Il cielo è un'ostrica, le stelle sono perle di Dk86 (/viewuser.php?uid=3561)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 0 - Introduzione ***
Capitolo 2: *** Parte Prima, Capitolo 1 - Il mondo che solo Dio conosce (almeno per ora) ***
Capitolo 3: *** Parte Prima, Capitolo 2 - Lontano dal pianeta silenzioso ***
Capitolo 4: *** Parte Prima, Capitolo 3 - Nello spazio nessuno può sentirti spiegare ***
Capitolo 5: *** Parte Prima, Capitolo 4 - La venuta delle ombre ***
Capitolo 6: *** Parte Prima, Capitolo 5 - La fine dell'inizio ***
Capitolo 7: *** Parte Prima, Capitolo 6 - Il quartiere commerciale intergalattico ***
Capitolo 8: *** Parte Prima, Capitolo 7 - Dallo splendente mare al mare ***
Capitolo 9: *** Parte Prima, Capitolo 8 - La tesi dell'insegnante crudele ***
Capitolo 10: *** Parte Prima, Capitolo 9 - Il fiore che danza in patria, parte prima ***
Capitolo 11: *** Parte Prima, Capitolo 10 - Il fiore che danza in patria, parte seconda ***
Capitolo 12: *** Parte Prima, Capitolo 11 - Il mare è pieno di stelle ***
Capitolo 13: *** Parte Prima, Capitolo 12 - La strada di casa ***
Capitolo 14: *** Parte Prima, Capitolo 13 - Lontano lontano ***
Capitolo 15: *** Parte Prima, Capitolo 14 - Salvare l'Omniverso e altri sport estremi ***
Capitolo 16: *** Parte Prima, Capitolo 15 - La luna è severa maestra, parte prima ***
Capitolo 1 *** Capitolo 0 - Introduzione ***
Prima di tutto, il mio grazie va a F., M. e S., che sono le fonti di ispirazione per Pietro, Elena e Riccardo. Senza di loro, i suddetti personaggi non esisterebbero.
INTRODUZIONE
Ci troviamo in un’ampia stanza bianca, che a giudicare dalle macchie di pittura che chiazzano il pavimento sembra essere stata dipinta di fresco. Al centro della suddetta sala c’è l’unico mobilio presente, un tavolo lungo e stretto su cui sono stati montati tre microfoni, dietro ai quali, accomodati su altrettante sedie, ci sono tre individui: un ragazzo dall’aria scocciata e sonnolenta, una ragazza dall’aria energica con lunghi capelli neri decorati da una ciocca bianca e un uomo enorme dagli occhi dorati con indosso un pesante cappotto di pelle.
RAGAZZA (picchiettando sul microfono davanti a lei): E’ acceso, sto coso? Sì, è acceso. Bene, ehm…Ok, forse è il caso di iniziare. Buongiorno, gentili lettori, oggi siamo qui per presentarvi…
RAGAZZO: Riecco che parte in quarta.
RAGAZZA: Quantomeno io sto cercando di fare qualcosa di costruttivo.
UOMO (sistemandosi sulla sedia, un po’ nervosamente): Ehm…Miyu, è meglio comunque se riparti da capo.
MIYU: Bah, d’accordo. (si schiarisce la voce) Come dicevo, buongiorno, gentili lettori. Il mio nome è Miyu, il gentile signore alla mia sinistra si chiama Senkou…
SENKOU: Piacere.
MIYU: …mentre il decisamente meno gentile individuo alla mia destra è Shin.
SHIN: Ho il mio, di microfono.
MIYU: Fra un po’ te lo faccio mangiare, giuro.
SHIN: Provaci.
SENKOU: Visto che quei due rischiano di venire alle mani di nuovo, meglio se per un po’ continuo io. Noi tre ci troviamo qui perché siamo stati incaricati di introdurre la qui presente fanfiction, intitolata come già saprete “Il cielo è un’ostrica, le stelle sono perle”…
MIYU: Fra l’altro, chissà perché hanno deciso di dare l’incarico a noi tre… Siamo solo personaggi secondari e non appariremo prima del… Quando appariamo, di preciso?
SHIN: Capitolo quattordici.
MIYU: Ecco, sì. Quindi non so, non me lo spiego proprio.
SHIN: Finché ci pagano…
MIYU: Comunque, mh… Parlavi del titolo, giusto, Senkou?
SENKOU: Esatto.
MIYU: Sì, allora… Il titolo di questo crossover è preso da un racconto breve di fantascienza di David Bischoff. E’ una storia che non c’entra assolutamente nulla con quanto avverrà qui, semplicemente all’autore piaceva il titolo e ha pensato che stesse bene.
SHIN: Ci teniamo a precisarlo: l’autore è un morto di fame privo di fantasia, e infatti tutti i titoli dei capitoli sono citazioni di qualcosa, visto che il signorino evidentemente non aveva voglia di sbattersi a cercare di inventarsi qualcosa di originale.
SENKOU: E dai, Shin, rilassati un po’! Non stai facendo una grande impressione sui lettori.
SHIN: D’accordo, d’accordo… Comunque, oltre alle citazioni nei titoli, l’intera storia è basata su personaggi e situazioni create da altri autori, sempre per tornare sulla questione che il nostro creatore ha scelto la via più facile. Noi personaggi originali quanti saremo, dieci?
SENKOU (fa spallucce): Mah, più o meno…
MIYU (batte un pugno sul tavolo, facendo tremare i microfoni): Ehi, non è questo il punto!
SHIN: Magari se eviti di sfasciare il bancone…
MIYU: Comunque. Oh, ho perso il filo, dove eri rimasto?
SHIN: Beh, sei tu che mi hai interrotta, eh. Stavo per citare la maggior fonte di ispirazione della storia, ma se lo vuoi fare tu…
MIYU: Uh, vero!
SENKOU: Forse è il caso di partire da un poco più indietro. Dovete sapere che la storia che potrete leggere al termine della nostra introduzione è ciò che gli inglesi definiscono “space opera”. Ci saranno astronavi, alieni, civiltà perdute…
MIYU: Battaglie!
SHIN: Nessun rispetto per le leggi della fisica e del buonsenso…
SENKOU: E anche una gara fra band. Soprattutto, come già accennato, il novantanove percento dei personaggi presenti è stato tratto da opere precedentemente esistenti.
SHIN: Anche perché sennò non avrebbe senso che la storia stia nella sezione dei crossover.
SENKOU: L’idea di scrivere una storia di questo tipo è venuta all’autore dopo aver letto parte della gigantesca fanfiction chiamata “Undocumented Features” che un gruppo di appassionati temerari ha cominciato a scrivere nel 1992, e ad oggi non sembrano affatto intenzionati a smettere! Se volete dare un’occhiata, qui c’è il sito di riferimento: http://www.eyrie.net/UF/. Dato che alcune delle situazioni nella nostra storia sono riprese o omaggi a “Undocumented Features”, l’autore ci tiene a ringraziare Benjamin D. Hutchins e tutti i collaboratori della Eyrie Production.
SHIN: Tutto questo per farvi capire come l’autore abbia spudoratamente copiato.
MIYU: Shin, ma la vuoi piantare di fare lo tsundere?
SHIN (cerca di nascondere non molto bene il fatto che sta arrossendo): N-non è vero che faccio lo tsundere!
MIYU: Ah, no? Sei così tsundere che se questo fosse un anime saresti doppiato da Rie Kugimiya!
SHIN: Ma che razza di esempio è?E poi piantala con queste battute da otaku, tanto nessuno le capisce!
SENKOU (sembra imbarazzato): Ehm… Dai, ragazzi, non abbiamo più molto tempo, dobbiamo concludere in fretta.
MIYU: Che? Di già!? Ma ancora in pratica non abbiamo spiegato nulla!
SHIN: Già, e indovina di chi è la colpa?
MIYU: Se stai forse insinuando che…
SENKOU (a bassa voce): Ecco che ricominciano… (si schiarisce la gola) Come ho appena detto, abbiamo poco tempo, quindi dovreste evitare di litigare e dare le ultime informazioni utili ai lettori.
MIYU: Già, già, hai ragione. (si volta verso Shin e lo fissa con aria truce) Con te sistemiamo le cose dopo…
SHIN: Sì, come no?
MIYU (ostenta il fatto che lo sta ignorando): Comunque, prima che un certo qualcuno ci interrompesse… Ah, giusto, ancora due cose! Punto numero uno, le canzoni: all’inizio di ogni capitolo – più o meno all’inizio, non è una regola fissa – ci sarà il titolo di una canzone con relativo link. I brani servono da sigla di testa ai capitoli, ma non c’è bisogno che li ascoltiate per forza! Insomma, vedete voi.
SENKOU: Per quanto riguarda il punto numero due, invece, alla fine di ogni capitolo l’autore si ritaglierà uno spazietto per rispondere alle eventuali recensioni. Se avete delle domande riguardo alla storia, per esempio “Apparirà mai il tal personaggio/la tal serie?”, o “Questi due personaggi finiranno per mettersi insieme?”.
MIYU (si intromette): Oppure “Perché Shin è una colossale testa di…”.
SHIN: EHI!
MIYU (come se niente fosse): Insomma, qualsiasi cosa possa venirvi in mente di chiedere, non fatevi problemi! Vi promettiamo che l’autore farà del suo meglio per rispondere per quanto gli sarà possibile.
SENKOU: In coda a quest’introduzione, comunque, ci sarà un elenco sempre aggiornato all’ultimo capitolo delle opere coinvolte. Ah, e anche uno che invece elenca quelle che di sicuro NON appariranno.
SHIN: Uhm… Abbiamo finito, giusto?
MIYU: Perché, hai fretta?
SHIN: Semplicemente non credo che quelli che leggono questa storia siano granché interessati a vederci blaterare.
MIYU (sospira): In effetti mi sembra che abbiamo detto tutto… Non ci resta che salutare, no?
SENKOU: Già!
SHIN (fa spallucce): Se proprio dobbiamo… (si alza in piedi, insieme agli altri due) Io sono Shin.
SENKOU: Io Senkou.
MIYU: E io Miyu.
TUTTI (inchinandosi): Grazie per l’attenzione!
MIYU: E ci vediamo nel quattordicesimo capitolo, comunque!
SHIN: Se qualcuno leggerà ancora questa storia, almeno…
MIYU: Piantala di essere così pessimista.
SENKOU: O se l’autore non si sarà stufato prima!
MIYU: Ehi! Non ti ci mettere anche tu!
I tre escono dalla stanza, lasciando il tavolo con i tre microfoni e le tre sedie vuoto e spoglio. Qualche secondo di inquadratura statica, e poi…
Dissolvenza in nero.
ELENCO DELLE OPERE COINVOLTE:
(NB: in questa lista verranno elencate solo le opere di cui appariranno effettivamente personaggi. Non metterò tutto ciò che citerò o a cui farò riferimento en passant, anche perché temo che finirei per dimenticarmi qualcosa.XD)
FILM
- La Bella Addormentata nel Bosco
- Star Wars
TELEFILM
- Buffy
ANIME E MANGA
- Axis Powers Hetalia
- Baccano!
- Bleach
- Card Captor Sakura
- Death Note
- Doubt
- Drifters
- Fairy Tail
- Fullmetal Alchemist
- GunXSword
- Hayate no Gotoku!
- Jigoku Shoujo
- La Malinconia di Haruhi Suzumiya
- Mobile Battleship Nadesico
- Naruto
- La Rivoluzione di Utena
- Saint Seiya
- Sayonara Zetsubo Sensei
- Soul Eater
- X/1999
- XXXHolic
- Yu Yu Hakusho
FUMETTI
- Deadpool
- Fables
- Nextwave
- Rising Stars
- Sandman
- X-men
LIBRI
- Guida Galattica per Autostoppisti
- Harry Potter
- Io, Robot
VIDEOGIOCHI
- Fate/Stay Night
- Kingdom Hearts
- Shin Megami Tensei
- Starcraft
CARTONI ANIMATI
- Teen Titans
WEB SERIES
ALTRO
ELENCO DELLE OPERE CHE NON VERRANNO MAI INCLUSE:
(NB: questa lista è passibile di cambiamenti. Non è detto che le opere ivi elencate non appariranno mai, ma è comunque molto improbabile; così come potrebbero sempre aggiungersene delle altre)
- Avatar
- Dragon Ball
- Oh, mia dea!
- Ranma ½
- Twilight
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Parte Prima, Capitolo 1 - Il mondo che solo Dio conosce (almeno per ora) ***
PARTE PRIMA – IL CAPITOLO DELLA TERRA
Nessuno sapeva come tutto avesse avuto inizio.
Semplicemente, un giorno era successo.
La teoria più comune era che qualcosa avesse fatto cedere d’un colpo le barriere sottili ma – almeno fino a quel momento – impenetrabili che avevano distinto un Universo dall’altro. Altri lo vedevano come un atto divino, altri ancora – una derivazione della seconda teoria – un’idea divina per risparmiare spazio. Perché in effetti avere migliaia di universi paralleli quando puoi accorparli tutti in uno solo senza grossi problemi?
In ogni caso, ciò che aveva cambiato l’esistenza di miliardi di miliardi di esseri viventi non era stata la causa, quanto più le conseguenze. Per alcuni, come ad esempio gli Eterni, non c’era nulla di diverso: loro già esistevano in tutte le dimensioni, e anzi il tutto aveva semplificato loro la vita. Haruhi Suzumiya era stata contentissima di scoprire che non solo esper, alieni e viaggiatori del tempo esistevano davvero, ma che ce n’erano più di quanti ne avrebbe mai potuti incontrare in una vita intera.
A chi era andata male, invece, era a tutti quei cattivi che volevano alternativamente conquistare o distruggere la Terra: la cosa poteva essere fattibile per un singolo pianeta, ma quando esso si moltiplicava da un momento all’altro in decine di migliaia, l’obiettivo perdeva leggermente di senso (anche se questo non aveva impedito a qualche deficiente di provarci comunque, con risultati non particolarmente brillanti).
Ma in fondo, nemmeno le conseguenze erano veramente importanti. Ciò che contava era che per tutti era iniziata l’era dello spazio.
Sigla d’apertura: Butterfly, di Kouji Wada
(ovviamente)
CAPITOLO PRIMO – IL MONDO CHE SOLO DIO CONOSCE (ALMENO PER ORA)
“Possa tu vivere in tempi interessanti”
(antica maledizione cinese)
Non era stata una brutta giornata. Ma nemmeno una giornata memorabile.
Una giornata normale, insomma.
O, per essere più precisi, una giornata noiosa.
Marco prendeva a calci una lattina mentre camminava lungo la ciclabile. Nella testa si immaginava come si sarebbe svolta la scena se fosse stato presente anche Pietro: o meglio, come non si sarebbe svolta, visto che l’altro avrebbe raccolto la lattina e l’avrebbe senza tante cerimonie buttata nella spazzatura.
“Beh, per fortuna adesso lui non c’è”, borbottò Marco. In ogni caso, comunque, dopo qualche metro gettò il rifiuto nel cestino. Non era poi così divertente come poteva sembrare.
Il ragazzo si afflosciò sulla panchina più vicina, gettando lo zaino accanto a sé. Dopo qualche secondo, la bocca gli si spalancò in un enorme sbadiglio. Il caldo di inizio giugno e nulla di interessante all’orizzonte…, pensò letargico mentre alzava gli occhi semiaperti verso le fronde dei pioppi sopra di lui. È una combinazione letale.
Esattamente come la sua giornata, anche il suo umore non era né buono né cattivo. Era… beh, normale; una specie di zuppa grigia che gli ribolliva all’altezza dello stomaco. “Devo trovare qualcosa di eccitante da fare”, si disse con fermezza, gli occhi fissi davanti a sé. Una signora anziana con un grosso mazzo di fiori nel cestino della bicicletta gli riservò un’occhiata storta mentre passava davanti a lui.
Oh, perfetto, ora vengo biasimato pure dalle vecchiette…
Marco si ritrovò a pensare al monologo che Naota, il protagonista di FLCL, faceva all’inizio del primo episodio. “Non c’è niente di straordinario. Accadono solo cose scontate”. Anche se, a onor del vero, dopo di cose straordinarie al ragazzino iniziavano a succederne parecchie…
“Ehi, che è questa depressione?”, il giovane disse a se stesso, alzandosi in piedi di scatto (era sempre stato piuttosto umorale). “Di certo stando qui a non fare niente non mi capiterà nulla di interessante!”.
E ovviamente, giusto per smentirlo, qualcosa di interessante accadde.
All’inizio fu come se il mondo fosse diventato un vecchio filmato in bianco e nero: la leggera brezza che agitava le foglie degli alberi soffiava ancora, ma non produceva nessun rumore, mentre la donna in bici pedalava lentissima, come se si trovasse sott’acqua. Marco, ancora seduto sulla panchina, si guardò intorno ad occhi sgranati; a qualche centimetro dal suo volto una farfalla dalle ali bianche – una di quelle chiamate cavolaie – era sospesa e immobile, immortalata in una fotografia reale e in tre dimensioni. Il ragazzo tese un dito per toccarla, con gran circospezione, ma quando stava ormai per sfiorarla una forza tremendamente intensa lo catturò all’altezza del petto; riuscì a ad allungare l’altra mano in un gesto istintivo e ad afferrare il proprio zaino, prima che tutto scomparisse.
Beh, almeno ho la mia roba, pensò, mentre galleggiava nel nulla cosmico. Riusciva a vedere se stesso, ma intorno a lui l’oscurità era compatta e impenetrabile.
Meno di un secondo dopo, una tremenda forza di risucchio gli afferrò lo stomaco e diede un fortissimo strattone.
“Evviva! Esperimento riuscito!”, esclamò una voce acuta.
“Di quale esperimento parli? Il teletrasporto lo abbiamo già usato un sacco di volte”, altra voce, più profonda.
Un angolo del cervello di Marco gli suggerì che conosceva entrambe le voci in questione. Tutto il resto del contenuto della sua scatola cranica era invece impegnato ad impedirgli di vomitare, a fargli ritrovare l’equilibrio e a eliminare il pulviscolo grigio che gli danzava davanti agli occhi.
“Non mi sembra che stia molto bene, eh?”, disse la prima voce.
“Succede a tutti, con il primo teletrasporto”, rispose l’altra. “Ricordi cos’è accaduto a te?”.
Momento di silenzio. “Oh, lasciamo perdere, Kyon”.
Kyon? Ma allora…
E poi successe. Marco perse l’equilibrio e cadde in avanti, picchiando il naso contro un pavimento freddo e metallico. “Ahia”, disse.
Se non altro, questo gli fece passare la nausea.
Qualcuno gli si avvicinò e lo aiutò a rimettersi seduto. “Tutto bene?”, domandò la voce profonda.
“Che schifo, Kyon, gli sanguina il naso. Dagli un fazzoletto”.
“Sì, capitano…”. Nelle mani di Marco venne messo un quadrato di tela, che il ragazzo usò per tamponarsi il naso. Si sentiva come il tipico ragazzo da harem-comedy durante una scena alle terme.
Chiuse e riaprì gli occhi, ed ecco che la tendina di pulviscolo si sollevò. La stanza in cui si trovava era piccola, con pareti e soffitto dello stesso metallo grigio del pavimento; proprio al centro, però, c’era un circolo illuminato di circa tre, quattro metri di diametro, che ricordava una di quelle piattaforme di teletrasporto di Star Trek. Davanti a lui, con un’espressione di moderato scazzo sul viso, c’era un giovane uomo con indosso un’uniforme azzurra con basco coordinato; dietro il ragazzo, con le mani sui fianchi e un volto dall’aria talmente spavalda che quasi ci si sentiva imbarazzati a guardarlo, una fanciulla dai capelli castani tenuti fermi da un nastro giallo, che vestiva una divisa rossa; intorno al braccio sinistro sfoggiava una fascia con la scritta “Capitano”.
“Sono morto?”, domandò Marco.
La ragazza alzò gli occhi al soffitto. “Certo, Kyon, che potevi scegliere qualcuno sano di mente da teletrasportare a bordo”.
“Veramente, capitano, sei tu che hai detto che aveva una faccia divertente”, ribatté l’altro.
Devo prenderlo come un complimento?, pensò Marco perplesso. “Devo essere morto”, ripeté convinto. “O quello, oppure ho un tumore al cervello che mi provoca allucinazioni. Non so quale sia peggio”.
“E perché dovresti avere un tumore al cervello, sentiamo?”, ripeté la ragazza, ancora imbronciata.
“Beh”, fece Marco. “Dov’è il mio zaino?”. Kyon glielo mise fra le mani senza una parola. “Oh, grazie… sono di sicuro qui dentro, Elena me li ha restituiti oggi… ah, eccoli qua!”. E come un archeologo che rinviene un prezioso reperto dalle viscere della terra, estrasse dalla borsa un box di cartone che conteneva dei Dvd. Una delle facce della scatola recava la scritta “La malinconia di Haruhi Suzumiya”, e vi erano disegnati due personaggi. Uno in divisa azzurra, l’altra in divisa rossa. “Noti qualche somiglianza?”.
Haruhi storse le labbra. “Quell’immagine non mi rende giustizia”, sentenziò incrociando le braccia.
Marco si diede una sberla in faccia con la mano libera. “Ma non è questo il punto”. La voce gli stava iniziando a risalire un paio di ottave. “Tu nemmeno dovresti esistere! Sei un personaggio di fantasia, vedi?”, e tamburellò l’indice sulla scatola come un picchio impazzito.
Haruhi non sembrò scoraggiata dall’essere stata messa di fronte al fatto di essere il parto della fantasia di qualcun altro. “Certo. Forse nel tuo mondo. Come se fosse la prima volta che capita!”.
“C-che intendi dire?”, domandò l’altro, preso totalmente alla sprovvista.
La ragazza agitò una mano con evidente fastidio. “Oh, non ricordarmelo… Un paio di mesi fa siamo sbarcati su una delle Terre ancora poco esplorate. E appena sono scesa dalla nave mi arriva incontro questa lolita totalmente schizzata che mi abbranca e inizia a scuotermi manco fossi una pignatta! È da allora che prima teletrasportiamo a bordo qualcuno, e poi sbarchiamo”.
“Ehm… Forse la domanda ti sembrerà stupida, ma… Quella tizia per caso si chiamava Konata e aveva dei lunghi capelli blu e un neo sotto un occhio?”, domandò Marco.
Nemmeno un secondo dopo, un’occhiata omicida di Haruhi lo trafisse da parte a parte. “Non mi dire che conosci quella pazza!”.
“Beh, come dire… Lo studio che ha prodotto l’anime dove sei protagonista ha fatto anche quello dove c’era Konata”, spiegò Marco. Una voce nel suo cervello stava cercando di illustrargli l’assurdità della scena, ma la sua bocca aveva accettato la situazione di buon grado. “Naturalmente il tuo era molto meglio”.
“E vorrei ben vedere! Certo che l’animazione è proprio caduta in basso sul tuo pianeta, se si sono ridotti a usare soggetti del genere…”.
Kyon, che se ne era stato zitto fino a quel momento, si fece sentire con un discreto schiarire di gola. Haruhi lo fulminò con lo sguardo, poi parve capire cosa lui intendesse e si ricompose. “Ehm. Sì, comunque… Di certo non ti ho teletrasportato a bordo per parlare di quella staller”. Alzò gli occhi al soffitto borbottando qualcosa, come se si fosse appena dimenticata quello che stava per dire. “Kyon, puoi farlo tu il discorso di accoglienza?”, disse alla fine.
Il ragazzo scosse la testa. Finisce sempre così, diceva l’espressione del suo viso. “Benvenuto a bordo della Crazy Diamond, nave spaziale di classe C”, fece, con voce meccanica. “Io sono il comandante, Kyon, mentre lei è Haruhi Suzumiya, il capitano”.
“Ehi, potresti anche metterci un po’ più di enfasi!”, lo rimproverò l’altra.
Lo sguardo negli occhi di Kyon ora diceva: ce la metterei anche, se non mi avessi costretto a fare lo stesso discorso centinaia di volte. “Il nostro lavoro è quello di percorrere il cosmo alla ricerca di pianeti abitati ancora non inclusi nella Confederazione Iperuranica…”.
“È un modo figo per dire ‘spaziale’”, intervenne Haruhi. “Oh. Scusa, Kyon, continua pure”.
“…e di porli sotto la giurisdizione della stessa”, continuò Kyon, come se nessuno lo avesse interrotto. “Ovviamente prima preleviamo uno degli abitanti a caso per verificare che essi non risultino un pericolo per la Confederazione stessa”.
“O che non siano delle pazze che cercano di uccidermi”, aggiunse il capitano.
“E, ehm…”, disse Marco, dopo che si fu accertato che per il momento i due non dovevano aggiungere altro. “Quindi io non risulto pericoloso, vero?”.
“Nah, se lo fossi Kyon ti avrebbe già sparato”, rispose secca Haruhi. “E comunque no, sei solo ipocondriaco. Un tumore al cervello, ma figuriamoci…”, e schioccò la lingua in una nota di disappunto.
“E perciò ora che avete intenzione di farne, di me?”, domandò lui. Si stupiva da solo per la calma che stava dimostrando; forse, concluse, la situazione in cui era stato gettato era così assurda da essere in qualche strana e perversa maniera perfettamente naturale, come quei film splatter della Troma che erano talmente brutti e repellenti da essere spassosissimi.
“Ti riportiamo indietro, ovvio”, disse Haruhi.
“Oh”, rispose lui, abbassando lo sguardo. “Beh, d’accordo…”.
“Che è quell’aria da cane bastonato, ora?”, sbottò lei. “Ero convinta che volessi tornare sul tuo pianeta, o sbaglio?”. Sospirò, incrociando di nuovo le braccia contro il petto. “Ma se vuoi venire con noi alla Sede Centrale per fare rapporto non c’è problema, eh. Tanto il tuo pianeta verrà incluso nella Confederazione Iperuranica in qualche settimana al massimo”.
Se Marco fosse stato prelevato da uno dei pianeti popolati da personaggi di shojo, i suoi occhi si sarebbero riempiti di brillii e stelline. “Sul serio posso venire?”, mormorò.
“Sì. Ma non fare quella faccia, mi inquieta”.
“N-non mi stai prendendo in giro, vero?”.
“Senti, sono il capitano di una nave spaziale, pensi che abbia il tempo di prendere in giro il primo idiota che teletrasporto a bordo?”.
“Beh, le ultime due settimane le abbiamo passate su quel pianeta tropicale fingendo un’avaria ai motori”. Kyon, ovviamente.
“Grazie tante, comandante, sai proprio quali sono le parole giuste al momento giusto…”, sibilò Haruhi a mezza bocca.
“Prego”.
“Allora siete sicuri che io possa venire con voi?”.
“Per l’ennesima volta, sì! Che devo fare, firmare un contratto?”.
Marco si bloccò, con la bocca semiaperta. La fronte gli si riempì di rughe, mentre l’ultima frase di Haruhi veniva macinata e assorbita dai suoi neuroni. “Aspetta… hai detto ‘contratto’?”.
“Sì, perché?”.
Il ragazzo fissò Kyon, che non sembrava in vena di elargire aiuti. “Beh, ecco… Sapete com’è, ultimamente per quelli che si sono appena laureati è abbastanza difficile trovare lavoro… Quindi, insomma, pensate che la vostra, ehm, Confederazione Iperuranica, giusto? Pensate che possa darmene uno?”.
Da Haruhi si era aspettato una reazione inconsulta, a questa domanda. Qualcosa come un calcio volante dritto in faccia. In effetti già si aspettava di sentire la suola dello stivaletto di lei frantumargli il setto nasale; eppure il colpo non arrivò. Anzi, sembrava che stesse riflettendo davvero sulle sue parole. “Mah… Non vedo perché no. Credo che si possa provare. Tu che ne pensi, Kyon?”.
Lui fece spallucce. “Hanno affidato una nave a te, d’altronde”.
“E, uhm…”, intervenne ancora Marco, cercando di impedire una possibile sfuriata di Haruhi nei confronti del comandante. “Pensate che sia possibile aspettare un altro giorno, prima di ripartire?”.
“E poi cos’è successo?”, domandò Riccardo. Non sembrava particolarmente sconvolto o perplesso dalla storia che Marco gli stava raccontando. Anzi, pareva piuttosto interessato.
“Haruhi ha acconsentito, anche se ci è voluto un po’ a convincerla. Poi mi hanno teletrasportato indietro e sono tornato a casa. E… beh, direi che è tutto”, terminò Marco, le dita strette intorno al bicchiere di frappé al cioccolato.
Sul gruppetto cadde per qualche secondo il silenzio, che fu interrotto quando Pietro arrivò in fondo al suo succo d’ananas e la sua cannuccia iniziò ad aspirare l’aria con un fastidioso rumore di risucchio.
“Senti, Marco…”, intervenne Elena, passandosi una mano nella chioma rossa con aria imbarazzata. “Non è che io non ti creda, però…”.
“Non mi credi?”.
“No”.
“Insomma”, intervenne Pietro, che finalmente aveva lasciato perdere la cannuccia. “Converrai con me che ciò che ci hai appena raccontato suona piuttosto assurdo. Posso capire una nave spaziale, ma che a comandarla fosse Haruhi… Insomma, l’abbiamo vista tutti ‘Il giorno del sagittario’, sappiamo che succederebbe se Haruhi avesse a disposizione una flotta di astronavi”. E iniziò a ridacchiare fra sé, come se trovasse molto divertente il ricordo di quella particolare scena.
“Sì, ma non è questo il punto”, spiegò con voce calma Elena, anche se la fronte iniziava a corrugarlesi. “Non c’entra cosa farebbe Haruhi con una nave spaziale, rimane comunque un personaggio di fantasia. E dato che non siamo in ‘Chi ha incastrato Roger Rabbit’, e non ci sono cartoni animati che se ne vanno in giro passeggiando…”.
“Non preoccuparti, Elena, lo so che è difficile da credere”, le rispose Marco con un mezzo sorriso. Si era aspettato una reazione del genere, in fondo: anche lui nelle stesse condizioni si sarebbe comportato alla stessa maniera. “Insomma, anch’io quando sono stato teletrasportato a bordo credevo di essere morto o di avere un tumore al cervello… Comunque beh, liberi di pensare come volete. Ma vi giuro che quella che vi ho detto è la verità”.
Sul tavolo calò di nuovo il silenzio. Marco abbassò gli occhi sul calice mezzo vuoto, facendo ruotare la cannuccia e lanciando occhiate di sfuggita ai tre amici. Sapeva benissimo che non sarebbe stato facile convincere qualcuno della veridicità della sua storia, quantomeno non senza prove concrete. Vi prego, qualcuno dica qualcosa, pensò, le guance arrossate per l’imbarazzo. Qualsiasi cosa, basta che qualcuno parli…
E qualcuno parlò.
“Io gli credo”.
Gli altri tre alzarono gli occhi più o meno sgranati verso Riccardo. “Cosa!?”, esclamarono all’unisono.
Riccardo tentò di farsi piccolo – cosa che comunque gli riusciva piuttosto difficile – sulla sua sedia. “Beh”, borbottò. “Se questo fosse uno scherzo non sarebbe granché divertente, e non credo che Marco direbbe una bugia così stupida. Perciò, insomma…”.
“‘Una volta scartato l’impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, dev’essere per forza la verità’?”, intervenne Pietro, che si era rimesso a giocare con la sua cannuccia. “In effetti è un punto di vista interessante…”.
Elena fissò i tre ragazzi con disappunto: da un attimo con l’altro si era ritrovata in minoranza. Sospirò, incrociando le braccia. “D’accordo, poniamo per un attimo che ciò che ha raccontato Marco sia vero”, disse, corrucciata. “Ma il problema rimane: com’è possibile una cosa del genere?”.
Marco fece spallucce. “In effetti non lo sanno neppure loro, pare”, rispose. “Da quel poco che mi ha detto Haruhi, è successo più o meno sette, otto anni fa… Le barriere che tenevano separati i vari universi sono cadute all’improvviso, creandone uno solo”.
“Quindi questo vorrebbe dire che ci sono centinaia di migliaia di Terre, ora?”, domandò Pietro.
“Mah, credo”.
“E allora scusa, com’è possibile che nessun astronomo se ne sia ancora accorto?”. Elena era passata nuovamente al contrattacco.
Marco si grattò il mento con un indice. “Beh, se non ho capito male non è un processo istantaneo. Insomma, fino a ieri pare che nella zona in cui ora si trova la nostra Terra non ci fosse nulla… È come quando lanci un sasso nell’acqua e le onde si allargano pian piano, avete presente? Infatti Haruhi mi ha detto che quando una nave scopre un nuovo pianeta abitato e fa rapporto alla Confederazione Iperuranica il suo equipaggio riceve un bonus premio nella busta paga”.
“Beh, ha senso”, intervenne Riccardo, annuendo.
A quanto pare qui c’è qualcuno che ha accettato la situazione più velocemente di quanto non l’abbia fatto io…, pensò Marco. “Ah, giusto, che ore sono?”, domandò, afferrando il bicchiere di frappé e scolandosene quanto ne restava.
“Le cinque meno cinque”, rispose Pietro. “Perché?”.
Marco rischiò una morte da cioccolato: gli occhi gli si dilatarono ed iniziò a tossire, spargendo gocce di frappé tutto intorno. Ancora livido in volto frugò nel portafogli e sbatté una banconota da venti euro sul tavolo del bar. “Pago io”, sibilò, attraverso il grumo che gli ostruiva la gola. Poi afferrò lo zaino e si mise a correre.
“Ehi!”, urlò Elena qualche metro dietro di lui. Pietro e Riccardo la seguivano a pochi passi di distanza. “Mi spieghi che cavolo ti prende tutto d’un tratto?”.
“Credevo fosse più presto!”, rispose l’altro, senza smettere di correre.
“Più presto per cosa!?”
Marco, in tutta risposta, aumentò la velocità. La ragazza si lasciò sfuggire un verso di disappunto che sembrava molto simile ad un ruggito e accelerò il passo, subito imitata dagli altri.
Qualche secondo dopo, Marco fermò la sua corsa nella piazzetta antistante l’università che i quattro frequentavano; piegato in avanti, le mani appoggiate alle ginocchia, ansimò un paio di volte per poi rialzare la testa verso i tre che quasi lo avevano raggiunto, annunciando con voce roca e interrotta da pesanti respiri: “Credo… credo che… abbiamo fatto in tempo, per fortuna…”.
Per tutta risposta Elena lo afferrò per il bavero della maglietta e strinse forte. “Vedi di spiegarmi perché tutto d’un tratto sei andato completamente fuori di testa”, ringhiò. “E non accetterò astronavi e personaggi inventati come risposta”.
“Elena, credo stia soffocando”, osservo Pietro tranquillamente. La ragazza mollò la presa.
“G-grazie”, borbottò Marco, continuando ad ansimare. Fece istintivamente un passo indietro, per tentare di sottrarsi ad un altro degli attacchi mortali di Elena. “C-comunque, beh… Se aspettate ancora un paio di minuti credo che… credo che il ‘piano B’ avrà effetto”.
“Piano B?”, ripeté Elena. Era ancora arrabbiata, ma la nuova stranezza fuoriuscita dalla bocca dell’amico per un attimo l’aveva precipitata di nuovo nella perplessità.
“Ehm, mi sembrava improbabile potervi convincere di ciò che mi è successo semplicemente a parole”, spiegò l’altro. “Perciò ho pensato che mostrandovi l’astronave avrebbe allontanato ogni dubbio”.
“E dove sarebbe, l’astronave?”, domandò Riccardo.
“Che ore sono?”.
“Due minuti e saranno le cinque”.
“Bene, fra due minuti sarà qui, se Haruhi rispetta quanto ha detto”.
“Possiamo piantarla con questa storia, una buona volta?”, domandò Elena. “Lo sappiamo tutti e quattro che non arriverà nessuna nave spaziale, dai!”.
“Piuttosto…”, intervenne Pietro, che come al solito sembrava seguire linee di pensiero diverse da quelle del resto del mondo. “Non vi pare che ci sia qualcosa di strano?”.
Gli altri si guardarono intorno, le fronti aggrottate. Le lezioni erano quasi finite, e nella piazzetta – in cui di solito gli studenti si riunivano per pranzare, fumare o farsi quattro chiacchiere in compagnia – era deserta.
Era tutto tranquillo. Troppo tranquillo. Nessuno dei residenti più anziani della zona a passeggio con il cane, nessuna auto che transitava nelle vie accanto alla piazza; perfino gli insetti che di solito infestavano la zona con tutta la fastidiosa metodicità di cui mosche e zanzare sono in grado erano scomparse.
“È come se fossimo rimasti solo noi nel mondo”, disse Pietro in tono sognante.
“Non mi sembra qualcosa di così bello, sai?”, gli rispose Elena, continuando a guardarsi intorno con aria nervosa.
“Che dici, Marco, può essere un effetto provocato dall’astronave di Haruhi?”, domandò Riccardo.
“E basta con questa astronave!”, sbottò Elena. Si sistemò la borsa a tracolla con un gesto stizzito e incrociò le braccia. “Anzi, sapete che vi dico? Io me ne torno a casa!”. Si voltò e fece un paio di passi con la chiara intenzione di andarsene, salvo poi girarsi di nuovo. “In ogni caso voglio che sappiate che questo non rovinerà la nostra amicizia. Ma lasciatemi in pace per qualche giorno, ok? Soprattutto tu” e scoccò uno sguardo molto eloquente verso Marco, prima di rimettersi a camminare.
Non poté fare più di tre passi.
“Ehi, tu! Dove credi di andare? Il vostro amico, lì, mi ha chiesto di aspettare per colpa vostra, quindi fatemi il favore di rimanere dove siete!”. La voce risuonò, potente e diffusa, come se qualcuno avesse piazzato di nascosto degli altoparlanti lungo tutto il perimetro della piazza e li avesse accesi a massimo volume.
Elena si voltò, gli occhi grossi come piattini. “C-chi di voi ha parlato?”.
“Senti, bella, ti pare che la mia voce possa uscire da qualcuno di quegli idioti?”, rispose a tono la presenza. “Basterebbe che tu alzassi la testa e capiresti da dove ti sto parlando!”.
I quattro ragazzi alzarono lo sguardo. Sopra di loro c’era il cielo, e nient’altro.
“Io non vedo assolutamente niente”, disse Elena.
La voce tacque per qualche secondo. “Scusate, vedo di risolvere un inconveniente tecnico…”. Un rumore ritmico, come di passi, poi la stessa voce attutita dalla distanza. “Kyon, dannato microcefalo, perché hai attivato lo schermo occultante?”.
La risposta fu un basso borbottio incomprensibile.
“Come sarebbe a dire ‘Stiamo sorvolando una città’? Siamo venuti qui apposta per farci vedere e tu attivi quel cavolo di scudo?”.
Altro borbottio.
“Sì, certo che so a cosa andiamo incontro violando i principi della Confederazione! Ma chissenefrega, tanto fra due settimane saranno inclusi anche loro!”.
Un terzo borbottio.
E poi, finalmente, accadde.
Apparve di colpo, occupando la gran parte del cielo, come un enorme plesiosauro di acciaio e vetro. Doveva essere lunga almeno centoventi metri, dalla punta della parte anteriore affusolata e aerodinamica fino alla coda tozza; le quattro enormi pinne laterali – quasi sicuramente le sedi dei motori – ronzavano placide nell’aria del pomeriggio. Il ventre dell’astronave, lucido e solo leggermente ricurvo, si accese come un enorme schermo, rivelando un altrettanto mastodontico volto di Haruhi, che per l’occasione sfoggiava un sorriso che andava da un orecchio all’altro e teneva in mano un microfono. “Salve, ehm… tizio che abbiamo prelevato ieri e suoi insulsi amici! Qui è il capitano della Crazy Diamond, la leggendaria Haruhi Suzumiya, che vi parla!”.
I quattro ragazzi si erano ammutoliti da che l’astronave era apparsa. Gli occhi sgranati e le bocche spalancate; mancavano solo un paio di piccioni, e avrebbero potuto passare per un quartetto di statue estremamente realistiche.
Fu Marco il primo a riprendere il controllo del proprio corpo. Com’era giusto, d’altronde aveva già subito parte dello shock il giorno prima. “Ehm, ragazzi?”, mormorò, con un filo di voce. “Pensate che un ‘ve l’avevo detto’ sarebbe eccessivo?”.
MARCO: Ed eccoci pronti per le anticipazioni!
HARUHI: Anticipazioni? Che anticipazioni?
PIETRO: Capitano, possibile che tu non abbia mai visto un anime?
RICCARDO: Le anticipazioni stanno alla fine di un episodio – anzi, qui stanno alla fine dei capitoli – e, mah… ti dicono che ci sarà la volta successiva.
HARUHI: Ah, un modo per attirare l’attenzione del pubblico sui futuri sviluppi della vicenda! Ingegnoso, avrei dovuto pensarci io!
MARCO: Forza, Elena, tocca a te.
ELENA: Il secondo capitolo di “Il cielo è un’ostrica, le stelle sono perle”, si intitola “Lontano dal pianeta silenzioso”. Non perdetelo!
HARUHI: Ehi, ma sbaglio o nessuno ha detto nulla di quello che succederà la prossima volta?
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Parte Prima, Capitolo 2 - Lontano dal pianeta silenzioso ***
Da: watanukikun@xxxxxxx.com
A: luckyanne@xxxxxxx.com
Oggetto: Saluti dallo
spazio!^^/
Ciao mamma^^ Indovina da
dove ti scrivo?
Beh, non che sia
difficile, in effetti XD
Spero che lo shock sia
passato alla nonna… Mi dispiace averla fatta preoccupare
ç_ç
Chiedile scusa del fatto
che non ho potuto nemmeno salutarla prima della partenza, ma ricordale
che fra 2 settimane al massimo sarò di nuovo sulla Terra,
ok? Un lavoro a bordo di una nave spaziale non è una cosa
che ti offrono tutti i giorni, insomma… ^^;;;
Per il resto,
mh… In realtà le cose qui sono meno interessanti
di quanto potrebbe sembrare. Stiamo solo aspettando di arrivare alla
sede di questa Confederazione che deve essere una specie di governo che
comprende tutti i pianeti; Haruhi – il capitano, insomma
– mi ha detto che manderanno qualcuno a spiegarvi come
funzionano le cose il prima possibile.
Scusa se la mail non
è molto lunga, ma sono abbastanza stanco…
Purtroppo a bordo delle astronavi, con il fatto che non
c’è un sole a cui fare riferimento –
oppure ce ne sono troppi, a seconda della zona che stai attraversando
– il ritmo di sonno e veglia si incasina, nei primi giorni.
Non so esattamente
quando questa mail ti arriverà, ma in ogni caso te la
spedisco ora che non ci siamo ancora allontanati troppo dalla Terra. @_@
Ciao^^
Marco
PS: Non osare buttare
via i miei manga approfittando della mia assenza, chiaro???
Nemmeno uno, tanto mi accorgo se mancano.
Sigla d’apertura: la marcia di Star Trek Voyager;
le immagini mostrano la Crazy
Diamond che attraversa qualche nebulosa o nube stellare a
caso; nel mentre scorrono i nomi dei personaggi principali:
Marco, nel ruolo di se stesso
Pietro, nel ruolo di se stesso
Riccardo, nel suolo di se stesso
Elena, nel ruolo di se stessa
Haruhi Suzumiya, nel ruolo del Capitano Haruhi Suzumiya
Kyon, nel ruolo del Comandante Kyon
Ivan Braginski, nel ruolo di Russia
Natalia Alfroskaya, nel ruolo di Bielorussia
Dottor Franken Stein, nel ruolo di se stesso
Marie Mjolnir, nel ruolo di se stessa
“Marco, a che
serve la seconda parte? Tanto tutti interpretiamo il ruolo di noi
stessi”.
“È
che mettere solo i nomi mi pareva brutto…”.
CAPITOLO SECONDO – LONTANO DAL PIANETA SILENZIOSO
Il fatto che un uomo se ne andasse in giro con un rubinetto in mano era
bizzarro di per sé. Che il tutto avesse luogo su un
astronave non faceva che aumentarne la stranezza.
Marco, che osservava il fenomeno in perfetta posizione da stalker dietro un
angolo, stava in effetti cercando di capire a che cosa quel rubinetto
potesse servire. Magari
è tipo il cuoco di bordo…,
pensò, non troppo convinto.
Il pranzo di quel giorno – e i pasti dei due precedenti
– gli era stato servito direttamente in cabina.
C’era voluto del bello e del buono per convincere Haruhi a
lasciarli liberi di vagare per la nave e di conoscere gli altri membri
dell’equipaggio. “Siamo praticamente confinati
nelle nostre stanze!”, aveva praticamente gridato Elena, che
come sempre non permetteva che la propria libertà e quella
di chiunque altro venisse limitata. “È limitazione
della libertà personale, questa!”. Ecco, appunto.
La capitano alla fine era capitolata. “Ok, ma non
prendetevela con me se vi succede qualcosa”, aveva risposto,
le labbra storte in una smorfia di disappunto e gli occhi rivolti al
soffitto. “Certa gente che gira a bordo ha davvero dei grossi
problemi”.
E dire che sono il suo
equipaggio…, stava pensando Marco, ancora preso
nell’osservazione dello strano tizio con il rubinetto. Era
alto, con i capelli biondo cenere e una sciarpa intorno al collo
– cosa non del tutto stupida, visto che la temperatura nella
nave non era molto alta – si aggirava i corridoi con passo
tranquillo, un’espressione di placida beatitudine sul volto
largo, da bambino troppo cresciuto. Dovrebbe fidarsi un
po’ più di loro, no?
Il motivo percui Marco aveva deciso di pedinare quel tizio non era ben
chiaro nemmeno a lui stesso. Certo, avrebbe benissimo potuto farsi
avanti e presentarsi come qualunque essere umano normale… Ma
dopo che venti minuti prima Haruhi aveva concesso a lui e agli altri la
libertà e i quattro ragazzi si erano dispersi per la Crazy Diamond,
quello era il primo membro della ciurma che Marco avesse incontrato; in
quel momento si sentiva come l’esploratore di un nuovo mondo
al suo primo contatto con una misteriosa specie aliena.
Sì, come no,
la specie degli Uomini Rubinetto, si fece sentire il lato
sarcastico del suo cervello, una zona tenace e nemmeno troppo piccola. Forza, smettila di fare
l’idiota e presentati come si deve, prima che passi qualcuno
e ti prenda per pazzo.
Fece un passo avanti, spalancò la bocca atteggiandola a un
saluto… e una lama lunga una ventina di centimetri, dalla
forma elegante e perfettamente affilata, passò ad un paio di
millimetri dalla sua gola. “Che cosa credi di fare a mio
fratello?”, ringhiò nel suo orecchio sinistro una
voce femminile carica d’odio.
Il cervello di Marco elaborò in un centesimo di secondo
tutte le possibili soluzioni alla situazione. Poi perse allegramente i
sensi.
Marco aprì gli occhi, e vide una tipa con una benda da
pirata che lo fissava.
Ecco, quando comprendi
che la tua giornata non è stata ancora abbastanza strana
ecco dei pirati. Figo.
Tentò di mettersi a sedere, ma come provò ad
alzarsi scoprì che la testa gli girava come se il suo
cervello fosse stato sbattuto in una lavatrice insieme alla biancheria
sporca di qualcuno. “Tranquillo, tranquillo”, disse
la piratessa in tono gentile. Nonostante la patina lattiginosa e
tremolante davanti ai suoi occhi Marco riuscì comunque a
notare che sulla benda era raffigurato un simbolo giallo: un cerchio
tagliato in due da un fulmine stilizzato, come la saetta che Harry
Potter esibiva sulla fronte.
Beh, immagino che se
avrò fortuna potrei anche riuscire ad incontrarlo di
persona, Harry…, si disse. Aggrottò
la fronte. Ottimo, la
mia mente ha cominciato a divagare per conto suo. Chissà se
posso denunciare quella pazza che mi ha puntato un coltello alla gola
per lesioni personali aggravate… E comunque devo aver
già visto questa tizia bendata da qualche altra parte.
Qualche secondo dopo, nel suo campo visivo entrò un uomo dal
volto coperto da cicatrici e incorniciato da un paio di occhiali e una
chiostra di capelli grigi. Senza contare l’enorme vite che
emergeva dalla suddetta chioma. Fra le labbra teneva una sigaretta
fatta a mano e non ancora accesa… che la piratesca
procedette a strappargli prima che lui potesse tentare qualsiasi
reazione. “Ti ho detto mille volte che non si fuma, in
infermeria”, lo rimbeccò.
Lui si lasciò scappare un profondo sospiro. “E
dai, che problema c’è?”, rispose con
voce profonda e un po’ impastata. “In fondo questo
qui sta benone, fra poco si potrà alzare e andarsene sulle
sue gambe”. Sollevò una mano e fece ruotare la
vite un paio di volte; gli scatti metallici che si originarono dalla
procedura e che sembravano provenire direttamente da dentro la sua
scatola cranica quasi spinsero Marco ad un conato di vomito.
“Io… io la conosco”, borbottò
il ragazzo dopo qualche secondo (ovvero quando fu sicuro che non
avrebbe rimesso nell’aprire bocca). “È
il dottor Stein, giusto? E lei”, aggiunse, spostando gli
occhi sulla donna bendata. “Si chiama Marie…
mh… ok, non mi viene”.
“Mjolnir”, completò lei,
l’unico occhio visibile spalancato di perplessità.
“Incredibile, sai davvero chi siamo?”.
“Beh, anche voi venite da un anime, in fondo”,
mormorò Marco, come se fosse la cosa più naturale
di questo mondo.
Stein emise un lungo soffio, come se stesse espellendo il fumo di una
sigaretta invisibile. “Ah, tu sei di uno di quei pianeti,
perciò”, disse, annuendo. Sembrava di gran lunga
più a suo agio nel discorso della sua collega. Il suo volto
si atteggiò ad un sogghigno davvero inquietante.
“In ogni caso hai imparato una lezione, caro il mio
novellino: mai far incazzare Bielorussia”.
“Stein, modera il linguaggio!”, esclamò
Marie.
“Avrei fatto incaz… cioè, arrabbiare la
Bielorussia? Cioè, pedinando quel tizio con il rubinetto in
mano ho provocato un incidente diplomatico?”,
domandò nervoso Marco.
Il ghigno di Stein si allargò. “Non la
Bielorussia. Bielorussia e basta, senza l’articolo. La tizia
che ti ha puntato il pugnale alla gola, insomma. E giusto per essere
precisi, quello che stavi pedinando è Russia, suo fratello
maggiore”.
Marco chiuse e aprì un paio di volte gli occhi.
“Aspetti, sono confuso”, borbottò.
“In pratica quelli sarebbero…”.
Il dottore annuì. “Le personificazioni
antropomorfe dei rispettivi stati, sì. Non chiedermi come
questo possa avere senso… Lo ha sul loro pianeta,
quantomeno. Certo, non dico che non mi dispiacerebbe sapere cosa
abbiano di speciale, però…”, le dita di
Stein iniziarono ad agitarsi in maniera convulsa, mentre lo sguardo
dietro gli occhiali si faceva via via meno lucido.
“Finché non riuscirò a sezionare uno di
loro, non potrò…”.
“Perché invece non lasci che sia io a sezionare
te, eh?”. Marco sobbalzò per il terrore. Quella
che aveva risposto era la stessa voce che qualche minuto prima (ma
erano davvero passato così poco tempo? Non avrebbe saputo
dirlo) gli aveva sibilato nell’orecchio parole di odio.
Stein, dal canto suo, sembrava aver riacquistato una parvenza di
normalità. “Ecco, visto?”, disse.
“Poca personalità collaborativa, da quelle
parti”.
“Pensa… Pensa che possa andarmene,
ora?”, mormorò il ragazzo sul lettino in tono
appena udibile.
L’altro scrollò le spalle. “Hai solo
sbattuto la testa cadendo dopo aver perso i sensi, mica sei in pericolo
di vita”.
Marco provò di nuovo ad alzarsi. Questa volta la testa non
gli fece scherzi, e poté così dare
un’occhiata alla stanza in cui si era risvegliato. Era la
classica infermeria da telefilm americano: il lettino su cui era
sdraiato, una triste scrivania metallica e un altrettanto triste paio
di sedie dallo schienale di plastica bianca, su una delle quali era
accomodata Marie; e in piedi, vicino alla porta, c’era una
ragazza con indosso un abito blu e bianco, una specie di incrocio fra
un’uniforme da cameriera e il vestito di Alice nel film della
Disney. I capelli chiarissimi e la pelle diafana tradivano le sue
origini nordiche; e fra le lunghe dita affusolate teneva un pugnale.
Marco scoprì proprio in quel momento che dopo che ti hanno
puntato un arma alla gola, sai riconoscerla all’istante non
appena la rivedi.
“Forza, Bielorussia, chiedi scusa”, la
esortò Marie. Stein si era ritirato in un angolo della
stanza e chissà come era riuscito ad accendersi una
sigaretta.
La ragazza sulla porta teneva gli occhi fissi su Marco. Era come
sopportare il peso di due iceberg direttamente sulle spalle.
“Come faccio a sapere che non volevi diventare una cosa sola
con mio fratello?”, domandò.
Marco quasi cadde dal lettino. “Scusa?”,
riuscì a dire dopo un paio di secondi, fra i colpi di tosse
dovuti alla salita andatagli di traverso. “Cioè,
aspetta un attimo… Quindi tu saresti una specie di cintura
di castità vivente e pensavi che io volessi fare…
con tuo fratello… No, guarda, fare certe cose con degli
uomini non è davvero…”.
La lama del pugnale scintillò in modo sinistro e Marco
capì che forse era il caso di chiudere la bocca.
“Bene, ora è meglio che vada”, aggiunse
dopo qualche secondo, in direzione di Stein e Marie.
“Figurati”, biascicò il professore
attraverso la sigaretta. “Torna pure quando vuoi”.
Marco si lanciò verso la porta e la salvezza, correndo come
se ne andasse della sua vita, nonostante fra la barella e
l’uscita ci fosse una distanza percorribile in tre passi a
dire tanto.
Ovviamente bastò un minimo movimento da parte di Bielorussia
per gelarlo all’istante sul posto. “Ti tengo
d’occhio”, disse lei, per poi spostarsi e lasciarlo
passare.
Non ricordò nemmeno come aveva fatto ad arrivare in cabina.
Non si ricordò nemmeno come avesse fatto a ritrovarla, la
strada per tornarci. Tutto quello che il suo cervello
registrò fu la porta automatica che si apriva con un leggero
sibilo e la sua guancia che impattava contro il cuscino del letto,
prima di perdere di nuovo i sensi.
Colpi alla porta. Belli pesanti, per giunta.
“Ehi… ehm… tu! Sei qui
dentro?”.
“Avanti, capitano, è aperto”,
borbottò Marco, la faccia semisepolta nel cuscino.
La porta scorse di lato, e nella stanza entrarono Haruhi, Kyon, Elena,
Pietro e Riccardo. Improvvisamente si stava molto stretti.
“Che stai facendo? È tipo mezz’ora che
ti stiamo cercando!”, sbottò il capitano, mentre
il berretto iniziava a scivolarle lungo il lato sinistro della testa.
Lei lo bloccò con un gesto stizzito. “Prima vi
lamentavate che vi tenevo chiusi nelle cabine, e adesso che vi ho dato
il permesso di girarvi la nave tu che fai? Ti metti a
dormire!”.
“Non è colpa mia…”,
mormorò lui, senza accennare ad alzarsi. “Una
pazza ha cercato di uccidermi”.
“Ah, dici Bielorussia?”, domandò Haruhi.
“Non ti preoccupare, prima o poi lo fa con tutti…
Kyon ha ancora i segni”. Il diretto interessato
alzò gli occhi al soffitto. “Comunque siamo venuti
a chiamarti perché fra poco entreremo nel subspazio, e
magari la cosa poteva interessarti… Ma se vuoi dormire, fai
pure!”.
Marco era già in piedi. “Stai scherzando? Certo
che vengo a vedere!”. Non che si fosse dimenticato di
Bielorussia, ma, ehi, un salto nel subspazio era un salto nel
subspazio. Qualsiasi cosa volesse dire esattamente.
Da: watanukikun@xxxxxxx.com
A: luckyanne@xxxxxxx.com
Oggetto: Re:Re:Saluti
dallo spazio!^^/
Ciao! Sono contento di
sapere che ve la passate bene. Mi dispiace che tu non possa prendere il
sole, ma sono sicuro che non pioverà ancora a lungo.
È pur sempre estate, insomma.
Dì alla nonna
che sì, mangio a sufficienza e che no, non mi sono messo a
fumare (che cosa c’entra con l’andare nello spazio
poi lo sa soltanto lei…XD).
Dato che stiamo per
spostarci da una zona vicina alla Terra ad una più lontana,
ne approfitto per scriverti qualcosa, visto che non so se le mail
potranno arrivarvi nel posto in cui stiamo andando ora. È un
po’ difficile spiegare come arriveremo alla sede della
Confederazione… Magari chiedi a papà
cos’è l’iperspazio, se sei fortunata si
ricorda ancora abbastanza bene Star Trek da spiegartelo lui.
Ora devo proprio andare,
già c’è il capitano che mi guarda male
perché sto ritardando le operazioni…@_@
Spero di riuscire a
contattarvi ancora il prima possibile!
Saluta tutti^^/
Marco
PS: no, non puoi nemmeno
spostarli in soffitta, i manga. Lasciali lì dove sono, che
fastidio ti danno?
“Allora, ci diamo una mossa con queste lettere?”.
Haruhi era chiaramente impaziente. In realtà questo dava
molto poco l’idea… Se esistesse un termine come
“impazientissimissima”, renderebbe molto bene lo
stato in cui essa si trovava. Ma dato che non c’è,
bisogna accontentarsi di una descrizione sommaria ed imprecisa.
“Un attimo, ci sta mettendo un po’ ad allegare le
foto…”, si giustificò Pietro, che stava
tamburellando nervoso lo schermo della sua postazione. “Certo
che anche se siete tecnologicamente avanzati le vostre connessioni ad
Internet fanno schifo quanto le nostre”.
Riccardo sbuffò. “Tu e le tue foto! Come se
già prima non ci avessi rotto le palle a
sufficienza!”.
“Ehi, i miei ci tengono a vedere dove vado!”, si
difese lui. “Comunque ora ha finito. E…Ok,
inviato”.
“Bene, allora siamo tutti pronti?”,
domandò Haruhi. “Kyon, quanto ci vuole prima del
salto?”.
Il vicecapitano stava pigiando con aria quasi infastidita i pulsanti di
una grossa tastiera. “Pare che prima di cinque minuti non se
ne faccia niente”.
Mentre Haruhi si chinava a dare un’occhiata allo schermo di
Kyon borbottando qualcosa come “È assolutamente
inaudito che ci facciano aspettare così
tanto…”, Marco si rivolse ai suoi amici.
“Voi che avete fatto mentre io ero in cabina? Avete
conosciuto qualcun altro dei membri
dell’equipaggio?”.
Elena annuì. “Io ho parlato con una
tigre”, disse.
“Oh. Beh, immagino che non sia la cosa più
bizzarra che possa capitare nello spazio, in effetti”.
La ragazza fece spallucce. “Non saprei… La tigre
portava in giro un gatto sulla testa, questo rende il tutto abbastanza
strano? Tieni conto che il gatto non parlava,
però”.
Marco rise. “Vedo che ti sei abituata a tutto questo molto
più in fretta di quanto la tua iniziale reazione avrebbe
lasciato pensare”.
“Beh… Sai, il fatto che qualcuno mi racconti di
essere salito su una nave spaziale e salirci io stessa…
Insomma, sono due cose abbastanza diverse. Senza offesa”.
Elena tacque per qualche secondo. “Certo, se sono delle scuse
che vuoi non ci sono…”.
“No, no, figurati”, rispose Marco scuotendo la
testa con veemenza. “Non era quello che intendevo…
È solo che, insomma… Siamo qui da quanto, tre
giorni? Eppure, tutto questo… astronavi, personaggi di
fantasia che però sono reali, tigri parlanti, tizie che
cercano di uccidermi… Voglio dire, ci sembra tutto normale.
Più o meno”.
“Ehi, siamo cresciuti a cartoni animati e telefilm americani,
la nostra soglia di sospensione dell’incredulità
è ridicolmente alta”, disse Pietro in tono
pratico.
“Mh, ok, un punto per te”.
“Evvai, siamo quasi pronti!”, gridò
Haruhi, sollevando le braccia al soffitto. “Non vedo
l’ora!”.
“Ma perché, è qualcosa di
così straordinario, questo salto nel subspazio?”,
domandò Riccardo.
“Ovviamente no”, rispose pronto Kyon.
“Anzi, a dirla tutta è noioso”.
“E allora perché Haruhi si esalta
così?”.
Kyon si voltò e fissò Riccardo di sbieco, la
fronte aggrottata. “Lei è sempre
così, a dire il vero”.
“Piuttosto, dove sono gli altri?”, chiese Marco
guardandosi attorno. La plancia della Crazy Diamond,
escluse le postazioni a cui si trovavano lui e gli altri, una poltrona
rivestita di un velluto porpora decisamente pacchiano riservata al
capitano e l’enorme visore sopra e davanti a loro che
mostrava l’infinito scorrere dello spazio circostante, non
ospitava molto altro. Soprattutto, nessun membro della ciurma.
“Mica salteremo nel subspazio senza l’equipaggio a
coordinare le operazioni?”.
Haruhi lo fissò come se avesse appena ammesso di essere un
maniaco sessuale. “Guarda che entrare nel subspazio mica
richiede chissà quale scienza, eh. Aspetti il segnale e pigi
un bottone, le astronavi di queste dimensioni fanno tutto da sole. E
comunque nessuno degli altri è davvero un membro
dell’equipaggio… Sono solo tipi strani che ci
portiamo dietro perché potrebbero tornare utili, in un modo
o nell’altro”.
“Cioè, fatemi capire”, disse Elena,
puntando un indice alternativamente a Haruhi e Kyon.
“L’unico equipaggio vero siete voi due?”.
“Esatto!”, rispose Haruhi, l’espressione
tronfia e le mani chiuse a pugno contro i fianchi.
“E allora che senso ha che Kyon sia comandante, se non ha
nessun subordinato?”.
“Beh, mi sembra ovvio”, disse Haruhi. “Io
almeno un subordinato lo dovevo pur avere”.
“In effetti, ora che mi ci fai pensare… Dove sono
Itsuki, Nagato e Asahina? Non viaggiano anche loro su questa
nave?”, domandò Pietro.
Lo sguardo che passò fra Haruhi e Kyon non durò
neppure un secondo. Era difficile capire che cosa significasse, ma
Marco fu certo di averci visto parecchia tristezza. “Direi
che non sono affari vostri”, rispose il capitano in tono
brusco, voltandosi di nuovo verso lo schermo.
Questa volta fu il turno di Marco e gli altri di guardarsi in faccia
gli uni con gli altri. “Sc-scusa, non credevo
che…”, balbettò Pietro.
“Beh, non è comunque qualcosa che vi
riguardi”, tagliò corto lei. “Tra quanto
possiamo andare, Kyon?”.
“Cinque secondi da ora”, rispose lui.
“Bene!”. La capitano sembrava essersi
già del tutto ripresa dall’attimo di rabbia.
“Pronti ad accedere al subspazio, allora!”, e
pronunciando la frase con la maggiore enfasi possibile stese il braccio
sinistro in avanti, l’indice puntato oltre il visore, quasi a
voler sfidare le stelle.
“È inutile che gridi, ti sento
benissimo”, disse Kyon in tono annoiato, premendo un bottone
con un gesto quasi casuale.
“Ecco, riesci a sempre a rovinare i miei momenti
di…”, ma prima che la frase di Haruhi potesse
finire la Crazy Diamond
e il suo equipaggio scomparvero, lasciandosi dietro soltanto il vuoto
dello spazio.
Da: watanukikun@xxxxxxx.com
A: luckyanne@xxxxxxx.com
Oggetto: Re:Re:Saluti
dallo spazio!^^/
Ciao. Ho deciso comunque
di scrivervi, anche se non ho davvero idea di quanto ci
metterà questa lettera ad arrivare fino alla Terra. Lo so
che ancora non mi hai risposto, o forse semplicemente la tua mail
ancora non mi è arrivata a causa della
distanza…Però c’è qualcosa
che vi devo dire. Anche se già mi mancate un sacco, anche se
probabilmente da qui in poi ci vedremo molto poco spesso, e anche se so
che prima o poi riuscirai a trovare una scusa per disfarti dei miei
manga… Sono davvero contento di avere deciso di viaggiare
nello spazio.
In ogni caso, a presto.
Marco
MARCO: Ed eccoci di
nuovo pronti per le anticipazioni!
RICCARDO: Stavolta come
ospite speciale abbiamo Bielorussia.
MARCO: Ehi! Quella pazza
ha cercato di sgozzarmi e voi la invitate qui?
BIELORUSSIA: Pensavo che
volessi diventare una cosa sola con mio fratello, ecco
perché.
ELENA: Marco…
Davvero, non sapevo che avessi gusti simili…
MARCO: E voi si
può sapere perché le date retta?!
PIETRO: Il terzo
capitolo di “Il cielo è un’ostrica, le
stelle sono perle”, si intitola “Nello spazio
nessuno può sentirti spiegare”. Speriamo tutti che
lo leggerete!
BIELORUSSIA: Ma non
provate a diventare una cosa sola con mio fratello,
altrimenti…
ELENA: Bielorussia, per
favore, metti via quel coltello.
Ed eccoci allo spazio
risposte alle recensioni!
Questo capitolo
purtroppo non è granché, come avrete potuto
leggere… Serve più che altro a presentare
qualcuno dei membri dell’equipaggio della nave e niente di
più.
Chiedo scusa per la
puerilità delle mail di Marco… Quando scrivo
lettere sia cartacee che telematiche, in effetti, tendo a produrre obbrobri molto simili!XD
Ma passiamo alle
risposte!
Per Suikotsu: Grazie
innanzitutto per essere stato il primo a commentare! Per quanto
riguarda la questione delle descrizioni fisiche: hai ragione, in
effetti non è per niente chiaro come siano Marco e gli
altri, eh?
Posso dire a mia
discolpa che in parte la cosa è voluta: i quattro
protagonisti sono di fatto ispirati a me e a tre miei amici, e dato che
siamo persone normalissime come potreste incontrarne a migliaia mettere
una descrizione mi sarebbe sembrato tremendamente banale…
Sì, temo che non sia una grande scusa.XD Cercherò
di rimediare infilando qualche particolare nei prossimi capitoli.
Per Anonimo9987465: Una
recensione così energica è davvero una botta di
vita! Sono contento che il primo capitolo ti sia piaciuto. Questo temo
sia un po’ meno bello, ma… Spero tu gradisca lo
stesso!
Ringrazio anche Morens94 che ha
messo la storia fra le preferite.U_U
Ok, ho veramente finito!
Se vi va, ci vediamo la prossima volta!
A presto,
Davide
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Parte Prima, Capitolo 3 - Nello spazio nessuno può sentirti spiegare ***
CAPITOLO TERZO – NELLO SPAZIO NESSUNO PUO’ SENTIRTI SPIEGARE
Sigla d’apertura: Paranoid Android, dei Radiohead
L’Universo tende al caos, è cosa nota. A sovrintendere tutto quanto c’è un piccolo essere fastidioso, chiamato “entropia”, che fa sì che in giro per il cosmo ci sia quanto più disordine possibile. E per quanto possa sembrare un’affermazione strana, di solito sono gli esseri umani coloro che si preoccupano di mantenere l’ordine.
Ciononostante la dottoressa Susan Calvin, oltre a trovare detestabile l’entropica e intrinsecamente incasinata immensità dell’Universo, aveva in antipatia anche la maggioranza degli esseri umani, o così almeno lei diceva, colpevoli – sempre a suo dire – di non essere abbastanza ordinati.
“Mi chiedo perché, ogniqualvolta venga dato un orario per una riunione, ci sia qualcuno che non lo rispetti”, stava dicendo, le labbra sottili e severe immerse nella ragnatela di rughe che le circondava la bocca.
Albus Silente, che aveva il seggio accanto a quello della dottoressa nel Consiglio della Confederazione Iperuranica – ovvero sedeva alla sua sinistra intorno ad un tavolo, visto che i membri del suddetto consiglio erano tredici e quindi non era necessario molto spazio – si levò di testa il cappello a punta e le rivolse un sorriso tranquillo. “Su, dottoressa Calvin, non credo che attendere altri dieci minuti sia così grave”.
Lei gli scoccò un’occhiataccia. Non lo sopportava, e non ne faceva mistero; sebbene entrambi chiaramente lavorassero per il bene dell’ordine, i metodi di Silente erano decisamente troppo frivoli perché lei potesse accettarli come validi, per non parlare della sua persona. “Si da il caso, professor Silente, che facciamo parte dell’organo supremo preposto al controllo di decine di migliaia di pianeti, nel caso se ne fosse dimenticato”, rispose. “Un ritardo o una negligenza da parte nostra potrebbero condannare milioni di creature alla morte. Ma a quanto pare la cosa non sembra toccare il signor Ohtori e la signora Ichihara”.
“Ecco, dottoressa Calvin, prenda un po’ di tè”, intervenne Retsu Unohana, poggiando una tazza colma di liquido scuro davanti alla dottoressa. La shinigami era una delle poche persone che sapeva come prendere la vecchia scienziata. “La vedo nervosa, questo la aiuterà a rilassarsi”.
“Grazie, dottoressa Unohana”, rispose l’altra, accettando di buon grado la tazza. Bevve un sorso di tè bollente, senza dare nessun segno di intolleranza al calore o fastidio. “Se non altro undici di noi sono qui per l’orario previsto, credo sia un nuovo traguardo rispetto al solito”. La donna fece scorrere lo sguardo lungo la tavolata. Accanto a Unohana c’era Tassadar, come al solito impenetrabile e ieratico, anche per i suoi canoni; non l’avrebbe pubblicamente ammesso, ma qualche volta sorrideva anche lei (cosa che in effetti al Protoss sarebbe risultata difficile, dato che non aveva una bocca visibile). Seguiva la sfera dorata che faceva da terminale a Pensiero Profondo, che in quanto grande come una piccola città, non poteva muoversi dal pianeta in cui era situata. Re Cole stava parlando con l’ammiraglio Armstrong e Mace Windu, e stava preparando il tabacco da pipa come se niente fosse, nonostante il divieto di fumare che riguardava i locali del Consiglio (certo, si chiedeva anche il rispetto del decoro, ma questo a quanto pareva non impediva ad Armstrong di presentarsi a petto nudo ad ogni sacrosanta riunione); e infine, allineati accanto a Silente, le tre nuove entrate del consiglio, dei ragazzini selezionati per il loro elevatissimo quoziente intellettivo. Strano a dirsi, le facevano un’impressione migliore rispetto a molti loro colleghi più anziani, specialmente la ragazza con i capelli rosa e il giovane uomo dal portamento elegante. Quanto al terzo, il ragazzino vestito in maniera strampalata con lo sguardo perennemente tinto dalla noia, era senz’altro molto intelligente; ma non sembrava il tipo che avesse particolare volontà di impegnarsi nel fare alcunché.
Finalmente le porte della sala si spalancarono, e gli ultimi due membri del Consiglio fecero il loro ingresso.
Akio Ohtori e Yuko Ichihara erano senza ombra di dubbio un uomo bellissimo e una splendida donna, eppure la dottoressa Calvin non riponeva in loro la minima fiducia. Possedevano entrambi un potere magnetico che, unito al loro innegabile fascino esteriore, li rendeva dotati di un carisma quasi spaventoso. Susan, che, pur essendo allo stesso modo in grado di imporre la propria volontà con forza e determinazione, non era mai stata una bella donna, tendeva per natura a diffidare di coloro che possedevano lineamenti regolari e una voce suadente. Una maggiore diffidenza, quantomeno, di quella che normalmente riservava al genere umano nel suo insieme.
“Scusate il ritardo”, disse Akio, esibendo un sorriso da copertina. “Ci siamo persi qualcosa?”.
“Ovviamente no”, rispose la Calvin in tono gelido. “Aspettavamo voi per cominciare. Aspettiamo sempre tutti, prima di cominciare”. E gettò un rapido sguardo tutto intorno. Pochi sembrarono cogliere il rimprovero, ma Re Cole perlomeno mise via la sua pipa. “Bene”, disse la donna, riaccomodandosi al suo posto. “Signorina Katsura, ci riassume l’ordine del giorno, prima di cominciare con le deliberazioni?”.
“Sì”, rispose Hinagiku in tono un po’ nervoso, alzandosi in piedi con un paio di fogli stretti fra le mani. “Ecco, pare che su Terra 5872 ci siano ancora dei problemi riguardanti l’elezione del Presidente degli Stati Uniti… La fazione che fa capo allo sconfitto continua ad insistere sui brogli elettorali, e la situazione sta degenerando. Poi, uhm… la guerra per tenere sotto controllo gli Zerg sembra aver incontrato una battuta d’arresto”.
Il mio popolo si sta battendo al meglio delle possibilità, intervenne Tassadar, mentre la sua profonda comunicazione telepatica vibrava nelle teste dei presenti come un lungo accordo d’organo. Purtroppo, però, la locazione di Sarah Kerrigan, la Regina delle Lame, è ad oggi ancora sconosciuta.
“Se sono rinforzi ciò che ti servono, chiedili e li avrai, templare Tassadar”, disse Susan Calvin. “Gli Zerg sono una minaccia all’Ordine universale, e esistenze come quelle non possono essere tollerate”.
Il Protoss spostò il suo splendente sguardo azzurro sulla donna. L’offerta mi lusinga, dottoressa. Ma questa è una guerra che il mio popolo deve combattere. Ne va del nostro onore.
La Calvin schioccò le labbra in segno di disapprovazione. “Se riuscirete a riprendere in mano le sorti della vostra guerra nei prossimi tre giorni, accetteremo queste condizioni. Altrimenti, temo dovrete mettere da parte il vostro orgoglio e permettere che vi aiutiamo”.
Tutti tacquero, attendendo la risposta di Tassadar. Le vostre decisioni si sono dimostrate sagge in più di un’occasione, dottoressa. Ma convincere il mio popolo non sarà comunque facile.
“A questo penseremo al momento opportuno”, intervenne Silente, che sicuramente in realtà aveva già in mente qualcosa al riguardo. “Ora forza, Hinagiku, continua pure…”.
La ragazza si schiarì la voce. “Dunque, il prossimo punto riguarda…”.
“Richiedo la sospensione di questa riunione!”.
Le tredici creature presenti si voltarono nella stessa direzione. Senza che neppure se ne accorgessero la porta della sala era stata aperta e tre persone erano entrate all’interno. “Chi siete?”, tuonò Mace Windu, poggiando la mano sull’elsa della spada laser. “Come siete riusciti ad arrivare qui evitando i controlli?”.
I nuovi venuti erano giovani, e all’apparenza addirittura disarmati. La donna bionda che aveva parlato non era molto alta, ma aveva una corporatura asciutta e un portamento fiero e nobile. Dietro di lei, quasi a farle da guardie del corpo, c’erano una ragazza dalla folta chioma rossa che giocherellava con lo stelo di una rosa e un giovane uomo dai capelli scompigliati e l’aria assorta, con indosso solo un paio di pantaloni di pelle. La dottoressa Calvin, in un momento di terrore, credette di scorgere un lampo di approvazione negli occhi di Armstrong. “Siamo qui soltanto per chiedere la destituzione di Akio Ohtori dalla carica di Consigliere”, rispose la donna, ignorando completamente le domande postele dal Jedi. “Non abbiamo alcun interesse nel ferirlo o nel danneggiare nessun altro di voi”.
Prima che qualcun altro reagisse, il diretto interessato si era alzato in piedi. Lentamente, con il solito sorriso beffardo sul volto, iniziò ad applaudire. “I miei complimenti. Immagino vi abbia mandati la mia amata sorella”. Non c’era sarcasmo nella sua voce, a dispetto di tutto. Forse dell’amarezza. “Beh, potete anche tornare da dove siete venuti, per quel che mi riguarda. E immagino che il Consiglio sia della mia stessa opinione”.
“Othori-san, sapete chi è questa gente?”, domandò Re Cole, pacato e diplomatico come da sua abitudine.
Akio si voltò verso di lui. “Certo”, rispose, con tono suadente. “Immagino che abbiate sentito tutti parlare di una delle Terre fortunosamente andate distrutte durante la Guerra di Maggio… Mi riferisco al pianeta che ospitava una battaglia ciclica fra le versioni locali della dea Atena e di Ade, il signore degli Inferi. Pare che nonostante l’implosione del pianeta le armature usate dai guerrieri delle rispettive fazioni siano sopravvissute… Quantomeno, alcune di esse. Mia sorella, con mezzi che purtroppo mi sono ignoti, è riuscita a mettere le mani su uno dei set di armature più preziosi, un gruppo di dodici che viene definito Gold Cloth, e le ha usate per… beh, lo vedete anche voi, ci si è costruita un piccolo esercito personale, parrebbe”.
“Ma non vedo armature, addosso a questi giovani”, osservò Re Cole, pulendo le lenti degli occhiali con un elegante fazzoletto di seta.
“Naturalmente”, rispose la ragazza con la rosa fra le mani. “Questa non è una missione che richieda uso di violenza o intimidazione. La nostra è una semplice richiesta”.
“Richiesta a cui il Consiglio non ha alcuna intenzione di ottemperare”, rispose la dottoressa Calvin. Era vero che disapprovava totalmente Ohtori, ma non poteva di certo permettere che le proprie antipatie personali offuscassero il conseguimento dell’Ordine… E più di una volta Akio si era dimostrato fondamentale per l’attuazione delle deliberazioni del Consiglio. “A meno che non ci vengano presentate solide prove, quantomeno”.
“Inoltre sarebbe quantomeno cortese da parte vostra presentarvi”, aggiunse Unohana, che nonostante il sorriso aveva assunto un’espressione autoritaria. “Piombare qui dentro senza nemmeno dirci i vostri nomi non è un comportamento che definirei educato”.
La due donne fecero un profondo inchino. Il loro accompagnatore se ne accorse dopo qualche secondo, e si unì al gesto in ritardo. “Ci scusiamo per l’inconveniente, in effetto è stato scortese da parte nostra”, convenne la ragazza della rosa. “Il mio nome è Shuichi Minamino, altrimenti detto Kurama dei Pesci”.
Il rumore di una sedia che strisciava per terra con violenza fece voltare tutti in direzione di Hinagiku, che si era alzata di scatto e ora stava in piedi con gli occhi spalancati e un viso talmente rosso che sembrava avesse immerso la faccia in un barattolo di vernice. “E-ehm, sc-scusate, ma…”, balbettò, quando sentì l’attenzione di tutti su di sé. “Ha… ha detto proprio ‘Shuichi’? Quindi lei, insomma… è un uomo?”.
A queste dichiarazioni intorno al tavolo ci fu qualche secondo di parlottii, quantomeno fra coloro che non avevano familiarità con l’onomastica giapponese.
“Mai affermato il contrario”, si limitò a rispondere Kurama, uno scintillio divertito nei grandi occhi verdi.
“Gray Fullbuster, dell’Acquario. Piacere”, disse il giovane mezzo svestito.
“Arturia Pendragon”, concluse la donna bionda. “O, se preferite, Saber del Capricorno”.
“Mi pare comunque che non possediate alcuna prova a sostegno della vostra richiesta”, disse la dottoressa Calvin. “Né peraltro avete addotto alcuna motivazione. Sappiate che si tratta di un’accusa molto grave da rivolgere ad uno dei membri del Consiglio Iperuranico”. La donna tacque per un paio di secondi, ponderando sulla propria decisione. “Ciononostante, anche se avete violato diverse regole della Confederazione irrompendo qui senza alcun permesso, non vedo motivo di trattenervi, a patto che lasciate subito il pianeta. Se vorrete tornare ed esporre il vostro caso, accertatevi prima di aver presentato la corretta documentazione e di possedere qualcosa a sostegno delle vostre teorie. Così ho deciso”. E la presidentessa del Consiglio si riaccomodò nel proprio seggio.
I tre, in ogni caso, sembrarono accettare di buon grado le parole della donna. Senza aggiungere una parola piegarono il capo, si voltarono, ed abbandonarono la sala, senza più voltarsi.
Sul Consiglio Iperuranico il silenzio gravò per un buon mezzo minuto. Fu Mace Windu, che finalmente aveva tolto la mano dall’elsa della sua arma, a dare voce alle perplessità di tutti. “Che cosa credete che siano venuti a fare?”, domandò. Alzò gli occhi su Akio, come se si attendesse una risposta da lui solo.
Risposta che ovviamente non tardò ad arrivare. “Beh, immagino ci abbiano semplicemente dimostrato che loro possono arrivare qui, nonostante ciò che noi pensiamo dei nostri sofisticatissimi sistemi di sicurezza. Una dimostrazione di forza, per così dire; anche perché con una buona probabilità uno qualsiasi di quei tre avrebbe potuto uccidere metà dei presenti prima che il più rapido di noi avesse avuto il tempo di reagire”.
Il Jedi annuì con lentezza. “Credo che abbia ragione, consigliere Ohtori. La Forza in loro scorreva potentissima”.
“In ogni caso”, la voce da contralto perfettamente modulata ma con qualche leggera scarica statica di Pensiero Profondo si fece sentire per la prima volta. “Deduco potesse trattarsi di un tentativo atto a screditare il consigliere Ohtori”.
La maschera di bronzo che era il viso di Akio non si incrinò di un solo millimetro. “Beh, mi sembra un ragionamento piuttosto ovvio”, rispose. “Ma se desiderate sapere qualcosa a mio riguardo, è tutto nei miei file personali accessibili da qualsiasi terminale della Confederazione. Non ho mai nascosto nulla, né ho intenzione di cominciare a farlo ora”. Il suo sorriso si allargò impercettibilmente. “In fondo, non sono l’unica persona a questo tavolo ad avere un passato discutibile”.
“Immagino si stia riferendo a Yagami, consigliere Ohtori”, disse Susan Calvin. “Ma sebbene in passato abbia avuto un comportamento… riprovevole”, la parola fu accompagnata da un leggero brivido lungo la schiena della donna. “Un’intelligenza come la sua non poteva certo andare sprecata. La sua mente è importante per la causa dell’Ordine”.
“Posso garantire io per il giovane Raito”, Silente alzò la destra, come se lo avessero chiamato a giurare in tribunale. “In fondo ritengo che il suo desiderio di ravvedersi sia testimoniato ampiamente dall’essersi fatto privare della vista, senza contare la volontaria distruzione del suo quaderno”.
Raito Yagami, gli occhi nocciola persi nel vuoto davanti a loro, annuì con gravità. “Il potere del Death Note aveva offuscato il mio giudizio”, disse, serio e compunto. “Ma ora tutto ciò che voglio è mettere me stesso a servizio della Confederazione”.
Ma sentilo! Falso come una banconota da tre crediti!, pensò la Calvin, torcendosi le mani per un paio di secondi. Però è meglio averlo qui, dove possiamo tenerlo sotto controllo e dove il suo cervello può essere utile, invece che su qualche pianeta a sterminare la popolazione credendo di essere Dio.
La riunione proseguì e si concluse un paio d’ore più tardi, senza incidenti o problemi di sorta. Ma quando quella sera, spossata dagli impegni della giornata, Susan Calvin poté ritirarsi nel proprio appartamento, le immagini di ciò che era accaduto quel pomeriggio le passarono davanti agli occhi, impresse nella sua mente con una chiarezza tanto cristallina da fare invidia a qualsiasi videocamera. La donna, seduta rigida nella sua poltrona preferita, sospirò. “Non posso fidarmi di nessuno di loro a parte di te, a quanto sembra”, disse a se stessa. “Come al solito”.
“La nostra è una nave di classe C, il che vuol dire che…”. Haruhi si interruppe. Improvvisamente, sembrava molto delusa. “Vuol dire che nella classificazione siamo solo al quinto posto sotto la classe SS, la S, la A e la B”, concluse in un borbottio, storcendo la bocca e alzando gli occhi al soffitto.
“Come i gradi in Devil May Cry”, intervenne Riccardo. I quattro terrestri – anche se la definizione era al più imprecisa. In fondo, praticamente quasi tutti i membri dell’equipaggio dell’astronave potevano definirsi tali – erano stati riuniti in una piccola stanza per una sorta di lezioncina introduttiva alle navi spaziali. “Ok, sto zitto”, aggiunse il ragazzo, quando Haruhi gli lanciò un’occhiata malevola.
“Comunque, il fatto di essere una classe C non è granché problematico, in fondo. Abbiamo pur sempre fatto montare a bordo degli armamenti che fanno invidia a quelli di molte classi A, ma siamo più veloci e maneggevoli”. La piega che il discorso aveva preso era chiaramente solo un modo con cui la capitano stava tentando di convincersi che la propria nave in fondo non era così male. Nessuno osava interromperla, comunque.
“Ehm… dov’ero rimasta, comunque?”, domandò dopo qualche secondo.
“Stava dicendo che questa è una nave stupenda”, disse Pietro.
Il volto della capitano si illuminò. “Giusto! Bravo, molto bene, ehm… comunque tu ti chiami”.
“Ci converrà iniziare a portare dei cartellini col nome”, bisbigliò Riccardo a Marco.
“Nah, non credo che poi si disturberebbe a leggerli”.
“Ehi! Zitti, voi due, non interrompete la lezione!”. La ragazza calò una mano sulla sua cattedra improvvisata, in realtà una semplice scrivania metallica. Tutti e quattro si voltarono a fissarla, con gli occhi sgranati dalla sorpresa. “Oh, ora va meglio. Comunque beh… Non che ci sia molto altro da dire. Mezz’ora fa avete assistito al primo vostro ingresso nel subspazio, quindi avete più o meno visto tutto…”.
Pietro alzò il braccio destro, come se fosse davvero a scuola. “A questo proposito… Non è che può spiegarci come funziona, il subspazio?”.
Haruhi fece un passo indietro, quasi avesse appena assistito all’apparizione di uno spettro. “Ehm… Uhm…”, borbottò. Almeno mezzo minuto di imbarazzante silenzio. “Ehm”. Altro momento di silenzio. La ragazza si guardò intorno, forse cercando un aiuto che non sembrava arrivare. “Come spiegarvelo?”.
“Beh, è lei il capitano”, sintetizzò brillantemente Elena.
“Ehi, questo non significa che io debba sapere tutto!”.
Haruhi quasi non aveva finito di parlare, che la porta della stanza si aprì, e una donna bionda alta e con indosso un camice da laboratorio fece il suo ingresso. “Avete bisogno di una spiegazione?”, domandò.
“Ehi! È la signorina Inez!”, esclamò Marco. “È qui per spiegarci come funziona il subspazio?”.
Il lieve sorriso sul volto della scienziata si allargò di poco. “Certo!”. Con sicurezza si avvicinò alla scrivania, da dove Haruhi stava guardando la nuova venuta come se fosse un demone uscito direttamente dall’inferno. “Faccia un passo indietro, capitano Suzumiya… Ecco, così”. L’altra aveva obbedito, meccanicamente. Inez si chinò, il rumore di un cassetto che veniva aperto, e poi… “Oh, sapevo che ce ne doveva essere uno!”. La donna alzò una mano, stringendo trionfante un normalissimo foglio di carta. Si posizionò in modo che tutti potessero vederla, poi iniziò la spiegazione. “Bene, dicevamo sul funzionamento del subspazio, giusto? Allora, immaginate che l’Universo sia rappresentato su questo foglio”. Trasse una biro dal taschino del camice e fece qualche scarabocchio sulla superficie bianca. “Ecco qua, questi sono dei pianeti. Ora, se voi doveste andare da questo pianeta qui”, e con un dito picchiettò il cerchio più vicino al bordo sinistro del foglio, “a qui”, stavolta toccò lo scarabocchio più a destra, “in teoria dovreste percorrere tutta la distanza che li separa”. La penna tracciò una linea che collegava i due punti. “Ma”, la donna alzò l’indice della sinistra. “Se voi poteste fare così” e afferrando i lembi del foglio li avvicinò, piegandolo a metà, in modo che i due pianeti – pur trovandosi ancora ai due opposti della mappa improvvisata – fossero quasi sovrapposti. “Allora spostarsi da un punto all’altro sarebbe decisamente più rapido. Pensate all’Universo come a una roccia piena di fori, e avrete l’immagine del subspazio. Purtroppo non è possibile utilizzarlo in qualsiasi punto dello spazio si voglia, visto che i tunnel subspaziali sono presenti solo in particolari punti del cosmo; ma dato che ne esistono centinaia di migliaia solo fra quelli conosciuti e normalmente utilizzati, in realtà il problema è piuttosto relativo. Tutto chiaro?”.
“Direi di sì”, rispose Riccardo. Gli altri tre annuirono a seguire.
Haruhi, dal canto suo, era ancora nella posa sconvolta di poco prima.
“Bene”, disse Inez Fressange, sorridendo. In una delle tasche del suo camice qualcosa pigolò: una specie di bizzarro incrocio fra un cellulare e il Radar del Drago di Bulma, come tutti poterono constatare dopo che la donna l’ebbe tirato fuori. “Oh, pare che qualcuno necessiti di una spiegazione sull’antigravità dalle parti di Betelgeuse. Alla prossima!”. E svanì nel nulla prima che qualcuno avesse possibilità di spiccicare parola.
Haruhi sembrò riprendersi dalla pietrificazione. “Ma chi diavolo era, quella tizia?”, domandò, con un filo di voce.
Pietro aggrottò la fronte. “Non hai mai visto Nadesico?”.
Lei scosse la testa. “Se intendi la nave da guerra sì, è una delle più famose classe S esistenti… Almeno in fotografia l’abbiamo vista tutti. E quindi quella tizia farebbe parte del suo equipaggio?”.
“Boh?”, rispose il ragazzo. “Ai tempi della serie sì”.
“E se ne andrebbe in giro teletrasportandosi a casaccio con il rischio di essere arrestata?”, ribatté Haruhi in tono scettico. “La Nadesico è una nave fuorilegge”.
“Beh, come nell’anime”, disse Riccardo. “Credo. Non ho mai capito bene chi stesse da che parte”.
“Neanche io”, aggiunse Elena. “E come serie non è che mi fosse piaciuta poi tanto”.
“Sentite, se volevo ascoltare delle chiacchiere da otaku andavo a parlare con Sanzenin”, replicò Haruhi.
“Sanzenin?”, domandò Marco, alzando la testa. “Per caso è Nagi Sanzenin? Una ragazzina bionda con un maggiordomo dal sesso ambiguo?”.
“Perché? Conosci pure lei?”, chiese Haruhi di rimando. “Sì, comunque dovrebbe essere lei. Quella a cui sta pensando ha anche una tigre e un gatto come animali da compagnia?”.
“Ti ricordi che ti ho detto che avevo parlato con una tigre?”, disse Elena, guardando Marco. “Dev’essere la sua”.
“E poi chi altro c’è a bordo?”, domandò Riccardo. “Prima, quando io e Pietro abbiamo girato la nave, non abbiamo beccato nessuno, tranne degli strani omini colorati che sono fuggiti quando ci siamo avvicinati”.
“Ah, quelli”, disse Haruhi in tono di evidente disprezzo. “Sì, abbiamo dovuto prenderli a bordo quando ho fatto, ehm… più o meno esplodere il loro pianeta”.
“Esplodere?!”, ripeté Elena, scandalizzata. “E che vuol dire ‘più o meno’? Una cosa esplode o non esplode!”.
“Ehi! Non è mica colpa mia!”, tentò di difendersi Haruhi. “Non proprio, almeno. Diciamo che… Non ero ancora molto pratica con le armi di bordo, ecco. Però era un pianeta molto piccolo”.
E sarebbe una giustificazione?, pensò Marco, perplesso.
“In ogni caso”, continuò intanto il capitano. “I cannoni al plasma non l’hanno fatto implodere proprio subito… Quindi siamo riusciti a salvare buona parte di quei cosi, e ora ovviamente dobbiamo portarceli dietro”.
“E non ti senti in colpa?”, le domandò Elena. Era improvvisamente impallidita, gli occhi pieni di sconcerto. “Hai distrutto migliaia, forse milioni di vite, e tutto quello che riesci a dire è ‘dobbiamo portarceli dietro’?”.
Haruhi la fissò. “Secondo te perché me li porto dietro invece di mollarli sul primo pianeta che trovo, eh?”, le rispose, in tono serissimo. “Perché vederli mi ricorda che non devo evitare di agire in modo avventato, in futuro”.
Se smettessi di agire in modo avventato non ti chiameresti più Haruhi Suzumiya…, pensò Marco, ghignando.
Elena, però, non era ancora soddisfatta. “Beh, mi sembra il minimo!”, sbottò. “Ma questo non cambia il fatto che…”.
La porta della stanza era rimasta aperta dopo l’arrivo improvviso di Inez Fressange, quindi nessuno si accorse del nuovo arrivato, soprattutto perché non era entrato ma stava in piedi in corridoio, appena oltre la soglia. Tutti e quattro i terrestri, però, potevano vedere con chiarezza il lungo naso adunco che svettava oltre lo stipite di due centimetri buoni. “Capitano, la pregherei di limitare il volume delle sue scenate, se fosse possibile… Sto cercando di preparare un filtro che richiede una certa concentrazione, nella stanza accanto”. Il tono di voce del nuovo arrivato era supponente e viscido, come se fosse sul punto di vomitare da un attimo con l’altro per la disgustosa sensazione data dal trovarsi nello stesso Universo con esseri chiaramente a lui.
Nel cervello di Marco, come una serie di lampadine, si accesero i termini di un’equazione:
Spocchia + naso aquilino + pozione = …
“Professor Piton!”, esclamò.
L’uomo varcò la soglia. Era proprio lui, mantello nero e capelli unticci compresi. Si guardò intorno, scrutando i quattro ragazzi che avrebbe fatto con dei porcellini di terra trovati sotto una roccia. “E chi sarebbero… questi?”, domandò, voltandosi verso Haruhi.
“I nuovi arrivi”, rispose semplicemente lei.
“Capisco…”, fece lui, a denti stretti. “Immagino che ci staremo dirigendo verso la sede della Confederazione per fare rapporto sul nuovo pianeta, allora”.
“Esatto”.
“Bene. Dovremo discutere della faccenda con il professor Silente, e…”.
“Silente è un membro della Confederazione?”, esclamò Pietro, la bocca spalancata. Poi si accorse che tutti si erano voltati a guardarlo e si affrettò ad arrossire.
“È il professor Silente, pezzo di Babbano”, rispose Piton trasudando veleno. “Dunque sarebbero loro, giusto?”, domandò poi ad Haruhi.
“Già”, disse lei.
Lui sospirò e scosse piano la testa. “Beh, non sembrano granché svegli. Ma se davvero provengono da quel pianeta, dovremo accontentarci. Hanno dato segno di essere…”.
La capitano scosse la testa. “Non ho certo i mezzi per saperlo. Quando arriveremo alla Confederazione immagino che riusciranno a stabilirlo, in qualche maniera”.
Ma lo stanno facendo apposta o davvero non si ricordano che siamo qui anche noi?, si chiese Marco. Quei brandelli di dialogo gli stavano mettendo addosso una tremenda curiosità, ma non osava esprimerla. C’era sempre la probabilità che Piton lo trasformasse in un tritone o cose simili; soprattutto, conoscendola, c’era anche la possibilità che Haruhi avrebbe approvato la metamorfosi in questione.
“Meglio che vada, ora”, disse Piton. “Vedete di limitare il rumore, qui”, e dopo un’ultima occhiataccia ai quattro, lasciò la stanza con uno svolazzo di mantello.
“Simpatico come nei libri, devo dire…”, borbottò Elena, quando la porta si chiuse alle spalle dell’uomo.
“Ehi, portagli un po’ di rispetto!”. Haruhi intervenne, abbastanza a sorpresa. “Quell’uomo, insieme alla vecchia Totenkinder, è l’unico su questa nave che faccia qualcosa di utile”.
Beh, quantomeno sono gli unici per cui tu porti un po’ di rispetto, visto che ti sei disturbata a imparare i loro nomi e non li chiami “ehi, tu”, oppure “quello là”, rifletté Marco.
“In ogni caso, appunto, la vecchia Totenkinder è l’ultima dei passeggeri che ancora dovete incontrare. Non siamo in molti, insomma”. Il capitano sospirò. “Non vedo l’ora che mi affidino una nave di classe A, con un vero equipaggio…”. Spostò lo sguardo sui quattro terrestri, e gli occhi le si illuminarono all’improvviso, in modo quasi minaccioso. “Ma forse, grazie a voi, riuscirò a ottenere la mia tanto sudata promozione!”.
“C’entra per caso qualcosa ciò che vi siete detti lei e il professor Piton?”, domandò Pietro.
“Lo saprete quando arriverete alla sede della Confederazione, non prima”, rispose lei, in un tono che non ammetteva repliche. “E ora andate dove vi pare, questa lezione è già durata fin troppo…”. Mentre usciva dalla stanza aggiunse, a bassa voce. “Il capitano ha davvero bisogno di un bagno. Un bagno bello lungo”.
La nave su cui i Gold Saint viaggiavano era una classe F talmente piccola che nessuno si era disturbato a darle un nome. A differenza di Haruhi, che l’avrebbe considerata un astronave tanto quanto una lavatrice con il cestello sfondato, i tre non avevano nulla di che eccepire.
“Tunnel subspaziale fra tre minuti luce”, informò Saber, rigida e pratica come suo solito.
“Capito”, Kurama, che si trovava al timone, si voltò verso Gray. “Qualcuno ci sta seguendo?”.
Il mago scosse la testa. “Nessuno che gli strumenti possano rilevare, quantomeno”.
Il demone sorrise. “Bene. Non avevo voglia di pensare a qualche manovra evasiva. Ci avrebbe solo fatto perdere tempo”. Sui tre scese il silenzio, interrotto solo dal ticchettio di qualche strumentazione. “In ogni caso… Secondo voi siamo riusciti a fare quello che dovevamo?”.
Gray inclinò lo schienale della sedia, gli occhi fissi sul soffitto cromato dell’astronave. “Beh, se avessi capito qual era il senso della nostra missione potrei anche risponderti…”.
“Dovevamo presentarci davanti al Consiglio e chiedere la destituzione di Akio Ohtori dalla sua carica”, rispose Saber, senza la minima inflessione nella voce. “Ed è ciò che abbiamo fatto”.
“Tu la fai sempre troppo facile, non credi?”, ribatté Gray. “Quello che intendevo era perché ci è stato affidato un compito del genere”.
Kurama sogghignò. “Scommetto che in questo momento se lo stanno chiedendo anche i membri del Consiglio… Perché quei tre avrebbero dovuto rischiare la vita e presentarsi qui facendo accuse assurde senza nemmeno uno straccio di prova?”.
“Insomma, mi stai dicendo che ci hanno affidato una missione senza senso?”, replicò il mago.
“Affatto”, replicò Kurama. “Semplicemente – ed è la conclusione a cui immagino arriveranno anche loro – abbiamo fatto capire loro che potevamo arrivare lì senza alcun problema”.
“Una dimostrazione di forza”, riassunse Saber.
“Precisamente. Non so che cosa questo porterà, se ad un loro aumento nei controlli, oppure se qualcuno di loro inizierà a sospettare che effettivamente Ohtori nasconda qualcosa… In ogni caso, gli sviluppi saranno senza dubbio interessanti”, e Kurama si lasciò scappare un sorriso molto poco rassicurante.
“Ugh, mi fai venire i brividi…”, borbottò Gray, voltandosi verso lo schermo. “Per un attimo mi è sembrato di trovarmi davanti al Santo della Vergine”.
“Tunnel subspaziale raggiunto”, disse Saber.
“Bene, signori, reggetevi forte!”, esclamò Kurama. Un paio di secondi, e la piccola astronave scivolò nella faglia dimensionale e scomparve, diretta verso casa.
HARUHI: Ehi! Quella tizia di prima è tornata per le anticipazioni!
INEZ: Salve! Avete bisogno di una spiegazione?
MARCO: Mh… No, al momento direi di no.
HARUHI: Un attimo, un attimo! Ce l’ho io una domanda!
INEZ: Dica pure, capitano Suzumiya.
HARUHI: Se lei sa veramente tutto… Allora come si intitola il prossimo capitolo?
INEZ: Beh, mi aspettavo qualcosa di più difficile! Il quarto capitolo di “Il cielo è un’ostrica, le stelle sono perle” si intitola “La venuta delle ombre”. E se avete bisogno di una spiegazione, non esitate a chiamarmi!
RICCARDO: E finalmente ci sarà un po’ d’azione! …Forse.
Ed eccoci al terzo capitolo! L’ho postato con un po’ d’anticipo sul previsto perché poi sarò via per il week-end, ma ci tenevo comunque ad aggiornare!
Come avrete notato, in questo capitolo compaiono un sacco di nuovi personaggi! Fateci l’abitudine, anche nei prossimi capitoli ne appariranno un bel po’!XD
Ma ora passiamo alla cosa più importante, le risposte alle recensioni!
Per Suikotsu: Wow, anche stavolta il primo a recensire! Sono contento che tu abbia apprezzato, davvero… Il riscontro dei lettori è essenziale! Per quanto riguarda il genere dell’opera, diciamo che anche se per il momento ci si mantiene sul comico, come hai giustamente notato, più si proseguirà con la storia più le parti drammatiche inizieranno ad affiorare (già in questo qualche assaggio c’è stato, nel prossimo avverrà qualcosa che coinvolgerà direttamente i protagonisti) senza per questo compromettere anche la vena comica, comunque!
E se ci sono degli errori, ti supplico: fammeli notare! Non preoccuparti, non mi offendo ma anzi ne avrei molto piacere; se possono aiutare a migliorare la storia è tanto di guadagnato!^^
Per Morens94: Uh, felice che tu abbia deciso di commentare!*_*
In effetti noi Davide non siamo tantissimi ma ci difendiamo bene!XD
Quanto alla tua aspettativa… Posso dirlo? Yuno mi fa paura. Se la inserisco nella storia poi finisce che mi ammazza tutto il cast!XD
Però magari le farò fare un cameo da qualche parte!
Per Anonimo9987465: Wow, ho sempre paura di sbagliare la sequenza di numeri che compongono il tuo nick!XD
Le tue recensioni sono sempre piene di brio, eh?XD Spero che il capitolo ti sia piaciuto! E gli asterischi non mi infastidiscono, anche se quando ne vedo troppi tutti insieme iniziano a sembrarmi tanti ragnetti…
Bene, per il momento direi che mi fermo qui. Ci vediamo, se vi va, al prossimo capitolo!
Davide
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Parte Prima, Capitolo 4 - La venuta delle ombre ***
CAPITOLO QUARTO – LA VENUTA DELLE OMBRE
“Siamo arrivati?”.
“No”.
“Siamo arrivati?”.
“No”.
“Siamo arrivati?”.
“No, ancora cinque minuti”.
“…”.
“Forza, dillo. So che lo vuoi”.
“Siamo arrivati?”.
Certe cose, anche nello spazio, non cambiano mai.
Sigla d’apertura: Shut up and Explode, dei Boom Boom Satellites
“E ora?”.
“Quanto è passato da quando me l’hai chiesto l’ultima volta?”.
“Boh… Cinque secondi?”.
“Ecco. Allora mancano quattro minuti e cinquantacinque secondi”.
“…”.
“Finalmente, sembra che tu abbia capit…”.
“Sì, ma in definitiva siamo arrivati o no?”.
“Haruhi?”.
“Eh?”.
“Dacci un taglio”.
“Finalmente siamo arrivati!”. Haruhi sollevò le braccia, stiracchiandosi platealmente, mentre scendeva la scaletta della Crazy Diamond. Dietro di lei Kyon sembrava molto, molto sollevato.
“Se mi avesse chiesto ancora una volta se eravamo arrivati giuro che l’avrei infilata nella camera di decompressione”, borbottò, ad un tono di voce abbastanza alto perché Marco potesse udirlo.
“E quindi, questo posto…”, disse Riccardo, guardandosi attorno.
“Esatto!”, rispose Haruhi con un gran sorriso. “Questo è Eidolon, il pianeta sede della Confederazione Iperuranica!”.
“Come mai così allegra, capitano?”, domandò Elena.
“Beh, mi sembra ovvio!”, rispose lei. “Ho scoperto una nuova Terra abitata e ho anche portato delle prove… insomma, sareste voi. Questo mi garantirà un aumento nella busta paga! Di certo non è per l’atmosfera del posto”.
“In effetti mi sarei aspettato qualcosa di un po’ più allegro, per essere la sede di un governo interplanetario…”, constatò Marco, guardandosi intorno un po’ deluso.
La Crazy Diamond era atterrata ai margini di un immenso spazio cementificato, di sicuro un luogo adibito alle navi spaziali anche ben più grosse di quella su cui viaggiavano loro. Lì intorno si ergevano alti palazzi grigi di acciaio e vetro, tutti all’apparenza uguali l’uno con l’altro; per le strade non si aggirava quasi nessuno, se non qualche occasionale robot i cui sguardi sintetici sfioravano il gruppetto di umani senza il minimo interesse.
“E così viene anche lei insieme a noi, professor Piton?”, domandò Marco, voltandosi verso il lugubre insegnante che chiudeva il breve corteo.
L’altro gli rispose con una smorfia irritata. “Devo conferire con il professor Silente”. Tacque giusto il tempo necessario perché Marco potesse prendere fiato. “E no, ovviamente non ho alcuna intenzione di dirti quale sarà l’argomento della nostra conversazione”.
“E gli altri che fanno? Rimangono sulla nave?”, stava intanto domandando Riccardo ad Haruhi.
“Credo che ci raggiungeranno dopo”, spiegò il capitano. “In fondo non devono certo parlare con qualche membro del Consiglio. E poi qui su Eidolon ci sono negozi praticamente di qualsiasi cosa, immagino che Sanzenin voglia comprarsi qualcun altro dei suoi dannati videogiochi e che la vecchia Totenkinder abbia bisogno di rifornire le sue scorte…”.
“Ah, sarebbe la cuoca di bordo?”, domandò Pietro.
“Cosa? No, no. È Bielorussia che cucina. Insomma, dovevamo impiegare in qualche modo utile la sua abilità con i coltelli”.
“EHI!”, gridò Marco. “Vi ricordo che quella tizia ha cercato di uccidermi! E tu la lasci cucinare, capitano? Potrebbe avvelenarmi, se solo lo volesse! Potrebbe avvelenare tutti noi!”.
“Oh, sciocchezze”, rispose Haruhi. “Lo sappiamo tutti che se Bielorussia volesse uccidere qualcuno lo farebbe usando le sue lame, non certo del veleno!”.
“Non che questo sia molto rassicurante, capitano…”, disse Riccardo.
“Beh, finora nessuno sulla mia nave è morto… Nessuno che non volessimo che morisse, quantomeno”, tagliò corto la ragazza. “E comunque siamo arrivati, ecco qua la sede del Consiglio della Confederazione Iperuranica”.
Tutti alzarono lo sguardo.
“Mi sembra assolutamente uguale a tutti gli altri palazzi qui intorno”, osservò Elena.
“Ovvio che lo sia”, le rispose Haruhi. “Così, a meno che tu non sappia qual è, è più difficile individuarlo. Questo riduce il numero di richieste inutili presentate al Consiglio, visto che le persone di solito a metà della ricerca della sede corretta si stufano e se ne vanno”.
“Credo che sia più che altro una misura di sicurezza…”, la corresse Kyon.
“E quindi è per questo che qui in giro non c’è nessuno se non quei robot?”, domandò Riccardo.
“Sì, quelli si occupano della manutenzione. D’altronde gli edifici finti sono vuoti, mica ci abita qualcuno… La città vera sta dall’altra parte del parcheggio”.
L’interno del palazzo, se non altro, era un po’ più allegro rispetto all’esterno. Certo, vetro e acciaio imperavano comunque, e tutto seguiva geometrie perfettamente squadrate; ma era ovvio che chi aveva progettato quel luogo vi avesse infuso una grande cura. Nonostante la freddezza, insomma, vi si poteva percepire un calore segreto. La sala d’ingresso, enorme e che presumibilmente occupava l’intero primo piano, era occupata solo da una ventina di poltrone dall’aria moderna e molto scomoda, un lungo banco d’accettazione dietro a cui non c’era nessuno e almeno una decina di uomini e donne che indossavano delle vesti brune e che tenevano gli occhi fissi sui nuovi arrivati, tutti schierati davanti ad una serie di porte che di sicuro conducevano ai piani superiori.
“Ehi, ma… quelli saranno mica dei Jedi?”, mormorò Riccardo a Marco.
“Le tuniche da frate sembrano quelle, in effetti…”.
Haruhi, intanto, si era avvicinata a uno di loro. “Salve, sono il capitano Haruhi Suzumiya, della Crazy Diamond, nave numero 076 della Grande Flotta di Ricerca. Dovrei conferire con uno dei membri del Consiglio riguardo alla scoperta di una nuova Terra”.
Il capo dei Jedi, un uomo alto dalla testa rasata e dall’aria stoica, si fece avanti. “Temo che i membri del Consiglio attualmente siano molto occupati, capitano Suzumiya”, disse con voce grave.
“Oh, per favore, è quello che mi dite sempre!”, si lamentò lei. “Lo so io e lo sa benissimo anche lei che è una balla!”.
Severus Piton sbuffò, facendo ondeggiare un ciuffo di capelli unticci che gli ricadeva sulla fronte. Prima che il Jedi potesse rispondere si fece avanti, affiancandosi ad Haruhi. “Vi chiedo di perdonare la scortesia del mio giovane capitano”, disse, in un tono che sembrava dire ‘Ti tratto con rispetto ma so benissimo di essere molto superiore a te’. “Ma so che il professor Silente, quantomeno, è libero da impegni. Contattatelo pure, e ditegli che Severus Piton ha chiesto di vederlo”.
Il pelato si voltò verso la Jedi accanto a lui, una giovane dai capelli scuri legati in una coda alta, alla samurai, e annuì. Senza dire una parola la ragazza estrasse da una delle pieghe della tunica un bizzarro incrocio fra un cellulare e una frittella e se lo fece aderire ad un lato della faccia, fra l’orecchio e la bocca. Vi parlò dentro per una quindicina di secondi, poi lo ripose al proprio posto e fissò il pelato. “Tutto a posto, possono passare”.
“Ovvio che possiamo passare!”, ripeté Haruhi, quasi scocciata. Si diresse verso una delle porte, con Piton al fianco. Marco e gli altri fecero un paio di passi in avanti, con la netta intenzione di seguirli, ma due dei Jedi si misero sulla loro strada.
“Solo loro due sono ammessi”, spiegò uno di loro, così alto e largo che probabilmente nelle recite delle elementari veniva impiegato per fare l’albero o l’armadio.
Marco si voltò. “Ehi, Kyon, sei il comandante, non puoi…”, poi notò che il ragazzo era già andato a sedersi su una delle poltrone futuristiche e si guardava intorno con la sua solita aria scazzata.
“Bene, prepariamoci ad una luuuuuuunga attesa…”, borbottò Pietro con aria depressa, andando a scegliersi un posto a sedere.
“Dai, mettiti in posa!”.
“No, piantala con queste foto!”. Riccardo era irremovibile, davanti alle preghiere di Pietro. “Mica vorrai che ci rendiamo ridicoli davanti a tutta la galassia!”.
Marco, Elena e persino Kyon erano già in piedi, in attesa. “Dai, Riccardo, che cosa vuoi che sia?”, disse la ragazza.
“Infatti!”, rincarò Marco. “Lo accontentiamo una volta e poi ha promesso che la pianta. Facciamo così… Se insiste ancora per fare delle foto, più tardi, ti do il permesso di menarlo”.
“Ehi!”, esclamò Pietro. “Non sei affatto d’aiuto!”.
Riccardo incrociò le braccia. “No, è una questione di principio. E poi se voglio picchiarlo posso farlo lo stesso”.
“Certo che siete proprio dei bambini…”, si lamentò Elena. “Anche tu, Marco”.
“E io che c’entro?”.
“La proposta di picchiare Pietro l’hai fatta tu, o sbaglio?”.
“Sentite, lasciamo perdere”, disse il diretto interessato. “Piuttosto, perché non andiamo a farci un giro qui intorno? Sarà sicuramente più interessante che stare qui dentro a guardare quei tizi cosplayati da Jedi”.
A quel punto, finalmente, Riccardo si alzò. “Comandante, tu che fai? Vieni?”.
Kyon fece spallucce. “Nah. Haruhi tende ad essere sempre un po’ troppo… eccitata, dopo essere stata a colloquio con qualcuno del Consiglio. E poi non c’è niente di davvero interessante qui intorno…”.
“Più che altro, se ci perdiamo come facciamo a ricordarci qual è l’edificio giusto?”, domandò Pietro, una volta che furono di nuovo all’esterno.
“Beh, non è così difficile”, rispose Marco. “Nel caso basta che raggiungiamo il parcheggio, proseguiamo dritti dalla nave, giriamo a destra, poi a sinistra, poi ancora a destra ed entriamo nel secondo palazzo sulla sinistra”.
Un momento di silenzio.
“Te l’ho già detto, coso, che il tuo senso dell’orientamento sviluppato mi fa schifo?”, disse Pietro.
“Sì, mi pare di ricordare che tu me ne abbia accennato”.
Kyon, in ogni caso, aveva ragione: non c’era nulla di interessante, lì intorno. I palazzi gemelli della sede del Consiglio sembravano completamente vuoti, e comunque le porte erano chiuse a chiave; quanto ai rari robot che vagavano in giro, sembravano troppo presi nel proprio incarico – qualsiasi esso fosse – per poter comunicare. Anche Pietro, dopo averne fotografati un paio, non ci trovò nulla di memorabile.
“Certo che per essere la sede di un governo galattico fa proprio schifo, eh”, disse Riccardo, prendendo a calci una cartaccia appallottolata. Un droide che passava di lì si chinò borbottando e la aspirò attraverso un tubo che gli era spuntato all’improvviso dal ventre convesso. “Potevano metterci, non lo so, una fontana, o dei distributori automatici…”.
“Se non ho capito male questa comunque la vera città è dall’altra parte del parcheggio per le astronavi, comunque”, spiegò Elena. “Potremmo andare a farci un giro, magari riusciamo anche a beccare gli altri membri dell’equipaggio”.
“Piuttosto che stare qui a romperci le palle… Marco, come ci arriviamo a ‘sta città?”.
“Beh, dobbiamo semplicemente fare il percorso inverso e poi…”.
“Zitti un attimo”, intervenne Pietro, alzando l’indice della destra come a chiedere permesso di parlare. “Lo sentite anche voi, questo suono?”.
Gli altri tre chiusero la bocca, improvvisamente attenti. “Non sento nulla”, disse Elena.
“Nemmeno io”, aggiunse Riccardo. “Usare quella macchina fotografica ti avrà fritto qualche neurone”.
Pietro, però, corrugò la fronte e chiuse gli occhi, il volto contratto in una smorfia di dolore. Tremando, si portò le mani alle orecchie. “Cercate di capire da dove viene e fatelo smettere!”, gridò. “Mi sta uccidendo!”.
“Ehi, credo di sentirlo anch’io”, disse Marco. “Ma non è così forte... È come una specie di mormorio discontinuo”.
Pietro cadde in ginocchio sull’asfalto, sempre con i palmi premuti sulle orecchie, e Elena si piegò accanto a lui, tentando di sorreggerlo. “Che ti succede?”, domandò preoccupata.
“Beh, l’ha appena detto… Il suono, hai presente?”, le spiegò Marco. Lei lo fulminò con un’occhiata.
Nel tratto di via in cui i quattro terrestri erano fermi stavano transitando anche tre druidi, a passo lento e regolare. Un paio di secondi dopo si bloccarono all’improvviso, per poi rovesciarsi a terra all’unisono in una sinfonia di scricchiolii metallici.
Subito dopo, il misterioso rumore smise di colpo.
Pietro impiegò qualche momento a rialzarsi. La sua carnagione già di per sé pallida era cerea, e gocce di sudore gli imperlavano la fronte. “Per… per fortuna è finita”, riuscì a mormorare. “Era come se avessero infilato i miei timpani sotto una pressa”.
“Io non ho sentito niente”, disse Elena. “Ma tu, Marco e quei robot”, e guardò con aria un po’ triste la catasta di arti meccanici poco più avanti. “Di sicuro sì. Mi chiedo cosa fosse, però…”.
“Che dite, ragazzi”, la voce di Riccardo era stranamente atona. “È collegato a quel coso?”.
“Quel coso? Che cosa intendi…”, chiese Marco, mentre si voltava nella direzione dello sguardo dell’amico. “Oh, merda”.
A circa mezzo metro dal suolo, ad una ventina di metri fra loro, si era aperto un buco nero. O quantomeno, quel tipo di buco nero che non c’entra niente con quelli veri ma sembra semplicemente un’enorme spirale di un viola bluastro molto scuro appesa al nulla. E dalla spirale stavano uscendo cose.
“C-che cosa sono, quelli?”, balbettò Elena, un dito teso verso le creature che fuoriuscivano dalla spaccatura. Quelle sì erano nere, così tanto che lo sguardo sembrava affondare nella loro pelle invece che scorrerci sopra, tranne per i due occhi tondi e gialli, che guardavano il mondo senza mai chiudersi. Si muovevano piegati in avanti, ondeggiando e saltellando come in una danza perversa.
“Cazzo, sono Heartless!”, esclamò Marco. Gli orridi folletti, nel udire il grido, smisero di ballonzolare in giro e voltarono tutti la testa di scatto, verso i quattro ragazzi.
“Complimenti, coso”, mormorò Pietro. “Mi sa che l’hai fatta grossa, stavolta”.
Gli Heartless iniziarono a sciamare verso di loro. Molto più velocemente di quanto ci si sarebbe aspettato da quelle loro tozze gambette.
“E ora che si fa?”, domandò Marco, gli occhi sbarrati.
“Si corre!”, gridò Riccardo, lanciandosi come un disperato nella direzione opposta ai mostriciattoli.
“Aspetta!”, gli urlò dietro Elena. “E non facciamo nulla per quei poveri robot?”.
“Non preoccuparti, tanto… anf… non gli faranno niente”, spiegò Pietro, affiancandolesi nella corsa. Era ancora pallido, ma sembrava essersi quasi del tutto ripreso dallo shock di poco prima. “Quelli… uff… puntano ai cuori. E se riescono a prendertelo, diventi come loro”.
Marco lanciò uno sguardo indietro. Dal foro spaziale continuavano ad uscire Heartless, e l’onda delle creature si faceva sempre più vicina. Una quindicina di secondi al massimo e li avrebbero raggiunti.
“Forza, forza!”, gridò Elena, cercando di incitare gli altri. Ma qualsiasi sforzo sembrava inutile.
Finché, qualche attimo più tardi, davanti a loro non apparve la vecchietta sulla sedia a dondolo.
La donna li fissava con aria interessata, mentre sferruzzava qualcosa – una sciarpa, forse? – tenendo i ferri fra dita dalle unghie tanto lunghe da sembrare artigli. All’apparenza avrebbe potuto essere la nonna di uno di qualsiasi di loro, ma da dentro ai suoi occhi si poteva percepire la presenza di un potere terribile e smisurato.
Senza contare che era apparsa praticamente dal nulla.
“Bene, bambini miei, direi che potete fermarvi e riposare”, disse con voce gentile ma ferma e decisa, mentre Marco e gli altri le passavano accanto fissandola con aria inebetita. All’istante, le gambe dei quattro rallentarono il passo di loro iniziativa, per poi fermarsi del tutto un paio di metri più in là. “Adesso siete al sicuro, non c’è più bisogno di correre”.
“Ma… gli Heartless…”, borbottò Riccardo fra un respiro pesante e l’altro. La vecchia signora, tuttavia, aveva ragione: l’armata di creature si era fermata ad una decina di metri da loro, come accalcandosi intorno ad una barriera invisibile.
Il ticchettio dei ferri da calza della donna continuava indisturbato. “Sono proprio una vera seccatura, quelli”, osservò tranquilla, come se parlasse del tempo. “Frammenti d’anima che non trovano riposo… Non è piacevole, né per noi, né per loro”.
“Ehm, signora?”, domandò Marco, senza però avvicinarsi. Non osava. “Non è che avrebbe anche un Keyblade, per caso?”.
Lei si voltò verso il ragazzo, senza smettere di sferruzzare. “Dovrei, forse?”, domandò, con un sorrisetto astuto sul volto.
Marco deglutì suo malgrado. “Beh, da ciò che sapevo, solo i Keyblade possono qualcosa contro gli Heartless”.
La vecchietta ridacchiò. “Certo. O quantomeno, questo è quello che i possessori di Keyblade preferiscono far credere alla gente. Ma sono sicura che loro se la caveranno benissimo”.
“Loro?”.
“Sì. Noi”, disse una voce leggermente biascicata.
La strada iniziava ad essere affollata. Accanto alla sedia a dondolo erano apparsi il dottor Stein, con l’onnipresente sigaretta accesa fra le labbra e un paio di grossi tonfa in mano, Russia, che nonostante l’aria svagata stringeva con forza il lungo rubinetto, Bielorussia, ovviamente accanto al fratello con un pugnale in ciascuna mano e uno sguardo assassino negli occhi, e un ragazzo dall’improbabile chioma azzurra e dai lineamenti molto femminili che vestiva un’uniforme da maggiordomo. “Pronti?”, domandò Stein. Gli altri tre si limitarono ad annuire, prima di scagliarsi in avanti.
Marco passò il mezzo minuto successivo con la bocca spalancata. Guardare una battaglia contro degli orridi mostri nella puntata di un’anime, davanti alla sicurezza del proprio schermo, era una cosa; assistervi di persona, com’era ovvio, era mille volte più intenso.
Stein fu il primo a lanciarsi in mezzo alla torma di Heartless. Le creature, che così come le aveva descritte l’anziana signora non erano altro che frammenti d’anima privi di intelletto e guidati unicamente dal proprio istinto, si lanciarono in massa su di lui. “Marie, Risonanza Purificatrice”, disse l’uomo.
“Sì”, risposero i tonfa, mentre il marchio su di essi si accendeva di luce bianca. Stein vibrò un lungo fendente diagonale, e nell’ampio arco descritto dall’arma gli Heartless si vaporizzarono, lasciando dietro di sé una nebbiolina nerastra.
Russia e Bielorussia combattevano in coppia, schiena contro schiena. A prima vista sembrava che si limitassero a difendersi dagli assalti delle creature, ma ogni volta che qualcuna si lanciava verso di loro veniva annientata.
“Non avevo mai pensato che qualcuno potesse usare un rubinetto per combattere…”, mormorò Elena, meravigliata.
“Magari è in Super Lega Z”, disse Pietro, gli occhi fissi sulla battaglia.
Il giovane maggiordomo, invece, lottava quasi senza preoccuparsi della propria incolumità; i suoi movimenti erano comunque troppo veloci per gli Heartless, che nemmeno riuscivano a sfiorarlo.
Marco, distratto da un urletto eccitato alla propria destra, distolse lo sguardo dal combattimento; accanto a lui era comparsa una ragazzina bionda, con i capelli legati in due lunghe code. Sedeva a cavalcioni su una tigre albina, di cui non era l’unica passeggera; sulla testa dell’enorme felino riposava anche un cucciolo di gatto, completamente nero salvo per una macchia bianca a forma di croce fra le orecchie. “Oh, tu sei Nagi!”, esclamò il ragazzo.
Lei lo degnò giusto di un’occhiata di sbieco. “Non distrarmi, mi perdo i colpi migliori”. Quando si voltò verso il suo maggiordomo, gli occhi le si riempirono di stelline inquietanti. “Forza, Hayate! Sei come Jotaro e Leonida messi insieme!”.
A dire il vero mi riesce difficile vedere qualche somiglianza fra quei due e Hayate, pensò Marco. E non parlo solo dello stile di combattimento…
“Dai, colpiscilo! Avanti, giù, diagonale avanti, pugno!”.
Ma che razza di incitamento sarebbe?!
Ormai i quattro guerrieri – o meglio cinque, contando anche Marie in forma di arma – avevano fatto piazza pulita della maggior parte degli Heartless. I pochi che rimanevano avevano deciso per una ben poco nobile ritirata, e stavano ballonzolando rapidi verso l’enorme foro nell’aria che ancora non accennava a chiudersi, sebbene avesse smesso di vomitare creature.
“Forza, inseguiamoli!”, gridò Nagi, lanciando la propria tigre al galoppo. Senza pensarci troppo, anche i quattro terrestri decisero di correre, per non perdersi la parte finale dello spettacolo.
L’ultima decina di Heartless sembrava giunta al capolinea: arrivati alla spirale, si erano bloccati, fissando il portale come se attendessero l’arrivo di qualcos’altro.
“Pare che la loro sia una via a senso unico”, disse l’anziana signora. Nonostante non si fosse mossa era di nuovo insieme a tutti gli altri, sedia a dondolo e tutto. “Non che non me l’aspettassi; questo ci rende difficile capire da dove arriva l’impulso, ed era ovvio che quelli non fossero nient’altro che carne da macello. No!”, aggiunse poi, diretta verso i combattenti, che si accingevano ad eliminare i pochi superstiti. “Lasciateli stare. Soprattutto, non avvicinatevi a quel vortice”.
Quasi non fece in tempo a terminare la frase che dal foro nell’aria emerse un’enorme mano costituita interamente d’ombra, che scese a schiacciare i piccoli Heartless.
“Regola numero uno: si tiene sempre la propria arma migliore per l’ultimo atto”, spiegò Nagi, mentre la sua tigre faceva un paio di nervosi passi indietro.
La creatura emersa dal buco nero si srotolò piano, come un enorme arazzo. Fisicamente era molto simile ai suoi predecessori, anche se il suo viso, appena abbozzato, aveva qualcosa di più umano: il profilo di un naso e una chioma scomposta e mutevole, che continuava ad intrecciarsi come un nido di serpenti. Dall’alto dei suoi venti metri, fissava il gruppo di umani ai suoi piedi con aria malevolmente interessata.
“E ora?”, domandò con un filo di voce Pietro.
“E ora”, rispose l’anziana signora. “Aspettiamo”.
L’enorme Heartless sollevò un braccio, pronto a calarlo sui suoi nemici.
“Aspettiamo cosa?”.
“Lo vedrai… adesso!”.
“EXPECTO PATRONUM!”.
La parabola discendente del colossale braccio era circa a metà, e non raggiunse mai il suo obiettivo. Il corpo dell’Heartless fu perforato da una fenice e da una cerva composte di splendente energia argentea, ed implose all’istante, sciogliendosi in una grossa pozzanghera di liquido rappreso che sembrava petrolio. Qualche metro oltre il laghetto di melma c’erano quattro persone: Haruhi, Kyon, e due uomini ancora con le bacchette magiche puntate in avanti. Uno era il professor Piton, l’altro un vecchio dalla lunga barba bianca e dei buffi occhiali a mezzaluna alla radice del naso affilato.
“Ma quello è S…”, iniziò Marco, prima che la capitano oltrepassasse l’enorme pozzanghera con un salto degno di un atleta olimpico.
“Sì! Due Patronus! Due Patronus! Li avete visti? Non uno solo, addirittura due! Non è certo una cosa che capita tutti i giorni!”, iniziò a gridare la ragazza, puntando in faccia a tutti i presenti due dita sollevate in segno di vittoria.
Meglio non raccontarle del combattimento di prima, allora, rifletté Marco. Questa sarebbe capace di riavvolgere il tempo per poterselo rivedere.
“In ogni caso, sono davvero contento che tutti stiate bene”, Silente, accompagnato da Kyon e Piton, aveva deciso prudentemente di aggirare la pozzanghera, invece di scavalcarla, e si era unito al gruppo. L’anziano uomo si avvicinò alla sedia a dondolo. “Frau Totenkinder! La trovo più radiosa che mai”, disse, con un largo sorriso sul viso rugoso, prendendo una delle mani della donna e chinandosi per baciarla.
“E lei è il solito gentiluomo, professor Silente”, rispose la donna, in un tono che poteva addirittura sembrare vezzoso.
Silente, poi, rivolse la sua attenzione al gruppetto di terrestri. “Severus e il capitano Suzumiya mi hanno parlato molto di voi; lasciatemi dire che è un onore, per me, potervi conoscere”.
“Ehm… cioè, è per noi un onore conoscerla, professor Silente”, balbettò Marco, abbozzando anche un inchino. “Noi non siamo davvero nulla di che, ma insomma, lei è uno dei migliori maghi della Ter… cioè, volevo dire, della galassia, probabilmente. Anzi, di sicuro. Ecco”.
“Oh, sciocchezze, sciocchezze!”, rispose lui. “Frau Totenkinder, qui, è una strega migliore di quanto io non potrei essere in un milione di vite. Quanto al resto, beh…”, si voltò verso Haruhi e Piton. “Immagino che non abbiate ancora detto loro nulla”.
Il mago in nero incrociò le braccia. “Certo che no. Professor Silente, dovrebbe sapere meglio di me che più persone sono a parte di un segreto maggiore è la probabilità di trovare qualcuno che non sa tenere la bocca chiusa. Era necessario essere del tutto sicuri”.
Lo sguardo di Silente si accese di uno scintillio divertito. “Eppure non è stata proprio il capitano Suzumiya a dirmi che i risultati delle sue ricerche puntavano proprio nella direzione giusta?”.
Haruhi, sentitasi chiamare in causa, smise di festeggiare la sconfitta dell’Heartless. “Sì, prima di prelevarli abbiamo passato un giorno a cercare gli abitanti di tutti i pianeti che ci venivano in mente. E, beh… in effetti c’erano tutti. Ma pensavo ci fosse qualche test che potevano fare per determinare la cosa con sicurezza”.
“Purtroppo temo non sia così facile”, rispose il vecchio mago. “Si tratta pur sempre di una mia teoria, senza effettivi riscontri, dunque…”.
“Fermi, fermi, fermi”, lo interruppe Elena. “Visto che a quanto pare tutto questo ci riguarda da vicino, potreste quantomeno farci il favore di spiegarci che cosa sta succedendo?”.
Piton aprì la bocca per controbattere ma Silente lo fermò con un gesto della mano. “Mi sembra una richiesta legittima. Solo non posso risolvere subito i vostri dubbi; quindi, perché per il momento non mi seguite alla sede del Consiglio? Potreste sistemarvi nelle stanze che abbiamo fatto preparare per voi, darvi una rinfrescata e poi risponderò a qualsiasi domanda, lo prometto”.
“Non può davvero dircelo ora cosa c’entriamo, in tutto questo?”, domandò Marco, che iniziava ad essere davvero confuso. Trovare un lavoro a bordo di un’astronave era un conto, ma che improvvisamente tutti si mettessero a parlare di te e dei tuoi amici come se da voi dipendesse la salvezza dell’intero Universo era tutt’altra faccenda. Marco non aveva alcuna intenzione di essere così importante.
Silente alzò per un paio di secondi gli occhi. “Credo di potervi quantomeno fornire un indizio”, rispose alla fine. “Avete familiarità con il concetto di ‘realtà del consenso’?”.
RICCARDO: Continuo a non capire perché non abbia potuto spiegarci subito come mai siamo così importanti.
NAGI: È semplice: bisogna concludere ogni capitolo in modo che esso susciti la curiosità del lettore, così leggerà anche quello successivo! È una delle regole base delle opere a puntate.
RICCARDO: È vero, non ci avevo pensato!
MARCO: Nagi, vuoi fare tu gli onori di casa, questa volta?
NAGI: Il quinto capitolo di “Il cielo è un’ostrica, le stelle sono perle” si intitola “La fine dell’inizio”. Release!
MARCO: …eh?
NAGI: E anche nel prossimo capitolo, l’emozione continua!
E così, eccoci qua! Come vi è parso questo capitolo? Non che succeda chissà cosa, era giusto per far vedere gente che si picchia un po’.XD Anche se la scena d’azione era abbastanza marginale e non credo nemmeno che sia venuta granché bene…
Ma ora è il momento di rispondere alle recensioni!
Per Suikotsu: Wow, sei ancora il primo a recensire! Inizio a sentirmi lusingato dal trattamento che sto ricevendo!*_*
Sono contento che consideri Kurama adatto come Saint dei Pesci, visto che da quel poco che so di te mi sembri un esperto in tema Saint Seiya!
Per quanto riguarda gli altri due, Acquario è lui, mentre Capricorno è questa donnina qua.
Il Santo della Vergine è… ehm. Lo vedrai quando apparirà. Diciamo che è pericoloso… In più di un senso.XD
Per Morens94: Non potevo non mettere Retsu-san, è il mio personaggio preferito di Bleach (per quanto strano possa sembrare, visto quanto poco appare… Non vedo l’ora che Kubo la faccia combattere! E’ il terzo capitano più forte della Soul Society dopo Yamamoto e Aizen – e questo l’ha detto Kubo, eh – eppure non viene mai sfruttata, sigh…T_T)! E Armstrong mi fa troppo ridere per non usarlo.XD
Per Anonimo9987465: Sugli Heartless ci hai azzeccato, come vedi! E di Highschool of the Dead attendo con abbastanza impazienza l’anime.U_U
E, ehm… Credo che anche per stavolta sia tutto. Ci vediamo, se vi va, nel prossimo capitolo!
Davide
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Parte Prima, Capitolo 5 - La fine dell'inizio ***
CAPITOLO QUINTO – LA FINE DELL’INIZIO
“Sentite, stavo pensando…”, disse Riccardo, seduto sul suo letto a gambe incrociate.
“Oh, quindi ogni tanto capita anche a te?”, lo interruppe Pietro, ghignando. Lui invece era raggomitolato a terra, in pigiama, il mento appoggiato sulle lunghe gambe ossute raccolte al petto.
“Che c’è, le vuoi prendere?”.
“Piantatela”, li rimbeccò Elena. “Forza, Riccardo, finisci quello che stavi dicendo”. La ragazza era mezza sdraiata, e si sosteneva sul gomito sinistro.
“È collegato a quello che ci ha detto oggi il professor Silente?”, domandò Marco, vedendo che ancora una volta l’amico non sembrava granché intenzionato a dire ciò che pensava.
“No… Cioè, sì, anche. Insomma, se veramente noi siamo così importanti per questa gente, vorrà dire che ci saranno anche altre persone che ci vorranno dalla loro parte, o anche peggio. Insomma, immagino che chi ci ha mandato contro quegli Heartless non avesse buone intenzioni. E quindi, ecco… Non potremo sempre contare sull’aiuto degli altri, no?”.
“Aspetta, fammi capire…”, disse Pietro, alzandosi in piedi. “Stai cercando di dirci che dovremmo imparare a combattere?”.
Sigla d’apertura: The Times They are A-Changing, di Bob Dylan
“Prego, ragazzi, accomodatevi”.
Nella stanza, fedele riproduzione dello studio dei presidi nella scuola di magia e stregoneria di Hogwarts, erano presenti solo Silente, seduto al suo posto dietro la scrivania, e Piton, in piedi accanto a lui. Davanti ai due erano state posizionate quattro sedie, su cui Marco e gli altri si sedettero con un certo nervosismo.
“Allora”, iniziò l’anziano mago, fissandoli da sopra le dita intrecciate in una posa solenne che avrebbe riempito di invidia Gendo Ikari. “Ripeto la domanda che vi ho fatto oggi: sapete che cos’è la realtà del consenso?”.
I quattro ragazzi si guardarono gli uni gli altri, poi annuirono. “Sì, ce l’ha spiegato prima Pietro”, spiegò Riccardo. “È quando molte persone credono a una cosa e quella cosa diventa vera, no?”.
Silente sorrise. “Sì, semplificando molto è proprio questo. Ora, immagino vi starete chiedendo perché una cosa del genere sia collegata con voi”.
“In effetti sarebbe anche ora che ce lo spiegasse”, disse Elena in tono un pelo troppo brusco. Piton, infatti, la fulminò con un’occhiata, ma la ragazza sostenne in modo egregio lo scontro di sguardi.
Il preside ridacchiò. “Se c’è una cosa che apprezzo nei giovani è proprio l’irruenza”.
“Ovvio che sia così, o avrebbe già ucciso Potter”, borbottò Piton. Marco scoppiò a ridere, e fu costretto a premersi le mani sulla bocca per poter smettere.
“Ah, giusto!”, Pietro schioccò le dita, come se avesse appena avuto la pensata del secolo. “C’è una cosa che mi chiedo da quando ho visto il professor Piton… Voi due dovreste essere morti, no?”.
Cinque paia di occhi si voltarono a fissare il ragazzo. L’insegnante di pozioni, in particolare, lo squadrava come avrebbe fatto con una carcassa putrida.
“Beh, è un dubbio legittimo, Pietro”, disse dopo qualche secondo Silente, in tono lungimirante. “In effetti, è proprio grazie alle nostre… chiamiamole “biografie” scritte dalla signora Rowling che abbiamo potuto evitare che le cose andassero come stava scritto. Siamo stati uno dei primi pianeti ad entrare nella Confederazione Iperuranica, e questo quando Harry aveva appena finito il quinto anno…”.
“Insomma, mi sta dicendo che Voldemort è risorto comunque?”, domandò Elena.
Piton emise qualcosa fra uno sbuffo e un sibilo.
“Sì, è di nuovo fra noi”, rispose Silente. “Ma ora meglio tornare al motivo percui siete qui, che dite? Il tempo scorre, e prima saprete a cosa potreste andare incontro da ora in avanti meglio sarà per tutti noi. Dunque”, e l’uomo si chinò in avanti, verso i quattro, lo sguardo improvvisamente duro e serio. “Posso iniziare?”.
I terrestri si limitarono ad annuire in silenzio.
“Bene. Come sapete, vi trovate sul pianeta sede della Confederazione Iperuranica, Eidolon. Sapete che cosa significa, questo nome?”.
Pietro spostò rapidamente gli occhi sui suoi compagni d’avventura, come per accertarsi che nessun altro avesse intenzione di rispondere. “Vuol dire ‘uno’, no? Ma questo cosa c’entra con…”.
“Al tempo, Pietro, ci sto arrivando”, lo bloccò Silente. “Inizialmente questo era un planetoide abbandonato, che è poi il motivo percui lo abbiamo scelto. Ho suggerito io il nome, visto che sono sempre più convinto che essi abbiano il loro proprio, personale potere. Riuscite a capire perché?”.
“Beh”, azzardò Marco. “L’uno è il primo numero, no? Insomma, non c’è nulla che viene prima”.
“Dimentichi lo zero”, disse Elena.
Silente schioccò le dita, e il suono fece trasalire tutti, perfino Piton. “Esatto!”, esclamò. “Ma temo che sia meglio procedere con ordine, o finirò per confondervi le idee. Torniamo alla realtà del consenso, per il momento: come ha riassunto Riccardo, si tratta della concretizzazione di idee condivise da più persone. Voi stessi, un paio di minuti fa, mi avete dato conferma del fatto che sul vostro pianeta io e Severus non siamo altro che i personaggi di una serie di libri di successo. Eppure eccoci qui, davanti ai vostri occhi: parliamo, respiriamo, lanciamo incantesimi… Eppure questo non dovrebbe essere possibile, secondo le leggi del vostro Universo”.
“Aspetti un attimo”, intervenne Marco. “Lei sta per caso cercando di dirci che siamo stati noi, a crearvi?”.
Silente lo fissò da sopra gli occhiali a mezzaluna. “Non c’è che dire, siete dei ragazzi svegli. Sì, è proprio quello che sto cercando di dirvi”.
“Insomma, dai, è assurdo!”, disse Pietro, afflosciandosi contro una delle gambe del letto. “È come in quei pessimi libri fantasy in cui il protagonista scopre da un momento con l’altro di essere l’unico in grado di sconfiggere il supercattivo, senza uno straccio di motivazione!”.
“E se una motivazione c’è di solito è: perché lo dice il destino”, ironizzò Marco. “Ma la cosa non riguarda solo noi quattro, in ogni caso… Non siamo mica i Prescelti o che so io”.
“Ma infatti potrebbe non riguardarci affatto”, osservò Elena. “In fondo, potrebbe anche aver ragione Piton…”.
“Professor Silente, credo che si stia lasciando prendere un po’ troppo la mano”, l’insegnante di Pozioni aveva finalmente deciso di intervenire attivamente nella discussione in corso. “Come le ho già detto, non c’è alcuna sicurezza che il pianeta da cui provengono questi ragazzi sia quello che stiamo cercando. Dovrebbe evitare di dar loro la convinzione di essere importanti per le sorti dell’Universo, o finiranno per comportarsi come Potter. Qualcuno in effetti è già sulla buona strada…”, e scoccò un’altra occhiata ad Elena, che ancora una volta non gli diede la soddisfazione di abbassare lo sguardo.
“Comprendo i tuoi timori, Severus”, rispose tranquillo il preside. “Ma li sto solo mettendo a parte della mia teoria, non sto dando loro una verità assoluta. E credo che questo loro l’abbiano capito, vero?”. I quattro annuirono, non molto convinti. “In ogni caso, tornando a noi… Come di certo vi avranno spiegato, l’Universo ha subito un mutamento radicale da qualche anno a questa parte; è come se una dopo l’altra stessero cadendo le barriere che tenevano separati i vari continuum, andando a costituire un singolo Omniverso. Nessuno è del tutto sicuro riguardo all’origine di tale fenomeno: sono state fatte ipotesi, certo, ma non esistono prove incontrovertibili... Ma in effetti, a me non importa il motivo che ha spinto le barriere a crollare; ciò che anzi ritengo molto più significativo – nonché importante per la salvezza stessa dell’Universo – è l’origine di tutti i nostri mondi”.
“E quindi lei pensa che c’è un mondo che ha creato tutti gli altri, in qualche modo?”, domandò Riccardo.
“Precisamente. Il singolo mondo in cui la realtà del consenso esiste, quello che viene prima dell’uno e di tutti gli altri. Il Mondo Zero”.
“E perché dovrebbe essere proprio il nostro?”, sbottò Elena, rossa in viso. Sembrava pericolosamente vicina ad incavolarsi, oppure era molto, molto preoccupata. “Voglio dire, perché non il vostro, o quello di Haruhi, o…”.
“È molto semplice, Elena”, rispose Silente. Aprì un cassetto della scrivania e ne estrasse due sottili volumi, per poi sollevarli in modo che i terrestri potessero vederli. “Quello che tengo nella mia mano sinistra è il Canto di Natale di Charles Dickens. Sia sul nostro mondo che sul vostro si tratta di un’opera di fantasia, eppure esiste un pianeta in cui Ebenezer Scrooge ha davvero incontrato tre fantasmi durante la notte di Natale. Quest’altro, invece”, e sventolò un numero del fumetto Le avventure di Martin Miggs, Babbano matto. “esiste solo nel nostro mondo, e basta. Nell’Universo Martin Miggs non esiste… O perlomeno, se esiste ancora non lo abbiamo trovato. Per quel che riguarda il vostro mondo, invece, tutte le opere di fantasia che Haruhi e Severus hanno esaminato trovano un qualche riscontro nella realtà dell’Omniverso”.
Elena aprì la bocca per ribattere, ma Silente proseguì senza darle il tempo di formulare una frase. “Certo, al che voi potreste ribattere che semplicemente siamo noi a non avere cercato bene, che anche Martin Miggs forse esiste da qualche parte… Ma non sono solo io a sostenere questa teoria. E credo che l’attacco che avete subito non più tardi di oggi sia indicativo del fatto che qualcuno vi percepisca come una minaccia”.
“M-ma… perché?”, balbettò Marco; faceva fatica a respirare, e apriva e chiudeva la bocca come un cefalo spiaggiato. “Cioè, perché qualcuno dovrebbe ucciderci? Noi… noi non abbiamo fatto niente…”. E abbassò lo sguardo verso le ginocchia. Non doveva andare così, pensò. Io volevo solo lavorare nello spazio, non essere una qualche specie di Prescelto e subire attentati da parte di creature mostruose!
Il viso di Silente si addolcì. Fissò i quattro giovani, uno a uno. “Lo so, è difficile. Ma dovete sapere. Se il vostro è davvero il Mondo Zero, voi e tutti gli altri suoi abitanti possedete la capacità più ambita dell’Omniverso: se un numero sufficiente di persone viene messo a parte di una storia, ed essi pensano a quella storia, essa diventa reale, da qualche parte nella Galassia. Chiunque fosse a conoscenza delle implicazioni potrebbe far pubblicare un libro in cui si parla di un’arma incredibilmente pericolosa; e se abbastanza persone lo leggessero, essa comparirebbe, e con essa il pianeta che ospita quella storia”.
Pietro si alzò in piedi di scatto, facendo rovesciare la propria sedia. Era pallido quanto lo era stato durante l’attacco degli Heartless, e le mani gli tremavano. “Ma allora…”, mormorò. “Vuol dire che tutti sono in pericolo! La mia famiglia, quelle di Elena, di Marco, di Riccardo… Gli Heartless magari li stanno uccidendo in questo momento e noi siamo qui a parlare!”. Il filo di voce era diventato progressivamente più intenso, fino a trasformarsi in un ruggito.
“Siediti, Pietro”, disse Silente, in tono gentile ma fermo. La sedia si rizzò, tornando nella posizione originaria.
“Ma…”.
“Siediti”.
Pietro obbedì, anche se non era chiaro se lo avesse fatto per sua volontà o se Silente gli avesse dato una piccola spinta.
“Mi credi tanto imprevidente? È ovvio che ho già preso precauzioni a riguardo, fin da quando il professor Piton mi ha comunicato che forse il mondo zero era stato scoperto. Non appena ho ottenuto l’approvazione del Consiglio, ho inviato una delle nostre migliore flotte a proteggere il vostro pianeta; in fondo, soltanto pochissimi di noi ne conoscono le esatte coordinate, perciò anche volendo sarebbe impossibile per chiunque abbia aperto il varco spaziale di oggi fare lo stesso lì. Le vostre famiglie non hanno nulla da temere, non preoccupatevi”.
“Così come non ce l’avevano i Potter?”, replicò Elena, stringendo i pugni.
Se Silente era rimasto ferito da quest’uscita, non lo diede a vedere. “Facciamo tutti degli errori”, disse. “Ma stavolta non lascerò che qualche traditore rovini tutto, ve lo prometto”.
“Davvero, non so… Non so cosa pensare”, disse Marco, dopo che ebbe terminato di rivedere mentalmente la spiegazione dell’anziano mago. “Anche adesso, ragionandoci a mente fredda… Dio, mi sembra tutto così confuso e così stupido!”.
“Se non altro siamo riusciti a parlare con i nostri genitori”, intervenne Pietro. Ancora il tremolio delle sue mani tornava a fargli visita, ogni tanto. “Se non altro loro stanno bene”.
“In ogni caso, non ha senso lamentarsi”, disse Riccardo. “Nessuno ci ha costretto a venire qua; ci siamo venuti perché lo volevamo, in fondo. E poi, se davvero abbiamo questa… questa ‘realtà del consenso’, saremmo finiti nei casini sia che fossimo venuti qui sia che non ci fossimo venuti”.
“D’accordo, hai ragione”, concesse Elena. “Ma ciò non toglie che ci hanno ficcato in un bel casino. Se Silente non se ne fosse venuto fuori con quest’idea del cacchio ce ne saremmo stati tutti tranquilli. E invece no, doveva per forza scoprire da dove i vari pianeti fossero venuti fuori… E guarda caso ci siamo andati di mezzo noi”.
“Comunque non credo che l’abbia fatto apposta…”, disse Marco. “Coinvolgerci, dico. Fino a una settimana fa non sapeva nemmeno della nostra esistenza!”.
“Che lo volesse o meno ormai ci siamo in mezzo”, gli rispose Riccardo. “Quindi dobbiamo riuscire a difenderci da soli, da ora in poi”. Sembrava davvero convinto di ciò che diceva, un po’ come se fosse uno degli eroi protagonisti di un RPG fantasy all’inizio dell’avventura, poco dopo l’inevitabile distruzione del villaggio natio da parte delle forze del male.
“Non credo che imparare a combattere sia davvero così facile…”, rispose Pietro, decisamente scettico.
“Volete imparare a combattere?”, domandò Haruhi. Non sembrava particolarmente sorpresa. Al massimo un po’ divertita. “Non c’è problema. Ma perché?”. Fissò i quattro con aria interrogativa; erano ancora schierati intorno alla porta di uno dei numerosi salottini che la sede della Confederazione Iperuranica offriva ai suoi ospiti, e si stringevano gli uni con gli altri come per farsi coraggio contro una minaccia sconosciuta.
“Credo di averlo intuito, capitano”. Frau Totenkinder era accomodata sull’inseparabile sedia a dondolo; stavolta non stava sferruzzando, ma teneva aperto in grembo un libro dall’aria anonima, senza titolo né copertina; i caratteri sulle pagine, però, sembravano cambiare e muoversi, quando li si fissava con la coda dell’occhio. “Questi ragazzi vogliono evitare di contare sull’aiuto altrui, dico bene?”.
Marco annuì in rappresentanza degli altri. “Ehm… fondamentalmente sì. Quantomeno, ci abbiamo pensato un po’ ieri sera, anche se non so quanto potremmo fare, visto che proveniamo da un mondo in cui non ci sono né la magia, né superpoteri di qualche tipo…”.
L’anziana signora tossicchiò, prima di prendere la parola. “Di questo non dovete preoccuparvi. La creazione dell’Omniverso ha portato ad una compenetrazione – o forse sarebbe meglio parlare di una riscrittura parziale – delle leggi alla base dei vari universi al fine di unificarle in maniera accettabile”.
“È come quando in Final Fantasy VIII giochi a Triple Triad e qualcuno ha la regola delle carte casuali”, intervenne la terza occupante della stanza, Nagi Sanzenin, annuendo con aria competente. “Poi finisce che la diffondi ovunque, anche se non vuoi”.
“Ah, ho capito!”, esclamò Marco.
Haruhi sbarrò gli occhi. “Hai capito una cosa tanto incomprensibile?”.
“Sì, credo. In pratica la magia può essere utilizzata anche da coloro che non provengono da mondi dove originariamente essa si poteva praticare, giusto?”, rispose il ragazzo, rivolgendosi a Frau Totenkinder.
La strega annuì. “Certo, non è una cosa così semplice, ma è una buona approssimazione. Anche chi proviene da un mondo senza magia può essere più o meno – o anche per niente – portato per essa; solo, non può esprimere il proprio potenziale finché si trova nella propria dimensione… Non che questo conti più molto, ai giorni nostri”. La donna si concesse una breve risata, poi tornò seria e fissò i quattro ragazzi con il viso proteso in avanti e gli occhi stretti, come un vecchio rapace prima di lanciarsi su un gruppetto di prede indifese. “Ma ora ditemi: chi di voi ha sentito qualcosa di strano, quando il portale di collegamento spaziale è apparso?”.
La mano di Pietro tremò appena, mentre la sollevava. “Io… Io”, ripeté, come se nemmeno lui ne fosse del tutto convinto.
Anche Marco alzò la sinistra, ma solo per un attimo. “Io molto meno, ma qualcosa sì”.
Frau Totenkinder concentrò la loro attenzione sui due ragazzi. “Molto interessante”, disse semplicemente, per poi voltarsi verso Elena e Riccardo. “Voi, invece? Non avete percepito nulla?”.
I due si guardarono in volto, poi scossero la testa; avevano entrambi un’aria affranta. “Oh, non dovete essere delusi; semplicemente, avete scarsa sensibilità alla magia, ma le arti stregonesche non sono certo l’unico campo in cui potete specializzarvi. Non avete qualche passione particolare che vi piacerebbe sviluppare?”.
Riccardo si schiarì la voce. “Io faccio karate… Cioè, lo facevo”.
“E io ho preso qualche lezione di tiro con l’arco, qualche anno fa”, disse Elena. “Avrei continuato, ma il centro sportivo dove andavo è fallito, quindi…”.
“Wow!”, esclamò Nagi, battendo il pugno sinistro sul palmo della destra. “Così sareste un perfetto team da quattro giocatori! Tu il guerriero, tu quella che attacca dalla distanza, tu il mago e tu…”, lo sguardo della ragazzina si fece perplesso quando si fermò su Marco. “Boh, qualche ruolo noioso tipo l’healer”.
“Ehi! Perché dovrei essere io quello con la parte noiosa?”.
“Perché i guaritori sono importanti… E poi qualcuno lo deve pur fare!”.
“Guarda che comunque a me non dispiace fare l’healer: quando giochiamo a D&D faccio sempre il chierico o il druido, in pratica!”.
“Sei tu che ti sei lamentato, scemo!”.
“Basta!”, intervenne Haruhi. “La quantità di punti nerd all’interno di questa stanza sta per toccare la soglia critica. Se volete discutere di questo genere di cose andate a farlo da un’altra parte, per favore!”. E in men che non si dica i quattro terrestri e Nagi furono sbattuti fuori dalla stanza.
La giovane miliardaria, però, era fin troppo preda della propria personale fantasia per accorgersene. “È come essere dentro un episodio di Dragon Quest!”, esclamò. I luccichii inquietanti nei suoi occhi si andavano moltiplicando come minuscole amebe luminescenti. “Ehi, ho un’idea! Vado a chiedere ad Hayate se può cucirvi dei costumi. Aspettate qui, così lo mando a prendervi le misure!”. E si allontanò lungo il corridoio, canticchiando una musichetta che somigliava in maniera sospetta ad una BGM di un videogioco fantasy.
“E noi che pensavamo che ci avrebbero riso in faccia…”, borbottò Elena.
“Quindi… Quindi io sarei un mago?”, mormorò Pietro, lo sguardo perso nel vuoto. Con la bocca semiaperta e le braccia ciondoloni sembrava uno spaventapasseri con una macchina fotografica appesa al collo.
“Così pare”, rispose Marco. “E anche io. Credo”. Sembrava che l’enormità della situazione li avesse storditi con una mazza targata “consapevolezza” solo in quel momento.
“Dai, un po’ di vita!”, esclamò Riccardo, che a quanto pareva era l’unico immune agli effetti del colpo. “Potremo davvero imparare a combattere! E avremo anche dei costumi!”. C’era quasi da aspettarsi che anche nei suoi occhi apparissero le bizzarre stelline di Nagi.
“Ma non possiamo andare in giro conciati come in un videogioco fantasy, saremmo ridicoli”, osservò Marco.
“Beh, potremmo sempre fare finta di essere in cosplay…”.
Nessuno aveva capito che tipo di civiltà ci fosse stata prima, su quel pianeta, ma di sicuro apparteneva al tipo a cui piace molto costruire colonne in marmo bianco.
Ora, però, qualsiasi cosa quelle colonne sorreggessero era scomparso, e la maggior parte delle colonne stesse giaceva a pezzi fra l’erba.
Per il resto, non era un brutto posto.
“Secondo te perché hanno scelto un posto del genere?”, domandò Edward Elric, seduto a cavalcioni di un capitello sbreccato. Indossava solo un paio di pantaloni neri e una canottiera del medesimo colore; l’assenza della sua giacca rossa metteva ben in mostra il braccio meccanico, che tamburellava sul marmo in un ritmo lento. “Voglio dire, non è molto allegro”.
“Credo sia perché è disabitato”, rispose Kusanagi Shiyu, fissando placido l’immenso cielo stellato sopra di loro. “A me piace, in ogni caso. La voce della natura è molto forte, qui”.
“Ovvio che lo sia: non c’è anima viva a parte noi, su questo pianeta”, rispose l’alchimista, incrociando le braccia dietro la testa. “Anima umana, intendo”, si affrettò a correggersi, vista la teoria dell’altro riguardo ad animali e piante.
“Per quale motivo credi che mi piaccia?”, disse l’ex-militare, con un leggero sorriso.
“E quindi…”, Edward tornò a parlare, dopo almeno cinque minuti di silenzio. “Capricorno, Acquario e Pesci sono tornati, giusto?”.
“Già”.
Ancora silenzio.
“Senti, Kusanagi… A volte non ti senti ridicolo?”.
“Ridicolo? In che senso?”.
“Beh… Tutta questa storia dei Santi d’Oro, sai. Voglio dire, indossiamo delle armature per combattere. Delle armature dorate! Sembra, non so, una di quelle fantasie sui supereroi che fai quando sei un bambino”.
Kusanagi sogghignò, ma solo per un attimo. “Siamo qui per nostra scelta, giusto?”.
Edward rimase un attimo sorpreso dalla risposta. “S-sì, certo”, rispose, quasi sulla difensiva. “Ma non stavo mica parlando di andarmene, eh. Anche perché, beh… È come se in qualche modo sapessi che è qui che devo stare. Una chiamata del destino, per così dire”.
Il volto dell’ex-militare si incupì, mentre i suoi occhi scendevano dalle profondità del cielo per fissarsi davanti a sé, ridotti a fessure. Edward deglutì: aveva l’impressione che se davanti all’uomo ci fosse stata una colonna sarebbe stata letteralmente perforata dalla pressione del suo sguardo. “Ho… ho detto qualcosa di sbagliato?”, domandò.
Kusanagi non rispose per un minuto buono. Quando ormai Edward iniziava a pensare che non avrebbe più parlato – o che gli sarebbe saltato al collo – aprì la bocca. “No”, disse, in tono inaspettatamente calmo. “Non sei tu. È che sentir parlare di destino”, si interruppe per un paio di secondi, come se la parola stessa fosse corrosiva per la propria lingua. “Mi ricorda il motivo percui sono fuggito dal mio mondo. Non credo di avertelo mai raccontato… A dire il vero, credo di non averne mai parlato a nessuno degli altri Santi”.
“Non che molti di noi siano granché ciarlieri”, ghignò Edward. “Giusto Leone tende ad eccitarsi un po’ troppo spesso… Ma scusa, non volevo interromperti”.
“Sai, nel mondo dove sono nato ero… ecco, ero una delle sette persone che avrebbe dovuto condurre all’Apocalisse. Non per mia scelta: ed è proprio questo il problema. Mi dissero che ero stato destinato a essere uno dei Draghi Terrestri; e ciò che era peggiore sembrava che nessuno di tutti gli altri, sia i miei compagni che i miei nemici, facesse nulla per cercare di sfuggire a ciò che definivano come un fato inevitabile. E così, alla fine… Me ne sono andato. Ce ne siamo andati, anzi”.
“Ehi! Finalmente vi abbiamo trovati!”.
“Fratellone, perché te ne sei andato così all’improvviso?”.
I due Santi si voltarono, ma era chiaro dal clangore metallico in rapido avvicinamento, ancora prima che dalle voci, chi si stesse avvicinando: Alphonse Elric stava correndo verso di loro, due metri e passa di armatura da cui usciva una voce acuta di un adolescente non ancora del tutto entrato nella pubertà; accanto a lui trotterellava una ragazza di nemmeno diciotto anni, i capelli neri tagliati all’altezza delle spalle e un bellissimo sorriso sul volto dagli occhi grandi. Teneva fra le braccia un cucciolo dal pelo argenteo, che si guardava intorno con aria compunta e incuriosita. La giovane si avvicinò all’ex-militare e lo fissò con aria furba, il volto un po’ inclinato verso la spalla sinistra. “Come mai sei triste, Kusanagi-kun?”, domandò.
“Triste?”, ripeté lui, fingendo sorpresa.
“Oh, puoi imbrogliare gli altri ma di certo non me!”, rispose la ragazza in tono fiero. Il cagnolino fra le sue braccia scodinzolò un paio di volte e abbaiò, quasi per rimarcare il punto.
Kusanagi tese una mano grande e abbronzata e le scompigliò il caschetto. “Giusto, Yuzuriha. A te e a Inuki non riesco proprio a nascondere nulla”. Il cucciolo, sentendosi chiamato in causa, abbaiò di nuovo. “Come mai siete venuti fin qui, comunque?”.
“Gemelli ci ha mandato a chiamarvi”, spiegò Al. “Ha detto che la riunione sta per iniziare”.
Ed sbuffò, sollevando una ciocca di capelli color miele che gli era ricaduta sulla fronte. “Quella sta iniziando a montarsi un po’ troppo la testa, o sbaglio?”, disse. “Non si era detto che in assenza della signorina Anthy il capo dovevo essere io?”.
“Certo, piccolo Ed”, gli rispose Yuzuriha, arrivandogli davanti e premendogli il naso con un indice. “Ma quando mai hai combinato qualcosa di utile, tu?”.
“A CHI AVRESTI DATO DEL PARAMECIO INDEGNO DI ESISTERE?!”.
“Yuzuriha, Al?”, disse Kusanagi, la cui voce riusciva a sovrastare in qualche modo le urla isteriche dell’alchimista. “Vi dispiace precederci?”.
“Mh?”, fece la ragazza. “Oh, certo. Forza, Inuki, andiamo!”, e messo il cagnolino a terra iniziò a correre nella direzione da cui era venuta, verso il gruppo di edifici di pietra al limitare dell’immenso prato, il cucciolo alle calcagna.
“Aspetta, Yuzuriha!”, le gridò dietro il povero Al, che essendo composto per la maggior parte di ferro era molto più lento.
“Certo che sanno essere parecchio rumorosi, eh?”, disse Ed, mentre li guardava allontanarsi. Come al solito, le sue arrabbiature duravano il tempo di un paio di urla.
“Non che tu sia da meno”, rispose l’uomo.
“Ehi, sai che sono molto sensibile riguardo alla mia altezza”, si giustificò l’alchimista. Poi alzò gli occhi, scrutando il volto di Kusanagi. “Comunque… dicevi che alla fine sei scappato dal destino. E te ne sei pentito?”.
Gli occhi dell’ex-militare erano fissi su Yuzuriha, che si era lanciata ridendo all’inseguimento di Inuki. Sorrise, e c’erano delle pieghe malinconiche agli angoli della sua bocca. “Neanche una volta”, disse. “Neanche una volta”.
RICCARDO: Ma perché questa gente ha preso così tanto spazio pur non essendo fra i protagonisti?
MARCO: Pare che l’autore con il quinto capitolo abbia terminato quella che intendeva come l’introduzione, quindi d’ora in poi farà vedere anche ciò che accade ad altre persone e non soltanto a noi.
ELENA: In effetti l’ha già fatto nel terzo capitolo, no?
PIETRO: Aspettate, questo vuol dire che i capitoli d’ora in avanti saranno più lunghi?
MARCO: Immagino dipenderà da quanto l’autore ha voglia di scrivere… Forza, Ed, stavolta tocca a te fare le anticipazioni.
ED: Il sesto capitolo di “Il cielo è un’ostrica, le stelle sono perle” si intitola “Il quartiere commerciale intergalattico”. E ricordate, lettori, l’alchimia è una cosa seria e non un giocattolo!
PIETRO: Senti, Ed, lo chiedo anche a te: credi che dei capitoli più lunghi andrebbero bene?
ED: STAI FORSE INSINUANDO CHE IO SONO CORTO!?
PIETRO: …Ok, lasciamo perdere.
E così, ehm, eccoci di nuovo qua! Chiedo perdono se il capitolo è un po’ confuso, ma le spiegazioni di Silente tendono a essere sempre un po’ ermetiche (mai che quell’uomo riesca a dire tutto fino in fondo! Deve sempre tenere nascosto qualcosa… XD).
Comunque, finalmente i nostri “eroi” cominceranno il loro addestramento… più o meno. In realtà prima che riescano a combinare qualcosa ne passerà di tempo!
Ma ora è il momento delle risposte alle recensioni!
Per Suikotsu: Sono contento che tu abbia apprezzato le descrizioni riguardanti la scena d’azione; a me non sembrano proprio chiarissime (o meglio, mi sembrano poco ispirate), spero di migliorare con il passare del tempo, visto che le azioni concitate non sono mai state il mio forte!XD
E beh, sì, Marco e gli altri di sicuro si faranno valere, come hai potuto leggere in questo capitolo.U_U
Per Anonimo: Non ti spiace se ometto i numeri? Almeno non rischio di sbagliare!XD Sulla realtà del consenso ci hai preso – di nuovo! – anche se stavolta era un po’ più facile, bastava cercare su Google per trovare qualcosa. In ogni caso, bravo comunque!
Per quanto riguarda la risposta alla recensione, beh, ti avevo già detto tutto quanto via MSN, mi sembrava inutile ripetermi anche qui!XD
Per Morens: Allora ti posso dire che due dei tre shinigami che hai nominato appariranno di sicuro nella storia, e uno di loro avrà un ruolo di primissimo piano! Spero che la cosa ti faccia piacere.^^
Per Anonimo: Di nuovo?XD Ma d’altronde hai recensito due volte, quindi ti becchi la doppia risposta!
E non ci credo che ti sta simpatico Shin. Shin non sta simpatico a nessuno. Neanche a Shin stesso.XD
Ci tengo anche a ringraziare tantissimo AyuChan Uchiha (spero di avere scritto il nick in modo corretto) per avere aggiunto la storia fra i preferiti! Spero di leggere la tua opinione in merito, un giorno o l’altro!^^
Bene, e anche per stavolta abbiamo finito. Ci vediamo, se vi va, nel prossimo capitolo.
Davide
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Parte Prima, Capitolo 6 - Il quartiere commerciale intergalattico ***
CAPITOLO SESTO – IL QUARTIERE COMMERCIALE INTERGALATTICO
La giornata di Marco iniziò in maniera interessante: qualcuno gli stava premendo un foglio di carta sulla faccia.
“Forza, svegliati e firmalo!”. La voce acuta di Haruhi finalmente lo costrinse ad abbandonare il sonno.
“Che cosha?”, riuscì a biascicare, mentre un angolo del foglio gli finiva in bocca.
“Capitano, guarda che così muore, eh”, intervenne Elena, in tono un po’ assonnato.
“Dici?”.
“Beh, o soffoca perché sta ingoiando il contratto oppure perché gli manca l’aria”, osservò Pietro.
“Mh… già”.
Sigla d’apertura: Sleepyhead, dei Passion Pit
Quando finalmente Marco fu di nuovo libero di respirare si levò a sedere di scatto, tossì un paio di volte, riuscì a resistere all’impulso di rimettere la cena della sera prima e si guardò intorno, con gli occhi ancora impastati dal sonno: Elena e Pietro, ancora in pigiama, avevo l’aria di chi è stato appena svegliato a pedate, cosa che probabilmente era accaduta; Riccardo stava ancora dormendo della grossa, mentre Haruhi, già vestita della sua uniforme scarlatta da comandante, sventolava dei fogli con aria un po’ schifata. “Bleah, guarda che hai combinato, adesso l’angolo è macchiato di bava!”, si lamentò, quando vide che Marco la stava guardando. “Come pensi di rimediare, sottoposto?”.
“Guarda che sei tu che me l’hai ficcato in bocca, scusa!”, gli rispose lui a tono. “E poi che è questa storia del sottoposto?”.
“Beh, non lo siete? O meglio, lo sarete dopo aver firmato i contratti”.
“Contratti?”.
“Hai la memoria corta? Sei stato tu a chiedermi di darti un lavoro, giusto una settimana fa!”.
Alla notizia, Marco sobbalzò. “Fantastico! Non credevo te ne saresti ricordata!”.
“Ehi, mica sono scema, scusa! Vi avevo promesso uno stipendio e lo avrete. Ora qualcuno svegli anche coso, lì, così almeno vado a riconsegnarli subito alla divisione amministrativa e non ci penso più”.
“Non sarà facile”, disse Elena. “Il sonno di Riccardo è leggendario”.
Haruhi sorrise in maniera ben poco rassicurante. “Scommettiamo?”. E da una delle tasche dell’uniforme estrasse una piccola macchina fotografica digitale. “Tre, due, uno…”, disse, puntandola contro Riccardo.
“No, aspetta!”, urlò Pietro, scostando di botto le lenzuola e lanciandosi contro Haruhi. “Non sai quello che stai…”.
“Cheese!”.
CLICK.
PAFF!
“Pietro, cazzo, te l’ho detto mille volte che non devi farmi foto mentre dormo!”.
“Wow, l’hai preso proprio nello stomaco”, disse Haruhi mentre guardava Pietro che si contorceva per terra. “Se questo fosse stato un gioco avresti preso cento punti come minimo”.
“Dici che morirà?”, domandò Marco, tendendo il collo per cercare di capire meglio la situazione.
“Beh, non è la prima volta”, gli rispose Elena, alzandosi dal letto. “E comunque, Riccardo, anche tu potevi evitare di tirargli un pugno, eh”.
“Senti, gliel’ho detto un sacco di volte che mi dà fastidio!”.
“Ma guarda che non è stato lui, è stata… oh, lasciamo perdere”, si arrese la ragazza, vedendo che Haruhi era riuscita a far sparire la macchina fotografica a tempo di record. “Dai, Pietro, ti do una mano a rialzarti”.
“Credo che… coff… credo che sputerò un polmone…”, riuscì a biasciare Pietro, mentre con l’aiuto della ragazza riusciva a rimettersi in piedi.
“Comunque, adesso che siete tutti svegli non fatemi perdere troppo tempo”, disse Haruhi, che iniziava ad essere spazientita. “Firmate questi contratti, così almeno possiamo ripartire prima di sera”.
“Come, prima di sera!?”, esclamò Riccardo. “Ma non abbiamo neanche fatto in tempo a vedere la città!”.
“Beh, di questo non dovete preoccuparvi”, rispose il comandante, sollevando il mento con aria di importanza. “Tanto dove andremo ora non vi farà certo rimpiangere quei quattro squallidi negozietti! Ora, chi ha una penna?”.
Marco la guardò storto. “Sei venuta per farci firmare dei contratti e non hai portato nemmeno una penna?”.
“E che, devo pensare a tutto quanto io?”.
In quel momento, la porta della stanza si aprì, scivolando sul suo binario con soltanto un leggero sbuffo.
“… e così le ho detto: “Questo è il modulo 87-b, a me serve l’87-d!”. E lei… Oh”.
Le teste dei cinque occupanti della stanza si voltarono verso la proprietaria della voce. Il vano dell’ingresso inquadrava tre persone: una ragazza con lunghi capelli rosa che vestiva un uniforme chiara molto simile a quella di Haruhi, un giovane uomo dai capelli castani in camicia bianca e cravatta, con in mano un sottile bastone bianco del tipo comunemente usato dai non vedenti, e un ragazzo dall’aria scazzata, i capelli neri raccolti in un’acconciatura che faceva sembrare la sua testa un ananas. La ragazza arrossì. “Oddio, scusate, abbiamo sbagliato stanza!”, esclamò, mentre la porta si richiudeva.
Un momento di silenzio.
“Wow, meno male che nessuno di noi era tipo, non so, nudo o stava facendo qualcosa di imbarazzante”, disse Marco, grattandosi la testa. “Di solito nelle commedie scolastiche le cose vanno sempre così”.
“Sì, ma…”, iniziò Riccardo, con tanto d’occhi. “Quelli erano Shikamaru Nara e Raito Yagami!”.
Anche lo sguardo di Marco si sgranò. “Ehi, è vero! E la ragazza era Hinagiku Katsura!”.
“Certo!”, disse Haruhi. “Sono i tre Consiglieri Giovani della Confederazione, sapete?”.
“E ci hanno visto in pigiama!?”.
“Che ti importa? Mica li devi frequentare. E comunque ti hanno visto solo in due, Yagami è cieco”, rispose la ragazza con un’alzata di spalle.
“Piuttosto”, intervenne Elena. “Raito non è un serial killer che ha ucciso migliaia di persone con quel suo quaderno? Com’è che una persona del genere diventa un consigliere?”.
“Beh… è per quello che ora è cieco, no?”, disse Haruhi, come se la cosa fosse assolutamente ovvia. “Silente gli ha levato la vista con la magia, così ora anche se trovasse un altro quaderno non potrebbe usarlo, visto che il suo gliel’hanno distrutto. Quanto ai suoi trascorsi da maniaco omicida, credo sia bastato un semplice lavaggio del cervello”.
“Ah”, fece Pietro, che sembrava essersi più o meno ripreso dal pugno nello stomaco. “E scusa, ma non si faceva prima a prendere qualcuno di meno problematico come consigliere?”.
Haruhi sbuffò. “Senti, prenditela con Silente, è lui che ha sempre ‘sta fissa di salvare tutti e di vedere del buono in chiunque gli stia intorno… Ora forza, firmate questi contratti così almeno leviamo le tende”.
Un altro attimo di silenzio.
“Ehm… capitano?”, disse Marco. “Ancora non abbiamo una penna, o sbaglio?”.
“Allora?”, domandò Haruhi, con l’aria fiera di una mamma aquila che guarda i suoi pulcini spiccare il primo volo. “Come vi sembrano?”.
I quattro, allineati contro una delle pareti della sala di comando della Crazy Diamond, si fissarono l’un l’altro, nel più totale imbarazzo. “Perché?”, era la domanda che aleggiava sopra le loro teste.
“Non c’è affatto bisogno che mi ringraziate!”, stava continuando intanto il comandante. “Ma Nagi mi ha detto che Hayate vi aveva preso le misure e ho pensato di approfittarne!”.
Marco decise di prendere la parola per tutti quanti. “Ecco, veramente… Cioè, capitano, sei stata gentilissima e tutto, però…”.
“Però preferiremmo i nostri normali vestiti, grazie tante”, intervenne Elena, visto che l’amico non si decideva a concludere. I quattro indossavano una divisa identica a quella che portava anche Kyon, comprensiva anche di baschetto, ma grigia invece che blu. Prudeva da far spavento.
Haruhi sollevò un indice e lo sventolò davanti al naso della ragazza. “No, no. Adesso siete miei sottoposti, quindi dovete fare ciò che vi ordino; e questo comprende anche indossare le uniformi!”.
“Senti, non c’era una clausola riguardo a divise ridicole nel contratto o sbaglio?”, le rispose Elena. “E comunque non mi pare che qui a bordo nessun altro rispetti questo tuo ‘ordine’, eh?”.
“Te l’ho già spiegato, Piton e gli altri non sono dipendenti della Confederazione, oltre a me solo Kyon lo è!”.
“Beh, e scommetto che lui la divisa la porta soltanto perché altrimenti gli terresti il muso come una mocciosa. Vero, comandante?”.
Kyon, seduto in plancia, emise un borbottio che poteva significare qualsiasi cosa.
“Oh, va bene, fate come vi pare!”, esclamò Haruhi, voltandosi per dar loro la schiena, con le braccia incrociate. “Però non vi farò mai più un favore, d’accordo?”.
“D’accordo”, rispose Riccardo, facendo spallucce. “Ma per curiosità, dove hai detto che stiamo andando?”.
“Stiamo andando a recuperare dei… oh, già”, la voce di Haruhi si abbassò di quasi un’ottava, diventando un brontolio. “Beh, non vi farò più favori dopo questi due”.
“Che cosa stiamo andando a recuperare, capitano?”, la incalzò Pietro.
La ragazza si voltò, la fronte corrugata. “Si dà il caso che saranno pagati con i vostri stipendi!”, esclamò. Un paio di secondi dopo l’astronave ebbe uno scossone e si inclinò leggermente sul lato sinistro. “Ehi, Kyon, potevi anche parcheggiare in maniera un po’ più delicata!”.
“Vieni tu a farlo, la prossima volta”, borbottò lui, in un tono di voce comprensibilissimo.
“Parcheggiare? Perché, siamo atterrati da qualche parte?”, domandò Marco.
“Sì”.
“E allora come mai fuori dal finestrino si vedono ancora le stelle?”, ribatté lui, indicando l’enorme visore che riempiva i due terzi delle pareti della sala di comando. Su un uniforme sfondo nero scorreva una miriade di piccole luci bianche.
“Ah, quello?”, rispose Haruhi. “Quello è lo screensaver di Windows, mica quello che si vede fuori”.
“E com’è possibile che sul finestrino ci sia il dannato screensaver di Windows!?”.
“Prima di tutto, non urlare. E poi quello non è un finestrino vero, è solo uno schermo. Ti pare che una nave vera possa avere un visore collegato con l’esterno? Sarebbe pericoloso e stupido. Tutte le astronavi hanno delle telecamere sulla superficie dello scafo”.
“E se qualcosa rompe le telecamere?”, si informò Pietro.
Ma la domanda del ragazzo non ebbe risposta: improvvisamente nella sala di comando irruppe una tigre. “Siamo arrivati a El Dorado, vero?”, esclamò Nagi, agitandosi in groppa a Tama.
Ed ecco il ritorno delle lucette inquietanti negli occhi…, pensò Marco, mentre Riccardo chiedeva: “El Dorado? E che sarebbe?”.
Haruhi si lasciò scappare un ghigno. “Lo vedrete fra poco”.
“Kyon! Kyon! Si può sapere dove ti sei cacciato?”.
“Non c’è niente da fare, capitano”, disse Marco, con un filo di voce. “Lo abbiamo perso”.
Il gomito di qualcuno si piantò nelle reni del ragazzo con violenza, facendogli esplodere davanti agli occhi una miriade di nuove costellazioni. Il dolore fu tanto forte e improvviso che quasi svenne; ma anche se avesse perso i sensi non ci sarebbe stato spazio dove cadere. Ancora con la vista annebbiata si voltò, per cercare di capire chi fosse il colpevole dell’aggressione alle sue parti basse; la folla, però, era così fitta che riuscì a malapena a girare la testa senza scontrarsi con qualcuno.
“Maledizione!”, gridò Haruhi. “Le chiavi dell’astronave le ha lui”.
“Beh, possiamo incontrarlo di nuovo lì dopo, no?”, domandò Elena dal mezzo della calca. Il gruppetto si muoveva in fila indiana, tenendosi per mano: prima Haruhi, poi Marco, Pietro, Riccardo, Elena e alla fine Piton. Era difficile dire chi fosse più scontento della cosa, se la ragazza o l’uomo. “Basta che qualcuno si ricordi dove abbiamo parcheggiato…”.
“Dove siamo adesso?”, il tono di voce di Pietro rasentava l’isteria.
“Su El Dorado, no?”, rispose pratica Haruhi. “Il pianeta dove puoi trovare tutto, se sei disposto a pagare il giusto prezzo. O quantomeno questo sostiene la brochure informativa”.
“Credo intendesse dove siamo precisamente”, precisò Marco. “Cioè, oltre al fatto di essere in mezzo ad una fiumana di gente”. Il viale principale della città dove erano atterrati era fiancheggiato da due file di edifici senza alcuna pretesa di uniformità architettonica; e così a botteghe dall’aria primitiva si affiancavano enormi, imponenti grattacieli di vetro e acciaio non dissimili da quelli di Eidolon.
“Beh, stiamo cercando dei mercenari da assumere”. Il tutto detto con estrema naturalezza. “E anche delle bacchette magiche: per coso là dietro, quello che sta sempre male, e per te, visto che sarai l’healer”.
“Sentite, ci diamo un taglio con questa storia dell’healer?”, si inalberò Marco, mentre la faccia gli diventava rossa. Qualcuno gli pestò il piede, o forse se lo era semplicemente pestato da solo.
“Non hai un briciolo di personalità collaborativa”, lo rimproverò il capitano. “Quando ti troverai in pericolo e nessuno vorrà aiutarti non venire a piangere da me, eh!”.
Marco, saggiamente, decise di tacere. Non sapeva se la Confederazione avesse sigillato i poteri di Haruhi – doveva ricordarsi di domandarlo a Frau Totenkinder, quando fosse riuscito a capire in quale parte della nave alloggiava – ma era comunque il caso di non insistere, prima che per un semplice capriccio del suo inconscio quella profezia avesse ad avverarsi in un prossimo futuro.
“Ecco, siamo arrivati alla prima tappa!”, esclamò il comandante dopo qualche altro minuto di sgomitate. “Piton, li porti dentro tu? Così vado avanti con gli altri”.
“D’accordo”, borbottò il professore in fondo alla fila. “Voi due, venite con me”.
Mi chiedo se un giorno si disturberanno ad imparare i nostri nomi, pensò Marco, mentre Piton afferrava lui e Pietro per un braccio e li trascinava con non poco eroismo attraverso la barriera di persone, alieni e animali antropomorfi che arrancava lungo la via.
“Se non dovessimo trovarci più ci vediamo all’astronave!”, riuscì a gridare Haruhi prima di venir risucchiata nella fiumana insieme ad Elena e a Riccardo.
“Spero che sopravvivano”, disse Pietro, guardandoli scomparire nella calca.
“Nessuno si metterebbe contro il capitano”, lo rassicurò Piton. “Nessuno che abbia a cuore la salute del proprio cervello, quantomeno”.
I tre emersero dalla folla, e Marco in quel momento pensò di sapere che cosa provavano i tappi di champagne quando venivano fatti saltare dalle bottiglie. Rischiò quasi di finire per terra.
“Si può sapere che cavolo ci fa qui tutta questa gente?”, domandò, spazzolandosi l’uniforme impolverata.
“E dovresti vedere quando ci sono i saldi”, gli rispose Piton. “Comunque forza, entriamo”.
I due ragazzi sollevarono lo sguardo: il professore li aveva trascinati davanti ad un negozietto dall’aria pulciosa. In vetrina non c’erano che un paio di quelle che avevano tutta l’aria di essere delle bacchette magiche, posate su un telo di velluto rosso, e uno strato uniforme di polvere; l’insegna sopra la porta recitava: “Olivander: creatori di bacchette di qualità superiore dal 382 a.C”.
“Olivander?”, esclamò Marco, stupito. “Ma non siamo a Diagon Alley!”.
“Mai sentito parlare di filiali estere?”, domandò Piton, quasi con disprezzo (leggi: usando un tono più gentile rispetto al suo solito), spingendo la porta che scricchiolò in maniera debitamente spettrale. “Ora forza, non abbiamo tutta la giornata da buttare”.
L’interno della bottega era tanto disordinato quanto lo si sarebbe detto da fuori: c’erano bacchette sparse ovunque, un vaso di fiori che galleggiava a mezz’aria e un vecchietto con i capelli bianchi e l’aria spiritata che se ne stava aggrappato in cima a una chilometrica scala a pioli.
“Bontà divina, meno male che è arrivato qualcuno!”, esclamò l’uomo. “Presto, fate qualcosa!”.
“Qualcosa?”, ripeté Piton.
Poi notò che il vaso da fiori lo stava fissando. E che aveva spalancato le fauci.
“Oh, merda!”, esclamò Marco, come al solito di estremo aiuto.
Il vaso ruotò pigramente nell’aria, tenendoli sotto tiro con i suoi occhietti a capocchia di spillo. Poi emise uno stridio e si lanciò a tutta velocità verso di loro.
Piton, per fortuna, fu più rapido.
“BOMBARDA MAXIMA!”, gridò, estraendo di tasca la bacchetta e puntandola verso il soprammobile, che esplose spargendo ovunque microscopici pezzetti di ceramica.
“Grazie, Severus, grazie!”, esclamò Olivander, scendendo dalla scala con un’andatura ballonzolante da formichiere. “La concentrazione di magia qui dentro ogni tanto fa strani scherzi alle suppellettili, e avevo lasciato la mia bacchetta da qualche parte lì in basso”.
“Olivander, non perché io trovi gioia nel far sentire le persone stupide…”, disse Piton, in un tono che lasciava intendere che in realtà, sì, trovava gioia nel farlo. Trovava grandissima gioia. “Ma nei cassetti lassù non ci sono un sacco di bacchette?”.
L’uomo sollevò lo sguardo. “Oh”, disse. “Vero, non ci avevo pensato”. Riportò gli occhietti azzurro slavato sui tre clienti. Sembrava che ciò che era appena accaduto non fosse successo affatto. “Ma veniamo a noi: in che cosa posso aiutarvi?”.
“Li ho accompagnati a prendere delle bacchette”, spiegò Piton, dando una spintarella a Marco e Pietro.
“E così sono dei tuoi nuovi allievi?”, domandò Olivander, scrutando i due ragazzi con approvazione. “Hanno un’aria sveglia”.
“Sbaglio o dicevi lo stesso anche di Potter?”.
“Capitano, giusto per sapere”, domandò Riccardo. “Prima hai parlato di mercenari, o sbaglio?”.
“Certo!”, replicò lei, facendosi largo fra la folla che per fortuna stava iniziando a diradarsi. “Chi credete che vi insegni a combattere, Kyon? È ovvio che ci serva gente esperta”.
“Ma i mercenari non vanno pagati?”, domandò Elena.
“Oh, non preoccupatevi: detrarremo tutto dalle vostre paghe, ovvio!”.
“Ehi! Come sarebbe a dire!?”.
“Ecco, da questa parte!”, esclamò Haruhi, che nemmeno fece finta di aver sentito, prima di trascinare i due in un vicoletto laterale, fuori dalla calca. Lì la situazione era molto più vivibile, soprattutto perché non c’era anima viva. Qui gli edifici erano simili l’uno all’altro, case anonime dall’intonaco un po’ scrostato. “Almeno, credo”.
“Credi?”, ripeté Riccardo, perplesso.
“Anche El Dorado era un pianeta disabitato ed è stato trasformato in un gigantesco centro commerciale”, spiegò la ragazza, continuando a camminare. Raggiunto un incrocio, con il rumore della folla dietro di loro ormai ridotto ad un brusio, indugiò per qualche secondo e poi svoltò a destra. “Ci sono filiali di qualsiasi negozio conosciuto, in pratica; e ovviamente anche di quelli che invece ci tengono a farsi conoscere il meno possibile, se capite cosa intendo”.
“Attività illegali, dici?”, domandò Elena. “Ma poi aspetta, non sei una dipendente governativa, tu?”.
“Lo siete anche voi, ora”, replicò Haruhi, svoltando in una stradina sulla sinistra. “E comunque la Confederazione su cose come questa chiude un occhio… È ovvio che non puoi debellare la criminalità di questo tipo se hai sotto la tua giurisdizione decine di migliaia di pianeti, già è difficile impedire che degli idioti distruggano l’Universo!”.
Nel labirinto di vicoli non c’era anima viva. Ci volle qualche secondo a Riccardo e a Elena per rendersi conto che le case intorno a loro avevano qualcosa di strano. “Ehi!”, esclamò il ragazzo. “Ma perché non c’è nemmeno una porta?”.
“Perché non ci abita nessuno”, rispose il capitano, svoltando nell’ennesima viuzza deserta. “È solo che uno si aspetta un certo tipo di quartiere malfamato dall’atmosfera grigia e le case mal verniciate, quando deve assoldare qualche tizio poco raccomandabile, no?”.
“E non è uno spreco di spazio e di cemento?”, intervenne Elena.
“Sssh, zitta un attimo”, rispose Haruhi, secca. “Sentite anche voi?”.
“Sentiamo cosa?”, domandò Riccardo.
“Se tacessi sentiresti, no?”, sibilò il capitano.
“Io non sento assolutamente nulla”, bisbigliò Elena. “Sei sicura che non ti sei…”.
“Fermi, se ci tenete alla pelle!”.
Improvvisamente, i tre si ritrovarono circondati. Dai tetti vicini erano balzati nel vicolo un quartetto di energumeni che sembravano usciti da un casting per le comparse di Ken il Guerriero: giacche di pelle strappate, pugnali dalla lama poco pulita stretti nelle mani callose, espressioni da folle… Due di loro avevano anche una cresta di capelli alta almeno trenta centimetri.
“Oh, per favore!”, esclamò Haruhi, spazientita e per nulla intimorita. “Certo che siete proprio banali! Se volete fare un’entrata in scena come si deve, almeno evitate una frase tanto trita e ritrita! La prossima volta cosa direte, “O la borsa o la vita!”?”.
“Non ci sarà una prossima volta… per voi!”, rispose uno di loro, leccando la lama del coltello con aria maniacale.
“A quanto pare non avete proprio capito”, la ragazza stava picchiando il piede per terra. “Siete noiosi. Avete capito o ve lo devo sillabare? E se fossi in te eviterei di fare quella cosa con la lingua. Non solo ti ci puoi tagliare ma la lama non mi sembra nemmeno molto pulita, non sai quante malattie strane ti puoi beccare al giorno d’oggi”.
“Non credo che tu li stia mettendo dell’umore giusto, sai?”, bisbigliò Elena, schiena contro schiena con Riccardo. Era chiaramente terrorizzata, ma cercava di non darlo a vedere.
“Ehi, capo! Questa tizia mi sta davvero sui nervi!”, berciò uno dei banditi, pelato e un po’ gobbo. Assomigliava vagamente a Gollum, ma era molto più brutto. “Posso ucciderla?”.
“Dai, anche questa scena l’abbiamo vista un mucchio di volte! Adesso tu ti avventerai contro di me e all’ultimo momento arriverà qualcuno a salvarmi”.
“Capitano, per favore, stai zitta!”.
Il teppista che aveva leccato il coltello annuì. “Forza, falla fuori!”.
“Preparati, puttanella, sto arrivando!”, gridò il pelato, prima di lanciarsi contro Haruhi, il pugnale alzato.
“Continui ad essere troppo banale…”.
“Oddio, ci ucciderà!”.
“AAAAAAHHH!”.
ZING.
“AAAAHHH… eh?”, il teppista, arrivato ad un paio di metri da Haruhi, si voltò a fissare il proprio pugno chiuso con tanto d’occhi. Il pugnale non c’era più. “M-ma dove…”.
ZING.
Ai presenti fu tutto molto più chiaro, quando nel braccio dell’uomo si piantò una freccia, proprio sopra il gomito.
“AAAAAAAAAAAHHH!”, un altro urlo, stavolta di dolore. “Chi cazzo è stato, eh? Fatti vedere!”.
ZING.
Il terzo dardo si piantò ad un paio di centimetri dal piede destro del capo dei teppisti. Tutti e sette gli occupanti del vicolo alzarono lo sguardo.
“Volete che vi apra una seconda bocca? O anche un secondo buco del culo, non è che vada molto per il sottile”. Sul tetto, con una quarta freccia già incoccata, c’era una donna vestita con un gi bianco, i lunghi capelli neri legati in una coda alta da samurai che galleggiavano nel vento in maniera molto coreografica.
“Ecco!”, Haruhi schioccò le dita, fissandola con approvazione. “Questa è un’entrata in scena quantomeno sufficiente!”.
I teppisti, dal canto loro, non erano così contenti. “B-bastarda!”, le gridò contro il capo, che però se la stava dando a gambe. “La prossima volta non andrà così, te lo garantisco!”.
“Prevedibile anche nell’uscita di scena, eh?”, commentò Haruhi, guardandoli allontanarsi.
La nuova arrivata balzò davanti ai tre, atterrando nella polvere del vicolo con la leggerezza di un gatto. Vista da vicino sembrava un po’ mascolina – braccia ben tornite e lineamenti duri e affilati – ma era senza dubbio una donna affascinante. “È un po’ che vi seguo”, spiegò con voce roca. “Sbaglio o ho sentito che state cercando un maestro di tiro con l’arco? Sarei lieta di aiutarvi”, e si esibì in un sorrisetto accattivante.
Elena e Riccardo si guardarono.
“È fortissima!”, disse lei.
“Ha delle tette da favola!”, rispose lui.
“La prendiamo!”, esclamarono all’unisono.
“Ehi!”, sbottò Haruhi. “Sono io che devo decidere se la prendiamo o meno! Sono io il capitano!”.
Ed e Kusanagi entrarono nel sancta sanctorum in silenzio, quasi circospetti. Anche se ormai erano entrati nel numero dei Santi da quasi un anno, quel luogo tanto solenne e silenzioso riusciva ancora a metterli in soggezione.
Allineati contro la parete di destra attendevano Gray, Saber e Kurama, che dovevano essere da poco tornati dalla loro missione presso il Consiglio. L’unica altra presenza sedeva sul trono in fondo alla stanza, e li fissava con un sorrisetto ironico. “Oh, ecco Ariete e Toro!”, disse la giovane donna in gilé di pelle e pantaloni di taglio militare. “Nel prato a pascolare, come al solito?”.
“Questa battuta non fa ridere da parecchio, Steph”, la rimbeccò l’alchimista, le braccia incrociate.
“Stephanie non c’è, ora”, rispose lei secca, alzandosi in piedi. “Solo Critical”.
“Già, vero”, concesse lui con un ghigno. “Lei non farebbe mai una battuta così cretina”.
“Dove sono gli altri?”, domandò Kusanagi, per evitare che i due venissero alle mani. Quando hai a pochi metri di distanza un alchimista e un’ex-supercattiva che per di più possono usare il Cosmo, è tutto nel tuo interesse non farli litigare. “Siamo solo noi sei?”.
“Leone, Scorpione e Vergine stanno scortando la signorina Anthy”, spiegò Critical Maas. “Bilancia come al solito è andato ad infilarsi in qualche grotta per giocare all’eremita… E Sagittario sta cercando Cancro”.
“C-cancro?”, balbettò Ed; all’improvviso, sembrava spaventato. “Perché, è…”.
“Scomparsa di nuovo, sì”, completò per lui il Santo dei Gemelli. “Sai com’è fatta, lei e quel trio di spostati che si porta dietro”.
“E quindi, che facciamo?”, domandò Kusanagi, lo sguardo che si spostava dalla donna agli altri tre Cavalieri d’Oro. “Siamo sei su dodici… Non sarebbe meglio aspettare di essere tutti presenti per una riunione ufficiale? Oppure avete scoperto qualcosa di interessante sul conto di Akio Ohtori?”.
“Il nostro non era un lavoro di investigazione, Kusanagi-san”, rispose Kurama in tono rilassato. “E la signorina Anthy ci ha detto più di una volta che preferisce indagare personalmente su suo fratello, visto che è quella che lo conosce meglio e sa quali sono i suoi schemi di pensiero”.
“E quindi, Gemelli?”, domandò Ed, facendosi avanti, faccia a faccia con la donna (anche se in realtà il suo viso era almeno quindici centimetri più in basso di quello di lei). “Ci hai chiamato qui senza un motivo, solo per dimostrare che essendo il capo potevi farlo?”.
Critical scoppiò a ridere, un suono sprezzante che non sarebbe suonato male in bocca alla cattiva di un film di serie B. “Beh, ovvio, avrei potuto farlo”, rispose, tornando ad accomodarsi sul suo trono. “E l’ho anche fatto, un paio di volte”. Tacque, e Ed e Kusanagi iniziarono a pensare che avesse finito. Dopo essersi riaccomodata, però, riprese a parlare. “Ma non è questo il caso”.
“Potresti anche piantarla di essere così criptica e dirci quello che devi”, ribatté l’alchimista.
Critical si appoggiò contro lo schienale, la schiena lievemente inarcata, e fissò il ragazzo dall’alto verso il basso. “Perché sei così cattivo, piccolo Ed?”, domandò, in un tono finto contrito. “Vuoi forse privarmi del mio unico divertimento?”.
“A CHI HAI DATO DEL…”.
“Calmati, Ed”, disse Kusanagi, poggiando una mano sulla spalla dell’alchimista. Attraverso il tessuto leggero della canottiera, poteva sentire il braccio metallico vibrare. “È assolutamente inutile arrabbiarsi”.
“Già, piccolo Ed, non fare il bambino; dai retta al tuo fidanzato”, ghignò Critical.
“Santo dei Gemelli, devo richiamarla all’ordine. Sta abusando del suo potere”.
Tutti si voltarono piuttosto stupiti verso Saber, che era rientrata nella sua tipica posa impenetrabile. Molto difficilmente la ragazza parlava, a meno che non le fosse richiesto. Critical era la più sorpresa di tutti: la sua faccia sembrava quella di qualcuno che ha appena sentito un odore sgradevole; dopo qualche secondo, però, riprese contegno. “Hai ragione, Capricorno: mi sono lasciata prendere troppo la mano”, disse, in un tono tanto serio che nemmeno sembrava possibile potesse uscire dalla sua bocca. “Comunque vi ho riuniti qui per un motivo ben preciso, stavolta. Ho delle fonti, sparse in giro per l’Universo; fonti affidabili, nel caso ve lo stiate chiedendo, e che ci tengono a rimanere anonime. E beh… Pare che una di queste fonti abbia ottenuto delle informazioni importanti su un pianeta scoperto di recente”.
Gli altri cinque Santi erano improvvisamente molto attenti. “Aspetta, Gemelli”, disse Gray, come al solito con indosso solo i pantaloni. “Stai parlando di…”.
Lei annuì. “Sì. Intendo proprio quella. La Civiltà Perduta”.
ELENA: La nostra salvatrice è stata davvero formidabile!
RICCARDO: Spero che la prossima volta troveremo anche qualcuno che possa addestrare me, però…
MARCO: Io invece mi auguro che facciano vedere anche me e Pietro; più che essere attaccati da un vaso di fiori stavolta non abbiamo fatto.
PIETRO: Sì, dai, di sicuro ci sarà spazio anche per noi!
MARCO: Ti vedo stranamente ottimista...
RICCARDO: Il settimo capitolo di “Il cielo è un’ostrica, le stelle sono perle”, si intitola “Dallo splendente mare al mare”. Non perdetelo o verremo a casa vostra a pestarvi!
ELENA: Come mai questo titolo poetico?
MARCO: In realtà pare sia un indizio sul personaggio che apparirà la prossima volta, ma è abbastanza incomprensibile…
Ed eccoci di nuovo qui, con il sesto capitolo! Finalmente la parte introduttiva è conclusa e si inizia un po’ a entrare nel vivo delle vicende… circa. La verità è che per il momento continuano a saltare fuori un sacco di nuovi personaggi, eh?XD
Ah, piccola precisazione: teoricamente l’arciera che compare in questo capitolo viene dal manga “Drifters” di Kouta Hirano… Il problema è che il personaggio in questione nel manga è disegnato in maniera abbastanza ambigua, e quando lessi i primi capitoli pensai che fosse una donna. Cosa che invece non è.XD Dopo che scoprii l’amara verità, però, decisi di lasciare le cose come stavano; quindi è vero che l’ispirazione per il personaggio viene da quel manga, ma si tratta in effetti di qualcosa di diverso. Spero sia tutto chiaro!
E ora passiamo alle risposte alle recensioni!
Per Morens95: guarda, per me Fullmetal Alchemist è solo ed esclusivamente la prima serie animata. Fine. Il manga e Brotherhood non mi piacciono e faccio semplicemente finta che non esistano.XD
Per Anonimo: Sì, la citazione del titolo viene da Abenobashi ma è tutto qua.XD Vediamo se stavolta ci azzecchi, invece!
Comunque vabbé, chissà se Shin sarà contento di avere almeno un fan!
Saluto di nuovo anche AyuChan Uchiha, visto che so che attendeva questo capitolo!^^/
E anche per stavolta abbiamo finito! Al prossimo capitolo, vi aspetto!
Davide
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Parte Prima, Capitolo 7 - Dallo splendente mare al mare ***
CAPITOLO SETTIMO – DALLO SPLENDENTE MARE AL MARE
Alex Louis Armstrong, come al solito, era a petto nudo. C’era da chiedersi come si sarebbe comportato se fosse stato destinato in missione su qualche pianeta av
volto da un’era glaciale; probabilmente si sarebbe lasciato congelare in una posa artistica, piuttosto che nascondere i muscoli di cui andava tanto fiero.
La cosa, manco a dirlo, infastidiva a morte la presidentessa Calvin. Silente, perciò, era parecchio tollerante a riguardo, per il solo gusto di indispettirla.
“Voleva parlarmi, professor Silente?”, disse l’Alchimista Nerboruto, flettendo un paio di volte i suoi colossali bicipiti per buona misura. I due si trovavano nello studio del capo dell’esercito della Confederazione, un luogo sobrio e discreto, se si riusciva a non fare caso alle gigantografie dello stesso Armstrong sparse in giro per le pareti.
In una faceva l’occhiolino, e lo sguardo di un’altra sembrava seguirti lungo la stanza.
“Innanzitutto, volevo ringraziarla per aver ottemperato alla mia richiesta di invio di una delle flotte con tanta rapidità, ammiraglio”, disse l’anziano mago. “Soprattutto visto il poco preavviso che le avevo concesso”.
“Non si preoccupi, professore”, rispose Armstrong, i pettorali bene in vista. “D’altronde, le dovevo più di un favore”. Altra posa da culturista. “C’è altro che deve dirmi?”.
“Volevo soltanto sapere quale delle flotte avesse inviato alla difesa di quella Terra. Immagino non sia la prima, visto che lei si trova qui”.
Armstrong si bloccò a metà di una flessione. “Ecco…”, disse, la voce possente che sfumava in un borbottio sotto i notevoli baffi biondi. “Il motivo percui ho potuto mandare una flotta così in fretta è perché… ho inviato la terza”.
Il sorriso di Silente si incrinò, ma solo di poco. “Ah”, disse. Nessuno dei due si preoccupò di colmare il vuoto imbarazzato che ne seguì, almeno per qualche secondo. “Beh, quantomeno non si può dire che non sia gente dedita al proprio lavoro”, concluse il preside di Hogwarts in tono diplomatico.
Sigla d’apertura: The Star-Spangled Banner, di John Stafford Smith
“Io sono l’eroe!”.
Le prime volte che America aveva fatto quell’annuncio, sguardo fiero, posa drammatica, dito puntato al soffitto nel bel mezzo della sala di comando, i suoi sottoposti lo avevano guardato con interesse, perplessità, o addirittura con terrore.
Dopo che però avevano capito che lo spettacolo veniva ripetuto almeno cinquanta volte al giorno – in un paio di occasioni anche durante il sonno, mentre era preda di un attacco di sonnambulismo – l’equipaggio della America the Beautiful aveva completamente smesso di farci caso. Per molti, anzi, la cosa iniziava a diventare seccante.
“Capitano, siamo arrivati alle coordinate indicate”, disse Kaere Kimura, in tono annoiato.
Tabitha Smith, seduta nella postazione accanto alla sua, stava ruminando una gigantesca gomma da masticare con aria intenta. “Nesshun pboblema rischontrato, lol”, biascicò, punteggiando il commento con un enorme bolla rosa che esplose qualche secondo dopo.
“Non vedo che problema avrebbe dovuto esserci!”, esclamò America convinto. “In fondo, io sono l’eroe!”.
“Lo sappiamo, lo sappiamo…”, ripeterono le due.
“Credi che potremmo fargli causa per stupidità congenita?”, domandò poi a bassa voce Kaere.
Tabitha fece spallucce, poi spinse il chewing-gum in un angolo della bocca. Sembrava qualcuno con un enorme ascesso. “Mah, prova. Tanto riescono a spillare soldi alla gente per i motivi più cretini”.
America, intanto, si era avvicinato all’enorme visore dell’America the Beautiful e fissava il pianeta azzurro che ruotava pigro davanti a lui con aria fiera. “Mi è stato dato il compito di proteggere questo mondo, e lo farò anche se dovesse costarmi la vita! Perché io…”.
“… sono l’eroe, sì”, lo anticiparono Tabitha e Kaere.
“Ehi! Sono il vostro capitano, vedete di non mancarmi di rispetto!”.
“Capitano, piuttosto”, intervenne Nice Holystone, mezza sdraiata su una delle poltrone della sala di comando. “Non è che ci sarà occasione di combattere un po’, stavolta? Non abbiamo ancora avuto occasione di usare nemmeno uno dei missili che ho progettato…”. Sembrava davvero delusa dal fatto che non avessero dovuto mai bombardare nessuna flotta nemica.
“Nice, per favore…”. Jacuzzi Splot era in piedi a fianco della dinamitarda, la pelle pallida del viso quasi verdastra a causa del grosso tatuaggio grigio che gli copriva la guancia sinistra. Sembrava sul punto di piangere… ma in effetti questo succedeva praticamente sempre. Mentre parlava, continuava a gesticolare come se stesse cercando di scacciare delle mosche immaginarie.
Il sesto occupante della stanza, come al solito, se ne stava in un angolo sorridendo timido e sperando ardentemente che qualcuno lo notasse. Il settimo occupante stava in braccio al sesto; ogni tanto sollevava gli occhi verso il suo proprietario e borbottava qualcosa.
Nessuno, comunque, sembrava considerarli di un’occhiata.
“Comunque, capitano”, riprese Nice, sistemandosi un po’ meglio sulla poltrona. “Adesso che siamo arrivati, che facciamo? Stiamo semplicemente qui a guardare la Terra che gira?”.
America smise di contemplare lo spettacolo dello spazio profondo davanti a lui e si voltò lentamente. Dietro gli occhiali dalle lenti rettangolari gli occhi azzurri erano spalancati in un’espressione di improvvisa consapevolezza. “A dire il vero, non ci avevo proprio pensato”, mormorò.
Tabitha si voltò verso Kaere. “Nel caso ti servisse ancora una conferma, sì, il nostro capitano è un idiota”.
“Beh, voglio dire, l’ammiraglio Armstrong le avrà detto qualcosa, no?”, domandò la dinamitarda di bordo.
“Ecco, ehm, io…”.
Il flusso di pensieri di America era un luogo pericoloso in cui avventurarsi. Prima di tutto, c’erano confezioni vuote di hamburger e lattine di Coca-Cola sparse un po’ ovunque, e un’enorme figura vestita con una tuta da sentai e una sciarpa intorno al collo incombeva sul luogo. Inoltre, c’era un sacco di rumore di fondo.
“Capitano Jones”, stava dicendo l’ammiraglio Armstrong nel ricordo di America. Ovviamente a torso nudo come sempre. “Ora che le ho consegnato le coordinate della missione, le spiegherò cosa dovrà fare una volta giunto sul posto. Stia molto attento, il professor Silente è stato preciso a riguardo, ed è estremamente importante che lei segua le istruzioni alla lettera”.
“Ha la mia completa attenzione”, rispose America.
È ovvio che abbiano affidato a me una missione tanto importante! D’altronde, io sono l’eroe! E se continuo così riuscirò a mettere abbastanza soldi da parte da costruire il robot gigante dei miei sogni, grande a sufficienza da proteggere tutto l’Universo! E ovviamente sarò io a pilotarlo, perché io sono l’eroe, e non potrebbe essere altrimenti! In effetti dovrei avere ancora il progetto qui da qualche parte… Ma non importa, posso sempre rifarlo! E sarà molto più bello e molto più potente quello vecchio! A proposito, ho proprio voglia di un hamburger. O forse di un doppio cheeseburger. Quante volte avrò già chiesto al Consiglio se possono far aprire un McDonald anche qui su Eidolon? Ah, ma un giorno dovranno darmi ascolto, già già. Perché io sono l’eroe!
“È tutto chiaro, allora, capitano Jones?”, disse Armstrong. “Vedo che sta annuendo, quindi immagino di sì”.
“Eh? Ah, certo, certo! Ovvio che ho capito!”.
“Ha capito cosa, capitano?”, domandò Nice. Tutti, nella sala di comando dell’America the Beautiful, stavano fissando America con tanto d’occhi.
“Ahahahahahahahah!”. L’uomo scoppiò in una risata tanto forte da far quasi vibrare lo schermo del visore. “Nulla di importante, nulla di importante! Ma ora, operatrici, ho bisogno che facciate qualcosa di fondamentale!”.
“Si è ricordato che cosa dobbiamo fare qui?”, domandò Tabitha, speranzosa. “Tipo, possiamo andare a fare un po’ di shopping?”.
“Dovete contattare i capitani di vascello delle altre navi”, spiegò America, continuando ad annuire convinto. “Ho bisogno di un briefing, prima di decidere come dobbiamo comportarci”.
“Wow, per una volta sembra davvero un capitano normale”, bisbigliò la mutante alla sua collega.
“È solo un’impressione”, le rispose Kaere, premendo con aria svogliata un bottone. “Ecco, ora siamo in comunicazione con le quattro navi della flotta”.
Il grosso schermo che prima ospitava l’immagine della Terra ora era diviso in quattro parti, occupate da altrettante figure. Nelle due sezioni superiori erano affacciati una splendida donna dai capelli biondi e penetranti occhi azzurri, abbigliata con un costume bianco che lasciava davvero poco all’immaginazione, e un giovane uomo dall’espressione buffa, dietro al quale una donna dai ricci biondo miele stava contando con aria affannosa mazzi di banconote. In basso, invece, trovavano posto un ragazzo dai capelli dritti sulla testa e con indosso un variopinto costume da supereroe, maschera compresa, e uno di quelli che vengono comunemente chiamati “grigi”: un alieno dall’enorme testa, occhi a mandorla, pelle per l’appunto color cenere e mani dalle lunghe dita.
“Iniziavamo a chiederci quando ci avrebbe contattato, capitano”, disse l’uomo dalla faccia simpatica. “Guardare la Terra dall’orbita è sempre un bello spettacolo, ma sa come si dice, una volta che ne hai vista una le hai viste tutte”, e ridacchiò fra sé.
“Xander, ti ricordi dove ho messo la calcolatrice?”, domandò la donna sullo sfondo.
“Non adesso Anya, sto lavorando…”, borbottò lui. “Non puoi semplicemente guardare nell’ultimo posto in cui l’hai messa?”.
Il volto di lei si illuminò. “Ehi, hai ragione! Ogni tanto hai davvero delle idee geniali”. E dopo avergli schioccato un bacio sulla guancia uscì dall’inquadratura.
America incrociò le braccia al petto, fissando lo schermo con aria fiera. “Bene, eccovi tutti qui! Capitano Frost”, la donna bionda annuì con grazia. “Capitano Harris”, Xander sollevò due dita davanti allo schermo in segno di vittoria. “Capitano Grayson”, il ragazzo mascherato non sembrava molto contento, ma fece comunque cenno di sì. “Capitano Tony”, l’alieno sventolò una manina grigia. “Vi ho contattati per un motivo della massima importanza”. E tacque.
“Beh… e quale sarebbe questo motivo, capitano?”, domandò Xander qualche secondo dopo.
America sbuffò. “Ehi, mi hai rovinato la pausa ad effetto! Comunque, beh, tanto vale che ve lo dica…”. Tutti erano in attesa di sapere che cosa avrebbe detto l’uomo. “Stavo pensando di organizzare una festa… Avete qualche idea sul tema che potremmo scegliere?”.
“Zomg, una festa!”, esclamò Tabitha, alzandosi in piedi. Sembrava eccitata all’idea.
“Basta! Non sopporto di essere presa in giro!”. Anche Kaere si era alzata in piedi. Ma più che eccitata sembrava furibonda. Puntò il dito contro America. “Senta, capitano, non gliel’ho mai detto prima ma penso che lei sia un deficiente senza speranza. E ora, se non le dispiace, noi ce ne torniamo nei nostri alloggi. Vieni, Tabitha”.
“M-ma…”, mormorò la mutante, con degli occhioni da cucciolo abbandonato. “La festa…”.
“Ho detto vieni”.
Le due si alzarono e si diressero verso l’uscita della sala di comando, davanti allo stupore di tutti i presenti; accanto alla porta, però, Kaere si scontrò contro qualcuno. “Aaaaaaaaaaaaaaaah!”, gridò, cadendo in avanti; ovviamente la corta gonna che indossava si sollevò, permettendo a tutti di osservare le sue mutandine bianche decorate con un motivo a ciliegie.
“Davvero una bella scelta per la biancheria, Kimura!”, esclamò America, a cui l’insulto era entrato da un orecchio e uscito dall’altro, con entrambi i pollici sollevati.
“IO LA DENUNCIOOOOO!”, gli gridò contro la ragazza, prima di uscire dalla stanza come una furia.
Tabitha, dal canto suo, si fermò un attimo a soccorrere chi era stato investito. “Tutto bene, comandante Kumajiro?”, domandò al cucciolo di orso polare, senza minimamente badare all’uomo che lo teneva in braccio.
“Sì, non c’è male…”, borbottò l’animaletto, annuendo con gravità.
Quando le due furono uscite, Canada si afflosciò contro la parete, senza perdere il suo sorriso timido. “Un giorno si accorgeranno di me, lo so…”, si disse, per farsi un po’ di coraggio.
Kumajiro alzò la testolina pelosa. “Scusa, ma tu chi saresti, esattamente?”.
“E quindi, come hai detto di chiamarti?”, domandò Haruhi all’arciera in bianco. Da non si sapeva bene dove aveva tirato fuori un block notes e una matita, e ora attendeva con aria attenta come una giornalista a caccia di qualche gustoso scoop.
La donna sorrise, scostandosi un ciuffo di capelli scuri dalla fronte. “Nasu no Yoichi, per servirvi”.
Haruhi scribacchiò qualcosa sul suo blocchetto, poi sembrò colpita da un’improvvisa epifania. “Ehi, aspetta un attimo, credo di conoscere abbastanza bene la storia giapponese per sapere che Nasu no Yoichi era un uomo!”.
Il ghigno sul volto dell’arciera non si spense. “Beh, non su tutte le Terre la storia è andata nella stessa maniera. Sei il capitano di una delle navi della Grande Flotta di Ricerca, dovresti saperlo tu meglio di me”.
“E tu mi sembri anche troppo informata a riguardo”, ribatté Haruhi, la fronte aggrottata.
“Sono una mercenaria, più cose so più possibilità ho di sopravvivere fino al prossimo lavoro”, spiegò Nasu no Yoichi con una scrollata di spalle. “E a proposito di questo, parliamo del mio compenso…”.
“Compenso? Veramente non ti abbiamo ancora assunta”.
“Sbaglio o vi ho salvato la vita?”.
“Guarda che non te l’abbiamo mica chiesto noi!”.
“Avrei potuto sempre far fuggire quegli idioti dopo che vi avevano accoltellato e rubare tutti i soldi dai vostri cadaveri ancora caldi… Direi che sono stata anche fin troppo gentile”.
“E va bene, va bene… Quanto vuoi?”.
“Mille crediti mi sembrano un prezzo onesto, che dici?”.
“Stai scherzando?! È un furto!”.
“Senti, avrei potuto chiedervi mille crediti a testa”.
Haruhi, messa alle strette, capitolò. “D’accordo, ma detrarrò il tutto dai loro stipendi”.
“Ehi!”, intervenne Riccardo, che fino a quel momento si era goduto in silenzio insieme ad Elena la discussione fra le due donne. “E noi che c’entriamo, scusa?”.
“Non si era detto che avreste pagato voi le spese per i vostri istruttori?”.
Yoichi fece un passo in direzione del gruppetto. “Istruttori?”, domandò, piuttosto sorpresa. “Non mi state arruolando per combattere?”.
Haruhi la fissò, la testa leggermente inclinata verso la spalla destra. “No, è che ci serve qualcuno che renda lei capace di tenere in mano un arco”, e puntò la mano chiusa a pugno dietro di sé, indicando Elena con il pollice teso.
“Ehi, io so già come si tiene in mano un arco!”, rispose la diretta interessata, che però tacque quando si accorse che Nasu no Yoichi le si era avvicinata e la stava fissando con l’aria di una casalinga che esamina i tagli di manzo al banco di una macelleria.
“Uhm…”, mormorò la donna dopo qualche secondo. “Beh, non credo che potrò fare miracoli ma quantomeno a scagliare una freccia dovrei riuscire a insegnarti”.
“Ma io…”, tentò di protestare Elena, prima che la donna la interrompesse.
“Non mi interessa quello che già credi di saper fare. Per quanto mi riguarda, puoi pure dimenticartelo, visto che ripartiremo dalle basi”. Yoichi si voltò verso Haruhi. “Senti, facciamo che il salvataggio vi costerà solo cinquecento crediti, giusto perché mi siete simpatici. Ora però perché non andiamo alla vostra nave? Girare qui nei bassifondi non è il massimo della sicurezza, come avrete capito”.
“Lo faremmo anche, ma prima dobbiamo trovare anche un istruttore per Riccardo”, spiegò Elena.
“Magari un maestro di spada!”, esclamò il ragazzo, speranzoso.
Nasu no Yoichi ridacchiò. “Maestro di spada, hai detto?”, ripeté. “Credo di conoscere la persona giusta…”.
“E dunque, come troviamo la bacchetta che fa per noi?”, domandò Marco a Olivander. “Dobbiamo provarle come aveva fatto Harry quando è venuto qui la prima volta, finché non scopriamo qual è quella giusta?”.
Il vecchietto sventolò la mano, in un gesto quasi di fastidio. “No, no, non sia mai! Ora ci siamo un po’ modernizzati, per fortuna. Venite, venite di qui”, e condusse i due giovani in un angolo della bottega, davanti ad un enorme macchinario dall’aria inutilmente complicata, ai lati del quale erano due poste due rozze sedie di legno. “Ecco, accomodatevi a turno qui, così ce la sbrighiamo in fretta”.
Beh, non è che entrando abbia visto chissà quale fila di clienti alle nostre spalle..., pensò Marco, accomodandosi sulla sedia. Subito dopo sobbalzò, perché dall’apparecchio era fuoriuscito con uno scatto rugginoso una sorta di binocolo che era schizzato in avanti e si era fermato a pochi centimetri dalle sue orbite.
“Prego, ragazzo, guarda nei due visori…”, disse Olivander, che intanto continuava ad armeggiare con l’altro lato della macchina. Dai suoni che stava emettendo, sembrava stesse scuoiando dei toporagni.
Marco avvicinò gli occhi al binocolo. “È normale se non vedo niente?”.
“Dammi un attimo”, rispose il vecchietto, sbuffando. “È da poco che ho questo affare, non sono ancora riuscito a capire come avviarlo al primo colpo…”.
“Dev’essere dura per voi maghi, con tutta questa tecnologia che vi è piombata addosso…”, osservò Pietro.
“Tecnologia? Ah, no, no, questo funziona attraverso una magia tremendamente complicata, tanto che ho dovuto farmela fabbricare su misura… Ma capisco che possa trarre in inganno. D’altronde qualsiasi magia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla tecnologia”.
Qualcuno schioccò le dita. “Ma certo!”, esclamò Pietro. “La legge di Niven!”.
“Non stiamo facendo un test, Riguardi”, lo freddò Piton. “Se ti fossi messo a sventolare il braccio avrei creduto di trovarmi di fronte alla versione maschile della Granger”.
“Sentite, io qui continuo a non vedere nulla…”, intervenne Marco a voce bassa, come se temesse di disturbare.
“Ah, ma non preoccuparti, abbiamo già finito!”, esclamò Olivander, estraendo dalla macchina una strisciolina di carta coperta da lettere minuscole. “Adesso vediamo di trovare una bacchetta adatta a te, eh…”, e con l’agilità di una scimmia ragno iniziò di nuovo ad abbarbicarsi alla sua scala.
“Ma è sicuro che andasse bene così?”, chiese il ragazzo, staccando gli occhi dall’inutile binocolo. “Non ci ho visto assolutamente nulla, lì dentro”.
“Ovvio”, gli fece eco l’ometto. “L’importante era che ci vedessi qualcosa io”. E detto ciò, estrasse uno dei minuscoli cassetti che punteggiavano la parete, provocando una discreta pioggia di polvere. “Cribbio, è davvero da parecchio che non faccio pulizie, qui dentro”.
Sì, probabilmente dal Mesozoico, pensò Marco, guardando alle pietose condizioni del pavimento (su cui ora erano sparsi anche i resti del vaso da fiori assassino). Stava ancora cercando di capire se quello in uno degli angoli fosse un grosso ragno o semplicemente un enorme bioccolo di polvere, quando si sentì toccare timidamente il braccio. Olivander gli stava porgendo una scatola di legno lunga e stretta, di quelle con il coperchio sfilabile. Com’era logico aspettarsi, conteneva una bacchetta.
“Dodici pollici e un quarto, frassino, rigida”, elencò il vecchietto con aria di malcelata fierezza. “Come anima ha una piuma di fenice. Considerato anche l’albero da cui proviene, credo sia proprio la bacchetta adatta ad un guaritore”.
“Ma cos’è, vi siete messi tutti d’accordo!?”, esclamò Marco, decisamente scocciato. Ciononostante impugnò la bacchetta; non ci fu alcun effetto scenografico mentre provava ad agitarla, niente pioggia di scintille, niente luci traballanti, ma Olivander sembrava comunque molto soddisfatto.
Cinque minuti dopo, anche Pietro era stato sottoposto al macchinario, e stringeva in pugno la propria bacchetta. “Tredici pollici, salice, abbastanza flessibile, crine di unicorno”, stava spiegando Olivander. “Credo fosse una femmina… Sì, era un unicorno femmina, ne sono sicuro”. Marco intercettò un ghigno che passò per un attimo sul volto di Piton. “Comunque, in tutto sono quaranta Galeoni”.
“Uhm… quanto viene in crediti?”, domandò Pietro, alzando gli occhi come per prepararsi a calcolare il cambio monetario.
“Non preoccupatevi, faccio io”, disse Severus, cavando di tasca un sacchetto di cuoio nero. “Ovviamente, mi restituirete l’intera cifra”.
“Ovviamente…”, rispose Marco in tono depresso. Credevo di essere io quello attaccato ai soldi, ma tutti qui sembrano molto peggio. E ancora non sappiamo nemmeno a quanto ammonta il nostro stipendio!
“E ora che facciamo?”, domandò Pietro, occhieggiando il mare di folla all’esterno attraverso le vetrine sporche.
“Torniamo all’astronave, ovviamente”.
“Perché? Non possiamo almeno dare un’occhiata a qualche negozio qui intorno? Anche uno solo!”.
Piton, ignorando totalmente le lamentele, prese i due ragazzi per le spalle e iniziò a condurli fuori dal negozio. “Arrivederci, Olivander”, disse in tono secco, arrivato sulla soglia.
“Tornate presto!”, esclamò il vecchietto, sventolando energicamente una mano.
Una volta che i tre furono usciti, l’uomo fece voltare Marco e Pietro verso di sé. “Come ho detto, ora torneremo all’astronave, e”, rimarcò, per spegnere sul nascere le possibili obiezioni. “Non ho intenzione di recedere dalla posizione. O vi siete già dimenticati che qualcuno sta cercando di uccidervi? Quindi, finché non avremo qualche informazione su chi vi ha mandato contro quegli Heartless sarebbe meglio se vi faceste notare il meno possibile. Intesi?” .
Lo sguardo scuro e penetrante di Piton costrinse Marco ad abbassare gli occhi. “D’accordo, ma…”, mormorò.
“Sbaglio o ho detto che non cambierò idea?”.
“No, è che, sa… Le chiavi della nave le ha il comandante Kyon…”.
“Quanto manca?”, domandò Haruhi, mentre svoltava nell’ennesimo vicoletto. I quattro avevano ripreso il cammino da meno di cinque minuti, ma il capitano sembrava già stanco.
Nasu no Yoichi, alla testa del gruppo, scrollò le spalle. “Siamo quasi arrivati, non ti preoccupare. Ma vi devo avvertire, si tratta di una persona, beh… Parecchio particolare”.
“In che senso?”, domandò Riccardo.
La donna indicò le pareti della stradina. “Vedi quelle strisciate rosso scuro? Le ha fatte lui, con il sangue”.
“S-sangue?”.
“Sì. E ovviamente non è il suo”.
“Oh”.
“Capitano, credo sia meglio tornare indietro”, bisbigliò Elena nell’orecchio ad Haruhi. “Questa ci sta portando da un pazzo furioso che squarta la gente!”.
“Nah, che dici?”, rispose l’altra con un tono di voce abbastanza forte da poter essere sentito a un paio di isolati di distanza. “Sono sicura che è solo il tipo che ha sofferto molto quando era bambino e che fa questo tipo di cose solo per farsi notare, quindi basterà dimostrargli che siamo suoi amici e che gli vogliamo bene”.
“Credo che una cosa del genere potrebbe funzionare soltanto se ci trovassimo in “Rave”…”, osservò debolmente Riccardo, che stava fissando le chiazze di sangue con gli occhi spalancati.
“Ehi, Ken-chaaaaaaaaan! Sembra che arrivi qualcuno!”.
Da dietro l’angolo successivo del vicolo si era levata un’acuta voce infantile, seguita da uno scalpiccio di passi.
“Perfetto, ci hanno sentito”, disse Yoichi. “Beh, visto il tono di voce medio del vostro capitano, mi stupisco che non lo abbiano fatto prima…”.
“Ehm… Sentite, non so se sia normale, ma…”. La voce di Riccardo fece voltare l’arciera e Haruhi; i due terrestri erano rimasti indietro di qualche passo, pallidi in volto. Elena aveva il piede destro sollevato, bloccata a metà di un passo. “Ecco, credo che avete capito”. Sulla fronte del ragazzo apparve un’enorme goccia di sudore, che gli scese fino al naso, andando a riposare sulla punta.
“È come se ci fosse una barriera che ci impedisse di avanzare”, spiegò Elena, stringendo i denti.
“Dite? Io non sento nulla”, rispose Haruhi, guardandosi intorno. “Non è che avete paura di incontrare il maestro di spada e avete messo su ‘sto teatrino?”.
“È semplice pressione spirituale”, spiegò Yoichi. “Anche io la sento, molto leggermente. Mi chiedo come tu invece non riesca a sentirla del tutto capitano… Certo che sei davvero un bel tipo!”.
Dal fondo del vicolo spuntò una bambina, con un abito nero molto simile ad un kimono e una capigliatura di un’improbabile sfumatura rosa intenso. Si trascinava dietro una spada. Una spada con delle piccole rotelle, per di più. “Eccoli, Ken-chan, te l’avevo detto che c’erano delle visite!”, esclamò, puntando un dito verso i quattro.
“M-ma quella è Yachiru!”, riuscì ad esclamare Riccardo, nonostante la pressione si facesse ogni secondo più intensa. “Allora questo vuol dire che…”.
“E voi chi cazzo sareste, eh? A guardarvi nemmeno vale la pena di uccidervi, quasi”.
Da dietro l’angolo era apparso un gigante di più di due metri, reso ancora più alto dalla bizzarra pettinatura a raggiera adornata da minuscoli campanelli. Uno dei suoi occhi era coperto da una benda, e la sua bocca era contorta in un ghigno maniacale che lasciava scoperti denti che non avrebbero sfigurato nella bocca di qualche carnivoro africano; indossava un kimono molto simile a quello della bimba, e la sua enorme spada gli picchiettava piano contro la spalla.
“Incredibile! È proprio Zaraki!”, esclamò Riccardo, apparentemente incurante del fatto che lo shinigami aveva appena dichiarato di volerli ammazzare. Anzi, sembrava un bambino che all’improvviso si trovi faccia a faccia con il proprio supereroe preferito.
“Ken-chan, quel tizio con quel brutto vestito ti conosce!”, esclamò Yachiru, arrampicandosi con una rapidità da scimmia ragno sulla spalla dell’uomo, che anche con una bimba abbarbicata sulla schiena, continuava ad essere minaccioso.
Haruhi gonfiò le guance, in preda alla rabbia. “Ehi! Come ti permetti di dire che le uniformi che io stessa ho disegnato sono brutte, eh?”, fece addirittura un paio di passi in direzione di Zaraki, incurante del fatto che lo shinigami aveva una grossa spada e non sembrava farsi nessun problema nell’usarla per fare a pezzi la gente. “Vieni qua a dirlo, se hai il coraggio! Guarda che non mi faccio problemi solo perché sei una bambina, sai?”.
Per fortuna Nasu no Yoichi decise di intervenire, prima che le interiora di qualcuno dei presenti venissero usate per ritinteggiare le mura circostanti. “Zaraki-san, è un po’ che non ci vediamo”, disse, parandosi davanti all’uomo; non era per nulla intimorita dalla tremenda aura combattiva emanata da Kenpachi, ma paradossalmente nessuno nel vicolo lo era: Haruhi era arrabbiata per l’osservazione alle sue amate uniformi, Riccardo stava per entrare in una fase alla Nagi, con tanto di stelline inquietanti negli occhi, mentre Elena era semplicemente perplessa dalla situazione, lo sguardo che si muoveva da una persona all’altra nel vago tentativo di capirci qualcosa.
Zaraki abbassò gli occhi sull’arciera. “Donna”, disse, anche se non era ben chiaro se si trattasse di fastidio o di leggera approvazione. “In effetti è passato almeno un anno… Credevo fossi morta”.
“Mi sottovaluti, Zaraki-san”, rispose lei, ricambiando il ghigno ferino dell’uomo con un’espressione adeguata. “Pensi che abbattere un gruppetto di Zerg sia un problema così grosso, per me?”.
Zaraki strinse la mano contro l’elsa della spada. “Perché hai portato qui quei tre, comunque? Uccidere chi non può farmi divertire non mi interessa”.
“Mi sembra ovvio il perché siamo qui”, rispose Haruhi, dopo essersi schiarita la voce. “Lei è un mercenario, no? Quindi vorremmo assoldarla”.
Zaraki piegò la testa all’indietro e rise, un suono profondo e roco che penetrava nelle ossa. “E cosa sei venuta a offrirmi, ragazzina? Soldi, forse?”.
“Ehi, avete sentito?”, esclamò Haruhi, voltandosi verso i suoi sottoposti. “Questo lavora gratis, non dovrete rinunciare al vostro stipendio!”. Poi tornò a rivolgere la sua attenzione a Zaraki. “Allora, cosa vuole? Posso farle preparare qualsiasi incantesimo in meno di ventiquattro ore”.
Il ghigno di Zaraki si allargò pericolosamente. “Tutto quello che voglio”, disse. “È divertirmi”. Dal modo in cui aveva posto l’accento sulla parola era palese che la sua idea di divertimento comprendesse sangue, arti mozzati e qualche sbudellamento giusto per gradire.
Haruhi, come al solito, non afferrò. “Sei fortunato! Cosa, là dietro, conosce un sacco di barzellette”.
“Ehi! Non è assolutamente vero!”, ribatté Elena, in un tono molto più acuto rispetto al solito.
“Voglio che qualcuno riesca a farmi divertire”, ripeté Zaraki. Sulla sua spalla, Yachiru aveva tirato fuori da non era chiaro dove un enorme leccalecca azzurro e giallo e lo stava leccando con passione. Il tutto, comunque, non rendeva lo shinigami meno spaventoso “Chi vi ha preceduto non ci è riuscito a sufficienza”, e il suo sguardo saettò intorno, per chiarire meglio il punto.
Gli occhi di Haruhi si spostarono lentamente sulle strisciate di sangue, come se le notasse solo in quel momento per la prima volta. “Oh. Capisco”. Tacque per qualche secondo, e quasi si poteva sentire il suo cervello ticchettare all’impazzata alla ricerca di una soluzione. “Ehi, ci sono!”, esclamò alla fine, estraendo di tasca un cellulare stretto e piatto. Premette un paio di tasti, poi se lo accostò all’orecchio. “Kyon? Senti, sei alla nave?... Ah, ok, siete tutti lì, perciò? Bene, allora vi raggiungiamo”. Infilò il telefono in tasca, poi fissò Zaraki con un sorriso a trentasei denti. “Non è che lei e la sua… ehm, bambina potreste seguirci fino alla nostra astronave? Sono sicura che potremo accordarci, riguardo al suo divertimento…”.
“Uh, io?”, mormorò Russia, indicandosi. Era un omone, ma anche lui accanto a Zaraki sembrava un ragazzino delle medie. “Io dovrei combattere?”.
“E questo idiota sarebbe il mio avversario? Mi stai prendendo per il culo?”, ringhiò lo shinigami ad Haruhi. Praticamente l’intero equipaggio era riunito in uno dei corridoi della Crazy Diamond; tranne Russia, Zaraki, Haruhi e Yoichi, tutti se ne stavano a ragionevole distanza di sicurezza.
“Perché non lo sfidi, prima di parlare?”, rispose il capitano, con aria sicura. “Potete usare una delle stive, tanto sono vuote e c’è un sacco di spazio”, e indicò la porta lì accanto.
“Capitano, so che sono l’ultima arrivata…”, intervenne Yoichi, in piedi a fianco di Haruhi a braccia incrociate come una perfetta guardia del corpo. “Ma davvero pensi che lui sia adatto per…”.
“KolKolKolKolKolKolKol…”.
Tutti si bloccarono. Perfino Zaraki, colto di sorpresa, per un attimo non si ricordò di respirare. Dalla bocca di Russia non era uscita la solita voce, ma un borbottio roco e profondo, che sembrava provenire da qualche sperduto recesso infernale. Sul suo volto continuava ad aleggiare il classico sorrisetto infantile, ma la sua figura era circondata da una malsana area violacea che pulsava e si contraeva come se fosse stata un essere vivente. “In effetti è un po’ che non combatto seriamente”, cantilenò l’uomo; fra le mani gli si era materializzato il lungo rubinetto che usava come arma. “Chissà se sono così arrugginito”.
“Qualsiasi cosa stessi per dire, fate finta di nulla”, disse Yoichi, deglutendo.
Lo shinigami, dal canto suo, sembrava soddisfatto. “Forse stavolta potrei davvero riuscire a divertirmi!”, esclamò, mettendo mano alla spada. “Non vedo l’ora di iniziare!”.
Russia si sfilò dal collo la sciarpa. “Natalia, custodiscila tu”, disse, mettendola fra le mani della sorella.
Bielorussia si portò l’indumento al volto e lo annusò profondamente, con perfetta aria da feticista. “Non preoccuparti, fratello, farò in modo che non le accada nulla!”, esclamò con fervore. “E se dovesse anche farsi solo uno strappetto, ti do il permesso di uccidere tutti i presenti e poi di diventare una cosa sola con me!”. Nella mano libera le era apparso un pugnale affilatissimo, come per dimostrare che faceva sul serio.
L’aura intorno a Russia si afflosciò e diminuì d’intensità. “Basta solo che tu la tenga d’occhio…”, mormorò, improvvisamente intimorito.
“Forza, forza, entrate!”. Haruhi aveva aperto la stiva e fissava i due guerrieri con aria spazientita. “E tu, Bel, metti via quei coltelli, te l’ho già detto un sacco di volte”.
“Non so decidere chi dei due è più spaventoso…”, mormorò Marie, quando la porta si fu chiusa alle spalle di Zaraki. Intanto Yachiru e Bielorussia, a cui non era stato dato il permesso di entrare, si erano sistemate ai due lati della soglia e si fissavano in cagnesco, come se stessero aspettando l’occasione migliore per ammazzarsi.
“Più che altro, perché non siamo potuti entrare a vedere?”, domandò Riccardo, chiaramente dispiaciuto di non poter assistere al combattimento di uno dei suoi eroi.
Haruhi sospirò. “Questioni di sicurezza, mi pare ovvio. Quelli non mi sembrano i tipi che vanno molto per il sottile, quando combattono”.
Per qualche minuto, nessuno osò fiatare; con le orecchie tese, tutti cercavano di capire cosa stesse succedendo nella stiva. “Immagino che queste pareti siano insonorizzate, eh?”, domandò alla fine Marco.
“Ovvio”, rispose Haruhi. “Non sai mai chi o cosa ti tocca trasportare, in fondo”.
Altri dieci minuti di quiete. Era come se delle mani invisibili stessero premendo sulle bocche di tutti, impedendo loro anche solo di bisbigliare. Finché…
“Ehi!”, esclamò il capitano. “Lascia stare la porta, non sai cosa sta succedendo là dentro!”.
Yachiru si era messa in punta di piedi, e stava cercando di raggiungere l’interruttore che sbloccasse la chiusura dell’entrata alla stiva. “Questo lo dici tu, Brutta Uniforme”, le rispose. “Ken-chan ha appena finito”.
“Che c’è, ci hai preso gusto a insultare la mia divisa?”, le gridò contro Haruhi. “E comunque ti ho detto di lasciare stare la…”. Ma alla fine, con un saltello, Yachiru riuscì a premere il pulsante giusto, e la porta scivolò sul suo binario con un leggero sibilo. La bimba corse subito dentro, subito seguita da Bielorussia, ma tutti gli altri rimasero a fissare da qualche passo di distanza il rettangolo disegnato dalla soglia come se fosse una bestia feroce pronta ad ingoiarli.
“Dite… dite che è sicuro?”, domandò Nagi.
“Fratello, che cosa ti hanno fatto?!”. Il grido straziante di Bielorussia ebbe l’effetto di far decidere tutti a riguardo: come una sola persona, si lanciarono nella stanza – tranne Frau Totenkinder, che come al solito si era già materializzata all’interno, sedia a dondolo compresa – e si trovarono davanti ad uno spettacolo molto meno drammatico di quanto avrebbero immaginato: Russia riusciva a reggersi in piedi anche se doveva sorreggersi al suo rubinetto, che ora presentava qualche ammaccatura; ciononostante sorrideva, senza preoccuparsi troppo del fatto che la sorella gli saltellasse intorno continuando a berciare in tono psicopatico.
Zaraki, dal canto suo, pareva messo un po’ meglio, ma aveva comunque il respiro affannoso e un paio delle sue ciocche di capelli che sfuggivano a qualsiasi legge fisica si erano sciolte e ora gli ricadevano sulla fronte, intrise di sudore.
Nessuno dei due era ferito, ma di sicuro non si erano trattenuti.
“È da quando… è da quando ho incontrato Kurosaki che non mi sentivo tanto soddisfatto…”, borbottò lo shinigami, mentre il ghigno da carnivoro riaffiorava sul suo volto.
“Lieto di essere riuscito a divertirla…”, rispose Russia in tono di nuovo acuto e infantile, mentre sua sorella gli drappeggiava di nuovo la sciarpa intorno al collo.
“E quindi?”, domandò Haruhi, frapponendosi fra i due. “Accetterà la nostra richiesta?”.
Zaraki la fissò, e lei mantenne lo sguardo fermo. “Sì… Sempre che mi capiti ancora l’occasione di divertirmi allo stesso modo…”.
“Evvai!”, esclamò Pietro, alzando le braccia al soffitto. “Abbiamo tre nuovi membri dell’equipaggio! Se fossimo in un RPG, adesso a schermo apparirebbe la scritta “Yoichi, Zaraki e Yachiru sono entrati nel gruppo”.
Un momento di silenzio sul gruppo.
“Al prossimo commento da nerd, ti sbatto fuori dalla nave”, disse Haruhi in tono serio.
MARCO: E così si conclude il capitolo più lungo fino ad ora!
PIETRO: Non è giusto, il capitano è stato cattivo con me…
MARCO: Ehi, non pensare di poter usare questo spazio per frignare, eh? E comunque abbiamo due ospiti, stavolta!
YACHIRU: Io sono venuta solo perché mi hai detto che c’erano delle caramelle.
RICCARDO: Wow, c’è anche Zaraki-san!
MARCO: Beh, gli ospiti sono due, appunto…
ZARAKI: L’ottavo capitolo di “Il cielo è un’ostrica, le stelle sono perle”, si intitola “La tesi dell’insegnante crudele”. Vedete di esserci, o verrò a casa vostra per squartarvi.
YACHIRU: E io ruberò le vostre caramelle!
PIETRO: Beh, oddio, in teoria se uno è stato ucciso delle caramelle gliene importerà ben poco, credo…
Ta-daan! Ecco qui un nuovo capitolo. Finalmente l’equipaggio si allarga ancora un po’, e ovviamente le aggiunte non sono finite qui!
Un paio di precisazioni:
- “Dallo splendente mare al mare” è la traduzione italiana di un verso di “America the Beautiful”, una canzone americana che dà il nome anche all’astronave di America, appunto. In effetti era abbastanza incomprensibile, come anche Marco faceva notare nelle anticipazioni!XD
- Pietro cita la Legge di Niven, che afferma “Ogni magia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla tecnologia”, che deriva dalla Terza Legge di Clarke che invece afferma “Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia”. E diciamo che nell’universo della nostra storia, entrambe le leggi sono validissime!
E ora, l’angolo delle risposte!
Per Anonimo: Stavolta no, non ci hai preso!XD A dire il vero ancora non so chi esattamente apparirà dei personaggi di Kingdom Hearts… Heartless a parte, intendo.
Shin puccioso? Beh, essendo un po’ tsundere può risultare moe, quindi volendo uno potrebbe catalogarlo come puccioso… Basta non dirglielo in faccia o potrebbe decidere di affettarti!XD
Per Morens: Ecco, lo sapevo che sbagliavo gli anni!XD Adesso non li metto più i numeri, così almeno non rischio di sbagliare.U_U
Come conosco Mirai Nikki? Nello stesso modo in cui conosco un sacco di altri anime e manga mai arrivati in Italia: Internet! Per fortuna che esiste il Web, sennò non potrei leggere e vedere un sacco di opere meritevoli che in Italia per un motivo o per l’altro ancora non sono arrivate.*_*
Marco shinigami, intendi? E’ un’idea… Ma no, ti posso anticipare già che nessuno dei quattro protagonisti diventerà uno shinigami. Comunque non ci sei andato lontanissimo, in un certo senso!
E come sempre un saluto ad AyuChan Uchiha, a Suikotsu a cui faccio un in bocca al lupo per gli esami e anche a Ikarikun che ha aggiunto la storia fra le seguite. Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto!
Ci vediamo con l’ottavo, allora!
Davide
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Parte Prima, Capitolo 8 - La tesi dell'insegnante crudele ***
CAPITOLO OTTAVO – LA TESI DELL’INSEGNANTE CRUDELE
Come spesso accadeva, Desiderio degli Eterni era andato – o andata; per lui/lei cambiare sesso era come cambiarsi d’abito, ovvero qualcosa che faceva con allarmante frequenza – a trovare Yuko. Era un’abitudine che aveva conservato da quando ancora le dimensioni erano divise e impenetrabili l’una con l’altra se non per l’azione di pochi eletti. “Noi serviamo lo stesso padrone, strega”, le aveva detto, durante il loro primo incontro.”Ma siamo le facce opposte della stessa medaglia: io creo i desideri, tu li esaudisci. È così che deve andare il mondo”.
Lei aveva approvato. D’altronde, come amava ripetere, l’unica cosa che esisteva era l’inevitabile.
“L’ultima volta, per colpa tua, sono arrivata in ritardo alla riunione del Consiglio”, mormorò Yuko, acciambellata su una chaise-longue con il bocchino della lunga pipa da oppio stretto fra le labbra; quel giorno indossava un kimono nero decorato a farfalle dorate, e accanto a sé teneva una bottiglia di Mijiu.
Desiderio era seduto ai piedi della donna, anch’egli con indosso un kimono dal taglio femminile che gli lasciava scoperte le mani dalle lunghe dita e il volto, così pallidi da sembrare bianchi. “Chiedo scusa, mia signora”, mormorò in tono suadente. Era ovvio che i due stavano semplicemente giocando, e che chi si trovava in posizione di superiorità non era di certo la strega; ma era altrettanto chiaro che entrambi si stavano divertendo un mondo. “Come posso farmi perdonare?”.
Yuko sollevò un piede nudo e accarezzò con grazia un orecchio dell’Eterno. “Mi stai chiedendo se desidero qualcosa, insomma?”, domandò, espirando una lunga boccata di fumo.
L’altro ghignò. “È il mio compito, in fondo”.
La donna sembrò pensierosa. “Di solito sono io che esaudisco i desideri, però”.
“In effetti c’è qualcosa che devo chiederti”. Desiderio mosse le dita della sinistra, e una lunga sigaretta sottile, già accesa, gli apparve fra indice e medio. “Un desiderio che voglio tu esaudisca”.
Yuko si sistemò meglio contro lo schienale della chaise-longue. “Dimmi pure”.
Il fumo della sigaretta dell’Eterno sapeva di mandorle e di tarda primavera. “Presto verranno da te tre guerrieri, e ti chiederanno di aprire loro un portale. Mi aspetto che tu li accontenti”. Desiderio spostò gli occhi d’oro sulla donna, un sorriso languido sulle labbra piene. “Immagino che ora mi chiederai qualcosa in cambio”.
“Non preoccuparti”, rispose Yuko. “Ho già ricevuto il mio pagamento”. Sollevò un braccio e attirò l’altro a sé, finché le loro labbra non si incontrarono.
Sigla d’apertura: Return to Innocence, degli Enigma
Da: watanukikun@xxxxxxx.com
A: luckyanne@xxxxxxx.com
Oggetto: Re:Re:Ho avuto un lavoro!
Mamma, credo di stare per morire.
Oddio, forse non è un bel modo per iniziare… Cioè, non è che stia per morire davvero, non preoccuparti. È solo che ci stanno, beh… addestrando per il lavoro che dovremo fare nello spazio, ed è una cosa massacrante. Dev’essere come l’allenamento che fanno gli astronauti, ma molto peggio. ç_ç
Purtroppo non posso darti troppi particolari… Sai com’è, sicurezza governativa e cose così, c’è sempre la possibilità che intercettino queste mail e non si può stare troppo sicuri. Comunque quando tornerò sulla Terra prometto che vi spiegherò tutto quanto!^^
Piuttosto, lì come va?Sono già arrivate le forze della Confederazione?Ora che ci penso, potrebbe essere che diventeremo famosi, visto che siamo stati i primi terrestri a viaggiare nello spazio! Anche se in effetti da qui in poi in teoria chiunque potrebbe andarci, quindi non credo che il fatto di essere stati i primi conti molto… Vabbé, pazienza! é_è
Saluta papà, la nonna e Serena!
Marco
PS: Senti, per i manga fai così: inscatolali da qualche parte, la prima volta che passo dalla Terra me li porto via, d’accordo?
“Sentite, ho una domanda importante da farvi”, disse Riccardo, in tono solenne. Lui, Marco e Pietro erano in pigiama, nella loro cabina, seduti sui rispettivi letti.
Sui tre scese un breve silenzio. “Beh… falla, allora”, lo esortò Marco.
L’altro continuava a tacere. Sembrava imbarazzato, tutto d’un tratto. “Ecco, mh… Secondo voi”, altra pausa. “Secondo voi chi è la più bella, a bordo?”.
“Oh!”, esclamò Pietro, con aria sorpresa. “Ci stavo pensando giusto prima, sai? In effetti è una bella lotta… Insomma, voglio dire, Haruhi è Haruhi, però Marie sembra così dolce… Anche se in effetti anche Bielorussia non è affatto male!”.
“Che!? Ti ricordo che mi ha puntato un coltello alla gola e giusto ieri ha minacciato di ucciderci tutti!”.
“Sì, però è carina”.
“È una pazza!”.
“Anche la Willow oscura lo è. Idem Shizuru Fujino”.
“… Mh, un punto per te. Comunque, Riccardo, tu chi preferisci?”.
Il ragazzo deglutì. “Uhm… Ecco, direi… Yoichi”.
“Uh, ti piacciono mature, eh?”, esclamò Marco, con un ghigno. “Anche se in realtà non sappiamo quanti anni abbia… Non che sia così importante, in fondo!”.
Riccardo si agitò, sistemandosi meglio sul materasso. “In che senso, scusa?”.
“Sai com’è, in teoria dovrebbe essere morta nel 1232, da quanto mi ha spiegato Haruhi”, spiegò l’altro. “Quindi potrebbe essere immortale, per quanto ne sappiamo”.
“Oppure il tempo sul suo pianeta scorre più lentamente”, ipotizzò Riccardo.
“Credo che ci siano centinaia di possibilità diverse”, aggiunse Pietro, in tono sognante. “In effetti di come va l’Omniverso ne sappiamo ancora così poco…”.
Marco si lasciò ricadere all’indietro atterrando con la testa sul cuscino, mentre dalla bocca gli uscì un lungo sbuffo poderoso che gli sgonfiò il petto. “Già. Anche se al momento sono preoccupato più per quello che ci aspetta domani…”.
“Stai scherzando!? Domani inizia l’addestramento! Non vedo l’ora che Zaraki-san mi insegni a combattere!”.
“Veramente è proprio per te che ho paura… Insomma, a me e a Pietro tocca Piton e la cosa al massimo può essere sgradevole, ma a te! Quello non ci penserebbe due volte a squartarti!”.
“Nah, sono sicuro che Zaraki-san sarà un ottimo insegnante!”.
“Secondo me sei fin troppo ottimista…”.
“Benvenuti alla vostra prima… lezione di magia”. Severus aveva la faccia di chi ha scoperto di essere rimasto chiuso dentro una stalla piena di maiali. “Dato che sarò il vostro insegnante da qui in avanti, mi aspetto che seguiate ciò che vi dirò senza fare storie, e non come fa sempre una certa persona…”.
“Non si preoccupi, professore: se devo essere sincero a me Potter sta pure un po’ antipatico”, lo rassicurò Marco.
“A te”, ribatté Pietro. “Secondo me è un protagonista abbastanza riuscito”.
Piton fissò Marco. “Se fossimo ad Hogwarts, tu avresti fatto guadagnare qualche punto alla tua casa”. All’altro riservò invece la stessa occhiata che si usa nei momenti in cui si scopre un centopiedi passeggiare sui muri di casa. “In ogni caso, dato che avete un’età molto più alta rispetto a quella dei normali studenti di magia, dovrete darvi parecchio da fare se volete sperare di raggiungere qualche risultato… Ovviamente preferirei insegnarvi a preparare pozioni, ma le mie scorte di ingredienti a bordo della nave sono limitate, e non posso certo permettermi di sprecarle per cercare di insegnare qualcosa a voi due”. I tre si trovavano nella stessa stanza in cui Haruhi aveva impartito la lezione di benvenuto; intorno a loro si era radunata una piccola folla di quei buffi gnometti colorati che sembravano colonizzare ogni angolo della nave, e che ora fissavano i tre con gli occhioni rotondi spalancati. Piton si chinò e ne afferrò due, per poi posarli sulla scrivania davanti ai ragazzi. “Userete dei Pikmin, per esercitarvi. Spero vi siate ricordati di portare le vostre bacchette”.
Marco si chinò: la creaturina che gli era toccata in sorte era gialla, con due orecchie sporgenti e appuntite e un fiore bianco, molto simile ad una margherita, al termine di un lungo peduncolo che gli spuntava dalla testa. Non sembrava per nulla spaventata, ma anzi ricambiava le attenzioni ricevute con gran curiosità.
“È sicuro che possiamo esercitarci su di loro?”, domandò Pietro. Il suo Pikmin era blu, e sulla sua testa spiccava un bocciolo ancora chiuso. “Voglio dire, sono esseri viventi…”.
“Che cosa si era detto riguardo al non discutere le mie decisioni?”, rispose secco Piton. “Comunque non è tutto questo gran problema, posso sempre risolvere qualsiasi casino combiniate… A meno che uno di voi due non riesca a far esplodere l’intera astronave, cosa che mi sembra davvero improbabile. E ora forza”, da una tasca del mantello estrasse la sua bacchetta, e la mosse in aria in un arco fluido ed elegante. “agitare e colpire. Non è difficile, si tratta di qualcosa che anche due come voi dovrebbero riuscire a fare”.
Gentile come al solito, eh?, pensò Marco. “Ehm, ok… Possiamo provare l’incantesimo che vogliamo?”, domandò. Piton lo fissò come se la cosa fosse stata ovvia. “Allora… Vediamo… Ah, sì! Engorgio!”.
Il Pikmin diventò un po’ più grande. O per essere più precisi, le sue orecchie lo diventarono; il folletto, sbilanciato dall’eccessivo peso, cadde all’indietro e rimase a fissare il soffitto.
“Lavoro sciatto e incompleto, De Angelis, come mi aspettavo”, intervenne Severus. “Ma per essere il tuo primo incantesimo poteva essere peggio”.
“Grazie”, rispose Marco, sapendo che era il massimo complimento che poteva aspettarsi. “Forza, Pietro, prova tu”.
Il ragazzo si rimboccò le maniche della camicia. Nella destra, la bacchetta gli tremava leggermente. “Ehm, uhm… E-engorgio!”.
Il bocciolo sulla testa del Pikmin si aprì e crebbe, diventando un enorme fiore rosso dai petali enormi e carnosi, dall’aria malsana; qualche secondo dopo iniziò ad emanare una puzza di carne putrefatta che spinse gli gnometti rossi – gli unici all’apparenza dotati di un naso – a correre verso l’angolo opposto della stanza, emettendo degli strilli acuti e spezzati.
Piton fissò Pietro con disgusto, tenendosi una mano davanti alla faccia. “Come diavolo ci sei riuscito, Riguardi?”, borbottò, con voce soffocata. “Nemmeno Paciock sarebbe riuscito a ottenere un effetto simile da un semplice incantesimo di Ingozzamento!”.
“Beh, a ben vedere il fiore si è ingrandito”, osservò Marco, fra un colpo di tosse e l’altro.
“A-aspetti!”, esclamò Pietro, talmente nervoso che il vomitevole odore non arrivava nemmeno alle sue narici. “C-ci posso riprovare! Engorgio!”.
La rafflesia, se non altro, dopo quel secondo incantesimo si afflosciò e si raggrinzì in pochi secondi, portandosi via anche la puzza. Il Pikmin, però, non fu altrettanto fortunato.
“Riguardi, basta!”, Piton aveva gli occhi fuori dalle orbite. Sulla scrivania, una trota marmorata si agitava convulsamente, la bocca e le branchie aperte alla disperata ricerca d’ossigeno. “Ti ordino di posare immediatamente quella bacchetta!”.
“M-ma no, aspetti! Adesso sono sicuro di farcela!”.
“Non me la puntare contro!”.
“Engorgio!”.
“Nooooooooo!”.
“…Pietro, che cosa hai fatto?”.
“Oh, mio Dio, che cosa ho fatto?”. Pietro si era fermato di nuovo in mezzo al corridoio. Era pallido, tremava, e stava rischiando di rovesciare l’allegro secchio di plastica rossa in cui era stato messo il Pikmin-trota, salvato appena in tempo dal soffocamento. “E se non riusciamo più a farlo tornare normale?”.
“Piantala e muoviti”, gli rispose Marco, in tono brusco. “Dobbiamo solo trovare Frau Totenkinder, sono sicuro che lei può sistemare tutto… E per l’amor del cielo, professore, la pianti di agitarsi!”.
“Mi stavate cercando?”, domandò una voce alla loro sinistra. I due si voltarono; lì dove prima c’era soltanto la liscia parete metallica del corridoio si era aperta una pesante porta di legno vecchio stile, appena socchiusa, da cui filtrava una luce calda e pulsante che poteva provenire soltanto da un camino acceso.
Marco spinse l’uscio con la mano libera, cercando di essere il più silenzioso e pacato possibile; si sentiva come un esploratore che finalmente riusciva ad accedere ad una cripta rimasta chiusa per migliaia di anni. Ciò che trovò dall’altra parte della soglia, però, tutto sembrava tranne che qualche antica tomba: tappeti persiani stesi a terra, una pendola dall’aria solenne, nature morte di dubbio valore appese alle pareti; c’era perfino un gatto nero – ad una seconda occhiata identificabile come Shiranui, il micio di Nagi, la cui croce bianca sulla fronte era inconfondibile – che giocherellava placido con un gomitolo di lana. E, sulla sua sedia a dondolo, regina di quel minuscolo mondo tranquillo, sedeva Frau Totenkinder, intenta a confezionare una sciarpa. “Entrate, entrate pure!”, invitò con un sorriso benevolo. “E non preoccuparti per l’acqua sul tappeto, Pietro, tanto poi asciuga”.
“N-non avevo mai visto la porta, prima…”, balbettò Marco, mentre cercava di fare star buono il professor Piton.
“Certo che no”, rispose pratica la donna. “Appare solo se sono io a volerlo, o se qualcuno ha bisogno di me. In fondo, sono solo una vecchia signora che tiene alla sua quiete”.
“E-e-ecco, noi…”, iniziò Pietro, ma la strega lo fermò con un cenno della mano.
“Non preoccuparti, so perché vi trovate qui”. Mentre spostava lo sguardo sul grosso coniglio nero che si agitava fra le braccia di Marco le sue labbra si piegarono in un ghigno sardonico. “Severus, non avevo mai visto questo lato di te…”.
Per tutta risposta, l’animale affondò i denti nel braccio di Marco. “Ahia!”, gridò il ragazzo, lasciandolo cadere sul tappeto. “Ma si può sapere che cavolo le prende? È stato Pietro a trasformarla in un coniglio, se la prenda con lui, semmai!”.
“Senti, coso, mi sento già abbastanza in colpa…”, protestò debolmente il diretto interessato. “E ora nemmeno so se potrà tornare normale…”.
“Veramente ho già risolto”, annunciò la Totenkinder.
Accanto alla sua sedia a dondolo il coniglio aveva lasciato il posto a Piton, che fissava la stanza con puro odio. “Perfetto, ora ci vorranno giorni prima che smetta di arricciare il naso”, borbottò. Dal secchio di plastica emerse la testolina azzurra del Pikmin, completa di bocciolo; per la sorpresa Pietro mollò la presa sul manico, e il contenitore si rovesciò su tutto il pavimento.
“Oddio, mi scusi, mi scusi!”, gridò il ragazzo, voltandosi intorno alla disperata ricerca di qualcosa con cui rimediare al disastro.
“Come ti ho detto, non preoccuparti per l’acqua”, gli rispose la donna. “Tanto asciuga in fretta”.
Marco abbassò gli occhi: non c’erano macchie, e i tappeti erano perfettamente asciutti. “Incredibile… Come ha fatto?”, non poté fare a meno di esclamare.
Frau Totenkinder riprese a far ticchettare i suoi ferri da calza. “Una signora della mia età deve conoscere un paio di trucchetti per sistemare casa, non ho certo la forza di mettermi a fare le pulizie!”. Si voltò verso Piton. “Allora, Severus, come se la stanno cavando… esclusi questi piccoli incidenti, intendo”.
L’uomo smise di tentare di arricciare il naso. “Beh, ecco… Riguardi ha un gran potenziale ma non ha nessun controllo”, ammise a voce bassa, come se i due ragazzi non potessero sentirlo. “Anche se devo ammettere che non ho mai visto delle Trasfigurazioni tanto ben fatte in un completo principiante, il fatto che le abbia prodotte in maniera casuale lo rende una specie di mina vagante. Quanto a De Angelis, ancora ha fatto ben poco… Ma, beh, almeno non mi ha trasformato in un coniglio”.
“Senti, e se ci li dividessimo?”, propose Frau Totenkinder. “Giusto per provare. Tu addestri Marco e io Pietro, e vediamo cosa ne viene fuori”.
“È sicura che la cosa non la stancherà troppo?”.
“Oh, suvvia, sono vecchia ma non ancora decrepita! E nell’ultimo periodo l’unica cosa utile che ho prodotto sono stati dei maglioni”.
“Ehm… Ne è davvero sicura, signora?”, mormorò Pietro, gli occhi immersi nelle profondità del secchio rosso. “Potrei rischiare di trasformare anche lei in un coniglio per sbaglio…”.
“Non preoccuparti, ragazzo mio”, rispose lei. La temperatura della stanza era improvvisamente precipitata di almeno cinque gradi, mentre un brivido attraversava la schiena dei tre uomini presenti. Il volto di Frau Totenkinder era ancora atteggiato ad un sorriso tranquillo, ma i suoi occhi erano duri e affilati come un punteruolo da ghiaccio. “Non permetterò certo che accada”.
“Forza, professor Piton, torniamo di là!”, esclamò Marco con un tono molto più alto ed acuto del normale, afferrando un braccio dell’uomo e tentando di trascinarlo verso la porta. “Non posso certo rimanere indietro con gli studi! Arrivederci, Frau Totenkinder!”.
“E-ehi, coso, aspetta!”, balbettò Pietro. Aveva gli occhi spalancati e sembrava assolutamente terrorizzato. “Non vorrai lasciarmi qui da solo?”.
Scusami, Pietro. Sei mio amico, ma non posso mica tirarti sempre fuori dai casini. “Beh, ci hanno diviso o sbaglio?”, rispose, riuscendo finalmente a far muovere Piton. E uscì dalla stanza, senza voltarsi indietro.
Marco si lasciò cadere sul suo letto. Stavolta, però, aveva tutti i motivi per farlo.
La giornata di studio con Piton lo aveva distrutto; e anche se era riuscito ad imparare qualcosa – per esempio ad ingrandire l’intero Pikmin e non solo le sue orecchie – si sentiva come se qualcuno gli avesse strappato l’anima dal corpo e l’avesse ficcata in un’asciugatrice insieme al bucato della settimana. Inoltre le continue visioni del fantasma di Pietro che tornava dall’oltretomba per perseguitarlo per averlo abbandonato nelle mani di Frau Totenkinder. Perdonami, amico. Spero che tu sia ancora tutto intero…
Proprio in quel momento la porta della stanza si aprì. “Sono tornato…”, disse Pietro a bassa voce.
Marco aveva la faccia affondata nel cuscino e non trovò la forza di voltarsi. “Come… com’è andata?”.
Qualche secondo di silenzio. Ecco, perfetto, adesso mi odia. Beh, me la sono voluta, in fondo sono stato io che…
“È stato fantastico!”.
Marco si sollevò, voltandosi di scatto. “Che?!”, esclamò. Poi scrutò il viso di Pietro. “Ehm, hai… hai delle stelline inquietanti intorno agli occhi. Sembri Nagi, e la cosa mi terrorizza”.
“Quelle?”, rispose l’altro con un’alzata di spalle. “Oh, non preoccuparti, la maestra Totenkinder ha detto che spariranno a breve”. Sbatté le palpebre, emanando una sventagliata di scintille azzurre che frizzarono nell’aria prima di spegnersi.
“Quindi, beh… Immagino sia andata bene, insomma”.
“Assolutamente! La maestra ha detto che ho un potenziale incredibile! Com’è andata con Piton?”.
“Ehm, lui… Ha detto che, ecco, dal livello a cui sono ora posso solo migliorare…”.
“Mi sembra una cosa positiva, no?”.
“Insomma… In pratica è come se avesse detto che peggio di me ci sono solo, non lo so…”.
“Tiger e Goyle?”.
“Ecco. Aspetta, perché quel cuscino sta levitando?”.
“Oh”. Pietro tese un braccio e costrinse il cuscino contro il materasso. “Scusa, è tutto oggi che succede. Sprazzi di magia che non riesco a controllare”.
“Capisco…”. Maledizione, a saperlo ci sarei andato io, con la Totenkinder… Chissà se Pietro accetterebbe di fare lezioni a turni?
La porta della stanza si spalancò di nuovo. “Sono venuta solo a salutare, ora vado a dormire…”. Elena era ancora più distrutta di Marco: i capelli rossi le aderivano alla fronte e ai lati del volto in grosse ciocche sudaticce; faceva chiaramente fatica a reggersi in piedi, e aveva le dita coperte di cerotti. “Devo farmi una doccia, però. Una lunga doccia”.
“Vuoi entrare a sederti un attimo?”, domandò Pietro, sollecito.
Elena fece del suo meglio per scuotere la testa. “Davvero, oggi devono avere sudato parti del mio corpo che nemmeno sapevo di avere, non farei un gran favore alle lenzuola”.
Marco si alzò in piedi e le si avvicinò, mentre estraeva di tasca la bacchetta. “Beh, quantomeno lascia che ti aiuti”. Agitò la bacchetta e la puntò contro le dita di lei. “Manum emendo”, disse, cercando di scandire le parole il più possibile. Voleva evitare che una dei suoi migliori amici diventasse un animale da fattoria. Finché accadeva ad un Pikmin o a Piton era un conto, ma così…
“Ehi! È incredibile! Ora va molto meglio!”, esclamò Elena, togliendosi uno dei cerotti per controllare la pelle sottostante. “Fantastico, i tagli si sono rimarginati alla perfezione!”.
“Bah, non è stato niente di che”, si schermì Marco, arrossendo un po’. “A quanto pare è vero che l’unica cosa in cui riesco bene sono le magie di cura…”.
“Come è andato il primo giorno?”, domandò Pietro, per evitare che Marco li trascinasse nel suo personale vortice di autocommiserazione.
Il volto di Elena si accese di un debole sorriso. “Bene… Anche se come potete vedere Yoichi non si è risparmiata… Pietro, quelle stelline negli occhi sono una cosa normale, vero?”.
“Sì, sì. Ah, sai che fine ha fatto Riccardo? Si sta ancora addestrando?”.
Gli occhi della ragazza si spalancarono. “Ah, giusto, ecco cosa dovevo dirvi! È in infermeria, sono appena passato a trovarlo”.
“Infermeria!?”, esclamarono i due ragazzi all’unisono.
“Non preoccupatevi, non è niente di così grave… Semplicemente, come ci si poteva aspettare, Zaraki ci è andato un po’ pesante con il primo allenamento. Credo sia ancora sveglio, perché non passate un attimo a trovarlo?”. Elena sospirò. “Adesso mi scuserete, ma non vedo davvero l’ora di fare una doccia e poi dormire un po’. Per favore, quando tornate in camera fate piano!”.
Riccardo sembrava uno di quei ricoverati in ospedale che appaiono nelle vignette umoristiche: fasciato dalla testa ai piedi come una mummia, con solo la zona degli occhi lasciata scoperta. “In realtà non era necessario bendarlo così”, spiegò Stein, ghignando. “Ma non ho potuto lasciarmi sfuggire l’occasione di farlo!”. Dietro di lui Marie non sembrava particolarmente contenta.
“Riccardo, tutto bene?”, domandò Marco, avvicinandosi al letto.
“Ovvio che lo è stato! Stiamo parlando di Zaraki-san!”. Nonostante sotto tutta quella fasciatura fosse probabilmente una ferita unica, gli occhi del ragazzo brillavano quasi come quelli di Pietro, e senza neppure una magia che facesse loro emettere scintille. “Non vedo l’ora che sia domani!”.
“Ma sei sicuro di poterti muovere così presto?”, chiese Pietro, un po’ preoccupato.
“Se vuoi posso provare a fare qualcosa”, aggiunse Marco, tirando fuori di tasca la bacchetta. “Anche se forse è meglio di no, non credo di essere già in grado di guarire interamente qualcuno…”.
Riccardo si agitò per quanto i bendaggi glielo permettevano. “State scherzando? Le cicatrici sono il simbolo di un vero guerriero!”.
“Stai iniziando a parlare come un membro dell’undicesima compagnia…”.
“Ovvio!”.
“Ragazzi, mi spiace mandarvi via, ma Riccardo ha bisogno di un po’ di riposo”, intervenne Marie avvicinandosi ai due, le mani piantate sui fianchi per far valere la propria autorità. “Potrete tornare a trovarlo domani”.
“Ma io domani non ho intenzione di stare qui! Voglio tornare ad allenarmi!”, protestò il diretto interessato dal letto.
La donna si voltò a guardarlo. Il simbolo giallo sulla benda iniziò a luccicare in maniera sinistra, mentre la pupilla dell’unico occhio in vista si stringeva ad un puntino. “Tu farai quello che Stein e io ti diremo, d’accordo?”, ringhiò.
“O-ok…”.
“Adoro quando ti arrabbi, Marie”, intervenne il dottore, seduto sulla sua poltroncina a rotelle, le braccia incrociate sopra lo schienale e un sorriso sardonico sul volto coperto da cicatrici.
“Lo sai che non vorrei…”, rispose lei, già tornata ai suoi modi timidi e gentili.
“Allora noi ce ne andiamo, d’accordo?”, disse Marco, spingendo Pietro fuori dalla porta. “Ci vediamo domani, Riccardo!”. Non attese che l’altro gli rispondesse, ma probabilmente era ancora troppo terrorizzato dall’exploit di Marie per avere qualche reazione.
“E così anche lui si è divertito, oggi!”, esclamò Pietro, mentre i due tornavano verso la loro stanza.
In effetti pare che l’unico che si è stancato e basta oggi sia io…, pensò Marco. “Beh, ne dubitavi? Ha studiato… anzi, è stato mezzo massacrato da uno dei suoi eroi dei manga. Mi sarebbe sembrato strano il contrario!”.
I due camminarono in silenzio per qualche minuto, incrociando solo qualche occasionale Pikmin. Quando furono sulla porta della camera, Pietro parlò di nuovo. “Senti… Quando ci siamo imbarcati, tu ti aspettavi una cosa del genere? Insomma, la magia e tutto il resto”.
Marco aggrottò la fronte. “Beh, insomma, da quando Haruhi e Kyon mi teletrasportarono a bordo ho iniziato a pensare a quali personaggi di fantasia mi sarebbe piaciuto incontrare e quali mondi avrei voluto visitare. Però…”, voltò la testa, e lo sguardo gli si perse fuori da uno degli oblò, nella profondità del cosmo. “Non avrei mai immaginato che cose del genere sarebbero potute accadere proprio a noi, ecco”.
“Infatti”, disse Pietro, prima di scoppiare a ridere. “E non è fantastico che tu ti sia sbagliato, coso?”.
Sul viso di Marco si formò spontaneamente un piccolo sorriso. In effetti, forse oggi sono stato un po’ troppo negativo… “Sì. Sì, sono davvero contento di essermi sbagliato”.
PIETRO: Ragazzi, ho una notizia cattiva e una ancora peggiore. Quale volete sentire per prima?
RICCARDO: Non so, fai tu…
PIETRO: La prima è che ho scoperto che nel prossimo capitolo non faremo nemmeno un’apparizione.
ELENA: Oh. E l’altra?
PIETRO: C’è uno strano tipo mezzo nudo…
MARCO: Ah, sì, lui è l’addetto alle anticipazioni per questa volta. Vai pure, Gray.
GRAY: Il nono capitolo di “Il cielo è un’ostrica, le stelle sono perle” si intitola “Il fiore che danza in patria, parte prima”. Attenti a non prendere freddo!
ELENA: Però aspetta un momento… Se c’è un “parte prima” vuol dire che…
PIETRO: Sì, temo non appariremo nemmeno nella seconda.
MARCO: Ma non dovevamo essere noi, i protagonisti?
Alcune precisazioni:
- I personaggi che Pietro nomina come belle ragazze anche se fuori di testa (“Willow oscura” descrive la fase in cui Willow Rosenberg di “Buffy l’ammazzavampiri” diventa malvagia durante la sesta stagione, Shizuru Fujino è un personaggio di Mai-HiME) sono effettivamente i due nomi fattimi dalla persona a cui il personaggio è ispirato quando gli ho chiesto: “Fammi il nome di due ragazze che ti piacciono pur essendo completamente suonate”.
- Allo stesso modo, la persona a cui è ispirato Riccardo è davvero molto fan di Zaraki.XD
- Visto che i cognomi di Marco e di Pietro sono saltati fuori in questo capitolo, scrivo qui anche i cognomi di Elena e Riccardo, per completezza: sono rispettivamente Liberati e Onorato. Nessuno dei nomi e/o dei cognomi ha alcuna attinenza con i veri nomi e cognomi degli ispiratori dei personaggi, sia chiaro!XD
Ma ora passiamo alle risposte ai recensori!
Per Morens: in realtà né Zaraki né Russia si sono davvero impegnati durante il loro scontro… Più avanti li si vedrà combattere per bene, com’è giusto che sia!
Anzi, più si proseguirà con la storia più tutti quanti avranno modo di mettersi in luce! La prima fase della storia possiamo dire che si concluda con i capitoli 11 e 12 (i prossimi due sono una cosa a parte, come detto sopra nelle anticipazioni Marco e gli altri non faranno neppure una comparsata!), poi ci sarà di che menare le mani!XD
Per Anonimo: mi spiace non aver potuto fare vedere lo scontro fra Zaraki e Russia, sarebbe stato divertente vedere come se le sarebbero date, eh?XD
Sono contento che il settimo capitolo ti sia piaciuto! Quello che hai appena letto, come hai potuto notare da te, è servito più che altro a rendere chiaro che in futuro – un futuro ancora abbastanza lontano, eh! – anche Marco, Pietro, Elena e Riccardo potranno prendere a calci (e non solo) i nemici! Bisogna cominciare pure da qualche parte, d’altronde!XD
Come sempre saluto Suikotsu (per il quale sono contento il periodo degli esami sia finalmente concluso!), AyuChan Uchiha, Ikarikun e anche Targul, che ha da poco aggiunto la storia fra le seguite! Se avete voglia di commentare, io ne sono soltanto felice!^^
In ogni caso, per il momento vi saluto! Se vi va, ci vediamo nel prossimo capitolo!
Davide
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Parte Prima, Capitolo 9 - Il fiore che danza in patria, parte prima ***
CAPITOLO NONO – IL FIORE CHE DANZA IN PATRIA, PARTE PRIMA
“All’Inferno”, disse il Cavaliere del Sagittario.
“Aspetta, fammi capire”, riuscì ad articolare Edward dopo qualche secondo. Era così confuso e perplesso che per sbaglio si grattò la testa con l’automail, finendo per staccarsi due o tre ciocche di capelli. “Non stai dicendo ‘All’inferno’ come per dire ‘Vada all’inferno Cancro, mi sono stufato di doverle sempre fare da balia’, intendi proprio…”.
“Gli Inferi, già”, rispose Yue, monocorde come suo solito. Per l’occasione aveva rinunciato ad esibire le enormi ali candide, per la fortuna di chi poi avrebbe dovuto spazzare le piume (incarico che toccava invariabilmente ad Al). “Pare che è lì che si sia rifugiata”.
“Beh, è naturale”, commentò Critical dal suo trono. Proprio come una settimana prima i sei Gold Saint rimasti al tempio – sette, contando il ritorno di Sagittario – si erano riuniti nella stanza del Gran Sacerdote. “Non è un caso che venga chiamata ‘la fanciulla dell’inferno’, d’altronde”.
“E quindi che cosa proponi di fare?”, chiese Gray. “Gli Inferi non sono un buon posto per una ragazza”.
Il Santo dei Gemelli scoppiò a ridere. “Ovviamente andiamo a recuperarla, che domande. Il problema rimane come raggiungerla, semmai”.
“In effetti Cancro è l’unica a conoscere l’Onda Infernale dello Tseih She Ke; il Cavaliere della Vergine è in missione con la signorina Anthy, quindi non possiamo neppure usare la sua proiezione astrale”, osservò Kusanagi. “Qualcuno ha qualche idea?”.
Yue scosse la testa, i lunghissimi capelli d’argento che spazzavano il pavimento. “Sono venuto qui solo per ottenere dei rinforzi. Il cammino per l’Inferno non è mai stato un problema…”. Il famiglio guardò Critical dritta negli occhi. “Anche se mi servirà il tesoro, come prezzo”.
Il Santo dei Gemelli annuì subito. “In fondo la signorina Anthy ci ha detto che avremmo dovuto separarcene, prima o poi”. La donna sogghignò. “E comunque non ho mai capito che cosa ci fosse di tanto importante in un semplice uovo”. Si piegò in avanti, tendendo la mano e passandola sulla base del trono, che scivolò di lato rivelando una teca in cui era contenuto un piccolo scrigno. Un cenno della testa di Critical e il bauletto si sollevò in aria, uscendo dal suo nascondiglio per atterrare con delicatezza nelle mani di Yue. “Ecco qui. Due compagni sono ciò che ti è concesso, non posso permettere che il tempio rimanga privo di difese”.
“Saranno più che sufficienti”, rispose Yue.
“Bene…”, disse Critical, in tono riflessivo. “Ed, Gray? Andrete voi due”.
“Ok”, rispose con aria laconica il Santo dell’Acquario. “Poi dicono che all’Inferno faccia caldo, quindi non dovrei avere problemi con i vestiti”.
Ma che ti importa?, pensò Ed. Tanto tu stai a petto nudo praticamente sempre… “Anche per me va bene”, aggiunse ad alta voce. “In effetti è parecchio che non faccio qualcosa di interessante…”.
“E io non dovrò vedere la tua faccia da moccioso per un po’ di tempo, piccolo Ed”, intervenne Critical.
“A CHI AVRESTI DATO DELLA LARVA DI ZANZARA!?”.
“L’hai fatto così tante volte che ha quasi smesso di essere divertente… quasi”. Dopo aver soffocato un fintissimo sbadiglio la donna smise di badare alla sua principale fonte di divertimento per rivolgersi di nuovo al Santo del Sagittario. “A chi pensavi di domandare per un portale sugli Inferi, comunque? Se è uno degli Eterni puoi benissimo rinunciare subito, quelli ultimamente non concedono favori a nessuno”.
“È una strega che risiede sulla mia Terra d’origine”, spiegò l’angelo. “Una vecchia conoscenza del mio creatore”.
“Aspetta… non intenderai Yuko Ichihara, la strega delle dimensioni?”, disse Kurama, in tono scettico. “Quella donna fa parte del Consiglio Iperuranico, e fidarsi di una persona tanto vicina ad Akio Ohtori sarebbe…”.
“Dimentichi che noi non ce l’abbiamo con il Consiglio, ma solo con Othori”, lo interruppe Critical. “Altrimenti non dovremmo fidarci nemmeno di Scorpione, che ha lavorato per centinaia d’anni a stretto contatto con il consigliere Unohana”.
“Sì, ma…”, tentò di nuovo di protestare Kurama, ma stavolta fu Yue a bloccarlo.
“Posso garantire io per Yuko Ichihara. Quella donna ha sempre agito in maniera imparziale, servendo quello che considera come un destino inevitabile. Al massimo potrebbe negarci il suo aiuto, ma di sicuro non si metterebbe contro di noi”.
Il Santo dei Pesci sospirò. La rosa che teneva fra le dita parve percepire la frustrazione del proprietario, e uno dei petali scarlatti si staccò planando fino al pavimento di pietra. “Nessun’altra obiezione”, disse Kurama.
“Bene”, rispose Critical, alzandosi in piedi. “È meglio se non perdete altro tempo. Anch’io, comunque, ho il mio incarico da portare a termine”.
“Oh, il sommo Cavaliere dei Gemelli in persona che si mobilita?”, ghignò Ed. “A cosa dobbiamo questo onore?”.
La donna sorrise, ed era un sorriso pericoloso. “Non è ovvio, piccolo Ed? Andrò a convincere Bilancia ad uscire dal suo letargo”.
Sigla d’apertura (stavolta un po’ più tardi del solito): Re-sublimity, di Kotoko
Pioveva a dirotto sulla Terra di origine di Yue. E, dato che nessuno di solito si preoccupava di caricare degli ombrelli di scorta sulle navi di classe F, i tre Cavalieri erano bagnati fradici.
“Non manca molto, vero?”, domandò Ed. “Perché potevamo pure parcheggiare più vicini… Non è che mi lamenti della pioggia, ma visto che dobbiamo portarci pure in giro questa roba…”.
I tre tenevano sulla schiena gli scrigni contenenti i rispettivi Gold Cloth a mo’ di zaino, i fregi dorati coperti con dei grezzi teli bruni – e ovviamente a quel punto zuppi d’acqua – giusto per non attirare troppa edizione.
“Non mi sembra un problema così grande”, intervenne Gray, come al solito senza maglietta.
“Tu sei quello che dovrebbe soffrire più di tutti”, replicò l’alchimista. “Quelle cinghie non ti stanno segando le spalle?”.
“È pur sempre allenamento”.
“Non è quello che ti ho chiesto”.
“Siamo arrivati”, intervenne Yue, in un tono di voce tanto gelido che c’era da chiedersi come mai le gocce di pioggia non si trasformassero in fiocchi di neve quando si posavano sul suo viso. “Questo è il negozio di Yuko Ichihara”.
Ciò che il famiglio stava indicando era un piccolo edificio in stile tradizionale stretto fra due modernissimi grattacieli. La casa, però, non sembrava affatto oppressa dalla presenza di quei giganti; se ne stava lì, placida e imperturbabile, come una remora attaccata al ventre di una balenottera azzurra.
“Siamo sicuri che ci riceverà?”, domandò Ed, mentre i tre percorrevano il vialetto d’ingresso.
Nessuno degli altri due rispose. Quando però Yue aprì senza troppi complimenti la porta principale, un paio di vocette esclamarono, perfettamente in sincronia: “Benvenuti! Vi stavamo aspettando!”.
L’Alchimista d’Acciaio si fece largo oltre i compagni: davanti a loro c’erano due bambine, una con corti capelli rosa, l’altra con un’improbabile chioma celeste ripartita in due ciuffi laterali che sembravano sfidare qualsiasi legge fisica e gravitazionale. Indossavano eleganti vestiti da gothic lolita bianchi e neri, dagli stessi motivi ma a colori invertiti, decorati da un paio di alucce piumate. “Davvero?”, non riuscì a trattenersi dal chiedere il ragazzo.
Le due bambine si guardarono, poi scoppiarono in una risata simultanea. “Sì”, risposero poi. “Venite, la padrona è impaziente di incontrarvi”.
I tre furono condotti attraverso un breve corridoio. “Da questa parte”, dissero le bimbe, aprendo una delle porte scorrevoli. Ed fu il primo ad entrare; come mise un piede nella stanza qualcosa di piccolo e morbido gli atterrò sulla faccia. “Puuu! Finalmente! Eccoli qui!”, berciò una vocina acutissima a qualche millimetro dal suo orecchio destro.
“Waaah! Toglietemelo! Qualsiasi cosa sia, toglietemelo!”, iniziò a gridare Ed.
Giusto un attimo più tardi l’invasore peloso venne tolto dalla faccia dell’alchimista. La creatura, tenuta per la collottola da Gray, era un incrocio fra un folletto con evidenti problemi di peso e il disegno di un coniglio fatto da un bambino dell’asilo: corpo a forma di pera, lucido pelo nero, lunghe orecchie a punta. Nel centro della fronte splendeva una lucida gemma blu, e la sua bocca quasi felina era atteggiata in un’espressione soddisfatta. “Finalmente siete qui!”, continuava a sbraitare, facendo di tutto per divincolarsi dalla presa del Santo dell’Acquario. “Non vedevo l’ora di conoscervi!”.
“Su, Mokona, non infastidire i nostri ospiti”. Una voce di donna sensuale e un po’ roca giunse da dietro un alto paravento finemente decorato con un paesaggio al tramonto e delle gru in volo. La sua proprietaria la seguì subito: una donna alta e bella, i lunghissimi capelli neri lasciati sciolti sulle spalle e la schiena, coperte da un kimono leggero di un viola molto scuro. “Benvenuti. Io sono Yuko Ichihara. Dunque ditemi, qual è il vostro desiderio?”.
Dritta al punto, eh?, pensò Ed, che continuava a guardare con sospetto la piccola Mokona, arrampicatasi fino alla spalla di Gray. “Noi vogliamo…”, iniziò, ma Yue gli si parò davanti, impedendogli di continuare.
“Somma Yuko Ichihara, Strega delle Dimensioni, colei che è in grado di esaudire qualsiasi desiderio, è un onore potervi incontrare di nuovo”, disse in tono ossequioso, mentre si esibiva in un profondo inchino.
Yuko si lasciò sfuggire un sorrisetto ironico. “Risolleva la testa, creatura di Clow Reed, non mi spettano tali onori”, rispose, accomodandosi su uno dei divani presenti nell’enorme stanza. “Comunque so che siete qui per un motivo, e sono davvero curiosa di sapere di che si tratta. Quindi forza, Yue della Luna, parla”.
Edward scoccò al famiglio un’occhiata di sbieco che pareva dire: Visto? Era meglio se non mi interrompevi. “Noi vorremmo un portale per gli Inferi”, disse Yue, in tono deciso.
Gli occhi di Yuko si sgranarono di vera sorpresa, anche se per meno di un secondo. "Richiesta insolita", rispose poi. "Ma dovrete prima spiegarmi perché volete raggiungere quel luogo. Se volete riportare in vita qualcuno, temo che sarei costretta a chiedervi di lasciare immediatamente il mio negozio. Anche se ho fatto una promessa, ho dei principi da rispettare".
Yue decise di non indagare sul senso dell’ultima frase, e si limitò a scuotere la testa. "È vero, dobbiamo recuperare una persona. E in effetti questa persona è morta molto tempo fa. Ma lei si è recata all'Inferno di sua spontanea volontà, e altrettanto facilmente potrebbe uscirne; noi stiamo solo andando a recuperarla".
Yuko annuì con lentezza. La Mokona nera intanto era scesa dalla spalla di Gray, aveva trovato una bottiglia di saké non si sapeva bene dove e aveva cominciato a scolarsela allegramente. "Credo di avere capito la situazione. Tuttavia, visto che sei stato creato da Clow, saprai bene come lavoro: se volete che io esaudisca il vostro desiderio dovrete darmi in cambio la cosa più preziosa che possedete".
Ed si fece avanti, un ghigno quasi arrogante sul volto. "Ovvio. Io sono un esperto quando si tratta di scambi equivalenti, dopo tutto". Infilò la mano sana nella tasca della sua giacca rossa e ne estrasse lo scrigno che Critical aveva consegnato loro, aprendolo in modo che Yuko potesse vedere ciò che si trovava al suo interno senza doversi alzare dal divano.
La donna fece tanto d'occhi. "Incredibile", disse, in tono ammirato. "Non credevo ne esistessero ancora, dopo l'unificazione delle dimensioni".
Nello scrigno, su un cuscino di velluto blu, era posato un uovo dal guscio nero e lucido, grande quanto quelli recuperabili in un qualsiasi pollaio. "Spero che basti, almeno", disse l'alchimista. "Anche perché non ho ancora capito che cos'abbia di tanto speciale".
Yuko tese una mano dalle lunghe dita pallide e afferrò l'uovo, facendoselo ruotare davanti agli occhi come se fosse stata una gemma. "Questo è un uovo mondano".
Lo sguardo di Ed continuava ad essere vacuo e confuso. "Mondano nel senso di banale? Non credo varrà molto, allora".
Yuko sospirò e si accinse a spiegare. "Le uova mondane contengono una dimensione che ancora non è venuta alla luce. Sono come dei Big Bang portatili, per così dire. Ma ora che i mondi si sono riuniti in uno solo, non credevo avrei visto ancora uno di questi…”. La donna sorrise. “Immagino che questo voglia dire che le dimensioni continuano a nascere, dopotutto”.
“Quindi accetterai la nostra proposta?”, domandò Ed, strusciando un piede sul pavimento.
Yuko lo fissò. “Ho già acconsentito, in effetti”.
Un attimo dopo, la stanza sparì.
Riguardo all’Inferno esistono molteplici scuole di pensiero, soprattutto per quel che concerne la sua composizione. In quanto dimensione spirituale, infatti, non esiste una qualche regola fisica o logica che possa dettarne i principi.
Tutti, comunque, sembrano concordi nell’affermare che gli Inferi siano un posto orribile, che lo rappresentino come una caverna di fuoco, una distesa ghiacciata o un deserto brullo e senza vita. Queste convinzioni derivano dal fatto che il luogo in questione è abitato da demoni, altre creature da incubo e – ultime, ma di certo non meno importante – dalle anime dei dannati, e quindi dev’essere per forza spaventoso.
Si tratta, per la stragrande maggioranza, di credenze errate.
L’Inferno gode semplicemente di cattiva pubblicità.
“Dove… dove siamo?”, chiese Ed. I tre Cavalieri erano in piedi al centro di un ampio corridoio che sembrava uscito da un albergo di lusso: moquette color crema, stucchi, enormi lampadari a gocce di cristallo. A circa una decina di metri dal gruppo il corridoio svoltava a sinistra ad angolo retto; alle loro spalle, invece, sembrava continuare per chilometri e chilometri, o comunque fin dove il loro sguardo poteva arrivare.
“All’Inferno, ovvio”, rispose la voce di Yuko da qualche parte vicino alla moquette. I Cavalieri abbassarono lo sguardo scoprendo che la Mokona nera li aveva seguiti e che dalla sua bocca spalancata stavano uscendo le parole della strega delle dimensioni. “È dove vi ho detto che vi avrei mandati, e io non faccio mai errori”.
“E come mai ci hai mandato dietro la palla di pelo?”, domandò Ed.
“Mokona è la vostra sagola di salvataggio. Senza di lei non riuscireste più a tornare a casa, quindi vedete di non farle succedere niente”, spiegò Yuko. La sua voce stava diventando sempre più debole e confusa, come se uscisse da una radio sintonizzata male. “Non ho molto tempo prima che il passaggio si richiuda, quindi sarò breve…”.
Ma il passaggio si richiuse proprio in quel momento, visto che dalla bocca della creaturina smise improvvisamente di uscire qualsiasi suono.
“Beh, meglio così che se il collegamento fosse saltato mentre stava per dire: ‘L’unico modo in cui potete salvare la vostra amica è…’ o qualcosa del genere”, disse Gray, dimostrando di prendere la cosa con filosofia. “Almeno non dovremo preoccuparci inutilmente”.
“La fai facile, tu”, rispose Ed. “Noi ora dove andiamo?”.
“A cercare Cancro”, disse Yue, iniziando a sfilarsi dalle spalle le cinghie del suo scrigno.
“Anche tu non scherzi, in quanto a praticità…”, osservò l’alchimista.
Qualche minuto dopo, i tre indossavano i rispettivi Cloth. L’armatura dell’Ariete, per qualche strano motivo, faceva sembrare Ed ancora più basso. “Che ce ne facciamo dei bagagli, ora? Se dobbiamo combattere ci staranno fra i piedi”.
Mokona, che fino a qualche secondo prima si stava rotolando con aria beata nella moquette, iniziò a saltellare eccitata. “Me ne occupo io, me ne occupo io!”, e spalancò la bocca, rivelando un varco largo almeno un metro che risucchiò all’istante scrigni e vestiti dei tre.
“Un buco nero portatile? Comodo”, osservò Gray, che stava ancora terminando di aggiustarsi l’armatura. Mokona gli si arrampicò fino alla testa e si accomodò dietro l’elmo. “Certo che ne sai fare di cose, palletta di pelo!”. La creatura emise un borbottio soddisfatto in risposta.
Intanto, senza proferire parola, Yue aveva cominciato ad incamminarsi verso la svolta del corridoio. Le ali bianche erano ora ricoperte dal piumaggio dorato del Cloth; il che, oltre ad essere di grande effetto, voleva dire anche meno penne sparse in giro.
“Ehi, aspetta!”, gli gridò dietro Ed lanciandosi in una corsetta per inseguirlo, mentre il clangore dell’armatura rimbalzava in echi metallici sulle pareti. “Si può sapere che fretta hai?”.
Il famiglio, però, non rispose; addirittura non si preoccupò nemmeno di quali indicibili orrori potessero celarsi oltre l’angolo del corridoio e lo imboccò senza esitare, seguito con un po’ di titubanza dagli altri due.
In effetti oltre la svolta non c’era nulla di minaccioso; il passaggio in cui i tre sbucarono sembrava anch’esso infinito come il precedente, ma sulle pareti si aprivano porte di ogni forma, colore e materiale: alcune di pietra, altre di legno, un paio erano dipinte di tenui colori pastello e ce n’era anche una che sembrava composta di materiale organico, rosa e attraversata da venature blu e carminio come enormi capillari. A una ventina di metri dall’inizio del corridoio era stata piazzata una scrivania, dietro la quale un uomo occhialuto era impegnato nella lettura assorta di un enorme registro. Sul davanti del mobile era affisso un cartello che recitava a grandi lettere “IN PAUSA – SI PREGA DI NON DISTURBARE”.
I tre Saint si avvicinarono all’impiegato. “Scusi…”, iniziò Ed. L’uomo non alzò nemmeno gli occhi dal volume che – poté notare l’alchimista – conteneva solo file e file di nomi scritti in una grafia aguzza a sottilissima.
“Non vedi? C’è scritto che è in pausa e non va disturbato”, gli fece notare Gray, col tono sussiegoso di chi sta parlando con una vecchia zia un po’ tocca.
“So leggere anch’io, grazie”, rispose Ed a denti stretti.
“E allora perché gli hai parlato?”.
“Ma non è questo il punto, è che…”.
Un rumore sordo, come se l’impiegato avesse tamburellato sul piano della scrivania. I due Saint si voltarono e poterono constatare che il cartello era cambiato. Ora diceva: “IN SERVIZIO – SI PREGA DI NON PARLARE AL CONDUCENTE”.
“Oh, meno male che la pausa è finita!”, esclamò il Cavaliere dell’Ariete. “Adesso può per favore…”.
L’impiegato tese una mano. Fra le dita lunghe e nervose stringeva una penna a sfera con il cappuccio blu, con cui picchiettò un paio di volte sul cartello.
“Ma se non possiamo parlare con lei, come…”.
Altri due colpetti sul cartello, stavolta accompagnati da uno schiarimento di gola.
“D’accordo, io ci rinuncio”, sbottò Ed. “Altrimenti finisce che lo ammazzo, questo qua!”.
Mentre l’alchimista si ritirava sconfitto, il misterioso uomo chiuse il registro e lo mise da parte; aprì un cassetto con religiosa lentezza e ne estrasse un piccolo plico di moduli. “Siete voi i signori Edward Elric, Gray Fullbuster, Yue e Larg?”, disse, sollevando per la prima volta lo sguardo.
Ed e Gray fecero un passo indietro, le bocche spalancate. Gli occhi dell’impiegato, dietro le lenti quadrate degli occhiali, erano composti da cerchi concentrici sempre più scuri, senza la minima traccia di sclera. Era come guardare dentro un binocolo puntato al contrario verso un abisso senza fondo.
“Sì”, rispose il Cavaliere dell’Acquario dopo qualche secondo, anche se non aveva la più pallida idea di chi fosse Larg. “Ma perché…”.
Terza serie di colpetti al cartello. “Limitatevi ad annuire o a scuotere la testa, grazie”, lo redarguì l’uomo. “Comunque, sembra tutto in regola”. Fra le sue dita si materializzò un timbro con cui impresse dei netti marchi d’inchiostro sui quattro documenti davanti a lui. “Perfetto, controllo ultimato”. Ed aprì la bocca, con il chiaro intento di dire qualcosa. “Non costringermi a battere sul cartello per la quarta volta, ragazzo”. Il burocrate sollevò la mano sinistra e fissò con i suoi spaventosi occhi abissali l’orologio che aveva al polso. “Il vostro ingresso all’Inferno è autorizzato fra tre… due… uno… ora”.
La porta alla destra dei tre Cavalieri – quella che sembrava fatta di materia organica – si spalancò, e un enorme tentacolo d’ombra li avviluppò, trascinandoli con sé. Prima che la porta si chiudesse dietro di loro intrappolandoli in un universo di tenebra sentirono distintamente la voce dell’impiegato dire: “Passate una buona e proficua giornata!”.
Ci mancava solo la palude, ci mancava…, pensò lugubre Ed mentre sguzzava nella fanghiglia nerastra che gli arrivava alla vita. Qualcosa con le pinne e troppi occhi lo fissò pigramente per poi tornare a immergersi. Il ragazzo benedisse che l’illuminazione fosse scarsa. Doveva proprio scaricarci qui, quel cazzo di tentacolo? “Come facciamo a sapere che questa è la direzione giusta?”, domandò poi. Qualcosa ad una ventina di metri alla sua sinistra emise un verso a metà fra un muggito e un gracidio e si tuffò nell’acqua melmosa.
“C’è Mokona che ci guida”, rispose Yue, da cui come al solito non si poteva sperare di cavare più parole di quante ne fossero strettamente necessarie. Dalla testa di Gray l’animaletto esclamò: “Siamo quasi arrivati!”.
“Ma che c’è lì dentro, anche un GPS?”, esclamò sbalordito Ed. “Comunque, questo vuol dire che siamo quasi arrivati da Cancro?”.
“No”, disse Yue. Per qualche strano motivo la sua chioma argentea levitava a qualche centimetro dalla superficie della palude, come se fosse refrattaria all’acqua. “Ci sta guidando verso la terraferma. Nessuno sa dove sia finita Cancro”.
“Oh”. Beh, almeno questo…
In effetti un paio di minuti dopo i tre riuscirono ad emergere dall’orrido pantano e a riguadagnare del terreno solido sotto i piedi. “Che schifo”, si lamentò Ed, pulendosi alla buona i gambali della Cloth con un mazzo di foglie cineree raccolte lì vicino. “Ci vorranno settimane prima di riuscire a scrostare ‘sta fanghiglia”.
“Qualcuno ha idea di dove siamo, esattamente?”, domandò Gray, guardandosi intorno. Se alle spalle dei tre Cavalieri si stendeva la palude, il paesaggio davanti a loro non era molto più stimolante: una brughiera sabbiosa punteggiata ogni tanto da cespi di ortiche e sterpaglie. A qualche chilometro di distanza sorgeva qualcosa di enorme nascosto dalla bruma; qualcosa che sembrava una montagna, anche se aveva un aspetto bizzarro, come se avesse dei grossi bitorzoli.
“In una delle paludi stigee, immagino”, rispose Yue. “Di certo Cancro sarà qui da qualche parte, dobbiamo solo trovarla”.
“E chi te lo dice?”, intervenne Ed. “Non hai pensato che quel tizio inquietante alla scrivania ci abbia spedito apposta da tutt’altra parte? Voglio dire, era chiaramente un demone!”.
Il famiglio scosse la testa. “Non vedo perché. I demoni cercano di far funzionare gli Inferi nel miglior modo possibile, in fondo… Se avessero potuto, probabilmente ci avrebbero consegnato Cancro di persona. Dev’essere lei che non desidera andarsene, per il momento”.
“Bah, sarà come dici tu…”. L’alchimista era poco convinto, ma alzò gli occhi verso la colossale forma davanti a loro. “Che facciamo, andiamo in quella direzione?”.
“Che dici, palletta di pelo?”, domandò Gray. “Di lì va bene?”.
Mokona si agitò per qualche secondo. Non sembrava molto convinta, e i suoi occhietti sottilissimi erano piegati in un’espressione preoccupata. “Sì…”, mormorò. “Ma c’è qualcosa di strano, lì”.
I tre si misero in marcia. D’altronde, che altro avrebbero potuto fare? Dopo qualche minuto di cammino, però, Ed iniziò a rimpiangere la palude e i suoi rumori spaventosi; il silenzio che regnava sulla brughiera era opprimente e soffocante, premeva sulle orecchie con la forza di una pressa, ed era accompagnato da un crescente senso di aspettativa, come se da un momento all’altro il terreno dovesse spaccarsi e da esso emergere un indicibile orrore da qualche recesso dimensionale… ma nulla di tutto questo accadeva, e così i tre continuavano a camminare verso il bizzarro monte avvolto dalla nebbia, nel continuo timore che qualcosa potesse accadere. Era come guardare un film horror sapendo che non puoi metterti le mani davanti agli occhi, moltiplicato per diecimila.
“Sapete”, disse ad un certo punto Ed, arrivando molto vicino a terrorizzarsi da solo tanto gli sembrava estraneo il suono della propria voce. “Quella… quella cosa verso cui ci stiamo dirigendo… Insomma, non mi sembra proprio una montagna”.
“Già”, gli fece eco Gray. “Insomma, non è normale che la base sia più stretta rispetto al suo centro, no? Voglio dire, franerebbe”.
“Non è una montagna”, disse Yue, ieratico come sempre.
“D’accordo, signor So-Tutto-Ma-Non-Lo-Dico, allora spiegacelo tu che cos’è”, ribatté Ed.
“Ci siamo quasi”, rispose il famiglio. “Lo vedrete anche voi”.
La foschia sembrava addensarsi mentre si avvicinavano, cosicché la mastodontica costruzione non accennava ad acquistare chiarezza. Ormai dovevano essere ad un paio di centinaia di metri, eppure era come se avessero appena iniziato il loro cammino. “Non possiamo fare qualcosa, per questa dannata nebbia?”, domandò Gray, ad un certo punto. “Se volete potrei usare un incantesimo che…”.
“Non ce ne sarà bisogno”, lo interruppe Yue. “Guardate”.
Fu come se avessero attraversato un muro impalpabile spesso circa una trentina di centimetri. Improvvisamente, davanti ai loro occhi il misterioso enorme oggetto apparve in tutta la sua chiarezza.
“Ma che cazzo…”, balbettò Ed, troppo stupito per continuare.
Yue aveva ragione. Non era una montagna.
Era un water.
Un water colossale. Era un comune gabinetto in ceramica bianca, ma avrebbe potuto essere usato da duecento persone allo stesso tempo e ancora ci sarebbe stato spazio.
Quel che era peggio, aveva un occupante.
“Guarda, guarda, guarda”, ghignò il demone. Era viola, con corna da antilope e una folta barba che gli copriva il mento; l’unica cosa che indossava erano dei mezzi guanti e dei calzari gialli, e non sembrava molto di buon umore. “Dei viventi al mio cospetto. Erano… In effetti non è passato molto tempo, ma mi dà sempre un certo piacere vedere che vi agitate come formichine davanti a me. Potrei schiacciarvi anche solo sollevando un piede, sapete?”. La voce della creatura rimbombava direttamente nel cervello come una sequela di colpi di grancassa.
“Ma non lo farete”, rispose Yue, facendosi avanti. “Voi siete Belphegor, Sovrano dell’Accidia, Principe della Corruzione e Protettore delle Scoperte, dico bene? So che siete malizioso e cinico, ma non malvagio”.
Belphegor sorrise, mettendo in mostra file di zanne regolari. Ci tiene alla pulizia dentale, anche se è un demone, pensò Ed in maniera abbastanza incoerente, considerando la situazione in cui si erano cacciati. “Vedo che il tuo padrone o chi per lui ti ha istruito a dovere, familiare: non sono il tipo di demone che si diverta a fare questo genere di cose. In effetti, si può dire che siete stati fortunati ad incontrare me”, e si lasciò prendere da una risata secca e raschiante, mentre si batteva sulle ginocchia ossute le enormi mani artigliate. “Come mai avete raggiunto il mio regno?”.
“Siamo stati buttati qui da un tentacolo, a dire il vero”, intervenne Ed. “Quel tizio inquietante all’entrata ci ha detto che potevamo entrare ed eccoci qua”.
Belphegor sollevò un indice e lo infilò nella narice destra, iniziando a muoverlo con voluttà. “Da quando ha ceduto la sua nave per quella scrivania Caronte ha perso tutto il suo smalto”, si lamentò. “Prima non rifiutava mai una bella bevuta, quando non era in servizio, ma ora sempre e solo lavoro, lavoro, lavoro… Bah, gente del genere proprio non la capisco”. Il demone si chinò in avanti. “Ancora non mi avete spiegato perché siete qui, però”.
Yue decise di prendere di nuovo la parola. “Marchese della Pigrizia, siamo giunti qui perché dobbiamo trovare una nostra compagna dispersa, che fino a qualche tempo fa era una vostra dipendente. Credo si facesse chiamare ‘la fanciulla dell’Inferno’”.
Belphegor grattò la barba arruffata con lo stesso dito con cui aveva appena finito di scaccolarsi. “Oh, certo, certo. Di poche parole, ma davvero graziosa. In effetti so che è riapparsa recentemente qui negli Inferi, anche se è più grande rispetto a come me la ricordavo… Non mi abituerò mai ai modi strani in cui voi viventi cambiate nel corso del tempo”.
“E quindi”, disse Gray, rivolgendosi al demone per la prima volta. “Perché non ci dite dove si trova?”.
La creatura si agitò in un altro attacco di risa, la testa che ballonzolava di qua e di là tanto che pareva dovesse staccarsi da un momento con l’altro. “Per chi mi hai preso, per un angelo? Non sarò particolarmente malvagio, è vero, ma questo non vuol dire che sia un idiota. Se volete sapere dov’è la Fanciulla dell’Inferno dovrete dimostrare di meritarvi l’informazione”.
“Meritarcelo?”, ripeté Ed. “Spero che non sia una cosa che ha a che fare con la pulizia del vostro, ehm… trono, perché se è così vi posso assicurare che non ho nessuna intenzione di…”.
“Voglio divertirmi, è semplice”, spiegò Belphegor. “Insomma, lo vedete anche voi, qui intorno non si può dire che sia un parco giochi. Non che non abbia provato anch’io a rimodernare, come hanno fatto i miei colleghi, ma la mia corte è – giustamente – troppo pigra per ottenere risultati apprezzabili. Un bello scontro, però…”, il demone sfregò i palmi delle mani uno contro l’altro. “Quello riesce sempre a mettermi di buonumore”.
Gray lo fissò, come se stesse soppesando un pesce al mercato. “Intendete dire che dobbiamo scontrarci con voi?”.
“No, ovvio. Non ho bisogno di divertirmi tanto. Tre dei miei sottoposti saranno più che sufficienti”. Il demone levò la testa, come un coyote che si prepari ad ululare in cima ad una duna, ed emise un richiamo che suonava come l’incubo di un cantante di yodel.
“Ci ha chiamati, padrone?”. Una creatura dalla pelle blu e dalla testa di elefante alta almeno due metri e mezzo si era materializzata ai piedi dell’enorme tazza del cesso. Con lui un uomo avvolto in un mantello, la carnagione grigia segnata da grandi cicatrici rosse, e un essere dalle fattezze umanoidi, il muso da leone e quattro ali d’aquila che gli spuntavano dalla schiena.
“Ecco, lo sapevo…”, borbottò Ed. Fece schioccare le ossa delle dita e del collo, poi la sua espressione abbattuta si trasformo in una smorfia decisa. “A quanto pare ci toccherà combattere, come al solito!”.
MOKONA: Sì! Combattimento, combattimento!
ED: Tu che hai da essere così esaltata?
MOKONA: Anche Mokona si diverte a vedere la gente che si pesta! Peccato non avere del saké da bere nel frattempo…
GRAY: Questo significa che sei maggiorenne?
YUE: Il decimo capitolo di “Il cielo è un’ostrica, le stelle sono perle”, si intitola “Il fiore che danza in patria, parte seconda”. E ora, nel nome della Luna, io vi punirò!
ED, GRAY, MOKONA: …CHE!?
YUE: …niente, niente.
Ed eccoci al nono capitolo! Scusate l’attesa.
Come avrete notato, è diviso in due parti e si concentrerà su personaggi che non sono i protagonisti. I Saint comunque avranno un ruolo abbastanza importante nella vicenda, quindi ho voluto dedicare un po’ di spazio ad alcuni di loro.
Questo è il mio ultimo capitolo prima delle vacanze, comunque! Domani parto per il Giappone, dove starò fino al 3 Settembre; ci vado per un corso di lingua, eh, non solo per svago.XD Comunque avrò con me il pc, quindi in realtà cambierà ben poco (per fortuna… Non riuscirei a stare senza Internet per più di un mese!).
Stavolta non ho grandi cose da dire, quindi passo direttamente alle risposte alle recensioni.
Per Morens: Sì, in effetti Zaraki non ci va mai leggero! Se non altro, essendo Stein un dottore proveniente da uno shonen, cura i suoi pazienti alla velocità standard di guarigione dei manga, quindi velocissima.XD
Per Anonimo: Piton in versione coniglio è puccioso, nevvero?XD Questo però è meglio non dirglielo, sennò un Crucio non ce lo leva nessuno (si china appena in tempo e la maledizione gli passa sopra la testa, bruciacchiandogli i capelli)!
Come sempre ringrazio anche chi ha messo la sua storia nelle preferite/seguite/ricordate e chi mi legge senza lasciare commenti.^^
E anche per stavolta è tutto. Appuntamento al decimo capitolo!
Davide
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** Parte Prima, Capitolo 10 - Il fiore che danza in patria, parte seconda ***
CAPITOLO DECIMO – IL FIORE CHE DANZA IN PATRIA, PARTE SECONDA
“Vattene”.
La voce di Long rimbombò nella caverna scura, spaventando un piccolo stormo di pipistrelli che iniziarono a berciare acuti dalle parti del soffitto.
Critical riusciva a vedere appena i contorni della figura dell’uomo, che se ne stava seduto nei pressi di una stalagmite, la testa china. “Vattene?”, ripeté. “E da quando saresti in una posizione da darmi ordini?”. Levitava a circa mezzo metro da terra, le braccia incrociate e gli occhi scuri che fissavano dall’alto in basso il Santo della Bilancia.
“Non è un ordine”, rispose lui. “Si tratta di una preghiera”. A dispetto delle parole, il tono della sua voce non era affatto lamentoso.
Critical iniziò a scendere, centimetro dopo centimetro, fino a che i suoi piedi toccarono il suolo. “E da quando esaudisco preghiere?”, domandò, avvicinandosi con passi lenti a Long. I sassolini sul pavimento della grotta iniziarono a vibrare, come se un martello pneumatico silenziosissimo fosse entrato in azione. Finalmente, arrivò davanti all’uomo seduto a terra. “Perché invece non facciamo così: tu torni indietro senza fare storie e io eviterò di farti sputare la cistifellea. Che dici?”.
Lui alzò la testa di un paio di millimetri. Anche nella semioscurità, le lenti rotonde dei suoi occhiali riuscirono a catturare qualche filamento di luce. “Perché sei venuta?”.
“Settimana scorsa ho mandato qui Toro, ma come al solito lui è troppo buono… Ecco perché mi sono scomodata io”.
Long non rispose, ma si limitò a sospirare.
“Oh, e ora che farai, Bilancia? Ripartirai con la tua manfrina: “Sono un mostro, nessuno dovrebbe avvicinarsi a me, buhuhu!”? Perché, detto sinceramente, ne ho le palle piene”.
“Ma è questo che sono. Un mostro”. Long sembrava impossibile da smuovere.
Ovviamente, aveva fatto i conti senza Critical.
Un secondo dopo, l’uomo si trovò inchiodato alla parete opposta della grotta, mentre i pipistrelli si levavano in volo impazzati riempiendo l’ambiente di strida. Le mani della donna erano strette intorno al suo collo, in una morsa fin troppo forte anche per i muscoli tonici delle sue braccia. “Ho detto”, scandì lei, una sillaba più pesante dell’altra. “Che. Ne. Ho. Le. Palle. Piene. Probabilmente la prima volta non avevi capito, ma te lo ripeto: ora tu verrai con me, la pianterai di frignare come una bambina e tornerai a fare quello che fanno tutti gli altri Santi. Altrimenti te lo farò vedere io”, le dita di Critical quasi affondarono sotto la pelle, fin nella giugulare dell’uomo. “Chi fra noi due è il vero mostro”.
Sigla d’apertura: Agony, di Kotoko
“Le regole sono semplici”, spiegò Belphegor. “Dovrete sconfiggere i miei sottoposti. Ovviamente in scontri uno contro uno, non voglio che il divertimento finisca troppo in fretta”.
Il demone con la testa da elefante si volse verso l’alto. “Ma, o Sommo, ci sottovalutate così?”, si lamentò. Aveva un vocione gutturale e confuso, come se parlasse attraverso un basso tuba. Sarà colpa della proboscide, concluse Ed.
Belphegor ridacchiò. “Siete voi che state sottovalutando quei tre, Vetala”, rispose. “Ti assicuro che dovrete impegnarvi parecchio, per evitare che non vi uccidano”.
“Noi non uccidiamo nessuno, a meno che non sia assolutamente necessario”, precisò Yue. “È una delle nostre regole”.
Dal gruppetto dei demoni se ne staccò uno. Il suo volto grigio, segnato da tatuaggi rossi – o forse erano cicatrici? – era deformato in una smorfia arrogante. “Sarà, ma a me sembra un discorso da mammolette. In un combattimento il più forte sopravvive, lo sconfitto no. Questa è l’unica regola che conta, per me”.
“Interessante”, ghignò Ed facendosi avanti a sua volta. “Come hai detto di chiamarti?”.
“Sono Surt, Signore delle Fiamme, Prospettore degli Incendi e…”.
“Sì, credo di avere afferrato”. L’alchimista alzò gli occhi verso Belphegor. “Bene, il primo incontro allora sarà fra Surt e…”.
“Gray Fullbuster, Santo dell’Acquario!”.
Ed si voltò, gli occhi larghi come piattini da caffé. “COSA!?”, esclamò.
Gray, intanto, stava finendo di ammonticchiare con calma i pezzi di Cloth che si era tolto: addosso gli erano rimasti sono gambali, schinieri ed elmo, petto e braccia rigorosamente e ostentatamente nudi. “Quello che ho detto”, rispose. “Lui usa le fiamme, no? Bene, era da un po’ che volevo prendere a calci qualcuno con quel tipo di magia”.
“Ma lo stavo per dire io! Dovevi pensarci prima, scusa!”.
“Perché invece non te ne stai un po’ tranquillo tu, nano?”.
“A CHI AVRESTI DATO DELLO GNOMO DA GIARDINO!?”.
“A TE, MICROBO! SEI UN BATTERE, UN’AMEBA, UN PARAMECIO, UN PIDOCCHIO!”.
“SCOMMETTO CHE NON SAI NEMMENO COS’È, UN PARAMECIO! E POI SEI LA PROVA VIVENTE DI COME GLI IDIOTI NON SI AMMALANO MAI, CON TUTTO IL TEMPO CHE TE NE STAI MEZZO SVESTITO MI STUPISCO CHE TU NON ABBIA SEMPRE LA DIARREA!”.
“Ora basta”. Yue tese le braccia e afferrò i suoi due compagni – che ormai erano muso a muso e minacciavano di darsele da un attimo con l’altro – per le spalle, costringendoli ad allontanarsi l’uno dall’altro. “Tenete l’energia per i combattimenti”.
Gray sospirò in maniera teatrale. “Finalmente sento di essere entrato nell’umore giusto per lottare”. Si voltò verso l’alchimista. “È tutto merito tuo, Ed”, e alzò il pollice della mano destra con aria convintissima.
Ed lo fissò perplesso per un paio di secondi, poi sollevò il pollice dell’automail. “Quando vuoi!”, esclamò. Mentre Gray si dirigeva baldanzoso verso Surt voltò la testa dall’altra parte e borbottò “Idiota”.
“Bene, vediamo di non perdere tempo!”, disse il demone delle fiamme, scrutando il suo avversario. “Piuttosto, sei sicuro di non voler indossare tutta l’armatura? Guarda che non ho intenzione di andarci leggero”.
Gray incrociò le braccia. “Un vero uomo combatte sempre a petto nudo. E questa è una mia regola!”.
Surt annuì. “Vedo che ci troviamo d’accordo!”. In effetti il demone indossava soltanto un mantello. “Sei simpatico, per un essere umano!”.
Come si dice, chi si assomiglia si piglia…, pensò Ed. Mentre Gray e Surt continuavano a scrutarsi con aria d’approvazione, l’alchimista sobbalzò: qualcosa gli si stava arrampicando su per la schiena. Soppresse a stento un gemito di disgusto, e già si preparava a voltarsi per fronteggiare la bestiaccia infernale, quando Mokona gli si arrampicò in testa. “Dannata palletta di pelo, avvertimi prima di fare una cosa del genere! Vuoi farmi pigliare un infarto?”.
“Non posso mica stare su Gray mentre combatte”, replicò pratico l’animaletto.
“Forza, cominciate!”, tuonò Belphegor dall’alto del suo gabinetto.
“Con vero piacere!”, gridò Surt. “MARAGI!”. Nelle sue mani aperte sbocciarono all’istante due fiamme. “Vediamo come te la cavi con questo, Cavaliere!”. E riunì i palmi: i due fuochi crearono un raggio bruciante che si diresse verso Gray.
“ICE MAKE… BARRIER!”. Le mani tese in avanti, il Santo dell’Acquario si limitò a creare una muraglia di ghiaccio di fronte a sé. Il Maragi vi impattò con violenza, iniziando a scavarvi un foro da cui si levavano nuvole di vapore, ma la barriera resse. “Phew, se il tuo attacco fosse durato un secondo di più me la sarei vista davvero brutta!”, esclamò, fissando la sua barriera quasi del tutto squagliata.
“Scemo! E glielo dici anche?”. Ed non riuscì a trattenersi dall’urlargli contro.
“Buono a sapersi!”, ghignò Surt, qualche fiammella che ancora gli crepitava sulle unghie.
“Ecco, visto?”, continuò il Santo dell’Ariete.
“Ma stai zitto!”, lo rimbeccò Gray. “È ovvio che non è vero, posso tenere la barriera in piedi molto più a lungo! Sto solo cercando di fregarlo facendogli credere il contrario, così riuscirò a coglierlo alla sprovvista!”.
Un momento di silenzio generale.
“Lo sapevo che dovevo portarmi dietro Pesci e Capricorno…”, sentenziò Yue, la cui faccia da poker era più vicina che mai a incrinarsi.
“Ehm… d’accordo, basta parlare!”. Surt sembrava essere riuscito a mantenere una parvenza di serietà. “Abbiamo un combattimento in corso, insomma!”.
“Oh, giusto!”, esclamò Gray, mentre la temperatura intorno a lui calava di almeno una dozzina di gradi. “ICE MAKE… DIAMOND DUST!”; e lanciò un diretto destro che nemmeno si avvicinò all’avversario, ma gli rovesciò contro una vera e propria tormenta di neve.
Surt, per nulla intimorito, si limitò a frapporre il mantello fra sé e la tecnica. “Su, umano, sono sicuro che puoi fare di meglio!”, disse, scrollando i cristalli di neve rimasti attaccati al tessuto. “Questo non mi ha fatto nemmeno il solletico!”.
“Davvero?”, rispose Gray, stupito. “Beh, riproviamo, allora! ICE MAKE… DIAMOND DUST!”.
Questa volta la tecnica passò ad almeno mezzo metro alla sinistra di Surt, senza neppure sfiorarlo. “Che c’è, combatti da meno di cinque minuti eppure sei già così stanco che non riesci a prendere bene la mira?”, disse il demone, con la chiara intenzione di provocare l’avversario.
“ICE MAKE… DIAMOND DUST! DIAMOND DUST! DIAMOND DUST!”. Il Santo dell’Acquario rispose con altri tre colpi in rapidissima successione… Nessuno dei quali, però, arrivò al bersaglio.
Surt non sembrava granché divertito. “Ti ho sopravvalutato, pare”, ringhiò, scoprendo i denti appuntiti. “Non sei degno di essere mio avversario… Ti finirò con la mia tecnica più potente, anche se usarla su uno come te è un vero spreco!”. La sua smorfia si trasformò all’istante in un sorriso gongolante.
A me invece sembra che voglia usarla eccome e che non aspettasse altro…, pensò Ed.
Gray, dal canto suo, sembrava spazientito. “D’accordo!”, esclamò. “Allora anch’io ricorrerò al mio colpo migliore, e vedremo chi avrà la meglio!”.
“Prima ti conviene migliorare la mira, idiota!”, lo rimbeccò il demone. “Ma non preoccuparti, una volta che sarai morto avrai un’eternità per esercitarti!”. Le cicatrici che fasciavano il suo corpo iniziarono a virare dal rosso all’arancione, poi al giallo fino a raggiungere il calor bianco. Le piante rachitiche che punteggiavano la steppa si incenerirono nel raggio di una ventina di metri. “Ora sarai sottoposto al giudizio delle fiamme che gli stessi dei temono! Ragnarok!”.
“Parli troppo per essere uno sicuro di vincere”, disse Gray, mentre concentrava il proprio cosmo. L’aria intorno a lui si tinse di una sfumatura azzurra, come se si trovasse immerso nell’acqua.
Surt scoppiò a ridere di gusto; i denti gli brillavano come gemme e piccole scintille gli rotolavano sulla lingua fino alle labbra. “Usando il ghiaccio non potrai mai vincere contro il fuoco! Tu puoi arrivare al massimo allo zero assoluto, mentre le mie fiamme bruciano a milioni di gradi!”. La sabbia intorno ai suoi piedi iniziò a fondersi, creando dei cristalli di vetro che riflettevano il bagliore emesso dal corpo del demone prima di squagliarsi nuovamente.
“Perché queste cose non le vai a raccontare a Dark Schneider?”, gridò il Santo, portando indietro il braccio destro per poi lanciare un ennesimo diretto contro l’avversario. “ICE MAKE… FREEZING COFFIN!”.
Sulle labbra di Surt era già pronto un sogghigno, che però si spense in un attimo. La ventata di gelo stavolta era decine di volte più intensa delle precedenti, un uragano di neve e ghiaccio che lo colpì in pieno; i suoi piedi e le sue gambe, prima che avesse il tempo di reagire, furono avvolti in un sarcofago durissimo e trasparente che continuava ad avanzare implacabile verso l’alto. “E-ehi, bastardo, non avevo ancora finit…”, provò a protestare, prima che il gelo gli raggiungesse la bocca.
“L’hai… l’hai ucciso?”, mormorò Ed, avvicinandosi alla bara di ghiaccio. Surt era perfettamente incastonato all’interno, come un insetto fra due vetrini da laboratorio, un’espressione sconcertata sul volto grigio. Le sue bruciature erano tornate del consueto colore rosso vivo.
Gray si riaggiustò l’elmo, scrollandosi dai capelli le gocce di sudore cristallizzate. “Certo che no!”, esclamò. “Fra un po’ il ghiaccio si scioglierà da solo, e lui sarà tale e quale a prima”.
“Fra un po’ quanto?”.
“Un paio di decenni, credo”.
“Cosa!?”.
“Ci sono andato leggero, eh”.
Gli altri due demoni non sembravano granché turbati o rattristati per la sorte del loro compagno: fra gli esseri infernali lo spirito di squadra non doveva essere un sentimento molto diffuso. Quanto a Belphegor, era certo che lo scontro lo avesse divertito. “Era ora che qualcuno desse a quel montato di Surt la lezione che meritava!”, ghignò fra una risata e l’altra. Nella polvere ai piedi del water gigante precipitò una lacrima che da sola sarebbe bastata a riempire una piscina gonfiabile. “Sei stato davvero incredibile, umano!”.
“Grazie!”, rispose Gray con aria fiera. “D’altronde, non potevo certo lasciarmi sconfiggere da uno del genere!”.
“Pare che lo abbiamo sottovalutato”, commentò Yue rivolto verso Ed. “A quanto pare quei Diamond Dust lanciati a caso in realtà servivano a raffreddare l’aria intorno a Surt. Così, nonostante il calore del Ragnarok, la Freezing Coffin ha comunque avuto effetto”. Il famiglio era pericolosamente vicino a sorridere. “Il Santo dell’Acquario è un combattente molto più intelligente di quanto non lasci supporre”.
“Certo, se fossi riuscito a colpirlo con i Diamond Dust ci avrei messo molto meno!”, esclamò Gray giusto un secondo dopo.
Ed lanciò uno sguardo di sbieco a Yue. “Dicevi?”, domandò, con un sogghigno.
Il viso del Cavaliere del Sagittario era tornato ad essere impenetrabile. “Spesso la prima impressione è quella giusta”, commentò.
Nel frattempo, Gray si era avvicinato ai compagni di squadra. “Allora, come vi sono sembrato?”, domandò, con un sorriso a trecento denti.
“Incredibile, incredibile”, si complimentò Ed, con una punta di ironia tanto sottile da essere a stento rintracciabile. “Ma fammi capire, chi era questo Dark Schneider?”.
“Storia lunga”, si limitò a rispondere l’altro. “Quando torneremo al santuario te la racconterò”.
L’alchimista sollevò gli occhi. “Forza, palla di pelo, torna sul tuo trespolo. Adesso tocca a me combattere”. Prese in mano Mokona e la appoggiò sulla spalla di Gray – per mettergliela in testa avrebbe dovuto sollevarsi sulle punte, cosa che voleva evitare – poi si diresse verso i due demoni rimasti (la scultura di ghiaccio di Surt era stata trascinata da parte, accanto al gabinetto). “Forza, chi è il mio avversario?”.
L’umanoide dalle quattro ali e la testa di leone si fece avanti. “Sono Pazuzu”, disse semplicemente.
“Bene, signor Pazuzu, che ne dici se non perdiamo tempo? Non vedo l’ora di andarmene da questo postaccio!”, rispose Ed, picchiando insieme i palmi. “Stardust Transmutation!”, gridò, mentre li separava: una luce accecante si irradiò dalle mani del Santo, costringendo i presenti a distogliere lo sguardo.
“Devo ammetterlo… sei davvero… davvero forte…”. La voce di Pazuzu suonava affannata, e quando tutti recuperarono la vista capirono perché: una delle sue quattro ali era stata ridotta a brandelli, e dal mozzicone d’osso rimasto colava del fluido nerastro e lattiginoso. “Non… non credo di poter competere…”.
Ed fece spallucce, per quanto i grossi corni dell’Ariete glielo permettessero. “Puoi sempre arrenderti”, suggerì.
Pazuzu scoprì una zanna in una smorfia obliqua; gocce di sudore gli imperlavano il pelo color sabbia. “Vero”, disse. “Oppure posso fare questo”. E si lanciò in avanti, dritto verso il suo rivale.
Ed si mise in posizione di guardia. “Non so cosa speri di fare, ma…”, iniziò.
Poi, Pazuzu scomparve.
Vetala sospirò attraverso la proboscide, un suono basso e dolente che sembrava uscito da una cornamusa. “Riecco che comincia con quei suoi trucchetti…”, borbottò.
“Quali trucchetti?”, domandò Gray, un po’ confuso. “E comunque dov’è finito Paz… Pazu… quello là?”.
“Pazuzu”, lo corresse Yue. “E sono sicuro di avere già sentito questo nome”.
Ed scoppiò a ridere, e non era un suono che proveniva dai suoi polmoni; era basso e gorgogliante, come qualcosa di enorme che nuota dentro una fogna. “Ce l’ho fatta!”, gracchiò una voce gutturale attraverso le labbra del Cavaliere. “Prendere il controllo di questo deficiente è stato più facile del previsto!”.
“Ma certo, Pazuzu!”, esclamò Mokona. “Mi sono ricordata chi è! Era in un film che ho visto con la padrona Yuko qualche settimana fa!”.
“Beh, a questo punto tanto che cosa fa lo abbiamo già capito tutti…”, disse Gray.
Ed ruotò la testa di centottanta gradi, fissando i suoi compagni. La sua faccia sembrava l’incrocio fra quella di Darth Vader senza il casco e una maschera di Hallowe’en. “C’è tua madre qui con noi, Yue”, disse, in tono malignamente sadico. “La vuoi salutare?”.
Il Cavaliere del Sagittario mosse un muscolo. “Madre?”, ripeté. “Sono stato creato dalla magia, non ne ho mai avuta una”.
“Anche Mokona!”, ci tenne a precisare l’animaletto.
Ed/Pazuzu sembrò colto alla sprovvista. “Ehm…”, borbottò, voltando la testa verso Gray. “Allora c’è tua madre!”.
Il mago alzò le spalle. “E allora? Anche se fosse sono orfano e non l’ho mai conosciuta, quindi…”.
“Maledizione, possibile che nessuno abbia una madre, da queste parti?”, ringhiò il posseduto.
“Io no”, rispose Vetala.
“Nemmeno io”, aggiunse Belphegor dal suo cesso. “Privilegi di essere stati creati direttamente dal Grande Capo lassù”.
Gray scoppiò a ridere. “In effetti hai scelto proprio l'unica persona che non avresti dovuto possedere”.
Ed spalancò la bocca, rivelando una chiostra di denti appuntiti e marcescenti. “E perché?”.
Il Cavaliere dell’Acquario scrollò le spalle. “Beh, è l’unico con una mamma morta!”.
L’alchimista rimase lì, con le fauci aperte, come se stesse cercando una risposta abbastanza intelligente. Poi, dal fondo della sua gola iniziò a levarsi un basso, incomprensibile mormorio.
“Che è successo?”, domandò Gray a Vetala. “È andato in tilt?”.
Il demone elefante scosse il testone. “Non l’ho mai visto fare così… Di solito possiede la gente e ogni tanto vomita qualcosa, ma non molto di più”.
Il mormorio diventava di secondo in secondo sempre più forte. “Non… non è possibile!”, gridò Pazuzu disperato. “Una cosa simile non può accadere!”.
“Non osare… non osare… non osare…”. La seconda voce era finalmente diventata comprensibile. La mano destra di Ed iniziò a sollevarsi, chiusa a pugno.
“Che stai cercando di fare!?”, strillò Pazuzu, quasi isterico.
“Nonosarenonosarenonosarenonosarenonosarenonosare”. Il braccio continuava ad alzarsi.
“La mia possessione è perfetta! Perfetta!”.
“NON OSARE PARLARE MALE DI MIA MADRE!”, gridò Ed, prima di tirarsi un pugno in piena faccia. Pazuzu schizzò fuori dal corpo dell’alchimista e volò per una decina di metri prima di atterrare di faccia fra gli sterpi bruciacchiati, come se il cazzotto lo avesse colpito in pieno. “E lei è di sicuro in paradiso, chiaro?”, ci tenne a precisare Ed, che ora esibiva un vistoso livido sulla guancia destra. Poi si massaggiò il collo con la mano sana. “Mi farà male per una settimana, cazzo…”, si lamentò a bassa voce. “E perché ho questo sapore schifoso in bocca?”.
“Ahahahahah!”. Belphegor si era lasciato prendere da un altro accesso di risa. “Piccoletto, sei davvero incredibile!”.
“A CHI AVRESTI DATO DELLA CREATURINA A STENTO VISIBILE?”.
“A-aspettate!”. Pazuzu era riuscito a rialzarsi sui suoi artigli, anche se piegato e ansimante. “Il duello non è ancora finito!”.
Ed sbuffò. “Certo che potevi pure startene per terra e far finta di essere svenuto, eh?”. Il cosmo iniziò a raccogliersi intorno, dorato come i suoi occhi. “Beh, ormai non è più importante… STARLIGHT EXTINCTION!”.
Dal pugno che Ed scagliò contro il demone si irradiò di nuovo una luce troppo intensa perché lo sguardo potesse reggerla… e quando si fu dissipata, Pazuzu era scomparso.
“Oh, no!”, esclamò Mokona, nervosa. “Ha posseduto qualcun altro!”.
“Nah”, rispose Gray per Ed. “È semplicemente l’effetto di quella tecnica: trasporta l’avversario fuori dalla battaglia. E lo può trasportare ovunque”.
“E allora perché non l’avete usata per arrivare qui?”.
“Semplice”, disse il Santo dell’Ariete. Sembrava un po’ imbarazzato, mentre si grattava il mento con un dito dell’automail. “È vero che posso mandare qualcuno ovunque, ma non posso mica decidere dove! Chissà dov’è finito Pazuzu, in effetti…”.
“’Cos you make me feel, you make me feel…”. Nella sua stanza da letto su Eidolon – stanza da letto debitamente insonorizzata – Albus Silente si preparava per andare a dormire.
“You make me feel…”. Come ogni sera, però, aveva acceso il modernissimo impianto stereo e ora cantava e ballava per la stanza con indosso una vestaglia di lamè rosa e un paio di pantofolone pelose dello stesso colore. Una bella impresa, per un ultracentocinquantenario.
“Like a natural woma… ah?”. Il mago interruppe la sua esibizione: al centro della stanza era apparso un grosso demone ferito ad un’ala, che si guardava intorno con aria spaesata.
“Dove… dove sono?”, domandò la creatura.
Silente sorrise, ma non si trattava del tipo di sorriso che la gente ama vedersi rivolgere. “La pregherei di non raccontare a nessuno ciò che ha appena visto”, disse, estraendo la bacchetta da una delle tasche della vestaglia. “A nessuno”.
“E così, adesso tocca a me”. Yue non dimostrava molta voglia di combattere; il che, a ben pensarci, era normalissimo, visto che non dimostrava mai molto di niente. Ciononostante si fece avanti, pronto a fronteggiare Vetala.
Il demone elefante sembrava aver ritrovato un po’ della sua baldanza iniziale. “Sei sfortunato a combattere proprio contro di me”, confidò a Yue. “In confronto al mio potere quelli di Surt e Pazuzu sono trucchetti buoni al massimo a spaventare i bambini”. E concluse il suo intervento con uno squillo di proboscide, una nota alta che sembrava un segnale di carica suonato con una tromba.
Il famiglio non era né impressionato né spaventato dalla dichiarazione: fra le sue dita pallide si materializzò un arco di luce, con una freccia già incoccata. “Posso andare?”, domandò, levando lo sguardo su Belphegor.
“Prego”, rispose quello, con un ampio gesto della mano. Sembrava sempre più divertito.
“E-ehi, un attimo!”, balbettò Vetala, sollevando le sue zampone callose. “Mi ci vuole un po’ di preparazione prima di usare le mie tecniche, e…”.
“Mi dispiace, ma non sono mai stato un tipo paziente”, rispose l’altro con il tono di chi sta pronunciando un verdetto di colpevolezza senza possibilità di appello. “Moonlight Break”. E scoccò la freccia.
“Wow”, esclamò Ed qualche secondo dopo, mentre si avvicinava al corpo fumante del demone, crivellato da decine e decine di dardi luminosi. “Questo mi farà ricordare che è meglio non farti incazzare”.
“Non preoccuparti, sopravviverà”, disse Yue, mentre la sua arma gli si dissolveva dalle mani. “Non ho colpito nessun punto vitale”.
“Sì, ma di quelli non vitali non ne hai mancato uno, vedo!”, replicò Gray, studiando Vetala con aria critica.
L’ennesimo accesso di risate catarrose impose il silenzio sui Cavalieri. “Complimenti, avete superato la prova”, chiocciò Belphegor, omaggiando i tre con un breve applauso. “Ora tocca a me rispettare la mia parte del patto”. Poi fece qualcosa di incredibile e di inaspettato: si alzò in piedi.
“Ehi, ma che…”, iniziò Ed, prima che un’enorme mano viola e guantata calasse dall’alto e afferrasse lui, Gray, Mokona e Yue, sollevandoli di quasi un centinaio di metri fino al volto barbuto di Belphegor. “Ehi, che intenzioni hai?”, strepitò l’alchimista, tentando di liberarsi dalla presa senza grandi risultati. “Vuoi per caso mangiarci, bastardo?”.
“Ariete, rilassati”, disse Yue. “Non ci succederà niente”.
“E invece a me pare proprio una di quelle situazioni in cui succederà qualcosa eccome! Che poi proprio tu parli di rilassarsi, che hai sempre quella faccia da lobotomizzato!”.
“Ora stai straparlando”.
Proprio in quel momento il demone lasciò la presa. I quattro nemmeno ebbero il tempo di urlare, prima di impattare contro l’acqua.
“Ehi, avreste potuto almeno avvertirci”, disse Gray, quando fu riemerso. “Non è mica facile nuotare con tutto questo metallo addosso!”.
“Ma… dove…”, balbettò Ed, guardandosi intorno. I Cavalieri erano stati gettati in un lago dalla forma più o meno tondeggiante, dalle pareti bianche e digradanti. Pareti che sembravano proprio fatte di ceramica. “Ma che schifo!”, urlò, mentre i suoi occhi si riempivano di consapevolezza e di terrore. “Ci ha buttati nel cesso!”.
“Beh, ma mi sembra bello pulito”, osservò il Santo dell’Acquario.
“Ma non è questo il punto, idiota!”.
Belphegor si piegò su di loro, con un ghigno sardonico che emergeva dalla barba. “Salutate la Fanciulla dell’Inferno da parte mia!”. E tese la mano verso il pulsante di scarico.
“Non ci provare nemmeno!”, protestò Ed; ma fu tutto inutile: dal fondo dell’enorme water si levò un gorgoglio che suonò come lo schianto di un autocarro e l’acqua iniziò a ruotare creando un colossale vortice da film catastrofico ambientato in mezzo all’oceano. Prima di venire risucchiato dal gorgo, il Santo dell’Ariete riuscì a gridare: “UN GIORNO RIUSCIRÒ A VENDICARMI, BASTARDOOOOOOOOOOOOOOOOOOH…”.
Belphegor sollevò le dita dal pulsante e osservò l’acqua che tornava calma e ferma. Si concesse un’ultima, piccola, simbolica sghignazzata e tornò a sedersi sul suo trono, attendendo l’arrivo di qualcosa o qualcun altro che riuscisse a divertirlo.
Il viaggio via gabinetto fu molto più breve di quanto i Cavalieri avrebbero potuto sperare: solo mezzo minuto dopo erano seduti sulle sponde di un laghetto – stavolta, per fortuna, niente ceramica bianca nelle vicinanze – e si stavano riprendendo dagli effetti dell’insolito mezzo di trasporto.
“Mokona si è divertita un sacchissimo!”. Esclamò l’animaletto, saltellando sulla testa di Gray. “Lo rifacciamo, lo rifacciamo?”.
Alcuni si erano ripresi più in fretta di altri.
“Ma nemmeno per sogno!”, rispose (ovviamente) Ed, che stava tentando di liberarsi dall’acqua finitagli nelle orecchie. “Non voglio rivedere quel tizio disgustoso mai più!”.
“Piuttosto, dove siamo?”, domandò Gray. Il luogo in cui Belphegor li aveva scaricati era immerso in un crepuscolo color del sangue; accanto alla riva del lago crescevano larghe chiazze di asfodeli, con i lunghi petali bianchi tanto diafani da sembrare soffiati nel vetro. Non c’era vento, né stormire di foglie; perfino il battito d’ali delle rare farfalle nere che giungevano a succhiare il nettare dei fiori non produceva alcun rumore.
“È ancora più inquietante della palude di prima, vero?”, continuò il Santo dell’Acquario. Nessuno rispose.
“Che cosa facciamo?”, chiese Ed, qualche minuto dopo.
“Aspettiamo”, disse Yue. Nonostante il bagno forzato, sembrava perfettamente asciutto.
“Aspettiamo cosa?”.
“Ehi, ma guarda chi c’è!”, esclamò una voce di donna. I tre Cavalieri e Mokona si voltarono, scoprendo che due figure ora sostavano a pochi metri da loro: la proprietaria della voce, bella, magra, pallida e abbigliata con un kimono dagli eleganti motivi astratti, e un ragazzo dal taglio degli occhi tanto stretto da farli sembrare serrati. “Siete gli… amici della padrona”, disse quest’ultimo, un po’ sorpreso. “Che ci fate da queste parti?”.
Ed sospirò. “Meno male, allora il vecchio bastardo barbuto non ha mentito…”.
Yue chinò il capo di fronte ai nuovi arrivati. “Signor Ichimoku, Donna delle Ossa, è un piacere vedervi. Immagino che Cancro non sia lontana”.
I due si fissarono, scambiandosi un sorriso complice. “Certo”, rispose la Donna delle Ossa. “È in casa, insieme a Wanyuudo”.
“Casa?”, domandò Gray. “Quale casa?”.
La soluzione arrivò dalla cima della sua testa. “Quella davanti a noi”, disse Mokona, le braccine incrociate sul petto. “Non la vedete?”.
I tre Santi socchiusero gli occhi, come se una luce troppo intensa li avesse costretti ad abbassare le palpebre. Per qualche secondo l’aria di fronte a loro tremolò in maniera simile alle onde di calore estive che si levano dall’asfalto, ma alla fine la casa comparve. Era in sobrio stile giapponese, più simile ad un santuario scintoista che a un’abitazione vera e propria. Ed distolse quasi subito lo sguardo da quelle pareti di legno e carta di riso. È come se fosse abbandonata, pensò, tornando a fissare il lago. Anzi, è come se sapesse di essere abbandonata.
“La vostra guida è davvero incredibile”, si complimentò Ren Ichimoku. “Riuscire a scrutare attraverso le illusioni dell’Inferno non è cosa da tutti”. E indirizzò un sorriso galante a Mokona, che rispose con una serie di borbottii compiaciuti.
La Donna delle Ossa intanto aveva salito i gradini del portico, che avevano scricchiolato lugubri sotto i suoi piedi nudi, si era inginocchiata davanti allo shoji e lo aveva fatto scorrere. “Prego, signori”, invitò. “Mi raccomando, toglietevi i calzari prima di entrare”.
Agli occhi dei tre Cavalieri fu necessario qualche secondo per abituarsi alla semioscurità. La grande stanza in cui si trovavano era spoglia: l’unico arredamento era rappresentato da un tavolino laccato di nero e a un vecchio Macintosh spento nell’angolo più buio. In piedi accanto al PC c’era un signore anziano dall’aspetto distinto con una fedora marrone calcata in testa, che senza dire una parola sollevò un dito a dividere in due metà le labbra sottili. Infine, accomodata sul pavimento, c’era la Fanciulla dell’Inferno.
Dimostrava circa una ventina d’anni, anche se era impossibile capire quale fosse la sua vera età. Yue aveva spiegato a Ed che quando ancora lavorava come traghettatrice infernale di anime aveva l’aspetto di una bambina, ma con l’unione degli universi era riuscita ad invecchiare, per così dire, visto che la maledizione che la vincolava a quell’incarico era venuta meno. La sua pelle era così bianca che le vene bluastre sottostanti sembravano canali scavati nella carne; il semplice kimono candido che indossava non faceva che renderla ancora più cadaverica. I suoi capelli, in netto contrasto, erano neri e lucidi, lunghi quasi quanto quelli di Yue. Gli occhi grandissimi e scarlatti erano quelli di un uccello notturno.
“Ai, ricordati della tua vecchia nonna… Ultimamente vieni a trovarmi così di rado!”. A parlare era stata una sagoma d’ombra, la cui proprietaria si trovava china dall’altro lato di una parete di carta di riso. Dall’aspetto e dalla voce doveva trattarsi di una vecchietta, intenta a filare con un arcolaio d’altri tempi.
“Sì, nonna”, rispose Ai Enma. La sua voce sottile e sommessa era niente più che il frullio dell’ala di una civetta. “Mi dispiace di non venire più spesso”.
“Non preoccuparti”, mormorò la donna, continuando nel suo lavoro. “A me basta sapere che stai bene”.
Ai annuì in maniera quasi impercettibile. “Sto bene”. Una piccola pausa. “Arrivederci, nonna”.
“Ciao, Ai. Torna quando ti sarà possibile”. Il cigolio dell’arcolaio si era fatto quasi assordante. “Io sarò sempre qui. Sempre qui”.
“Sì”, rispose la Fanciulla dell’Inferno, prima di alzarsi in piedi e fronteggiare i nuovi arrivati. “Voi non dovreste essere qui”. Non era una domanda, un’accusa o una lamentela; si stava solo limitando ad enunciare un dato di fatto.
“Siamo venuti a cercarti, Cancro”, disse Yue facendosi avanti. “Te ne sei andata senza dire nulla, che cosa avremmo dovuto fare?”.
“Dovevo venire a trovare mia nonna”, rispose lei. Nell’altra stanza la vecchia signora continuava a filare senza fermarsi un attimo. “E avevo qualcosa di importante da fare”.
I tre Santi attesero, senza risultati. “E… pensi di dircela, prima o poi, questa cosa importante?”, domandò Ed, un minuto dopo.
Ai spostò su di lui gli enormi occhi ossi, e l’alchimista non riuscì a trattenere un brivido sotto la Cloth. “Ultimamente l’Inferno non è più stabile come un tempo”, spiegò. “Sono venuta per scoprire perché”.
Altro minuto di silenzio, rotto solo dall’arcolaio.
“Dunque?”, sbottò Ed.
“Ho scoperto perché”, rispose la ragazza. “I demoni non ne parlano, la maggior parte perché non sanno, gli altri perché non vogliono o non possono. Ho dovuto viaggiare fino al Cocito per scoprire la causa”. Tacque, e già gli altri Cavalieri temevano che fosse ripiombata in un altro dei suoi silenzi; poi, però, con estrema, esasperante lentezza, socchiuse di nuovo le labbra. “Il trono dell’Inferno è vuoto”, disse. “Lucifero ha abbandonato il suo regno”.
NAGI: Ho una domanda per te, Hayate!
HAYATE: Mi dica pure, signorina Nagi.
NAGI: Che cosa non può mai mancare, in un anime che si rispetti?
HAYATE: Beh, intende cose tipo due protagonisti che si mettono insieme nel finale ma che per tutta la vicenda sono più che amici ma meno che amanti, oppure i personaggi principali che partono come le ultime ruote del carro ma che in realtà sono gli unici a poter sconfiggere il boss finale?
NAGI: …Ehm, anche. Ma la risposta giusta in questo caso è: un episodio in spiaggia!
HAYATE: Wow! Quindi potremo vedere le ragazze di bordo in bikini?
NAGI: …HAYATEEEEEEEE!
HAYATE: Waaah, mi scusi, signorina Nagi, non intendevo quello!
TAMA: L’undicesimo capitolo di “Il cielo è un’ostrica, le stelle sono perle” si intitola “Il mare è pieno di stelle”. E ricordate, sono io il personaggio mascotte di questa serie!
NAGI & HAYATE: NON CREDO PROPRIO!
Ok, la parte sui Gold Saint per il momento è conclusa. Ai è stata recuperata, si è scoperta una cosa importante ai fini della trama… Non è stato un capitolo completamente inutile, insomma! (si abbassa per schivare uno Starlight Extinction lanciatogli da Ed)
Ma passiamo alle risposte ai commenti:
Per Morens: sì, in effetti io in questa storia tendo a mettere personaggi da praticamente qualsiasi cosa abbia letto e/o visto… Quindi c’è anche gente assurda e decisamente poco conosciuta! Chiedo perdono per andare a pescare serie e opere misconosciute, ma è tremendamente divertente! E poi chissà, magari a qualcuno viene la curiosità di scoprire come sono…
Per Anonimo: ah, il water non è idea mia, eh! Belphegor/Belfagor viene spesso rappresentato seduto proprio su un gabinetto gigante! Per amor di precisione, comunque, la particolare rappresentazione del nostro demone (e dei suoi tre sottoposti) viene dalla serie di videogiochi “Shin Megami Tensei”, mentre Caronte è ispirato al misterioso impiegato che si vede all’inizio di “Drifters”. E mi raccomando, l’ovetto tienilo d’occhio!^^
Ci tengo come al solito a ringraziare tutti i miei lettori! In particolare, stavolta, il mio grazie va a SweetVincent e a S_theinsanequeen che hanno aggiunto la storia fra le preferite. Se in futuro vorrete lasciare un commento, mi rendereste davvero felice!^^
Per il momento, comunque, vi saluto. Ci vediamo, se vi va, al prossimo capitolo!
Saluti dal Giappone!
Davide
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** Parte Prima, Capitolo 11 - Il mare è pieno di stelle ***
CAPITOLO UNDICESIMO – IL MARE È PIENO DI STELLE
Da: watanukikun@xxxxxxx.com
A: luckyanne@xxxxxxx.com
Oggetto: Stiamo arrivando!
Ciao mamma! Come va? Spero tutto bene.
Vuoi sapere una bella notizia? Dato che abbiamo qualche giorno di ferie, il capitano ha detto che possiamo passare qualche giorno sulla Terra! Non è fantastico?*_*
Dovremmo arrivare all’inizio della prossima settimana… Credo. Insomma, appena so qualcosa di certo te lo farò sapere, d’accordo?^^
In effetti, c’era da immaginarselo che un sacco di gente avrebbe pensato alla fine del mondo, vedendo arrivare le astronavi… Vabbé, tanto voi lo sapete che non è così. Quelli della Confederazione potranno sembrare un po’ strani, ma di sicuro non sono cattivi! Però mi immagino che casino sarà venuto fuori in televisione, Giacobbo di sicuro ci avrà fatto una puntata di Voyager e sarà riuscito a tirare in ballo i templari come suo solito.XD
Saluta tutti da parte mia!
Marco
Sigla d’apertura: Blue Water, di Miho Morikawa
“Sapete cosa ci vorrebbe?”, disse Marco. “Delle camere singole”. Fissò i tre amici – Elena seduta accanto a lui, Pietro e Riccardo accomodati sul letto della ragazza – poi proseguì. “Non fraintendetemi, a me fa piacere dividere la stanza, è come essere in campeggio… Però insomma, siamo gli unici membri effettivi dell’equipaggio oltre ad Haruhi e Kyon, eppure siamo i soli a dormire tutti insieme!”.
Pietro fece spallucce. “Mah, non credo che la nave sia abbastanza grande da avere camere per tutti noi”.
“Piuttosto, sapete che giorno è oggi?”, esclamò Riccardo in tono esaltato. “È passato un mese esatto da quando abbiamo cominciato ad allenarci!”.
“In effetti abbiamo fatto un sacco di progressi”, convenne Elena, guardandosi con aria pensierosa le dita fasciate. “Adesso riesco a colpire un bersaglio in movimento con gli occhi bendati”.
“E io riesco a reggere almeno cinque minuti prima che Zaraki mi dia il colpo di grazia! Cioè, quasi di grazia”.
Ma che razza di allenamenti stanno facendo?, Marco deglutì al solo pensiero. “Noi, beh… Piton e la maestra Totenkinder ci stanno insegnando un mucchio di cose… Soprattutto a Pietro”, aggiunse poi, in tono mesto.
Il diretto interessato allungò una pacca sulla spalla dell’amico. “Eddai, non sminuirti così! Stiamo andando entrambi benissimo!”.
Marco scosse la testa, sospirando. “Ma sei ieri notte mi sono svegliato per andare a bere qualcosa e il tuo letto levitava a mezzo metro dal soffitto! Io senza bacchetta riesco a sollevare a malapena uno stuzzicadenti!”.
“Sul serio?”, Pietro fece tanto d’occhi, mentre iniziava a scuotersi sul materasso, forse per controllare la stabilità della branda. “Eppure sembra fissato al suolo…”.
“Certo, questo è il mio letto!”, gli rispose Elena. “Davvero, dovresti fare qualcosa per queste fuoriuscite di magia…”.
“Comunque anche tu stai seguendo degli allenamenti speciali, Marco”, intervenne Riccardo. “Come sta andando con…”.
“Non-dirlo”. Il viso del ragazzo era stato risucchiato dal colore, e i suoi occhi avevano un aspetto vitreo da pesce sul banco del mercato. “Non-aggiungere-nulla”.
“Ma è così…”, tentò Elena, ma l’altro la bloccò con un cenno secco della mano.
“Non-ne-voglio-parlare”. Il tono di Marco continuava ad essere inquietantemente meccanico. Sulla fronte gli scese una gocciolina di sudore, che poi andò a lasciare una macchia rotonda sul lenzuolo azzurro.
“Vabbé, ma tu la giudichi in questo modo perché la prima cosa che ha fatto quando ti ha visto è stata tentare di ucciderti. Ma l’ha fatto per errore, sono sicuro che in realtà è una bravissima persona!”. Pietro come sempre non riusciva a cogliere il giusto valore di una bocca tenuta chiusa.
“Ehm, comunque”, Elena intervenne di corsa, tentando di impedire che Marco svenisse con un cambio di discorso. “Sbaglio o il capitano ha detto che ci farà un regalo?”.
“Intendi dire oltre a farci visitare la Terra?”, domandò Riccardo. “Non riesco proprio a pensare che cosa possa avere organizzato, quella...”.
“Ecco, capitano…”.
Haruhi, una luce esaltata negli occhi, se ne stava al centro della sala di comando con un indice puntato contro il soffitto dell’astronave in maniera smargiassa. “Allora, miei cari sottoposti, siete pronti per ricevere il vostro regalo?”.
I quattro terrestri tenevano gli occhi bassi. Le punte delle orecchie di Pietro erano quasi viola. “E-ehm… Detto così, insomma… Suona un po’ equivoco, ecco…”, borbottò Riccardo, a nome del gruppo (Elena, in effetti, più che imbarazzata sembrava scioccata e pure un po’ arrabbiata).
Haruhi sollevò un sopracciglio. “Cosa suona equivoco?”, domandò. “Non credo che esista qualcosa di più innocente di una gita al mare in compagnia, no?”.
Tutti i presenti tirarono un mezzo sospiro di sollievo. “È per questo che indossi quel costume da bagno che grida ‘fanservice!’ da ogni filo?”, domandò Elena, ma come se la spiegazione non la soddisfacesse per niente.
“Ovvio!”, la risposta dell’altra fu secca e serissima. “Il pianeta dove stiamo andando è molto caldo, non ci posso certo stare in uniforme!”
“Sì, ma perché ti sei già cambiata adesso?”.
“Oh, adesso, dopo, che differenza vuoi che faccia?”, borbottò Haruhi, incrociando le braccia sul seno generoso e messo ancora più in mostra dai due ridicoli triangolini di tessuto che con un certo sforzo di immaginazione potevano passare per un bikini. “Piuttosto, andate anche voi a cambiarvi, fra poco saremo arrivati!”.
“Incredibile…”, mormorò Marco, senza riuscire ad aggiungere altro. In effetti non c’era bisogno di ulteriori parole: il paesaggio davanti a lui, dopo che il portello dell’astronave si era spalancato, era così bello che qualsiasi tentativo di descriverlo sarebbe suonato banale e superfluo. Sembrava di trovarsi di fronte alle immagini dei paradisi tropicali che appaiono sui depliant delle agenzie turistiche, ma cento volte più vivida e ricca di colori; l’immensa distesa sabbiosa, che si perdeva sulla sinistra fino a dove l’occhio poteva arrivare, sfumava dal rosa all’azzurro passando per ogni possibile sfumatura di lillà e viola. Nell’altra direzione, invece, si levava una scogliera composta da enormi cristalli bluastri. Il sole era una piccola sfera bianca, che trasmetteva un intenso calore; la luce, però, era molto meno intensa di quanto ci si sarebbe potuti aspettare, e le cose gettavano ombre lunghissime e quasi crepuscolari.
“Vedrete questa notte”, disse Haruhi, un sorriso soddisfatto che le animava le labbra. “Dopo che il sole tramonta vengono fuori le due lune e le stelle… Il modo in cui si riflettono sull’acqua ti fa quasi pensare che si possano raccogliere a mani nude!”.
Sulla sabbia multicolore le onde si infrangevano piano, spinte da una brezza leggerissima. Il mare era ametista fusa, e tanto trasparente che il fondale si poteva distinguere con chiarezza anche a decine di metri dalla riva. Strane creature affusolate, più simili a piccoli calamari che ai pesci terrestri, nuotavano in folti branchi con aria placida.
Tutti sembravano incantati dallo spettacolo, anche coloro che avevano già visitato quel pianeta. “L’abbiamo scoperto giusto tre settimane prima di trovare voi”, aveva spiegato Haruhi ai terrestri qualche minuto prima dell’atterraggio. “Non ospita forme di vita dotate di sufficiente intelligenza da poter entrare nella Confederazione, quindi ho deciso di tenere per me il tutto. Domani ripartiremo verso la vostra Terra, ma nel frattempo godetevi la vacanza!”.
Perfino Kyon, notoriamente compassato e scazzato, dovette riscuotersi. “Forza, datemi una mano a sistemare!”, esclamò, lo sguardo che si spostava fra il mare davanti a lui e il prosperoso seno di Haruhi lì accanto.
Qualche minuto dopo, il campo base era stato montato a qualche decina di metri dall’astronave: asciugamani stesi sulla sabbia iridescente, quattro o cinque ombrelloni aperti, un enorme frigo portatile pieno di bibite… Decisamente Haruhi si era data da fare per preparare tutto quanto (anche se Marco sospettava che come al solito la gran parte del lavoro fosse stata eseguita da Kyon).
Sotto uno degli ombrelloni si erano già piazzati Frau Totenkinder – accompagnata dall’onnipresente sedia a dondolo e dal lavoro a maglia – e Piton, con una pila di tomi a fianco; erano vestiti di tutto punto, e non sembravano avere nessuna intenzione di cambiarsi. Tutti gli altri uomini di bordo erano stati costretti dal capitano a mettersi in calzoncini da bagno, ma le donne, tranne appunto la stessa Haruhi, ancora indossavano i loro normali abiti. “Bene, ragazzi!”, esclamò il capitano. “Vi ho preparato una sorpresa: ora andremo a cambiarci e poi faremo una sfilata!”.
“EHI!”, fu il grido che uscì da almeno quattro gole diverse.
“Che sarebbe questa storia?”, protestò Elena.
“Non siamo mica delle esibizioniste come te, sai?”, aggiunse Bielorussia.
“Oh, forza, forza!”, Haruhi alla fine riuscì a condurre le ragazze dentro l’astronave ancora aperta. “Cosa pensavate, di entrare in acqua vestite?”.
Quando il gruppetto fu scomparso all’interno del veicolo, gli occupanti dei salviettoni iniziarono a guardarsi l’un l’altro con aria d’aspettativa e un leggero imbarazzo. “Dite… dite che metterà dei costumi come quello che indossa lei a tutte?”, domandò Riccardo, dopo qualche secondo.
Hayate deglutì. Era strano vederlo con addosso qualcosa di diverso dalla sua uniforme da maggiordomo, ma per quel giorno anche a lui era stato concesso uno strappo alla regola. “Beh, insomma… N-non a tutte starebbero bene, p-però…”.
“Però immaginatevi Nasu no Yoichi con uno di quelli, per dire”, continuò Marco, con aria sognante.
“Anche tua sorella non è messa affatto male, Russia-kun!”, esclamò Pietro.
“NO!”, risposero all’unisono il diretto interessato e Marco. I due si fissarono, poi scrollarono le spalle. “Non dirlo davanti a lei, per favore…”, borbottò Russia, con un filo di voce. “Davvero, meglio se non glielo dici”.
Zaraki e Stein, da uomini duri e coperti di cicatrici – e c’era davvero di che fare a gara su chi ne possedesse di più – quali erano, non partecipavano alla conversazione ma si limitavano a guardare il mare in silenzio; ogni tanto, però, anche loro lanciavano una fuggevole occhiata verso il portello aperto.
Finalmente, una ventina di minuti d’attesa dopo, dall’astronave emerse qualcuno… Ma era solo Yachiru, che corse verso il gruppo con un allegro costume arancione e un paio di braccioli dello stesso colore gridando: “Ken-chaaaaaaaaaaaaaaaaaan! Andiamo a fare il bagno?”.
Zaraki borbottò qualcosa di incomprensibile, ma si alzò e si incamminò verso l’acqua a fianco della ragazzina; se non fosse stato per la pettinatura assurda, la benda sull’occhio, le cicatrici e il ghigno ferino, sarebbe sembrato un padre amorevole in spiaggia con la propria figlioletta.
“Ehm… Noi che facciamo?”, domandò Pietro, un po’ deluso. “Andiamo a buttarci anche noi? Tanto qui mi sa che per ora…”.
“Ehi, eccole!”, esclamò Riccardo alzandosi in piedi. Tutti si voltarono come un sol uomo; anche Frau Totenkinder, presa di sorpresa, si concesse un paio di secondi per capire cosa stesse succedendo prima di tornare a dedicarsi al suo uncinetto con un’espressione sorniona sulle labbra rugose.
A condurre la fila c’era ovviamente Haruhi, con indosso lo stesso striminzito bikini bianco di prima. A seguirla Bielorussia, le braccia incrociate sul petto e un’espressione indecifrabile; il suo era un costume intero, bianco e blu come il suo consueto abbigliamento. Poi veniva Nagi, con un’aria decisamente arrabbiata visto che le era all’apparenza toccato in sorte un costume simile a quelli usati nelle scuole giapponesi, che contribuiva ad accentuare il suo aspetto da lolita. Marie, in un due pezzi arancione e nero imbarazzante quanto quello di Haruhi, sembrava volersi seppellire sotto la sabbia e restarci, mentre Yoichi – con lo stesso modello di costume, di un rosso molto scuro – non sembrava preoccuparsi granché. Ultima veniva Elena, che indossava un normalissimo costume nero; il capitano ogni due o tre secondi si voltava verso di lei lanciandole uno sguardo di disapprovazione, che lei ignorava senza grossi problemi.
“Scusate, ci abbiamo messo più del previsto…”, esclamò Haruhi, per poi lanciare l’ennesima occhiata in direzione di Elena. “Qualcuno ha insistito per indossare il suo costume da bagno invece di quello che avevo gentilmente fornito…”.
Pietro annuì. “Ah, mi pareva di averlo già visto prima! È quello di quando siamo andati in piscina quest’estate”.
“Manco me ne ero accorto…”, mormorò Marco, gli occhi fissi sui davanzali di Yoichi e Marie.
“Non mi dispiacerebbe essere uno di quei reggiseni…”, aggiunse Pietro.
“Ho cercato di riunire tutti i possibili fetish per i costumi da bagno… Anche se mi sono venuti in mente solo i bikini e i costumi scolastici…”, continuava intanto il capitano, prima di essere interrotta da Nagi.
“Stupida Haruhi! Perché solo io devo indossarne uno, eh?”.
“Perché sei l’unica con le tette abbastanza piccole, ecco perché! Se poi dovessi decidere che è l’ora del topless, che figura ci faresti tu?”.
“CHE!?”, strillò Marie, coprendosi i seni con le mani (visto che in effetti il suo bikini non stava facendo grossi sforzi). “Non si era mai parlato di topless!”.
“Sciocchezze! Se non avete il coraggio di mostrarvi nude non potrete mai pilotare dei robot giganti per proteggere l’Universo!”.
“Ma quello è un altro tipo di Topless!”.
“Oh, fatela finita!”. Piton si era alzato in piedi, bacchetta sguainata. “Non avrei voluto arrivare a tanto, ma… BIKINIS ENGORGIO!”. E con un movimento ampio e rapido, quasi una scudisciata, lanciò un fascio di luce azzurrognola nella direzione del gruppetto di ragazze.
“Ehi, ma che…”, iniziò Haruhi, prima che gli occhi le si spalancassero in un’espressione inorridita. “PITON! COME HA OSATO!”.
Il mago si riaccomodò sulla sua sedia a sdraio come se nulla fosse accaduto; poi lanciò uno sguardo obliquo verso il capitano, che ora – così come anche Marie e Yoichi – indossava un costume intero dall’aria assolutamente innocente. “Almeno la smetterai di fare del baccano inutile e mi farai leggere in pace”, disse, in un tono che non ammetteva repliche.
E Haruhi, in maniera assolutamente inaspettata, si calmò all’istante. “Uffa, però”, fu l’unica lamentela che uscì dalle sue labbra. “Io volevo solo fare qualcosa di divertente…”. Poi vide il mare e – a giudicare dalla sua espressione – fu come se il suo cervello si fosse formattato. “L’ultimo che arriva dovrà correre nudo per tutta la spiaggia!”, gridò, prima di lanciarsi verso le acque viola e cristalline dell’oceano.
“Certo che è davvero meraviglioso, qui”. Qualche minuto dopo, Marco stava facendo il morto nell’acqua bassa, gli occhi puntati verso il cielo grigio e limpidissimo. Ogni tanto dei vortici di bollicine gli frizzavano sulla schiena, strappandogli una risatina. “Come avete fatto a trovare un posto simile?”.
“Nello stesso modo in cui troviamo gli altri, ovvio”. Kyon era seduto lì vicino, immerso nell’acqua fino al collo; muoveva le mani davanti a sé con un ritmo lento e ipnotico, ed era riuscito ad attirare l’attenzione di quattro o cinque delle seppioline argentate che sguazzavano lì intorno: ogni tanto una di esse si avvicinava al ragazzo con circospezione, sfiorava con il muso una delle dita e poi si ritirava in tutta fretta, in una sorta di gioco. “Esploriamo le aree che ancora non sono state mappate dalle navi della Confederazione e teniamo le dita incrociate. Ogni tanto abbiamo fortuna”.
Marco spostò lo sguardo a includere la spiaggia: Piton e Frau Totenkinder leggevano e filavano sotto il loro ombrellone, con Tama e Shiranui a sonnecchiare lì accanto; Pietro stava scattando decine di foto alle formazioni cristalline della scogliera e intanto gesticolava entusiasta fra sé e sé, mentre Yachiru costruiva con perizia un castello di sabbia sotto l’occhio vigile e un po’ imbarazzato di Zaraki. Tutti gli altri erano stati schierati sul bagnasciuga, dove Haruhi stava sbraitando per cercare di organizzarli in un gioco con la palla a squadre all’apparenza complicatissimo. “E quindi non avete detto a Silente di questo posto, insomma”.
“Già”. I calamaretti erano almeno dieci, ora. Sembravano attirati dalla presenza umana; per loro doveva essere un’interessante novità. “In realtà dovremmo farlo, perché può sempre essere che qualcuno ne approfitti e lo usi per qualche attività illegale… Ma riceviamo gratifiche solo per i pianeti abitati da vita intelligente, e sai benissimo com’è fatta quella”, e con la mano libera fece un gesto vago in direzione di Haruhi, che aveva perso ogni interesse per la palla e aveva indetto una gara a chi trovava più conchiglie (gara di cui peraltro era la sola partecipante). “Credo sia delusa dal fatto di non aver trovato nessun pianeta abitato in quest’ultimo mese e stia facendo di tutto per non darlo a vedere”.
Marco sogghignò. “Non avrete mica bisogno di entrate extra?”.
Kyon aggrottò la fronte, poi vi passò il dorso della mano per scostare le ciocche di capelli umidicci. “Non intendevo quello, con il discorso di prima”, borbottò. “Il problema con Haruhi è riuscire a divertirla e a mantenerla sempre, beh… interessata. Non è affatto facile riuscire a starle dietro, che cosa credi?”; le lanciò un’occhiataccia scazzata, ma Marco notò con chiarezza che oltre al fastidio c’era molto altro: un miscuglio diseguale di divertimento, accettazione, tenerezza… e forse anche amore.
“Sei cambiato, sai? Da quello che si vede nel vostro anime, almeno”, disse Marco. Certo che una frase del genere suona parecchio strana… E cacchio, spero che nominare l’opera d’origine di qualcuno non sia un tabù o che so io.
Kyon, però, non parve granché turbato dall’affermazione, ma si limitò a fare spallucce. “Immagino che tutti cambino, almeno un po’”. Rabbrividì, anche se l’acqua aveva la temperatura ideale. “Oddio, sembra il tipo di frase fatta con cui potrebbe uscirsene Koizumi…”, aggiunse a bassa voce, di sicuro più rivolto a se stesso che al suo interlocutore.
“Ah, giusto!”, esclamò Marco. “Quando salimmo a bordo della nave Pietro chiese ad Haruhi dove fossero finiti gli altri membri della Brigata SOS, ma lei quasi gli saltò al collo. Cioè, insomma… non saranno mica morti?”.
Ma doveva ancora passare parecchio tempo prima che Marco scoprisse la risposta: proprio in quel momento, con un tempismo davvero sconveniente, Haruhi si mise ad urlare, un braccio alzato verso il cielo. “Evvai, ne ho preso uno! Finalmente!”. Notò che Kyon e Marco la fissavano sconcertati a poca distanza e corse verso di loro, sollevando un sentiero di spruzzi violetti. “Guarda, Kyon!”. La ragazza tese verso il suo sottoposto la mano destra, fra le dita della quale, stretto in una morsa di ferro, si agitava una delle seppioline argentee. “L’altra volta in una settimana non ci sono mai riuscita, ma questa volta invece ce l’ho fatta al primo tentativo!”, gongolò.
Marco si avvicinò, incuriosito dalla forma di vita aliena che stava lottando per liberarsi: sembrava davvero un piccolo calamaro, grigio, lungo e affusolato; corti tentacoli – dodici, per l’esattezza – sferzavano l’aria disposti a losanga intorno ad una bocca simile in modo disturbante a quella umana, completa di denti e di una linguetta rosa. E fu proprio mentre il ragazzo le fissava che le labbra rosa e sottili della creatura si spalancarono, lasciando uscire uno strillo lacerante al cui confronto una sirena d’ambulanza sarebbe sembrata il rumore della neve che cade.
Marco si schiantò nell’acqua di schiena, stordito dall’attacco sonoro che aveva appena subito. Intorno a lui brulicavano impazzite piccole schegge luminose, che sfrecciavano tutte in una direzione. Poi, però, sentì qualcuno che lo afferrava per una caviglia e lo trascinava fino a riva, spiaggiandolo tossente e ansimante sul bagnasciuga.
“Te l’avevo detto o no che era una brutta idea disturbare quei cosi, vero?”, sentì domandare Kyon. “Perché se vuoi te lo ripeto senza problemi”.
Marco poggiò i gomiti tremanti contro la sabbia e riuscì a mettersi seduto; tutti i membri dell’equipaggio erano usciti dal mare e osservavano con aria preoccupata i calamaretti moltiplicarsi nel tratto di mare davanti a loro, tanto che ormai il fondo era stato coperto da una compatta barriera argentea. Una mano grande e dalla stretta forte scese nel campo visivo di Marco, consentendogli di alzarsi in piedi con un po’ di sforzo. “Sono davvero delle creature interessanti, non trovi?”, gli bisbigliò Russia nell’orecchio; Marco si pentì all’istante di avere accettato il suo aiuto. “Chissà come si comporteranno ora, sono davvero curioso…”, aggiunse, nel suo tono cantilenante da bambino cresciuto troppo in fretta e molto male.
Le migliaia di seppioline aliene nel frattempo si erano concentrate in un banco fittissimo e si stavano spostando più al largo e in profondità fino a diventare un’enorme e confusa chiazza nerastra. “Beh, pare che fosse solo un fuoco di paglia, in fin dei conti”, minimizzò Haruhi con aria soddisfatta. “Anche perché in effetti che cosa avrebbero potuto farci degli affarini minuscoli come…”.
Il capitano non completò la frase, ma in compenso emise uno strillo acutissimo che non aveva nulla da invidiare a quello del mollusco extraterrestre di poco prima: un tentacolo spesso come un torso umano le si era avvolto intorno a una caviglia e la stava sollevando a gambe all’aria di una buona decina di metri. Stessa sorte toccò a Nagi, Marie e Bielorussia, preda di altrettante mostruose protuberanze.
“Ma che…”, mormorò Marco, gli occhi tondi e sgranati come monete. E proprio in quel momento la creatura emerse.
Era molto simile ai piccoletti che l’avevano preceduta, ma al posto delle fauci aveva un grosso becco chitinoso e all’apparenza affilatissimo, molto simile a quello dei suoi colleghi terrestri. I suoi occhi, bulbosi, vitrei e sporgenti, luccicavano come sfere da discoteca mezze rotte.
“Hanno… hanno chiamato la mamma?”, domandò Pietro a bassa voce, facendo seguire alle sue parole un click ben udibile: nonostante la drammatica situazione, non riusciva a trattenersi dallo scattare foto.
Stein si strofinò un indice sotto il mento con aria pensosa, mentre con l’altra mano si accendeva l’ennesima sigaretta. “Dal loro comportamento di poco fa mi sento di poter affermare che sono loro stessi la loro mamma”.
“Intende dire che… insomma, che si sono fusi insieme?”. Il tono di Pietro era scettico, ma per precauzione fece un’altra fotografia.
“Mi sembra un’ipotesi plausibile, sì”, ribadì il dottore,prima che sul suo viso si dispiegasse un ghigno da squalo. “Spero che una volta che avremo finito ne rimanga un pezzo abbastanza grande per poterlo sezionare…”.
“Ehi, che fate ancora lì impalati? Noi vorremmo anche scendere, sapete?”. Haruhi, nonostante fosse sospesa a testa in giù a qualche metro da terra, non sembrava affatto spaventata o preoccupata, semmai un po’ seccata, e lo stesso valeva per Bielorussia e Marie. Gli urli di Nagi, in compenso, erano bastanti per tutte e quattro.
“HAYATEEEEEE! AIUTO, SALVAMIIIIIIII! HAYATEEEEEEEEEEEE! ”.
Un ruggito fece voltare tutti quanti: Tama, che fino a qualche istante prima stava sonnecchiando all’ombra, era stato evidentemente risvegliato dagli strilli della padroncina e ora si faceva avanti, pelo della schiena ritto e fauci scoperte; sembrava quasi una tigre seria, così. L’animale lanciò un altro possente ringhio, saltò in avanti a zampe tese e artigli sguainati… e venne messo prontamente KO da un tentacolo che gli si abbatté fra la testa e il collo.
Che spettacolo penoso, però…, pensò Marco, guardando la tigre riversa sul bagnasciuga, la lingua a penzoloni dalla bocca spalancata e gli occhi rovesciati in un’espressione di beata incoscienza.
“HAYATEEEEEEEEEEE! LASCIA PERDERE QUELL’IDIOTA DI TAMA E AIUTAMIIIIIII!”
“Vi prego, fate qualcosa per farla stare zitta…”, borbottò Piton.
“Arrivo, padrona!”. Hayate si piegò sulle ginocchia, pronto a spiccare un salto verso il calamaro gigante, ma una mano rugosa calò sulla sua spalla. “Scusa, caro, posso chiederti di farti da parte, per questa volta? Mi piacerebbe vedere come se la cavano in un vero combattimento i nostri ultimi giovani acquisti”, e Frau Totenkinder lanciò uno sguardo significativo verso Marco, Pietro, Elena e Riccardo.
“Ehi! Io voglio essere salvata da Hayate, mica da quei quattro!”, tentò di protestare Nagi, sbattendo le gambe per quanto la stretta del tentacolo glielo permettesse.
La strega alzò gli occhi glaciali su di lei. “Scusami, cara, ma sei veramente troppo rumorosa”. Un gesto di un dito ossuto, e la bocca della giovane ereditiera continuò a muoversi… senza che ne fuoriuscisse più alcun suono. “E ora forza, voi quattro, vediamo cosa avete imparato”.
“Sì!”. Riccardo e Elena erano già pronti, espressione determinata in volto e armi strette in pugno.
“E quelle?”, domandò Pietro, accennando alla katana e all’arco.
Riccardo fece spallucce. “Non puoi mai sapere quando ti servono, no?”.
Marco e Pietro si fissarono, alzarono anche loro le spalle, ed estrassero le bacchette da una tasca dei costumi da bagno.
“BECCATI QUESTO, MOSTRO DEL CAZZO!”, urlò Riccardo, lanciandosi in avanti. Un fendente orizzontale, e il tentacolo che reggeva Nagi fu reciso quasi alla base. Hayate, com’era prevedibile, afferrò senza problemi la padrona – ancora senza voce dopo lo scherzetto di Frau Totenkinder – prima che toccasse il suolo. Il calamaro, dal canto suo, emise un urlo breve e acuto, che parve esprimere sorpresa più che dolore vero e proprio; là dove il tentacolo era stato reciso, infatti, non sgorgò una goccia di sangue o di qualsiasi altro liquido analogo: la sezione era piena, senza vene o arterie, di una sfumatura più chiara rispetto alla pelle all’esterno. A Marco, con non poco disgusto, ricordò una treccia di liquirizia tranciata a metà da un morso.
Elena intanto aveva incoccato una freccia e stava prendendo la mira con calma. “Sei stato bravo, ma potevi anche tenerti la volgarità per te”, disse, scagliando il dardo che compì una rapida ed elegante parabola ascendente e tagliò il tentacolo a pochi centimetri dai piedi di Marie; la donna approfittò della caduta per assumere la forma di arma ed essere presa al volo da Stein.
Pietro si guardò intorno, un po’ spaesato. “Che faccio, vado io?”, domandò.
“Non so, Riguardi, se vuoi aspettare che arrivi la mezzanotte e la tua testa si trasformi di nuovo in una zucca…”, gli rispose Piton.
“Mh? Beh, sì, forse è meglio fare qualcosa. Ecco, professore, tenga un attimo questa; e mi raccomando, non la faccia cadere”. Piton riservò alla macchina fotografica che gli era stata cacciata fra le mani lo stesso sguardo che avrebbe diretto ad una fiala colma di bacilli di vaiolo di drago. Pietro finse di rimboccarsi le maniche, agitò la bacchetta e per un paio di secondi sembrò incerto su cosa dovesse fare. Poi parve rendersene conto all’improvviso e esclamò. “Ah, già… Diffindo!”.
L’incantesimo non ebbe l’effetto sperato: invece di tagliarsi, il tentacolo finì vaporizzato in una pioggia di coriandoli bruciacchiati di pelle di mollusco che planarono sull’acqua con aria mesta. Haruhi precipitò, ma per sua fortuna riuscì a centrare proprio lo stesso Pietro, attutendo così la caduta. “Che diavolo ti è preso? Volevi uccidermi?”, stava sbraitando un paio di secondi dopo il capitano, seduta a cavalcioni sulla schiena di lui. “Non voglio nemmeno pensare a che cosa sarebbe successo se avessi puntato quella cosa contro di me!”.
Pietro cercò di rispondere, ma la faccia affondata nella sabbia non lo aiutava.
“Devo ricordarmi di non stare sullo stesso pianeta di Riguardi quando tiene in mano una bacchetta”, mormorò Piton, continuando a cincischiare con la fotocamera. “Forza, De Angelis, almeno tu vedi di fare un lavoro accettabile…”.
“Ok!”, esclamò Marco. Sollevò la bacchetta, pronto a lanciare un incantesimo, quando qualcosa piombò dall’alto andando a piantarsi nella sabbia a qualche millimetro dal suo alluce sinistro. Il ragazzo abbassò lo sguardo e rabbrividì: la lama di quel pugnale era la stessa che gli era stata puntata alla gola in passato. Certo, era trascorso più di un mese da allora, ma era difficile dimenticare una situazione come quella. “Ehi!”, Marco alzò la testa. Ma perché lei devo salvarla proprio io? “Ma ti sembra il caso?”.
Bielorussia lo ricambiò con la sua consueta espressione impenetrabile e un po’ imbronciata. “Già, da qui non riesco a prendere bene la mira…”.
“Stai dicendo che volevi colpirmi?!”. Lei distolse lo sguardo. “Lo vedi, volevi colpirmi!”.
“Muoviti a tirarmi giù”.
“Potresti almeno dire ‘per favore’”, borbottò Marco a bassissima voce. Alzò di nuovo la bacchetta, gesto che fu seguito da un sibilo e un altro pugnale – uno un po’ più piccolo – che stavolta andò a piantarsi accanto al piede destro.
“Usa uno di quelli, non la magia”, ordinò Bielorussia. “E vedi di riuscirci al primo tentativo come ti ho insegnato, oppure te ne tirerò un altro e ti assicuro fin da ora che stavolta non sbaglierò mira”.
Marco si chinò lentamente e raccolse il primo pugnale, mentre con l’altra mano faceva sparire la bacchetta in una tasca dei pantaloncini. Soppesò l’arma fra le mani, cercando di ignorare le fitte di dolore che si inseguivano su e giù per il braccio. Forza, ce la posso fare, si ripetè. Anche perché se dovessi sbagliare mira lei mi ucciderà di sicuro… Ma ce la posso fare. Non era certo la miglior rassicurazione possibile, ma era uno di quei momenti in cui si doveva fare di necessità virtù.
Il coltello si staccò dalla sua mano in un movimento fluido e preciso, che Marco dubitava sarebbe stato in grado di ripetere una seconda volta; roteò in una parabola ascendente e tagliò il tentacolo a pochi centimetri dalle caviglie di Bielorussia, che compì un’elegante mezza piroetta in aria e atterrò sulla spiaggia con la grazia di una ginnasta, senza che nessuno dovesse aiutarla.
Il calamaro gigante sembrava confuso: aveva estroflesso da sotto la superficie del mare un altro set di tentacoli e li stava usando per tastare i moncherini degli arti amputati, emettendo dei suoni bassi e discordanti da cornamusa. Marco sentì la pena accumularglisi all’altezza dello stomaco come una colata di cemento. In fondo ci ha fatto solo quello che Haruhi aveva fatto prima con lui: ci ha presi in mano per osservarci meglio; e anche ora che l’abbiamo ferito non reagisce contro di noi. Non credo abbia mai avuto intenzione di farci del male.
“Sapete cosa penso?”, iniziò, voltandosi verso il resto dell’equipaggio. “Che in realtà lui non…”.
Zing. Zing. Zing. Zing.
“Ma che…”, mormorò, mentre un dolorino gli pungeva un orecchio. Vi portò due dita e le ritrasse macchiate di sangue. “Che accidenti…”, poi si voltò di nuovo verso il calamaro.
Nel cranio dell’animale ora erano piantati quattro coltelli che di sicuro non c’erano fino a pochi secondi prima. Il mollusco tese uno dei tentacoli sani per tastare il manico di uno di essi, poi emise un breve guaito spezzato, come un lupo bloccato da una tagliola, e si riversò su un fianco.
Per un paio di secondi sulla spiaggia calò il silenzio. Poi scoppiò un applauso. “Wow, sei stata davvero fantastica!”, esclamò Haruhi, battendo una mano sulla spalla di Bielorussia. “A guardarti non si direbbe affatto, ma anche tu a volte riesci a essere utile!”.
“M-ma…”, cercò di dire Marco, gli occhi sgranati come monete. “Ma perché l’ha…”.
“Incredibile, vero?”, disse Nasu no Yoichi. “Ha lanciato quattro coltelli con una rapidità impressionante, non l’ho nemmeno vista estrarli… Davvero temibile, non vorrei mai trovarmela come avversaria”.
“Sì, m-m-ma…”.
“Che c’è, Marco, non ti senti bene?”, domandò l’arciera avvicinandoglisi. “In effetti non so se è normale che uno abbia uno sguardo del genere, dovresti farti visitare da Stein”.
Prima che il ragazzo potesse rispondere, una mano si strinse con fermezza sulla sua spalla. “Non credere di poterla scampare”. La voce di Bielorussia era calma, ma vibrava di minaccia come il la emesso da un diapason. “Il pugnale che hai tirato è il mio preferito, e dato se sei stato tu a farlo finire in mare, mi sembra il minimo che tu vada a recuperarlo. O sbaglio?”.
Mentre si immergeva sospirando nell’acqua violetta, Marco sentì Haruhi esclamare: “Ehi, non possiamo certo lasciare che questo coso qui sia morto invano! Scommetto che se accendiamo un falò sulla spiaggia e ce lo arrostiamo sopra verrà squisito!”.
E infatti fu proprio così.
Qualche ora dopo sul pianeta ancora senza nome era calata la notte. Purtroppo il cielo nel frattempo si era coperto di nuvole, privando i viaggiatori interstellari dello spettacolo del firmamento riflesso sulla superficie del mare; per fortuna la sabbia e le formazioni cristalline risplendevano di una tenue fosforescenza azzurro-violacea che consentiva di vedere quasi come se fosse giorno, senza ovviamente considerare l’enorme falò eretto su ordine di Haruhi.
Pietro osservava lo spettacolo da lontano, oltre la scogliera; sospirò, il volto macchiato dal disappunto. “Che palle, possibile che ogni volta che tento qualche incantesimo succede qualche casino?”, protestò, rivolto al cristallo più vicina. Formazioni di gemme di quel tipo erano ottimi ascoltatori, ma decisamente non molto appaganti quando si trattava di un dialogo; accanto ai piedi del ragazzo, però, sbucò dalla sabbia un esserino giallo limone con zampe dalle molteplici articolazioni che emise un borbottio roco, come se si stesse lamentando per essere stato svegliato. “Oh, perfetto, e ora sto pure parlando da solo. Questo non è davvero un buon segno”, si lamentò Pietro. La creaturina aracniforme lanciò un altro basso richiamo irato, ma non venne ascoltata; allora ricacciò la testa sotto la sabbia, dalla quale per qualche secondo continuarono a provenire dei mugugni insoddisfatti.
Pietro lanciò un’occhiata distratta ai compagni di viaggio, riuniti attorno al falò: dalla sua posizione riusciva a vederli piuttosto bene, ma dubitava che loro fossero in grado di scorgerlo. Recuperare il necessario per il fuoco era stato difficoltoso, soprattutto per l’assenza sul pianeta – o quantomeno nella zona dove erano atterrati – di qualcosa che potesse anche vagamente rassomigliare a legna. Ad un certo punto avevano trovato dei lunghi pali verdi che spuntavano dal terreno e che con un po’ di fantasia potevano considerati gli alberi autoctoni. Bruciavano bene, ma emettevano anche strani rumori simili a lamenti gorgoglianti quando veniva appiccato loro fuoco; dopo un attimo di esitazione, i presenti avevano deciso che era meglio fare finta di nulla.
Tutti sembravano divertirsi, seduti intorno al fuoco; solo Marco – che aveva passato quasi un’ora a cercare uno dei pugnali di Bielorussia che era finito in mare – se ne stava in un angolo, gli occhi fissi sulla sabbia; non aveva voluto nemmeno assaggiare un tentacolo del polpo/calamaro/seppia gigante che avevano contribuito ad abbattere quel pomeriggio.
“Bah, vediamo di fare quello per qui sono venuto qua”, borbottò Pietro, distogliendo lo sguardo dal festino ed estraendo di tasca la bacchetta magica. Aveva detto agli altri che si allontanava per scattare qualche fotografia, ma nei dintorni non c’era nulla che non avesse già immortalato; inoltre, un po’ di allenamento non gli avrebbe fatto di certo male.
Insomma, il mio problema è che ci metto troppa energia, rifletté, giocherellando con il legnetto, che sprizzò una scarica di scintille sfrigolanti (da sotto la sabbia giunse un’ulteriore protesta che come le altre non venne ascoltata) quasi a volergli dare ragione. Quindi, mh… Che potrei fare? Abbassare il volume della voce quando recito gli incantesimi? Bah, tanto vale provare…
Pietro alzò la bacchetta e sollevò gli occhi sul mare, preparandosi a lanciare una magia di prova. E fu allora che la vide.
Stava emergendo dall’acqua scura, splendida e senza nemmeno un vestito addosso. Lunghi capelli castano ramato le scendevano lungo la schiena in onde folte, senza fare nessuno sforzo per nascondere il suo seno prosperoso e le sue forme sinuose; il suo viso era particolare, non bellissimo ma affascinante, con lineamenti un po’ irregolari, dall’aria esotica eppure familiare in maniera quasi inquietante. La sua pelle luccicava pallida, come la sabbia sotto i suoi piedi, e Pietro poteva vedere con chiarezza i suoi occhi color azzurro intenso e la bocca sottile, atteggiata in un sorriso complice e un po’ beffardo.
Pietro saltò un paio di respiri e rischiò di infilarsi la bacchetta in un’orbita; lei gli si era avvicinata senza proferire parola, e ora stava in piedi di fronte a lui, fissandolo con aria divertita. “Che stai facendo tutto solo qui?”, disse alla fine. La sua voce era bassa e un po’ roca, come se fosse una fumatrice abituale. “Non dirmi che volevi spiarmi…”.
“N-n-n-n-n-n-no, ma c-c-che dice!”, farfugliò Pietro, il volto scarlatto alla debole luce dei cristalli. Aveva provato a guardare la donna in faccia, ma gli occhi continuavano a cadergli sulle tette, per non parlare di ciò che c’era ancora più sotto… Alla fine aveva deciso di fissarle i piedi, e gli sembrava già di essere un maniaco sessuale così. “I-io n-n-nemmeno sapevo d-di non essere l-l’unico qui”.
“Beh, non c’è problema”, rispose lei.
Come “non c’è problema”? Di problemi io ne vedo eccome!, pensò Pietro. La sua faccia era così rossa che ormai sulle guance avrebbe potuto cuocerci delle bistecche. “E-ehm…”, iniziò, sentendo la voce scemargli in un rantolo secco. Si schiarì la gola un paio di volte, poi riprovò. “Cioè, ecco… L-lei chi sarebbe? È d-di questo pianeta?”.
La donna si lasciò scappare una risata. “No. Sono una viaggiatrice… Esattamente come te, Pietro”.
Lui sobbalzò, dimenticando per un paio di secondi di trovarsi di fronte ad una donna nuda. “Come sa il mio nome?”, esclamò, riuscendo a trattenersi dal sollevare lo sguardo solo all’ultimo secondo. Stava cercando con tutte le sue forze di pensare alle cose meno stimolanti possibili – fra cui Piton e Zaraki vestiti da donna – ma controllare l’eccitazione diventava di secondo in secondo più difficile. Pietro pregò che la donna misteriosa non notasse il sospetto rigonfiamento sul davanti dei suoi calzoncini da bagno.
“In effetti non ti biasimo per non avermi riconosciuta”, rispose lei. “Sono un po’ diversa rispetto a come mi vedi di solito”.
“S-sta dicendo che la conosco?”, domandò lui. Ormai era certo che avrebbe potuto riconoscere le dita dei piedi di lei fra altre centinaia di migliaia. “Eppure sono sicuro di non averla mai vista!”.
Lei rise un’altra volta. “Sono sicura che se chiudi gli occhi per qualche istante tutto ti sarà chiaro”. Pietro si ritrovò le palpebre abbassate ancora prima di averci pensato, e cercò di normalizzare il ritmo del respiro che gli si era fatto quasi affannoso. Ma che vorrà fare?, pensò, mentre sentiva le guance infiammarglisi di nuovo. Di sicuro non spogliarsi, era già nuda… Forse allora vuole rivestirsi! Però aspetta, tanto già l’ho vista senza niente addosso e non mi sembrava che la cosa le creasse problemi. Cacchio, pensavo che una situazione del genere potesse capitare solo in un film! Magari adesso mi chiederà una mano perché non riesce ad allacciarsi da sola il costume da bagno, uhuh…
“Puoi riaprire gli occhi, caro”. La voce di lei suonava diversa rispetto a qualche secondo prima, ma Pietro non ci fece caso: sollevò lentamente le palpebre, e ciò che vide davanti a sé era completamente diverso da ciò che si aspettava: per prima cosa la donna misteriosa era scomparsa.
E poi, il mare era pieno di stelle.
Per la seconda volta in pochi minuti Pietro trattenne il respiro: la cappa di nubi era stata spazzata via in un colpo, e il firmamento si rifletteva sull’acqua con un’intensità e una chiarezza da far impallidire qualsiasi specchio. Era uno spettacolo meraviglioso e terrorizzante allo stesso tempo: era come se tutto il resto fosse stato annullato e restasse soltanto il cielo stellato, in qualunque direzione; sembrava che bastasse un solo passo per cadervi dentro e perdervisi per l’eternità.
“Uno spettacolo splendido, non trovi?”. Ancora prima di girarsi, Pietro riconobbe lo scricchiolio della sedia a dondolo e seppe chi gli stava accanto: Frau Totenkinder, il perenne lavoro all’uncinetto appoggiato in grembo, fissava l’invisibile linea dell’orizzonte con i suoi occhi azzurri da rapace atteggiati in un’espressione soddisfatta, come se la spettacolare visione fosse merito suo. “Anche io che ho i miei annetti alle spalle non posso fare a meno di emozionarmi di fronte a tanta magnificenza”.
“Maestra, ma…”, iniziò Pietro, nemmeno troppo sorpreso di ritrovarsela di fianco all’improvviso. Poi, però, si ricordò della donna misteriosa e i suoi occhi si dilatarono tanto da sembrare sul punto da uscirgli dalle orbite e andare a rotolargli sulla sabbia. “Oh, mio Dio… Non mi dica che era lei che…”.
“Non so di cosa tu stia parlando, caso, io sono solo una vecchietta”, lo interruppe lei, con un sorrisetto che le ornava il volto rugoso come l’orlo di pizzo di una vecchia tovaglia. “Beh, ora è meglio tornare dagli altri, che ne pensi? Non ho ancora avuto modo di assaggiare quel mollusco gigante che avete pescato oggi, a sentire il capitano sembra davvero squisito!”. Frau Totenkinder scomparve, e un attimo dopo Pietro la scorse fra la piccola folla che circondava il falò; anche il resto dell’equipaggio ora aveva notato lo spettacolo del cielo riflesso sull’acqua, e Haruhi – chi, altrimenti? – stava additando le stelle e gridando qualcosa, i piedi nudi che si agitavano impazziti sul bagnasciuga.
Pietro si alzò in piedi, mentre le sue labbra emettevano uno sbuffo sonoro. Era arrossito un’altra volta. Sono davvero un cretino, pensò, scuotendo la testa. E alla fine non ho fatto nemmeno ciò che ero venuto a fare… Gettò un’occhiata all’oceano scintillante e non poté fare a meno di sorridere. “Bah, in fondo non ho mica fretta”, si disse, infilandosi la bacchetta in tasca. Poi, canticchiando a mezza bocca una canzone inventata sul momento, si incamminò verso i suoi amici, il mare pieno di stelle a fargli da sfondo.
B.B.: Finalmente è il momento!
RAVEN: Il momento? Di cosa?
B.B.: Ma delle anticipazioni, è ovvio!
RAVEN: Ma che hai da essere così agitato? Hai di nuovo bevuto troppo caffé di soia?
B.B.: Raven, non capisci? Sono le anticipazioni! Tutti sognano di fare le anticipazioni dell’episodio successivo, almeno una volta nella vita!
RAVEN: …Strano, una cosa del genere mi era proprio sfuggita; mi chiedo come mai…
B.B.: Il dodicesimo capitolo di “Il cielo è un’ostrica, le stelle sono perle”, si intitola “La strada di casa”. Non perdetevelo! Forza, Raven, di qualcosa anche tu!
RAVEN: Ehm… Azarath, Metrion, Zynthos?
B.B.: Alla faccia dell’originalità, eh?
Ed eccoci con un nuovo capitolo! E’ il caso di postarlo finché siamo ancora in estate, visto il tema, eh?XD
Che c’è da dire a riguardo? Beh, il motivo del terrore di Marco – nel caso non fosse già ovvio che Bielorussia è il male (rumore di tuoni in sottofondo) – verrà esplicitato nel quindicesimo capitolo tramite un utile flashback. E per sapere chi sono i Topless che pilotano i robot giganti per salvare l’universo dovrete vedervi “Punta al top 2! Diebuster”.XD
Ma passiamo alle risposte alle recensioni!
Per Anonimo: Sì, poveri demonietti, di certo non hanno fatto una bella fine! Sono i classici nemici un po’ pezzenti che in ogni shonen che si rispetti vengono utilizzati semplicemente per fare capire che i protagonisti non sono il tipo di persona con cui è bene scherzare!
Ovviamente la questione di Lucifero sarà importante, anche se ci vorrà ancora un po’ prima di scoprire dov’è finito il padrone degli Inferi… Non è tipo da farsi scoprire così facilmente!
Spero che tu abbia gradito l’episodio al mare, anche se un mio amico ha detto che renderebbe di più con le illustrazioni delle ragazze in costume!XD
Per Morens: No, Ai Enma è la protagonista dell’anime “Jigoku Shoujo” e suoi seguiti (rispettivamente “Jigoku Shoujo Futakomori” e “Jigoku Shoujo Mitsuganae”); e non se ne va in giro a disossare la gente, di solito usa mezzi più sottili e psicologici per punire le sue vittime… E alla fine le porta all’Inferno. C’è anche il manga, ma è posteriore all’anime; in Italia lo sta pubblicando la Star Comics in questo periodo.
Come al solito ringrazio tutti quelli che leggono soltanto, spero che un giorno lascerete anche voi una recensione, a me farebbe molto piacere!^^
In ogni caso, per ora vi saluto. Vi aspetto al dodicesimo capitolo!
Davide |
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** Parte Prima, Capitolo 12 - La strada di casa ***
CAPITOLO DODICESIMO – LA STRADA DI CASA
“La Terra vista dallo spazio è sempre uno spettacolo meraviglioso”, disse Kyon, facendo voltare la nave in modo che gli schermi esterni fossero tutti posizionati a inquadrare il pianeta azzurro. “Qualsiasi Terra, dico”.
“Già…”, gli fece eco Elena in tono sognante.
“Sapete cosa mi sembra?”, borbottò Haruhi, massaggiandosi il mento in modo pensieroso. “Un lecca lecca gigante. Anzi, no, meglio… Un gelato. Sì, una gigantesca palla di gelato. La parte blu ovviamente all’anice, quelle verdi… facciamo menta, il pistacchio non mi piace e non sarebbe nemmeno la sfumatura giusta. Quanto alle strisce bianche… Kyon, qualche idea?”.
“Cioccolato bianco?”.
“Nah, manca di originalità”.
“Stracciatella?”.
“Non va bene, ha i pezzettini neri”.
“Ehm… panna? Limone?”.
In risposta lo stomaco del capitano emise un poderoso borbottio. “Ecco, a furia di parlare di gelato mi è venuta fame!”.
“Ma abbiamo pranzato due ore fa!”, esclamò Marco.
Lei si voltò a fissarlo facendo tanto d’occhi. “Già due ore? Incredibile! In effetti è ovvio che mi sia tornata la fame…”.
“Ma che sei, un toporagno? Se non mangi ogni tot muori?”.
“Ehi, un po’ di rispetto!”, ribatté il capitano. “E comunque è un problema di metabolismo, il mio corpo brucia un sacco di energie e devo continuare a fornirgliele altrimenti finisce che crollo”.
Se continuerai a “bruciare energie” come fai sempre fra un po’ finisce che esplodi, eh, pensò Marco, prima che il trillo acuto di un campanello lo distraesse.
“Che è questo suono?”, domandò Riccardo puntando un dito verso l’alto. “Non l’ho mai sentito prima”.
“Ah, niente di che”, rispose Kyon. “Ci ha solo contattato una nave. La passo sullo schermo principale”.
I quattro terrestri e Haruhi alzarono gli occhi e trattennero il respiro in simultanea: l’immagine del pianeta blu era quasi totalmente oscurata da una T. Una T colossale, ovviamente.
“Quella è una nave di classe S”, commentò Kyon, sogghignando davanti allo stupore dei cinque. “Dicono che sia un vero casino, quando si tratta di parcheggiarle”.
Sigla d’apertura: Down to Earth, di Peter Gabriel
“Apro la comunicazione, ok?”, fece Kyon, facendo scattare un paio di interruttori sul pannello davanti a lui. L’immagine della T scomparve, lasciando il posto a un ragazzino dai capelli a punta e il volto per metà coperto da una maschera, che indossava un mantello e una tutina che avevano degli accostamenti di colore imbarazzanti. “Piacere di fare la vostra conoscenza”, disse lui. “Lei è il capitano Suzumiya della Grande Flotta di Ricerca, dico bene?”.
Haruhi si impettì, chiaramente compiaciuta dall’essere stata riconosciuta tanto in fretta. “Certo che sì!”, esclamò. “Io invece… Mh, non posso dire di sapere il suo nome, temo…”.
Se l’altro era deluso dalla cosa, non lo diede a vedere. “Sono Robin, della Terza Flotta di Difesa, e comandante della, ehm… Great T in the Sky”. Nel pronunciare il nome della propria nave abbassò leggermente il tono, come se la cosa lo imbarazzasse. “E temo di doverle chiedere di fermarsi qui, capitano Suzumiya; la zona è stata dichiarata off-limits dalla Confederazione, e nessuna astronave può accedervi senza l’esplicito consenso dell’ammiraglio Armstrong o del Consiglio Iperuranico”.
Il viso di Haruhi si atteggiò in un’espressione compiaciuta. “Crede forse che non lo sappia? Ma si dà il caso che sia stata io a scoprire questa Terra. E”, si affrettò ad aggiungere, vedendo che Robin aveva aperto bocca per rispondere. “Ho attualmente a bordo quattro dei suoi abitanti, che sono stati assunti dalla Confederazione tramite regolare contratto. Vuole forse dirmi che è vietato loro sbarcare per salutare le loro famiglie dopo più di un mese di servizio?”.
Robin tacque per un paio di secondi. Era ovvio che stesse cercando di trovare una risposta soddisfacente. “Non è quello che intendevo”, rispose alla fine. “Mi spiace per gli abitanti di questa Terra, ma ho ricevuto ordini ben precisi”.
Haruhi sospirò. “Kyon, chiamami Piton, per favore”.
Il comandante premette un pulsante sul pannello di comando. “Il professor Piton è desiderato in plancia, per favore”.
Non dovettero passare nemmeno un paio di secondi prima che l’uomo si Materializzasse con uno svolazzo del mantello nero. “Ha chiamato, capitano?”, borbottò, nel solito tono da genio insofferente che è stato interrotto durante l’esperimento che avrebbe potuto garantire il benessere completo all’intero Omniverso.
Haruhi indicò lo schermo. “Fagli vedere il lasciapassare”.
Piton sbuffò, mentre frugava in una delle tasche della tunica e ne estraeva un rotolo di pergamena, per poi spiegarlo in modo che Robin potesse vederlo. “Questo è un documento ufficiale del Consiglio Iperuranico, redatto di suo pugno dal professor Silente”, spiegò in tono piatto. “Consente a questa nave, la Crazy Diamone, e al suo equipaggio di poter sbarcare su questa Terra liberamente”.
Robin concentrò lo sguardo sul foglio di pergamena, come se lo stesse leggendo nonostante la distanza. Quegli schermi devono avere un potere di zoomata assurdo, pensò Marco. “Sembra autentico”, concluse alla fine il ragazzo mascherato. Non sembrava deluso, semmai sollevato.
“Lo è”, replicò gelido Piton, facendo sparire il prezioso documento nella tunica.
“Beh, se avete il consenso del Consiglio, non vedo alcun motivo percui non possiate atterrare”, disse il ragazzo mascherato. “Però vorrei che portaste con voi un paio di miei sottoposti. Non si può mai essere troppo sicuri, d’altronde”.
“Guarda che non abbiamo bisogno della balia”, rispose Haruhi, piccata.
Robin, però, si era già voltato e aveva gridato: “TITANS! ADUNATA!”.
“E ora che fa? Chiama altra gente vestita di licra?”, borbottò il capitano. “I miei occhi hanno già visto abbastanza costumi assurdi, per oggi”.
Pochi secondi dopo, nell’inquadratura irruppero altri quattro individui: due ragazze – una con i capelli rossi e grandi occhi verdi che levitava a mezzo metro da terra e una pallida e incappucciata, dall’aria un po’ scazzata – e due ragazzi, un nero ben piazzato con impianti robotici lungo il corpo e un ragazzino completamente verde fasciato in una tutina viola e nera. “Che c’è, Robin? Finalmente succede qualcosa?”, chiese quest’ultimo, con una vocina acuta e iperattiva. Poi sembrò accorgersi del collegamento con la Crazy Diamone e si piegò in avanti, invadendo con la faccia l’intero schermo. “E questi chi sono?”. Sul suo volto si formò un sorrisone, che mise in mostra i canini aguzzi. “Sembrano simpatici!”.
“Levati dalla visuale, ragazzo lucertola!”, si lamentò Haruhi, muovendo le braccia come se il gesto potesse davvero spostarlo. “Sciò, sciò”.
“Ehi, non sono una lucertola!”, si lamentò lui. “Ma se la cosa ti fa piacere posso sempre diventarlo”. E in effetti, meno di un secondo dopo, al suo posto un geco – ovviamente verde – era attaccato allo schermo e saettava la lingua in direzione di Haruhi. “Visto?”, domandò, una volta che fu tornato al suo aspetto umano. “So fare anche la giraffa, se vuoi”.
“Questa battuta non fa più ridere, dopo la cinquecentesima volta che la fai”, intervenne la ragazza incappucciata in tono lugubre.
“Già, ben detto”, aggiunse Haruhi in tono di approvazione.
Anche la ragazza volante dalla chioma rossa sfoggiava un largo sorriso. “Buongiorno, nuovi amici! Piacere di fare la vostra conoscenza!”. Tutto quello che ricevette da Haruhi fu un’occhiata di disapprovazione.
“In effetti non ci siamo ancora presentati”, intervenne l’androide con una morbida voce baritonale. “Io sono Cyborg, molto piacere”.
“Io invece sono Starfire!”, esclamò la ragazza volante.
“Beast Boy”, continuò il ragazzo verde. “Ma potete chiamarmi B.B.”, aggiunse, allungando una strizzatina d’occhio verso Haruhi.
La fanciulla in nero non disse nulla. Poi i quattro compagni di navigazione iniziarono a fissarla con insistenza. “Ok, ok”, capitolò dopo qualche secondo. “Raven”, aggiunse poi in tono secco.
Haruhi intanto si era voltata verso Marco e gli altri terrestri e li stava fissando con aria severa. “E voi che vi lamentate delle divise che vi ho fatto preparare con tanto amore!”, borbottò. “Preferivate che vi facessi vestire come quelli lì? Sembrano dei fenomeni da baraccone!”.
“Ehm, capitano Suzumiya?”, disse Robin, che sembrava indeciso se essere sconvolto o arrabbiato. “Stiamo sentendo tutto quello che dice, sa?”.
“Certo che state sentendo, siamo ancora in collegamento”, replicò lei. “La facevo più sveglio, Capitano Robin. Comunque, non voleva mandarmi due dei suoi per tenerci d’occhio? O ha già cambiato idea?”.
Il supereroe sospirò. Sembrava che non aspettasse altro che chiudere il collegamento. “Già…”, si voltò verso il suo equipaggio. “Raven, B.B., potete andare voi?”.
Il ragazzino verde sembrò entusiasta della cosa; la sua collega decisamente meno. “Se proprio devo…”, borbottò.
“Bene, allora abbiamo risolto!”, esclamò Haruhi. “Kyon, teletrasportali a bordo”.
“D’accordo, capitano”, mormorò lui, alzandosi. “Ma dovrai aspettare che io vada fino in sala macchine. Sai, visto che né tu né nessun altro a bordo a parte me è capace di usare il teletrasporto…”.
“Piantala di farmelo pesare, ti ho detto che un giorno imparerò a usarlo! Devo solo superare il mio odio per quell’aggeggio”.
“Ehm, capitano Suzumiya?”, domandò Cyborg. “Se vuole, possiamo…”.
“Non voglio niente, grazie”, ribatté lei, senza nemmeno starlo a sentire. “Dai, Kyon, prima arrivi in sala macchine prima possiamo atterrare. Marsch!”. Mentre lui usciva dalla plancia borbottando fra sé e scuotendo la testa, Haruhi tornò a rivolgersi allo schermo. “Bene… Intanto che aspettiamo, c’è qualcosa di cui volete parlare?”, domandò con un sorriso a trentasei denti.
“Ehm…”, Robin parve imbarazzato. “Mi scusi, capitano, ma sto ricevendo una chiamata su un altro canale”. E chiuse bruscamente la conversazione.
“Bah, strani tipi”, disse Haruhi, facendo spallucce.
“Dove atterriamo, capitano?”. Kyon era chiaramente ancora arrabbiato per essere stato sfruttato poco prima, ma i suoi doveri di comandante parevano venire prima di tutto.
“Mh? Oh, dove ti pare”, rispose lei, noncurante. Aveva gli occhi fissi sul visore esterno e fissava con interesse la superficie terrestre avvicinarsi sempre di più.
“Scusa?”.
“Oh, insomma, ormai tutti su questa Terra dovrebbero sapere che la Confederazione esiste, chissene se ci vedono”.
Kyon sospirò. “A parte il fatto che ci siamo fatti vedere senza problemi anche quando non lo sapeva ancora nessuno… Quello che intendevo è: ‘c’è qualche luogo abbastanza spazioso dove possiamo atterrare?’”.
Haruhi fece tanto d’occhi. “E che ne so? Chiedilo a loro”, e fece un gesto vago verso i quattro terrestri.
Marco alzò una mano. “Se volete, vicino a casa mia c’è un campo inutilizzato. Cioè, in realtà di solito lo usano per le fiere e per quando c’è il Luna Park, ma credo che al momento sia vuoto, ecco”.
In effetti era così, e cinque minuti dopo Haruhi scese dalla scaletta con aria trionfale. “Abitanti della Terra, veniamo in pace!”, esclamò con aria soddisfatta, per poi voltarsi verso i suoi sottoposti. “Ho sempre sognato dirlo”.
“In realtà lo fa sempre”, borbottò Kyon a Riccardo.
Le persone presenti sul luogo – due vecchietti accomodati su una panchina nelle vicinanze – fissarono l’astronave con aria di moderata sorpresa. “E’ incredibile cosa organizzano oggi per queste feste”, commentò uno dei due. L’altro alzò le spalle e borbottò qualcosa scuotendo la testa.
Haruhi sbuffò. “Speravo che ci fosse più gente, però! Non dico una fanfara, ma almeno un po’ di pubblico…”.
“Siamo alla fine di Luglio e sono le quattro del pomeriggio, quelli che non sono in vacanza o in piscina saranno a casa a dormire al fresco”, spiegò Elena in tono pratico, prima di saltare giù dalla scaletta nell’erba seccata dal sole. “Allora, posso andare a salutare la mia famiglia?”.
“Uhm?”, fece Haruhi, che stava ancora scrutando l’orizzonte con fronte aggrottata, forse ancora attendendo l’arrivo di un comitato di benvenuto. “Oh, sì, giusto. In fondo è il motivo per cui siamo qui. D’accordo, ehm…”. Si voltò verso Raven e B.B., che all’apparenza la stavano fissando in attesa di istruzioni. “Raven, giusto? Puoi accompagnarla tu?”. La ragazza pallida fece spallucce e si avvolse ancora di più nel suo mantello. “E, ehm… Ragazzo lucertola o come ti chiami, tu tieni d’occhio coso. Quello che usa la spada”.
“Coso?”, domandò B.B. con tanto d’occhi.
“Io”, fece Riccardo in tono dimesso.
“Certo che potrebbe almeno ricordarsi il mio nome, eh”, borbottò B.B. mentre si allontanava.
“Lo dici a me? Sono quasi due mesi che viaggiamo insieme!”, rispose l’altro.
“Oh, e con questo due problemi sono stati sistemati!”, esclamò Haruhi, passandosi il dorso di una mano sulla fronte. “Wow, certo che fa un gran bel caldo”.
Beh, se non altro riconosce la nostra esistenza, anche se come problemi, pensò Marco. E’ già qualcosa!
“Ok, allora… Piton, lei si porti dietro Paolo…”.
“Pietro”.
“Sì, come ti pare. E io vado con l’healer, visto che è meno probabile che lui faccia esplodere qualcosa”.
“E basta con ‘sta storia dell’healer, però!”.
“E comunque io questa settimana non ho fatto esplodere niente, eh!”.
“Certo, certo”, rispose Haruhi, minimizzando le lamentele dei due. “Ora muoviamoci e andiamo, che qui sto morendo di caldo”. Si voltò verso Kyon. “Tu aspetta qui e mi raccomando, fai in modo che nessuno si allontani. Ci manca solo che, non so, quello sciroccato di Zaraki se ne vada in giro a provare la sua spada su qualcuno o che Stein cerchi di recuperare dei campioni per i suoi ‘esperimenti’”.
Il comandante annuì. “Tanto con quest’afa non credo che nessuno vorrà mettere un piede fuori. Qui dentro almeno c’è l’aria condizionata”.
“Sai, in realtà è un altro il motivo percui ho deciso di accompagnare proprio te”, affermò Haruhi con gravità, mentre lei e Marco percorrevano il viale che conduceva alla casa del ragazzo.
Devo sentirmi onorato?, pensò lui. Una farfalla gli planò all’improvviso davanti alla faccia, facendolo sobbalzare. “Ovvero?”, disse, agitando una mano per scacciare l’insetto.
“Beh, sei quello che abita più vicino, no?”, rispose Haruhi. “Sai, può non sembrare, ma camminare con questi tacchi non è affatto comodo”.
Scemo io pensare che ci fosse una ragione seria, si disse Marco. “E non puoi semplicemente mettere delle altre scarpe, se queste ti danno fastidio?”, domandò poi.
“Certo che no!”, rispose lei, facendo schioccare le labbra con aria irritata. “Sono un capitano della Confederazione, ho un certo prestigio da mantenere!”. Proprio mentre pronunciava quelle parole rischiò di infilare uno dei tacchi nel foro di un tombino; la ragazza incespicò, mormorò qualche insulto a mezza voce, poi lanciò uno sguardo decisamente poco promettente verso Marco. “Allora, quanto manca? Casa tua non doveva essere la più vicina?”.
“S-sì. Siamo quasi arrivati, dobbiamo solo svoltare qui…”. Mentre percorreva la viuzza che conduceva alla sua abitazione, il ragazzo iniziò a sentirsi molto meno sicuro di ciò che stava facendo. Chissà cos’è cambiato, in due mesi, pensò, cercando di scacciare il groppo che gli si era fermato in gola. In fondo sono partito così all’improvviso…
“Che è quella faccia depressa?”. Ad Haruhi, nei momenti in cui non le era richiesto, non sfuggiva nulla. “Non sei contento di vedere la tua famiglia?”.
Marco sobbalzò e sentì le guance accendersi. “N-no, non è questo… E’ che, sai, l’ultima volta me ne sono andato senza praticamente spiegare nulla, e non so davvero cosa aspettarmi dai miei, se saranno felici o arrabbiati o che altro”.
Haruhi fece spallucce. “Secondo me sei tu che ti stai facendo troppi problemi. In fondo è la tua famiglia, no? Guardando te, al massimo saranno un po’ strani, ma di sicuro non saranno cattive persone”.
Marco arrossì ancora di più. “Credo che sia la cosa più carina che tu mi abbia mai detto, capitano. Anche se l’hai fatto indirettamente”.
Lei sorrise. “Beh, non aspettarti che lo faccia spesso, ho la mia immagine da mantenere”. Poi però si concesse comunque una risatina.
Il ragazzo si sforzò di rispondere al sorriso. “Grazie, comunque. Ne avevo bisogno”.
Haruhi, però, era già scattata in avanti senza aspettare risposta. “Allora, qual è casa tua? Se non bevo qualcosa di fresco nei prossimi cinque minuti credo che ammazzerò qualcuno”.
“Oh, giusto! Ecco, di qua”. Marco svoltò in un cortiletto interno, su cui si affacciavano tre case dall’aspetto molto simile, ma tinteggiate in colori diversi. “E’ quella con la facciata bianca!”, si affrettò ad aggiungere notando che Haruhi stava marciando con decisione nella piazzola. Ci manca solo che entri in casa dei vicini e li minacci per farsi offrire un bicchiere d’acqua.
Haruhi, comunque, una volta arrivata sulla soglia si fermò e lanciò un’occhiata significativa al suo sottoposto.
Marco si avvicinò con circospezione alla maniglia e vi strinse le dita della sinistra. Oh, in fondo non potrà essere più tremendo del calamaro gigante di settimana scorsa. O delle lezioni di Bielorussia. E dopo l’inevitabile brivido scatenato da quest’ultimo pensiero, il ragazzo si decise ad abbassare la maniglia.
Il salotto era esattamente come lo ricordava, con le alte librerie bianche ritte a guardia ai lati del televisore e il massiccio divano contro la parete opposta; e ovviamente, accomodata su di esso con il portatile appoggiato sulle ginocchia, c’era sua sorella.
Serena, nel sentire la porta aprirsi, sollevò gli occhi dallo schermo. “Oh, sei tu”, disse in tono neutro. Poi sorrise. “Che cavolo ti sei messo addosso? Ti sta malissimo”.
“Ehi! Possibile che dovunque vado trovo gente che insulta la mia uniforme?”, esclamò Haruhi, irrompendo in casa e quasi rischiando di demolire Marco.
Serena alzò un sopracciglio. “E questa chi sarebbe? La tua ragazza?”.
Haruhi incrociò le braccia al petto. “Certo che no! Sono il capitano della nave dove viaggia lui!”, rispose in tono secco.
Ehi, potevi anche negarlo con meno veemenza!, pensò Marco scrollando le spalle. “Comunque, mamma e papà ci sono?”.
La ragazza annuì. “Sì. Per cena viene anche la nonna”.
“Marco!”. Il giovane fece appena in tempo ad alzare gli occhi che qualcuno gli piombò addosso e lo abbracciò.
“Ciao, mamma”, rispose lui, ricambiando il gesto d’affetto. Anche sua madre era proprio come se la ricordava. E bella forza, sono passati soltanto due mesi dall’ultima volta che l’hai vista!, gli suggerì una vocina acuta e saccente dal fondo della sua testa.
La donna lo fissò da dietro le lenti degli occhiali montati in metallo. “Stai bene, vedo”, disse, annuendo. “Pensavo che nello spazio si mangiasse male, ma pare che non sia così!”. Solo in quel momento parve accorgersi della presenza di una quarta persona nella stanza. “Immagino che lei sia la proprietaria dell’astronave su cui viaggia mio figlio… Spero che le sia utile, in qualche maniera”. Le tese una mano. “Io sono Anna, molto piacere”.
“Capitano Haruhi Suzumiya”, rispose l’altra con aria d’importanza. “E, anche se mi secca ammetterlo, non sono la proprietaria… Dipendente statale, sa com’è…”, aggiunse poi in tono decisamente più dimesso.
La madre di Marco rise di gusto. “Ah, lo so benissimo! Lavoro all’ufficio anagrafe”, spiegò, quasi con orgoglio. “Comunque, immagino che con questo caldo abbia sete… Posso offrirle qualcosa da bere?”.
“Iniziavo a pensare che non me l’avrebbe mai chiesto!”, esclamò lei.
“Prego, capitano Suzumiya, si serva pure”, disse Anna, spingendo verso l’ospite la pentola ancora piena per metà di tagliatelle col ragù. “E’ il piatto che mi riesce meglio, spero gradisca!”.
A dire il vero è l’unico piatto che ti riesce bene, pensò Marco trattenendo un sogghigno, mentre Haruhi si serviva con una seconda, generosa porzione. Ma questa pasta mi mancava davvero un sacco!
“E così… capitano, giusto?”, intervenne il padre di Marco, che come sia abitudine aveva mangiato velocissimamente e si stava già sbucciando una mela. “Sembra davvero giovane per essere al comando di una nave spaziale!”.
Haruhi si infilò in bocca una forchettata di pasta e masticò con vigore. “Sì,in effetti me lo dicono in molti… E pensare che c’è gente molto più giovane di me alle dipendenze della Confederazione!”.
“Davvero?”, rispose l’uomo in tono interessato. “E quindi come funziona esattamente, questa “Confederazione”? Pensavo che anche la Terra ci sarebbe entrata, ma per ora non…”.
“Dai, Giorgio, lasciala mangiare in pace!”, intervenne sua moglie. “Glielo chiederai dopo!”.
In effetti non ho capito come o perché ma abbiamo finito per fermarci anche a cena, pensò Marco guardando fuori dalla finestra. Sembrava ancora giorno pieno, ma d’altronde i De Angelis erano abituati a mettersi a tavola presto. Non che non mi faccia piacere, eh, aggiunse spostando lo sguardo sulla famiglia riunita: sua madre fissava compiaciuta Haruhi mangiare con gusto, Serena ripuliva il piatto dal sugo, suo padre che ormai aveva finito di cenare e si stava rilassando contro lo schienale, e sua nonna, che stava fissando con aria sospettosa Haruhi da quando era arrivata. Finalmente Marco prese coraggio e aprì la bocca: “C’è qualcosa che non va, nonna?”.
La diretta interessata, un donnone imponente con corti capelli grigio ferro, si riscosse sorpresa. “No, niente”, borbottò in tono fermo.
Sulla tavola scese il silenzio, perlomeno fino a che Haruhi non terminò il piatto di pasta. “Era davvero squisito!”, esclamò.
Gli occhi di Anna scintillarono dietro agli occhiali. “Se ne vuole ancora non si faccia problemi!”.
“Nah, meglio di no, o rischierei di non entrare più nell’uniforme!”, rispose lei ridacchiando, per poi rivolgere la sua attenzione a Giorgio. “E in risposta alla sua domanda di prima sì, anche questo pianeta verrà incluso nella Confederazione, ovviamente. Immagino sia una questione di settimane, e non addirittura di giorni, ormai”.
“Ah, giusto!”, esclamò Marco. “C’è una cosa che ho sempre voluto chiederti, ma alla fine non me ne sono mai ricordato!”.
“Forza, spara”.
“Ecco… Tu sei giapponese, giusto? Insomma, non mi pare che tu sappia l’italiano. Eppure com’è che capisci quello che diciamo? E non solo tu, anche Kyon e tutti gli altri”. In effetti è come essere in un episodio di Star Trek, con gli alieni che capiscono la lingua dei terrestri senza averne mai incontrato uno…
Haruhi sorrise. “Ah, ma è semplice! Potrebbe spiegarvelo perfino un bambino!”.
Marco si sforzò di non ridere. Già, ricordo ancora com’è andata l’ultima volta che hai tentato di…
Proprio in quel momento la porta della cucina si spalancò e Inez Fressange fece il suo ingresso. “Qualcuno ha bisogno di una spiegazione?”, domandò alla famiglia sbigottita.
Haruhi si alzò in piedi con aria irritata, facendo strisciare la sedia sul pavimento. “Ehi!”, esclamò piccata. “Stavolta tocca a me!”.
La scienziata le scoccò uno sguardo divertito. “Su, capitano Suzumiya, si metta a sedere e non faccia i capricci!”. La ragazza mugugnò la propria contrarietà, ma fece come le era stato chiesto. “Bene!”, riprese Inez. “Che cosa volevate sapere?”.
Marco ci impiegò qualche secondo a ritrovare la parola. “Ehm, sì… Volevo sapere com’è possibile che io riesca a capire quello che dicono tutti, anche se non conosco la loro lingua”.
Inez sorrise. “Beh, non è per niente difficile da capire…”.
“Già, è quello che ho detto prima io!”, intervenne Haruhi, ma la sua protesta rimase inascoltata.
“Comunque sia”, riprese la scienziata. “Nel momento dell’unificazione dell’Omniverso si sono originate diverse vibrazioni di fondo con effetti differenti, ma all’apparenza tutte tese a facilitare il processo di unione fra i differenti universi. La vibrazione in questione viene chiamata “effetto del pesce di Babele”, e consente di comprendere ciò che altri individui dicono, anche se non conosciamo la loro lingua madre. Di fatto, ognuno di noi parla la propria lingua, ma il nostro cervello non la ‘sente’ come tale; data questa premessa, tutto ciò vale soltanto per la voce diretta, mentre qualsiasi registrazione torna ad essere percepita da chiunque come pronunciata nell’idioma originale. Tutto chiaro?”.
“No, no, un momento”, intervenne il padre di Marco. “Che cosa sarebbe questo ‘Omniverso’ che lei ha nominato?”.
A dire il vero la domanda che dovresti farle è: chi è lei e come ha fatto a entrare in casa nostra?, ma vabbé, pensò Marco divertito mentre si alzava. “Signorina Inez, se può si fermi a rispondere alle domande dei miei; io intanto andrò in camera mia a recuperare qualche altro paio di mutande”.
“Aspetta, vengo con te!”, esclamò Anna, tallonando il figlio in soggiorno e su per le scale.
Sapevo che sarebbe arrivato questo momento…, si disse lui, improvvisamente giù di morale. “Senti, mamma…”, iniziò.
Lei, però, non lo stava ascoltando. Anzi, era riuscita a superarlo e ora si sbracciava verso due pile di scatoloni accatastati nel corridoio accanto alla porta della stanza di Marco. “Ecco, guarda, ho fatto come avevi detto tu! Tutti i tuoi giornalini…”.
“Manga”, la corresse stancamente il ragazzo.
“Manga”, concesse lei. “Sono qui dentro. Così puoi portarteli sulla tua astronave,no?”.
Lui fece spallucce. “Se hai così fretta di liberartene…”.
Il sorriso della donna si incrinò. “Che cosa vorresti dire?”, domandò, in un tono non molto rassicurante.
Marco abbassò gli occhi: dopo più di vent’anni sapeva riconoscere i segni di un’imminente incazzatura. “Beh, nelle mail che mi hai mandato continuavi a parlarne, dicevi che volevi inscatolarli e…”, mormorò sulla difensiva, prima che lei lo interrompesse.
“E ho mai parlato di buttarli via? Non mi pare”, replicò lei secca. “Semplicemente, so quanto tieni ai tuoi fumetti, e pensavo che, insomma, al massimo sei stato lontano da casa per un mese, fino a ora, quindi magari qualcosa che ti ricordasse casa poteva farti piacere. Ma se mi sbagliavo puoi sempre rimetterteli a posto”. La donna si girò per andarsene, ma Marco fece un paio di incerti passi in avanti, la bloccò e la strinse in un abbraccio. “E adesso cosa ti prende?”, domandò Anna, sorpresa.
“Scusa”, mormorò lui. “Scusa se ho pensato male di te, mamma”.
“Non vedo proprio perché avrei dovuto buttarli via”, rispose lei, ma il suo tono si era notevolmente addolcito. “Forza, portiamoli da basso, così poi vi accompagno in macchina dove avete… ehm, parcheggiato”.
Dieci minuti dopo, le scatole erano state sistemate nel bagagliaio e sul sedile posteriore dell’auto di Anna. “Temo che non ci sia spazio per tre persone”, disse la donna, grattandosi la testa. “O tu o il capitano Suzumiya dovrete…”.
“Siamo pronti a partire?”, esclamò Haruhi, già accomodata sul sedile del passeggero.
E lei quando cavolo ci è salita in auto?, si domandò Marco con tanto d’occhi.
“Beh, ci vediamo là al campo, ok?”, disse Anna, salendo in macchina e uscendo dal vialetto.
Marco salutò suo padre (“Vedi di farti sentire un po’ più spesso!”) e sua sorella (“Certo che un regalino potevi pure portarmelo, eh?”), ma quando arrivò il turno di sua nonna lei fece un’espressione imbronciata che riusciva a sembrare anche alquanto minacciosa.
“Nonna, davvero, c’è qualcosa che non va?”, domandò il ragazzo per la seconda volta.
Lei scosse la testa. “Penso solo che… Non mi va che tu te ne vada lassù nello spazio, dove non ho la minima idea di che cosa possa succederti. In fondo sei il mio unico nipote maschio. E poi, insomma… Quella stana tizia che dovrebbe essere il tuo capo, per non parlare di quell’altra che com’è arrivata così è sparita… Insomma, promettimi che starai attento e farai in modo che non ti succeda niente, d’accordo?”.
“D’accordo, nonna, te lo prometto”, rispose lui, dandole un bacio sulla guancia. “E prometto anche che tornerò di nuovo a casa appena avrò un altro periodo libero”.
L’anziana donna sorrise. “Non preoccuparti per me, sono solo una vecchietta a cui manca suo nipote, tutto qua”.
Vecchietta? Ma se l’anno scorso hai messo KO quel tizio grosso due volte te che aveva tentato di scipparti? Ne hanno parlato perfino al telegiornale!
Dieci minuti dopo, Marco giunse nel luogo dell’atterraggio; il professor Piton e Raven – entrambi con un’aria di profondo scazzo sul volto – stavano facendo levitare le scatole di manga verso l’astronave, sotto lo sguardo perplesso di Anna. “Però non sarebbe male, per quando c’è da pulire sotto i mobili”, mormorò.
“Caricateli nella stiva due!”, stava sbraitando Haruhi, le mani intorno alla bocca a mo’ di megafono (nonostante, peraltro, non ci fosse alcun bisogno di urlare).
“Certo che si dà parecchio da fare, eh?”, domandò Anna al figlio, vedendolo arrivare.
“Diciamo che più che altro le piace dare ordini…”, concesse lui.
“Ehi, Marco!”, esclamò Elena, avvicinandosi all’automobile. “Signora De Angelis”.
“Riccardo e Pietro?”, domandò Marco.
“Stanno sistemando la loro roba”, spiegò la ragazza. “La madre di Pietro gli ha dato una quintalata di verdure sottaceto, non so cosa pensa che ce ne facciamo…”.
“Mangiarle, forse?”, rispose il ragazzo. “O potremmo usarle come armi chimiche, in alternativa”.
Haruhi si avvicinò al gruppetto esibendo un’aria soddisfatta. “Ho caricato i tuoi bagagli a bordo. Sono nella stiva due”, annunciò.
A dire il vero li ha caricati qualcun altro. E il fatto che siano nella stiva due credo che l’abbiano sentito anche dall’altra parte della città, visto quanto urlavi…
“Appena riusciremo a far sloggiare tutta questa gente potremo partire, comunque”, continuò il capitano, accennando al campo; in effetti almeno un centinaio di persone erano radunate intorno all’astronave, nonostante il buio fosse calato ormai quasi del tutto e i pochi lampioni fossero troppo distanti dall’immenso veicolo per illuminarlo bene.
“Yoichi mi ha detto che oggi pomeriggio era cento volte peggio”, disse Elena. “Sono arrivate un paio di troupe televisive, e un gruppetto di bambini è riuscito pure a sgattaiolare a bordo”.
“Se ci fossi stata io avrei fatto pagare loro cinque crediti a testa”, intervenne Haruhi. “Insomma, conta come un tour guidato!”.
“Non credo che qui sappiano ancora cosa sono i crediti, capitano…”, replicò Marco. E in effetti non lo so neppure io. Tutti non fanno che parlarne, ma per ora non ne abbiamo visto mezzo. Chissà quando avremo il nostro primo stipendio…
“Ehi! Come butta?”. Dall’ombra dell’astronave si era staccata una figura, che alla luce del lampione più prossimo rivelò pelle verde, orecchie a punta e un sorrisone che metteva in mostra i canini.
“E tu chi saresti?”, domandò Haruhi. Un secondo dopo, però, la sua fronte aggrottata si distese. “Ah, già, sei uno di quei due della Terza Flotta… Scusa, mi ero praticamente dimenticata della tua esistenza…”.
Buon Dio, è VERDE! Almeno questo dovrebbe saltarti subito all’occhio!, pensò Marco scoraggiato.
“Marco, quel ragazzo è verde!”, bisbigliò nell’orecchio del figlio Anna, decisamente meno abituata a quel genere di stranezze rispetto ai presenti.
“Sì, ehm, ogni tanto capita…”, rispose lui. “E non è neppure la persona più strana che abbiamo visto finora, credimi”.
Haruhi, intanto, aveva trovato qualcos’altro su cui focalizzare l’attenzione. “Ehi, guardate lassù!”, esclamò, un indice puntato contro il cielo.
Tutti alzarono lo sguardo. “Wow!”, si lasciò scappare Beast Boy. E in effetti lo spettacolo era davvero magnifico: il cielo era sereno, e letteralmente ricoperto di stelle. Non era certo il mistico firmamento alieno del pianeta senza nome di una settimana prima… Ma tutti gli astri erano lì al loro posto, come erano sempre stati.
“Quella è l’Orsa Maggiore”. Haruhi iniziò a tracciare il contorno delle costellazioni con mano esperta. “E se guardate lì a destra, quella che sembra una doppiavù è Cassiopea. E… eccole, lì sotto. Deneb, Altari, Vega. In Giappone le chiamiamo…”.
“Il Grande Triangolo Estivo”, la precedette Elena. Haruhi le lanciò un’occhiataccia. “Beh, non è forse vero?”, si difese la ragazza.
“Sì, lo è. Ma per una volta che non ho quella tizia bionda fra i piedi vorrei poter finire da sola una spiegazione, ecco!”. Haruhi parve irritata, ma soltanto per un attimo; poi i suoi occhi tornarono a fissare sognanti il firmamento. “Devono essere passati anni dall’ultima volta che l’ho visto…”
“Perché? Non ti capita mai di guardare le stelle?”, domandò Marco sorpreso.
Haruhi aprì la bocca per una delle sue consuete risposte piccate, poi però cambiò idea. “Già, in effetti non potete saperlo”, disse in tono amaro. “Ovviamente, ora che tutti gli universi coincidono, non ci possono essere un sistema solare e una Via Lattea per ogni Terra… In effetti, in tutti i pianeti la prima avvisaglia dell’unificazione è stata proprio lo stravolgimento totale di stelle e costellazioni”.
“Già già, anche per noi è stato lo stesso”, intervenne B.B., annuendo con vigore.
“E’ stato così ovunque. Ovunque, tranne che qui”. Haruhi sospirò. “Forse Piton e Silente hanno ragione, forse c’è davvero qualcosa di unico in questo mondo”.
Sul gruppetto per una decina di secondi calò il silenzio.
“Capitano Suzumiya, sarò sincera: non ho capito nulla di ciò che ha detto”, disse Anna. “Però anche io penso che le stelle stasera siano bellissime”.
“Già”.
Altro momento di quiete.
“Ehi! Alla buon’ora!”. Anche Pietro e Riccardo erano emersi dalla Crazy Diamone. “Credevamo non sareste più tornati!”. Pietro si avvicinò ad Haruhi. “Capitano, il comandante Kyon mi ha detto di riferirti che è tutto pronto per la partenza e che possiamo decollare appena lo desideri”.
“Uh? Sì, d’accordo”, rispose lei, distratta. “Ma in fondo non abbiamo fretta”.
“Quindi non c’è niente che devi dirci?”, chiese Riccardo.
Haruhi sorrise. “Bentornati a casa”.
B.B.: Sì! Doppie anticipazioni!
RAVEN: Seriamente, non capisco che hai da essere così felice… Avessimo almeno avuto un ruolo in questo capitolo! Invece siamo stati delle comparse, in pratica.
B.B.: Beh, non siamo fra i protagonisti, quindi bisogna accontentarsi…
RAVEN: Tu almeno hai parlato. Io ho dovuto trasportare delle casse!
B.B.: Dai, almeno ti toccano le anticipazioni.
RAVEN: Wow, sono al colmo della gioia… Allora, il prossimo capitolo si intitola “Lontano lontano”. Ovviamente noi non appariremo, nel caso ve lo steste chiedendo.
B.B.: Su, sono sicuro che prima o poi potremo tornare in scena!
RAVEN: Come al solito il tuo inguaribile ottimismo è terribilmente irritante…
Ok, ecco qui il dodicesimo capitolo! Niente di rilevante, eh? Però quantomeno è apparsa la famiglia di Marco, che nel corso della storia non avrà chissà quale grande ruolo, è vero, ma mi faceva piacere presentarli! Due o tre volte almeno li si rivedrà, in fondo.
E, uhm, che dire ancora? Oh, sì, il prossimo capitolo sarà importante! Le prime righe potranno suonarvi moooooooolto familiari. Non preoccupatevi, non è pigrizia (cioè, sì, anche), è qualcosa di voluto. Prima che pensiate “questo ha postato due volte lo stesso capitolo”, meglio mettere le mani avanti!XD
Inoltre, finalmente appariranno i “cattivi” della storia! O quantomeno alcuni di loro. Dopo tredici capitoli si inizia ad entrare nel vivo, e direi che era pure ora!XD
Ma passiamo alle risposte alle recensioni!
Per Anonimo: della tizia nuda abbiamo già parlato. E davvero, le illustrazioni delle ragazze in costume servirebbero.XD Credo che Bielorussia dovrebbe essere messa nella lista nera di chiunque, in ogni caso!
Per Morens: sì, l’ecchi se usato nel modo giusto non mi spiace… Diciamo che di solito dell’ecchi non tollero i protagonisti che sembrano sempre dei cretini patentati… Però effettivamente è meglio non pensare a cosa succederebbe se Marco si comportasse così con Bielorussia…
Come sempre, saluto anche chi legge e basta! Spero che continuerete a seguire questa storiella un po’ bislacca.XD
E come sempre, vi do appuntamento per la prossima volta!
Davide
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** Parte Prima, Capitolo 13 - Lontano lontano ***
CAPITOLO TREDICESIMO – LONTANO LONTANO
Come spesso accadeva, Desiderio degli Eterni era andato – o andata; per lui/lei cambiare sesso era come cambiarsi d’abito, ovvero qualcosa che faceva con allarmante frequenza – a trovare Akio. Era un’abitudine che aveva conservato da quando ancora le dimensioni erano divise e impenetrabili l’una con l’altra se non per l’azione di pochi eletti. “Noi serviamo lo stesso padrone, dio caduto”, gli aveva detto, durante il loro primo incontro. “Entrambi creiamo desideri, plasmandoli dall’essenza stessa dell’umanità. È così che deve andare il mondo”.
Lui aveva approvato. D’altronde, era proprio il desiderio ciò che spingeva gli esseri umani a tentare di rivoluzionare il mondo.
“Fra un’ora avrò una riunione del Consiglio”. Akio era sdraiato sulle candide lenzuola del suo enorme letto, i capelli chiari sciolti sulle spalle e la camicia scarlatta aperta a mostrare il petto bronzeo. “Non vorrai farmi di nuovo arrivare in ritardo, vero?”.
Desiderio era accucciato i piedi del letto, il pallido volto androgino atteggiato in un sorrisetto lezioso. Indossava soltanto una camicia nera di seta,che contrastava con il biancore della sua pelle facendola sembrare quasi luminescente. “Non preoccuparti, non ci vorrà molto”, mormorò suadente, muovendosi su e giù per il materasso come un lungo e flessuoso felino. “Sono solo venuto ad accertarmi che tu ti stia divertendo”.
Si dice che esistano sorrisi da cento watt, ma quello di Akio avrebbe potuto da solo illuminare senza problemi un’intera sala da ballo. “Quando sono insieme a te non mi annoio mai”, rispose.
La reazione suscitata fu opposta a quella prevista: Desiderio incrociò le braccia sul petto magro, mentre il viso gli si accartocciava in una smorfia di rabbia. “Piantata con questo teatrino, Akio: non sono uno di quei ragazzini che ti piace tanto portarti a letto. Sai benissimo che cosa intendevo chiederti”.
L’altro sogghignò, e anche se l’espressione – come tutte quelle che usava abitualmente – era studiata al millimetro, era ovvio che fosse rimasto sorpreso. “Non mi permetterei mai di sminuirti, lo sai”, mormorò suadente, mentre le sue mani lisciavano le lenzuola bianche. “E quanto alla tua domanda sì, mi sto divertendo moltissimo… Tutto sta procedendo come deve, e presto riuscirò a rompere il guscio del mondo come ho sempre sognato”. Con un movimento rapidissimo, quasi inumano, si sollevò dal cuscino e le sue labbra andarono a posare un bacio su quelle di Desiderio. “Ma c’è ancora un’altra cosa che voglio, ora”.
L’Eterno, volubile come sempre, stava già sorridendo malizioso. “Non mi hai detto che fra poco hai una riunione del Consiglio?”.
Akio prese Desiderio per una mano e lo fece sdraiare accanto a sé. “In fondo sono arrivato in ritardo già una volta, no?”.
Sigla d’apertura: Life, di Yui
“Le arti magiche sono per il dieci percento ispirazione e per il novanta percento traspirazione”, disse Frau Totenkinder tutta seria, prima di sciogliersi in una risatina chioccia.
I suoi due allievi, seduti a gambe incrociate sul folto tappeto persiano davanti a lei, si guardarono l’un l’altro un po’ sconcertati. “Ehm… può ripetere, maestra?”, domandò alla fine Pietro.
L’anziana donna si sistemò un po’ meglio sulla sedia a dondolo, che protestò con una sequela di scricchiolii. “Ma è semplice, cari”, disse, riprendendo il suo interminabile lavoro a maglia. “È vero che bisogna essere dotati di grande fantasia e di una mente aperta per poter usare con successo la magia, ma questa è solo la punta dell’iceberg. Fino ad ora ve la siete cavata bene, ma se volete passare ad un livello successivo dovete prima di tutto essere coscienti di voi stessi e delle vostre effettive potenzialità; e so che detta così può sembrare una stupidata New Age, ma la meditazione è uno dei modi migliori per cominciare”.
“E quindi che dobbiamo fare, in pratica?”, chiese Marco in tono dubbioso. “Cioè, chiudiamo gli occhi e pensiamo a qualcosa, non so, tipo a un prato fiorito o alle risposte alle grandi domande dell’Universo?”.
L’occhiata che Frau Totenkinder gli rivolse convinse il ragazzo a indietreggiare di un buon mezzo metro. “Ci stavo appunto arrivando”, disse la vecchia strega. “Le cose tipo raggiungere un nuovo stato di consapevolezza o mettervi in contato con l’energia vitale di tutto il creato lasciatele alle tizie esaltate che corrono nude per i boschi e intonano inni alla Luna… Ciò che dovrete cercare oggi – e nelle prossime lezioni, visto che non mi aspetto certo che lo comprendiate subito – è qual è la fonte del vostro potere”.
“Che… è qualcosa di diverso dalla magia, insomma”. Marco bisbigliò in maniera a stento udibile, soprattutto perché non voleva rischiare di beccarsi un’altra occhiataccia.
“La magia è il fine, noi cerchiamo il mezzo. Banalmente, si può parlare di energia o forza magica, ma è fin troppo restrittivo. In fondo, anche chi non dovrebbe possedere la capacità di lanciare il più semplice incantesimo in particolari condizioni può compiere un miracolo. Ognuno di noi attinge il proprio potere da qualcosa di diverso, che sia un sentimento, un’altra persona o un oggetto con grande valenza simbolica; i più lo fanno in maniera inconscia, ma chi riesce a controllare la propria forza, beh… non ci vuole un genio per capire che questi individui appartengano ad una classe infinitamente superiore”.
“E qual è la fonte del suo potere, maestra?”, intervenne Pietro. “Se è una cosa che possiamo sapere, ovvio”.
Frau Totenkinder sorrise. Fu quello il momento in cui per la prima volta i suoi due allievi si resero conto che la loro insegnante non era solo una dolce vecchietta dotata di incredibili poteri magici, ma qualcosa di completamente diverso. “La mia fonte? Oh, è il sangue degli innocenti”, dichiarò, con il tono di chi pensa di stare dicendo una tremenda banalità.
“Sta scherzando”, disse Marco qualche secondo dopo.
“No, affatto. Come vi ho detto, esistono innumerevoli modi per accumulare potere magico”.
“Ma… ma questo è…”.
“Questo è cosa?”. Lo sguardo della strega aveva inchiodato a terra Marco e Pietro e reso di pietra le loro lingue. “Orribile? Riprovevole? Sbagliato? Forse. D’altronde, non ho mai negato né ritrattato ogni singola azione che ho commesso nel corso della mia vita, e se tornassi indietro nel tempo mi comporterei alla stessa maniera. Oppure dovrei rinunciare ad un potere tanto straordinario perché per mantenerlo faccio qualcosa ritenuto tremendo dai più?”. Nella foga del discorso Frau Totenkinder aveva stretto i pugni grinzosi; quando rilassò le dita, uno dei ferri da calza le cadde in grembo, deformato da una pressione tremenda. La donna sospirò e sfiorò il metallo contorto con un polpastrello, restituendogli, la sua forma. “In ogni caso non preoccupatevi: il modo in cui mi procuro il sangue è assolutamente legale sulla stragrande maggioranza dei pianeti. Anche sul vostro”.
“Ah… ok…”, mormorò Marco. Non è che mi sembri una grande giustificazione, il sangue degli innocenti è il sangue degli innocenti da qualunque parte lo si guardi…
“Maestra, ho una domanda”, la mano di Pietro tremò appena, mentre la alzava. “Se io… se io dovessi scoprire che la fonte del mio potere è qualcosa di negativo e decidessi di non usare più la magia… lei che cosa farebbe?”.
“Che cosa farei? Nulla”.
“Ma…”.
“È il tuo potere, Pietro. Il tuo, non il mio. Così come devo essere libera di fare ciò che voglio, così non potrei mai obbligarti a usare un tuo dono, se tu decidessi di rinunciarvi”. Sorrise, ma stavolta l’espressione era più benevola. “Soddisfatto della risposta?”.
Pietro emise un verso fra una deglutizione e un sospiro. “Sì. Sì, credo… Credo che sia giusto”
“Bene. Ora forza, cari, chiudete gli occhi e concentratevi; l’ora del tè si avvicina, e immagino che anche voi abbiate altro da fare, oggi”.
Per qualche minuto le uniche cose che accompagnarono Marco dietro lo schermo delle palpebre abbassate furono il rumore del suo respiro e di quello di Pietro, nonché l’occasionale scricchiolio proveniente dalla sedia di Frau Totenkinder.
Senza alcun preavviso, qualcosa gli rimbombò nel cervello.
Marco, riesci a sentirmi?
Per un attimo Marco ebbe l’impulso di aprire gli occhi, e in effetti pure di alzarsi in piedi e urlare con tutto il fiato dei suoi polmoni; la voce gli aveva attraversato la testa, ma non da un orecchio all’altro; era più come se fosse arrivata dal fondo della sua mente e avesse proseguito inesorabile in avanti, spianandogli le pieghe del cervello… Tutto questo nello spazio di un secondo. Poi, però, riconobbe quella voce.
Pietro! Cazzo, mi hai fatto prendere un colpo, sei scemo? Un attimo di pausa. Aspetta, riesci a sentirmi, vero?
Sì, anche se c’è un gran rumore di fondo. Figo, comunque, non credevo di poterci riuscire.
Cioè, hai semplicemente deciso di provare con la telepatia così tanto per fare? Senza che nessuno ti avesse spiegato come si faceva?
A dire il vero lo stai facendo anche tu.
Oh… Ehi, è vero! Chissà se possiamo farlo con tutti oppure solo fra noi due.
Dopo potremmo provare, in effetti.
Comunque, c’era qualcosa che volevi, ehm… dirmi?
Eh? Ah, no, no, volevo solo fare una prova, tutto qui.
Allora intanto che ci siamo ne approfitto: hai capito che cosa dobbiamo fare, esattamente?Perché non credo di stare facendo nessun progresso.
In effetti la maestra non è stata molto chiara a riguardo.
Più che altro, mormorò telepaticamente Marco dopo qualche secondo. Credo che lei stia sentendo tutto il nostro discorso, sai?
Certo che vi sento, cari. La forza del pensiero di Frau Totenkinder fu tale da far vibrare i denti ai suoi allievi. E ora vedete di concentrarvi, per favore.
Marco si concesse un sospiro interiore, prima di tentare di nuovo di fare… qualsiasi cosa gli fosse stato ordinato di fare. Non aveva la più pallida idea di come riuscire a capire quale fosse la fonte del proprio potere, e aveva paura che pensando con troppa intensità avrebbe finito con l’attivare un altro collegamento telepatico.
Qualche minuto dopo, però, si rese conto di una cosa bizzarra: sentiva ancora i rumori nella stanza, ma gli giungevano ovattati e crepitanti, come se li stesse ascoltando attraverso un paio di vecchi auricolari malconci. Beh, qualcosa sta succedendo, rifletté. Oppure sto solo diventando pazzo. Si concentrò sul crepitio e scoprì che era in grado di abbassare tutti gli altri suoi, ruotando piano piano un’immaginaria manopola per il volume, fino a che tutto ciò che poté udire fu il rumore di fondo. Chissà che succede se vado avanti, si disse. E in effetti perché non provare? Davanti ai suoi occhi chiusi, sospesa nello spazio scuro, comparve ancora la manopola. Marco tese una mano fatta di pensiero e immaginazione e con estrema cautela la ruotò, fino ad arrivare allo zero.
Dapprima non accadde nulla. Il rumore di fondo, però, scomparve, portandosi via qualunque altro suono.
Poi Marco cadde, in alto e in avanti.
Quando si risvegliò, la prima cosa di cui si accorse era che si trovava sdraiato su un letto matrimoniale: aveva le braccia spalancate sulle lenzuola, e ancora le sue mani non arrivavano al bordo.
“Devo essere svenuto”, mormorò al soffitto, il quale fu molto discreto e non rispose. Devo essere svenuto e mi hanno portato nella stanza più vicina per farmi riprendere, è ovvio, continuò mentalmente. Dev’essere la stanza del capitano, viste le dimensioni del letto…
Il ragazzo si mise a sedere e si guardò intorno: in effetti era una camera molto spaziosa, ma era davvero troppo spoglia per appartenere ad una tipa come Haruhi: i mobili erano metallici, freddi e impersonali, senza il minimo tocco di una presenza femminile. Solo l’enorme libreria che troneggiava in fondo alla stanza dava un tocco di colore e vivacità all’insieme. “Ma che…”, sbottò qualche secondo dopo, alzandosi in piedi e avvicinandosi alle file di volumi ordinati sugli scaffali. Certo, non era possibile, non aveva senso, però…
Eppure Marco dovette constatare un’inquietante verità: quelli davanti a lui erano proprio i suoi manga, manga che per quanto ne sapeva lui erano inscatolati in una delle stive, quantomeno fino a prima che svenisse.
Un paio di secchi, rapidi colpi alla porta. A Marco quasi scappò un urlo, tanto era perso nella contemplazione dei suoi fumetti. “Marco, posso?”. Haruhi, piuttosto ovviamente; quella stanza, in fin dei conti, doveva proprio essere la sua.
“Ehm… sì, un attimo”. Il ragazzo passò con gesti febbrili le mani sul letto per lisciare le lenzuola stropicciate, poi si lanciò verso la porta e premette il pulsante d’apertura, un po’ affannato.
Per un attimo stentò a riconoscere il capitano: non che fisicamente fosse diversa (anche se indossava una divisa bianca molto elegante che Marco non le aveva mai visto addosso), ma l’espressione in fondo ai suoi occhi tradiva una grande stanchezza e una profonda malinconia; la ragazza iperattiva, egoista e sognatrice aveva lasciato il posto a una giovane donna preoccupata e triste. “Qualcosa non va, capitano?”, domandò Marco d’impulso.
Lei scosse la testa, e solo in quel momento Marco si accorse che anche la pettinatura della ragazza era cambiata. “No, nulla”, rispose; nonostante il suo aspetto conservava la stessa determinazione di sempre. “Tu, invece? Dormivi?”.
“Ehm… più o meno. Ero svenuto, mi sono appena ripreso”.
Haruhi parve sorpresa. “Davvero? Non credevo potessi perdere i sensi”.
Dev’essere davvero stanca, cacchio. Che vuol dire che non posso svenire? Tutti possono svenire! “Capitano, sei sicura che non ci sia niente che non vada? Mi sembri stravolta”.
“Beh… In effetti sono un po’ stanca”, ammise lei. “Ma come mai eri svenuto, poi?”.
“Mi stavo esercitando con la maestra Totenkinder e a un certo punto è come se avessi iniziato a cadere nel buio per un sacco di tempo… Poi mi sono risvegliato in questa stanza. Ma credevo che lo sapessi, visto che sei venuta qui”.
Le rughe sulla fronte di Haruhi si accentuarono. “Sono solo venuta per parlare un po’ con te, a dire il vero. Non immaginavo che stessi male, ma in effetti sarebbe comprensibile, visto tutto lo stress a cui sei stato sottoposto in questo periodo…”.
“Beh, oddio”, borbottò Marco grattandosi la testa. “Cioè, è vero che le lezioni della maestra Totenkinder possono essere belle pesanti, anche perché altrimenti non credo che sarei svenuto, e ecco…”. Il ragazzo abbassò voce e occhi. “In effetti credo che Bielorussia continui a cercare l’occasione buona per uccidermi”. Il volume della voce tornò normale. “Però credo sia esagerato parlare di stress”. Si guardò intorno. “E soprattutto mi sembra esagerato che per un semplice svenimento tu mi abbia assegnato una stanza del genere; ora, non so chi abbia fatto la spia e sia venuto a riferirti del fatto che mi sono lamentato del fatto che non abbiamo camere singole, ma so benissimo che a bordo di questa nave lo spazio è quello che è”.
Haruhi fece tanto d’occhi. “Tu cadendo hai di sicuro battuto la testa. A parte il fatto che su ‘sta nave c’è più spazio di quanto potremmo mai sperare di occuparne, ma questa è la tua camera da sei mesi almeno!”.
Marco scosse la testa. “Non è possibile, io sei mesi fa nemmeno ti… oh, merda”. La consapevolezza gli si era appena schiantata addosso, aggrappandoglisi tenace al corpo come una iena su una carcassa.
“Guarda che tu sei membro del mio equipaggio da…”. Anche lo sguardo di Haruhi, all’improvviso, cambiò. “Oh, merda”.
“Già, è quello che ho detto anche io”, sibilò Marco; ad un tratto il respiro gli si era fatto corto. “Dev’essere successo qualcosa, non so… qualcosa di grosso, credo, che dici? E… uhm, quella è un’arma, vero?”.
Haruhi, senza che Marco nemmeno se ne accorgesse, aveva estratto da una delle tasche dell’uniforme una pistola laser che avrebbe fatto la felicità di qualsiasi appassionato di Star Trek (o di qualunque assassino a sangue freddo) e gliela stava puntando contro. “Certo che è un’arma, idiota”, disse, secca. “Non solo hanno mandato un impostore, ma pure un impostore stupido”.
“Ehi! Non sono un impostore e lo sai benissimo! Sono solo svenuto”. Non era una linea di difesa granché valida, ma Marco non pensava certo che Haruhi gli avrebbe sparato sul serio. Per buona precauzione, però, fece un passo indietro e sollevò le mani. Lentamente.
“Ah, no?”. Il capitano annullò la distanza fra i due e premette il muso della pistola sullo sterno di Marco. “E allora forza, perché non mi dici come si chiama questa nave?”.
Che domanda cretina… Poi sarei io quello stupido. “È la Crazy Diamond, ovvio!”, esclamò senza esitazione.
La fronte di Haruhi si aggrottò. Per qualche secondo Marco temette che lei gli avrebbe sparato comunque; poi, però, ripose la pistola in tasca, anche se con circospezione. “Oh, è evidente che qualunque cosa tu sia, non sei un impostore”, borbottò, lo sguardo impegnato a scandagliare l’altro.
“Beh, certo che non lo sono!”. Nonostante la tensione appena sfumata – o forse proprio a causa di quella – Marco riuscì a suonare parecchio risentito. “Ti pare che non sappia il nome della nave su cui ci troviamo?”.
“Appunto”, rispose la donna. “Il motivo percui non ti ho sparato è perché questa non è la Crazy Diamond. Se mi avessi dato la risposta giusta, d’altro canto…”.
“In che senso che questa non è la Crazy Diamond? E allora dove siamo?”.
“Sulla nostra nuova nave”. La ragazza articolò l’aggettivo “nostra” in modo bizzarro… o forse era soltanto il fatto che l’altra Haruhi avrebbe usato un “mia” senza farsi problemi. “Che, per l’appunto, ormai possediamo da sei mesi”. Haruhi si lasciò sfuggire una risatina, ma fu un suono amaro. “Non che ultimamente lo scorrere del tempo abbia grande importanza, eh?”.
“Che intendi dire?”. Marco non poteva essere più perplesso di così, eppure lo era e anche di parecchio.
Haruhi lo fissò con un lieve sorriso sulle labbra. “Ma da dove vieni, tu?”, domandò.
L’altro si grattò la testa. “Ehm… dal passato, può essere?”. Almeno, mi sembra l’ipotesi più probabile…Certo che potevano anche dirmi dei viaggi nel tempo, cazzo!
La donna annuì; e, mentre compiva quel semplice gesto le orecchie di Marco si riempirono di nuovo del rumore di fondo. Il capitano stava muovendo la bocca, ma solo poche parole riuscirono a superare la barriera di suono che diventava di secondo in secondo più alta. “…in effetti…occhi…diverso…bianco…”.
Poi, prima che Marco cadesse di nuovo, il brusio scomparve e il ragazzo poté sentire con chiarezza l’ultima frase di Haruhi.
“E poi stai respirando”.
Marco aprì gli occhi.
“Certo che respiro”, biascicò, un po’ intontito. “Conosci qualcuno che non lo fa?”.
“Maestra, si è svegliato e sta dicendo cose senza senso”, esclamò Pietro da qualche parte al di fuori del suo campo visivo. “Insomma, come al solito”.
“Vuoi che ti prenda a calci?”.
“Prima faresti meglio a metterti seduto, almeno, così non sei molto credibile”.
Marco si tirò su. Pietro era in piedi, appoggiato contro una parete; lo fissava da sopra una tazza fumante decorata ad allegri fiori rosa. Frau Totenkinder, come sempre accomodata sulla sua sedia, aveva posato il suo lavoro a maglia. Sembrava preoccupata.
“Non è che qualcuno saprebbe spiegarmi cosa mi è successo, vero?”. La voce di Marco non suonò convinta nemmeno alle sue stesse orecchie.
“Stavamo cercando di capirlo anche noi, coso. Ad un certo punto sei caduto per terra e non c’è stato verso di rianimarti… Cioè, respiravi e tutto, ma era come se il tuo corpo fosse vuoto e si limitasse a funzionare e basta”. Abbassò gli occhi sulla tazza e lo sguardo gli si tinse di una sfumatura colpevole. “Ah, scusa se non ti abbiamo aspettato per il tè, ma magari nella teiera ne è rimasto ancora un po’…”.
Ma chissene del tè, è proprio l’ultima cosa di cui preoccuparsi!, pensò Marco mentre rabbrividiva. La testa aveva iniziato a pulsargli e a girargli nello stesso tempo, come se qualcuno gli avesse infilato un enorme cacciavite invisibile alla base del cranio e stesse cercando di svitarglielo. “N-non fa niente, per come sto ora credo che non riuscirei a mandare giù neanche un sorso d’acqua senza vomitare”.
“Che cosa ti è successo?”. Alle orecchie di Marco quella di Frau Totenkinder non suonò proprio come una domanda: era come se la donna sapesse benissimo che cosa gli era accaduto e provasse pena per lui.
“Vuole che glielo racconti?”.
“Se pensi di poterci riuscire, mi farebbe piacere ascoltarti, caro”. Pietro si sedette a gambe incrociate sul tappeto, la tazza posata davanti a sé, e batté una mano sulla spalla dell’amico. Marco si sentì rinfrancato e trovò la forza di iniziare a parlare. Gli ci volle quasi un quarto d’ora per raccontare tutto, dato che non voleva tralasciare nessun particolare; alla fine della storia si sentiva già un po’ meglio, e riuscì a mandar giù un paio di sorsi del tè ormai tiepido di Pietro. Alzò lo sguardo a fissare gli occhi azzurri e vigili della strega. “Allora, maestra? Secondo lei è qualcosa che ha senso?”.
“Stai facendo la domanda sbagliata: tutto ha un senso, il problema semmai è riuscire a trovarlo. Dalle parole di Haruhi si potrebbe ipotizzare che ti trovassi davvero nel futuro, mentre escluderei l’idea di una dimensione parallela per ovvie ragioni strutturali…”.
“Aspetti, starebbe dicendo che… insomma, che potrei avere ragione? Che potrei avere viaggiato nel tempo?”.
“Una parte di te lo ha fatto quasi di sicuro. Non c’è nulla che impedisca che un evento di questo tipo si realizzi; in realtà, vista la configurazione attuale del Omniverso, qualsiasi cosa è possibile, almeno in potenza. Certo, dev’essere stato un viaggio nel tempo davvero strano… In fondo il tuo corpo è esistito simultaneamente in due punti distinti dello spazio-tempo”.
“Proiezione astrale?”, suggerì Pietro mentre sciacquava le tazze e la teiera nel lavandino in un angolo della stanza.
“Non lo escluderei”, rispose la donna, annuendo. Un gomitolo di lana rossa le sfuggì dal grembo e rotolò fino a fermarsi contro il battiscopa, ma lei non parve preoccuparsene. “Anche se non mi pare di avere mai sentito di proiezioni astrali in grado di spostarsi nel tempo oltre che nello spazio”.
“Ah, proiezioni astrali!”, esclamò Marco. “Come Prue in Streghe!”.
“Prego?”, Frau Totenkinder sembrava genuinamente perplessa.
“Lasci perdere, maestra, se non fa qualche citazione stupida ogni tanto non si sente a posto con la coscienza”, intervenne Pietro, che stava riponendo le tazze in una credenza.
“Ehi, senti da che pulpito viene la predica!”. Marco finse di essere risentito, prima di rivolgersi di nuovo alla strega. “Quindi, insomma, nemmeno lei sa cosa mi è successo di preciso”, concluse con un sospiro.
Gli occhi della donna si fecero severi. “Non lo so ora. Ma lo scoprirò, non te ne preoccupare”. Fra le lunghe dita ricurve della sua mano sinistra era riapparso il gomitolo. Marco deglutì: per un attimo gli era sembrato un cuore umano stretto fra gli artigli di un enorme avvoltoio. “Comunque, di una cosa sono sicura: ciò che hai visto è legato alla fonte del tuo potere”.
Il ragazzo aggrottò la fronte. “E quindi potrebbe essere il capitano?”.
Frau Totenkinder sembrò rifletterci un attimo, poi scosse con decisione la testa. “Questo mi sento proprio di escluderlo. La signorina Haruhi è… beh”. Il volto della vecchia si illuminò di un sorriso inquietante, e Marco ebbe di nuovo l’impressione di trovarsi di fronte a un rapace. “Non vi nascondo, miei cari, che è il motivo principale percui ho scelto di imbarcarmi su questa nave in primo luogo. Non esiste nessun altro individuo come lei nell’intero Omniverso, e io voglio essere la prima a carpire il suo segreto. Ma, sebbene possegga un potere enorme, non è di sicuro lei ad essere la fonte del tuo; anzi, credo esista un’unica persona che eventualmente ne potrebbe attingere…”.
“Intende il comandante Kyon, maestra?”, domandò Pietro, finalmente riaccomodatosi sul tappeto.
Le labbra antiche di Frau Totenkinder assunsero un’insospettabile piega maliziosa. “Chissà… D’altronde sono solo una povera vecchia, ormai faccende di questo tipo per me sono passate da un pezzo”.
Quando la smetterà con ‘sta storia della “povera vecchia”?, si disse Marco.
Marco, guarda che sento tutto quello che pensi.
Oh, merd… Ehm, cioè, chiedo scusa.
Non fa niente, caro.
“E quindi, maestra, che si fa ora?”, domandò Pietro, mentre si stiracchiava le braccia.
“Voi potete andare”, replicò lei. “Di sicuro, visto ciò che è accaduto, non siete più nella condizione adatta per continuare con la meditazione. Io cercherò di capire che cosa possa significare la visione di Marco. Ci vediamo alla prossima lezione, cari”.
Pietro assunse un’espressione delusa ma non obiettò; si alzò in piedi e tese un mano a Marco perché potesse fare altrettanto. Quest’ultimo, non fidandosi ancora delle proprie gambe, accettò l’aiuto di buon grado. “Mi dispiace per come sono andate le cose”, disse un paio di minuti dopo, mentre camminava a passi lenti in uno dei corridoi della Crazy Diamond. “Ho rovinato la lezione”.
Pietro ridacchiò. “Ma stai scherzando, coso? Sono solo un po’ giù di morale perché io non sono riuscito a vedere un bel niente, tutto qua”.
“Ehi, ma se sei più avanti di me praticamente in qualsiasi cosa!”, replicò l’altro. “Davvero non hai visto nulla?”.
Pietro fece spallucce. “Quando sei caduto in trance o quello che era la maestra mi ha messo a preparare il tè…”.
“Quindi insomma, alla fine stai dando la colpa a me?”, domandò Marco con un sogghigno.
Pietro finse di pensarci su. “Mmh… In effetti, in ultima analisi, mi sa che è proprio così!”.
I due si fissarono con aria seria, fino a che non riuscirono più a trattenersi e scoppiarono a ridere. “Forza, andiamo a sbirciare come se la cava Elena”, propose Marco.
“E perché non Riccardo?”.
Marco rabbrividì. “Scherzi? Non voglio mica rischiare di essere aperto a metà da Zaraki!”.
“Signore e signori, benvenuti”. Akio fece un passo avanti, entrando nella luce pallida e oblunga proiettata dal riflettore. “Ho il piacere di aprire una nuova riunione della Fazione della Solitudine”.
Le parole furono accolte da un applauso debole e contenuto, che si esaurì subito. D’altronde, non molte persone erano presenti; soprattutto, solo una dei cinque membri del pubblico sembrava in tutto e per tutto umana.
“Hai detto di avere delle novità, vero, Akio-san?”. Rei Hazama, seduta nella prima fila al centro del piccolo teatro, fissava l’uomo sul palco con la sua consueta espressione innocente, angelica e meticolosamente costruita.
“Spero bene che tu ne abbia, uomo”. Sarah Kerrigan stava in piedi in un angolo della sala, le braccia incrociate sul petto avvolto da una bruna armatura chitinosa e gli occhi gialli che dardeggiavano nella semioscurità. “Sai che non reagisco bene alle perdite di tempo”.
“Non preoccuparti, Regina delle Lame”, rispose Akio, dispensando un altro dei suoi sorrisi magnetici.”Vi ho convocati qui per annunciarvi un importante passo avanti nel nostro piano”.
“Ottimo”, intervenne Malefica, accomodata con postura regale in terza fila. “Non dubitavo della sua efficienza, signor Ohtori. Tutto sta procedendo nel migliore dei modi”.
“E allora perché hai mandato quegli Heartless a Eidolon?”, domandò Voldemort un paio di file più a destra. Uno dei suoi occhi brillava di un rosso molto più intenso rispetto all’altro. “È stato un modo stupido e inutile di attirare l’attenzione, o sbaglio?”.
La fata non perse la propria statuaria compostezza. “Credo che dovreste avere almeno un paio di secoli di esperienza in più sulle spalle, prima di criticare le mie scelte”, rispose con il tono di chi sta facendo un’importante e benevola concessione. “Prima di tutto, non li ho inviati solo su Eidolon, ma su molte delle Terre abitate. Inoltre, sono stata ben attenta ad utilizzarne un numero tale da non costituire un reale pericolo; e per finire, ho fatto tutto questo su esplicita richiesta del nostro gentile ospite”.
“Cosa di cui le sono molto grato, mia signora”, intervenne Akio, per evitare che la situazione potesse degenerare. “Così come sono grato alla signorina Hazama per avere scatenato quelle rivolte su Terra 5872 e alla Regina delle Lame per riuscire a mantenere la guerra che il suo popolo sta portando avanti in uno stallo tanto credibile”. Sarah Kerrigan sbuffò, un suono breve e ansimante, ma non sembrava particolarmente spazientita. Non più del solito, quantomeno. “In ogni caso, anche io non sono che un umile visitatore, in questo luogo”.
“In effetti non ci siamo ancora tutti”, intervenne Lumi, che fino a quel momento non aveva aperto bocca. Il suo incarnato da bambola di porcellana luccicava nella penombra, illuminandole la cascata di capelli azzurri e il viso perfetto e glaciale. “Dov’è il padrone di casa?”.
“Eccomi”. A parlare era stata una settima figura, che si era appena materializzata sul palco; era un uomo alto e snello, dall’incarnato olivastro e un grande sorriso obliquo e un po’ sinistro, che metteva in evidenza i suoi lineamenti marcati. La sua voce, roca e calda, aveva un che di esotico che la rendeva ancor più carismatica e irresistibile di quella di Akio. “Chiedo scusa per il ritardo”.
“Nessun problema, Mister N.; stavo giusto aggiornando i nostri gentili invitati riguardo al completamento di un’altra parte del nostro piano”, disse Akio con un lieve cenno del capo.
L’ultimo arrivato si esibì in una riverenza profonda, piegando la lunga schiena come un giunco sferzato dal vento, in un’angolazione quasi innaturale. “Ho fatto bene a fidarmi di lei, signor Ohtori. Da quando l’ho messa a parte del nostro progetto non mi ha mai deluso”.
“E lei è un finanziatore fin troppo gentile”, replicò Akio. “Posso chiederle di abbassare le luci e accendere il proiettore per le diapositive?”.
Bastò un cenno della mano di Mister N. e il faretto puntato sul palco si spense, mentre nell’aria si diffondeva il ronzio di un apparecchio elettronico che si avviava. Un paio di secondi dopo sul muro di fondo del teatro apparve un’immagine.
Era difficile capire che cosa fosse e a che cosa servisse. Era un intrico di tubi, leve, pannelli e pulsanti, per la maggior parte spenti; il tutto era sormontato da cinque cilindri trasparenti, tre dei quali erano colmi di un liquido azzurro intenso. Non era facile capire cosa contenessero con esattezza, ma le sagome in due di essi erano inequivocabilmente umane.
“Qualcuno sa dirmi che differenza c’è fra questa fotografia del Continua Device e quella che vi ho mostrato la volta scorsa?”, domandò Akio.
Rei sollevò una mano, come se invece che in un teatro fosse seduta dietro ad un banco di scuola. “L’altra volta solo due delle celle energetiche erano piene, giusto?”.
“Esatto, signorina Hazama. Ricorderete senz’altro che la Catena del Drago e la Camelia Bianca erano già in mano nostra”. La diapositiva dell’enorme macchinario fu sostituita in rapida successione dalla foto di una ragazzina dai capelli viola e una strana ecchimosi intorno al collo e un giovane uomo dalla chioma e i vestiti candidi e un tatuaggio proprio sotto l’occhio sinistro. “D’altronde, proprio due di voi gentili signore hanno contribuito alla loro cattura”. Malefica e Lumi minimizzarono il tutto con un lieve gesto della mano. “Ma sono lieto di annunciarvi che sono finalmente entrato in possesso di… questa!”.
La quarta immagine non mostrava una persona, bensì un’arma: si trattava di un pugnale dal manico di legno intarsiato a formare figure alate. La lama era un po’ storta e aveva una forma sgraziata, e sembrava essere stata riassemblata malamente; eppure la sola fotografia riusciva a trasmettere un netta sensazione di importanza e potere.
“Questa, signore e signori, è la Lama Sottile”. La voce di Akio vibrava d’orgoglio, come se stesse presentando i meriti di un figlio particolarmente intelligente. “Un pugnale così affilato da essere in grado di aprire degli squarci nel tessuto spazio-temporale. Nonché il terzo catalizzatore per il nostro Continua Device”.
“Io ci andrei piano con l’euforia, uomo”. Sarah Kerrigan sgranchì le ali, producendo una serie di scricchiolii e schiocchi ultraterreni che avrebbero fatto la gioia di Lovecraft. “Finché non riusciremo a mettere le mani sugli ultimi due è come se fossimo ancora al punto di partenza”.
“Senza contare che non abbiamo nemmeno idea di chi o cosa siano o di dove si trovino”, le fece eco Voldemort.
“Su questo devo dissentire”. Mister N. si era fatto avanti, portandosi al centro del palco. La sua figura lunga e magra tagliava in due la fotografia della Lama Sottile. “Essendo l’ideatore di questo progetto, ovviamente so che cosa è necessario per poterlo completare”.
“Sappiamo che serve un quarto catalizzatore quantico”, intervenne Malefica. “Ma non ci ha mai spiegato che cosa dovrebbe riempire la quinta cella”. Il suoi occhi dardeggiarono nella penombra; non apparivano malevoli (non più malevoli del solito, quantomeno) ma ritrattava comunque dell’espressione di qualcuno che pretendeva una risposta precisa ed esauriente nel minor tempo possibile.
Mister N. abbozzò un altro inchino. “Lieto che lo abbia chiesto. Credo comunque che la risposta sia abbastanza ovvia, se ci si riflette sopra un attimo: che cosa può far funzionare un apparecchio come il Continua Device?”.
Lumi scoppiò a ridere. “Mi perdoni, Mister N., ma perché fare qualcosa di così inutilmente complicato? Una qualsiasi fonte di energia non è sufficiente?”.
L’uomo non sembrò seccato dallo sfoggio di ilarità della regina delle nevi; era come se nulla potesse scalfire il suo sorriso. “È proprio questo il punto: una volta avviato, il Continua Device necessita di un quantitativo di energia praticamente infinito. Anche se riuscissimo a trarre tutta l’energia dai cuori di tutte le stelle dell’Universo, non otterremmo comunque un impulso sufficiente all’attivazione… Si parla sempre di quantità finite, in fondo. Ma prima che vi preoccupiate, ci tengo a rassicurarvi riguardo al fatto che ho già un candidato perfetto per questo ruolo. Certo, sarà molto difficile riuscire a farlo nostro… Molto difficile, però, non impossibile. Appena sarò riuscito ad ottenere informazioni certe anche sull’ultimo stabilizzatore quantico vi metterò a parte delle loro identità, così potremo organizzare il loro… prelievo a tempo indeterminato”.
Sarah Kerrigan sollevò gli occhi gialli verso il soffitto. “Devo ammettere che sono impressionata, mio malgrado. Ero convinta che una volta recuperati i componenti per il Continua Device avremmo dovuto fare qualcosa di inutilmente complicato e pericoloso perché il nostro piano potesse realizzarsi, e invece…”.
“Lieto che tu apprezzi i nostri sforzi, Regina delle Lame”. A prendere la parola questa volta era stato Akio. “In effetti, abbiamo cercato a tutti i costi di evitare passaggi come ‘Esponi il rubino maledetto alla luce della luna nuova nel giorno dell’equinozio mentre ti trovi in una valle infestata da serpenti velenosi’”. Si concesse una breve risata, poi procedette. “Quando tutto sarà pronto, ci basterà solo premere un paio di bottoni, e poi…”.
Un ‘click’ risuonò nel buio della sala, e la diapositiva della Lama Sottile lasciò il posto ad un’altra.
Era una foto semplice, eppure molto vivida: la passione dell’autore per il soggetto ritratto era facilmente rintracciabile. L’immagine raffigurava nient’altro che un portale di marmo bianco ben chiuso – e c’era da scommettere che per quanti sforzi uno avesse potuto fare e con quanta forza avesse potuto spingere, esso non si sarebbe schiuso neppure di un millimetro – circondato da cespugli di rose rampicanti in piena fioritura. Era molto antico, molto bello e, all’apparenza, estremamente malinconico.
“E poi, potremo rivoluzionare il mondo”, concluse Akio.
MIYU: Evviva! È di nuovo il nostro turno!
SHIN: Ma vedi di stare un po’ calma! Tanto prima del prossimo capitolo non appariremo.
SENKOU: In effetti sono curioso di vedere in quale modo l’autore ci farà entrare in scena.
SHIN: Conoscendolo, di sicuro in maniera banale e stra-abusata.
MIYU: Possibile che tu non abbia un minimo di fiducia in lui?
SHIN: Sì, direi che è decisamente possibile.
MIYU: Uff… Vabbé, lasciamo perdere. Il quattordicesimo capitolo di “Il cielo è un’ostrica, le stelle sono perle” si intitola “Salvare l’Omniverso e altri sport estremi”. Mi raccomando, non cambiate canale!
SHIN: Senkou, sbaglio o io lo dico sempre che questa è scema?
E dopo un mesetto, eccoci qui con il tredicesimo capitolo! Sono successe un sacco di cose poco comprensibili, vero? Beh, in effetti non è che posso spiegare tutto subito!
Ovviamente il fatto che l’inizio di questo capitolo sia molto simile all’inizio del nono capitolo è qualcosa di assolutamente voluto! Nel caso qualcuno se lo stesse chiedendo, insomma.
Ok, non ho molto da dire a questo giro, temo… Passiamo alle risposte alle recensioni!
Per Morens: no, in effetti non seguo il wrestling… Un mio amico era parecchio appassionato, poi tre anni fa circa gli è passata la fissa e quel poco che ne sapevo me lo sono dimenticato! Le mie canzoni preferite? Mah, non è che abbia un genere preferito: diciamo che se sento una canzone che mi piace la ascolto! Forse è un approccio un po’ passivo, nel senso che non mi metto a cercare le canzoni, aspetto di sentirle…
E no, non ho Facebook. Non mi piace e non ho intenzione di iscrivermici!XD
Per Anonimo: spero che il capitolo ti sia piaciuto! So che è passato un po’ di tempo dall’ultimo aggiornamento (quantomeno in relazione ai miei aggiornamenti consueti riguardo questa singola storia… Perché di solito sono mooooolto più lento!XD), e purtroppo in questo periodo ho prodotto ben poco: ho solo altri due capitoli già pronti dopo questo! In effetti devo darmi una mossa, voglio arrivare in fretta alla seconda parte della storia!
Ringrazio tutti coloro che leggono la storia, in ogni caso!^^ E vi aspetto al prossimo capitolo, che prometto ci metterà meno di un mese e mezzo ad arrivare!
A risentirci!
Davide
|
Ritorna all'indice
Capitolo 15 *** Parte Prima, Capitolo 14 - Salvare l'Omniverso e altri sport estremi ***
CAPITOLO QUATTORDICESIMO – SALVARE L’OMNIVERSO E ALTRI SPORT ESTREMI
Premessa:
L’autore ci tiene a rassicurare i suoi quattro lettori sul fatto che,
nonostante il titolo del capitolo, nessun personaggio di “Maximum Ride” verrà
utilizzato in questo crossover. Ci sono già
abbastanza Mary Sue in questa storia, una con le ali
è proprio l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno.
Nell’Universo ci sono un sacco di cose.
Per la maggior parte si tratta di fenomeni
interessanti e visivamente spettacolari ma non molto utili all’atto
pratico, come giganti rosse, pulsar o nane brune. I
buchi neri, se non altro, possono risultare efficaci
se ci si vuole liberare di qualcosa di scomodo… Sempre che il buco bianco
corrispondente non decida di aprirsi proprio davanti alla persona a cui si
stava tentando di nascondere il problema in questione (ed era successo almeno
una volta, a quanto si diceva).
Pianeti e satelliti invece sono molto meglio,
soprattutto perché c’è la possibilità che ospitino forme di vita intelligente, o quantomeno non troppo
stupida. Inoltre possono rivelarsi ottimi luoghi di
villeggiatura, come la ciurma della Crazy Diamond aveva imparato a proprie spese.
E poi, ogni tanto, ci sono anche delle astronavi.
Sigla d’apertura: Shugoshin, dei JAM Project
“Chissà come mai ci ha convocati tutti sul ponte di
comando…”, domandò Elena, dando voce a ciò che si
stavano chiedendo tutti. “Cioè, non so se
dobbiamo avere paura o che cosa, nell’interfono sembrava agitata e fin
troppo euforica…”.
“Quello non è indicativo”, rispose Pietro,
aggiustandosi l’uniforme grigia. “Haruhi
è sempre agitata e fin troppo
euforica”.
“Non hai tutti i torti nemmeno tu”.
“Piuttosto, perché abbiamo dovuto metterci di nuovo addosso questa roba?”, intervenne Riccardo, indicando
la propria divisa. “È brutta e pure scomoda… E Nagi non aveva mica detto che ci
avrebbe fatto dei costumi adatti a noi?”.
“Ma dai, sarebbe come andare sempre in
giro in cosplay”, si lamentò Marco.
“Anche perché se lasci fare a lei minimo minimo ci ritroviamo conciati come dei personaggi
scartati da qualche Dragon Quest”.
“Questo lo dici solo perché ti toccherebbe l’healer”, lo punzecchiò Pietro.
Marco abbassò la testa, sconfitto. “Vi prego, almeno voi lasciate perdere questa storia…”. Emise un
profondo sospiro. “Anche Piton mi ha detto che gli incantesimi in cui faccio meno schifo sono
quelli di cura, e una cosa del genere detta da lui è tipo il più
grande dei complimenti…”.
Come al solito in plancia
c’erano solo Haruhi e Kyon…
e una decina di Pikmin dei colori più vari,
seduti a gambe penzoloni sul bordo di uno dei quadri comandi e intenti a
parlottare nel loro linguaggio acuto e frusciante. Nell’udire il
quartetto entrare, si voltarono tutti verso la porta. “Alla
buon ora!”, li accolse Haruhi battendo
un piede per terra con aria irritata. “È passato un secolo da quando vi ho chiamati!”.
“Veramente sono passati sette minuti e
cinquantuno secondi”, ribatté Kyon. Lei
gli indirizzò uno sguardo omicida. “È inutile che mi guardi
così, è la verità”.
“Comunque
sia”, ricominciò lei, ancora un po’ seccata ma meno rispetto
a qualche secondo prima. “Dopo la noia profonda degli ultimi mesi
finalmente abbiamo scoperto qualcosa che valesse la
pena di essere trovato!”. La giovane donna era umorale come suo solito, e
nel corso della frase il suo tono da scazzato divenne
euforico. “Se tutto andrà come spero
potremo anche mettere da parte un bel po’ di soldi per una classe
S!”.
“Classe A”, la corresse
Kyon. Altra occhiata di puro disprezzo. “Ehi,
io una classe S non la piloto, te l’ho detto che
le manovre di parcheggio sono un casino”.
“Uff, stai sempre a
mettermi i bastoni fra le ruote!”.
“Puoi sempre trovarti un altro comandante, se
la cosa non ti sta a genio”.
Haruhi incrociò le braccia al petto e gettò
al suo sottoposto un’occhiata in tralice. “N-non
hai capito, stupido”, borbottò. “E comunque
in effetti non saprei che farmene di tutto quello spazio…”.
Uh, tsundere moment!, pensò Marco con un ghignetto
sul volto. È proprio vero che per
quanto lei sia incontenibile alla fine Kyon riesce a
domarla…
Già,
intervenne Pietro per via
telepatica. Pare che in questo caso la
forza inarrestabile sia stata sconfitta dall’oggetto inamovibile!
Pietro,
lieto che tu voglia fare due chiacchiere, ma non dovresti chiedere il permesso prima di leggere i pensieri altrui?
Oh, scusa,
coso… Ma se non vuoi che lo faccia dovresti evitare di sparaflasharli in giro.
Ehm…
ok, ci proverò.
Haruhi intanto sembrava essere tornata
all’eccitazione di un minuto prima. “Allora, siete pronti a vedere
con i vostri occhi la nostra futura fonte di quattrini?”, domandò,
per poi fissare i quattro terrestri come se si aspettasse la più
entusiastica delle risposte. Loro, dopo essersi guardati negli occhi a vicenda
con un po’ di perplessità, si limitarono ad annuire, cosa che comunque sembrò bastare alla ragazza. “Kyon, mostra loro l’immagine!”,
annunciò, puntando con aria plateale un indice verso lo schermo.
“Wow!”, esclamò Riccardo un paio
di secondi dopo. Poi guardò i tre amici, che parevano decisamente
meno colpiti, e si ricompose. “Cioè,
wow”, ripeté in tono dimesso.
“Tutto qua?”, domandò Haruhi, chiaramente scocciata. “Voialtri non avete
nulla da dire?”.
“Beh… è un’astronave,
no?”, replicò Elena facendo spallucce. “Non è che non
ne abbiamo viste, in questi ultimi mesi”.
“Senza contare che quella di B.B. e Raven era molto più
impressionante, aggiunse Pietro. “Questa pare un rottame, dubito che mi
azzarderei a viaggiarci sopra”.
Haruhi ricominciò a far ticchettare la scarpa sul
pavimento, stizzita. “È proprio questo il punto!”,
esclamò con il tono di chi ha appena realizzato
di aver dato perle ai porci. “Quella è una nave alla deriva, e se
riusciamo a recuperarla e a portarcela dietro fino a
El-Dorado ci potremo ricavare un mucchio di soldi, come vi ho già detto
più o meno novemila volte!”.
Marco fissò la nave con maggior attenzione;
la sua esperienza con i veicoli interplanetari era alquanto limitata, ma in effetti quello sullo schermo era un po’ diverso
dagli altri: laddove molte delle navi che aveva visto avevano forme bizzarre e
spesso niente affatto aerodinamiche, questa sembrava un missile, affusolata,
cilindrica e molto, molto lunga. Anche il colore dello
scafo differiva dal consueto: sembrava costituito da un metallo grigio molto
scuro, quasi nero, sul quale risplendevano strie luminose verde brillante
disposte in uno schema quasi regolare (le mancanti dovevano essersi spente a
causa della mancata manutenzione, ipotizzò Marco). “E quella… mh, è una
classe S?”, domandò, rivolto a nessuno in particolare.
Kyon scosse la testa. “No, guardando solo alle
dimensioni è una classe A, ma per molto poco”,
scrollò le spalle in quello che sembrava un brivido. “Anche se è palese che quella nave non è uscita
da uno dei nostri cantieri”.
“Ed è proprio questo il motivo percui vale così tanto!”,
si intromise Haruhi, di nuovo raggiante.
“Quindi, in
pratica”, fece Riccardo. “Quella sarebbe un’astronave aliena?
Aliena aliena,
insomma”.
“Esatto. Molto probabilmente a bordo c’è qualche
tecnologia che potrebbe tornare utile agli scienziati della
Confederazione”, spiegò Kyon. “Purtroppo non credo ci sia qualche superstite,
altrimenti avrebbero inviato da tempo un segnale di soccorso”.
Elena emise un sospiro contrariato: era ovvio che stava per chiedere
proprio quello. “Credevo che tutti i pianeti che vengono
scoperti venissero inseriti nella Confederazione”, disse invece.
Haruhi
ricambiò con un mezzo ringhio di disappunto. “Purtroppo alcune
delle razze non umane non sono granché entusiaste della cosa… In effetti la stragrande maggioranza dei pianeti confederati
sono versioni alternative della Terra o comunque abitate da umani, essendo noi
la specie più diffusa dell’Omniverso”.
La ragazza alzò le spalle. “Molti si limitano a farsi i fatti
loro, e se rispettano gli accordi la cosa ci sta benissimo – con gli Yeerk e i Romulani abbiamo
stipulato dei trattati di pace, per dire – ma ci
sono alcune razze che ci sono apertamente ostili”.
“Quindi ci sono state delle
guerre?”, domandò Elena in tono secco. L’argomento non le
andava a genio, e si vedeva chiaramente.
“Beh, in un paio di occasioni abbiamo
proprio dovuto sterminarli… Ehi, è inutile che mi guardi
così, era una situazione alla ‘o noi, o loro’”,
spiegò Haruhi, dopo aver intercettato
l’occhiata infuriata e inorridita di Elena. “L’ultima volta
che la Confederazione
ha avuto un emergenza di livello indaco – che
sarebbe il più alto, per capirci – io e Kyon
eravamo già in servizio, quindi è stato più o meno…
un anno e mezzo fa”. Haruhi rabbrividì.
“Erano degli ignobili gnometti verdi, e ogni
tanto me li ritrovo in qualche incubo ancora adesso”.
Marco aggrottò la fronte. “Forse ho capito chi potrebbero
essere… Cervello esposto, occhi a palla, espressione da ‘ne so molto più di te e te lo dimostro con la mia
pistola vaporizzante’?”.
“Esatto, proprio loro! Abbiamo dovuto eliminarli dopo che
avevano attaccato due Terre per puro divertimento. Ci sono
volute un centinaio di navi di classe A che trasmettevano ‘It’s all coming back to me’
dall’orbita di Marte… Poi c’era poltiglia verde ovunque, ma
se non altro nessuno ha dovuto ripulire”.
“Celine Dion
usata come arma di sterminio”, mormorò Marco. “Ora le ho
sentite davvero tutte”.
“L’ho sempre saputo che le sue canzoni nuocciono
gravemente alla salute”. Pietro annuì con aria convinta.
“Comunque sia”, riprese Haruhi. “Ora come ora la minaccia maggiore viene
dalla specie chiamata Zerg, non credo li
conosciate…”.
“Quelli di Starcraft!”,
esclamarono all’unisono Marco, Pietro e Riccardo.
Haruhi
li fissò con tanto d’occhi, poi scosse la
testa. “Sapevo che non dovevo sottovalutare voi nerd”,
borbottò in tono amaro.
“Ehm… una spiegazione per gli ignoranti?”,
domandò Elena con il braccio destro sollevato.
Pietro si schiarì la voce. “Sono una razza di parassiti
interplanetari che infettano altre specie e le assimilano, e possono spostarsi
nel vuoto interstellare viaggiando da un pianeta all’altro”.
“Hai presente i Borg?”,
intervenne Marco. “Il principio è più o
meno lo stesso”.
“Infatti ci sono… ehm, dei
cervelli giganti o qualcosa di simile, che controllano le singole
unità”, continuò Riccardo. “Come si
chiamavano?”.
“Cerebrate”, rispose Pietro.
“E poi c’è l’Overmind che è la mente-madre che coordina tutti i Cerebrate”.
“Ecco, sì. E se distruggi questa mente-madre puoi
ucciderli tutti, o comunque indebolirli”.
Elena rabbrividì. “E’ terribile. E
disgustoso”.
“Già”, le fece eco Haruhi.
“E quel che è peggio è che la loro
attuale regina è – o meglio, era – un essere umano”.
“Sarah Kerrigan, dico bene?”, disse Pietro.
“Esatto, proprio lei”.
“E insomma, quella nave là fuori potrebbe essere stata
attaccata da questi Zerg”, ricapitolò Elena mentre accennava al visore principale.
Questa volta fu Kyon a prendere la parola.
“Forse. La nave è danneggiata, ma non ci sono i classici segni di
bruciatura sullo scafo, quindi potrebbe essere rimasta
vittima di un attacco Zerg”.
“Perciò che facciamo?”,
domandò Marco. “Cioè, non si
può semplicemente agganciarla e portarcela dietro? Ce
l’avremo uno di quei raggi traenti montato a bordo, no?”.
Haruhi
sbuffò. “Se la cosa fosse stata così semplice
l’avremmo fatto da un bel pezzo, non ti sembra? Il problema è che
gli scudi deflettori a bordo di quel rottame funzionano ancora a meraviglia, e
per giunta sono particolarmente intensi; quindi niente teletrasporto,
niente raggi traenti, e credo che a meno di non aprire un canale stabile
dall’interno siano impossibili pure le comunicazioni in entrata”.
“E quindi?”.
“E quindi questo ci porta al motivo percui
vi ho chiamati qui”, rispose Haruhi.
“Voglio che andiate su quella nave e disattiviate il sistema di scudi,
così che possiamo agganciarla con un raggio traente. E nel caso ve lo
stiate chiedendo sì, è il primo ordine effettivo che vi do da quando siete stati arruolati dalla Confederazione”.
La ragazza sembrava tremendamente soddisfatta della decisione presa.
“Che?”, esclamò Pietro,
grattandosi i ricci neri. “Ma non hai appena detto
che potrebbero esserci degli Zerg, là
dentro?”.
Riccardo gli mollò una pacca sulla nuca. “Piantala di rovinarci sempre tutto il divertimento! E comunque il capitano ci ha dato un ordine, quindi è
nostro dovere rispettarlo. Giusto, capitano?”. I suoi occhi brillavano di
una gioia febbrile e parecchio inquietante.
E’ chiaro che non vede
l’ora di mettere mano alla spada e affettare qualsiasi cosa gli si pari
davanti…, pensò Marco, mentre deglutiva rumorosamente. Ho paura di quello che gli allenamenti di Zaraki possano avere fatto ai suoi
centri del pericolo e alla sua stabilità mentale…
“Ehi, perché mi hai picchiato?”, si lamentò
Pietro massaggiandosi il punto colpito. “Guarda che io non
stavo affatto dicendo ‘Meglio non andarci’.
Era solo che volevo essere sicuro della possibile pericolosità della
situazione”.
Haruhi
fece spallucce. “Non vi mentirò, potrebbe
essere che dobbiate fare un po’ di disinfestazione, là dentro. Ma credo che voi sarete in grado di affrontare la situazione
senza problemi! E poi siete miei sottoposti, potrei
mai mandarvi allo sbaraglio e farvi rischiare la vita?”.
Conoscendoti, la risposta è:
assolutamente sì, pensò
Marco.
Elena si fece avanti. Sorrideva, e la sua espressione non era molto
diversa da quella di Riccardo. “Beh, nel caso almeno potremo prendere a
calci il sedere di qualche alieno cattivo!”.
Ecco, siamo fregati.
La navetta d’emergenza della Crazy Diamond era stata progettata al massimo
per tre persone e/o trecento chili (o così quantomeno recitava la placchetta di metallo posta
sopra il portello). Haruhi, però, aveva
decretato che fare due volte avanti e indietro sarebbe stato uno spreco di
tempo e di carburante; quindi aveva obbligato i sette membri della
“squadra di possibile disinfestazione” a togliere due dei sedili e
a stiparsi a bordo. Uno di quei sette era Zaraki, che
può o meno da solo occupava lo spazio delle tre
persone in questione.
“Come mai sei l’unica che può usare un
sedile?”, domandò Marco, che non era certo di chi fosse il
proprietario delle ginocchia che gli stavano martellando le
reni.
“Perché sono l’unica che
sappia pilotare una navetta”, rispose Yoichi in
tono pratico. “Quando fai la cacciatrice
di taglie, sono cose che devi sapere fare”.
“Quindi anche lei, Zaraki,
sa come si fa?”, domandò Pietro.
Lo shinigami emise un grugnito di
disappunto. “Ken-chan ci ha provato, una
volta!”, rispose per lui Yachiru. La bimba
tacque per qualche secondo, mentre il visino le si faceva
serio serio; era uno spettacolo quasi inquietante da
tanto era raro. “Non è finita bene, no no”.
Se il ricordo ha tolto il sorriso a una come lei dev’essere
stato davvero qualcosa di traumatico…,
pensò Marco.
“Manca ancora molto?”, mormorò Elena; era pallida e
aveva la fronte ricoperta di sudore. “Credo stia iniziando a mancarmi
l’aria…”.
“Tranquilla”, rispose la sua maestra. “Ci siamo
quasi. Devo solo penetrare il campo di forze e completare la manovra di aggancio…”. L’abitacolo iniziò a
vibrare violentemente, mentre dall’esterno dello scafo si levarono
stridii simili a quelli che produrrebbero degli artigli di adamantio su una lavagna, poi il suono di un oggetto
metallico che veniva sradicato a forza. Almeno una decina di oggetti,
in realtà.
“Ecco, dovremmo esserci!”, annunciò Yoichi, alzandosi di scatto e mollando la cloche come se
avesse cominciato a scottare all’improvviso. “Ma
credo che bisognerà riverniciare la fiancata della navetta”.
Memo: chiedere a Kyon
di insegnare a Yoichi a parcheggiare, pensò Marco, togliendosi le dita dalle
orecchie. Anzi, ancora
meglio, chiedere a Kyon di insegnare a qualcun altro
a pilotare. Dopo quattro o
cinque secondi, l’arcata dentale superiore smise di vibrargli.
“Evvai, non vedo l’ora di andare
a smazzare qualche alieno!”, esclamò
Riccardo lanciandosi verso il portello per quanto lo spazio limitato glielo consentisse, ma un gesto di Yoichi
lo bloccò.
“Fermo lì! Adesso che siamo dentro al
campo di forze della nave possiamo lanciare l’analisi
dell’aria interna. Dì, non vorrai mica aprire la porta e scoprire
che c’è stata una perdita o che il precedente equipaggio respirava
del cloro, eh?”. La donna pigiò un paio di tasti sul pannello di
controllo e attese per qualche secondo. “Ok,
sembra tutto a posto”, disse. “Ma!”,
esclamò subito dopo, notando che Riccardo già stava armeggiando
con la maniglia del portello. “Prima di uscire, dobbiamo discutere di un
paio di cose”. Yoichi scalò il sedile in
modo da troneggiare i presenti e non ridurre ancora di più il già
limitato spazio personale; la sua alta coda di capelli neri sfiorava il
soffitto metallico. “Prima di tutto, vedete di contenervi. Se davvero ci sono degli Zerg o gli dei soli
sanno che altro, su questa nave – e io spero vivamente di no –
ricordatevi comunque che stiamo navigando nel vuoto interstellare e che basta
un colpo abbastanza potente e mal piazzato per aprire una falla e condannarci a
morte. Mi rivolgo soprattutto a te, Zaraki,
considerando come sei abituato a combattere”.
Lo shinigami si rabbuiò, facendo
rabbrividire Marco di terrore: era come trovarsi di fronte a
un branco di elefanti infuriati lanciati alla carica, senza potersi spostare.
“Io non vengo a dire a te come combattere, donna”, ringhiò.
“Già, ma tu mi ascolterai comunque”,
gli tenne testa lei. “Non credo che il fatto che io sia stata scelta dal
capitano come capo della spedizione per te possa contare qualcosa,
conoscendoti; ma promettimi almeno che eviterai azioni che possano mettere in
pericolo la nostra incolumità”.
Riccardo fece schioccare la lingua; la sua irritazione era evidente.
“Il capitano Zaraki non lo farebbe comunque”, spiegò, a braccia conserte.
“C’è Yachiru, con noi, e lui non
potrebbe mai metterla in pericolo”.
“Già!”, intervenne la diretta interessata dalla
spalla dello shinigami. “Anche se non sembra affatto Ken-chan
è una brava persona!”.
Zaraki
sbuffò. “Zitti. Non ho bisogno che qualcuno parli al mio
posto”. Stranamente, però, sembrava soddisfatto.
“Possiamo andare, ora?”, domandò Riccardo; passato
il momento in cui aveva difeso il suo capitano, era di nuovo smanioso di
passare all’azione.
Yoichi
sospirò. “Ancora un attimo. Penso sia opportuno dividersi in due
squadre, per poter esplorare la nave in maniera più efficace; Ci siamo
agganciati più o meno al centro, quindi…”,
lo sguardo dell’arciera passò sul gruppetto. “Zaraki, Yachiru, Marco, Elena,
voi vi dirigerete verso la poppa; cercate qualsiasi indizio che possa fare luce
su quello che è successo all’equipaggio… e qualsiasi
eventuale superstite, anche se dubito che ce ne siano. Io, Pietro e Riccardo ci
dirigeremo a prua, così da spegnere
l’emettitore del campo di forza dal ponte di comando. Tutto
chiaro?”.
“Io volevo stare in gruppo con il capitano Zaraki!”,
protestò Riccardo.
Yoichi
gli lanciò uno sguardo di sbieco. “Lo so benissimo. Ed è
proprio il motivo percui ho
evitato di mettervi insieme; questa è una missione, non una gita di
piacere. Inoltre ho cercato di formare dei gruppi il più possibile
bilanciati, e se ti avessi messo con Zaraki non ci sarebbe nessuno con me in grado di maneggiare
un’arma da mischia; ti sembrava una scelta logica?”.
Riccardo emise un grugnito di disappunto ma
non disse altro.
Secondo me si è presa dietro
Riccardo perché ha la spada facile e Pietro perché se non lo si tiene d’occhio rischia di far esplodere qualcosa
quando usa la magia, pensò
Marco, trattenendo a stento un ghigno. Oh,
cavolo, spero che Pietro non mi abbia sentito…
A dire il vero ti ho
sentito forte e chiaro, coso…, il tono
del messaggio telepatico dell’altro era sullo sconfortato andante. E anche se so benissimo che hai ragione, posso chiederti di evitare di
pensarlo a voce alta? Grazie.
Marco, comunque, non fece quasi in tempo a
sentirsi imbarazzato: Yoichi era riuscita a farsi
largo fino al portello e l’aveva socchiuso; dall’altro lato
entrò uno spiffero freddo, che fece rabbrividire i presenti e che
portò con sé un odore asettico ma un po’ stagnante, come
quello del laboratorio di uno scienziato pazzo. Marco si lasciò sfuggire
un singulto che era quasi un conato di vomito, mentre
qualcun altro emise un versetto acuto che nemmeno sembrava provenire da una
gola umana.
Per un attimo tutti si bloccarono. “Ok,
chi è stato?”, domandò Yoichi.
Era evidente che stava trattenendo a stendo una
risata. “Yachiru, per favore, dimmi che sei stata tu”.
La bambina scosse la testa. “Io non ho aperto bocca”.
“E allora chi…?”; proprio in quel momento, un ometto
blu con una foglia sulla testa si inerpicò su
per la schiena di Riccardo e si appollaiò sulla sua spalla.
“Ehi, è uno dei Pikmin!”,
esclamò Elena, intenerita. “Deve averci seguito!”.
“Sì, l’avevamo capito un po’
tutti…”, si fece scappare di bocca Marco.
La ragazza gli lanciò un’occhiata omicida.
“Ehm… Che facciamo? Lo riportiamo
indietro?”, domandò Pietro.
Yoichi
sbuffò. “Non dire sciocchezze! Lo lasceremo qui
sulla navetta, è ovvio”.
Riccardo lo guardò. “E
perché non posso portarmelo dietro? Non credo che tu abbia qualcosa in
contrario, giusto?”.
La creaturina lo fissò con i grandi
occhi rotondi, poi alzò le spallucce emettendo uno squittio che sembrava
significare: “Bah, la cosa non mi dispiace”.
Secondo te qual è il senso di
questa decisione improvvisa?, domandò telepaticamente Marco a Pietro.
Mi sembra ovvio! Vuole imitare in
tutto e per tutto il suo idolo, no?
Beh, ma Zaraki ha Yachiru, non uno sgorbietto blu che squittisce…
Credo che non ci sia molto mercato
per le bimbe pucciose che accettino di farti da
mascotte, sai?
“Va bene, portatelo dietro”, capitolò
l’arciera. “Però ora andiamo, qui
dentro inizia davvero a mancare l’aria…”. E
finalmente aprì del tutto il portello.
I corridoi della nave risuonavano di nuovo di
passi. Il rumore dell’eco che i piedi degli invasori producevano sul
metallo sembravano lo stridio di un violino male accordato. L’impressione
era simile a quella che si ha quando si entra in una
casa stregata: anche se tutto appare tranquillo, si procede con cautela e
reverente timore, per evitare che ciò che riposa
nell’intercapedine delle pareti – qualunque cosa sia – possa
risvegliarsi.
L’aspetto più inquietante della faccenda era che non
sembrava esservi alcuna traccia del precedente equipaggio. Non solo quelle
della loro eventuale dipartita per mano degli Zerg:
non c’era alcuna traccia di loro e
basta, come se avessero saputo in anticipo che sarebbero stati attaccati e
fossero riusciti a mettere in salvo se stessi e le proprie cose.
Qualcuno ogni tanto tentava di fare conversazione, ma dopo un paio di
frasi stentate ripiombava il silenzio, rotto solo dallo scalpiccio dei passi;
perfino Yachiru, di solito tanto
ciarliera, se ne stava appollaiata sulla spalla di Zaraki
senza dire una parola.
Nessuno di loro voleva svegliare il fantasma che dimorava in quella
casa stregata.
Ma
ovviamente era troppo tardi.
Nella plancia di comando, nella sala motori e
in tutti gli altri locali abbastanza grandi da contenerne, le larve di Zerg erano uscite dalla stasi in cui erano rimaste immerse
fino a che le vibrazioni provocate dal maldestro attracco della navetta non le
avevano risvegliate. Alcune di loro avevano già iniziato a chiudersi nei
loro bozzoli pulsanti e palpitanti come organi
esposti.
Presto ne sarebbero uscite.
“E’ inquietante, vero?”, domandò Marco. Aveva
già fatto la stessa domanda qualche minuto prima
senza ottenere grossi risultati.
“Già”, rispose Elena.
Nella quiete che seguì il rumore dei passi
bussò alle orecchie di Marco con intensità intollerabile. “D-dunque…”, tentò di nuovo. “Che dobbiamo fare
esattamente? Arriviamo fino in fondo, o che…”.
“Zitto”. Il ringhio di Zaraki fu
così feroce che Marco si ritrovò appiattito contro la parete
ancora prima di realizzare di essersi mosso.
“C-chiedo scusa”,
balbettò. “M-ma credevo
che…”.
“Ken-chan ha detto
‘zitto’”, intervenne Yachiru.
“Quando Ken-chan fa
così, dovresti dargli retta”.
I quattro svoltarono a destra, in un lungo corridoio fiancheggiato da
innumerevoli porte, molto probabilmente le cabine dell’equipaggio; Marco
procedeva a viso basso, rosso per la vergogna fino alle orecchie.
“C’è qualcosa di strano”, esordì Zaraki. “E’ per quello che ti ho detto di
tacere”.
L’altro si sentì un poco più leggero. “Ah, ok, credevo che…”.
“Non ti ho detto che puoi rimetterti a
parlare”.
“Oh”.
“E che cosa ci sarebbe che non va?”, domandò Elena,
a cui in effetti non era stato posto alcun divieto.
Zaraki
scrollò le spalle. “Lo sapremo quando
l’avremo trovato”.
“E poi?”
“Che domanda idiota! Lo ammazziamo, è ovvio”.
“Ah”.
Il silenzio calò di nuovo sui quattro, mentre percorrevano il
corridoio deserto. Camminavano lentamente, fermandosi ad ogni coppia di porte e
tendendo le orecchie per cogliere qualsiasi rumore potesse
provenire da dentro le stanze. Alcune paratie, poi, erano spalancate,
permettendo di dare un’occhiata
all’interno il tempo sufficiente per rendersi conto che in quegli anonimi
alloggi tutti identici non c’era proprio niente.
Ok, siamo
arrivati ad un’altra svolta,
pensò con un brivido Marco quando si fu
lasciato alle spalle le ultime due porte. Ora
gireremo l’angolo e ci ritroveremo davanti un’intera parata di Zerg. Oppure due gemelline
sporche di sangue che si tengono per mano e ci chiedono di giocare con loro per
sempre. Oppure…
Marco girò l’angolo.
Nulla.
Solo un altro corridoio, più breve di quello che si erano
appena lasciati dietro, ma identico ad esso in ogni
altro particolare. Completamente vuoto, com'era ovvio.
Però così
è anche peggio, si disse il
ragazzo, mentre l’oppressione nel suo stomaco invece di evaporare si
faceva sempre più densa e stopposa. Se ci fosse stato davvero qualcosa –
qualsiasi cosa – almeno sapremmo che questa nave è pericolosa e
potremmo trovare un modo per risolvere il problema. Ma come facciamo
ad affrontare il nulla? Non è
qualcosa contro cui le zanpakuto
possano fare qualcosa. Né le frecce di Elena,
peraltro, né… In un gesto istintivo Marco portò una
mano alla cintura, dove alloggiavano la sua bacchetta magica e due pugnali.
Sfiorare l’impugnatura delle armi fu come accarezzare il ventre molliccio
del serpente, e per qualche istante un pallido spettro di Bielorussia
aleggiò dietro lo schermo delle sue palpebre chiuse. Ci saranno sangue e
dolore, lo ammonì l’apparizione. E non soltanto tuoi.
Oh, per favore, si disse lui, riaprendo gli occhi e scuotendo la
testa per scacciare ogni traccia dell’inquietante ragazza. Sono già abbastanza terrorizzato di
mio, ci manca solo che quella tizia e la mia mente si coalizzino
contro di me…
Qualcuno gli sfiorò la spalla, facendolo sobbalzare.
“Marco, tutto a posto?”, gli domandò Elena.
“S-sì… Mi sono solo
lasciato suggestionare un po’…”, rispose lui abbozzando un
debole sorriso. Alzò gli occhi e notò che Zaraki
– contrariamente al suo comportamento di poco prima – si stava
dirigendo con sicurezza verso una porta.
Yachiru
si voltò verso di loro e bisbigliò: “Qui dentro!”.
Zaraki
fissava la paratia come un enorme felino che attende
il momento propizio per assalire la prossima vittima, il lungo naso affilato
teso e vibrante e le narici dilatate. “Qui dentro”, ripeté
in un sussurro roco.
Marco annusò l’aria un paio di volte, ma non riconobbe
nessun odore particolare. Tranquillo,
significa solo che sei una persona normale, lo rassicurò
il suo cervello.
In effetti, però, anche lui riusciva a percepire qualcosa di
sospetto: per la precisione le sue orecchie avevano
iniziato a captare un monotono, basso ronzio provenire da oltre la porta,
mescolato a qualcos’altro… un gorgoglio, forse?
“Tu”, gli si rivolse Zaraki,
senza nemmeno voltarsi. “Aprila”.
“Eh-oh?”, rispose Marco, colto
alla sprovvista. “E perché io?”.
Lo shinigami digrignò i denti.
“Perché ho promesso a quella donna che mi
sarei trattenuto, ecco perché”.
Wow, vederlo sottomesso in questa
maniera non è davvero qualcosa che capiti tutti i giorni, pensò Marco divertito
mentre estraeva la bacchetta dalla cintura. La puntò verso la
porta – il tremito delle sue mani tradiva un certo nervosismo – ed
era sul punto di lanciare l’incantesimo quando
qualcosa gli riverberò nella mente in maniera confusa e perturbata; non
riuscì a capire con chiarezza cosa fosse, ma gli diede l’idea di
un messaggio di SOS lanciato da una voce familiare ma quasi del tutto sommerso
da scariche statiche. Oh, al diavolo, pensò.
Devo davvero piantarla di farmi
suggestionare dal mio stesso cervello. Agitò la bacchetta in un
ampio gesto – e per la tensione rischiò di tirare una gomitata nel
fianco a Elena – e disse “Alohomora!”.
La sezione di parete scivolò pigramente sui binari, rivelando
una spettrale e soffusa luce ambrata; Zaraki
balzò nella stanza con la zanpakuto sguainata,
ma evidentemente non trovò ciò che si aspettava – leggasi:
qualcuno da ridurre a listelle – perché
si affacciò con aria delusa un paio di secondi dopo. “Potete
entrare”, borbottò. “Ci sono solo tre tizi dentro degli
affari che paiono usciti dal laboratorio di Kurotsuchi…”.
Elena e Marco mossero un passo nella stanza, perplessi: si trattava di
un locale più grande rispetto a quelli del
precedente corridoio, dalle pareti tappezzate di macchinari (la maggior parte
dei quali spenti), e un fastidioso e insistente gocciolio proveniente da un
angolo.
Ma
furono i cilindri – o quantomeno il loro contenuto – a congelare
sul posto i due ragazzi; erano tre, alti circa tre metri e larghi la
metà, riempiti con un liquido arancione chiaro che sembrava Fanta annacquata. In ognuno di essi
galleggiava una persona, raccolta in posizione fetale e all’apparenza
priva di coscienza: un giovane dai corti capelli grigi con le spalle coperte da
scaglie color antracite, una fanciulla dalla lunga chioma nera, tranne per
un’unica ciocca bianca, che le galleggiava intorno come una medusa di
catrame, e un uomo alto e muscoloso dal volto gentile la cui corporatura poteva
rivaleggiare con quella di Zaraki.
Erano anche completamente nudi, ma non fu questo a sconvolgere i due.
“Guarda, Ken-chan, gli si vede
tutto!”, squittì Yachiru puntando un
indice verso i tre; poi sembrò accorgersi che Marco e
Elena erano rimasti pietrificati sulla soglia. “Ehi, voi? Che vi prende? Non state bene?”.
Marco, gli occhi fissi sui cilindri, sembrò finalmente trovare
la forza di aprire la bocca. “Ele, li vedi… li vedi anche tu, vero?”.
“Uh-uh”, rispose lei, il volto
impassibile ma gli occhi spalancati.
“Insomma, si può sapere che cazzo
vi prende?”, borbottò Zaraki,
guardandoli con aria accigliata.
“Noi sappiamo chi sono queste tre persone”, spiegò
Marco con un filo di voce.
“E lo sappiamo
perché…”, continuò Elena. “Perché
siamo stati noi a crearli”.
L’esplorazione del gruppo di prua era stata decisamente
più movimentata. I tre infatti – o
quattro, volendo contare anche il Pikmin adottato da
Riccardo – incontrarono la prima traccia della presenza Zerg a soli dieci minuti dallo sbarco.
“Oh, Dio”. Pietro era sbiancato e sembrava sul punto di
dover rimettere anche la colazione di un paio di giorni prima. “Quella
è…”.
Davanti al gruppetto si stendeva per oltre tre metri quello che
sembrava essere il risultato di uno scontro frontale fra un carico di trippa e
uno di vernice verde: pezzi di carne, grumi rappresi di sangue e altri fluidi
erano sparsi sul pavimento, sulle pareti e perfino sul soffitto, da cui
gocciolavano con piccoli tonfi vischiosi.
“Sono le spoglie di una crisalide Zerg,
già”, fece eco Yoichi, estraendo con
calma la sua arma dalla faretra; non sembrava spaventata e neppure
particolarmente tesa, ma il suo viso aveva perso qualche tono di colore.
“Qualunque cosa ne sia uscita l’ha fatto da pochi minuti, a
giudicare da tutto questo schifo”.
Come se non aspettassero altro che quelle parole, i miserevoli resti
di mutazione aliena iniziarono a raggrinzirsi e
evaporare. “Ecco, guardate: fra poco della crisalide non resterà
alcuna traccia”.
“Per fortuna”, aggiunse Pietro. “Non credo che sarei riuscito a passare lì in…”.
Accadde in un attimo. Tutto ciò che lo preannunciò fu un
lieve ticchettio, praticamente inudibile…
Poi l’idralisca balzò da dietro
l’angolo in un tumulto di artigli e zanne e atterrò davanti a
Pietro e a Yoichi, il muso inumano distorto in un
ghigno famelico.
“Aa… aa…”.
Pietro era completamente paralizzato. Adesso
mi uccide, adessomiuccideadessomiuccideadessomiuccide.
I suoi pensieri erano un fiume, ma la corrente era troppo forte per poterlo
controllare. Gli sembrava che le interiora fossero diventate di
plastica, fredde e inerti. Con la coda dell’occhio vide Yoichi afferrare una freccia dalla sua faretra e
incoccarla, ma gli sembrava che la donna si muovesse come dentro ad una bolla
d’acqua, troppo lenta per poterli salvare.
L’idralisca sollevò
una delle sue braccia, una mortale lama ossea, pronta a colpire… poi la
sua testa rotolò sul pavimento, troncata di netto.
“Meno male che non mi ha notato!”, esclamò Riccardo
rinfoderando la spada mentre il corpo
dell’alieno, dopo un ultimo spasmo, si accasciava a terra. Dalla spalla
del ragazzo il Pikmin blu fissava la scena con tanto
d’occhi. “Anche se pensavo che sarebbe stato più difficile
ucciderne una, nel videogioco ci volevano non so
quanti proiettili…”.
“Beh, per essere la tua prima idralisca
abbattuta te la sei cavata alla grande!”. Yoichi
abbassò l’arco, la freccia ancora incoccata: sembrava padrona
della situazione, e sicuramente sarebbe riuscita a scagliare in tempo il suo dardo… ma si vedeva che era sollevata. “Non pesnavo che Zaraki potesse
insegnare qualcosa a qualcuno… E’ evidente che mi sbagliavo”.
“Massì, non è stato
niente di che”, minimizzò Riccardo, che
però un po’ era arrossito. “Ho solo fatto quello che
di solito faccio quando mi alleno, e…
ehi!”. Pietro era appena balzato in avanti e lo aveva stretto in un
abbraccio. “Si può sapere che cazzo ti
prende tutto d’un tratto?”.
“Grazie, coso”, borbottò Pietro, la faccia contro
la spalla dell’amico. “Senza di te a quest’ora
sarei morto”.
“D’accordo, ma ora staccati!”, rispose Riccardo,
riuscendo alla fine nell’intento di scrollarselo di dosso. “E l’ho già detto, non è stata
chissà che impresa. La prossima volta che ne incontriamo uno,
perché non ci pensi tu a sistemarlo? Ormai con la tua magia te la
dovresti cavare bene, no?”.
L’occasione per Pietro di farsi valere, in effetti, si
presentò meno di trenta secondi dopo, quando il gruppetto ebbe girato
l’angolo e vide due zergling che come velociraptor violacei trotterellavano verso di loro,
attirati forse dal sangue del loro simile.
“Vai, ora!”, gridò Riccardo, riestraendo
l’arma per buona misura.
“Sì!”, esclamò Pietro, facendosi avanti e
descrivendo con la bacchetta un arco abbastanza grande
da comprendere entrambi gli alieni. “Petrificus Totalus!”.
“Facciamo una cosa”, disse Riccardo qualche secondo dopo,
ripulendosi la poltiglia verde dalla faccia con il dorso della mano. “La
prossima volta che ti dico: ‘Occupatene tu’, fai finta che io non abbia detto niente. E
soprattutto non puntarmi addosso quell’affare!”.
“Ma non è stata colpa
mia!”, protestò Pietro, completamente ricoperto di fluidi corporei
e frammenti di carne bruciata degli zergling.
“Io volevo bloccarli, non farli esplodere! Sono sicuro che è
‘sta dannata bacchetta la colpevole, avrà un difetto di
fabbricazione o che so io…”.
“Beh, quantomeno ci hai liberato di loro in maniera
efficace”. Yoichi era
riuscita a ripararsi dietro l’angolo, e i danni al suo vestiario erano
stati minimi. “Però davvero, Pietro, non
andartene in giro puntando quella cosa contro la gente”.
Il diretto interessato aprì la bocca per rispondere, poi la richiuse e scosse la testa, reinfilandosi
la bacchetta in tasca. “Beh, almeno ora sappiamo che questa nave è
invasa da alieni antropofagi”, osservò alla fine in tono piatto.
“Qualcuno ha qualche idea su come dovremmo regolarci in merito?”.
“Prima di tutto entriamo qui dentro”, disse Yoichi, spingendo i due terrestri dentro una stanzetta e
facendosi scivolare la porta alle spalle. Si concesse un
leggero sospiro di sollievo, poi tornò rivolgersi ai membri del
suo gruppetto. “D’accordo, ammetto che per essere stata la vostra
prima uccisione ve la siete cavata bene. Tranne, beh, per quella piccola storia
dell’esplosione…”. Pietro abbassò di nuovo lo sguardo.
“Ma nel corso degli ultimi anni ho visto non
sapete quanta gente morire durante il loro primo scontro con gli Zerg”. La donna si lasciò sfuggire un sorriso malinconico. “In fondo,
c’è solo una cosa che dovete ricordarvi: voi siete uno, loro sono
migliaia; se anche ne uccidete uno, ne possono sempre arrivare altri; ma se
morite voi, è game over. Quindi insomma, se farete
attenzione e non vi lascerete prendere dall’euforia andrà tutto
bene”.
Qualche attimo di silenzio.
“Tutto qua?”, domandò Riccardo. Aveva ancora i
capelli incrostati dalla robaccia verde fuoriuscita dagli zergling.
“Nel senso, è finito il discorso?”.
Yoichi
sembrò sorpresa. “Ehm… Sì. Non sono granché
con le parole di incoraggiamento, vero?”.
Pietro le batté una mano sulla schiena. “Nah, te la sei cavata bene. E quantomeno non hai tirato in ballo certi clichè tipo la forza
dell’amicizia o che dobbiamo credere in noi stessi per ottenere quello
che vogliamo!”.
“Comunque direi che è il caso di
darci una mossa, no?”, intervenne Riccardo. “Più aspettiamo,
più c’è la possibilità che qualcun altro di quegli stronzi salti fuori”.
Una volta che furono all’esterno della stanza, però, i
tre non incontrarono nessuno Zerg per almeno un
quarto d’ora di cammino.
“Forse erano rimasti solo quei tre”, osservò Pietro
dopo l’ennesima svolta priva di eventi. “Voglio dire, può benissimo essere, no? In fondo non
sappiamo da quanto tempo questa nave è stata attaccata”.
Yoichi
annuì. “Sì, può essere. Anche
se sarebbe strano, visto che le larve possono rimanere in stasi per anni e una
volta che ne sono uscite ci mettono pochi minuti a svilupparsi”.
Il corridoio aveva raggiunto uno slargo, in fondo al quale si apriva
un doppio portello. “Ecco, lì dentro c’è di sicuro la
plancia di comando”, disse l’arciera. “Con un po’ di
fortuna fra cinque minuti avremo disattivato il campo di forze e saremo di
nuovo al sicuro sulla Crazy Diamond”.
“Peccato, speravo che ci sarebbe stato qualche combattimento in
più”, disse Riccardo, tamburellando con le dita sull’elsa
della spada. Il Pikmin sulla sua spalla, come
percependo la sua delusione, emise a sua volta un
acuto mugolio di disappunto.
“Se vuoi, la prossima volta ti porto
con me ad un raid su uno dei pianeti infestati”, propose Yoichi con una strizzatina
d’occhio. “Però ti avverto, non
sarà una passeggiata”.
Stavolta fu Riccardo ad abbassare gli occhi, anche se solo per un
attimo. “Mah, penso si possa anche fare…”.
Pietro fissò il momento di imbarazzo
dell’amico con un sogghigno, poi intervenne. “Forza, cosa stiamo
aspettando? Prima entriamo qui dentro, prima potremo…”.
Mentre parlava si era avvicinato al pannello e aveva premuto il pulsante per
l’apertura; le porte scivolarono sui binari con un lieve sibilo, che però fu sufficiente per far voltare tutti gli Zerg assiepati nella sala. Dovevano essere almeno un
centinaio: non soltanto zergling e idralische, ma anche dei contaminatori e perfino una
regina.
“Oh, merda”,
si lasciò sfuggire Pietro. Come se non si aspettassero altro, decine e decine di fauci si spalancarono in un gorgoglio
ultraterreno, prima che i loro proprietari si lanciassero all’attacco.
“Pietro, chiudi quella cazzo di porta!”,
gridò Riccardo. Yoichi, però, era
scattata in avanti ancora prima che il ragazzo finisse di parlare e aveva
premuto il pulsante; i primi zergling si schiantarono
contro il pannello, riuscendo a deformarlo.
Pietro si voltò verso gli altri due, il volto privato di
qualsiasi colore. “C-che facciamo?”,
domandò con un filo di voce.
“Corriamo!”, rispose l’arciera. Meno di venti
secondi dopo, i tre – lanciati alla massima velocità consentita
dalle loro gambe e dal terrore – sentirono il suono del portello che veniva sfondato e di un’enorme massa di corpi lanciata
alla carica. Yoichi estrasse da una delle tasche dello hakama un piccolo congegno
quadrato e lo premette, facendolo illuminare e borbottare in tono monotono.
“Ho aspettato fin’ora, ma direi che è il momento di chiedere rinforzi,
eh?”, mormorò ansante, facendo del suo meglio per sorridere ai
suoi sottoposti.
Marco, ti prego. Pietro non sapeva quale fosse
la portata della sua telepatia, ma non era certo nella situazione di rinunciare
solo per quello. Se riesci a sentirmi, pianta tutto quello che
stai facendo e raggiungimi subito con gli altri! Noi siamo in grave pericolo!
“In che senso, li avete creati voi?”, domandò Zaraki; sembrava che gli fosse difficile afferrare il
concetto.
“Ecco, vedi”, spiegò Elena, avvicinandosi ai
cilindri. “Lui si chiama Shin, la ragazza
è Miyu e l’omone è Senkou. E se mi chiedi come faccio
a saperlo, beh… li ho disegnati io”.
“Già, è stato quando
c’eravamo fissati di realizzare un manga tutto nostro”, intervenne
Marco. “Anche se non siamo mai passati ai fatti, visto che ognuno di noi
aveva idee diverse sulla trama e quindi non se n’è fatto
più niente… Ma, beh, a quanto pare
è stato sufficiente per renderli reali”. Il ragazzo tacque per
qualche secondo, gli occhi fissi sui tre individui in stasi. “Cazzo, non ci credo… Quindi quello che ci ha detto
Silente, tutta quella roba sulla realtà del consenso… Wow”.
Elena intanto si era avvicinata al macchinario a cui erano collegati i
tre cilindri. “Marco, dai un taglio al monologo e vieni a darmi una
mano”, disse, un’espressione concentrata sul volto.
“E tu che vuoi fare?”, si intromise
Zaraki.
“Farli uscire, ovvio”.
Lo shinigami emise un ringhio di disappunto.
Elena, nell’udire quel suono, si accigliò, per poi
voltarsi e fronteggiare Zaraki. La ragazza era quasi di mezzo metro più bassa dell’altro, ma in quel
momento – quantomeno a Marco, che fissava la scena a bocca spalancata
– non sembrava in alcun modo meno intimidatoria. “Senti un
po’, se hai qualcosa da dire fallo e basta, ok?
Ma che ti sia chiara una cosa: anche se dovessero volermici
giorni per tirarli fuori da lì, io senza di
loro non me ne vado. Chiaro? E sono sicuro che Marco
la pensa allo stesso modo”.
Il diretto interessato annuì debolmente, ancora a bocca aperta.
Non che avrei mai avuto il coraggio di
dirglielo, comunque.
Zaraki
aprì la bocca per ribattere, ma Yachiru fu
più rapida. “E’ vero, Ken-chan. Anche noi faremmo lo stesso”, disse, in tono serio.
L’uomo sembrò riflettere su quelle
parole, poi annuì. “Hai ragione”, rispose. “Non
si lasciano indietro i propri commilitoni”.
“Allora, visto che sono stata brava, voglio un premio!”,
esclamò la bambina, annuendo convinta.
Zaraki
sospirò. “E va bene… volevo dartelo dopo la missione, ma
già che ci siamo…”, e da una delle pieghe dello
haori estrasse un enorme lecca-lecca azzurro
che Yachiru iniziò a ciucciare con gusto.
“Ok, credo di avere capito come
funziona”, fece Marco. “Premendo questo pulsante dovemmo poter
svuotare le capsule dal liquido”.
“Wow, come l’hai capito?”, domandò Elena in
tono ammirato, avvicinandosi a guardare. “Ah, vabbé,
bella forza, ci sono i disegnini”.
“Ehi, mica ho detto che è stato
difficile”. Il dito di Marco indugiò sul bottone. “Che faccio, lo premo?”.
“Vai. E speriamo che vada bene”.
Marco si aspettava un processo lento e graduale, ma dopo che ebbe
schiacciato il pulsante il liquido arancione venne
assorbito dal basso in meno di cinque secondi, lasciandosi alle spalle solo un
rumore di risucchio, come un vecchietto senza dentiera che sorbisca del brodo.
Un attimo dopo, Senkou spalancò
i grandi occhi dorati. “Ehm…”, mormorò, il corpo
rattrappito dentro il cilindro e la voce attutita dal vetro. “Posso
chiedervi di spiegarmi come sono finito qua dentro?”.
Prima che qualcuno potesse rispondere, il
cilindro di sinistra andò in mille pezzi e Shin
ne balzò fuori, guardandosi intorno con aria irritata. “Spero che
non siate stati voi a chiudermi lì”, borbottò, fissando
Marco e Elena con sguardo torvo.
La ragazza distolse gli occhi e li puntò verso il soffitto, la
pelle del suo viso rossa quasi quanto i suoi capelli.
“C-copriti con qualcosa!”, esclamò
con voce spezzata.
Shin
abbassò lo sguardo sul proprio corpo. “Oh”, fece, in tono di
noncurante sorpresa.
“Ehi!”. Miyu, invece, sembrava
ben conscia di ciò che stava mettendo in mostra, ma questo non le
impediva di urlare a pieni polmoni. “Qualcuno mi faccia uscire!”.
“Dio, quanto sei rumorosa!”, la
rimbeccò Shin. “E
non ho capito perché non esci da sola, sei abbastanza forte da spaccarne
mille, di quei cosi”. Si voltò verso Senkou.
“Pure tu, si può sapere che stai aspettando?”.
“Volevo evitare di romperlo…”, rispose l’altro
in tono umile.
“Già, mica siamo tutti dei barbari lunatici come te,
sai?”, gli fece eco Miyu.
“E comunque non preoccuparti, Shin, credo di avere trovato il pulsante per
l’apertura dei cilindri…”, aggiunse Marco. Un paio di secondi
dopo le due capsule rimaste scivolarono silenziose verso l’alto,
liberando Miyu e Senkou.
“Oh, meno male!”, fece la ragazza. “Non ne potevo più
di stare là den…”.
“Come sai il mio nome?”. La voce di Shin
risuonò tagliente come un pugnale nell’orecchio di Marco, e
zittì tutti i presenti. Il volto del ragazzo, di solito annoiato,
sfoggiava ora un’espressione minacciosa, gli occhi grigi stretti a
fessura. “Io non ti conosco di certo, ma è evidente che tu conosci
me”.
Stranamente, Marco si scoprì molto meno spaventato di quanto
avrebbe dovuto. Dev’essere perché lo conosco, appunto, e
so che non passerebbe alle vie di fatto per così poco, pensò, lucido. In
fondo l’ho creato io. “Certo che ti conosco”, rispose
perciò con la massima tranquillità. “Così come
conosco anche Senkou e Miyu”.
I due, impegnati nella ricerca frenetica – e fino a quel momento inutile
– di qualcosa per coprirsi, sobbalzarono nel sentirsi nominare. “E
il motivo percui vi conosco – anzi, vi
conosciamo”, e indirizzò uno sguardo a
Elena, che sorrise e salutò con un cenno del capo. “E’
che…”.
Con un tempismo da film di serie B, Zaraki
– rientrato in modalità predatore –
interruppe la spiegazione. “Glielo dirai dopo. Sembra che ora abbiamo
compagnia”.
Sul gruppo calò il silenzio, e tutti poterono sentirli; acuti
scricchiolii spezzati, proprio oltre la porta chiusa.
Haruhi
fissava il monitor con aria preoccupata. “Kyon,
novità?”.
Il comandante scrollò le spalle. “Non più di quante ne avevo prima. Purtroppo gli strumenti parlano
chiaro: la gravità della luna del pianeta intorno cui
stiamo orbitando sta attraendo la nave… e lo schianto avverrà fra
due ore e diciassette minuti, a meno che là dentro non riescano a
disattivare il campo di forze”.
Haruhi
si mordicchiò nervosamente l’unghia del pollice. “Merda, cosa possiamo fare? Ci hanno inviato un segnale di
soccorso, ma non possiamo raggiungerli, visto che abbiamo
una sola navetta. E manco possiamo rispondere
loro!”. Gli occhi della ragazza si dilatarono. “Però
aspetta… Non possiamo agganciarci con la Crazy Diamond? Perché non ci ho pensato prima?”.
“Perché è
infattibile”, replicò pratico Kyon.
“La navetta si è potuta agganciare perché è
penetrata completamente nel campo di forze, ma noi siamo troppo grandi per riuscirci. Se i nostri scudi
reggessero rimbalzeremmo via dopo qualche secondo; in caso contrario…
credo che finiremmo tagliati in due”.
“Oh”, rispose lei. Le parole del sottoposto sembravano averla scossa parecchio. “Cazzo, perché siamo stati così idioti da non
accorgerci subito che la nave era in traitettoria di
collisione?”, mormorò in tono frustrato, continuando a martoriarsi
il pollice.
“Non è colpa tua”, rispose Kyon.
“Cioè, in teoria sì, visto che sei
il capitano, ma nemmeno gli strumenti di bordo avevano captato il pericolo fino
a poco fa”.
“Bah, è inutile cercare scuse. La colpa è mia
anche in pratica, visto che sono stata io a ordinare
loro di andare su quella dannatissima nave”. Qualcuno bussò alla
porta della plancia. “Avanti!”, gridò il capitano in tono
stizzito.
Hayate,
con aria un po’ intimidita, fece il suo ingesso
nella sala. “Ehm… Suzumiya-san, ho
sentito che ha un problema…”. Il ragazzo lanciò
un’occhiata a Kyon, poi continuò,
in tono un po’ più basso. “In realtà l’ha
sentito tutta la nave”. E in effetti dietro il
maggiordomo si era assiepato l’intero equipaggio, compreso anche qualche Pikmin, forse preoccupati per l’assenza di uno dei
loro.
Haruhi
lanciò un’occhiata di fuoco al comandante, il quale non
reagì per qualche secondo e poi finse sorpresa. Malissimo. “Oh,
che sbadato. Devo essermi appoggiato per
errore al pulsante dell’interfono”.
“Comunque”, continuò Hayate, per evitare che il capitano andasse a strangolare
il diretto sottoposto. “Forse ho una soluzione per riuscire a salvare
tutti quanti e a recuperare la nave prima che si schianti”.
Haruhi
fissò il ragazzo con aria molto poco convinta;
poi, un paio di secondi dopo, l’incredulità lasciò il posto
alla comprensione. “Aspetta, mi stai dicendo che
vorresti chiamare…”.
Il maggiordomo si lasciò sfuggire un
piccolo sorriso. “L’ho già fatto, in effetti. Saranno qui
fra venti minuti al massimo”. L’espressione sul suo volto si fece
un po’ più rilassata. “Ovviamente applicheremo le solite
tariffe”.
Haruhi
ricambiò il sorriso, le braccia incrociate sul petto.
“Ovviamente!”, rispose. “D’altronde, farei qualsiasi
cosa, pur di salvare i miei sottoposti!”.
MIYU: Chi sono
i misteriosi individui convocati da Hayate?
Riusciranno i nostri eroi a sopravvivere nell’astronave piena di Zerg? E Miyu,
Senkou e Shin troveranno
dei vestiti? Lo scoprirete nel prossimo capitolo!
SHIN: Si può sapere che
è tutta questa verve? Ti ricordo che stiamo rischiando la vita.
MIYU: Questo non vuol dire che nessuno debba occuparsi delle anticipazioni!
SENKOU: Il quindicesimo capitolo di
“Il cielo è un’ostrica, le stelle sono perle”, si intitola “La luna è severa maestra, parte
prima”. Buona lettura!
MIYU: No, volevo farlo io!
SHIN: Tu l’hai già fatto
la volta scorsa, giusto? E allora accontentati.
Mmh… Rieccomi qua! Alla fine un mese e mezzo è passato
davvero, chiedo scusa!XD
Comunque,
finalmente con i prossimi capitoli anche Marco e gli altri faranno qualcosa in
battaglia! Beh, soprattutto gli altri; Marco, poveretto… Insomma,
vedrete!
Ne approfitto
intanto per fare gli auguri di Natale ai miei lettori anche se un po’ in
ritardo, nonché gli auguri di Capodanno, questi ultimi con qualche
giorno d’anticipo!
E ora, le risposte
alle recensioni!
Per Morens: Zaraki
lo si vedrà un po’ in azione nei prossimi
capitoli, infatti! Cioè, si vedrà qualcosina, ma più si proseguirà con la
storia più anche lui avrà cose da fare (che nel suo caso equivale
a: nemici da ridurre in poltiglia)!
Per Anonimo: I pugnali che fendono alla realtà purtroppo sono
merce rara… Quantomeno, alla Lidl non si
trovano!
Non so alla Conad.
Il motore a gatto imburrato sarebbe un’idea, in effetti! Però è qualcosa di un po’
più… prosaico, diciamo. Spero di non deluderti.XD
E con
questo anche per stavolta ho finito! Vi aspetto nel prossimo capitolo!
Davide
|
|