Normal Girl Himeko: il ritorno di Rolek

di Mankind17_13
(/viewuser.php?uid=15325)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Rolek ritorna ***
Capitolo 2: *** Alek ***
Capitolo 3: *** Himeko, la spesa ed un cilindro ***



Capitolo 1
*** Rolek ritorna ***


Quanto tempo è passato

Quanto tempo è passato?

 

Non lo so, non riesco a capire

 

Nel nulla spazio temporale il tempo è nullo e quindi potrebbero essere passati minuti, ore o anni

 

Migliaia.. Sento di essere intrappolato qui da migliaia di anni..

 

Non esiste un sopra o un sotto, né alcuna dimensione.

 

Vorrei impazzire,  scampare alla tortura del pensiero, che mi rende consapevole ogni momento della mia condizione.

 

Vivo nel nulla, circondato da nulla.. presto anche io diventerò tutt’ uno col nulla.

 

…Che fine miserabile…

 

Yota Moteuchi, Ai Amano… MALEDETTI…

 

Rolek era stato imprigionato nel suo dispositivo dopo la rottura del videoregistratore.La sua essenza, oramai ridotta ad una serie di onde elettromagnetiche senza forma ne consistenza, si propagava in un limbo privo di qualsiasi manifestazione d’ Essere. Persino il buio che veniva percepito non era un’ oscurità naturale, ma un triste vuoto di cui presto i condannati avrebbero fatto parte.

I sentimenti quali la vendetta, l’ ira ed il rancore verso coloro che lo avevano imprigionato erano gli unici legami che  tenevano Rolek distante dall’ inevitabile morsa del nulla. Eppure lui sapeva bene che, presto o tardi, si sarebbe arreso come tutti gli altri.

 Per un attimo, in quell’ oceano oscuro, sembrò levarsi un grido disperato.

Era circondato.

Un manipolo di teppisti di strada lo aveva costretto, quella sera, a seguirli nella stradina secondaria accanto alla discarica, fuori dalla città. Lo fecero salire sulla loro auto senza usare la forza, bastò infatti pronunciare un nome.

 

Aruka..

 

Si trovò in trappola, tutte le direzioni erano ostruite dai membri del gruppo, alle sue spalle si trovava la discarica, davanti a lui un muro, la strada era illuminata da qualche lampione, quindi dileguarsi nell’ oscurità era pressoché impossibile. Si guardò indietro con sguardo pensieroso, chiedendosi se sarebbe riuscito a sopravvivere alla caduta. (Magari cado proprio su un materasso, la gente li butta via i materassi no? Certo, se però il materasso ha qualche molla fuori posto potrebbe risultare pericoloso..) pensò, non riuscendo a decidersi.

Il capo dei teppisti, un ragazzo di bassa statura col pizzetto ed i capelli rasati lo guardò con un’ espressione feroce.

 

“Vorresti scappare di nuovo bastardo? Sembra sia la tua specialità” disse il capo, tremando nel trattenere la rabbia che sentiva.

 

“…” il ragazzo non disse nulla, ma abbassò la testa per non incontrare il viso del suo accusatore.

 

“Scappi sempre, proprio come quella volta..” gli occhi cominciarono a lacrimare, i denti si digrignarono, la rabbia che finora aveva represso era in procinto di esplodere.

 

Aruka è morta figlio di puttana! Mia sorella è morta e tu non eri con lei!” Il rancore del capo esplose con violenza, travolgendo il suo bersaglio.

 

Le parole risuonarono nella notte come un tuono, sebbene al ragazzo parvero più simili ad un nugolo di aghi conficcati nel cuore.

Abbassò la tesa del  cappello sugl’ occhi, stava piangendo anche lui, tuttavia sapeva che se il capo avesse visto le sue lacrime si sarebbe infuriato ancora di più.

 

“Le avevi promesso che non l’ avresti mai abbandonata, eppure, appena hai saputo che le restavano pochi mesi di vita sei scappato come un fottuto coniglio! Aruka è morta consapevole di essere stata abbandonata dall’ uomo che amava!”

 

“Già..” rispose con voce tremante “Hai proprio ragione.. l’ ho abbandonata come un cane sulla strada..”

 

I teppisti furono assaliti dall’ ira. Il più grosso, clone imperfetto del suo capo, posto alla destra  di quest’ ultimo estrasse un coltello a serramanico, con la ferma intenzione di usarlo.

Il capo lo fermò con un gesto della mano.

 

“Non ancora Nobu, prima voglio farlo soffrire.. Me la pagherai Borromini

 

Borromini si tolse l’ elegante soprabito, il cappello e la giacca del completo gessato che aveva indosso, rimanendo solo con la camicia ed i calzoni.

 

“Mi dispiace Akira, ma non ho intenzione di morire oggi. Non intralciare il mio cammino.”

 

Era risoluto, non aveva intenzione di scontare la sua condanna, anzi, sembrava che gli fosse del tutto indifferente. Akira non poteva sopportarlo.

 

Nobu, Ryosuke.. Fatelo a pezzi..”

 

I due balordi si avvicinarono minacciosi con i coltelli in mano mentre il ragazzo, apparentemente impassibile, assumeva una posizione di guardia.

 

“So di essere stato abominevole, ma non voglio morire in ogni caso. Quella volta ho avuto paura perché la situazione era al di fuori del mio controllo. Non ho giustificazioni, ma non smetterò di vivere solo per appagare la tua vendetta, mi dispiace.

 

Nobu e Ryousuke si lanciarono contro il ragazzo, cercando di affondare i loro coltelli nella sua carne.  Quest’ ultimo compì un balzo eseguendo una spaccata in aria, così da colpire le mani dei due aggressori facendo cadere loro le armi. Atterrato sulle mani dopo il balzo, Borromini si diede una spinta con le braccia colpendo con le piante dei piedi il petto dei due teppisti, abbattendoli. I due tentarono di reagire, ma vennero colpiti entrambi con un pugno alla gola.

Akira era sconvolto. Quel ragazzo, pur avendo un fisico da lottatore, non avrebbe dovuto avere vita facile contro due combattenti veterani nelle risse di strada. Eppure li aveva atterrati con pochi colpi, per di più dimostrando un’ agilità inumana, quasi.. elegante.

 

“Allora il soprannome che ti davano a scuola non era una semplice diceria, fottuto bastardo..”

 

Akira ripensò a quelle voci. La prima volta fu a scuola, dove un gruppetto di ragazzi era intento a narrare l’ incredibile vittoria di Alessandro Borromini su dieci teppisti di una scuola vicina. Lo volevano punire per essersi rifiutato di cedere i suoi soldi.

<Quell’ italiano è veramente un portento, veste elegante ma ha la ferocia di un demonio> dissero, tuttavia in quel momento Akira non ci fece caso, le malelingue sono molto diffuse nelle scuole e nella maggior parte dei casi si tratta di leggende, inoltre non voleva pensare che sua sorella si fosse messa con un poco di buono. Adesso però, avrebbe dovuto fare i conti lui stesso con quel mostro.

 

“Era tutto vero..Alessandro Borromini, il ‘nobile demonio’” la voce era tremante, al teppista venne il groppo in gola.

 

Akira, ti consiglio di tornare a casa. Eravamo amici una volta e vorrei evitare di colpire colui che un tempo consideravo quasi un fratello” gli disse Alessandro.

 

Akira rimase immobile, forse per paura o per un improvviso flashback. Diede le spalle ad Alessandro, per poi dirigersi verso la macchina. Arrivato alla vettura, prese qualcosa al suo interno.

 

“Sai Borromini, tu credi di avere sempre la situazione sotto controllo, anche adesso. Per questo rimani calmo ed impassibile anche nelle situazioni peggiori, ma adesso..”

 

Akira si voltò di scatto puntando un revolver contro il suo vecchio compagno.

 

..Adesso non hai considerato un importante fattore nella tua strategia del cazzo. Già, non hai preso in considerazione l’ idea che potrei freddarti senza alcun ripensamento”

 

Alessandro rimase spiazzato per un momento alla vista della pistola, poi prese una decisione alquanto azzardata. (Materasso o no, devo rischiare) pensò.

Senza esitare corse oltre il cavalcavia e si gettò nel vuoto, sperando di non cadere su del vetro o del metallo.

Akira era furibondo: il bastardo era scappato ancora. Prese il soprabito, la giacca ed il cappello di Alessandro e li gettò nella discarica.

 

“Saltando da quest’ altezza difficilmente sarà sopravissuto.. Come al solito hai preferito la via più facile, vigliacco..”  pensò Akira

 

Per fortuna, Borromini atterrò su un cumulo di sacchi della spazzatura, i quali attutirono la caduta. Rimase intontito per circa un minuto, prima di rendersi conto di essere ancora vivo. (La mia solita fortuna) pensò.

Con un po’ di fatica si rimise in piedi. Stare in piedi su un cumulo di rifiuti non era così semplice come poteva sembrare.

Ad un tratto notò i suoi abiti cadere dal cavalcavia e, preso dall’ istinto cercò di lanciarsi per prenderli prima di vederli tristemente cadere nell’ immondizia. Purtroppo scivolò su un sacco, cadendo rovinosamente in avanti, dando una violenta facciata contro quello che doveva essere un pezzo di mobile. (Si era detto niente vetro e niente metallo.. avrei dovuto includere anche il legno, ahio) disse tra sé.

Rialzandosi, notò uno strano marchingegno, all’ apparenza seminuovo posto proprio sotto il suo naso.

 

“Mai visto qualcosa del genere, non riesco a capire perché, ma mi trasmette delle sensazioni strane, cosa sarà?”

Rolek la percepì. In un punto imprecisato oltre a quella matassa di nulla sentiva, per quanto debolmente, un’ essenza, umana per giunta. Una persona era vicina al congegno, se lo sentiva. Se l’ avesse toccato sarebbe potuto tornare in libertà.

 

“Coraggio idiota, tocca il dispositivo..” ghignò.

Alessandro provò un irrefrenabile istinto di toccare il marchingegno: era curioso.

Quella sera erano successe cose che l’ avrebbero fatto soffrire per un pezzo e lui, sebbene in mezzo alla sporcizia, volle smettere di pensarci fin da subito. Toccò con un dito il tasto del dispositivo, e subito questo si aprì, generando uno strano flusso, simile all’ elettricità ma in qualche modo diverso. Quella misteriosa energia entrò in lui prima che potesse reagire, possedendolo.

Il ragazzo rimase immobile per qualche secondo, poi un sorriso perfido gli comparve sul volto.

 

“Sono tornato” disse Rolek

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Alek ***


Rolek era appena entrato nel corpo di Alessandro

Rolek era appena entrato nel corpo di Alessandro. Una procedura rischiosa, normalmente proibita, tuttavia necessaria per fuggire.

Rolek era conscio del rischio a cui si stava esponendo, conosceva bene la difficoltà dell’ azione: Comportarsi come un parassita, entrare in un corpo già provvisto di una sua anima ed impadronirsene. In tutta la sua vita di nefandezze non aveva mai provato una tale sensazione di degrado e di umiliazione. Non lo faceva volentieri, di certo avrebbe preferito non possedere un volgare e fragile involucro umano. Nonostante il suo orgoglio fosse restio a chiudere gli occhi dinanzi ad un simile atto, la sete di vendetta e di rivalsa spinsero l’ animo di Rolek a  riversarsi nel corpo del ragazzo con l’ irruenza di un fiume in piena.

Il trasferimento era ormai a metà, però qualcosa non stava andando per il verso giusto: L’ essenza del parassita avrebbe dovuto svolgere un procedimento simile alla fagocitazione nei confronti dell’ anima già presente. Invece, nel suo caso, l’ anima che avrebbe dovuto lasciarsi divorare stava opponendo una strenua resistenza.

 

“Perché?” sembrò dire Rolek quando il flusso della sua essenza sembrò rallentare.

 

All’ esterno, il corpo di Alessandro fu scosso da tremende convulsioni, come se al suo interno si stesse disputando una terribile battaglia e, metaforicamente parlando, nessuna impressione sarebbe stata più realistica di questa.

Rolek aveva sempre più difficoltà a prendere possesso del corpo: l’ anima di Alessandro, dando prova di un’ enorme determinazione, stava reagendo all’ invasione perpetuata dal parassita, tenendogli testa.

 

Cosa sta succedendo? Perché incontro tutta questa resistenza?” disse Rolek, ed intanto la battaglia continuava ad infuriare senza sosta.

 

Improvvisamente il corpo di Alessandro si arrestò. Le terribili convulsioni cessarono. Il corpo era svenuto, ma quale delle due coscienze aveva riportato una vittoria? Qual’ era adesso l’ effettiva identità di quel corpo svenuto in mezzo all’ immondizia?

Passarono ore, l’ alba era ormai giunta, il sole iniziò a sorgere, accarezzando con i suoi raggi il viso del ragazzo svenuto nella discarica.

Nell’ aria iniziò a diffondersi una canzone, una canzone soffocata, dalle parole poco chiare, come se la fonte del suono fosse tenuta sotto un cuscino. Il ragazzo aprì gli occhi sentendo questa canzone. Era la suoneria del suo cellulare.

Andando a tentoni, quasi istintivamente, il ragazzo si tastò la tasca dei pantaloni, dalla quale estrasse l’ apparecchio. Sul display c’ era scritto “Mamma”, ma in quel momento il ragazzo non ricordava nemmeno chi fosse.

Sondando la memoria cercò di cercare informazioni su se stesso e su “Mamma”.

 

………..

……………Vuoto.

 

Non aveva più un singolo ricordo, la sua memoria era assente. Gli occhi si sgranarono di colpo a causa dello shock.

 

C-chi sono io?”

 

Come in risposta al suo richiamo, un pensiero veloce, un’ immagine sfuggevole gli mostrò per un attimo la sua identità

 

Ale..” balbettò, ma subito in quell’ immagine si venne a creare una sorta di interferenza, come se un altro pensiero si volesse sovrapporre al primo, per completarlo o sostituirlo.

 

Leck… io sono Alek

 

Il telefono squillava insistentemente, la voce del cantante era energica, selvaggia ma composta allo stesso tempo, il frenetico ritornello destò Alek dal suo torpore.

 

“Pronto?” rispose. Dall’ altro capo, una voce femminile sull’ orlo di una crisi isterica urlò parole che difficilmente Alek avrebbe potuto comprendere nello stato in cui si trovava.

 

“M- mamma?” disse dubbioso “Calmati, ti prego… sono molto confuso, puoi venirmi a prendere? Sono..” si guardò intorno “Sono in una discarica. Ti spiegherò tutto dopo.”

 

La madre disse qualcosa che Alek non comprese, dopodiché riattaccò.

Mentre aspettava la donna, il ragazzo cercò di inventarsi una scusa credibile, non riuscendo ad inventarsi nulla di coerente. (Ricordo come si parla, come ci si comporta nelle varie occasioni e molto altro, ma non ricordo nulla di me.. cosa diavolo mi è successo?) pensò.

Ad un certo punto gli venne un’ idea. Controllò i suoi documenti e cercò nel cellulare foto, contatti e video utili alla memoria. Scoprì quindi di chiamarsi Alessandro Borromini, vent’ anni. Nella foto del documento si intravedeva un volto serio, severo, più simile al viso di un generale dell’ esercito piuttosto che ad un ragazzo di vent’ anni. I capelli sembravano biondi, ma la foto era venuta male e non si riusciva a capire. Nel cellulare, invece, non vi era nessuna informazione utile.

Passarono all’ incirca cinquanta minuti prima che la madre di Alessandro arrivasse. Era una donna di circa quarant’ anni, non molto alta con i capelli lunghi raccolti in una coda di cavallo. Gli occhi erano marroni, a mandorla. Oggettivamente era proprio una bella donna, sebbene una cicatrice sulla guancia destra deturpasse, seppur minimamente, la sua bellezza.

Alek era intanto risalito fino al ciglio della strada dove si era seduto a gambe incrociate a rimirare i suoi abiti. Giacca e soprabito erano lerci, mentre il cappello, con grande sollievo per il proprietario, si era salvato. Aleck sentiva di avere un legame speciale con quel cappello, un borsalino di pregiata fattura appartenuto al padre di Alessandro, ormai passato a miglior vita. Ma questo non poteva sapere.

La madre di Alessandro scese dalla macchina. Rimase immobile a contemplare il ragazzo sporco davanti a lei, con aria quasi impassibile. Si accese una sigaretta e si limitò a dire:

 

“Di nuovo nei guai teppista?”

 

La voce era forzatamente calma,  un lucchetto arrugginito in procinto di cedere da lì a poco.

Il ragazzo non osò alzare lo sguardo, più che altro perché non sapeva cosa dirle.

 

“Andiamo a casa…” disse la madre

 

Il viaggio di ritorno a casa fu silenzioso, né la madre né il figlio si erano più rivolti la parola. Aleck non sapeva ancora formulare pensieri completamente lucidi, il suo cervello doveva fare pratica con un nuovo essere.

Sua madre, invece, era fin troppo abituata alle scorribande del figlio per fare domande che non risultassero scontate, dopo tutte le nottate passate a medicarlo dopo le sue risse.

Altri cinquanta minuti. La casa che fu di Alessandro era una piccola villetta a due piani. Il piano terra era occupato dalla cucina, il soggiorno e la sala da pranzo, mentre il secondo piano ospitava le camere dei suoi inquilini. La madre, di nome Lucile, si sedette in sala da pranzo tenendo gli occhi fermi sul ragazzo sporco che era seduto davanti a lei.

 

“Che è successo stavolta? Hanno di nuovo insultato il tuo cappello?” disse con fare quasi annoiato.

 

Il ragazzo inarcò un sopracciglio: si chiese se un cappello giustificasse l’ improvviso risveglio in una discarica fuori città.

 

“O magari hai avuto una discussione con qualche vecchia conoscenza…

 

“Non lo so.. Mamma”

 

“Mamma? E’ da cinque anni che non mi chiami più così.. devi essere proprio rincoglionito oggi”

 

C-come?”

 

“Di solito mi chiami Lucy, come la canzone “Lucy in the Sky with diamonds” dei Beatles

 

“Ah giusto..” rispose poco convinto

 

“Devi aver preso una bella botta se non ricordi nemmeno le tue strambe abitudini, e i Beatles.”

 

La discussione terminò pochi minuti dopo, lo stato confusionale in cui si trovava Alek non facilitava di certo la conversazione.

Ormai esausto, il corpo del ragazzo si diresse per inerzia verso la sua camera da letto, di cui aveva dedotto l’ ubicazione dalla scritta “Stanza di Alessandro” in caratteri occidentali e cubitali sulla porta.

Entrò.

La stanza era immersa nel buio, tralasciando il pallido chiarore lunare che creava dei chiaroscuri nell’ ambiente, distorcendo la realtà secondo la fantasia umana. Cos’ era dunque quell’ orco appoggiato alla parete, o quel piccolo essere dalle larghe spalle vicino al letto? Alek era troppo stanco e mentalmente confuso. Cercò a tentoni il letto e, una volta raggiunto, si abbandonò ad un sonno profondo.

Si svegliò verso mezzogiorno e mezza, aprì gli occhi di colpo, iniziandosi a tastare il corpo: non sapeva ancora come era fatto. Andò in direzione dell’ orco,  in realtà un grosso pendolo d’ epoca e si mise davanti allo specchio posto lì vicino.

Era piuttosto alto, circa un metro e novanta, la costituzione era robusta e la muscolatura molto sviluppata, forse anche troppo. Le spalle erano esageratamente larghe, le gambe dritte e possenti. (Sono un armadio a due ante..) pensò, senza nascondere la fierezza di avere un corpo così potente, da guerriero. Dopo essersi osservato il corpo con fare narcisista, Alek iniziò a scrutarsi il viso. Lineamenti duri, scavati, un volto di marmo adatto ad un generale o ad un killer. Occhi verdi senza luce, vitrei, privi di qualsivoglia scintilla vitale  In contrasto con quel volto scolpito nell’ assenza di vita, i capelli erano corti e ben pettinati all’ indietro, di colore biondo cenere, sebbene qualche ciocca qua e là tendesse misteriosamente al blu.

Stranamente la sua espressione gli risultò ambigua, ottenebrata da una nota di perfidia, nonostante faticasse a capirne il motivo.

(Sarò fatto così) concluse.

Indossato un paio di pantaloni poggiati sullo schienale di una sedia, Alek si diresse curioso verso la vita, non privo di una certa ansia.

Al piano di sotto, in cucina, sua madre gli aveva lasciato un biglietto attaccato al frigorifero in cui gli intimava di fare la spesa.

(Brutta storia, non so minimamente com’ è fatta ‘sta città.. andrò a tentativi) pensò.

Dopo una doccia ristoratrice Aleck indossò dei vestiti puliti e si diresse fuori, nel mondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Himeko, la spesa ed un cilindro ***


Himeko era una ragazza che molti avrebbero definito strana

Ho ricevuto una recensione. Grazie di cuore. Sant’ Iddio,  son rimasto di sasso. Sono quasi commosso. Per la signorina che ha recensito e che probabilmente sarà delusa dalla nascita di Alek, una piccola rassicurazione: Rolek c’ è sempre, al 50% ma c’ è.

 

 

 

Himeko era una ragazza che molti avrebbero definito strana. Non aveva atteggiamenti particolarmente rilevanti, nessun tratto distintivo ne tantomeno  qualcosa che potesse attirare su di sé  l’ attenzione della gente. La quintessenza della normalità.

Forse proprio per questo era tanto chiacchierata: troppo normale, così tanto da saltare subito all’ occhio.

Di certo poteva essere considerata carina, con quel fascino indotto dall’equilibrio della sua persona, uno charme che gli studenti del club artistico avrebbero senz'altro associato alla bellezza delle perfette proporzioni appartenenti alla scultura classica. Fin da piccola venne cresciuta in un ambiente pieno d’ amore dai suoi genitori, i quali cercarono fin da subito di insegnarle la bellezza del suddetto sentimento in tutte le sue sfumature. Lì per lì Himeko sembrò dare loro ascolto, tuttavia scoprì presto i pesci di liquirizia, facendo passare in secondo piano, rispetto a quella leccornia, tutte le nozioni ricevute.

Non capiva l’ amore.

Non è che lo disprezzasse o che lo ritenesse assurdo, semplicemente non riteneva che la definizione  di Himeko  potesse contemplare l’ amore. Era come se si sentisse intrinsecamente  incompatibile con quella ‘cosa’.

Quella mattina si era svegliata male, cadendo dal letto e dando un’ amichevole facciata al pavimento, assumendo una posizione alquanto stupida. (pesciotti…) pensò con un rombo tonante allo stomaco: era da due giorni che non mangiava pesci alla liquirizia e, dato che la sua paghetta si era estinta in un giorno solo a causa della moltitudine di comics americani comprati, non poteva far altro che rantolare, flagellandosi per la sua mancanza di buon senso.

Qualcuno bussò alla porta della sua camera.

 

“Allora Himeko, è la terza volta che ti chiamo e sappilo, il tuo sciopero/ricatto per ottenere i pesci di liquirizia non funzionerà.” Disse una voce dietro la porta.

 

“Si Mamma..” rispose assonnata Himeko.

 

Si rialzò da terra, si stiracchiò un pochino per sciogliere i muscoli, emettendo un mugolio di soddisfazione quando sentì le ossa della schiena scrocchiare.

Aprì la porta trovandosi una bassa signora di circa trent’ anni. Dovette abbassare la testa per guardarla negl’occhi.

 

“’Giorno mamma” sbadigliò.

 

“Sbrigati o farai tardi a scuola. Mi chiedo da dove arrivi la tua pigrizia!” rispose la madre con tono nervoso.

 

Himeko non se la prese, la capiva. O meglio, capiva cosa provava dopo aver compiuto uno sforzo di immaginazione considerevole.

Suo padre era partito per un viaggio di lavoro: un noto fumettista americano aveva richiesto i suoi disegni per la realizzazione di una miniserie di supereroi e, dopo uno struggente dilemma degno di Amleto, sua madre lo aveva convinto ad accettare, assicurandogli che non si sarebbe sentita sola.

In verità, quando il padre era assente, sua madre diventava alquanto irritabile ed imprevedibile.

Himeko sospirò e si diresse in bagno, posizionandosi poi davanti allo specchio per conversare un po’ con se stessa.

Era davvero lei quella ragazza dai lunghi capelli biondi e gli occhi scuri? Spesso rimaneva sconcertata davanti allo specchio. Trovava interessante notare come il suo riflesso non sembrasse appartenerle. Per questo, passava ogni giorno cinque minuti buoni a controllare le espressioni facciali, rimanendo sempre dubbiosa..

Dopo essersi vestita rimase per un attimo rapita dall’ ultimo numero del suo fumetto preferito, lasciato sul comodino della sua stanza la sera prima: Deadpool. Ne lesse qualche pagina, dopodiché  si accorse di essere tremendamente in ritardo e così lo richiuse, uscendo di corsa senza nemmeno fare colazione.

(Sembra l’ inizio di un manga o di una fan fiction) pensò (o al massimo il secondo capitolo).

Ad Himeko i manga non piacevano per niente, troppi luoghi comuni e gag riciclate. Apprezzava invece gli esperimenti arditi dei comics, capaci di creare fantastici personaggi come Deadpool, Tommy Monaghan, Lobo o Jesse Custer.

Perciò, se l’ inizio della giornata assomigliava ad un manga, per Himeko era un pessimo inizio.

Arrivata in prossimità dell’ edificio scolastico, sentì chiamare il suo nome. Voltandosi, notò una ragazza molto più bassa di lei che la salutava freneticamente con la mano. Un po’ imbarazzata per quel saluto così energico ed espansivo, andò incontro alla sua amica.

Le ore di lezione scivolarono lentamente, secondo dopo secondo, come se il tempo lavorasse di malavoglia. Fuori dalla finestra si poteva ammirare lo strano mostro protettore della scuola, una creatura che Himeko trovava decisamente antipatica. Si era chiesta più di una volta quale sadico perverso avesse potuto concepire quell’ aberrazione che suscitava, in ordine: un pugno in un occhio al buon gusto, un insulto alla scultura ed un potenziale bersaglio per il martello di Thor.

Finite le lezioni, Himeko si diresse verso casa, dopo aver gentilmente declinato un invito al karaoke di alcune sue compagne di classe. Durante il tragitto notò uno strano figuro intento a canticchiare una canzone straniera, dal ritmo malinconico. Era un uomo sulla trentina, alto e fin troppo magro. Portava i capelli lunghi e ricci e vestiva con uno strano abbigliamento da cerimonia, con tanto di cilindro e papillon.

Chiunque lo avrebbe trovato subito strano, perché quel tizio stava letteralmente saltellando sul marciapiede, apparendo come una grottesca imitazione di Gene Kelly in Cantando sotto la pioggia. Oltretutto non pioveva.

Perplessa, guardò quell’ uomo come se fosse un’ attrazione circense, trattenendo a stento dei risolini quando quest’ ultimo iniziò a volteggiare sui lampioni con una certa eleganza.

Il matto, sentendo quelle risate soffocate, rivolse lo sguardo verso la loro fonte, compiendo un ampio e teatrale inchino dal sapore occidentale.

Himeko ricambiò il bizzarro saluto, trattenendo a stento le risate.

Quando il buffo  incontro ebbe termine, percorse la distanza che la sperava da casa con molta calma, ripensando allegramente alla simpatica follia dell’ uomo in cilindro.

Alle quattro del pomeriggio, Alek era riuscito a terminare le sue commissioni, annotando mentalmente di non fare mai più affidamento sul suo senso dell’ orientamento. Si sedette su una panchina a godersi la brezza autunnale, ancora troppo delicata per poter dar fastidio.

Notò un uomo con uno strano copricapo, un cilindro, vestito con un abito da cerimonia occidentale. Lo sconosciuto stava più o meno ballando, sebbene ad Alek tutto apparisse simile ad una rappresentazione melodrammatica sul prurito e relative contromisure. Agitato da quella presenza strana, scosso da uno stimolo che non riuscì a riconoscere corse verso casa, maledicendo il cielo quando per poco non disintegrò una ragazza allo svoltar di un angolo.

L’ uomo col cilindro, stanco ma felice del suo danzare, si fermò a  riflettere sulla panchina dove, fino a pochi minuti prima, stava seduto quell’ eccentrico ragazzo. (Trovato) pensò.

Sfiorò con la punta delle dita la gardenia che portava nell’ occhiello, guardando quel bellissimo fiore con sguardo nostalgico, rimanendo assorto nei suoi pensieri, mentre rimembrava la sua patria, l’ Italia.

Rimase fermo per ore, come spesso gli capitava prima di un lavoro. Doveva raggiungere uno stato di perfetta concentrazione, avere al proprio servizio ogni nervo del suo corpo, per non sbagliare, non mancare il bersaglio.

Notò a stento il gruppetto di teppisti che lo aveva accerchiato. Non capiva molto bene il giapponese gergale, tuttavia notò nelle loro facce un’ ombra di derisione.

Senza fretta indossò un paio di guanti neri di pelle.

Quei ragazzi poterono solo pregare.

 

 

 

 

Spazio autore

 

Non fregherà a nessuno. Pazienza. Scrivo lo stesso.

 

 

Ispirazioni principali per i personaggi.

 

Si, lo so, solitamente questi spazi andrebbero inseriti in caso di grande successo della storia e dei personaggi, tuttavia.. “kissenehfregah” direbbe affettuosamente il buon vecchio Lobo.

 

 

Alek: Sembrerà una roba da Mary/Gary/Jary/Boh.. Sue, tuttavia Alek è principalmente basato su me stesso. Mi piace moltissimo vestire elegante con annesso il borsalino, forse l’ unica cosa per cui nutro un interesse affettivo. L’ unica differenza è che io sono sette centimetri più basso (183cm), sono muscoloso ma non a livelli osceni e porto gli occhiali. Per il resto risulto pirla allo stesso modo del personaggio.

 

Himeko: nessuna fonte in particolare, a parte la mia passione per i pesci di liquirizia ed i fumetti americani. Il nome l’ ho scelto a caso, non so cosa diavolo voglia dire.

 

Misterioso e, tranquilli, utile alla trama, uomo col cilindro: il mio personaggio prediletto, di cui svelerò il nome tra qualche capitolo. L’ ho creato basandomi su due personaggi: il soggetto descritto dalla canzone “vecchio Frac” di Domenico Modugno e Magent Magent, antagonista secondario nel manga Steel Ball Run.

 

Note: Per chi non conoscesse i personaggi americani citati da Himeko, una breve lista

 

Deadpool: “The merch with a mouth” abile e logorroico mercenario, dotato di fattore rigenerante e consapevole della sua natura fumettistica

 

Tommy Monaghan: dettoHitman,  killer irlandese residente a Gotham City. Dopo un attacco alieno ha ricevuto vista a raggi X e telepatia. Famoso per il suo humour e per lo spessore del suo personaggio, mai banale e sempre coinvolgente

 

Lobo: lo sgrammaticato e violento metallaro alieno cacciatore di taglie, famoso per averle suonate a Superman e per avere ammazzato con armi batteriologiche di sua creazione tutto il suo pianeta. Tra le sue vittime troviamo persino Babbo Natale.

 

Jesse Custer: protagonista di Preacher, serie scritta da Garth Ennis, già autore di Hitman. Ex pastore di una piccola comunità del texas, Jesse si è ritrovato fuso con Genesis, figlio di un angelo ed una diavolessa, potente quanto Dio stesso.

 

Thor: Lo conosce persino mia madre Thor. Non credo ci sia bisogno di stare a spiegare chi sia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=510323