Magici Draghi Hippie

di Sotorei
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Sulla Collina ***
Capitolo 3: *** Manca Qualcosa. E Qualcuno ***
Capitolo 4: *** Singhiozzi ***
Capitolo 5: *** Caffè ***
Capitolo 6: *** Cappelli ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo


«Incredibile» commentò la Valchiria. Le ali piumate le tremavano un po’. L’impassibile poker face le era scomparsa dal viso e la tiara era cascata all’altezza degli occhi. Se la sistemò con noncuranza. «Nessun umano mi ha mai sbaragliata così.»

Rei, il monaco sbrilluccicante, sedeva dall’altra parte e guardava le carte con aria trasognata, una sigaretta di marijuana in bocca. «Sì, be’, credo di essermi superato.» Indietreggiò un po’ con la sedia, alzò le gambe e le posò sul tavolo. Aspirò un paio di volte perché la canna non si spegnesse, poi fece un tiro e se la tolse di bocca. «Adesso ce l’ho, il permesso di rinascere?»

«Cazzo, se sì» rispose la Valchiria. «Non c’è manco da consultarmi col vecchio.» Sospirò, posò a terra la lancia dorata e allungò la mano. «Fa’ fare un tiro.»

«Non pensavo che le Divinità Minori fumassero.»

«Non lo penseresti nemmeno di quelle maggiori, ma vedessi Odino quanto spippa.» Fece un cenno impaziente con la mano tesa. «Molla l’osso, su.»

Il monaco eseguì. La Valchiria fece un lungo tiro e disse: «Oi, non dirlo a nessuno, però.»

«Perderò la memoria, no? Tanto vale.»

«La perderai solo fino a che non sarai Campione. Allora, be’, ti tornerà e con quella la mia bella faccia che aspira. Non dirlo a nessuno, c’è un’etichetta.»

Il monaco fece segno di chiudersi la bocca con una zip.

Rendendo la canna, la Valchiria disse: «Ma dimmi, perché vuoi rinascere?»

«Che domande. Si diventa più forti e tutto il resto.»

«Non me la tirare con queste stronzate. Ce ne saranno giusto un paio che raggiunto un livello simile se ne escono col diventare più forti. Insomma, rifarsi il culo tre volte per bicipiti più grossi… Non ne vale la pena. Parere personale.»

Rei annuì. «Devo sparire per un po’.»

«Ci sono metodi migliori.»

«È che sono pure abbastanza attratto dall’idea di rifarmi una vita. I miei amici l’hanno fatto tutti. Quasi. E poi, cazzo, guardami. Sono un lampione ambulante. Non è bello andare in giro brillando come vampiri scarsi al sole.»

«I vampiri non brillano.»

«Dicevo quelli scarsi.»

La donna aggrottò la fronte, il che fu difficile da notificare vista la frangia.

«E converrai che avere una lucetta vorticosa sotto al culo non è il massimo, se vuoi passare inosservato» disse il monaco.

«Che vuoi farci» replicò la Divinità Minore. «Hai raggiunto il massimo, per un umano. È giusto che te la tiri. L’aura serve a quello.»

«Il cazzo. Saranno giorni che non dormo. Io dico, prima che ve ne usciste con questa storia del puoi rinascere e levarti l’aura di torno, come faceva la gente? È per questo che non c’è più nessuno disposto a toccare il limite umano, perché dopo ti togli tutte le ore di sonno.» Fece un tiro. «Prima infatti non ci avrei mai pensato.»

«Va be’, hai le idee chiare.» La Valchiria si alzò. «Pronto?»

Il monaco sorrise. «Come funziona?»

«Cosa?»

«Il rinascere, dico.»

«Puoi scegliere. Ti do una bella botta in testa e ti svegli tra le braccia della tua nuova madre, che toccherà a me scegliere e seviziare per bene, altrimenti ti do una pozione delle mie, la bevi, insemini una donna ed et voilà! Il tuo vecchio corpo crepa, se vogliono lo seppelliscono o lo buttano ai Coboldi, e il bambino che nascerà sarai te.»

«Interessante. Direi la seconda. Quella cosa, là» e indicò l’enorme lancia dorata a tre punte che giaceva a terra, «deve far male. Non credo mi piacerebbe se mi colpisse. E chi toglie il piacere dell’ultima scopata?»

«Potrei colpirti con qualcos’altro.»

«Passo.»

La Valchiria sorrise. «Bene.» Si portò una mano alla scollatura del seno, nascosta dall’armatura, e ne estrasse una piccola fiala chiusa da un tappo di sughero. Gliela porse. Il monaco fece per accettarla, ma la Divinità Minore la ritrasse all’ultimo e disse: «Prima l’ultimo tiro.» 

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Capitolo 2
*** Sulla Collina ***


Il continente di Rune-Midgard è ricco di magia e meraviglie. Non c’è da stupirsi se composto da tante locazioni speciali. Tra le tante c’era, e della sua distruzione sto per parlare, Lutie, la città del Natale.

Non era facile raggiungerla perché in quanto a locazione speciale stava ben nascosta e serviva un teletrasporto, ma ne valeva la pena! Per lo meno prima che saltasse in aria. Potevi incontrare Mr. Pupazzo di Neve, l’emo dalle lacrime di ghiaccio consolabile dai soli aspiranti Bardi, i gemelli Alley e Thomas che elemosinavano come meglio si può e, naturalmente, Babbo Natale.

E l’Albero, il più grande mai visto! Alto cinquanta metri e largo trenta! Stava al centro della piazza e si diceva che salendoci era visibile la torre di Thanatos. Il re in persona aveva fatto sì che figurasse sulla moneta ufficiale ed era documentato che un monarca dei tempi lontani lo avesse avuto in giardino. La leggenda diceva fosse stato concimato con lo sterco del drago Detardeurus.

Si era soliti sperare non accadesse niente a quest’albero, per cui, mentre lo osservava cadere in avanti, staccandosi dalle travi mentre le lucette si spegnevano come una catena di Sant’Antonio, Vens pensò che il giorno dopo sarebbe stato lutto nazionale. In realtà lo pensò solo dopo aver visto divamparsi l’incendio. Non ci fosse stato quello sarebbe bastato risollevarlo e via. Ma se veniva bruciato…

«Ma come ha fatto solo ad accendersi, con tutta quella neve?» domandò Vens la pretessa, all’uomo che l’affiancava. Quello, che dai vestiti e l’aria poco sveglia doveva essere uno stregone, fece per ribattere, ma la ragazza proseguì: «Magia? Se non ci sono le condizioni atmosferiche giuste, anche quella fa cilecca.» Di nuovo, lo stregone fece per dire qualcosa, ma l’altra continuò: «Però con un potere magico abbastanza alto si può fare questo e altro.»

L’uomo sospirò. «Sì» disse, pensando che Vens aveva la cattiva abitudine di rispondersi da sola.

Si trovavano sulla collinetta che precedeva la città, poco lontani dal Ricevitore usato dai finti Babbi Natali dove apparivano le persone teletrasportate. Là si godevano lo spettacolo in tutto relax.

«Ehi, guarda.» Vens indicò giù. «È come ci fosse benzina. L’Incendio si allarga passando sulla neve per terra come servisse ad alimentarla. Incredibile.»

Ormai tutto il centro ardeva, primo tra tutti l’albero che era caduto in avanti e pareva una freccia incandescente a indicare la slitta di Babbo Natale, in fiamme anch’essa. Le renne dovevano essersela filata in volo, di loro non c’era traccia.

«Uh-oh» mormorò Vens.

Forse sorpreso che non continuasse, lo stregone mormorò: «Uh?»

«Mica c’è il negozio di fuochi d’artificio, là in fondo?»

Lo stregone scrutò l’orizzonte. «Sì.»

«Ahia.»

«Già.»

«Dici che facciamo meglio ad allontanarci?» disse Vens.

«Nah. Siamo abbastanza lontani.»

«Uhm.»

«Teniamo pronti i Muri di Sicurezza, in ogni caso.»

«Aye sir.»

Entrambi sedettero a terra.

«Certo che sono tanti» mormorò Vens dopo un po’. Frotte di persone si riversavano alla porta principale, che essendo di pietra non avrebbe preso fuoco, diretti forse verso il Ricevitore. E dove andavano, se no? Nessuno sapeva che ci fosse al di fuori di Lutie; chi ci si avventurava in genere non tornava, e chi lo faceva parlava di un deserto ghiacciato senza fine.

«La popolazione è sui trecento» disse lo stregone. «Sembrano tanti perché tutti insieme, ma per una città sono pochissimi.»

«Sarà.»

Entro poco il Ricevitore evacuò un numero imprecisato di persone. Le più audaci, che erano rimaste e tentavano di domare il fuoco, non stavano riscuotendo successo.

«Dici che dovremmo aiutare?» domandò lo stregone.

«E perderci lo spettacolo?» Vens scosse la testa. «E poi non credo avremmo speranze. Certo, se un pazzo si buttasse nell’acqua gelida sotto al ponticello e sparasse Palla Acqua, forse…»

Si guardarono e scossero la testa entrambi.

Poi Vens vide qualcuno risalire la collina, fuori dalla folla che si precipitava al Ricevitore. La pretessa aguzzò la vista e riconobbe due ragazzi. Trascinavano un contenitore munito di ruote grande quanto una diligenza. Forse avevano ripulito qualche casa in occasione dell’incendio. Però, viste le dimensioni, ipotizzò non l’avessero riempito a dovere, o non sarebbero riusciti a smuoverlo, anche in due.

«E quelli?» mormorò, quando erano ancora troppo lontani per sentirli.

Lo stregone si strinse nelle spalle. «Che facciamo?» chiese.

Vens si alzò, si stiracchiò e disse: «Quello che siamo venuti a fare prima di trovarci di fronte a una catastrofe. Potrebbero avere qualcosa d’interessante.»

«Pensavo fossimo venuti per reclutare.»

«Anche. Ma non possiamo mettere su una gilda se siamo al verde, non ti pare?»

L’uomo sospirò. «Il ruolo di briganti mal ci addice.» Anche lui si mise su due piedi, e iniziò a scaldar le mani in vista di qualche incantesimo.

Quando i due furono vicini, Vens avanzò a larghe falcate e gli si parò davanti. I due avevano difficoltà a far sì che il vagone o quel che era non capitombolasse giù a causa del pendio, e non la videro.

«Ehi, ehi» disse.

Ripreso il controllo del vagone, lo spadaccino in avanguardia la guardò con fare interrogativo. Aveva lunghi capelli neri legati in una coda e copriva parte l’armatura con un pesante mantello nero.

«Sì?» Aveva parlato la ragazza che lo succedeva, dai lunghi capelli rosa. Rosa. Vens lo notificò nonostante l’oscurità e si chiese se fosse possibile scacciare il cattivo gusto così come si fa con gli spettri. Visto l’arco a tracolla, la dedusse un’arciera.

«Perché venite di qua? Il Ricevitore è di là» disse la pretessa.

«Perché non andiamo al Ricevitore» replicò la ragazza, e sorrise mentre riprendevano a spingere. Ora che Vens lo notava, vestiva anche di rosa. Una tuta da arciere. Rosa. Non aveva creduto esistesse qualcosa più rosa di un Poring.

Lo stregone si fece avanti e disse: «Be’, è poco importante.» Alzò una mano, su cui vorticavano un paio di scintille lucenti, e gliela mostrò come monito. «Che avete là dentro?»

La ragazza rosa si fermò e lo guardò sgranando gli occhi, mentre lo spadaccino avanzava come nulla fosse.

Lo stregone mostrò la seconda mano e le scintille moltiplicarono. Disse allo spadaccino: «Questa dovrebbe essere un’intimidazione.»

«È riuscita male, allora» replicò quello, però si fermò. «Se volete la roba là dentro, non ci troverete molto. A parte un ragazzino con un grosso bernoccolo che russa.»

Vens guardò il compare. «Ci serve a qualcosa un ragazzino?»

«No.»

«Però non mi fido. Voglio vedere» insisté Vens.

In quell’istante le fiamme raggiunsero il negozio di fuochi d’artificio. L’esplosione fu tale che dovette sentirsi su tutto il continente, e i razzi partirono a destra e a manca vorticando nel cielo, tanti che forse guardando in alto da Prontera si sarebbe finalmente scoperta la direzione in cui si trovava Lutie.

«Bella» disse Vens, quando i timpani tornarono a funzionare. «Aspettavo solo questo.»

«Noi avremmo preferito evitarlo» disse la ragazza rosa. «Tutto. Non solo i fuochi.»

«Chi è stato?» domandò Vens.

Lo stregone le toccò la spalla, ritirando le scintille per l’occasione. «Dovremmo procedere. Non fa mai bene chiacchierare con chi si deruba.»

«E sta’ zitto, Cris.» Tornò a guardare la ragazza rosa. «Quindi?»

Lei sospirò. «Siamo stati noi. Complici della Renna Dasher.»

Lo spadaccino la guardò, aggrottando la fronte. «Vuoi raccontarle altro? Staremmo sgombrando, se ben ho capito.»

«E va be’» commentò l’altra. E insieme ripresero a spingere.

«Ehi, no, aspettate» disse Vens andando loro dietro. «Io voglio saperne di più davvero.»

«Non abbiamo tempo, guarda» disse lo spadaccino.

«Se lo fate non vi rubiamo nulla» promise la pretessa.

Lo spadaccino si limitò a guardarla, per poi riprendere il cammino.

Stregone e pretessa li fissarono in silenzio compiere qualche metro, poi lo stregone disse: «A questo punto…»

Vens annuì, estraendo la bacchetta dal reggicalze. «Carica.»

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Capitolo 3
*** Manca Qualcosa. E Qualcuno ***


Stiamo per fare un piccolo tuffo nel passato, di appena qualche ora, spostandoci alla casa di Babbo Natale quando ancora non somigliava ai resti del falò di un gigante. Residenza importante, ai tempi. Si era sempre benvenuti e non serviva esibire lo scontrino se bisognosi del bagno, cosa che la rendeva piuttosto affollata in quanto unica abitazione collegata al sistema fognario di Lutie.

Ma il bagno non era l’unica attrazione, c’era anche Babbo Natale, sempre lieto d’intrattenere i bambini mentre i genitori utilizzavano il bagno, o viceversa.

Quella sera, tra la marmaglia di gente seduta ai piedi dell’omone, c’era Ultie. Ultie non era mai stato a Lutie e in un primo momento era stato eccitatissimo. Adesso sudava e si grattava la nuca e guardava il Babbo.

«Io dico che ascoltiamo Elfo Biscotto Conosce Gamberetta!» strillava uno.

«NO!» sbraitava un altro. «Piccolo Coniglietto Vieni Dal Duca è molto meglio!»

«Io voglio ascoltare Le Avventure Della Giovane Laura…»

«Io Guida Galattica Per Gli Autostoppisti!»

Molti genitori pensavano che Babbo Natale fosse intelligente. Il pensiero nasceva dal fatto che il Babbo, non avendo voglia di raccontare storie, lasciava che ne scegliessero una i bambini, i quali in genere non si decidevano mai e finivano per andarsene coi genitori non appena questi uscivano dal bagno. Era infatti più di mezzora che Ultie aspettava, e la cosa gli andava bene perché approfittando del momento si era seduto poco distante il Babbo e gli si avvicinava ogni volta che quello non guardava. Presto gli sarebbe saltato addosso per dirgli chiaro e tondo cosa voleva per il prossimo Natale, e magari fargli cavallino sulle ginocchia.

O almeno, questo avrebbe fatto in caso si fosse dissipato il Sospetto. Perché un Sospetto Ultie aveva. Gli era venuto quando a saltargli addosso ci aveva provato la prima volta.

Babbo l’aveva schivato.

La sua personale immagine di Babbo Natale non avrebbe schivato un bambino intenzionato ad abbracciarlo.

Un’altra cosa che non lo convinceva era il braccio destro. Babbo Natale lo teneva fasciato da un panno color cacca e lo nascondeva nell’incavo tra il bracciolo e il sederone. Perché? Si era forse fatto male?

Forse, si diceva Ultie. Forse si era fatto male e non voleva far preoccupare nessuno. Forse l’aveva schivato perché ferito.

Ma Babbo Natale poteva farsi male?

Il Sospetto cresceva.

Quello era davvero

(un impostore)

Babbo Natale?

Lo avrebbe scoperto.

D’un tratto si udì un trillo, forte. Ultie si volse e vide che una campanella sospesa a mezz’aria si era messa ad agitare da sola, e con quello i bambini presero a lamentarsi. Tempo scaduto. Niente storiella.

Babbo Natale sorrise.

Gli mancavano tre denti e un incisivo era nero come la pece.


Poco lontano…


La Renna fumava un sigaro, che le tremolava nello zoccolo. Non c’era stato momento da quando lo spadaccino e la ragazza rosa erano entrati che non si guardasse intorno con gli occhietti stretti e qualche volta aspirava fumo anziché limitarsi a tenerlo in bocca, e allora iniziava a tossire come una matta.

«Vi ringrazio di essere venuti» fece, e i due dall’altro lato del tavolo annuirono. «Non è una cosa che posso gestire da solo. Non più.» Aspirò fumo, esitò e se ne disfò con un sospiro. «Il fatto è che Rudolph è uscito fuori.»

«Chi è Rudolph?» chiese lo spadaccino.

«La renna» replicò la Renna, «dal naso r-r-osso. Dio. Non fatemici pensare. Da questo momento lo chiameremo Lui, se vi sta bene.»

Silenzio per qualche istante. La ragazza rosa sembrava pensierosa: «Quello che appare negli spot e che guida la slitta? Quando lo vedevo da bambina mi piaceva. C’era anche un cartone animato. Mi piaceva molto.»

«Quella è tutta un’operazione commerciale!» La Renna s’era alzata sugli zoccoli posteriori e sembrava prossima all’iperventilazione. Sedette di nuovo, fece un gesto vago e disse: «Scusate.» Fece un tiro. «Scusate. Mi capita sempre. Non è per voi. Io non… Maledizione, ho famiglia e figli. Ho perso la promozione più importante della mia vita per colpa di quello.» Li guardò. Entrambi avevano sgranato gli occhi. «Sto col Vecchio da sempre. Ci sono nato. Mi cambiava i pannolini. Sono secoli che ci lavoro. E arriva lui, Lui, scusate, e cosa fa? Si prende il posto in prima fila. Si mette a guidare. Perché dice di avere un radar speciale. Oltre al naso che farà la sua bella scena ma…»

«Arriva al dunque, per piacere» mormorò lo spadaccino.

«Certo, sì, ci arrivo. Al dunque? Sì.» Annuì un paio di volte. «Ha rapito Babbo Natale.»

«Oh» fu il primo commento della ragazza rosa. Poi, come folgorata da una rivelazione: «Come?!»

«Ha rapito Babbo Natale!»

Lo spadaccino annuì. «Quindi?»

«Quindi lo tiene in ostaggio nella Fabbrica di Giocattoli degli Elfi Biscotto. Dio solo sa perché, gli elfi sono dalla sua parte.»

«Dannati elfi» commentò lo spadaccino. «Quindi andiamo, picchiamo questo Rudolph e liberiamo Babbo Natale.»

«Sperando sia incolume…»

«Ma perché e come ha fatto una renna a…» Lo spadaccino fu strattonato dalla ragazza rosa. «Oi?!»

«Mio fratello! L’ho lasciato a casa di Babbo Natale!» esclamò lei.

«Eh, dopo andiamo a riprenderlo.»

L’arciera rosa si alzò e strillò: «Ma se Babbo Natale non c’è, chi cazzo è quello che sta coi bambini?!»

Lo spadaccino guardò la Renna. «Sarà uno dei sostituti, no? Non si contano da quanti sono.»

La Renna scosse forte la testa. «Tutti i sostituti stanno con Rudolph. Anche quelli fuori Lutie, che teletrasportano.»

«Be’» disse lo spadaccino. «Mal che vada che possono fargli? Quello picchia.»

Ma la ragazza era già in corsa verso la porta.



La Fabbrica di Giocattoli degli Elfi Biscotto era un sotterraneo e l’entrata stava a nord di Lutie. Un posto molto colorato, un sacco di decorazioni sulle pareti e angoli di relax dove gli elfi potevano prendere un tè o fumarsi una sigaretta. Aveva due livelli, il primo un magazzino ospitante materie prime e dolciumi, trasferiti di sotto all’evenienza. Perché è di sotto che, prima della distruzione di Lutie, avveniva la magia. Là i giocattoli erano assemblati, dipinti a mano e confezionati da apposite catene di montaggio.

Quel giorno c’era però stata una sospensione, e questo non riguarda in diretto modo l’incendio. Rudolph, la renna antropomorfa dal naso rosso, pensava che le cose non andassero bene e aveva bloccato tutto. Non fosse sovvenuta la caduta della città, di cui Rudolph era all’oscuro trattandosi di un evento che avrebbe vissuto in prima persona a breve, ci sarebbero stati cambiamenti come il miglioramento della Qualità e conseguente licenziamento del personale in eccesso. Ma soprattutto Qualità. Il dannato Babbo Natale aveva infarcito i giovani umani di cattivo gusto, recapitando loro bamboline e soldatini e fin troppe altre stronzate. Orsacchiotti e aeroplani di legno? Proprio non andava, no.

Rudolph zoccolettò avanti e fissò ciò che gli era stato portato dal gruppo di quattro Antonio - così aveva soprannominato i Sostituti di Babbo Natale che condividevano gli ideali della sua Crociata -. I bambini erano stati imbavagliati e sedevano a terra. Alcuni ringhiavano, altri piangevano.

Rudolph sospirò. Doveva tentare. Forse non avrebbe ricavato nulla, forse sì.

«Signore» disse un Antonio. Aveva un occhio nero e parecchia barba mancante, come strappata. «Di quello che ne facciamo?» Indicò un ragazzino in ultima fila, dai capelli chissà perché bianchi come la neve, legato con file e file di corda e un bavaglio a occhio più stretto degli altri, tanto che le guance erano tiratissime.

«Che problema c’è?»

L’Antonio tornò a fissare il ragazzino con fare intimorito. «Ci ha dato un sacco di problemi, signore. Scalciava come un matto. Ha una forza che nemmeno un gorilla. Se non l’avessimo messo nel Sacco Magico che ha provveduto a calmarlo e legarlo, non ce l’avremmo fatta.»

Rudolph scavalcò un paio di bambini e raggiunse quello a cui si riferiva l’Antonio, che fissò sollevando il rosso naso. Dai vestiti pareva un accolito. Però…

La renna si chinò su di lui, gli sollevò il bavaglio e subito il moccioso prese a urlare: «Fottetevi, stronzi! Stronzi, stronzi, stronzi, stron—» La renna gli afferrò il mento con lo zoccolo e glielo chiuse nella nicchia a tenaglia, che strinse. È vero che le renne non hanno zoccoli a tenaglia, ma ricordate che questa aveva un naso rosso e luminoso.

«Perché hai i vestiti blu, ragazzino?»

«Non sono un puffo, cazzo!»

«Nessuno ti ha dato del puffo. Rispondi.»

«Dov’è Babbo Natale?» sbraitò invece quello. «Devo parlare con Babbo Natale, cazzo! Voglio una fottuta macchina del tempo, del buon gusto per mia sorella che veste solo di rosa e un cane. Un cane! Un cane!»

Rudolph strinse la presa tanto da impedirgli di riaprire bocca, e quello iniziò a mugolare. Gli rimise il bavaglio e si allontanò.

«Siete qui, bambini» iniziò la renna a gran voce. «Perché ho intenzione di fare un paio di cambiamenti. Voglio avvicinarmi a voi, ma non ho più l’età per farlo. Per cui ditemi, cosa vi piacerebbe ricevere per Natale? Che non sia la solita roba! I cliché vanno aboliti!» Li guardò, ma quelli non muovevano un muscolo. «Alzate la mano se volete parlare.»

Uno lo fece. Un cenno da parte di Rudolph fece sì che un Antonio gli togliesse il bavaglio con l’uncino di cui tutti questi erano dotati.

«Io vorrei una donna» disse il ragazzino.

Rudolph parve riflettere. «Non è una cosa che si può costruire» disse. «E poi quanti anni hai? Pensi già alle donne?»

«La voglio perché non ho una mamma.»

«Nemmeno quella è una cosa che si può costruire. Avanti il prossimo.» Sollevò su e giù il naso rosso e l’Antonio dovette prenderlo come un ‘rimettigli il bavaglio’, perché questo fece. Il bambino assunse un’espressione mogia prendendo a fissare il pavimento.

Altre due mani si sollevarono, ma non appena gli Antonio fecero per avvicinarsi con gli uncini, si abbassarono subito.

«Non siate timidi» l’incitò la Renna. «Tu» e indicò una bambina in prima fila. «Cosa ti piacerebbe?»

Dopo che l’Antonio l’ebbe abbassato il bavaglio, quella disse: «La gigantografia di un elfo, signora Renna.»

«Un Elfo Biscotto?»

«No. Uno dei grandi romanzi Fantasy. Ma Fantasy Fantasy! Senza gli elfi non è un Fantasy Fantasy ma un Fantasy normale, capisce signora Renna?»

«Io sono un signor Renna, e comunque…» Elfi? Guardò il soffitto e sospirò.

Intanto, poco lontana, una figura incappucciata si avvicinava facendo slalom tra i dossi a forma di pacco col fiocco. La Renna se ne accorse e le fece cenno di saluto.

La Figura non ricambiò, tutt’al più inciampò e fece una bella capriola. Poi riprese ad avanzare.

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Capitolo 4
*** Singhiozzi ***


La Renna, ma non quella col naso rosso, singhiozzava.

Lei, lo spadaccino e la ragazza rosa stavano all’entrata della Fabbrica di Giocattoli: il muso di una locomotiva a vapore diviso in due ad aprirsi a corridoio per il sotterraneo. Tornavano adesso dalla casa di Babbo Natale, dove una campanella volante aveva spiegato loro che a un punto il Babbo s’era alzato e aveva ordinato a tutti i bambini di entrare in un grosso sacco rosso, minacciandoli con un uncino. Aveva dovuto raccontare la vicenda due volte, perché durante la prima i ragazzi non l’avevano ascoltata chiedendosi da che parte le uscisse la voce.

«Non si preoccupi, Dasher» disse la ragazza rosa avvicinandosi alla renna. «Li salveremo.»

Lo spadaccino superò entrambi e fece: «No se non ci muoviamo.»  

La renna Dasher continuò a piangere.

«Suvvia, dobbiamo andare!» disse la ragazza rosa.

«Sì, certo. È che ogni volta che vedo questa locomotiva…» La renna indicò avanti, «mi viene da piangere. Sapete che era rimasta ferma, perché con le aeronavi e tutto non si usa più il treno e allora ho detto ehi, perché non la mettiamo qua? Sono stato io a dare l’idea. Guardarla mi…»

Lo spadaccino la tirò dentro per lo zoccolo.

Percorsero un corridoio in discesa fino a una sala circolare dalle pareti gialle, su cui pendevano lampade a forma di Poring. Al centro figurava una statua di Babbo Natale a cui mancava parte del cappello e un piede. Davanti a una porta chiusa, due Elfi Biscotto smangiucchiavano una tortina alla marmellata. Erano alti quanto un comò, la pelle ruvida tipica della pasta sfoglia e indossavano soli pantaloni, guanti e cappellino a punta. Un appunto sugli Elfi Biscotto: alcuni vestono di rosso e altri verde. Non si tratta di scelte politiche. I primi hanno ricevuto la Benedizione da Odino e sono in grado di lanciare magie elementali, ma non c’è da sottovalutare i verdi con la loro abitudine di curare gli alleati in difficoltà. Non si sa il perché Odino perda tempo a benedire elfi, ma ci sono tante domande irrisposte che spesso è meglio berci su che pensare. Un po’ come fa lo stesso Odino, dicono.

Quando gli elfi videro renna e ragazzi scendere la scala, si affrettarono a finire il dolcetto e gli andarono incontro agitando le manine.

«Non potete venire qui» disse l’Elfo vestito di rosso.

«Dovete tornare da lì» seguitò l’Elfo vestito di verde.

Dasher si frappose tra loro e i ragazzi, e gesticolando con gli zoccoli disse: «Dobbiamo vedere Babbo Natale!»

«Guardatelo, allora!» strillò l’Elfo Verde, indicando la statua. «Poi filate.»

Dasher scosse la testa. «Quello vero!»

«Lui sta dentro» disse l’Elfo Rosso. «E ci resterà.»

«A vita» aggiunse quello verde. Avrebbe forse detto altro, ma una freccia gli perforò la testa.  

L’arco puntato sull’elfo rimanente, l’arciera disse: «Mi sono sempre stati sul culo, quelli verdi. Voi bene o male no, quindi dirò una cosa stereotipata ma efficace: levati di culo o muori.»

Lo spadaccino la guardò di traverso. «Stai diventando insolitamente stronza, sai.»

«Faccio paura anche a me.»

L’Elfo guardava il compagno steso. «C-come…» Guardò l’arciera rosa. «Lui voleva diventare Rosso. Era il suo sogno.»

In risposta quella scoccò un’altra freccia, che lo mancò.

«La prossima colpirà» disse. «Levati di torno.»

«No!» disse Dasher la renna. «Prima ci deve dire dov’è Babbo Natale!»

«Ha detto che sta dentro» osservò lo spadaccino. «Serve altro?»

«A me sbatte sapere dov’è mio fratello!» urlò la ragazza rosa.

La renna sospirò. «Dentro è enorme. Possono essere ovunque.»

L’arciera avanzò senza abbassare l’arco. «Parla!» disse all’Elfo.

«Non ve lo dirò mai!»

«Sempre detto che gli elfi peccano d’utilità» commentò lo spadaccino.

«Scherzi» disse la renna, «lavorano come maiali.»

«I maiali lavorano?»

La renna parve pensarci su. «Non so.»

«Allora sono inutili.» Lo spadaccino portò le braccia all’impugnatura dell’enorme spada legata alla schiena. Le diede una piccola spinta, poi la sollevò tracciando una mezzaluna e colpì il pavimento davanti a sé, facendolo tremare.

L’Elfo deglutì.

«Andiamo di fretta» l’informò lo spadaccino.

L’Elfo si rialzò e indietreggiò singhiozzando. Sembrava tener d’occhio la ragazza rosa più degli altri, essendole più vicino. Diede uno sguardo al cadavere dell’Elfo Verde e dopo aver stretto i denti ed esitato mormorò: «Va bene. Vi farò da guida. Venite.»

Si volse e dopo uno schiocco di dita biscottate la porta si aprì.

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Capitolo 5
*** Caffè ***


Deviling disse: «Stai barando, pusillanime palla di pus rosa con le ali.»

Angeling, che a tratti corrispondeva alla descrizione di Deviling, avrebbe alzato le spalle se solo le avesse avute. Disse: «Non è possibile barare a Monopoli.»

Deviling mutò il suo ghigno in una smorfia di disapprovazione. «Sì, se continui a fottere soldi dalla banca. Credi che solo perché già ne hai tanti non me ne accorgo?»

«Oh, andiamo» s’intromise Poporing, «perché dovete interrompere sempre al mio turno?»

«Sei solo verde d’invidia» gli disse Marin.

«Che c’entra?» replicò Poporing, che verde era di natura.

«Oh» disse Deviling, «questa sì che era una brutta battuta.»

«Superata, oltre che poco inerente col discorso. Posso tirare?»

Angeling annuì. L’aureola sopra la testa fece su e giù.

Poporing, con una certa difficoltà, fece per tirare il dado. Essendo una palla verde con occhi e bocca, non aveva le mani e doveva mangiarlo per poi sputarlo. Era alla fase sputo quando la sirena d’allarme della Fabbrica dei Giocattoli prese a strillare.

«Ehi, non è colpa nostra» disse Deviling.

Poporing sputò il dado e imprecò nell’unica lingua che conosceva.

«È l’allarme intrusi» disse Angeling.

«Non squilla da anni» disse Marin, guardandosi intorno. «Non pensavo esistesse ancora.»

«Ma sì» disse Deviling. «Rudolph l’ha riattivata adesso che sta facendo la sua cosa.»

«A proposito» disse Angeling. «Voi che ne pensate?»

«Di cosa.»

«Rudolph.»

Deviling, nel gesto di scrollare le spalle che non aveva, scrollò le ali. «Può fare quello che vuole. Ehi, ignoriamo ‘sta allarme. Tira.»

Poporing indicò in avanti col muso. «Ho fatto sei.»

Deviling esaminò il cartone. «Con sei arrivi nel posto che vuoi comprare. No, non vale perché è suonato l’allarme, ritira.»

«Hai detto di ignorarlo.»

«Chi è il capo?» Deviling balzò in avanti. «Eh? Chi è?»

Poporing imprecò ancora. Inghiottì il dado e fece per sputare.

Ancora, fu interrotto.

Non fu l’allarme, che aveva continuato a suonare imperterrita, ma un corpo, che volò sul cartone facendo cadere tutte le pedine e i biglietti di Imprevisti e Probabilità che si dispersero sul pavimento colorato.

Gli Ing si sporsero a osservarlo.

«Un Elfo Biscotto» constatò Marin.

«Ehi, è proprio un Elfo Biscotto» osservò Angeling.

«Un Elfo Biscotto Rosso» rilevò Deviling.

«Un pezzo di merda» analizzò Poporing, e gli sputò il dado addosso.

«Scusate» disse una voce.

Gli Ing si volsero. Davanti a loro, una renna. Dietro la renna, un ragazzo con una spada enorme e una ragazza rosa.

«Scusate un cazzo» disse Poporing.

Quelli li ignorarono.

«Cioè» disse la ragazza rosa al ragazzo. «Io ho detto che non dovevamo fidarci. Che ci avrebbe traditi.»

«Non ne hai avuto il tempo» replicò il ragazzo. «Porca sozza. È stato un fulmine.»

La renna gesticolò. «Sapete, non sapevo nemmeno che ci fosse un allarme, in questo posto.»

La ragazza rosa si portò le mani alle orecchie. «È troppo… fastid—ARGH.» Alzò l’arco e scrutò il soffitto. Scoccò una freccia e colpì un cono rosso e luminoso appeso a un angolo. Quello si spense, ma il rumore no.

«Sapevi non sarebbe servito a nulla, vero?» disse lo spadaccino.

La ragazza rosa strinse i pugni. «Andiamo.»

«Dove?» chiese la renna.

«Da qualche parte!» disse la ragazza. «Dobbiamo cercarli!»

La renna alzò lo zoccolo, e per un momento sembrò Gesù con le corna. «Aspettate» disse, e si avvicinò agli Ing.

Quelli lo guardarono. «Sì?» chiese Deviling.

«Ragazzi» sorrise la renna. «Come andiamo?»

«Male» replicò Deviling. «Hai interrotto la nostra partita.»

«Sono sicuro che avrete modo di farne un’altra.» La renna si abbassò e mise gli zoccoli sulle cosce. «Sentite, abbiamo proprio bisogno di sapere dov’è Babbo Natale. So che lo sapete.»

«Perché non lo chiedi a Rudolph?» Angeling sogghignò. «Sta al secondo livello.»

Deviling grugnì. «Non ti è permesso sogghignare, quella dovrebbe essere una mia prerogativa.»

«Sentitelo» disse Angeling. «Il povero diavolo espulso dall’inferno. Dall’umiliazione ricevuta non potresti nemmeno più sogghignare.»

Deviling fece un saltello. «Sentitelo! Il povero angelo che manco sa che in questo mondo non esiste l’inferno! Hai letto l’Edda?!»

«L’inferno esiste anche nella mitologia nordica, ignorante!»

«Davvero?»

«Credo…»

La renna si allontanò, e assieme ai ragazzi scese al secondo livello.

«Questo è troppo» disse Poporing, e andò via.

Deviling e gli altri lo seguirono con lo sguardo. «Anch’io sarei arrabbiato.»

«Ho vinto» disse Angeling. «Ho più soldi degli altri.»

Deviling annuì. «Sassi e stige. Diamine, dov’è Deviru-chan?» Alzò la voce: «Ho ancora bisogno di quel caffè!»

«La macchinetta è al secondo livello» disse Marin.

«Lo so, dov’è la fottuta macchinetta.»

«Potremmo andare anche noi.»

Deviling fece un lungo sospiro. «Marin, devi capire che se ho dei minion, ci mando loro a fare le commissioni.»

«Intendeva, credo» s’intromise Angeling, «che potremmo scendere per vedere che stanno combinando quei due umani con la renna.» In reazione alla muta reazione, aggiunse: «E prenderci un caffè, anche io ne ho proprio bisogno.»

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Capitolo 6
*** Cappelli ***


Nove Antonio giacevano sul pavimento, inermi. A tutti era stato calato sugli occhi l’orlo del cappello rosso e il pom-pon infilato in bocca. L’ultimo Antonio, ancora in piedi, guardava il Ragazzino Dai Capelli Bianchi che, imbroccato il fucile di uno dei soldatini di piombo, glielo puntava.

«P-perché non ne parliamo?»

Il Ragazzino Dai Capelli Bianchi continuò a puntare.

«Lo sai che quell’affare spara caramelle? Perché non provi?» L’Antonio sorrise, mostrando i denti neri. «Ecco, metti in bocca la canna e poi spari.»

«Impossibile» rispose il ragazzino. «La canna è troppo lunga perché riesca a sparare, dopo averla messa in bocca.»

«Ah, sì… ?»

«Però tu puoi aprire la bocca e io posso centrarla, ti va?»

«N-no! No! Io… ho tante carie, vedi? Non posso mangiare caramelle.»

Il ragazzino alzò le spalle. «Ma sì, che puoi.» Sparò.

La palla di piombo mancò l’Antonio e colpì uno di quei pacchi regalo semoventi di passaggio, causandone l’esplosione.

«Queste caramelle sono troppo dure» stabilì il ragazzino, e gettò il fucile.

L’Antonio intanto indietreggiava. Perché Rudolph si era assentato? Tutti i mocciosi erano scappati e adesso quello vestito di blu stava facendo piazza pulita dei suoi colleghi.

«Ehi» disse il ragazzino dai capelli bianchi. L’Antonio trasalì. «C’è un bagno, da queste parti? È da un’ora che la tengo.»

«Oh, ma certo che c’è.» Ora l’Antonio sorrise. Corse a raccogliere il Sacco Magico da terra e lo tenne aperto con le braccia. «Qui dentro c’è un bagno con tutti i comfort.»

«Scemo» replicò il ragazzino. «So cosa fa quel coso. Mi ci avete chiuso prima. Non è un bagno.»

L’Antonio rigettò il sacco. «Okay, hai vinto. Seguimi. Ti ci porto.» Se lo conduco da Rudolph, pensò, ti verrà data una bella lezione, moccioso.


*


La figura incappucciata e Rudolph si trovavano in una stanzetta dalle pareti colorate in cui aleggiava un forte odore di torta di mele. Rudolph sedeva dietro un forziere chiuso che veniva adoperato come scrivania, mentre la figura incappucciata stava in piedi davanti a una sediolina rosa su cui avrebbe dovuto sedere. La cosa non gli andava. Per questo stava concentrandosi sul forziere. Dubitava che Rudolph non fosse in grado di reperire una scrivania e questo gli faceva pensare che utilizzasse quel forziere per qualche motivo di fondo. Forse custodiva qualcosa di importante. Ma tralasciando questo, il forziere aveva un particolare bizzarro: gli occhi. Due palle nere grandi due teste umane poste sugli angoli anteriori. All’interno delle palle, un piccolo cerchio bianco. Occhi, pensava appunto la figura incappucciata. Giurava di aver visto le pupille bianche muoversi in loro direzione quando erano entrati.

«Mostrami ciò che hai portato» disse Rudolph.

«Cosa ti fa pensare ti abbia portato qualcosa?»

Rudolph sorrise. «Qualcosa è la parola giusta. Devi aver portato qualcosa, che sia anche una piccola informazione. Non mi aspetto nessuna visita di piacere da parte dei Progo.»

Il piede dell’incappucciato si mosse veloce e colpì un gambo della sediolina rosa, facendola cadere sullo schienale. Scandendo bene le parole disse: «Non chiamarmi Progo.»

«Come ti pare. Ma solleva la sedia, o Babbo Natale s’incazza.»

La figura si chinò, riposizionò la sedia e vi sedette sopra. Incrociò le gambe e fece un lungo sospiro. Non avrebbe vomitato. Finora era stato bravo a ricacciare ogni conato laddove era venuto.

«Ti parrà strano, ma tutto il mobilio è suo» continuò Rudolph. «Dico di Natale Babbo.»

«Spero di non incontrarlo mai» disse l’incappucciato.

Rudolph schioccò la lingua. «Perché?»

«Se ha un gusto così orribile in fatto di mobilia, non credo di poterlo trovare interessante.»

«Be’», Rudolph sorrise e nel mentre accarezzò la superficie del forziere-scrivania. «Credo che ti sorprenderebbe sapere quanto gli sei vicino.» La renna allargò il sorriso e l’incappucciato giurò di vedere il nasone rosso illuminarsi per un istante. «Non metaforicamente parlando, bada.

«Comunque» continuò, «escludendo le ciance e… quelle cose lì, perché sei venuto?»

«C’è un motivo, hai ragione» disse la figura. «Devo appunto mostrarti qualcosa.»

Ancora, Rudolph sorrise. La figura quasi si aspettava che il naso s’illuminasse ancora, cosa che non accadde. Quasi dispiaciuta, la figura allungò una mano guantata sulla scrivania e ne aprì il palmo rivolto al basso. La mano si illuminò, quindi una sfera nera vi apparve al di sotto. La figura alzò il braccio e la sfera rimase lì, ma mutò. Si affusolò, poi allargò e allungò, fino ad assumere l’aspetto di un sacco di tela grigio.

L’incappucciato si addossò allo schienale della sedia e incrociò le braccia. «Aprilo» disse.

«Non so mica se posso fidarmi» disse Rudolph.

La figura annuì. «A tuo rischio e pericolo.» Sorrise. «Soddisfare o non soddisfare la curiosità? Grande dilemma.»

«Già» fece Rudolph. Accompagnò le parole col sollevamento e l’abbassamento del naso. Stava allungando lo zoccolo in direzione del sacco quando bussarono alla porta.

Ritraendo l’arto, irritato in volto, Rudolph disse: «Chi è?»

«Signore!» Una voce roca e smussata. «Signore! Sono Antonio numero… non ricordo che numero mi ha dato, Signore!»

«Entra.»

La porta cigolò nell’aprirsi e un tipo bassotto vestito di stracci somiglianti a un costume da Babbo Natale fece il suo ingresso, seguito da un ragazzino dai capelli bianchi.

Rudolph si alzò. «Che diavolo ci fa un bambino, qui?»

Il tizio basso si affrettò a chiudere la porta, lanciando occhiate oblique al ragazzino, che muoveva le gambe veloce come in preda a un attacco di vescica. Il tizio guardò la renna. «S-signore, posso parlarle un attimo in privato?»

Rudolph grugnì un assenso e fece cenno all’Antonio di avvicinarsi. Quello eseguì, sgattaiolando alle spalle del forziere-scrivania. Rudolph si chinò un poco così che l’Antonio potesse sussurrargli nell’orecchio. Quando ebbero finito, la renna guardò il ragazzino.

«Un bagno» gli disse. «Hai bisogno di un bagno, bimbo?»

«Non sono un bimbo!» urlò il ragazzino, stringendo i pugni nel saltellare.

Rudolph sorrise. «Certo che no, non lo sei.»

Il ragazzino sorrise, forse fiero che qualcuno riconoscesse in lui un adulto. La renna gli si avvicinò e gli posò uno zoccolo sulla spalla. Il bambino smise un attimo di sgambettare, poi ricominciò. «Facciamo così» gli disse Rudolph, tono di voce lento e rassicurante, «io ti dico dov’è il bagno se prima mi fai un favore. Come ti chiami?»

Il ragazzino lo guardò in tralice. Forse avrebbe voluto fare una smorfia in reazione all’attesa prolungata, ma la vescica non glielo permetteva. «Mi chiamo Ulteh.»

«Ulteh? Strano nome. Ma incisivo. Me lo ricorderò.» Diede un paio di pacche sulla spalla del bambino, fino a convincerlo di avvicinarsi alla scrivania, cosa che fece a gambe strette. Rudolph allungò lo zoccolo puntando il sacco che l’incappucciato aveva fatto apparire sul forziere. «Lo vedi questo?»

Ulteh annuì.

«Ecco. Dentro c’è una cosa molto bella, vuoi tirarla fuori?»

«Poi…» Ulteh s’interruppe per stringere i denti. «Poi posso andare in bagno? Non ce la faccio più. Se me la faccio ancora addosso mia sorella mi ammazza.»

«Non solo» s’intromise la figura incappucciata, e Rudolph le rivolse un’occhiata interrogativa. «Non solo potrai andare in bagno, ma anche tenerti la cosa che c’è là dentro. Nel sacco.»

«Può?» domandò Rudolph, poco convinto.

L’incappucciato annuì. «Assolutamente. Se la sarà guadagnata.»

Sgambettata. «Perché mi regalate qualcosa?»

Rudolph esitò, e fu l’incappucciato a parlare. «Perché…» Si alzò e andò alle spalle del ragazzino, per cingergliele con le mani. «Perché questa è la città del Natale, no? E se nemmeno alla città del Natale ci sono regali per i bambini, allora dove? Ora…» Sollevò il braccio del ragazzino e lo posò sul sacco. «Apri.»

Ulteh esitò un poco. Guardava il sacco e sgambettava. Sgambettava e guardava il sacco. La figura incappucciata sperava che stesse facendo troppe cose in contemporanea perché il cervello si potesse ancora permettere di pensare. D’altronde era solo uno stupido ragazzino.

Si decise. Aprì il sacco e ne estrasse il contenuto.

La figura si allontanò. Rudolph fece lo stesso, ma si fermò a metà del primo passo e storse le labbra artiodattili. Guardò la figura e inarcò le folte ciglia. «Un cappello» disse, quasi schifato. «Un cappello!»

«A forma di Poring» commentò Ulteh, che il cappello lo aveva in mano. «Un Poring un po’ malmesso. Grigio. Guardate che occhi!»

La figura, che aveva incrociato le braccia, disse: «Si chiama Ghostring. È un particolare tipo di Poring.»

«Almeno non è rosa» si rallegrò Ulteh. «Lo voglio tenere!»

«Puoi farlo» acconsentì la figura.

«Aspetta un secondo.» Rudolph afferrò il polso della figura e la spinse a sé. «Che storia è questa?»

La figura guardò la renna e portò il dito indice della mano libera all’interno del cappuccio, come a coprirsi il naso. «Shhh…» Guardò Ulteh. «Perché non lo provi?»

«Eh?»

«Mettitelo in testa.»


*

 
La scatola sollevò il coperchio e rivelò un guantone da boxe. Lo spadaccino osservò la scena con fare stranito, finché il guantone non sfrecciò in sua direzione. Schivò scattando di lato, calò la spada in diagonale e mozzò la molla collegata al guantone. Finì per trafiggere il resto della scatola facendola esplodere in un mare di coriandoli.

«Com’è possibile che esploda? Io l’ho tagliata» disse lo spadaccino. Qualcosa di metallico saettò a pochi centimetri dalla sua testa. L’evitò all’ultimo momento. L’arciera scoccò una freccia e bucò la testa di un soldatino di piombo armato di fucile nascosto dietro un marchingegno colorato. «Odio questo posto» finì lo spadaccino.

«Io invece lo trovo adorabile» commentò Dasher. «Insomma, lavorare qui è meraviglioso. Ho sempre pensato che le pareti di questa fabbrica fossero come le piante, ma che al posto dell’ossigeno donassero positività.»

«La positività è molto meno utile dell’ossigeno, a volte» disse lo spadaccino, restio a riporre la spada.

«E comunque stanno facendo cilecca» sbottò l’arciera. «Non mi sento positiva manco per il cazzo. Dov’è mio fratello?»

«Ehi, lo sentite questo rumore?» domandò la renna, curvando il muso come a rivolgere l’orecchio all’alto.

Lo spadaccino le si avvicinò. «Quale rumo—»

Si udiva qualcosa come passi. Passi numerosi e veloci.

Una decina di bambini schiamazzanti. In corsa.

Apparvero da dietro sofisticati marchingegni da catena di montaggio. Si spintonavano l’un l’altro e urlavano come pazzi. Ignorarono il gruppo di avventurieri e proseguirono costeggiando il nastro trasportatore.

Dopo che l’ebbero pestato il piede, l’arciera rosa fu svelta ad afferrare un bambino per il colletto, bloccando la sua corsa. Questo si dimenò e urlò aiuto ai compari, ma le sue parole si persero nel marasma e in breve la folla si era dileguata.

«Lasciami andare!» urlò il bambino.

«Prima dimmi che sta succedendo qui dentro» replicò l’arciera.

«Succede che scappiamo!» sbraitò il bambino, e si dimenò ancora, ma la presa era salda. Sembrò notare solo allora la presenza della renna Dasher, e la puntò contro il dito urlando: «Ah!! È tornata! È tornata la renna! Lasciami andare!»

La ragazza e lo spadaccino guardarono Dasher. La renna alzò gli zoccoli e disse: «Non l’ho mai visto.» Poi il viso sembrò illuminarglisi. «Forse sta parlando di Rudolph!»

L’arciera puntò il bambino. «Parli di Rudolph?»

Il bambino aggrottò la fronte. «Chi?»

«Una renna» disse la renna, «come me! Con la differenza che questa renna ha un naso rosso!» Attimo d’interruzione. «Rosso e luminoso.»

Il bambino smise di agitarsi e curvò il capo verso destra, come pensieroso. «È vero. Tu non hai il naso come lei.»

La renna si avvicinò al bambino, che la ragazza rosa lasciò andare. «Sai dov’è andata, quella renna?»

Il bambino esitò, poi si volse e puntò qualcosa a nord. «Si è allontanato con un tizio incappucciato. Sono andati di là.»

«Allontanato?» domandò la ragazza. «Quando? Perché? Cosa stava facendo?»

«Ma quante domande fai?»

Lo spadaccino disse: «Basta così, chiariremo con Rudolph stesso ciò che è accaduto, che ne dite? Sappiamo dov’è. Più o meno.»

«A nord» disse Dasher, «c’è l’ufficio di Babbo Natale. O per lo meno quello che una volta era l’ufficio di Babbo Natale. Dev’essere là.»

La ragazza rosa mise le mani ai lati della testa del bambino e lo obbligò a guardarla. «Mi serve sapere un’ultima cosa.»

«Lasciami!»

La ragazza eseguì, poi: «Che ne sai di un ragazzino coi capelli bianchi? Era con voi?»

Il bambino sorrise e fece un saltello. «Sì! È stato lui a liberarci!»

«Liberarvi?»

«Dopo un po’ che la renna e quel tipo se ne sono andati non ce la faceva più a stare legato, così ha spezzato la corda e si è messo a picchiare i finti babbi natale!»

«Gli Antonio!» esclamò Dasher.

«Gli Antoni, sì» annuì il bambino, con decisione. «Li ha picchiati per bene, poi ci ha liberati e ha detto: fuggite, sciocchi! Poi sapete che è successo?»

«Gli sciocchi sono fuggiti?» domandò lo spadaccino.

«Siamo fuggiti!» finì.

«Puoi andare» disse la ragazza, e il bambino fuggì senza farselo ripetere. «Quindi mio fratello non è con Rudolph.»

Lo spadaccino annuì. «Si direbbe di no, se lui si era allontanato.»

«Quindi andare da Rudolph sarebbe una perdita di tempo.» La ragazza guardò Dasher.

«Non del tutto vero» disse lo spadaccino. «Conosci il moccioso. È forte. Si è anche liberato da solo degli scagnozzi di quel tizio, quindi possiamo anche lasciarlo perdere per un attimo e dedicarci alla missione.»

La ragazza rimase in silenzio un poco. «Ci servono davvero, quei soldi?»

«Oh, sì. Sai anche per cosa.» Lo spadaccino guardò la renna. «Quanti hai detto che ce ne dai?»

«Parecchi!»

Lo spadaccino sorrise. Guardò la ragazza. «Parecchi, senti? D’altronde lavora per Babbo Natale.»

«E Babbo Natale lavora un solo giorno l’anno. Per di più senza paga.»

«Non ci avevo pensato.»

La renna agitò le zampe. «Ehi, ehi, ehi! Chi pensate che fornisca giocattoli e dolciumi a tutto il continente?» Puntò il soffitto. «Questa fabbrica! E la fabbrica, di chi è?»

«Babbo Natale.» Lo spadaccino sorrise.

E l’arciera sbuffò. «E va bene. Andiamo a sistemare quel lume con gli zoccoli. Ma dopo cerchiamo mio fratello.»

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