre preziose), aveva scelto di ritirarsi per
intraprendere la carriera, certamente più anonima e meno remunerativa
ma decisamente più salubre, di istruttore. Le sue maniere affabili e la
sua competenza lo resero rapidamente assai ricercato, soprattutto fra
le classi più abbienti della città, cosa che gli aveva permesso di
aumentare la sua già discreta agiatezza.
Quando l’abile istruttore si rese conto di essere oggetto di autentiche
contese fra i ricchi gentiluomini che ambivano di diventare suoi
allievi, decise di essere arrivato al punto di potersi permettere di
selezionare la propria clientela. Da allora scelse di addestrare solo
coloro che gli davano ampie garanzie di poter diventare formidabili
combattenti, indipendentemente da quanto potessero offrigli come
compenso. Questa scelta lo rese ancora più ricercato: essere suoi
allievi era diventato ormai garanzia di poter raggiungere i migliori
risultati dell’arte schermistica.
In quegli anni aveva addestrato fior di guerrieri e di mercenari, molti
dei quali si erano distinti in numerosi tornei. Così ora si chiedeva
come mai avesse accettato di istruire all’arte della spada quel Lord
Bailey Windström che pareva quanto di più lontano ci potesse essere
dall’idea comune di combattente.
Ma Douglas Fairblank sapeva non farsi ingannare dalle apparenze. Aveva
sempre avuto l’abitudine di conversare molto con i suoi allievi e negli
ultimi anni aveva accentuato la sua ricerca del dialogo perché sapeva
bene che le doti fisiche non erano la caratteristica più importante per
un vero spadaccino. Occorreva molto di più.
Aveva già rifiutato dozzine di aspiranti allievi simili a quello. Non
aveva grande simpatia per chi appariva troppo damerino e ricercato nei
modi. Secondo lui, un tipo con quelle movenze da perfetto gentiluomo e
quel fisico esile era più adatto alla danza che alle armi. E poi quel
ragazzo aveva alcuni gravi difetti d’impostazione. Chi l’aveva istruito
alla scherma doveva essere abituato all’uso di spade lunghe e asce,
armi che soprattutto richiedevano forza fisica per essere adoperate al
meglio, dunque inadatte per quel mingherlino. C’era tanto da fare per
correggere quei difetti che potevano essere veramente pericolosi.
Ma qualcosa lo aveva incuriosito in quel giovane. Appariva pigro e
sofisticato quando si trovava in un salotto ma sulla pedana pareva
trasformarsi. Una formidabile determinazione lo portava a eseguire
esercizi massacranti e ripetizioni di movimenti che avrebbero stancato
chiunque non avesse avuto ottimi motivi per diventare un perfetto
spadaccino. E Douglas Fairblank sapeva benissimo come la volontà fosse
il requisito essenziale per imparare.
Ma non era solo questo.
C’era, attorno a quel gentiluomo, un’aura di mistero, qualcosa che lo
rendeva particolare e incuriosiva oltremodo il maestro d’armi. Non
tanto l’assoluta segretezza con la quale si recava a prendere lezione
da lui a quell’ora antelucana: non era la prima volta né sarebbe stata
l’ultima che un gentiluomo tentasse di non fare sapere che cercava di
diventare un provetto spadaccino. Era qualcos’altro. Qualcosa di
indefinibile che però gli faceva sospettare che ci fossero molte cose
interessanti nel passato di quel giovane.
Era, o diceva di essere, l’erede di un ramo cadetto di una potente
famiglia di Aglargond[3] ma non pareva disporre di ricchezze adeguate
alla sua casata, nonostante tentasse di mostrare il contrario. Invece,
quel gentiluomo colto e apparentemente vissuto nella bambagia pareva
ben conscio del valore del denaro e di come fosse difficile
procurarselo. La sua bravura con l’arco era notevole ma la confidenza
con l’arma e la rapidità di tiro erano più quelle di un cacciatore di
professione che di un nobile appassionato d’arte venatoria. Tutto ciò
aveva rapidamente cambiato la prima impressione del maestro d’armi.
Ma c’erano altri aspetti che lo incuriosivano, anche se cominciava a
intravedere qualche barlume di verità. L’aspetto di un ragazzo appena
uscito dalla pubertà e la maturità di un uomo che aveva vissuto molto e
molto sofferto. Modi perfettamente controllati ma un fuoco ardente
negli occhi. L’educazione di un nobiluomo ma un’assoluta assenza di
alterigia, come chi sa che la nobiltà non si acquisisce per nascita.
Un’agilità da pantera ed una resistenza alla fatica insospettabili in
un corpo quasi esile. Una voce melodiosa, avvezza al canto, ma ferma e
decisa, capace di farsi obbedire con un semplice mutamento di tono. Una
lingua sciolta e loquace che riusciva benissimo a parlare per ore senza
far trapelare nulla di sé.
Quasi nulla, pensò l’esperto
avventuriero.
[1] Capitale della repubblica di Elos, uno dei principali porti
di Ainamar, la grande isola dove sono ambientate queste storie
[2] Nono mese dell’anno, il primo d’autunno
[3] La capitale dell’impero di Ardor, lo stato più potente di Ainamar
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Capitolo Due: il cacciatore
Colline nei dintorni di Elosbrand,
Yavios 13, 370
Cinque pelli di lupo.
Niente male come bottino, ma domani?
Ardis si guardò intorno, mentre la luce del tramonto pareva anticipare
i colori dell’autunno incombente. Il bosco si era ormai fatto rado e
ben presto il giovane cacciatore avrebbe raggiunto il sentiero dove
aveva lasciato la sua cavalcatura. Passò accanto ad alcuni rovi dove le
ultime more parevano attendere pigramente di essere colte. Allungò la
mano e si portò alla bocca un paio di quelle bacche brune, gustandone
il dolce, intenso sapore. Il sole, ancora tiepido, scendeva lentamente,
sfiorando ormai le vette dei monti lontani. Riprese la marcia per
giungere al sentiero prima che la luce sparisse.
Pochi minuti dopo, si era lasciato alle spalle gli ultimi alberi e la
vegetazione si era ormai fatta bassa e rada. Il nitrito del suo cavallo
lo accolse, festoso. Rapidamente sistemò le pelli sulla piccola lettiga
assicurata alla sella, vi appese l’arco e la faretra e salì in groppa
al placido animale.
Il giovane elfo aveva da poco passato il secolo di vita: in pratica era
poco più che un adolescente, per gli standard della sua razza. Era
piuttosto alto, quanto un umano medio e, salvo che per le orecchie a
punta, peraltro nascoste dai capelli corvini, sarebbe stato difficile
distinguerlo da un giovane uomo. Il volto dai lineamenti aristocratici
e delicati era evidentemente corrucciato.
Come sarebbe sopravvissuto con la brutta stagione?
La caccia finora era stata sufficiente a sfamarlo, ma aveva potuto
mettere ben poco da parte. D’altronde era ben conscio di non essere mai
stato costretto a lavorare per vivere, fino ad allora, e la sua
esperienza come cacciatore, in realtà, era limitata alle battute di
caccia che in primavera si svolgevano nella tenuta del padre.
Un ricordo ancora troppo doloroso.
Il suo sguardo si perse giù nella valle, dove il nastro argenteo del
fiume Elroth[4] indicava la strada per tornare a Elosbrand, la città
dove si era stabilito già da alcuni mesi. Man mano che il cavallo
scendeva lungo il sentiero, aumentavano le tracce di armenti e qua e là
comparivano piccole case circondate di campi coltivati. Quando giunse
alla strada carovaniera per la città, gli ultimi raggi del sole
tingevano di cremisi il tramonto.
I contadini rientravano nelle loro abitazioni, dopo la lunga e faticosa
giornata. Era tempo di vendemmia e i filari di viti cominciavano a
essere sempre più spogli e l’odore del mosto si spandeva nella campagna
intorno alle case coloniche, insieme alle voci allegre e ai canti della
pigiatura.
I pensieri tristi scomparvero dal cuore di Ardis, scacciati da quei
suoni e quegli odori che tanto amava. Gli ricordavano i tempi felici
della fanciullezza, nelle campagne di Bar-Galen[5],
riempiendogli il cuore di una dolorosa dolcezza, un felice rimpianto di
tempi che ormai erano irrimediabilmente perduti.
Era notte fonda quando giunse in vista delle mura di Elosbrand.
Come sempre, una pattuglia di guardie sorvegliava la maestosa porta,
detta dei Giganti,
fermando i viandanti per evitare che in città venissero introdotte
mercanzie proibite o pericolose e per esigere il pedaggio d’ingresso
agli stranieri. Un carretto era fermo davanti al posto di guardia e
voci alterate giungevano all’orecchio sempre all’erta del giovane
cacciatore.
La solita storia.
Avrebbe scommesso che al comando della guardia ci fosse il sergente
Burt “Ogre” Waster. Quasi due metri di stupida avidità e muscoli. Chi
diavolo lo avesse promosso sergente non era dato saperlo, ma quel
bestione approfittava del suo grado con arroganza pari quasi alla sua
dabbenaggine, esigendo talvolta autentiche tangenti per far entrare in
città le mercanzie della gente più semplice od inerme. Autentiche
rapine a mano armata.
Ardis non era soggetto a quel taglieggiamento perché aveva l’accortezza
di non portare con sé denaro quando usciva a caccia, dal momento che
sarebbe stato un inutile impaccio e una pericolosa tentazione per
eventuali malintenzionati. Anche in divisa.
La prima volta che aveva inciampato in “Ogre”, in realtà, gli era stata
chiesta una moneta d’argento per entrare in città con quelle pelli “di
dubbia provenienza”. Il giovane elfo non si era scomposto affatto e si
era lasciato perquisire, dimostrando di non avere altro che alcune
pelli di lupo, troppo ingombranti per poter essere nascoste dall’avido
graduato che gli ordinò di procurarsi qualche piccola pelliccia da
consegnargli per poter passare. Ardis aveva provato a convincere il
sergente, promettendogli che la volta successiva gli avrebbe portato
una bella pelliccia di scoiattolo con la quale ornare la sua armatura
ma l’ottuso soldato fu irremovibile. Era pomeriggio avanzato e Ardis
dovette andare in cerca di qualcosa per pagare quell’assurda tassa.
Tornò a notte fonda, con una piccola e morbida pelliccia nera, striata
di bianco. Il bestione apprezzò tantissimo e fece passare l’esausto
cacciatore.
Mal gliene incolse perché la bella e morbida pelliccia proveniva da una
moffetta e l’astuto Ardis era stato attento a lasciare intatta la
ghiandola contenente la nauseabonda e micidiale arma di quel piccolo
animale. Il sergente aveva nascosto la pelliccia sotto l’armatura,
provocando la rottura della ghiandola e il panico fra i suoi
commilitoni.
Trascorse la settimana seguente in triste solitudine, a vigilare alcuni
barili di catrame presso un vecchio imbarcadero abbandonato sul fiume
Elroth, con l’obbligo di farsi almeno tre bagni al giorno e l’unica
compagnia di dieci pezzi di sapone che avrebbe dovuto consumare prima
di ripresentarsi al cospetto del furibondo capitano della sua compagnia.
Da allora, Ardis godeva dell’esenzione dal taglieggiamento del sergente
Waster che, pur non avendo chiaramente capito cosa fosse effettivamente
accaduto, aveva percepito che quel giovane cacciatore elfo non era pane
per i suoi denti.
Stavolta, a far le spese dell’avidità del sergente doveva essere una
donna, almeno a giudicare dalle voci che arrivavano dall’imponente e
minacciosa porta cittadina.
«Questo è un furto! Una rapina!».
«Cerca di essere più rispettosa ragazzina, o tirerò il collo a tutte
quelle stupide papere che vorresti portare in città!».
«Questo anello è l’unica cosa che mi è rimasta della mia povera mamma!».
«Dite tutte così. Siete tutte orfane voi contadinelle?».
Ora Ardis era abbastanza vicino perché la sua acuta vista notturna gli
permettesse di osservare i dettagli della scena. Il sergente
ridacchiava orgoglioso della sua battuta, convinto di essere troppo
scaltro per farsi mettere nel sacco da quella ragazza. La quale era una
giovane di circa diciott’anni, piccolina ma ben formata e dalla fresca
grazia tipica delle ragazze di quella regione. Il bel visino era
avvilito e paonazzo per il tentativo di ricacciare indietro le
lacrime. Si sfilò l’anello dal dito e lo consegnò al sergente che lo
fece sparire in un sacchetto appeso alla sua cintura. A quel punto, il
carro fu libero di proseguire col suo starnazzante carico.
“Ogre” era in cerca di guai e Ardis pensò che sarebbe stato ingeneroso
non accontentarlo. Il giovane elfo scese da cavallo e, fingendo di
voler controllare la sella, sfilò da una sacca il sottile coltello che
usava per incidere le pelli e se lo assicurò sulla faccia dorsale
dell’avambraccio destro, con due sottili stringhe di cuoio, in modo che
solo la punta sporgesse dalla manica. Poi raccolse un sasso e lo
nascose nella manica sinistra. A quel punto risalì in sella,
dirigendosi al piccolo trotto verso le guardie.
«Salve sergente! Buona serata!»
Aveva accompagnato il saluto con un ampio gesto del braccio sinistro,
così da lanciare il sasso in alto, senza essere notato, in modo da
scavalcare il gruppetto delle guardie per farlo ricadere sull’orlo del
fossato.
«Puoi passare, tu, gattaccio nero. Sparisci!»
Il sergente guardò con scarsa simpatia il giovane che gli stava
passando accanto e che lo stava salutando con tanto beffardo calore.
Un tonfo seguito da un fruscio e dall’inconfondibile suono di qualcosa
che cadeva in acqua fece voltare i soldati in direzione del fossato.
Fu un attimo, ma sufficiente ad Ardis per mettere in pratica certi
disdicevoli insegnamenti che aveva ricevuto tempo addietro, nel periodo
più buio della sua vita. La mano afferrò saldamente il sacchetto
attaccato alla cintura del sergente e, con una semplice torsione del
polso, la lama nascosta nella sua manica tagliò il cordone che lo
sosteneva, senza fare il minimo rumore. Un istante dopo, il sacchetto
scivolò silenziosamente nella tasca della sella.
Quando Burt “Ogre” Waster si voltò, il giovane cacciatore era già
lontano.
Quando si accorse della scomparsa del sacchetto, era già mattina e non
riuscì assolutamente a spiegarsi come poteva essere scomparso.
La cosa peggiore era che in quel sacchetto c’era anche il suo salario
appena riscosso.
«Madamigella!».
Serataccia. Chi mai poteva
essere ora? La ragazza esitò a voltarsi. L’appellativo “madamigella”
era alquanto insolito se rivolto a una contadina e la fanciulla era già
abbastanza cresciuta per sapere quali rischi poteva correre una bella e
giovane ragazza in città.
«Madamigella!».
Era una voce melodiosa, dolce, priva di inflessioni ambigue e la
ragazza arrischiò un’occhiata da sopra una spalla, pur continuando a
camminare a fianco del mulo che tirava il carretto. Vide un giovane sui
vent’anni dal volto affascinante e sorridente e… Sacra Telgëa[6]! Aveva in
mano il suo anello e glielo stava mostrando!
«Questo sta meglio nelle vostre morbide manine che nelle zampe di quel
bestione, non credete?».
Il fatto che le manine in questione non fossero già più molto morbide
ma alquanto callose, non sciupò la poesia di quella serata.
[4] Il grande fiume sulla riva del quale sorge Elosbrand
[5] Città nella parte meridionale dell’isola, ai confini con le terre
degli Elfi
[6] La dea della famiglia e dell’agricoltura, detta anche Yavië quando
viene venerata quale dea dell'amore e della fertilità.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Capitolo 3: il ladro
Elosbrand, Yavios 15, 370
Le pelli avevano fruttato ancora meno di quanto avesse immaginato.
Quello strozzino di Caerl Branagh le aveva pagate come fossero state di
topo anziché di lupo. Eppure, Ardis aveva rischiato la vita per
procurarsele, mentre Caerl ingrassava nel suo bel palazzo, circondato
da belle donne ed oggetti d’arte.
Era un metro e poco più di avidità, arroganza e cinismo. Quasi un
quintale di vigliaccheria, volgarità ed ignoranza. Un halfling[7] che
non aveva nulla della simpatia ed amabilità della sua razza. Era
spaventosamente ricco e non perdeva occasione per ostentare e celebrare
i suoi beni, generalmente trovando il modo di offendere i più
elementari principi del buongusto.
Certo, pensava Ardis, non era stato il commercio ad arricchirlo.
Almeno, non il commercio legale. Per esempio, il giovane cacciatore
aveva il sospetto che alcune delle opere d’arte che quell’odioso
halfling ostentava nel suo palazzo fossero di provenienza furtiva.
In particolare gli era sembrato di aver visto, sbirciando dentro al suo
studio, alcuni quadri che aveva l’impressione di conoscere. Si
ricordava che, durante una visita a Aglargond di qualche anno prima,
era rimasto affascinato da alcuni dipinti piuttosto famosi, nel
locale tempio di Yavië. Purtroppo non aveva potuto osservare bene i
quadri conservati nello studio dell’avido halfling ma gli parevano
proprio gli stessi.
Sì, Caerl doveva essere un gran mascalzone. Sarebbe stato divertente
dargli una lezione… e forse anche proficuo.
Certo, bella società quella: i ladri di polli alla gogna e i veri
disonesti nei quartieri alti a pavoneggiarsi dei proventi delle loro
ruberie. Talvolta anche nei governi. E lui doveva sentirsi rimordere la
coscienza se guardava con desiderio qualcosa che non si poteva
permettere.
Tornò a casa di pessimo umore.
Aveva preso alloggio in un piccolo appartamento ricavato dal sottotetto
della casa di un’anziana vedova, la signora Adelaide Calverton, che gli
aveva fatto un lunghissimo elenco delle cose che non poteva
assolutamente fare, pena lo sfratto immediato. Al primo posto c’era:
proibito portare donne in casa. Quella era una magione onorata.
Alla fine dell’elenco, Ardis pagò un mese anticipato e congedò la
signora, pensando che non sarebbe stata una coesistenza facile. Però
l’affitto era ragionevole e la casa pulita. Inoltre, e non era poco,
sarebbe stato facile uscire dalla finestra e filarsela per i tetti,
senza farsi vedere. Anche perché l’anziana vedova pareva essere proprio
un’inguaribile ficcanaso.
Quella sera, i quadri di Caerl non gli uscivano dalla testa: andò a
letto subito dopo cena e continuò a rigirarsi senza trovare un posto
dove fare il nido, sicché, verso mezzanotte, decise di uscire. Indossò
una camicia di seta nera, uno degli ultimi residui del lusso della sua
adolescenza, un paio di pantaloni di pelle nera e stivali neri.
In quel modo avrebbe potuto sfruttare al massimo le sue capacità di
muoversi nell’ombra, rapido ed agile come il vento. Si assicurò lo
stocco alla cintura e prese la frusta che trovava estremamente utile
potendo essere anche utilizzata come corda. Si mise a frugare fra le
proprie cose e trovò una serie di grimaldelli, proprio quelli che gli
aveva regalato qualcuno che sarebbe stato meglio non aver mai
incontrato.
E ora, questi dove li metto? Si
chiese.
Se li appendo alla cintura
tintinneranno a ogni passo e nella tasca dei pantaloni non ci stanno!
La sua attenzione fu attirata da una larga fascia di seta viola che
faceva capolino dal baule. La prese e se la assicurò in vita.
Bene: ecco un ottimo modo di far star
fermi questi affari.
Prese i grimaldelli e li nascose sotto la fascia. Ora era pronto.
Sgattaiolò fuori dalla finestra, percorrendo i tetti fin quasi in fondo
alla via, poi scese furtivamente al suolo.
Era buio in strada, la luna era all’ultimo quarto e stava lentamente
scendendo verso i monti. Per un elfo, però, questo era un problema di
poco conto: la sua vista si adattò rapidamente all’oscurità, perdendo
nella percezione dei colori ma guadagnando nettamente nell’acuità
visiva. Si mosse rapidamente e leggermente nel buio, rabbrividendo per
l’aria frizzante della notte.
Forse avrei fatto meglio a indossare
un mantello…
In meno di un quarto d’ora giunse nei pressi della bella villa di
Caerl. Doveva esserci una festa, perché le finestre dell’ampio salone
erano illuminate e una musica ballabile veniva dall’interno della casa.
Pessimo gusto, tappo: questa è roba
da taverna di porto. Non mi stupirei di sentire cantare canzonacce da
marinaio su queste note…
Il muro di cinta non era molto alto e Ardis lo scavalcò con l’agilità
di un gatto.
Il giardino pareva deserto ma Ardis sapeva che dovevano esserci alcune
guardie che non lasciavano mai il paurosissimo halfling. Rimase fermo
nell’ombra per un decina di minuti, poi vide una delle guardie che
faceva il giro della casa. Dopo un quarto d’ora ne passò un’altra.
Altre due stazionavano davanti all’ingresso. Cominciò a spostarsi con
cautela, cercando di farsi un’idea della pianta del giardino e della
casa. A un tratto, udì un ringhio sommesso.
Si voltò lentamente e vide un grosso cane che lo minacciava con le
zanne scoperte. Per un attimo rabbrividì. Il lungo pellegrinare per le
terre selvagge di Ainamar, le numerose battute di caccia effettuate per
sopravvivere, gli avevano dato una certa familiarità con gli animali,
dunque cercò di riprendere rapidamente il controllo. Lentamente si
avvicinò all’animale, con la mano aperta e il palmo rivolto verso
l’alto, cercando di mostrarsi tranquillo. Il ringhio diminuì
d’intensità. Ardis cercò di concentrarsi sull’espressione del cane e,
lentamente, cominciò a comunicare con lui. Capì i maltrattamenti cui
era stato sottoposto per renderlo feroce e la sofferenza di ubbidire a
un padrone che comunicava solo a bastonate. La mano raggiunse il muso
del cane che l’annusò sospettoso. Salì lentamente sulla testa, fra le
orecchie e arrischiò una grattatina. L'animale pareva soddisfatto. Chissà
da quando non riceveva una carezza. Con l’espressione del volto e con
la voce chiese al cane di andare lontano da lui e abbaiare e ululare
furiosamente. La creatura sembrò lieta di ubbidire e si allontanò di corsa.
Ardis si avvicinò alla finestra del salone e sbirciò dentro. Nel salone
una dozzina di persone erano intente a chiacchierare e ballare. Una
grande tavola apparecchiata recava gli avanzi di una ricca cena. Il
salone era illuminato da un lampadario a ruota con tre ordini di
candele e da numerose torce attaccate ai muri. Incominciava ad alzarsi
un vento carico di pioggia e questo suggerì un’idea al giovane elfo.
Provò a saggiare la finestra e vide che si sarebbe aperta senza troppo
sforzo. In quel momento, dalla parte opposta della casa, il cane
cominciò ad abbaiare furiosamente.
Alcuni ospiti, fra i quali Caerl, spalancarono la finestra dall’altra
parte del salone per vedere cosa stesse accadendo e Ardis agì. Forzò la
finestra e la spalancò di colpo, tenendosi sotto la balaustra. Il vento
soffiò impetuoso nella sala, spegnendo quasi tutte le luci e causando
una notevole agitazione fra i presenti. Ardis balzò nel salone,
silenzioso e invisibile.
«Chi ha aperto quella finestra? Chiudetela e riaccendete le luci!».
Caerl pareva piuttosto impressionato. Nella confusione che seguì, Ardis
corse verso la scala, raggiunse al primo piano la porta dello studio
immersa nell’ombra ed entrò. Alcuni degli ospiti raccontarono la
spiacevole sensazione che il vento avesse portato con sé un’ombra
oscura che aveva percorso fulminea il salone. Un vento nero, disse
qualcuno.
La fievole luce della luna al tramonto era stata oscurata dalle nuvole
di tempesta, ma quel poco era sufficiente per gli occhi del giovane
elfo: quei quadri erano indubbiamente rubati ed erano autentici
capolavori. Ora, però, come avrebbe fatto a portarli via? Si guardò
attorno: c’era una libreria, una scrivania, un baule, quattro sedie,
una poltrona, una borsa di cuoio, una vetrina piena di chincaglierie di
dubbio gusto, un piccolo armadio pieno di carte nautiche, una
cassettiera chiusa a chiave. Si dedicò subito a studiare la
cassettiera. Un cassetto era protetto da una piccola trappola. Ci volle
un po’, ma riuscì a disattivarla. Aperto il cassetto, si trovò di
fronte a un mucchio di pergamene tutte con vari sigilli di ceralacca.
C’era anche un grosso quaderno. Gli bastò una breve occhiata per capire
che quella roba “scottava”.
E bravo Caerl! Ora sì che sei nei
guai! Questa cosa è troppo invitante…
Da sotto la porta cominciò a filtrare della luce. Il salone stava
tornando alla normalità. Non c’era molto tempo per decidere, sicché
Ardis seguì il proprio istinto. Prese con sé le carte e la borsa di
cuoio e spalancò la finestra. Delle voci si stavano avvicinando. Salì
sul davanzale investito dalla pioggia che aveva cominciato a cadere
fittamente e usò la frusta per agganciare il ramo di un albero. Il
primo colpo staccò solo qualche foglia, il secondo andò a vuoto. La
porta dello studio si aprì. Il terzo colpo si avvolse attorno a un
grosso ramo e Ardis si lanciò nel vuoto.
«Al ladro!».
La voce stridula di Caerl lo inseguì sotto la pioggia, mentre correva
nel giardino, fin sul muro di cinta. Poi l’oscurità dei vicoli di
Elosbrand lo inghiottì.
Il giorno successivo cominciò a circolare la diceria che un vento nero
aveva portato lo scompiglio nella villa dell’avido halfling che era
apparso sconvolto e, tutto sommato, la maggior parte della popolazione
locale non ne apparve dispiaciuta, anche perché quel ricco mercante
godeva di una fama tutt’altro che buona.
Ardis udì quelle chiacchiere che lo riempirono di soddisfazione e gli
suggerirono un’idea:
Vento nero… Blackwind…
Non male come nome di battaglia.
Dopo un paio di giorni dal furto, il già preoccupato mercante Caerl
Branagh ricevette una lettera che aumentò di molto la sua inquietudine:
Egregio Signor Strozzino,
la tempesta dell'altro ieri ha
consegnato nelle mie mani alcuni documenti che vi riguardano. In
particolare, un quaderno con annotate numerose attività illecite, fra
le quali il contrabbando di droghe dello Hyrmensiar[8],
il traffico di schiavi, la corruzione di alcuni funzionari. Inoltre,
numerose lettere che attestano prestiti da voi erogati a tassi di
strozzinaggio a numerose brave persone di Elosbrand.
Immagino che desideriate evitare un
uso improprio del vostro quaderno, dunque vi invito a riconsegnare a
mio nome all’ambasciatore di Ardor i tre quadri da voi illegalmente
detenuti nel vostro studio. Vi concedo tre giorni di tempo dal momento
in cui riceverete questa lettera, dopodiché detto quaderno sarà
consegnato ai Tre Patriarchi che, credo, lo leggeranno con molto
interesse.
Ovviamente, per quanto riguarda i
documenti dei vostri debitori, saranno riconsegnati ai legittimi
proprietari che saranno così sciolti da qualsiasi obbligo verso di voi.
Vogliate gradire il sincero attestato
del mio disprezzo.
Blackwind.
PS: la borsa che si trovava sulla
vostra scrivania sarà trattenuta come compenso per il mio disturbo.
L’halfling mise in moto tutte le sue conoscenze e i suoi informatori ma
nessuno aveva mai sentito nominare quel misterioso Blackwind. Il
secondo giorno si recò personalmente da mastro Sotal “Ravenclaw”, il
capo della gilda dei ladri di Elosbrand che si disse desolato, ma lui
di questo Blackwind non aveva mai sentito parlare. Il terzo giorno,
l’ambasciatore di Ardor si vide consegnare un pacco contenente tre
quadri rubati dal tempio di Yavië di Aglargond cinque anni prima. Il pacco pareva
essere stato spedito a nome di un tale signor Blackwind.
Molte famiglie di Elosbrand festeggiarono una ritrovata serenità in
quei giorni. Serenità invece irrimediabilmente perduta da parte di
Caerl Branagh che, nei giorni successivi, alienò buona parte delle sue
proprietà e fece in fretta e furia le valigie per lo Hyrmensiar.
La settimana che seguì sarebbe stata un autentico trionfo per Ardis
Talavir se non fosse stata funestata da un fastidiosissimo raffreddore.
La prossima volta avrebbe portato un mantello e un cappello.
[7] Razza umanoide caratterizzata dalla bassa
statura, l’aspetto innocuo e placido, i piedi pelosi
[8] Stato della regione
meridionale di Ainamar, noto per la mollezza dei costumi e le attività
schiaviste
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Capitolo Quattro: ricordi.
Elosbrand, Lossios[9] 24, 371
Le armi si abbassarono, al termine dell’assalto. I duellanti si
strinsero la mano, sorridendo.
«Avete visto che oggi è andato tutto molto meglio, lord Bailey? Ormai
potreste affrontare un vero duello con ottime probabilità di vincerlo».
Il maestro d’armi era veramente soddisfatto. Il suo allievo sembrava
aver già fatto tesoro dei suoi consigli ed era riuscito a reggere tutta
l’ora di lezione senza mai sbilanciarsi in attacchi improbabili. Si
tolse i guanti e il giubbetto e li gettò su una poltrona, in un angolo.
«Grazie, maestro. I vostri insegnamenti sono veramente preziosissimi».
Anche il giovane allievo era soddisfatto, e lo lasciava trasparire con
un sorriso da un orecchio all’altro. Cominciò a slacciare il giubbetto
imbottito. L’anziano avventuriero si avvicinò all’allievo con fare
protettivo. Era giunto il momento di cambiar genere di lezione.
«Permettetemi, allora, di darvi qualche altro suggerimento: quando
prevedete di dovervi battere, indossate sempre una bandana o un
cappello, sempre che teniate tanto a non far identificare la vostra
razza. Combattendo, la punta delle vostre orecchie continua a far
capolino fra i capelli».
Douglas Fairblank sorrideva divertito mentre il suo allievo diventava
rosso come un pomodoro. Lord Bailey cominciò a balbettare qualcosa, si
fermò, rimase un po’ a bocca aperta e poi riprese.
«Scusatemi, maestro. Non crediate che sia stata una mancanza di fiducia
nei vostri confronti. Purtroppo le circostanze mi hanno indotto a
essere estremamente prudente…».
Il maestro lo fece accomodare sulla poltrona. Chiamò un servitore (un
lusso che a quel punto della sua carriera poteva ben permettersi) e gli
disse qualcosa che il giovane elfo non fu nemmeno in grado di sentire,
tanto era stordito. Il servitore tornò poco dopo con una teiera
fumante.
Douglas Fairblank versò l’aromatica bevanda e si sedette comodamente
accanto a Lord Bailey, porgendogli una tazza. La sua voce era
tranquillizzante, quasi ipnotica.
«Il vostro nome?».
«Ardis… Ardis Talavir».
«Elfo o mezz’elfo?».
«Elfo. Della stirpe degli Elfi della Luna».
Lord Bailey rispose di getto, quasi a volersi liberare di un peso
opprimente.
«Quindi, quei baffetti sono finti…».
«Sì. Ma ho buone ragioni per celare la mia identità».
«Non ne dubito. Raccontatemi quello che potete, se ve la sentite. In
nessun caso quanto mi direte uscirà da questa stanza».
Il giovane non aspettava altro e vuotò il sacco.
Era quasi primavera, quando aveva
perso tutto, anche il nome. Il nome di suo padre.
Darwir Talavir era un nobile elfo che
aveva rifiutato di abbandonare le terre degli uomini con i quali
intratteneva rapporti di stretta amicizia, specialmente con Lord Erik
di Bar-Galen. Era noto in tutta la regione e amato per la sua estrema
disponibilità nei confronti di chiunque. Più volte aveva cortesemente
ma fermamente respinto gli appelli a tornare nelle profondità della
foresta di Taurdor, la patria degli elfi. Non voleva abbandonare il
mondo e gli uomini al male che si sarebbe diffuso nel vuoto lasciato
dagli elfi. Ed era amico anche dei nani e di tutte le razze buone di
Ainamar: “in tutti c’è posto per il bene, in tutti può annidarsi il
male”, diceva. E la sua tenuta era sempre aperta ai viandanti onesti a
prescindere dalla razza.
Eppure qualcuno lo odiava. Ed erano
elfi come lui ma dal cuore pieno di superbia, corrotti dallo splendore
della propria gente. Erano gli adepti del Klienkind Klas, la setta
della stirpe pura. Pomposi, arroganti, razzisti. Per loro la razza
elfica era l’unica degna di considerazione e le altre erano inferiori,
degne al massimo di servire come schiavi. Darwir Talavir era per loro
motivo di scandalo. E andava punito.
L’occasione giunse con una pestilenza
a Bar-Galen. Cominciarono a correre voci che volevano la famiglia
Talavir complice degli untori che avevano diffuso la peste. Qualcuno
giurò di aver visto il capo dei sacerdoti di Engwhir, il dio delle
pestilenze, fra gli ospiti di Darwir. Qualcun altro diffuse la voce che
i Talavir avessero festeggiato con orge e banchetti la devastazione
della città.
Una mattina, una folla furiosa fece
irruzione nella splendida dimora dei nobili elfi e tutta la famiglia fu
arrestata. Tutta tranne il giovane e irrequieto Ardis che aveva
trascorso la notte in casa di Ielenia, una bella ragazza elfa che
viveva nel bosco di Neverwinter assieme al fratello, un cacciatore di
nome Eldarnesh. Fu proprio lui a svegliarlo avvertendolo che stava
accadendo qualcosa di grave alla sua famiglia.
Quando giunsero alla tenuta Talavir,
la magione ardeva tra le fiamme e, dagli alberi del giardino, pendevano
i corpi di suo padre, sua madre e sua sorella. Una bambina. Affissi un
po’ ovunque erano degli avvisi che offrivano mille pezzi d’oro per il
giovane criminale Ardis Talavir.
Tutto era finito, perduto. Gli era
rimasto solo l’odio per quegli uomini ingrati che avevano creduto alle
calunnie di chissà chi e ucciso barbaramente della gente buona e nobile
che aveva sempre fatto loro del bene.
Fu Eldarnesh a insegnargli come
muoversi senza far rumore, come vivere nell’ombra, come rubare ai
maledetti umani in modo che potessero soffrire tutti, senza
distinzione. Fu lui a educarlo al furto e all’omicidio. E Ardis si
sentiva profondamente debitore nei suoi confronti perché gli stava
dando modo di sfogare il suo odio. E a nulla servì l’intervento di Lord
Erik che rese giustizia all’innocenza dei Talavir e punì i responsabili
del linciaggio: ormai Ardis odiava gli uomini e non li riteneva capaci
di onore e giustizia. Le idee di Eldarnesh si stavano radicando nella
mente sconvolta del ragazzo.
Eppure… Ardis sentiva che suo padre
non poteva aver sbagliato tutto. Se Eldarnesh aveva ragione, tutta la
vita della sua famiglia era stata fondata sul nulla, su un inganno
terribile. E poi… perché Ielenia lo guardava con tanta compassione?
Perché si comportava come se fosse in colpa con lui? Perché si
allontanava con qualche scusa ogni volta che suo fratello cominciava i
suoi sermoni contro gli umani? Perché il fanatismo di Eldarnesh gli
dava tanto fastidio? Perché la sua coscienza si ribellava e gli
imponeva di non fare ciò che il suo amico gli chiedeva?
Una sera Ardis, tornato anzitempo da
una battuta di caccia nel bosco, passò silenziosamente accanto alla
finestra dello studio dove Eldarnesh si era intrattenuto con un amico
elfo giunto quella mattina.
«Ci hanno creduto, quelle bestie! Ti
rendi conto? Si sono bevuti tutto. Pure che i Talavir festeggiassero
con orge per ogni morto di Bar-Galen! Erano delle belve scatenate
quando partirono verso la casa di quei bastardi. Hanno distrutto tutto.
E li hanno impiccati come banditi. Avessi sentito come strillava quella
piccola sgualdrinella! E quell’idiota di Darwir che cercava di farli
ragionare. Come se gli umani avessero il dono della Ragione…».
Ielenia era seduta su una poltrona,
ascoltando il fratello col capo chino, il volto fra le mani.
«C’è una bella ironia nel farli
ammazzare dai loro adorati umani. E arruolare il loro erede nelle
nostre fila! Bravo Eldarnesh! Che sia di esempio per tutti quelli che
si mescolano con le razze intoccabili! Il Klienkind Klas è orgoglioso
di te».
«Bastardo schifoso!».
Ardis irruppe nella stanza con l’arco
incoccato. La freccia prese Eldarnesh in pieno petto, prima ancora che
si rendesse conto di cosa stesse accadendo. L’altro elfo afferrò un
pugnale e lo scagliò contro Ardis, mentre questi si apprestava a
scoccare un’altra freccia.
Fu Ielenia, parandosi di fronte al
giovane elfo a ricevere il pugnale in mezzo alla schiena. Morì senza
nemmeno poter dire una parola ma i suoi occhi erano fissi in quelli di
Ardis.
Quando il giovane Talavir si
riscosse, vide che l’elfo aveva impugnato l’arco e tirò, senza pensare.
Non lo prese, ma lo costrinse a gettarsi di lato, facendogli perdere la
mira. Intanto, altri elfi, evidentemente adepti del Klienkind Klas,
stavano accorrendo. Ardis scappò dalla finestra e scomparve nel bosco.
Intorno a lui era rimasto il vuoto.
Tutto ciò in cui aveva creduto lo aveva tradito. Corse via, nei boschi,
fuggendo da tutto. Per giorni. Eppure… il gelo del suo cuore si
scioglieva ogni volta che ripensava a quegli occhi neri che lo
guardavano mentre si stavano spegnendo. C’era qualcosa in quello
sguardo morente, qualcosa che inneggiava alla vita. C’era amore.
Girò a lungo, per scoprire che ora il
suo nome era bandito pure dagli elfi. Aveva attentato alla vita di uno
di loro, di chi lo aveva salvato e tenuto con sé. Il suo nome era
disonorato per sempre anche fra la sua gente. Ed Eldarnesh era vivo.
Una qualche malvagia divinità l’aveva voluto salvare e ora Ardis non
poteva accontentarsi di ucciderlo. Ora avrebbe dovuto trascinarlo
davanti a un tribunale perché confessasse tutto. Era l’unico modo di
riavere il suo onore.
Eldarnesh era partito. Ardis giunse
troppo tardi e la sua preda si era involata. Pare che fosse stato
incaricato di qualche importante missione e nessuno sapeva dove era
diretto. Ardis tornò tra le rovine della sua casa. Sapeva dove cercare
e trovò presto uno scrigno con molte monete d’oro e gioielli. Era tutto
ciò che restava della ricchezza della sua famiglia e gli sarebbe
servito per restituire un nome onorato al suo casato.
Trovò tracce di Eldarnesh in un
villaggio lungo la strada per Aglargond ma, giunto nella capitale
imperiale, dovette faticare moltissimo e spendere altrettanto per
scoprire qualcosa. Finalmente seppe che era partito verso nord, verso
la Repubblica di Elos. Riprese la caccia.
Giunse a Elosbrand all’inizio
dell’estate: quasi tutto l’oro era finito e di Eldarnesh non c’era
nessuna traccia. Aveva bisogno di denaro per proseguire, dunque
cominciò a fare l’unica cosa che poteva e sapeva fare: il cacciatore.
Douglas Fairblank rimase a lungo in silenzio, osservando attentamente
quel suo sorprendente allievo. Il quadro cominciava a comporsi nel modo
giusto, nella sua mente. E quel che aveva saputo combaciava
perfettamente con l’idea che si era fatta. Restavano alcuni particolari.
«Perché Lord Bailey? È una vostra invenzione?»
Il giovane elfo esitò un attimo, poi riprese.
«Bailey Windström era il figlio cadetto di una nobile e potente
famiglia di Aglargond. Era un ribelle, un anticonformista e la sua
famiglia lo allontanò. Mi salvò la vita… e forse non solo quella…
durante il mio soggiorno in città. Morì assassinato, credo dai suoi
stessi parenti. Prima di morire mi chiese di adottare il suo nome per
viaggiare in queste terre. Diceva che lo avrei usato bene. Non osai
farlo per molto tempo e lo adottai solo quando mi resi conto di star
proseguendo la sua guerra. Spero di dimostrarmene degno».
«Sono certo che saprete onorare la memoria del vostro amico. Mi rendo
conto che qualcosa manca nel vostro racconto ma mi ritengo soddisfatto».
Douglas Fairblank tese la mano verso Ardis. Sorrideva e i suoi occhi
esprimevano stima, solidarietà, affetto.
«Da parte mia vi prometto che userò la massima discrezione e quanto mi
avete raccontato resterà chiuso dentro di me. D’ora in poi avrete un
amico fedele in più, a Elosbrand».
Ardis Talavir si chiese a lungo, nei giorni successivi, cosa l’avesse
indotto a raccontare al maestro d’armi praticamente tutta la sua vita.
Forse il bisogno di sfogarsi, forse la figura paterna dell’esperto
avventuriero, forse il bisogno di un’amicizia sincera con una persona
di cui aveva profonda stima.
Di certo, era contento di averlo fatto.
[9] Primo mese dell'anno
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Capitolo 5: la carrozza
Elosbrand, Lossios 24, 371 ore 4,30
del pomeriggio
La strada andava spopolandosi sul far del tramonto, preceduto
dall’infittirsi della nebbia che, ogni sera in quella stagione,
invadeva silenziosa e inquietante le vie di Elosbrand. Il freddo
invernale, non più contrastato dal tiepido sole di quel giorno sereno,
ricominciava a farsi sentire e la gente faceva rientro nel confortevole
tepore delle case, al termine della giornata di lavoro.
Gli edifici cittadini erano nella maggior parte dei casi alti e
stretti, con muri di pietra resi lucidi dall’umidità, sui quali si
aprivano sottili finestre, molte delle quali chiuse da imposte, un po’
per bloccare i freddi venti invernali e un po’ per impedire l'ingresso
ai maleducati uccelli marini.
Da qualche finestra socchiusa si poteva già intravedere il tremolante
chiarore delle lucerne e cominciava a spandersi nell'aria il profumo di
cucina che si mescolava all’odore del mare che risaliva dal grande
porto.
Era un quartiere tranquillo, quello, abitato soprattutto da
commercianti che avevano le loro bancarelle nella Piazza Antica, il
centro vitale di Elosbrand, il cuore dove per centinaia d’anni i
cittadini si erano riuniti per partecipare alla vita pubblica e che ora
ospitava il maestoso Senato della Repubblica di Elos. Ogni tanto
passava un carretto che trasportava mercanzie, trascinato da un
facchino diretto a qualche magazzino oppure uomini che portavano sulle
spalle lunghe aste con appesi canestri pieni di merci.
Una pattuglia della Guardia di Elos, la compagnia militare incaricata
di mantenere l’ordine nel territorio della repubblica, si allontanava a
passo cadenzato, diretta verso la zona settentrionale della città,
forse per dare il cambio alla guardia della porta dei Giganti,
l’ingresso nord della capitale.
Un bimbo di circa sei anni rideva felice mentre rincorreva un gatto
nella strada, attirando i sorrisi e l’attenzione dei pochi passanti.
Correva spensierato con gli occhi fissi sull’agile felino che in pochi
balzi era giunto ormai fuori della sua portata e non si accorse che una
carrozza stava sopraggiungendo a tutta velocità, seguita da due
cavalieri, improvvisamente sbucata dalle ombre che il tramonto rendeva
ancora più fitte.
«Attento Marvin!».
Una donna uscì correndo da una porta buia che si spalancò sulla strada,
quasi una bocca urlante un muto avvertimento.
«NO! Fermi!».
Gridava e piangeva mentre il rombo degli zoccoli e delle ruote
aumentava sempre più e copriva le sue urla disperate.
Il piccolo Marvin, paralizzato dal terrore, guardava avvicinarsi i
cavalli coperti di schiuma, lanciati al galoppo. La carrozza non fece
nemmeno un tentativo di rallentare l'andatura, anzi, il cocchiere
continuava ad incitare la pariglia con urla e sferzate. Il frastuono
degli zoccoli e le incitazioni sguaiate del cocchiere ingigantivano la
paurosa immagine che stava riempiendo gli occhi del bambino,
mescolandosi alle lacrime.
Un'ombra fulminea attraversò la strada davanti al cocchio proprio
mentre uno dei cavalieri che seguivano la carrozza scartava di lato per
colpire la donna con un calcio, facendola ruzzolare a terra sul
selciato umido.
«Fuori dai piedi, bagascia!». Urlò il bravaccio.
La donna cadde al suolo piangendo. Il rombo divenne assordante per un
attimo, poi diminuì d’intensità, allontanandosi rapidamente. Il fango
le copriva il volto, facendole bruciare gli occhi pieni di lacrime e
soffocando i suoi singhiozzi.
«Mamma!».
Il piccolo Marvin, infangato ma incolume, corse ad abbracciare la donna
ancora sconvolta, che quasi svenne per la gioia.
«Signora, qualcuno di quegli uomini vi ha colpita?».
Un’ombra apparve dietro il bambino. Era un giovane apparentemente sulla
ventina, dal fisico snello e aggraziato. Due grandi occhi verdi
sorridevano da un viso attraente, ornato da due sottili baffetti alla
moda. Era vestito con semplice eleganza anche se il suo mantello
appariva evidentemente macchiato di fango. La voce era premurosa e
lievemente affannata. Si affrettò a rimettere il cappello a tesa larga
sui capelli corvini, ancora scarmigliati.
«L’avete salvato! Grazie, milord! Che Yavië ve ne renda merito! Gli Dei
vi benedicano!».
La donna si rialzò per abbracciare il giovane che le aveva restituito
il bambino.
«State tranquilla, signora, ora va tutto bene. Mi dispiace solo che
quei mascalzoni siano scappati!».
Il giovane cercò con la mano di ripulire alla meglio i propri vestiti,
guardando con espressione corrucciata verso il fondo della via, dove la
carrozza era ormai scomparsa.
La strada, intanto, andava popolandosi di gente indignata.
«Ma che tipi arroganti! Chi credono di essere?». Brontolavano alcuni.
«Avete visto che facce? Quelli sono autentici criminali!». Gridavano
altri.
«Chiamate le guardie!». Aggiungevano molti, ma nessuno si scomodò a
muoversi per cercare i militari della Guardia, ormai molto lontani,
anzi si stavano accalcando sempre di più attorno alla mamma che
continuava a stringere a sé il suo piccolo.
«Qual è il vostro nome, signore? Voglio ricordarvi sempre nelle mie
preghiere!».
La donna aveva ancora gli occhi pieni di lacrime, mentre abbracciava il
suo bambino con tutte le sue forze.
Un attimo di esitazione.
«Ard… Bailey, signora. Vi ringrazio se vorrete pregare per me. Ora
pensate al vostro piccolo Marvin».
Dopo aver dato un buffetto affettuoso al bambino, Ardis scomparve nella
piccola folla di curiosi che si era radunata intorno alla giovane
madre, raccattando qualche pacca sulle spalle e qualche complimento
sparso che contraccambiò con distratti ringraziamenti. Attraversò la
strada per tornare dove era scattato per salvare il bambino e raccolse
l’elegante bastone da passeggio che aveva dovuto lasciare, poi sparì
nelle stradine laterali mentre il capannello di gente andava lentamente
disperdendosi.
Il giovane camminava pensieroso, lungo le strade sempre meno rumorose
della città che si apprestava alla lunga notte. Si muoveva sicuro nelle
stradine sempre più buie, avvalendosi della sua vista da elfo che gli
permetteva di vedere nell’oscurità notturna quasi come di giorno.
Aveva bisogno di star solo, di evitare la folla, di pensare.
Si chiedeva innanzitutto cosa l’avesse spinto a dare alla donna il nome
di Bailey Windström, il damerino, e non il suo vero nome, Ardis
Talavir, il cacciatore. Aveva corso un bel rischio, oltre tutto. Lord
Bailey non era molto conosciuto ma era anche un nome assai insolito e
qualcuno che lo aveva già incontrato avrebbe potuto notare come il
pigro damerino fosse dotato di riflessi ferini e di un insospettabile
coraggio. Quel che aveva fatto quella sera l’aveva fatto istintivamente
e sarebbe stato giusto che fosse stato Ardis a essere ricordato nelle
preghiere della mamma di Marvin.
O forse no. Forse Ardis era davvero morto ad Aglargond. Forse lui era
ormai davvero lord Bailey Windström. O forse, più semplicemente, si
sentiva ancora troppo in debito con l’eccentrico gentiluomo che gli
aveva salvato la vita e molto, molto di più.
Camminò a lungo, immerso in queste riflessioni, poi, lentamente, la
realtà riprese il sopravvento nella sua mente e l’immagine della
carrozza lanciata in quella folle corsa gli suscitò un nuovo moto
d’indignazione.
Si chiese chi diavolo potesse essere tanto incosciente da condurre una
carrozza a tutta velocità per le vie di un borgo popoloso come quello,
costituendo un terribile pericolo per la gente inerme e industriosa che
ancora affollava le strade. Solo per un caso fortuito nessuno si era
fatto male. E anche per la sua prontezza di riflessi.
Elosbrand era una città tranquilla e una carrozza non aveva alcun
motivo di dover correre per le sue strade. Certamente non era
inseguita, semmai scortata. E il cocchiere non pareva affatto allarmato
o preoccupato, così come i cavalieri di scorta. Piuttosto, sembravano
divertiti. Dunque, a far correre quella carrozza era il puro piacere
della velocità. Un simile comportamento denotava un assoluto disprezzo
e disinteresse per tutto quello che circondava quella gente. Individui
dai ceffi per nulla rassicuranti, peraltro.
E poi quel bravaccio che aveva preso a calci una madre disperata per il
suo piccino in pericolo! Che immenso farabutto doveva essere!
Quella gente meritava una severa lezione. E Ardis aveva già una mezza
idea di chi avrebbe potuto dargliela.
Ma occorreva prima scoprire di chi fosse la carrozza, dato che non
portava insegne di alcun genere pur essendo di modello decisamente
lussuoso. D’altra parte doveva essere partita da qualche posto e in
qualche altro doveva essere diretta. Inoltre, guidata a quel modo,
doveva essere stata notata da molta gente, anche ammesso che non avesse
provocato altri incidenti. Non sarebbe stato troppo difficile
raccogliere ulteriori notizie, a patto di non perdere troppo tempo.
Più pensava all’arroganza di quella gente, più il gentiluomo si sentiva
ribollire il sangue. Perché dietro i suoi modi sempre controllati, in
quel giovane era racchiuso un carattere focoso e insofferente della
prepotenza.
Ma c’era anche un altro e ben diverso motivo che lo spingeva a cercare
di ritrovare quella carrozza. Qualcosa che aveva scorto nei brevissimi
istanti seguenti alla sua audace corsa per strappare il bambino alla
morte e che l’aveva molto colpito.
Dentro quella carrozza c’era una giovane donna evidentemente scortata,
e forse sorvegliata, da quei bravacci.
Che splendida creatura! Due
occhi neri in un pallido viso d’angelo. Due occhi tristi e spaventati,
sul fondo di una carrozza circondata da guardie. Il velluto candido
delle sue mani poggiato sul velluto scarlatto del finestrino.
Chi mai poteva essere quella meravigliosa prigioniera? Perché era certo
che quella fanciulla non poteva altro che essere prigioniera di quella
gentaglia.
Ma cosa gli dava quella certezza? Non poteva essere una dama ricca e
capricciosa, che aveva ordinato al suo cocchiere di farle vivere il
brivido di quella corsa spericolata? No. Qualcosa gli diceva che non
poteva essere così. Quegli occhi erano dilatati dallo spavento e
qualcosa simile alla rugiada tremolava sulle belle ciglia. In quello
sguardo c’erano paura e dolore.
L’immagine della bella giovane dava a quell’evento un ulteriore sapore,
dolce e romantico. Un sapore che gli piaceva particolarmente.
Tornato sulla strada principale, impiegò un’oretta a far domande alla
poca gente che incontrava, e non fu affatto difficile scoprire che la
carrozza era sicuramente partita dal porto. Molti, come era
prevedibile, l’avevano notata e scansata per poco. Pochi furono in
grado di dare informazioni di una certa rilevanza, ma almeno due
persone poterono raccontare con assoluta certezza che la carrozza era
partita precisamente dal molo dove era ormeggiata la “Rondine di Mare”,
un’agile battello di proprietà di un tale Nathaniel Dell.
Costui risultava essere piuttosto noto: ufficialmente capitano di una
nave commerciale, da molti sospettato di essere un pirata. Dietro
un’aura di rispettabilità, molti lo ritenevano a capo di una ciurma che
non disdegnava, quando il commercio languiva, di depredare le piccole
imbarcazioni che avevano la sventura di incrociarlo. In ogni caso, un
tipo dal quale era saggio tenersi alla larga. Qualcuno arrivò a giurare
di aver visto scendere dalla nave la misteriosa dama.
Purtroppo, nessuno fu in grado di dire chi fosse la ragazza e dove la
carrozza si fosse fermata. Alcune domande fatte con discreta noncuranza
alle guardie della porta dei Giganti gli permisero di accertarsi che
comunque non aveva lasciato la città. Insomma, c’era un punto di
partenza ma la destinazione restava avvolta nel mistero.
Una visitina al molo, a quel punto, era d’obbligo. Solo lì poteva
sperare di scoprire una traccia in grado di fargli ritrovare la
carrozza e la fanciulla. Ma sarebbe occorsa molta prudenza: bisognava
riuscire a mescolarsi alla fauna marinaresca delle taverne del porto e
fare domande senza dare troppo nell’occhio. E uno come lord Bailey
sarebbe stato assolutamente fuori posto in quel contesto. In effetti,
anche Ardis Talavir lo sarebbe stato. In un porto ci stanno i marinai,
non i cacciatori di pellicce. Occorreva rivolgersi a qualcun
altro. Qualcuno perfettamente a suo agio in quell’ambiente e di cui
potersi assolutamente fidare. Purtroppo, non conosceva nessuno del
genere. Per un po’ dubitò di riuscire a portare in fondo quell’indagine.
Elosbrand era una delle città più sicure di Ainamar ma essere troppo
curiosi con gli equipaggi delle navi era una cattiva politica. I
marinai che percorrevano la costa erano molto gelosi dei loro segreti.
Perché molti di loro avevano parecchi segreti da non condividere
assolutamente. Più di un ficcanaso era stato trovato in qualche vicolo
della zona portuale, con un coltello nella schiena, senza che nessuno
avesse visto od udito nulla.
I pirati del mare di Ainamar sapevano farsi rispettare ovunque. Anche a
Elosbrand.
Fu quasi per caso che evitò di andare a sbattere contro un vecchio
marinaio, malandato e forse già ubriaco. Provò a fargli qualche
domanda ma non ne ricavò nulla di utile. Non aveva visto nessuna
maledetta carrozza e se l’avesse vista l’avrebbe evitata come la peste
perché una volta era salito su uno di quei cosi e aveva avuto il mal di
mare.
No, quel vecchio ubriacone non poteva essergli di alcuna utilità, pensò
Ardis. Però sarebbe stato proprio il tipo ideale e forse… forse aveva
trovato il modo di raccogliere le informazioni che cercava senza dover
mandare lord Bailey fra le taverne del porto. C’era qualcuno di cui
poteva assolutamente fidarsi. Qualcuno che il vero lord Bailey gli
aveva presentato tempo prima, ad Aglargond. Un’altra eredità del nobile
e sfortunato gentiluomo cui non sarebbe mai stato abbastanza grato.
Il giovane elfo passò dalla Piazza Antica a comprare quanto gli sarebbe
servito e poi tornò a casa per cenare e prepararsi nel modo migliore
che gli fosse stato possibile alla recita, una recita che doveva
riuscire senza alcun errore. Impiegò più di due ore prima di uscire di
soppiatto dalla soffitta dove viveva. Chi l’avesse visto non avrebbe
mai riconosciuto il pigro gentiluomo e neppure il taciturno cacciatore
di pellicce.
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Capitolo Sei: il porto
Elosbrand “la taverna dello squalo”,
Lossios 24, 371 ore 10,30 della sera
La taverna era piena di marinai, come al solito. Quasi tutti ubriachi o
sulla via di esserlo. Tutti i tavoli erano occupati e l’odore del cibo
si mescolava a quello del rum e della birra che abbondavano ovunque.
Risate e canzoni si levavano ora da un tavolo, ora da un altro. Il
ragazzo al bancone si assicurò che i cinque mercenari addetti al
servizio d’ordine fossero ben sobri.
Niente incidenti.
Questa era la consegna del padrone: gli affari vanno meglio se non ci
sono risse. Logico e lineare. Ma era tutt’altro che facile tenere a
bada quella ciurma di ubriaconi. Per fortuna, nell’ultimo mese, tutto
era andato liscio, nonostante l’inverno che teneva in porto la maggior
parte degli equipaggi che diventavano sempre più turbolenti con
l’inerzia prolungata. I cinque buttafuori sapevano farsi rispettare.
Non per nulla erano stati reclutati fra ex pirati ed avventurieri.
Sollevò lo sguardo sulla sagoma in legno di uno squalo a dimensioni
naturali di pessima fattura e piena di crepe e scrostature che
sovrastava il bancone. Appesi al corpo dell’animale vi erano numerosi
oggetti grossomodo circolari, che probabilmente erano stati pesci molto
tempo addietro e che i tavernieri avevano l’ordine di definire orecchie gentilmente donate da quelli che
non volevano pagare il conto.
Rabbrividì involontariamente, come ogni volta che li vedeva. In realtà
sperava fortemente che fossero stati dei pesci ma la versione
sardonicamente rilasciata ai clienti era decisamente la meno
inquietante fra tutte quelle che aveva sentito.
C’erano anche un po’ di facce nuove quella sera. Le ultime due
settimane erano state caratterizzate da un tempo insolitamente sereno
per la stagione, sicché qualche nave si era arrischiata in mare ed
altre erano arrivate da porti non troppo distanti. Qualcuna,
certamente, anche da qualche porto non propriamente ben rinomato,
purtroppo. In quella taverna si poteva trovare ogni sera un'incredibile
accozzaglia di furfanti e tagliagole, esperti di qualsiasi genere di
affari loschi, per fortuna intenti soprattutto a bere per la maggior
parte del tempo.
Alcune voci concitate si levarono da un tavolo dove era raccolta una
piccola folla e dove probabilmente era in corso una partita a dadi.
L’aria si stava surriscaldando pericolosamente. I buttafuori si
avvicinarono minacciosi al tavolo ma la loro semplice presenza bastò a
far calmare i toni. Il ragazzo al bancone sospirò di sollievo. Anche
quella volta era andata bene.
Un vecchio marinaio sciancato entrò nella sala e arrancò faticosamente
verso il bancone, trascinando la gamba sinistra. Era piuttosto
macilento e mal vestito con una giubba sdrucita ed un cappello sudicio
e malridotto.
«Due bottiglie di Rum, ragascio!»
La voce del vecchio ed il fetore di alcol che emanava non lasciavano
dubbi sul fatto che fosse già abbondantemente ubriaco. Doveva essere
alla seconda o terza osteria, quella sera.
«Hai da pagare, nonno?».
«Certo che scì! *hic* Per chi mi prendi?».
Il vecchio posò una mano sudicia sul bancone e vi lasciò una piccola ma
splendida perla.
«Il vecchio Finn non lascia conti *hic* in sciospescio! E con questa
sci pago almeno *hic* diesci bottiglie!».
Il ragazzo sgranò gli occhi, afferrò la perla e mise subito due
bottiglie di Rum davanti al vecchio.
Alcuni avventori che si trovavano nei pressi, notarono la scena e si
avvicinarono al vecchio ubriacone, festeggiandolo come un caro amico
che non vedevano da un pezzo. In effetti non lo avevano proprio mai
visto ma un simile relitto d’uomo con quella dotazione di perle
appariva particolarmente simpatico e meritava decisamente un
trattamento speciale.
Il vecchio fu portato quasi di peso a un tavolo malmesso, come quasi
tutto l’arredamento della taverna, e venne in un attimo circondato da
quei parassiti a due gambe, che continuavano a fargli un sacco di
complimenti, convinti che quella serata avrebbe portato loro molta
fortuna. Il vecchio pareva divertirsi tantissimo dell’attenzione che
gli veniva rivolta e prese a chiacchierare con tutti.
«Sciapeste che paura, ragasci! Oggi *hic* pomeriggio, quasci mi
spiaccicavano sciulla strada! Una carrozza che correva come sce avesce
avuto *hic* il diavolo alle calcagna!».
Due degli avventori che erano intorno al vecchio gli si rivolsero
sorridenti.
«Ti è andata bene, vecchio! Un bambino è stato investito oggi
pomeriggio, non lontano da qui!».
Uno dei due si offrì di aiutare il vecchio a sedersi al tavolo,
cercando maldestramente di borseggiarlo.
«Ma no che non è stato investito! Io c’ero: è stato salvato da un
ragazzo che passava di lì, però c’è mancato poco!».
Intervenne l’altro ceffo, cercando di aprire di nascosto la borsa del
vecchio. Dopo alcuni goffi tentativi, finì per afferrare la mano del
primo.
«Ehi! Via *hic* le manacce!».
Per quanto ubriaco il vecchio si accorse dell’armeggiare dei due
furbacchioni.
«Sciono ubriaco, mica scemo! Se vi piasciono le perle *hic*
guadagnatevele! Ditemi di chi era *hic* quella fottutiscima carrozza
che ha cercato di *hic* inveshtire il vecchio *hic* Errol Finn coscì
darò una bella *hic* lezione a quei bashtardi!».
«Lascia perdere vecchio! Non è roba per gente come noi».
Il marinaio parlava senza guardare l’interlocutore, scrutando invece
attentamente la giacca dell’ubriaco, nella speranza di individuare dove
avesse nascosto la borsa.
«Ah no? Tu lascia *hic* che io vada a casha di quel *hic* verme! Sho
farmi rispettare, *hic* io!».
Il furfante sollevò lo sguardo e fissò il vecchio ubriacone con aria
divertita, figurandoselo alle prese con i bravacci di guardia a quella
casa.
«A casa di chi? Di Jerorevudd? Ma non farmi ridere, quelli ti… AHI!».
Il marinaio si massaggiò la gamba lanciando contemporaneamente uno
sguardo d’odio il compagno che lo aveva colpito con un calcio da sotto
il tavolo.
«Ehi, dico, sei impazzito? A momenti mi rompi la gamba!».
«Ringrazia Ascaris[10] se non ti rompo la testa, pezzo di cretino!».
L’altro delinquente si dimenticò del vecchio per fissare il complice
con aria di superiorità.
«Ehi, scecondo me, ti ha inshultato *hic*!». Disse l’ubriaco al
furfante accanto a lui, che si stava ancora guardando la gamba colpita.
«Cretino a me non lo ha mai detto nessuno!».
«C’è sempre una prima volta! Sei cretino e linguacciuto!».
«Ah, davvero? Ora ti faccio vedere!».
Il marinaio tracannò d’un fiato il contenuto del suo boccale di birra e
tentò di lanciarlo in testa al compagno che, però si scansò in tempo.
Non così l’ignaro avventore alle sue spalle che fu colpito in piena
nuca e cadde in avanti sul tavolo rovesciando cibo e bevande sugli
altri commensali.
Scoppiò la rissa.
Il ragazzo si era riparato dietro il bancone mentre le guardie
cercavano invano di riportare un po’ d’ordine nel locale. Sedie e
bottiglie volavano per tutto il salone. Il padrone non sarebbe stato
affatto contento, quella sera.
Il vecchio ubriaco spuntò dietro il bancone e si avvicinò carponi al
giovane taverniere. Frugò nella giacca e gli allungò un’altra
bellissima perla.
«Per il disturbo, figliolo *hic*! Shaluti dal vecchio Errol Finn».
Il ragazzo guardò a lungo con meraviglia le due perle, poi rialzò gli
occhi.
Il vecchio era sparito.
Errol Finn gironzolò a lungo sul molo davanti alla “Rondine di Mare”,
stranamente continuando a camminare come un vecchio ubriacone sciancato
quando era in vista e muovendosi con l’agilità e la silenziosità di un
gatto quando poteva nascondersi nell’ombra.
Studiò attentamente la snella struttura della nave, equipaggiata con
due alberi a vele quadre e un ordine di remi. Sul castello di poppa,
una lampada illuminava la postazione del timoniere, in quel momento,
ovviamente deserta. La prora era decorata da una polena a forma di
grande uccello dalla testa protesa sul mare il cui becco ricordava da
vicino un rostro da guerra. Sopra le ali della polena sporgevano gli
ampi bracci di una possente ballista. Chi aveva costruito quella nave
sembrava aver pensato più alla velocità di manovra e di corsa in mare
aperto che alla capacità della stiva. Una scelta assai insolita, per un
mercantile, per non parlare dell’equipaggiamento da guerra montato sul
castello di prua.
La ciurma, composta da marinai che avevano l’aria di tagliagole
incalliti, sembrava tuttavia molto ben disciplinata, lavorando
alacremente, nonostante l’ora tarda e la temperatura rigida, agli
ordini di un uomo robusto, alto quasi due metri e dalla voce tonante,
probabilmente il capitano Nathaniel Dell in persona.
Ardis, ancora travestito da vecchio, stava per andare via,
quando si accorse che un carro si era accostato alla nave e che i
marinai stavano caricandolo con grossi sacchi, evidentemente piuttosto
pesanti. Avrebbe archiviato la faccenda se la sua acuta vista notturna
non avesse notato chiaramente come quei sacchi sembrassero muoversi
spontaneamente. Li osservò con maggiore attenzione e si rese conto che
evidentemente in quel carico dovevano essere racchiusi degli esseri
umani, probabilmente legati. A quel punto era inevitabile accertarsi
dove fosse diretto il carro e cosa significasse quel carico di persone
trattate come merci.
Il carro procedeva lentamente e Ardis non ebbe alcuna difficoltà a
seguirlo. Agile e silenzioso, guidato dalla vista acutissima, percorse
quel tratto di strada mantenendosi sempre nascosto nell’ombra. Dopo un
quarto d’ora di strada, Ardis riconobbe il luogo dove aveva salvato il
piccolo Marvin. Continuò a seguire il carro anche quando si addentrò in
un quartiere per così dire “popolare”, dove muoversi la sera poteva
essere decisamente pericoloso. Il carro si fermò nei pressi di un
palazzotto piuttosto elegante, che spiccava in quel quartiere misero,
con ampie finestre sulla facciata, protette da inferriate, e strette
feritoie sugli altri lati che davano su vicoli bui. Dalla struttura, si
arguiva che doveva esserci un cortile centrale, sul quale si dovevano
affacciare le altre finestre della casa.
Ardis si nascose in un portico avvolto nell’oscurità e si dispose ad
osservare cosa sarebbe accaduto. Il carico venne preso in
consegna da un paio di robusti individui, probabilmente bravacci al
servizio del padrone di casa, e i sacchi vennero introdotti nel palazzo
attraverso una porticina che si apriva in uno dei vicoli laterali.
Il giovane elfo attese che il carro si allontanasse e, quando il rumore
delle ruote venne sopraffatto dal silenzio della notte, si avvicinò
prudentemente al palazzo. Ebbe la conferma di quel che sospettava.
[10]: dio della distruzione e delle tempeste, assai popolare fra i
marinai
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
Capitolo Sette: pettegolezzi
Elosbrand Lossios 24, 371 ore 11,30
della sera
Sarillob Jerorevudd, detto “faccia di
ratto” (mai in sua presenza).
Nell’appartamento ricavato dal sottotetto della casa dell’anziana
vedova Adelaide Calverton, dove era alloggiato col nome di Ardis e
conosciuto come cacciatore di pellicce, il giovane elfo era immerso in
una tinozza di acqua calda per lavare i residui dell’interpretazione
del vecchio marinaio ubriacone.
L’appartamento era piccolo ma ben pulito e arredato con gusto. Constava
di due stanze, di cui una con il camino, sulla quale si apriva la porta
di casa che portava all’appartamento della vedova tramite una scala a
chiocciola.
La stanza col camino era un salottino con un piccolo tavolo, due
poltrone e una libreria. Una piccola finestra si apriva sulla via
sottostante.
L’altra stanza, alla quale si accedeva salendo tre gradini, era uno
studiolo attrezzato con uno scrittoio, una libreria colma di libri e
una branda dall’aria passabilmente comoda. L’unica finestra si apriva
direttamente sui tetti.
La tinozza piena d’acqua dove il giovane elfo stava sguazzando era
stata sistemata nei pressi del camino.
Ricapitolò mentalmente quel che aveva saputo di quell’individuo.
Era un noto mercante di tessuti, arrivato dieci anni prima senza un
soldo e arricchitosi in fretta e, giravano voci, non troppo
onestamente. Si raccontava che fosse avarissimo e che non disdegnasse
di praticare l’usura. Un carattere sgradevole e arrogante che diventava
untuoso quando gli conveniva. Comunque, tutt’altro che un cuor di leone.
Inoltre, si era circondato di tipi poco raccomandabili che avevano,
ufficialmente, il compito di vigilare sulle sue proprietà,
ufficiosamente si diceva che si occupassero del recupero dei suoi
crediti, spesso con metodi tutt’altro che legali. Altre dicerie lo
volevano in rapporti d’affari con capitani di navi dal passato
quantomeno burrascoso e dal presente alquanto oscuro. Uno di quelli era
certamente il capitano Dell.
Circa cinque anni prima, aveva ereditato il palazzotto dove viveva da
un suo debitore. A detta del mercante, per ricompensarlo della sua
magnanimità, secondo le malelingue, invece, si era trattato di
un’estorsione bella e buona. Comunque fosse, Jerorevudd ci si era
installato dopo averlo fatto ristrutturare e trasformare in una specie
di fortino.
Uscì dalla tinozza e si avvicinò al fuoco del camino per asciugarsi al
caldo. Sorrise: la recita gli era riuscita particolarmente bene e aveva
scoperto dove era andata a finire quella carrozza e molte altre cose
ancora. Ora non restava che darsi da fare per scoprire cosa stesse
accadendo a casa di Jerorevudd. Non sarebbe stato facile, ma almeno
c’era un punto di partenza.
Beh, prima sarebbe stato prudente far sparire ogni traccia. La sua
padrona di casa, la vedova Adelaide Calverton era una bravissima donna
ma aveva il difetto di essere maledettamente curiosa. Non perdeva
occasione per ficcare il naso negli affari altrui, sicché il giovane si
dette subito da fare per nascondere bene i trucchi per il travestimento
e i vestiti da marinaio.
Figuriamoci quante domande gli avrebbe rivolto la buona donna se avesse
trovato la blusa di panno azzurro o la vecchia pipa o, peggio, la
parrucca candida. Per non parlare dei baffetti e degli abiti eleganti
di lord Bailey. Avrebbe dovuto trovare una soluzione anche per quel
problema, prima o poi: non poteva permettere a quella specie di segugio
di curiosare in casa sua.
Però, forse, proprio la vedova Calverton sarebbe stata un’utilissima
fonte di informazioni. Difficilmente un pettegolezzo sfuggiva alle sue
orecchie dure ma sempre all’erta. L’anziana signora soffriva
d’insonnia, sicché poteva darsi benissimo che fosse ancora in
circolazione. Il giovane elfo pensò che una bella chiacchierata con la
padrona di casa sarebbe stata più che opportuna.
Ardis si rivestì in fretta, si accertò di essersi liberato dall’olezzo
di rum del vecchio Errol Finn e scese al piano di sotto. Sentì le
ciabatte della vedova che percorrevano il corridoio del suo
appartamento. Dalla soglia filtrava la luce di una candela. Bussò
vigorosamente alla porta. Era l’ora di spettegolare un po’.
Rimase due ore buone a chiacchierare con l’anziana vedova che gradì
particolarmente la visita, gli offrì una camomilla, non ebbe pace
finché non gli fece assaggiare i suoi biscotti e non si fece davvero
pregare per sfoggiare la sua straordinaria cultura sui fatti altrui.
Ovviamente, oltre alle chiacchiere su Jerorevudd, il giovane elfo
dovette fingersi interessato ai fatti di molta altra gente, della
maggior parte della quale ignorava perfino l’esistenza.
Finalmente Ardis riuscì a congedarsi dalla loquacissima vedova,
raggiunse il suo appartamentino e si sdraiò sul letto a riordinare le
idee. La signora Calverton aveva confermato ciò che il giovane già
sapeva, ma aveva anche aggiunto numerosi altri particolari, alcuni
davvero interessanti, altri decisamente allarmanti.
A proposito di Jerorevudd, oltre che sui suoi guadagni in odore
d’illegalità, circolavano alcune voci, decisamente più inquietanti,
circa la misteriosa scomparsa di persone transitate dal suo palazzotto
fortificato.
Qualcuno, più razionalmente, sospettava che quell’individuo senza
scrupoli trafficasse anche in schiavi, un’attività altamente illegale
ma molto remunerativa; altri, invece, sussurravano che in quella casa
si svolgessero orrendi riti e sacrifici umani in nome di qualche
crudele e bestiale divinità cui sarebbe stato devoto l’avido mercante.
Il giovane elfo rabbrividì, pensando ai sacchi che aveva visto
scaricare dal carro. In quella casa erano state introdotte delle
persone evidentemente non consenzienti. Era un nuovo carico di schiavi
destinati ad un turpe mercato? O potevano veramente essere le vittime
predestinate per qualche oscura, orribile cerimonia?
Allontanò quel pensiero dalla mente: esistevano certamente culti
crudeli su Ainamar ma era davvero difficile immaginare che nel bel mezzo
di una città popolosa e ben sorvegliata come Elosbrand si potessero
tenere riti simili. In genere i seguaci di quei culti si radunavano in
luoghi deserti, lontano da occhi e orecchie che avrebbero potuto
denunciare le loro attività. No, concluse, la cosa più probabile era
che il buon Jerorevudd si dilettasse anche di commerciare in schiavi.
A questo punto, però, nella mente di Ardis tornò a farsi largo l’altra
domanda, forse quella che più di tutte lo incuriosiva.
Chi mai può essere la donna sulla
carrozza?
Era scesa da quella nave ma non era certamente una schiava, altrimenti
sarebbe stata condotta al palazzo quantomeno di nascosto, se non
addirittura chiusa in un sacco come gli altri, eppure Ardis aveva avuto
la netta sensazione che stesse su quella carrozza controvoglia, che
fosse spaventata e per di più quei bravacci sembravano sorvegliarla
piuttosto che scortarla.
Però, se la misteriosa dama della carrozza era effettivamente sbarcata
dalla “Rondine di Mare” c’era da sospettare che non vi fosse nemmeno
salita di sua spontanea volontà. Certamente quella nave non faceva
servizio passeggeri, piuttosto erano in molti a sostenere che non di
rado finisse con l’andare all’arrembaggio di piccoli mercantili per
arrotondare le entrate. E allora, da dove veniva quella donna? Da
qualche terra di là dal mare? Oppure era salita a bordo per parlare con
qualcuno e si era trattenuta solo poco tempo? Quest’ultima ipotesi
pareva più verosimile: il fatto che non fosse stata vista salire a
bordo non implicava per forza che questo non fosse successo.
Da quel che aveva saputo dalla vedova Calverton, Jerorevudd si era
recentemente fidanzato con una splendida donna, dal passato di
avventuriera.
Si chiamava Elorelei Leblanc ed era originaria del Kaardir[11]. Pare
fosse arrivata nel territorio della repubblica insieme ad una piccola
compagnia di avventurieri, fra i quali doveva esserci il suo amante. La
compagnia si era cacciata in qualche brutto pasticcio nelle colline a
nord di Elosbrand ed era stata sterminata, forse da una viverna.
Elorelei era l’unica sopravvissuta ed era stata raccolta da una
carovana che veniva in città.
Si diceva che Sarillob Jerorevudd si fosse invaghito di lei e che
l’avesse fatta oggetto di una corte serrata ma poco produttiva. Ma
qualcosa era recentemente cambiato e il matrimonio era stato
organizzato nel giro di una settimana.
Possibile che fosse lei la donna della carrozza? Se lo era, perché mai
sembrava che la riconducessero a forza a casa? E cosa era andata a fare
su quella nave? E…
Si accorse di essere stanchissimo. E che il rum che si era versato
addosso per rendere più credibile l’interpretazione del vecchio Finn
gli aveva dato più fastidio di quanto si fosse aspettato.
Sentiva gli occhi pesanti.
Si sdraiò sul letto. Aveva proprio bisogno di riposo. L’indomani
avrebbe avuto tanto da fare…
«Ti vendicherò!».
«Non farti guidare nuovamente
dall'odio, fratello mio… Non fa parte della tua natura…».
«Lo so, ma…».
«Io muoio ma in te vive la mia stessa
anima… Vuoi vendicarmi? Ebbene prendi il mio nome…».
«Il tuo nome?».
«Ti aprirà molte porte e tu gli
restituirai con le tue azioni quell'onore che gli è stato rubato...
Questo ti chiedo, Ardis, spirito fratello … Io continuerò a vivere
nelle tue gesta… E so che saranno onorevoli se ti negherai all’odio…».
«Non tradirò i tuoi insegnamenti,
fratello mio».
«Lotta contro questo mondo ipocrita…
ma senza concedere nulla al male e alla violenza… o ti perderai… e
allora morirei davvero… definitivamente».
«Non morire, Bailey!».
«Non morirò mai… se tu proseguirai la
mia lotta… con le mie armi, Ardis… Addio, fratello».
«No!».
La carrozza.
I cavalli.
Il bambino.
La madre.
Il fango.
Le lacrime.
Rivide la strada, la gente sgomenta, sentì i muscoli tendersi nello
scatto bruciante col quale era riuscito ad arrivare appena in tempo a
spingere il bimbo fuori dalla traiettoria del cocchio.
Rivide gli occhi di Bailey.
Sembravano sorridere.
[11] Regno confinante a nord con la repubblica di Elos
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
Capitolo Otto: il mercante di schiavi
Elosbrand, Lossios 25, 371 ore 11 del
mattino
«Chi hai detto che è?».
Sarillob Jerorevudd alzò il naso dalla lettera che stava leggendo,
guardando coi suoi occhietti scuri il maggiordomo.
«Lord William Guy di Wos-Toldir[12], signore. Chiede di parlare
personalmente con voi a proposito di una partita di tessuti preziosi
che vorrebbe acquistare».
Il maggiordomo guardò con disgusto il pezzo di formaggio che il suo
padrone stava rosicchiando.
«Permettete signore?».
Prese i resti del formaggio e li ripose su di un piccolo vassoio d’oro.
Con un pennellino spazzolò le briciole rimaste fra i baffetti di
Jerorevudd.
«Che tipo è?».
«Molto distinto, direi, almeno quanto può esserlo un nativo di Tolbelg,
con quell’accento barbaro. Veste con eleganza e deve essere molto
ricco».
«Ricco eh? Molto bene».
Si era sempre trovato bene con gli affaristi di quell’isola, anche
perché erano generalmente privi di stupide remore morali ed era molto
facile intendersi.
Inoltre, a Wos-Toldir c’erano idee decisamente più tolleranti rispetto
a certe attività assai redditizie che nella repubblica erano
severamente proibite. Forse perché si trattava di gente più
intraprendente, più probabilmente perché la pirateria era la
professione maggiormente praticata da quelle parti. Di conseguenza, le
frequenti tensioni fra Elos e Tolbelg erano spesso legate al diverso
modo di intendere cosa è lecito nel commercio e cosa non lo è.
In quelle occasioni, Jerorevudd parteggiava regolarmente per l’isola
del nord. Era convinto che gli abitanti di Tolbelg fossero un popolo di
vincenti.
«Cosa devo dire?».
«Fallo passare, Fred. Gli affari prima di tutto!».
Jerorevudd era un uomo piuttosto alto, robusto, dal viso allungato con
occhi piccoli e scuri, un naso prominente e un paio di baffi
mobilissimi. I capelli, piuttosto radi, cominciavano a tingersi di
grigio.
Era un uomo astuto e prudente, abituato a trattare con gli individui
più sordidi e aveva imparato bene a non farsi problemi morali quando in
ballo c’erano i soldi. Il suo carattere era piuttosto spigoloso ma la
vigliaccheria di fondo lo spingeva ad assumere atteggiamenti untuosi,
salvo abbandonarsi a bestiali scoppi d’ira quando aveva a che fare con
persone in evidente stato di inferiorità.
In questo caso, non sapendo bene con chi aveva a che fare, assunse
l’atteggiamento untuoso.
Sollevò lo sguardo e osservò la stanza. Lo studio di Jerorevudd era
ampio e luminoso, due grandi librerie si trovavano ai lati della porta
d’ingresso, alte fino al soffitto e riempite di volumi di vario genere,
trattanti gli argomenti più disparati e disposti senza apparente ordine
logico, ma accomunati dalla ricchezza della rilegatura. Il resto delle
pareti era quasi completamente coperto da quadri di valore e ricchi
arazzi.
L’ampia scrivania era quasi totalmente sgombra, a eccezione di un
prezioso calamaio sul quale troneggiava una splendida penna variopinta
e una maestosa lampada che, a giudicare dallo stoppino, non doveva
essere mai stata usata. Il mercante sorrise soddisfatto. Detestava
spendere ma era ben conscio che l’ostentazione della ricchezza
rassicurava chi gli era socialmente superiore e intimoriva chi gli era
inferiore. Il che gli permetteva di trattare i suoi affari sempre da
una posizione di vantaggio.
Il suo sguardo fu attirato dalla maniglia della porta che si stava
muovendo. Piegò la lettera e la ripose nel cassetto.
Entrò un azzimato gentiluomo di mezz’età, non molto alto, con baffoni
arricciati in su e capelli rosso-carota.
Era vestito alla moda del nord, con una lunga palandrana di lana dalla
quale spuntavano i polsini a sbuffo di una camicia di seta bianca e
pantaloni lunghi di pelle nera. Portava eleganti scarpini con fibbie
d’oro. Il tutto era completato da un elegante bastone d’avorio con un’
impugnatura d’argento di forma sferica, delicatamente intarsiata.
Jerorevudd arricciò il naso facendo tremare i baffi. Odiava l’argento.
Cercò di controllare quell’assurda agitazione.
«Buon giorno Lord Guy».
La voce era ancora un po’ stridula ma il tono era decentemente
controllato.
«Onoratissimo ti konoscerfi, zignor Jerorefudd. Tefo tire ke mi hanno
rakkontato koze luzinghiere zul fostro konto».
Il gentiluomo parlava con un buffo, marcato accento di Tolbelg. Si
lisciava i folti baffi rossicci mentre guardava sorridendo i lineamenti
vagamente murini del suo interlocutore.
«Ne sono lieto, milord. Anche se ci sono molte persone pronte a
calunniare quelli che hanno avuto successo nella vita, evidentemente
avete parlato con chi sa apprezzare le mie poche virtù».
«Gli infitiozi eziztono ofunque ma zi tratta quazi zempre ti cente ti
passo lignaggio. Cente ke mi guarto tal frequentare».
Quel tipo cominciava a piacergli, ma Jerorevudd era troppo astuto per
fidarsi di una semplice impressione. Il mercante decise dunque di far
scoprire le carte al suo interlocutore e il modo migliore gli parve di
affrontare direttamente la questione.
«Mi dicono che siete interessato a una partita di tessuti pregiati,
perché avete voluto parlare personalmente con me?».
Jerorevudd teneva le mani giunte mentre muoveva nervosamente le dita.
«Perké ho zaputo ke i tezzuti non zono l’uniko interezze ti fostra
zignoria: forrei fetere ze è pozzibile konklutere anke altri ceneri ti
affari, zignor Jerorevudd».
Il gentiluomo di Wos-Toldir fece una breve pausa. Con noncuranza si era
avvicinato a un quadro appeso alla parete, studiandolo con interesse.
Jerorevudd lo stava osservando attentamente, quasi trattenendo il fiato.
«Pello kuezto kuadro. Una Nascita di Sergaries[13] di zubito topo la
Secezzione dell’Impero[14] … Zcuola Ardoriana …».
«Sono felice che siate un intenditore, milord».
«… rubato zei anni fa tal tempio ti Sergaries ti Iarand[15]».
«Come… rubato?».
«Potrebbe prokurarfi telle noie ze zi venizze a zapere ke zi trofa kui.
I zacertoti ti Sergaries zono piuttosto, ehm, zuscettipili, lo
zapefate?».
Il volto del mercante si fece subito allarmato. Se quel tipo avesse
fatto parola di quel dipinto, si sarebbe trovato addosso i sacerdoti
della Dea della Salute. Clienti decisamente difficili da trattare.
Lord Guy si voltò sorridendo.
«Non fi preokkupate, mio karo amiko. Ta me non uscirà una zola parola.
Anzi, ammiro ki za cirkontarzi ti koze belle, ehm, zenza batare troppo
alla forma».
I lineamenti del mercante si rilassarono. Forse si era allarmato per
nulla.
«Fi konfezzerò, anke ke io ztezzo konzerfo alkuni kapolafori ti…
profenienza incerta… Kozì ziamo pari, ehm. Entrambi appiamo una
fizione… ampia… telle recole. Penzo proprio ke foi ziate la perzona
ciusta».
«Giusta per cosa, milord?».
Il respiro di Jerorevudd era tornato regolare e la voce aveva ripreso
il tono untuoso.
«Per ezempio, kreto ke zapreste prokurarmi kualke zerfitore tefoto…».
Lord Guy sorrideva con aria d’intesa. Jerorevudd ricambiò il sorriso.
Finalmente stavano giungendo alle cose interessanti.
«Può darsi che possa fare qualcosa per voi, milord. Dipende da quanto
valutate… la devozione».
Il mercante studiava accuratamente il gentiluomo di Tolbelg. Cercava di
capire fin dove volesse spingersi e fin dove gli conveniva seguirlo.
«La tefozione è una firtù feramente prezioza…».
Lord Guy con fare distratto estrasse da una tasca una grossa, splendida
perla con la quale si mise a giocherellare. Dopo un po’ alzò gli occhi
sul suo interlocutore.
«Fi piakkiono le perle, zignor Jerorefudd?».
Jerorevudd non rispose, seguendo con lo sguardo la sfera bianca che
Lord Guy faceva saltare fra le dita, quasi ne fosse ipnotizzato.
«Io, perzonalmente, le atoro. Cozì pianche, lucite, perfette figlie tel
mare».
Il mercante si alzò dalla scrivania, per avvicinarsi a una delle
finestre che dava sulla corte interna del palazzo. Sembrò un attimo
indeciso, poi guardò nuovamente la perla e scostò le tende.
Lord Guy lo seguì vicino alla finestra. Appariva tranquillo, serafico.
Jerorevudd osservò l’espressione del volto dell’uomo di Tolbelg poi,
come se avesse deciso che quell’individuo dal buffo accento meritasse
fiducia, si volse verso la finestra e fece un segno a uno degli uomini
che passeggiavano nel cortile, un grosso individuo armato di frusta.
«Abbiamo qualche arrivo recente, vedete…».
Poco dopo, un quartetto di persone sfilò sotto la finestra, erano un
uomo, una donna e due fanciulli, incatenati e smagriti, indossavano
abiti consunti ma di fattura elegante. Si muovevano esitanti, a capo
chino. Parevano abbagliati dalla luce del giorno.
«Ebbene? Mi accontenterò di dieci di quelle perle per ciascuno di
questi validi e fedelissimi servitori. È veramente un prezzo di favore».
Il viscido mercante guardava quasi famelico il suo cliente.
Lord Guy osservò pensoso quelle pietose creature.
«Mi zemprano piuttosto male in arnese, amiko mio… Kome faccio ad
azzikurarmi ke non zi tratti ti merce… avariata?»
Il tono del nobiluomo di Tolbelg lasciava trapelare una certa delusione
mentre osservava attentamente lo scalcinato gruppetto.
«Ma prego, milord, scendete voi stesso a controllare da vicino. Vedrete
che si tratta di merce… assolutamente di valore».
Jerorevudd aveva assunto un tono se possibile ancora più untuoso
guardando con una certa apprensione il suo interlocutore. Chiamò il
maggiordomo e gli ordinò di accompagnare Lord William Guy nel cortile.
Il gentiluomo seguì il servitore e Jerorevudd lo vide dalla finestra
mentre esaminava attentamente i prigionieri, con la cura di un
allevatore nello scegliere le bestie per le proprie mandrie ma anche
soffermandosi a scambiare con loro alcune parole. Dopo circa un quarto
d’ora, Lord William Guy tornò nello studio del mercante.
«Tutto zommato non zono poi kozì mezzi male… Kreto ke ci penzerò».
«Fate presto, milord, è merce molto richiesta».
A un cenno del mercante gli sventurati vennero ricondotti all’interno
dell’edificio.
«Anke le perle lo zono, kretetemi …e il fostro prezzo non è czertamente
basso».
«Vi ricordo che siamo a Elosbrand, milord. Il mercato di questo genere
di… articoli… ha molta richiesta e poca offerta. E nessuna della
qualità che assicuro io».
«Entro tomani zera zaprete coza ho tecizo. Fi manterò un biglietto.
Entro tue ciorni tefo azzolutamente partire…».
Lord Guy s’interruppe guardando dalla finestra.
«Oh ma ke merafiglioza kreatura!».
Una splendida ragazza era comparsa nel cortile, guardata a vista dal
bravaccio che aveva preso a calci la mamma di Marvin. Era vestita
elegantemente e indossava dei gioielli ma anche lei sembrava abbagliata
dal sole.
«È la mia fidanzata! Fra due giorni, finalmente, ci sposeremo».
Il mercante era evidentemente compiaciuto di sfoggiare la sua bella.
«Komplimenti fifizzimi! Non zapefo che foste ficino alle nozze!».
Lord Guy sorrideva sotto i baffoni color carota. Jerorevudd restituì il
sorriso facendo tremare i suoi baffetti mentre si strofinava le mani
con manifesta soddisfazione.
«Non è stata una facile conquista, credetemi. È una donna altera almeno
tanto quanto è bella e non le mancavano certo i corteggiatori. Eppure
ha scelto di sposare me».
«Ma, karo Jerorevudd, a foi non manka certo il fascino…».
«Grazie, Lord Guy, mi difendo… e oltre al fascino c’è anche la mia
posizione sociale che posso definire immodestamente… brillante».
«Tecizamente una donna fortunata, direi…».
«Potete ben dirlo! E sarà anche molto invidiata. Sarà una cerimonia
fastosa, anche se abbiamo avuto poco tempo per prepararla, parteciperà
tutta la migliore società di Elosbrand».
«Kome mai c’è stato poko tempo? In cenere queste kose si programmano
per mezi… ehm… non forrei ezzere intiskreto…»
«Ho avuto il suo consenso alle nozze solo poco tempo fa. È stato
davvero difficile farla scendere dal piedistallo da dove guardava tutti
dall’alto in basso. Ma quando voglio una cosa, so come ottenerla,
io...».
«Da kome me la teskrifete, immagino ke afrà foluto far katere la kosa
dall’alto… Ma kreto ke la sua famiglia debba essere assai contenta di
un zimile matrimonio…».
«In un certo senso, è stata proprio la sua famiglia a spingerla ad
accelerare le nozze».
Si morse le labbra: aveva parlato più di quanto sarebbe stato prudente
fare. Lord Guy però appariva immerso nei suoi pensieri e non sembrava
averlo sentito.
Sembrava.
[12] Capitale di Tolbelg, grande isola, a nord, di Ainamar, monarchia
assoluta che non disdegna di dare asilo ai pirati
[13] Dea della Salute
[14] Data che segna l’inizio dell’Era Moderna, anno 1 del calendario
attuale
[15] Città portuale dell’Impero di Ardor
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
Capitolo Nove: il duello
Elosbrand, Lossios 25, 371 ore 2 del
pomeriggio
E ora, caro Ardis, sei veramente nei
guai!
Il giovane elfo era sdraiato sul letto della sua stanza e guardava il
soffitto con aria pensosa. Sul tavolo, il suo pranzo, praticamente
intatto, lo aspettava ancora. Ardis non lo degnò di uno sguardo. Da una
parte, era assai soddisfatto delle informazioni che aveva saputo
raccogliere grazie alla sua abilità e finalmente aveva le idee più
chiare su cosa stesse accadendo in casa di Sarillob Jerorevudd ma,
dall’altra, sentiva crescere dentro di sé una strana inquietudine, la
sensazione di trovarsi in un vicolo cieco. Quel che aveva scoperto lo
aveva messo in una situazione dalla quale sarebbe stato difficile
uscire onorevolmente e con la pelle indosso. Ora non aveva più dubbi su
quali fossero i traffici dell’odioso mercante ma non aveva la benché
minima prova. Dunque denunciarlo alla Guardia, nella migliore delle
ipotesi, sarebbe servito solo a mettere Jerorevudd in allarme e quella
povera gente in pericolo.
Non ti resta che agire da solo.
Ma come? Perché ora che sapeva di quei poveri schiavi non poteva far
finta di nulla. Erano sofferenti e spaventati ma il fatto di essere
insieme sembrava essere per loro molto importante. Un uomo sulla
quarantina, una donna della stessa età e due ragazzini alle soglie
dell’adolescenza. Non c’era stato modo di parlare con quella gente, ma
aveva maturato la ferma convinzione che doveva trattarsi di un’intera
famiglia. Se fossero arrivati dei compratori avrebbero anche potuto
separarli e questo sarebbe stato atroce.
Si alzò dal letto per avvicinarsi alla finestra e guardare sui tetti.
Aveva scoperto che amava camminare sui tetti delle case, non solamente
per muoversi senza essere visto. Nonostante gli anni passati fra gli
umani, non si era mai completamente abituato alle loro abitazioni e
alle loro città. A volte gli pareva di soffocare in quelle stanze
anguste e nelle strette strade chiuse fra file di alti palazzi.
Camminare sui tetti gli dava un senso di libertà e di pace. Gli pareva
di tornare all’infanzia, nelle favolose città degli elfi.
Libertà. Cosa può esserci di così
prezioso?
Ardis sentiva che doveva aiutare quella gente. Odiava lo schiavismo,
come la maggior parte di quelli della sua razza. Davanti a una simile
situazione, la sua coscienza non ammetteva repliche: doveva
assolutamente fare qualcosa per tirarli fuori di lì. Anche Bailey, pur
nel suo disincanto, non avrebbe avuto dubbi. Inoltre, c’era qualcosa
nei loro volti di vagamente familiare, che gli faceva intensamente
desiderare la loro libertà.
Chi gli ricordavano quelle persone?
Provenivano dal Kaardir, il loro accento non lasciava dubbi, ma Ardis
non ricordava di aver conosciuto, se non superficialmente, gente
proveniente da quelle zone. Eppure c’era qualcosa, in quegli schiavi,
che lo aveva colpito, ma restava lì, ai confini della sua coscienza. In
ogni caso, quella gente andava liberata.
Però era tutt’altro che facile.
La casa di Jerorevudd era una specie di fortino, guardata da tre o
quattro bravacci che non si sarebbero fatti scrupolo di eliminare chi
avesse tentato di liberare i prigionieri. Il problema era non solo di
riuscire a introdursi in quella casa senza assolutamente farsi
sorprendere ma soprattutto di trovare il modo di uscire non visti con i
prigionieri, il tutto senza esporli a gravi rischi. Un’impresa del
genere sarebbe stata impegnativa anche per i più bravi ladri di
Elosbrand. Eppure, Ardis aveva già fatto qualcosa del genere.
Non aveva avuto altre occasioni di sfoggiare il suo talento da ladro,
dopo l’avventura con Caerl Branagh. Forse, era ora che Blackwind
tornasse in azione.
Prima, però, erano necessarie altre informazioni, soprattutto su Dell e
la sua nave e per procurarsele sarebbe stato necessario tornare al
porto. Ma questa volta, un marinaio non sarebbe servito.
Quel giorno, il porto brulicava di gente anche più del solito. Grazie
al bel tempo che sembrava destinato a durare, altre due navi erano
attraccate e una sarebbe salpata fra due giorni, proprio quella
“Rondine di Mare” giunta il giorno prima da Soltë[16] agli ordini del
capitano Dell. Carri pieni di merce appena arrivata dai porti del sud
si allontanavano dalle navi, mentre altri, carichi di provviste,
andavano a rifornire le stive della “Rondine di Mare”.
Il capitano Nathaniel Dell osservava soddisfatto tutto quel movimento,
fumando pigramente la sua pipa. Era stata una spedizione
particolarmente fruttuosa, quell’ultima, e non vedeva l’ora di
raggiungere l’isolotto che aveva eletto a base delle sue operazioni…
“commerciali”. Gli restava l’ultimo impegno preso con il suo compare,
la sera di due giorni dopo, poi sarebbe stato libero di lasciare il
porto. Quasi quasi era tentato di salpare un’ora prima dell’alba, per
evitare di dover aspettare il via libera del capitano del porto.
I suoi uomini si stavano dando da fare alacremente, caricando le
provviste e disponendole nella stiva, evidentemente anch’essi
impazienti di arrivare a casa per spartirsi i proventi dell’ultima
impresa.
Guardò distrattamente la vecchia nave ormeggiata poco lontano dalla
sua, la “Sirena Incoronata”. Che
bagnarola, ragazzi! E quell’idiota del suo proprietario che
sperava di venderla. Dell si chiedeva chi sarebbe stato tanto sciocco
da comprarsela.
Un damerino riccamente vestito si aggirava per le banchine, fermandosi
di tanto in tanto a parlare con alcuni marinai. Salì a bordo della
Sirena, restando a chiacchierare col proprietario. Poi scese con lui
sottocoperta. Il capitano Dell sorrise. Stai a vedere che il vecchio Maurice è
riuscito a trovare un pollo!
Scese a terra per controllare personalmente una cassa di rum che aveva
ordinato espressamente per rifornire la sua cantina. Controllò le
botticelle una a una, fino a quando non diede l’ordine di caricarle a
bordo. Risalì sulla tolda veramente soddisfatto.
Il damerino scese circa un’ora dopo dalla “Sirena Incoronata” e puntò
direttamente la passerella della “Rondine”. Il capitano Dell se lo vide
salire a bordo con passo deciso e non poté fare a meno di domandarsi
cosa diavolo potesse volere da lui.
«Siete il capitano Nathaniel Dell?».
Il capitano fece un cenno di assenso mentre guardava meravigliato
quell’assurdo individuo che pareva appena uscito da un ballo di corte.
«Lieto di conoscervi, capitano. Sono Lord Bailey Windström, di
Aglargond».
«Piacere». Bofonchiò irritato Dell, senza togliersi neppure la pipa di
bocca. Continuava a chiedersi cosa fosse venuto a fare sulla sua nave
quell’insulso damerino.
«Immagino che vi stiate chiedendo cosa sono venuto a fare sulla vostra
nave, capitano».
Ecco, appunto! Dell rispose
con l’espressione degli occhi, senza emettere alcun suono.
«Possiamo andare nella vostra cabina? Qui c’è troppo… olezzo di pesce
per i miei gusti».
Il capitano Dell cominciava a trovare piuttosto irritante
quell’individuo, comunque, per la prudenza che aveva sempre con la
gente che pareva danarosa, lo fece scendere dalla scaletta e lo
accompagnò nella cabina di poppa.
Una volta accomodatosi sulla seggiola davanti alla scrivania del
capitano, Lord Bailey riprese:
«È presto detto: cerco un imbarco per Aglargond e mi hanno detto che la
vostra nave salperà nei prossimi giorni diretta a sud».
Dell sgranò gli occhi.
«Non so chi vi abbia raccomandato la mia nave, milord, ma noi non
accettiamo passeggeri a bordo. Senza eccezioni».
Lord Bailey sorrise.
«Davvero capitano? E allora come mai una signora è sbarcata dalla
vostra nave, giusto ieri? »
«Questa è una sciocchezza! Vi ho detto…»
Lord Bailey lo interruppe.
«Nessuna sciocchezza, capitano. Lo sa tutta Elosbrand. La carrozza che
ha portato via la dama ha seminato il panico per le strade della
città».
«Quel pezzo di cretino… Ehm, d’accordo: una dama è salita a bordo ieri
sera, per, ehm, vedere della merce che avevamo portato dal nord. Dopo
aver visto quel che la interessava è scesa e se ne è andata di gran
carriera. Fine. Le ripeto che NON intendo accettare passeggeri. Troppe
responsabilità e grane. Questa non è una stagione tranquilla per
navigare».
«Non intendete ripensarci?».
Lord Bailey fece tintinnare una borsa evidentemente piena di monete.
«Vi offro argomenti molto convincenti, sapete?».
Un lampo di avidità corse negli occhi del capitano.
«No milord. In primavera se ne potrà riparlare. Ora no».
«Bene, capitano. Buon viaggio, allora».
Il gentiluomo si alzò e lasciò solo il comandante. Scese dalla
passerella con passo spedito, dirigendosi verso la città. Il colloquio
non era andato come aveva sperato ma almeno aveva un’idea abbastanza
precisa della disposizione delle cabine della nave e della composizione
dell’equipaggio. Ora occorreva solo trovare un’occasione per salire su
quella nave.
Osso duro eh? Bene, vedremo chi è più
tosto fra noi due.
Tornò a casa dopo essersi cambiato d’abito in una camera dell’elegante
locanda “Corona d’Oro”, affittata per l’occasione in modo da poter
agire più liberamente nei panni da ricco ed eccentrico gentiluomo.
Ufficialmente, per tutti, Lord Bailey quella sera era rimasto nella sua
stanza, afflitto da un noiosissimo mal di testa.
Restava da sistemare Ardis che arrivò tranquillamente a casa, salutò la
vedova Calverton e accettò il suo invito a cena, mangiando poco e
chiacchierando tanto, salvo poi ritirarsi verso le dieci di sera,
stanco per la lunga giornata.
Mezzora dopo, Blackwind sgattaiolava sui tetti, diretto verso
l’abitazione dell’ambiguo mercante Sarillob Jerorevudd, deciso a
trovare un modo di tirar fuori di lì quella gente.
Come aveva immaginato, raggiungere il tetto del palazzotto di
Jerorevudd non era stato difficile. Completamente vestito di nero,
Blackwind era praticamente invisibile nell’oscurità della notte.
Sorrise soddisfatto. Solo il salto dall’edificio accanto era stato
impegnativo ma aveva potuto utilizzare la frusta per sostenersi,
agganciando una trave sporgente e lanciandosi nel vuoto. Non c’erano
abbaini ma sarebbe bastato calarsi nel cortile interno per raggiungere
il ballatoio del terzo piano. Da lì sarebbe stato facile entrare nel
palazzo. Rimase a lungo in ascolto. Udì i passi pesanti di qualcuno,
poi lo stridere e il chiudersi di una porta. Attese ancora un po’.
Silenzio. Poteva scendere. Si muoveva silenzioso e agile, aiutato dalla
vista da elfo che gli consentiva di amplificare anche la minima luce.
In un attimo fu sul ballatoio. In fondo, c’erano alcuni gradini che
conducevano a un pianerottolo sul quale si aprivano due porte. Una
delle due doveva aprirsi sulle scale interne. Non sapendo quale
scegliere, si accostò alla più vicina e allungò la mano sulla maniglia.
Non fece in tempo ad aprirla che la porta si spalancò e una figura
possente si stagliò sulla soglia.
«Ehi! Chi diavolo sei tu?».
Blackwind riconobbe subito la voce del bravaccio che aveva colpito la
mamma del bambino. Doveva essere quello chiamato Grizhelm.
«Un ladro eh? Ora ti faccio vedere io!».
Ora battersi era inevitabile.
Blackwind sguainò la spada e si pose in guardia sui gradini, studiando
l’avversario.
Il bravaccio era armato di una grossa ascia e appariva molto più alto e
robusto di lui. Il suo sguardo feroce dimostrava come fosse avvezzo a
uccidere e certamente doveva aver affrontato numerosi duelli, almeno a
giudicare dalle numerose cicatrici sulle braccia e sulla fronte.
Blackwind attese fino all’ultimo istante l’attacco dell’avversario e si
scansò solo di quel minimo necessario a mandare a vuoto un
violentissimo fendente. Poi ruotò rapidamente dietro al bravaccio e
partì con due rapide finte. Il grosso uomo non abboccò ma fu comunque
costretto a spostarsi sul ballatoio, in una posizione più stabile. A
quel punto Blackwind era sul pianerottolo, più in alto e quindi in
vantaggio, e doveva approfittarne.
Mentre Grizhelm alzava l’arma per tentare un nuovo attacco, il giovane
avventuriero partì con un affondo che interruppe improvvisamente per
evitare il contatto della lama con l’ascia, violentemente abbassata in
un tentativo di parata, ruotò rapidamente la spada, portandola sopra
l’arma dell’avversario, costringendolo a cambiare ancora bruscamente la
direzione del colpo. Ma per quanto il bravaccio fosse forte ed esperto
nell’uso della sua arma, il dover cambiare così rapidamente l’assetto
dell’ascia per evitare di essere colpito lo costrinse a cambiare
impugnatura e usare entrambe le mani. Il che voleva dire abbassare la
spalla sinistra. Questo era esattamente il momento atteso
dall’agilissimo ladro che scavalcò l’avversario con una spettacolare
capriola.
Grizhelm non aveva visto esattamente cosa aveva fatto il suo rivale ma
udì distintamente il tonfo che gli segnalava che adesso era dietro di
lui. In preda al panico si voltò bruscamente, facendo descrivere alla
sua arma un ampio arco nel disperato tentativo di tenere lontano quel
nemico che aveva creduto di poter uccidere facilmente. Un feroce dolore
al braccio destro gli fece capire che lo scontro era arrivato al
termine. L’ascia sfuggì dalle sue mani proseguendo la sua corsa per
diversi metri.
Blackwind sorrise trionfante nel vedere l’avversario disarmato. Ora
sarebbe bastato allungare il braccio e…
Vide gli occhi del suo nemico spalancati dalla paura.
Era un feroce assassino. Non era avvezzo a concedere mercé né se ne
attendeva.
Ma era un uomo. Un uomo che aveva paura di morire.
E i suoi occhi erano come quelli di qualsiasi altro essere vivente di
fronte a una morte crudele. Spalancati, con le pupille dilatate,
nell’attesa del colpo mortale.
Il sorriso si spense sul volto del giovane. Aveva vinto ma se ora
avesse affondato il colpo avrebbe perso tutto e si sarebbe trasformato
in un assassino. In qualcosa che aveva sempre disprezzato. Capì in un
attimo che non avrebbe mai potuto uccidere a sangue freddo. E in un
attimo decise.
Grizhelm non vide partire il calcio che lo prese alla bocca dello
stomaco e intuì solamente il violento abbassarsi dell’elsa della spada
sulla sua testa. Poi cadde privo di sensi.
«Ehi! Che succede lassù?».
«Grizhelm? Tutto bene?».
Nulla da fare. Ormai l’impresa era fallita e l’unica cosa sensata da
fare era sparire di lì il più velocemente possibile, senza lasciare
tracce. In un attimo, Blackwind tornò sul tetto e scomparve nel buio
della notte.
Serata storta.
Ardis passeggiava nervosamente nel suo appartamento, fermandosi di
tanto in tanto a guardare dalla finestra, sui tetti. Era veramente di
pessimo umore.
Dal pomeriggio in poi non era stato capace di concludere nulla di
buono. Sulla nave era rimbalzato contro il coriaceo capitano, nella
spedizione notturna in casa di Jerorevudd aveva rischiato di rimetterci
la pelle e di mettere in allarme il mercante. E, se per quanto
riguardava la nave aveva altre strade da percorrere, a proposito del
trafficante di schiavi non sapeva davvero cosa fare.
Come liberare quegli schiavi? E la
ragazza?
Il giovane elfo sentiva di dover cercare di scoprire qualcosa di più su
quella misteriosa ragazza. In lei era racchiuso praticamente tutto il
mistero di quella storia. Da quel che aveva capito, Elorelei non si era
allontanata da Elosbrand, almeno non tanto a lungo da far notare la
propria assenza. Allora cosa ci faceva a bordo della “Rondine di Mare”?
Forse il capitano Dell gli aveva raccontato qualcosa di vero. E ancora:
se fosse stata davvero contenta di sposare Jerorevudd, che ragione
c’era di farla sorvegliare a vista e tenerla rinchiusa nel palazzo? A
meno che…
Analizzò mentalmente quello che aveva visto della casa del mercante. La
ragazza era scortata da un bravaccio e trascorreva rinchiusa la maggior
parte del tempo, dal momento che era rimasta abbagliata anche dal
pallido sole invernale. I prigionieri erano tenuti rinchiusi in
un’altra ala, in comune avevano solo il cortile e la ragazza era scesa
solo dopo che i prigionieri erano stati portati via. Forse non dovevano
incontrarsi?
Perché?
Come posso tirarla fuori di lì?
Che possibilità aveva di entrare in quel sorvegliatissimo palazzo,
liberare i prigionieri e, magari, portarsi via la bella? Nessuna,
ovviamente, a meno di non voler rischiare la vita di quella gente.
E se davvero fosse stata la fidanzata consenziente di Jerorevudd?
Questo gli riusciva difficile crederlo, non aveva alcun senso.
Era assolutamente necessario inventare qualcosa di originale, qualcosa
che gli permettesse di far portare fuori dal palazzo la ragazza e gli
schiavi, senza dover tentare azioni di forza. La soluzione ideale
sarebbe stato poter comprare veramente gli schiavi ma gli erano rimaste
solo due perle e poco oro. Bisognava trovare un finanziatore. Ma chi
sarebbe mai stato tanto folle da finanziare un’impresa del genere?
Improvvisamente, gli venne un’idea. Forse un candidato si poteva
trovare. Era un’idea pazza, un gioco di equilibrismo, una prova di
sottigliezza nella quale avrebbe dovuto dare il meglio di sé. Una burla
audacissima. Proprio il genere di impresa che Blackwind adorava.
Si torna in scena!
[16] Isola a oriente di Elosbrand, governata da una teocrazia alquanto
oppressiva.
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
Capitolo Dieci: rum e pirati
Elosbrand, Lossios 26, 371 ore 6 del
pomeriggio
«Ma insomma! Si può sapere che succede?».
Jerorevudd non ne poteva più di tutto quel vociare e uscì fuori del suo
studio, affacciandosi sul ballatoio delle scale. Rimase sconcertato nel
vedere un vecchio marinaio arrampicato sulle spalle del suo maggiordomo.
«Signor Jerorevudd, sono desolato…».
Il povero Fred pareva veramente esasperato.
«Desholato un corno! Ora vediamo she il tuo padrone non è interesshato
a guadagnare un shacco di bei sholdoni!».
Il vecchio marinaio tentò uno scatto sulle scale, subito frustrato
dalla sua gamba sinistra che pareva non reggerlo. Il maggiordomo cercò
di fermarlo ma fu colpito al capo dal bastone di bambù che il vecchio
maneggiava come una clava e cadde al suolo.
«Ma si può sapere chi diavolo sei, vecchio?».
Jerorevudd non sapeva se mettersi a ridere o chiamare una delle sue
guardie.
«Finn, milord, Errol Finn, per shervirvi».
Il vecchio si esibì in un buffo inchino. Il mercante lanciò un’occhiata
sconsolata al povero Fred che si stava massaggiando la testa. Poi si
strinse nelle spalle e indicò al vecchio la porta del suo studio.
«Venite, signor Finn, accomodatevi».
Si chiedeva perché non avesse fatto buttar fuori quel vecchio ubriacone
ma c’era qualcosa che lo incuriosiva. A volte la fortuna entra in casa
assumendo gli aspetti più improbabili. Se quel marinaio aveva qualcosa
d’interessante da proporre si sarebbe visto subito. In caso contrario
si sarebbe tolto personalmente la soddisfazione di buttarlo giù dalle
scale.
«Allora, vecchio? Quale sarebbe il grande affare che mi proponi?».
Il vecchio si era sprofondato nella poltrona dello studio con aria
evidentemente soddisfatta.
«Avete mai shentito parlare di Striker, “Scourge” Striker?»
«Chi? Il pirata?»
Certo che aveva sentito parlare di quel diavolo d’uomo. Era ricercato
in tutto l’Ocealith[17] ed era un famoso schiavista. Avrebbe voluto
mettersi in affari con lui ma non era mai riuscito a trovare l’appiglio
giusto.
«Proprio lui! Bene Scourge è mio nipote!»
«Hai bevuto?»
Jerorevudd sgranò gli occhietti scuri.
«No, almeno… non ancora, milord. Per molti anni shono shtato la shua
fonte d’informazioni, qui a Elosbrand. Poi il Patriarca Artain ha
cominciato a interessharshi troppo delle shue operazioni e Scourge ha
preferito occuparshi del Formensiar[18]. Ora shono passhati alcuni anni
e io vorrei rimettermi in affari con mio nipote».
«Dubito che imbarchi marinai della tua età, nonno. E non credo sia così
pazzo da progettare una scorreria su Elosbrand».
I baffi del mercante tremolarono. Vuoi
vedere che…
«Certo che no, anche she sfido qualshiashi timoniere a trovare la rotta
come il vecchio Finn! L’affare è molto più shemplice: io vado da
Scourge, compro gli schiavi, li porto qui e voi li rivendete. Facile
no?».
«Mica tanto. E poi chi ti ha detto che mi interesso di cose del
genere?».
Jerorevudd guardava il vecchio con aria sospettosa.
«Avanti, milord! Non mi farete credere che Dell commerci in tesshuti
preziosi, vero?».
Il mercante cominciò a pensare che il suo fido Riccick avesse combinato
un bel guaio a lanciare quella carrozza per le vie di Elosbrand. Ora
tutta la città sapeva che intratteneva rapporti con quel mezzo pirata.
«Ma, ammesso e non concesso che la cosa mi interessi, perché diavolo
non ti imbarchi e non vai a prendere gli schiavi per conto tuo?».
Il furbo trafficante sospettava di sapere la risposta.
«Shemplice, milord: mi sherve una nave.
Jerorevudd sorrise e cominciò a pensare che quel colloquio aveva preso
una piega decisamente interessante. Quel vecchio poteva aprirgli
orizzonti nuovi nelle sue attività ed era un tipo che pareva potersi
facilmente stringere in pugno. Il tipo di collaboratore che preferiva.
«Di quanto hai bisogno?».
«Diecimila».
Il mercante sussultò.
«Dico, vuoi comprarti una Galea?».
«No, ma non possho certamente fare tutto da sholo: devo assholdare
cinque o shei uomini in gamba e fidati, non vi pare?».
Gli pareva sì. Dopo tutto, quel vecchio aveva del sale in zucca,
non solo rum.
«Uno dell’equipaggio sarà uno dei miei uomini che verrà con te… per
motivi di sicurezza, mi capisci, vero?».
«Ci mancherebbe altro, milord. Sharà il benvenuto!».
«Bene, allora non ci resta che stendere un regolare contratto… Siamo in
affari, nonno!».
Ovviamente, le clausole le avrebbe decise lui. Molto favorevoli.
Brindarono alla nuova società con dello cherry che il marinaio non
parve gradire eccessivamente, tanto che chiese al “socio” Sarillob una
bottiglia di Rum. Jerorevudd fece finta di non aver udito l’espressione
“socio” e chiamò il maggiordomo perché portasse il rum.
«Vado con lui, shocio! Il rum me lo voglio scegliere da sholo!»
Il mercante cominciava a non poterne più.
«D’accordo, Fred, accompagna il signore in cantina e assicurati che
scelga UNA bottiglia di Rum, del migliore. Poi accompagnalo alla
porta».
Avrebbe voluto dire “buttalo fuori” ma non gli parve il caso. Non per
allora, almeno.
Il vecchio scese con difficoltà le scale fino alla cantina e Fred evitò
accuratamente di dargli tempo per rifiatare e di attenderlo quando si
attardava, ignorando ostentatamente le proteste e gli insulti del
marinaio. Giunti davanti alla porta della cantina, il maggiordomo
estrasse la chiave e aprì. Un tanfo umido fuoriuscì dall’apertura. Dopo
aver acceso la lanterna che si era portato dietro, Fred entrò nel
locale.
«Ecco» disse, indicando una serie di bottiglie su uno scaffale. «Quello
è il rum. Scegli quello che vuoi e vattene».
Il vecchio si avvicinò allo scaffale e prese una bottiglia. La osservò
bene, la annusò, la rigirò in mano e si avvicinò al maggiordomo.
«Fa’ un po’ di luce, Freddie!».
Il maggiordomo lo guardò scandalizzato, poi avvicinò la lanterna.
«No, queshto no. Tienilo, però: non shi sha mai!»
Il vecchio Errol lasciò la bottiglia nelle mani del maggiordomo e si
riavvicinò allo scaffale. Prese un’altra bottiglia e ripeté tutto il
rituale, al termine del quale, Fred si ritrovò con due bottiglie di rum
in mano. Andò avanti così per una mezz’ora fra le proteste del
maggiordomo che cominciava a essere in difficoltà a reggere tutte
quelle bottiglie. Alla fine, Errol se ne andò trionfante con una
bottiglia polverosa in mano, lasciando un disperato Fred a rimettere in
ordine quel macello.
«Scushami she non ti aspetto e non ti preoccupare per me: troverò la
strada da sholo. Non vedo l’ora di asshaggiare queshto nettare!».
Uscì dalla cantina con aria evidentemente soddisfatta.
Appena fuori dalla visuale del maggiordomo, però, il marinaio abbandonò
l’andatura claudicante e scivolò silenzioso nel cortile. Raggiunse
rapidamente l’uscio da dove Lord Guy aveva visto uscire la ragazza
quella stessa mattina. Esaminò la serratura e vide che il chiavistello
era alzato. Provò prudentemente ad aprire e sbirciò dentro. Una guardia
stazionava davanti a una porta. Evidentemente Elorelei era prigioniera
lì dentro. Mentalmente, cercò di figurarsi quale potesse essere la
posizione della stanza e dove avrebbero potuto affacciarsi le sue
finestre: concluse che doveva essere sul retro dell’edificio. Tornò
indietro e si avviò all’uscita.
Fred doveva essere ancora alle prese con le bottiglie, visto che non si
vedeva in giro. Il vecchio riprese l’andatura da sciancato e si
incamminò faticosamente sulla strada. Se lo aspettava e non fece fatica
ad accorgersi di un’ombra che lo seguiva.
Il vecchio marinaio percorse faticosamente la strada che lo separava
dal porto, controllando di tanto in tanto che il suo inseguitore non
perdesse la pista.
Giunto al molo, si diresse verso la “Sirena Incoronata”. Salì a bordo.
Dopo una mezz’ora ridiscese, salutato con un brindisi dal vecchio
Maurice e prese decisamente la via della Taverna dello Squalo.
L’ombra che lo seguiva pareva sparita ma il vecchio non se ne curò.
Arrivato nei pressi del locale, entrò senza esitare e si diresse a un
tavolo. Non dovette attendere molto: il bravaccio di Jerorevudd si
affacciò da dietro una finestra, lo guardò attentamente, poi entrò nel
locale. Il vecchio ordinò da bere.
Dopo una ventina di minuti, la spia si allontanò, evidentemente
soddisfatta. Avrebbe raccontato a Jerorevudd che il vecchio Errol si
era recato a comprare la “Sirena Incoronata” e poi era andato a far
baldoria alla taverna e c’era da aspettarsi che ci avrebbe passato
buona parte della notte. Si avviò deciso verso il palazzo del mercante
ma a un tratto fu preso da un dubbio. Forse, avrebbe fatto meglio a
seguire l’ubriacone per scoprire dove abitava.
Sì, era decisamente più prudente. Jerorevudd sarebbe stato molto
contento del lavoro svolto.
La spia si era allontanata per una decina di minuti soltanto, lo
avrebbe certamente trovato ancora al tavolo occupato a ubriacarsi.
Quando fece ritorno alla taverna, però il vecchio era sparito. Chiese
informazioni al taverniere che gli riferì che il vecchio, evidentemente
già ubriaco, si era allontanato da pochi minuti. La spia uscì
precipitosamente per cercare il marinaio sciancato.
Invano.
[17] Il vasto mare che circonda l’isola di Ainamar
[18] Grande regno a nordovest della repubblica
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Capitolo 11 *** Capitolo 11 ***
Capitolo Undici: un turpe mercato
Elosbrand, Lossios 26, 371 ore 10
della sera
Un’ombra scivolò nel vicolo, dietro il palazzo di Jerorevudd. Non
c’erano finestre sulla parete di pietra, solo alcune piccole feritoie
poste a più di due metri d’altezza. L’ombra si accostò alla parete,
proprio sotto una delle feritoie e cominciò a salire. Le grandi pietre
fornivano facili appigli alle esperte mani di Blackwind che in pochi
attimi fu in prossimità dell’apertura. Ascoltò con attenzione e gli
parve di udire i singhiozzi di una donna. Guardare dentro la stanza era
impossibile a causa dell’angolazione della feritoia, dunque il giovane
rimase ad ascoltare a lungo, finché non fu assolutamente convinto che
insieme alla ragazza non ci fosse nessun altro.
Nel frattempo, seduta sul letto, con la testa fra le mani, Elorelei
Leblanc non riusciva a spiegarsi come fosse cominciato quell’incubo dal
quale non riusciva a uscire. Quando era arrivata più morta che viva a
Elosbrand, aveva pensato di essersi lasciata alle spalle le peggiori
esperienze della sua giovane vita. Invece, non era che l’inizio di una
spaventosa persecuzione dalla grottesca apparenza di un corteggiamento
da parte di quel ricco e odioso mercante che non le aveva dato un
attimo di tregua. Elorelei era una donna libera, da sempre educata a
fare le proprie scelte e assumersene la responsabilità, senza
sottostare a imposizioni. E quando aveva detto in faccia a
quell’orribile uomo quel che pensava e che non sarebbe stata mai sua,
lo aveva visto trasfigurarsi, perdere ogni traccia di buone maniere e
rivelare l’animo dello schiavista che era. Uno schiavista e un infame
ricattatore che ora la teneva completamente in pugno.
«Elorelei! Elorelei!».
La voce sommessa di Blackwind scosse la ragazza che si avvicinò alla
fessura sopra la sua testa.
«Chi mi cerca?».
La voce della giovane donna tremava per un misto di speranza e di
timore.
«Sono un amico, mia signora. Voglio che sappiate che cercherò di
aiutarvi in ogni modo. Voi, però dovete fidarvi di me».
«Come posso fidarmi di uno sconosciuto? Ditemi almeno il vostro nome!».
«Io sono colui che non sa stare senza pensarvi. Io sarò chiunque voi
vogliate ch’io sia. Sarò il vento che vi carezza nella notte e la spada
che troncherà le vostre catene. Vi dovete fidare di me perché non avete
nessun altro su cui contare. Perché gli occhi che ho visto in quella
carrozza hanno lasciato un segno dentro di me. Perché non permetterò a
quella specie di ratto di farvi alcun male. Perché di voi, del vostro
angelico viso ormai mi è presa un’inguaribile malattia!».
La voce del giovane si era fatta appassionata e appariva decisamente
sincera, forse un po’ ingenua, ma sincera.
La speranza cominciò a farsi strada nel cuore della ragazza. Certo, non
era una situazione adatta a una dichiarazione romantica ma, almeno, le
dava una ragione per fidarsi. Si chiese dove potesse aver incontrato
quel tipo.
La carrozza?
Le tornò alla memoria un giovane che aveva strappato un bambino quasi
da sotto gli zoccoli dei cavalli lanciati in corsa. Ricordò gli occhi
profondi di quell’uomo.
«Voi siete quello che ha salvato il bambino?».
«Sì, e, mentre stavo ricadendo a terra, i miei occhi si fissarono in
quelli più belli che avessi mai visto. Nei vostri occhi, Elorelei».
«Signore, voi siete molto romantico ma io domani a quest’ora sarò già
la sposa di Jerorevudd e non potrò rifiutarmi di farlo».
«Perché non potete? Cosa vi costringe?».
«Perché la vita delle persone che mi sono più care dipende da questo
matrimonio. Vi prego, non mi fate dire di più, temo troppo per le loro
vite».
«Quello che avete detto mi è sufficiente Elorelei. Domani, a quest’ora,
voi sarete fra le braccia dei vostri cari, è una promessa».
Nella mente di Blackwind tutti i tasselli si stavano ricomponendo nel
giusto ordine. Ora sapeva esattamente cosa occorreva fare per strappare
la ragazza al suo aguzzino.
«Domani sera, un vento nero spazzerà via tutte le vostre paure, mia
signora. Mi raccomando: non vi tradite e abbiate fiducia in me».
«Voglio fidarmi di voi, signore. Non mi resta altra speranza».
«A domani, non temete».
«A domani».
La ragazza si lasciò cadere sul letto, pensando a come poteva essere
strana la vita, a volte. Sembrava tutto così assurdo. Eppure, si
sentiva il cuore più leggero.
Pochi minuti dopo, il maggiordomo bussò alla stanza di Jerorevudd che
stava accingendosi ad andare a dormire. Il mercante aprì allarmato:
cosa poteva essere successo a quell’ora? Un altro ladro? Sospirò di
sollievo quando vide che Fred era assolutamente tranquillo.
«Un ragazzino ha portato questo biglietto per voi, signore. Viene da
Lord William Guy di Wos-Toldir».
«Fai vedere!».
Che sia la risposta per la vendita
degli schiavi?
Guardò il biglietto e sorrise:
Accetto l’offerta. Preparate la merce
per l’alba di domani.
W. G.
Tutto stava andando ancor meglio di quanto si aspettasse.
«Chiamami Grizhelm. Domattina concluderemo un ottimo affare».
Dormì bene quella notte. Convinto che tutto stesse andando secondo i
suoi piani, Jerorevudd sognò montagne di perle e sontuose feste
nuziali. Si svegliò prima dell’alba, senza bisogno che qualcuno lo
chiamasse, felice ed eccitato come un bambino.
La notte morente era ancora estremamente buia e la nebbiolina che
invadeva Elosbrand quasi tutte le notti d’inverno la rendeva ancor più
spettrale. Le luci della città erano tutte spente, tranne quelle dei
fornai che incominciavano allora la loro opera. Il palazzo di
Jerorevudd era immerso nel sonno e nessun rumore squarciava il velo di
nebbia che lo avvolgeva.
Improvvisamente, dal buio della strada emerse una figura avvolta in un
mantello scuro. Montava un cavallo che camminava al passo, senza
emettere quasi alcun suono. Solo un osservatore attento e dotato di una
fonte di luce avrebbe potuto rendersi conto che gli zoccoli del cavallo
erano fasciati da pesanti bende di lana. Il misterioso cavaliere arrivò
fino alla piccola porta che, nel vicolo che costeggiava il lato
sudovest del palazzo, dava accesso alla servitù, scese da sella e bussò
energicamente. Uno spioncino si aprì. Il cavaliere scostò il mantello
che gli copriva il volto, rivelando due folti baffi rossicci. Si udì un
leggero rumore e la porticina si aprì.
Il profilo murino di Jerorevudd si sporse dalla porta, quasi annusando
l’aria fredda e umida del mattino che stava per nascere.
«Ben tornato, Sir Guy, sono lieto che abbiate accettato la mia
offerta».
I baffi rossicci del gentiluomo di Tolbelg si atteggiarono a un sorriso
che, per un attimo, apparve a Sarillob stranamente sardonico.
«Tefo confezzarfi ke, altrove, ho trofato prezzi più konfenienti ma
ziamo a Elosbrand e rikonozco ke kuesta è la legge tel merkato. Ekko le
perle».
L’uomo incappucciato porse un sacchetto al mercante che ci ficcò quasi
il naso dentro, come per annusarne il contenuto. Jerorevudd rientrò
nell’oscurità della casa dopo aver fatto cenno di attendere a Lord Guy.
«Bene, i conti tornano. Credetemi, avete fatto un ottimo affare, Lord
Guy».
Quattro figure incappucciate uscirono dalla porticina, le braccia
legate dietro la schiena e unite insieme con una lunga corda.
«Ti questo zono fermamente konfinto, karo Zarillop!».
Lord Guy osservò da vicino tutti e quattro gli schiavi, scrutando
dentro i loro cappucci. Poi sembrò soddisfatto. Indicò ai prigionieri
di fermarsi dietro al suo cavallo e prese il capo della corda che li
teneva legati.
«Karo Jerorevudd, è ztato un autentico piacere fare affari kon foi. I
miei migliori auguri per il fostro matrimonio: ke zia una kzerimonia
intimentikapile!»
Si voltò e si allontanò nella nebbia trascinando con sé i disgraziati
oggetti di quel turpe mercato.
Il gruppetto percorse un breve pezzo di strada, poi Lord Guy si infilò
dentro a un buio porticato che doveva aver conosciuto tempi migliori.
Il gentiluomo scese da cavallo e scrutò attentamente la strada. Poi
sguainò un pugnale e tagliò i legacci dei suoi prigionieri. Lo stupore
si dipinse sul volto dei quattro disgraziati.
«Siete liberi signori».
Il buffo accento nordico era scomparso e la voce era diventata
giovanile. Un attimo dopo, sorridendo, il gentiluomo si tolse anche i
due baffoni rossicci. Si avvicinò all’uomo che lo guardava a bocca
aperta.
«Il signor Leblanc, immagino».
Lo stupore sul volto dell’uomo crebbe ancora di più. Si appoggiò al
muro e Blackwind temette che potesse svenire da un momento all’altro.
«Chi vi ha detto il mio nome? Jerorevudd?»
Blackwind rise.
«Quello? No, signor Leblanc, non avrebbe mai fatto una cosa tanto
pericolosa. Lui voleva solo che voi e la vostra famiglia spariste per
sempre, senza lasciare traccia. Ho semplicemente capito che questa
doveva essere la famiglia di Elorelei, solo così si poteva spiegare il
consenso alle nozze».
La signora Leblanc sembrò riprendersi e si avvicinò al giovane
avventuriero.
«Come potremo mai liberare Elorelei? Dobbiamo farle sapere che siamo
liberi, così non sposerà quell’orrendo individuo».
Il giovane scosse la testa.
«Ora sono io che ho bisogno di voi, signori, per liberare Elorelei. Non
è possibile farla uscire da quel palazzo, non con le nostre forze
almeno. Potremmo denunciare Jerorevudd ma potrebbe usare Elorelei come
ostaggio. Io, forse, ho un’idea migliore».
Sorrideva, rivolgendosi all’uomo che stava abbracciando la moglie
mentre i due ragazzini stremati e impauriti si stringevano dietro i
genitori.
«Ma voi chi siete? Perché avete speso tutto quel denaro per noi? E cosa
sapete di Elorelei?»
L’uomo era sconvolto, la voce profonda rotta dall’emozione, in bilico
fra la gioia e la paura.
«Abbiate pazienza e fidatevi di me. Restare qui è pericoloso. Conducete
la vostra famiglia al porto. Sul molo, vicino alla nave che vi ha
catturati e condotti in questa città, è ancorata una vecchia bagnarola,
la “Sirena Incoronata”. Il proprietario vi accoglierà a bordo e vi
nasconderà fino a stasera. Avrete modo di rifocillarvi e riposare: i
ragazzi mi paiono esausti. Ci vedremo là fra un paio d’ore e potremo
parlare liberamente. Mi raccomando: finché non sarete a bordo con tutta
la vostra famiglia tenete i cappucci abbassati. Non credo che nessuno
possa riconoscere voi, vostra moglie o qualcuno dei vostri figli ma è
meglio essere prudenti».
Diede un buffetto a uno dei ragazzini che rispose con un timido
sorriso. Blackwind lo guardò sorridendo a sua volta. Era straordinaria
la somiglianza con la sorella più grande.
«Andate, ora. Fate quel che vi ho detto e tutto andrà bene».
«Come potrò mai ringraziarvi?»
Leblanc aveva il volto rigato di lacrime di felicità. Blackwind lo
abbracciò, a sua volta commosso.
«Non c’è bisogno di ringraziarmi se faccio quello che reputo giusto. E
poi, credo proprio che questa storia mi frutterà molto più di quanto ho
investito».
La sua voce aveva ripreso il solito tono allegro e scanzonato.
Rimase un po’ a sorvegliare la via, mentre i quattro schiavi fuggivano
verso la libertà, poi riprese il cavallo e puntò verso la casa della
vedova Calverton. Si lamentava, la simpatica vedova, che Elosbrand era
diventata troppo tranquilla e non c’erano più argomenti su cui
chiacchierare. Quella sera le avrebbe dato un bel po’ di argomenti per
spettegolare con le amiche.
L’importante era riuscire a restar fuori da quei pettegolezzi.
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Capitolo 12 *** Capitolo 12 ***
Capitolo 12
Capitolo Dodici: trappola per topi
Elosbrand, porto, Lossios 27, 371 ore
5 del pomeriggio
Era già buio, quella sera. Sarebbe stata anche luna nuova e il cielo
era velato da nuvole cariche di pioggia. Quella notte il tempo sarebbe
cambiato. La nebbia saliva ad avvolgere il porto. La sentinella a bordo
della “Rondine di Mare” sospirò guardando le luci calde della città.
Erano scesi tutti, chi a far baldoria dall’amico del capitano, chi
nelle taverne del porto e lui e quell’altro disgraziato a prua erano
stati lasciati a fare la guardia alla nave. E c’era da sperare che la
burrasca che stava per scatenarsi cessasse entro l’indomani, altrimenti
non sarebbero neppure salpati e la spartizione del bottino sarebbe
stata rimandata. Le luci delle taverne del porto erano accese e
trasmettevano allegria pur attenuate dalla nebbia serale. Il vento
trasportava fin sulla nave l’eco attutita di risate e canti.
Mentre guardava come ipnotizzato quelle luci, il marinaio pensava come
avrebbe voluto essere anche lui a spassarsela con qualcuna delle
ragazze delle taverne. Immerso nei rimpianti, non vide che una nera
ombra furtiva emerse dalla nebbia, scavalcò la murata opposta e scivolò
dietro di lui per infilarsi nel boccaporto.
Blackwind scese silenziosamente sottocoperta e ritrovò facilmente la
cabina del capitano. Estrasse il mazzo di chiavistelli dalla fascia
viola che portava in vita e aprì senza troppe difficoltà la porta di
legno. Una volta entrato, si tolse il mantello e lo appese davanti
all’oblò della cabina in modo da velarlo completamente. Accese una
candela. Senza esitare si diresse alla scrivania. Il diario di bordo
recava annotazioni di scarso interesse, evidentemente lasciate in bella
mostra per eventuali ispezioni. Doveva essercene un altro.
Impiegò quasi un’ora per trovare uno scomparto segreto. Estrasse gli
arnesi e si mise al lavoro con la dovuta calma. Ci volle un po’ ma
riuscì ad aprire lo sportello mimetizzato. Dietro c’era una specie di
piccolo ripostiglio dove si trovavano due bauletti. Li esaminò
accuratamente: su entrambi c’era una trappola, un ago a molla,
certamente avvelenato. Prese da una borsa che portava legata alla
cintura un blocchetto di sughero, lo pose attentamente davanti al
forellino dove era annidato il pungiglione e fece scattare la trappola.
Ripeté l’operazione con l’altro scrigno. Ora poteva tranquillamente
dedicarsi alle serrature. Non ci mise molto ad aprirli. Oro, gioielli,
oggetti di valore. E un quaderno. Trovato!
Cominciò a leggere.
L'ultima crociera della Rondine era stata piuttosto diversa dal solito.
Una commissione da cinquemila sonanti monete d’oro da parte del signor
Sarillob Jerorevudd. L’obiettivo era di catturare e portare a Elosbrand
un'intera famiglia, la famiglia Leblanc, residente in una splendida
villa nei pressi di Mirandar[19]. Nessuno doveva essere ferito e
tutti dovevano arrivare in porto in buone condizioni. Il capitano Dell
aveva pianificato per bene l'azione e in una notte di due settimane
prima aveva fatto il colpo. La faccenda si era rivelata particolarmente
facile perché la villa era piuttosto discosta dall’abitato e i servi
della famiglia furono sorpresi nel sonno e sopraffatti rapidamente. In
pratica, tutta l’operazione era durata meno di mezz’ora.
Inoltre, e non era certo poco, il forziere di casa si era dimostrato
piuttosto ben fornito. Gli ordini erano stati tassativi: tutti i membri
della famiglia avrebbero dovuto essere condotti a Elosbrand senza che
nessuno potesse vederli o mettersi in contatto con loro. Giunti in
porto avrebbero ricevuto una visita da parte di damigella Elorelei, poi
non sarebbe rimasto che consegnarli a Jerorevudd nel modo più discreto
possibile.
Nulla che già non fosse chiaro ma quel quaderno era una prova
inconfutabile e inchiodava tutta la combriccola di mascalzoni. Inoltre,
il contenuto di uno degli scrigni doveva essere costituito dai beni dei
Leblanc e dalla paga dell’equipaggio. L’altro scrigno conteneva il
bottino depredato a una nave nella quale si erano imbattuti nel viaggio
di ritorno. I pirati, certamente, non vedevano l’ora di spartirsi
entrambi gli scrigni.
Ovviamente, Blackwind immaginava un destino del tutto diverso per
quelle ricchezze.
Alle sette in punto di quella sera, Lord Bailey Windström venne
annunciato nel Salone delle Feste del Palazzo della Repubblica di
Elosbrand, dove si sarebbe dovuto celebrare il matrimonio più sontuoso
degli ultimi anni.
Quella sì che era una festa! Il salone era pieno di gente elegantemente
vestita e di tavoli imbanditi. Un’orchestrina suonava musiche raffinate
e i camerieri erano tutti in livrea. Una volta tanto, Jerorevudd non
aveva badato a spese per allestire il ricevimento e aveva affittato
nientemeno che il Salone delle Feste del Palazzo della Repubblica e
invitato molti dei notabili della città. Voleva assolutamente che il
suo fosse ricordato come il matrimonio dell’anno, a Elosbrand. In
effetti, lo sarebbe stato, ma non esattamente come se lo figurava lui.
La signorina Elorelei si aggirava fra gli invitati cercando di
mantenersi calma ma il sorriso che rivolgeva a coloro che si
congratulavano con lei era sempre tirato. Salutava una folla di persone
che le erano per lo più sconosciute e si chiedeva cosa le avesse
attirate a presenziare a una cerimonia che non le riguardava e che non
aveva nulla di lieto. Erano per lo più mercanti della città e capitani
di vascello. Pochi fra i nobili si erano degnati di accettare l’invito
del ricco ma decisamente borghese mercante. Fra i presenti spiccavano
il noto armatore Irlentree e il losco ma ricchissimo Kestor, con tutta
la famiglia e una decina di tirapiedi al seguito. Anche Dell e parte
della sua ciurma di pirati erano fra gli invitati.
La grande sala era riccamente adornata di arazzi e tendaggi di grande
valore. L’illuminazione era garantita da tre enormi lampadari di legno,
decorati in argento, ognuno con tre ordini di lampade a olio. Una volta
accesi, fornivano una luce calda, capace di illuminare anche gli angoli
dell’immenso salone. Da una parte, un’enorme tavola era imbandita con
manicaretti di ogni genere e dieci giovani addetti, vestiti con
eleganti marsine, servivano gli invitati che volevano mangiare
qualcosa. Sul fondo del salone, nei pressi di una grande finestra
decorata con vetri colorati, era stato eretto un altare rivestito di
velluto rosso. Dalla parte opposta stava il portone d’ingresso,
guardato da due soldati che indossavano le insegne della Repubblica. Ai
lati del salone, due ampie scalinate portavano a un ballatoio che
correva intorno a tutta la sala.
Un giovane riccamente vestito si presentò con galanteria a Elorelei.
«Le mie più vive felicitazioni, mia signora. La nostra città diverrà
ancora più bella stasera».
«Siete molto gentile signor…».
La ragazza guardò con curiosità lo sconosciuto.
«Bailey, mia signora. Lord Bailey Windström, di Aglargond. Per
servirvi».
Il giovane si chinò per baciarle la mano.
«Non temiate nulla. Stasera sarà una bella sera, Elorelei. Qualcuno
interverrà al momento giusto».
La ragazza sgranò i grandi occhi neri.
«Ma… la vostra voce… chi siete?».
«Un amico devoto. Abbiate fiducia in me».
La cerimonia sarebbe cominciata dopo circa un’ora ed Elorelei passò
quel tempo a chiedersi cosa stesse accadendo. Era convinta di aver
riconosciuto la voce di Lord Bailey come quella dello sconosciuto che
le aveva parlato la sera precedente. Beh, se era lui, come
corteggiatore non era affatto fra i peggiori. Non poteva fare a meno di
chiedersi, con trepidazione, se avrebbe mantenuto la parola data.
La sacerdotessa del tempio di Kallothien[20] che avrebbe officiato il
matrimonio era occupata a istruire le ancelle, cercando di mettere a
punto gli ultimi dettagli del rito.
Vedendola, la fanciulla sentì il coraggio venirle meno e temette
veramente che quella sera sarebbe stata legata a forza a un uomo
bestiale che le faceva semplicemente ribrezzo.
Nel frattempo, Lord Bailey incontrò il capitano Dell e lo salutò
cerimoniosamente.
«Buona sera capitano. Sono lieto di incontrarvi ancora e in
un’occasione così festosa».
Il marinaio lo guardò con aria perplessa.
«Cosa? Ah, certo, ora vi riconosco. Pensavo che foste ancora in cerca
di un imbarco».
Dell non fece nulla per mascherare il tono beffardo.
«Vi dirò che, nonostante la vostra ostinazione a negarmi l’imbarco
sulla vostra nave, ho trovato quello che stavo cercando. Non è stato
poi così difficile, anche se ho dovuto, diciamo, forzare qualche porta
ed evitare qualche trappola».
Il damerino sorrideva con aria soddisfatta mentre nel suo sguardo
balenò una luce di divertimento.
«Sono contento per voi».
Dell sentì che quella conversazione stava diventando una specie di
duello.
«Grazie della gentilezza, capitano e mi raccomando: cercate di
divertirvi… per ora».
Lord Bailey scomparve fra gli invitati prima che il capitano avvertisse
qualcosa di inquietante nelle sue parole.
Intanto, altra gente era arrivata: eleganti signore e azzimati
damerini, tutti rigorosamente accompagnati da servi ossequiosi.
Giunsero alcune novizie del tempio della Regina del Mondo, un gruppo di
musicanti e anche alcuni monaci incappucciati.
Il matrimonio incominciò, fastoso come da programma. La sacerdotessa si
era impegnata alacremente a rendere suggestivo il rito, ben conscia che
erano veramente pochi i matrimoni celebrati dalla sua chiesa. La coppia
era assisa su due eleganti sgabelli, in prossimità dell’altare
allestito con sfarzo dalla sacerdotessa. Questa, tutto sommato, predicò
bene, evitando le asprezze tipiche della sua cruda religione, e arrivò
in circa mezz’ora al culmine della cerimonia. A quel punto era uso
chiedere ai presenti se qualcuno avesse motivo di opporsi al
matrimonio, dopodiché si sarebbe suggellata l’unione. La sacerdotessa
recitò la rituale domanda e, non attendendosi opposizioni, fece per
proseguire la cerimonia ma non riuscì a ricominciare il rito perché una
voce stentorea echeggiò nel salone.
«Veramente io qualcosa da dire su questa unione ce l’avrei!».
Sul ballatoio, in cima alle scale, comparve un giovane uomo
completamente vestito di nero, il volto mantenuto in ombra dalla larga
tesa del cappello ornato di una splendida piuma, nera anch’essa. Come a
un segnale, i monaci incappucciati si riunirono ai piedi dell’ampio
scalone.
«Questa ragazza sta per sposarsi costretta da un ignobile ricatto e
queste persone sono le prove viventi di tutto!».
I monaci scoprirono i loro volti.
«Mamma! Padre!».
Elorelei scappò dal fianco del suo fidanzato per correre fra le braccia
dei suoi cari mentre un mormorio indignato percorreva la sala. Rimasero
strettamente avvinti, finché il misterioso individuo riprese a parlare.
Jerorevudd era rimasto in piedi, immobile, pallido, quasi stordito. I
suoi uomini gli si avvicinarono, come per proteggerlo.
«Il qui presente mercante ha fatto catturare i genitori e i fratelli di
Elorelei per costringerla a sposarlo ma, per liberarsi di loro, proprio
stamani li ha venduti a uno schiavista di Tolbelg!».
Elorelei si voltò di scatto.
«COSA?».
Fu il padre a posarle le mani sulle spalle per sussurrarle con
dolcezza.
«È tutto vero, figlia mia».
La ragazza lo guardò e poi si rivolse di nuovo all’uomo vestito di nero.
«Ma allora come avete fatto a liberarli?»
«Non ho dovuto liberare i vostri cari, mia signora: li ho comprati. Non
è fero zignor Jerorevudd?»
La voce del giovane divenne improvvisamente più bassa, rivelando un
forte accento di Tolbelg.
Il mercante cadde seduto, come colpito da un pugno.
«L-lord G-guy?».
La voce, ridotta a un filo, gli tremava.
«Per zervirfi, egreghio mercante ti zchiafi».
Il tono di Blackwind era diventato decisamente beffardo. La gente
cominciò a capire e a sghignazzare. Il capitano Dell e i suoi uomini si
avvicinarono discretamente alla porta del salone.
«Ma non sarei mai riuscito nel mio intento se non avessi avuto qualcuno
per finanziare un acquisto così oneroso. Così mi sono rivolto a un
vecchio… amico».
Ancora una volta, la voce del giovane cambiò, apparendo simile a quella
di un vecchio ubriacone.
«Caro sciocio, ti scialutano i pirati di Ainamar!».
Jerorevudd cadde dallo sgabello.
«F-Finn?».
«Proprio lui, caro mio. Così tu mi hai dato l’oro per entrare in affari
con i pirati e io li ho usati per comprare da te i parenti di Elorelei.
Mi sembra che tu abbia veramente fatto un bell’affare!».
Stavolta fra gli invitati si udirono scoppi di risa. Dell e la sua
ciurma sgattaiolarono pressoché inosservati fuori dal salone.
«Ma chi diavolo sei?».
La voce di Jerorevudd suonava sconvolta dall’ira e dall’umiliazione: si
era fatto gabbare proprio come uno stupido!
«Il mio nome mi appartiene, signor mercante di schiavi. Ho sentito che
mi chiamano Blackwind e mi va bene così».
Un mormorio corse nella sala: in molti ricordavano la fuga di uno
strozzino halfling pochi mesi prima. Dunque era quello il misterioso
avventuriero che aveva dato una severa lezione a quel profittatore e
ora stava ripetendosi.
Jerorevudd si guardò intorno: la gente rumoreggiava contro di lui e,
tolti i suoi uomini, vedeva attorno a sé solo facce ostili. Qualcuno,
fra la folla, parlava di chiamare le guardie e il loro comandante, il
duca Artain. Sarebbe stato certamente catturato e condannato, con tutti
quei testimoni. Guardò Elorelei fra le braccia del padre, sfuggita per
sempre alle sue brame. Gli sembrava tutto così orribilmente ingiusto. E
quel tipo, quel Blackwind, che osava sbeffeggiarlo così di fronte a
tutti! L’ira cominciò a pervadere l’anima di Jerorevudd e l’oscurità
del suo sangue eruppe.
Fra l’orrore generale, il volto, le mani, le gambe del mercante
cominciarono a mutare, assumendo spaventosi tratti ferini. Lentamente,
mentre la gente si allontanava precipitosamente da quell’orribile
spettacolo, l’uomo si stava trasformando in uno disgustoso ibrido metà
umano, metà murino.
Un ratto mannaro.
Una volta completata la trasformazione, il mostro si avvicinò
minacciosamente all’atterrita Elorelei. La gente cominciò a sfollare
precipitosamente dal salone.
Superato il primo istante di sconcerto, Blackwind si rese conto di
dover assolutamente intervenire per sottrarre Elorelei al mostro
infuriato. Diede un’occhiata sconsolata allo stocco che gli pendeva al
fianco: aveva sentito dire che quelle creature erano pressoché
invulnerabili alle armi normali, solo l’argento o la magia potevano
nuocergli. Occorreva urgentemente un’idea.
Elorelei cominciò a correre, vinta dall’orrore, senza sapere dove
fuggire. La creatura metà uomo e metà ratto la inseguiva avvicinandosi
sempre più. La voce di Blackwind la raggiunse scuotendola da
quell’incubo.
«Venite verso di me, Elorelei, presto!».
La ragazza era quasi al centro del salone e scartò bruscamente per
dirigersi verso la scalinata. Il mostro era sempre dietro, sempre più
vicino. Il giovane vestito di nero era sceso ai piedi delle scale e
reggeva lo stocco sguainato con la mano destra mentre la sinistra era
poggiata alla fune che sorreggeva il lampadario centrale del salone.
Appena la ragazza lo raggiunse, l’avventuriero tagliò la fune con un
colpo netto della spada. La belva, concentrata sulla preda, non si
accorse del pericolo se non quando era ormai troppo tardi. Lo
schianto fu terribile.
Il lampadario non poteva nuocere più di tanto alla creatura ibrida ma
il colpo lo stordì per un po’ e il fuoco si appiccò alle sue vesti.
Blackwind ed Elorelei approfittarono della situazione per allontanarsi
di corsa mentre le guardie cittadine stavano accorrendo. Per quanto non
fosse un eventualità frequente, le guardie erano addestrate ed
equipaggiate per affrontare simili mostri e Jerorevudd, una volta
liberatosi dai resti del lampadario e spente le fiamme, si rese conto
che non avrebbe potuto affrontare tutti quegli avversari. Gli restava
solamente la fuga e non esitò a lanciarsi contro gli splendidi vetri
colorati della finestra.
«Ci rivedremo, Blackwind!».
Scomparve nel buio della notte reso più fitto dalla luna nuova e dal
temporale che, nel frattempo, si era scatenato.
Quando il duca Artain, comandante della Guardia di Elos, venne
informato di quanto era accaduto, inviò numerose pattuglie a cercare il
ratto mannaro e altre ad arrestare il capitano Dell e mettere sotto
sequestro la nave. Lui stesso prese il comando delle operazioni perché
odiava profondamente quelle creature dal sangue nero capaci di
trasformarsi in bestie. Il licantropo aveva le ore contate. Inoltre, i
suoi ufficiali avevano raccolto la testimonianza della signorina
Elorelei, della sua famiglia e di un damerino di Aglargond, tale Lord
Bailey Windström. C’erano prove più che sufficienti a istruire una
causa per pirateria, contrabbando, sequestro di persona. Ci sarebbero
stati molti clienti per le galere di Elosbrand e anche qualche
candidato alla forca.
Nel frattempo, il capitano Dell era arrivato alla “Rondine di Mare”
dopo aver attraversato di corsa praticamente mezza città e, una volta
salito a bordo, dovette appoggiarsi all’albero maestro per riprendere
fiato. I suoi uomini lo raggiunsero alla spicciolata, ansimanti per la
lunga corsa e inzuppati per la pioggia che cadeva copiosa.
Appena il fiato glielo permise cominciò a lanciare i suoi ordini,
cogliendo alla sprovvista la sua ciurma.
«Tutti ai posti di manovra! Si salpa immediatamente!».
«Capitano! C’è una tempesta!».
Alcuni marinai, che non avevano capito molto bene cosa era
accaduto, circondarono Dell. In effetti, il mare era sempre più agitato
e il cielo era continuamente squarciato da lampi. Il capitano aveva gli
occhi fuori delle orbite e non solo per la lunga corsa.
«Non è nulla in confronto alla bufera che sta per scatenarsi su di noi
se resteremo qui. Sanno tutto, ragazzi. Se non ci sbrighiamo a levare
le ancore, finiremo tutti appesi!».
La voce del pirata risuonò autoritaria pur fra i tuoni assordanti. Non
ci furono altre obiezioni e si misero tutti all’opera.
Bastarono venti minuti per levare l’ancora. Il vascello cominciò
lentamente ad allontanarsi dal molo. Un lampo illuminò una figura che
correva a perdifiato verso la nave. Era Jerorevudd che aveva ripreso
sembianze umane. Urlava qualcosa che il vento distorceva rendendola
inintelligibile ma tutti capirono che voleva salire a bordo. Il
capitano Dell non prese neppure in considerazione l’ipotesi di
aspettare il complice.
«Gettategli una cima e tiratelo a bordo, senza perdere tempo! Non
intendo rischiare il collo per lui».
Un marinaio lanciò una lunga corda verso il mercante che ormai correva
lungo il molo, parallelamente alla nave, perdendo progressivamente
terreno. Jerorevudd afferrò la cima e si gettò verso la nave. Lo
tirarono a bordo bagnato fradicio e con gli abiti curiosamente
strappati e bruciacchiati.
Dell dette ordine di sbrigarsi a lasciare il porto, fece portare
Jerorevudd sottocoperta e filò discretamente nella propria cabina.
Almeno il bottino era salvo. Restava di decidere cosa fare del suo
vecchio complice: lasciarlo indietro sarebbe stato troppo pericoloso ma
ora quel mercante era di scarsa utilità per i suoi traffici. Avrebbe
dovuto valutare attentamente se lasciarlo in vita poteva essere più
opportuno di gettarlo ai pesci.
Entrò nella cabina, barcollando a causa del terribile beccheggio cui
era sottoposto il veliero. Solo la sua lunga consuetudine col mare gli
permetteva di mantenere l’equilibrio. Si avvicinò al comparto segreto
dove aveva riposto i proventi della spedizione a Mirandar e la
ricompensa che gli aveva dato Sarillob. Aprì lo sportello e gli si
illuminarono gli occhi nel vedere i due scrigni. Aprì il più grande e
rimase di sasso.
Era vuoto e, sul fondo, c’era un piccolo biglietto. Lo prese con mano
tremante e quasi svenne quando lesse le due parole che conteneva.
Spiacente,
Blackwind.
[19] Città portuale all’estremità orientale della penisola del
Kaardir
[20] Dea della Natura
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Capitolo 13 *** Capitolo 13 ***
Capitolo Tredici: la tempesta
Elosbrand, Castello Elos, Lossios 27, 371 ore 10,30 della sera
Il duca Artain ebbe conferma da uno dei suoi ufficiali che il licantropo ed i suoi complici avevano raggiunto il molo ed ora stavano lasciando il porto sulla nave di Dell. Dalla finestra del suo ufficio, sulla torre più alta del castello, poteva vedere la nave che si allontanava a mezza velatura e non aveva dubbi che chi fosse a bordo di una nave tanto folle da sfidare il mare in quelle condizioni dovesse avere ottime ragioni per non restare in porto. Ragioni d’acciaio, pensò cupamente il duca. La tempesta infuriava rabbiosa e le onde mettevano spavento.
«Ordiniamo che una nave da guerra salpi per inseguirli, signore?».
Il duca scosse la testa.
«No. Non credo che possano salvarsi da questa tempesta. E se anche qualche divinità infernale li volesse proteggere, non intendo rischiare una delle mie navi».
Quasi a dargli ragione, un fulmine piombò sulla nave ormai lontana dalla sicurezza del porto. Poco dopo, alla luce di un altro lampo, si vide chiaramente che l’albero maestro si era schiantato ed il vascello era spaventosamente inclinato a babordo.
«Quando il mare si sarà calmato manderemo una nave in cerca dei relitti. Penseranno gli Dei a fare giustizia».
Artain si voltò verso l’ufficiale, apparentemente rasserenato.
«Sono arrivati i testimoni?».
Più che una domanda, pareva una speranza. A quel punto, tanto valeva chiudere al più presto la faccenda ed andarsene a dormire.
«Si, milord, sono la famiglia Leblanc ed un gentiluomo di Aglargond, tale lord Bailey Windström, se ho capito bene».
Windström… il duca ricordava di aver conosciuto qualcuno di quella famiglia ma quel Bailey non lo ricordava proprio. Doveva trattarsi di un cadetto. Comunque, non era certamente un problema importante. Si dette una rassettata all’uniforme e dette l’ordine di far passare i testimoni. Il letto cominciava ad avvicinarsi.
Un damerino elegantemente vestito entrò nel salone, al braccio conduceva una bellissima dama abbigliata come una sposa. Dietro di loro giunsero una coppia di mezza età e due ragazzini, tutti vestiti in modo sobriamente elegante. Il damerino si avvicinò con aria disinvolta al trono del duca e lo salutò con un perfetto inchino.
«Buonasera, immagino siate lord Bailey Windström, dico bene?».
Il duca sperava di riuscire a contenere almeno i convenevoli al minimo indispensabile.
«Per servirvi, altezza. Ho accompagnato qui la famiglia Leblanc, credo che il loro racconto potrà interessarvi».
Artain si lasciò sfuggire un ampio sorriso: finalmente si stava arrivando al punto.
«Avanti, allora, volete raccontarmi voi, signor Leblanc, cosa è accaduto?»
Leblanc non si fece pregare e raccontò dell’assalto pirata alla sua villa, del rapimento e della brutale prigionia, di come fossero stati oggetto di un odioso ricatto ai danni di sua figlia Elorelei e di come fossero stati riscattati da quel misterioso avventuriero chiamato Blackwind. Lord Artain parve incuriosito da quello strano personaggio ma incitò il testimone a proseguire. Si fece molto attento durante il racconto del matrimonio ed un’ombra cupa passò sul suo volto quando sentì della trasformazione di Jerorevudd. Al termine, si alzò in piedi.
«Grazie, signor Leblanc, la vostra deposizione sarà molto importante ai fini di un eventuale processo, devo però chiedervi di restare a Elosbrand finché non saremo certi che quei miserabili siano sprofondati in mare o finché non li avremo catturati».
Elorelei fece un passo avanti, si inchinò davanti al duca e gli porse un quaderno.
«Forse questo renderà inutile ogni altra deposizione, altezza. Me lo ha affidato Blackwind, prima di andarsene».
Artain prese il diario di bordo della “Rondine di Mare” e lo studiò un poco, poi sorrise e si rivolse alla ragazza.
«Credo proprio che abbiate ragione, questo equivale a una confessione firmata».
Rimase un attimo soprappensiero, poi riprese:
«Ma questo misterioso Blackwind, lo conoscete? Vorrei avere qualche notizia di più, anche se contro di lui non ci sono denunce di alcun tipo, vorrei sapere chi è tanto abile ad introdursi in casa altrui… almeno finché sarò il responsabile della sicurezza dei miei concittadini».
«No, altezza, non lo avevamo mai visto finora ed il suo volto è sempre rimasto nell’ombra del suo cappello. D’altra parte, a noi ha fatto solo del bene».
Fu la signora Leblanc a rispondere, con voce ferma anche se gentile.
«Capisco. Bene, grazie di tutto, allora. Sarò lieto di offrire ospitalità a tutta la vostra famiglia, signor Leblanc, fino a quando non deciderete di tornare a Mirandar».
«Grazie, altezza, ma già Lord Bailey ci ha procurato un ottimo alloggio alla locanda “Corona d’Oro”, credo che resteremo lì fin quando non partirà una carovana per il Kaardir».
«Bene, è la migliore locanda della città. Lord Bailey, vi prego di far pervenire a me personalmente il conto dell’alloggio. È il minimo che possa fare per lasciare a questi signori un buon ricordo di Elosbrand».
«Sarà un onore, altezza».
Lord Bailey porse galantemente il braccio alla ragazza.
«Arrivederci, duca Artain, grazie di tutto».
Giunto a metà del salone, si voltò ancora verso il duca.
«Comunque, cercherò anch’io, nel mio piccolo, di rendere il soggiorno dei signori Leblanc e della signorina Elorelei il più piacevole possibile».
«Davvero, milord?».
Il duca non vedeva l’ora di terminare quell’udienza fuori programma.
«Ma certamente, altezza. Domani sera, per esempio, siamo a teatro: c’è la prima dei “Vespri Ardoriani” del famoso Joe Green. Non intendiamo perdercela per nulla al mondo. Come fa quella romanza? Ah sì. “Bella figlia dell’amore… schiavo son de’vezzi tuoi…”».
Il duca Artain scosse la testa nel vederlo allontanarsi cantando come un usignolo al braccio della giovane donna.
Che irrecuperabile damerino!
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