In Utero di Callie_Stephanides (/viewuser.php?uid=7973)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dici addio solo quando sai che sarà un arrivederci ***
Capitolo 2: *** L'infernale politica celeste ***
Capitolo 3: *** Radici ***
Capitolo 4: *** Il fuoco purifica ***
Capitolo 5: *** Una strana coppia ***
Capitolo 6: *** Devi affidarti ai cespugli ardenti ***
Capitolo 7: *** Fuori dall'utero ***
Capitolo 1 *** Dici addio solo quando sai che sarà un arrivederci ***
Fictional Dream © 2010 (31 agosto 2010)
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altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
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Non c’è nulla che suoni difficile come un addio.
Puoi odiare o amare qualcuno di un sentimento assoluto e
viscerale; puoi sognare di inchiodarlo al muro o di tenergli la mano sino alla
fine del mondo; puoi detestarlo o morire per lui, ma non riuscirai mai, proprio
mai a dirgli addio.
Perché? Perché l’uomo non è fatto per durare, dunque
preferisce dimenticarselo, accantonare quel disturbo in un angolino della mente,
tornare a fargli visita di quando in quando, ma non risvegliarne il pungolo
molesto.
Dici addio solo quando sai che sarà un arrivederci.
Mai, in caso contrario.
La notte era fredda, come freddo era il cofano dell’Impala.
Ne percorreva la superficie con l’indice, concentrato e trasognato al contempo.
Ricordava proprio tutto di quell’auto, soprattutto la maniacalità con cui John
prima e Dean poi se n’erano presi cura.
L’Impala era diventata un surrogato di Mary, un utero
confortevole e l’unica donna che potesse stare al loro fianco senza bruciare di
una morte orribile.
L’Impala era stata la sua casa quando tutto quel che sognava
era di dormire tra quattro mura che non puzzassero del sesso degli altri.
L’Impala, quella notte, era quanto gli restava per non
piangere.
Dean era crollato. La fine del mondo era tanto vicina che gli
sembrava quasi di sfiorarla; dalle loro parti, in ogni caso, l’Armageddon era
già passato.
Cosa restava dei fratelli Winchester? Forse solo un pugno di
recriminazioni.
Dean, a suo modo, era un cavaliere medioevale. Era troppo
stupido per essere davvero crudele. Troppo buono per leggergli dentro. Dean
l’aveva protetto persino quando per primo, a poterlo fare, si sarebbe volentieri
fatto ammazzare.
Cos’erano stati quei loro ultimi anni? Era diventato uomo
inseguendo la morte. Poco alla volta, aveva accettato di farsene possedere.
A Detroit, Lucifer lo aspettava. Anni persi a combattere il
male per scoprire alla fine che… Ops! Il Male eri proprio tu. Un
tramite, d’accordo. Un guscio vuoto. Forse solo la conchiglia di un destino
maledetto.
Aveva stretto i pugni, rassicurandosi con il dolore
imprevisto che gli aveva procurato l’incunearsi della mandorla dell’unghia nella
carne.
Il suo sangue bolliva. Aveva scannato demoni solo per
suggerne con il plasma il potere; si era fatto usare da una troia degli Abissi
perché era stato troppo stupido per accettare la propria vulnerabilità. Devo
salvare Dean, aveva continuato a ripetersi.
Forse avrebbe dovuto prendersi il disturbo di guardare
davvero negli occhi suo fratello mentre moriva.
Forse l’unico messaggio che cercava era nella nebbia di
un’orribile agonia.
Era successo comunque. Il suo canto del cigno sarebbe stato
il piano pianissimo nulla con cui avrebbe permesso alla terra di inghiottirlo. E
Dean non sarebbe corso a cercarlo, quello no. Dean avrebbe finalmente avuto
diritto alla vita che gli era stata negata da quando, a cinque anni, qualcuno
gli aveva imposto una missione suicida.
Qualunque cosa accada, prenditi cura di Sam.
Dean adorava John. Diceva di non credere in Dio, ma aveva
immolato la propria esistenza a un feticcio più inconsistente ancora: l’ombra
del Padre. E ora un altro Padre, incapace di crescere i figli, li trasformava
nelle disperate pedine di un’ultima, distratta partita.
Cazzo.
Non c’era verso di prendere sonno, né poteva confessarsi con
l’unica persona che l’avrebbe compreso.
Ho ventisette anni. Ho tutta la vita davanti. Volevo una
casa, una famiglia, un labrador biondo, morire di noia.
Volevo fare l’avvocato perché pensavo che, da qualche parte,
esistesse davvero un po’ di giustizia, e se non l’avessi trovata, cazzo, me la
sarei inventata.
Non voglio morire. Non voglio finire la mia vita in un buco
sottoterra. Non voglio rinunciare a una statale in fuga sotto polle di sangue
rappreso.
Non voglio dimenticarmi l’odore dell’erba, il sapore della
birra gelata, la sensazione di libertà assoluta che ti dà stringere tra le dita
l’identità di un altro.
Sam Winchester, in fondo, era morto da tanto, tantissimo
tempo.
Aveva tratto un profondo sospiro, che la notte aveva
inghiottito. Tra le dita, un tesserino plastificato lo qualificava come agente
Brian Johnson, nato a Rome, Georgia.
Rome era la Città Eterna, la culla di Dio e dei suoi
protetti, ma nessuno aveva pensato di dover proteggere anche lui.
Dio non c’era più da nessuna parte.
– Ti sbagli, – aveva mormorato una voce vellutata, che il
fruscio sommesso del vento gli aveva dato l’impressione d’aver solo immaginato.
Si era volto di scatto. A fissarlo, un ragazzino di forse
quindici, sedici anni. Gli occhi dorati, però, ne denunciavano l’identità prima
ancora dell’innaturale compostezza.
– Chi sei? – aveva domandato teso, perché da tempo aveva
compreso come angeli e demoni non fossero che facce opposte di una medesima
medaglia, creature umorali e imprevedibili, invidiose di tutto quel che i preti
chiamavano ‘caduta’, ma che era invece l’infinita libertà dell’uomo –
libertà di vivere, di morire, di odiare per qualcosa di diverso da un programma
genetico.
Il ragazzino aveva sorriso in modo impercettibile; un ghigno
inquietante, cui le luci fredde della strada avevano conferito qualcosa di
sinistro. – Non è importante che tu lo sappia. Non ancora.
Sam aveva sollevato sarcastico un sopracciglio. – Temo di sì,
invece. Temo che il futuro di questa conversazione possa dipendere proprio da un
simile dettaglio.
Era un angelo. Solo gli angeli godevano a esasperarti per il
gusto d’imporre la superiorità del loro punto di vista. I demoni, invece, ti
lusingavano. Si dicevano dalla tua parte, perché, a dispetto dell’indifferenza
di Dio, il Male non smetteva mai di pensare a te.
Il ragazzino aveva sollevato lo sguardo al cielo,
l’espressione scontenta e disgustata di chi debba confrontarsi con un
interlocutore particolarmente stupido. – Ti accontento.
Un lampo di luce accecante aveva solcato l’atmosfera,
precipitando l’intero isolato nell’oscurità più completa; lievi barbagli
luminosi, tuttavia, si erano condensati alle spalle del suo interlocutore,
dipingendo il poderoso arco di un’intera rosa di ali.
Sam aveva dischiuso le labbra, senza riuscire ad articolare
il minimo suono. L’adolescente che lo fronteggiava si era aperto la camicia,
mettendo a nudo un complesso tatuaggio che gli solcava lo sterno, distribuendosi
sullo scarno petto per metà del tutto speculari.
Era il Frutto della Vita. Il cubo di Metatron.
Il ragazzo aveva sorriso. – Vedo che ora comprendi.
Sam era arretrato di un passo.
Il Metatron era la più sfuggente e incomprensibile delle
potenze angeliche. Non esisteva alcuna solida tradizione giudaico-cristiana che
ne descrivesse ruolo e poteri. Alcune fonti vedevano in lui l’assunzione divina
di Enoch, altri ancora, invece, lo descrivevano come la più alta carica
guerriera delle schiere angeliche; l’ultimo Generale. La Voce di Dio.
– Non avere paura. Non è mia intenzione ostacolare
l’Apocalisse. Non ancora, almeno.
La voce del ragazzo suonava dolce e gentile, in aperto
contrasto con la freddezza straniante dello sguardo – e l’istinto del cacciatore
gridava pericolo, perché ogni cacciatore sa che la preda si riconosce
proprio dagli occhi.
– Mi sembra corretto… È tipico degli esseri umani
interrogarsi sul fine. Non hanno molto tempo per guardare oltre il loro naso.
– Sì. Direi che io, al momento, ho un significativo problema
di tempo, – aveva replicato aggressivo.
Il Metatron gli aveva rifilato l’ennesimo dei suoi odiosi,
condiscendenti sorrisi. – Sono qui per salvarti, Sam.
– Cosa?
– Posso dirti cosa accadrà domani e posso dirti che tu
brucerai all’Inferno.
Sam aveva sollevato ironico un sopracciglio. – Fantastico. Ti
assicuro che non sarei mai arrivato ad anticiparmi un simile sviluppo!
Il Metatron non si era scomposto. – Lucifer deve tornare
nella sua gabbia. Non c’è altra scelta perché sia fatto salvo l’ordine della
Creazione.
– Rilancia e dimmi qualcosa che ignoro.
Il ragazzo aveva aggrottato le sopracciglia.
Lo scintillio dei suoi occhi si coglieva persino nel buio.
Erano sinistri e crudeli quasi quanto le iridi gialle che avevano riempito le
sue notti di incubi. – Posso darti una formula per esorcizzare Lucifer ed
estrarlo dal tuo corpo. Compirai il rito appena prima che la gabbia si chiuda.
Samael scenderà dal Cielo per riportarti sulla Terra. Il tuo sangue sarà
purificato e sarai di nuovo e soltanto Sam Winchester.
Si era morso le labbra. Gli angeli non potevano mentire. Non
era qualcosa che potessi dire connaturato alla loro essenza, stando almeno a
quel che Castiel aveva loro insegnato. Ma Dean era quasi riuscito a fargli
perdere la verginità e l’aveva trasformato in un alcolizzato triste che non
credeva più a nulla.
Forse l’Apocalisse aveva già aperto una crepa in tutti loro,
corrotto anime e azzerato i conti di Dio. Erano tutti fottuti e tutti bugiardi
pronti a vendersi al migliore offerente.
– Sei scaltro e amarissimo, Sam Winchester. Hai sofferto
troppo per credere ancora in qualcosa, non è vero?
Aveva sollevato le spalle in uno spasmo nervoso. – Credo
nella lealtà di mio fratello. Credo nella mia famiglia. Credo che sarei finito
all’Inferno comunque, ma che trascinarmi dietro quel figlio di puttana renderà
quasi piacevole il soggiorno.
Il Metatron gli si era avvicinato di un passo.
– Come hai fatto a trovarmi? Ho ancora indosso il sigillo di
Castiel.
Il ragazzino si era scoperto le braccia: sotto la sua pelle,
guizzavano deturpanti e ipnotiche sure in enochiano. – Sei sempre stato un
allievo attento e brillante, Sam, ma questa volta non hai prestato l’attenzione
che dovevi alla lezione. Nessuno ti ha mai detto che la Voce di Dio arriva
ovunque?
– Tu sei...
– In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il
Verbo era Dio. Io sono il Verbo. Sono il maggiore dei Figli di Dio. Maggiore di
Lucifer e di Michael e di qualunque altro frutto della Creazione.
– Sei Dio?
Il Metatron aveva riso. – Se fossi Dio, credi che avrei
bisogno di rivolgermi alla più debole delle mie creature?
Il vento si era arrestato tutto a un tratto. Un silenzio
denso e opprimente li aveva avvolti.
– Cosa vuoi davvero da me?
– Te l’ho già detto. Voglio la salvezza della Creazione.
Voglio che l’Apocalisse non si compia e che l’Ordine sia stabilito. Perché ciò
accada, però, non basta che Lucifer torni nella sua prigione.
– Perché?
– Lo saprai quando verrà il tempo. Questo non sarà il nostro
ultimo incontro, Sam Winchester.
Aveva deglutito a fatica. Lo sguardo fisso e inquietante del
ragazzo non lo abbandonava.
– Io conosco il tuo più profondo desiderio, come conosco
quello di tuo fratello Dean e di Bobby Singer e di Castiel, persino. E sono
pronto a esaudirvi. Tutti. Sarà il segno della mia riconoscenza e della grazia
di Dio.
– E cos’è che vorremmo?
Il Metatron aveva riso. Era stato un suono metallico,
terrificante. – Tu vuoi vivere. Tuo fratello vuole una famiglia. Vuole una vita
noiosa e borghese. Bobby Singer vuole morire combattendo. Vuole le sue gambe e
la sua integrità proprio per finire come si addice a un soldato. Castiel vuole
tornare a casa.
Sam aveva stretto le labbra. – E cosa otterrai in cambio?
Il ragazzo aveva socchiuso le palpebre. – Questo, te l’ho
detto, per il momento non è un tuo affare. Ti basti sapere che la contropartita
di un angelo è sempre la Grazia, perché non ci nutriamo di anime e tormenti, ma
della luce di Dio.
– E dove sarebbe questo tuo Dio? Perché io…
Un lampo aveva solcato l’aria, prima che il rombo terribile
di un tuono lo seguisse. Non vi erano dubbi che fosse un angelo: umorale e
collerico come tutti gli inquilini dei Piani Alti.
– Non bestemmiare, Sam Winchester, e ora ascolta. Poserò il
mio palmo sulla tua fronte, perché la mia conoscenza divenga la tua conoscenza.
Reciterai in enochiano la formula della liberazione mentre precipiterai negli
Inferi.
– E credi che Lucifer me lo permetterà?
– Sarà costretto, perché il tuo corpo diverrà veleno.
Aveva aggrottato le sopracciglia, perplesso. Il ragazzo si
era frugato nella tasca dei jeans, prima di offrirgli un corto pugnale. –
Tagliati con questo e suggi il tuo stesso sangue. Il tuo plasma è ancora pieno
della linfa demoniaca. È un veleno per qualunque angelo. Non possiamo essere
contaminati dalla Dannazione Eterna senza cadere.
– Ma Lucifer…
– Non ha mai perso la sua sostanza angelica, ecco quel che
ignorano tutti, persino coloro che ne tramandano la storia. Lucifer non è fatto
della sostanza dei demoni, ma di quella di Dio.
– E con Michael? Come la mettiamo?
Il Metatron non aveva dato segni d’incertezza o turbamento. –
Mi deve il rispetto che spetta a un padre e obbedirà, come il bravo figlio che
è. Se rifiutasse, l’anarchia dei Cieli aprirà la via alle mie legioni. Non ho
intenzione di abbandonarti, Sam. Vali molto più di quel che credi.
Aveva tratto un profondo sospiro, portando per l’ennesima
volta lo sguardo al cielo. Non si vedevano le stelle: era già quasi essere morti
e stagnare sotto metri di terra.
Quale fosse la sua risposta, forse il suo futuro era già
combusto.
Aveva teso il palmo, accettando il pugnale.
– Non devi farne parola con Dean. Non con Dean, non con
Bobby, non con Castiel. Men che mai con Lucifer.
– Sempre che non sappia già tutto.
– Che suono ha il silenzio, Sam? – aveva sussurrato il
Metatron, mentre la mano sottile del ragazzo lo raggiungeva e un fiume in piena
di toni ora acuti ora gravi aggrediva la sua coscienza.
– Ora ti ho riempito come un vaso e, come un vaso, ti
svuoterai liberando Lucifer e la sua maledizione. Perderai anche te stesso,
almeno per un poco, perché lo sforzo che sarà domandato al tuo corpo sarà tanto
sfiancante da cancellare la tua memoria.
– Come? Che significa?
– Nulla scomparirà davvero, Sam: sarà quasi abbandonarsi a un
lungo, riposante sogno. Ne hai bisogno tu, e ne ha bisogno tuo fratello. Vi
perderete per ritrovarvi. Come mi mostrerò di nuovo, vorrà dire che sarete
pronti a tornare.
Sam aveva abbassato il viso, contraendo le dita nel pugno.
Quando aveva trovato la forza di sollevare il capo, del Metatron non c’era più
traccia.
Il vento, soprattutto, aveva ripreso a soffiare su quella
notte priva di stelle.
*
A salvarlo era stato un soldatino, uno stupido pezzo di
plastica che, all’improvviso, gli aveva permesso di ricordare chi fosse Sam
Winchester: un bambino, un figlio, un fratello. Forse soprattutto quello.
Non ricordava da dove fosse saltato fuori, se fosse stato
Dean a procurarglielo, pagando la sua felicità con le lacrime di un altro
ragazzino, ma ricordava che il tempo di quel pezzo di plastica era stato il loro
tempo.
Un buon tempo.
Nemmeno l’angelo della luce avrebbe potuto strapparglielo
via.
Exorcizo te, immundissime spritus, omnis incursio adversarii,
omne phantasma, omnis legio, in nomine Domini nostri Jesu Chrìsti eradicare, et
effugare ab hoc plasmate Dei... Audi ergo, et tìme, satana', inimice fidei,
hostis generis humani, mortis adductor, vitae raptor, iustitiae declinator,
malorum radix, fomes vitiorum, seductor homìnum, proditor gentium, incìtator
invidiae, origo avaritiae, causa discordiae, excitator dolorum...
Nella sua testa, Lucifer aveva cominciato a gridare, e si
dibatteva, quella serpe lucente, quasi ogni voluta dell’ invocazione
rappresentasse una tenaglia arroventata.
– Non puoi farcela, – l’aveva sentito ruggire, – tu sei
soltanto…
Recede ergo... da locum Spiritui Sancto... Deus, respice
super hunc famulum tuum Sam......, qui dolis immundì spìritus appetitur, quem
vetus adversarius, antiquus hostis terrae... Repelle, Domine, virtutem diaboli,
fallacesque eius insidias amove: procul ìmpius tentator aufugiat ... In anima
adversatricis potestatis tentamenta evanescant... victus abscedat.
La terra li stava inghiottendo. Nel buio profondo di quella
caduta, non arrivava la voce di Dean. E poteva immaginarlo, suo fratello,
inginocchiato accanto a una buca che presto non avrebbe lasciato altra traccia
del suo passaggio se non qualche filo d’erba divelto e l’odore buono che ha la
rena quando la trattieni tra le dita.
Un odore malinconico, che sa della polvere dei tuoi ricordi
migliori.
Adiuro te, serpens antique ... ut ab hoc famulo Dei Nostri
... festinus discedas...
Adiuro te iterum... cede non mihi, sed ministro Christi...
illius bracchium contremìsce, qui, devictis gemitibus inferni animas ad lucem
perduxit...
Imperat tìbi Deus... Exi ergo, transgressor.
Exi, seductor, plene omni dolo et fallacia, virtutis inimice,
innocentium persecutor. Da locum, dirissime, da locum, impiissime, da locum
Christo... qui te proiecit in tenebras exteriores, ubi tibi cum ministris tuis
erit praeparatus interìtus.
La stretta sull’avambraccio di Adam si era allentata poco a
poco.
Michael l’aveva fissato senza capire, sgranando poi gli occhi
inorridito quando aveva estratto il pugnale offertogli dal Metatron.
– Quella è la cuspide di Longino!
Sam aveva affondato senza indugio nella propria carne, si era
aperto le vene del polso e vi aveva portato le labbra.
La voce nella sua testa si era ridotta a un atterrito
silenzio. Lucifer aveva paura.
– Chi te l’ha data?
Era spaventato, Michael. Aveva davvero riconosciuto
l’impronta del padrone? L’ombra della rosa alata che governava i Troni?
Non si era lasciato distrarre: aveva continuato a suggere e
poi completato l’esorcismo.
Adiuro ergo te, draco nequissime, in nomine Agni immaculati...
ut discedas ab hoc homine, discedas ab Ecclesia Dei: contremisce, et effuge...
Imperat tibi Verbum caro factum... Durum est tibi velle resistere... Quia quanto
tardius exis, tanto magis tibi supplicium crescit, quia non hominern contemnis,
sed illum, qui dominatur vivoram et mortuorum... Deus caeli...
ut hunc famulum tuum de immundis spiritibus liberare digneris.
Adiuro ergo te, omnis immundissime spiritus, omne phantasma,
omnis incursio satanae... cede ergo Deo... Tibi, et angelis tuis inextinguibile
praeparatur incendium: quia tu es princeps maledicti homicidii, tu auctor
incestus, tu sacrilegorum caput, tu totius obscoenitatis ìnventor.
Exi ergo, impie, exi, scelerato, exi cum omni fallacia tua:
quìa hominern templum suum esse voluit Deus... Discede
ergo nunc, discede, seductor. Tibi erémus sedes est. Tibi habitatio serpens est:
humiliare et prosternere jam non est différendi tempus.
Sotto i suoi piedi, una bocca rovente aveva cominciato a
bruciare. Un lezzo di zolfo e putrefazione e morte gli aveva ammorbato le
narici.
Quella era l’inevitabile fine di tutto: l’unica rivelazione
che l’Apocalisse avrebbe offerto, dunque, sarebbe stata la profondità immacolata
e solidale dell’amore dei Winchester.
Un affetto tanto solido da non tremare davanti all’Inferno.
Aveva chiuso gli occhi. Quando li aveva riaperti, al brutale
ruggito di Lucifer si era sovrapposta una risata argentina.
La voce di Samael faceva pensare al tintinnare di mille
campanelli. La loro eco scivolava lontano, mentre il suo corpo volava via,
incontro a una luce che non gli era mai parsa così pura.
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Capitolo 2 *** L'infernale politica celeste ***
La scala d’oro dei Troni si era spezzata con uno schianto
assordante; Kamael aveva levato il viso alla Rosa e lanciato un grido più acuto
ancora. Castiel aveva stretto i denti e rinserrato la stretta attorno
all’Elysium, l’affilato strale cui era rimesso il destino dei Cieli.
L’Empireo grondava sangue.
Il Primo Cerchio pareva la Giudecca, le Dominazioni erano
insorte e minacciavano di affrancare nella loro crociata anche i Serafini.
Degli Arcangeli maggiori, Michael era l’unico superstite, ma
Samael, che pure era stata inviata negli Inferi per salvarlo dall’ultima caduta,
non aveva riferito nulla della sua sorte.
Tutto si rimetteva al giudizio del Metatron, la più alta
delle potenze angeliche. A contrastarlo, Ramiel dell’Apocalisse.
– Un gran casino, insomma.
Castiel aveva steso le remiganti e inghiottito ogni
esitazione.
La sua breve esperienza di vita terrestre non aveva mancato
di contaminarlo in profondità: valori come la scelta, la disobbedienza,
l’arbitrio; emozioni come la paura, la pietà, l’affetto, il conforto non
rappresentavano più vuoti lemmi.
La Caduta nella Creazione non ammetteva ritorno, sebbene
forte fosse la tua sete di luce, e Dio, per quanto terribile fosse ammetterlo,
non concedeva più udienza ad alcuno dei suoi figli.
– Se dubiti, mio caro, sei a un passo dal perderti.
Quella voce era ovunque, martellante.
Aveva sollevato il viso appena in tempo per sottrarsi alla
caduta di Raguel, trafitto dalla lancia di Sephiroth.
– E sia. Prima che il cucciolo del Padre s’incazzi, suppongo
di dovermi mostrare comunque.
Castiel aveva cercato riparo oltre l’architrave divelto del
tempio dei Troni. Ciclopica, e per questo ancora più terribile nella caduta, la
rosa che lo sovrastava era precipitata su una falange di Serafini. Polle
luminose e guizzanti si erano disperse. Il ruggito di un leone – il terzo volto
di Jehudiel – era stato soffocato dalle grida bellicose dei Principati.
– Alza lo sguardo, Cass. Sei stato un po’ stronzo con me, ma
non serbo di sicuro rancore.
Il nucleo incandescente di una vivida luce si era definito
poco a poco, lasciando intuire i contorni di una figura umana.
– Gabriel! Credevamo tutti che…
– Se non sbaglio eri stato polverizzato anche tu, – l’aveva
sentito replicare annoiato, con quella cadenza che indugiava in modo sempre
studiato al motteggio. – Ma il Metatron ha bisogno di tutti, a quanto pare.
– È stato lui a…
– Sweety Mety ha un brutto carattere, ma non gli si
può negare una discreta pazienza con i rompicapo. Nemmeno tu eri messo granché
bene, vero?
Castiel aveva sollevato le spalle. Era una convenzione della
guerra quella di assumere le sembianze della creatura più bassa e feroce che Dio
avesse prodotto. Jimmy, d’altro canto, gli aveva concesso tanto che indossarne
le spoglie era quasi abbracciare un fratello.
– Se ti ha richiamato, è perché si aspetta che tu riprenda il
tuo posto nel suo esercito.
Gabriel aveva roteato gli occhi, contrariato. Per quanto
suonasse curioso, più da presso si spiava la Rosa, più facile era prenderne le
distanze. I sediziosi, non a caso, movevano sempre da bassi ranghi o da Cieli
così elevati che a un angelo di grado intermedio non sarebbe mai stato
consentito l’accesso.
– Mi chiedo quando cambierà davvero la musica, Quassù, –
l’aveva sentito sospirare. – Me ne vado perché non ne posso più di vedere i miei
fratelli farsi la guerra; torno e cosa trovo?
Castiel gli aveva fatto cenno di tacere, prima di appiattirsi
contro le rovine. Una pattuglia delle milizie di Ramiel li aveva sfiorati,
procedendo oltre.
– Immagino che la sua priorità sia istruire Michael, e tanto
spiega perché tu non sia stato ancora informato di quel che sta accadendo nei
Cieli, ma eri uno dei suoi soldati migliori, Gabriel, perciò immagino che…
– Però! L’hai imparata bene la lezioncina della gratitudine,
– aveva sogghignato l’altro. – Era compresa nel pacchetto resurrezione, o
è qualcosa che…
Senza dargli tempo di concludere l’amara invettiva, Castiel
gli aveva puntato alla gola l’Elysium. – Ho contratto un debito con i
Winchester. Se non vivi da uomo almeno per un giorno, allora non puoi
comprendere cosa significhi davvero scegliere. E combattere. E morire. Quello
che Metatron sta tentando di fare, è preservare la Casa del Padre.
– E del legittimo proprietario che mi dici?
Castiel si era allontanato di un passo. – Conosco un luogo
abbastanza sicuro perché sia possibile parlare. Prima di giudicare, aspetta di
conoscere la verità.
– La Verità! Perché? Ne esiste ancora solo una?
Castiel aveva scosso il capo. – Tu sei il signore di mille
inganni, Loki, ma qui siamo in Paradiso. Posso leggere nella tua mente la tua
paura e la tua incertezza, il tuo amore di figlio e il tuo risentimento. È
qualcosa che condividiamo tutti in questo tempo ed è anche quello contro cui
dobbiamo combattere, poiché il sentimento è la caduta da cui volevamo
preservarci.
*
– Angeli, cazzo: si svegliano con il rodimento di culo, si
ammazzano per rodimento di culo e ti rompono i coglioni per farti rodere il
culo.
Ash si era massaggiato con cautela la nuca. La versione
paradisiaca del Roadhouse aveva accusato l’ennesima scossa, tant’è che altri due
vetri si erano aggiunti a quelli già andati in frantumi. Il pigro tenutario,
tuttavia, non si era mai preso la briga di immaginarli ancora integri.
L’insieme sapeva di quel nostalgico abbandono che respiri in
certi locali a due passi dal deserto: tramonti che somigliano a emorragie e
dense nubi di polvere. Nell’aria, l’odore buono che ha la notte quando non te
l’aspetti.
Aveva cercato una birra, frugando sotto un bancone
dall’aspetto vissuto com’era tutto nell’unica casa che avesse mai sentito come
propria.
Non gli mancava davvero la vita, perché non aveva mai
posseduto altro che il desiderio di sentirsi libero nella propria pelle: scopare
una donna, guardare le stelle, dormire sul panno logoro di un biliardo. Forse
aveva cominciato a morire dal giorno in cui si era cercato oltre l’opacità di un
paio d’occhi da nerd e aveva capito che del MIT non gliene fregava un cazzo.
Il dramma delle persone intelligenti è che si affannano
sempre a scoprire l’ingranaggio di quel gran bel giocattolo che è la vita. Lo
aprono, lo scandagliano e realizzano che è merda. La gente senza talento, quella
che crede alla balla dell’orsetto parlante, non a caso, non si perde.
La birra era scura, aspra e gelata proprio come piaceva a
lui; poteva prendere in considerazione l’ipotesi di farsi un viaggetto fino al
paradiso dei rastafariani e scroccare un po’ d’erba, tanto per raddrizzare
quell’ennesima parentesi d’Eternità cominciata nel peggiore dei modi. Poteva
accendere la radiotrasmittente e sintonizzarsi su quella cazzo di Radio Enoch
che era quasi peggio di Radio Orange ai tempi del matto con i baffetti.
Gli Angeli erano nel bel mezzo di una guerra che, senza
troppe perifrasi, potevi definire un ‘casino di Dio.’ Il problema, però,
stava tutto nell’assenza del Principale, che sembrava aver scelto di esistere
solo perché qualcuno si scannasse in suo nome.
Lo facevano da sempre gli uomini, d’accordo, ma anche i suoi
presuntuosi figli di luce e piume non brillavano quanto ad acume e buonsenso.
Aveva bevuto un’altra lunga sorsata; avrebbe dovuto
immaginare anche una bella pizza con salame piccante, ecco cosa. Una bella pizza
e…
– Alza quel culo, Ash, – aveva tuonato una voce che era ben
presente nei suoi ricordi.
Ellen Harvelle si era guardata attorno con aria compiaciuta,
precedendo di poco la figlia. Entrambe avevano l’espressione guardinga e tesa
delle prede in fuga.
Ash non si era scomposto, perché quello era il Paradiso e,
prendersela comoda, una specie di missione morale. A maggior ragione, poi, se in
vita tua avevi fatto poco altro.
– Come avete fatto a trovarmi? – aveva mugugnato, prima di
servire loro un paio di birre.
Era quasi i ruoli si fossero rovesciati; quasi,
all’improvviso, fossero tornati ai giorni migliori, quando il dottor Badass non
era che un geniale barbone trovato per strada, e Jo un’adolescente inquieta, che
raccoglieva i segreti dei cacciatori alla memoria di Willy Harvelle.
Ellen aveva bevuto una sorsata e si era poi strofinata le
labbra con un’essenzialità tutta maschile. La verità era che certe donne non
perdevano mai davvero il loro uomo: se lo facevano crescere dentro, ne nutrivano
la memoria con alcool e bistecche al sangue. Poi, un bel giorno, in un gesto, in
un motteggio imprevisto, quel loro maschio perduto tornava fuori; sbocciava tra
le pieghe di un sorriso o di una smorfia.
Ash non aveva fatto in tempo a conoscere William, ma non
aveva ragione di dubitare che l’avesse incontrato comunque.
– Un po’ di fantasia! Ti ricordo chi mandava avanti questo
posto: siamo vicini di casa anche Quassù.
– Che culo, – aveva chiosato Ash, provando tuttavia qualcosa
di simile a un incredibile sollievo.
– So cosa stai pensando. Di solito i cacciatori finiscono Là
Sotto, – aveva mormorato Jo, – ma sembra che siano capitate strane cose da
queste parti.
Ash aveva fatto spallucce, prima di puntellarsi sul gomito e
squadrare le proprie ospiti. – Che può fare per voi il dottor Badass?
La cicatrice di un sorriso si era aperta sulle labbra sottili
di Ellen. – Vedo che ci capiamo ancora.
Aveva sollevato la birra in segno d’intesa.
– So che di sicuro non te ne sarai stato con le mani in mano,
perciò se c’è qualcuno che può aiutarci a fare luce sulla situazione, quello sei
tu e nessun altro.
– Intendi il casino degli angeli?
– Esattamente. Vorrei capire se quella della pace del
Paradiso fosse solo pubblicità ingannevole, o quei due Winchester non
abbiano rotto in via definitiva il più costoso dei loro giocattoli.
– I vivi sono fuori dalla mia portata, ma se t’interessano
gli inquilini dei Piani Alti, qualcosa posso fare.
Jo, arricciata su uno degli sgabelli, faceva scivolare con
indolenza il polpastrello sulla superficie polverosa del bancone, quasi non
nutrisse alcun interesse particolare in quella visita, in quella ricerca, in
quel malinconico tentativo di recuperare briciole d’esistenza cancellate d’un
soffio e troppo presto.
Poteva anche darsi che fosse sinceramente innamorata di Dean,
perché quello dei Winchester era un sangue attraente e maledetto; erano uomini
che incontravi solo per perderti, perché erano fatti della carne degli eroi.
Le donne degli eroi, però, sono vedove o povere illuse o
ragazzine sventrate da illusioni più potenti dell’orgoglio.
– Turatevi le orecchie, finché non avrò trovato la giusta
frequenza, – aveva suggerito. – Chi parla del canto celestiale degli angeli,
vaffanculo a lui, avrà prima fatto il giudice per American Idol.
L’enochiano viaggiava su frequenze molto più elevate di
quelle associate alla lingua umana o al linguaggio animale. Li avresti potuti
definire ‘ultrasuoni’, sebbene non gli fosse mai capitato – nemmeno nei giorni
del MIT – di registrare onde la cui frequenza superasse i cinquecento MHz.
Ti sfondavano le orecchie e ti friggevano il cervello, gli
angeli, come ti strappavano gli occhi e, presi com’erano a bombardare persino il
tuo Paradiso, ti rompevano i coglioni fin dal primo mattino.
– Li intercetti da molto?
– Solo quando non ho niente di meglio da fare.
– Cioè? – aveva domandato polemica Jo.
Ash aveva scosso sdegnoso il mullet, prima di tornare alla
radiotrasmittente. – Tipo quando non ho sonno, mi sembra ovvio. La politica non
m’interessava da vivo. Figuriamoci da morto.
Ellen aveva bevuto un’altra robusta sorsata di birra e
deposto la bottiglia sul bancone. – E che dicono i nostri politici,
adesso?
Ash aveva picchiato l’indice sullo schermo di un laptop
decisamente artigianale. – Conflitto d’interessi in corso. A qualcuno
l’idea dell’Apocalisse piaceva parecchio, pare, e non ha digerito che i nostri
fratellini preferiti si siano messi in mezzo.
– Ma ce l’avevano un’altra scelta? – aveva detto Jo, il cui
tono tradiva una violenta irritazione. – Siamo seri. Dean e Sam hanno mai potuto
scegliere davvero qualcosa?
Ellen le aveva posato comprensiva la mano sulla spalla,
leggendo l’interlinea della sua disperazione e cogliendovi forse l’impronta di
un padre che non era durato abbastanza a lungo da appartenerle davvero; un padre
che, per non accettare compromessi, si era fatto ammazzare – e come lui crepava
prima o poi qualunque cacciatore, perché il Male non perdona: se non ti ruba
l’anima, sbrana quel che la contiene.
Ash aveva scrollato il capo. – Quale sia la verità, qualcuno,
la fine del mondo, la voleva sul serio. Si è formato una specie di partito
dell’Apocalisse, che sta incasinando da morire la Rosa. Secondo Augustine,
l’Eden è ormai terra bruciata e il Giardiniere è scomparso.
– E chi sarebbe questo Augustine? – aveva domandato perplessa
Ellen.
– I cattolici lo chiamavano Doctor Gratiae, ma era un
altro Badass, come me. Uno che da giovane ci aveva dato dentro sul serio, non so
se rendo.
Ellen aveva roteato gli occhi, disgustata.
– Comunque questo tipo è uno che con gli agganci giusti si è
guadagnato un posto da vip Quassù, mi segui?
– Come no, – aveva borbottato Jo.
– Ascesa libera all’Empireo, passeggiate nel Giardino, cose
del genere. E relazioni molto intime con gli Arcangeli.
– Ti prego!
– Non quel genere di relazioni. Voglio dire che poteva
parlare con gli Angeli. Con gli Angeli, con il Giardiniere e, probabilmente,
finché c’era, persino con Dio.
– Allora? Che ti ha spifferato il tuo pezzo grosso?
– Che c’è un arcangelo, un certo Ramiel, che si è fatto
rodere il culo di brutto.
– Sarebbe, la novità? Devo ancora conoscerlo un angelo che
non sia sempre incazzato, – aveva mormorato una voce nota.
– Ciao, Pam, – aveva bofonchiato Ash, mentre l’altra si
accomodava.
– Cos’è? Un raduno delle vittime del fascino assassino dei
Winchester? – aveva sogghignato la sensitiva.
– Può darsi, – era stata l’elusiva replica di Ellen,
interessata com’era al racconto.
Ash si era servito l’ennesima birra, senza scomporsi. –
Ramiel, se ho capito bene, era quello che Dio avrebbe mandato alla fine di tutto
il casino a raccogliere quel che sarebbe rimasto. Chiamalo spazzino divino
o quello che ti pare. Il problema, bello grosso, è che senza Apocalisse, niente
spazzino.
– E allora?
– Allora niente! Che ne so io? Volevate sapere che dicevano
gli angeli, no? Ed io ve l’ho detto. Dei loro problemi sindacali o emotivi, se
permettete, preferisco non impicciarmi.
– Ecco un uomo saggio, – aveva osservato una voce bassa e
monocorde, che Pamela aveva accolto con un tetro sorriso.
– Castiel, – aveva sibilato a mezza bocca, senza prendersi il
disturbo di sollevare lo sguardo.
L’angelo era entrato a testa bassa, introducendo un ospite
non altrettanto noto.
– Dottor Badass, – si era presentato Ash. – Con chi ho il
piacere?
– E questo sarebbe il posto, Cass? Questa… Bettola? – aveva
berciato lo sconosciuto, prima di far apparire un cesto di frutta tropicale.
– Piano con le parole, dandy trendy. Saresti, tu?
L’Arcangelo aveva sollevato ironico un sopracciglio, ma
Castiel l’aveva prevenuto.
– È Gabriel. È l’arcangelo Gabriel.
– Un altro vip, eh? – aveva rimarcato sarcastica Ellen. – E a
cosa si deve tanta grazia?
Gabriel aveva estratto un dattero dalla cesta e ne aveva
morsa la polpa con evidente soddisfazione. – Chiedete a lui. È il cocco di
Sweety Mety.
Castiel aveva roteato gli occhi. – L’Empireo è un campo di
battaglia. Avevamo bisogno di un luogo tranquillo in cui fare il punto della
situazione. La sfera delle anime non può essere lesa, dunque questo era anche
l’unico posto che ci restasse.
Gabriel aveva studiato con attenzione un grosso mango, prima
d’intercettare la radiotrasmittente di Ash. – Bel lavoro. Come hai fatto a
finire Quassù, se sei tanto intelligente?
– Ogni tanto me lo chiedo anch’io, – aveva replicato l’altro
senza scomporsi.
Castiel, stoico, non si era interrotto. – Suppongo che sia
interesse di tutti analizzare gli ultimi eventi, oppure non v’importa più nulla
della sorte di chi è rimasto?
– A me interessa, – aveva mormorato Jo con un filo di voce. –
Voglio sapere cosa ne è stato di Dean. E di Sam. Sam è finito all’Inferno, vero?
Castiel aveva scosso il capo. – Sam è salvo. Dean è salvo.
Gabriel aveva aggrottato le sopracciglia. – Passi Dean,
troppo buono e troppo stupido per essere davvero l’eroe, ma Sam come me lo
spieghi? Mio fratello Lucifer non è mai stato un avversario alla sua portata e
lo sapevamo tutti. Lo sapevi anche tu, che pure li hai accompagnati fino in
fondo o sbaglio?
Castiel aveva annuito. – È stato il Metatron.
– E chi sarebbe questo? – aveva replicato Ash. – Non è la
prima volta che lo sento nominare. Anche gli angeli lo invocano spesso.
Gabriel si era grattato la guancia con indolenza. – Sweety
Mety? Oserei dire che sia il mio fratellone one one, il primogenito di Dio,
ma non sarebbe del tutto corretto.
– Egli è la Voce di Dio.
– Dunque Dio c’è?
– No. Non è Dio. È solo l’angelo primigenio. Il nostro Adam,
se preferite.
– E questo Metatron c’entra qualcosa con i Winchester? –
aveva domandato Ellen.
Pamela aveva roteato gli occhi. – Che domande! Tutto
c’entra con i Winchester e con il loro vangelo da incubo. Tutto.
Castiel non aveva mosso un muscolo, e immobile restava il suo
sguardo. – Il Metatron ha salvato Sam, inviando negli Inferi Samael perché lo
sottraesse alla gabbia di Lucifer. E il Metatron ha salvato Michael, perché non
seguisse il destino del fratello.
Gabriel aveva aggrottato le sopracciglia. – Tu mi stai
dicendo, insomma, che tutto quel casino è finito con un nulla di fatto?
– No. Tutto quello che so è che Michael è stato tradotto al
cospetto dei Troni e di Metatron. Forse, ma resta solo una mia ipotesi, vuole
proporgli un’alleanza con il nostro fronte.
– Che sarebbe quello dei buoni, no? Cioè? – l’aveva
incalzato Gabriel.
Castiel aveva tratto un profondo sospiro. – Ramiel accusa
Michael di tradimento, perché suo era il compito di eliminare Lucifer e ha
fallito. Vuole l’Apocalisse a ogni costo, perché quella, dice, era la volontà di
Dio.
– Di fatto vuole diventare Dio. Non è così? Tanto il caro
Padre ha tagliato la corda.
Castiel aveva stretto i denti e deglutito. – No. Il Metatron
teme che il Padre sia imprigionato sulla Terra, da qualche parte, e non possa
tornare. Per questo ha scelto di salvare i Winchester e ha offerto a Sam la lama
di Longino.
Gabriel si era sollevato di scatto, facendo franare lo
sgabello. – Vuole cosa?
– La missione dei fratelli Winchester non è ancora finita:
devono trovare Dio, prima che Ramiel sbricioli il Cielo.
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Capitolo 3 *** Radici ***
Esistono convenzioni che nella vita di un uomo incidono quasi
più della volontà.
Ci sono uomini, soprattutto, che la Storia sembra aver
condannato a prescindere: condannato a un ruolo, a una missione, a un’eterna
infelicità.
Ci pensava, Dean Winchester, mentre saliva sull’Impala quel
tredici maggio duemiladieci: la testa vuota e il cuore a pezzi – oppure la testa
piena di pensieri e di perché e di ricordi, e il cuore bombardato dal senso di
colpa.
Senso di colpa, poi: sarebbe stato più corretto dire che
fosse l’ombra del fallimento.
Chi era, Dean Winchester, in fondo?
Un fallito.
Uno che nella vita non si era mai preso il disturbo di
pensare, perché era sempre stato persino troppo facile permettere a John
di farlo anche per lui.
Se dai a tuo padre il potere di vivere due vite, diventa
scontato e facile imputargli tutte le colpe del mondo.
Era stato John a ficcargli Sammy tra le braccia e John a
fargli credere che quello – e solo quello – fosse il motivo per cui Dean
Winchester era venuto al mondo.
C’era per Sam, per il piccolo Sammy.
E Dean non aveva mai fatto nulla per suggerire il contrario:
mai un atto di ribellione, mai un atto di orgoglio, mai neppure il tentativo di
piazzarsi davanti allo specchio, cercarsi oltre il verde troppo chiaro dei suoi
occhi e darsi la chance della profondità.
Dean era la brutta copia di John Winchester, senza la
determinazione e la cattiveria di un padre che, se non altro, sapeva dare alla
propria caccia un nome.
Perché cacciava, Dean? Per papà. Era persino semplice.
Perché gli piaceva musica tanto antiquata che qualcuno dei
suoi miti era morto persino prima di farsi conoscere? Perché era la musica di
John.
Perché scimmiottava il bello e dannato di un film buono al
più per le cotonature degli anni Sessanta? Perché quella era la mitologia del
macho cui John per primo si era abbeverato.
Sam, però, era diverso. Forse Sam somigliava a Mary, a
quella madre sfuggente ed eroica che nessuno dei due aveva davvero conosciuto.
Forse, se ci fosse stata Mary, Dean sarebbe stato diverso. Sarebbe
riuscito a diventare un eroe. Sarebbe riuscito a salvare Sam.
Ovviamente aveva mancato.
Così, come un cane bastonato, era tornato a Cicero, da una
donna che conosceva appena, ma che forse aveva scelto tra le tante seminate
lungo la strada per quel che aveva intravisto, sebbene negli interstizi di
tregua di una caccia disgraziata: una famiglia.
Lisa aveva un figlio; un bambino che poteva essere il suo, ma
che, soprattutto, desiderava che fosse il suo.
Con Lisa aveva sfiorato da vicino l’autentica essenza del
Dean che non era mai stato; un borghesuccio invisibile, forse, ma che riusciva a
vivere.
A trentadue anni, Dean Winchester nutriva soprattutto questo
terrificante, invincibile sospetto: che fosse diventato quasi vecchio –
senz’altro lo era dentro – senza aver davvero consumato un solo giorno della
propria vita.
Aveva cacciato il Male, d’accordo, ma del Bene cosa aveva
avuto?
Il tredici maggio del duemiladieci, insomma, aveva deciso di
riprendersi almeno un boccone di speranza.
Era primavera e l’aria aveva un buon odore. Dai finestrini
aperti, ti schiaffeggiava un vento quasi caldo, che asciugava le lacrime sulla
pelle senza cancellarle davvero.
Forse non voleva: ecco la verità.
Lisa l’aveva accolto muta. Ben dormiva già. Si sarebbe
svegliato con un estraneo in casa, ma, all’improvviso, quello non sembrava un
problema. Erano vivi e sarebbero stati bene. Insieme.
La primavera era un buon momento per ricominciare a vivere,
per liberarti, come un serpente, di quella vecchia usurata pelle che non ti
somigliava più.
A Cicero, Dean Winchester era diventato Dean Simmons, era
l’uomo di Lisa Braeden e lavorava come meccanico per Jeremy Weber, un omone di
due metri che aveva una risata da educanda vergine, un gran senso dell’umorismo
e che, soprattutto, offriva una paga decente.
Dopo quasi tre decenni di una vita zingara, improbabile,
costellata solo d’incompiute, Dean aveva avuto per la prima volta l’impressione
d’essere padrone del proprio destino.
Era un uomo, aveva una donna, un bambino, un lavoro; un lago
in cui andare a pescare, se ne avesse avuta voglia; amici con cui bere una
birra. Un bar, soprattutto, in cui bere birra senza scambiare informazioni che
sapessero solo della paura della notte e della polvere di una strada infinita.
Bobby, che lo conosceva come un padre e forse meglio di suo
padre, perché John era un eroe, e gli eroi non possono concedersi il lusso di
essere altro – genitori, amanti, amici – aveva rispettato la scelta che gli
aveva letto nello sguardo e non l’aveva più chiamato. Crowley gli aveva concesso
quello che nemmeno la pietà di Dio gli aveva restituito – le gambe – e ora
marciava senz’altro di nuovo per conto proprio, incontro a un orizzonte privo di
luce.
Dean evitava di pensarlo, però, perché altrimenti avrebbe
sentito il senso di colpa sbranargli di nuovo il cuore, perché nessuno gli aveva
insegnato che sopravvivere, a volte, è un esercizio di egoismo.
Quante vite aveva vissuto, Dean? Troppe. Nessuna,
però, fino a quel momento era stata la sua.
Cicero era una città decente per vivere, anche se priva di
attrattive particolari, come Lawrence, Kansas. Forse era proprio quanto, ai suoi
occhi, ne aveva fatta la tana ideale.
Tutte le mattine la sveglia suonava alle sei e mezzo in punto
– e no, non erano gli Asia, quanto un ritmico beep beep che ti trapanava il
cervello.
Allungava un braccio per esorcizzare la tortura, mentre Lisa
si volgeva sul fianco, brontolava qualcosa a mezza bocca e si riassopiva dopo
essersi tirata la trapunta fin sul capo.
Dean abbandonava il letto stordito e, sbadigliando con la
voluttà di un’otaria, raggiungeva il piano inferiore. Ben si affacciava poco
dopo, ancora mezzo addormentato. Avrebbe potuto aspettare Lisa per fare
colazione e dormire un altro po’, ma preferiva il suo, di breakfast, perché era
indigesto, grasso e buono; se ne fregava dei grassi saturi e persino del
buonsenso.
Quello era il loro rito a due. Quella era un’altra tessera
aggiunta al grande mosaico della vita e dell’appartenenza.
Ben l’aveva accolto con una naturalità che l’aveva sorpreso,
quasi fosse un arredo del paesaggio in cui era cresciuto sino a quel momento.
Quando ne aveva domandato – imbarazzato – il conto a Lisa, la risposta era stata
un capolavoro d’eloquenza.
– Gli piaci. Ha avuto un debole per te dalla prima volta in
cui ti ha incontrato. Qual è il problema? Ha chiesto per anni un padre a Babbo
Natale e ora ha una ragione in più per credere che esista. Tutto qui.
– Io non posso fare il padre! – era stata la sua replica
scandalizzata.
Non aveva la più pallida idea di cosa significasse quella
parola, perché John era stato tutto: padre, madre, mito, eroe. Più di
ogni altra cosa, un eroe. Non aveva mai provato a metterlo in discussione. Non
si era mai comportato da figlio.
Lisa aveva sorriso, in quel modo obliquo con cui le donne
imparano a prenderti in giro, a ridere delle tue debolezze senza sputartele in
faccia. Senza crudeltà, con qualcosa di simile, anzi, a un materno compatimento.
– Gli permetti di ridere di me come volto le spalle. Lo stai
già facendo: un’alleanza per soli uomini.
Forse era vero, ed era bello. Forse Dean Winchester
non era nato per fare l’eroe, perché non era fatto della stessa pasta di John,
ma possedeva un talento che a suo padre era sempre mancato: la sollecitudine
protettiva e malinconica del genitore.
Aveva passato due decenni a prendersi cura di Sam quasi fosse
figlio suo, scoprendo troppo tardi la propria vocazione e quella terribile,
ingiusta truffa. Era stato il suo Sammy a sputargliela in faccia; Sammy che
poteva guardarlo dall’alto in basso, perché era diventato un colosso, vaffanculo
a lui.
Sam se n’era andato a ventisette anni: era un uomo. Non aveva
mai avuto davvero bisogno di lui; non quanto Dean aveva sentito, viscerale, la
necessità di tenerselo accanto.
Sam aveva permesso alla propria esasperazione di chiamare la
verità per nome: ne aveva abbastanza di essere trattato come un cucciolo. Non
era un cucciolo, era un compagno. Non era un figlio.
Se Dean aveva bisogno di un figlio, quello non era Sam
Winchester.
Dean aveva davvero bisogno di un figlio? Forse sì, se quel
figlio erano anche una donna una casa una famiglia radici.
Ecco di cosa aveva davvero bisogno per vivere Dean
Winchester: di radici.
A Cicero, nella tarda primavera del duemiladieci, le aveva
trovate.
Lisa lavorava come istruttrice di yoga in una palestra della
zona est della città, lungo la Stringtown Pike. Il quartiere, tranquillo e
borghese, le assicurava una clientela di casalinghe annoiate e chiacchierone,
poco interessate al karma quanto invece sedotte dalla possibilità di guadagnare
contorcendosi la linea invidiabile della Braeden. Una di loro era la moglie del
proprietario dell’autofficina Weber, ed era stato in virtù della sua
intercessione se quel Simmons – un perfetto sconosciuto, per giunta con poche
credenziali – aveva ottenuto subito un posto da meccanico.
Dopo cacciare, lavorare con i motori era l’unica cosa che
Dean sapesse fare davvero bene. Gli riusciva, anzi, persino meglio che non
rischiare ogni volta l’osso del collo per colpa di qualcuno che era già morto,
perché provava autentico piacere nel respirare i fumi di gasolio e benzina sotto
la pancia di un bestione scarburato. Se poi arrivavano a offrirgli una bella
coupé d’epoca da molestare, poteva sentirsi l’uomo più fortunato del pianeta
Terra.
Jeremy era un datore di lavoro esigente ma generoso. Per la
prima volta, anzi, la legittima pretesa di qualcuno non si fondeva a
insindacabili ingiunzioni.
Non aveva figli e non era abbastanza vecchio da poter essere
suo padre, ma tra loro si era innescata quella complicità maschile che solo il
football, una birra e un carburatore possono assicurare. L’aveva persino
invitato a pescare con lui, la domenica, al Red Bridge Marina, località
deprimente almeno quanto affollata da virtuosi dell’amo. Non c’era ancora mai
andato, Dean, perché certi luoghi continuavano a proiettargli dentro le ombre di
avventure che avrebbe preferito dimenticare.
Gli piaceva, piuttosto, passare la domenica mattina a
respirare l’odore della pelle di Lisa, finché Ben non si affacciava a reclamare
attenzioni. Allora, se era una bella giornata, se ne andavano a fare un giro,
loro due. Velocemente, da nessuna parte, ma con la sensazione travolgente
dell’asfalto che consumi in una fuga verso l’infinito.
Ben, poi, adorava gli AC/DC: forse era il primo passeggero
che occupasse quel posto – il sacro posto alla sua destra – senza lamentarsi mai
della colonna sonora.
Faceva bene e faceva male insieme, perché a volte, in Ben,
più che un figlio rivedeva se stesso, com’era stato prima che la storia della
famiglia Winchester collassasse del tutto su se stessa; un altro ragazzino in
cerca del lupo, del capobranco, di una chance affettiva che somigliasse a un
modello.
Magari avrebbe potuto suggerirgli di scegliersene uno più
decente. Poteva anche darsi, però, che la primavera gli avesse infine portato
una vita che poteva sentirsi fiero di consegnare a qualcun altro.
E Lisa? Lisa cos’era?
Di donne ne aveva avute troppe perché un possessivo
significasse qualcosa.
Lei era un utero.
Era qualcosa di buio e caldo in cui tornava a sentirsi sicuro
e protetto. Lisa era accogliente, oltre che bellissima: di lei ricordava quello,
prima ancora dei muscoli fibrosi, delle cosce lunghe e forti che si stringevano
ai suoi fianchi.
Con Lisa aveva scopato che era poco più di un ragazzino, ma
era stata una scopata divertente, oltre che clamorosa. Era stata rasserenante.
Per quanto assurdo possa sembrare, un uomo può innamorarsi
anche solo per una carezza un sussurro un sorriso che arriva nel momento più
giusto.
Lisa avrebbe potuto incastrarlo, ma non l’aveva fatto: gli
aveva dato l’occasione di desiderare Ben, senza concederglielo davvero.
O era una strega o era la sua Mary.
Lisa, soprattutto, non gli aveva mai chiesto di Sam; sarebbe
stato quanto di più scontato potesse darsi, ma non l’aveva fatto: aveva letto
nei suoi occhi quel che desiderava sapere e aveva medicato una ferita suppurante
anziché cospargerla di sale.
Era sua perché aveva scelto di appartenerle, tutto
qui.
*
– Io vorrei proprio sapere chi è il bastardo che ha permesso
ai giapponesi di mettersi a fare pure le automobili.
Jeremy gli aveva passato il doloroso caso della Toyota rossa:
doloroso perché se ti eri fatto le ossa su una signora Impala del
Sessantasette, non ti sentivi poi del tutto a tuo agio a frugare nelle miserie
di una troietta duemilacinque.
E doloroso perché quella era la Toyota della vedova
Lafayette, una vecchia di ottomila anni che guidava quasi fosse una citazione –
quella della vecchia al volante per antonomasia.
Non erano ancora quattro mesi che lavorava per Weber, e già
aveva dovuto vedere quella maledetta macchina – che odiava – sette o otto volte.
Se non erano i freni, era la frizione.
Se non era la frizione, era saltato un fusibile che aveva
sputtanato l’impianto elettrico e se non era l’impianto elettrico…
– Oh, cazzo.
– Cos’è stavolta, Dean?
Jeremy aveva menato un colpetto alla fiancata, arretrando
tuttavia di un paio di passi come aveva sentito il ruggito della sua (tutt’altro
che discreta) bestemmia fondersi allo stridulo gnaulio di una bestia che non
avrebbe stonato all’Inferno.
– Un gatto nero, – aveva rantolato isterico, – e mi ha appena
pisciato in faccia.
Jeremy aveva cominciato a ridere come solo lui sapeva fare,
quasi davvero dovesse tirare giù il Cielo e tutti gli stronzi che lo popolavano.
Dean era riemerso furibondo, strofinandosi il viso solo per
imbrattarsi con un accanimento quasi comico.
– Ridi un cazzo. Prova a tirarla fuori tu quella bestiaccia!
Jeremy gli aveva scoccato un’occhiata che trasudava sarcasmo.
– Non ci penso proprio. Fino a prova contraria, sono io
quello che ti paga per fare il lavoro sporco.
– Ma non quello della protezione animali. Chiama la vecchia e
dille che la Toyota è posseduta. E che se proprio vuol guidare una macchina di
merda, che almeno si scelga un’utilitaria di casa nostra.
C’era un buon odore nell’aria. Profumo d’autunno, di
famiglia, di casa – quello che almeno immaginava avessero l’autunno e una
famiglia e una casa.
Il quattro luglio aveva fatto il primo barbecue decente della
propria vita. A Halloween, finalmente, forse avrebbe rubato dolcetti destinati
ai bambini senza aspettarsi di vivere l’ennesimo incubo.
– Resta il fatto che quel coso dobbiamo tirarlo fuori.
La voce di Jeremy l’aveva riscosso appena in tempo perché
cogliesse dall’altro lato della strada il profilo familiare di Ben, di ritorno
da scuola su una bmx di seconda mano che avevano trasformato nella bicicletta
più figa del circondario.
– Forse ho trovato un volontario, – aveva sogghignato,
richiamando subito dopo l’attenzione del bambino con un fischio prolungato.
– Ben, ehi! Ben, vieni un po’ qui.
Il figlio di Lisa aveva abbandonato la bicicletta in un
angolo e si era avviato, dinoccolato e guardingo come un vero duro, nella loro
direzione.
– Ciao, Dean, ciao Jerry. Niente pausa pranzo, oggi?
Dean aveva portato lo sguardo a quella maledetta macchina.
– Un osso duro, Ben.
Il figlio di Lisa aveva squadrato la Toyota con evidente
disgusto. – Ma è giapponese? Chi è che può volere…
Jeremy l’aveva fissato ironico. – Dì un po’… L’hai ordinato
su un catalogo, vero?
Dean aveva sogghignato evasivo, prima di raggiungere Ben.
– Come darti torto? Ma il problema è un altro. C’è un corpo
estraneo là dentro ed io… Be’, io non sto simpatico all’inquilino.
– Tipo?
– Un gatto.
– E tu hai paura di un gatto?
– Non ho paura di un gatto. È che… È che mi ha già pisciato
in faccia, ok?
Ben gli aveva rivolto un’occhiata che trasudava, grondava,
ululava sarcasmo.
– Lascia fare a me, – l’aveva sentito pontificare tronfio.
Meno di due minuti dopo, l’orrendo gatto – un occhio solo e
mezzo orecchio in tutto. Per giunta nero come il catrame – ronfava sicuro tra le
braccia del bambino.
– Poi glielo dici tu a mamma, vero?
– Cosa?
– Che Toyota resta con noi.
– Come l’hai chiamato?
Aveva una casa, un bambino e ora anche un gatto con un nome
di merda: era un uomo fortunato, Dean Winchester. Solo una cosa gli mancava
perché la felicità fosse perfetta, perché tutte le sue radici affondassero nel
terreno fertile dei ricordi più belli: suo fratello.
Eppure proprio Sam, precipitando nel buio, aveva scelto di
nutrire quella terra che ora calpestava da uomo libero.
Era terribile a dirsi, ma Dean non poteva fare a meno di
pensare che fosse giusto così.
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Capitolo 4 *** Il fuoco purifica ***
I Sinclair vivevano a Hermon da tali e tante generazioni che,
ridendo, il buon vecchio Jack chiosava: “Perché? Esiste altro oltre al Maine?”
Da quando un loro illustre conterraneo – era di Bangor, il re
dell’horror, ma che importanza poteva mai avere? Erano solo un pugno di
chilometri – aveva reso celebre quella terra inospitale, dai silenzi
inquietanti, boschi neri e tetraggini disperate, un Sinclair avvertiva ancora
più forte la fierezza che gli nasceva dall’appartenenza a una schiatta rocciosa,
uomini da bosco e da lago, grandi cacciatori e robusti bevitori di idromele. Una
vita semplice, intrisa di necessità, più che di bisogni. Una vita che il suo
essere spartana rendeva anche incredibilmente libera.
Jack Sinclair gestiva lo spaccio caccia-e-pesca di Hermon.
Sua moglie Donna – Donna Smith, degli Smith di Detroit, Maine – stava alla
cassa, si occupava di beneficenza e cucinava la migliore torta di mele del
vicinato.
Si erano sposati giovanissimi, a metà degli anni Sessanta. Un
incidente di caccia, che gli aveva portato via un occhio, aveva salvato Jack
dalla chiamata che aveva decimato una generazione: niente Vietnam per un
ragazzone di quasi due metri, che la fissità inquietante di un glauco bulbo di
vetro non aveva tuttavia privato di una sua particolare, selvatica bellezza.
Un occhio in meno, – diceva Jack, – mi ha salvato tutte e due
le chiappe. Uno scambio conveniente, no?
Era anche un pescatore di talento e un eccellente cacciatore,
il vecchio Jack: gli piaceva alzarsi alle cinque del mattino, negli autunni
precoci e nebbiosi del Maine che trasformavano le rive dell’Hermon Pond in una
suggestiva ragnatela di fumi, caricare il fucile e liberare Sturm, un bracco di
cinque anni che amava come un figlio.
Di discendenti propri, Jack non ne aveva, perché Donna, come
avevano scoperto dopo fiumi di dollari e tentativi andati a vuoto, era sterile
come un deserto messicano. Ci aveva pianto fin quasi ad asciugarsi, la sua
povera moglie, né a consolarla erano bastate le impacciate rassicurazioni di un
uomo non freddo, ma tremendamente maldestro.
– Un figlio costa. Stiamo bene anche solo noi due, no?
Il tempo aveva guarito quella ferita e consolato una vecchia
frustrazione.
Nella piccola comunità di Hermon, in fondo, il concetto di
famiglia era stato secoli prima sostituito da quello di vicinato:
tutti erano i figli, i nipoti, gli zii di tutti. Donna, almeno, non aveva
mancato un solo giorno della propria vita d’essere assediata da una massa di
ragazzini uggiolanti per una fetta di dolce.
E poi c’era Eloise Scott, la fulva nipote dello sceriffo, che
lavorava come commessa nello spaccio e, negli anni, si era trasformata a tutti
gli effetti in una nipote adottiva.
Eloise mille lentiggini lo accompagnava talora a pesca,
guidava il pick-up meglio di certi viziati ragazzi di città, sapeva smontare e
lucidare alla perfezione una doppietta, e, dettaglio tutt’altro che secondario,
era legata a quei luoghi almeno quanto un Sinclair.
A dispetto delle sue coetanee che non vedevano l’ora di
abbandonare un buco in culo al mondo, Eloise era fatta della stessa sostanza del
Maine: bianca come la neve e dura come l’acciaio.
Di quando in quando Jack amava perdersi in fantasie innocue
che davano sostanza alle sue più radicate e imbarazzanti aspirazioni: si vedeva
a capo di una tribù di nipotini rossi e lentigginosi, elargiti dai lombi di
Eloise, moglie perfetta di un altrettanto perfetto – e purtroppo inesistente –
erede.
Ora che aveva superato la boa dei sessanta, che spruzzi
argentati avevano sostituito l’oro rosso di una barba folta e curata, Jack
cominciava a percepire la puntura del rammarico; ad avvertire il vuoto dove, per
oltre quarant’anni, aveva sempre intravisto il pieno perfetto di una vita di
soddisfazioni genuine.
Donna era una signora ancora piacente, ma lo costringeva a
fissare nella rovina del suo corpo anche quello che era il loro futuro a due:
una strada, ormai, quasi giunta alla fine.
Nessuno era immortale, anche se scampava a un incidente di
caccia che ti portava via un occhio, anche se salvava il culo dal Vietnam.
I loro ultimi anni sarebbero stati un reciproco spiare la
pensilina del capolinea: inevitabile e sempre più vicina.
Poi, però, era saltato fuori Brian. Era saltato fuori
qualcuno che sembrava davvero caduto dal cielo.
Jack non era mai stato un individuo religioso, né
superstizioso. Come tutti i cacciatori – quelli di una volta, almeno – credeva
in quello che chiamava ‘naturale equilibrio’. Quando venivi al mondo,
quel che c’era attorno ti faceva un po’ di spazio; quello che ti serviva, ecco:
un paio di pollici più in là ed eri già fuori misura.
Per tutta la vita, consapevole dei naturali limiti posti da
quanto ti circondava, dovevi fare attenzione al dare e al togliere.
Per ogni cosa che prendevi, dovevi restituire l’equivalente.
O, se non altro, evitare di essere ingordo.
Per Jack, Dio era un vecchio cacciatore saggio, che dosava in
modo accorto la neve come i miracoli. Non si aspettava di essere assistito, come
non si aspettava di trovarselo seduto accanto a bere idromele. Senz’altro,
soprattutto, non avrebbe mai immaginato di poter vedere esaudito quel desiderio
che nessuno – lui per primo – aveva mai verbalizzato.
Voglio un figlio.
Voglio qualcuno cui dare il mio nome, lasciare lo spaccio,
insegnare un mestiere.
Voglio qualcuno che sappia sparare e spalare la neve e
spaccare una catasta di legna senza farsi sfuggire una scoreggia nello sforzo
come capita ai signorini di città.
Voglio qualcuno con cui ubriacarmi e con cui incazzarmi e a
cui lasciare Sturm, se un malaugurato giorno dovesse prendermi un colpo.
Forse Dio c’era e aveva un udito molto fine, perché quel
desiderio che si era tenuto stretto, quasi vergognoso, in silenzio era stato
accolto e altrettanto discretamente esaudito.
*
Era il quindici maggio: i fortunati del resto del mondo erano
già impegnati a lamentarsi del caldo e del surriscaldamento globale, ma nel
Maine era forse appena primavera.
Donna aveva ordinato due casse di fragole per la confettura,
pur sapendo che, come ogni prodotto di serra, non avrebbero avuto sapore;
Gregory Norton si vantava di una gigantesca preda pescata nel Pond locale, senza
curarsi del fatto che le dimensioni del pesce, da subito incompatibili con
quella pozza, crescessero di un braccio a ogni racconto; Eloise aveva scaricato
anche il fidanzato della settimana.
Tutto normale, almeno in apparenza.
– Kenneth sta rimettendo a nuovo il rio e mi ha chiesto di
procurargli del filo da nassa, – aveva annunciato sulla soglia del negozio. –
Prendo il pick-up. Ci vediamo a pranzo.
Eloise e Donna non si erano prese la briga di rispondergli,
impegnate com’erano a servire i clienti del giorno – newyorkesi in vacanza con
una ridicola fissazione per il trekking e il foliage. Li vedevi a ogni cambio di
stagione: alla fine di agosto per le foglie, tra aprile e maggio, per il disgelo
e le nebbie.
Jack aveva liberato Sturm e permesso al bracco
d’impossessarsi del cassone come faceva in occasione di ogni loro trasferta. A
Hermon, quel furgone rosso che si annunciava prima con due rapidi colpi di
clacson, poi con un latrato caloroso e prolungato, era quasi un’attrazione
locale.
Erano le undici del mattino di una giornata limpidissima. La
commessa, a essere onesti, non gli avrebbe portato via più di un’ora, ma il lago
era una tentazione e, una volta tanto, non gli dispiaceva l’idea di lanciare la
lenza accanto a un vecchio amico.
Kenneth Sullivan era quel genere di persona che mai e poi mai
un Sinclair avrebbe creduto di poter chiamare compagno: mingherlino,
slavato come un inglese tenuto troppo a lungo a bagno nel latte, poco o nulla
avvezzo alla vita all’aria aperta.
Giornalista di un discreto successo negli anni Ottanta, era
poi diventato uno scrittore prestigioso, di quelli che ti obbligano a comprare e
a esibire il loro libro anche se fatichi a distinguerlo da un qualunque elemento
di arredo.
Si era trasferito nel Maine da Chicago perché – diceva lui –
non potevi creare dove il fracasso della vita azzerava il suono dei tuoi
pensieri. Era un intellettuale, insomma, un signorino: però era una brava
persona.
Aveva rilevato la zona attorno al Pond, abbandonata e in
malora, per restituire il vecchio porticciolo agli antichi splendori. Malgrado
l’aria fragile, si era imbarcato da solo in un lavoro titanico, fatto di
progetti, ma soprattutto muscoli e sudore. Si erano conosciuti perché, nei primi
mesi successivi al trasferimento, Kenneth era diventato la sua principale fonte
di reddito. Una chiacchiera dopo l’altra, era divenuto quasi uno di casa, per
quella legge della comunità che mira a integrare e a digerire chiunque, purché
quel qualcuno le permetta di invadergli la vita.
Sullivan si era mostrato aperto e accessibile.
Grazie alle sue migliorie, la pesca all’Hermon Pond era
tornata in auge – con ingenti rimesse per lo spaccio Sinclair – sicché Jack si
prestava anche a servigi cui nessun altro avrebbe avuto accesso, ivi compresa la
consegna a domicilio.
Quella che si era innescata tra il ruvido pescatore del Maine
e l’intellettuale di Chicago era una routine collaudata: Jack saltava sul
pick-up e si spingeva fino al confine meridionale della proprietà di Kenneth,
che lo accoglieva con un sorriso, una birra e una citazione. Jack non aveva mai
perso la speranza d’azzeccarne, prima o poi, l’autore al primo colpo. Da che
conosceva Sullivan, tuttavia, quell’evenienza non si era ancora mai verificata;
come, del resto, non era mai capitato che trovasse il cancello aperto, ma non
presidiato dallo scrittore.
– Questa mi suona nuova, – aveva borbottato, recuperando il
guinzaglio di Sturm.
Jack aveva imparato a credere nell’istinto da che era poco
più di un ragazzino e andava a caccia con suo padre, storico frequentatore dei
boschi, cacciatore per passione e contrabbandiere con il Canada, di quando in
quando, per necessità.
Era l’istinto quello che ti aiutava a non perderti e
l’istinto quanto ti salvava dalle coglionerie del neofita – tipo abbandonare un
sentiero battuto per inseguire una stupida farfalla.
L’istinto, quel bel mattino di maggio, gli diceva che c’erano
troppi dettagli fuori posto nel quadro; troppi, persino per una terra magica
come il Maine.
Poiché non era un codardo, quanto un uomo sicuro di sé e ben
determinato a far valere quella sua legge interiore persino sulla Storia,
Sinclair aveva comunque preso a inerpicarsi per il sentiero che conduceva alla
proprietà di Kenneth, fiutando l’aria né più né meno di Sturm, alla ricerca di
tracce sospette. E non ve n’erano: tutto era in perfetto ordine, quieto e
immacolato come ricordava di aver sempre visto quella zona.
– Magari ha ricevuto una telefonata all’ultimo minuto, –
aveva borbottato tra sé.
Il villino di Sullivan era una baita tanto ben tenuta da
essere inserita – e venduta – in una classe di lusso. Sorgeva vicino a una
roggia naturale, che lo scrittore si preoccupava di mantenere pulita e,
soprattutto, aveva trasformato in un pittoresco asilo per due grosse oche
aggressive quanto mastini.
Anche quel giorno, non a caso, avevano preso a starnazzare
come si era annunciato; Kenneth, per fortuna, si era affacciato poco dopo.
Non sembrava malato, né in pericolo, ma aveva l’aria stanca,
quasi non dormisse da troppe ore; soprattutto, non gli aveva offerto subito la
birra, né aveva tentato di umiliarlo con un aforisma pescato chissà dove.
– È successo qualcosa? – aveva borbottato perplesso.
– In un certo senso, sì. Se vieni dentro, ti spiego.
E nella villa di Sullivan aveva incontrato Brian.
– Tornavo da Bangor, ieri sera, quando l’ho trovato riverso
sul ciglio della strada.
A una rapida occhiata, il ragazzo aveva un’età compresa tra i
venti e i trent’anni. Molto alto, aveva il fisico di uno sportivo, o di qualcuno
abituato a una vita attiva, più che contemplativa. Il suo corpo era coperto
dalle piaghe di ustioni recenti – la più significativa, sulla spalla sinistra,
ricordava l’impronta di una mano femminile.
I documenti erano andati combusti nell’incendio in cui era
stato probabilmente coinvolto. Da quanto restava di un tesserino plastificato,
erano riusciti a risalire solo al suo nome: Brian. Il diretto interessato, a
detta di Kenneth, sembrava non ricordare proprio niente: chi fosse, cosa gli
fosse accaduto, cosa l’avesse portato fin lassù e chi, soprattutto, dovessero
interpellare perché una famiglia fosse rassicurata. Non aveva l’aria di uno
sbandato, men che mai di un tipo pericoloso: tutto lasciava piuttosto pensare a
uno studente universitario di buona famiglia, di quelli che passavano dalle loro
parti per turismo, salvo poi rimediare un due di picche da Eloise.
– Non hai pensato di avvertire lo sceriffo?
Il ragazzo dormiva come un sasso; benché non avesse l’aria di
un mollaccione, sembrava comunque esausto.
– Era molto confuso e spaventato. Sai come funziona
l’autorità… Ti si piazzano davanti e ti bombardano di domande. Ho pensato che si
sarebbe sentito ancora più disorientato. Forse persino minacciato.
– Allora cosa pensi di fare? Tenertelo come animale da
compagnia? Mi sembra un po’ troppo grosso.
Kenneth aveva tratto un profondo sospiro. – Perché credi che
abbia cercato te?
– Intendi? Io ho già Sturm, e non gradirebbe un altro
inquilino sulla sua branda.
Kenneth non si era scomposto. – Molto divertente, sul serio.
Pensavo solo che sarebbe potuto stare un po’ da te. Di solito queste amnesie
durano un paio di settimane, e tutto quel che serve al ragazzo è un posto in cui
stare in attesa di ricordare chi sia. Casa tua è abbastanza grande, mi pare.
Donna avrebbe un’altra bocca da sfamare, e potrebbe darti una mano con lo
spaccio. Non mi sembra una prospettiva così disastrosa.
– No, non direi.
Sullivan aveva annuito soddisfatto.
– Se è per eventuali costi, posso…
– Non dirlo o potrei toglierti il saluto.
Kenneth rise. – Lo accompagno da te domani mattina. Che ne
dici?
– Digli di non fare una colazione troppo abbondante. Ho come
l’impressione che Donna si metterà ai fornelli questa sera stessa.
*
Era la metà di maggio, quando Brian, il ragazzo senza
passato, era entrato nella vita di Jack Sinclair: inventargli un presente e un
futuro, all’improvviso, si era rivelato persino facile.
Cos’è un figlio, del resto, se non un vaso che riempi di
ambizioni soprattutto tue?
E quello era diventato, da un giorno all’altro, uno
sconosciuto dagli occhi tristi.
Brian non era solo forte fisicamente, ma intelligente e
sveglio. Sapeva come trattare i clienti, giocando con i suoi sorrisi assassini
come un attore consumato. Gli uomini lo trovavano affidabile; le signore, sexy.
Brian era il nuovo preferito di Donna, con scorno supremo di
chi, come Sturm, si era sempre sentito il principe di casa. Non era difficile
volergli bene, perché, a poterlo ordinare su di un catalogo, Brian era il figlio
che Jack aveva sognato da sempre.
Quanto a Eloise, malgrado una mai simulata diffidenza
iniziale, le sue barriere si erano sgretolate persino prima di quel che il
famoso istinto Sinclair avrebbe suggerito.
Era sempre stata pronta e onesta nel riconoscere le proprie
debolezze, le tentazioni della sorte come i tranelli del cuore, Eloise: perché
avrebbe dovuto chiudere gli occhi davanti a un sentimento che non poteva
nuocerle?
Brian non aveva memoria, d’accordo, ma in quell’utero caldo e
protettivo in cui l’avevano raccolto sbocciava per quello che era: un uomo
intelligente, amante della tranquillità, poco incline al vizio e al lusso,
desideroso, forse, solo di una famiglia.
Chi poteva dire cosa fosse bruciato alle sue spalle?
Il fuoco, come insegnavano i vecchi, consuma e purifica: quel
che restituisce non è mai la stessa cosa.
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Capitolo 5 *** Una strana coppia ***
Ci sono molti modi di diventare padre.
Puoi seminare una donna, ad esempio.
Puoi farti seminare dalla vita.
Quella di Bobby Singer, nei fatti, era una paternità di
seconda mano, maturata sul campo e coltivata con quel pervicace accanimento che
era un po’ il crisma – e la condanna – di ogni cacciatore.
Bobby aveva conosciuto i fratelli Winchester che Sam aveva di
poco superato il metro: due ragazzini con gli occhi da vecchio, il coraggio
dissennato di chi è abituato a giocare con la morte, e certi sorrisi fiduciosi e
imprevisti da sgretolarti con il senso di colpa.
John glieli affidava, di quando in quando, per un rigurgito
di buonsenso: non puoi giocare con il sale e con il fuoco, quando sei il primo a
correre il rischio di bruciarti.
Da che Dean aveva avuto l’età per arrivare ai pedali
dell’Impala, però – era sui dodici, tredici anni – la caccia di un padre era
divenuta anche l’ossessione del figlio. Non si erano più separati, quei due,
quasi fossero un solo corpo.
Se avesse avuto un figlio, Bobby, avrebbe forse preteso
altrettanto. Poiché un figlio non ce l’aveva, però, aveva sempre pensato che
Winchester fosse un pazzo disperato, intriso di un amore che gli aveva fottuto
il cervello al punto da non fargli realizzare che nessuna vendetta al mondo
poteva valere il futuro di chi, al mondo, avevi messo proprio tu.
Se Sam era cresciuto tanto ribelle e contestatore, forse era
un po’ colpa sua, perché mentre il grande – ma sei grande a dieci,
undici anni? – andava a caccia, Sam restava arricciato nella poltrona del suo
studio, a ingozzarsi di Lucky Charms e a guardarlo sfogliare tomi polverosi,
istoriati d’incubi.
A volte, quando era incline a certe malinconie, Bobby si
diceva che il piccolo Sammy era un po’ anche figlio suo, perché era stato dai
suoi libri che aveva imparato il valore della conoscenza e la bellezza profonda
della ricerca.
Poi, una volta in cui un chupacabra aveva quasi sventrato
Dean, si era permesso di dire all’orgoglioso John Winchester cosa pensasse delle
vendette (e delle colpe) dei padri, e non si erano proprio lasciati da buoni
amici.
Quando John era scomparso, inghiottito dalla strada e dal suo
spasmodico desiderio d’inchiodare Occhi Gialli, Bobby aveva sentito da qualche
parte bruciare il rimorso per non essere stato forse l’amico che l’altro avrebbe
voluto: più compassionevole e condiscendente; meno incline al giudizio, forse,
cieco per convenienza. Ma Bobby Singer non era mai stato così: era barbuto e
ruvido come un vecchio cinico, né si era mai preso il disturbo di affezionarsi
al genere umano tanto da ciondolare in giro con una lanterna in mano.
Il problema, però, è che non sei tu che decidi quello che
vince il tuo cuore. Non sei davvero tu che scegli di donarti a qualcosa o a
qualcuno: è la Vita che ti sceglie. La sua, di vita, aveva deciso che Dean e Sam
Winchester erano anche un po’ figli suoi, dunque non poteva considerarne le
sorti – o le stronzate – come qualcosa che non finisse anche con il toccarlo
profondamente.
Cosa gli aveva lasciato quel maledetto maggio duemiladieci?
Un rugginoso sapore di sangue e di sconfitta in bocca.
Aveva perso Dean, perché la morte del fratello l’aveva in
qualche modo cancellato dal mondo; aveva perso Sam, perché si era condannato da
solo, per un qualche assurdo rigurgito di follia ed eroismo che doveva aver
sorbito assieme al latte materno.
Anche se il mondo era salvo, insomma, avevano perso: tutti.
Bobby aveva sempre pensato di possedere un solo limite come
cacciatore: non era abbastanza disperato. Aveva sacrificato la persona più
importante dell’intera sua vita, quello era senz’altro vero, ma la sofferenza
che aveva trasformato molti della sua generazione in cani sciolti non l’aveva
mai posseduto fino in fondo. Fosse egoismo, fosse un invincibile istinto di
autoconservazione, Bobby non si era mai spinto oltre il confine della vita e
della morte. C’era andato vicino, in verità, ma aveva una valida scusa da
opporre a tutto: la paraplegia che gli aveva mangiato il cervello assieme alle
gambe, e l’aveva portato a collezionare una lunga, interminabile sequenza
d’idiozie.
Le stesse, insomma, che un vecchio, esperto cervello da lupo
gli avrebbe altrimenti risparmiato.
Le stesse che era pronto a ripetere ora che gli sembrava di
non avere più niente da perdere.
– Ti assicuro che dovresti approfittarne: per non essere una
prima scelta, questo champagne non è male.
Non avere più niente da perdere poteva anche importare che ti
ritrovassi sospeso a duemila metri da terra su di una supposta volante diretta a
Tokyo. E, seduto al tuo fianco, un agente letterario di New York (dal successo
non poi tanto modesto), ti ricordava quanto allo stremo dovessi essere per
accettare di baciare in bocca un demone.
– Un retrogusto vagamente passito, se proprio devo essere
onesto, ma…
Crowley aveva schioccato la lingua, soddisfatto e incurante
dell’espressione seccata che aveva indossato fin dal primo minuto di viaggio e
che, a cinque ore di distanza da quel disgraziato imbarco, non si era
ammorbidita.
La verità era una e una soltanto: non avrebbe dovuto cedere
alla richiesta del demone; non avrebbe dovuto permettergli di accompagnarlo.
Punto primo: non si era mai vista una coppia formata da un
cacciatore e da un dirigente dei Piani Bassi – a meno che il dirigente non fosse
una bella demone e il cacciatore in questione, un belloccio alla Sam Winchester.
Punto secondo: Takuma Hoshida non avrebbe apprezzato.
– Sei un pessimo conversatore e un compagno di viaggio
penoso, Singer, – aveva sbuffato Crowley. – Sono sollevato al pensiero di averti
reso l’anima. Non ne avrei tirato fuori nulla di buono.
– Non sono stato io che ti ho chiesto di accompagnarmi, o
sbaglio?
– Ormai sono parte della squadra, e la mia vita terrestre è,
come dire? Noiosa? Una volta fare l’agente letterario voleva dire sfogliare la
rivoluzione. Ti capitava un Wallace, sognavi un nuovo Holden… Arte, capisci?
Politica, valori, ideali… – Virgolettava, Crowley. Le sue dita si muovevano
nello spazio quasi dovessero erudire un interlocutore particolarmente stupido. –
E adesso? Adesso vogliono vampiri. Vam-pi-ri. Una selva d’incapaci in
preda agli ormoni ti offre il non morto che brilla alla luce del sole, si
ingozza di centrifugato di cerbiatto e… Presta attenzione, perché questo è
davvero, mi sia permesso dirlo, in-fer-na-le, vende pure.
– Desolato che la letteratura faccia schifo, Crowley, ma ti
ricordo che non è per questo che stiamo per scomodare un Hoshida.
Takuma doveva aver superato ormai la quarantina; nei suoi
ricordi, però, era ancora incisa l’icona del ragazzo dai lunghi capelli neri e
dalla pelle diafana che gli aveva insegnato a neutralizzare i kappa e a
esorcizzare i demoni volpe.
Era stato uno strano incontro, il loro, perché i cacciatori
designano gelosi un territorio ed evitano di entrare in quello altrui. Takuma
Hoshida, invece, gli era capitato tra i piedi nell’ultima città al mondo in cui
avresti immaginato di poter collocare uno come lui – un po’ samurai un po’
schizzo di china.
La Los Angeles degli Ottanta era un carnaio di peccati e
passioni divoranti; dalla musica al cinema, sembrava che il culo dell’America
fosse diventato da un giorno all’altro l’ombelico del mondo: e là, tra set
polverosi e comparse di belle speranze, qualcosa aveva cominciato a succhiare
l’anima della gente.
Bobby aveva raccolto indizi per giorni, senza cavare un ragno
dal buco. Takuma – poco più di un bambino – aveva individuato ed esorcizzato il
Rokurokubi prima quasi che arrivasse a rendersene conto: la splendida Madama
Butterfly, su cui aveva fantasticato come un adolescente, era in realtà un
mostro orribile, dal collo flessuoso e retrattile.
Gli Hoshida erano una di quelle famiglie che immagini
esistano solo in letteratura: esorcisti dalla notte dei tempi, profeti e oracoli
del potere, avevano cumulato nei secoli una fortuna favolosa. Erano i
consiglieri degli uomini politici più influenti del Giappone, nonché i garanti
dell’Ordine; realtà e sovrannaturale potevano coesistere, ma mai sovrapporsi.
Takuma era destinato al ruolo di profeta ed esercitava da che
aveva sei anni, quando – gli aveva raccontato in un inglese pulitissimo, del
tutto privo di accento – aveva cominciato a manifestare i primi segni di un
potere che nel suo clan era ereditario, come in America si ereditavano
un’Impala, un’agenda, una missione suicida.
A dispetto dei cacciatori che conosceva, Takuma era
orgoglioso e consapevole di un ruolo che esercitava quasi fosse un sacerdozio.
Possedeva, del resto, abilità non comuni, come la percezione delle aure: non un
sesto senso affine a quello di un Winchester, ma la chiara capacità di vedere
oltre la linea del reale.
Agli occhi di un Hoshida, un Rokurokubi tale era anche se un
comune essere umano vedeva una geisha da perderci la testa.
Nel Giappone feudale, gli Hoshida alloggiavano nello stesso
palazzo destinato allo shogun, erano interpellati dall’Imperatore e ricevevano
ricchi oboli perché i nobili fossero sempre protetti dagli spiriti maligni.
Nel duemiladieci, gli Hoshida erano anche (se non
soprattutto) avvocati, immobiliaristi e, malgrado la crisi economica in corso,
saldamente infissi nella top-ten dei ricconi del mondo. Per quel che ne sapeva,
Takuma aveva da poco esaurito un mandato politico ed era tornato ad amministrare
una delle tante holding di famiglia.
– Hoshida, Hoshida… Ambiziosi con gli occhi a mandorla… Credo
di averne conosciuto qualcuno, uno o due secoli fa.
Singer aveva tratto un profondo sospiro. – Be’, tieniti
stretti i tuoi ricordi e vedi di non farmi fare figuracce. Tanto si accorgerà
subito che…
Crowley aveva allungato un morso soddisfatto alla tartina. –
Relax. A differenza di Quelli Lassù, noi demoni sappiamo sempre come
dobbiamo comportarci. Siamo gente che s’intende di affari e di negozi, in fondo.
Hoshida era convolato a nozze con l’erede dei Myoken, nobile
famiglia decaduta che si diceva discendere in linea diretta dalla mitica
Principessa Splendente.
Yuki Myoken era albina e cieca. Non c’era una sola cellula
pigmentata nel suo corpo sottile e gracilissimo, che tuttavia emanava una forza
sovrannaturale. Sembrava una creatura dell’Altro Mondo e, quel sospetto, Bobby
l’aveva avuto eccome: per uno come Hoshida, in grado di leggere tra le ombre
della realtà, giacere con un fantasma non doveva poi essere eccezionale. Yuki
Myoken, d’altra parte, era del tutto umana: di trascendente, al più, c’era
l’innata abilità di comunicare con gli Angeli.
Il suo spirito guardiano era un cherubino di nome Jezabel –
così, almeno, gli aveva confidato Takuma nei giorni in cui gli affari del
Paradiso parevano ancora favole da presbiterio o da setta.
Se qualcuno poteva aiutarlo a riportare Sam – e dunque anche
Dean – a casa, quel qualcuno doveva essere per forza di cose Hoshida.
– Già. Peccato che ancora non abbia ben chiaro cosa
ricaveresti da questo affare in particolare. Io so perché m’interessa
parlare con Jezabel, ma tu? Tu che avresti da dire a un Angelo?
Crowley aveva tratto un profondo sospiro. – Ecco un limite
degli esseri umani: siete curiosi anche quando dovreste preoccuparvi dei fatti
vostri e basta. Ho i miei interessi in merito alle faccende che riguardano i
Piani Alti, perché sono un uomo d’affari e non trascuro i dettagli.
– Ma non mi dire…
Crowley gli aveva rifilato un’occhiata tutt’altro che
amichevole. – Stammi bene a sentire, Singer. Io non ti piaccio, ma ti svelo un
segreto: nemmeno tu piaci a me. Non mi piaci tu, non mi piacciono
gli uomini e non mi piacciono i cacciatori in modo particolare. Ma io sono un
tipo sveglio, che sa stare al mondo. E al mondo servono anche uomini e
cacciatori, pare. Perché il mio mondo e i miei affari
vadano bene, però, certi equilibri vanno rispettati. Ecco perché Lucifer doveva
restarsene nella sua bella scatola, ed ecco perché vi ho aiutato. Ti è
abbastanza chiaro?
– Hai ottenuto tutto quello che volevi, mi pare.
Crowley si era concesso una breve risatina, colma di un
sarcasmo fastidioso. – Ma guardati attorno: ti sembra forse che tutto sia
tornato al suo posto?
Bobby aveva sollevato sarcastico un sopracciglio. – Non sarai
un altro fissato con il surriscaldamento globale, spero! Perché ti rassicuro,
non c’entrano gli Angeli: hanno fatto tutto i cinesi.
– Questa non è male, ma ho sentito di meglio, – aveva
sbuffato il demone. – È evidente che stai invecchiando, Singer. Anzi: sei
vecchio e stai abbassando la guardia. Ti confesso che all’inizio anch’io ero
portato a vederla come te: Lucifer di nuovo sotto, fortunato chi resta, no? Però
mi sono accorto presto che di gente strana in giro continuava a essercene
troppa. Strana nel senso di… Mi hai capito?
Bobby aveva roteato gli occhi, abbandonandosi contro lo
schienale dell’avvolgente sedile di prima classe – pagava Crowley.
– Benvenuto nel duemiladieci… E di pazzi era pieno il mondo
da molto prima.
– Sono serio, Singer, e quando un demone è serio, ti assicuro
che vale anche la pena di starlo a sentire, perché capita di rado e solo per
qualcosa che non vale la pena sottovalutare. Ci sono troppe creature di Lassù e
di Laggiù che pascolano sulla terra, e questo pascolo sconsiderato crea
problemi ai miei affari: troppa corruzione e troppi miracoli rimpolpano le
depressioni da crisi economica e m’inflazionano i patti.
– Dici che il fallimento dell’Apocalisse non ha riportato
l’ordine qui da noi?
Crowley aveva allungato un altro morso alla tartina. – La
Terra e, nota bene, ti uso anche la maiuscola del rispetto che non provo, è,
volgarmente parlando, un casino di Dio. C’erano almeno un milione di scelte più
intelligenti che il Grande Padre avrebbe potuto fare, anziché creare una
gigantesca palla di merda, ma pare proprio che sentisse il bisogno di riempire
qualche vuoto emotivo con voialtri insignificanti ragnetti. Il problema è che
questo casino sta diventando sempre più incasinato: e questo, te lo ripeto,
turba i miei di progetti. Se vuoi riprenderti i Winchester, a me sta bene. Tutto
quello che può concorrere a ridurre la confusione del mondo, fa anche il mio
gioco.
– E cosa ti assicura, caro il mio demone, che i tuoi cari
Winchester non ti tolgano di mezzo assieme al resto della spazzatura?
Crowley aveva spiegato le labbra e sorriso: una smorfia
davvero sinistra. – Esisto da molto prima che inventassero l’uomo. Vi conosco
tanto bene che potrei quasi avervi partorito io, uno dopo l’altro. Non sono un
avversario alla vostra portata, perché possiedo qualcosa che manca a molti dei
miei simili.
– E sarebbe?
– Il giusto mezzo. La terra è solo un Inferno con un clima
migliore. Combatti per conquistarti il tuo morso di vita o di Paradiso, ma la
verità è che ti affanni per un pugno di mosche. Cos’è la solidarietà, se non una
forma autoreferenziale di egoismo? Cosa, l’ambizione, se non un gioco di
maschere che ti servono a vivere? Mi sono scavato una piccola nicchia
confortevole, senza mai mordere il freno o pretendere di scivolare oltre il
limite naturale che t’impone il buonsenso. Un mondo di dannati non è divertente,
come non è divertente un mondo di santi. Potrei dirti che guadagnare anime è il
mio lavoro, come vendere pessimi libri e maldestre bugie, ma non sarebbe ancora
la verità. I demoni commerciano i sogni in cui gli uomini hanno smesso di
credere, perché sono lenti, limitati, vigliacchi e, soprattutto pigri.
– Ma finiscila!
Crowley aveva sorriso ancora – la sua bocca crudele piena di
disprezzo.
– Mi hai venduto la tua anima immortale per un paio di gambe,
Singer. Non dimenticarlo.
Colpito e affondato.
– Non fraintendermi, – aveva ripreso il demone con un tono
più conciliante, – a differenza di quelli Lassù, io non vi disprezzo. Voi mi
servite, ed è anche per questo che ho tentato di evitare con ogni mezzo
l’Apocalisse. Se l’uomo sparisce, cosa resta a chi esercita la lusinga della
tentazione? Dio, in fondo, vi ha creato liberi proprio per permettervi di
sbagliare.
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Capitolo 6 *** Devi affidarti ai cespugli ardenti ***
Tokyo è una città apocalittica nell’accezione propria del
termine.
È una città che svela solo per nascondere di nuovo. Una città
la cui bellezza profonda non si mostra alla luce.
Una città in cui non vivi e in cui persino morire sembra
impossibile.
Con le sue luci troppo accese, i suoi tramonti che sono polle
di sangue rappreso, le notti di marmellata e lampi verdastri, Tokyo è la città
in cui ti aspetti ogni giorno la fine del mondo, perché è tra le sue verticalità
rabbiose e i suoi giardini nascosti che il passato e il futuro chiudono il
cerchio.
Il presente implode in una metafora contorta.
– Molto toccante. Non immaginavo che un alcolista arrivasse a
concepire immagini così belle.
Bobby Singer aveva liberato un sospiro agonico,
risparmiandosi una replica che l’altro non avrebbe comunque raccolto. I demoni
ti leggevano in testa e ti entravano dentro senza chiederti il permesso.
Malgrado tutto, era sempre meglio ritrovarsi psicanalizzati a tradimento che non
con un metro di lingua in gola.
– Non è molto cambiata, dopotutto. Ha una sua coerenza
arrogante, la vecchia Edo.
L’elegante berlina inviata dalla famiglia Hoshida stagnava
nel traffico infernale di Shibuya; a prelevarli, due laconici colossi in nero.
– Ti sei mai soffermato a riflettere sul perché il terremoto
del Kanto abbia lasciato in piedi proprio Shinjuku?
Bobby gli aveva rivolto un’occhiata annoiata. – No. Non me lo
sono mai chiesto e dubito che possa interessarmi.
Crowley aveva sollevato ironico un sopracciglio. – Dovresti.
I terremoti vengono da Sotto.
– E Kabukicho è sempre stato il quartiere delle puttane.
Scontato e banale.
L’altro aveva liberato una risatina colma di un irritante
sarcasmo. – Mi avevano detto che il buon vecchio Bobby era un misantropo
sveglio, ma a vederti, converrai, suona facile prendere certe voci per una
licenza poetica.
– Non m’interessa finire tra gli amici di Facebook di qualche
demone. Siete solo polvere che si accumula agli angoli.
– Polvere della storia. Già…
Crowley si era concesso un sospiro soddisfatto. – Pensi
davvero che questo Hoshida possa aiutarti a tirare via dal buco il piccolo
Sammy?
– Potrebbe. Sono una famiglia di sciamani potenti.
– Parliamo della Gabbia, Bobby. La Gabbia è un gingillo
voluto da Quello Lassù. Ti assicuro che ci sa fare con il meccano.
– Non ne dubito, ma Quello Lassù ha smesso da parecchio di
farsi sentire, perciò non credo che possa lamentarsi più di tanto se qualcun
altro chiede di usare i suoi giocattoli.
– Già. Il problema è soprattutto questo. Mi chiedo che
diavolo abbiano combinato in Cielo.
– Siamo in parecchi.
Un profondo silenzio era scivolato nell’abitacolo,
inghiottendone gli occupanti. Oltre i vetri scuri della berlina, la realtà era
una successione disarmonica di macchie di colore e lame di luce; te le sentivi
colare addosso, come una guaina soffocante.
L’aria umida e stagnante di Tokyo ne rendeva ammorbante
l’atmosfera e caliginosa l’aria: all’Inferno, però, chissà com’era.
Bobby Singer andava con la mente a Dean, all’ombra che
quell’esperienza gli aveva lasciato dentro, radendolo al suolo.
La Perdizione Eterna era un veleno che ti scorreva sotto la
pelle e s’incrostava al cuore; faceva male anche solo pensare che fosse toccato
altrettanto al piccolo Sammy.
La residenza degli Hoshida specchiava fin dall’accesso
l’anima bifronte di un Giappone sospeso tra mito e futuro: l’alta cancellata
dagli architravi bombati, del tutto simile a una porta sacra, era guardata a
vista da una corona di cellule fotoelettriche e videocamere.
– Siamo arrivati.
Crowley si era stirato come un gatto mammone. – M’introduci
tu o devo occuparmene io? Non vorrei imbarazzanti incidenti diplomatici.
Bobby gli aveva rifilato un’occhiataccia. – Se è il Takuma
Hoshida che ricordo, a quest’ora avrà già avvertito la tua puzza.
Il demone, per tutta risposta, si era annusato contrariato le
ascelle. – È una colonia di Armani, zotico!
– Era tanto per dire.
La villa della famiglia di sciamani e sensitivi più potenti
del Giappone si era infine annunciata come un incubo dell’Ikea: dopo un giardino
che rispecchiava alla perfezione i dettami dell’estetica zen, infatti, si
approdava a un cubo di legno acciaio metallo che sembrava concepito per friggere
gli occupanti a mezzogiorno in punto – o per offrire un’impudica panoramica dei
loro più intimi segreti.
– Me li immaginavo un po’ diversi, – aveva chiosato Crowley,
mentre si faceva loro incontro un quindicenne che pareva uscito da un manga o da
un terribile videoclip j-pop.
– Forse Dio dovrebbe mandare giù un altro diluvio, – aveva
mugugnato tra sé Bobby, sforzandosi di assumere un’aria contegnosa.
– Mister Crowley! Lei è l’agente di Amos Parker, vero? –
aveva esordito a sorpresa il ragazzino daltonico, snobbandolo quasi fosse una
delle carpe dell’immancabile laghetto ornamentale. – Io sono un grandissimo fan
di Dakota Jung. Il sesto libro della saga, quello in cui si scopre che il
vampiro Nevius è in realtà suo padre… Oh, mi sono davvero commosso!
Crowley si era rivolto all’ospite con la bonomia di un
pastore benedicente. – Amos sta lavorando al settimo. Se tutto va bene, avrò le
bozze per…
Bobby aveva portato lo sguardo al cielo, alla ricerca di
un’illuminazione che dubitava potesse giungerne; non, almeno, come la certezza
che l’Apocalisse fosse ben poca cosa rispetto a un fanboy dei vampiri.
– Sapevo che mio padre stava aspettando ospiti, ma se avessi
immaginato…
Il ragazzino continuava a mitragliare Crowley con un inglese
sussiegoso e impeccabile, senza mostrare mai, nemmeno per un istante, la
consapevolezza della sua autentica natura. C’erano pecore nere anche tra gli
sciamani?
– Sì, a volte la nonna mi apostrofa così, – era stata
l’imprevista, quanto brusca replica.
Bobby aveva aperto la bocca, senza riuscire ad articolare una
sola sillaba.
– So che mister Crowley è un demone, ma è anche l’agente di
Amos Parker e… È vero che dorme solo due ore a notte?
A disincagliarli dall’inquietante agguato di un sensitivo
adolescente, per fortuna, il tono gelido e seccato con cui, da un punto non
meglio precisato della casa, era esploso un – Reiki! – non negoziabile.
– È mio padre, – aveva commentato mesto il ragazzo. – Vi
aspetta in biblioteca.
Bobby aveva tratto un sospiro sollevato. – Andiamo?
Crowley si era accomiatato dal daltonico postulante con un
leggero inchino, quasi godesse – scorretto e diabolico fino in fondo – nel
minare il suo sistema nervoso. – La puzza del demone, eh?
– Le nuove generazioni non hanno decenza.
– Convengo. Dakota Jung è una troietta frigida che si eccita
solo con il sangue, ma se riesce a restarmi vergine per altri due o tre volumi,
potrò comprarmi un’isola ai Tropici.
Bobby aveva scosso il capo, arreso alle irragionevoli ragioni
di un marketing editoriale che non poteva non puzzare di zolfo: pubblicavano
Twilight, in fondo.
Takuma, se non altro, era ancora lo ieratico personaggio che
ricordava.
Il tempo gli era scivolato addosso quasi levigandolo: la sua
pelle era candida; gli occhi, sottili fessure di china. I capelli – sempre
nerissimi – ostentavano ora un taglio marziale, e il suo completo – design
d’alta sartoria e su misura – gli conferiva qualcosa di ministeriale. In aperta opposizione al querulo entusiasmo del figlio vampirofilo, soprattutto, si era irrigidito
come il suo sguardo aveva incrociato quello di Crowley.
– Suppongo che ci sia una valida ragione per un ospite tanto
poco gradito. E gradevole.
Più che un insieme di parole, quella era una pioggia d’aghi.
Bobby avrebbe preferito che gli si rivolgesse in giapponese,
perché la musicalità della lingua avrebbe stemperato in parte la gelida ostilità
di una tacita accusa.
Crowley si era fatto avanti, aveva congiunto le mani e si era
inchinato quasi fosse al cospetto di uno shogun. – So di non essere stato
invitato, ma non sono qui come nemico.
Takuma aveva mosso un paio di passi nella loro direzione.
Alle sue spalle, timido come un cervo, aveva di nuovo fatto capolino il giovane
Reiki.
– La parola di un demone ha la sostanza degli arcobaleni.
– Belli ed effimeri?
– Belli e letali. Non puoi sfiorare la corrente con le dita
senza bruciare.
– Ma senza corrente non avresti la luce.
– Il buio è fatto per riflettere.
Bobby aveva tratto un profondo sospiro, prima d’interrompere
un palleggio che minacciava di protrarsi all’infinito.
– Potremmo rimandare il torneo di haiku e metafore a quando
avremo risolto la questione per cui mi sono fatto non so quante miglia in aereo?
Takuma aveva allontanato lo sguardo da Crowley per portarlo
su di lui; anche il demone, d’altra parte, aveva scelto di tacere.
– Conosco le ragioni del tuo viaggio e, se pure non me le
avessi comunicate, sarei stato io a cercarti, poiché interessano anche la
famiglia Hoshida, ma prima voglio che mi giustifichi la presenza di questa bassa
creatura.
– Ehi! Non sarò Brad Pitt, ma ho una mia…
– Taci, tu! E sia… Benché non mi faccia piacere ammetterlo,
questo qui ci ha aiutato. O meglio: ci ha provato. Non voglio dire che sia un
tipo frequentabile, ma gioca la nostra stessa partita.
Takuma aveva socchiuso le palpebre.
– È così. Il vecchio Bobby ha detto bene. Convivo con gli
esseri umani da molto prima che Hiroki Hoshida vendesse l’anima del vostro clan.
Takuma si era irrigidito di colpo.
Un sorriso colmo in egual misura di sarcasmo e crudeltà aveva
sfigurato il viso del demone. – L’anima per un potere infinito, che scorre nel
vostro sangue come una linfa maledetta.
Hoshida aveva chinato il capo.
– Non sono qui per riscuotere, ma per capire.
Il tono di Crowley si era ammorbidito e fatto quasi
didattico. – C’è un ordine che l’impedimento dell’Apocalisse doveva
ripristinare, ma che non si è manifestato. Perché?
Takuma aveva annuito, prima di dare loro le spalle. –
Seguitemi. Yuki vi metterà a parte dei misteri del Cielo.
Bobby aveva volto al demone un’occhiata interrogativa, mentre
il giovane Reiki profittava del breve tragitto per carpire qualche spoiler.
– Jezabel ha cessato del tutto di parlarle. Sono settimane,
ormai, che la mia sposa tenta di contattarlo, senza ottenere risposta.
– Non mi sembra un dettaglio rassicurante.
– No, non credo che lo si possa chiamare così.
Yuki Myoken aveva la consistenza della neve e della polvere.
Il tempo sembrava averla sfiorata quasi per caso, lasciandone intoccata la
sovrannaturale bellezza. Gli occhi senza sguardo svanivano in un ovale paffuto,
da bambina. Sottili rughe agli angoli della bocca tradivano tuttavia la sua età,
come l’abitudine al sorriso.
L’erede dei Myoken si era sollevata dalla poltrona in cui era
accomodata con un movimento fluido ed elegante, e spedita aveva cominciato a
muoversi in direzione di Hoshida. A guidarla, un grosso Akita Inu dalla
mascherina fulva.
– Benvenuti.
La voce bassa, quasi rugginosa strideva in modo brutale con
l’aspetto delicato; così le sue dita forti, da guerriera. Una donna che non si
era arresa al proprio handicap, aveva dedotto Bobby. Una donna, soprattutto,
consapevole del proprio potere.
Takuma ne aveva raccolto protettivo la mano.
Non superava il metro e sessanta, Yuki: accanto al marito,
piuttosto alto per essere un giapponese, sembrava davvero una bambina.
– Spero di poter rispondere alle vostre domande, come mi
auguro che voi possiate sciogliere i miei dubbi.
Bobby si era inchinato al suo cospetto, benché fosse un gesto
superfluo, visto che l’altra non avrebbe potuto vederlo. – Un ragazzo a me molto
caro, – aveva esordito con qualche esitazione.
– Sam Winchester, – aveva osservato subito la moglie di
Hoshida. – Conosco la storia del loro sangue maledetto. Coraggiosi e sfortunati.
Bobby si era grattato la barba. – Sì… Suppongo che uno
potrebbe anche metterla così.
Yuki Myoken aveva affondato le dita nel folto pelo della
fedele guida. – Sam era il Wunderkind di Lucifer. Il predestinato ad
accoglierlo.
– E l’ha fatto.
Yuki aveva annuito. – Lo so. Jezabel me l’ha comunicato.
– L’ha fatto per imprigionare Lucifer. Perché…
Crowley aveva sorriso. – Perché un demone può anche conoscere
qualche trucchetto che torna utile ai buoni.
Bobby gli aveva rivolto un’occhiataccia, prima di riprendere
la parola. – Quel che vorrei sapere è se esiste un modo per riportare sulla
Terra Sam Winchester. Quel ragazzo non merita di sicuro di stare all’Inferno.
Yuki aveva annuito. Una lunga ciocca dei capelli candidi le
era scivolata sul viso, velandolo come un funebre drappo.
– Jezabel ha smesso di parlarmi. Il suo Cielo è in guerra e
tremo per la sua sorte.
Aveva fatto una piccola pausa.
– Ma so che Sam Winchester è vivo. Sta bene e conduce ancora
la sua esistenza tra gli uomini.
Bobby aveva sgranato gli occhi, imitato da Crowley. – Cosa?
– Jezabel mi ha confidato che un angelo superiore l’ha
salvato dall’Abisso e dalla Perdizione Eterna. Non posso dirvi di più, però,
poiché la voce della mia guida si è spenta.
Bobby aveva esalato un sospiro agonico. – Perché diavolo non
si è ancora fatto vivo, allora? Perché non ha provato a…
– Perché la sua memoria è andata perduta, – aveva mormorato
una voce nota, mentre due nuovi visitatori si offrivano al loro sguardo.
Yuki Myoken si era irrigidita; Takuma Hoshida, protettivo,
l’aveva accolta nel proprio abbraccio.
– Cass, – aveva mormorato incredulo.
– Castiel e Gabriel, prego. Anzi: Gabriel e Castiel, – aveva
puntualizzato ironico l’arcangelo. – Cominciamo con il rispettare le gerarchie.
Crowley aveva sogghignato tra sé. – Guarda chi si rivede… Il
buon vecchio Loki!
– E il buon vecchio Crowley. Come vanno gli affari?
– Non posso lamentarmi, ma qualcuno dei tuoi tiri aumentava
la tiratura di Fantasy Magazine. La vita della mia casa editrice non è
più la stessa, da quando hanno cominciato a perdersi quelle belle, succose
leggende metropolitane.
Gabriel aveva scosso il capo, ridacchiando.
– Toccante, sul serio. Perché non vi scambiate l’amicizia su
Facebook e limitate le smancerie a un altro momento? – aveva tuonato Bobby. –
Non ho fatto migliaia di chilometri per…
Castiel l’aveva fissato in un modo che nessuno avrebbe detto
rassicurante; poiché poi Castiel non era dotato né di senso
dell’umorismo, né, soprattutto, del senso della misura, non era proprio il caso
di sfidarlo.
– Siamo qui per questo. – Il tono dell’angelo era basso e
monocorde. – Sam Winchester è stato salvato per volere del Metatron. Presto
tornerà a ricongiungersi al fratello, perché possano ottemperare alla missione
per cui sono stati scelti.
Bobby aveva aperto la bocca, ma non era stato in grado di
dire alcunché. Crowley, invece, aveva lanciato un lungo, eloquente fischio. –
Metatron, eh? Se scende in campo anche il Generalissimo, Lassù state con la
merda fino al collo, vero?
Castiel l’aveva ignorato.
– Una… Missione?
Era stato Gabriel a regalare a quello sparuto, incredulo
uditorio, la verità. – I fratelli Winchester sanno cosa voglia dire cercare un
padre. Ora, però, dovranno recuperare quello che appartiene a tutti noi.
– Vuoi dire che…
– Dio ha smesso di parlare. Ha smesso di governare e di
rispondere. Nel Paradiso imperversa l’anarchia degli Apocalittici contro il
conservatorismo dei Troni. Se non volete che la merda dei Cieli vi cada addosso,
fidatevi dei cespugli ardenti: Dio va svegliato.
Bobby si era grattato la barba. – Trovare… Dio?
– Proprio così. Non basta che Lucifer se ne stia buono in
gabbia, perché la Creazione ritrovi il proprio equilibrio. La guerra dei Cieli
sta precipitando in Terra e gli angeli non si fanno scrupoli nel reclutare
pedine e martiri, – aveva aggiunto Castiel.
– Già visto, – aveva sospirato. – Dunque Sam sta tornando?
– Non c’è altra via. Il Metatron l’ha scelto e alla voce di
Dio puoi solo obbedire.
Crowley aveva riso. – Ah… La meravigliosa democrazia celeste…
Poi, con ineffabile eleganza, aveva domandato a Reiki se non
fosse possibile avere del sake dolce.
Da che quell’avventura a due si era inaugurata, Bobby si era
sorpreso per la prima volta a pensarla come il demone: aveva bisogno di berci
su.
E basta.
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Capitolo 7 *** Fuori dall'utero ***
A guardare l’autunno del Maine, ti veniva spontaneo pensare
non solo che Dio esistesse, ma fosse soprattutto un indimenticabile artista.
Nei giorni in cui la pioggia non decideva di flagellarti,
ingrigendoti l’anima, la nebbia del mattino si diradava per lasciar esplodere
contro la retina rossi sovrannaturali e distese d’oro da perdersi. Prima
dell’arrivo della neve e di quegli inverni infiniti, fatti per raccogliersi in
casa come animali braccati, il Maine era la meraviglia di boschi che ti
regalavano la loro bellezza più profonda proprio in punto di morte: un canto del
cigno che odorava di muschio e conigli selvatici e silenzio.
Con l’apertura della stagione della caccia, Jack aveva
aggiunto al suo vigore di figlio dei boschi un’eccitazione quasi infantile.
Lo svegliava all’alba, seguito dall’inseparabile bracco: la
doppietta già in spalla e le grosse mani aderenti allo stipite della porta.
– Come si può dormire in giornate come queste?
Era una domanda retorica, ma alle quattro punto cinquanta di
un settembre ancora mite, nessuno possedeva risorse dialettiche in grado di
soccorrerlo. A Brian, d’altro canto, piaceva perdersi nella bruma con l’uomo che
l’aveva adottato; inebriarsi dell’odore della terra umida e dell’adrenalina
dell’attesa. Come aveva scoperto senza particolare piacere, aveva la mira di un
cecchino, e maneggiare un fucile gli riusciva naturale né più né meno di quanto
non gli apparisse buono e giusto occuparsi delle consegne.
Persino Eloise, che era un’eccellente cacciatrice, nulla
poteva contro l’apparente facilità con cui, calibrato il tiro, abbatteva lo
sfortunato bersaglio.
Jack non faceva mistero di considerare quelle sue abilità
come il crisma di una familiarità spirituale: un segno del destino che l’aveva
reso padre e mentore quando al più si voleva nonno.
A Brian, tuttavia, restava lo sgomento di una vita che
vestiva come l’abito buono, quello della festa: una spoglia graziosa ma
estranea.
Chi sono io?
Se la sua mente fosse stata una lavagna spoglia, forse
avrebbe trovato una valida ragione per arrendersi all’oblio della dimenticanza.
Così non era, però: la sua memoria somigliava piuttosto a un oceano in tempesta.
Nozioni scollate, che nulla dicevano della sua identità, s’inseguivano senza
soluzione di continuità; mutavano di segno all’improvviso; nascondevano o
svelavano abilità impreviste.
A volte, nel cuore della notte, si svegliava in preda alla
raggelante sensazione di essere spiato o avvolto dalle spire di un incendio
indomabile. Talora, gli occhi sbarrati nel buio, cercava in un soffitto troppo
bianco l’impronta di un dolore che il ricordo aveva cauterizzato sulla sua
retina, ma che la sua lingua non sapeva chiamare.
In quelle notti infinite, Brian si sedeva sul letto,
respirava in profondità e cercava l’unico indizio che gli restasse della vecchia
vita accanto a una tessera di plastica liquefatta: un corto pugnale. Il taglio
appariva consumato e il dorso istoriato da una greca di decori che ti facevano
pensare a un geroglifico; sembrava molto antico – senz’altro lo era – e strideva
con l’immagine che gli restituiva lo specchio.
Era un ragazzo normale; un sano ragazzone americano
dai denti bianchi e dagli occhi dolci.
Cosa se ne faceva un tipo del genere di un’arma levigata dai
secoli?
Poiché tuttavia era quanto gli restava di un passato
irraggiungibile, a quel pugnale tornava sempre. Lo soppesava, ne spiava i
riflessi, ne studiava il fregio: tutto, pur di permettere a quel sottilissimo
filo di trascinarlo oltre il labirinto della dimenticanza.
Eppure non era accaduto.
La primavera era divenuta estate e l’estate si era sbiondata
in un autunno di brume e tramonti precoci senza che un solo frammento di
Brian-senza-altro-nome fosse tornato al suo posto.
A Hermon la vita somigliava a una lanterna magica: un
cartonato di fantasmi che si ripeteva sempre uguale a se stesso. A volte Brian
aveva l’impressione di aver già vissuto una simile esperienza – quella di un
giorno, cioè, che ricominciava sempre uguale a se stesso – ma si chiedeva a
ragione se ciò non derivasse da quell’alienazione cui erano soggetti un po’
tutti i figli degli anni duemila.
La sveglia suonava alle sette in punto: Jack era già in piedi
da almeno un’ora, loquace e rumoroso; Donna gli riempiva il piatto di pancake
annegati nello sciroppo d’acero.
Eloise arrivava allo spaccio dei Sinclair poco prima delle
nove: un bel sorriso e poi solo la curva candida delle spalle o di una nuca
lentigginosa e profumatissima.
Benché fosse attratto da lei, qualcosa gli aveva sempre
impedito di avvicinarla, quasi un segnale di pericolo cominciasse a lampeggiare
come oltrepassava la distanza di sicurezza.
In occasione della festa del quattro luglio, tuttavia, si era
baciati: un bacio umido e vischioso, che non aveva nulla di amichevole o
discreto.
Non se n’era pentito, ma aveva avuto paura di spingersi
oltre. O forse no, ma gli bruciava dentro un rimorso senza nome.
Io sono maledetto: una voce gli sussurrava all’orecchio
quella verità spaventosa con un’insistenza che annichiliva tutto. Persino il
desiderio.
Eloise non se n’era troppo adontata, tanto più che aveva
conosciuto Ralph Madison, un biondino originario di Portland che aveva
affiancato il vecchio sceriffo alla fine dell’estate. Avevano cominciato a fare
coppia fissa, quei due, per la gioia delle pettegole di Hermon e il sublime
scoramento di Jack che, senza troppe perifrasi, gli dava ancora – un giorno sì e
l’altro pure – del coglione.
– Una donna così, credi a me, capita una volta sola nella
vita! E tu te la sei fatta soffiare sotto il naso!
Brian non aveva mai trovato il coraggio di dirgli che sì,
forse era stato davvero un idiota, ma non puoi regalare nulla a una donna se non
hai un futuro.
La sua vita era un eterno presente senza prospettive. Il
domani, una possibilità aleatoria. A volte pensava a se stesso come a un feto di
sei o sette mesi. Sei già un bambino, da un certo punto di vista; le tue
possibilità di vita, almeno, sono consistenti ma sei comunque prigioniero di una
sacca. Te ne stai stretto nell’amnio delle ipotesi, senza alcuna concreta
consapevolezza.
Il suo utero era la famiglia Sinclair, era Hermon, era
un’amnesia pietosa. Era il niente davanti ai suoi passi.
L’equinozio d’autunno si era annunciato con densi acquazzoni;
la roggia di Sullivan era esondata, devastando buona parte della proprietà
attorno all’argine. Assieme a Jack, a Kenneth e a un’altra decina di uomini di
Hermon, aveva lavorato come una bestia per contenere il danno, ma restava alta
l’allerta generale, perché tutti conoscevano bene le insidie delle rogge: oggi
somigliavano a rigagnoli, e domani ti ritrovavi in casa il Mississippi incazzato
nero.
Erano state sorteggiate squadre di volontari, armati di
walkie-talkie, cerate catarifrangenti e termos di caffè. La notte era lugubre e
fredda e infinita, poiché con la luce svaniva anche quel poco di civiltà con cui
l’uomo aveva insidiato il grande Nord; eppure, per l’ennesima volta, Brian aveva
pensato che quelle atmosfere gli erano familiari, né lo vinceva mai
l’inquietudine che sferzava i suoi compagni di veglia.
– Dicono che andrà avanti per tutto il fine settimana.
Joseph Conrad, il farmacista di Hermon, aveva tirato una
lunga boccata dal proprio sigaro.
– Se non smette di piovere, c’è davvero il rischio che si
allaghi anche la città.
Brian aveva annuito, attizzando il fuoco. – Vado a dare di
nuovo un’occhiata alla roggia.
– Da solo?
Aveva fatto spallucce. – Non ho paura del buio.
Joseph aveva riso. – Nemmeno io, ma qualche dubbio me lo
concedo.
Brian aveva raccolto la torcia e controllato la guaina in cui
riposava la ricetrasmittente. – Torno tra una decina di minuti.
Il terreno, ammorbidito dalle piogge, era scosceso e
difficile da praticare. Malgrado i robusti scarponi che indossava, aveva
impiegato ben più di un paio di minuti a raggiungere l’argine.
L’acqua schiumava ai bordi; un ribollire sordo, che
raggiungeva il suo orecchio come una tetra minaccia.
Aveva sollevato la torcia, puntandola nel buio impenetrabile
della foresta per controllare la tenuta del sito. Era stato anche così che
l’aveva individuato: occhi d’oro e sguardo fermo.
– Che ci fai qui? Non hai sentito cosa ha detto lo sceriffo?
Il ragazzino non aveva mosso un muscolo, benché il tono non
invitasse a una pacifica ignoranza. Era vestito in modo troppo leggero per la
stagione e i capelli, umidi di pioggia, aderivano come alghe alla grana pallida
del collo.
– Aspetta… Hai avuto un incidente? Magari i tuoi genitori…
Il ragazzo aveva dischiuso le labbra, ma non ne era uscito
alcun suono.
– Perfetto… Ci mancava solo…
Un lampo intensissimo aveva illuminato a giorno la radura,
anticipando un tuono tanto violento da far tremare la terra. Brian si era
ritrovato in ginocchio, il capo tra le mani e un’invincibile sensazione di
terrore e nausea e disorientamento a vincerlo.
Il ragazzino gli si era avvicinato: in luogo delle pupille
dorate che tanto l’avevano colpito, stavano ora due globi di pura luce.
– È tempo che torni a vestire la tua pelle, Sam Winchester.
Brian aveva deglutito a fatica. – Io non…
Un palmo sottile si era posato sulla sua fronte. – Torna al
mondo, Sam Winchester, e alla vita cui appartieni.
Aveva stretto con forza le palpebre: quando le aveva
riaperte, a vegliarlo c’era un cielo dall’azzurro irreale. L’aria odorava di
polvere, di solitudine e di deserto.
Si era rialzato a fatica, indolenzito, ma integro; alle sue
spalle, un nastro d’asfalto si perdeva nelle solitudini di una piana spettrale.
– Ma cosa…
Si era guardato intorno, disorientato.
Un cartello mangiato dalla ruggine diceva che mancavano un
centinaio di miglia a Scott City, Kansas. Dal film di polvere che gli
ombreggiava la pelle, aveva dormito a lungo sul ciglio della strada, e quella
non doveva essere un’arteria molto trafficata.
Brandelli di memoria tornavano a ricomporsi, costruendo un
intricato mandala che nel suo cuore lasciava esplodere un nome indimenticabile:
Dean.
Aveva dischiuso le labbra, boccheggiando.
Gli occhi senza sguardo del Metatron tornavano a
perseguitarlo, come quella voce non voce, perché prima dell’orecchio era il tuo
cuore a riceverla. Aveva portato la mano alla tasca dei jeans, senza riuscire a
stupirsi del fatto che ne avesse tratta una lama vetusta e fredda, coperta
d’incisioni.
– La cuspide di Longino.
Michael l’aveva riconosciuta e Lucifer aveva subito gli
effetti del suo potere. Era un’arma angelica che la più alta delle Potenze del
Cielo gli aveva rimesso… Per cosa?
Aveva sospirato in profondità.
Un vento caldo, che odorava di deserto, sferzava il suo viso.
L’orizzonte svaniva nella caligine dell’ora meridiana; liquefatto, l’asfalto ti
faceva pensare a una palude.
Eppure era vivo.
Era vivo, era libero ed era Sam Winchester. Un senso di
euforia profonda l’aveva attraversato, strappandogli un grido che era risuonato
quasi ferino nella solitudine di quei luoghi.
Percepiva la carezza dell’aria e il tepore del sole con
un’intensità che non ricordava di aver mai provato, perché mai come in quel
momento aveva realizzato quale incredibile miracolo fosse la vita stessa.
– E ora… Dean.
Sì: doveva ritrovare Dean e la magia dell’Impala e delle
notti piene di stelle e delle birre gelate. Dean e le cacce spietate e la
sensazione d’invincibilità che ti nasceva da un pugno di sale al momento giusto.
Il clacson di un imponente trucker aveva squarciato il
silenzio. Sam aveva portato lo sguardo al cielo e ringraziato: tornava da Dean.
Tornava a casa.
A Cicero era arrivato alle sette della sera del ventiquattro
settembre duemiladieci: a condurvelo, una vecchia di mille anni su una Toyota
rossa. Gli aveva risparmiato tre o quattro miglia a piedi, la vedova Lafayette.
Gli aveva raccontato, soprattutto, quello che di Dean aveva sempre intuito, ma
mai vissuto: il Dean che esisteva oltre la maschera ormai logora del cacciatore.
Dean come padre come marito come uomo; Dean come meccanico
come vicino come amico; Dean come sarebbe stato, se solo Sammy non fosse mai
nato.
Aveva tratto un profondo sospiro, mentre le luci della strada
s’illuminavano l’una dopo l’altra.
Oltre la cornice di un’ampia finestra, la famiglia di suo
fratello era il miraggio della felicità che non avrebbe mai avuto.
Dean se l’era guadagnata. Sam, no: per questo, però, non
poteva portargliela via.
Era rimasto a guardare ancora per un pugno d’istanti, prima
di volgere le spalle a quel quadro.
Aveva abbandonato la culla confortevole di un utero
incosciente per tornare ad appartenere a una storia maledetta, ma non aveva né
il cuore né il diritto di pretendere altrettanto dal proprio fratello.
Un giorno, forse, anche Dean sarebbe sceso di nuovo in campo:
quel giorno – e solo allora – gli avrebbe detto la verità.
Non ho bisogno di un padre.
Ora il fratello maggiore sono io.
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