Enjoy the Silence di ElderClaud (/viewuser.php?uid=30676)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sing from Hell ***
Capitolo 2: *** Fare quello che non si vuole fare ***
Capitolo 3: *** Scivolare Via ***
Capitolo 4: *** Scoprire L'Irritazione ***
Capitolo 5: *** Sentire l'Udienza ***
Capitolo 6: *** La placca della tentazione ***
Capitolo 7: *** Il Decaduto ***
Capitolo 8: *** Lode alla Bestia ***
Capitolo 9: *** Padre Padrone ***
Capitolo 10: *** Vergine Nera ***
Capitolo 11: *** Argo dai cento occhi ***
Capitolo 12: *** Nel budello della storia ***
Capitolo 13: *** Profumo ***
Capitolo 14: *** Fiori del Deserto ***
Capitolo 15: *** Verdugo ***
Capitolo 1 *** Sing from Hell ***
“Le promesse sono
dette per essere spezzate.
I sentimenti sono
intensi.
Le parole sono devianti.
I piaceri restano.
Così il
dolore.
Le parole sono senza
senso e dimenticabili”
[Scarabocchio a margine di un foglio nella biblioteca principale di Las
Noches. Autore ignoto.]
Enjoy
the Silence
sing
from hell
Lo senti.
Lo percepisci.
È
il nulla che ti avvolge.
Può
essere bianco, può essere nero, può anche avere
il sapore del sangue ma... È sempre di quell'essenza che
stiamo parlando.
Il niente ti
avvolge e ti divora, ti deturpa il cuore – se ce l'hai
– e ti trasforma dentro. Come una cancrena risale dal tuo
petto e ti infetta la mente.
Ti contagia i
pensieri e ti rende cieco agli occhi degli altri.
“Words
like violence
Break
the silence
Come
crashing in
Into
my little world”
L'assaggi.
La gusti.
È
la noia che ti circonda.
Non esiste
attimo della tua vita – tanto lunga quanto corta –
che tu non abbia provato cosa vuol dire la noia su questo mondo.
Sul tuo mondo.
Ti dona
scompiglio – in quella tua testa malata – e ti
porta lontano. Viaggi a senso unico in quella tua mente distante, ti fa
cantare a squarciagola note di quelle che un tempo erano parole sensate.
Nel limbo di
una notte senza fine, strisci i tuoi piedi mentre la bocca si muove da
sola.
Da oltre un un
cappuccio calato solo il nero ed una mascella che allegra si muove.
“Painful
to me
Pierce
right through me
Can't
you understand
Oh
my little girl”
Le note
rimbombano in quelle mura marce, la tua voce si perde in un eco
stridulo di un corridoio infinito e buio.
L'eco
impazzisce e spaventa dal profondo.
Ma il tuo
sorriso è grande – e perfido – che il
nulla si piega al tuo volere.
Apre i suoi
cancelli dai cardini arrugginiti, a te che avanzi con passo malandato.
A te che canti
incurante di ciò che è presente sotto i tuoi
piedi, fiumi di lava rossa il cui profumo emette morte come l'incenso.
“All
I ever wanted
All
I ever needed
Is
here in my arms
Words
are very unnecessary
They
can only do harm...”
Le scale
scendono, il respiro sale, le note aumentano di volume.
Il nero ti
inghiotte mentre i tuoi passi sono come martelli che rompono il
ghiaccio.
Ignora i
cartelli che ti invitano a rallentare. Sono inutili se hai il nulla
nella testa.
Superi il
confine come si supera la linea nemica, continui a cantare e ignori che
oltre gli ultimi gradini si estende l'abisso più nero.
Una porta
magica – e tu lo sai – per uccidere la noia. Per
annientare il vuoto che hai dentro.
Il gradino
è superato, la canzone si è fermata. L'abisso ti
inghiotte come un sasso lanciato in un burrone.
Nessun dolore,
nessuna certezza. Solo la voglia di rompere il silenzio.
Di godere del
silenzio.
E di vivere,
anche se si è morti.
---------------
Prima
long fic che scrivo sull'universo di Bleach (sono masochista lo so).
Ammetto
che questo prologo è assai corto, molto nosense e molto
originale. È quasi il testo di una canzone si potrebbe dire. Ma è una cosa voluta, con il tempo capirete
Ad
ogni modo, lasciate che vi spieghi fin da subito un paio di cose, la
linea temporale in cui si svolgono gli eventi sarà durante
la saga degli Arrancar. Prima o dopo l'avvento di pel di carota
“bella coscia” non vi è dato saperlo.
Non
c'è una vera coppia quanto una, chiamiamola pure,
“duble centric” tra i due principali protagonisti.
Comunque
sia, se proprio credete di vedere una SzayelOrihime in questa storia
siete liberi di crederlo. Non nego nulla e non affermo nulla.
La
canzone antecedente il titolo e quella nel testo è
“Enjoy the Silence” dei Depeche Mode e da il titolo
alla fanfic ù.ù
(dovrei
aggiornare una volta a settimana se mi è possibile)
|
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Capitolo 2 *** Fare quello che non si vuole fare ***
La paura è
ciò che sento
Non capendo quello che
è reale...
Per ritrovarmi di nuovo
Le mie pareti si stanno
accorciando
(senza un senso di
confidenza,
e sono
convinto che c’è troppa pressione da
sopportare)
Mi sono già
sentito così prima
Così
insicuro”
[Nota dal taccuino di Aporro Grantz.
Pur sostenendo di non essere stato lui a scriverla]
Enjoy
the Silence
Fare
quello che non si vuole fare
Una bolla
d'ossigeno.
Una piccola e
insignificante sfera d'aria si separa dalle narici che l'hanno generata
per salire pigra e delicata verso la superficie dell'acqua cristallina.
Lui la
guardò solo dopo mezzo minuto che l'aveva espulsa dai
polmoni. Aprì gli occhi d'ambra per ritrovarsi come disteso
su un cuscino di alghe rosa.
I suoi capelli
danzavano con eleganza in quel fluido solo in apparenza simile
all'acqua potabile, veleno dall'intenso colore smeraldino invitante
quanto letale.
Solo ad un
arrancar era consentito immergersi in quel fluido tanto ambiguo quanto
sostanzioso, e lui grazie al cielo era uno di essi.
Altrimenti un
comune spirito banale come quello di uno shinigami si scioglierebbe
come neve al sole. Garantito.
Un piccolo
dettaglio che lo fa sorridere, lui che, nudo sul fondo di quella
piscina, non risente minimamente degli effetti negativi ma solo dei
benefici che potrebbe portare un bagno rilassante.
Alle volte
staccare dalle proprie malsane abitudini serve.
Staccare la
spina da tutto quel tan tan frenetico che spesso lo avvolgeva. Complice
quel suo lavoro disgustoso qual era
l'essere scienziati anche in terra di nessuno.
Una faccenda
delicata perchè, ad ogni esperimento o analisi che
conduceva, doveva dare tutto se stesso e prestare tutte le attenzioni
necessari.
Pena il
fallimento.
Chiuse gli
occhi nuovamente dopo aver visto come quella bolla moriva sulla
superficie piatta della piscina, compiaciuto di quel piccolo spettacolo
di morte effimera.
È
come fare l'amore vero?
Se
non ti metti il preservativo sono cazzi... E poi bum!
Ci
si sente Dio dopo aver raggiunto l'orgasmo vero Szayel? La tua lussuria
non conosce limiti...
Dovette
però riaprirli quasi subito.
Nella sua
linea di pensiero silenzioso si era affacciata una voce che per lui, in
quel preciso momento dato che era in un momento di solitudine, era
totalmente aliena e indesiderata.
Si
ritrovò quindi ad abbandonare la posizione rilassata assunta
in precedenza, per puntare i piedi sul fondo piastrellato e fare leva
su di essi per darsi la spinta necessaria a salire in superficie.
Guizzò
veloce e agile come una anguilla in alto mare, non curandosi se poteva
perdere gli occhiali che indossava o meno.
Non avrebbe
potuto comunque dato che erano parte integrante di lui.
Colto da un
moto di irritabilità quindi, si ritrovò a
infrangere lo specchio d'acqua con un suono sordo.
La spinta dal
basso verso l'alto fu consistente, e si ritrovò, per un paio
di secondi, a mostrarsi nudo all'aria gelida quasi a torso completo.
Gli schizzi
andarono in ogni dove. Fu come se un uovo fosse esploso e le scaglie
fossero volate via per metri e metri.
Alcuni schizzi
consistenti andarono infatti a bagnare il bordo di marmo della piscina,
bagnando delicatamente gli stivali di colui che in ombra lo osservava.
In quella
grande sala, la luce era offerta solo dall'acqua smeraldina e dalle
grandi lampade circolari murate sul suo fondo.
Lo spettacolo
di giochi fatti di luce ed ombra, nuotavano per quelle pareti semibuie
come in un teatrino delle illusioni. Uno splendido spettacolo solo in
apparenza naturale.
Una volta
ritornato con almeno le spalle coperte dall'acqua, si portò
una mano tra i capelli per spostarseli dal volto risentito per quella
mancanza di rispetto. E solo allora lo vide.
Ilfort Grantz,
suo fratello maggiore in linea di sangue ma di molto secondo a lui in
forza, lo osservava quasi come se volesse fargli un dispetto.
I tratti
somatici erano oscurati dall'ombra della sala, ma quel dannato sorriso
glielo vedeva chiaro e tondo. Così irritante che si
ritrovò a digrignare i denti lievemente.
Trattenne per
sé uno sbuffo seccato ma aggrottò maggiormente le
sopracciglia mentre in silenzio attendeva che lo specchio
d'acqua ritornasse sereno e che quello stolto iniziasse a
parlare.
Ma quello
stupido com'era, lasciava che solo il rumore delle piccole onde
parlasse per lui.
“Ilfort...”
Sibilò
seccato il minore.
Tutto quel
silenzio era per lui quasi una sfida, suo fratello non gli portava
rispetto neanche se aveva la carica di Octava Espada. Per lui
evidentemente, un fratello minore rimane sempre un fratello minore
dopotutto.
“Fratellino”
rispose l'altro noncurante. Accennando persino un plateale inchino.
“Octava
Espada per te... ricordalo!”
Con una
bracciata decisa l'arrancar si spostò lateralmente facendo
ondeggiare l'acqua attorno a se. Puntava lentamente alla scaletta
metallica che lo avrebbe portato fuori da lì.
Poteva sentire
perfettamente gli occhi del biondo fratello puntati sulla propria
schiena come se si trattasse di un falco che puntava la preda, e
ciò gli dava assai fastidio.
Irritante e
denigrante per lui. Odiava avere un fratello così.
Odiava
avere un inutile fratello in generale.
“Ad
ogni modo che cosa sei venuto a fare qui?”
Il tono di
voce non si sminuiva e rimaneva altezzoso e irritato al contempo, di
tutta risposta l'altro se la rideva leggermente soddisfatto di quella
sua reazione prevedibile.
Avvicinandosi
anch'egli alla scaletta metallica, tenendosi le braccia ben intrecciate
dietro la schiena e abbassando lo sguardo soddisfatto. Incurante delle
occhiate di fuoco dell'Espada come se la penombra lo proteggesse da
tutto.
Lanciò
persino un candido asciugamano – preso da un ripiano
lì vicino – al fratello minore che era
intento a risalire con calma su quella scaletta brillante come
l'argento.
Szayel lo
prese al volo emettendo un mezzo mugugno di rimprovero misto a
sufficienza.
“Ebbene?”
Odiava
ripetersi, e quel coglione era tardo di mente.
Mentre si
asciugava velocemente i capelli delicati continuava a guardarlo
dall'alto in basso come se si trovasse di fronte un comune sconosciuto
anziché un consanguineo.
“Ehe,
scusa se ho interrotto il tuo bagnetto Aporro, ma...”
“Vedi
di giungere al punto senza troppi giri di parole Ilfort –
interruppe l'Espada ora intento ad asciugarsi il resto del corpo con
gesti seccati e veloci. Seppur eleganti – se ci riesci
ovviamente!”
Aggiunse
infine con nota denigratoria.
L'altro di
tutta risposta sghignazzò con più forza per poi
schioccare la lingua dietro gli incisivi. In un gesto un po' lascivo
quanto derisorio.
“Ordini
di Aizen sama fratello. Sennò non sarei qui
ovviamente...”
“E
cosa desidera Aizen sama di così importante da doverti
scomodare?”
Ora si stava
rivestendo degli abiti precedentemente riposti in una pensilina
lì vicino. Si risistemò con cura l'hakama e la
giacca attillata di tessuto sintetico, avendo premura di sistemarsi
come si deve i guanti da laboratorio di medesimo tessuto.
Poi ebbe
persino il tempo di pettinarsi con maggiore cura i capelli ancora umidi
per sembrare più presentabile possibile.
Convinto che
il fratello sarebbe rimasto in silenzio per tutto il tempo, giusto per
infastidirlo ulteriormente, si sorprese tantissimo di sentirlo parlare
con una certa schiettezza.
“Sua
signoria desidera che sia tu ad occuparti da oggi stesso della
donna”
Ebbe un attimo
di blocco e per un momento avvertì uno strano formicolio al
petto. Se avesse avuto un cuore, quasi sicuramente lo avrebbe sentito
sobbalzare.
Si
voltò verso quella voce molesta e questa volta lo
fulminò con gli occhi. L'ambra che incastonava la nera
pupilla sembrava scintillare di pura cattiveria repressa.
“Cosa?
Stai scherzando spero! C'è già Ulquiorra a farle
da balia. Non ho il tempo materiale per stare appresso alle bestie degli altri. Ho un
mucchio di lavoro arretrato e...”
“...
E preferisci startene rintanato in uno sgabuzzino a farti delle seghe
mentali, anziché approfittare di una piacevole compagnia in
carne ed ossa giusto?!”
Silenzio in
sala.
Il tono
strafottente di Ilfort lo lasciò incredibilmente stupefatto.
Perchè dire che era solo irritato da tutta quella sua
strafottenza era poco.
Di
più... Szayel in quel momento era incazzato nero. E se
avesse potuto, il suo solo reiatsu in quel momento
avrebbe evaporato tutta l'acqua della piscina.
Si era
concesso cinque minuti di pausa dal proprio lavoro – per
quanto possa contare il tempo in un luogo come l'Hueco Mundo
– ed erano finiti quasi tutti a puttane.
Dovette fare
fondo al proprio autocontrollo fin in fondo per evitare di voler fare a
pezzi il bastardo.
“Se
hai finito col raccontare balle a tutto spiano caro fratello, avrei altro
da fare ora”
Si
sistemò con aggressiva eleganza gli occhiali sul naso e si
avviò verso il portone d'uscita permettendosi persino di
dare una spallata al parente odiato. Che incassò senza
battere ciglio e tenendo saldo quel suo sorriso beffardo in volto.
Era un gioco
un po' perverso quanto pericoloso quello di cercare di far arrabbiare
un parente come lo era Szayel.
Forse... Era
questa la parte più bella e interessante di questa storia.
Il cercare sempre di toccare il limite e di distruggerlo tanto per
soddisfare la propria sadica morale.
Attese ancora
qualche secondo prima di rivelare qualcosa che al potente arrancar dava
maggiormente fastidio. Vero motivo per cui aveva eclissato la femmina
umana come “poco interessante” nella sua
personalissima scala di valori.
“Sai
fratellino... Lei somiglia molto ad Incubadora...”
Un moto d'ira
che non si aspettava, e fu come se per lui si fosse bestemmiato sul
nome della Sacra Vergine.
Dette un pugno
alla superficie liscia del grande portone che stava aprendo, e
lasciò che un ringhio selvaggio gli uscì dalla
gola.
Con somma
rabbia si voltò in contemporanea di scatto per sbranare
quella voce blasfema ma, ancora una volta, dovette sostenere la
sensazione di un pesante formicolio al petto per aver indirizzato il
suo odio solo all'ambiente che lo circondava.
Ilfort Grantz,
così come era apparso nel suo piccolo mondo, così
era sparito.
Lasciando solo
che il rumore dell'acqua che si muoveva placida riempisse quel suo
mondo vuoto.
Quel
formicolio che provava, era quello di un cuore che non esisteva che gli
diceva di incazzarsi e spaccare tutto. Ma che lui comunque
ignorò a fatica scaricando in parte la tensione ancora su
quel portone provato.
Generando un
suono cupo ma meno potente del precedente.
“Idiota...
Perderai un arto prima o poi Ilfort! E non solo perchè usi
il sonido dove non
devi!”
Spostarsi ad
alta velocità negli ambienti regali quali erano quelli di
Las Noches equivaleva ad infrangere un regolamento di buone maniere. Ma
per Szayel quello era l'ultimo dei problemi.
Un modo un po'
stupido per cercare di stemperare la propria irritazione e sviarla da
quello che era il vero problema.
Anche se
sicuramente suo fratello era ora lontano, gli parve comunque di
percepire la sua risata come se fosse stata da oltre un muro in cemento
armato.
-----------
Secondo
capitolo di questo progetto ambizioso.
Il
testo prima del titolo è una canzone tradotta dei Linkin Park ossia Crawling. Se non
capite il motivo di tale scelta, lo capirete più avanti.
Stessa
cosa per Incubadora (dallo spagnolo: incubatrice), capirete
più avanti di cosa parlo.
Ringrazio
infinitamente chi ha recensito lo scorso capitolo, ovvero
Taiga Aisaka (e ci avevi preso con la storia della claustrofobia eh XD)
Squeeze e Hoshimi.
Mi
spiace per le attese così lunghe ma il mio tempo
è quello che è.
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Capitolo 3 *** Scivolare Via ***
“Se hai
dimenticato come si sorride
Ho da dirti questo
Ricordati che
una volta,
Dieci anni prima del tuo io del passato,
Pregai per
la tua felicità
Per favore non perdere la speranza”
[Scritta sul muro di una prigione. Da qualche parte nell'Hueco
Mundo.]
Enjoy
the Silence
Scivolare
Via
Suo fratello da piccola le
aveva insegnato un metodo efficace per contenere i sentimenti forti.
Rabbia, paura, invidia,
ansia...
Per tutte queste emozioni
negative, bastava contare fino a dieci e lasciare che esse
scivolassero via dalla pelle come acqua dopo aver fatto una doccia.
Fino a quando non avvertivi
che se ne erano andate via, dovevi contare anche fino all'infinito. E
continuare a sorridere.
Da quando si trovava lì,
Inoue Orihime aveva perso il conteggio più di una volta.
Riusciva ad arrivare anche a
cinquanta ma poi inesorabilmente perdeva il conto e si ritrovava a
sospirare esasperata. L'ansia più di ogni altra cosa, le
impediva di
concentrarsi e di contare con tranquillità.
Forse nel suo piccolo
mondo mortale questo sistema poteva anche essere efficace. Una volta
si era ritrovata persino a contare fino a cento – il suo
massimo
era sempre stato di settanta – ma comunque era sempre
riuscita a
mandare giù tutto. Qui invece, era tutto diverso.
Sorridendo sempre, facendo
buon viso a cattiva sorte anche nei momenti più bui della
sua vita.
Affidandosi a mani amiche
che ora quasi rimpiangeva.
Si torse le dita con
malcelato tremore a quegli infausti pensieri. Si era ripromessa di
non pensare a nulla in quella terra senza dio e di non farsi
sopraffare dal nervosismo.
Invano ovviamente.
Forse era stata l'ultima
visita di quello chiamato Ulquiorra ad infastidirla di più
di ogni
altra cosa.
Entrato nella sua stanza –
cella – senza bussare, si era messo a
parlare in un modo che
a lei non piacque affatto.
Ogni volta che quella
creatura parlava, sentiva il sacrosanto bisogno di mettersi a contare
perchè sennò, veniva colta dal nervosismo.
Ogni parola che sillabava
con fredda autorità, pareva essere intrisa di malizia giusto
quel
tanto per farla esasperare ed innervosire.
Come a cercare di
estrapolarle il maggior numero di emozioni.
Come quella sera.
Parola per parola, ricordava
tutte le battute come in un copione teatrale.
“Oggi stesso
andrò in
missione. Dove e perchè non sono tenuto a dirtelo. Per un
po' di
tempo quindi, ci sarà qualcun'altro ad occuparti di te
donna”
Quella notizia la turbò
come se avesse appreso che un suo caro amico fosse morto di morte
orribile proprio in quel preciso istante. Improvvisa e fulminante.
Ebbe l'istinto di
irrigidirsi nella postura eretta e di stringere con forza le mani
conserte in grembo. Mentre il cuore nel petto le palpitava a mille.
Deglutì a fatica e riuscì
solo a dire un “si” quasi rivolto a se stessa che a
lui.
L'altro tuttavia non batteva
ciglio oltre gli occhi verdi che si ritrovava. Prolungando il
silenzio in maniera dovuta.
“Potrebbe venire
qualcuno molto più peggiore di me. Qualcuno che potrebbe non
avere
la mia stessa pazienza”
Ci stava girando attorno ma
il concetto era quello. Era sempre e solo quello, e la cosa ormai la
disgustava.
Dovette far forza sul
proprio autocontrollo e cercare, anche inutilmente, di placare il
cuore che non cessava di pompare sangue.
“Hai paura donna?”
Alla fine della corsa era
giunto dove voleva proprio arrivare.
Ad esprimere quella –
patetica – domanda come se vivesse ogni
giorno solo per
potergliela proporre.
E quello che sentiva ormai
più prossimo come sentimento, non era più
semplice tensione ma
bensì rabbia.
La rabbia che per lei era un
sentimento praticamente alieno, ora come ora le sembrava di provarlo
da sempre.
Ogni singolo secondo della
sua vita lì, in quel purgatorio artificiale, era dilatato
all'inverosimile e si percepiva sempre come la notte pareva eterna e
il giorno effimero.
E viceversa notte e giorno
si alternavano nella loro intensità. Così come le
sue emozioni.
Socchiuse gli occhi e
abbassò lo sguardo. Stanca di quel gioco ormai inutile.
“No... Non ho paura”
Menzogna.
Era
la cosa che ultimamente – sempre
– le riusciva meglio.
Non
riusciva a stare tranquilla e aveva accettato, nella credenza di
essere nel giusto, di diventare un mero strumento nelle mani di
qualcun'altro. Pensando così di combinare qualcosa di
decente nella
propria vita.
“In realtà, con
la
scusa di difendere i tuoi amici, li hai condotti ad essere digeriti
nello stomaco dell'inferno. Complimenti puttana”
Paura.
Si era
detta mille e più volte che non avrebbe avuto paura ma
questa volta
l'avvertì forte e chiaro.
Ebbe un
sussulto e lo stomaco le si rivoltò contro come se avesse
avuto i
topi che glielo stessero divorando dall'interno.
Spalancò
le iridi argentate ed ebbe come il moto di lanciare un grido.
Aveva
avvertito l'aria farsi più gelida nella sua stanza e quella
voce
pareva essere stata generata dallo stesso ambiente... Ma solo grazie
alla volontà di Orihime stessa si era materializzata.
Pazzesco, perchè?
Era
sfinita. Sfinita da quella situazione e sfinita dal perdere
costantemente il conteggio di quello stupido gioco schifoso!
Lasciare che le emozioni
scivolino via? Che stupidaggini!
Colta da
un improvviso senso di impotenza e sconforto, si ritrovò a a
portarsi le mani al volto con evidente disperazione.
Aveva
voglia di piangere, ma quel dannato cuore umano che si ritrovava nel
petto non cessava di battere forte e crudele. Ad avvertirla della sua
presenza nella cassa toracica fin quasi ad andare a sbattere contro
le ossa di quest'ultima.
Che cosa avrebbe dato...
Che cosa avrebbe dato.
Quasi
non avvertì la porta che si apriva alle sue spalle facendo
scattare
la serratura con un colpo netto.
L'avvertì
solo quando si richiuse e avvertì alcuni passi che le si
avvicinavano di spalle.
Solo
allora abbandonò la postura sofferente e sussultò
sorpresa.
Lasciò
perdere lo spettacolo offerto dall'unica finestra presente in tutta
la stanza – ormai era quasi un sostituto della televisione
– si
ritrovò a girarsi di scatto per accogliere chi era entrato
senza
bussare.
Cosa
assai stupida pensare che lì qualcuno possa bussare.
Ciononostante,
si ritrovò a rimembrare in automatico le parole che le aveva
detto
Ulquiorra qualche ora prima.
E ancora
a quella domanda che trovarla irritante era poco.
“Hai paura donna?”
E anche
se la risposta era sempre in negativo, ora come ora avrebbe mentito a
se stessa se avesse negato ancora una volta.
“Oh ma
salve! Disturbo per caso?”
il tono
di voce era mellifluo e già questo non le piacque per niente.
Aggiungendoci
poi uno sguardo che dire insidioso era poco – la sua cara
amica
Tatsuki l'avrebbe definito da maniaco – e il gioco era fatto.
L'individuo
appena entrato, accompagnato da un fedele servitore con tanto di
vassoio alla mano, la guardava con intensità e non accennava
a
smettere di sorridere.
Quel
sorriso non era vero ma sembrava essere fatto solo per deridere la
gente e per reputarsi superiore a tutto, e questa sensazione le dette
un brivido lungo la schiena.
“Ehm...
L-lei è?”
Con
sommo rammarico si era ritrovata a parlare con voce lievemente
tremante. Completamente colta alla sprovvista da tutto quel contare
–
pensare – aveva fatto decisamente una
pessima figura.
L'altro
di tutto rispetto parve accorgersene e la cosa sembrò
divertirlo
ulteriormente. Ma sorvolò sulla faccenda raddrizzandosi gli
occhiali
e si presentò con le dovute maniere.
“Oh,
perdona la mia maleducazione – accennò un piccolo
inchino di scuse
e poi continuò con la sua pagliacciata -
sono Szayel Aporro
Grantz. Octava Espada nell'ordine gerarchico... Ma dubito che la cosa
possa minimamente interessarti”
Finì
con una lieve risata divertita come se avesse appena fatto una
battuta. Tuttavia però, aveva dannatamente ragione. Cosa
gliene
importava a lei dopotutto?
Ciò non
tolse che quest'individuo era totalmente differente da Ulquiorra.
Aveva un altro tipo di personalità ma non per questo la sua
presunta
pericolosità era sminuita. Anzi, ora come ora non avrebbe
saputo
dire se la presunta cordialità dell'Espada fosse buon segno
o meno.
Approfittando
di un rumore di stoviglie appoggiate ad un tavolo, osservò
il fedele
arrancar dagli abiti semplici sistemare quello che doveva essere la
cena della sera.
Ad
osservarla, sembrava persino qualcosa di molto più raffinato
rispetto quella portata dal suo precedente carceriere.
Ciò non
toglieva comunque che ancora una volta si sarebbe rifiutata di
obbedire ad un simile trattamento.
Pur di
prendere a schiaffi il nuovo arrivato si sarebbe opposta dato che di
rabbia, purtroppo, ne aveva ancora molta in corpo.
Ciò che
stemperò la sua volontà però, fu
quella voce melliflua e insidiosa
che ora le parve più vicina che mai.
“Allora, vogliamo
cenare...”
Contro
tutte le sue aspettative, nei pochi secondi in cui aveva voltato lo
sguardo verso l'umile servitore silenzioso, si era ritrovata quel
tizio a pochi centimetri di distanza che la scrutava con una certa
curiosità.
Emettendo
un piccolo sobbalzo per la seconda sorpresa ricevuta in pochi minuti.
“...Miss Inoue
Orihime?”
Completò
la frase precedente con voce bassa mentre completava il teatrino
della sceneggiata catturandole delicato una mano lasciata libera
lungo un fianco, e portandosela vicino alle labbra senza
però,
toccarne il dorso. In un perfetto baciamano francese.
Quell'individuo,
benchè si stesse divertendo a fare il seduttore, aveva un
nervosismo
dentro di se, che paragonarlo a quello di lei era quasi stupido.
L'arrancar
maschio che si ritrovava a fronteggiare era decisamente più
esasperato di lei da quello che gli toccava fare. Questo era quasi
sicuro dato che in un certo senso quasi lo avvertiva.
Si
staccò da quella presa – apparentemente
– gentile, e distolse lo
sguardo altrove imbarazzata.
Per
quanto in vita sua avesse sempre sognato le galanterie e i principi
azzurri, ora le trovava futili e insopportabili.
Perchè
totalmente assurdi per il mondo i cui ora si trovava, dato che niente
faceva per sminuire la propria natura di dolore.
E anche
una semplice cena per lei, equivaleva alla rottura di
quell'equilibrio.
E tieni ben in mente
questo Orihime. Tienilo sempre ben a mente.
----------------------
Capitoli un po' strani
questi, se non lo si nota. Ma è una cosa ben voluta tenetelo
sempre
presente ù_ù (il mio primo esperimento di storia
nosense, portate
pazienza)
ad ogni modo, la canzone
prima del titolo è Letter
from the Lost Days
da Silent Hill 3 ed è cantata da
Melissa Williamson.
Ringrazio
di cuore Yoko-kun e raxilia_running per aver recensito XD.
Sì,
Szayel è un personaggio a mio avviso decisamente
interessante per
questa storia. Tra tutti, mi sembrava il più adatto (e non
che gli
altri non facciano la loro parte eh!). Ad ogni modo, perdonate il
ritardo, ma ho un'altra vita oltre il pc.
Grazie
ancora per l'attenzione, e ditemi cosa ne pensate anche di questo
capitolo!
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Capitolo 4 *** Scoprire L'Irritazione ***
“Le cose
preziose e fragili
Hanno
bisogno di essere maneggiate con cura
Mio
Dio, cosa Ti abbiamo fatto?”
[Una voce di donna,
portata dal vento del deserto. Con tutta probabilità urlata
dall'inferno.]
Enjoy
the Silence
Scoprire
l'Irritazione
Irritazione.
Era al primo posto della
categoria delle peggio sensazioni che provava quando c'era qualcosa
che non andava affatto.
Era come un prurito che ti
partiva dal cervello e poi si diramava in tutto il corpo. Un'onda
simile a quella di un sasso lanciato in un un laghetto solitario e
silenzioso.
L'aveva provata
dall'inizio alla fine quell'assurda sensazione.
Prima suo fratello – che
già di suo era di natura irritante – poi la
conferma delle sue
parole di fronte ad Aizen sama, ed infine questo. Accettare di fare
la balia.
Senza contare che dinnanzi
a sua signoria aveva fatto una peggio figura come
non mai
prima d'ora.
Il silenzio era
prolungato e si stavano toccando delle note imbarazzanti.
Szayel si maledì più
e più volte per aver contraddetto Aizen con la sua frase
“Ma non
può occuparsene qualcun'altro?”, e per averlo
detto con tono
innocente e contrariato.
Ora il suo sguardo era
basso e le pupille si indirizzavano in ogni dove su quel pavimento
lucido che, però, non rifletteva la sua immagine.
Mordendosi il labbro
inferiore come un bambino beccato con le mani nella marmellata.
Atteggiamento infantile
che quasi sicuramente suscitava ilarità nel potente padrone.
Che comodamente seduto
sul suo scarno trono si gustava appieno la scena del sottoposto
umiliato.
“Tu mi sembri il più
adatto allo scopo Szayel Aporro – il suo tono era pacato e
quasi
premuroso. Un bastardo nato – dato che desidero una tua
analisi sul
soggetto in questione, intesi?”
Sapeva che non
ammetteva repliche.
Sapeva che godeva nel
vederlo umiliato e inginocchiato a terra, e sapeva che gli stava
dando lavoro disgustoso e incoerente con il mestiere che faceva.
Non era lavoro di uno
scienziato occuparsi di leggende... Ma era oltremodo divertente
osservarne gli sviluppi.
Eppure era ciò che si
ritrovava fare controvoglia.
Come un fiume in piena
l'irritazione sembrava non volerlo abbandonare mai. A tratti
avvertì
un sollievo dopo aver lasciato le stanze di Aizen sama, ma poi
più
nulla.
A testimonianza di ciò,
ci fu pure il tragitto per arrivare alla donna fatto con le braccia
dietro la schiena, che, rigide come tronchi, lasciavano che le mani
stringessero con forza una povera cartellina per gli appunti mentre
veniva sbattuta con nevrosi su un fianco dell'uomo.
Il servitore che lo
seguiva silenzioso e paziente con tra le mani un vassoio pieno di
vivande, era sicuro che il padrone avesse persino borbottato a
ripetizione diversi “maledizione!” e via dicendo.
Stemperò quel sentimento
quando poi si trovò di fronte la femmina, ma a quanto pare
non era
una stupida.
E di conseguenza preferì
tenersi il più vicino alla porta d'uscita nel caso l'Espada
andasse
giù di matto.
Già il fatto di essersi
fiondato nelle cucine del castello utilizzando il sonido,
vietatissima abilità da usare solo nei casi urgenti, la
diceva lunga
sul suo stato d'animo.
Si era poi messo a dare
ordini con tono autoritario e altezzoso su come cucinare un piatto ad
una signora – ignorando volutamente le parole di chi gli
diceva che
lord Ulquiorra aveva già provveduto, e bollando
quell'individuo con
un “lui non sa farci con una femmina” - e aveva
preteso che fosse
portato su un vassoio d'argento anziché un comune carrellino.
Un vassoio d'argento
signori. Roba che veniva usata solo per sua eccellenza Sosuke Aizen.
In definitiva però, la
giovane donna non sembrava impressionata da tale servizio.
E ciò lo si poteva notare
dalla postura rigida e da come si sedette sullo scanno che fungeva da
sedia.
Era contrariata nonché
seccata da quella visita, Inoue avrebbe volentieri tirato in faccia
tutto quel ben di dio al nuovo seccatore se ciò sarebbe
davvero
servito a sistemarle la confusione che aveva in testa.
Il suo sguardo era
irritante e oltremodo borioso.
Le stava di lato con le
braccia dietro la schiena come intento ad osservare una scimmia
ammaestrata. Anche a costo di subire minacce e di sentire il peso
della fame che la dilaniava, non avrebbe mangiato.
Di conseguenza i secondi
passavano così pure il silenzio prolungato. Si era contata
tutte le combinazioni di cibo che formavano le varie decorazioni dei suoi
piatti e alcune sembravano anche essere buone, ma ciò che le
interessava maggiormente era che quel sorriso fossilizzato di
quell'individuo scomparisse.
“Uhm, suppongo che tu
non abbia fame dato che non hai ancora toccato nulla”
La voce dell'Espada fu
l'unico suono dopo un minuto buono di silenzio a riempire quella
stanza.
L'espressione che aveva
sul viso era un misto tra preoccupazione e dispiacere infantile. Un
sentimento così falso che la fece sdegnare in silenzio.
Anche se
avrebbe voluto dirgli – urlargli
– in faccia “falso”,
rimase zitta e ferma e si limitò a conficcare le unghie
nelle
ginocchia.
“No infatti, non ho fame
e desidero essere lasciata sola”
“Stai mentendo – lo
disse con tono quasi divertito, mentre si riaggiustava gli occhiali
sul naso – e ho il dubbio che tu sia molto
orgogliosa”
“No si sbaglia, non ho
fame”
“Puoi darmi del tu, non
mi arrabbio mica sai...”
“Non ho fame le dico!”
Alla fine un po' la voce
l'aveva alzata, e con suo sommo rammarico dovette pure notare che era
persino tremolante di nervosismo e rabbia nascosta.
Non era un comportamento
degno di lei, ma in quel luogo non poteva fare a meno di essere
così.
E l'altro di tutta
risposta, chinò il volto divertito, mentre con finto
imbarazzo si
portava una mano tra i capelli per riaggiustarseli.
Girando attorno al tavolo,
così come si gira intorno ad un argomento, non era disposto
a
dargliela vinta come aveva fatto il suo predecessore.
“Beh... Se la metti così
allora farò portare via tutto. E ordinerò agli
altri arrancar di
non portarti nulla perchè tu non desideri mangiare. Bizzarra
questa
cosa”
“Cosa intende dire?”
Accantonò momentaneamente
la rabbia e fece spazio ad una preoccupazione nella voce non
indifferente. Quell'uomo, se così lo si poteva definire,
sembrava
divertirsi a girarle intorno lentamente così come una mosca
gira su
un vasetto di miele.
E quello che disse in
seguito poco ci mancò che la facesse piangere.
“Ecco vedi, se tu ora
dici che non hai fame... Poi non ti verrà più
portato altro cibo
per tutti gli altri giorni a venire. Dopotutto tieni presente che noi
non necessitiamo di mangiare cibi solidi per vivere – sorrise
con
astuzia guardandola dritta negli occhi – verrebbe quindi
dimenticato questo tuo bisogno naturale e moriresti
lentamente
di fame...”
Sembrava oltremodo felice
di spaventarla così. Che godesse nel vedere come gli occhi
argentati
che si ritrovava, si annacquassero di lacrime che a stento riusciva a
trattenere.
“Ah ma ci pensi mia
cara? Riusciresti a sopravvivere massimo tre giorni e patiresti le
pene dell'inferno! E in più... – le si
avvicinò quel tanto da
poterle sussurrare lascivo ad un orecchio – la tua pelle si
raggrinzerebbe e diventerebbe secca come la sabbia di questo deserto.
Un vero attentato alla tua bellezza non trovi?”
Aggiunse infine,
separandosi da lei a cambiando tono di voce. Da basso e roco, a
vivace e allegro in meno di due secondi.
E tanto bastava a farle
andare le palpitazioni a mille dalla preoccupazione.
Conscia che quel tizio
stava facendo sul serio, forse era il caso di assecondare il suo
volere e accontentare i brontolii di uno stomaco lasciato per troppo
tempo senza cibo.
Strinse ancora, e con
forza, il tessuto della gonna alla base delle ginocchia che si
ritrovava, e poi si decise a staccare le mani tremanti per
raccogliere coltello e forchetta e a imboccarsi a forza.
Affondò la posata
d'argento in quella che sembrava carne di maiale, fin quasi a
trafiggere il piatto stesso fatto del medesimo materiale della
forchetta impugnata. Masticando veloce una volta che il boccone fu in
bocca.
Era saporito, ed era una
vera prelibatezza per il suo palato.
Le verdure non erano da
meno, e quasi le dispiacque di distruggere le composizioni simili a
fiori che guarnivano il piatto. Le mangiò, e anche di quello
ne fu
sazia.
E l'acqua... Dio, solo da
bambina si ricordava di un'acqua così pura e fresca.
Un vago ricordo riaffiorò
nella sua mente quando si portò il calice alle labbra.
Ovvero quello
di lei e di suo fratello, che, durante una gita in montagna,
riempirono le loro borracce da una cascatella che traboccava quello
splendido liquido.
Finì di mangiare tutto
con sommo piacere del suo tutore.
Per tutto il tempo che lei
aveva tagliato e trangugiato, lui aveva annotato tutto nella sua
cartellina con tanto di orari e note personali.
E una volta che la giovane
femmina si deterse le labbra con l'apposita salvietta, mise fine
anche lui alla scrittura con un sorriso che arrivava sino alle
orecchie.
“Ottimo... veramente
ottimo! Visto che ad usare le buone maniere si ottiene sempre
tutto?”
Quella battuta sembrava
quasi derisoria, e a momenti non guastò la
serenità che Inoue si
era costruita nel mentre che stava mangiando.
Si era isolata dal mondo
rifugiandosi solo tra i propri sensi, e di quello che provava ogni
volta che ingoiava un boccone. Quasi le sembrasse di sentire il
proprio stomaco dirle “grazie” per averlo riempito.
Anche se a dirla tutta, da
un po' di tempo a questa parte non voleva semplicemente isolarsi dal
mondo e basta.
Orihime, avrebbe
volentieri gradito di scomparire totalmente da questo mondo e di non
lasciare traccia alcuna.
La
canzone prima del titolo è Precious dei Depeche Mode. Ma non
sempre
mostrerò canzoni nelle mie piccole citazioni.
Ad
ogni modo, un grazie di cuore a raxilia_running per aver commentato
il capitolo scorso!
In
effetti hai ragione, attualmente questa storia non è molto
nosense!
Vedremo se riuscirò a renderla tale più avanti...
E poi
sì, nonostante tutte le critiche che le vengono appioppate,
Orihime
è pur sempre un essere umano. E credo che più il
manga va avanti, e
più matura e lascia da parte il suo lato infantile.
Comunque, se avete letto, fatemi sapere cosa ne pensate anche di
questo capitolo!
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Capitolo 5 *** Sentire l'Udienza ***
“Che cosa vorresti fare? Tu sei pazzo!
Vorresti portare Dio qui?
Questo è un tuo piano
Non mettermi in mezzo ogni volta!”
[Atto vandalico nella biblioteca principale. Qualcuno ha scritto
ciò
con del petrolio(?) nel posto a sedere preferito di Sosuke Aizen]
Enjoy
the Silence
Sentire
l'Udienza
Se senti l'impulso di
urlare, non assecondarlo.
Se senti la rabbia
eruttare dalle tue labbra, perchè celarla?
Ti stai comportando da
stupido, oh mio caro fratello! Questo non è il paradiso,
quindi non
essere ipocrita.
Avanza nella nebbia, così
come avanzi nel tuo stesso peccato.
Sii prudente anche se
nessuno è qui per giudicarti. Siamo figli di un unico corpo,
perchè
punirti?
Fratello, se hai tempo da
perdere, concediti un istante di riflessione.
Odi la nostra voce come il
canto delle sirene. Schiantati verso gli scogli come i marinai
incauti.
Sii felice della nostra
gloria, poiché è anche la tua. Quindi
perchè la fuggi? Non sei
felice di ciò che sei?
E
come darti torto per essere diventato l'ombra che sei sempre stato?
Oh
fratello.
In
questa sala riccamente ornata di bronzo e di carne, attendiamo il tuo
ritorno. Oltre la volta nera che ci ricopre, noi attendiamo l'avvento
della tua fine.
Drappi
rossi come fiumi di sangue, calano su di noi come un sudario di
velluto. Oltre di essa i suoni sono effimeri, ma confidiamo nella
buona sorte per udire la tua voce.
Le
tue urla.
Il
tuo pianto disperato di bambino mai nato.
Il
tuo grido è come un monito ad un mondo che non ti conosce.
Candide
braccia sottili come giunchi, trattengono il sipario in attesa che
noi riapriamo gli occhi per te.
In
attesa di un tuo ritorno, noi affileremo le nostre lame. Per poterle
spezzare sul tuo spirito prepotente. Di pelle coriacea e di odio
velenoso.
E
una volta morto – si perchè sarai morto
– il tuo numero sarà
sette.
-
- - - - - - -
Chiuse
il libro quasi seccato, e uno sbuffo di polvere fuoriuscì da
quelle
vecchie pagine ingiallite.
Quel
tomo valeva una fortuna, ma a quanto pare agli arrancar presenti a
Las Noches, pareva non importare più di tanto.
Lo
aveva trovato su uno dei tanti tavolini presenti nella grande
biblioteca del castello, e sembrava che qualcuno avesse stuprato
quelle pagine da tanto che erano stropicciate.
Le
sue lunghe dita sottili, sfiorarono delicatamente quella rigida
copertina fatta di pregiato velluto rosso come a volerla accarezzare.
E quasi si commosse al pensiero di quanto fosse prezioso
quell'oggetto.
Di
quanto fossero preziosi tutti i libri presenti.
Era
un sapere a disposizione di tutti gli abitanti del castello, ma a suo
dire solo lui poteva beneficiarne appieno.
Tutti
lì a disprezzare quei preziosi volumi. Quei tomi
inestimabili
sottratti ad una umanità stolta o scritti di proprio pugno
da
arrancar dai forti sentimenti.
Alla
faccia di chi dice che siamo solo delle bestie.
Nonostante
tutto, l'ignoranza la faceva da padrona in quel luogo, e sembrava che
solo la prepotenza sembrasse contrastarla.
La
prepotenza di Aaroniero
Arruruerie
era
storica nonché famigerata. Di conseguenza oltre a essere
ritenuto un
individuo strano, era tenuto il più in disparte possibile da
tutti.
Complice
forse il fatto di essere la Novena Espada, e di essere lì
quasi per
divertire Aizen sama, ma quando si trovava in quel luogo le cose
cambiavano.
Quella
biblioteca era sua, e tutti i libri presenti erano suoi e di nessun
altro.
Era
lui che si occupava di quei piccoli tesori – dei suoi
preziosissimi
bambini – e un tale scempio per lui era una autentica
bestemmia.
Prese
quindi sottobraccio quel libro prezioso, e aiutandosi con la luce di
una lampada ad olio, si fece strada dal tavolino sino al luogo in cui
riporlo con cura.
La
luce artificiale della grande sala in cui erano custoditi tutti quei
volumi, a suo dire danneggiava – o aveva il potere di
rovinare –
quei reperti importanti.
Di
conseguenza, essendosi lui auto proclamatosi “bibliotecario
di Las
Noches”, aveva ridotto l'uso della luce a sole determinate
fasce
orarie, e comunque chi poi abbandonava la sala era pregato di
spegnere gli interruttori per limitare i danni.
E
lui che di luce non ne aveva quasi bisogno, dato che conosceva il
luogo a memoria, preferiva spostarsi solo al lume di una effimera
lampada ad olio. O di qualche occasionale candela se proprio non
c'era il grasso di qualche hollow da bruciare.
Tanto,
i danni erano limitati di molto nel fare quelle semplici operazioni.
E il suo tesoro quindi, era preservato.
Una
volta arrivato nella sezione giusta, alzò verso l'alto la
lampada
metallica e quella cigolò piano per il semplice gesto.
Il
fascio di luce ambrato illuminava alla perfezione il buco mancante di
quella collezione variopinta ed eterna. Di seguito, in automatico si
cinse a riporre l'oggetto nella propria culla.
E
fu proprio in quell'atto, proprio nel gesto di rimettere in ordine il
manoscritto, che avvertì un cambiamento nella solita quiete
che
caratterizzava il luogo.
Bloccò
le dita sottili ed ebbe quasi l'impulso di ritirarle velocemente come
se un viscido mostro le stesse per mangiare.
Perchè
qualcosa di viscido, ma incorporeo, c'era in quell'angolo sperduto.
E
per quanto fosse insignificante, nel silenzio attutito di quel suo
mondo prezioso riusciva a sentirlo.
Un
respiro.
Un
mugugno.
Come
se qualcuno stesse vivendo all'interno dello scaffale. Come se uno
dei suoi libri stesse respirando come un bambino vero.
E
ciò non era possibile dato che tutti i suoi tesori erano
oggetti
inanimati e privi dell'ovvio uso della parola.
Ripose
il libro e ritrasse le dita con calma. Fece il meno rumore possibile
e cercò di avvicinarsi al freddo mobilio per avvertirne
ancora una
volta il respiro insolito.
Portò
la maschera a pochi centimetri di distanza come un investigatore
scrupoloso. Attento persino ai granelli di polvere illuminati dalla
sua debole luce, come sospettoso che essi potessero muoversi al
respiro del mostro.
Nulla.
Questa
volta non avvertì assolutamente nulla e di ciò ne
fu quasi deluso.
Si
ritrasse sospirando piano, quasi seccato di quella sua paranoia che
aveva nei confronti di quel luogo. Andando quasi a dare ragione a
tutti quegli individui che lo guardavano storto e lo ripudiavano. Ma
per fortuna, fu solo un attimo in quella sua testa contorta.
Fece
quindi per allontanarsi da quel luogo di enigmi tornandosene da dove
era venuto, volgendo il fascio di luce verso il corridoio per
raggiungere la reception.
Ma
nell'esatto momento in cui si voltò, dovette abbandonare la
lampada
per attingere all'elsa della propria spada.
Facendo
cadere l'oggetto a terra e frantumando il vetro soffiato in mille
pezzi. E dando un ultimo respiro alla fiamma che, feroce per quella
morte precoce, avvampò rabbiosa illuminando per un istante
l'ambiente circostante e in particolare un determinato elemento.
Oltre
la sua maschera di ceramica, il respiro si fece intenso e la sorpresa
– paura – crebbe.
Le
dita di Aaroniero strinsero con violenza l'impugnatura della spada
golosa senza però decidersi ad astrarla.
Mentre la fiamma
bruciava l'olio rimanente a terra e moriva lentamente.
Permettendogli
di inquadrare tra la rabbia e la sorpresa, ciò che lo aveva
per un
istante terrorizzato.
Sul
muro adiacente che stava osservando con sempre più sdegno,
c'era una
scritta che – con tutta probabilità –
quando era passato un
momento prima manco c'era.
Una
sola scritta che era riuscita a fargli quasi estrarre la spada dalla
paura.
E
questo per lui era una condizione decisamente troppo umiliante.
Più
dell'essere l'ultimo nella scala sociale di quel mondo –
apparentemente – impuro.
Ignorando
quindi quello che c'era scritto su quel fetente muro, ed esasperato
per l'ennesimo scempio avvenuto nel suo luogo sacro, urlò
gonfio di
rabbia e di follia.
Urlando.
Urlando
come il mostro che cercava.
Meditando
– e giurando – vendetta ai teppisti che si erano
permessi di fare
ciò sporcando le sacre mura della biblioteca.
Deturpandole
con una frase, che guarda caso, appartenevano al tomo che aveva
appena sfogliato.
“E
una volta morto, il tuo numero sarà sette”
Ritornata
con un nuovo capitolo! Stavolta è tutto dedicato ad
Aaroniero che
tra l'altro è uno tra i miei espada preferiti (e
sì, lo preferisco
quando NON ha la faccia di Kaien).
Mi
spiace che sia molto corto, ma l'ispirazione è quella che
è,
tuttavia come al solito, ringrazio Yoko_kun e raxilia_running!
Non
è facile essere originali lo ammetto, così come
non è semplice
creare delle introspezioni! Io ci provo, e spero di non fallire tutto
qui.
La
canzone prima del titolo è tratta da “Shot Down in
Flames” ed è
cantata da Melissa Williamson per la colonna sonora di Silent Hill
Origins (e devo dire che la colonna sonora di tale videogame
è per
me fonte di ispirazione continua!)
ps:
il sette se non lo sapete, è il numero di Dio...
pps: il libro maltrattato
trovato da Aaroniero non vi dice nulla? Se avete letto la mia oneshot
"Maybe Interesting" allora dovreste riuscire a fare due più
due! (un piccolo riferimento)
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Capitolo 6 *** La placca della tentazione ***
“Sette mari
Sette sigilli
Sette colli
Sette meraviglie
Sette cieli
Sette peccati...
Allora, il numero sette non ti dice niente?”
“Sì, ma credo che non abbia nulla a che
fare con noi”
[Estratto da un racconto popolare molto in voga tra gli arrancar di
basso livello]
Enjoy the Silence
la placca della tentazione
"Di
la verità, è carina vero?"
"Uhm"
"Sì,
è carina..."
"E
come fai a dirlo se non l'ho detto?"
Per quanto l'irritazione e
la noia giungano sempre in momenti inopportuni, non ci si stanca mai
di ripeterselo.
Avere un fratello è la
cosa più noiosa e controproducente su questo mondo. E lo
stava
appurando a proprie spese anche in quel momento privato.
Ove nessun'altro essere
vivente osava mettere piede per paura di divenire preda del suo
divertimento, Ilfort Grantz si spingeva oltre e andava a toccare
corde delicate. Pizzicandole in modo sbagliato.
Il laboratorio del
fratello era un luogo sacro per lui, un luogo di perdizione e
devozione dove semplicemente la moralità non esisteva.
Un luogo dove il tuo
corpo, o mio caro straniero, era solo uno strumento
di
interesse relativo e di piacere provvisorio. Diventare preda di
orridi esperimenti lì, era come finire nella colla topicida.
Semplice ma al contempo
letale.
Szayel osservava lo
scocciatore di turno dall'alto della sua cattedra, con occhio
decisamente critico.
Con i gomiti appoggiati
sul freddo marmo bianco, e le mani intrecciate di fronte il viso,
scrutava con sguardo indagatore il consanguineo in ombra.
Come in attesa di un suo
passo falso per fargli il culo.
E l'altro, forse intuendo
le intenzioni malevoli del fratello, preferiva restarsene all'ombra
di uno dei tanti macchinari che affollavano il grande laboratorio
dell'Ottava Espada. Sorridendo enigmatico di fronte al dottore
imperscrutabile.
Se era venuto a rompere le
scatole, Aporro gli avrebbe dato sicuramente una lezione in merito.
Ad ogni modo, a quanto pare, ancora una volta doveva congratularsi
con lui per la sfacciataggine che mostrava.
I lineamenti delicati del
volto, erano messi pesantemente in ombra da una grande pompa
idraulica posta proprio dietro le sue eleganti spalle, e questa cosa
dava un senso di “schiacciamento” alla visione che
aveva di
Ilfort.
Sospirò quasi rassegnato
a quella presenza insidiosa, e chinò la testa verso il basso
come a
marcare di più la propria esasperazione.
“Vuoi sapere se l'ho
violentata, pettegolo d'un fratello?”
“Sarebbe precoce al
primo appuntamento. E poi a te piace giocarci con il topo
prima”
Verissima questa cosa, ma
in questo caso non c'era nessun gioco di mezzo. C'era solo la voglia
di piantarla il prima possibile.
Il fatto di aver
trattenuto un sorriso forzato per tutto il tempo della cena –
e la
femmina di questo se ne era accorta – lo aveva stressato e
innervosito ancora di più.
Non era adatto al mestiere
di bambinaia seppur fatto per scopi pseudo scientifici. Ma a quanto
pare, di questo Aizen sama e fratello parevano fregarsene altamente.
Entrambi interessati di più ai retroscena possibilmente
interessanti
e scabrosi.
“Beh mi spiace deluderti
Ilfort, ma non ho altri interessi verso quella bestia
se non
gli ordini che mi sono stati dati... Comprendi?”
Trillò quell'ultima frase
come a volerlo prendere per i fondelli. Con tutta la falsa allegria
che aveva in corpo. Che gli rimaneva in corpo – precisiamo
– dopo
una serata spesa assai male.
L'altro tuttavia chinò la
testa divertito, e per un attimo il volto fu esposto alla fredda luce
della sala.
Un gesto troppo repentino
perchè si potesse scorgere qualcosa di reale, qualche
lineamento di
quel volto fin troppo simile al suo.
Anche se, ad essere
sinceri, la sensazione che il dottore ebbe nell'osservarlo fu di un
gelo momentaneo.
Come se all'improvviso gli
fosse passato davanti un fantasma e lo avesse toccato con il suo
gelido tocco.
Morto e sepolto, ma vivo
nelle parole successive
“E se gli ordini
diventassero più diretti Szayel?
Tu cosa faresti?”
Spingersi così
oltre... Perchè?
Perchè
rischiare di far innervosire qualcuno, lui in questo caso, che non si
sarebbe mai fatto scrupolo di staccarti la testa a bruciapelo? Di
renderti un pezzo di carne da macellare sul posto?
Dio mio, perchè avere
un fratello così?
La
saliva scese giù veloce in gola, facendo muovere il pomo
d'Adamo in
un gesto di deglutizione. Mentre gli occhi si riducevano a due
fessure nell'atto di chiedere, a chi gli stava davanti, una domanda
fondamentale.
Dopo
aver lasciato per più di un minuto buono, che il solo e
unico rumore
della polvere parlasse al posto della sua dolce
voce.
“Mi stai forse
sfidando Ilfort?”
Il tono di voce assunse
connotati quasi cupi nel timbro insolitamente severo.
La domanda venne fatta da
Szayel al fratello che ancora sghignazzava per la risposta di prima.
Bruciapelo e diretta.
E per sua somma
soddisfazione, l'Octava Espada dovette constatare di essere riuscito
a prendere momentaneamente alla sprovvista quel buffone biondo.
Guardando compiaciuto il
breve stupore negli occhi messi in ombra di Ilfort, e vedendo come la
sfacciataggine per un momento scemava.
Ma tuttavia, con grande
disprezzo che conservava nel petto, dovette pure constatare che la
malizia non aveva mai fine.
Osservando attento e
guardingo, il cambiamento d'espressione nell'interpellato che
improvvisamente si fece quasi più perfido. Il tutto
intravedendo un
lampo di follia in quegli occhi non così differenti dai
suoi. Solo
lievemente più scuri e quasi anonimi rispetto all'ambra
accesa che
possedeva lui.
“No fratellino... Ti
stavo solo tentando”
Parole melliflue
influenzate da un altrettanto amabile sorriso maligno. Una strana
perversione che nel maggiore dei Grantz era poco consona. Roba troppo
raffinata per uno che era pronto a buttarsi alla cieca sul nemico.
Tentarlo? Lui? E
perchè?
Queste erano alcune di
quelle stranezze che, come scienziato, affatto capiva. Non capiva
quel tono di voce resosi improvvisamente basso, e non comprendeva
quello sguardo diretto.
Per l'eterna notte
dell'Hueco Mundo... Ma perchè lo aveva fatto entrare?
Non per gesto magnanimo
questo era ovvio, non conosceva generosità alcuna nemmeno
nel caso
di dare una morte indolore verso un nemico.
Sentimenti fraterni?
Sinceramente, sospettava di non averne mai avuti per lui da essere
umano anche se non ricordava affatto, quindi figurarsi ora.
Un
dubbio però, lo trapassò come un fulmine a ciel
sereno.
Ma non è che era già
dentro, quando lui era andato alla porta per sapere chi è
che
bussava?
No, assurdo e poco
probabile. Stronzata unica pensare ciò.
Anche se gli era apparso
alle spalle una volta aperta la porta, sapeva bene che amava farsi
beffe del regolamento usando il sonido ovunque.
Si portò quindi il
pollice e l'indice appena sopra le sottili sopracciglia, per
massaggiarsi le tempie doloranti e cercare così di
stemperare il
nervosismo.
“Tentare... Sì certo,
come no – borbottò l'affranto Espada quasi
disperato per quella
patetica presenza – abbiamo finito per oggi, oppure vuoi che
ti
aggiorni ad ogni puntata?”
“Penso di essere
soddisfatto così fratellino... - Ilfort si spostò
dall'angolo in
ombra e si avviò verso l'uscita - Ma prima che tu mi sbatta
giustamente fuori dalla porta, posso farti un'ultima domanda? Posso
sì?”
Quel tono di voce sembrava
non volere sentire quasi obiezioni. Più che una domanda
pareva una
imposizione bella e buona.
Ma dato che il grande
scienziato di Las Noches non aveva intenzione alcuna di polemizzare
con il fratello, lo lasciò chiedere. Anche se questo quasi
gli costò
la perdita totale della pazienza.
“E sia, chiedi pure!”
“Bene allora – si
schiarì la gola con un secco e teatrale colpo di tosse
– se in un
bosco un albero secolare cade, ma nessuno è lì
presente per
ascoltarlo, ha davvero fatto rumore?!”
Sembrava la domanda più
innocente di questo mondo, oltre che la più stupida e idiota
sempre
di tale mondo.
Cosa doveva fare un albero
caduto lontano dalle orecchie di tutti? Mettersi a cantare?
Seriamente, a cosa stava
pensando quella puttana di sua madre quando stava concependo
quell'idiota di Ilfort?
“Che domanda stupida...”
Sì era stupida. Molto
stupida e molto infantile.
Persino un bambino avrebbe
saputo dare una risposta logica a tale quesito! Ovvero che un albero,
a prescindere dove cade, fa sempre e comunque rumore. Che ci sia
qualcuno ad ascoltare oppure no.
Il demente invece rideva
quasi con sincerità, mentre si portava alla porta e
scompariva
dietro di essa.
Fiducioso della sua
protezione fatta di bronzo e di acciaio. Un elemento così
solido e
così massiccio, che dava anch'esso un senso di
schiacciamento a
tutto l'ambiente circostante.
Un elemento decorativo
che, oltre ad essere meramente funzionale, era un oggetto perfetto
per soffocare le parole.
E quando il fratello
stolto chiuse alle proprie spalle quel possente portone, la risposta
divertita che gli arrivò alle orecchie fu come se fosse
giunta dal
fondo dell'oceano.
“Sì è stupida... Ma
sai, trovo noioso non trovarci risposta!”
Finalmente il nuovo
capitolo! Si ritorna a parlare di Szayel e di Ilfort (ancora).
Come avrete notato, il
testo prima del titolo non è una canzone, ma una mia
semplice
creazione, ma sempre comunque legata ad un qualcosa di specifico se
non lo avete notato!
Ringrazio di cuore
raxilia che ha la pazienza di seguirmi XD, e sì, ho avuto la
tua
stessa intuizione riguardo Aaroniero. Ce lo vedo proprio come
bibliotecario!
Spero che abbiate gradito anche questo capitolo!
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Capitolo 7 *** Il Decaduto ***
E Dio disse a Gabriele:
“Fa quindi ciò che ti dico
Prendi la mia spada, e donala alle anime pie.
Prendi la mia anima, e dalla a chi è penitente.
Infine, getta il mio corpo ormai vuoto nell'Abisso”
[Dalla Genesi Oscura. Biblioteca di Las Noches. Sala dei manoscritti
eretici]
Enjoy
the Silence
il
decaduto
Una volta era stato al
mare.
Lei ce lo aveva
portato – mano nella mano – in una afosa giornata
di agosto
inoltrato.
Per quanto il tempo fosse
sempre bello e soleggiato dentro la Soul Society, vi erano giorni e
periodi in cui proprio non riuscivi a sopportare gli sbalzi di
temperatura.
Il tragitto per questo fu
lungo e faticoso, e non privo anche di pericoli.
Il sentiero sterrato che
si spingeva a sud, passava per luoghi decisamente malfamati, e spesso
la mano femminile che lo guidava si stringeva alla sua per improvvisi
moti di paura.
Ma ne era valsa la pena.
Eccome se ne era valsa la pena.
A distanza di anni, egli
avvertiva ancora la sensazione della sabbia bagnata che scivolava via
da sotto i suoi piedi.
Come a volergli sfuggire,
si andava a ritirare tra le onde schiumose immergendosi negli abissi
più neri. Accompagnata dal rumore sordo dell'acqua e dal
canto dei
gabbiani.
Lei gli chiese che cosa
stesse provando e come si immaginasse tale luogo, e lui le dette una
risposta che la lasciò senza parole.
Il mare, la spiaggia e il
vento che sapeva di salsedine, avevano per lui un aspetto fumoso e
bianco.
Un burrascoso temporale
celeste, che si infrangeva sulla terra distruggendola e rendendola
polvere – la sabbia – e ti avvolgeva col suo vento
freddo e
umido.
Il mare.
Quello era il mare per
Kaname Tousen.
E da allora, a distanza di
più di un secolo, o forse anche di più , aveva
come l'impressione
di essersi inabissato assieme a quella sabbia che un tempo scivolava
via da lui.
Di aver raggiunto le
profondità più remote di quel luogo bianco e
fumoso, e di essere
arrivato sino all'Hueco Mundo. Fino all'abisso dei cieli celesti e
densi di nuvole.
Anche quello fu un viaggio
lungo e non privo di pericoli, forse molto più di quella
improvvisata scampagnata al mare, ma ciò rappresentava la
sua totale
maturità.
Il ragazzo mite e gentile
di un tempo, aveva lasciato il posto a colui che aveva visto
la luce. Che aveva compreso le macchinazioni di un mondo vuoto
e dello sporco che intaccava il suo bianco.
Mutando come muta una
stagione. Dall'estate all'inverno senza passare per le mezze
stagioni.
Ora, in quel momento
mentre osservava gli schermi della sala di sorveglianza del palazzo
sacro, aveva una nuova ragione per rimuginare su suo ruolo in tutta
la faccenda.
Tousen non era uno
stupido.
Tousen, era un uomo che a
suo malgrado aveva visto ciò che forse era meglio non avesse
mai
visto.
Ma che il destino di suo,
ha voluto che accadesse l'incontrario.
Le luci dei vari pannelli
intrisi di diverse immagini e colori, si stagliavano sul suo volto
impassibile e imperscrutabile, mostrandogli scene di vita quotidiana.
Immobile nella sua
ieratica postura, osservava a suo modo le tante formiche che
popolavano il grande formicaio.
Esaminandone una per una
alla ricerca del più piccolo particolare fuori posto.
Arrancar ed Espada non
avevano segreti per lui, così come la loro gerarchia
così cruda ma
al contempo così pulita.
Gli avevano insegnato a
considerare tali bestie creature sbandate da portare sulla retta via,
senza eccezione alcuna.
Dopotutto, bisogna
mantenere l'ordine per contenere un degno equilibrio.
Ma se non comprendi
l'Hueco Mundo sino in fondo, se non capisci cosa significa quella sua
sabbia e quella sua volta celeste priva di stelle, allora non capisci
dove sta il punto di rottura di tale equilibrio.
Lui non era più
semplicemente Kaname Tousen, del Gotei tredici. Lui ora era la
giustizia, o perlomeno il suo portavoce ufficiale.
Come l'Arcangelo Gabriele,
spada alla mano difendeva i fondamentali principi che Dio gli
dettava.
In suo nome avrebbe
abbattuto i nemici e le anime stolte che non avevano compreso la sua
parola, e nell'ingiustizia di essere annientate, avrebbero compreso
la giustizia dell'atto.
Passò ancora in rassegna
quegli schermi variopinti e significativi, stando ben attento alle
vibrazioni elettriche che i vari impianti mandavano silenziosi.
Per lui, più della vista
contavano tutti gli altri sensi. In particolare la percezione di
eventi solo in apparenza significativi come il volo di una zanzara.
Bastò solo un momentaneo
disturbo ad uno dei monitor quindi, solo un breve sfrigolamento come
se mancasse per un momento il segnale, che bastò per
attirare la sua
attenzione.
Il volto severo si portò
in modo impercettibile verso quella piccola e insignificante
anomalia, e la esaminò con il suo modo di fare unico e
infallibile.
Aizen non lo aveva
reclutato a se solo perchè la sua tecnica illusoria non
aveva
sortito alcun effetto, ma lo aveva scelto per quella sua anima pura e
inattaccabile.
Conscia del marcio che la
circondava. E di essere in grado di comprenderne a che livello era.
Per questo, proprio per
questa sua incedibile abilità, fece qualcosa che
reputò giusto
fare.
Si portò lontano con lo
sguardo da quegli strumenti di luce, e portò il volto verso
il buio
della stanza.
In particolar modo in un
angolo sperduto dove persino un occhio attento avrebbe fatto fatica a
vedere. Parlando con voce atona alla creatura che dimorava in
quell'anfratto.
“Wonderwice?”
Dall'angolo in ombra, un
sottile mugugno si levò assieme ai lineamenti facciali di
quello che
era un semplice ragazzino, e due occhi ametista – in
apparenza
apatici – si posarono sulla rigida figura.
Creatura dotata di vista a
differenza dell'ex capitano, ma praticamente incapace di comunicare
vocalmente con qualcuno. Se non a modo suo proprio come l'Arcangelo
che aveva di fronte ovviamente.
“Gradirei che d'ora in
avanti, tu cercassi di passare il più inosservato
possibile,
intesi?”
Uno strano ordine che,
però, il giovane ragazzino rannicchiato atterra accolse con
medesimo
entusiasmo.
Emettendo un altro lamento
disinteressato, e posando lo sguardo altrove in quella perenne
oscurità.
Ma comunque perfettamente
consapevole delle parole dettate.
Avrebbe eseguito gli
ordini, anche se non comprendeva affatto quello che il padrone
intendeva dire con “passare inosservato”.
O meglio, forse non
capiva...
Perchè
se non comprendi quel purgatorio senza Dio fino in fondo, se non ne
comprendi la sua reale esistenza, allora non hai capito proprio
nulla.
A sorpresa vado a
parlare di Kaname Tousen.
E credo di essere una
delle poche persone ad apprezzare questo personaggio anche dopo il
suo tradimento alla Soul Society.
Non capisco il motivo
di tanto odio nei suoi confronti, ma come ho già spiegato
Tousen non
è uno sbandato, ma ha i suoi validi motivi per le scelte
fatte.
Ringrazio di cuore
ancora una volta raxilia_running e Yoko_kun mie fedeli lettrici ^^
(purtroppo vado di
fretta, ma la citazione prima del titolo, è sempre una mia
creazione. Tenetela a mente per il futuro)
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Capitolo 8 *** Lode alla Bestia ***
“Morite tutti!
Maledetti umani!”
[Un essere umano rivolto ai suoi simili durante una guerra]
Enjoy the Silence
Lode alla bestia.
Sapeva che al mondo
migliaia di persone erano morte per la libertà.
Sapeva tra l'altro, che la
sua decisione era quasi un pugno in faccia a tutte quelle povere
vittime.
Ma Orihime, ora come
adesso, provava un certo astio verso quella abusatissima
parola.
Per quanto l'agognata
libertà che attendeva con impazienza fosse arrivata a
portata di
mano, il fatto che fosse stata decretata dai suoi carcerieri non le
andava a genio.
Di più, Aizen stesso
l'aveva convocata nelle proprie stanze per discutere di questa
bizzarra decisione.
Invitandola a prendere un
tè caldo come tra vecchi amici, le aveva esposto la proposta
come se
nulla fosse.
“Inoue, se desideri
lasciare le tue stanze basta solo chiederlo”
Aggiunse lui, portandosi
alle labbra la superficie liscia della tazza di ceramica, assaporando
come un professionista il liquido al suo interno.
Lasciandola interdetta e
congelata nella sua postura. Era sicura che la spina dorsale le si
fosse pietrificata dentro le carni. Che il sangue avesse messo di
fluire nelle sue vene, paralizzandola dal freddo.
Come una lucertola
incapace di raggiungere l'ardente sole, e di rimanere così
ferma
nell'ombra.
“Non vuoi assaporare
un po' di libertà Orihime?”
Il tono era tranquillo e
allo stesso tempo pericoloso.
Sapeva alla perfezione
ormai, che quell'uomo era tutto fuorché gentile. Che quel
sorriso
equivaleva ad una menzogna, e che per tale motivo era fuori posto in
quel luogo.
Non c'era posto
all'ipocrisia e alle maschere in un posto come lo
era il mondo
vuoto.
Per lei, Aizen, era
come la bestia dentro la cattedrale.
Era un eretico che
predicava ai fedeli, che li conduceva ove le anime pie non osavano
andare.
Un gran sacerdote che
praticamente le aveva imposto di poter gironzolare per il castello.
Di osservarne la vita e di osservare come le formiche al suo interno
vivevano.
E alla sua domanda
innocente – tra l'altro anche molto impulsiva – lui
si limitò a
fare un qualcosa che stranamente la terrorizzò nel profondo.
“Non si preoccupa che
io possa scappare?”
A quelle semplici parole
di Inoue, solo il silenzio attutito della sala giunse come risposta.
Assieme al sorriso del
padrone di casa, mentre si limitava semplicemente a a posare la tazza
sul tavolo lucido.
Provocando un rumore
freddo e distaccato. L'equivalente di un “no” secco.
Si era spaventata, e forse
fu questo a renderla disgustata da quella – chiamiamola
così –
proposta.
Aveva detestato le mura
grigiastre della sua umile stanza, ma ora si doveva ricredere ed
incominciare ad amarle.
Strana la vita, ti
accorgi sempre quando ormai è troppo tardi di aver perso
qualcosa di
importante...
Ma tra i tanti pensieri
che affollavano la sua testa, era decisamente il caso che pensasse
solo a se stessa. Perchè se avesse davvero
iniziato a
pensare, sarebbe di certo impazzita e il gioco della conta sarebbe
andato a puttane. Come già altre volte si era ampliamene
detta.
Ripetersi era noioso, ma
non ci si stancava mai.
A costo di apparire
spregevole agli occhi del mondo, sarebbe diventata egoista
come mai lo era stata prima.
E neppure il tizio che le
stava davanti avrebbe potuto farci niente.
Come ciliegina sulla torta
infatti, ad esasperarle quel nuovo giorno ci aveva pensato l'Espada
di nome Szayel Aporro.
Che per nulla intimorito
dall'egoismo della giovane, se ne rimaneva seduto sullo scanno a
guardarla falsamente divertito.
Con le gambe incrociate, e
le mani che tamburellavano sulla sua cartellina di plastica lucida,
la guardava quasi in tono derisorio.
Proprio lei che, stesa
come una matrona sul suo triclinio, se ne rimaneva comoda e zitta sul
proprio divano.
Scrutandolo ferma come una
padrona di casa con il servo.
Un braccio appoggiato su
di un bracciolo, e l'altro disteso su un fianco rilassato, la faceva
apparire quasi ad una divinità greca da tanto che era
austera e
severa.
Tuttavia, lo scocciatore
non sembrava per nulla intimorito da quella visione, ne tanto meno
dalla sua patetica decisione.
Ossia quella di non uscire
da lì, neppure di due centimetri fuori dalla porta.
Gli ordini di Aizen sama,
per lui – e per tutti sia chiaro – venivano prima
di qualunque
altra cosa. Prima della cocciutaggine di una ragazzina viziata.
Quella femmina doveva
andarsene fuori da lì. Doveva uscire da quelle quattro mura
opache e
opprimenti, e respirare dell'aria più pura che non fosse
quella
viziata che inalava lui ora.
Un misto di polvere
sottile e di colazione consumata in fretta. Dell'odore della sua
pelle fattosi abbastanza intenso per non essersi cambiata d'abito
alla mattina, rimanendo con quello della sera precedente.
Ciò non era sgradevole
per le sue narici, dato che lui non emetteva odore a prescindere,
poiché quello che sentiva era profumo di vita umana. Profumo
di
nostalgia.
Di fottuta e inutile vita
umana.
Di vita che scorre sotto
quella pelle, di sangue caldo che si muove costante pompato da un
cuore forte e giovane.
Nascosto – celato – da
centimetri di stoffa sintetica, e da due tette
enormi e
soffici. Che si alzano e si abbassano ogni qual volta inspira ed
espira.
Tentandolo, di un
sentimento alquanto noioso.
Noioso, quanto le parole
di suo fratello Ilfort. Che insidiose e viscide, gli ritornavano in
mente proprio in quel preciso istante di pensieri confusi.
“Ti sto solo tentando
fratellino” o qualcosa di simile a tale frase aveva detto.
La tentazione in un
pensiero malsano, gli equivale il smorzare un sorriso falso e di
renderlo quasi un ghigno perplesso.
Che si tramuta quasi in
sconcerto quando avverte uno strano gelo sul lato sinistro di dove
è
seduto, e per un momento congiunge quel freddo al fratello lontano.
Strano che pensi a lui in
quel preciso momento, strano che uno scienziato abbia un attimo di
dubbio e quasi di smarrimento. Che seppur effimero quasi lo manda nel
panico.
Gli pare persino di
avvertire la voce di Ilfort, mentre ancora una volta gli sussurra
all'orecchio quella frase fatta. Quelle parole dettati da una oscura
ignoranza.
Poi quella voce fredda, si
sostituisce a qualcosa di ben diverso e più agghiacciante se
possibile da spiegare. Qualcosa come due dita che, lentamente, e
sinuose, si infilavano nel suo orecchio sinistro con estrema
facilità.
Superando il timpano,
superando le ossa fino ad andargli ad intaccare il cervello come un
pensiero sporco.
Sporco e cattivo. Freddo e
poco piacevole.
Un lato decisamente
irritante ed influenzabile della sua personalità.
Scacciò quelle nere
sensazioni e il ricordo dell'odiato fratello, con un movimento delle
spalle che solo appena era la dimostrazione di un effimero –
ma
grande – disagio.
Riscosso anche dalle
tiepide parole della femmina umana che, dimostrando ancora una certa
fermezza, non voleva mettere in atto gli ordini imposti.
Quasi andando, per giunta,
a ringraziarla personalmente di aver bloccato il suo sudore freddo.
“Glielo dico ancora, non
ho intenzione di lasciare la mia stanza. Preferisco rimanere
qui”
Pacata ma seria, aveva
tutta l'idea di volersene rimanere lì a vegetare per tutta
la
giornata.
Quelli però, non erano i
programmi della giornata, e lui aveva altro lavoro da svolgere oltre
che starsene seduto su quella scomoda pietra a far finta di essere
felice.
Di tutta risposta quindi,
fece schioccare le labbra per scandire meglio il suo ammonimento.
“Sei davvero sicura di
ciò che dici? Sai... potresti anche rimpiangerlo”
“Ah sì? E se non
accetto che mi succede?”
Stava diventando arrogante
pur di nascondere la propria paura, un particolare che non lo
lasciò
indifferente.
“Beh... Se non accetti,
potrei violentarti”
Più che la parola in se,
fu il modo in cui la pronunciò che lasciò Orihime
interdetta.
Le iridi d'argento si
spalancarono improvvise, e il respiro si bloccò nel petto
procurandole dolore.
In una parola era
spaventata. Ora era spaventata a morte.
Il tono di voce
dell'individuo, era ancora una volta allegro e – in apparenza
–
naturale. E fu proprio per la naturalità con cui disse
quelle
terrificanti parole, che la lasciò di pietra.
“Lei non... non
può...”
A malincuore si ritrovava
a balbettare, mentre il volto le si faceva scuro tra l'indignazione e
la paura che reprimeva a stento.
Ma come risposta non
ricevette altre frasi ingiuriose, ne tanto meno sorrisi beffardi.
Solo un silenzio prolungato e l'espressione di lui che si faceva
seria e truce. Scolpita nel marmo dalla cattiveria.
Le fischiavano le orecchie
da tanto che c'era silenzio. E più si prolungava,
più la gola le si
seccava e il cuore le andava in panne.
“Calmati” si disse
mentalmente, ma poco ci mancò che si mise pure ad urlare.
Inavvertitamente infatti,
l'Espada, cogliendola di sorpresa, si era alzato in piedi dal
semplice scanno di pietra con sorprendente velocità.
Con indosso uno sguardo
deciso simile a quello di un macellaio che recide il collo al
vitello.
Non fece neppure un passo
verso di lei, non l'additò, e nemmeno protese le braccia
come a
volersi fiondare per acciuffarla.
L'istinto si mosse prima
di ogni altra cosa nella femmina, e abbandonata la postura rilassata
assunta in precedenza, era scattata in piedi come ad un ordine.
Scattò in avanti con
un'agilità che nemmeno sapeva di possedere, portandosi
dietro il
bracciolo a mo di protezione. Stringendo tra le dita quel tessuto
bianco e ignorando i muscoli doloranti per lo sforzo improvviso.
Complice un'adrenalina da
far invidia ad un atleta.
“Che vuole fare?!!”
Ora la voce le tremava e i
muscoli delle gambe tremavano da tanto che erano duri. Sentiva la
paura andare a mille, ma non voleva mostrarla in nessun modo a
quell'essere immondo.
Che ancora la osservava
come un assassino con la vittima.
Scuro in volto.
Occhi d'agata luminosi e
folli oltre quelle lenti eleganti.
Un sorriso, che scemò la
tensione che aveva imposto.
Un cambiamento improvviso
che lei di principio non capì.
Le labbra che gli si
arricciavano fino a mostrare i bianchi denti, e lo sguardo che
tornava languido e strafottente come prima.
Solo quando lo vide
passarsi la lingua sui denti, capì che cosa volesse
realmente da
lei.
“Visto Orihime, che
con le buone si ottiene sempre tutto?”
Una farsa...
una fottuta farsa e lei ci
era cascata in pieno.
Ci era caduta come una
bamboccia delle medie, e questo le dette fastidio non poco.
Perchè
essere presa in giro in quel modo, in quella condizione poco umana in
cui viveva di persona e di pensiero, era oltremodo umiliante e
ingiusta.
Uno scherzo che tuttavia,
ancora non lo sapeva, l'avrebbe portata fuori dalla sua gabbia.
Ritorno con il capitolo
otto, e una piccolissima citazione.
La frase detta lassù,
benchè sia molto comune in tanti libri, film ed ecc, mi
è giunta
questa volta dal film District9. E benchè venga urlata in un
momento
di concitazione, è interessante chi l'abbia urlata.
Per il resto, ancora
grazie a Yoko_kun e raxilia_running.
In effetti Tousen è
molto criticato per il concetto che ha di giustizia, ma io l'ho
apprezzo perchè comunque non mi sembra
“ipocrita”.
È abbastanza complesso
come personaggio, e purtroppo molto sottovalutato a mio avviso.
Ci si sente al prossimo
aggiornamento gente! Spero abbiate apprezzato pure questo capitolo!
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Capitolo 9 *** Padre Padrone ***
“Qualcuno
potrebbe dire
Desidero
avere indietro i miei giorni
Non
è possibile
E
se è questo il prezzo da pagare
Qualcuno
dirà
Domani
è un altro giorno
Resta.
Posso anche pagare”
[Frase
scritta sulla
parete di una grotta da Nnoitra Jilga, le motivazioni restano ignote]
Enjoy
the Silence
Padre
Padrone
Parole.
Questo sconosciuto.
Gli esseri umani erano
nati con il dono della parola ma, a quanto pare, non sapevano fare un
buon uso di questo preziosissimo dono.
Per loro, era solo un
mezzo di comunicazione come tanti, un espediente per raggiungere i
propri obbiettivi naturali.
Cambiano le basi, ma i
fabbisogni bisogna pur raggiungerli in qualche modo.
Riproduzione, nutrizione,
bisogni fisici e anche comunicativi quando se ne ha bisogno.
Il brutto della “parola”
è che ci puoi scatenare una guerra se non la sai dosare bene.
E lui, Nnoitra Jilga, di
parole usate a sproposito ne sapeva qualcosa.
La sua lunga lingua
tatuata – recante oggigiorno il numero cinque, a
simboleggiare il
suo rango tra gli Espada – era spesso più
tagliente e letale della
sua falce a mezzaluna.
Ma una falce può mozzare
una testa, mentre la lingua, con annessa parola, solo l'orgoglio ed
eventuali sentimenti.
Forse da vivo, doveva aver
spezzato il cuore a molte giovani fanciulle. Forse in vita, aveva
deluso un genitore.
Infamando e infamandosi.
Riempiendosi la bocca di
sabbia e lasciandola seccare al sole pur di non ammettere nulla.
Volendo piuttosto una morte che non arrivava mai.
Ora, che in quel momento
non stava facendo nulla di interessante nel proprio regno, si
limitava a starsene su quel bianco sasso – trovato quasi per
caso
nel suo girovagare – seduto come una lucertola a prendere il
sole.
Fermo e immobile, teneva
la bocca aperta lasciando che il secco vento del deserto gli
disidratasse la gola e le tonsille.
Come a desiderare di non
volere più che le parole uscissero dalla sua bocca sporca.
La lingua a tratti, la
tirava fuori e la articolava come il tentacolo di una piovra.
Cercando di catturare e saggiare l'aria anormale di quel luogo.
Un deserto di norma doveva
essere bollente di giorno, e freddo la sera. Ma lì le parti
si
invertivano, e ti ritrovavi a rabbrividire il giorno e ad ansimare
per il troppo caldo la sera.
Di un gelo fine che, però,
era più interno che esterno. Di una calura allucinante che
era
generata più dal proprio buco,
e non dalle sabbie riarse dal sole.
Ma qui appunto le cose
erano quasi invertite, oppure erano semplicemente difficili da
spiegare.
Ciò che accadeva nel
mondo vuoto infatti, non era fatto per essere capito. Era
così e
basta, punto.
Ed esattamente come il
mondo che calpestava con i suoi rigidi calzari, lo stesso Jilga non
era fatto per essere capito.
O lo si odiava, oppure lo
si rincuorava come si poteva.
Ma in entrambi i casi, si
sarebbe incontrata un'ostica resistenza e parecchi
“vaffanculo”.
A quel pensiero schietto e
sporco quanto lui, l'occhio buono si spostò automaticamente
verso la
destra.
Ove un artificiale rumore
di sabbie smosse, attirava pigramente la sua attenzione.
Scattò la mascella con un
colpo secco, e fece schioccare all'interno del palato la lingua
apparentemente lunghissima. Osservando senza reale interesse, chi
stava disturbando la sua meditazione.
Poco più in là da dove
si trovava lui adesso infatti, un Tesla frustrato e
annoiato,
dava calci ad una sabbia grigia e inespressiva. Fredda e sterile come
i pensieri del suo attuale signore.
Scaricando in tal modo
pensieri onesti per gesti ricevuti tutt'altro che gentili.
Ora che Nnoitra ci
pensava, la Tercea Espada tempo addietro, gli aveva suggerito che
forse era il caso di portare un po' più di rispetto verso il
proprio
fedele servitore. Che forse non era propriamente giusto rimproverarlo
per ogni singola azione che compiva.
Lui l'aveva mandata
bellamente a cagare e lei se ne era rimasta zitta.
Un rapporto tra Espada e
Fracctiòn, è come quello tra un padre
e un figlio.
Non va disturbato in nessun modo, a meno che non sia Dio stesso a
dire “fermati”.
E dato che al dio
dell'Hueco Mundo non importava nulla di ciò che i suoi figli
acquisiti compivano, lui se ne infischiava bellamente dei diritti di
un servo.
Doveva ammetterlo però,
se il ragazzo si stava sfogando in modo così brutale verso
quella
povera sabbia, era solo per colpa sua e per il suo caratteraccio.
Poco prima di dover
assistere a quella scenata quasi infantile, aveva fermato sul nascere
un passatempo genuino di quel povero coglione.
Rimembrando quel piccolo
fatto avvenuto poco prima, gli venne naturale schioccare la lingua
per il disgusto e l'indignazione provata.
[…]
Quella mattina il sole del
deserto splendeva più feroce e freddo del solito.
L'aria secca era
insolitamente tiepida anziché gelida, e questo poteva
presagire che
si sarebbe vista una tempesta di sabbia da li a poche ore.
Tuttavia, quell'oscuro
presagio, non faceva demordere il giovane arrancar che –
seduto su
di un bianco sasso – si gustava la lettura di un'opera
impegnata.
Era un giovane che forse,
contando il suo aspetto, non doveva andare oltre le venti stagioni di
vita. Ma chi era più avvezzo nell'incontrare spiriti e
simili, gli
avrebbe dato molti più anni.
Tuttavia, il peso degli
anni non aggravavano sulle sue spalle, e il suo occhio attento
–
l'altro era coperto da una inutile benda
– scrutava le fitte
righe di quelle vecchie pagine stampate.
Era un tomo prezioso e di
inestimabile valore, ed era riuscito a sottrarlo alla biblioteca del
castello con tutte le raccomandazioni del caso.
La Novena Espada, visti i
recenti atti di vandalismo, fu un po' reticente a darglielo. Ma non
era tanto la sfiducia che riponeva nella giovane Fracctiòn,
quanto
per il suo sire sbandato. Capace di tutto.
Tesla comunque, ebbe la
meglio e ora si godeva un libro che da sempre lo attirava.
Guerra e Pace.
Un classico tra i classici
della letteratura umana, ma che possedeva comunque un suo fascino
particolare e che a lui interessava.
Tesla non aveva molto
tempo libero a sua disposizione, e quel poco che aveva se lo
sfruttava così. Leggendo anziché andare a caccia
di hollow di bassa
lega. Un atteggiamento consono a pochi arrancar che riuscivano a
reprimere istinti omicidi.
Nnoitra sama era uno di
quegli individui che mal sopportavano leggere o starsene tranquilli.
E guarda la beffa del
destino, l'ombra del suo signore si stagliò improvvisa e
maligna sul
libro che stava leggendo.
Alzò di scatto lo
sguardo, e voltandosi verso la propria destra incontrò
l'allampanata
figura del suo sire.
La Quinta Espada lo
osservava con sguardo apatico e senza una reale emozione che lo
dominasse. In quel momento era come se stesse guardando una formica
solitaria, anziché il proprio servitore.
Tale considerazione
tuttavia, non passò per l'anticamera del cervello del
ragazzo, dato
che si ritrovò presto in lieve imbarazzo a causa della roca
domanda
di Nnoitra.
“Che cosa stai
facendo?!”
Non c'era reale emozione
nella domanda fatta, e deglutendo, il giovane servitore rispose.
“Ecco io... – sorrise
timidamente mostrandogli la copertina del libro – stavo
leggendo
questo nell'attesa di nuovi ordini e...”
“Perchè?”
La nuova domanda
dell'Espada, anche se fatta ancora una volta con tono piatto e
sguardo inespressivo, bloccò per un attimo il ragazzo.
Che imbarazzato cercò di
stemperare la tensione con un altro sorriso.
“Ecco, la trovo una cosa
interessante! Un buon libro aiuta a tenere la mente allenata, a
sfruttare l'immaginazione e...”
Una improvvisa folata
di vento, gli strappò letteralmente di mano quel
tomo prezioso.
Facendolo cadere a un
metro e mezzo da lui su quella sabbia riarsa e crudele. Lasciandolo
totalmente sconvolto e e sorpreso da ciò che era successo.
Senza dire una parola, e
senza neppure lasciarlo finire di parlare, Jilga aveva dato un calcio
a quel “rotolo di carta igienica ammuffito”
strappandolo
letteralmente di mano alla propria Fracctiòn.
Il libro andò quasi ad
inabissarsi nelle sabbie grigiastre, riempiendo le pagine di sabbia e
forse anche rovinandolo del tutto.
E nel silenzio teso di
quel gesto – apparentemente – cattivo, l'Espada
colse il
nervosismo crescente del giovane Tesla. Indispettito per
quell'ennesimo gesto prepotente fatto senza emozione alcuna.
Un nervosismo che
trapelava alla perfezione dalle parole successive a quei lunghi
secondi di silenzio.
“Perchè lo ha fatto?”
Teneva lo sguardo verso il
libro, e non osservava il proprio sire come in realtà
avrebbe dovuto
fare.
La domanda venne tenuta a
tono basso, ma questo non toglieva che fosse deluso ancora una volta
da lui.
Nnoitra con tutta
sincerità, fece una lieve smorfia facciale e si
allontanò
pigramente da lui. Portandosi verso la falce a mezza luna piantata in
una duna li vicino, e sbadigliando cavernosamente. Tanto sapeva alla
perfezione che quel coglione non avrebbe mosso un dito verso di lui.
Quella sua fottuta lealtà
lo portava ad ubbidirgli nonostante atteggiamenti del genere. Ma
ciononostante non si era mai approfittato della situazione.
Preferendo lasciarlo fare
dato che era sempre e comunque un ragazzo. Bacchettarlo sì,
ma non
accanirsi.
Di conseguenza, una volta
riappropriatosi della propria arma immersa nella sabbia,
biascicò la
sua risposta definitiva. Senza neppure degnarsi di guardarlo in
volto.
“I libri sono roba da
checche”
[…]
Ora che ci pensava, Tesla
aveva lanciato anche una seconda obiezione.
Più che altro una mezza
supplica sul fatto che, Aaroniero, lo avrebbe fatto sicuramente a
pezzi se non avesse riportato indietro quel prezioso libro.
Lui aveva ancora una volta
ignorato quelle parole pacate – ma tese – e aveva
dato il suo
giudizio.
“Non è affar mio”
Poche semplici parole per
porre fine alla polemica. E se il fanciullo non voleva beccarsi uno
sberlone dal padre padrone, era meglio se se ne
rimanesse
zitto.
Quindi ecco che i ruoli si
erano scambiati.
Ecco che ora era lui a
sedersi su quel bianco masso levigato da secoli di intemperie, e il
fedele vassallo intento a distrarsi come poteva.
Il libro sempre lì in
bella vista come a ricordargli come i gesti siano più rozzi
delle
parole.
Un piccolo oggetto
inanimato che però, lo stava fortemente irritando. Lo stava
giudicando in silenzio, e pareva dirgli “poverino”
per tutta la
disperazione che si portava.
Che si fotta quel
libro, e che si fotta pure chi prova compassione per lui.
Stanco quindi di quella
situazione noiosa, decise di alzarsi in piedi facendo solo leva sulle
lunghe gambe.
Stiracchiandosi e
borbottando per la pigrizia che aveva in corpo.
Stavolta si voltò per
bene verso lo schiavo stolto, e lo osservò chiaramente
calciare
sabbia e sassolini in un gioco che prevedeva, in apparenza, di vedere
quale cadesse più lontano da tutti.
I piccoli frammenti di
calcare bianco, rotolavano via leggeri per le venature della sabbia
come a voler sfuggire da quei colpi tremendi.
Una mera conseguenza di un
uso totalmente sbagliato della parola.
“Ehi tu!”
Stavolta non utilizzò un
tono di voce roca, ma quello suo solito e deciso. Autoritario che non
ammetteva repliche.
E come volevasi
dimostrare, Tesla smise in un attimo di svagarsi in un gioco inutile,
per portarsi ad osservare l'Espada con sguardo interrogativo, ma
prudente al contempo.
Parole?
Gentilezza?
Cose sconosciute nel
vocabolario di Nnoitra Jilga.
Per lui esistevano solo la
cruda realtà dei fatti e i gesti manuali. Le parole erano
devianti
ed erano spesso armi a doppio taglio. Impossibile anche solo chiedere
“scusa” con una parola, poiché si
rischia di apparire falsi e
ipocriti.
Il servitore in fin dei
conti sapeva anche di questa sua opinione, anche se era difficile da
capire alle volte. Ma ciò non tolse, che seguì
anche quei nuovi
ordini senza fiatare.
Perchè la lealtà verso
una persona disperata, è un indiscutibile credo.
“Dai vieni... Andiamo a
caccia. Almeno diventi virile e non fai la donnicciola”
Parole, questo
sconosciuto.
Capitolo tutto dedicato
a Nnoitra Jilga, e alla sua Fracctiòn Tesla. E al rapporto
che c'è
tra i due.
Diciamoci la verità,
sono entrambi dei personaggi bistrattati dal fandom di mezzo mondo o
quasi.
Preda di pregiudizi e
cliché che li vogliono uno un bastardo senza motivo, l'altro
fanatico e alla stregua di un uke masochista.
Niente di più
sbagliato a mio avviso, ciò che lega Tesla al proprio sire,
è la
lealtà e l'onore. Aggravata anche dalla mistificazione di
morte che
lo simboleggia, ossia la disperazione.
Va bene, ho parlato
anche troppo. Spero abbiate apprezzato anche questo capitolo!
Alla prossima.
Ps: La canzone prima del titolo è dei Police, ed il titolo è Walking on the Moon.
|
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Capitolo 10 *** Vergine Nera ***
“Ma
quella chi è?”
“Quella è
Lilith”
“Chi?!”
“La prima
moglie di Adamo.
Sta in
guardia dai suoi bei capelli, da quello splendore che è solo
la
veste.
Fai che
abbia avvinto un giovane con quelli.
E ce ne
vuole prima che lo lasci.”
[Una delle tante
descrizioni di Incubadora, in un racconto popolare
trascritto su carta.
Biblioteca di Las Noches]
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the Silence
Vergine
Nera
L'indifferenza.
Una delle armi peggiori
creati dalla umanità.
Un istinto primordiale
infallibile, che ti porta in automatico ad ignorare l'esistenza di un
determinato elemento o fatto.
Inoue Orihime aveva sempre
trovato l'indifferenza come una piaga sociale.
Un qualcosa di squallido
che era nato con lo scopo di evitare il prossimo. Se tale prossimo
avesse portato degli aspetti e atteggiamenti diversi da quelli di
buona parte dell'umanità.
Una reazione istintiva che
si perdeva nei primordi del genere umano.
Che per sopravvivere,
spesso si ignorava il compagno morente e si proseguiva oltre.
A discapito di quello che
avrebbero pensato i suoi amici, ora lei cercava di sfruttare la tanto
odiata indifferenza.
Un po' se ne vergognava,
ma dopo quell'ennesima dimostrazione avvenuta nelle sue stanze,
quell'uomo le faceva ancora più schifo.
L'aveva indotta con una
subdola minaccia, a lasciare la poltrona per andare in giro per mezzo
castello. E quelle parole dettate con tanta tranquillità, le
davano
ancora i brividi e la nausea contemporaneamente.
Di conseguenza cercava di
tenere le distanze da lui il più possibile.
Cercando di camminare
prima lentamente per stargli dietro – ma poi lui si fermava
per
aspettarla, con tanto di sorriso beffardo – a cercare di
distanziarlo in orizzontale, ma anche in questi casi era tutto
perfettamente inutile.
Se provava ad
allontanarsi, lui tornava a trotterellarle vicino con un modo di fare
che le dava la nausea.
La sua angoscia era
misurabile come il rumore dei passi che li precedevano per quegli
ambienti vuoti ed enormi.
Rombi di tuono che si
perdevano in un abisso apparentemente eterno, ti inghiottivano con le
loro fauci nere e ti lasciavano il freddo addosso.
Non pensando a questi
particolari comunque, doveva ammettere un paio di cose.
Non si sarebbe mai
aspettata un castello così ben organizzato. Aveva pensato
che fosse
composto da grandi sale spoglie e lunghi corridoi semi bui, ma si
sbagliava.
A modo suo la reggia era
viva e ricca di ambienti.
Le vennero mostrate le
cucine, che benché non fossero colme di confusione come
quelle della
Terra, non erano abbandonate a loro stesse. E almeno un paio di
inservienti pulivano e facevano bollire strani intrugli.
I bagni, di uno splendore
immacolato e freddo. A parte qualche basso sgabello di legno messo in
modo ordinato negli angoli, e qualche mensola con sapone, l'ambiente
era vuoto eccezion fatta per dei tubi flessibili in ghisa che
corrispondevano alle docce.
La privacy tra di loro,
almeno per l'igiene personale, non esisteva.
Sorprendente tra l'altro
di vedere qualche servo intento a pulire i corridoi e le stanze che
si affacciavano su di essi. Devoti alle loro faccende, smettevano di
passare lo straccio solo quando li vedevano passare.
Inchinandosi profondamente
davanti all'Octava Espada, che gli ignorava bellamente.
Continuando a camminare
avanti e sorridendo con scherno alla fanciulla. Solo a lei
indirizzava il suo sguardo ambrato, e lo faceva con somma
soddisfazione.
Quindi Orihime, si sentì
quasi in obbligo a salutare velocemente lei quei poveri paria.
Piegando rigidamente il
capo quasi con imbarazzo, nell'atto di ricambiare l'inchino di ogni
servitore che incontrava. Suscitando in loro una silenziosa
perplessità.
Da parte di Szayel Aporro
Grantz, solo appunti da trascrivere sul suo taccuino di plastica
rigida. E sorriderle vizioso per nascondere una certa
ilarità.
“Questa poi... Non me
l'aspettavo!”
“Impressionata? Beh,
te lo concedo. Nessuno può rimanere indifferente a questa
visione”
E in effetti era vero, per
una volta quella viscida creatura aveva ragione.
Perchè una volta superati
gli infiniti corridoi e stanze di quel palazzo dimenticato, si
giungeva in un posto altrettanto grande ma colmo di... Libri!
Proprio di questo si
trattavano, di libri riposti in un vasto numero di scaffali, in una
biblioteca altrettanto grande e maestosa.
La grande sala principale
era da mozzare il fiato, quando il suo accompagnatore aveva aperto
–
apparentemente senza sforzo – il grande portone di metallo,
fu
quasi come aprire le porte del paradiso.
Gli ambienti erano
incredibilmente bianchi e puri, il pavimento era così lucido
che ci
si poteva persino specchiare. Così perfetto che non sembrava
neppure
composto da piastrelle, ma bensì da un unico blocco di marmo
bianco.
Osservandolo meglio
inoltre, l'ambiente era suddiviso in due piani. Il primo al piano
terra componeva la grande hall di ingresso, dall'aspetto circolare
idealizzato anche dalla disposizione degli scaffali.
Il secondo invece, lo si
raggiungeva attraverso due rampe di scale in marmo, che si univano
alla fine al ballatoio principale.
Ballatoio che seguiva in
un abbraccio bianco tutta la sala, e in quel muro perfetto, in ogni
sua nicchia erano presenti libri e libri.
Al centro del ballatoio
poi, addossato contro il muro, ad Inoue parve di intravedere la tela
di un grande quadro. Ma essendo molto in alto, stando da terra non
riusciva che a vedere solo la cornice dorata dall'inconfondibile
stile barocco.
Se avesse voluto osservare
meglio quel dipinto, avrebbe dovuto avvicinarsi meglio.
Intanto Aporro, lasciando
che per almeno i primi secondi la femmina si gustasse quell'ambiente
davvero niente male, ritornò alla carica riportandola alla
realtà.
Il tour del castello non
era ancora finito, c'era ben altro da vedere.
Le sfiorò quindi, con
gesto sfacciato, i lunghi capelli lasciati liberi sulle spalle. In un
gesto teatrale che trasudava malizia.
Riportandola in men che
non si dica alla realtà.
Il volto della femmina
parlava chiaro, era stata colta alla sprovvista e il suo sguardo era
un misto tra sorpresa e rabbia. Anche se quest'ultima emozione era in
forma assai repressa.
“Dobbiamo andare mia
cara...”
fece lui con voce bassa.
Voleva convincerla a tutti i costi, e per farlo c'era solo il metodo
delle minacce. Velate, ma pur sempre minacce.
Con somma soddisfazione la
vide deglutire e irrigidirsi maggiormente.
Vide come il grosso seno
che aveva davanti al torace, smettesse per un breve attimo di alzarsi
ed abbassarsi, per poi tornare a riprendere a respirare con
più
calma.
Quello che non calcolò
purtroppo, fu l'inattesa risposta della ragazza.
“N-no... Voglio restare
ancora un po' qua”
Era quasi un filo di voce,
ma era un filo di voce dallo sguardo deciso, cosa che lo
meravigliò
tantissimo.
“Cosa?!”
Il suo tono di voce
rasentava quello di un uomo perplesso e divertito al contempo.
Il suo sguardo si fece
allegramente indagatore, mentre dentro il proprio essere spegneva un
moto di grandissima irritazione.
Aveva programmato quella
giornata con calcoli matematici ben precisi, non dovevano sgarrare
sulla tabella di marcia, dato che lui aveva il suo vero
lavoro
da sbrigare.
Tuttavia quella dannata
stupida, sembrava intenzionata a rimanere. E benché fosse
evidente
che si sarebbe mangiata le dita per quell'improvvisa cocciutaggine,
si allontanò da lui con passi incerti verso una delle rampe
di scale
presenti.
“Io... Voglio vedere
questo luogo”
Disse lei con tono
incerto, rivolgendosi di scorcio all'uomo il cui sorriso beffardo
moriva lentamente sul volto. Continuando comunque a camminare, verso
le scale di marmo, ed iniziare a risalirle come a volersi distanziare
da un mostro sanguinario.
Non si voltò neppure una
volta mentre saliva quella rampa maestosa, non voleva ritrovarsi a
sussultare dalla paura per avercelo magari a due centimetri di
distanza.
Aveva la possibilità di
un'ora “d'aria” e la voleva sfruttare tutta. A
partire dal
deliziarsi del rumore dei propri passi su quella superficie perfetta.
Un rumore decisamente più delicato rispetto a quello che li
precedevano nei corridoi del castello. Più
tranquillo ecco.
Poi arrivata in cima,
quasi prendendo lo slancio finale, si ritrovò finalmente al
piano
superiore. Che altri non era che una seconda versione dell'atrio, ma
senza rampe di scale in fondo alla sala.
A sostituire le scale
gloriose, vi era un quadro altrettanto maestoso.
Strano, quando era al
piano di sotto le era parso che la sala soprastante non fosse
così
larga, dato che comunque una parte del dipinto riusciva a vederla.
Mentre ora, era
decisamente troppo lontano anche solo per essere intravisto dal
portone di ingresso. Almeno in teoria.
Dopo una breve perplessità
iniziale, si ricordò come la simmetria e la prospettiva
nell'Hueco
Mundo spesso cambiava. E ciò che ti appariva vicino, in
realtà era
lontano. In un continuo miraggio che il più delle volte era
letale.
Questa volta però,
sembrava che non ci fosse nessun gioco di prospettiva, e il grande
quadro era li che attendeva di essere visto.
L'Octava Espada non le
aveva detto che si trovavano dei dipinti in quel luogo, ne tanto meno
lei si immaginava potessero esserci. Non si immaginava neppure la
biblioteca se era per questo.
Dava per scontato molte
cose, come quello che gli Arrancar non potessero avere una cultura
loro. Ma a quanto pare doveva ricredersi, e doveva ricredersi anche
sul gusto dell'arte.
Forse.
Perchè più si avvicinava
a quel dipinto, quasi attirata da una calamita come se la creatura
rappresentata la stesse chiamando, e più scorgeva dettagli
assurdi.
Che potevano sfociare nel
grottesco e nel cupo.
Davanti ai suoi occhi
dilatati, dopo aver camminato su di un lungo tappeto rosso che
portava sino a li – come un fiume di sangue rosso generato da
quel
dipinto – che Inoue vide la fonte di quel cupo sussurro che
la
incitava ad avvicinarsi.
Una donna.
Una donna dalle fattezze
incredibilmente femminili ed umane, troneggiava superba e leggiadra
in un cupo paesaggio.
La pelle lattea e glabra,
resa ancora più luminosa dalla volontà del
pittore di irradiarla (o
quasi) di luce divina, le donava un aspetto angelico nonostante la
sua palese nudità totale.
Il corpo era rilassato in
un atteggiamento leggiadro nell'atto di camminare sul sentiero cupo e
sporco, e le braccia protese in un accennato
“abbraccio” come a
simboleggiare maggiormente il senso di beatitudine che doveva dare.
Beatitudine espressa anche
da un volto sereno e rilassato, il cui enigmatico sorriso faceva
riflettere.
Il volto inclinato
leggermente di lato come una Madonna in preghiera, nell'atto comunque
di volersi lanciare nel vuoto, era un qualcosa di assurdo da
descrivere.
E i lunghi capelli rossi,
cupi, che aleggiavano delicati e dolci come se fossero stati in
acqua, ricordavano tanto i suoi. Tanto che in automatico, si
portò
la mano ad una ciocca come a rassicurarsi che si stesse sbagliando.
Un gesto che trasudava inquietudine, per non dire di paura vera.
Perchè le pennellate
decise ma comunque dettagliate, persino nel mostrare le ciglia rosse
della sacra vergine nera,
parevano essere state fatte con lo scopo di mettere paura.
Tutto quel senso di
beatitudine però, ad Inoue dava quasi il voltastomaco dalla paura
appunto.
Poiché oltre quella donna
apparentemente pura, vi era un paesaggio fatto di cupe colline e di
cieli plumbei.
Dalle pennellate grezze
che sembravano quasi incisioni su pietra, e dai colori così
cupi che
solo guardandoci attentamente si riuscivano a scorgere i più
significativi dettagli.
Orihime trasalì, e sentì
l'impulso di stringere le mani nella stoffa della gonna.
Quelle colline... Quelle
colline erano fatte di cadaveri purulenti.
Di Hollow massacrati e
sventrati, e poi accatastati in colline di un colore così
cupo che a
stento si riusciva ad intravedere il rosso del sangue.
Pallidi occhi che avevano
conosciuto solo la morte, si spegnevano al passaggio di quel demone
dall'aspetto gentile.
“Ma chi...Chi è
costei?”
Una voce lapidaria e un
sussulto smorzato. E il cuore di Inoue si fermò per cinque
secondi
esatti per lo spavento provato.
“Quella è
Incubadora...”
L'istinto la portò in
automatico ad abbandonare quell'analisi sofferta del dipinto, e
voltarsi velocemente verso chi aveva parlato spezzando l'attutito
silenzio di quel luogo enorme.
Ciò che vide la lasciò
senza parole.
Non vi era l'uomo chiamato
Aporro ad osservarla con il suo solito ghigno, ma una creatura
– se
possibile – più inquietante e strana.
Forse la più strana che
avesse incontrato a palazzo.
Le dita lunghe e sottili
dell'individuo, tenevano ben salde un libro antico e dallo spessore
notevole.
Le sue vesti parevano
quelle di un principe vanitoso, e oltre la lunga maschera calata sul
viso, non riusciva a scorgere nulla.
Ma era sicura, che la sua
voce più che essere camuffata da quell'ingombrante elmo di
ceramica,
sembrava provenire dalle remote profondità dell'oceano.
Raccapricciante.
“Ehm... Come scusi?”
La domanda venne fatta con
educazione nonostante la voce sottile e quasi spaventata, ma quello
non ci fece caso e lasciò che il silenzio si antepose a lui
mentre
si avvicinava cauto alla creatura femminile. Prima di affiancarla ed
osservare assieme a lei il sacro dipinto.
“La femmina che vedi
raffigurata in questo dipinto, è chiamata da tutti noi con
l'appellativo di Incubadora. E per quanto rasenti il fantastico, la
sua storia ha dell'incredibile”
Aveva una voce piatta e
apparentemente cupa. Tuttavia era sicura che quell'individuo poco
prima, avesse avuto una voce leggermente diversa. Forse si sbagliava,
stava magari diventando paranoica, ma tutto quello che
riuscì a dire
a quell'essere, fu solo un cenno del capo per invitarlo a proseguire
nella narrazione.
Un desiderio non reale
certo, ma meglio che starsene zitta con lo sguardo da pesce lesso e
fare una figura di merda.
“Sai, si dice che in
tempi remoti ella fu la prima Hollow a raggiungere l'Hueco Mundo. E
fu anche la prima creatura ad evolversi in Gillian ed Adjucas in
seguito. Diventando una Arrancar gloriosa e potente...”
Pareva ammirato nel
descrivere quelle sue ipotetiche gesta. Come se stesse parlando del
primo essere umano ad aver camminato sulla terra.
Tanto che persino Inoue,
perplessa, voltò il capo verso il dipinto per osservarlo
meglio.
“A... allora perché si
chiama con quel nome?”
un silenzio prima, e una
cupa risata divertita poi la raggiunsero a risposta.
L'elmo bianco si girò
appena verso di lei, quasi come se la volesse deridere, prima di
ritornare a fissare estasiato e a parlare.
“Vedi... Quando
iniziarono a sopraggiungere in questo luogo altri Hollow, lei in
automatico li divorava tutti – si
fermò un istante per
osservare la reazione della femmina e poi continuò
soddisfatto –
uno ad uno, persino le creature più potenti, finivano nel
suo ventre
mai sazio. Ed ella crebbe e fu temuta in ogni dimensione esistente.
Tuttavia...”
“Tuttavia...?” incalzò
lei esasperata dal silenzio crescente.
E la risposta venne data
lapidaria e crudele.
“... Tuttavia, il suo
ventre fu la causa della sua caduta. Ella infatti, scoppiò
sotto il peso delle tante anime divorate – scrutò
attentamente lo
sguardo dell'umana prima di tornare a parlare – e da quel
parto
mostruoso, la leggenda vuole che nacquero i primi Vasto Lorde. In
pratica, quella creatura fu l'incubatrice di
qualcosa di ben
più raffinato di un semplice Hollow o di un altrettanto
stupido
Menos Grande. Per molti di noi insomma, è paragonabile ad
una Santa
Madre...”
Raccapricciante.
Decisamente
raccapricciante.
Come potessero queste
creature paragonare una creatura così terrificante ad un
qualcosa di
divino, Orihime non se ne capacitava.
Questa Incubadora non
aveva nulla di sacro. Nulla che riconducesse a qualcosa di etereo o
divino che sia.
Era solo una bestia
che aveva manipolato gli eventi e la vita di molte povere creature. O
meglio, aveva negato loro un'esistenza
già disgraziata.
Inglobandoli con il proprio essere, fino ad essere punita per la
propria ingordigia.
Ingordigia? Sai, si
chiama solitudine in realtà, e non ti è poi tanto
differente
questa... “bestia”.
Inoue
captò una voce.
La sentì, e i suoi occhi
si sbarrarono di sorpresa mista a terrore viscerale. Le pupille le si
dilatarono dallo spavento, e il sangue gelò nelle vene, a
quella
voce che pareva venirle nella testa ma che in realtà, non
era stata
generata da essa.
Questa era follia, ne era
certa. E il gesto di portarsi una mano verso il volto, come a voler
capire se era ancora nel mondo dei vivi, non passò
inosservato al
misterioso bibliotecario.
Che la osservò curioso e
guardingo per quello strano comportamento.
Tuttavia, prima ancora che
potesse poggiare una mano sulla spalla della fanciulla, per
riscuoterla da quel torpore fuori stagione, una voce ben conosciuta
lo bloccò sul nascere.
“Aaroniero
Arruruerie suppongo...”
La voce dalla
cadenza melliflua era nota a tutti, non di meno a lui. E voltando
lievemente il capo, si accorse della presenza di un Arrancar nei
pressi delle scale.
“Supponi bene,
Szayel Aporro Grantz”
Non vi era
sentimento alcuno da parte della Novena Espada, nel pronunciare il
nome di un suo commilitone superiore a lui di un solo posto.
Ma lo sguardo
dell'Octava Espada rimaneva severo e rigido, mentre con tono
autoritario richiamava a se la femmina umana.
Che senza neppure
pensarci due volte, abbandonò quella macabra visione ancora
parzialmente sconvolta. E deglutendo porse un lieve inchino al tutore
in segno di scuse.
Nessuna parola da
parte del Grantz.
Ne verso la giovane
femmina indisciplinata – cui cinse delicatamente le spalle
con un
braccio come ad invitarla a scendere – ne tanto meno al
bibliotecario bizzarro. Che ricevette una semplice occhiata severa da
parte dello scienziato mentre si allontanava con la sua pupilla.
Tuttavia Aaroniero
conosceva bene quello che passava per la testa di Aporro, e sapeva
bene che considerava una simile leggenda un mare di
“spazzatura
incoerente”.
Ma questo suo
pensiero, invece di farlo imbestialire, non fece altro che farlo
sorridere cupamente. Mentre deliziato tornava ad osservare la chicca
della sua biblioteca.
“Sembra che
abbiamo fatto colpo, eh mia cara?”
Ritornata con il
decimo capitolo! Persino più lungo del solito XD!
Comunque, il
pezzo prima del titolo non è un testo di una canzone, ma un
estratto
da un libro.
Ossia il “Faust”
di Goethe.
Dovete tra
l'altro sapere, che Lilith, secondo le antiche leggende, sarebbe
stata la prima moglie di Adamo. Che ripudiò il marito
perché
categoricamente si rifiutava di essere soggiogata a lui, rifugiandosi
sulle rive del Mar Rosso dando origine ad una infinita stirpe di
demoni, dopo essersi accoppiata con altrettante creature demoniache.
È anche
rappresentata come il demone principale delle tempeste e dei venti.
Seduttrice e divoratrice di uomini. Solo agli inizi del novecento
è
stata rivalutata e diventò, in seguito, l'icona femminista
della
donna indipendente.
Ringrazio
vivamente Yoko_kun e raxilia_running per le loro recensioni e il loro
appoggio ^^
Spero abbiate
apprezzato anche questo capitolo!
|
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Capitolo 11 *** Argo dai cento occhi ***
“La sabbia del deserto è fastidiosa.
Per favore, tienimi dentro la prossima volta!”
[Una strana nota presente sulla copertina del libro “Guerra e
Pace”,
rinvenuto da Aaroniero Arruruerie
sopra la propria scrivania.
Non è la grafia di Tesla]
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the Silence
Argo
dai cento occhi
Zommari Leroux non era un
individuo che amava parlare molto.
Preferiva starsene zitto,
ed osservare il mondo che continuava a girargli intorno. E vedere
come gli altri individui reagivano alle stimolazioni e ai discorsi.
In pratica, lo si poteva
benissimo classificare come un buon osservatore.
Il miglior pregio di una
creatura in vita, e arma vincente per coloro che in vita non sono
più.
Aveva infatti, speso molti
dei suoi anni di creatura rinnegata ad osservare il mondo che lo
circondava.
Il volto delle persone che
amò – e divorò – misto con la
sabbia che andava dritta negli
occhi, continuavano a perseguitarlo anche in quella nuova atroce
esistenza. Arrivando a toccare a tratti il suo pensiero, senza
però
in apparenza scalfirlo.
Erano come un granello per
ogni occhio che possedeva, e invece di perdere gradi, la sua vista
aumentava.
Egli era come l'Argo
dai cento occhi di cui leggeva le gesta
descritte su di un
antico libro ingiallito – che stava leggendo in quell'istante
preciso – e per ogni occhio che possedeva, osservava attento
il
mondo che lo circondava.
Non vi era un suo solo
occhio d'agata che non scrutasse attento ciò che accadeva
nella
grande sala, e benché stesse osservando una scena piuttosto
interessante e chiassosa, il libro che aveva in
mano era
comunque osservato con attenzione. Anche se i suoi due freddi
occhi non erano puntati su quelle pagine datate.
La leggenda dell'Argo dai
cento occhi, creatura favorita dalla dea Era, si ripeteva per
l'ennesima volta su quelle pagine che sapevano di antico.
Di lettere scritte in un
stampatello così fitto, che non sembravano neppure leggibili.
Pagine che si muovevano da
sole come mosse dalla gelida brezza creatasi tra le grandi colonne
della biblioteca, sembravano non suscitare interesse in lui, il cui
freddo sguardo era posato ben oltre quelle antiche parole.
Ma lui le leggeva tutte,
così come leggeva le labbra e gesti di chi nella hall, stava
profanando un luogo sacro. Incubadora dall'alto del suo antro,
osservava anch'essa la misteriosa entrata in scena di chi, per un
amaro scherzo del destino, portava con se il peso di numeri pesanti e
bizzarri.
Il sei che se ne
rimaneva ai piedi delle scale, guardava il sette
con un certo
rammarico, mentre a passi leggeri varcava la soglia dell'inferno.
Lui in tutte queste
complicate letture, sapeva vedere una linea ben precisa.
Vedeva cose nello sguardo
spaventato della femmina, che neppure l'egoista bibliotecario che ora
l'affiancava sapeva vedere. Così attaccato agli oggetti
materiali,
da non comprendere l'importanza delle anime che tali cose
possedevano.
Poi ancora, ai suoi occhi
impassibili tocca decifrare una nuova visione.
Il sette teme la visione
di chi è caduto, di chi si è autodistrutto nel
tempo, il sei invece
– raggiunta la creatura – reclama il suo ritorno di
senno.
Attendendo ai piedi del fiume rosso fatto di morbido velluto, che una
fanciulla spaurita ritorni all'ovile.
È come essere ad un
teatro dove gli attori, in abiti bianchi e semplici, mimano i gesti
anziché descriverli. E invece di portare maschere finte
fatte di
porcellana, ne portano di vere e profonde.
Di quasi umane si
poteva aggiungere.
Un rumore cupo di libri
caduti tuttavia, lo portò a spostare gli occhi fissi sulla
scena, di
lato a dove il suono era stato prodotto.
Tanto che girò
impercettibilmente il volto scuro verso sinistra, sapendo
già che la
fonte del suono proveniva dalle proprie spalle.
“Oops... Mi spiace”
Una voce sottile e
androgina di fanciullo, lo raggiunse con riservatezza e rammarico per
la propria sbadataggine. Mentre chinandosi a terra, raccoglieva i
libri scivolati giù dallo scaffale che visionava con
maldestra mano.
Hans era un
ragazzino un po' distratto e sognatore, ma era la sua fidata
Fracctiòn nonché l'unica che possedeva.
Anche se più che di
padrone e servo, era lecito additarli come maestro e allievo.
Zommari non amava avere
tra i piedi stupidi servitori, e quel ragazzino dai capelli
cortissimi e avvolto in un largo poncho bianco, poneva più
domande
di quante se ne vedeva ricevere.
Dalle più profonde
domande sull'animo umano, ai quesiti più semplici in
assoluto, la
Septima Espada rispondeva all'allievo con altrettante domande. Che
avevano l'obbligo di farlo ragionare e aiutarlo a trovare la risposta
da solo.
Proprio come lui aveva
fatto per tutti quegli anni di noioso purgatorio.
Il fanciullo una volta
raccattati e sistemati i volumi caduti, si scusò con il
proprio sire
inchinandosi profondamente dispiaciuto.
Scusandosi ancora per
quell'interruzione involontaria di riflessioni, mormorando questa
volta un rammaricato “Lord Zommari”.
Al sire tuttavia, le scuse
non importavano affatto. Conscio ormai che aveva speso sin troppo
tempo in quel tempio del sapere, era ormai giunto il momento di
allontanarsi da li.
Ciò che aveva osservato
con tanta analisi profonda e contorta, era ormai alle battute finali
della sua pantomima.
Ora il sette e il sei,
avvolti nei loro candidi abiti teatrali, si allontanavano guardinghi
dalla figura spettrale incantatrice di falsi miti.
Un usurpatore che si beava
di leggende infamanti verso chi ancora non aveva concluso
la
propria storia, spacciandole per cruda realtà. Creatura che
non
aveva ancora terminato il proprio circolo vitale.
Deciso infine ad
allontanarsi da quel luogo, porse una sola domanda al proprio timido
e fedele servo.
“Trovato nulla di
interessante?”
Alla cupa domanda
dell'Espada, la giovane Fracctiòn si irrigidì
ulteriormente,
estraendo dal largo poncho entrambe le mani, con l'intento di
mostrare il piccolo libro che aveva deciso di prendere con se.
Se questo è un uomo.
Un libro di recente
creazione, e non si trattava del commento sul libro stampato in se
–
prima copia del libro – ma degli avvenimenti storici che lo
riguardavano.
“Sei sicuro?” Volle
ancora sapere.
Conoscendo il fanciullo,
doveva sospettare che non era una scelta banale quella che aveva
effettuato. E questo lo constatò in un barlume di sicurezza
nei suoi
grandi occhi castani.
“Sicurissimo signore”
Osservò con sguardo di
ghiaccio la timida determinazione del giovane, e si disse che anche
per quel giorno, era arrivato il momento di porre fine all'ennesima
dipartita dell'Argo infallibile.
Morto ormai per cento
volte di seguito da tante che erano le volte che aveva letto di quel
mito.
Un mostro maestoso che
seppur morto, venne innalzato dalla dea Madre a sua fedele creatura
simbolica.
E lui esattamente come
quella creatura, di occhi ne possedeva tanti.
“Molto bene,
andiamocene via”
- - - - - - - - - - - -
- - - - - - - - - -
Assonnato
da quella lunga giornata piena di imprevisti, Aporro Grantz riusciva
a stento a tenere gli occhi aperti.
Nella pesante ombra della
stanza della femmina, sbadigliava cavernosamente, ed era costretto a
massaggiarsi gli occhi gonfi di continuo per cercare di mantenere la
mente lucida.
Avevano fatto un bel tour
lui e lei... Ma non avevano visto nulla del castello, da tanto che
era ampio e pieno di sorprese.
È vero, la biblioteca era
vasta, ed era tutta da esplorare, ma lo avrebbero fatto in un secondo
tempo. Lo avrebbero fatto con calma.
Non che quella cretina si
allontanasse da lui per capriccio, e si ritrovasse in mani meno
raccomandabili.
Quasi sicuramente
Aaroniero l'aveva spaventata raccontandogli la favola di
quell'inutile creatura. E lei come una scema a caderci come una mosca
nel miele!
Sbuffò seccato, e
accavallò ancora una volta le gambe sullo scomodo scanno di
pietra
su cui sedeva.
Era assurda tutta questa
situazione. Era assurdo che lui dovesse fare da balia ad una
così.
Era assurdo – ripeto – che si credesse a fantasie
prive di
fondamento concreto.
Era assurdo che Orihime,
assomigliasse vagamente a Incubadora.
“Ma se le somiglia
tanto perchè gliene fai una colpa? Si chiamano coincidenze
queste
cose”
Una
voce improvvisa in quella stanza buia e carica di silenzio, fece a
momenti perdere la cartella di mano all'Octava Espada per la sorpresa
provata.
Si
ritrovò a sussultare, e per una frazione di secondo il suo
pensiero
andò alla spada nel fodero.
Poi si
rilassò immediatamente, capendo che a parlare era stato
quell'idiota
di suo fratello.
Si
rilassò visibilmente e le pupille ritornarono a dilatarsi
nel buio
della stanza, susseguite poi da un sospiro che pareva uno sbuffo
seccato.
“Sei
stanco mio caro fratello?”
Ilfort
dalla porta di ingresso, contemplava le spalle dell'Espada –
intento ad osservare il comodo divano in stoffa bianca che aveva
dinnanzi – che parve come al solito indisposto ad
accontentare le
domande del fratello minore.
“Non
sto neanche li a risponderti Ilfort. Mi seccherei inutilmente la
gola”
Il
dottore si sarebbe aspettato quantomeno una risata divertita e
ingenua da parte del consanguineo, ma tale risata o tal risposta
sprezzante non giunse alle sue orecchie stanche.
Ciò
che giunse invece, furono i rumori di passi leggeri ma decisi, che si
avvicinavano a lui piuttosto velocemente.
Szayel
maledì quell'entrata in scena improvvisa, e roteò
gli occhi per
l'ennesima seccatura che doveva sopportare. Rivolgendogli una mera
occhiata di scorcio quando se lo trovò di lato.
Era
seccante anche solo dover alzare lo sguardo per potergli vedere... La
faccia coperta da una mano?
Il
dottore battè le palpebre perplesso vedendo come il fratello
si
tenesse il lato destro del volto, impedendogli così di
vedergli il
viso.
Quello
tuttavia, ignorò l'occhiata indagatrice dell'Octava Espada
continuando a fissare il candido giacilo improvvisato, e l'ospite che
comodamente intratteneva.
“Sta
dormendo vero?”
La
femmina dopo quel tour stressante, aveva espresso la volontà
di
mettersi a stendere per rilassarsi un po' gli occhi. E Aporro dato
che ancora non aveva ancora finito il tempo a disposizione per starle
dietro – rigido come il ghiaccio di fronte alle proprie tappe
–
decise di rimanere anche lui in attesa che passasse anche l'ultima
ora. Prima di ritirarsi nel laboratorio a compilare il rapporto.
“Si...
sta dormendo, abbassa la voce! E poi... Ehi! Dammi retta! Che hai
fatto alla faccia?”
Non
ottenne immediata risposta, ma vide come le dita della sua mano,
vibrarono lievemente sulla fronte, come profondamente innervosito da
ciò che gli era successo.
“Che
carina... Sembra più serena così
addormentata”
“Ilfort...
Vuoi rispondermi o no?!”
Un
gelo improvviso riempì la stanza e il suo immediato silenzio
dopo le
parole dell'Espada. Dopo che la sua lingua – spesso lasciva
–
aveva articolato quelle dure frasi bisbigliate ad un parente fin
troppo distante.
Ci
impiegò trenta secondi esatti Ilfort, a rispondere ad un
fratello il
cui pensiero sempre più nervoso, stava correndo velocemente
alla
spada.
A
costo di vedere quella faccia – oh si –
avrebbe amputato
quella mano incollata al viso.
“Una
caccia andata un po' male fratello... Ho un graffio ancora fresco
sulla guancia destra, e non voglio che tu lo veda”
Sennò
magari ti avrei rimproverato, pensò bene o male Szayel.
Di
certo comunque, doveva essere stato un incidente che aveva nel
profondo ferito il suo lato narcisista, e per questo doveva avere i
nervi a fior di pelle.
Ma
quello non era ne il luogo, ne il posto giusto per iniziare a fare
frecciatine, quindi era il caso che se ne andasse.
“Senti
Ilfort... – Aporro sbuffò per l'ennesima volta
spazientito prima
di parlare ancora – se hai quel graffio allora vai in
infermeria a
fartelo curare! A meno che tu non debba dirmi qualcosa di importante.
Il che lo dubito”
Il suo
tono era velenoso anche a causa di una spossante stanchezza, doveva
stendere il rapporto e poi consegnarlo ad Aizen sama. E come riposo
aveva giusto qualche ora.
Decisamente
troppo poco anche per uno scienziato del suo calibro.
Pertanto,
intuendo che effettivamente il fratello era giunto li per dare noie
–
magari per molestare un po' entrambi – sospirando sincero
Ilfort si
allontanò da li.
Allontanandosi
a passi più lenti verso l'uscita della stanza, senza essere
seguito
dallo sguardo stanco e acido del fratello minore.
Purtroppo
per Aporro, il suo consanguineo si lasciò scappare un
commento
proprio sull'uscio della porta, esattamente poco prima di sparire
sfruttando il sonido.
“Ah...
Comunque se hai intenzione di portarla fuori domani, evita di
allontanarti troppo. Gli Hollow negli ultimi tempi, sono decisamente
in fermento”
Poi si
chiuse le porte alle spalle quasi con malinconia.
Le
chiuse, senza tenere conto della mezza protesta dell'Espada che non
fece neppure in tempo di dirgli “fermati”.
Perchè le sue parole
furono sin da subito poco chiare e sibilline.
Ritrovandosi
quindi a digrignare i denti dal nervoso e tornare a fissare la bella
addormentata che, ignara di tutto, continuava a dormire beata
sognando di essere libera.
Come faceva a sapere
quel cretino, che l'indomani l'avrebbe portata fuori?
Dopo
tanto ritorno con l'undicesimo capitolo.
È
stata dura a causa di Zommari che trovo assai difficile da gestire.
Ingiustamente
bistrattato dal fandom, e poco considerato perchè “poco
ffaigo”
come direbbero alcune.
La
frase prima del titolo non è una citazione, quindi non devo
lasciare
crediti. La fracctiòn che si vede con Zommari invece,
è un mio
personaggio originale. Niente di più, niente di meno.
Via
con lo spazio recensioni!
raxilia_running:
Carissima! Sai che mi fa sempre piacere ricevere le tue recensioni.
Sempre così dettagliate che è un piacere
leggerle. Ci hai preso con
la fonte del dipinto. È un misto tra gli impressionisti, le
vergini
pre-raffaelite e anche art neavu. E pensa che la base per la posa di
Incubadora, era di una fanart di Orihime decisamente inquietante...
Senboo:
non mi aspettavo che la mia storia ti avesse coinvolto in tal modo,
ma non sei l'unica a cui piacciono i libri come filo conduttore (e
nel mio caso, amo anche le opere artistiche come filo conduttore)!
Felicissima di averti fatto rivalutare Nnoitra, un personaggio che a
mio avviso è maltratto e trattato superficialmente, proprio
come
Aporro e Aaroniero (che come avrai notato NON sopporto con la faccia
di Kaien). Poi si, sono sicura che tanto bestie gli arrancar non lo
sono. E per tale motivo ho creato loro una cultura un po' plausibile.
Yoko_kun:
ancora una volta grazie ^^, sono contenta che la storia ti
coinvolga così. Per le recensioni purtroppo c'è
poco da fare XD. Ma
mi accontento delle vostre, che sono intelligenti e non mi fanno
venire i brividi ù_ù
|
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Capitolo 12 *** Nel budello della storia ***
Dalla messa
primordiale
Lascia
che il caos prezioso si sfoghi
La
carne sacra immersa nella fornicazione
Amata
da Set
Possano
i venti raccoglierla insieme
Dai
segreti degli uomini
Dopo
migliaia di anni di terrificante silenzio
Lei
arriva di nuovo
[Una antica profezia
pagana sul presunto ritorno in terra di Ershigal.
Nient'altro che una
leggenda trascritta su carta]
Enjoy the Silence
Nel budello della storia
…Gli uomini valorosi
non combattono per loro stessi.
Essi scolpiscono nelle
loro anime il nome della lealtà, e si spingono fino nelle
viscere
della terra in cerca di vera fede.
Occhi divini, e cuori
di pietra, che in nome del vero credo avanzo nel budello di metallo
degli inferi, in cerca di tesoro nero e leggiadro.
Dolci farfalle di anima
cupa, nascevano – scherzo del destino – in fondo
all'abisso delle
anime reiette.
Putride creature
portate all'inferno per espiare le loro pene, a cui loro –
saggi
Shinigami – dovevano guardarsi dal disturbare
inavvertitamente.
I neri soldati,
avanzavano nella ruggine e nel sudiciume di una passerella larga due
piedi, tenendo solide nelle loro mani di ferma tenuta, le casse per
la raccolta delle creature tanto care a loro.
Recipienti in vimini
intrecciato, di raffinati gambi di grano proveniente dall'est del
Rokungai rozzo e contadino. Il capitano che giungeva dal Seritei e
gloriosa guida dell'undicesima divisone – prode guerriero di
primo
sangue – guidava i suoi uomini alla cattura dei fragili
messaggeri,
affinché...
Saltò velocemente un paio
di pagine, interrompendo improvvisamente la lettura e con essa anche
una noia evidente.
Quel libro Kaname Tousen
lo aveva sempre odiato, troppo pomposo e troppo complicato nella
lettura. E la versione che stava leggendo ora in
biblioteca,
era la più semplice e riadattata che esistesse.
Le sue dita scorrevano sui
solchi incisi nella carta pergamena di ogni pagina, decifrando
così
il codice braille e scoprendo ogni frase e lettere che ne arricchiva
il contenuto.
Ciò che gli interessava
non era nella descrizione dei cunicoli infernali in cui i soldati
camminavano.
Delle grate metalliche che
sotto i loro passi cigolavano paurosamente, e di come sotto di esse
ci fosse il prodotto di scarto della lavorazione dei dannati.
Oscuri umori pergolati
dalle pareti lisce e inclinate, che finivano poi dritti sotto quei
corridoi infiniti e corrotti.
Si, conosceva già quella
parte. Forse il viaggio agli inferi per rifornirsi di farfalle
infernali, era il pezzo più interessante di tutta
quell'epopea
lagnosa e paradossale.
Nonché l'unica che
rispecchiasse la realtà delle cose.
Quello che leggeva alla
fine, era un piccolo pezzo di storia della Soul Society. Di come da
secoli – se non da sempre – quelli dell'undicesima
e tredicesima
divisione, in drappelli di otto soldati e due luogotenenti (o in
questo caso addirittura un capitano), si apprestavano ogni anno ad
addentrarsi nel regno oscuro e raccogliere i suoi strani frutti.
Cosa strana era che
leggiadre bestiole venissero da un ventre ignobile.
Un patto tra inferno e
paradiso, ed uno dei pochi che quei bifolchi rispettavano. Nella
quasi eterna caccia agli Hollow, spesso gli Akuma
se ne
guardavano altamente di contribuire alla cattura. Limitandosi ad
aspettare che altri facessero quel lavoro sporco, ben indaffarati a
pensare alle anime che giungevano nei budelli infernali per dar retta
all'arroganza dei celestiali soldati.
Arroganza contro
arroganza, in un unico sentimento umano che accomunava le due
fazioni.
Sfogliò ancora quelle
vecchie pagine che sembravano essere state realizzate solo per lui, e
dopo poco trovò il pezzo che gli interessava.
La scena della “sala del
Buddha felice”, che era forse il vademecum più
ricco e
soddisfacente – ma non totalitario – sull'inferno e
sugli
abitanti di quel regno.
E giunsero infine nel
regno del Buddha felice.
Tosto il luogotenente
accanto al suo capitano, decretò come quel luogo fosse
blasfemo e
tutt'altro che felice.
Di gioia non ve ne era
alcuna, non vi erano fanciulle pronte ad accoglierli con ghirlande di
rose e di grano intrecciato. Neppure musici che intonassero loro
qualche motivetto allegro.
Vi era quiete serena in
un ambiente che riecheggiava di un suono graffiato.
Tousen ad una rapida
conclusione tratta dal codice, trasse tutta la descrizione del luogo
in quella noiosa trasposizione su carta.
Gli Shinigami giunsero
infine, dopo aver risalito scale infinite e
corridoi
purulenti, nell'unico ambiente a loro consentito di raggiungere di
tutto l'inferno.
Oltre le titaniche porte
raffiguranti un ancestrale demone infernale, oltre ai loro sguardi
ormai sfiniti, si aprì un luogo totalmente diverso da come
se lo
aspettavano. Almeno per quanto riguardava chi era nuovo di quei
viaggi, il capitano dell'undicesima, era già stato in quei
luoghi.
La sala era di proporzioni
titaniche. Di pianta circolare, era ricavata dalla roccia scolpita in
modo fine ed elaborato.
L'ampio tetto a cupola,
finiva con un foro circolare enorme. Grande quanto quello presente a
terra, da cui filtrava una timida luce lunare che donava
serenità in
quel luogo che sapeva di... Sogno nostalgico e nebbioso,
se si
prendeva la descrizione letterale del testo.
Una sala che somigliava
molto al Pantheon per quanto riguardava la sua struttura
architettonica, eccezion fatta per quel medesimo foro circolare
intagliato nella pietra, da cui proveniva un olezzo
nauseabondo e
raccapricciante.
Era come se tutti gli
umori e le interiora presenti sotto forma di fluido nero nei
corridoi, fosse giunto fino a li grazie ad un sistema di irrigazione
scavato direttamente nella roccia.
Come tante ramificazioni
di vasi sanguigni, i piccoli canali di scolo solcavano quel pavimento
fino a riversare i loro contenuti innominabili nel grande calderone
oscuro.
Il cui fondo era
ignoto, e l'oscurità era prospera.
L'ambiente, oltre ad
essere saturo del puzzo di interiora e sangue, echeggiava di una
musica malinconica proveniente da un grammofono posto sul ciglio del
calderone, assieme ad una discreta catasta di vecchi dischi in
vinile.
Tousen lesse attentamente
ogni complicata parola incisa nella carta, e dedusse cosa potesse
essere tale musica.
Era il suono di una tromba
malinconica quello, un po' sgraziata dal tempo, ma che dava uno
strano fascino a quella sala che di eretico possedeva il nome e tutto
l'ambiente.
All'ex capitano della Soul
Society, sinceramente gli andava poco di complicarsi la vita con
quelle difficili descrizioni. Per questo preferiva semplificarsi la
vita con quelle semplicistiche traduzioni.
Pertanto, preferì
descrivere quell'ambiente con parole proprie, deducendo che in
quell'ambiente, vi fossero particolari quasi fuori luogo per l'epoca
in cui era stata trascritta l'opera.
Oppure l'autore aveva uno
stile troppo ricercato.
Oltre al grande pozzo
centrale, l'autore si perdeva in descrizioni minuziose e complesse
per quanto riguardava la statua del Buddha felice, che dava il nome a
tutta la sala.
L'altare era qualcosa di
innominabile. La pietra era distrutta e della struttura originaria si
vedeva ben poco.
Molti detriti di grigia
pietra erano rovinati a terra come se a spaccarli fosse stato il
pugno di un gigante.
In realtà, era più la
statua del Buddha stesso ad essere stata scagliata a forte
velocità
verso quell'altare di pietra.
Essa infatti, come
lanciata giù dalla collera di Dio, accoglieva i nuovi venuti
a testa
in giù, mentre le gambe rimanevano incrociate in grembo e le
mani
giunte a benedizione.
Della testa nessun segno,
se non qualche scheggia a terra recanti una sua espressione beata.
Incastrato tra quelle
rovine che lo bloccavano in una stretta morsa, la sua illuminazione
si rispecchiava in quei tenui raggi lunari.
E nel leggiadro danzar
delle falene che ignoravano la spudoratezza di tanta cattiveria.
Senza ombra di dubbio, era
una immagine forte, che andava a sbattere con il fetore delle
interiore umane che scivolavano giù nel fosso.
Nella danza delle farfalle
silenziose.
E in quella musica triste
e malinconica che sembrava voler consolare il divino illuminato.
Era uno spettacolo
decisamente surreale quello che le due divisioni dovevano per forza
di cosa assistere.
Una grande sala ampia
quanto due campi da calcio, il cui suono prodotto si disperdeva come
un sottile eco – quasi attutito – dove nonostante
la musica
malinconica e un po' graffiata, si poteva fantasticamente sentire lo
svolazzare delle nere falene. Un qualcosa che gli Shinigami si
ritrovarono sgomenti e al contempo incantati.
Tranne il capitano
dell'undicesima, che tosto si avviò verso due individui
seduti ai
piedi della fossa.
Oltre alla catasta di
vinili e al grammofono arrugginito, vi erano due creature dall'esile
aspetto e con indosso abiti di pelle scura.
Larghi camici da
macellai, erano fatti di spesso cuoio come il camice di un fabbro.
Così come i guanti e gli stivali militari. In aggiunta ai
loro volti
mascherati di maschere oscure e inquietanti.
Fori circolari di rosso
riflesso, guardavano senza reale interesse i prodi guerrieri. Ben
intenti a a bighellonare, e posandosi mani sulle nude spalle
– di
carne pallida e di orride cicatrici – in segno di conforto.
I due individui Tousen
aveva ben capito chi fossero.
Erano paria degli
inferi, e quelle che indossavano sui volti erano maschere antigas.
Questo per proteggersi dai letali fetori che emanavano i dannati, e
dagli acidi infernali. Stessa funzione avevano i camici di pelle e
tutti gli altri accessori. Ove la pelle era esposta, spesso si
potevano scorgere cicatrici causate da ustioni da acidi e ferite
causate durante le colluttazioni.
E il capitano
dell'undicesima disse:
“Chi siete voi anime
dannate? Mostri su cui le nostre spade cozzeranno forse?”
Spada alla mano, il
prode guerriero mostrò loro lo scintillare della sua lama,
posta
sotto i raggi lunari e di poco fuori dalla federa.
I mostri non si
scomposero, continuando ad armeggiare quei vecchi arnesi.
Disse quindi, il mostro
che consolava il compagno avvilito:
“Non temete mio
signore. Qui di mostri c'è solo l'olezzo delle budella.
Siamo umili
paria che vagano per i regni degli inferi. Anime senza peccato che
servono i giudici infernali nei loro compiti infami”
E il capitano –
sgomento a quelle parole gracchiate – disse al mostro:
“Anime senza
peccato?! Questo non è possibile. Se voi siete stati portati
nei
regni dei cieli allora dovreste ben conoscere che li il peccato
è
solo una burla. Voi quindi avete raggiunto questi lidi per aver
peccato in paradiso?”
Non ricevette risposta
dal cane infedele, che portando una mano sulla nuda schiena del
compagno, lo rassicurò di docili pacche all'altezza delle
reni. Che
preda di forti singhiozzi, rimaneva con le ginocchia conserte al
petto.
Disse quindi il prode
Shinigami:
“Cosa tormenta il tuo
compagno, da non prestare orecchio al tuo signore?”
Disse quindi il servo:
“Ah mio signore, la
vita di un paria non è cosa semplice.
Dite voi, che il
peccato è una burla nel paradiso. Ma io questo paradiso non
l'ho mai
visto, mai misi piede perchè mai venni censito.
Qui il mio compagno che
piange la morte di un suo amico, causata da uno dei vostri Akuma, lui
si ha visto il paradiso! Ha visto campi di grano dorato, cieli
sconfinati, cervi massacrati da cani.
Ha visto, e per questo
è stato bandito! Noi tutti siamo scappati, e siamo stati
accolti dal
grembo materno dell'inferno. Ma siamo reietti in una terra che ci
è
aliena.
Rapiamo i perduti nel
regno della Nebbia.
Squartiamo i dannati in
nome della giustizia. Li tramutiamo in mostri e ci divertiamo a farli
soffrire.
Suoniamo infine, per il
loro ultimo stadio evolutivo. Di violini e trombe ci armiamo, e
cantiamo per loro affinchè non sentano il tormento, e ci
lascino in
pace.
Ah mio signore! Non è
cosa buona incontrare un demone per di qua. Essi hanno aspetto umano
a differenza di quando erano dannati e mutilati, simili al loro
primordiale stato di perduti, e di empio piacere traggono
nell'ingannare il prossimo.”
Quell'assurdo omino –
come gli avevano insegnato in accademia – doveva essere quasi
alla
stregua di un folle.
Ma Tousen era attento, e
sapeva di cosa stava parlando.
Il fatto che alcune anime
non venissero censite – e quindi senza la
possibilità di entrare
nella Soul Society – c'era eccome. Questo accadeva per
intoppi
burocratici e per mala gestione, e quindi molte anime di innocenti
poi si riversavano negli inferi, finendo a svolgere lavori umilianti
e pericolosi.
Poi c'era chi, come
l'altra figura piangente, nel paradiso c'era stato, ma poi era dovuto
fuggire perchè perseguitato dalla legge.
In compenso, in quella
discussione era descritta la casta evolutiva dei demoni – o
Akuma –
che si evolvevano secondo i capricci degli otto giudici presenti
negli altrettanti otto regni infernali. Tutti divisi in livelli.
Tutti che scendono verso “il basso” e con la
possibilità di non
vedere mai più la luce del sole.
Il fatto che l'anima di un
peccatore raggiungesse il primo livello, non implica la sua immediata
trattazione da parte dei giudici.
Il regno della Nebbia
sarebbe quello più simile ad un mondo normale, ed
è il luogo in cui
arrivano i peccatori privati della memoria. E il perchè la
perdessero era presto detto.
Il loro compito – se
così si può definire un tormento –
è riacquistarla con dolorose
esperienze, un pezzo alla volta fino a capire il perchè si
è giunti
sin li.
E solo a quel punto della
punizione divina i paria giungono per prelevare i peccatori, e
portarli più in basso.
Poi la conoscenza di
Tousen si ferma li. Ma sa – almeno testuale leggenda
– che
vengono letteralmente fatti a pezzi ed ogni supplizio reincarna il
loro peccato e tormento.
Divenendo come mostri di
aspetto orrido e di disperata esistenza.
Tutto il resto appunto è
sola leggenda, per quanto riguardano gli abitanti degli inferi e i
loro poteri. Solo leggende trascritte su carta e mai confermate. Come
antiche profezie, il cui valore si disperde nelle sabbie del tempo.
E lo Shinigami disse al
mostro:
“Non temo ne morte,
ne tormento. Affronterò quei demoni quanto è vero
che questa mia
spada è viva e pulsante di petto e coraggio”
E il mostro disse al
celeste soldato:
“Oh mio signore, è
si vero che i vostri Akuma non hanno spade, ma è altre
sì vero che
possiedono un corpo e sanno usarlo assai bene.
Hanno solo quello, e
una volta evoluti alla forma finale sfoggiano tecniche degne di un
vostro capitano!
Se poi ne riuscite a
far soccombere qualcuno, ben venga allora, ma quelli hanno scorza
dura peggio di un'armatura di cuoio. Quelli crepano come uomini, e
risorgono come fenici.
Datemi retta, che
vederne uno bruciare e poi tornare – dopo sofferenza su
sofferenza
– di nuovo nei suoi regni, è cosa aberrante
assai”
Questa sembrava essere
pura fantasia. Ma era pur vero che i demoni mandavano in avanscoperta
i loro servi, anziché presentarsi loro a svolgere
determinate
azioni. E spesso si rivelavano inaffidabili nei loro vaneggiamenti.
Decisamente, in molto
impazzivano, oppure si adeguavano.
Oppure ancora meglio,
lasciavano che fossero gli Shinigami a svolgere i lavori più
sporchi.
Oltre queste mere
leggende, per quanto affascinanti fossero, erano troppo favoleggiate
per essere ritenute vere. Di conseguenza, si potevano solo fare
ipotesi per risolvere il suo dubbio ancestrale – che lo aveva
spinto ad andare a compiere ricerche in biblioteca – e
sperare che
il seguito della lettura mostrasse più segni plausibili e
convincenti.
“Uhm, Tousen? Che
cosa stai facendo di bello?”
Normalmente, chiunque
avrebbe sussultato per una voce improvvisa che sopraggiungeva alle
proprie spalle. Se poi era così melliflua da mettere
sull'allerta,
c'era anche da prendere spada alla mano.
Cosa che lui non fece in
nessun modo, dato che ben conosceva il suo misterioso interlocutore,
e per giunta lo aveva già sentito arrivare dal portone di
entrata.
Gin Ichimaru, era tutto questo e anche oltre.
“Ti muovi con l'eleganza
di un elefante in un negozio di cristalli, Gin...”
L'altro rise divertito
prima di avvicinarsi ancora un po', ed osservare cosa stesse
combinando il compagno d'armi.
“Davvero? Beh, sembra
proprio che nessuno possa coglierti alla sprovvista mio buon Tousen!
e... Ehi! Che cosa stai leggendo?”
Incuriosito, l'ex capitano
allungò il collo e la vista oltre le spalle del compagno
seduto, per
vedere solo un ammasso di fogli ingialliti e bucherellati. Quasi
deluso per la scoperta del codice braille, emise dalle labbra un
suono leggermente corrucciato, prima di attendere che lo stesso
Tousen si alzasse in piedi, per dare una occhiata lui stesso a quegli
antichi scritti.
Kaname sembrava quasi
infastidito dalla presenza di Ichimaru. Che tosto si alzò
dal tavolo
di lettura, quasi irritato dall'essere stato pizzicato a leggere
quelle antiche scritture che parlavano di...
“...L'epopea di
Ichigo Kurosaki? Ma dai! Perchè ti sei messo a
leggere questo
vecchio mattone?”
Il suo tono di voce era
tra il sorpreso quanto derisorio, e nonostante la domanda fatta,
sapeva bene cosa stesse ricercando il buon compagno.
“Non mi dire... Sei
andato a guardarti questa roba per...”
“Tutto è possibile, e
la prudenza non è mai troppa Gin. Dovresti ben
saperlo”
Le parole di Tousen
bloccarono nell'immediato quelle strafottenti dello Shinigami, ed un
intenso e teso minuto di silenzio calò in quel bianco
immacolato.
Solo la polvere danzava innocua, e le orecchie quasi fischiavano per
quel silenzio così dannatamente pesante.
“Sei davvero convinto
che ci sia qualcuno qui?”
La voce di Gin – che
sembrò come una fiamma in mezzo alla quiete del ghiaccio
– era
misteriosamente tranquilla, benché il suo sorriso non
sminuisse dal
suo volto magro e ovale. Androgino e perfetto.
Ed era oltremodo strano
come la sua domanda non si disperdesse in un eco in mezzo a
quell'ambiente enorme.
“Sono semplicemente
sicuro che la prudenza non è mai troppa. E di questo lo sai
alla
perfezione”
Così come ben sai che
non amo ripetermi, avrebbe volentieri aggiunto.
Ma rimase zitto, ben
consapevole che lui avrebbe anche aggiunto che tutti i disordini
avvenuti sino ad ora, potrebbero anche essere stati semplici
– anzi
senza potrebbero, lo sono – atti di
comune vandalismo.
Tuttavia, persino Gin
avvolto dal suo candido abito di tessuto sintetico, si
ritrovò a
parlare di altro che non fosse quella discussione che da un po' li
“divideva” in fatto di opinioni.
Sollevò lo spesso tomo
verso il proprio volto, e ridendo sottile e perfido ne uscì
con una
battuta non tanto insolita.
“Ichigo Kurosaki... che
bizzarria chiamare con questo nome il proprio figlio. Non credi pure
tu, Tousen?”
Un piccolo dettaglio che
allo Shinigami dalla pelle scura non era comunque passato in
osservato. Ma che detta dallo stesso Ichimaru, aveva parvenza di cosa
ridicola alquanto.
Forse era una cosa
stupida, o forse era una cosa totalmente antiquata nel commemorare un
eroe immaginario, ma questo non toglieva, che era l'ultimo dei loro
problemi.
“Le motivazioni di un
padre non vanno mai giudicate, Gin...”
Ci ho messo un bel po' ma
alla fine ho ultimato questo capitolo. Che a mio avviso è
piuttosto
noiosetto.
Tuttavia si parla ancora
una volta di libri, e proprio per questo ho voluto dare agli
Shinigami un mattone che somigliasse – in quanto a contenuti
–
all'Iliade o all'Odissea.
Il fatto che l'eroe di
questa opera si chiami niente meno che come il protagonista del
manga, consideratelo quasi un omaggio oppure uno
“scherzo”.
C'è chi mi ha chiesto
qual è il significato di tutta questa storia, beh posso dire
che
essendo una nosense, è più incentrata sui
pensieri, ma se si può
dare un tema principale, è il significato di Dio visto
attraverso
gli occhi di Arrancar e Shinigami.
Ringrazio tantissimo
Exodus, raxilia_running, Yoko_kun,
Senboo,
JunJun e Sakura Sun per avermi
commentato!
Ps: la lirica prima del
testo, è The
Principle Of Evil Made Flesh Ershigal
dei
Cradle of filth
Ershigal per chi non lo
sapesse, è la dea sumera dell'oltretomba. Regina degli
inferi,
rappresenta la rabbia primordiale e l'assoluta distruzione. Tuttavia
non si tratta di rabbia cieca, ma bensì ben calcolata e
lucida.
Rappresenta la certezza della morte, l'abisso, e la rinascita.
È il lato oscuro della
luna, sorella di Inanna dea della terra e del lato luminoso della
luna. Entrambe sono collegate ai cicli vitali della natura.
|
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Capitolo 13 *** Profumo ***
“Lui dà le
carte come una meditazione
E
quelle che gioca non sospettano mai
Che
non gioca per vincere soldi
Che
non gioca per il rispetto
usa
le carte per trovare la risposta
la
geometria sacra del destino
la
legge nascosta del possibile risultato
i
numeri che conducono la danza”
[Parole
dette da qualcuno vicino a Sosuke Aizen. Sempre e comunque nell'Hueco
Mundo]
Enjoy the Silence
Profumo
L'Octava Espada quella
mattina era stato ben chiaro.
Sarebbero usciti anche
all'esterno del palazzo, e per tale motivo doveva darsi una
sistemata.
Per questo la condusse
agli scarni bagni visitati il giorno prima, ordinandole con falso
tono gentile di farsi una doccia.
In effetti, Orihime stessa
desiderava quanto prima di fare un bel bagno caldo, o in consolazione
una doccia rinfrescante. Sentiva i capelli ormai sporchi, e nel bagno
della sua camera erano presenti solo servizi igenici essenziali. Non
una vasca in cui immergersi, e neppure una cabina, e di detergenti
per il corpo neanche l'ombra.
Non che nella grande
stanza quadrata, bianca e fredda, ci fosse qualcosa di così
raffinato come sali da bagno o profumi costosi. Anzi, da una mensola
poco distante dall'entrata, c'erano solo dei barattoli di –
presumibilmente – sapone liquido che sapeva di disinfettante.
Solo
uno sapeva di viole, e doveva essere un prodotto proveniente dal
mondo mortale. Cioè il suo.
Il flacone recava scritte
in una lingua a lei sconosciuta – forse era greco per quanto
ne
sapesse – e sembrava essere stato messo li unicamente per
lei.
L'unica parola che comprese, fu l'internazionale
“shampoo”, con
tutta probabilità messo li per lei.
E probabilmente i
disinfettanti, servivano per lavarsi di dosso il sangue e le ferite
delle battaglie.
Sospirando, la giovane
fanciulla decise di obbedire a quei nuovi ordini, e di farsi una
doccia rinfrescante.
Si avvicinò ad uno dei
tubi flessibili in acciaio, e ci portò vicino uno di quei
bassi
sgabelli di legno da bagno.
Poi si avvicinò ad un
ripiano – grande quanto un tavolo – posto nei
paraggi, e li
iniziò a spogliarsi. Posando parte dopo parte, tutte le
componenti
della sua divisa di Arrancar.
Gli stivali sotto il
ripiano, e l'intimo ben ripiegato in un angolo della lucida
superficie di marmo.
Infine, nuda come un
verme, cercando di “proteggersi” da quel freddo
pungente presente
nel locale, raccolse le braccia attorno al petto e si portò
nella
posizione scelta.
Ma non fece in tempo a
sedersi, non fece in tempo neppure ad aprire uno dei rubinetti
cromati, che un brivido freddo le attraversò la schiena.
E ancor prima delle
parole, uno sguardo che dire insidioso era poco, sicuramente le
osservava il profilo delle spalle e delle gambe.
Per un istante, l'istinto
di Orihime le fece bloccare il respiro in corpo, e le disse a gran
voce – quasi urlando nel suo cervello – di voltarsi
verso la
porta e di scappare quanto più velocemente possibile le
gambe glielo
permettessero.
Vattene, vattene,
vattene!
Come in un incubo si
ritrovò a deglutire, sperando per davvero di essere preda di
una
semplice paranoia, anziché di un dubbio concreto.
Vana speranza era quella.
Due occhi d'ambra avevano sostituito lo scenario
desolante,
una volta che girò capo e corpo verso chi li dentro non
doveva
stare.
Nuda e inerme si sentì
improvvisamente ancor più piccola, verso chi la squadrava
con
naturale malizia, senza tener conto dell'ordine che
lei gli
aveva imposto.
Perchè lei gli aveva
detto giustamente – come nella migliore educazione di
civiltà –
che doveva attendere fuori i suoi comodi. Che poteva stare dietro la
porta di bronzo anche per delle ore, se questo l'avesse lasciata
respirare un po'.
Invece Aporro Grantz,
volontariamente sordo a quella richiesta piccata, se ne rimaneva con
le braccia dietro la schiena con sguardo così ovvio,
che
assolutamente non si poteva descrivere.
Vattene, vattene, esci
di li!
“Mmma... – allungò la
consonante in evidente stato d'allarme – ...che ci fa lei
qui?!”
facile che la voce le
tremasse in quel momento, facile impazzire e non saper descrivere
tutto quello che correva in testa.
Ancor più grottesca era
quella scena, con la presenza di Fracctiòn dall'aspetto
così goffo
e inumano, da sembrare due palle gonfiabili accostate ad un rigido
pilone bianco. Munite di braccia e gambe sottili come giunchi, tanto
alieni che persino gli occhi simili a bottoni, li mostravano
assolutamente inquietanti anziché buffi.
L'Octava Espada le aveva
accennato che possedeva dei servitori, ma non si sarebbe mai
aspettata qualcosa di così... Grottesco.
Che aggiungeva ancor più
tensione alla situazione, e la incitava ad urlare nonostante si
ritrovasse con la gola perfettamente secca.
Ma tornando alla domanda
fatta – che costò ad Inoue uno sforzo grandissimo
– lo
scienziato si ritrovò ancora una volta a sorridere astuto, e
a
risponderle con apparente ironia.
“Mi sembra ovvio... Non
dobbiamo lavarci i capelli?”
[…]
Mai come in quel giorno,
Orihime desiderò scappare da quel posto e e nascondersi in
un angolo
remoto della terra.
Mai come quel giorno,
arrivò quasi a rimpiangere la decisione presa di andar li,
con la
scusa di proteggere chi le era caro.
Mai come quel giorno.
Sentire quelle fredde dita
accarezzarle la cute e i capelli, insaponarle piano i fili ramati
della sua capigliatura, le dava il disgusto e una forte disperazione
di mettersi a piangere con forza.
Vattene, vattene via,
mostro!
Con occhi gonfi di lacrima
amara, e labbra in procinto di schiudersi ed urlargli addosso le
peggio cose, la giovane donna si limitava a guardare il pavimento
piastrellato colmo di bianca schiuma di sapone dall'intenso profumo
di viole, e cercare di restare calma. Invidiando l'acqua che scorreva
via verso il tombino di scarico, sognando di sfuggire via a quelle
carezze e di scorrere nelle fogne sudice.
Dalla sua gola
fuoriuscivano solo mugugni strozzati mentre le dita delle mani, si
conficcavano con forza nella pelle delle spalle, come intenzionata a
proteggersi da chi non le stava facendo nessun male, se non a livello
psicologico.
A tratti lanciava occhiate
laterali alle due goffe creature dello scienziato, che ignorando lei
e quello che stava combinando quel suo aguzzino, continuavano a
giocare con i suoi vestiti mettendoglieli in disordine totale. Ma
quello era decisamente il lato minore della tensione che stava
vivendo.
“M-ma c'era per forza
bisogno...?” riuscì quasi a piangere alla fine.
“Assolutamente si, dato
che non avresti svolto un buon lavoro” replicò
l'altro piccato e
stizzito.
Mentre con il dorso della
mano destra, sgombro del solito guanto e di schiuma, si
risistemò
gli occhiali sul naso in un gesto automatico.
Massaggiò con decisione
la cute sotto la nuca, provocandole del solletico non desiderato, che
ella smorzò con fatica data l'isteria crescente.
Stringendosi ancora di più
n quel rigido abbraccio, trattenuto a stento da un sottile vibrare
che potevano essere brividi quanto la viscerale paura. Una paura che
non riusciva a tenerla perfettamente ferma sullo sgabello.
Ovviamente, il sorriso di
lui tradiva un certo dispetto. Oltre che una sana dose di precisione,
che lo avevano spinto a violare la sua intimità occupandosi
persino
di faccende come quelle.
Perchè lui all'ordine ci
teneva, e voleva che quei lunghi capelli della femmina, rimanessero
setosi e lucenti anche nei prossimi giorni.
Nelle sue mani si
plasmavano come creta, e scivolavano via come anguille da tanto che
erano colmi di sapone profumato. Ed era intenso quel profumo, che
misto alla paura della femmina, raggiungeva qualcosa di sublime.
Sublime perfezione, pari
solo alla fastidiosa tentazione che ancora una volta si insinuava
nella sua testa. Avente ancora una volta la voce di suo fratello.
Seccante come dettaglio,
ma vero e limpido quando parlava, tanto bastava a fargli mordere il
labbro inferiore mentre gli occhi – sempre e comunque
– erano
concentrati a lavare e detergere.
Vero come le mani che
toccavano e volevano toccare. Ancora e ancora, desiderose di
proseguire oltre quel tappeto ramato e toccare le spalle bagnate di
tiepida acqua e soffice schiuma.
Vero come la vista che si
allungava, si districava con le sue iridi d'ambra, e scivolava
giù
per quella bianca schiena, seguendo il lento scivolar della schiuma
per tutta la linea della schiena.
E perdersi in torbide
fantasie quando la linea delle vertebre finiva, stemperando
inconsciamente quel pensiero passandosi la lingua sulle labbra.
Troppo, davvero troppo
facile con lei bloccata dal terrore.
Odiato d'un fratello, ma
decisamente cristallino nei suoi pensieri ad alta voce.
“Si... bene... –
tossicchiò per stemperare il silenzioso imbarazzo calato tra
loro
prima di continuare – ...direi che ci siamo trattenuti fin
troppo a
lungo, non credi Inoue?”
Parlò così mentre
toglieva le nude braccia da quei capelli ormai lavati del loro
sporco, prendendo da terra il tubo flessibile e riempiendo d'acqua un
secchio d'acciaio posto ai suoi piedi.
A quelle parole la femmina
umana parve allarmarsi un poco, e voltandosi per vedere cosa stesse
facendo riuscì a mormorare solo una domanda di sorpresa, che
una
immediata secchiata d'acqua tiepida le arrivò in faccia
cogliendola
impreparata.
Facendola tremare dallo
spavento, e lanciare l'unico grido terrorizzato che era comunque
nulla in confronto a ciò che aveva dentro.
“Il bagno è finito
Inoue, ora rivestiamoci”
[…]
Ora che era tutto finito,
si doveva unicamente concentrare su altro.
Ed era quello che Orihime
cercava di fare, mentre camminavano per quella lunga e gigantesca
navata, che altro non era che l'ennesimo corridoio che però,
portava
in un luogo speciale.
Ora che si era rivestita
ed era perfettamente asciugata, sentiva sempre più la
tentazione di
picchiare chi le stava accanto con aria indifferente e ambigua.
Se non poteva essere
lontano chilometri da lui, che quantomeno avesse la
possibilità di
menarlo per ciò che aveva fatto. Ma neppure quello era
acconsentito,
e ormai la donna stava iniziando a capire quali erano i suoi limiti
invisibili.
Si ritrovò quindi a
stringere forte le braccia attorno al petto, e conficcare le dita
nella stoffa sintetica, mentre il rancore scivolava giù per
la gola
provocandole sonori mal di pancia.
Atteggiamento che non
lasciò indifferente lo sfacciato scienziato, e nonostante il
silenzio rotto solo dai loro passi simili a zoccolate sul marmo,
volle aggiungere qualcosa di suo.
“Uhm, vedo che abbiamo
un po' di occhiaie addosso! Hai forse dormito poco
mia cara?”
Per quanto fosse una
battuta detta con tono innocente, fu proprio per quel suo modo falso
e ipocrita che la femmina reagì di conseguenza.
Non contenta di subire
ancora frecciatine e soprusi, dalla bocca fuoriuscì una
sorta di
lamento simile ad un ringhio strozzato, e con tutto il coraggio di
quel mondo – tutta la disperazione che possedeva –
si voltò di
scatto verso il proprio interlocutore per stampargli in volto un
sonoro schiaffo.
Orihime reagì mossa da
una rabbia così grande che a momenti sentì le
ossa sciogliersi per
il troppo tremare, e pregando mentalmente tutti i suoi antenati,
colpì il lato destro di quel volto arrogante con tutta la
forza che
aveva in corpo. Lo colpì così forte, che ella
stessa si procurò un
certo dolore alla mano, che ben chiuse in un pugno per smorzare le
piccole scosse elettriche generate dai nervi doloranti.
Colpito.
Si, lei lo aveva colpito
lasciandolo per un istante incredibilmente sconcertato. Con un segno
rosso che andava via, via a formarsi sulla sua guancia ove era stato
colpito, mentre gli occhi rimanevano sgranati e sorpresi.
Quando si osa toccare il
limite, ecco ciò che succedeva, ma se la giovane si
aspettava una
reazione come quella di Ulquiorra si sbagliava di grosso. Quello con
cui aveva a che fare, era qualcosa di possibilmente peggiore e senza
scrupoli.
Lo stupore infatti, negli
occhi dell'uomo si dileguò ben presto, lasciando spazio ad
un'ira
feroce e malcelata. Ad una pupilla che si assottigliava sempre di
più
divenendo folle di rabbia repressa, forse, per molto tempo.
Le labbra si arricciarono
in un lieve ghigno, ed Inoue ebbe paura, tanto che provò ad
allontanarsi dalla belva ma senza successo. Dato che lui fu
più
veloce, e le agguantò la mano colpevole stringendo forte il
fragile
polso.
“Ma come siamo audaci
eh?”
Era un sibilo che si
perdeva in eco lieve a differenza dei loro passi precedenti e del
sonoro schiaffo.
“Mi lasci!”
Un qualcosa che aumentava
la paura che a nulla serviva nascondere in una maschera di
determinazione. La donna era spaventata nonostante cercasse
debolmente di stemperare l'emozione, lui era furioso e lo voleva
mostrare a tutti il mondo.
Rabbia velenosa come il
suo passarsi la lingua sui denti, mentre la strattonava con
malagrazia verso di se, facendola gridare dalla frustrazione e dalla
sorpresa. Così vicino che a momenti le rispettive fronti si
toccavano.
Il disgusto della
fanciulla era tanto, ma dovette deglutire per cercare di mantenere i
nervi saldi per non scoppiare a piangere davanti al suo sguardo
folle, e alla sua voce aggressiva.
“Non t'azzardare più a
farlo, o la prossima volta non mi limiterò ad alzare i
tacchi e ad
andarmene come Ulquiorra!”
Era una minaccia bella e
buona ma che sembrò non sortire l'effetto desiderato.
Quella cretina non si
calmò, ne allentò la resistenza al braccio. Ma
anzi, mugugnando un
altro “lasciami” spezzato dai singhiozzi crescenti,
strattonò
quella ferrea presa e alla fine se ne liberò.
Nonostante quasi
sicuramente si fosse procurata un livido sicuro oltre la manica.
La vide correre via da
lui, e andare incontro alla fine del corridoio per raggiungere la
luce dell'esterno del palazzo, senza provare minimamente a fermarla.
I passi veloci
rimbombavano per quella grande navata, e quasi andavano a soffocare i
suoi singhiozzi.
Seccato e irritato da
quella poca educazione a cui era stato sottoposto, si
massaggiò la
guancia colpita nonostante il dolore era pari ad un buffetto.
La sua tempre era solida,
ma era l'orgoglio ad essere stato ferito, benché in parte,
comprendeva che forse aveva esagerato anche con lei. Se magari fosse
stato un contesto differente.
“Piccola... Stupida...
Umana”
Sibilò piano quelle
parole, scandendole una ad una mentre ritornava a camminare con calma
rispetto alla giovane figura piangente. Questa davvero non se
l'aspettava, e lo aveva irritato ancor di più.
Szayel poi, non era tipo
da lasciarla passare franca a nessuno, ed era noto come preparasse le
sue vendette con una certa meticolosità.
Quella sera stessa si
promise, l'avrebbe violentata così da far contento anche suo
fratello.
Mi sa che questo capitolo
lo divido in due parti, perchè seriamente sono un po' troppo
pigra
per scriverne uno più lungo.
E oltre questo non voglio
tediarvi troppo, è già una storia complicata di
suo, quindi più i
capitoli sono corti e più è passabile a mio
avviso.
In effetti il capitolo
scorso è stato molto nosense, per questo i prossimi magari,
proverò
a farli meno “complessi” nella lettura.
Un infinito grazie a
raxilia_running e Serenity per aver recensito il capitolo scorso!
Ps: la canzone prima del
titolo è “shape of my heart” di Sting.
|
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Capitolo 14 *** Fiori del Deserto ***
“Ma
che c'è scritto qui?”
“Tu
Fui, Ego Eris”
“Cosa?!”
“C'è
scritto mio signore, che quello che tu sei, io lo ero.
Quello
che io sono, tu lo sarai.
Ossia
che tu sei vivo e io lo ero. Io son morto, e tu lo sarai.
Non
esiste regno che non rechi tale dicitura nelle sue porte”
[Dall'Epopea
di Ichigo Kurosaki. Capitoli infernali. Biblioteca di Las Noches]
Enjoy
the Silence
Fiori
del Deserto
Lasciarsi alle
spalle una opprimente oscurità, è spesso la cosa
che reca più
sollievo in una persona.
Inoue non era da
meno, e una volta che si ritrovò fuori dal portone che
divideva il
corridoio dal profumo di libertà, tirò un
sofferto sospiro di
sollievo.
Una
sferzata di vento insolitamente freddo le scompigliò i
capelli e le
vesti, ma invece di turbarla si ritrovò a bearsi di un vento
e di un
sole che le erano stati reclusi per troppo tempo. Davanti a lei si
estendeva una terrazza semi circolare, che finiva poi in gradini che
portavano verso la sabbia e li affondavano. Un paesaggio
incredibilmente bianco, interrotto solo da enormi colonne che si
ergevano dalla sabbia, e si univano in ramificazioni alla fine della
loro corsa verso il cielo.
Forse
era tutto ciò che rimaneva di una navata dalle volte a
crociera.
Tuttavia,
la sabbia non copriva del tutto quel luogo, e molto era il pavimento
che poteva osservare. Il marmo opaco era intagliato in grandi
piastrelle, e tutte erano rovinate dalla furia degli elementi e dalla
incuria del tempo. Ma anche se questi due elementi avevano fortemente
colpito quel luogo, era affascinante notare come se ne rimanesse in
piedi quasi con nobiltà, e non cedesse il passo a strutture
più
moderne.
Si
sentiva affascinata da quel luogo, questo era vero, e se al posto del
silenzio ci fosse stato qualche ramo di pesco o il cinguettio dei
passeri, sarebbe stato ancora più interessante.
Ma
il vento alle sue orecchie portava solo silenzio, e questo le
lasciò
un po' di nostalgia in fondo al cuore.
Questo
pensiero tuttavia, non ebbe il potere di distrarla da chi la stava
raggiungendo con calma, rimanendosene comunque a debita distanza
quasi offeso per il piccolo episodio nel corridoio.
La
camminata di Aporro Grantz era già solo quella di una
arroganza
estrema. Tanto che la stessa Orihime si ritrovò a contrarre
il volto
in una espressione disgustata quando avvertì quei passi
dietro di
lei.
Si
tenne lontano dalla femmina giusto due piedi, lasciando che scorresse
il vento tra loro, a marcare ancora di più quel loro teso
silenzio.
Anche
se le lacrime e i singhiozzi se ne erano andati via dal corpo della
fanciulla una volta arrivata all'esterno, un orribile senso di
frustrazione la colpì come una frustata appena la fonte dei
suoi
dolori sgusciò fuori dall'opprimente oscurità.
Rovinandole
la serenità riacquistata, con parole insolitamente neutre,
che non
mancavano tuttavia di lieve risentimento.
“Questa
che vedi è la sala della grande Ipostele”
la
voce era tagliente in quel silenzio tranquillo e severo. Ma questo
non la distolse a sorprendersi della risposta data. Aveva
praticamente accantonato l'episodio di prima, e sembrava ora
intenzionato a continuare con il suo tour.
Senza
neppure volerlo, si ritrovò a girare il capo verso di lui
con fare
interrogativo. Ma lui non si scompose, e dalla sua posizione
continuò
a parlare.
“Le
rovine che vedi, sono ciò che resta di un grande tempio
antico. Di
che epoca fosse, nessuno lo sa, ma era già in rovina dai
tempi
dell'ultimo re dell'Hueco Mundo... – fece dei piccoli passi
verso
di lei, scandendo così il silenzio con marcato rumore
– ...questo
è ciò che rimane della vecchia sala del trono. E
dove siamo noi
ora... Beh, sedeva il re stesso!”
Sembrava
esserci della beffardaggine gratuita ma velata in
quelle sue
parole. E quella sua voce odiosamente melliflua rendeva quella
sensazione ancor più marcata.
“Oh...!
e vedi quelle dune la in fondo? Oltre quel muro naturale
si estende tutto il deserto. E a meno che tu non sa un Arrancar come
noi, dubito che sopravviveresti a lungo!”
Come
a dirle: Se provi a fuggire dalle mie mani, sei morta in partenza.
Decisamente
esplicito nonostante stesse girando attorno alla portata offerta, e
questo invece di spaventarla in modo sottile, la disgustò
facendole
voltare il capo verso le dune. Tentando così di ignorare
quello
sguardo così intenso e così poco desiderato.
Stringendosi le
braccia al petto, come intimorita dal sottile vento gelido, voleva
semplicemente stargli il più lontana possibile.
“Posso
perlustrare le rovine?”
“Certamente
che puoi...”
Anche
se dava le spalle al mostro, sapeva perfettamente che stava
sorridendo beffardo. Che la stava denigrando guardandola dall'alto in
basso. E forse, magari, sentendosi quasi onorato di aver tolto il
privilegio ad altri maschi più umani di lui di osservarla
nuda e
impaurita.
Questo
in effetti era avvilente, e più ci pensava, più
la pancia tornava a
farle male. Come pugnalate che scandivano i suoi passi sul marmo
rovinato, mentre scendeva con calma quei gradini di pietra per andare
incontro alla sabbia e ad un – quasi – profumo di
libertà che le
era proibito.
Fitte
dolorosissime di un umore fatto a pezzi, le torcevano un volto che
era prossimo ad altre lacrime se non si fosse allontanata da lui il
più possibile.
A
parte suo fratello, nessun altro l'aveva scorta senza veli nei suoi
anni di solitudine, e lei non si era mai relazionata con qualche
ragazzo in modo sufficientemente intenso anche solo per una piccola
confidenza.
Solo
per il fatto che lui avesse sfondato tutte quelle barriere pudiche e
morali, la faceva ribollire di rabbia e disperazione.
Passo
dopo passo, il marmo cedette il passo alla prima sabbia, che
l'accolse con morbidezza come se si fosse trovata in spiaggia. Solo
questo ebbe il potere di distrarla un poco, ma fu solo quando
iniziò
ad avvicinarsi alla prima – e maestosa – colonna
bianca, che
riuscì a distrarsi e a ritrovare in parte la
serenità perduta. Ora
era semplicemente fuori dal palazzo, era fuori dalla sua prigione che
sapeva di chiuso e di polvere, ed era ora in un mondo pieno di aria
fresca e di silenzio.
Era
sorprendente per lei, come nonostante il vento e l'ambiente fosse
freddo, al tocco della sua mano quella candida colonna era
piacevolmente calda. Scaldata forse dal pallido sole di quel deserto
senza fine, era un elemento alieno almeno a suo modesto parere.
Ci
si sarebbe persa volentieri in quel giardino diroccato e senza fiori,
se non fosse stato che un paio di voci distrassero lei e il suo
accompagnatore che ancora presidiava il piccolo piazzale.
Voltando
entrambi i loro sguardi verso le dune, due individui vestiti di
bianco scivolavano agilmente sulla sabbia in una dolce discesa,
gridando loro parole sconnesse portate via dal vento incessante.
Inoue
scrutò le due nuove figure con espressione interrogativa e
grave, e
preoccupata si voltò verso l'Octava Espada anch'egli
sorpreso da
quella visita. Oltre i suoi occhiali, si leggeva una nota un po'
preoccupata, ma non per questo allarmata.
“È
tutto a posto Orihime, ma tieniti comunque lontano”
La
voce era severa, e la sfacciataggine era scomparsa. I due individui
che si stavano avvicinando a loro superando tutte le colonne, con
tranquillità apparente, dovevano essere persone di un certo
calibro
e potenza. O quantomeno ad osservarli, l'individuo che avanzava per
primo – incredibilmente alto e con in pugno una alabarda
gigantesca
– era piuttosto inquietante.
La
giovane tuttavia, decise di assecondare l'ordine impartitole, e
titubante prese le distanze da coloro che si avvicinavano,
“rifugiandosi” verso un'altra colonna in parte
crollata. Senza
togliere lo sguardo sulle due figure guerriere, si ritrovò
malauguratamente ad incrociare l'unica pupilla di quello che sembrava
essere il capo.
Appena
quel volto affilato e magro si spostò su di lei, Inoue
avvertì il
sangue nelle vene congelarsi all'istante.
Si
congelò quando vide quel – forse –
perenne ghigno allungarsi in
un inquietante sorriso nell'incrociare il suo sguardo, e questo la
distolse in parte a continuare a guardarlo. Controllandosi
momentaneamente i calzari sporchi di sabbia, in un gesto che
trasudava paura e lieve imbarazzo.
E
le parve per giunta di sentire la voce di quello che si chiamava
Grantz, richiamare a se un certo “Nnoitra” che
indugiava troppo
accanto alle prime colonne. Con tutta probabilità, stava
richiamando
all'ordine quello con la benda sull'occhio e il sorriso poco
raccomandabile.
Quando
si decise ad alzare lo sguardo dal suolo, vide che il tizio a cui era
stato imposto il richiamo, parlottava a bassa voce rivolto a quello
dietro di lui, che in silenzio e rigido sull'attenti, ascoltava come
se stesse prendendo ordini.
Non
riusciva a distinguere bene cosa gli stesse dicendo, e purtroppo lei
non sapeva affatto leggere le labbra.
Si
sorprese però – con all'inizio una nota allarmata
– quando vide
il giovane distanziarsi dal suo signore per andarle incontro, mentre
l'alto rideva sfacciato ad un Aporro che, senza comunque muoversi di
li, gli chiese a gran voce che cosa intendesse fare.
“Sta
tranquillo amico mio – biascicò la Quinta Espada
andandogli
incontro lentamente – Ci baderà Tesla alla tua
femmina, mentre noi
due ci facciamo una bella chiacchierata, ti va?”
No,
non che a Szayel andava. Affatto per giunta.
E
la smorfia che si dipinse sul volto elegante del folle scienziato, la
diceva lunga sui sentimenti di sufficienza che nutriva verso il
proprio collega. Che seppur era maggiormente superiore a lui in scala
gerarchica, non approvava i suoi modi così diretti e poco
raffinati.
“Non
sono in vena di chiacchierare Nnoitra. Non abbiamo il tempo per
simili sciocchezze e...”
“Sai
che ho notato una cosa interessante del tuo nome?”
Aporro
detestava i babbei, ma ciò che detestava maggiormente era
essere
interrotto bruscamente. E quello che il suo interlocutore aveva
appena fatto, ebbe il potere di rabbuiarlo in volto.
Già
dal corridoio i nervi si erano fatti fragili, in più ci si
metteva
quell'idiota con discorsi totalmente differenti. Non capiva ormai,
quale compagnia fosse peggio. Se la femmina mortale, o l'Espada.
“E
sentiamo, caro mio... – trattenne un lungo sospiro di
rimprovero
per se e continuò la domanda – cosa c'è
di interessante nel mio
nome?”
Nnoitra
abbassò per un breve momento il capo verso terra, quasi
divertito
dalla collera trattenuta a stento dal povero Octava. Girò
persino un
po' in circolo attorno al proprio interlocutore, con passi eleganti e
un poco teatrali. Giusto quel tanto per riuscire a far irritare
ancora di più quel povero sfigato.
“Ho
notato – altro mezzo secondo di silenzio – che
tutti e tre i tuoi
nomi, ossia Szayel Aporro Grantz, sono perfettamente composti da sei
lettere ciascuno...”
“E
questo dovrebbe interessarmi secondo la tua logica?”
“Magari
si... Se involontariamente porti il numero del diavolo!”
In
effetti non ci aveva mai fatto caso, e ora che glielo faceva notare,
si ritrovò a sbattere le palpebre perplesso.
Il
numero seicentosessantasei era strettamente legato alla bestia,
e in quanto scienziato, era un nemico naturale di Dio. Il fatto che
portasse addosso una simile stranezza comunque, avrebbe anche potuto
renderlo un po' onorato, se non fosse stato che la giornata era
partita malissimo.
“E...
Prova ad indovinare di quante cifre è formato il nome della
ragazza?”
Il
gioco però continuava, senza tener conto delle deduzioni del
dottore. Prendendolo alla sprovvista, e distraendolo dai propri
pensieri. Irritandolo ancora e non poco.
“A
parte essere formato da sette cifre, non vedo co...”
Si
fermò stupito una volta capito il poco simpatico giochetto,
mentre
l'ennesima folata di vento scompigliò i suoi capelli
delicati. Se
era un quesito posto per passarsi il tempo, era davvero di pessimo
gusto, e quasi sicuramente era stato creato per girare attorno alla
portata principale del piatto.
Il
numero di lettere con con cui era composto il nome di Orihime,
equivaleva all'esoterico sette. Il numero di Dio.
“Molto...
Molto divertente Nnoitra. Complimenti”
Non
era affatto un complimento, e gli occhi ancora spalancati per il
ragionamento fatto, lasciavano intendere una certa nota stizzita nei
confronti del molesto e allampanato interlocutore.
“Aha,
grazie! E dimmi... – l'Espada si fece improvvisamente
più vicino a
lui con fare complice – è davvero una fanciulla divina
la
tua?”
Se
solo non avesse avuto una tabella di impegni da rispettare, avrebbe
volentieri impalato la gola di quel buffone giusto per farlo stare
zitto un paio d'ore.
Tuttavia
invece, decise di cambiare decisamente argomento che non scadesse per
forza di cose nello scabroso, puntandosi unicamente su come si fosse
passato la serata l'Arrancar guerriero.
“Piuttosto,
sei stato a caccia in queste ultime notti... Giusto?”
“Uhu,
e con questo?!” volle sapere un Nnoitra velatamente annoiato
per
quel cambio di programma.
“Trovato
niente di interessante tra le dune?”
La
domanda che Grantz voleva dare si allacciava principalmente allo
status di suo fratello. Il fatto che gli Hollow fossero in
agitazione, poteva presagire che gli Shinigami erano ormai entrati in
guerra, e di conseguenza era bene tenersi pronti.
Ad
ogni modo, la risposta che Jilga rilasciò a quella noiosa
domanda,
fu a dir poco sconcertante.
“Bah!
Non abbiamo trovato nessuna preda nel raggio di
chilometri! Ci
è semplicemente parso di sentire delle voci verso sud-ovest,
ma
nulla di più... Veramente una cosa assurda!”
La
delusione in quella voce guerriera era tanta, mista ad una rabbia
quasi infantile. Ma ciò che lasciò ammutolito e
pensieroso Szayel,
fu il fatto che ora come ora Nnoitra smentiva i fatti descritti da
Yylfort. Rendendolo perplesso e, per sua sfortuna, un poco
preoccupato.
“Capisco...
Un magro bottino insomma”
Ma
se non era stato un combattimento a deturpare il volto di suo
fratello maggiore, chi altri era stato?
-
- - - - - - - - -
Inoue
non sapeva esattamente cosa fare.
All'improvviso
si era ritrovata il ragazzo di fronte, ma lui non sembrava
particolarmente interessato alla sua reale presenza. Continuava a
restarsene sull'attenti, e a guardarla con l'unico occhio che
possedeva – l'altro era coperto da una benda nera –
con
tranquillità apparente. Quasi con noia avrebbe aggiunto.
Il
silenzio che correva tra i due la stava improvvisamente mettendo in
ridicolo imbarazzo, e nel cercare di spezzarlo, le uscirono dalla
gola solo dei mugugni strozzati. Cosa che il nuovo arrivato, se ne
accorse.
“Non
sono qui per farti del male”
Lo
disse in modo schietto ma comunque gentile, se
così si poteva
definire il tono morbido usato. E nonostante la sorpresa della
risposta ricevuta, strano ma vero la fanciulla si calmò un
poco.
Rimanendosene
comunque diffidente e tenendosi lontana da lui di un paio di passi.
“Capisco”
mormorò lei, quasi disilludendosi di poter ricevere in quel
luogo,
un po' di gentilezza genuina. Portandosi ancora alla sabbia, ma
questa volta solo per poterla esaminare meglio. Chinandosi a terra, e
posando le dita su quei granelli bianchi delicati e caldi. Anche se
li dove si trovavano i due c'era la leggera ombra della colonna a
coprire quel tratto di sabbia, la superficie rimaneva comunque calda
grazie ai lontani raggi solari.
Scavando
leggermente con le dita quella superficie così friabile, le
parve
persino da andare a toccare la zoccolatura della grande colonna
distrutta. Cosa avesse portato quel luogo alla distruzione, lei non
poteva saperlo, ma fu forse spinta da sentimenti nostalgici per quel
posto – e per se stessa – che iniziò a
tracciare sul terreno
malleabile quelli che erano autentici fiori stilizzati.
Non
era mai stata brava con il disegno Orihime, ma le piaceva lo stesso
disegnare. Anche cose che non c'entravano nulla con il tema o
l'ambientazione in cui creava.
Anche
sotto lo sguardo vigile e neutrale di chi iniziò ad
osservarla con
velata curiosità, senza comunque spiccare una parola.
Le
geometrie contorte ed infantili che Inoue tracciava sulla sabbia,
recavano fiori che comunque nella realtà esistevano. Erano
margherite dalla corolla gigantesca, tulipani dalla campana
più
grande del gambo, e le calle erano sproporzionate rispetto al resto
della composizione.
Certo,
non erano i fiori più belli del mondo, ma erano comunque dei
fiori
nati in un luogo dove non dovevano stare. Partoriti dalla sua
immaginazione sincera, si immerse in quel prato immaginario, e in un
gesto di pura inventiva, si accinse a cogliere uno ad uno i gambi
invisibili dei fiori.
Uno
a uno il coglieva a farne un mazzo maestoso, che però nella
realtà
di quel mondo vuoto si perdeva come il vento. Portandoseli a tratti
al naso, per sentirne una fragranza che le sembrava non sentire
più
da secoli.
Questo
gesto quasi assurdo e infantile per come poteva apparire ad alcuni,
non le fece dimenticare che accanto a lei, ancora in piedi e con le
braccia incrociate dietro la schiena, vi era quel giovane Arrancar di
guardia ai suoi giochi.
Si
voltò appena per scrutarlo, ma constatò che su
quel giovane volto
non c'era nessuna espressione contrita dal disgusto o dalla
perplessità, vedendola comportarsi quasi come una matta.
Ma
solo uno sguardo lievemente incuriosito e nulla più.
“Ne
vuoi uno?”
Le
parole le uscirono di bocca improvvise, così come il gesto
di
allungare il braccio verso di lui, e porgli il fiore immaginario
appena colto.
Quello
giustamente, la guardò un po' stupito per quella strana
offerta.
Mentre il braccio della fanciulla continuava ad essere proteso verso
di lui in un gesto cortese e un po' triste.
Triste
come il suo sorriso.
“Come
scusa?”
Era
lievemente perplesso, ma non per questo shoccato da quel
comportamento assurdo e apparentemente folle. Ma la buona fede non
bastò con il timido approccio della femmina, che accortasi
forse di
essere stata troppo sognatrice, decise di ritirare il braccio
imbarazzata.
“No...
niente. Perdona se...”
“No
aspetta, lo prendo volentieri”
Si
rese conto del gesto della ragazza, delle sue reali motivazioni, solo
quando stava per subentrare la ragione di aver commesso un atto a dir
poco stupido. Era puro istinto quello che gli diceva di provare a
portare – un poco e comunque rimanendo istintivamente
distaccato –
un po' di serenità ad una femmina che sembrava,
effettivamente, non
aver passato una bella giornata. Così come quasi sicuramente
la
permanenza a Las Noches non doveva essere il massimo per una umana.
Prese
il “fiore” dalle mani della ragazza con una certa
attenzione, per
poi portarselo al volto e sentirne la fragranza invisibile.
“Ha
un buon profumo, davvero”
Il
primo gesto gentile che Inoue ricevette da quando si trovava li,
venne da un ragazzo poco più grande di lei – per
dirla in termini
spicci, dato che forse contava qualche secolo – che stette a
quel
gioco infantile accennando persino un timido sorriso.
Sorriso
che lei accolse con uno di rimando però fortemente
imbarazzato
quanto stanco.
“Ti
ringrazio...”
-
- - - - - - - - -
“Che
cosa stanno facendo quei due...?”
Gli
Occhi ambrati del Grantz, si spostarono allarmati oltre la magra
figura della Quinta Espada, nell'atto di osservare i due soggetti
accanto ad una colonna crollata, allontanarsi da essa e sparire
dietro la parte caduta a terra.
La
giovane femmina umana stava seguendo la Fracctiòn di
Nnoitra,
disobbedendo così agli ordini di rimanere sempre in vista.
Di quella
faccenda se ne accorse pure il sire del giovane servo, che
guardò in
direzione della colonna crollata osservandone la scena.
“Massì...
Sono ragazzi Aporro! Lascia che si divertano un po'!”
Il
malizioso umorismo dell'Arrancar non era una buona giustificazione a
ciò che stava accadendo. Quella stupida era sotto la sua
responsabilità, e se le fosse accaduto qualcosa che
l'avrebbe
portata magari a farsi davvero molto male, ci
sarebbe andato
di mezzo lui.
Senza
contare quindi Nnoitra che cercava – ridendo – di
dissuaderlo
dall'andare a interrompere i due, si
affrettò a passi veloci
a scendere la gradinata e raggiungere il luogo in rovina.
Non
era semplicemente una giornata iniziata male, ma ad irritarlo
maggiormente, c'erano i segreti che suo fratello teneva per se a
tormentarlo di irritazione. Quasi lo facesse apposta a raccontargli
balle.
Una
volta arrivato a destinazione, svoltando il candido angolo della
colonna spezzata – e levigato da secoli di intemperie, vide i
due
giovani disubbidienti chini a terra e intenti a delineare sulla
sabbia disegni della più svariata natura.
Le
dita tese sulla superficie piatta e friabile, si fermarono di punto
in bianco alla vista di quello sguardo cupo e inquietante. Entrambi
lo squadrano con sguardo sorpreso, e negli occhi della femmina non
mancò una certa nota preoccupata.
Erano
giochi innocenti i loro, fatti solo per passarsi il tempo e nulla
più. Ben lontani da pensieri poco ortodossi che riempivano
la testa
ad individui ben più grandi di loro.
Ma
l'anima dell'Octava Espada era nera, e il suo unico ordine non
andò
affatto commentato da nessuno dei due.
“Il
tour per quest'oggi è finito, Orihime”
Un modo un po'
brusco per interrompere il capitolo, lo so! Ma avevo scarse idee, e
per giunta la mia ispirazione è andata un po' scemando
mentre
scrivevo tale episodio. Tuttavia ce l'ho fatta a finirlo, anche se mi
ha dato un po' di problemi nella descrizione del luogo.
La Sala della grande
Ipostele per chi non lo sapesse, esiste veramente e si trova in
Egitto. A Karnak.
Un tempio
decisamente vasto famoso per la sua sala piena di colonne.
Mentre per l resto
del capitolo, alcuni di voi avranno finalmente decifrato il
perchè
Zommari parlava dei numeri sei e sette. Mentre la citazione prima del
titolo, è una mia inventiva. Ma la spiegazione data alla
frase in
latino è vera, significa proprio quello che c'è
scritto.
Oltre a questo
volevo ringraziare chi mi ha recensito!
Exodus: i
congiuntivi sono il mio peggior nemico! Scherzi a parte, ti ringrazio
della segnalazione. Cercherò di stare più
attenta. Per la mitologia
Hollow ti dirò, è la parte della storia che mi
diverte di più.
Certo però, la vera sfida sta nell'inventarsi un mito, senza
andare
troppo fuori l'ambientazione originale del manga. Spero apprezzerai
i miei futuri tentativi, intanto grazie XD
Serenity: Si
è vero, Szayel non è esattamente la persona
più “solare” di
questo mondo, quindi non c'è da stupirsi se Orihime non se
la passi
un granché bene (anche se forse manco con Ulquiorra era a
suo agio
mi sa...). Non stupiamoci dei pensieri che lui fa, poi se ti chiedi
se attuerà o meno il suo diabolico piano, è tutto
da scoprire. Ti
lascio nel dubbio... Esattamente come dici tu, “tutto
è da
scoprire”
raxilia_running:
Posso ben immaginare cosa stavi provando nel leggere il capitolo! Mi
è poi piaciuto come lo hai definito, cioè
affilato come un bisturi.
Sinceramente, credo che sia un termine azzeccato per un personaggio
come quello di Aporro che, con l'aggravante di essere uno scienziato,
è privo di scrupoli. Ti ringrazio ancora che ancora una
volta ti
mostri una fidata lettrice ^^
Ps: Mi ero
ripromessa di non aprire altre longfic oltre questa, invece l'ho
fatto eccome! “Enjoy the Silence”
mi sta riservando
parecchie sorprese, quindi tanti spin off in parte (o velatamente)
legati a tale storia ci saranno. Niente di così
“pesante” da
andare a collegarsi strettamente con la trama principale, ma solo
episodi che riguarderanno personaggi differenti. Anche della Soul
Society.
Il
primo spinoff che mi sono concessa è “Stirb
nicht vor mir”,
e non dovrebbe andare oltre i sette capitoli.
Per
il resto mi auguro abbiate fatto buona lettura!
|
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Capitolo 15 *** Verdugo ***
“Scagli la pietra chi è senza peccato,
Scagliala tu perchè io ho tutto sbagliato”
[Proverbio molto popolare tra gli Inferi. O almeno questo è
ciò che
si dice]
Enjoy
the Silence
Verdugo
La paura.
Il più antico istinto che
gli esseri viventi provano.
Spesso
striscia famelica
tra le ombre più ignote, colpendo insidiosa anche la psiche
più
forte. Riducendo ad un pivello persino la mente più astuta.
Spesso si aggrappa ai
nervi del cervello e genera violenti brividi che degenerano, quando
la situazione è critica, in scosse elettriche che portano il
panico.
La paura insomma, e questo e null'altro.
Iceringer questo lo
sapeva. Lo sapeva alla perfezione dato il lavoro che faceva.
Non era un individuo
adatto a sfilare per le vie del palazzo regale, e tanto meno aveva
possibilità a stare con gli altri suoi simili. Era uno
squallido
reietto proprio come il suo collega Demoura, che in quel preciso
momento di riflessioni, se ne stava a due livelli più in
basso a
dove si trovava lui.
Iceringer conosceva alla
perfezione il dedalo di vie e cunicoli, che caratterizzavano
l'ingresso ufficiale all'Hueco Mundo. Vi ci era stato relegato
assieme a quel demente di Demoura, dato che di creature deformi e
quasi inefficienti Aizen non ne aveva bisogno.
No, non erano esattamente
due scherzi della natura, ma erano comunque considerati due casi
anomali dai loro stessi simili. E pertanto, meno li si vedeva in giro
a palazzo, meglio era.
Un basso lamento simile ad
un muggito, gli giunse alle orecchie chiaramente e ciò lo
fece
lievemente sbuffare. Muovendosi appena sul cilindro bianco su cui si
era precedentemente appollaiato, il guardiano parlò.
“Che c'è mio buon
amico? Anche questa storia ti angustia?”
un leggero sfogliare di
pagine si sostituì a breve alle parole dell'Arrancar, con un
suono
secco e deciso che rimbombò per tuta la grande sala
circolare.
Iceringer stava leggendo
un libro in una delle sale più remote e profonde del
labirinto di
ingresso, e lo stava facendo unicamente per passarsi il tempo e
rallegrare un po' il buon Demoura.
La sala era immensa, e
finiva con un una grande cupola forata nel centro. E da sotto il
pavimento, immensi piloni bianchi sorgevano come alberi, scontrandosi
tra loro in una sorta di lotta per raggiungere l'unica fonte di luce
del luogo.
Dal foro posto sul tetto
della grande cupola, pioveva acqua a gran quantità data una
perdita
secolare delle tubature fognarie. Ma nonostante l'orrido olezzo che
circondava l'ambiente, nulla toglieva alla maestosità
poetica del
luogo.
Da sotto intanto, un altro
lamento arrivò alle orecchie del guardiano, ma questa volta
ancor
più indecifrabile del primo.
L'avvoltoio sospirò
chiudendo di scatto il libro a quelle proteste mugugnanti. Bisognava
portare pazienza con quel gigante, ma era comunque un suo amico
–
l'unico – e non c'era motivo di accanirsi troppo verso quella
creatura afflitta da demenza.
Il volume che stava
leggendo non era molto corposo a dire il vero, era un vecchio libro
di poche pagine se paragonati ad altri ben più voluminosi
presenti
in biblioteca – uno dei pochi posti dove non fosse guardato
dall'alto in basso – e il titolo in copertina citava
lapidariamente
“Verdugo”.
Una
storiella piuttosto
paradossale, e per molti la versione arcana de “L'epopea di
Ichigo
Kurosaki”. Narrava la storia di un Hollow piuttosto potente,
tale
Verdugo, che spesso si ritrovava a vivere avventure al limite del
rischioso in tutti i sensi a causa della propria arroganza.
Spadroneggiava in lungo e
in largo per tutto l'Hueco Mundo, sempre in cerca di sfide e
avversari con cui confrontarsi, fino a quando la propria spavalderia
non fu causa della sua stessa rovina.
Tale sventura arrivò
quando Verdugo incontrò un uomo nel deserto, decidendo
stupidamente
di molestarne il pellegrinaggio.
Il tale che aveva deciso
di tormentare pur di ottenere un duello, era un servo degli inferi,
che gli propose una “sfida” particolare pur di
scollarselo di
dosso.
Ma proprio come accadeva
nel libro degli Shinigami, anche il povero Verdugo andò in
contro ad
una cocente sconfitta e ad un finale che aveva la sua amara
spiegazione morale.
In pratica, l'omino
pallido e vestito di semplici abiti di pelle, suonando un motivetto
malinconico con il proprio strumento, sfidò l'Hollow a
cantare a
tempo la canzone legata al motivetto.
Verdugo letteralmente fu
tratto in inganno come un allocco, e camminando per il deserto
concentrato unicamente nella sua sfida, non si accorse che il paria
lo condusse all'inferno senza poter più far ritorno a casa.
Una fine decisamente
angosciante, ma che stranamente strappava parecchie risate sguaiate
agli Hollow, poco consci del significato nascosto di tale storiella.
Le dita
sottili –
decisamente troppo sottili per impugnare una spada
–
chiusero di scatto il libro quando i lamenti di Demoura divennero
più
forti e stentorei in una maniera assai preoccupante.
Iceringer di istinto
nascose il volume sotto le pieghe del poncho, fiondandosi come una
saetta verso i piani inferiori di quella foresta intricata per
raggiungere il più velocemente possibile, un compagno che
pareva
letteralmente terrorizzato. Accarezzando letteralmente le pareti
lisce dei cilindri con i propri calzari, lo storpio avvoltoio
volò
fino in basso con una agilità a dir poco sorprendente.
Appena toccato il suolo
del livello più basso, un leggero rumore d'acqua smossa
accolse il
suo arrivo, soppiantato poi da un rumore ben più strano.
“Demoura! Dove sei
finito?! Rispondi!”
Un grido lontano si perse
in un eco senza fine tra le pareti di quei bui corridoi
claustrofobici, accompagnato con sempre più insistenza da
quelle che
sembravano le note malinconiche di uno strumento a corda. E data
l'armoniosità della musica, lo strumento che accompagnava le
grida
del suo compare doveva essere un violino.
“Demoura...?!”
Confuso, l'Arrancar dalle
fattezze simili a quelle di un corvo, sbatté le palpebre
confuso in
direzione di un corridoio dal cupo mantello di tenebra, cercando di
capire se davvero ciò che sentiva era il suono di uno
strumento
musicale, oppure solo le gocce d'acqua di mille e più
tubature rotte
che cadevano al suolo rimpinzando le già corpose pozzanghere
presenti sul pavimento.
Nulla.
Solo l'eco della sua voce
che si perse attutita lungo quei corridoi stretti e scuri, gli giunse
a risposta. Spaesato per tutta quella improvvisa confusione,
Iceringer provò ancora una volta a chiamare il compagno
disperso, ma
questa volta mettendoci ancora più tono nell'urlo
autoritario.
Nulla.
Ancora una volta la sua
voce si perse per le pareti piastrellate di freddo cemento armato dei
corridoi, fino a scomparire del tutto lasciandolo ancora una volta da
solo.
Era come se Demoura fosse
letteralmente scomparso nel nulla, e la cosa non gli garbava neanche
un po'.
Continuò quindi quel suo
giro di perlustrazione praticamente a vuoto, sfruttando il sonido in
momenti alterni durante il suo girovagare per quei corridoi bui e
fetenti come il ventre di un bue sventrato, senza però
trovare
tracce dell'Arrancar assente. Per quanto conoscesse come le logore
tasche della propria mantella quell'umido posto, non riusciva a
trovarlo da nessuna parte.
Volatilizzato come quel
dannato suono armonioso che lo aveva accolto nella sua precedente
caduta nell'abisso.
“Cazzo... Dove sei
finito, dannato demente?!”
Il panico gli stava
sconquassando le budella con sempre più costanza fin quasi a
dargli
il nervoso. Non era da lui perdere le staffe in quel modo, ma la
situazione era critica. Se quel pazzo fosse caduto in un fossato, poi
con chi avrebbe parlato Iceringer?
Poi
ecco, dopo giri a
vuoto in quel dedalo di vie e cunicoli, il misterioso suono si fece
risentire alle orecchie dell'Arrancar guardiano.
Per tal motivo dovette
fermarsi con il fiato in gola, esaminando attentamente ogni suono e
rumore naturale, concentrandosi unicamente sulle note musicali, e
separando le gocce d'acqua che inquinavano l'atmosfera.
“Che io sia
maledetto...” bisbigliò alla fine.
Riuscendo a captare una
fonte sicura alla propria destra, in un corridoio immerso
nell'oscurità e nel fetore più assoluto.
Ci si immerse ancora in
quel buio conosciuto, questa volta però a passo d'uomo e non
più
correndo come un folle.
Il perchè non lo sapeva
neppure lui, ma in quel cunicolo stretto, la musica si faceva sempre
più insistente, e ora era davvero riconducibile a quella di
un
delizioso violino. Assurdo ma vero, qualche pazzo furioso stava
suonando in quel luogo dimenticato da Dio – e molto
più simile ad
una discesa negli inferi – e non era frutto
dell'immaginazione.
Per tale motivo Iceringer
avanzò piano verso la fonte del suono, con circospezione e
tenendosi
costantemente sulla difensiva.
Un passo, e iniziava a
scorgere una sagoma asessuata in mezzo a quella notte viva e
purulenta.
Ancora un altro passo, e
improvvisamente si accorse di come il fiato gli si condensasse
all'interno della maschera a forma di becco. Era caldo respiro che
andava a sbattere contro l'ossatura interna bianca e liscia, ed era
incredibilmente rumoroso dentro quella maschera maledetta.
Non solo, ma più si
avvicinava a quella... Quella cosa, più
avvertiva il cuore
che stranamente pompava sangue e quasi gridava dentro petto.
Ne scorgeva sempre più i
dettagli sconvolgenti, di quello che immerso nella notte suonava
imperterrito, e dava l'idea di non essere un Arrancar come lui.
Immersa nella tenebra
riconosceva a stento le pieghe di una schiena nuda e candida,
deturpata da quelle che sembravano cicatrici o corrosioni dovute al
fuoco assassino, dalla restante silhouette avvolta in abiti scuri e
presumibilmente di pelle.
A stento riusciva a
vedergli le agili dita che, come tentacoli, si districavano in quel
nero per muovere l'asta dello strumento, e sempre con poca chiarezza
vedeva dei fugaci lampi rossi riconducibili agli occhi.
Quegli occhi... Così poco
umani da sembrare solo delle sfere rosse come il
fuoco degli
inferi, dettero un freno definitivo al confuso e spaventato
guardiano, portandolo a fermarsi davanti a quella visione a dir poco
assurda.
“Chi sei?!” volle
sapere a bruciapelo lui.
Bloccando quel suono
melodioso con le proprie – tese – parole, e
arrestandone
l'esecuzione dell'artista maledetto.
L'individuo che a stento
riusciva a vedere, bloccò le membra in un gesto che
trasudava poca
naturalità, somigliante ad un gesto meccanico come quello di
un
vecchio burattino.
Persino il voltare la
testa in modo impercettibile verso chi aveva fatto domanda, parve ad
Iceringer di sentire il cigolio delle vertebre che si spostavano.
Spaventoso, a dir poco
spaventoso quello di non sapere cosa si guardava in quel preciso
momento.
“Chi sono...?!” fece
in risposta la misteriosa figura.
Con una voce strana come
camuffata da tanti stracci che coprivano il volto di un individuo,
tanto da risultare a dir poco soffocata.
“Si esatto –
l'Arrancar prese coraggio per quella mezza domanda idiota –
dimmi
chi sei e che cosa hai fatto a Demoura!”
“E... Sapere il mio nome
risolverà il destino di.... Demoura?”
La voce giungeva lontana e
di difficile comprensorio in mezzo a quel silenzio assordante.
Piccolo particolare portatore di nuovo nervosismo al guardiano, visto
che si stava temporeggiando e forse quella era tutta una trappola
ordita dagli Shinigami. Ma per uno strano motivo la
sua gola
era incredibilmente secca e poco disposta a pronunciare verbo, e mai
Iceringer si era sentito così alle strette come in quel
momento.
Neppure con Aizen sama.
“Ad ogni modo, mi chiamo
Malikai Flammer...
Lieto di
conoscerti, guardiano Iceringer...”
Le parole cupe e soffocate
giunsero lapidarie alle orecchie dello sventurato corvo, che per un
motivo noto solo a lui si ritrovò con il sangue gelarsi
all'improvviso nelle vene. E non era solo per il fatto che quel
bastardo conoscesse il suo nome.
No.
Mentiva.
Era un fottuto pazzo
maledetto che stava mentendo. Un autentico cazzone
che gli
aveva portato via l'unica compagnia che avesse, e ora per
sbeffeggiarlo ulteriormente, aveva ripreso a suonare quel suo dannato
strumento e ad allontanarsi lentamente da li.
“Tu menti... Tu sei
pazzo... ! Dimmi dov'è Demoura, ora!!”
Non era da lui toccare
lievi note isteriche partorite dalla paura più buia e nera
che
conoscesse, ma lui trovava ridicolo che quella cosa
portasse
lo stesso nome di quello presente nel libro posto sotto il suo
poncho.
Malikai Flammer, paria
leggendario degli inferi, che condusse il malvagio Verdugo
all'inferno con il suono del proprio violino, era apparso davanti ai
suoi occhi sconcertati. La stessa enigmatica creatura che aveva
sfidato il pericoloso Hollow a cantare stando al ritmo del suo
violino, portandolo sempre più negli oscuri budelli della
terra.
Lo stesso Malikai che ora
era letteralmente sparito dalla sua vista ad un batter di ciglia,
lasciandolo ancora una volta solo e confuso. Oltre che scosso da
così
tante emozioni, che provare ad urlarle tutte era pressoché
impossibile.
No.
Non era vero.
Era stata una
allucinazione dovuta alla troppa suggestione che quel luogo portava
ai visitatori. Doveva essere così, sennò non si
poteva spiegare
l'improvvisa emicrania che lo colse, portandolo a massaggiarsi le
tempie al limite della frustrazione.
“Cosa... Cosa sta
succedendo?!”
Mai in
tanti anni di servizio in quel luogo per reietti, si sarebbe
aspettato di impazzire per la solitudine. Proprio lui che di
solitudine ci aveva quasi fatto una filosofia di vita, ora era al
limite della confusione dal retrogusto amaro della pazzia.
Solo
qualche secondo dopo quelle amare riflessioni, un altro suono
più
acuto e agghiacciante gli giunse alle orecchie, risultando a dir poco
fastidioso all'interno della sua maschera di Hollow.
Un
grido che si perdeva tra i corridoi del dedalo oscuro si fece
risentire più forte di prima e quasi con rabbia,
appartenendo ad una
creatura che il guardiano conosceva fin troppo bene.
“Demoura!!”
E con
i nervi devastati dall'ennesima scossa di adrenalina, Iceringer
scattò nella direzione da dove era giunto in precedenza per
soccorrere un compagno disperso.
Abbandonandosi
finalmente quel budello ignoto alle spalle.
[…]
Sabbia.
Sempre
e solo sabbia in ogni dove.
Ci
stava facendo l'abitudine a tutta quella roba bianca come il latte,
ma se non altro era un luogo così noioso che le cattive
compagnie
scarseggiavano di brutto.
Starrk
sbuffò annoiato dinnanzi a tutta quella monotonia, che
purtroppo
caratterizzava ogni centimetro del suo regno fino ai confini dei
territori degli altri.
Niente
rovine antiche, pochi speroni rocciosi, ma in compenso tante dune di
sabbia da far venire la nausea. L'unica cosa davvero degna di nota in
quelle lande così noiose, erano le due oasi di acqua
cristallina
presenti in mezzo a quel nulla.
Una
era verso ovest, ed era situata all'interno di un piccolo canyon
dell'unica formazione rocciosa del suo regno. L'altra era un'oasi
vera e propria circondata da palme fossilizzate, se
così si
potevano chiamare quei grotteschi alberi di calcare, ma andando verso
sud e verso l'interno di quel mare di dune.
“Lilynette...
Non correre!”
Sbadigliò
quell'ordine ad una vivace bambina che scorrazzava per tutta la piana
ancor più annoiata di lui. La sua giovane
Fracctiòn, dall'apparente
età di una bambina dodicenne, non amava starsene ferma molto
a
lungo, e quelle passeggiate di perlustrazione erano qualcosa di a dir
poco tedioso.
“Ma
sta zitto...” brontolò di giusta risposta lei.
Scalciando
la sabbia e snidando così dei piccoli scarafaggi bianchi.
Piccole e
insignificanti creature dall'effimera esistenza, che catturarono la
curiosità della bimba annoiata al limite della frustrazione.
Incuriosita
da quelle semplici forme di vita, ignorò la voce del Primera
Espada
che le imponeva di non allontanarsi troppo, dato che era il
crepuscolo e il tetto del cielo si era fatto ormai nero. Eccetto il
rosso bagliore sangue del sole stagliato all'orizzonte, ormai una
nuova notte stava calando nel purgatorio.
“Guarda
che è tardi! È il caso di ritornare a
palazzo”
Niente
da fare, Starrk non riusciva a portare l'ordine verso quella piccola
scalmanata ormai del tutto concentrata a pensare ad altro.
Quando
Lilynette osservava qualcosa che le suscitava interesse, seppur
minimo, non c'era modo di scollarla da li.
Per
questo un po' per stanchezza personale, e un po' perchè
decisamente
non aveva voglia di polemizzare, sbuffò seccato
incamminandosi
lentamente verso il castello.
“I
cuscini non ti scappano via...”
la
giovane borbottò quelle parole quasi a bassa voce e
distrattamente,
mentre osservava i piccoli insetti scalare una duna di sabbia
piuttosto alta, facendo fatica nel muovere le sottili zampette su
quella sabbia friabile e resa rossa dai raggi del sole.
I
piccoli granelli di sabbia che trotterellavano giù ad ogni
loro
movimento, sembravano gocce di sangue che scivolavano giù
delicate
ed effimere.
Una
visione affascinante anche se così non era, ma quello era
uno dei
pochi passatempi che poteva permettersi. In pratica, senza neppure
accorgersi dello sforzo di scalare quella ripida duna di sabbia,
seguì tutto il percorso di quelle creature fino a giungere
in cima.
Ove i
raggi del sole erano più vivi, e le sferzate di vento che
prima
minimamente non la toccavano, ora si fecero sentire con il gelo
portato dalla notte, e il fetore di qualcosa di ben
più
strano e anomalo.
Lilynette
per questo, confusa per quella misteriosa stranezza, si alzò
in
piedi e lasciò momentaneamente perdere quelle creature
insignificanti, cercando di scrutare l'orizzonte coperto dai suoi
capelli sbarazzini.
“Ma
che cavolo succede?!”
Seccata
per quelle folate di vento gelido che le scompigliavano i capelli, e
per quella puzza che sapeva di morte, si portò una mano in
fronte
spostandosi i capelli e osservando in tal modo un paesaggio a dir
poco agghiacciante.
Un
tetro spettacolo che la portò a sgranare gli occhi dal
terrore,
trovandosi con la gola secca e faticando – incredibile ma
vero –
a trovare la forza di urlare il nome del proprio compagno.
Solo
un roco balbettio che nasceva in gola, recante il nome di Starrk che
nasceva sulle labbra, venne partorito in seguito in un urlo
disperato.
- - -
- - - - - - - - - - - - -
“Che
seccatrice... Ma non può per una volta darmi
retta?”
L'Espada
in quel momento stava parlando da solo.
Non
era propriamente arrabbiato con quella piccola canaglia, ma se non
c'era nulla da fare c'era poco da perseverare per quel luogo
dimenticato da Dio.
Bisognava
starsene nei propri appartamenti e basta, e diamine, un po' gli
dispiaceva comunque che Lilynette si annoiasse così.
Ma
altro non poteva fare che brontolare ad una sabbia silenziosa che non
gli rispondeva, e camminare piano così da permettere alla
bimba di
raggiungerlo senza troppi sforzi.
Ma ciò
che raggiunse Starrk in quel momento, non fu una bambina scalmanata.
Ne epiteti volgari che spesso lei gli indirizzava.
Ci fu
un grido a tormentare il deserto in quel momento, un grido acuto e
terribile fin troppo femminile e fin troppo conosciuto.
Uno
strillo che portò nel guerriero una espressione facciale di
stupore
mista a preoccupazione, e uno strano sentimento che dentro il petto
gli faceva male.
Anzi,
più che male. Era lacerante.
“Lilynette!!”
Non ci
pensò due volte a voltarsi per abbandonare la strada di
casa, e
raggiungere il luogo in cui quella stupida si era fermata.
Non ci
pensò due volte ad usare il sonido per spostarsi velocemente
smuovendo sabbia in gran quantità al suo passaggio, mosso
unicamente
da quelle grida che non smettevano un momento di cessare. Doveva
raggiungerla e basta, mai si sarebbe perdonato se le fosse successo
qualcosa. Qualunque cosa fosse successa in quel preciso istante.
Persino
la duna di sabbia scalata a fatica dalla bambina, per lui fu come
superare un semplice sasso, arrivando teso come un fusto alla
creatura improvvisamente zittita, trovandola totalmente sconvolta.
“Lilynette...
Cosa è successo?! Che hai?!”
il
giovane uomo tentò di scrutare in ogni dettaglio una bambina
rigida
nella sua postura, e intenta in rigoroso silenzio ad osservare
l'orizzonte sempre più scuro e invisibile. Risultandogli a
dir poco
sibillina per quell'atteggiamento improvviso e preoccupante.
“Ma
insomma, co...”
Gli ci
volle un po' a Starrk per realizzare cosa realmente avesse spaventato
a morte la piccola Fracctiòn. E quando se ne accorse, lo
stupore si
impadronì nuovamente del suo volto impassibile.
Ancor
prima di voltare lo sguardo verso il sole morente, il gelido vento
della notte gli pizzicò il naso a causa del forte odore di
morte che
si trascinava addosso.
Un
fetore indescrivibile, di centinaia e centinaia di corpi sbudellati
senza pietà, che ricoprivano l'intera valle con il loro
sangue e il
loro terribile fetore. Una macabra visione che il vento contrario a
loro aveva nascosto sino a quel momento.
“Dio...
Cosa diavolo è successo qui...?!”
Sconvolto
il Primera Espada osservava un autentico campo di battaglia che per
lo più, sembrava un mattatoio alla pubblica luce del sole
per tanto
che era raccapricciante tale visione.
Gillian,
Adjucas, Menos Grande, semplici Hollow... Il tappeto degli orrori era
immenso.
Corpi
mutilati e straziati che arrivavano sino all'orizzonte morente,
simbolo efficace di una mattanza avvenuta da poche ore, si
stagliavano pietosi agli occhi dei due Vasto Lorde.
“Starrk...
È terribile! Chi... Chi è stato?!”
piagnucolò la bimba.
Stringendogli
con forza un lembo della giacca del guerriero, attirandosi
così la
sua attenzione non più catalizzata in quell'orrore.
Per
tale orrore si protese a distogliere la fanciulla da quello
spettacolo di morte, coprendole il viso con un braccio nell'atto di
stringersela forte a se, tentando di riguadagnare la solita quiete.
Deglutendo,
Coyote Starrk tentò di tirare le somme di cosa fosse
successo sotto
di loro, e cosa avesse macellato tutti quei loro fratelli con
efferata ferocia.
“E
così... A quanto pare ci siamo...”
In
quel preciso istante, l'unica cosa che passava per la mente del
guerriero, era che l'Hueco Mundo era con tutta probabilità
entrato
nuovamente in guerra. Ancora una volta, dopo mille anni dalla
titanomachia che aveva coinvolto i suoi fratelli
predecessori,
si appresta ad essere versato altro sangue.
Quale
somma gioia per le orecchie di Aizen sama, sapere magari di quella
probabile possibilità di battaglia imminente.
Gli
Shinigami avevano finalmente dichiarato guerra al mondo vuoto, a
quanto pare...
Ce
l'ho fatta ad
aggiornare, dopo due mesi di silenzio.
Vabbè, mi ero presa
una pausa da questa storia, ma è anche giusto portarla
avanti.
Inoltre, questa storia l'ho inserita nella serie “hole in the
sky”
(dal titolo provvisorio).
Che dire di questo
capitolo? Ancora una volta mi sono occupata di personaggi
bistrattati. Iceringer e Demoura sono i due guardiani che la
compagnia di Ichigo affrontano appena entrati nell'Hueco Mundo.
Col fatto che si sono
visti ben poco, non so se sono andata totalmente ooc, se è
così
perdonatemi! Ma da quel poco che si è visto, Iceringer mi
è parso
che si preoccupasse per il proprio compagno. In più, il personaggio di Malikai è una mia creazione, per questa figura spettrale ho voluto usare un nome che suonasse malevolo e ricordasse le fiamme.
Comunque, la parola
Verdugo viene dallo spagnolo, e significa “boia”.
La canzone
prima del titolo invece, è dei Negramaro ossia
“mentre tutto
scorre”.
Ringrazio infine
Serenity e Yoko_kun per aver recensito lo scorso capitolo! Vi
ringrazio davvero e sono felice che abbiate apprezzato il capitolo.
Spero
abbiate
apprezzato la lettura!
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