Once In A Blue Moon

di _Princess_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Eyes Catch ***
Capitolo 2: *** Ever Dream ***
Capitolo 3: *** Time Changes Everything ***
Capitolo 4: *** Fly Me Away ***
Capitolo 5: *** World Within My Wall ***
Capitolo 6: *** Pieces ***
Capitolo 7: *** Angel of Fame ***
Capitolo 8: *** Just Breathe ***
Capitolo 9: *** Unleashed, Unmasked, Unpredicatble ***
Capitolo 10: *** Everybody's Doll ***



Capitolo 1
*** Eyes Catch ***


And your time has come
The naked truth is in disguise
It's your secret complication
Exhausted of this sacrifice
Just like a lying preacher
Hiding to survive

(Lacuna Coil, Distant Sun)


Love me, before the last petal falls.

(Nightwish, Beauty & The Beast)

 

 

***

 

Il caldo, le luci, il vociare, l’attesa, il frusciare di abiti costosi e il tintinnio dei bicchieri dei drink, dei gioielli… Così si presentava una delle serate mondane più glamour e chiacchierate della Germania, uno sfavillante convoglio di star della musica e dello spettacolo, nazionali e internazionali.

C’era qualcosa di magico e perverso nel piacere che si poteva provare nel scendere da una lustra limousine nera ed essere accolti da un tappeto di persone adoranti che urlavano il tuo nome al di là di un nastro rosso che segnava il confine tra la gente comune e i loro idoli. Di quelle urla, Kuu si era beata e compiaciuta, rispondendo con sorrisi smaglianti e saluti calibrati, rivolgendosi a fans, telecamere e giornalisti, tutti concentrati su di lei. Perché era lei la regina della serata – lei, e Kaaos il re – e buona parte dell’attenzione sarebbe stata dedicata a loro due, i Pristine Blue, la popolare novità dell’anno della scena musicale tedesca.

Appena era arrivata assieme a Kaaos, c’era stata una miriade di microfoni ad accalcarsi attorno a loro, domande a pioggia da intervistatori che lei, fino a poco tempo prima, aveva visto solo in televisione. E la gente che, confinata oltre il tappeto rosso dalle transenne e dai molti bodyguard che sorvegliavano la zona, gridavano e applaudivano, scattavano foto, chiedevano autografi, sventolando il loro CD e poster con la loro immagine. Qualcuno, addirittura, portava il logo dei Pristine Blue disegnato sul viso o sulle mani.

Tutto questo ha del folle…

Solo fino a sei mesi prima, lei era stata dall’altra parte del nastro.

Poi erano entrati, e lei si era ritrovata catapultata nel vivo degli Echo Awards 2010: l’arena era più piccola di quello che le era sempre sembrato a guardarla in TV, dal salotto di casa, ma l’effetto era comunque straordinario. Riflettori tenui sui toni del rosa e del viola a illuminare il palco e gli spalti, e il parterre di fronte allo stage era pieno di eleganti tavolini corredati di divanetti scamosciati. La sala era già quasi del tutto al completo.

Era tutto nuovo, per lei, un mondo noto ma ancora inesplorato, pieno di celebrità di estrazione varia di cui lei ormai era parte integrante e pochi relativi fans, probabilmente ancora incapaci di credere di avere avuto accesso all’evento grazie alla vincita di qualche concorso.

Kuu si guardava intorno annoiata dalla sua comoda poltrona dell’area vip, Kaaos alla sua sinistra che gettava sguardi occasionali allo scintillante premio come Best Newcomer che avevano appena vinto, la loro manager Griet a destra, euforica e fiera, che chiacchierava esaltata con Luke, la guardia del corpo che li seguiva ovunque da ormai qualche mese.

Il palco, al momento, aveva appena accolto i Tokio Hotel per la quarta volta, quella sera, che erano già saliti per ritirare il premio come Best Video, Best Band e Best Song, e ora ritiravano un meritato Best Album per il loro acclamatissimo ed attesissimo Humanoid, emozionati come se non si fosse trattato del milionesimo premio che si portavano a casa, come se non si fossero mai trovati su un palco davanti a chissà quante migliaia di spettatori.

Kuu accavallò le gambe, lasciate generosamente scoperte dal corto abito di seta verde, e li osservò con interesse mentre Bill si avvicinava al microfono per snocciolare l’ennesimo, commosso discorso di ringraziamento: erano abissalmente diversi rispetto alla prima volta in cui li aveva incontrati, ormai dieci lunghi anni prima, ma le sembravano ancora gli stessi ragazzini di allora, almeno per quanto riguardava certi atteggiamenti, perché sotto altri aspetti erano decisamente cresciuti. Dal primo all’ultimo, ciascuno di loro aveva assunto una propria identità precisa e ben delineata, e se una volta avrebbe riso di loro – così come loro avrebbero riso di lei – ora non poteva che riconoscere che ormai non restava altro da fare, se non ammirarli.

C’erano una volta i quattro di Magdeburgo che sognavano di conquistare la Germania e finirono per sottomettere il mondo…

“Cosa ne pensate di loro, ragazzi?” domandò casualmente Griet a lei e Kaaos, sporgendosi verso di loro con in mano il suo bicchiere di gin and tonic.

Kuu la trovò una domanda molto curiosa.

“Sono bravi,” disse Kaaos, seduto scompostamente nella propria poltrona, fissando il palco con i suoi occhi neri. “Il loro stile ha avuto un’impennata non indifferente da quando Jost ha smesso di manomettere i loro demo. Ci hanno guadagnato di brutto.”

Kuu rise.

“Mi spiace solo che siano troppo belli per essere presi sul serio da chi non li conosce,” disse, senza sbilanciarsi troppo. “Non avrei scommesso un centesimo su di loro, all’inizio,” aggiunse. “Ma hanno tirato fuori la grinta, e si meritano quello che hanno.”

Parlava senza interesse, limitandosi ad esternare un mero parere. Non le facevano né caldo né freddo, quei quattro, in quanto gruppo. Non le dispiaceva la loro musica, ma li trovava troppo perfetti per essere veri. Non aveva mai smesso di credere che ci dovesse essere qualche trucco dietro a un gruppo così bello e bravo e simpatico.

Era stata una loro fan sfegatata, agli inizi, ma poi li aveva visti crescere a dismisura nella popolarità, li aveva visti diventare delle stelle della scena musicale mondiale, e aveva perso l’interesse per loro. All’epoca le erano piaciuti per la loro sfacciataggine di giovani talenti ribelli, adesso erano solo quattro celebrità come tante, nonostante ancora li ammirasse per come affrontavano la loro fama.

Improvvisamente in sala calarono le luci e si fece silenzio.

Tutti i riflettori si spensero, ad eccezione di quelli che puntavano sul centro del palco, dove Nena stava salendo per consegnare il premio successivo. Kuu, però, guardava altrove.

I Tokio Hotel, con il loro bel premio in mano, stavano ritornando verso i loro posti. Seguì con lo sguardo Bill, Tom, Georg e Gustav che sfilavano silenziosi verso la passerella, non di destra, come avevano fatto le volte precedenti, ma di sinistra. Le sarebbero passati accanto in cinque secondi netti.

Kuu rivolse loro un’occhiatina di sufficienza mentre si avvicinavano, tra grida festanti e strilli isterici, e gli occhi di tutti erano per loro, per le loro espressioni di trionfo. Nel sorpassarla, incrociarono il suo sguardo per un momento: uno di loro la ignorò, un altro le fece un occhiolino sfacciato, un altro si limitò a scrutarla brevemente, un altro le sorrise. Il sorriso più triste e vuoto che lei avesse mai visto.

Kuu si chiese come due occhi di quel caldo color cioccolato potessero apparire così gelidi, dietro a quella misteriosa patina di opaca malinconia.

I ragazzi ripresero i rispettivi posti, festeggiati da pacche del loro manager, Benjamin Ebel, e del loro ormai storico produttore, David Jost.

Kuu scorse una ragazza alta e slanciata, vestita esattamente come le bodyguards, un paio di occhiali scuri a nasconderle gli occhi, che si alzò a salutò il ritorno di Tom con un bacio sulle labbra. Non fu difficile riconoscerla come la sua ragazza, una figura di certo non nuova al pubblico più fedele, dato che ormai era già più volte comparsa su diversi giornali, in qualche servizio su di loro e anche ad un paio di eventi come quello, senza contare le sue occasionali apparizioni in un paio di episodi della Tokio Hotel TV.

Subito accanto, invece, c’era la ragazza di Georg, vestita in modo decisamente più affine ai gusti di Kuu, anche se forse un po’ troppo sobrio e discreto, ma le piaceva l’abbinamento tra le ballerine rosse e i jeans grigio scuro, senza contare che la maglietta bianca sfrangiata che portava sotto alla giacchetta nera satinata aveva tutta l’aria di provenire direttamente dalla collezione disegnata da Bill. Era più fine, rispetto all’aggressività che comunicava lo stile della ragazza di Tom, e più femminile, e sembrava sentirsi terribilmente spaesata, là in mezzo, fino a che Georg la prese per mano, e lei si rilassò immediatamente.

Kuu si chiese dove avessero lasciato la figlia di lei, dato che della piccola non c’era traccia.

Assieme a loro, in jeans e camicia bianca, c’era anche il fascinoso DJ Djevel, fratello della ragazza di Tom, che al momento stava brindando l’ennesima vittoria assieme a Bill e Gustav.

“Non ce l’hai un po’ di orgoglio?” le sussurrò Kaaos ad un orecchio.

Kuu lo spinse via, infastidita.

“Ero solo curiosa di vederli nel loro ambiente naturale.”

Era strano, in effetti, trovarsi lì, perché tante volte aveva sognato qualcosa di simile. Ora che anche lei aveva avuto accesso a quell’ambiente, le sembrava solo tanto fumo e poco arrosto, una grande, spettacolare illusione montata per essere venduta al pubblico.

Guardò il prezioso premio che le scintillava di fronte, messo in bella mostra sul tavolino, e lo visualizzò nella propria stanza nella vecchia casa dei suoi a Potsdam, la sua cittadina natale: avrebbe fatto una magra figura con quell’arredamento spartano.

Fin da piccola, Kuu aveva sempre odiato quella casa, un minuscolo trilocale a stento sufficiente ad ospitare tre persone. I suoi non avevano più avuto figli, dopo di lei, perché non se li sarebbero potuti permettere, e così lei aveva vissuto di sacrifici, vestendo gli abiti dismessi delle proprie cugine più grandi, acquistando libri di testo usati per la scuola, e i pochi soldi che riceveva li teneva da parte per comprare CD e biglietti per i concerti. Anche dopo, quando aveva iniziato a lavorare, quel poco che le restava dai contributi ai suoi per aiutarli con le spese e dal pagamento della retta per l’università, li aveva spesi per quello.

Adesso che era una cantante famosa, tutto era diverso.

Dopo la firma del contratto discografico con la Universal, lei e Kaaos avevano avuto necessità di prendere un appartamento a Berlino, di comprarsi vestiti più consoni a delle rockstar, e finalmente lei si era potuta permettere un pianoforte tutto suo, un magnifico Bösendorfer 290 Imperial che aveva sognato fin dalla più tenera età, quando aveva iniziato a prendere le prime lezioni di piano da sua prozia Ingrid. Da allora, la musica era stata tutta la sua vita.

“Ragazzi,” li richiamò Griet. “Tutto ok?”

Kuu le sorrise ed annuì. Aveva sempre adorato Griet, una donna energica e piena di vita, che si era fatta in quattro per loro, per aiutarli a sfondare, e non avrebbe mai smesso di esserle grata di tutto quanto. Le veniva un po’ da ridere, però, a vederla agghindata in quell’abito da sera, perché Griet era tutto, fuorché una da abiti da sera. Da come continuava ad aggiustarselo addosso, infatti, era più che palese che non vedesse l’ora di sbarazzarsene e tornare al suo solito, confortevole abbigliamento casual.

“Questo è soltanto l’inizio.” Promise loro. “Mi sto dando da fare per organizzarvi qualcosa che non potete nemmeno immaginare.”

“Una megavacanza di sei mesi su un’isoletta in Islanda?” domandò Kaaos, fingendosi speranzoso. Era un orso solitario un po’ allergico agli eccessi di attenzione. Gli piaceva l’idea di iniziare a suonare in giro per la Germania, e, perché no, magari anche per l’Europa o il mondo, un giorno, ma Kuu sapeva che tollerava malvolentieri l’invadenza dei media.

“Vuoi una vacanza di sei mesi dopo neanche tre mesi che sei famoso?” Griet schioccò la lingua con scherzoso rimprovero. “Ragazzo mio, non credo che ti sia ben chiaro come funzionano le cose nel jet set.”

Kaaos si stiracchiò, protendendo avanti a sé le lunghe braccia sottili. La giacca di pelle si tese sulla sua schiena.

“Per ora mi posso accontentare della mia suite di hotel a cinque stelle con servizio in camera ventiquatt’ore su ventiquattro.” Dichiarò, soddisfatto, accavallando pigramente le gambe da ragno.

Kuu raccolse il proprio bicchiere di San Pellegrino e ne prese un sorso.

“Non hai classe, Kaaos. Puoi fare finta di fare il bel tenebroso quanto vuoi, ma sei nato campagnolo e campagnolo morirai.”

Lui rise.

“Scusate, Lady Kuu, se non sono degno della vostra nobiltà.”

“Mi serve un’aspirina.” Disse lei, portandosi con grazia una mano alla tempia. Stava iniziando ad avvertire uno sgradevole cerchio alla testa.

Subito Griet afferrò la propria immensa borsa e si mise a rovistarci dentro.

“Sono sicura di avere qualche analgesico,” borbottò. “Hai qualcosa nello stomaco, vero?”

Kuu distolse lo sguardo e fece finta di niente quando Kaaos le lanciò un’occhiatina insinuante.

“Sì, certo.”

“Ecco qui.” Griet le porse un paio di pastigliette. “Meno male che non hai preso alcolici.”

Kuu buttò giù tutto assieme a un bicchiere d’acqua.

Nonostante l’euforia per quella serata tanto attesa e di successo, non si sentiva particolarmente in forma. Ma c’era l’afterparty, a show finito, ed era una cosa che lei non si sarebbe persa per nulla al mondo. Kaaos aveva già specificato che lui avrebbe partecipato solo a patto che gli lasciassero scolare tutti i whiskey che voleva; Griet glielo aveva concesso solo perché conosceva la sua impeccabile resistenza all’alcol.

La curiosità di Kuu verso l’afterparty, invece, era decisamente più pragmatica: gli ospiti sarebbero stati personalità di cui lei stessa era ammiratrice. Ci sarebbero stati Nena, i Silbermond, i Cinema Bizarre, LaFee, e ovviamente i Tokio Hotel, e come ospiti internazionali i Linkin Park e perfino e i Depeche Mode. E lei non sarebbe stata solo una comparsa, ma una di loro.

Giornali del calibro di Kerrang e Rollingstone ci avevano messo poco a fiutare nei Pristine Blue un grandissimo potenziale e avevano dedicato loro articoli decisamente lusinghieri, per una band esordiente. ‘La principessa del rock tedesco’, così Rock Sound aveva definito Kuu dopo l’uscita di Skies Can Cry, il loro primo singolo, che aveva raggiunto il disco d’oro a una sola settimana dalla pubblicazione e il platino a un mese.

Kuu era stata orgogliosa di quei risultati. Aveva dato anima e corpo per arrivare fin dov’era e aveva tutta l’intenzione di restarci, a qualunque costo.

“Ci aspetta il bis di red carpet, tra poco.” Le rammentò Kaaos, vuotando il suo terzo calice di champagne. “Se qualche ragazza mi regala un altro orsacchiotto, non rispondo delle mie azioni. Griet,” Si voltò verso la manager. “Urge un’intervista in cui mi chiedano cosa detesto, così forse la smetteranno con i peluche.”

“Preferiresti forse delle bottiglie di vino?” lo stuzzicò Kuu.

“Touché, mon amie. Un bel Pinot Grigio, o un Marsala, o del Barbera, magari.”

“Ho idea che tu ti sia abituato troppo in fretta ai capricci da star, sai?”

“Oh, sentitela!” la rimbeccò lui. “Miss Mi-metto-un-Versace-perché-uno-Chanel-sembrerebbe-dozzinale.”

Kuu gli allungò un calcio stizzito sullo stinco.

“E quella con cui mi hai appena colpito non è forse una banalissima Jimmy Choo?” insisté Kaaos.

“Oh, sei impossibile!” sbottò lei, imbronciandosi.

“Buoni, voi due.” Li ammonì Luke, divertito. Era un uomo sulla quarantina, alto e robusto, con due penetranti occhi blu che a Kuu erano sempre piaciuti. Le ispiravano fiducia. “Non costringetemi a dividervi.”

“Quanto manca alla fine dello show?” domandò Kaaos, sbadigliando.

Griet controllò l’ora sul trasandato Swatch che teneva al polso, una pessima stonatura con la raffinatezza dell’abito.

“Ormai è questione di minuti. Iniziate a prepararvi. Con quel gingillino in mano, vi pioveranno addosso un sacco di giornalisti.” Rispose gioviale.

Una decina di minuti più tardi, infatti, le telecamere all’interno della’arena si spensero e la gente iniziò a defluire a piccoli gruppi, scortati da guardie in divisa.

“Afterparty, here we come!” si rallegrò Kaaos, alzandosi in piedi.

Kuu lo imitò. Si sistemò il vestito, assicurandosi che non ci fossero sgualciture o altro, raccolse la pochette e il premio, poi prese il braccio che Kaaos le offriva. Facevano abbastanza specie, loro due, a braccetto: lei era alta poco più di un metro e mezzo, lui quasi due metri.

Si avviarono verso l’uscita insieme a Griet e Luke. Erano in molti a occhieggiarli incuriositi.

Una volta fuori, trovarono un grande affollamento: gli artisti venivano fermati per foto e interviste e i fan gridavano a squarciagola. Un paio di metri avanti a loro, i Tokio Hotel, privi del loro seguito di compagne, management e security, venivano tempestati di flash e lodi, mentre una donna in tailleur rosso acceso se li mangiava con gli occhi tra una domanda e altra.

“Poco fa ci avete regalato una performance degna dei posteri con il vostro nuovissimo singolo. Che cosa ne pensate delle altre esibizioni di stasera?”

Prevedibilmente, fu Bill a prendere la parola:

“Ci è piaciuta molto tutta la serata. Esibirci è stato un onore, soprattutto perché abbiamo visto che anche gli altri sono stati molto brillanti. Personalmente mi sono piaciuti i Silbermond, ed era anche la prima volta che sentivo i Pristine Blue dal vivo. Davvero bravi. Credo che la voce di Kuu sia una delle più belle che si siano sentite in giro negli ultimi anni. Sono sicuro che arriveranno lontano.”

Oh, per favore!

Kuu gli lesse nel tono della voce un chiaro filtro di diplomazia, anche se probabilmente era sincero.

“Ma chi lo veste, quello?” commentò Kaaos, scuotendo la testa di fronte al discutibile gilet in simil-coccodrillo che Bill indossava.

Kuu fece una smorfia disgustata. Preferiva di gran lunga le cose raffinate a quelle estrose.

“Suppongo ci pensi da solo.”

Per la verità, però, Bill le piaceva: era un tipo in gamba, che non si curava di ciò che gli altri dicevano di lui e andava avanti per la sua strada. Aveva carattere, un carisma e una presenza scenica innati, e lei, segretamente, un po’ lo invidiava. Il suo era un fascino che non aveva nulla a che vedere con la sua innegabile bellezza androgina; gli veniva da dentro, ed era una cosa che nessuno gli avrebbe mai potuto portare via.

“Noi andiamo avanti.” Bisbigliò Griet frettolosamente, lasciandoli soli in pasto alle telecamere. “Ci vediamo in macchina.”

All’inizio Kuu era stata colta impreparata dall’impetuosità dei media, ma aveva imparato in fretta: sorriso affabile, cortesia, sguardi complici nell’obiettivo, e tanta prudenza nell’esternare i propri pareri. Era tutto lì, un gioco abbastanza semplice.

Tutto era semplice, se sapevi mentire.

“Sorridete, Lady Kuu,” sussurrò Kaaos, avanzando verso l’occhio del ciclone di giornalisti, che, mentre i Tokio Hotel si allontanavano, ormai non attendevano che loro due. “Il popolo vi acclama.”

Kuu lo seguì ad occupare il posto appena lasciato dai Tokio Hotel, che ora posavano in un angolo per gli scatti di rito con i premi mietuti.

Mentre la giornalista iniziava con le domande, Kuu li osservò: sorridevano raggianti, mostrando i quattro awards senza segni di ostentazione.

Ad un tratto, senza un perché, uno di loro si voltò verso di lei, e lei si ritrovò a incontrare lo stesso sguardo malinconico di poco prima, e per un attimo si sentì violata dall’intensità di quegli occhi.

Durò solo un battito di ciglia. Il momento dopo, i Tokio Hotel se ne stavano andando e lei stava raccontando alla giornalista le proprie impressioni sullo show.

Quello sguardo, però, non se lo sarebbe dimenticato.


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Note: ed eccomi qui, come promesso, con questa nuova avventura targata Tokio Hotel. Il primo capitolo, come sempre, non è che un breve accenno di introduzione alla storia, quindi dal prossimo mi dilungherò decisamente di più. Per ora, questo è quanto. ^^ Ovviamente tutto ciò che scriverò in questa storia sarà frutto della mia immaginazione e, a parte i personaggi che sarete in grado di riconoscere come realmente esistenti, il resto è tutto puramente inventato, Pristine Blue compresi.
So già che molti di voi, leggendo questo breve capitolo introduttivo, avranno storto il naso di fronte a Kuu, e magari si saranno anche detti "Questa è una Mary Sue bella e buona". Se così fosse, non potrei darvi torto, però vorrei semplicemente mettere in chiaro che non c'è mai nulla di lasciato al caso, nelle mie storie. Se una determinata cosa è in un modo piuttosto che in un altro, c'è un perché, e se un personaggio è così piuttosto che cosà ha le sue buone (o cattive?) ragioni di esserlo.
Quello che voglio dire, anche se spero vivamente che non ce ne sia bisogno, è che c'è una abissale differenza tra una semplice Mary Sue messa lì solo per conquistare il cuore di Bill (o Tom, o Georg, o Gustav) con la sua accecante bellezza e uno sguardo seducente, e un personaggio pensato invece per essere presentato così, creato con consapevolezza e soprattutto uno scopo preciso. Siamo solo all'inizio e la storia sarà lunga, spero abbiate abbastanza fiducia in me da aspettare a dare giudizi negativi su Kuu o chiunque altro. Se poi, più avanti, lo vorrete fare lo stesso, lo accetterò di buon grado. ;) 
A proposito di nuovi personaggi, vi linko l'immagine con la copertina dell'album dei Pristine Blue, così vi potete fare una mezza idea di come li ho immaginati:
Kuu & Kaaos

I commenti sono sempre e comunque i benvenuti. Che pensiate o meno di essere banali, il parere di un lettore è sempre importante, per uno scrittore che si vuole migliorare, quindi apprezzerò molto se vorrete farmi il regalo di una recensione, breve o prolissa che sia.

Intanto, grazie in anticipo a tutti!

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Capitolo 2
*** Ever Dream ***


I've dreamt so long I cannot dream anymore

(Anywhere, Evanescence)

 

***

 

‘PRISTINE BLUE: HARD ROCK & PIANOFORTE DAL CUORE DI BERLINO’

Sono stati definiti la promessa 2010 del rock tedesco ed eletti come Miglior Artista Emergente agli Echo Awards, ma loro non si lasciano impressionare da questo successo così inatteso. Kuu e Kaaos (foto), voce-pianoforte e seconda voce-chitarra dell’ormai celeberrimo duo Pristine Blue, sono due amici di vecchia data (22 anni lei, 24 lui). Fanno musica insieme fin da quando andavano alle elementari, ma il vero punto di svolta della loro vita risale a tre mesi fa, al lancio del loro singolo di debutto, Skies Can Cry. La scoperta del loro talento si deve all’etichetta Universal (che già ha regalato al mondo una perla teutonica di cui oggi nessuno può più fare a meno: i Tokio Hotel) e alla loro grintosissima manager, Griet Schliemann, che ha subito saputo fiutare il loro talento e il loro enorme potenziale.

“Siamo felici di vedere che il pubblico tedesco apprezza il nostro stile,” ci racconta la bella Kuu, seduta assieme all’avvenente Kaaos sul divanetto della sua suite all’****** Hotel, in assoluta tranquillità. “Sappiamo che il nostro genere non è esattamente pane per tutte le bocche, ma siamo molto soddisfatti dei responsi che stiamo ricevendo, e contiamo di promuovere l’album anche in Europa, appena uscirà.”

La data di uscita del loro primo album, A Broken Guitar Can’t Play Lovesongs, preceduta da un lancio in grande stile dal singolo, è prevista per il 31 di gennaio e migliaia di fans sono già in trepidante attesa. Più di ventimila copie sono già state prenotate e ora l’aspettativa ruota tutta attorno ad un’unica, grande speranza: l’annuncio di un concerto. Per il momento, però, i ragazzi preferiscono saggiamente concentrarsi su un passo per volta.

“Come ci si sente a firmare un contratto con la casa discografica che vanta di aver lanciato la band tedesca – e forse addirittura europea – più famosa ed amata al mondo?”

“Ne siamo molto lusingati ed orgogliosi,” risponde subito Kaaos, con la sua voce profonda. “Apprezziamo molto i Tokio Hotel. Li abbiamo seguiti fin dai primissimi esordi, e Kuu era una di quelle ragazzine che si accalcano davanti ai palchi e urlano isteriche ai loro concerti.” (ride)

Kuu ride. Lei e Kaaos sembrano perfettamente a proprio agio, perfino quando le domande si fanno più indiscrete.

“Corre voce che voi due siate romanticamente coinvolti…”

“Sono solo pettegolezzi,” chiarisce Kuu con disinvoltura. “Siamo cresciuti insieme, siamo praticamente fratello e sorella, non c’è niente di più che una bella amicizia tra di noi.”

Kaaos annuisce ma non aggiunge altro.

È strano da credere che un ragazzo e una ragazza così affascinanti riescano a passare una vita intera insieme senza innamorarsi, ma i Pristine Blue non si stancano mai di smentire le insedabili voci sulla loro presunta relazione segreta. Alcuni ritengono che…

Bill si arrese. Non ce la faceva a concentrarsi sugli articoli. C’erano i Tokio Hotel in copertina, ma dentro c’era un servizio gigantesco tutto dedicato ai Pristine Blue, in confronto al quale quello su di lui e gli altri sembrava invisibile.

Il fascino della novità.

C’era un poster nella pagina centrale, una foto del duo presa da qualche photoshoot: Kaaos vestito in modo molto trendy, seduto su una poltrona antica di broccato rosso, le gambe accavallate, una mano sotto al mento, gli occhi che guardavano in alto verso Kuu, una mano sulla sua schiena. Sembrava un modello, alto e magro com’era. Kuu, invece, era in piedi accanto a lui, di tre quarti, con un lungo abito scarlatto profondamente scollato sulla schiena, una gamba nuda sollevata per appoggiarsi al bordo della poltrona di Kaaos, delle decolleté nere stretta attorno alle caviglie da un cinturino. I capelli corti e biondi, le lentiggini sul piccolo naso sottile e sugli zigomi, l’espressione impertinente, gli occhi ambrati puntati dritti nell’obiettivo, mentre la sua mano puntava sotto al suo mento una pittoresca e bellissima pistola in argento lavorato.

Era bella.

Era sensuale.

Era perfetta.

Bill aveva l’occhio allenato nel riconoscere un bell’aspetto costruito e uno naturale: benché fosse stata truccata da mani esperte, non era complicato capire che, anche in versione acqua e sapone, Kuu sarebbe stata comunque parecchio attraente.

Bill non sapeva bene che idea farsi su quei due: la loro musica gli piaceva molto, per quel poco che aveva sentito, e non era da lui essere così ipocrita da giudicare qualcuno dall’aspetto. Se era vero, da un lato, che la maggior parte dei cosiddetti ‘artisti’ dotati di una certa avvenenza erano solo delle macchine commerciali, era anche vero, dall’altro, che esistevano numerose eccezioni. Lui sentiva, senza false modestie, di esserne la prova. Chiuse la rivista RockIt e la lasciò perdere. Aveva ben altro per la testa.

Non stava più nella pelle: erano due settimane che aspettava con trepidazione quell’evento e stentava a credere che fosse finalmente giunto il momento: barbecue a casa Wolner.

L’idea piuttosto bizzarra di un barbecue in pieno gennaio era stata, senza troppe sorprese, di BJ. Bill ne era stato subito entusiasta, soprattutto perché sarebbe stata una cosa praticamente di famiglia: ci sarebbero stati, ovviamente, i padroni di casa, Vibeke e BJ, e poi Patrick, il manager di BJ, e Benjamin, David e Dunja, Natalie e suo figlio Eric, Georg, Nicole ed Emily, Gustav, e infine lui e Tom. Andreas, poi, in via del tutto eccezionale, li avrebbe raggiunti nel pomeriggio per la merenda.

Georg e Gustav erano usciti presto per andare a comprare qualcosa di buono da portare alla festicciola, per poi passare a prendere Nicole ed Emily alla stazione. Si sarebbero fermate ad Amburgo per qualche giorno, fino a che non fossero ripresi gli impegni mondani del gruppo.

Mentre Tom guidava verso casa Wolner, Bill gli sedeva accanto, fremente di entusiasmo, chiedendosi cosa ci si dovesse aspettare da una grigliata ad opera di un vegetariano. Probabilmente un sacco di verdure e tofu. Tutta roba che per lui e i ragazzi sarebbe stata pressoché iningeribile.

“Ti vuoi dare una calmata o ti devo dare una mazzata in testa?” gli sbottò contro Tom, frenando bruscamente ad un semaforo rosso.

“Cosa sto facendo?” chiese Bill, sentendosi ingiustamente accusato.

Tom gli scoccò un’occhiataccia in tralice, ripartendo.

“Sei tutto un’agitazione unica! Nemmeno stessimo andando a una festa privata di Nena, cazzo!”

“Che lagna che sei!” sbuffò Bill. “Adesso sono posso nemmeno essere felice di stare un po’ con i miei amici?”

“Ho capito, ma mi stai mettendo un’ansia addosso che non ti dico!”

“Scusa se sto squilibrando il tuo sensibile animo zen.” Lo scimmiottò Bill.

Tom, saggiamente, decise di non replicare. Accostò al marciapiede e sistemò la Cadillac nel posteggio con una manovra fluida e sicura, quindi spense il motore e tolse le chiavi.

“Chiudi il becco e scendi, che è meglio.” Intimò poi a Bill.

Scesero entrambi e Tom chiuse l’auto con un bip del piccolo telecomando.

“Oh, guarda,” esclamò Bill, individuando una zazzera bionda che emergeva da un’Audi nera. “C’è Benji!” Sollevò un braccio in aria, iniziando a sventolarlo. “Hey, Benji!”

Benjamin sollevò lo sguardo verso di loro e, dopo un attimo di sorpresa, sorrise.

“Ciao, ragazzi!”

Suonarono e il portone si aprì immediatamente. Salirono insieme con l’ascensore e percorsero il breve tratto di corridoio fino alla porta dei Wolner chiacchierando del più e del meno. Quando premettero il campanello, fu BJ ad aprire, e lo fece con un sorriso che avrebbe tranquillamente eclissato il sole.

“Benarrivati!” esclamò, gioviale e frizzante come suo solito. Si era fatto crescere il pizzetto e Bill la giudicava una scelta molto azzeccata: stava benissimo con la lunga coda bionda.

BJ si fece da parte per farli entrare e, passando, sia Benjamin che Tom, ridendo, gli posarono un bacio frettoloso sulla guancia, lasciando Bill alquanto perplesso.

“Tu non lo baci il norvegese?” gli disse BJ, serioso, dopo aver chiuso la porta, indicandosi il petto. Solo allora Bill notò che il grembiule che portava sopra alla maglia rossa aveva stampata sopra la scritta ‘Kiss the Norseman’.

“Oh.” Bill ebbe un momento di esitazione, ma alla fine elaborò il concetto, e rise divertito. “Sì, hai ragione!” E si allungò appena per dare il proprio contributo, sfiorando la guancia di BJ con le labbra.

“Lo voglio anch’io un grembiule così!” esclamò la voce lontana di Vibeke.

Bill la vide apparire dalla cucina, con indosso un vestito nero e viola che sembrava provenire direttamente da un romanzo vittoriano. Le stava bene, però.

Non appena si accorse di lei, Tom la raggiunse e le afferrò possessivamente i fianchi con un sogghigno furbo.

“Te ne regalo io uno bello: ‘Touch me and my Kaulitz kills you’. Ti piace?”

Vibeke gli avvolse languidamente le braccia attorno al collo.

“Adorabile.” Sussurrò, poco prima di baciarlo.

“Prendetevi una stanza, voi, due, ci sono dei minorenni, qui!”

Bill si voltò mentre si sfilava il cappotto: dalla sala da pranzo aveva appena fatto capolino Georg, con una tartina in mano e un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro. Si sentiva un coro di voci provenire dalla stanza alle sue spalle.

“Hey, com’è che il mio follettino non mi è ancora saltato in braccio?” si chiese Bill, preoccupato. In genere Emily impiegava cinque secondi netti a fiondarglisi al collo, quando arrivava.

“Mi sa che stavolta devi andartela a cercare.” Gli disse Georg. Bill non lo aveva notato subito, ma aveva un’aria tesa e stanca. “Ha fatto amicizia con Eric.”

Bill ci rimase molto male: era la prima volta da sempre che Emily non gli correva incontro festante. Le aveva anche portato un delizioso krapfen che aveva tenuto da parte solo per lei.

“Hey, non si saluta più lo zio Bill, adesso?” gridò, portandosi le mani ai lati della bocca.

Bastò un niente: un attimo prima non c’era, un attimo dopo Emily era tra le sue braccia e lo baciava a pioggia sulle guance e sul naso.

“Ah, ora sì che si ragiona!” miagolò Bill, soddisfatto.

Dopo il suo urlo, erano spuntati anche Natalie, Gustav, Patrick e Nicole.

“Ho un regalo per te.” Disse Bill ad Emily, dopo averla messa giù per salutare gli altri. Prese il piccolo sacchetto dalla tasca del proprio cappotto e glielo porse. “vedrai che buono!”

“Che cos’è?” domandò Emily, sbirciando curiosa dentro al pacchettino.

“È un krapfen ai lamponi.”

Emily, però, anziché gioire e ringraziarlo, come lui si era aspettato, fece una faccia perplessa.

“Lamponi?” Si voltò verso Nicole, smarrita. “Che cos’è lamponi?”

Nicole si avvicinò e le sorrise materna.

“Raspberries, honey.”

“Oh, I see!” Gli occhi di Emily si illuminarono all’istante. Lamponi… Thank you, Bill!”

“Prego!” rispose Bill, compiaciuto, poi si chinò e le porse una guancia. “Non me lo merito un bacione?”

Felice, Emily gli prese il viso tra le sue manine e gli schioccò un bacio sonoro.

“Mamma, lo devo mangiare dopo, vero?” chiese poi a Nicole.

“Puoi assaggiarne un pezzetto, se vuoi.” Le fu concesso. “Il resto però dopo pranzo.”

Emily fissò brevemente il grosso dolce sul fondo del sacchetto, poi tornò a guardare la madre:

“Ne do un pezzettino a tutti?”

A Bill si sciolse il cuore, anche se una parte di lui non aveva potuto fare a meno di pensare ‘No, l’ho preso per te, è un regalo solo tuo!’. Ma si trattenne dal dirlo, intenerito da quel pensiero così altruista che lui, al suo posto, difficilmente avrebbe avuto.

“È un regalo di Bill per te,” intervenne però Georg. “È giusto che lo mangi tu. Noi abbiamo tante altre cose buone.”

Emily sorrise raggiante; richiuse accuratamente il sacchettino e lo andò a posare in un angolo, accanto al telefono del salotto.

“Lo mangio per merenda!” annunciò allegramente, come a voler rassicurare Bill. “Adesso torno a giocare con Eric!”

“È amore.” Commentò Natalie, guardandola con affetto mentre la piccola le passava accanto trotterellando.

“Nemmeno per sogno!” la contraddisse subito Bill. “Emily è innamorata solo di me!”

“Attenzione, gente, fate largo, l’ego di Bill sta di nuovo traboccando!” lo prese in giro Tom, seduto sul divano con Vibeke avvinghiata addosso.

Bill gli rispose con una linguaccia.

Dieci minuti dopo, arrivarono anche Dunja e David, e la compagnia fu al completo. Dopo un po’, Bill lasciò i vari gruppetti a chiacchierare e uscì sulla terrazza a vedere cosa stava facendo BJ. Lo trovò affaccendato davanti alla piastra del barbecue, rivoltando delicatamente sottilissime fette di zucchine, melanzane e della roba gialla che sembravano patate.

Proprio in quel momento il suo stomaco decise di mettersi a brontolare. Fu solo per quello che BJ si accorse di lui e si voltò.

“Spii i segreti dello chef, eh?”

Bill rabbrividì. La terrazza era ben protetta dal vento grazie alla folta siepe che correva lungo il bordo, ma faceva comunque un bel freddo, anche se c’era il sole. Dal barbecue, però, proveniva un piacevole tepore, così si avvicinò, occhieggiando sospettosamente quella montagna di verdura.

“Tranquillo,” disse BJ, iniziando ad ammucchiare le patate dorate in un piatto. “C’è anche roba per voi carnivori.”

Bill si portò le mani sulla pancia affamata, decisamente risollevato.

“Ah, meno male.”

“Dobbiamo mettere un po’ di muscoli su queste ossa!” Rise BJ, punzecchiandolo con un dito tra le costole.

Bill si ritrasse, senza riuscire a trattenere un risolino. Soffriva da morire il solletico.

“Allora,” riprese BJ. “Pronto per il nuovo tour?”

Bill annuì, ma con poca convinzione.

“Benji e David dicono che sarà una novità, rispetto ai precedenti, ma non ci hanno ancora rivelato i dettagli. Mi chiedo cos’abbiano in mente.”

“Be’, tra un paio di mesi siete on the road, quindi lo scoprirete presto, no?”

Bill si appoggiò con la schiena al muro lì accanto, finendo per trovarsi di fronte a BJ.

“Sono felice di tornare a esibirmi, ma non nego che un po’ mi stavo abituando alla vita casalinga.” gli confidò.

BJ non spostò la propria attenzione dal grill, ma sorrise.

“Eppure è già qualche mese che state girando per l’Europa, tra trasmissioni e interviste.”

“Sì, ma alla fine torniamo sempre a casa. Con il tour sarà diverso. Vai via a marzo e torni a settembre… C’è una bella differenza.”

“Lo so.” Sospirò BJ. Bill lo vide stranamente abbacchiato. Non gli ci volle nemmeno molto per rendersi conto del perché.

“Ti portiamo via Vibeke, vero?” Gli fece quasi male chiederlo.

L’espressione di BJ era serena, ma velata di rassegnazione.

“Non siamo mai stati lontani per più di quarantott’ore. Sarà strano non vederla per mesi.”

Bill immaginò di essere al suo posto, di essere costretto a stare interi mesi senza Tom. ‘Che pacchia!’, fu l’istintivo pensiero che gli sovvenne, ma poi si sentì immediatamente gelare: restare separato da Tom così a lungo era al di là di ogni sua concezione. Sarebbe impazzito, nel migliore dei casi, o morto di nostalgia. Due persone nate insieme non erano fatte per vivere distanti.

“Lo so che non è normale che io e lei siamo così morbosamente attaccati,” aggiunse BJ, quasi a volersi giustificare. “Abbiamo quasi ventiquattro anni, sarebbe ora di tagliare il cordone ombelicale…”

“Ma io ti capisco benissimo!” lo rassicurò Bill, accorato. “Io e Tom siamo nella stessa identica situazione. Siamo anche stati fortunati a trovare un lavoro che ci ha unito anche più di prima.”

Il viso vagamente adombrato di BJ si alleggerì dolcemente:

“È bello vedere come vi guardate, anche quando siete arrabbiati.”

Bill batté inespressivamente le ciglia.

“Perché, come ci guardiamo?”

BJ sorrise, e gli sembrò un bambino da quanto quel sorriso gli appariva spontaneo e sincero.

“Come se foste l’uno l’ossigeno dell’altro.”

Ecco, pensò Bill, mentre il suo cuore sussultava. Questa era la definizione che ho sempre cercato e non sono mai riuscito a trovare.

Era esattamente così che era, per lui e Tom: erano aria e vita reciproche, e solo chi si sentiva come loro avrebbe potuto capire.

“Be’, lo siamo, in fondo.”

“So che avrete cura della mia piccola stronza, e che la stresserete quanto basta per non farle sentire troppo la mia mancanza.”

“Faremo tutti del nostro meglio!” promise Bill. “Ma tu verrai a trovarci, vero?” si volle assicurare poi. “Insomma, qualche giorno di vacanza te lo puoi prendere, no? Ti fai un paio di tappe con noi, ogni tanto, così siamo contenti tutti. Io e Tom ci siamo portati dietro Andreas per un po’, nei tour scorsi, non vedo perché non possiamo farlo anche con nostro cognato!”

BJ emise una breve risata sommessa.

“Tecnicamente sarei il cognato di Tom.” Lo corresse, strizzandogli un occhio. “Io e te saremmo… Concognati, suppongo si dica, no?” Corrugò lievemente le sopracciglia, incerto. “Tipo consuoceri, ma cognati.”

Per quel che ne sapeva Bill, poteva anche essere, ma non ci avrebbe messo la mano sul fuoco. Non che gli importasse granché della grammatica, comunque.

“Non ne ho la più pallida idea.” Ammise, un po’ imbarazzato. Ci si sarebbe aspettato che un madrelingua fosse in grado di dare delucidazioni linguistiche a uno straniero. “Comunque il punto è che puoi venire a trovarci quando vuoi.”

Lo sguardo di BJ si riempì di gratitudine e affetto.

“Non mancherò.” Promise. “Bene,” raccolse le ultime verdure dalla piastra e le sistemò su un altro piatto. “Mi daresti una mano a portare di là questa roba? Così qualche uomo di buona volontà può venire a grigliare i vostri pezzi di cadaveri innocenti.”

Qualcosa si aggrovigliò spiacevolmente nelle viscere di Bill, facendolo sentire colpevole come mai era stato, di fronte a un pezzo di carne. Per lui le bistecche erano sempre state solo bistecche, cibo, e gli animali erano sempre stati animali; due concetti ben scissi da un preciso muro di confine che adesso BJ gli stava scuotendo con un certo senso di rimorso.

“Credo che mi sia appena passato l’appetito.” Mormorò, vergognoso, afferrando il piatto di patate che gli veniva porto. Chissà che cosa pensavano le persone come BJ e Vibeke, e come Nicole, di quelli come lui.

Probabilmente quello che io penserei di un cannibale, rifletté, terrorizzato.

Eppure sia Nicole che Vibeke stavano con due discreti consumatori di carne, quindi non potevano avere un concetto troppo negativo di loro.

Bill si voltò tentennante verso BJ e lo scoprì a sorridergli gentilmente mentre si incamminavano verso la porta-finestra che portava al salotto.

“Scusami, davvero.” Gli disse BJ, con sincero pentimento. “Non voleva essere un’accusa o…”

“Vibeke dice sempre che quella roba alternativa che mangiate voi è buonissima,” lo interruppe Bill, senza riflettere. “Dici che potrebbe piacermi?”

Era impazzito. non gli sarebbe mai piaciuto niente di quelle strane cose di soia che si mangiavano loro, e lo sapeva. Avrebbe finito col vomitare nel piatto, come del resto già gli era capitato altre volte, e fare una figuraccia. Ma ormai il danno era fatto.

“Provar non nuoce.” Lo appoggiò BJ, in tono entusiastico.
”Intendi ‘Tentar non nuoce’?”

“Sì, giusto.” BJ gli aprì la porta a vetri e gli cedette educatamente il passo. “Ogni tanto ho qualche defaillance con il tedesco.”

“Dovresti sentire me con l’inglese.”

“Le lingue non sono mai state il mio forte.”

“Non si direbbe!” esclamò Bill, accorato. “Per essere qui da solo quattro anni, tu e Vibeke sembrate dei madrelingua.”

Attraversarono il salotto affollato, schivando per un pelo Emily ed Eric che, sotto agli sguardi deliziati delle madri, si rincorrevano ovunque, e portarono tutto il sala da pranzo, rimasta deserta.

“Tutto merito di nonna Hjordis.” Gli confidò BJ. Posò il piatto sul tavolo e si pulì le mani nel grembiule. “Sai, lei è stata crocerossina durante la guerra. Ha imparato il tedesco sul campo, dai soldati. È stata lei a insegnarlo a mio padre, e poi a me e Vibeke.”

Bill lo imitò, rimasto a bocca aperta.

“La vostra è proprio una famiglia stupefacente!”

BJ rise.

“Facciamo del nostro meglio.”

Bill annuì, poi tacque per qualche secondo, osservando l’amico che, con gesti esperti, condiva, mescolava e ridisponeva le pietanze sopra i vassoi che c’erano in tavola. Il corso di cucina aveva senz’altro fatto il suo dovere.

“Non viene il tuo nuovo ragazzo?” domandò a un certo punto, senza un perché.

La testa bionda di BJ si sollevò e si girò a guardarlo ridente.

“Certo che mia sorella è davvero una bella pettegola! E poi Dom non è propriamente il mio ragazzo. Usciamo insieme, tutto qui.” Una piccola scrollata di spalle. “Comunque no, oggi non c’è. Ha delle gare a Kempten.”

L’associazione automatica con la parola ‘gare’ era ‘sport’, termine che a Bill non piaceva nemmeno un po’, a meno che non si trattasse di una partita a pingpong o a biliardino, entrambe attività che la maggior parte della gente avrebbe definito ‘sport’ solo in una barzelletta.

“Che cosa fa?”

“Pallanuoto.” Il volto di BJ si illuminò. “Dovresti vedere che fisico! Ovviamente non mi piace solo perché è un bel ragazzo, però… Diciamo che non guasta.”

Fu un commento che fece sentire Bill stranamente a disagio. Non era da lui sentirsi inadeguato, in nessun contesto: aveva consapevolezza delle proprie doti e dei propri limiti e raramente veniva colto impreparato da qualche osservazione. Quello di BJ, poi, era stato un commento così spontaneo e leggero che era impossibile prenderlo come una goffa gaffe, ma lo aveva colto alla sprovvista. Gli era sempre piaciuta la propria immagine, era sempre stato un narcisista e vanitoso, ma in quanto a fisico vero e proprio sapeva che non c’era storia: quattro ossa su un metro e novanta di statura non era esattamente un bel vedere. Nulla che una persona sana di mente avrebbe commentato con ‘Dovresti vedere che fisico!’.

Non che gli fosse mai importato di avere una corporatura atletica – si piaceva così com’era – ma i confronti estetici stuzzicavano sempre la sua competitività.

“È più bello di me?” buttò lì, con casualità, pur conscio che fosse una domanda ben poco ortodossa e anche piuttosto imbarazzante, per un ragazzo. Ma si dava il caso che il ragazzo in questione fosse BJ, e non uno qualunque, perciò la risposta che gli giunse fu semplicemente l’ennesimo sorriso aperto.

“Oh, Bill, nemmeno dio in persona potrebbe essere più bello di te.”

Bill dovette fare sforzi non indifferenti per trattenere qualsivoglia manifestazione di trionfo. Chiamò in causa tutta la dignità di cui disponeva e sfoderò una discreta nonchalance:

“Ho sempre apprezzato la tua incorruttibile sincerità, sai?”

“Non lo metto in dubbio.” Ridacchiò BJ. “Vieni, andiamo a prendere la roba da bere.”

Bill lo seguì verso la cucina. Non appena aprirono la porta, prima ancora di entrare, si resero conto che la stanza non era vuota: appoggiati al bancone, proprio di fronte al lavello, c’erano Tom e Vibeke. Non si capiva bene dove finisse uno e iniziasse l’altra, dato che erano abbracciati molto stretti, immersi in un bacio che, a vedersi, era la cosa più dolce e romantica del mondo. Evento più unico che raro, per i loro standard.

“Oh, ma guardali, quei due!” bisbigliò BJ, nascosto dietro alla porta socchiusa. “Fanno tanto gli spacconi, ma sono due cuori di panna!”

Bill si appoggiò alla sua spalla per vedere meglio: Tom aveva una mano sulla nuca di Vibeke e con l’altra le sfiorava il fianco, mentre lei gli teneva le braccia attorno al collo.

“Hai mai visto qualcosa di più adorabile?” sospirò.

“Forse sì.” BJ si girò per un attimo, le labbra appena incurvate. “Ma ciò non toglie che sono una bella coppia di teneroni, se ci si mettono. Hey, piccioncini!” Esclamò all’improvviso, spalancando la porta. Tom e Vibeke sussultarono e si voltarono di scatto. “Se avete finito di amoreggiare, metà del pranzo è pronto! Ci vuole un’anima pia che si occupi della metà non vegetariana, perché il sottoscritto se ne chiama fuori.”

Tom, che dava loro le spalle, affondò pigramente il viso nel petto di Vibeke.

“Io sto bene qui.” Mugolò.

“Chiedi a Gud,” disse allora Vibeke, ridendo, mentre Tom le si strusciava addosso come un gatto trascurato. “A lui piace cucinare.”

Bill non fu affatto sorpreso: scollare quei due nei loro momenti di buona era impossibile.

“Vieni, Bill, lasciamo i nostri Orsetti Pomicioni alle loro occupazioni,” gli disse BJ, arretrando, ma prima si rivolese un’ultima vota a Vibeke e Tom: “Voi due, ricordatevi soltanto che siamo a un barbecue di famiglia, non una convention di pornostar. Abbiate rispetto per la mia cucina.”

E ciò detto, li lasciarono nuovamente soli.

A Bill, però, era rimasto dell’amaro in bocca. Voleva bene a Tom, si era sempre augurato che un giorno trovasse una ragazza come Vibeke, che sapesse renderlo felice e lo apprezzasse per l’idiota che era, ma c’erano volte in cui non riusciva a soffocare l’invidia che si sentiva germogliare dentro.

Negli ultimi due anni lui e i ragazzi avevano avuto l’occasione di conoscere veramente solo due ragazze, e nessuna di quelle due era stata per lui, non perché non si fossero innamorate di lui, ma perché non sarebbero mai andate bene per lui.

Più ci pensava, più Bill se ne convinceva: non esisteva una ragazza che potesse essere per lui quello che Nicole e Vibeke erano per Georg e Tom, e se esisteva, lui non avrebbe mai avuto la fortuna di incontrarla.

 

***

 

La mano di lui le sfiorava la guancia con devozione, mentre lei, la testa chinata, sorrideva timidamente nel rispondergli. Una serena intimità traspariva dai loro gesti, dagli sguardi che si scambiavano, perfino mentre lei scuoteva debolmente la testa senza guardarlo e sussurrava qualcosa che portò la fronte di lui a corrugarsi accigliatamente.

Erano anime gemelle, chiunque sarebbe stato d’accordo. Anche guardando Nicole divincolarsi dalla stretta che Georg aveva sul suo braccio e voltargli le spalle per lasciare rapidamente la stanza.

Gustav non aveva sentito una sola parola. Li aveva solo osservati chiacchierare nella sala da pranzo vuota da un angolo del salotto, e anche se la conversazione non gli era parsa una delle più felici, aveva comunque invidiato quell’invisibile filo di collegamento perpetuo che li teneva insieme, e, sì, a volte vibrava pericolosamente.

Georg e Nicole, come tutte le coppie, avevano i loro problemi, aggravati, però, dalla difficile presenza di Emily. Il loro, però, era un rapporto maturo, profondo, diverso da quello di Tom e Vibeke: Georg e Nicole avevano avuto fin da subito la chiara consapevolezza di non avere modo e tempo per fare i fidanzatini tutti uscite e divertimento, ed era proprio la portata di questo sacrificio a dare a Gustav l’assoluta certezza che il sentimento che l’amico provava fosse amore vero. Non solo per Nicole. Georg si era innamorato, durante quel tour di ormai due anni prima, ma non semplicemente di una ragazza; Georg si era innamorato di una ragazza e della sua bambina, e da allora, nel bene e nel male, era sempre stato felice.

Era Tom, tuttavia, quello di loro a cui le cose andavano meglio: lui e Vibeke erano quasi sempre insieme, passavano la maggior parte delle loro giornate insieme a litigare e insultarsi, ma poi, alla fine, se ne stancavano, e si ritrovavano abbracciati da qualche parte a scambiarsi baci e coccole. Qualche volta avevano anche fatto finta di lasciarsi, per motivi variabilmente stupidi, ma non era mai durata più di qualche giorno. Erano strani ed incostanti, e forse il loro punto di forza era quello.

Perso nelle sue riflessioni, Gustav si rese conto che Georg gli si stava avvicinando solo quando questi gli fu praticamente accanto.

“Hey, tutto a posto?”

Appoggiato mollemente allo stipite della porta, Gustav lo occhieggiò interrogativamente:

“Uh?”

Georg si infilò le mani in tasca dei jeans e osservò con lui Emily ed Eric che giocavano a Memory sul tappeto. Li guardava con nostalgia, forse un po’ di tristezza. Qualcosa non andava, Gustav lo sentiva.
“Hai una faccia strana, da un po’,” gli disse qualche secondo dopo. “Va tutto bene?”

Le labbra di Georg si piegarono lentamente in un sorriso amarognolo mentre si voltava:

“Stavo per chiederlo io a te. Cosa ci fai qui in un angolo mentre tutti si divertono?”

Gustav scrollò le spalle.
“Guardo.”
“Cos’è che guardi?”
“Voi che vi divertite.”

Georg sollevò un sopracciglio con ironia:
“Certo. Perché divertirsi in prima persona quando si può benissimo stare a guardare gli altri che lo fanno al tuo posto?”

Gustav tacque. Non sapeva cosa dire e, anche sapendolo, non avrebbe comunque trovato un modo per dirlo. Non avrebbe nemmeno avuto senso farlo. Lui non era come Bill, non si lamentava delle cose che lo turbavano: lui cercava da solo la soluzione e, in caso, teneva duro. Sbagliava, lo sapeva, ma era fatto così.

“Luna di nuovo storta, eh?” fu il commento di Georg a quell’ostinato silenzio.

“Oggi pare di sì.” Bofonchiò Gustav, svogliato.

Gli dispiaceva essere così freddo con Georg. Era forse il suo amico migliore, ma proprio non gli andava di parlare, per il momento. Lui non avrebbe capito.
“Hey, eccovi qui!”

Si voltarono entrambi: Bill e BJ erano giunti alle loro spalle dalla cucina.
“Gustav, la regia mi dice che se c’è da grigliare bene delle bistecche, mi devo rivolgere a te.” disse BJ.

Gustav annuì. Non gli dispiaceva l’idea di distrarsi un po’.

“Certo, non c’è problema.”

“La roba è di là nel frigo. La piastra di fuori è pronta all’uso.”

Gustav lanciò una rapida occhiata a Georg, poi si incamminò.
“Allora vado.”
“Attento agli Orsetti Pomicioni!” gli gridò BJ. Lui e Bill scoppiarono a ridere; Georg li guardò stranito.

Gustav fece finta di niente.

Fece finta di niente anche quando, entrato in cucina, trovò Tom e Vibeke immersi in un bacio così affamato che pareva quasi che non si vedessero da mesi, quando invece si erano visti solo la sera prima. Ma sorrise, perché lui probabilmente si sarebbe comportato allo stesso modo, fosse stato in uno di loro.

Prese indisturbato la carne e le salsicce dal frigorifero ed uscì in fretta sulla terrazza. Fu lieto di trovare l’aria fredda ad accoglierlo; cominciava a sentirsi soffocare, in casa.

Lavorò con calma per una ventina di minuti. Ogni tanto Georg usciva a vedere come andavano le cose e portava dentro qualche piatto pieno. Dentro si erano già accomodati tutti attorno al tavolo e avevano iniziato ad assaggiare qualcosa. Gustav non aveva un grande appetito, quindi non c’era fretta di finire e rientrare.

Aveva appena tolto l’ultima braciola dalla griglia quando si accorse che Benjamin e David si stavano dirigendo verso di lui, seguiti da dei perplessi Bill, Georg e Tom.

Aveva tutta l’aria di essere una riunione improvvisata. Gli sarebbe solo piaciuto saperne il motivo.

“Mi devo preoccupare?” disse, quando furono tutti usciti e David ebbe chiuso la porta finestra dietro di sé.

“Vorremmo saperlo anche noi.” Gli rispose Georg.

Benjamin e David si occhieggiarono l’un l’altro con aria indecisa. La questione doveva essere seria.

“Breve e rapida comunicazione di servizio.” Annunciò David, stranamente composto. “Se la prima domanda è ‘Perché adesso?’, la risposta è ‘Perché ci sono tutti quelli che dovrebbero saperlo’. Ora, per favore, prima ascoltate, poi commentate.”

Gustav era interessato e preoccupato al tempo stesso. Date le premesse, non poteva che essere una questione di lavoro, ma non capiva quel ‘Perché ci sono tutti quelli che dovrebbero saperlo’.

“Ragazzi,” Benjamin si appoggiò al bordo del parapetto, squadrandoli con attenzione. “Per il nuovo tour stiamo pensando di professionalizzare un po’ le cose.”

Il nuovo tour?, Gustav capiva sempre meno. Cosa c’entra con la gente che c’è oggi? E che cosa vuol dire ‘professionalizzare’?

Tom aggrottò le sopracciglia, confuso ed anche un po’ offeso.

“Perché, fino ad adesso come sono state?”

“Siete affermati, ormai,” lo ignorò Benjamin. “Avete la vostra posizione consolidata in vetta alle classifiche di tutto il mondo, siete popolari e molto richiesti, è il momento di passare al livello successivo.”

“E sarebbe?” indagò Georg, un barlume di curiosità degli occhi.

Benjamin inspirò, come faceva quando sapeva che ciò che stava per dire non sarebbe stato benaccolto, e così fece David.

“Farvi affiancare da un gruppo esordiente fisso che apra i concerti del prossimo tour.” Disse tutto d’un fiato. “Tutti quanti.”

L’espressione di orrore puro che apparve sul volto di Bill riassumeva perfettamente quello che tutti e quattro pensavano.

“Oddio, starai scherzando, spero!”

“Non li vogliamo dei mocciosi sul groppone!” protestò Tom vivacemente.

David sospirò, roteando gli occhi pazientemente.

“Ho parlato di un gruppo emergente, non di bambini.”

“E a chi stareste pensando?” si informò Gustav, cauto.

Benjamin esitò a rispondere, e questo fu un segno preoccupante. La conferma a quel sospetto impiegò meno di un secondo ad arrivare:

“Pensiamo che i Pristine Blue siano perfetti.”

Gustav ci rimase di sasso. Gli tornò alla memoria la serata degli Echo, dove li aveva incontrati per la prima volta. Gli erano sembrati così diversi dai Tokio Hotel, così seri e superbi. Non gli riusciva di immaginarsi un intero tour assieme a loro.

A livelli commerciali, l’espediente avrebbe senz’altro sortito degli effetti più che positivi: già si figurava l’esplosione di interesse che avrebbe suscitato una simile notizia. I Tokio Hotel, ormai veterani a pieni diritti della scena musicale mondiale, e i Pristine Blue, la nuova, sfavillante proposta del rock tedesco, belli, talentuosi e promettenti. Era una bomba mediatica dall’innesco fin troppo semplice per non essere fatta esplodere. La stampa e la TV avrebbero avuto di che banchettare con una ragazza in tournée con cinque ragazzi, di cui uno si vociferava che fosse il suo amante segreto.

Ci doveva essere il fiuto della Universal per gli affari d’oro, sotto a quell’idea.

Cosa?” Bill era scattato sull’attenti ed aveva piantato le mani sul tavolo, ed ora fissava il loro manager incredulo. “Benji, tu scherzi, vero? Dimmi che scherzi, per favore!”

“Sono in gamba e acclamati da tutti,” intervenne David, con una calma severa. “E il loro sound accompagnerebbe bene il vostro: duro ma ingentilito da toni soft.”

“Io con quelli non ci suono,” borbottò Bill, ormai già entrato in modalità ‘capricci a profusione’. “Kuu si crede la regina della terra, con tutte quelle arie che si dà…”

“Già, chissà chi mi ricorda…” Mormorò Georg, beffardo.

“E Kaaos è uno sbruffone tale da poter competere con Tom!” completò Bill, facendo dignitosamente finta di niente.

“Fratello, gradirei che tu la piantassi di parlare come la mia ragazza.” Berciò Tom, allungandogli un calcio agli stinchi.

“Se mi chiami ‘fratello’, sei tu che parli come la tua ragazza!”

“Ragazzi,” sospirò David, con il tono di chi era sull’orlo di una crisi di nervi. “Vediamo di non divagare.”

“Per me non c’è problema.” Dichiarò Gustav, sollevando le mani. Non era mai stato uno con grossi problemi di adattamento, lui. Il problema vero, tutti lo sapevano, era Bill.

“Per me nemmeno.” Si aggiunse Georg. “Dovrò solo ingoiare un bel po’ di gelosia, visto che Nicole li adora.”

L’attenzione a quel punto di spostò sui due Kaulitz.

“Per me va bene,” disse Tom con un’alzata di spalle. “Vi mi ucciderà quando lo scoprirà, ma ci sto.”

“In che senso ti ucciderà?” domandò Benjamin.

“Ma hai presente quanto è gnocca Kuu?” sbottò Tom con una smorfia. “Come minimo Vi mi accuserà di adulterio platonico!”

“Se ti va bene.” Ridacchiò Georg.

“Appunto.” Fece Tom, cupo.

“Scusate, conta qualcosa che io sia totalmente contrario a questa allegra cazzata?” intervenne Bill.

“No.” Ribatterono cinque voci seccate.

“Bene.” Bill mise su un cipiglio oltraggiato e si chiuse in un silenzio di protesta, le braccia conserte e un broncio plateale sulla bocca.

In un certo senso, Gustav lo capiva. Georg e Tom sembravano aver preso abbastanza bene la proposta, e non ci sarebbe stato motivo di pensarla altrimenti: un tour con un’altra band sarebbe stato sicuramente una ventata d’aria fresca e si sarebbe anche potuto rivelare divertente, se le cose fossero andate per il verso giusto. la prospettiva non era affatto spiacevole, quello era certo. C’era solo una minuscola inezia che rischiava di compromettere il tutto: Bill avrebbe dovuto imparare ad accettare di condividere la scena con qualcun altro.

I Tokio Hotel erano sempre stati orgogliosi della propria indipendenza, del loro esordio senza precedenti come gruppo autonomo, senza bisogno di essere introdotti nell’ombra di altri artisti. Ora avevano l’occasione di fare da mentori a dei colleghi emergenti, ed era un pensiero lusinghiero, ma era anche una novità che avrebbero dovuto metabolizzare con la dovuta pazienza, e ‘pazienza’ era un termine che il vocabolario di Bill non avrebbe mai incluso.

“Non c’è ancora nulla di certo, ma vorremmo che ci rifletteste seriamente.” Riprese Benjamin, blandendoli con la sua voce tranquilla e un lieve sorriso. “Ne abbiamo discusso con la casa discografica e la manager dei Pristine Blue, e il progetto gioverebbe a tutti quanti, voi per primi.”

“Io dico che è una gran bella trovata,” approvò Tom con veemenza e un mezzo ghigno malizioso che la diceva lunga sulle motivazioni di quel suo entusiasmo. “Billi se ne deve fare una ragione. Mi sembra giusto aiutare una nuova band ad affermarsi.”

“Ah, quanto spirito di sacrificio!” lo prese in giro Gustav. “Sono sicuro che ti peserà tantissimo girare l’Europa con una ragazza così brava.”

“Taci, che non è ancora detto che questa cosa si farà.” Sbuffò Tom. “A meno che non riusciate a trovarvi un chitarrista bello e bravo come me in tempo. Il che è impossibile, quindi vedete voi.”
Tutti i presenti lo guardarono accigliati.

“Be’, che c’è?” fece lui, immusonito. “Ve l’ho detto che Vi mi fa a pezzi appena glielo dico.”

Una sonora risata generale riempì la terrazza. Gustav già se la immaginava, Vibeke, a ricoprire Tom di lamentele e strepiti ogni volta che lui avesse osato posare anche solo per un istante gli occhi su Kuu.

C’era tutta una serie di vantaggi e svantaggi a decidere di lavorare con un altro gruppo, e non li avrebbero mai scoperti tutti, finché non ci avessero provato. Dal canto suo, Gustav era favorevole a questa esperienza, anche perché la musica di quei ragazzi non gli dispiaceva. Anche lui, come aveva già detto Benjamin, era convinto che i sound delle due band si sarebbero accostati bene.

Quello che non riusciva a immaginare era cosa sarebbe conseguito, eventualmente, a quel famoso e rischioso accostamento.

Presto, in ogni caso, lo avrebbero tutti scoperto.

 

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Note: sì, sì, lo so: di nuovo in ritardassimo! XD Mea culpa, ma soprattutto culpa dell’università, del lavoro e di quel grande egoista del mio ragazzo che, pensate, esige che io passi del tempo con lui. Assurdo, vero? ;)

Dunque, vediamo… Secondo capitolo completato. Cosa posso dire? è un capitolo di allacciamento con The Truth e al tempo stesso anche di immissione alla storia vera e propria. Sa un po’ di tutto e un po’ di niente, ma secondo me ci voleva.

Ora passiamo alle cose serie, ossia i ringraziamenti:

Asia74m: terza storia e sei ancora qui… Questa è fedeltà! XD Spero che continuerai a seguirmi e soprattutto ad essere soddisfatta!

moonwhisper: dire che trovare una tua recensione è stata una sorpresa è niente, ed è stata anche una sorpresa molto piacevole. Ancor più piacevole è stato scoprire di essere riuscita a suscitarti un qualche interesse, e va da sé che mi auguro davvero di cuore di riuscire a mantenerlo. E comunque, sì, hai ragione tu e poche altre. ;)

Lales: mia cara! Ispirata dalla notte e dalla TH TV… mi pare giusto! XD scusa se te lo dico, ma… chi non sarebbe interessato al nostro delizioso st(amb)ecchino? XD Hai visto come ho aggiornato in fretta, poi? :p

Alexgirl: una parola eloquente, devo dire. XD Grazie!

_Ellie_: caVa! *__* Lo so che tu sei nata saputa su questa storia, quindi goditela nella sua interezza e non smettere mai con le tue analisi perfette!

CowgirlSara: la mia compagna di puccierotismo preferita! *_* Sai di che parlo, vero? Ce n’era un po’ in questo capitolo! <3

LadyCassandra: ha capito tutto, lei! XD

Mary_Sue: non so proprio che dirti. Come ho già spesso ripetuto, il parere positivo di una non-fan per me vale il triplo dell’orgoglio, visto che ci vuole di più ad appassionare una che vive al di fuori del mondo dei miei cari TH. Grazie, ti dico, solo questo. Spero di sentirti ancora!

Ichigo Shirogane: mi rendi felice all’inverosimile così! Ancora non si sa nulla di Kuu, anche dopo questo capitolo, quindi dovrò aspettare ancora per scoprire che ne pensi di lei. Intanto aspetto giudizi su quel che c’è. ;)

Lady Vibeke: ci siamo già dette tutto via msn. Un abbraccio e basta, tutto qui.

kaggi11: che tu ti ritenga brava o no a scrivere commenti, io sono sempre lieta di riceverne, soprattutto se da persone che sono entusiaste del mio lavoro come te! Non avere mai paura di dire qualcosa che non va, non succederà. ;)

azzapaloccip: Kaaos non ti piace, eh? Bene, almeno una che apprezza i mie sforzi. XD Kaaos in teoria è fatto per essere antipatico, ma vedo che gli stronzi qui piacciono. ^^ Vabbè, pazienza. Lo conosceremo meglio più avanti. Ora hai riabbracciato tutti quanti, comunque, contenta? ;)

NeraLuna: non manchi mai e ti ringrazio davvero! Per quanto riguarda le tue domande… chi vivrà, vedrà. Se no che gusto c’è? ;)

jovany: quella commossa qui è la sottoscritta. ç__ç Mi raccomando, ora che ho fatto con calma, mi aspetto tue notizie!

VivienneWest: mia cara! Penso che tutto quello che ti dovevo dire, te lo abbia detto via mail, ma una cosa la ribadisco: adoro le tue recensioni, che tu decida di pubblicarle qui e mandarmele via email. In entrambi i casi, grazie infinite, e spero che di meritarle sempre!

kit2007: penso sia ancora presto per commentare la storia in sé, giustamente, ma comunque si va avanti passo per passo e si inizia a ingranare… Che ne dici? Ah, e quella frase piace molto anche a me! **

Kaay: grazie! XD direi che sei stata più che chiara e concisa. ;)

_Skipper_: anche a te ho già detto tutto via mail e via msn. Sappi che esigo una recensione degna della precedente! XD

Camilla85: un’altra a cui non serve dire nulla, se non grazie mille! *_* Sei immancabile!

schwarznana: anche per te, non so bene cosa dire… ho adorato il tuo commento, perché era pieno di quello che piace a me: sensazioni, riflessioni, congetture… ti ringrazio tanto!

creamy: di Kuu e Kaaos si scoprirà di più in futuro, un poco per volta. ^^ I nomi sono ovviamente d’arte, quelli reali avremo modo di conoscerli a suo tempo. ;) hai visto che ho postato prima di tre settimane o un mese? Non me la merito una recensione? XD

ArY_EnGeL: eeeeeh, non posso commentare il tuo commento! XD ti dico solo: continua a leggere e vedrai. ;) intanto grazie e a presto, spero!

_Christine_: scrivimene altri di romanzi, non faresti altro che deliziarmi! Mi auguro che anche i nuovi personaggi possano darti modo di affezionarti a loro, anche se mi rendo conto che non sono delle Emily, o Nicole, o Vibeke, o BJ. Il secondo capitolo è arrivato, è stato all’altezza delle aspettative?

Isis 88: bene, qualche cosina in più ora c’è… poco, ma c’è. Mi farebbe piacere sapere che te ne è parso. ;)

Camuz: eheheh, no comment, non posso dire nulla sulle tue previsioni, ma una cosa è certa: sono onorata della fiducia. ;) Come hai detto tu, vedremo se avrai ragione!

juliet_: ah, un’altra fan del bel Ben! Mica scema! ;) ottimi gusti, sissì!

rose_: Vibeke vedo che è un po’ la pupilla di tutte, e non me ne stupisco. Kuu è decisamente diversa da lei, non avranno convivenza facile, queste due. XD Ti ringrazio di esserci sempre, mi fanno sempre felice le tue recensioni, per me significa tanto! Grazie!

POISONBLOODkaly: eh, vedrai da te con il tempo se le congetture sono esatte! ;) fino a quel momento, continua a pensarci, sono in attesa di nuove riflessioni!

xClaRyx: Kuu e Bill saranno senza il minimo dubbio ricchi di affinità, su questo non ci piove! E tranquilla, che Tom e Vi ci saranno sempre, così come Georg, Nicole ed Emily! ;)

Ninnola: come per altre, anche per te dico che ci siamo già dette tutto in msn. Aggiungono solo un grazie enorme!

_no sense_: bentornate, care! In effetti vi avevo date per disperse, fino all’epilogo di The Truth. ;) Ma ora che siete tornate, spero non mi abbandonerete! Ci conto! ;)

Whity: non sai che gioia rivederti! Ci tengo a soddisfare le tue aspettative, davvero, quindi prego di non deluderti. ^^ Ancora grazie per la precisazione sul francese, fra l’altro! È una lingua che proprio non fa per me. XD A presto, ci conto!

VANiTY: grazie! *_* Non so se Kuu ti piacerà, ma sicuramente non come Vi, credo. È molto diversa da lei e anche un po’ più difficile da comprendere. Speriamo in bene, però!

ElyLaTeS: anche a me Kuu piace molto! Più avanti ne capiremo meglio il significato e tutto ciò che vi è connesso, vedrai. Per ora grazie!

Ladynotorius: anche a te, come alla Pao, un abbraccione solidale!

_KyRa_: qualche cosina in più da giudicare adesso c’è. Dimmi un po’ tu che ne pensi. ;)

__ElE_: uffa, ero curiosa di sapere le tua idea! Dai, su, dimmi a chi stai pensando! :3

Bene, ho concluso, per adesso! Come di rito, non manco di invitarvi a lasciare due parole di commento, che aiutano sempre, nel bene e nel male, a consolidare la storia!

Alla prossima!

P.S. il titolo del capitolo è tratto dall’omonima, sublime, devastante canzone dei Nightwish.

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Time Changes Everything ***


So tell me what I see
When I look in your eyes
Is that you, baby,
Or just a brilliant disguise?

(Brilliant Disguise, Bruce Springsteen)

***

 

L’inverno era meraviglioso, a Berlino: la neve che ricopriva le strade, cadendo fitta e lieve da un cielo di un opaco grigio giallastro, aveva un che di magico, di mistico, e a guardarla cadere dall’alto sembrava di stare in una sfera di vetro rovesciata per gioco. L’Adlon Kempinski era uno degli hotel più rinomati della città, e il merito, oltre al lusso, era senza dubbio la locazione, affacciato direttamente sulla piazza della Porta di Brandeburgo, sempre discretamente affollata, nonostante il freddo e le intemperie.

Da dietro alle vetrate di una delle sale conferenze dell’albergo, Kuu osservava l’esterno con vuoto distacco, le braccia conserte, immobile di fronte al suo stesso riflesso, in attesa. Gli auricolari dell’iPod portavano alle sue orecchie delle canzoni che nemmeno ascoltava.

Si era svegliata presto, quella mattina. La notte era stata rovinata da un sonno agitato e alla fine era solo stata felice di sentire la sveglia. Quando, alle dieci, il solito Mercedes Viano nero era arrivato a prendere lei e Kaaos, erano entrambi scesi con una certa rigidità, nervosi per l’importanza dell’incontro che li attendeva. C’era una grandissima svolta di carriera in gioco.

Rabbrividì, agitata. Con le unghie accuratamente laccate di bordeaux, continuava a giocherellare con la fibbia della cintura che le avvolgeva i fianchi asciutti e stretti, gli occhi che di tanto in tanto ricadevano sulla scritta che correva per tutta la lunghezza di quell’accessorio che lei stessa aveva disegnato. ‘La beauté n’est que la promesse du bonheur’: citazione colta di Standhal che quasi nessuno era in grado di riconoscere, era incisa a fuoco nella pelle bianca, caratteri neri e svolazzanti a dipingere con falsa leggerezza parole che nella vita di tutti avevano forse un po’ troppo peso. Ma a lei piaceva l’ostentazione, l’azzardo, la provocazione, e portava con orgoglio quegli articoli esclusivi, tutti con quell’inconfondibile marchio.

Molte ragazze amavano imitarla, copiare il suo look, il suo stile, i suoi modi, e lei si compiaceva di questo, ma quando le chiedevano di chi fossero certi gioielli, o certi capi d’abbigliamento, la soddisfaceva rispondere che erano tutti ideati da lei. Un giorno, in un futuro indefinito, le sarebbe piaciuto firmare una linea tutta sua, ma per adesso voleva solo concentrarsi sulla musica, fare l’impossibile per consolidare i risultati già raggiunti, e le ore a seguire sarebbero state determinanti.

Era sola nella stanza: Griet era nella saletta accanto, la sentiva discutere animatamente al telefono; Luke aveva scortato Kaaos a prendere qualche cosa di caldo da bere.

Kuu fissò se stessa nel vetro e deglutì. Aveva passato un’ora e mezza a prepararsi, per essere all’altezza, ma ancora non era soddisfatta del risultato.

‘Sei splendida’, le aveva mugugnato Kaaos svogliatamente, quando lei si era fermata a specchiarsi nelle porte dell’hotel appena arrivati. Glielo diceva sempre, ma lei non ascoltava mai. Era impossibile fidarsi del parere del proprio migliore amico: le avrebbe detto che era splendida anche appena uscita da un naufragio.

Che era bella lo sapeva anche lei. Da un paio d’anni a quella parte, chiunque incontrasse non faceva altro che ripeterlo: ‘Sei bellissima’, ‘Sei così bella’… Osservazioni così vuote che non la toccavano nemmeno. Eppure era tutto ciò che una volta avrebbe sognato, quella bellezza.

L’iPod, intanto, era passato a una canzone dei Tokio Hotel, e lei non poté fare a meno di mettersi in ascolto.

I feel lost in myself
There’s an alien in me
Who are you?
Who am I?
Blood is all I see
The words in the mirror
Are making me shiver

A Kuu piaceva quella canzone, Alien. Aveva sempre pensato che Bill avesse una voce speciale, non particolarmente potente, ma di grande effetto, sensuale e piena di emotività. Abbinata a quel testo, poi, era perfetta.

Save me with your love tonight
Come and bring me back to life

C’era del banale, a volte, nelle composizioni liriche dei Tokio Hotel, ma era una banale relativo, derivato da sentimenti che inevitabilmente conducevano a determinate espressioni. Sentimenti che lei, nel suo piccolo, capiva.

Nella larga strada innevata che si distendeva diversi metri sotto di lei, erano appena arrivati due eleganti minivan grigi, simili al Viano che usavano lei e Kaaos.

Tutto il suo corpo fu scosso da un fremito di nervosismo.

Appena le portiere furono aperte dai concierge dell’hotel, una piccola folla ne uscì: quattro imponenti uomini in giacca nera e occhiali da sole, subito seguiti da quattro personaggi più che noti, la cui semplice vista triplicò l’ansia di Kuu.

I lay down on the edge
I feel my whole life on rewind
See your face
in the crowd
A million times
I’m drowning, I’m falling
I hear myself calling

Ed eccoli là, i Tokio Hotel, come quattro ragazzi qualunque che si fermavano ad aspettarsi l’un l’altro scendendo dalle auto, mentre qualche passante ficcanaso gettavano loro occhiatine curiose.

I quattro baluardi del rock tedesco, pensò Kuu, seguendo i loro movimenti. Ne è passata di acqua sotto i ponti…

Kuu ricordava bene il giorno in cui li aveva incontrati per la prima volta. Era stato un agosto di dieci anni prima, durante un festival di paese per talenti in erba. Si chiamavano ancora Devilish, all’epoca, e lei e Kaaos facevano parte di un gruppo che nemmeno aveva un nome. Erano tutti ragazzini, tutti inesperti, tutti ansiosi di divertirsi senza preoccuparsi di apparire. Era stata una bella esibizione per i Devilish; per Kuu, invece, era stata solo un’esperienza da dimenticare. La sua voce di acerba dodicenne non era bastata a renderla apprezzabile al pubblico, costituito per lo più da ragazzi della sua età o poco più grandi, e il suo aspetto non era quel che si sarebbe definito grazioso.

Save me with your love tonight
Come and bring me back to life

Era sempre stata bassa di statura, e piuttosto in carne, e aveva passato l’adolescenza afflitta da complessi di inferiorità rispetto alle sue amiche e a combattere inutilmente un’acne che per anni non le aveva dato tregua. Poi, a diciannove anni, quando ormai aveva smesso di sperare, qualcosa era cambiato: la sua pelle si era pulita, la sua figura si era leggermente assottigliata, e lei aveva colto la palla al balzo: con un po’ di impegno, era riuscita a conquistare quel fisico che ora esibiva con tanta fierezza, e da allora tutto era stato diverso. Tutto era stato migliore.

Era cinico da dire, ma non sarebbe mai arrivata lì dov’era ora, se il suo aspetto non fosse cambiato tanto. Il talento, nello showbusiness, era fortemente svalutato da un’immagine poco attraente.

I Tokio Hotel avevano avuto la fortuna di averli entrambi, e di svilupparli entrambi con il tempo.

Save me with your light tonight
You can make the darkness shine

Non le importava di loro. Le importava solo di quello che loro potevano fare per i Pristine Blue.

Tra il loro seguito, riuscì a riconoscere anche il loro manager, Ebel, che disse loro qualcosa poco prima che tutti e nove si dirigessero all’ingresso, sparendo così dal campo visivo di Kuu. A breve sarebbero arrivati di sopra.

Come and kill the dream gone bad
Alien to love
Come and wake me from the dead
Alien to love
Need your love

La porta si aprì in quell’esatto istante: ne entrò Kaaos assieme a Luke, portando un piccolo vassoio con due caffè. Kuu ne inspirò con piacere l’aroma intenso, pregustando già la bontà di quel sapore amaro e caldo sulle proprie labbra.

“Ecco qui,” Kaaos le fu accanto in due falcate e le porse la tazza senza quasi guardarla. “Doppio espresso senza zucchero, come piace a te.”

“Grazie.”

Kuu strinse il caffè tra le mani, godendo del tepore che emanava. Aveva sempre freddo, lei, e amava avvertire il calore nelle cose, nelle persone. Peccato che nelle persone fosse più difficile trovarne.

“Penso che i Tokio Hotel saranno qui a momenti,” le disse Kaaos, appoggiandosi con una spalla alla parete, una mano in tasca mentre sorseggiava il proprio caffè. “Io e Luke abbiamo visto le macchine arrivare mentre salivamo.”

“Hanno una bella guarnigione personale,” commentò Luke, dalla sua postazione accanto all’ingresso. “Nemmeno il papa è così blindato.”

“Ragazzi!” Griet era appena entrata precipitosamente dalla stanzetta laterale e brandiva il suo palmare con la solita frenesia. “Hanno spostato la conferenza stampa di oggi pomeriggio a domani mattina, quindi possiamo prendercela comoda. Allora, siete pronti?”

Kuu annuì senza esitazioni. Si trattava di un incontro informale, una specie di presentazione ufficiosa durante la quale Pristine Blue e Tokio Hotel si sarebbero veramente conosciuti per la prima volta. Lei e Kaaos avrebbero chiacchierato un po’ con loro, suonato qualche canzone, e poi non sarebbe rimasto altro che ufficializzare il progetto con l’assenso esplicito dei quattro ragazzi.

“Prontissimi,” affermò Kaaos, tranquillo. “Sono proprio curioso di vedere come andrà. Chissà se a loro gliene frega qualcosa di averci in tour con loro.”

“Ma figurati!” sbuffò Kuu. “Se questa cosa va in porto, saremo pura e semplice tappezzeria, non credere. Dubito che Sua Graziosissima Maestà Bill Kaulitz accetterà mai di condividere anche solo la toilette con noi.”

“Tu hai tutti i tuoi pregiudizi da fan delusa.” La contraddisse Kaaos, asciutto. Le diceva sempre qualunque cosa pensasse. “Ok, saranno anche un mostro sfruttato dalla commercialità, ma non sono gli spacconi che dipingi tu, e lo sai.”
Kuu si strinse nelle spalle.

“Sarà, ma sono pronta a scommettere che non sarà una passeggiata.”
“Se tu parti prevenuta, no di sicuro.” La ammonì Griet, con cipiglio severo. “È una grande occasione per voi, quindi vediamo di fare una figura dignitosa. Kuu, mi riferisco soprattutto a te.”

“Guarda che io ci tengo più di te a questa cosa!” sbottò lei, indispettita. “Se credi che rovinerò tutto solo perché quelli sono–”

Un rumoroso schiarimento di gola da parte di Luke mise a tacere tutti e permise loro di rendersi conto che c’erano delle voci che si avvicinavano, nel corridoio lì fuori. Erano voci maschili, sommesse, e in un attimo furono alla porta. Quando si sentì bussare, si creò spontaneamente una densa atmosfera di tensione.

Ci siamo.

Luke attese un cenno da parte di Griet, poi aprì la porta. E loro entrarono.

Il primo fu Tom, alto e infagottato in una felpa nera grande tre volte lui, bellissimo. Si fece avanti senza esitazioni, con una camminata spavalda e molleggiata e uno sguardo sfrontato che si posò immediatamente su Kuu, accarezzandola suadentemente. Subito dietro di lui, Georg, in jeans e giacca di pelle, i capelli legati, affascinante come non mai eppure in qualche modo appesantito da una qualche ombra di preoccupazione. La guardò appena, e non sembrava nemmeno granché interessato. Dopo di lui seguì Gustav, le mani in tasca del giubbotto nero, gli occhi bassi dietro agli occhiali; si andò a sistemare alle spalle dei due amici e non emise un suono, chiuso in se stesso. Ci fu un brevissimo attimo morto, poi l’ingresso superbo di Bill parve rarefare l’aria nella stanza. Entrò lentamente, con passo calibrato, vestito di nero e truccato di tutto punto, una grossa e vistosa borsa di Gucci al braccio, senza nemmeno una virgola fuori posto. Aveva l’aria di un cane al guinzaglio ben addestrato. Dietro di lui apparvero anche una guardia del corpo e il loro manager, e dopo di loro la porta fu chiusa. Salutarono tutti in modi variabilmente sicuri o impacciati.

Bill era tanto bello da brillare quasi di luce propria, e tanto gelido negli atteggiamenti da mettere immediatamente Kuu all’erta. Lo sguardo dall’alto in basso che scorse su di lei un istante più tardi, infatti, era di ostilità dichiarata, ma lei lo resse con determinazione: diva contro diva, e lei non poteva certo competere, ma non si arrendeva mai senza almeno opporsi, e l’astio di Bill Kaulitz non la spaventava di certo. Era uno scontro fra titani, e l’idea la stimolava.

Ma Bill, così come i suoi compagni, non era diverso da nessun altro che le fosse capitato di conoscere negli ultimi anni, e lei era stata preparata a quell’incontro. Era la precisa, solita sensazione di sempre: come uno spettro, essere guardata e vista attraverso, oltre, ma mai veramente percepita. Un libro scritto nella lingua sbagliata, un dipinto dai colori ingrigiti, indiscernibili.

Quattro paia di occhi – tre, anzi, perché uno era abbassato sul pavimento – la fissavano indaganti, colmi di velato ma inevitabile stupore. Faceva spesso quell’effetto trovarsi faccia a faccia con lei.

Non che lei nei loro confronti fosse da meno.

Kuu avvertì la presenza di Kaaos alle proprie spalle, abbastanza vicino da sfiorarle la schiena. Si sentì istintivamente al sicuro. Guardò in su: Kaaos sorrideva con gentilezza – gentilezza vera, non la sua solita gentilezza plastica da apparizione pubblica – e stava ricambiando i loro saluti, rivolgendo a ciascuno un gesto amichevole.

Bugiardo, gli disse Kuu dal profondo, e sapeva che lui, pur non potendola udire, aveva sentito quel suo pensiero.

“Benvenuti!” chiocciò Griet, sfilandosi l’auricolare dall’orecchio. “Ragazzi,” aggiunse subito dopo, rivolgendosi direttamente ai Tokio Hotel. “È un piacere incontrarvi di persona, finalmente.”

I quattro mormorarono qualche ringraziamento confuso. Dedicarono un paio di minuti ai convenevoli e alle domande di circostanza, poi finalmente si raggiunse il punto cruciale:

“Siamo molto curiosi di sentire qualche vostro pezzo acustico.” Disse Bill, spostando lo sguardo prima su Kaaos, poi su Kuu.

Lei gli sorrise affabilmente.

“Siamo qui per questo, dopotutto.” Gli rispose diplomatica, e intanto dentro di sé analizzava il suo sopracciglio sollevato, le rughe leggere apparse ai lati della sua bocca, le braccia ostinatamente conserte, e sapeva che lui era lì senza esserci. Erano tutti lì senza esserci.

Solo Tom sembrava vagamente interessato a lei: la osservava guardingo, con un leggero accenno di sogghigno sulle labbra, su cui di tanto in tanto si passava pigramente la lingua, senza mai toglierle gli occhi di dosso. Kuu si crogiolava in quell’attenzione, e rispondeva con sguardi sfuggenti, indifferenti, giocando con lui come lui giocava con lei.

“Se non avete nulla in contrario, direi che possiamo iniziare.”

Kuu si voltò verso la propria sinistra: Kaaos le era accanto, la chitarra già in mano, dimentico di ogni buona educazione.

“Forse prima dovremmo discutere un po’ del progetto…” buttò lì lei, occhieggiando il giovane manager dei Tokio Hotel in cerca di supporto.

“Penso che sia un’ottima idea,” affermò infatti lui. “Perché non ci sediamo e parliamo un po’ con calma?”

Kuu decise che Benjamin Ebel le piaceva: sembrava un tipo tranquillo, solare, molto beneducato. Ed era anche piuttosto carino.

I Tokio Hotel schierati da una parte, Kuu assieme a Kaaos e Griet dall’altra, Ebel a capotavola: presero tutti posto attorno allo spazioso tavolo di legno scuro che occupava buona parte della stanza. Erano stati sistemati dei bicchieri e delle bottiglie di acqua minerale davanti a ogni posto a sedere. Ci fu un silenzio che durò qualche secondo; si scrutarono tutti l’un l’altro, a disagio. Kuu si sentiva sotto esame, ed era una sensazione che le aveva sempre dato fastidio, ma non aveva alcuna intenzione di dare a vedere che era così nervosa. Voleva solo fare una bella impressione, nient’altro. Voleva dimostrare loro quel che valeva come artista. Voleva che loro riconoscessero la sua bravura, i suoi meriti. Un biglietto di sola andata per il loro mondo.

“Allora,” esordì Benjamin, con una delle sue espressioni calme e gentili, e si voltò verso di lei. “Che cosa vi aspettate da un tour con noi?”

Kuu avvertì un immediato fremito di eccitazione dentro di sé e con la coda dell’occhio notò che le labbra di Kaaos, come le sue, si distendevano in un sorriso di professionale entusiasmo.

Ecco, pensò, pronta a sfoderare un discorso che stava preparando da una vita intera, adesso tocca a me.

 

***

 

Bill ci aveva messo poco a rendersi conto del perché i Pristine Blue avessero fatto così in fretta a spopolare in Germania. Non li aveva mai analizzati veramente, nonostante la loro musica gli piacesse – non gli interessava vedere, solo ascoltare – ma adesso che li aveva davanti la prospettiva di averli in tour con sé cominciava ad avere un suo senso. Non era solo una questione di immagine, di presenza scenica; avevano carisma, riuscivano ad imporsi all’attenzione dell’osservatore con una disinvoltura e una naturalezza che colpivano, ed era una dote che personalmente Bill aveva sempre non solo apprezzato, ma anche ammirato.

Eppure, mentre Kuu gli rivolgeva un’occhiata di ghiaccio, sentì che la persona che aveva di fronte era tutto fuorché quel che si vedeva. E non che quel che si vedeva fosse poco.

Era molto minuta, ma i suoi occhi ambrati sapevano incutere una certa soggezione. Se ne stava seduta impettita nella sua sedia, rigirandosi tra le dita la catenina d’argento che le avvolgeva l’elegante collo sottile, facendone tintinnare i due ciondoli. Portava un lungo maglione di morbida lana grigia sopra una maglietta e fuseaux neri, questi ultimi infilati in un paio stivali. Pur non trovandola affine al proprio tipo di ragazza ideale, Bill fu costretto ad ammettere che era bella, e molto, con quel suo visetto tondo appena abbronzato, da bambina, i lineamenti morbidi, le labbra piccole ma carnose, imbronciate, come se fosse stata perennemente infastidita da qualcosa.

Non sembrava affatto, vista così, così da vicino, la stessa persona dei video e delle foto sui giornali. Senza trucco marcato e vestiti ricercati, sembrava una ragazza capitata lì per caso, molto più giovane dell’età che dimostrava in fotografia. D’altro canto, però, non sarebbe mai potuta passare per una qualunque, perché di belle ragazze Bill ne aveva incontrate tante, ma mai così belle. E nessuno, poi, sentendola parlare in tono così pacato e sommesso, avrebbe potuto immaginare che nascondesse una voce così suggestiva. L’impressione che, a pelle, gli aveva fatto la prima volta che la aveva vista in TV era che fosse una ragazza chiusa, presuntuosa, piena di ambizione e determinazione, e questo, checché ne dicesse, gli piaceva. Kuu era come lui. Lui era come lei.

Adesso voleva solo sentirla cantare.

Di Kaaos, invece, non sapeva ancora cosa pensare: era gentile ed amichevole, ma aveva uno strano comportamento nei confronti di Kuu. Le stava vicino, la guardava, la cercava, quasi metaforicamente ricorrendola. Comportamento quantomeno ambiguo, viste le voci che circolavano su loro due.

“Insomma,” stava dicendo Benjamin, dopo svariati minuti di inutili discorsi sulla fondamentale importanza di una collaborazione come quella che si stavano accingendo a stringere. “Essere qui oggi è una pura formalità, penso che questo sia chiaro per tutti.” Gettò una rapida occhiata di ammonizione verso Bill. “Penso che entrambe le parti siano d’accordo su questo punto.”

“Noi sicuramente.” Rispose Kuu, soave. “Vorremmo solo sentire il parere diretto dei ragazzi.”

Il viso di Tom si aprì in un sorriso a dir poco entusiasta.

“Personalmente non vedo l’ora di cominciare.”

Georg, seduto accanto a lui, annuì con espressione assente.

“Apprezzo molto la vostra musica,” soggiunse Bill, sincero. “E sicuramente la risposta mediatica all’annuncio di questa novità sarà ottima. Credo che sarebbe un’esperienza interessante per entrambi i gruppi,” affermò con assoluta convinzione, e si stupì nello scoprire di crederlo veramente. “Anche se forse non tutti apprezzeranno l’idea.”

“Cosa intendi?” indagò Benjamin, preoccupato.

Bill mascherò abilmente un sogghigno, lanciando un’occhiata eloquente verso Kuu.

“Non so quanto possa far piacere alle nostre fans sapere che ci sarà una ragazza come Kuu ad accompagnarci in un intero tour.” Guardò dubbioso Tom, Gustav e Georg, che ricambiarono con altrettanta incertezza, e poi Benjamin, che si limitò a sollevare pazientemente le spalle. Bill sapeva che l’obiezione che aveva appena implicitamente sollevato era in realtà più un punto a favore che un problema. “Spesso tendono a diventare un po’ aggressive, se hanno anche solo il sospetto che qualcuna sia troppo vicina a noi, se sapete cosa intendo.”

“Sono abituata a sentirmi dare della puttana,” rispose immediatamente lei, con una prontezza e una sicurezza che spiazzarono un po’ Bill. “Non posso parlare con qualche ragazzo famoso senza farmi dare della troia o affini, quindi penso di essere preparata a spiacevoli eventualità. Ne abbiamo sentite di tutti i colori su di noi,” Scambiò con Kaaos un rapido sorriso complice, e Bill poté quasi vedere il filo di diretta connessione che li univa. “State pur certi che se qualcuno sarà infastidito da eventuali rumors e pettegolezzi, quel qualcuno non saremo certo noi. Le vostre fans possono dire quello che vogliono. Finché mi lasciano fare il mio lavoro in pace, a me sta bene.”

Mi piace, si ritrovò a pensare Bill, basito e compiaciuto al tempo stesso. Ha carattere, la piccola.

“E poi ho la sensazione che grazie a Kuu l’afflusso di pubblico maschile ai nostri concerti vedrà un notevole incremento.” Aggiunse Tom, malizioso.

“Assolutamente.” Concordò Bill.

“Mi fa piacere sentire che abbiate tanta stima delle mie doti artistiche.” Li stuzzicò lei.

Tom sorrise con garbo:

“Parlavamo dal basso di un punto di vista da uomo, non da artista.” Chiarì.

“Non ci sogneremmo mai di mettere in dubbio un talento indiscutibile come il tuo.” Terminò Bill.

Kuu lo fissava intenta, quasi assorta, ed era impossibile farsi un’idea di che cosa potesse pensare, perché i suoi occhi erano specchi: tutto ciò che vi si poteva scorgere erano riflessi, non emozioni dirette.

“Anche perché sono certa che sia un tipo di insinuazione che ti tocca molto da vicino, sbaglio?”

Bill apprezzò l’arguta provocazione.

“Non sbagli.” Le rispose tranquillo.

“Vedo che abbiamo due belle lingue biforcute, qui.” Rise Kaaos, versandosi da bere. Aveva mani grandi e sottili, nervose, i polpastrelli callosi e rovinati dall’inconfondibile segno che lasciavano anni e anni di dedizione alla chitarra. I suoi occhi, così scuri e torbidi rispetto a quelli limpidi e dorati di Kuu, erano estremamente comunicativi, vivaci e mai immobili. Gli ricordava molto Georg, per diversi motivi. O meglio, gli ricordava il vecchio Georg, perché negli ultimi tempi qualcosa era cambiato. Era qualcosa che nessuno era ancora riuscito ad individuare, eppure c’era, perché un Georg così silenzioso e pacato nessuno di loro, in dieci anni di vita insieme, lo aveva mai visto. E Gustav, accasciato nella sua sedia come se quell’incontro non lo riguardasse, non era poi tanto da meno: lo sguardo vacuo, i gomiti sulle ginocchia, la schiena ricurva.

Forse era solo un periodo così. Avevano bisogno tutti della carica del tour per riprendersi.

“La lingua più tagliente è quella di Gustav, anche se non si direbbe,” commentò Tom, voltandosi verso l’amico. “Solo che dà il meglio di sé solo con pochi, intimi eletti.”

“Ad esempio te, vero?” replicò Gustav.

Lo sguardo attento di Kuu si posò su di lui. Gustav lo incontrò e lo sostenne per un momento, poi guardò di nuovo in basso. La fronte levigata di Kuu si corrugò impercettibilmente.

“Ragazzi.” Li ammonì Benjamin in tono paziente.

“Io ho voglia di suonare,” disse Kaaos, alzandosi in piedi. Era veramente altissimo, almeno quanto Bill stesso. “Ancora un solo minuto chiuso qui dentro senza chitarra in mano e impazzisco.”

In un paio di passi fu dal lato opposto della stanza, dove in un angolo era stata improvvisata l’attrezzatura per una performance unplugged. C’era una chitarra acustica appoggiata alla parete, accanto a un pianoforte bianco; Kaaos la imbracciò, mettendosi a sedere su uno sgabello.

“Scusatelo,” intervenne Kuu rivolta ai presenti, alzandosi in piedi a sua volta. “Non sa cosa sia la buona educazione.”

Con disappunto, Bill la guardò raggiungere Kaaos e prendere posto al piano. Quella ragazza lo rendeva stranamente irrequieto: il fatto di non riuscire a darle dei contorni precisi era irritante. Non era abituato ad avere a che fare con delle persone sfuggenti; di solito, anzi, chi lo circondava faceva di tutto per avvicinarsi il più possibile a lui. In assoluta onestà, Bill non era affatto sicuro che fosse una buona idea – al di là dei vantaggi commerciali – scegliere i Pristine Blue come band di supporto per i Tokio Hotel: Tom continuava ad occhieggiarla in modo sfacciato, Georg l’aveva fin da subito fissata come se fosse stata una bambola decorativa senza valore, mentre Gustav quasi non aveva considerato né lei né Kaaos. Come premessa non era buona né promettente.

“Questo brano si chiama Happy,” annunciò Kuu, sistemando gli spartiti sul leggio. “Lo abbiamo scritto tre anni fa, non farà parte dell’album, ma è uno di quelli che ci rappresenta di più.”

Non aggiunse altro.

Eppure, non appena le sue dita sottili iniziarono a sfiorare delicatamente i tasti del pianoforte e le corde della chitarra di Kaaos iniziarono a vibrare, qualcosa si accese nell’animo di Bill. Si innamorò all’istante di quella melodia triste e lenta, del modo in cui entrambi i due ragazzi tenevano gli occhi chiusi mentre suonavano con tanto trasporto, una passione e un coinvolgimento tali da incantare, possibili solo quando l’artefice e l’esecutore della musica erano la stessa persona.

E poi Kuu iniziò a cantare, e di ogni dubbio non restò nemmeno il ricordo.

 

***

 

Bellissima.

Avrebbe sfidato chiunque a non pensare una cosa del genere, nel guardare Kuu. Ma era una bellezza strana, la sua, forse troppo vivida e intensa in un corpo ancora così acerbo. E anche la sua voce aveva un che di incredibile: sottile, argentea, quasi fatata, come se fosse appartenuta a una creatura non umana. Di fatto, forse era fin troppo bella, Kuu, per essere vera.

Can I hurt you, please?
Can I come and break your heart?
Can I rip your soul and tear it apart?
I want to see the grief in your eyes
I want to see the poison spill from your lies
And can I destroy your voice?
I don’t have any other choice

Cantava ad occhi chiusi parole piene di rabbia, ma lo faceva con una malinconia così profonda che veniva da chiedersi cosa ci fosse alla radice di una canzone così. Chissà se la aveva scritta lei, o se era stato Kaaos, o se la avevano fatta insieme.

Erase
Erase it all
I want to hurt you
I need to hurt you
Don’t want to see you happy
Don’t want to see
Don’t want to see

Gustav non sapeva molto di loro. Kuu doveva avere la sua età e Kaaos un paio d’anni in più. Gli sembrava di aver letto da qualche parte che fossero di Berlino, ma non ci avrebbe messo la mano sul fuoco. Non sapeva altro, se non che il loro singolo era in cima alle classifiche delle vendite, diverse posizioni sopra a The World Behind My Wall, ormai uscito da mesi. Tra popolarità e successo, i Pristine Blue non potevano proprio lamentarsi.

Out of my life
Out of any dream
Forgive or forget
Swallow the regret
Don’t be happy
Never happy again
Hope you live in pain

Gustav non aveva ancora ben realizzato la questione del tour assieme a loro. Era la prima volta che sceglievano un gruppo spalla per un intera tournée, per di più mondiale. Significava convivenza a stretto contatto per mesi interi, creare un vero rapporto con due persone – e anche più – che erano dei perfetti sconosciuti, e soprattutto accettare il rischio che il tutto potesse anche non funzionare.

E più lui li osservava, meno riusciva a immaginarsi cosa sarebbe potuto succedere. Di sicuro il fanbase di entrambe le parti si sarebbe sbizzarrito con le congetture: la presenza di Kuu sarebbe stata praticamente un invito a nozze per tutti i pettegoli e sarebbe stato inevitabile impedire alle malelingue di circolare. A certa gente bastava vedere uno di loro guardare una ragazza per costruirci sopra chissà quali favole romantiche.

“Ma quanto cazzo è gnocca?” sussurrò Tom all’orecchio di Georg, inclinandosi appena di lato.

A sentirlo Gustav sorrise e scosse la testa, ignorandolo, proprio come Georg. Sapeva che erano osservazioni innocue: a Tom piaceva fare il gradasso, ma era così perso di Vibeke che nessuno, nemmeno i più sprovveduti, gli credeva più. Gustav aveva sempre invidiato l’amico per quella ragione: Tom aveva sempre proclamato che non si sarebbe mai innamorato, che per lui le priorità della vita erano altre, che non aveva bisogno di avere una ragazza fissa accanto, eppure da quando stava con Vibeke, tutti avevano la sensazione che senza di lei, dipendente com’era, non sarebbe più riuscito a stare in piedi. Bill, nel suo piccolo, aveva imparato a non essere troppo geloso di quel rapporto, e il merito era anche di Vibeke, che aveva cura di lui come se fossero stati fratelli. Anche a Gustav non mancavano mai le attenzioni di Vibeke, che mandavano puntualmente Tom in paranoia, ma era quasi triste vedere dei cari amici condividere un amore così strampalato e bello: era un mondo a sé di cui non si sentiva parte, che non conosceva, ed era un enorme dispiacere.

“È così piccola,” stava bisbigliando Bill a Benjamin, attento a non farsi sentire da Griet, che seguiva diligentemente l’esibizione, arricchita da virtuosismi canori davvero degni di nota. “Dove la tiene tutta quella voce? È assurdo.”

“Deve aver studiato parecchio in questi anni.” suppose Georg sottovoce.

Hold me like you had to kill me
Won’t open my eyes
Can’t stand your smile
Please, make me blind
‘cause I don’t want to see

Gustav faceva fatica persino a concentrarsi sulla canzone, perché il testo era duro da sopportare. Non diceva nulla che lo toccasse da vicino, eppure lo turbava più di quanto si sarebbe potuto aspettare, molto più di quanto avrebbe voluto. Probabilmente era colpa della forte carica emotiva che trasmetteva la voce di Kuu.

Don’t want to see you happy without me

La canzone si spense così, con quella frase quasi sussurrata, dopo che la musica era già svanita.

Un pezzo meraviglioso, e tutti, a giudicare dalle espressioni sbalordite, lo stavano pensando.

La manager dei Pristine Blue sorrideva raggiante, piena di orgoglio, e le sue mani, all’estinguersi dell’ultima eco del canto, si unirono al coro di applausi che si scatenò da tutti i presenti. Gustav notò che Bill aveva tutta l’aria di aver cambiato opinione su di loro.

Lui, invece, un’opinione nemmeno la aveva. Si disse che con il tempo sarebbe riuscito a farsene una, probabilmente; se buona o cattiva, non ne era sicuro. Kaaos gli sembrava un tipo abbastanza alla mano, spigliato ma semplice, forse un po’ brusco in certi atteggiamenti, ma senz’altro una persona piacevole, a pelle. Kuu, invece, gli risultava letteralmente illeggibile.

Insondabile: quello era il termine giusto.

A Gustav non erano mai piaciute le ragazze come lei: troppo spesso la bellezza finiva per offuscare tutto il resto, rendendo cieca l’anima delle persone, e tendenzialmente queste persone lui nemmeno lo vedevano.

L’applauso durò a lungo e fu accolto dai due ragazzi con dei grandi sorrisi e ringraziamenti onorati. Le loro mani si intrecciarono quando i due si inchinarono, riconoscenti. La mano di Kuu spariva in quella di Kaaos, che riusciva ad avvolgerla completamente, da parte a parte. Era difficile valutare che tipo di legame ci fosse tra di loro, perché le loro interazioni erano ambigue, ma mai esplicite. Sguardi, tocchi, parole… Tutto era interpretabile in diversi modi, e nessuno poteva saperlo meglio di Gustav, che qualche volta ancora subiva scenate di gelosia – non sempre serie – da parte di Tom quando Vibeke gli regalava un abbraccio o un bacio affettuoso.

Gustav represse un sorriso nostalgico: erano via da solo due giorni e già gli mancavano le coccole di Vibeke. Chissà quanto doveva essere insopportabile per Tom. Poi pensò a Georg, sempre così lontano da Nicole e da Emily, e gli si strinse il cuore. Se avesse potuto vederle più spesso, probabilmente non sarebbe stato sempre così giù di morale.

I giornali non facevano altro che ricamare articoli su articoli sulle due coppie più chiacchierate della Germania, ma la verità era che, se da un lato Tom e Vibeke vivevano in un mondo tutto loro, fatto di bisticci e amore spensierato, dall’altro Georg e Nicole, di nascosto e in silenzio, soffrivano, ed era una cosa che gli obiettivi delle telecamere e delle macchine fotografiche non potevano vedere.

Forse, dopotutto, era meglio essere soli, non avere qualcuno di cui sentire la mancanza.

Ma allora perché sento la mancanza di qualcuno che non esiste?

“Gustav, tu che ne pensi?”

Gustav si riscosse dal proprio torpore e da pensieri che avrebbe di gran lunga preferito non avere. Kuu lo stava guardando, in piedi accanto al piano, Kaaos al suo fianco, e attendeva una risposta. anche Bill e gli altri lo guardavano. Si era perso un pezzo di conversazione, dovevano aver già espresso tutti un parere ed ora aspettavano il suo. Ma lui che cosa avrebbe potuto dire? Non era capace di esprimere certe sensazioni.

“Ci sapete fare,” dichiarò. “E anche parecchio. Spero solo che non ci farete sfigurare troppo.”

Abbozzò un sorriso, e Kuu e Kaaos fecero lo stesso. Griet, invece, era a dir poco raggiante.

“Molto bene, allora,” Benjamin si alzò, soddisfatto. “Penso che siamo tutti d’accordo, a questo punto: benvenuti a bordo!” Kuu e Kaaos si avvicinarono e gli strinsero la mano. “Sarà un piacere lavorare insieme a voi.”

“Il piacere è tutto nostro.” Rispose Kuu, e per un attimo Benjamin rimase semplicemente a contemplarla.

Era fatta, dunque. Era deciso: sarebbero stati loro ad accompagnarli nello Humanoid City Tour 2010.

E in mezzo a un incrociarsi di strette di mano, Gustav vide Bill e Kuu fronteggiarsi da vicino, ritti e orgogliosi, gli angoli delle labbra impercettibilmente arricciati, e alla fine, quando le loro mani si incontrarono in una stretta vigorosa, fu chiaro che l’imminente tour sarebbe stato al di fuori di ogni ragionevole dubbio un’esperienza incancellabile.

 

***

 

Il rientro a casa, dopo Berlino, fu fonte di insperato sollievo per Tom. Non ne poteva più di andare in giro in quel modo, tra Europa e America, ospite di show e programmi vari. Aveva tentato di convincere Vibeke a seguirlo, almeno qualche volta, ma lei non ne voleva mai sapere: secondo lei era uno spreco di tempo e denaro andare assieme a loro, soprattutto perché per la maggior parte del tempo avrebbe dovuto starsene da sola, e Tom in un certo senso capiva, ma, egoisticamente, non condivideva. Odiava stare senza di lei, anche se solo per pochi giorni. Per tutto il tempo che era via, lui non si dava pace: la chiamava appena poteva, le mandava messaggi, fotografie, e tutte quelle cose per cui aveva sempre preso in giro Georg, e che adesso gli sembravano l’unica maniera per non impazzire e prendere una aereo verso casa in ogni raptus di nostalgia.

E Vibeke rideva di lui, e sopportava paziente anche certe telefonate nel cuore della notte, e gli diceva che era uno sfigato mammone a non resistere senza di lei nemmeno per tempi così brevi, ma Tom aveva imparato a non offendersi, e a prendere anzi tutti quegli sproloqui per quello che erano in realtà: l’unico modo che lei conoscesse per dirgli che anche lui le mancava.

Appena rientrato dal viaggio, Tom si era concesso solo il tempo di una doccia e di un rapido cambio di abiti, poi si era subito precipitato a casa Wolner, impaziente. Era sera, l’ora di cena era passata da un pezzo: sapeva che BJ era già uscito e che in casa restava solo Vibeke. Non suonò; prese invece la propria copia delle chiavi dell’appartamento ed aprì, facendo piano. Voleva farle una sorpresa. Entrò in punta di piedi, ascoltando: a giudicare dai rumori, Vibeke doveva essere in cucina, probabilmente a riempire o svuotare la lavastoviglie.

Si avvicinò di soppiatto alla porta e la sentì canticchiare fra sé, compiacendosi nel riconoscere le parole di Sonnensystem. Glielo avrebbe rinfacciato, all’occasione migliore. Per ora era solo felice di rivederla.

Riuscì ad arrivarle alle spalle senza farsi sentire, e appena lei si risollevò dal cestello della lavastoviglie esclamò:
“Sorpresa!”

Vibeke emise uno strillo acuto, votandosi di scatto, ma non appena lo vide non gli diede nemmeno il tempo di aggiungere qualcosa o sorriderle.

“Kaulitz!” urlò, gli occhi sgranati e luccicanti, gettandogli le braccia al collo. “Bastardo schifoso,” sbottò, baciandolo subito dopo. “Mi hai fatto prendere un colpo!”

Tom le abbracciò la vita, rubandole un altro bacio. Rideva, non poteva farne a meno.

“Ciao, stronza.”

Vibeke profumava di menta. Da quando l’aveva conosciuta, ogni volta che la vedeva aveva un profumo diverso: le piaceva cambiare bagnoschiuma di volta in volta, e a lui piaceva indovinarne il gusto, sentire ogni volta un odore e un sapore nuovo, ma che sapeva sempre di lei.

Essere innamorati era bello, più di quel che aveva sempre voluto credere, e trovava stupefacente che potesse esistere qualcosa di simile. Era indescrivibile la gioia che si poteva provare nell’amare tanto qualcuno che ti amava a sua volta.

Si godette una meritata dose di carezze ed effusioni per un po’, almeno finché lei non iniziò ad avvertire che c’era qualcosa di sospeso nell’aria.

“Kaulitz,” Smise di baciarlo e arretrò di un passo, ancora avvolta dalle sue braccia. “Hai un’aria strana… Cosa c’è?”

Lui chinò la testa, cercando un modo per metterla al corrente dei fatti senza fare scoppiare un finimondo.

Capisci sempre tutto troppo in fretta, tu, pensò. A volte è terribilmente scomodo.

Era impossibile.

Tom la scrutò tentennante mentre se la riavvicinava, già stanco prima ancora di cominciare il discorso.

“Noi due dobbiamo parlare.”

“Cristo, cos’è quel tono serio?” esclamò lei, strabuzzando gli occhi. “Stai per morire? Oddio, hai un cancro!” Si portò le mani alla bocca, sconvolta. “Lo sapevo che dovevamo smettere di fumare, tutti e due! Te l’avevo detto, ti ricordi? Cazzo!”

“Vi, no,” replicò lui, ridendo. Prese una sedia e si sedette, poi la prese per mano e se la fece sedere in grembo. “Niente cancro, né morte imminente… Per ora.”

“Che significa ‘per ora’?” fece lei, sospettosa.

Tom si morse il labbro, cercando nervosamente i suoi occhi. Loro due amavano provocarsi a vicenda facendo apprezzamenti su altri ragazzi o ragazze, ma sempre per gioco. Ora che stavano per arrivare interi mesi di vita assieme a una ragazza del calibro di Kuu, era meglio mettere subito tutte le carte in tavola ed evitare, o almeno cercare di prevenire, spiacevoli disagi.

“Che probabilmente saranno le tue stesse mani ad uccidermi quando sentirai quello che sto per dirti.” Le confessò, tetro.

Vibeke lo fulminò con uno sguardo assassino.

“La stagista della reception alla Universal!” sibilò, nel suo tipico tono da preludio a una sfuriata. “Kaulitz, se te la sei fatta, giuro che ti –”

“No, niente stagista, niente sesso,” specificò lui, cominciando a temere per la propria salute psicofisica. “Si tratta di lavoro.”

“Oh.”

L’espressione ostile di Vibeke si sciolse in un misto di sollievo e delusione. Tom era sicuro che avrebbe adorato poterlo strapazzare per bene con una delle sue scenate di gelosia.

“Se ricordi, ti avevo detto che Benjamin ci ha parlato della possibilità che nel tour di quest’anno saremo affiancati da un gruppo emergente...”

Lei annuì interessata.

“E io la trovo un’idea grandiosa!” approvò. “Sapete già chi sarà?”

Tom inspirò a fondo. Doveva dirglielo, e prima lo avrebbe fatto, più tempo avrebbe avuto per riprendersi dalle conseguenze.

“Ecco, il problema è questo,” disse, pregando che lei la prendesse alla leggera. “Si tratta dei Pristine Blue.”

Cosa?” Come previsto, Vibeke si fece subito saltare la mosca al naso, acquisendo un cipiglio oltraggiato. “Quella starletta vanitosa e strafiga verrà in tour con voi?”

“Con noi, vorrai, dire,” la corresse Tom con delicatezza. “Sei il nostro tecnico delle luci, ricordi? Sarai tra i piedi tutto il tempo, e io praticamente non potrò battere un ciglio senza che tu non lo veda.”

“Quel ‘tra i piedi’ non è un’espressione che mi rassicura, sai?”

Diplomatico, Tom, sii diplomatico e non perdere le staffe, altrimenti ci rimetti qualche estremità fondamentale.

“Non cercare il pelo nell’uovo, adesso.”

Vibeke si imbronciò, ostinata come suo solito.

“Perché mi stai avvertendo, allora?”

“Per evitare che tu faccia scenate inopportune in caso di situazioni ambigue che potresti interpretare male.” Sospirò Tom, che si era divertito a flirtare con Kuu, durante l’incontro all’Adlon, ma senza reale interesse. Tutto ciò di cui aveva bisogno, lo aveva già.

“Sì, vallo a raccontare a qualcuno che non ti conosce!”

“Dai, Vi, non la guarderò nemmeno,” le assicurò, accarezzandole il collo con le labbra, nella speranza di ammorbidirla. “Lo sai che per me esisti solo tu.”

“Piantala di fare il leccaculo, sei un ruffiano senza ritegno!” sbraitò lei, spingendolo via, ma lui non si lasciò intimorire. La conosceva, e quando faceva così era perché la aveva già in pugno.

“Il ruffiano senza ritegno ha tanta voglia di coccole.”

“Ma sta’ zitto!” rise lei, lasciandosi trascinare giù, verso un bacio che, come molti dei loro, era destinato a finire in camera da letto.

Lei e Tom risero insieme in quel bacio, e lui si sentì subito meglio. Era tornato, era a casa, e adesso che aveva detto tutto a Vibeke e che lei l’aveva presa più o meno bene, non gli restava che godersi il bentornato. A tutto il resto avrebbe pensato poi.

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Note: a parte che ci ho messo un tempo vergognoso ad aggiornare, ho poco da dire. stiamo iniziando ad entrare nel vivo della storia, a poco a poco, quindi tra poco sarà tutto più chiaro e (spero) interessante. La prima canzone che appare nel capitolo, come già detto, è Alien dei Tokio Hotel (mai sentiti? Sono bravi! XD). La seconda invece è Happy dei Pristine Blue (leggasi: mia XD).

Ho letto con estremo piacere tutte le vostre immancabili recensioni e tutte, a modo loro, mi hanno fatta sorridere. Ho notato che molte di voi hanno già intuito qualcosa e non nego che mi faccia piacere. ;) Vorrei avere tempo di potermi dedicare a rispondervi singolarmente, ma purtroppo non è così. Se però avevate qualche domanda a cui ancora non ho risposto, non esitate a contattarmi, mi dicono che ho un buon servizio clienti! XD

Per ora vi lascio con la speranza che il capitolo sia stato di vostro gradimento e la solita preghiera di deducare anche solo un minuto a quell’opera di bene che è una recensione. ;)

Alla prossima!

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Capitolo 4
*** Fly Me Away ***


This is all that I can do
I’m done to be me
Sad, scared, small, alone, beautiful
It’s supposed to be like this
I accept everything
It’s supposed to be like this

[That Day, Natalie Imbruglia]

 

***

 

“Buone queste lasagne. Hai usato la ricetta che ti ha dato mia madre?”

“Sì.”

“Sono venute davvero bene.”

“Grazie.”

“Di niente.”

Passò un attimo di silenzio. Georg tagliò un'altra forchettata di lasagne e se la portò alla bocca. Erano veramente buone, ma le mangiava controvoglia. Nicole, seduta di fronte a lui, faceva lo stesso. Emily era a scuola, aveva iniziato le elementari da pochi mesi e non sarebbe rientrata prima del pomeriggio.

“Il tour parte la prossima settimana, vero?” domandò Nicole ad un tratto, senza sollevare gli occhi dal piatto.

“Sì,” rispose Georg. “Il ventidue.”

“Bene.”

Era tutto surreale, troppo quieto e forzato per riuscire a nascondere la patina di disagio che impregnava l’atmosfera. Erano a casa loro, da soli, a pranzare in silenzio nella bella cucina dai mobili in quercia, il sole che entrava quasi con prepotenza dalle finestre, oltrepassando le tendine, illuminando una scena troppo diversa da come sarebbe dovuta essere.

“Quando finiscono le vacanze invernali di Emily?”

Nicole masticò con calma e deglutì, poi prese un breve sorso d’acqua.

“La scuola riapre il ventotto.” Rispose infine, asciutta.

Georg la guardava e si sentiva morire: aveva un colorito spento, ombre scure sotto agli occhi opachi, e gli sembrava più magra dell’ultima volta che l’aveva vista. Non sembrava più la Nicole che aveva incontrato la prima volta. Erano cambiante tante cose da allora, nel bene e nel male.

“Magari potreste riuscire a fare qualche giorno assieme a noi,” le buttò lì, covando una speranza troppo labile per crederci davvero. “Il ventotto siamo ad Amburgo, torneremmo giusto in tempo.”

Nicole sollevò gli occhi, sforzando un sorriso.

Sei ancora tu?, si chiese Georg, reprimendo un sospiro. Cercò in lei una luce che c’era sempre stata, sopravviveva, ma era sempre più fievole, e la responsabilità era solo sua. Sei ancora tu quella che arrossiva ogni volta che mi guardava? Quella che non riusciva a non sorridere ogni volta che la baciavo?

“Posso provare a chiedere qualche giorno di ferie al lavoro.”

Il tempo e la distanza erano elementi difficili da gestire, da sopportare. Con una bambina di mezzo, soprattutto, era complicato tenere in piedi una relazione come la loro. La relativa fortuna era che se non altro la privacy, a Lipsia, era ancora garantita: nessuno era ancora riuscito a scoprire dove loro abitassero, e questo era un bene. Ciò che non era un bene era l’imminente inizio di quello che con ogni probabilità sarebbe stato il loro periodo più complicato e pesante di sempre: il tour. Georg sperava davvero che qualche volta sarebbe riuscito ad averle accanto almeno per un po’.

“A che ora esce Emily?” domandò. Lo sapeva a che ora usciva, ma era comunque uno spunto, seppur inutile, di conversazione.

“Alle quattro.”

“Posso andare a prenderla io, se non ti dà fastidio.”

Nicole gli rivolse uno sguardo stupito.

“Perché dovrebbe?”

Georg sollevò distrattamente le spalle.

“Non lo so. Chiedevo soltanto.”

Nicole rimase ad osservarlo a lungo, sul viso pallido l’espressione stanca di chi si portava troppi pesi dentro.

Discutevano, ogni tanto, di loro e del loro futuro, dei progetti, dei sogni, di tutto quello che una giovane coppia poteva fare della propria vita, ma poi il tempo scadeva, e lui doveva tornare ad Amburgo, o prendere un aereo, o correre a qualche appuntamento per un’intervista, o un servizio fotografico, o un’apparizione in TV, e tutto restava sospeso a mezz’aria, nient’altro che un’idea impalpabile senza fondamenta.

Di quel passo sarebbero rimasti in stallo per anni, prima di poter concretizzare qualcosa, e lui non lo sopportava.

“Georg…”

Nicole si era alzata e aveva aggirato il tavolo per andare da lui. Gli si fermò di fronte, incerta, e lo fissò negli occhi. Era stanca; lui era stanco. Stanchi di tutto.

“Ti prego,” Nicole gli avvolse il collo con le braccia, le sua mani fredde lo accarezzarono. Georg la guidò a sederglisi in grembo e la abbracciò. La ritrovò. “Lo so che stiamo passando un brutto momento,” sussurrò Nicole, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo. “Scusami se faccio così… Ogni volta che te ne vai, Emily non fa che chiedermi quando tornerai, perché non ci porti con te, e io… Non so più come spiegarle…”

Georg non sapeva cosa dire. Non c’era niente che potesse dire, perché non c’era nemmeno niente che potesse fare. Le cose stavano così: lui era una celebrità, aveva due vite da gestire, due mondi da conciliare, e non sempre riusciva a portarne avanti uno senza sacrificare l’altro. Odiava che fosse così, ma non c’era modo di cambiare i fatti. Non c’era.

“Sandberg,” le sussurrò all’orecchio, posandole dolcemente una mano sulla nuca. “Siamo arrivati fin qui, non sarà una crisi passeggera a fermarci. Vero?”

Nicole lo stringeva, ma taceva. Georg, in un angolo recondito del proprio profondo, avvertiva il sentore gelido della consapevolezza di che cosa celasse quel silenzio.

“Sandberg?” insisté però. “Sandberg, guardami.”

Le fece sollevare il viso e la costrinse ad obbedirgli. Nicole aveva occhi lucidi, le labbra serrate. Avrebbe dato l’anima pur di non doverla vedere così. Qualunque cosa.

Qualunque cosa…

“Adesso sistemiamo questa cucina, usciamo a farci una passeggiata e andiamo a prendere la nostra Emily a scuola. Ok?”

Lei annuì debolmente, ma il tentativo di sorriso sulle sue labbra non vide mai la luce.

“Ok.”

“Bene.”

Georg le accarezzò i capelli e la baciò in fronte. Non era finita lì, non era tutto risolto. Sarebbe servito molto di più per mettere ordine nella loro vita, e prima o poi avrebbero dovuto farlo, avrebbero dovuto affrontare tutto, ma non ancora. Era troppo presto.

Un giorno, forse, quando fossero stati abbastanza forti.

Quando ci fosse stata qualche possibilità di non uscirne a pezzi.

 

***

 

Era tutto immobile e silenzioso. Non c’era ancora l’aroma del caffè nell’aria, e nemmeno gli Smashing Pumpkins a suonare dallo stereo nel salotto. Si sentiva solo il profumo freddo della neve che proveniva da fuori e il rumore ovattato delle auto in strada. Aprire le finestre della camera, la mattina, era un po’ come far rientrare il mondo dopo una notte passata nei sogni: un rituale dovuto ma sofferto.

Kaaos doveva essere già uscito. Il sabato, quando erano a casa, scendeva sempre a prendere la colazione al bar all’angolo della via, e quella sarebbe stata l’ultima volta per un lungo periodo.

Kuu si infilò la leggera vestaglia di seta blu notte ed attraversò a piedi nudi il corridoio per raggiungere il bagno, la sua stanza preferita. Lo adorava: era grande, spazioso e luminoso, di un’eleganza semplice ma raffinata, come piaceva a lei. Il marmo che rivestiva il pavimento e le pareti era bianco venato di rosa, impreziosito in certi punti da piccole chiocciole fossili. C’era una vasca da bagno in stile antico al centro, la doccia in un angolo chiusa da una vetrata opaca che ne seguiva la curva, ciotole e vassoi pieni di pietre levigate e conchiglie di ogni forma e colore. La delicata fragranza di mughetto dei bagnoschiuma e delle creme aleggiava su ogni cosa, rendendo tutto familiare, come se fosse stato suo da sempre.

C’era una grande specchiera sul lato opposto alla finestra, accanto ala doccia, sul cui piano giacevano, ordinatamente riposti, diversi mazzi di fiori e qualche candela mai accesa. Lei non accendeva mai le candele: le piacevano intatte, inviolate dal fuoco, che le anneriva e consumava, rovinandole. I cosmetici riempivano le piccole mensole di vetro e i cassetti sul lato sinistro; in quelli sul destro, accessori per la cura del corpo.

Kuu diede un paio di copi di spazzola ai capelli e li aggiustò con le mani, soddisfatta. Da quando aveva deciso di tagliare la lunga chioma bionda era molto più semplice tenerli ordinati. Si passò il tonico sul viso con un batuffolo di cotone, un velo di crema idratante, poi si soffermò a studiarsi. Avrebbe dovuto dare il meglio di sé con il trucco, quella mattina, perché il suo aspetto era ben lungi dall’essere quello fresco e rilassato che avrebbe voluto.

Ancora poche ore soltanto, poi lei e Kaaos sarebbero andati in aeroporto, e tutto avrebbe ufficialmente avuto inizio. Destinazione: Lussemburgo. Avrebbero avuto le prove e il sound-check per tutta la domenica e buona parte del giorno successivo, poi, la sera, avrebbero finalmente inaugurato il tour.

Mentre si truccava con cura, Kuu canticchiava a mezza voce una canzone che le sembrava consona al momento, anche se erano anni, ormai, che aveva smesso di seguire gli Evanescence.

Sto guardando nello specchio da così tanto tempo che inizio a credere che la mia anima sia dall’altra parte…

Si stava dando gli ultimi ritocchi, quando sentì la porta dell’ingresso che si apriva e si richiudeva. E allora arrivò l’aroma del caffè, e gli Smashing Pumpkins si accesero dello stereo. Muzzle. La preferita di Kaaos. Quella che preferiva lei, invece, era Stand Inside Your Love, ma lui non la metteva spesso.

Una manciata di secondi più tardi Kaaos apparve sulla soglia del bagno, vestito di tutto punto, il viso ancora arrossato dal freddo.

“Buongiorno.” lo salutò Kuu, continuando a sfumarsi la cipria sul viso.

“Buongiorno.” Ricambiò lui, avvicinandosi per posarle un bacio sulla tempia. “Come ti senti?”

“Nervosa.” Rispose lei, riponendo il pennello nel cassetto, per poi recuperare il phard e darsene una rapida spolverata sugli zigomi. “E eccitata. Un po’ spaventata,” aggiunse, mentre lui si appoggiava a sedere sul solido ripiano di marmo della specchiera. “Ma tutto sommato bene.”

Kaaos restò in silenzio a osservarla mentre prendeva un paio di orecchini a goccia e se li infilava senza considerarlo.

“Hai preso le tue pastiglie?” le chiese Kaaos a un tratto.

Lei negò.

“Ho già messo tutto in valigia.”

“Kuu…” fece allora lui, con quel suo solito tono di paziente rimprovero.

“Non ci ho pensato!” si difese Kuu. “Non morirà nessuno se per una volta –”

“Forse ne ho io qualcuna nella borsa.” la interruppe lui, alzandosi.

“Tu hai le mie pastiglie nella tua borsa?”

“Sì, e adesso te le vado a prendere, così poi possiamo fare colazione.”

“D’accordo.” Sospirò lei, voltandogli le spalle per uscire in fretta dal bagno. “Io intanto mi vado a vestire.”

Le ci vollero dieci minuti per scegliere cosa mettersi, anche se si era già scelta qualcosa la sera prima. Sostituì la gonna a portafoglio nera con un paio di jeans, si abbottonò la camicetta bianca e si costrinse ad allontanarsi dal guardaroba. Trovò Kaaos in cucina, già seduto di fronte a un cappuccino fumante e due croissant. Kuu gli sedette di fronte; accanto al suo caffè c’erano pronte le solite tre pastigliette e un bicchiere d’acqua. Kaaos prese di cappuccino e sollevò lo sguardo su di lei. Kuu recepì il messaggio: afferrò le tre pastiglie e le ingoiò aiutandosi con un po’ d’acqua, poi si voltò verso Kaaos il quale si limitò a distogliere lo sguardo, soddisfatto.

“Mi ha chiamato Griet mentre ero fuori.” Le comunicò. “Ho detto che lei e Luke arrivano verso l’una.”

“Quindi dovremo essere pronti minimo per mezzogiorno.”

Kaaos rise.

“Anche prima.”

Alla fine il giorno era arrivato. A Kuu non era mai sembrato vero, e tuttora non aveva ben metabolizzato quanto stava per accadere. Aveva sognato così a lungo di poter andare a suonare all’estero che le sembrava impossibile che fosse vero.

“Come credi che sarà questo tour?”

“Quantomeno interessante, direi.” Kaaos sorrise furbamente. “Hai sicuramente fatto colpo.”

“A me non sembra proprio.” Replicò Kuu, scettica.
“Tom non ti ha tolto gli occhi di dosso mezzo secondo.” Puntualizzò allora Kaaos, con uno sguardo strano. Kuu intuì immediatamente le sue congetture e preferì smorzarle sul nascere.

“È solo un buffone esibizionista.”

“Bill invece mi è parso piuttosto intrigato dalla tua insolenza.”

Stavolta Kuu si soffermò a riflettere su quell’affermazione, perché, sì, in effetti aveva notato anche lei un atteggiamento ambiguo da parte di Bill, a metà tra l’oltraggiato e il compiaciuto. Impossibile dire che cosa avesse realmente pensato, ma sicuramente qualche punto a proprio favore Kuu lo aveva segnato.

“Sono sicura che stesse quasi sorridendo quando ci siamo stretti la mano.”

Un angolo delle labbra di Kaaos si sollevò con un debole fremito irriverente.

“Anche tu, se è per questo.”

Un flashback attraversò repentino la mente di Kuu: una mano esile e fredda; occhi nocciola, caldi, sensuali; labbra morbide; un sorriso.

Sì, aveva sorriso anche lei, in risposta.

Perché è quello che avrebbe fatto chiunque.

“Mi veniva da ridere perché è alto il doppio di me.” Si giustificò. “Ed è così magro…”

“Senti chi parla.” Sbuffò Kaaos. “Georg sembrava molto sulle sue, vero?” proseguì poi, dopo una pausa pensosa. “Peccato, perché contavo su di lui come elemento di socializzazione. Mi sembra il più accomodante dei quattro.”

“Tra tutti, là in mezzo, ‘accomodante’ è l’ultimo termine che userei.” Le bruciava ancora il solo pensiero: si era sentita sgradevolmente sottovalutata da tutti loro. “Il solo scopo di quest’umiliazione della band di supporto è costruirci una fama all’estero.”

“Smettila di considerarla un’umiliazione.” L’ammonì Kaaos per l’ennesima volta. “Ti rendi conto che c’è chi darebbe qualsiasi cosa per essere al nostro posto?”

“E tu ti rendi conto che suoneremo davanti a un pubblico che non vedrà l’ora di vederci sparire per poter sentire suonare qualcun altro?”

“È il tour dei Tokio Hotel, non il nostro. Sta a noi farci apprezzare.”

Indispettita, Kuu incrociò capricciosamente le braccia e si abbandonò contro lo schienale della sedia.

“Non c’è peggior cieco di chi non vuole vedere.”

Kaaos emise una breve risata gutturale.
“Suona quasi divertente, detto da te.”

Lei lo gelò con un’occhiata astiosa. Non si sarebbe mai stancato di punzecchiarla con battutine e allusioni.
“Hai voglia di litigare di prima mattina?” sbottò, accavallando le gambe.

Lui sorseggiò pacificamente il suo caffè, chinando rispettosamente il capo.

“No, ci mancherebbe.”

Era un bene che la discussione si fermasse lì. Partire per un tour con i nervi già frementi sarebbe stato un pessimo preludio.

 

***

 

La pace interiore era un sentimento che a Tom era sempre stato sconosciuto. Un po’ perché la sua giovane età non prevedeva sentimenti di quel tipo, ma, anzi, di tutte le avventure e i turbamenti possibili, un po’ perché, anche volendo, non aveva mai avuto modo di cercarla. Quella mattina, tuttavia, era quella la precisa sensazione che provava dentro di sé: pace. Pace assoluta.

Era contento, per tutto e per niente. L’album stava vendendo bene, anche dopo più di sei mesi dall’uscita, e la maggior parte delle date del tour erano già sold out da un pezzo. Sarebbe stato un tour diverso da tutti i precedenti, ed era anche strano da dire: avevano vent’anni e già tre tournée alle spalle, più una quarta imminente. Non era cosa da tutti.

Lui e i ragazzi avevano da poco passato i controlli alla security e ora si erano accomodati in una saletta a rivestirsi. Ovviamente i due che più avevano avuto difficoltà a passare erano stati Bill e Vibeke: tra piercing, borchie e catene varie, ci avevano messo quasi dieci minuti a testa a liberarsi di tutto, ma Tom a volte aveva il sospetto che certe volte la polizia degli aeroporti ci prendesse gusto a far spogliare la gente.

“Kaulitz, dammi una mano!”

“Tomi, non riesco a chiudere la lampo degli stivali!”

Tom si voltò con un sospiro: Bill era seduto su una delle poltrone ed armeggiava ostinatamente con la chiusura dell’anfibio sinistro; al suo fianco, Vibeke stava tentando di infilarsi una sfilza di bracciali tutti insieme, mentre un mucchietto di collane e anelli le giaceva ancora in grembo.

“Aspetta,” intervenne Gustav, inginocchiandosi di fronte a Bill. “Ti do una mano io.” Gli bastò mezzo secondo per chiudere la zip dello stivale, quando Bill in cinque minuti non era nemmeno riuscito a smuoverla di un centimetro.

“Meno male che ci sei tu, Gud.” Cinguettò Vibeke, in un odioso sfarfallio di ciglia più civettuolo che mai. Gustav si limitò a sorriderle.

“Kaulitz, me la dai una mano o no?” insisté Vibeke, girandosi a cercare Tom, le mani intente ad allacciare un polsino.

“Arrivo, amore.” Sbottò Tom, raggiungendola. Lei gli appioppò un’occhiataccia di rara minacciosità; lui sghignazzò, posizionandosi alle sue spalle. Si chiamavano ‘amore’ solo ed espressamente per darsi sui nervi; odiavano entrambi quel tipo di appellativi.

Tom la aiutò a rimettersi addosso tutti quei quintali di roba inutile, ma non senza trovare il modo di trarne un certo piacere personale: le sfiorava il collo nudo, le spalle, le braccia, il lati del viso, e lei, testarda, faceva finta di niente, quando la pelle d’oca sui suoi avambracci scoperti tradiva la sua soddisfazione.

“Guarda che è perché fa freddo.” Sbuffò Vibeke, guardando in su. Tom restò con il sogghigno di prima congelato sulle labbra: ancora non si era abituato a sentirsi leggere nel pensiero da qualcuno che non fosse suo fratello.

Ad un tratto, un’esplosione di urla isteriche, molto simile a quella che aveva accolto loro non molto minuti prima, preannunciò efficacemente ed inequivocabilmente l’arrivo dei Pristine Blue. Da lontano, appena oltre la barriera di metal detectors, Tom individuò una piccola folla accalcarsi lungo i nastri che delimitavano lo scorrimento della coda per l’ingresso al gate. Molto persone si voltarono a guardare il curioso fenomeno per la seconda volta, in quella pomeriggio. Seguiti da ondate di flash e urla, i Pristine Blue avanzavano affiancati dalle loro guardie del corpo, la loro manager davanti a guidarli. Tom notò distintamente i pennarelli che Kuu e Kaaos ancora tenevano in mano. Con una punta di amarezza, si rese conto che lui e i ragazzi ormai non si fermavano quasi più a firmare autografi, tra aeroporti e hotel.

Man mano che il gruppetto si avvicinava e le persone che passavano nel mezzo furono scomparse, la visuale divenne più chiara e Tom ebbe finalmente modo di squadrare approfonditamente i nuovi arrivati. Nonostante fosse così minuta, la figura sinuosa di Kuu era quella che più attirava l’attenzione, e suscitava anche una certa soggezione. Camminava in modo disinvolto, come se il mondo circostante esistesse appositamente per farle da cornice, gli spessi tacchi degli stivali neri che ticchettavano sul marmo del pavimento ad ogni suo superbo passo. Portava occhiali da sole in controtendenza, sottili e squadrati, l’emblema D&G ben visibile sui lati. Vintage, probabilmente. Il corto cappottino bianco le fasciava il corpo asciutto, una leggera sciarpa di cachemire rosa antico ad avvolgerle morbidamente il collo. Portava una grossa borsa di pelle nera al braccio, con una vistosa fibbia argentata che aveva tutta l’aria di ricalcare il logo dei Pristine Blue; c’era una scritta incisa sulla lustra placca di metallo fissata sul lato, ma Tom non riuscì a distinguerla. A braccetto con lei, Kaaos, che le camminava accanto con aria annoiata, vestito di nero da capo a piedi, ad eccezione della sciarpa bianca. Sembravano in tutto e per tutto una coppia.

Tom notò subito l’occhiata densa di disprezzo che Vibeke lanciò a Kuu. Sentì anche le sue dita serrarsi più saldamente attorno alla propria mano, quasi a voler rimarcare il proprio possesso su di lui e richiamarlo all’ordine prima ancora che lui potesse dire, fare o anche solo pensare la cosa sbagliata.

Ma Tom se la rideva segretamente sotto i baffi, perché era ben lungi dal commettere mezza di quelle cose, solo che non aveva alcuna intenzione di rassicurare Vibeke in merito, primo perché lei non gli avrebbe comunque creduto, secondo perché adorava vederla giocare alla predatrice possessiva.

Lui, che aveva sempre rifuggito qualsivoglia tipo di legame sentimentale, aveva da poco scoperto il sottile, imprevedibile piacere di sentire di appartenere a qualcuno.

“Cazzo se è gnocca.” Fu un commento che non seppe proprio risparmiarsi. “Vi, ci lasciamo per qualche giorno? Non mi dispiacerebbe fare qualcosina con lei.”

Anziché infuriarsi, Vibeke si voltò verso Gustav con un’aria trionfante:
“Gud, hai sentito? Per qualche giorno non dovremo più nasconderci.”

“Oh, che bella notizia!” rise lui.

“Fottetevi, tutti e due!” grugnì Tom.

“Parlavamo proprio di quello.”

Era parecchia la gente che, vedendo passare i Pristine Blue, si fermava a guardarli, e forse non era tanto per il fatto che fossero accompagnati da due omaccioni vestiti di nero, ma piuttosto perché sembravano entrambi appena usciti da un servizio di moda su Vogue. Kaaos e i suoi zigomi alti, gli occhi neri, i capelli sciolti sul collo, la sua eleganza distratta; Kuu e la sua superbia, il mento sollevato, l’incancellabile broncio sulle labbra lucide, la mano piccola e curata che si sollevava e sfilava gli occhiali da sole con apparente incuranza: era come se avessero dei riflettori costantemente puntati contro di sé. Il loro stile era nettamente più discreto rispetto a quello di Bill, eppure non erano meno appariscenti di lui.

“A letto secondo me è una furia.” disse Vibeke sottovoce, osservando Kuu con ho sogghigno malizioso.

“Be’, tanto nessuno di noi lo scoprirà.” Ribatté Bill. La osservava con l’interesse, l’ammirazione e il gusto di un critico di fronte a un’opera d’arte di fattura particolarmente pregevole, ma con un accenno di diffidente scetticismo. “Quella per me non la darebbe nemmeno a Brad Pitt.”

“Ragazzi, tagliatevi la lingua!” li ammonì Benjamin, severo. “Comportatevi come si deve, non fatemi fare figuracce.”

“Benji, se non volevi correre rischi, dovevi scegliere una talentuosa racchia.”

“È quello che ci siamo detti io e David due anni fa, ma evidentemente siamo recidivi.” Rispose, scambiando un’occhiata con Georg e Vibeke. Lei sorrise; lui chinò la testa e si allontanò senza una parola.

Tom lo seguì con uno sguardo carico di compassione.

Ti mancano, vero?

“Buongiorno.”

Il saluto carezzevole di Kaaos lo fece voltare: si ritrovò così a fronteggiare due corpulenti bodyguard, un paio di metri avanti a sé. Uno, con penetranti occhi azzurri, lo aveva già visto; l’altro, un biondo alto e massiccio dalla mandibola squadrata, era una faccia nuova. Accanto a loro, Kaaos, che stava stringendo la mano a Benjamin, mentre Gustav e Bill la stringevano a Kuu e Griet.

“Andiamo a dare il benvenuto ai principini.” Gli sussurrò Vibeke all’orecchio, passandogli avanti. Ancheggiò a passo spedito verso Kaaos, che le sorrise e le strinse calorosamente la mano. Si voltò per un attimo verso Tom con un’espressione provocatoria; Tom scosse la testa e sorrise a sé stesso, incamminandosi per raggiungerli. Accolse tutti con un sorriso educato e qualche parola di circostanza. Quando Kuu sollevò lo sguardo su di lui, furono due specchi di ghiaccio color miele a squadrarlo critici.

Tom si chiese chi fosse veramente quella ragazza: i suoi colori erano caldi – i capelli biondi, gli occhi di quell’inspiegabile colore ambrato, la pelle dorata da un velo di abbronzatura – e completamente opposti a quelli di Vibeke. Tutta la sua persona, anzi, sembrava ricalcare perfettamente un’ipotetica nemesi di Vibeke: l’una piccola e magra, l’altra alta e formosa; elegante e altezzosa la prima, alternativa e semplice la seconda. E per quanto Vibeke amasse essere scura e metallica, emanava un’aura di calore umano che in Kuu sembrava essere completamente assente.

I saluti furono brevi e sbrigativi. Presto un paio di addetti dell’aeroporto giunsero ad accompagnarli all’imbarco prioritario.

“Ed eccoci qui.” Mormorò Kaaos, mentre una hostess li accoglieva e si occupava di controllare le loro carte d’imbarco e confrontarle con i documenti d’identità.

“Sembra più emozionante di quel che è in realtà,” gli disse Bill. “Tra una settimana ti sembrerà già tutto ordinaria amministrazione.”

A Tom fece male sentirlo pronunciare quelle parole così intrise di disillusione.

Non era sempre stato così. C’era stato un tempo in cui Bill aveva guardato a tutta la loro vita da musicisti di successo come a un sogno realizzato, una porta aperta su un futuro brillante, e adesso invece sembrava essersi svuotato di tutto l’entusiasmo di una volta. Era sempre il solito Bill, capriccioso e fiero della propria posizione, ma in quegli anni, volente o nolente, era stato costretto a crescere, e quella maturazione, seppur relativa, aveva portato con sé anche la consapevolezza che la carriera richiedeva sacrifici che all’inizio non erano stati messi in conto, per la semplice ragione che tutti loro, all’epoca, erano stati troppi piccoli per poter anche solo pensare ad aspetti che invece adesso sembravano improvvisamente fondamentali, come la felicità che solo le piccole cose sapevano dare, e il bisogno di sentirsi appagati da qualcosa di più di un lavoro perfetto. Solo ora che c’erano dentro, si rendevano conto di quello che avevano lasciato fuori.

Ma per Tom era difficile mettersi nei panni di Bill, o di Gustav, capire veramente il loro senso di solitudine, o comprendere la frustrazione nostalgica di Georg. Lui Vibeke la aveva sempre con sé, per qualsiasi cosa, e fin troppo spesso dimenticava quale fortuna fosse una cosa simile. Nel bene e nel male, Vibeke era sempre con lui, e questo, assieme a suo fratello e ai suoi amici, faceva sì che lui disponesse sempre e comunque di tutto ciò di cui avesse bisogno.

“A dire la verità il brivido della performance non morirà mai,” soggiunse Gustav. “Sono solo i continui spostamenti che dopo un po’ annoiano, ma il resto… Be’, non ti stancheresti mai di viverlo.”

C’era sempre quel velo di impalpabile tristezza nei suoi occhi. Nessun sorriso riusciva a nasconderlo.

“Vorrei ben vedere,” si intromise Kuu, mentre la hostess le restituiva i documenti e la invitava a passare. “Facciamo una vita che la maggior parte della gente si sogna soltanto… Avremmo una gran bella faccia tosta ad andare a lamentarcene.”

Un lampo di rabbia balenò negli occhi stanchi di Bill.

“Tu non hai idea di quello che ti aspetta.”

Lui, in effetti, si era lamentato più volte, e nemmeno troppo implicitamente, della propria situazione. Nessuno – Tom men che meno – sarebbe stato così ipocrita da dire che Bill fosse infelice, ma ciò non significava che lui fosse felice.

“Nessuno ti obbliga a fare la rockstar.” Ribatté Kuu, con una spietatezza che Tom non si sarebbe aspettato. “Sei libero di lasciar perdere tutto quando ti pare, se la bella vita ti va stretta. Dopo tutto l’impegno che ci hai messo, sarebbe solo un vergognoso spreco.”

Lasciò tutti attoniti. Bill non le rispose, ma fece una faccia pietosa che sembrava dire ‘Te ne accorgerai’.

Mentre camminavano lungo il corridoio che conduceva all’aereo, Tom prese la mano di Vibeke e la strinse nella propria. Lei dissimulò un sorriso, voltandosi a guardare il cielo plumbeo fuori dalle vetrate.

“Stiamo partendo…”

“Sì,” gli fece eco lei. “Stiamo partendo.”

Il loro primo viaggio insieme. Tom si sentiva entusiasta come un bambino. C’erano un’infinità di cose che non vedeva l’ora di fare con lei: i brindisi post concerto, le nottate alla Playstation, le ore trascorse a prepararsi nel backstage…

Sarebbe stato tutto diverso, ora che c’era lei. Ma se da un lato l’egoismo diceva a Tom di essere felice della propria felicità, dall’altro l’affetto verso Bill e i propri compagni non gli lasciava troppo spazio per crogiolarsi nell’autocompiacimento, perché, sì, lui stava bene, ma loro no. E chissà se mai sarebbe arrivato il giorno in cui tutti loro, insieme, si fossero sentiti in pace.

 

***

 

Stavano davvero partendo.

Entro un paio d’ore, lei e Kaaos sarebbero davvero arrivati in Lussemburgo. Non era mai stata all’estero, prima. Nemmeno in patria aveva viaggiato poi molto, a dire il vero, perché le finanze in casa sua erano sempre scarseggiate, e così, mentre i suoi compagni di scuola – Kaaos incluso – d’estate partivano per qualche vacanza studio in Gran Bretagna o in Francia o in Italia, lei se ne stava a casa a studiare, a fare qualche lavoretto saltuario, a sognare una vita che adesso, inaspettatamente, aveva ormai tra le mani e che ciononostante guardava ancora con stupore e incredulità.

Era una star. Ce l’aveva fatta davvero, alla fine. I suoi sacrifici erano valsi qualcosa.

Kuu si voltò indietro appena prima di varcare la soglia dell’aereo. Dietro di lei, la Germania la salutava bagnata da una pioggia impalpabile. Tutta la sua vita era sempre stata lì, racchiusa tra quei confini: nata e cresciuta in terra tedesca, e aveva sempre creduto di essere destinata a morirci. Adesso, invece, la attendeva la più grande svolta che si potesse immaginare, e tutto non era più lì, alle sue spalle, ma davanti.

Stava per partire. Avrebbe viaggiato, sarebbe andata lontano. Lontano dalle proprie radici e dalla propria storia. Lontano da un mondo che le era sempre andato stretto.

Lontano dal passato e dai limiti di una volta.

Lontano da sgradevoli ricordi, verso esperienze nuove, verso il successo.

Lontano da tutto.

Lontano da me stessa?

Con un sospiro, Kuu voltò la schiena a tutto ciò che aveva sempre conosciuto ed entrò nella cabina.

Lontano da sé stessa… No, quello mai.

 

***

 

PRISTINEBLUE.DE presents: Kuu & Kaaos’ Tour-log – DAY 0

TODAY’S THE DAY

 

Hello there, folks, it’s Kuu here!

We are pleased and proud to start this tourblog on such a special day! As all of you must already know, tomorrow, here in Luxemburg, we’re kicking off the opening date of Tokio Hotel’s Welcome To Humanoid City Tour 2010 and we’re so excited! There’s going to be like 10.000 of you at the venue tomorrow night and we sure hope you all have fun with us!

We’ve been doing rehearsals for two days now and I must admit we’re quite tired, but also super impatient! We’re looking forward to performing, it’s our very first time live in a real concert and that’s quite an experience, don’t you think? ;)

Gazillions of you sent us emails and messages asking what it’s like to be rocking around with Tokio Hotel. Well, I can tell you that Kaaos and Georg might be getting married any moment now (much to Georg’s girlfriend’s disappointment! =3 ), since they seem to have a lot in common and immediately agreed on a night out partying right after today’s duties. Crazy, I know. I’ll do my best to survive it. ;) As for the other guys, we haven’t had a real chance to socialise, yet, but they all seem very nice boys. And, man, Bill is really tall and thin, in person! Impressive, believe me! But he’s a cutie, indeed.

We also have an important announcement to make for you fans from Italy, France and Spain: keep your eyes well open, guys, ‘cause we have something wicked in store for you! Don’t forget to check out www.pristineblue.de and www.pristinebluefans-official.com next week for more info! And for those of you who are not from any of the cited countries: no worries, there is more coming soon for you, too!

Now I think it’s time for me to go and get ready: we’re having an interview for Bravo in minutes and then… tomorrow the big show, finally!

See you all very soon! We’ll be back tomorrow with a new entry and a detailed report about the concert!

 

Lots of love to everybody! <3

 

Kuu

 

 

Posted by: Kuu; on Sun, 21st Feb 2010 @ 20.43

 

 

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Note: lo so, lo so, gente, mi merito una crocefissione completa di lapidazione pubblica! So che un mese e mezzo è un tempo di aggiornamento deplorevole, ma sono stata funestata da una serie di sfortunati eventi (qualcuno sa cosa intendo ^^), quindi non mi sono proprio potuta dedicare alla mia amata scrittura. Ma eccomi qui, finalmente! Prometto che dal prossimo capitolo in poi si comincerà ad entrare nel vivo della storia e a vedere qualcosa di più interessante di tutte queste pappardelle introduttive. Come avrete notato, ho scelto di mettere il primo di una serie di post del blog dei PB in inglese: mi sembrava di dare un tocco di realismo all’idea. Spero sia stato efficace. ^^

Ringrazio di cuore le 51 persone che finora hanno aggiunto la storia tra le seguite, le 106 che la hanno tra le preferite e le 162 che mi hanno eletta a uno dei loro autori preferiti, ma soprattutto a tutte voi che avete commentato lo scorso capitolo! Vi adoro! Ora, come regalo di Natale ritardato, la vostra Mary adorerebbe sapere cosa ne avete pensato di questo capitolo dall’interminabile gestazione. Mi fareste davvero molto felice. :) Ovviamente, se avete domande, non esitate a chiedere e vi sarà risposto! ;)

Per adesso vi auguro, anche se in ritardo, un Buon Natale e un felice 2010! Al prossimo anno con un nuovo capitolo! <3

P.S. vi aggiungo qua sotto la traduzione del post di Kuu nel blog:

OGGI è IL GIORNO

Ciao, gente, sono Kuu!

È con piacere e orgoglio che iniziamo questo tour-blog in un giorno così speciale! Come tutti voi sicuramente saprete, domani, qui in Lussemburgo, inaugureremo la data d’apertura del Wolcome To Humanoid City Tour 2010 dei Tokio Hotel e siamo così eccitati! Sarete circa 10.000 all’arena domani sera e di certo speriamo che vi divertirete tutti assieme a noi!

Abbiamo provato per due giorni e devo ammettere che siamo abbastanza stanchi, ma anche super impazienti! Non vediamo l’ora di esibirci, è la nostra primissima volta live in un vero concerto e non è un’esperienza da poco, non credete?

Un sacco di voi ci hanno mandato email e messaggi chiedendo com’è fare musica con i Tokio Hotel. Be’, vi posso dire che Kaaos e Georg potrebbero convolare a nozze da un momento all’altro (per somma delusione della ragazza di Georg! =3), visto che sembrano avere molto in comune e hanno immediatamente deciso di uscire a festeggiare dopo i doveri di oggi. Folle, lo so. farò del mio meglio per sopravvivere. ;) Per quanto riguarda gli altri ragazzi, non abbiamo ancora avuto una concreta occasione di socializzare, ma sembrano tutti ragazzi molto simpatici. E, accidenti, Bill è davvero alto e magro di persona! Impressionante, ma è davvero dolce!

Abbiamo anche un annuncio importante per chi di voi viene da Italia, Francia e Spagna: occhi aperti, ragazzi, perché abbiamo qualcosa di molto speciale in serbo per voi! Non dimenticate di controllare www.pristineblue.de e www.pristinebluefans-official.com la prossima settimana per maggiori informazioni! E per coloro che non vengono dai paesi citati: non preoccupatevi, c’è altro per voi!

Ora penso sia ora di andare a prepararmi: abbiamo un’intervista per Bravo tra pochi minuti, e poi… Domani, il grande show, finalmente!

Ci sentiamo prestissimo! Torneremo domani con un nuovo post e un rapporto dettagliato del concerto!

 

 

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Capitolo 5
*** World Within My Wall ***


Where do you go when you’re lonely?
Where do you go when you’re blue?
Where do you go when you’re lonely?
I'll follow you

(When The Stars Go Blue, The Corrs)

 

***

Sfoglio i miei giorni all’indietro pensando a uno sguardo.
Ci sono cose che cambiano
Senza sembrare diverse.
Tremo, e nella mia mano un sussurro spento. Non conosco il volto che mi cerca nel buio.
Tramonta al contrario questo sole senza luce che mi è entrato nell’anima.
Nascere
Patire
Esistere senza vivere
Morire.
Forse le luci non sono la via.
E tu, che mi guardi senza parlare… Chi sei?

 

***

 

Non erano diecimila persone.

Il rumore di tutte quelle voci mischiate non le era nuovo, ma  era diverso sentirlo da lì. Le altre volte che aveva sentito una folla urlare, era stata nel mezzo, non su un placo. Era stata lei a urlare, le altre volte. Adesso, urlavano per lei.

Ed era come se ci fosse un oceano ai suoi piedi. Un oceano con infiniti volti, infiniti colori, che pulsava febbrilmente in perfetta sintonia con i battiti accelerati del suo cuore.

No, non erano diecimila persone. Erano diecimila scintille di vita.

E Kuu lo sapeva che quegli applausi e quelle grida calorose non erano tutti per lei, ma solo in esigua parte. Lei e Kaaos erano lì per fare da contorno, per riscaldare l’atmosfera in preparazione al vero, grande evento. Eppure era soddisfatta di sé, perché quella sera, per la prima volta, aveva guardato giù da un palco e aveva visto ciò che aveva sempre accarezzato nei suoi sogni: tra le miriadi di cartelli e striscioni dedicati ai Tokio Hotel – ‘Bill, ti amo!’, ‘Georg & Tom, sposate noi!’, ‘Tokio Hotel, you’re Too Hot!’, ‘Sei il mio angelo, Gustav!’, e una lunga serie si slogan affini – se ne potevano scorgere alcuni dedicati anche ai Pristine Blue. Non molti, certo, ma un discreto numero, considerato che era la prima volta che suonavano a Lussemburgo.

Quello che più le piacque, che la colpì maggiormente, inorgogliendola, fu il cartellone che reggeva un ragazzo delle prime file, nero scritto di bianco, che diceva ‘Kuu, la tua voce mi ha salvato la vita’.

Sarebbe servito del tempo prima che i Pristine Blue potessero raggiungere la popolarità dei Tokio Hotel, ma ce l’avrebbero fatta, Kuu non aveva dubbi in merito.

Si sentiva potente, lì sul palco, con il suo microfono in mano, a guardare dall’alto un tappeto sterminato di persone che sembravano apprezzare lo spettacolo finora offerto.

Kaaos le si avvicinò sfiorando le corde della sua Fender mentre lei accennava alle battute finali di Angel of Fame:

Don’t fly, so you won’t fall…

Hide, so you’re safe from the world…” le fece eco lui, accostandosi al lei al microfono.

I long for your tears…

Your smile is so cold…

Alone with your dreams, broken wings to unfold…

La musica si spense su quell’ultima frase cantata insieme. Fu quello a ricordare a Kuu che la loro esibizione era conclusa. Nonostante fosse la prima data e fosse andata così bene, questa consapevolezza la fece sentire stranamente vuota.

“Grazie!” esclamò automaticamente, rivolgendosi al pubblico applaudente con un piccolo inchino. Kaaos fece lo stesso. “Grazie a tutti!” Urla, applausi, anche qualche fischio, accuratamente ignorato. Non le importava delle invidiose. “Buon proseguimento!”

Un boato di urla esaltate esplose nell’arena. Mano nella mano, lei e Kaaos si inchinarono e ringraziarono, rimasero a salutare per qualche secondo, come Griet aveva detto loro. Raccolsero qualche peluche, poi ringraziarono e salutarono ancora, infine lasciarono lo stage. Kuu si sentiva le mani gelide.

Quando arrivarono nel backstage, Griet corse subito da loro per complimentarsi.

“Meravigliosi, ragazzi! Sono senza parole! Sono così orgogliosa di voi!”

Li strinse in un vigoroso abbraccio. Kaaos sorrideva compiaciuto, la chitarra ancora a tracolla. Kuu si infilò in fretta la felpa che aveva lasciato in un angolo prima della performance e prese il caffè che uno dei tecnici le aveva portato. Faceva un freddo incredibile, non se n’era accorta, finora.

“Te lo scordi!” urlò in quell’istante una voce femminile. Kuu si voltò incuriosita: dalla porta che conduceva ai camerini erano appena piombati in scena Tom e la sua ragazza. Le loro espressioni parlavano chiaro: scocciata quella di lui, incandescente quella di lei. Erano decisamente sul piede di guerra. Degli altri tre membri dei Tokio Hotel, invece, ancora non c’era traccia.

“Vi, dai! Sarà divertente!” la esortò Tom, con un tono accomodante che però la lasciò completamente indifferente.

Vibeke, infatti, truccata in un modo che Kuu trovava piuttosto volgare, si ravviò capricciosamente i lunghi capelli bianchi e neri.

“Nemmeno per sogno! Fattelo da solo, questo cazzo di servizio fotografico!”

“Ma così non avrebbe senso!”

“Non me ne frega niente, non ci voglio finire su un giornale!”

Il volume delle voci si alzava progressivamente, ma nessuno dello staff sembrava badarvi. Sembrava si trattasse di ordinaria amministrazione per tutti.

“Ci sei già finita un sacco di volte!” stava protestando Tom, stringendo i pugni come se stesse lottando contro la voglia di picchiarla. Lei, però, sapeva come tenergli testa:

“Sì, ma non certo per mia spontanea volontà!”

“Ver so god!” (“Per favore!”)

Kuu non capì quella risposta.

“Nei!” (“No!”)

Doveva essere una lingua nordica. L’aveva letto da qualche parte che Vibeke era straniera.

“Jeg kjenner som du elske meg und kan gjøre det for meg!” (“Io lo so che mi ami e che per me lo puoi fare!”)

“Questa te la sei fatta fare da BJ!”

“Ok, confesso, ma –”

“No! No, no, no e ancora no! Te l’ho detto mille volte: tu in pasto ai media, io dietro le quinte, cazzo!”

“Ma la gente ormai ti conosce!”

“E allora perché devo fare questo maledetto photoshoot con te?!”

“Perché sei mia e siccome è un articolo su di noi, mi hanno chiesto se potevi esserci anche tu!”

“Allora rispondi pure a chicchessia che non ci sarò.”

L’espressione di Tom si fece improvvisamente scura e rassegnata, quasi dolente.

“Va bene,” mugugnò tra i denti, voltandole bruscamente le spalle. “Fa’ come ti pare. Come al solito.”

Tom si accese nervosamente una sigaretta e se la portò alle labbra, allontanandosi. Vibeke lo ignorò del tutto.

Nel medesimo istante in cui Tom scompariva burrascosamente giù per le scale, Bill fece capolino nel backstage, fiero e impettito nel suo completo nero disegnatogli praticamente addosso. I loro sguardi si incrociarono per un interminabile attimo. Kuu reggeva ancora in mano il proprio microfono. Un tecnico le stava sistemando sulle spalle un asciugamano. stava per distogliere lo sguardo, infastidita, quando, stupita, si accorse che l’espressione distaccata di Bill si era appena ammorbidita in un vago accenno di sorriso.

Le fece un effetto strano. L’adrenalina che le era rimasta in corpo dopo l’esibizione sembrò dissolversi in quell’istante, sostituita da un improvviso senso di tiepido torpore.

“Su, togliamoci di qui, stiamo intralciando.”

Kaaos le avvolse le spalle con un braccio e la condusse via. La crew dei tecnici si stava già affaccendando per preparare il palco per i Tokio Hotel. Kuu si voltò per cercare di nuovo gli occhi di Bill, ma lui si era messo in un angolo, rifugiato dietro un paio di occhiali da sole, mentre Ebel gli parlava di chissà cosa.

Cinque minuti più tardi, Tom ritornò, ancora scuro in volto, stavolta accompagnato da Gustav e Georg. Erano tutti pronti per lo spettacolo. Kuu vedeva l’eccitazione nei loro occhi, fomentata dalle urla provenienti dal pubblico. Vedeva l’ansia e la voglia di cominciare. Trovava un pezzo di sé in ognuno di loro: nell’alterità di Bill, nell’indifferenza di Tom, nella rigidità di Georg, nell’alienazione di Gustav.

Vedeva se stessa in loro.

Riconosceva se stessa in quattro sconosciuti.

E questo, almeno per lei, non era normale.

 

***

 

“Quella stronza! Quella  stronza, stronzissima stronza!”

“Tom…”

“Io la mollo! Giuro che questa è la volta buona che la faccio finita!”

“Tom…”

“Ma l’avete sentita?! ‘Te lo puoi ficcare dove dico io, il tuo photoshoot!... Dio, è insopportabile!”

Gustav sospirò per la millesima volta, quella sera. Era da prima dell’inizio del concerto che Tom non faceva che lamentarsi, per lo più della propria ragazza. I due erano talmente ai ferri corti che, per il ritorno in hotel avevano voluto viaggiare in van diversi. A Gustav era così toccato prendere in mano la situazione e trascinarsi via Tom assieme a Georg, prima che anche Benjamin e Dunja dessero in escandescenza. Bill, invece, era rimasto con Vibeke. Se ci fosse rimasto Gustav, con lei, probabilmente Tom non avrebbe risposto delle proprie reazioni.

Il solito gelosone…

“Tom,” Gustav si rivolse all’amico con tutto il tatto possibile. “Lo sai che Vibeke si sente a disagio, sotto ai riflettori.”

Tom, le braccia conserte, guardava fuori dal finestrino.

“Sì, lo so.”

“Però ci viene con te agli eventi, si lascia intervistare assieme a te…” soggiunse Georg, paziente.

“Lo so.”

“E sai anche quanto le costi, vero?”

“Sì.”

“Allora perché vuoi a tutti i costi sottoporla al supplizio di un photoshoot?”

Tom tacque per un paio di minuti. Gustav conosceva il significato di quel silenzio compunto, ma preferì non interferire. Era Georg quello bravo a far ragionare Bill e Tom. Gustav aveva la modesta consapevolezza di non disporre di pazienza sufficiente per un onere simile. Poco dopo, comunque, Tom mormorò:

“Non ti è mai capitato di aver voglia di gridare al mondo quanto sei orgoglioso di avere Nicole?”

La fronte di Georg era solcata da un’increspatura perplessa, ma la sua espressione rispose per lui.

“Credo che Vi non si abituerà mai all’idea di essere diventata oggetto di tanta attenzione mediatica.” Proseguì Tom, abbacchiato. “Fa tanto la disinvolta provocante, ma so che le pesa. So che un giorno si sveglierà, mi guarderà negli occhi e mi dirà ‘Addio, Kaulitz. Non ne vale la pena.’…”

Gustav scambiò con Georg uno sguardo compassionevole

“Fortuna che la drama queen era Bill, eh?”

“Tom,” fece Georg, duro. “Sii obiettivo: tu e Vibeke siete fortunati. Il vostro problema più grave è decidere se fare o meno un servizio fotografico insieme! Possibile che non siate mai soddisfatti di niente?!”

Impietrito, Tom lo guardava come un bambino avrebbe guardato la madre dopo essere stato sgridato per qualche malefatta.

“Hai ragione.” Sussurrò, proprio mentre il van si fermava davanti all’entrata posteriore dell’hotel. “Scusami.”
“Non scusarti con me.” Ribatté Georg, scendendo dall’auto. “Scusati con lei.”

Gustav lo seguì, trattenendo un sospiro. Erano alla prima data ed erano già a questi livelli di tensione. Di questo passo si sarebbero presi a pugni entro metà tour.

Ci volle un po’ prima che ciascuno fosse scortato alla propria stanza, ma finalmente, all’una passata, Gustav riuscì a godersi una sospirata doccia calda. Erano quasi le due quando, insonne, decise che forse un giro alla cieca per l’hotel gli sarebbe stata d’aiuto. Uscì senza preoccuparsi troppo di nulla: a quell’ora di sicuro non poteva esserci molta gente sveglia e di fans era appurato che non ce ne fossero. Scese la scale, assaporando con piacere quell’innaturale quiete, soprattutto dopo il caos del concerto. Trotterellò giù dagli ultimi gradini guardando per terra e per poco non si scontrò con qualcuno. E non un qualcuno qualsiasi.

“Scusa.” mormorò la voce vellutata di Kuu, mentre lei arretrava di un passo.

Per la prima volta Gustav si ritrovò a sentirsi veramente mancare il respiro ad averla davanti. Il viso pulito, privo di qualunque traccia di trucco, le ciglia bionde, lunghe e sottili, e quegli occhi nudi, di quell’incredibile colore autunnale screziato di toni dorati: bella da disorientare.

“È stata colpa mia.” Replicò con un sorriso.

Kuu sembrava sorpresa di vederlo, ma non perse il suo superbo contegno. Era piccola, ma guardava tutti dall’alto in basso, con diffidenza, come da dietro a una parete di cristallo che la separava dal resto del mondo.

“Non fa niente.”

Portava jeans bianchi e una maglietta nera, abiti che su una ragazza qualsiasi sarebbero apparsi normalissimi, ma che su di lei assumevano un’inspiegabile eleganza.

“Stai andando al bar?” le domandò. Aveva appena notato che l’atrio da cui era arrivata era quello degli ascensori.

Lei assentì.

“Kaaos mi ha all’incirca spiegato dov’è, ma non sono sicura di aver capito. Non è molto affidabile quando ha un drink in mano.”

Gustav rise.

“Ci sto andando anch’io. Ti faccio strada, se vuoi.”

Lei lo occhieggiò senza mostrare grande interesse.

“Grazie.” disse semplicemente, e attese che lui le facesse strada.

Per Gustav fu strano: Kuu gli camminava accanto, lo sguardo fisso avanti a sé, e non fiatò fino a che non giunsero all’ingresso del bar:

“Spero vivamente che nessuno che ci conosca ci veda arrivare insieme.”

Gustav sorrise bonariamente a quell’affermazione equivocabile. Non fece in tempo a rispondere, che Kuu già stava aggiungendo:

“Non è il caso che inizino a circolare voci sospette già dal primo giorno.”

“Tranquilla, avevo capito.” La rassicurò. “Non mi sarei comunque offeso, anche in caso contrario.”

Si avvicinarono al bancone. Nonostante la tarda ora, c’erano almeno una decina di persone sedute qua e là, nessuna delle quali riconoscibile come fan. Un gruppo di uomini seduti a un tavolo in un angolo in fondo alla sala prese immediatamente a fissare spudoratamente Kuu e a bisbigliare. Anche se non capiva la loro lingua, per Gustav non fu difficile indovinare i loro discorsi. Kuu fece finta di niente. Probabilmente era abituata a essere guardata in quel modo.

“Posso offrirti qualcosa?” gli chiese, prendendo posto ad uno degli sgabelli del bancone. I suoi occhi luccicavano alle luci soffuse del locale.

Gustav le sedette accanto. Quella ragazza lo incuriosiva e intimoriva al contempo.

“Sei un tipo intraprendente…”

“Ti ho solo offerto da bere.” Ribatté lei.

Gustav percepì una sorta di ammonimento nel suo tono. Non aveva gradito la confidenza con cui si era rivolto a lei.

“Era solo una battuta di pessimo gusto.” Si scusò, e si augurò di non averle dato un’impressione sbagliata. “Comunque penso che una birra non la rifiuterei, grazie.”

“Bene.” Kuu si voltò e si rivolse al barista: “Una birra e un espresso.”

“Caffè a quest’ora?” si stupì Gustav.

Lei incrociò le braccia sottili al di sopra del bancone e sollevò le spalle.

“A qualunque ora.”

“Peggio di Bill!” ridacchiò lui.

Il barista consegnò loro le rispettive ordinazioni. Kuu si avvicinò il caffè.

“Il mio primo paragone alla grande diva…” rifletté, sollevando la tazzina, senza aggiungere zucchero. “Sono lusingata.”

Gustav si sentiva fuori posto, lì con lei. In tutta la sala aleggiava un vago profumo di magnolia e qua e là, su tavoli e mensole, erano posati vasi di vetro con rami di orchidee fiorite. Era un ambiente che si sposava bene con lei, con la sua grazia. Non con lui.

Bevvero in silenzio, senza guardarsi. Ripensando al concerto di quella sera stessa, a Gustav sovvennero un certo numero di osservazioni da fare, una meno opportuna dell’altra, ma le tenne per sé. Per quella sera, per i suoi standard, aveva già socializzato fin troppo.

“Non sono molto brillante nell’arte della conversazione, mi spiace.”

“Non sei obbligato a parlare con me.” Gli disse Kuu, lapidaria.

“Mi hai offerto da bere,” replicò lui con gentilezza. “Ricambiare la cortesia mi sembra il minimo.”

“Preferisco essere ignorata che considerata per ‘cortesia’.”

“Non ho detto che parlare con te non mi faccia piacere.” Specificò garbatamente Gustav. “Sono solo un po’ impacciato nei primi approcci. Abbiamo un tour intero da condividere, dovremo pur conoscerci prima o poi, no?”

Kuu si voltò appena nella sua direzione.

“Suppongo di sì.”

I corti capelli biondi le sfioravano il collo fine, circondato da un filo d’argento che si perdeva al di sotto dello scollo della maglietta. Con una certa amarezza, Gustav pensò che nessuno avrebbe puntato sul suo talento, se non fosse stata così attraente. Se la ricordava bene, com’era stata una volta.

“Hai veramente una bella voce.”

Si morse la lingua. La prima delle osservazioni in serie che gli erano sovvenute poco prima se n’era uscita dalle sue labbra senza che lui lo avesse voluto.

Kuu, tuttavia, non si lasciò lusingare:

“Grazie.”

“Di cosa?” fece lui, perplesso.

“Del complimento.”

Gustav scosse la testa.

“Era solo un’osservazione.”

Lei stava per dire qualcosa, ma fu interrotta dall’improvvisa intromissione di una melodia. Veniva dalla tasca posteriore dei suoi jeans.

So close your eyes
And think of someone that you phys-

Kuu recuperò rapida il cellulare e lo aprì.

“Scusami.” disse frettolosamente, saltando giù dallo sgabello.

“Fai pure.” Le rispose lui, e lei si allontanò a parlare.

“Pronto? Ciao, mamma.”

Fu quasi un sollievo per Gustav. La osservò passeggiare avanti e indietro di fronte a una parete di vetro che ospitava una piccola cascata. Anche lontano dalle telecamere, camminava come su una passerella. Era seria, sebbene fosse al telefono con la madre, e il suo sguardo non si abbassava mai a terra: indugiava sull’arredamento, sui volti delle persone che, per un motivo o per un altro, le gettavano occasionali occhiatine curiose. C’era qualcosa di magnetico in lei che sembrava catalizzare l’attenzione. Cinque minuti scarsi più tardi, era già di ritorno.

“Bella la suoneria.” Osservò Gustav, mentre lei si sedeva. “Chi è?”

“Morissey.”

“Ah, The Smiths! Avrei dovuto riconoscerlo. Come si chiama la canzone?”

Lei ebbe una breve esitazione.

“Let Me Kiss You.”

Gustav non la conosceva. Non la aveva mai nemmeno sentita. Quelle poche note, però, avevano stuzzicato la sua curiosità.

“Me la cercherò. Mi ispira.”

“È molto bella.” Sussurrò Kuu, fissando il fondo del proprio caffè. “Molto triste.”

Le sue dita esili sfioravano assentemente la ceramica bianca. Aveva unghie curate, laccate di un bianco perlaceo, persino più impeccabili di quelle di Bill.

“Sei una da cose tristi, vero?”

Le labbra morbide di Kuu si dischiusero con un accenno di stupore.

“Corrispondo al canone?”

Fredda e rigida. Gustav si disse che si sarebbe dovuto abituare a quell’atteggiamento, perché aveva la sensazione che non sarebbe cambiato molto presto. A Bill non sarebbe andato giù, questo era certo.

“È solo una mia impressione.”

Kuu lo studio di sottecchi.

“Sei uno da cose tristi anche tu?”

“A volte.”

“Non ti sbilanci mai, vero? Sempre diplomatico, politically correct.”

A Gustav venne da sorridere. Per carattere o per forza di cose, aveva sempre attentamente ponderato ogni suo gesto e parola, anche prima di diventare famoso.

“Lavorando in quest’ambiente, impari ad esserlo. Anche al costo di passare per falso.”

“Già. È sottile il confine tra diplomazia e ipocrisia.”

“Quelli nella nostra posizione non hanno una gran scelta.” Ammise Gustav. “Se sei sincero, ti danno del presuntuoso; se ti trattieni, sei un ipocrita.”

Kuu annuì gravemente.

“Non abbiamo scelta.”

“La abbiamo: possiamo essere presuntuosi o ipocriti,” sottolineò semplicemente lui. “Sempre meglio di niente.”

Apparentemente colpita, Kuu azzardò una domanda delicata:

“E tu cosa sei?”

Gustav posò il bicchiere vuoto. Lei aspettava paziente, ma era difficile rispondere, perché avrebbe significato ammettere qualcosa che, apertamente, non aveva mai ammesso forse nemmeno con se stesso. Con lei, comunque, era in qualche modo certo che mentire sarebbe stato inutile.

“Ipocrita, in genere,” confessò suo malgrado. “Anche se odio ammetterlo.”

Evidentemente era la risposta giusta, perché Kuu inclinò il capo si lato e gli concesse l’onore di un vago sorriso.

“Un ipocrita che ammette la propria ipocrisia…” rifletté poi. “Paradossale, non credi?”

Sorrise anche lui. Era paradossale, sì, un po’ come tutto quel dialogo tra loro due.

“Sono dieci anni che vivo di paradossi. Non mi stupisco più di niente.”

Gli occhi di Kuu si adombrarono lievemente. Forse in un certo senso capiva quello che lui intendeva, ma indubbiamente non poteva ancora conoscerne fino in fondo il vero significato. Forse era presto perché i Pristine Blue potessero rendersi conto di ciò che comportasse davvero occupare una posizione come la loro. La loro carriera era solo agli albori, e se fosse decollata come tutti prevedevano, avrebbero presto avuto un bel po’ di cambiamenti di prospettive.

L’orologio metallizzato appeso alle spalle del barista, intanto, già puntava verso le tre.

“Penso che sia meglio che vada, ora.” Gustav si alzò. “Grazie mille per la birra. Mi sdebiterò.”

Kuu fece un cenno incurante.

“Non serve.”

Gustav avvertì del fastidio, ma non la poté biasimare: Kuu aveva l’aria di essere una ragazza molto riservata – ed era un bene, vista la sua professione – e nessuno meglio di lui poteva capirla. Tuttavia non avrebbe saputo definire il suo carattere. Magari la avrebbe capita meglio nei giorni a seguire. Per adesso, l’unica cosa che aveva imparato su di lei era che la teca di vetro da cui era circondata era pressoché inviolabile.

“Buonanotte, allora.” La salutò.

“Buonanotte.” Ricambiò lei, senza nemmeno sforzarsi di stiracchiare un po’ le labbra.

Lasciando il bar, Gustav si chiese se era così che lui apparisse, visto dall’esterno: un pezzo di ghiaccio privo di interesse per il mondo circostante. Gli dispiaceva essere malgiudicato dalle persone, ma era più forte di lui.

Si infilò le mani in tasca, entrò nell’ascensore e chinò il capo.

Il tour era cominciato, lo aspettavano altri otto mesi di corse da una parte all’altra dell’Europa e del mondo. Otto mesi di musica, eventi e adrenalina, ma zero tempo per vivere l’altra metà della sua vita.

Quanto tempo potevano ancora andare avanti così?

Le porte dell’ascensore si chiusero.

 

***

 

A Kuu non aveva fatto piacere incontrare Gustav. data la tarda ora, aveva dato per scontato che lui e i suoi compagni sarebbero stati tutti a letto, e invece si era dovuta ricredere. Non era stato tanto l’incontro in sé a infastidirla, quanto piuttosto il non esserselo aspettata. Era scesa solo per un caffè, malvestita e già struccata. Dovevano essere solo cinque minuti prima di andare a dormire. Invece Gustav le aveva scombussolato i piani. Sapeva di essere stata maleducata con lui, ma non le piaceva l’idea che lui la avesse vista così. Era stata una chiacchierata di cortesia e, tutto sommato, non era stata nemmeno poi tanto male, però era stata un imprevisto, e lei gli imprevisti li detestava.

Quando tornò di sopra, trovò la porta della stanza di Kaaos, di fronte alla propria, aperta. Se ne stava sulla poltrona con un bicchiere in mano, ancora vestito di tutto punto, e a quanto pareva la stava aspettando.

“Dove sei stata?”

“Mi stai controllando?” sbuffò lei, alterata.

“Sì.” Rispose Kaaos con naturalezza, poi ripeté la domanda: “Dove sei stata?”

“A bere qualcosa di sotto. Mi sembrava di avertelo detto.”

“Da sola?”

Il solito interrogatorio. Kuu non si mosse dalla soglia, così come lui non si mosse dalla sua poltrona.

“Con Gustav.”

Ci fu una pausa di silenzio.

“Gustav?” rise infine Kaaos. “Come ci sei finita con Gustav?”

Kuu incrociò le braccia, compunta.

“L’ho incontrato fuori dall’ascensore. Non fosse stato per lui, non avrei trovato facilmente il bar. Qualcuno era leggermente confuso quando mi ha dato indicazioni.”

Sempre ridendo, Kaaos levò il bicchiere in sua direzione e poi se lo portò alle labbra.

“Spero per te che non ci fossero ficcanaso in giro a spiarvi.” Disse. “E che non abbiate fatto nulla di compromettente.”

“Chiacchierare è compromettente?”

“Per me no. Per molti altri sì.” Affermò lui, poi si accigliò improvvisamente, fissandola. “Non sei truccata.” Osservò.

“Wow,” fece Kuu, sarcastica. “Sei ancora abbastanza sobrio da notare certi particolari.”

“E tu vorresti farmi credere che hai permesso che uno dei Tokio Hotel ti vedesse in vesti di comune mortale?”

“Sono già stata fin troppo sgarbata, con lui.” Rispose lei, impaziente. “Non potevo certo voltargli le spalle e fare finta di niente.”

Kaaos rise ancora, molto divertito.

“Forse ti ho sottovalutata, allora.”

Dai livelli di eccesso di ilarità, Kuu capì che era il momento di andarsene, prima che il tutto sfociasse nell’ennesima discussione.

“Buonanotte.” Disse, e chiuse la porta mentre lui stava ancora augurandole a sua volta ‘Buonanotte’.

Voleva bene a Kaaos: lo aveva avuto accanto fin dalla nascita ed erano cresciuti insieme, e spesso aveva la sensazione che, in un modo o nell’altro, avrebbero passato insieme anche il resto dei loro giorni, ma c’erano volte in cui avrebbe voluto chiuderlo fuori dalla propria vita almeno per un po’. Era così protettivo verso di lei da farla sentire in gabbia. Per di più Kaaos aveva anche una ragazza, Eva, che provava una gelosia morbosa verso di lei e causava non pochi problemi. A Kuu quella ragazza non era mai andata giù.

E adesso c’era anche il tour a cui pensare. Era iniziato ed era iniziato bene, ma doveva anche continuare bene, fino alla fine, perché da quello sarebbe dipeso il resto della sua carriera. Essere una diva in Germania non era sufficiente: era fondamentale conquistarsi l’Europa, almeno. Al mondo, forse, avrebbe pensato in futuro.

Sì, forse…

Entrò nella propria suite e chiuse, appoggiandosi alla porta con un sospiro stanco.

Chiuse gli occhi.

 

***

 

PRISTINEBLUE.DE presents: Kuu & Kaaos’ Tour-log – DAY 2

BREAKFAST TIME BEFORE THE ROCKIN'

 

Göde morgen, leute, this is Kaaos!

As you surely know, we had the opening of the tour yesterday in Luxembourg and all went superwell! Kuu and I are very proud: there were so many of your there for us… we didn’t expect it! Thank you all, guys!

We’re in Rotterdam now, getting ready for today’s gig at Ahoy’s. I’m writing from my laptop as I’m having breakfast with Kuu, Tokio Hotel and our crews. Tom and I ordered some very promising slices of cake with chocolate tulips on them! Too bad that the Kaulitz twins here are vegetarians… there’s so much good meat here that I can’t even choose. Kuu is glaring at me in this very moment, ‘cause she keeps saying that I do not eat healthily, but you guys want me in shape for tonight, alright? I need some good energy for a damn good performance, tell her! ; )

Stay tuned today for updates, we’re uploading some cool vids of the soundcheck we’re heading to in the afternoon!

 

Talk to y’all soon!

 

Kaaos

 

P.S. I shouldn’t be telling you this, since it’s a quite a huge spoiler, but Kuu has plans for Brussels: shopping! I can’t tell you anything else now, but I promise everything will be filmed and published, so that you can see where our earnings end up. ; )

 

Posted by: Kaaos; on Tue, 23rd Feb 2010 @ 09:23

 



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Note: lo so, anche stavolta avete temuto che non aggiornassi più… vi chiedo scusa. E vi chiedo scusa anche se questo capitolo è stato un po’ noioso, come è parso a me. Vi prometto che dal prossimo inizierete a trovare un po’ più di vita e eventi significativi. ;)

Per adesso ringrazio Lady Vibeke per avermi aiutata con la parte iniziale, che sarebbe più o meno uno stralcio di diario di Kuu, i suoi pensieri intimi, le sue riflessioni. Ci saranno altre parti così, in futuro.

Nelle recensioni allo scorso capitolo molte di voi hanno ribadito che trovano Kuu antipatica e penso (spero!) che sarà così ancora per un po’, o mi toccherà rivedere un po’ le mie capacità. ;)

Qualcuno mi chiedeva se Kuu e Kaaos fossero i loro veri nomi: no, sono solo nomi d’arte, che verranno poi spiegati meglio più in là, e anticipo anche la vostra prossima domanda: sì, i loro veri nomi saranno poi svelati, a suo tempo.

Per chi invece chiedeva se esistesse davvero un blog dei Pristine Blue… la risposta è decisamente no, visto che sono personaggi di mia invenzione. ^^

Qualcun altro chiedeva cosa sia la storia delle pillole di Kuu, ma su questo non posso sbottonarmi, o non avrebbe senso raccontare, poi. Abbiate solo un po’ di pazienza, prometto che anche questo sarà spiegato!

Ribadisco i soliti, adoranti ringraziamenti a tutti voi che mi seguite e che commentate con tanta passione le mie storie… senza di voi non sarebbe bello nemmeno la metà scrivere dei nostri adorati fantastici quattro. : )

Vi lascio, ora, come sempre aspettando pazientemente le vostre impressioni!

Alla prossima! (spero più in fretta di stavolta ^^)

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Capitolo 6
*** Pieces ***


I'll survive in this nothing, leading nowhere
I survive
Feeling strong for how much longer?

(Survive, Lacuna Coil)

 

***

 

‘Exclusive property of Tom Kaulitz’. Era la scritta riportata sulla t-shirt che indossava Vibeke quella mattina. Tom ne andava particolarmente orgoglioso, perché era un regalo che le aveva fatto lui. Ce n’erano una discreta serie: dalle magliette (‘Yes, I’m a Bitch. Tom Kaulitz’s bitch.’) ai pezzi di intimo (‘Tom’s territory: keep out.’), e perfino un collarino in simil pelle nera con tanto di medaglietta con nome, cognome, indirizzo e numero di telefono. Vibeke andava matta per quel tipo di cose: le piaceva pavoneggiarsi assieme a lui, crogiolarsi nella sua possessività quasi prepotente, ma questa sua vanità esibizionista aveva un limite: era totalmente allergica agli obiettivi di macchine fotografiche e telecamere. Finché c’era da mettersi in mostra in pubblico non aveva problemi, ma quando iniziavano a scattarle fotografie diventava nervosa e rigida.

Anche ora, mentre posava assieme a lei nello studio fotografico, Tom la sentiva irrequieta sotto alle proprie mani. Aveva acconsentito a fare quel servizio fotografico per Vanity Fair, alla fine, ma Tom sapeva che glielo avrebbe fatto pesare per settimane.

Pensò alla naturalezza con cui Kuu e Kaaos si erano lasciati immortalare insieme soltanto il giorno prima, durante un photoshoot nel backstage della data di Helsinki. Osservando Kuu posare per quegli scatti, senza ipocrisie, Tom si era ritrovato a pensare che, se non avesse avuto Vibeke, un serio pensierino per una come lei lo avrebbe fatto.

La conosceva solo da poche settimane e nemmeno tanto bene, visto che la ragazza non aveva una grande inclinazione alla socializzazione, ma qualcosa di lei lo affascinava profondamente. Non lo aveva detto a Vibeke per non provocarla inutilmente, ma lei lo aveva intuito da sola. Non solo lo aveva intuito, ma aveva anche capito. Aveva capito esattamente quello che Tom aveva temuto che lei non avrebbe mai potuto capire: il suo sentirsi attratto da Kuu era una cosa involontaria e istintiva, e non aveva nulla a che vedere con il sentimento. Quello stesso sentimento che invece provava per lei.

“Vibeke, potresti voltarti un po’ verso sinistra?”

Il fotografo si avvicinò a Vibeke, che se ne stava seduta con Tom su un divano nero dal design fin troppo moderno e le mostrò la posizione che voleva che lei assumesse: le fece accavallare le gambe, coperte solo da dei collant a rete molto larga, e le fece appoggiare la mano destra sul petto di Tom.

“Voglio che si veda bene il tuo tatuaggio.” Le disse, poi con una mano le sistemò i capelli dietro all’orecchio. “Mettiamo bene in mostra anche questi piercing.”

Tom avvertì distintamente il fastidio di Vibeke, e apprezzò il suo silenzio. Poteva quasi sentirla ripetere a se stessa ‘Resisti, tra poco sarà tutto finito’. Personalmente, lui aveva apprezzato l’esperienza: era la prima volta che loro due facevano una cosa del genere insieme e le varie pose che avevano assunto per le fotografie gli erano piaciute: sensuali e territoriali, quasi aggressive, e certi sguardi che lei aveva sembravano proprio dire ‘Lui è mio’.

“Bene,” disse il fotografo, una volta finito di scattare. “Direi che abbiamo finito. Grazie, ragazzi, siete stati perfetti.”

Tom attese di essere solo nel camerino con Vibeke per dire qualcosa, ma appena aprì bocca, lei lo precedette:

“Nei, Kaulitz, tystne!” (“No, Kaulitz, zitto!”)

Tom soppresse un mugolio frustrato.

“Vi…”

Cercò di prenderla per un polso, ma lei si divincolò e iniziò a spogliarsi frettolosamente.

“Vi, dai! Non fare la capricciosa.”

“Non faccio la capricciosa!” ribatté lei, gettandogli la maglietta in faccia. “Faccio quella che vuole tornarsene in hotel dopo una mattinata buttata nel cesso per quattro fotografie del cazzo che milioni di stupide ragazzine gelose si divertiranno a scarabocchiare e fare a pezzetti!”

“Tu adori le ragazzine gelose di te.” Puntualizzò Tom.

Vibeke si infilò una felpa nera con uno sbuffo annoiato.

“Ciò non vuol dire che io non detesti queste stronzate da prostituzione mediatica.”

“Siete una rottura, tu e i tuoi idealismi.”  Ridacchiò Tom, riuscendo finalmente ad afferrarla e catturarla tra le proprie braccia. Le rubò un bacio veloce. “Non insisterò mai più per una cosa così, ok?”

“Scusa, da quand’è che ti illudi che io mi beva tutto quello che riesci a sparare?”

Tom sogghignò, avanzando di un paio di passi, facendo finire Vibeke con la schiena contro il muro.

“Mi stai servendo una battutaccia di quelle proprio volgari su un vassoio d’argento, lo sai, vero?”

Un lampo di divertita malizia brillò negli occhi di Vibeke, ma lei finse uno spintone sdegnato.

“Din teiting!” (“Idiota!”)

Tom le affondò il viso tra i capelli, ridendo.

“Dimmi da uno a infinito al quadrato quanto non ti sopporto.” Disse Vibeke con una fermezza palesemente forzata.

“Probabilmente infinito al cubo.”

“Probabilmente sì.”

“E da uno a infinito al quadrato quanto sei stracotta di me?”

Vibeke finse di soppesare le opzioni. I due colori diversi dei suoi occhi erano particolarmente evidenti, quella mattina di sole.

“Non so, direi più o meno tre. Tre e mezzo, se stai zitto. E potremmo arrivare a quattro, quando sei particolarmente in forma.”

Tom annuì saggiamente.

“Quindi in pratica sei così sconvolgentemente cotta di me che impazziresti a starmi lontana per più di due ore.”

Vibeke gli rivolse un’occhiata acida:

“Tu non hai ancora capito che io sono impazzita nel momento stesso in cui la sfiga ha disgraziatamente deciso che di tutti i miliardi di coglioni di cui ci si potesse innamorare, il mio dovessi essere proprio tu.”

Tom si concesse di esultare in gran segreto: Vibeke aveva modi tutti suoi di dimostrargli il proprio affetto e ci aveva messo un po’ a imparare a farlo, ma in fondo lui stesso non era diverso. A nessuno di loro due erano mai piaciute le smancerie.

“Quindi sono tuo, mh?”

Un sorrisino provocante affiorò sulle labbra rosse di Vibeke, mentre lei si avvicinava per baciarlo.

“Ci puoi giurare.”

“Anche se mi sento attratto da Kuu?”

Vibeke gli circondò il collo con le braccia e alzò le spalle:

“Capirai… Anch’io mi sento attratta da Kuu.”

Ok, pensò Tom, pungolato da una fastidiosa fitta di gelosia, me la sono cercata.

“È proprio seccante avere una ragazza bisex.” Commentò. “Non ti puoi mai distrarre mezzo secondo.”

Vibeke rise, e Tom con lei. I ragazzi avevano ragione: era semplice. Era tutto così semplicemente semplice, per loro due.

Pensò a Georg, a come era felice che finalmente Nicole ed Emily li avrebbero raggiunti per la data di Amburgo. Mancavano solo due giorni a quando le avrebbe finalmente riviste e non era il solo a rallegrarsene: le due Sandberg mancavano a tutti. Tom si divertiva un mondo a vedere Vibeke che giocava con Emily: era come se per un po’ tornasse ragazzina, e il modo in cui sorrideva era diverso, più spensierato e sereno, e c’era qualcosa di speciale nelle tenerezza con cui si comportava con Emily. Nemmeno con Bill riusciva a essere così.

“Dai, muoviamoci.” Lo esortò Vibeke, scrollandoselo di dosso. “Dobbiamo rientrare prima che la principessa chiami la polizia.”

Tom rimase con le braccia a mezz’aria mentre si sfilava la felpa.

“Non siamo poi così in ritardo.”

“No, ma vedrai quando si accorgerà che gli ho preso il mascara.”

 

***

 

Mani sottili. Un portafogli di Gucci. Trecento euro in pezzi da cinquanta. Un cappotto di cachemire color avorio così bello e fine che giustificava qualsiasi prezzo.

“Per oggi hai finito con gli acquisti, allora?”

“Penso di sì, ma l’ho detto anche appena uscita da Dior.”

Una risata limpida ma fredda, esattamente come gli occhi che guardavano dritti nella telecamera. Bill aveva scoperto da poco meno di un’ora il videolog dei Pristine Blue e già si era divorato i tre filmati che raccoglieva finora. Quello che era appena finto era finora quello che lo aveva interessato di più. Nei primi due Kuu e Kaaos aveva raccontato un po’ di come andavano le cose per i preparativi della prima data e qualche loro impressione dopo i primi concerti. In quest’ultimo, invece, Kuu compariva da sola, armata di contanti e carte di credito, alla scoperta delle vie modaiole di Bruxelles, soltanto la mattina prima. Bill a stento aveva badato alle griffe dei negozi in cui era entrata e quasi altrettanto aveva fatto con i vestiti che aveva comprato. Tutta la sua attenzione era stata per lei: dopo una settimana di tour insieme, praticamente non la conosceva tanto più di quando la vedeva solo in televisione.

Guardando quel filmato, però, aveva iniziato a capire qualcosa in più. Le piacevano i vestiti ricercati e femminili, ma non quelli troppo vistosi e volgari: il cameraman le aveva suggerito di provarsi un paio di abitini striminziti e lei aveva risposto con delle smorfie molto eloquenti. Prediligeva i tagli semplici e i toni neutri, dal bianco al nero, e tutte le sfumature di grigio; i tocchi di colore li metteva negli accessori, nelle gemme dei gioielli, nelle cinture, nelle scarpe, e in tutte le piccole cose che però attiravano inevitabilmente l’attenzione. Non le piaceva l’oro giallo: tutti i capi che avevano dettagli in oro li aveva scartati e aveva invece preferito quelli con bottoni o fibbie in metallo nero o argentato. E poi c’era una cosa che lo aveva colpito più di tutto il resto: quando si guardava allo specchio, Kuu non si guardava mai in faccia. Si scrutava di sotto in su, ma sempre fermandosi al decolleté.

Chissà perché, si chiese Bill, curioso. Per lui era fondamentale vedersi il viso, quando si specchiava.

Gettò un’occhiata fuori dalla finestra: una pioggerellina insistente bagnava Oberhausen senza accennare a smettere. Erano arrivati quella notte e non si era ancora fermata un momento. Fuori dall’arena c’erano già più di un migliaio di fans accampate da chissà quanto tempo, e i preparativi per il concerto non erano nemmeno cominciati. Appena Tom fosse rientrato, avrebbero potuto fare il soundcheck. Al momento sentiva i Pristine Blue accordare sul palco i propri strumenti.

Era tentato di andare a dare una sbirciata, ma Kaaos lo metteva a disagio: era sempre pronto a guardare storto chiunque mostrasse il più vago sintomo di interesse verso Kuu. Non era ancora chiaro a nessuno se questo atteggiamento fosse dovuto semplicemente al suo carattere o se ci fossero gelosie ben diverse alla radice. Più studiava quei due, meno trovava credibile che non fossero romanticamente legati, in qualche modo. Ma poi pensava Gustav e Vibeke, e il dubbio lo assaliva di nuovo. C’erano troppe diverse sfumature di amore per poter essere certi di qualcosa.

Bill spense il portatile, sfregandosi stancamente gli occhi. Non aveva nessuna voglia di sorbire la seduta di trucco che lo aspettava con Natalie, ma durante le prove Christopher avrebbe fatto qualche ripresa e un minimo di presentabilità se la doveva dare. Si era sistemato nella saletta dove era stato allestito il catering e aveva finalmente trovato un po’ di sana pace, ma il suo senso di spossatezza non era sparito, nemmeno dopo un Redbull e diverse manciate di orsetti gommosi. Probabilmente era una questione che non si limitava al piano fisico.

Si alzò e si andò a versare un po’ di coca. Aveva voglia di marshmallows, ma ingozzarsi da solo non era la stessa cosa che farlo assieme ai ragazzi davanti a qualche episodio di Scrubs. Si portò il bicchiere alle labbra e nello stesso istante la porta si aprì. Non era Christopher, come aveva creduto.

Lo sguardo di Kuu, velato da un paio di occhiali da sole, si posò di lui con stupore, ma lei entrò e chiuse la porta senza esitare. Attraversò la stanza e si servì di caffè senza degnarlo di uno sguardo. L’ego di Bill fremette di irritazione. Non fu capace di trattenersi:

“Avete finito presto.”

“Sì. È stato meno impegnativo del previsto.”

“C’è un’ottima acustica, qui.”

“L’ho notato.”

Bill odiava quelle risposte telegrafiche. Avrebbe preferito sentirsi dire qualcosa tipo ‘Non rompere’, piuttosto che essere assecondato. Kuu, nel frattempo, si era seduta su una poltroncina e stava sorseggiando tranquillamente il suo caffè. Molto maleducatamente, non si era nemmeno tolta gli occhiali da sole.

“Ti danno fastidio le luci?” le chiese.

“Come?”

Bill accennò con il capo agli occhiali firmati, e allora Kuu capì.

“Oh.”  Sollevò una mano e sfiorò la montatura nera. “Sì, i miei occhi sono piuttosto delicati.”

Tutto di lei, a dire il vero, sembrava piuttosto delicato, tanto che Bill si era spesso chiesto se non fosse per quella sua apparente fragilità che Kaaos fosse così possessivo con lei. Non si erano mai fatti vedere a un pranzo, né a una cena, né a una colazione: mangiavano da soli, passavano il tempo libero da soli e da soli se ne stavano perfino durante le soste in autogrill. Forse era solo perché le due band non si conoscevano ancora, ma di questo passo non si sarebbero affatto conosciuti.

Kuu sorseggiava silenziosa il proprio caffè, le gambe accavallate. Portava dei pantaloni neri. Per qualche motivo, Bill era stato convinto che fosse una da gonne vertiginosamente corte e top succinti, almeno per i concerti, e invece anche sotto quell’aspetto era rimasto stupito, perché Kuu si esibiva sempre con lunghi abiti fiabeschi, a metà tra una fata e una vampira, che Tom usava pragmaticamente definire ‘inutili metri di stoffa superflua’.

“Potresti smettere di fissarmi, per cortesia?”

Bill si riscosse. Non si era nemmeno reso conto di essersi messo a fissarla.

“Scusa,” farfugliò, imbarazzato. “Stavo –”

Si rese conto che, qualunque cosa avesse potuto dire, sarebbe sembrato una patetica scusa.

“C’è un inferno, là fuori.” Lo interruppe lei. “Ogni volta che Kaaos sfiorava la chitarra, si scatenava un putiferio.”

Suonava quasi come un’accusa.

“Abbiamo un pubblico caloroso.” Ribatté Bill, sulla difensiva.

“Avete un pubblico isterico.”

Bill non digerì quella provocazione gratuita.

“Se ti stiamo così sulle palle, perché sei qui?”

Doveva essere una frecciata, ma Kuu non se ne fece turbare:
“Non siete voi.” Gli spiegò. “Sono le vostre fans. Quelle che voi chiamate ‘le fans migliori del mondo’.”

“E cosa ne vuoi sapere tu delle nostre fans?”

Kuu sollevò il mento, compunta.

“Ne so più di te.” dichiarò, sicura. “Ero una di loro, una volta.”

Bill ne restò stranito: aveva già sentito da qualche parte che Kuu fosse stata un’ammiratrice dei Tokio Hotel, in passato, ma era talmente abituato a non badare alle voci che aveva dato per scontato che fosse una sciocchezza.

“Forse avrete anche le fans migliori del mondo, ma avete anche le peggiori.”

“Le stalker non sono incluse tra quelle che noi definiamo fans” ci tenne a sottolineare Bill, in difesa di tutte coloro che avevano permesso a lui e agli altri di arrivare dov’erano adesso.

“Non sto parlando delle stalker.” Rispose Kuu. “Parlo di tutte quelle squallide oche che vi seguono solo perché siete quattro pezzi di carne appetitosi. La maggior parte di quelle che dicono di amare i Tokio Hotel a stento si ricordano che esiste qualcuno al di fuori di te – o di te e tuo fratello, nel migliore dei casi.” Il suo disgusto era tanto e tale che era impossibile dubitare che fosse sincero. “Non ti fa schifo? Non ti dà la nausea sapere che tutto ciò che conta ai loro occhi sia il tuo bel faccino? Ai concerti urlano e basta, nemmeno ascoltano la vostra musica. Se tu smettessi di cantare e ti mettessi semplicemente in mostra su un palco, per loro sarebbe la stessa identica cosa. Non ti umilia questa consapevolezza?”

La cosa peggiore, di tutto quel discorso, era che era la verità, e non solo: Bill stesso, benché malvolentieri, aveva pensato le stesse identiche cose. E questo gli faceva male.

“Grazie per questa gentile mazzata alla mia autostima.”

Kuu doveva esserci accorta di essere stata eccessivamente dura, perché la sua espressione si ammorbidì notevolmente:

“Non sono tutte così.” Lo rassicurò. “Sono poche quelle che vi amano davvero, ma su questo ti devo dare ragione: sono le migliori.”

E adesso c’era una domanda che a Bill premeva di farle. Per lui era importante, e voleva capirla. Voleva capire Kuu più di ogni altra cosa, perché non aveva mai occasione di conoscere una ragazza così da vicino.

“Perché non ti piacciamo più?”

Un guizzo di stupore animò per un istante i begli occhi di Kuu. Bill avrebbe dato qualsiasi cosa per vederla senza trucco: era sicuro, ormai, che in lei ci fosse molto di nascosto da svelare. Il problema, fondamentalmente, era che lei non voleva lasciarsi scoprire. Delle molto volte in cui aveva cercato di conversare con lei, mai Kuu gli aveva concesso di intravedere qualcosa al di sotto della sua superficie.

E ora lo guardava, seria e posata come sempre, con un po’ di compassione negli occhi.

“Non avete mai smesso di piacermi, Bill. Ho smesso di seguirvi perché non riuscivo ad accettare che tutte quelle stupide non riuscissero a vedere altro che la tua superficie.” Una piccola smorfia di disgusto distorse le sue labbra. “Non sanno far altro che dire ‘Bill è troppo figo!’, ‘Bill è perfetto!’, ‘Bill è bellissimo!’… E invece ci sarebbe così tanto in te che meriterebbe considerazione. E lo stesso vale per tuo fratello, e per Georg, e per Gustav…” Era uno sfogo che sapeva di indignazione e dispiacere, e Bill capì che Kuu era stata – o forse era ancora – una di quelle che a loro ci teneva davvero. “Ma forse è così che deve essere.” Proseguì Kuu, atona, e lo guardò dritto negli occhi. “Forse se la gente attorno a noi non fosse così sciocca e superficiale, saremmo ancora meno liberi di così.”

Bill, stupefatto, non poté che trovarsi d’accordo con ogni singola cosa. E c’era di più: dal non aver mai avuto alcun tipo di contatto emotivo con lei, era passato a una dimostrazione di affetto e rispetto che, seppur indiretta, aveva toccato qualcosa dentro di lui.

“Non ero preparato per un discorso di questo peso…” Accennò un sorriso esitante. “Sono abbastanza sconvolto.”

Inaspettatamente, molto più rilassata, sorrise anche lei.

“Mi sono lasciata trasportare.”

Sembrava una bambina. Bill non riusciva a capacitarsi di come una ragazza potesse apparire così dolce e sensibile e contemporaneamente snobista e presuntuosa. Non era però sicuro che questo suo aspetto ambiguo gli dispiacesse.

“Dovevi amarci davvero molto se ti stava così a cuore il modo in cui ci vede la gente.” Rifletté, celando una punta di orgoglio.

“Mi sta ancora a cuore.” Puntualizzò lei, in tono offeso. “Siete delle belle persone, meritate di più di certe stupide ragazzine.”

Da un lato Bill era spiazzato da quell’improvvisa parentesi di confidenza, ma dall’altro ne era lusingato. Finora Kuu non si era mai dimostrata particolarmente amichevole con nessuno di loro.

“A sentirti parlare, ho quasi la sensazione che tu ci conosca.” Le confidò. “Da dentro, intendo. Come se tu fossi sempre stata con noi, fin dall’inizio di tutto quello che siamo.”

“Mi ricordo di voi.” Disse semplicemente lei. “Mi ricordo quanto eravate piccoli e inesperti e – senza offesa – buffi. Ma avevate un sogno più grande di voi da rincorrere e quando avete pubblicato Durch Den Monsun sono stata sinceramente felice per voi. Invidiosa da morire, ma felice.”

“Be’, pare che il destino tuo e di Kaaos non sia tanto diverso dal nostro.”

Lei non rispose. Giocherellava con la mano sulla catenina d’argento che portava sempre, ed era come persa nel vuoto.

“Tu sei felice?” gli chiese a un tratto.

“Come?”

“Sei felice di quel che ne è stato di te, da quella prima volta che ci siamo visti?”

Era fin troppo impegnativa, come domanda. Dalla prima volta che si erano visti erano passati dieci anni, e in quei dieci anni erano successo più cose di quante a una persona normale ne sarebbero potute succedere in una vita intera. C’erano un’infinità di fattori da valutare e soppesare, tutti insieme.

Sono felice?

Aveva raggiunto quello a cui aveva sempre puntato, dopotutto. Sarebbe stato così ipocrita ignorare l’altra faccia della medaglia?

“Sì.” Assentì. “Sono felice di aver realizzato quel sogno.”

“Intendo felice in senso globale, considerando ogni pro e ogni contro.”

Stavolta fu lui a non rispondere.

“Perché questa domanda?”

L’occhiata intensa che Kuu gli rivolse lo trafisse da parte a parte, a tradimento, e quello che gli disse non fu da meno:

“Perché l’espressione dei tuoi occhi non è quella di una persona felice.”

Bill cominciava a sentirsi a disagio. Essere un pubblico incompreso era diventata un’abitudine così consolidata che mai avrebbe creduto che una quasi perfetta sconosciuta sarebbe arrivata a dirgli certe cose, per di più in faccia. A questo punto, tutto poteva dirsi di Kuu, tranne che fosse superficiale.

“Diventare una cantante famosa era il tuo sogno?” le chiese, sforzandosi di restare impassibile.

Le rispose senza esitazioni:

“Sì.”

“E sei felice di averlo realizzato?”

“Sì.”

“E sei felice, considerando ogni pro e ogni contro?”

Stavolta Kuu esitò, e il modo in cui lo guardò fece capire a Bill molto più di quel che non fece l’effettivo responso.

“No.”

“Non penso che ci sia più bisogno che io risponda.”

Le labbra di Kuu si contrassero impercettibilmente.

“Suppongo di no.”

“La verità è che probabilmente potrei essere felice,” aggiunse Bill. “Se sapessi accontentarmi. Ma non ne sono capace.”
Sollevò le spalle. “Una volta volevo essere una star. Adesso che sono una star, vorrei un po’ di vita normale. Vorrei avere la fortuna di Tom e Georg, incontrare qualcuno che dia un senso più profondo a tutto quanto…”

“Spesso sprechiamo energie preziose cercando cose che abbiamo già sotto il naso.” Gli fece notare lei. “O cercando in posti sbagliati. Di solito è quando smetti di crederci che succede.”

A Bill sfuggì una risatina cinica.

“È quello che mi hanno sempre detto tutti. Figurati, Tom non ci ha mai nemmeno creduto, nell’amore, e ora guardalo: se qualcuno fa anche solo finta di toccargli Vibeke, perde la testa. Credevo che tra noi due sarei stato io ad avere la prima storia importante. E invece…”

“Ti saresti potuto accontentare della prima capitata, di una fan qualsiasi che dicesse di amarti, ma se stai ancora aspettando, è perché sai di meritare qualcosa di più.”

E proprio mentre ascoltava quelle parole, Bill si rese conto che erano esattamente ciò che aveva bisogno di sentirsi dire. Si chiese quanto ci fosse in lei che al mondo non era concesso di vedere.

“E pensare che c’è chi crede che tu sia solo una bella bambolina.”

Kuu chinò la testa. Sottili ciuffi biondi le ricaddero sulla fronte.

“Già.”

Decisamente non era felice nemmeno lei.

“Non sono depresso,” disse Bill un attimo dopo, più a se stesso che a lei. “Ma nemmeno felice. Vorrei solo incontrare una persona che non abbia preconcetti su di me, che possa conoscermi solo come Bill e non Bill Kaulitz dei Tokio Hotel.”

“E che ti ami incondizionatamente per quello che sei, che non ti giudichi, che accetti la tua vita e i tuoi difetti…” lo interruppe lei, continuando al suo posto.

Bill annuì.

“Sì.”

Kuu si lasciò andare in una risatina di scherno.

“Sei più ingenuo di quanto pensassi.”

“Perché?” chiese lui, offeso.

“Non hai speranze di trovare una persona così.” Sentenziò lei, impietosa. “Tutto il mondo sa chi sei, chiunque si è già fatto un’idea tutta sua di te. Tutt’al più puoi sperare di incontrare qualcuno che capisca, che sappia cosa significhi essere nelle tue condizioni.”

“Qualcuno come te?”

 

***


Kuu fu completamente presa alla sprovvista. Anche se quasi non diede segno di stupore, il momentaneo sgranarsi dei suoi occhi tradì la sua reazione istintiva. Davanti a lei, Bill – struccato, in tuta – le puntava addosso due occhi che sapevano di sfida. Era così bello che non c’era modo di non sentirsi conquistati da lui, ma Kuu non aveva la minima intenzione di mostrare un qualunque tipo di debolezza, di fronte a lui men che meno.

“Io non credo nel vero amore.”

“E in cosa credi?” domandò allora Bill.

“In niente.” fu l’asciutta risposta. “La gente si lega a chi la fa stare bene, e ci sono infinite persone al mondo che possono farti stare bene in infiniti modi diversi, e chiunque tu possa trovare, non avrai mai la certezza che sia proprio quella persona che ti completerà meglio di tutte le altre. Siamo sei miliardi, al mondo. La maggior parte di noi non incontrerà mai la sua vera metà mancante; si accontenterà del meglio che troverà.”

Bill inarcò un sopracciglio.

“Piuttosto cinica come filosofia.”

“Platone docet.”

“Platone?”

“Il mito degli androgini.” Specificò lei. “Le due metà della stessa mela disperse per il mondo, destinate e cercarsi in ogni altra metà che non combacerà mai perfettamente. Quasi nessuno trova quella giusta. Potresti aspettare per tutta la vita qualcosa che non arriverà mai.” Lo accarezzò con un’occhiata severa. “Dovresti rassegnarti e imparare ad accontentarti di quello che passa il convento, Bill.”

“Io credo nel destino.” Affermò lui, deciso, ma gli era affiorato un lievissimo rossore sulle guance. “Credo che ci sia un motivo se nasciamo per sentirci incompleti, e credo anche che quelle due metà della stessa mela che dici tu, in un modo o nell’altro, verranno portate a incontrarsi, prima o poi. Forse è vero che non capita a tutti, ma credo che sia così.”

C’era tensione, tra loro. Lei seduta nella sua poltrona come una regina sul trono, lui appoggiato al tavolo, le braccia conserte e un piccolo broncio ostinato sulle labbra pallide. Non semplicemente bello: era meraviglioso.

“Hey, voi due, ditemi che non state veramente disquisendo di filosofia.”

L’incanto si ruppe. Tom era appena entrato nella stanza, seguito a ruota da Vibeke. A Kuu non piaceva quella ragazza: si erano sempre guardate con poca simpatia e probabilmente e cose non sarebbero mai cambiate. Erano troppo diverse.

“Ciao, Tom.” Salutò Bill con scarso entusiasmo.

Tom sfilò baldanzoso davanti a Kuu per raggiungere il frigo, e nel frattempo la squadrò per bene.

“Hey,” esclamò contrariato. “Cos’è tutta quella roba che hai addosso? Non si usano più le minigonne?”

Vibeke gli allungò una ginocchiata sul sedere.

“Sono una cantante, non una prostituta.” Gli fece notare lei, tagliente, infastidita dal suo atteggiamento forzatamente malizioso. Non era nemmeno molto galante nei confronti di Vibeke.

“Se tutte la pensassero come te, sai quante donne ci sarebbero sulla scena musicale?”

“Circa un decimo. Forse meno.”

Tom, una lattina di aranciata in mano, si voltò preoccupato verso Vibeke:

“Vi, tu te le metterai sempre le minigonne, vero?”

Lei si erse al suo fianco in tutta la sua notevole altezza, poggiandogli un braccio sulla spalla.

“Ma certo.” Gli promise, suadente. “Io non sono una cantante, posso tranquillamente fare la prostituta.” Aggiunse, rivolgendo a Kuu un’occhiata di fuoco.

Avrebbe ricevuto una risposta a modo, se solo Georg non si fosse intromesso a ricordare loro che il soundcheck li aspettava.

Georg era un interrogativo aperto: c’erano giorni in cui era serio e taciturno, come adesso, e altri in cui la sua allegria diventava contagiosa. Kuu era curiosa di conoscere la famosa Nicole per capire cosa potesse cercare uno come lui in una ragazza. E poi c’era la bimba, Emily, che a lei era sempre sembrata incompatibile con il tipo di vita che conduceva Georg: che razza di madre poneva di fronte alla figlia una figura paterna che era più assente che presente?

Ma la verità era che era invidiosa: invidiosa di Nicole, che era riuscita a conquistarsi Georg, e invidiosa di Vibeke che si era presa Tom, e già sapeva che un giorno avrebbe invidiato che le ragazze che si sarebbero portate via Bill e Gustav.

Non ce n’erano di ragazzi come loro, nel modo reale.

 

***

 

Era stata una giornata sfiancate, ma il peggio doveva ancora arrivare. Mancava meno di un’ora all’inizio del concerto e l’adrenalina iniziava a farsi sentire. Bill e Tom stavano litigando nel camerino, Georg andava avanti e indietro per il corridoio, al telefono con Nicole, e, stranamente, la conversazione sembrava allegra. Gustav però non era in vena di chiasso: voleva solo un posto tranquillo in cui rintanarsi per rilassarsi, o almeno provarci, e sapeva che c’era una stanzetta isolata, appena svoltato l’angolo, che avrebbe potuto sfruttare. Quella stanza era il suo angolo di pace ormai da anni, lì a Oberhausen, ed era una sorta di tradizione, per lui, chiudersi là dentro per quella breve mezz’ora che precedeva la performance, anche se questa volta l’apertura vera e propria del concerto spettava ai Pristine Blue.

Quando aprì la porta, tuttavia, scoprì di essere stato preceduto: Kuu sedeva sul divanetto al lato opposto della stanza, un paio di occhiali dalla montatura sottile sul naso e un plico di fogli sciupati in mano, e aveva sollevato sorpresa la testa.

“Oh, scusami.” Farfugliò Gustav, che non aveva nemmeno pensato a bussare. “Non credevo ci fosse qualcuno.”

Kuu scosse il capo.

“Non importa.”

“Sempre sola?” le chiese, richiudendo la porta dietro di sé.

Lei si limitò a sollevare appena le spalle che il maglioncino grigio perla lasciava nude e rivolgergli uno sguardo sostenuto:

“Sempre solo?”

Touché, pensò Gustav, divertito.

Tacque, e la osservò in silenzio. Era una come bambola: piccola, fragile, innaturalmente perfetta in ogni minimo dettaglio, così bella da non sembrare nemmeno vera.

“È strano, vero?” esordì Kuu ad un tratto, senza smettere di leggere.

Lui batté interrogativamente le palpebre.

“Che cosa?”

Kuu gli rivolse uno sguardo penetrante:

“Persona felice con persona felice fa due persone felici. Persona triste con persona triste fa due persone tristi. Persona arrabbiata con persona arrabbiata fa due persone arrabbiate.” Si interruppe per un secondo soltanto, per incontrare i suoi occhi con un’espressione penetrante. “Persona sola con persona sola fa due persone insieme.”

Lui si ritrovò, senza un perché, a sorriderle. C’era qualcosa di sbagliato in lei e nella sua perfezione, un’incrinatura stonata indecifrabile ma tangibile che lo aveva affascinato fin dal primo istante.

“Credo di avere lasciato qui la mia borsa.” Disse, guardandosi intorno.

“È quella laggiù?” Kuu indicò il tavolo nell’angolo. La borsa verde militare era proprio lì.

“Sì, grazie.” Gustav si accostò al tavolo e la afferrò. “Me ne vado subito, non ti voglio disturbare.”

Inaspettatamente, però, Kuu non si dimostrò poi così ansiosa di essere lasciata sola:

“Non fa niente, resta pure. So che anche a te piace la tranquillità.”

Gustav non ricordava di averla mai vista così gentile, finora. Almeno non con lui.

“Lettere di fans?” indovinò, accennando ai fogli scritti fittamente che lei teneva in mano.

Lei annuì.

“Sì. Cerco di leggerle tutte, ma sta iniziando a diventare difficile.”

Per qualche motivo, gli fece tenerezza. Magari era un po’ fredda con chi le stava attorno, ma si vedeva che le stavano a cuore i suoi ammiratori.

“Non sapevo portassi gli occhiali.”

Lei se li aggiustò automaticamente sul naso. Le donavano molto, ma del resto sembrava che non esistesse niente che non le donasse.

Proprio come Bill…


“Solo per leggere e per usare il computer.” Gli spiegò Kuu.

“Capisco.” Gustav le sorrise. Era ora che iniziasse a prepararsi: il suo rituale dello scotch richiedeva tempo e dedizione, e non voleva essere una distrazione per Kuu.

O forse, gli sussurrò una vocina debole e remota, non vuoi che lei sia una distrazione per te.

Prese la borsa e fece per avviarsi verso la porta.

“Be’, ora credo che toglierò il disturbo.”

 

***

 

Era una stanza troppo piccola per due persone. Nove metri quadrati scarsi, per metà occupati da un tavolo e due divanetti, erano decisamente troppo pochi per ospitare più di un asociale per volta, e Kuu sapeva di essere lei quella nel posto sbagliato. Era scappata dal malumore di Kaaos dopo l’ennesima discussione telefonica con la sua ragazza e si era infilata nella prima porta aperta che aveva trovato. Era una salettina minuscola, ma calda e a suo modo accogliente, ed era stata bene, finora. Gustav non le dava fastidio; avrebbe solo preferito restare da sola. Ma non poteva lasciarlo andare via. Non ancora.

“Gustav, aspetta.”

E lui aspettò. Si fermò ad un passo dalla soglia e si voltò indietro, in attesa.

Kuu non sapeva esattamente cosa dire.

“Voglio scusarmi con te per come ti ho trattato l’altra sera.” Esordì infine. Si sfilò gli occhiali. “Sono stata scortese e non avrei dovuto, ma ero stanca, e nervosa… E non era colpa tua.”

Avrebbe voluto che Gustav non la guardasse con quella dolcezza disarmante.

“Non serve che ti scusi.” La rassicurò. Si sedette sull’altro divanetto, di fronte a lei, e vi lasciò cadere la borsa, in cui si mise a rovistare alla cieca, finchè non trovò uno dei suoi rotoli di morbido scotch. “Vivo questa situazione da più tempo di te, so riconoscere una persona emotivamente esausta, quando la vedo. Convivo con Bill da dieci anni.”

Kuu non riuscì a non ridere. Gustav, intanto, si mise a fasciarsi le dita, senza però negarle attenzione.

“So di risultare spesso antipatica…” mormorò Kuu, dispiaciuta.

“Sì, è vero.” Ammise lui, lasciandola a bocca aperta, si era aspettata una smentita di cortesia. “Ma risultare non vuol dire essere, fino a prova contraria.”

Kuu stette a guardare mentre lui si avvolgeva scrupolosamente la seconda striscia di scotch attorno all’indice. Aveva mani solide e maschili, rovinate dalla musica, dotate tuttavia di un’impensabile delicatezza.

“Vuoi che ti dia una mano con quello?”

Si sentì arrossire quando lui alzò gli occhi e li sgranò, stupito.

“Oh.” Gustav abbassò lo sguardo su ciò che stava facendo, poi tornò a guardare Kuu con rinnovata gentilezza: “Grazie.”

Lei si alzò e gli andò a sedere accanto. Gli prese la mano tra le sue quasi con prepotenza; gli tolse il nastro adesivo di mano e iniziò a lavorare al suo posto. Sapeva che erano uno preciso e per fortuna lo era anche lei.

“Dovresti metterci un bel po’ di crema idratante, su queste mani.” Commentò, sfiorandogli la pelle ruvida e screpolata.

Gustav, chino su se stesso, rise in un sospiro.

“Lo so, Bill me lo dice in continuazione. Ma è inutile, le maltratto troppo.”

“Suppongo che avere mani curate sia l’ultimo dei pensieri di un batterista.”

“È senz’altro una cosa che riesce più semplice a voi cantanti.”

Kuu non seppe come interpretare quella frase. poteva essere una semplice constatazione, così come un’offesa velata. Ma Gustav non era il tipo da offendere le persone, lo aveva ammesso lui stesso.

“Per una pianista è importante avere delle mani curate.” Gli ricordò.

Lui la lasciò continuare, seguendo i suoi movimenti in silenzio, da vicino. Solo dopo qualche istante le chiese:

“Quando hai cominciato?”

Kuu sentì un accenno di sorriso solleticare le estremità delle proprie labbra.

“A curare le mie mani o a suonare il piano?”

Non poteva vedere il viso di Gustav, ma ebbe la sensazione che anche a lui venisse da sorridere.

“La seconda.”

“A quattro anni.” Gli rispose. “Mia prozia Ingrid insegnava al conservatorio, mi ha fatto venire lei la passione.”

“Insomma, suoni da tutta la vita.”

“Come te, no?”

“Già.”

Con un ultimo giro, Kuu finì di sistemare l’ultimo pezzo di nastro attorno all’ultimo dito. Non capiva come Gustav potesse suonare con quella roba sulle mani, ma evidentemente funzionava.

“Ecco fatto. Spero di non aver stretto troppo.”

“Va benissimo. Grazie.”

“Di niente.”

Non si era resa conto che fossero così vicini. Inspiegabilmente, la presenza di Gustav sembrava sempre portarle una sensazione di quiete, di pace, eppure allo stesso tempo la faceva sentire stranamente vulnerabile. Sollevò lo sguardo sui suoi occhi, ma li trovò timidamente abbassati sulla mano che ancora gli stava stringendo. Lo lasciò andare di scatto, proprio mentre la porta si spalancava.

“Kuu.” Lo sguardo di Kaaos cadde immediatamente su di lei, poi si spostò su Gustav, sospettoso. “Che ci fai qui? Abbiamo l’intervista.”

Lei si rizzò su se stessa, irritata da quel suo atteggiamento invadente. La soffocava, quando faceva così.

“Mi stavo rilassando un po’.”

Lo sguardo di Kaaos vagò con ironia fino a Gustav.

“Sì, lo vedo.” Le andò incontro e le porse una mano per aiutarla ad alzarsi. “Su, muoviamoci, la giornalista è già arrivata.”

Pur riluttante, Kuu dovette accettare. Un’intervista per RTL, per quanto breve, non poteva aspettare.

“A dopo.” Li salutò Gustav, mentre Kaaos la trascinava via. Un secondo dopo, la porta stava già sbattendo alle spalle di Kuu.

 

***

 

Qualcosa brucia nei miei occhi e disturba il mio sonno.

Forse sto vedendo sorgere il sole.

 

_____________________________________________________________________________________

 

Note: sono troppo stanca per delle note vere e proprie, vi chiedo scusa, ma c’è chi premeva per leggere al più presto questo capitolo, quindi eccovelo qui! Prometto che risponderò al più presto a chi aveva fatto domande e/o osservazioni!

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Capitolo 7
*** Angel of Fame ***


You're too important for anyone
You play the role of all you long to be
But I know who you really are
You're the one who cries when you’re alone

(Where Will You Go, Evanescence)

 

***

 

Lenzuola morbide, profumate di pulito. Poca luce nella stanza. E voci sommesse.

“Questa è l’ultima goccia!”

“Eva, non dire stronzate!”

“Tornatene a dormire con lei, visto che ci tieni tanto!”

“Abbassa la voce!”

“No che non abbasso la voce! Che si svegli, quella stronza!”

“Eva…”

“Perché ogni volta devo trovarla nel tuo letto, si può sapere?! Cos’ha, tre anni, per non saper dormire da sola?”

“Eva, chiudi il becco!”

“Vaffanculo, Matt!”

Stava succedendo di nuovo.

Kuu rimase con gli occhi chiusi, rintanata al di sotto delle coperte, ad ascoltare l’ennesimo litigio tra Kaaos ed Eva. Fece rapidamente mente locale di che giorno fosse: il ventisette di febbraio. Erano ad Amburgo, il giorno seguente avrebbero avuto un concerto, ma tutti aspettavano ospiti per il giorno libero. Sarebbero arrivati parenti e amici dei Tokio Hotel, Georg aspettava con ansia la sua ragazza, e Kaaos, senza essere da meno, aveva chiesto a Eva di raggiungerlo. Eva, però, non sembrava granché felice di essere lì.

“Io me ne vado!” stava strepitando, furibonda. “Tieniti la tua bella bionda, visto che ci tieni tanto! Addio!”

“Eva!”

La porta sbatté.

Bene, pensò Kuu, sollevata, la strega se n’è andata.

Eva non le era mai piaciuta. Era una ragazza poco più grande di lei, alta e formosa, dai tratti mediterranei, e studiava da erborista. Kaaos stava insieme a lei da due anni, ma Kuu non aveva mai capito cosa potesse trovarci in lei: mediamente bella, mediamente intelligente, mediamente antipatica. Era ordinaria, sotto qualunque punto di vista.

Kuu si era appena messa a sedere quando la porta della camera da metto si aprì. Kaaos la fissava dalla soglia, gli occhi neri opacizzati da un’espressione scura.

“Valle dietro, stupido.” Gli intimò.

“E perché?” rispose lui, asciutto, le braccia incrociate. “Per litigare di nuovo e poi tra qualche settimana ripetere la stessa identica scena? E poi ancora tra un mese, due mesi, un anno…”

“Smettila!” lo troncò lei. “Non è colpa mia se la tua ragazza è una pazza isterica!”

“La mia ex ragazza.” La corresse Kaaos. Non c’era dolore nel suo tono, sul suo viso. Solo rassegnazione. “Sono stanco di dover giustificare ogni singola cosa che faccio con te.”

Kuu avvertì un sentore di senso di colpa, ma preferì ignorarlo. Non gli aveva chiesto lei di scegliere, n’è tantomeno chi scegliere.

“Non è mai stata alla tua altezza, comunque.”

“Non sta a te dirlo.”

“Vattela a riprendere, se per te è così importante, allora!” sbottò lei, arrabbiata. “Non capisco perché diavolo tu sia ancora qui!”

Kaaos la pietrificò con uno sguardo spietato:

“Perché tu sei più importante.”

I suoi occhi pesavano insistenti su di lei, neri e duri. Pieni di odio, pieni di amore.

Era scorretto, da parte sua, giocare quella carta. Il senso di colpa morse più a fondo la gola di Kuu, ma lei tenne duro. Era abituata a non farsi scalfire.

“Hai intenzione di farmelo pesare per il resto della vita?”

Kaaos si avvicinò lentamente al letto e sedette sul bordo.

“Ti farò pesare tutto quello che posso fino a che –”

“Non cominciare nemmeno.” lo ammonì Kuu. “Conosco la solfa.”

La conoscevano tutti e due. Stranamente, però, Kaaos non aveva nessuna voglia di insistere, stavolta:

“Sono quasi le nove,” le disse, alzandosi. “Sarà meglio che tu ti prepari.”

“Già,” sbuffò Kuu, scostando di malavoglia le coperte. “Arriva la preziosa dolce metà di Georg.”

“Si chiama Nicole.”

Comunque si chiamasse, Kuu aveva già deciso che non le piaceva. La aveva già vista su un mucchio di giornali, una ragazzina dagli occhioni azzurri e il viso innocente. Ovviamente graziosa, perché era fuori discussione che uno dei Tokio Hotel si facesse vedere in giro con una ragazza al di sotto del loro livello estetico. Nessuno di loro aveva tempo da perdere a cercare del bello in una ragazza brutta: era più facile trovare la bellezza dove già era palese.

Più che altro, Kuu era curiosa di conoscere la bambina, e soprattutto di vedere i ragazzi alle prese con lei. Georg non le piaceva: l’aveva sempre trattata come una sorta di elemento scenografico di scarsa importanza, come un fantasma la cui presenza lo lasciava totalmente indifferente, e questo lei non lo sopportava: accettava di essere amata da alcuni e odiata da altri, ma l’indifferenza era la peggiore offesa.

“Non mi interessa come si chiama. Non mi interessa e basta.”

“Del resto non ti è mai importato di nessuno al di fuori di te.”

Anche volendo, Kuu non avrebbe potuto ribattere. Nel corso della vita si era lasciata indietro moltissimi amici e non aveva mai avuto rimorsi, mai aveva sentito la mancanza di uno di loro. Forse era insensibile, come diceva Kaaos, ma non poteva farci niente. Era fatta così.

“Cosa vorresti che ti rispondessi, dopo questa provocazione bella e buona?”

“Niente.” Kaaos scrollò le spalle. “Come sempre. Ma prima o poi arriverà qualcuno da cui non potrai difenderti, e allora ti auguro che non si approfitti di te come tu ti approfitti di chi ti ama.”

Sensi di colpa. Erano l’arma preferita di Kaaos, l’unica e la più efficace.

“Mi sembra di aver già sottolineato più volte che nessuno ti obbliga a stare dove stai.”

La sola risposta di Kaaos fu un’occhiata obliqua.

“Vado a vestirmi.” Indifferente, Kuu si alzò e si avvicinò alla cassettiera dove aveva lasciato i propri vestiti, accuratamente piegati. Li prese e se li portò in bagno sotto allo sguardo severo di Kaaos. Si vestì in fretta e poi se ne andò nella propria stanza senza una parola, tornando mezz’ora dopo, pettinata e truccata di tutto punto, con un abito corto al posto dei jeans e della maglietta. Il colore giusto quel giorno era il nero.

Lei e Kaaos scesero insieme per la colazione. Per tutto il tragitto, Kuu non fece che augurarsi che tutto finisse al più presto. Kaaos era taciturno. Gli si leggeva in faccia un malumore incalzante e di sicuro non gli avrebbe giovato incontrare una coppietta felice leggendaria come Georg e Nicole.

Francamente, non avrebbe giovato nemmeno a lei.

Già appena usciti dall’ascensore, si sentivano delle voci concitate provenire dall’atrio.

“Bill! Bill, no! Mi fai il solletico!”

La voce argentina di una bambina. Una risata. L’inconfondibile risata di Bill. Kuu non ricordava di averlo visto sorridere veramente, dall’inizio del tour, figurarsi sentirlo ridere. Ridere con il cuore. Le fece uno stranissimo effetto: un lieve calore le percorse la pelle assieme a un brivido diffuso, quasi impercettibile. Benessere: quella era la definizione esatta.

E poi altre risate, mescolate a voci che non era difficile riconoscere.

“Ci siete mancate, Sandberg.”

Il tono gentile di Gustav.

“Siete sempre in ritardo, però!”

Il timbro profondo di Tom.

“Meglio tardi che mai, no?”

La voce tenue di una ragazza.

“Oh, insomma, l’importante è che adesso Hagen la smetterà di fare l’emo-boy depresso e nostalgico!”

La voce di un’altra ragazza, ruvida e profonda. Vibeke.

Kuu voltò l’angolo, Kaaos accanto, e li vide: stretti in un piccolo capannello vivace, pieni di entusiasmo e sorrisi. Una famiglia.

La sua attenzione cadde immediatamente su Emily: piccola, per la sua età, ma piacevolmente paffuta, con due enormi occhi verdi – inspiegabilmente, lo stesso identico verde di quelli di Georg – e bellissimi boccoli biondi. Sarebbe parsa un angelo, non fosse stato per la vivida luce di furbizia che le brillava sul viso. Gli sguardi di tutti erano puntati su di lei, pieni di amore.  Quello di Georg, invece, vagava da lei a Nicole.

Una fugace fitta di invidia si insinuò subdola nell’animo di Kuu.

Lei…

Nicole era inconcepibilmente umana. Un viso fresco e pulito, a forma di cuore, sorridente, ma le sue guance erano scavate e il suo corpo non riusciva e riempire i vestiti, che le ricadevano addosso più larghi del normale. Kuu sentì l’asprezza dell’invidia accentuarsi quando Georg, Emily in braccio, le avvolse un braccio attorno alla vita e la attirò verso di sé per baciarla. Tra loro due c’era una tenerezza – un’intimità – che Kuu non aveva visto tra Tom e Vibeke. E il sorriso di Georg, la gioia nei suoi occhi, erano cose che andavano troppo oltre le limitate esperienze di Kuu. Una sola cosa sapeva: loro erano più vicini alla felicità di quanto non lo sarebbe mai potuta essere lei.

E poi, proprio quando la sua testa stava iniziando a urlarle di fare dietrofront e andarsene prima che fosse tardi, Tom si voltò e la vide. Sollevò una mano per salutare:

“Hey, ragazzi!”

No, pensò Kuu, inorridendo. Non voglio. Non posso. Non…

La mano di Kaaos la afferrò e la trascinò verso il centro dell’atrio. Lei lo seguì controvoglia, senza desiderare altro che tutto finisse al più presto. Avrebbe salutato e poi se ne sarebbe andata fingendo un mal di testa. Non voleva restare lì. Non voleva stare in mezzo a loro.

Tollerava Tom e Vibeke perché erano una coppia anomala, priva di sdolcinatezze e romanticherie, ma non avrebbe sopportato a lungo Georg e Nicole.

Si era sempre detta che era impossibile, che i ragazzi non fossero in grado di amare come le ragazze. Tutte le volte che si era presa una cotta per qualche suo compagno di scuola, era stata ripagata con assoluta incuranza. E anche le sue compagne, più spigliate e carine di lei, erano sempre finite con il cuore spezzato, in un modo o nell’altro, e per questo questa sua convinzione si era solo consolidata, negli anni. Le era inconcepibile che qualche ragazzo potesse guardarla e vedere in lei qualcosa per cui valesse la pena di perdere il sonno e l’appetito, qualcosa per cui valesse la pena di lottare, qualcosa di cui innamorarsi. Voleva risparmiarsi l’umiliazione di stare lì, davanti a loro, a chiedersi cosa facesse di Nicole una persona meritevole di tanto amore, che cosa avesse quella ragazza che a lei mancasse.

Non voglio…

 

***

 

L’allegria era contagiosa: Tom la respirava con piacere, a pieni polmoni, riflessa sui volti di tutti coloro che lo circondavano. Aveva atteso a lungo il ritorno di Nicole ed Emily, sia perché gli mancavano, sia perché sapeva quanto fosse importante per Georg avere di nuovo del tempo da trascorrere con loro. Adesso che c’erano tutti, si sentiva un po’ meno in colpa per avere Vibeke sempre accanto a sé. E gli piaceva, le rare volte che capitava, fare uscite a quattro con i due amici: nonostante le abissali differenze che c’erano tra Vibeke e Nicole, le ragazze, poco per volta, avevano acquisito confidenza e si erano scoperte buone amiche. La cosa buffa era che, nonostante Vibeke fosse di quattro anni maggiore, era Nicole la più calibrata e matura tra le due.

Erano una compagnia bizzarra, tutti loro assieme, ma Tom non avrebbe più saputo immaginare la propria vita senza uno soltanto di loro.

Questa era la sua più grande paura, e non lo aveva mai detto a nessuno: che qualcosa andasse storto. Era un periodo complicato per Georg e Nicole, e Tom non voleva nemmeno immaginare cosa sarebbe successo se non fossero riusciti ad uscirne. Era preoccupato per loro, per la band, ma soprattutto per la piccola Emily, che ormai lo considerava un genitore a tutti gli effetti.

Tom non era religioso, ma spesso pregava – senza sapere bene chi – che tutto si risolvesse per il meglio al più presto.

Mentre Bill, accovacciato a terra, abbracciava festosamente Emily, con la coda dell’occhio Tom vide due figure scure apparire in un angolo del salone: Kuu e Kaaos, in total black, guardavano dalla loro parte, immobili.

Appena Tom alzò il braccio per chiamarli, Kuu sembrò stringersi in se stessa, come se avesse preferito non essere vista. Ma ormai era tardi e tutti si erano già voltati nella sua direzione.

Kuu però era una regina della scena, padrona di un corridoio d’hotel tanto quanto di un palcoscenico o di una passerella, e non le ci volle nulla a tramutare la sua aria sorpresa nel suo consolidato cipiglio snob. Attraversò la hall al fianco di Kaaos, lui sorridente, lei impassibile. Le vetrate opache nascondevano l’interno dell’albergo agli occhi indiscreti dei fan appostati di fuori, il cui vociare era però perfettamente udibile. Kuu sfilò maestosa di fronte a loro, le gambe sottili fasciate rese ancora più affusolate da un paio di leggings scuri, e si fermò proprio al cospetto di Tom.

“Buongiorno.” La accolse lui, sfacciato, mentre Vibeke, alle sue spalle, si voltava altrove.

“Buongiorno a voi.” Replicò Kuu, passando in rassegna ciascuno di loro.

“Ciao.” Si aggiunse Kaaos, sollevando la mano.

Mormorii affini si sollevarono da Bill, Gustav e Georg. Nicole, lo sguardo basso, era arrossita vistosamente e teneva le mani strette attorno alla propria borsa. Emily, dal basso del suo metro di statura, occhieggiava avidamente i due sconosciuti.

“Penso sia il caso di fare qualche presentazione.” Disse Bill, voltandosi verso Nicole.

Georg la spinse dolcemente in avanti e lei lo seguì, mansueta.

“Kaaos, Kuu, lei è Nicole, la mia ragazza.”

Nicole strinse le mani ai due ragazzi, avvampando ulteriormente qualdo Kaaos le disse:

“Sei ancora più carina dal vivo, rispetto alle foto.”

Subito dopo, Georg si voltò per chiamare Emily. Lei gli trotterellò accanto, il suo Wilhelm che ballonzolava da una parte all’altra stretto in mano. I suoi occhioni verdi si sgranarono ammirati davanti  a Kuu.

“Emily, loro sono Kuu e Kaaos. Li conosci già, vero?”

“Sì.” Rispose lei, pronta. “La mamma ascolta le loro canzoni.” Poi si rivolse direttamente a Kuu e Kaaos, porgendo loro la propria manina paffuta: “Io mi chiamo Emily. Vado in prima elementare.”

“Piacere di conoscerti, Emily!” le disse Kaaos con un gran sorriso, accovacciandosi per stringerle la mano. Si soffermò a osservarla un secondo più del necessario, e c’era un che di malinconico nei suoi occhi, mentre la accarezzavano. Ma poi si risollevò e scompigliò affettuosamente i capelli di Emily, strappandole una piccola risata.

Tom ammise che ci sapeva fare con i bambini.

Poi fu il turno di Kuu, e stavolta fu Emily a farsi avanti: la squadrò incantata di sotto in su, senza fiato, mangiandosi con gli occhi il vestito merlettato e le decolleté che portava.

“Sei un angelo, signorina Kuu?”

L’imbarazzo di Kuu era evidente. Le sue guance si tinsero di rosa e qualcosa di stranamente simile a un sorriso le ingentilì le labbra.

“No, direi proprio di no.”

“Sei una principessa?”

Kuu rise.

“No, Emily.”

“Come sei bella…”

Lo era davvero. E con quel sorriso, incredibilmente, lo era ancora di più.

Forse c’era altro, in lei. Forse, dopotutto, la sua freddezza era solo una maschera che indossava per il mondo. Tom, in fin dei conti, di maschere ne sapeva parecchio.

Kuu ringraziò Emily e ricevette in cambio un sorriso sdentato. Emily aveva perso tutti gli incisivi: quelli superiori un po’ le stavano già ricrescendo, ma gli inferiori mancavano completamente. Era adorabile.

“Sembra che la Regina delle Nevi abbia finalmente trovato qualcuno che le va a genio.” Sussurrò Vibeke all’orecchio di Tom.

“Qualcuno che guarda caso crede che sia una principessa.” Sghignazzò Tom. “Oh, ma non ti ho detto cos’è successo tra lei e Bill!”

“Cosa?” domandò Vibeke, avida.

“Sono diventati intimi!” bisbigliò Tom, mentre i Pristine Blue erano occupati con gli altri. “Bill ha detto che ha chiacchierato un po’ con lei, l’altro giorno. Un bel po’, capisci? Kuu chiacchiera! È capace di concedere più di tre parole di fila, ti rendi conto? E con Bill, per giunta!”

“Ha già iniziato ad allungare gli artigli, quella megera!”

“Scommettiamo che quel coglione di mio fratello si è già fatto tutti i filmini romantici da qui ai prossimi dieci anni?”

“Bill non si farà incantare da quell’insulsa gattamorta.” Sibilò Vibeke. “Non c’è nulla di cui lui abbia bisogno che lei gli possa dare.”

Tom sogghignò.

“Una cosa ci sarebbe…”

Vibeke gli rifilò un pizzicotto sul sedere che gli fece così male da fargli venire le lacrime agli occhi.

“Zitto, maiale!”

“Mi hai fatto un male cane, stronza!” piagnucolò lui.

“Non mi parlare di cani!” sbottò lei. “Il tuo sacco di pulci mi ha mangiato i miei collant preferiti!”

“Kart è un angelo!” disse Tom, in difesa del proprio animale. “Sei tu che lasci sempre tutto in giro.”

“Ma dimmi tu come si fa a chiamare un cane come una patata!”

“Te l’ho già detto! Kart non sta per kartoffel! È un nome e basta!”

“Lo so io perché l’hai chiamato così. Così quando gli lanci la palla gli puoi dire ‘Go, Kart!’.”

Una vampata di imbarazzato rossore schiaffeggiò il viso di Tom.

Io commetto un gemellicidio! Mai che se ne stia zitto, quella pettegola!

“Bill, sei una merda!” urlò, voltandosi verso il fratello, il quale, ignaro, stava mostrando a Nicole delle fotografie sul proprio cellulare mentre lei gli faceva i complimenti per quanto gli donasse quel berrettino di cotone.

Bill dilatò gli occhi con fare innocente:

“Che c’è? Cos’ho fatto?”

“Hai detto a questa stronza il segreto del nome di Kart!” si lamentò Tom, puntando un dito contro Vibeke. “Bastardo!”

“Tom, non rompere, tanto lo sapevano tutti!”

“A cuccia, voi due.” Li esortò Vibeke. “Fate i bravi, non facciamoci riconoscere.”

“Vi, tu devi solo stare zitta! In calze a rete e anfibi in un hotel a cinque stelle!”

“Ma se tu sei vestito come un barbone!”

“E tu come una donna di strada!”

“Ok, ok, basta così, grazie.” Intervenne Georg, dividendoli. “La figuraccia del giorno l’abbiamo fatta, adesso leviamoci da questa hall e portiamo la nostra follia in luoghi più riservati, per favore.”

A giudicare dallo sguardo speranzoso che il concierge lanciò loro dalla reception, l’idea era apprezzata.

“Ci dispiace, ma purtroppo noi ora dobbiamo andare.” Disse Kuu, in un tono che denotava tutto fuorché dispiacere.

“Noi andiamo a pranzo a Il Mare,” comunicò loro Georg, più per educazione che altro, suppose Tom, dato che i due colleghi non gli erano mai stati molto simpatici. “Se volete unirvi a noi…”

“Grazie dell’invito,” rispose Kuu, prima che Kaaos potesse parlare. “Ma non credo riusciremo a liberarci per l’ora di pranzo.”

A Georg non riuscì di nascondere un’espressione risollevata.

“Sarà per la prossima volta.”

“Sì, certo.”

Kuu e Kaaos concessero un cenno di congedo, poi voltarono loro le spalle e se ne andarono.

Quando furono al di fuori della portata uditiva, Vibeke schioccò la lingua con disapprovazione e borbottò:

“Dio mio, quanto se la tirano…”

 

***

 

Kaaos continuava a guardarla. A ogni passo, uno sguardo. Non lo vedeva, ma lo sentiva, camminandogli avanti a passo svelto per lasciarselo alle spalle, lui e le sue gambe lunghe, la sua statura incombente su di lei fin da quando aveva memoria.

“Non ti azzardare a dirlo.” Lo avvertì.

“Che cosa?”

Kuu trattenne un fremito di impazienza. Lo detestava quando faceva lo gnorri.

“Quello che stai pensando.”

Riuscì quasi a intuire le labbra di Kaaos che si arricciavano di soddisfazione.

“L’hai notato anche tu, allora.”

“Sta’ zitto.”

Non aveva voglia di rispolverare quel frammento di storia. Non adesso, né mai.

“Era uguale.”

Kuu si fermò nel mezzo del corridoio e si voltò bruscamente:

“Ti ho detto di stare zitto!”

Kaaos la fronteggiò, scuro in volto:

“Fa male anche a te?”

Kuu non lo ascoltò. Gli diede nuovamente le spalle e riprese a camminare.

“Fa male anche a te, vero?” ripeté Kaaos, alzando la voce. “Fa male anche a te rivedere Sissi nel viso di Emily.”

Kuu si costrinse a non voltarsi, a non urlare.

“Sissi è morta.” Dichiarò a denti stretti. “E spero per quella bambina che il suo destino sia ben diverso dal suo.”

Voleva solo arrivare in camera e restarci chiusa dentro fino a sera. Non avevano impegni di alcun tipo, in giornata.

Voleva restare sola e basta.

Lasciare fuori gli sguardi innamorati di Georg e i sorrisi radiosi di Nicole.

Dimenticare il momento di confidenza con Bill, le parole amichevoli di Gustav.

Smettere di pensare ai vuoti, al senso di insoddisfazione.

Fumo negli occhi.

“Kuu!” provò a chiamarla Kaaos, ma il suono le giunse vago e sfumato.

Aprì la porta ed entrò nella stanza con l’aria che le premeva nei polmoni dallo sforzo di trattenere le lacrime. Piangere era fuori discussione.

“Fa male anche a te, vero?”

No, era una storia chiusa. Non le faceva né caldo né freddo, il passato era passato, sepolto sotto anni e anni di lotta per la dimenticanza. Quello che era stato non sarebbe tornato più, nel bene e nel male. Non la avrebbe più tormentata.

No, mai più.

Nella stanza, vetri e riflessi ovunque, a lampade spente e tende serrate. Poca luce e molte ombre. Come la sua vita. Quella vita perfetta che aveva sempre sognato, e la vita di prima non era che un ricordo impotente. Era tutto diverso, adesso.

Più facile.

Più comodo.

Più libero.

Più bello.

Sì, più bello.

Più bello…

Perché quello che aveva ora era tutto ciò che aveva sempre sognato e non avrebbe avuto alcun senso esserne scontenti.

E la lacrima che le scivolò silenziosa sul viso, fece finta di non sentirla.

 

***

Life is beautiful under these lights
Charming tricks to flash a smile
Pretty, pretty, don’t you care
Stars don’t bleed
Don’t hide
Don’t share
Everybody’s wish to be in your place
Your kingdom for a hope
Your life for an escape
Don’t cry
Angel of fame

[Angel of Fame, Pristine Blue]

 

***

 

Di giornate così felici ce n’erano state poche, negli ultimi mesi. Non che avesse molto di cui lamentarsi, tutto sommato, ma avere Nicole di nuovo lì con lui lo aveva fatto come rinascere. Avrebbe solo voluto che lei fosse più libera di seguirlo durante il tour, e se fosse stata una ragazza comune, sicuramente ne sarebbe stata in grado, ma lui amava Nicole proprio perché la aveva sempre vista distante anni luce da qualsiasi ragazza che gli si fosse presentata negli anni, e parte di questo era sicuramente da imputare a Emily.

Georg a volte non riusciva a capacitarsi di che cosa gli fosse successo: l’amore che provava per Emily era così forte da spaventarlo, a volte, quando pensava al profumo di biscotti della sua pelle morbida, alla sua voce sottile che lo chiamava per nome. Non aveva mai pensato seriamente all’eventualità di avere dei figli, un giorno, e per anni era stato convinto che non ci avrebbe pensato ancora a lungo, ma adesso – adesso che aveva tutto questo – la prospettiva di farsi una famiglia non era poi così assurda e lontana. Loro tre, del resto, erano già una famiglia a tutti gli effetti.

Il problema era trovare il tempo di comportarsi da famiglia.

Lui e gli altri avevano trascorso tutta la giornata insieme alle rispettive famiglie e Georg non smetteva mai di commuoversi nel vedere sua madre che giocava con Emily. Un tempo aveva temuto di raccontare ai proprio genitori di essersi innamorato di una ragazza madre, ma, inaspettatamente, sia Nicole che Emily erano state accolte a braccia aperte in casa. Nonostante gli imbarazzi iniziali, le cose erano sempre state promettenti.

“A cosa stai pensando?”

Georg abbassò lo sguardo: Nicole, sotto al suo braccio, lo studiava attenta, vagamente accigliata. A volte Georg aveva la preoccupante sensazione che lei potesse leggergli nel pensiero.

“Niente di particolare.” Le rispose.

Lo sguardo di Nicole si intristì. Georg riusciva a contare le pallide lentiggini sul suo naso alla luce lattiginosa del lampione. L’aria era fredda e umida ad Amburgo, quella sera, e l’odore della neve non era ancora scomparso del tutto. Era squallido dove portare la propria ragazza in un vicolo sul retro di un hotel per poter fare quattro passi indisturbati. Davanti all’ingrasso, già da diverse ore, c’erano appostate decine di fans.

Nicole gli camminava accanto fin troppo composta e raramente lo guardava. Georg riusciva quasi a intuire i mille pensieri che le ronzavano in testa, ma, per codardia o per egoismo, non li voleva conoscere.

A un tratto, però, Nicole si fermò. Rimase immobile per un attimo, poi, con un labile sospiro, si scostò da lui. Era dimagrita molto negli ultimi mesi e quel livore grigiastro attorno ai suoi occhi la faceva sembrare malata.

“Georg, vogliamo parlare seriamente, per una volta?”

La voce vellutata di Nicole era sciupata da una spiacevole incrinatura ansiosa e lo distrusse vedere tutto quel dolore in quegli occhi di cui, prima di ogni altra cosa, aveva amato la serenità.

“Di cosa?” domandò, guardando altrove, ma Nicole lo obbligò a voltarsi.

“È inutile che tu faccia finta di niente,” La sua mano fredda sulla guancia di Georg gli provocò un brivido, o forse era il timore del discorso che stavano per affrontare.. “Le cose non stanno andando bene, tra noi, lo sai meglio di me.”

Oh, Nicole…

Georg abbassò lo sguardo con una terribile fitta di dolore al cuore. Era scappato, finora, rifugiandosi nella negazione, ma non poteva più fingere che fosse tutto a posto.

“Che cosa sta succedendo?” gli chiese Nicole, cercando di incontrare i suoi occhi. “Georg, per favore,” lo pregò in un soffio tremulo. Lo prese per le spalle e lo costrinse a guardarla. “Sono settimane che ti comporti in modo strano. Sei distratto, malinconico, taciturno…”

Preoccupazione, amore, impotenza… Vedeva tutte queste cose in lei e si sentiva una persona orribile per averla costretta a vivere per  mesi in una finzione.

“Non è un bel periodo, Nicole.” Borbottò, pregando che lei gli concedesse un po’ più di tempo per riflettere, per ponderare la situazione.

“Sì, questo l’avevo capito da sola!”

“Passerà.” Insisté.

“Sì? E io nel frattempo cosa dovrei fare, me lo dici?” esclamò Nicole, traboccante di rabbia e frustrazione. “Starmene a casa a chiedermi cosa capiterà e mentire a mia figlia ogni volta che mi chiede ‘Mamma, perché piangi?’?”

Zitta! Stai zitta, ti prego…

“Ho detto che passerà!” urlò Georg, esasperato. Non voleva ascoltare quelle parole, non voleva sentirsi più in colpa di quanto non si sentisse già. Non voleva ammettere di aver fatto soffrire tanto qualcuno a cui teneva più che a chiunque altro.

Più che a qualunque altra cosa.

“Smettila di chiudermi fuori da qualunque cosa ti riguardi!” urlò Nicole di rimando, con una disperazione nella voce che gli fece tanto male da smorzargli il respiro. “Siamo stati insieme per due anni, ho il diritto di sapere se è finita!” Respirava in modo irregolare, pallidissima in viso nonostante la rabbia. “Se vuoi lasciarmi, dimmelo in faccia una volta per tutte, perché io non ce la faccio più, Georg!”

Sei un bastardo, disse lui a se stesso, sentendosi ghiaccio liquido nelle vene al posto del sangue. La guardava, così fragile e ferita, e si sentiva male per averla tenuta all’oscuro di tutto così a lungo, così egoisticamente.

Non meritava niente di quello che le aveva fatto passare.

“Nicole, per favore, calmati,” La abbracciò quasi con violenza e le accarezzò i capelli, lasciandola singhiozzare contro il proprio petto. “Calmati.” ripeté con più gentilezza.

Era rimasto zitto finora. Per quale motivo, non lo sapeva veramente nemmeno lui. Per proteggerla, forse, o forse per evitare di farsi influenzare da quello che lei avrebbe potuto dirgli.

Ci aveva pensato tanto, fino a farsi venire il mal di testa, valutando infiniti pro ed infiniti contro.

Quante volte aveva messo l’una e l’altra controparte sulla bilancia? L’ago puntava sempre su un lato diverso. C’erano sentimenti molto profondi di mezzo, non solo vantaggi e svantaggi, ma lui non aveva più quindici anni, aveva capito che la vita non era solo uno spettacolo su un palcoscenico, e adesso, alla soglia dei suoi ventitre anni, le cose cominciavano ad apparire sotto una prospettiva diversa.

Nicole gli stringeva la vita e non emetteva più un suono. Tremava tra le sue braccia ed aspettava in silenzio, e Georg sapeva che non era giusto, non poteva più stare zitto.

“Sta’ tranquilla,” le sussurrò dolcemente, cullandola nel proprio abbraccio. Ebbe l’ennesima fitta al cuore al pensiero di quello che stava per dirle, ma era arrivato il momento di affrontare quella questione, rimandare avrebbe solo peggiorato le cose. Inspirò profondamente e, finalmente, si liberò di quel peso: “Non è te che lascerei.”

 

***

 

A volte l’unica chance di uscire da un tunnel buio è scegliere di camminare da soli su una strada a senso unico.

Nessuno ti verrà mai incontro e non ti sarà concesso tornare indietro.

Tutto ciò che puoi sperare è di trovare un incrocio con la via a senso unico di qualcun altro.

A volte è concesso un momento – uno soltanto – per decidere se tirare dritto o seguire ciecamente il cammino di uno sconosciuto…

 

***

 

 

Gustav non si era mai fidato troppo dei presentimenti, dell’istinto. La sua razionalità gli aveva sempre impedito di seguire una semplice sensazione come fosse stata un dato certo. Per questo non si spiegava per quale motivo, all’una di notte, assonnato,si fosse alzato dal letto appositamente per andare a dare un’occhiata al corridoio fuori dalla propria stanza.

Si stava dando dello stupido da solo, la testa che sbirciava fuori dalla porta, senza uno straccio di motivo. Non capiva che razza di assurdo presentimento lo avesse spinto a controllare un banalissimo corridoio vuoto.

L’indomani mattina sarebbero partiti per Copenhagen e sarebbe stato consigliabile riposare, o i ragazzi avrebbero avuto seri problemi a convivere con il suo malumore.

“Gustav?”

Tutto il sonno e la spossatezza si dileguarono nel sentire quella voce. Si voltò verso la propria sinistra, dove il corridoio svoltava, e, anche senza occhiali, non gli fu difficile riconoscere l’immagine sinuosa di Kuu. Cosa ci facesse lei lì, a quell’ora, poi, non aveva la forza di domandarselo.

Kuu si avvicinò in pochi passi silenziosi, con indosso una semplicissima tuta blu firmata Adidas, ai piedi un paio di ballerine. Per la prima volta Gustav la vedeva senza tacchi. Era davvero molto minuta.

“Sei un nottambulo anche tu?”

“Non esattamente.” Rispose lui. Gli sembrava meglio di un ‘Avevo un presentimento’.

Kuu lo scrutò da sotto le sue ciglia bionde, con un’espressione che lui non riuscì a decifrare. Essere in sua presenza lo metteva sempre un po’ a disagio: era impossibile indovinare cosa pensasse.

“E tu come mai sei in giro?”

“Non riesco a prendere sonno.”

Un pensiero folle e decisamente inappropriato lampeggiò nella mente di Gustav: ‘Ti va di entrare?’

Lo scacciò nervosamente, sforzandosi di tornare in sé.

“Quando ero piccolo mia madre mi dava un bicchiere di latte e menta, per farmi addormentare.” Le disse. “Forse ti potrebbe essere utile.”

Kuu si avvolse tra le proprie braccia e annuì.

“Sì, potrei provare. Al piano bar hanno sicuramente sia l’uno che l’altro.”

Era maledettamente bella. Gustav si vergognò della superficialità dei propri pensieri, ma era più forte di lui. Anche con il viso tirato e gli occhi gonfi dal sonno, Kuu restava incredibilmente attraente.

“Vuoi compagnia?”

Le parole gli uscirono di bocca prima che lui si fosse reso conto di averle formulate.

Kuu lo fissò per un secondo, palesemente stupita, e Gustav si chiese quanto drammaticamente sbagliata potesse essere l’impressione che le aveva dato.

Eppure, dopo quell’attimo di indecisione, le labbra chiare di Kuu gli sorrisero.

 

***

 

A volte, inaspettatamente, ti si presenta un bivio davanti.

E allora l’unica cosa da fare è tentare.

Rischiare.

E fidarsi.

 

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Note: e ancora una volta la Mary stupì il suo pubblico, riuscendo miracolosamente a postare un nuovo capitolo! ^^ Chiedo scusa a tutti per il solito,  immenso ritardo, ma eventi semi-importanti della mia vita privata hanno avuto la precedenza: la mia laurea (ma è roba di poco conto, tutto sommato) e il concerto di questi quattro meravigliosi ragazzi che tutte noi adoriamo! Non li ringrazierò mai abbastanza per il mondo che mi hanno regalato in una sola serata! Sono magnifici, dico solo questo.

In secondo luogo, volevo mettervi al corrente (per chi, come me, non se ne fosse ancora accorto) del concorso che si sta svolgendo in questo periodo qui su EFP: Migliori Personaggi Originali. Ora, mi sembra ovvio che alla sottoscritta farebbe piacere che votaste per le sue creature, ma il fondamentale è che sappiate che questo benedetto concorso esiste e si vota semplicemente accedendo alla storia con il/i personaggio/i scelto/i e spiegando in un commento perché ritenete che meritino il vostro voto.

Spam a parte, penso che finalmente la storia stia iniziando a entrare nel vivo e penso anche che molti di voi stiano iniziando a farsi delle domande, a cui peraltro, ai limiti del possibile, sarò più che felice di rispondere. ^^

Ciò detto, mi ritiro di nuovo nel mio bozzolo di letargia post-laurea, pregando che la Santa Ispirazione torni presto da me a dettarmi un nuovo capitolo. Fino ad allora, statemi bene e, se pensate ne valga la pena, fatemi sapere le vostre impressioni su questo settimo capitolo. Sapete che fanno sempre piacere. ;)

Alla prossima!

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Capitolo 8
*** Just Breathe ***


Too many broken promises in her fragile life
Too many secret thoughts she tried to hide that night
So hard she tried to escape
But the pain was everywhere
No, take this pain away
Even for one day 

(Queen Misery, For My Pain)

 

***

 

“In sostanza i programmi sono questi: voi fate il vostro shopping come se nulla fosse – chiacchierate, provate, vi divertite… quello che volete – e Chris vi riprende. Io e Griet saremo nei paraggi assieme a Mike e Luke, anche se non dovremmo avere problemi di alcun tipo. Domande?”

Kuu guardò Benjamin da dietro ai suoi occhiali da sole e sollevò appena il mento. Bill suppose che dovesse essere un segno di negazione.

Dopo due settimane di tour, ancora non aveva capito che cosa pensasse esattamente di lei. C’erano momenti – come adesso – in cui avrebbe tanto voluto sbottarle in faccia e invitarla a tirarsela di meno, altri, invece, in cui si sentiva stranamente vicino a lei, in cui parlarle era un piacere, e anche una sorta di sollievo. In sostanza, era tutto semplicemente una gran confusione.

L’ordine del giorno era la registrazione di una puntata della Tokio Hotel TV con la partecipazione eccezionale di Kuu. L’episodio avrebbe fatto scalpore e già Bill aveva un’idea abbastanza precisa del tipo di commenti che sarebbero volati, ma gliene importava davvero poco. Lo shopping gli mancava e non era mai stato nella zona modaiola di Mosca. Kuu sarebbe stata una presenza marginale: dovevano semplicemente fare finta di avere una gran sintonia e di spassarsela un sacco. Per fortuna erano entrambi parecchio esperti di recitazione, a quanto pareva.

“Bene,” intervenne Griet, facendosi avanti nella hall dell’hotel con la borsa più orribile e rovinata che Bill avesse mai visto. Non aveva molto buongusto, ma la sua simpatia la rendeva irresistibile. “Su, su, muoviamoci, il van è già qui fuori.”

Fu strano non trovare nessuno, fuori, ad aspettarli. Di solito le uscite dagli hotel erano sempre accolte da decine di fans accalcati dietro a nastri e transenne, ma fu gradevole, per una volta, non essere aggrediti da urla isteriche.

Il Viano nero era parcheggiato subito di fronte all’ingresso; vi presero tutti posto in silenzio, Bill, Benjamin e Christopher con la telecamera da una parte, Kuu, Griet e Luke dall’altra, Mike davanti con l’autista, poi partirono. Impiegarono quasi mezz’ora per raggiungere il centro, e in quella mezzora Christopher li fece parlare un po’ di come stessero andando le cose con i concerti e dei piani della giornata. Quando finalmente il van si arrestò e si spense, Bill era già stanco di parlare.

Appena scesi, un brivido generale scosse tutti quanti: faceva piuttosto freddo. Il termometro di una farmacia dal lato opposto della strada segnava meno undici gradi, alle nove del mattino.

“Queste capitali del Nord sono così fredde…” commentò Kuu, guardandosi intorno, le braccia strette attorno a sé. A ogni parola, sbuffi bianchi di denso vapore le si sollevarono dalla bocca.

Bill capì subito che cosa volesse dire: non ‘fredde’ in senso climatico, ma ‘fredde’ per la sensazione che davano. Forse era anche colpa del cielo grigio e del cattivo tempo, ma tutte le ultime città che avevano visitato gli erano sembrate desolanti.

“Ok, ragazzi,” disse Benjamin, sfregandosi le mani arrossate. “Via il guinzaglio. Siete liberi di fare quello che vi pare. Nei limiti della pubblica decenza.”

Bill e Kuu si scambiarono uno sguardo poco entusiasta, ma annuirono. Lungo la via campeggiavano a perdita d’occhio le insegne dei grandi nomi della moda e non c’era che l’imbarazzo della scelta.

“D’accordo, Mister Kaulitz: patti chiari, amicizia lunga.” Kuu gli si parò di fronte con le mani puntellate sui fianchi e un’espressione risoluta. “Un negozio lo scelgo io, uno lo scegli tu. Fifty-fifty, e siamo tutti contenti.”

A Bill piacque quell’improvviso slancio di confidenza e ancora di più gli piacque la mezza minaccia. Kuu aveva davvero un caratterino focoso.

“Perché il primo lo devi scegliere tu?” replicò, seccato.

“Va bene, allora,” Kuu assottigliò lievemente gli occhi, quel giorno velati da impeccabili sfumature bianche e nere. “Prima le signore.”

Christopher riprese tutto quanto sghignazzando dietro alla telecamera. Bill, senza perdere il proprio regale contegno, si limitò a chinare il capo con riconoscenza e si avviò verso l’entrata sfavillante di Dior. Riflessa nel vetro della porta, vide Kuu trattenere un sorriso.

Di nuovo, provò fastidio nell’indecisione che nutriva verso di lei. Forse se avesse avuto le idee più chiare – e se lei gli avesse facilitato un minimo le cose – sarebbe stato tutto diverso.

All’interno la boutique era luminosa e profumava di tessuti costosi. Tuuto era gicato sui toni del bianco e dell’oro, caldo e pulito. Furono immediatamente accolti da un’intera legione di commessi zelanti, che però liquidarono in fretta.

“Odio quando ti assillano così.” Sbuffò Kuu, puntando un paio di jeans su un manichino. “Come se tu fossi un imbecille che non sa come scegliere un abito.”

“Spesso non hanno nemmeno un briciolo di senso dello stile.” Convenne Bill. Parlare ad alta voce alle spalle di persone presenti era una soddisfazione che ci si poteva togliere solo all’estero.

Mentre gironzolavano per il negozio, Bill ebbe modo di avere conferma di ciò che già gli era saltato all’occhio: Kuu amava i colori neutri, discreti. Vestiva in toni accesi solo se si trattava di apparizioni pubbliche; quando invece era lontana dagli occhi del pubblico, i suoi vestiti erano bianchi, neri, beige, crema… Mai appariscenti, mai vistosi, mai nulla che attirasse troppo l’attenzione.

Forse perché ne attira già abbastanza lei…

Uscirono dopo mezzora di sofferte selezioni. Nessuno dei due si provò nulla: era poco chic provarsi vestiti come quelli.

La seconda tappa fu Dolce&Gabbana, la terza Armani. Da Gucci, Kuu decise di sorprenderlo.

“Quello ti starebbe bene.” Le disse Bill, indicandole un cappottino color avorio bordato di pelliccia bianca.

Kuu buttò un’occhiatina veloce alla stampella su cui faceva bella mostra di sé il cappotto e storse il naso.

“Non me la metto quella roba.”

“Stai snobbando un cappotto di Gucci?”

“Non me lo metto addosso un animale morto.”

Questo lasciò Bill interdetto.

Era diventato vegetariano da poco – poco meno di un anno – e ancora non era riuscito a entrare del tutto nell’ottica del vegetariano. Lo aveva fatto per amore degli animali – lui, ma anche Tom – eppure, nonostante le prediche di Vibeke, non si era mai curato più di tanto di tutti gli articoli in pelle che possedeva. Adesso, tuttavia, di fronte alla genuina indignazione di Kuu verso la sua ingenua gaffe capì di avere molto su cui riflettere.

“Non credevo ci tenessi a queste cose.”

Indifferente, Kuu si mise a passare in rassegna una serie di camicette.

“Sono molte le cose che la gente non crederebbe di me.”

Bill rimase lì, con la giacca che stava guardando tra le mani, a chiedersi quale dei mille modi in cui quella frase poteva essere interpretata fosse quello giusto. Kuu era un enigma, e per giunta un enigma che ci teneva a restare tale. Parte del suo fascino derivava anche da quello, dal sapore di segreti che avevano i suoi occhi.

“Non ti vorrai comprare quella, vero?”

Un battito di ciglia fece riscuotere Bill. A pochi metri da lui, Kuu lo scrutava accigliata.

“Perché?” fece lui, perplesso. “Cos’ha che non va?”

“Niente.” Rispose Kuu brevemente. “Il look dark-glam-metal ti dona, e anche parecchio.”

“Ma…?”

C’era un ‘ma’, era ovvio.

Per un paio di secondi lei fissò la camicetta che aveva scelto, poi sembrò ripensarci. Si voltò verso Bill e il suo sguardo vagò su di lui, critico.

“Mai pensato di provare qualcosa di nuovo?”

No, fu l’immediata reazione del cervello di Bill. Gli piaceva il suo stile, non lo aveva mai nemmeno sfiorato l’idea di cambiare. Faceva parte di lui, della sua personalità, quel modo di vestire, e nel tempo si era evoluto assieme a lui. Non voleva nemmeno pensarci di cambiare.

Lo sguardo di Kuu, però, aveva acceso il lui una strana voglia di confronto. La sfida che lei gli aveva indirettamente lanciato lo aveva stuzzicato e l’invito a giocare era toppo allettante perché lo potesse lasciare ignorato.

Le si avvicinò, lasciando perdere la giacca, e ricambiò con lo stesso, identico sguardo:

“Immagino che tu sapresti suggerirmi.”

Un angolino della bocca di Kuu accennò un ricciolo di soddisfazione, che lei contenne con disinvoltura.

“Potrei rifarti il guardaroba,” affermò, sicura. “E me ne saresti riconoscente.”

Nonostante il tono di superiorità, non c’era ostilità nel suo atteggiamento. Era tranquilla, calibrata, elegante. Ma improvvisamente Bill non si sentiva più irritato da lei.

“Potrei dire la stessa cosa.” Ribatté, soave.

Kuu ripose con cura la camicetta sull’espositore e si girò a fronteggiarlo. Era bassa, tanto che, anche con i tacchi degli stivali, gli arrivava a stento alla spalla, eppure sapeva incutere una soggezione incredibile.

“I tuoi gusti non sono adatti alla mia figura.” Obiettò, occhieggiando con eloquenza le borchie della cintura e della borsa.

Era esattamente quello che Bill aveva aspettato. Imitando la sua compostezza, incrociò le braccia sul petto e inarcò un sopracciglio:

“Vogliamo scommettere?”

Da dietro sottili ciuffi biondi, gli occhi di Kuu scintillarono, mentre un sorriso intrigato le si apriva sul viso.

“Scommettiamo.”

“La faccenda inizia a farsi interessante…” commentò una voce.

Solo allora Bill rammentò che c’era una telecamera a riprenderli e, dietro di essa, Christopher seguiva la scena con un certo interesse.

“Bill versus Kuu: la sfida è aperta! Quali sono le regole?”

“Io scelgo il tuo look, tu il mio.” Stabilì Kuu. La telecamera la seguì da vicino. “Completa connivenza, nessun diritto di protesta o trattazione, nessuna possibilità di appello.”

“La posta?”

“Chi perde si esibisce con l’outfit deciso dal vincitore al concerto di stasera.” Rivolse a Bill un’occhiata maliziosa. “Ci stai?”

Lui si impettì in tutta la propria altezza e sollevò enfaticamente il mento.

“Ci sto.”

 

***

 

“Te lo puoi scordare che io mi mostri in giro conciata così!”

“Le regole le hai fatte tu, quindi adesso devi sottostare!”

“Tu sei pronto, almeno?”

“Sì, ma…”

“Niente ma. Nessun diritto di protesta o trattazione, nessuna possibilità di appello.”

“La camicia va dentro o fuori dai pantaloni?”

“Fuori.”

“Ok. E questa specie di nastro nero?”

“Va attorno al polso.”

“E come me lo lego, da solo?”

“Su, uscite!” ordinò la voce divertita di Christopher. “Fateci vedere chi ha vinto!”

Bill sospirò fra sé. Non era poi così sicuro della sfida, adesso.

Kuu lo aveva trascinato da un negozio all’altro e lo aveva costretto a considerare un mucchio di cose chic che a lui non sarebbe mai nemmeno venuto in mente di guardare. Lui, in compenso, la aveva tenuta per più di un’ora da Vivienne Westwood, godendo delle sue espressioni orripilante di fronte a certi capi che le proponeva.

Alla fine, con il portafogli decisamente alleggerito, si erano fermati nei camerini per il risultato finale.

Bill si guardava accigliato allo specchio, incerto. Cominciava a temere di aver sottovalutato la sfida, e soprattutto l’abilità di Kuu. Gli bruciava ammetterlo, ma gli piaceva il modo in cui lo aveva fatto vestire. I jeans chiari e sdruciti, venati di scuro, attenuavano bene l’eccessiva finezza delle sue gambe, retti attorno ai fianchi da una cinta di lino nero, in tinta con la giacca, legata di lato. Si lisciò addosso la leggera camicia bianca e aggiustò gli orli dei pantaloni sopra agli stivali.

Sebbene qualcosa non lo convincesse del tutto, dovette ammettere che stava benissimo.

Fuori sentì la porta del camerino di Kuu che si apriva e subito dopo un paio di fischi di ammirazione.

Incuriosito, anche se per niente convinto, uscì, pronto ad ammettere la sconfitta. La mise che aveva scelto lui per lei non poteva certo essere all’altezza. Ma poi sollevò lo sguardo, e si rese conto che la vittoria era indiscutibilmente sua.

Kuu gli stava di fronte, le mani di nuovo vezzosamente sui fianchi, e lo guardava con un’espressione per niente felice.

“Non dire niente.” Borbottò aspramente. “Sono ridicola.”

Bill avrebbe solo voluto capire come smettere di boccheggiare. La giovane donna raffinata e austera non c’era più. Aveva lasciato il posto a una provocante ragazza dal fascino trasgressivo.

Anfibi con fibbie argentate ai piedi, gambe nude, una minigonna in finta pelle a coprirle a stento le cosce, sorretta da una cintura borchiata. Gli strappi sulla maglietta si incrociavano con le sottilissime catene che la decoravano, richiamando la foggia dei bracciali che le pendevano dai polsi sottili. Al collo, il collare di Bill.

“Stai da dio!” esclamò Bill, incredulo, non appena ebbe recuperato l’uso della parola.

Kuu sbuffò.

“Oh, ti prego, sii obiettivo!”

Bill era molto obiettivo, e stava giusto pensando che, con il trucco giusto, il look avrebbe raggiunto la perfezione.

“Ha vinto lui, Kuu, credimi.” Intervenne Benjamin, in tono ridente. “La giuria ha emesso un verdetto unanime.”

“Assolutamente.” Convenne Christopher, facendo un segno di ok con la mano. Griet, accanto a lui, rideva.

“Un secondo solo, però.” Disse Kuu, accostandosi a Bill. “Sei un incapace, Kaulitz.”

Prima che lui potesse ribattere, Kuu allungò le mani e gli sbottonò i tre bottoni più alti della camicia, poi spinse in su le maniche, scoprendogli gli avambracci, gli sfilò di mano il nastro e glielo mise al polso, incrociandolo più volte prima di legarlo.

Bill rabbrividì sotto alle sue dita fredde. Si lasciò sfiorare e apprezzò la delicatezza del suo tocco, l’agilità. Le sue mani erano belle quanto lei: piccole, fini, curate fino alla maniacalità, seducenti.

“Così va meglio.”

I loro occhi si incrociarono mentre lei ammirava il proprio operato. Al centro dell’iride dorata, le sue pupille erano abissi insondabili, muri di buio in cui era impossibile distinguere pensieri, emozioni, sensazioni. Gli occhi di una bambola.

“Vinci tu lo stesso.”

Kuu assunse un broncio irritato. Si mise a fissare se stessa nell’immenso specchio che occupava l’intera parete dell’anticamera e non sembrava affatto contenta. Come già lui aveva notato, tuttavia, il suo sguardo non saliva mai fino al volto.

“Detesto le gonne così corte.”

A Bill occorse un certo sforzo per trattenere commenti inopportuni. Si dava il caso, infatti, che, per quanto lei potesse detestarle, le gonne corte facessero un a figura particolarmente apprezzabile, su di lei.

“Un vero peccato.” Commentò Christopher, dando così voce ai suoi pensieri, poi scoppiò a ridere. “Ok, questa poi la tagliamo.”

“Non posso esibirmi così!” protestò Kuu con una punta di panico. “Cosa penseranno i fans?”

Bill scrollò le spalle, spietato e divertito.

“Le regole sono regole. Puoi sempre spiegare la storia nel tuo prossimo post del tour-log.”

Kuu gli restituì un’occhiata pungente, ma chiaramente scherzosa, e Bill comprese che in quella mattinata qualcosa era cambiato. Qualcosa di piccolo, di silenzioso, che però c’era, e gli faceva piacere.

E in quel preciso momento una pallida speranza si annidò in lui, di nascosto, a sua insaputa, mentre lui si chiedeva se, in fondo, proprio la speranza non fosse davvero l’ultima a morire.

“Foto! Foto!” esigette Christopher, battendo le mani per attirare la loro attenzione. Aveva tirato fuori dal suo borsone la sua inseparabile fotocamera e ora la puntava verso di loro, impaziente.

“Non ho nessuna intenzione di –”

“Invece sì.”

Bill non si curò della protesta di Kuu. Le mise un braccio sulle spalle e la tirò verso di sé, sorridendo verso Christopher. Sbigottita, Kuu gli barcollò accanto, ma non si oppose. Bill riusciva a percepirla con il proprio corpo: magra, sottile, fragile. Abituato alla solida fisicità di Vibeke, ora gli sembrava di toccare una farfalla.

“Sorridi un po’, ragazza mia!” esclamò Griet, scuotendo la testa.

“Sorrido quando lo dico io.” La rimbeccò Kuu.

Bill si riconobbe in quell’atteggiamento capriccioso, nella posa insolente che lei aveva assunto.

Alla fine, tra uno scatto e l’altro, finirono per fare un vero e proprio photoshoot. Bill si divertì a posare con Kuu: per la prima volta da sempre finalmente non era il solo a provocare l’osservatore, a giocare con posizioni, sguardi, gesti. Kuu sapeva come farsi catturare dall’obiettivo, e si muoveva con una notevole dimestichezza tra i flash, senza esitazioni. Sempre senza sorrisi, però.

Per quel che Bill ricordasse, non esisteva fotografia in cui Kuu fosse stata ritratta sorridente. Da quel punto di vista, gli ricordava parecchio qualcuno di sua conoscenza.

“Sono stanco morto, ma è stato divertente.” Si compiacque Bill, quando arrivarono dritti all’arena.

Cercò il viso di Kuu, ma lei era rivolta altrove. Tutto ciò che gli tornò indietro su silenzio.

“È stata una mattinata davvero piacevole.” Mormorò Kuu, proprio quando Bill stava per aggiungere qualcosa. Si voltò a guardarlo. “Devo essere sincera, ero convinta che ci saremmo entrambi annoiati a morte a vicenda, invece… Sono rimasta sorpresa. Positivamente, intendo.”

Per gli standard di Kuu, quello era un complimento molto generoso.

“Ammetto che l’ho pensato anch’io.” Disse Bill. “Ma per una volta non mi è dispiaciuto dovermi ricredere.”

Raggiunsero il backstage, e lì le loro strade si separavano: Bill aveva un’intervista assieme ai ragazzi e Kuu doveva registrare con Kaaos un breve filmato per aggiornare i loro fans sul tour. Bill era curioso di vederlo, solo per scoprire se e come avrebbe parlato della loro sessione di shopping.

Kuu lo salutò con un cenno.

“Ci si rivede tra un paio d’ore.”

“Certo. E non dimenticare che ti è assolutamente vietato cambiarti prima della fine del concerto.”

“Tu non ti cambiare per l’intervista.”

Bill sorrise e assentì.

“D’accordo. A dopo, allora.”

E mentre lei gli voltava le spalle e si allontanava lungo il corridoio, Bill si chiese perché, dopo che per una mattina erano stati così vicini, lei sembrasse ancora irrimediabilmente inarrivabile.

 

***

 

Kuu era stata a fare shopping con Bill per tutta la mattina.

La aveva vista di sfuggita uscire con un’espressione funerea e l’aveva poi vista rientrare con un’aria così serena e rilassata che non aveva potuto fare a meno di chiedersi cosa potesse mai essere successo per ribaltare così drasticamente il suo umore. I racconti entusiastici di Bill riguardo la giornata, in seguito, gli avevano più o meno chiarito le idee.

Avrebbe solo voluto conoscere anche il punto di vista di Kuu.

Si sorprese a scoprirsi irrequieto al pensiero che potesse essere stata per entrambi un’esperienza significativa.

Lui era stato il primo ad avvicinarsi a lei. In qualche modo, questo lo aveva compiaciuto.

Ora, come sempre, il carattere esuberante di Bill arrivava a monopolizzare tutto quanto.

E Gustav non era geloso di lui, ma solo invidioso. Invidioso del fatto che per lui fosse così semplice farsi benvolere dalle persone, entrare in contatto con loro, conquistarle. La timidezza rendeva Gustav goffo nelle relazioni con gli altri, tanto che spesso, involontariamente, faceva la figura dell’asociale.

Con Kuu, stranamente, era riuscito a stabilire un vero e proprio contatto con discreta disinvoltura, e se n’era inorgoglito, soprattutto perché lei non sembrava il tipo da dare facilmente confidenza.

Quando la aveva vista arrivare nel backstage dell’arena vestita in quel modo, non gli era stato granché difficile vederci lo zampino di Bill. La cosa più snervante era che, anche se palesemente non ci si sentiva a proprio agio, Kuu con quei vestiti era mozzafiato.

Gli era toccato vergognarsi ancora una volta della superficialità delle proprie reazioni, ma non ne aveva potuto fare a meno, così come adesso, seduto da solo nella saletta del catering, non poteva fare a meno di chiedersi se, ancora una volta, da un momento all’altro la porta si sarebbe aperta timidamente e ne sarebbe entrata lei.

Perché era così che succedeva. Sempre. Senza un perché, senza che nessuno decidesse niente. Semplicemente, accadeva. Era come se fosse nato un tacito accordo tra di loro che stabiliva che a una certa ora, a un certo tempo dall’inizio del concerto, loro due si dovessero incontrare lì, da soli, a parlare e parlare, fino a che a uno dei due non si ricordava che il tempo stava per scadere.

Gustav non sapeva perché Kuu andasse da lui. Spesso si era detto che probabilmente non lo sapeva nemmeno lei. Forse voleva solo stare da sola, con lui che era solo.

Si rigirò lo scotch bianco tra le mani. Ormai erano quasi le otto. Era tardi per la solita chiacchierata.

Stupidamente, aveva aspettato fino ad ora per sistemarsi quello scotch sulle dita perché da quella prima volta era sempre stata lei a farlo per lui. Era un gesto che in qualche modo riusciva sempre a farlo sentire bene, come un vizio, una piccola coccola, qualcosa che era soltanto per lui, soltanto di loro due, perché nessuno lo sapeva. Non avrebbe saputo che significato attribuire a quei momenti – che valore – però sapeva che gli piacevano.

Gustav sospirò e staccò un pezzo di scotch. Ormai era decisamente tardi.

In quel preciso istante, però, la porta si aprì con un cigolio. Kuu entrò silenziosa e la richiuse. Quando sollevò la testa, Gustav si accorse che non portava il solito trucco.

“Bill ha preteso anche questo.” Mormorò, a mo di scuse. “Mi faccio schifo, per la cronaca.”

In realtà era bellissima – come sempre, del resto – ma Gustav preferì evitare di contraddirla.

“Stasera lascerai tutti a bocca aperta.”

Kuu schioccò la lingua e, come di consueto, prese posto al suo fianco. Gli tolse gentilmente lo scotch dalle mani, con naturalezza, e iniziò ad avvolgerglielo attorno alle giunture.

“Ti devi decidere a metterti della crema, lo sai?” gli disse, severa, facendogli scorrere le dita sulla pelle sciupata.

Era davvero strano vederla vestita in quel modo aggressivo. Vibeke stessa, nel vederla, era rimasta senza parole, un po’ come tutti. Erano disegni e tagli che stridevano con la sua persona.

“Non credo che farebbe una gran differenza.”

Kuu si fermò per un momento e lo guardò:

“Una piccola differenza è sempre meglio che nessuna differenza.”

Gustav si lasciò perdere nei suoi occhi. Parlavano di solitudine, o forse era solo un riflesso. E chissà cosa ci vedeva lei, nei suoi.

“Bill ha detto che avete passato una bella giornata.” Disse Gustav, cambiando deliberatamente argomento.

“Sì, è stato bello,” annuì lei. “Ci siamo divertiti. È stata una sorpresa per tutti e due. Non è da tutti i giorni fare shopping assieme a un ragazzo a cui piace più di te.”

Quello era un punto su cui Gustav non avrebbe mai retto in confronto.

“Mi fa piacere. Bill ha bisogno di svagarsi un po’. Ha un’aria troppo malinconica, ultimamente.”

Le luci erano fioche, là dentro. Un neon era rotto e l’altro emetteva un alone azzurrognolo che aveva un che di spettrale.

“E tu, allora?”

Gustav si accigliò:

“Io cosa?”
“Tu hai sempre un’aria troppo malinconica.” Sussurrò lei, senza guardarlo.
“Oh, a me nessuno fa caso.” Minimizzò lui. “Sono sempre stato così. È più lampante Bill che ha perso il sorriso.”

Kuu alzò gli occhi sui suoi e pareva voler indagare dentro di lui tanta era l’intensità di quello sguardo. Lo contemplò a lungo, in silenzio, senza lasciargli la mano, come se cercasse qualcosa che non riusciva a trovare.

“Wolf.”

Gustav non capì.

“Cosa?”

“Wolf.” ripeté Kuu, assorta. “Ho sempre  pensato che ti stesse bene come nome.”

“Lupo?”

Lei annuì.

“Come mai all’inglese e non alla tedesca?”

Il tepore di un timido accenno di sorriso le illuminò il viso.

“Ha un suono più dolce.”

Gustav, per quanto basito, riuscì a sorriderle in risposta, ma lei chinò il capo, fuggendo, e riprese a sistemare lo scotch. C’erano momenti così, a volte, in cui sembravano entrambi volersi dire qualcosa, ma nessuno parlava mai. Accenni, allusioni, poi pause improvvise. Ma era forse solo un’impressione.

“Mi piace.” Disse Gustav. “È buffo, però.” Aggiunse poi, con una breve risata sommessa. “Tu mi dai soprannomi e io nemmeno so come ti chiami veramente.”

Le mani di Kuu si bloccarono e si irrigidirono, le sue spalle si incurvarono in avanti.

Gustav imprecò contro se.

Idiota.

 

***

 

 

Kuu era ancora abbastanza confusa, dopo quella mattinata insolita. La colpa era tutta di Bill, insospettabilmente, a trascinarla con prepotenza fuori dal suo umore grigio con la sua contagiosa voglia di vita e divertimento, ma probabilmente, più che colpa sarebbe stato il caso di definirlo un merito.

Kuu non riusciva neanche a ricordare l’ultima volta che si era goduta del tempo libero con tanta leggerezza. Era stata una ventata d’aria fresca. E al di sopra di tutto quanto c’era Bill, che per la prima volta si era dimostrato bendisposto verso di lei. Un momento prima c’era il solito gelo a dividerli, e un momento dopo, come nulla fosse stato, si erano ritrovati a usarsi l’un l’altra come bambole, battibeccando come vecchi amici. Se esisteva una spiegazione logica a quello che era successo, Kuu non la sapeva trovare. Quello che invece sapeva – e anche bene – era che doveva sentirsi lusingata del fatto che Bill avesse deciso di mettere da parte momentaneamente i pregiudizi verso di lei, invitandola così a fare lo stesso con lui, e i risultati erano stati incredibili.

Era rimasta per ore ad ammirare Bill, rapita dai suoi sorrisi, dal suono della sua risata, dalla naturalezza con cui si metteva davanti un abito che gli stava malissimo e si prendeva in giro davanti alla telecamera. Era una capacità che lei non aveva, quella.

Si era congedata da lui cullata da una sensazione di pace, certa che niente e nessuno avrebbe potuto turbarla, quel giorno, ma così non era stato. Ed era ironico che la persona che era riuscita a turbarla fosse anche la persona che di solito, invece, la metteva più a suo agio.

Era difficile. Era terribilmente difficile accettare di non essere in grado di dare risposte fredde ed evasive, per lei. L’intento c’era, la voglia di liquidare quella domanda fastidiosa con un semplicissimo ‘Non ti riguarda’, ma proprio non le riusciva.

Era colpa dei suoi occhi, degli occhi scuri di Gustav adagiati su di lei senza alcuna pretesta, solo aspettando. Normalmente lei non avrebbe risposto a una domanda simile. Normalmente, avrebbe trovato un modo elegante per aggirarla

Considerò l’eventualità: nessuno sapeva il suo vero nome. Lo aveva gelosamente tenuto segreto, assieme a un pesante bagaglio di passato che non le apparteneva più. Lei era Kuu, adesso. Soltanto Kuu. Lo aveva scelto lei.

“Non fa niente,” disse Gustav in tono rassicurante. “Scusami, non avrei dovuto chiedertelo, non sono affari miei.”

“No, scusami tu, davvero.” Disse lei, seriamente dispiaciuta. “So che è una cosa stupida ma…”

Era stato un altro tempo, un’altra vita, una realtà diversa, che ora non c’era più. Era persa.

“Senti, lasciamo perdere.” Minimizzò lui, con uno dei suoi rari sorrisi. “Non è importante.”

Ma era importante. Lo era, o per lei non sarebbe stato così difficile.

Kuu si accorse che qualcosa dentro di lei si era appena spezzato. Non sapeva cosa, non sapeva come, non sapeva perché.

“Mi chiamo Sascha.” Si sentì rispondere, quasi senza esserne cosciente. “Sascha Edelmond.”

 

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Note: finito! Chiedo scusa ancora una volta per il ritardo vergognoso e anche per la mia assoluta assenza su MSN. È un periodo strano, spero mi perdonerete. Vi rimando a più tardi per le note più dettagliate, adesso sono un po’ di fretta. Spero vi sia piaciuto, aspetto fiduciosa commenti, e, prima che me ne scordi…

 

Un grazie enorme a tutte voi per avermi votata al concorso per i migliori personaggi originali! Mi sono commossa quando ho scoperto di essere passata al secondo round ed è tutto merito vostro! Vi adoro!

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Capitolo 9
*** Unleashed, Unmasked, Unpredicatble ***


You were alone before we met
No more forlorn than one could get
How could we know?

[Placebo, Ashtray Heart]

 

***

 

Praga. Non si sarebbe mai stancato di vederla.

Una città semplice e affascinante, abbastanza piccola da poter essere girata tranquillamente a piedi, ma non abbastanza da annoiare un visitatore saltuario.

Gustav aveva perso il conto delle volte che era già stato lì, ma non riusciva a ricordarne una sola in cui non aveva avuto il desiderio di sacrificare qualche ora di sonno in favore di una passeggiata tra le caratteristiche vie della città, anche solo per rilassarsi e godersi un po’ il paesaggio.

Il tempo, stavolta, però, sarebbe stato inclemente: erano arrivati il giorno stesso del concerto, e la sera successiva sarebbero subito ripartiti per Lille, e questo lasciava poco tempo al turismo. Tuttavia, già appena messo piede in terra ceca, Gustav aveva deciso che non si sarebbe negato qualche ora tutta per sé, e adesso che i Pristine Blue avevano lasciato il palco e la folla già acclamava i Tokio Hotel, l’adrenalina e la voglia di musica prendevano il sopravvento sullo spirito di solitudine.

Tokio Hotel! Tokio Hotel! Tokio Hotel!

C’era Vibeke che stava baciando Tom nel suo solito modo molto discreto, la chitarra di Tom già a tracolla premuta tra i due. Bill li guardava sdegnoso, Georg si limitava a ignorarli, appoggiato a un amplificatore in disparte.

Tokio Hotel! Tokio Hotel! Tokio Hotel!

Kuu e Kaaos erano appena rientrati nel backstage. Kaaos non doveva essere di umore proprio ottimo: piantò la chitarra in mano a uno dei tecnici e si dileguò in fretta e furia. Kuu, la quale sembrava invece perfettamente rilassata, passò elargendo sorrisi ai complimenti di Griet e degli altri.

Tokio Hotel! Tokio Hotel! Tokio Hotel!

Georg diede a stento segno di aver registrato la sua presenza. Bill le sorrise distratto, e lei ricambiò, passandogli accanto.

Tokio Hotel! Tokio Hotel! Tokio Hotel!

“Ragazzi, svelti, andate ai vostri posti!” ordinò loro Willi nell’auricolare.

Gustav si era aspettato un sorriso anche per sé. Quando Kuu passò accanto a lui, invece, chinò il capo e si lasciò portare via da Griet, che l’aspettava con una felpa in mano, lasciandosi dietro nient’altro che un flebilissimo ‘Ciao’, che Gustav non era nemmeno del tutto sicuro di non essersi immaginato.

Tokio Hotel! Tokio Hotel! Tokio Hotel!

“Gustav, muoviti, manchi solo tu!”

Si riscosse, come risvegliandosi da uno stato di trance, e sia frettò a raggiungere i ragazzi sul palco.

Tokio Hotel! Tokio Hotel! Tokio Hotel!

Era ora di iniziare. Rimasero qualche minuto fermi nelle loro posizioni, immersi nelle ovazioni che invocavano il loro nome.

Tokio Hotel! Tokio Hotel! Tokio Hotel!

Quando la musica partì, la sua testa era ormai da un’altra parte.

 

***

 

Ahoy, people!

This is Kuu, writing right after the show we just had here in Prague. The gig was awesome, great audience and even greater chemistry with the music, you can’t imagine how proud we are of the response we are getting. Kaaos is wailing on the sofa with the worst headache he’s ever had in his whole life, or so he says. If any lady is willing to come and nurse the big boy, he’s free and available (well, not emotionally, I must say). Tokio Hotel are on stage right now, rocking the place among screams and the loudest praises I’ve ever heard. I spotted French, Italian and Russian flags in the crowd… I find it amazing that there are fans going all around Europe to follow their idols.
You can’t imagine how much fun I had tonight! Czech people are very welcoming and let us feel a wonderful atmosphere during the show. I’m touched.
We have a couple of spare days now, so I really hope to have some rest and manage to visit this beautiful city as well, since, as many of you surely know, I was never much of a traveler in my life.
Follow the link below to watch the first video that was shot during the rehearsals and some backstage pics. More to come soon, I promise.
Thanks everyone for your messages on Facebook and Myspace, keep them coming, we try to read them all, even though we don’t have enough time to reply to everyone.

Lots of love!

Kuu

 

Posted by: Kuu; on Mon, 15th Mar 2010 @ 22.36

 

***

 

Non era questo che io volevo. Non era quello che cercavo.
Volevo solo smettere di essere me, comprarmi una maschera e verstirmene per sempre. Un nuovo volto, un nuovo nome, una nuova vita.
Ma ora alzo lo sguardo e nello specchio sono nascosta solo a metà.
Come hai fatto a farmi questo?
Non era questo che io volevo.
Non era te che cercavo.

 

***

 

La mattina del sedici di marzo c’era un sole accecante a brillare nel cielo più terso e turchino che avesse visto negli ultimi due mesi. Non faceva nemmeno particolarmente freddo, e questo rendeva la giornata l’ideale per un sano svago turistico. Si era svegliata con la voglia irrazionale di uscire dall’hotel e rubarsi qualche ora tutta per sé, per sé e nessun altro, e fare ciò che voleva senza avere il fiato di Luke sul collo. Non era granché popolare al di fuori dei confini tedeschi, quindi erano scarse le possibilità che qualcuno la potesse riconoscere.

Scese nella hall che era ancora presto, lasciando a Kaaos un biglietto che diceva semplicemente ‘Ci vediamo stasera’. Occhiali da sole e cappotto nero le erano parsi adatti all’anonimità che le sarebbe servita per passare inosservata, ai limiti dello scrupolo. Si sistemò la grossa borsa di Gucci al braccio e uscì dall’ascensore. Per qualche strano motivo, non si stupì quando, avviandosi verso la porta, il suo cammino si incrociò con quello di qualcun altro.

“Hey!” esclamò, ritrovandosi di fronte a un paio di occhi che quella mattina erano inusualmente chiari, di un castano dorato che finora aveva avuto il piacere di vedere solo in fotografia.

“Buongiorno.” Salutò cordialmente Gustav. Il suo viso stanco si era come illuminato nel vederla, e questo la lusingò più di quanto avrebbe potuto fare qualsiasi complimento esplicito.

Gustav era, come suo solito, il ritratto della semplicità: jeans, giubbotto scuro, occhiali e un’aria decisamente più disinvolta di lei.

“Dove te ne vai a quest’ora del mattino?” gli domandò, benché conoscesse la risposta: sapeva che gli piaceva dare un senso ai suoi pochi giorni liberi godendosi le città in cui si trovavano di passaggio.

“Sono le otto.” Le rispose lui con un sorriso.

“Considerando che siamo andati a dormire sei ore fa…”

“Già, ma non mi pare di stare parlando da solo, ora che ci penso…”

Kuu apprezzò l’arguzia, ma non se ne lasciò intimidire.

“Oh, io ho in programma un giro in città.”

Lui parve sorpreso.

“Sul serio?”

“Che c’è di strano?” fece lei, sulla difensiva.

“Niente.,” si schermì lui, tranquillo. “Solo credevo di essere l’unico interessato alle città che giriamo.”

Improvvisamente un’idea si fece strada nella sua testa: entrambi avevano intenzione di visitare Praga ed entrambi lo avrebbero fatto da soli. Inoltre, lui conosceva la zona senz’altro meglio di lei, visto che ci era già stato spesso. Mentre abbracciava quell’idea con più entusiasmo di quel che si sarebbe aspettata, Kuu cercò di convincere sé stessa che fosse perché, accompagnata da lui, semplicemente avrebbe potuto ottimizzare i tempi e orientarsi con più sicurezza.

“Praga non l’ho mai vista prima d’ora, come del resto tutte le altre,” confessò, con una punta di risentimento, ma con il bocciolo di una segreta speranza che quelle parole scelte con cura sortissero l’effetto che lei si augurava che le tremava dentro. “E sembrerebbe avere molto da offrire.”

Gustav annuì.

“È bellissima, noi ci siamo già stati qualche volta.” Lasciò cadere una breve pausa e abbassò lo sguardo, rialzandolo subito dopo, quasi con timore. “Se vuoi…”

Il bocciolo di speranza si spalancò in un fragile fiore di entusiasmo, che fu tuttavia abilmente tenuto a bada. Kuu allargò gli occhi qual tanto che bastava per simulare una sorpresa intenzionalmente trattenuta.

“Mi faresti da guida?”

“Ti va?”

Gustav le sorrise, un sorriso che le guardò giù, in fondo, là dove lei stessa da secoli aveva smesso di guardare, forse per il timore di non ritrovarsi più. Avrebbe voluto poterselo comprare, quel sorriso. Avrebbe voluto poterlo conquistare come faceva con tanti altri sorrisi: uno sguardo languido, un movimento sinuoso della mano, delle labbra, una parola pronunciata nel tono giusto. Ma con Gustav non funzionava così: lui sorrideva poco, e di rado, quelle poche volte, i suoi sorrisi si allargavano abbastanza da rischiarargli il volto come era appena successo.

Kuu si fece una fotografia mentale di quel regalo. La impresse bene dentro di sé, custodendola gelosamente, conscia che più di così non avrebbe mai potuto ottenere.

“Volentieri.”

Kuu sentiva di essersi persa un passaggio. Da qualche parte, nelle settimane precedenti, ci doveva essere stato il momento in cui lei aveva deciso che fosse giusto smettere di fare la glaciale stronza sopra le righe e addolcirsi quanto bastava per essere considerata una compagnia appena passabile. Non riusciva a ricordarlo, però. E non riusciva a ricordare nemmeno quand’era stato che dall’essere una compagnia appena passabile si era completamente abbandonata all’assoluta naturalezza. Aveva perso il controllo di sé, per qualche ragione. Era come se le avessero strappato uno scudo che da anni si teneva incollato addosso e lei non se ne fosse neanche resa conto.

No, non era questo che io volevo…

“Andiamo?”

Kuu tornò in sé, e non si sentiva umiliata come avrebbe creduto, bensì stranamente leggera.

Gustav le cedette il passo per uscire e da lì, dopo che ebbero messo piede fuori dall’hotel, il tempo se ne volò via con un’inclemenza che lei non gli avrebbe perdonato.

 

***

 

Bill si domandava dove diavolo fossero finiti tutti quanti. Aveva appurato che Georg era rintanato nella sua stanza, immerso in una conversazione via Skype con Nicole ed Emily da cui non si sarebbe staccato facilmente; Tom e Vibeke, invece, erano ufficialmente dispersi, dopo essere stati persi di vista al party della sera prima. Bill era abbastanza sicuro che si fossero ubriacati e se ne fossero andati a smaltire una sbornia con una bella notte di sesso sfrenato. Il solo pensiero gli fece venire il voltastomaco.

Nessuno sapeva con esattezza dove fosse andato Gustav, ma era normale. Sicuramente era uscito a farsi una delle sue solite passeggiate a tempo perso per la città.

Era già quasi mezzogiorno, e Bill era tutto solo nel salottino della sua suite a guardare un orribile quiz ceco il cui presentatore somigliava in modo impressionante a Tom Cruise, solo con una ventina d’anni di più. Odiava stare solo, soprattutto se la giornata era teoricamente dedicata al riposo. Non sapeva nemmeno perché fosse sveglio. Erano andati a dormire alle tre passate, la sera precedente, e aveva bevuto così tanto che a un certo punto si era ritrovato in braccio a Mike, che lo stava riportando in camera in condizioni a dir poco pietose. Per sua fortuna, tutto il resto lo aveva rimosso.

Amareggiato, cambiò canale. Trovò Viva, ma le canzoni che trasmettevano o non le conosceva, o gli facevano schifo, quindi alla fine si arrese e spense. Aveva appena riappoggiato il telecomando al tavolino, quando sentì bussare alla porta. Non rispose, temendo che fosse qualche fan in cerca di avventure. Avrebbe fatto finta di non esserci. Un attimo dopo, però, bussarono di nuovo.

“Servizio in camera.”

Se non altro era una voce maschile, non fosse che lui non aveva ordinato niente.

Aprì, per pura curiosità, e si ritrovò davanti uno sgargiante sorriso a trentadue denti e un paio di occhi  grigioverdi che lo disorientarono per un momento.

Overraskelse!("Sorpresa!")

Bill faticò a trovare la voce, tra lo stupore e la gioia di quell’inaspettata sorpresa.

“BJ!” ululò, gettandosi tra le braccia spalancate dell’amico. “Oddio, che bello vederti!”

Forse il suo entusiasmo sarebbe stato molto meno violento se BJ non fosse capitato in un momento così deprimente.

“Santo cielo, questa sì che si chiama accoglienza!” rise BJ, quando finalmente si separarono. “Dovevi proprio sentire la mia mancanza, eh?”

Bill si imbronciò e lo invitò a entrare.

“Non vale che debba essere solo io a fare il fratello single che si sorbisce quei due piccioncini disgustosi.”

“Io ci metterei la firma, invece,” ammise BJ, abbacchiato. “La mia Vibekina mi manca tanto…”

Solo allora Bill si accorse che, assieme a un borsone da viaggio, BJ reggeva sotto al braccio un orsacchiotto vestito alla tirolese. Li abbandonò entrambi ai piedi del divano e vi si lasciò cadere stancamente.

“Sono ore che provo a chiamare questa disgraziata, ma ha il cellulare spento. Allora ho provato a chiamare Tom, ma nemmeno lui è raggiungibile. Alla fine mi sono arreso e ho chiamato Benji, e lui mi ha detto di venire qui.”

“Ho la sensazione che non rivedremo Tom e Vibeke prima di sera,” gli comunicò Bill. “E nemmeno gli altri, direi. Mi hanno abbandonato a me stesso.”

“Ma tu guarda!” BJ incrociò le braccia, fingendosi offeso. “Uno si fa due ore di aereo per fare una sorpresa a sua sorella e ai suoi amici, e loro sono tutti in giro a spassarsela! Gran bel riconoscimento.”

“Riconoscenza.” Lo corresse Bill, ridendo.

“Sì, quella cosa lì.”

BJ era vestito molto sportivo, con una tuta blu e bianca firmata Adidas e scarpe da ginnastica, e ciononostante sembrava comunque pronto per una serata glamour in discoteca. I suoi capelli erano sempre più lunghi, biondi come non mai, e la barba chiara del suo pizzetto era appena più lunga del solito.

“Starai con noi qualche giorno?” si informò Bill, che, benché portasse una tuta molto simile a quella dell’amico, si sentiva tutt’altro che presentabile.

“L’intenzione sarebbe quella. Mi piacerebbe molto conoscere i Pristine Blue.”

“Non è che abbiano granché da offrire…” buttò lì Bill, mentendo spudoratamente.

BJ saltò su come una molla:

“Stai scherzando?” esclamò, sgomento. “Ma sì, è ovvio che scherzi. Del resto ormai è un mese che te ne vai in giro assieme a loro. Che invidia.”

Nonostante i ventitré anni abbondanti che il suo fisico dimostrava alla perfezione, BJ era un ragazzino nello spirito e non se n’era mai vergognato. Forse era anche per quello che a Bill piaceva tanto.

“Se penso ai testi che scrivono, alle musiche che compongono…” BJ sospirò. “Hai mai sentito Let Juliet Die?”

“Be’…” Bill si morse il labbro inferiore, avvampando. L’aveva sentita un sacco di volte, durante i concerti, e la musica gli piaceva, ma non si era mai soffermato ad ascoltare le parole. Non gli era poi così immediato capire l’inglese cantato.

“Leggiti bene il testo, appena ne hai occasione.”

Ciò detto, BJ si alzò in piedi, si stiracchiò per bene e si voltò verso Bill carico di una ritrovata energia.

“Su, vestiti,” gli disse. “Ce ne andiamo a fare un bel giretto praghese.”

Bill batté le ciglia, confuso.

“Non vorrai restartene rinchiuso qui dentro con una giornata bella come questa, vero?” esclamò BJ, puntando un dito verso la finestra, al di là della quale un sole accecante scintillava nel cielo blu.

Bill tentennò.

“Be’, io…”

Un po’ temeva di uscire così, senza bodyguard e senza meta, ma era un giorno della settimana, le ragazzine sarebbero state tutte a scuola e non aveva motivo di temere assalti ormonali. Gli sarebbe bastata un po’ di discrezione e sarebbe stato fattibile.

“Avanti,” lo spronò BJ, con un sorriso incoraggiante. “Ci divertiremo, e se dovesse succedere qualcosa, ti proteggerò io!”

Sollevò il braccio contratto e gli mostrò un muscolo, o perlomeno quello che sarebbe dovuto apparire come tale, dato che il bicipite di BJ non era poi tanto più sviluppato di quello di Bill stesso.

“Oh, be’…” Bill non ebbe bisogno di fingersi convinto: lo era e basta. “D’accordo, andiamo.”

Una giornata in giro per Praga assieme a BJ. Qualcosa gli diceva che difficilmente avrebbe scordato l’esperienza.

 

 

 

***

 

Avrebbe voluto che non fosse così bella.

Avrebbe voluto che fosse solo una come tante, a vedersi, una ragazza normale.

Avrebbe voluto poter guardare Kuu senza che il suo sguardo si perdesse a contemplare il suo viso, cercando di intravedere gli occhi nascosti dalle lenti scure, sfiorando le labbra perlacee di gloss, per scendere poi sul collo sottile, e scivolare sulle clavicole appena esposte sotto alle pieghe del cappotto, e poi ancora giù, fin dove la discrezione consentiva.

La osservava guardarsi attorno avida, con l’insaziabile curiosità di una bambina, e si arrendeva alla nascente consapevolezza che lui, di Praga, quel giorno non avrebbe visto niente.

E lei gli indicava tutto – edifici, monumenti, costruzioni – e gli chiedeva qualche informazione, e lui a tratti snocciolava quel poco che aveva imparato, e altre volte, con un timido sorriso di scuse, era costretto ad ammettere che non ne sapeva nulla, e allora la ascoltava ridere, e trovava la sua risata strana, quasi stentata, sommessa dalle stesse incertezze di chi parlava una lingua poco conosciuta.

Gustav si chiese dove fosse rimasta la ragazza glaciale e diffidente che aveva conosciuto qualche settimana prima, perché quella che c’era lì con lui adesso non era – non poteva essere – lei.

Sascha…

Avrebbe davvero voluto che non fosse così bella, solo perché almeno sarebbe stato tutto molto più semplice.

Erano in tanti a girarsi a guardarla, quando passava. Poteva essere la sua bellezza che non poteva certo essere nascosta da un paio di occhiali da sole, o forse semplicemente il suo portamento da regina sdegnosa, ma attirava l’attenzione come una fiamma nella notte.

“Quel ponte laggiù è famoso, vero? Wolf?”

Tornando in sé, Gustav si accorse di essere rimasto indietro. Qualche metro avanti a lui, Kuu indicava il ponte e lo guardava con impazienza.

Gustav la raggiunse trattenendo a stento un sorriso divertito.

“Quello è Ponte Carlo,” le spiegò. “E quella là davanti a noi è la Torre delle Polveri.” Aggiunse, intuendo l’imminente nuova domanda non appena vide lo sguardo di lei spostarsi più in là, sul capo opposto del ponte.

Kuu considerò la torre con aria scontenta.

“È così scura e sgraziata… Mette inquietudine. Come mai si chiama così?”

“Non ne ho la più pallida idea.” Confessò lui, infilandosi le mani in tasca.

Kuu si sfilò gli occhiali da sole, imbronciandosi.

“Credevo che tu fossi più preparato, onestamente.” Sbuffò. Un permaloso come Bill non avrebbe mai colto lo scintillio di malizia che le riverberò negli occhi.

Le sorrise, scrollando le spalle.

“Gratis… Cosa ti aspettavi?”

Kuu si voltò a guardarlo negli occhi.

Era stano. Era strano e anche vagamente destabilizzante. Era come se il vetro attraverso il quale l’aveva sempre guardata si fosse assottigliato, o fosse diventato più trasparente, e lei fosse più nitida davanti a lui, più vicina.

“Dovresti farlo più spesso.” Gli disse.

“Che cosa?”

“Sorridere,” replicò lei con ovvietà. “Dovresti imparare a farlo di più, soprattutto in pubblico, davanti alle telecamere.”

Senti un po’ da che pulpito…

“Sorrido quando ho qualcosa per cui sorridere.”

Kuu sollevò il mento con fare insinuante, le labbra dischiuse.

“E per cos’è che stai sorridendo, adesso?”

Gustav si bloccò. La sua testa gli disse che, per il proprio bene, avrebbe fatto meglio a non rispondere, a non dirle che a farlo sorridere era il sorriso di lei, così diverso dai primi che gli aveva rivolto da poter a malapena credere che fossero le stesse labbra a dipingerlo. Non sembrava più una simulazione cortese, non era più un’asciutta gentilezza piegata in forma di bugia.

“Tra qualche minuto sono le undici,” divagò, controllando l’ora. “Possiamo andare a vedere l’orologio astronomico della Torre.”

Se Kuu non aveva gradito quell’elegante diversivo, non lo diede a vedere.

“Che cos’ha di speciale?”

“Ci sono le statue che si muovono allo scoccare di ogni ora. Niente di speciale, ma è un must turistico, un po’ come il Big Ben a Londra, o il Colosseo a Roma…”

Lei assottigliò lievemente gli occhi e lo sogguardò con fin troppa consapevolezza, tanto che lui si chiese se una risposta non se la fosse presa da sé, strappandogliela dagli occhi.

“Va bene, Wolf,” disse con disinvoltura, prendendolo sottobraccio. “Andiamo a vedere questo famigerato orologio.”

 

***

 

“Mi sa che ci siamo persi.”

“Ho idea di sì.”

“BJ, eri mai stato a Praga, prima d’ora?”

“Assolutamente no.” Fu la sbarazzina risposta.

A Bill scappò una risatina disarmata. BJ era fatto così: prendeva tutto a modo suo, senza mai farsi turbare dalle sciocchezze. A volte, anzi, Bill aveva la sensazione che forse si preoccupasse un po’ troppo poco, ma in fondo era quello il bello di lui.

Erano stati in giro a zonzo tutto il giorno, a mangiare strani dolcetti alla cannella ricoperti di zucchero e ammirare l’aria da paese della favole che Praga aveva in certi quartieri. Non sapevano nemmeno dove fossero stati: avevano girato a casaccio, ma si erano divertiti.

Benché gran parte dei ragazzi che circolavano per le strade fossero biondi e discretamente alti, BJ spiccava comunque in mezzo a loro, con quel suo soprabito bianco che faceva male agli occhi, quel giorno di sole, e che lo faceva rassomigliare più che mai a un modello in incognito. Ma per quel che Bill ne sapesse, i modelli non se ne andavano in giro divorando frittelle su frittelle con la bocca tutta sporca di zucchero.

“Che facciamo, adesso?”

Stava facendo buio. Era ancora presto, ma l’idea di continuare a vagare dopo il tramonto sorrideva poco a entrambi, anche perché nessuno dei due era in grado di orientarsi alla luce del sole, figurarsi dove sarebbero potuti andarsi a cacciare di notte.

BJ fece spallucce.

“Potremmo andare a mangiare qualcosa e poi tornare in hotel in taxi.”

“Ma tu hai ancora fame?” si stupì Bill, la ancora pancia strapiena delle varie schifezze con cui si erano rimpinzati per tutto il giorno.

Bastò il gorgoglio che emise lo stomaco di BJ a rispondergli.

“Be’, abbiamo camminato tanto! Consumo un sacco di energie, io.”

Solo a quell’osservazione Bill si accorse di quanta strada avessero effettivamente fatto, da che erano usciti. Non avrebbe mai creduto di poter camminare tanto senza avvertire nemmeno un minimo di stanchezza.

“Tom non ci crederà mai che mi sono fatto tutta Praga a piedi.”

“Ehm… Excuse me.”

Bill si voltò, sentendosi toccare una spalla. Dietro di lui c’era un nugolo di ragazzine, e una brunetta stringeva una fotocamera. L’accento sembrava spagnolo o italiano.

“Hi.” Rispose, incerto. Si strinse inconsciamente al braccio di BJ.

Aveva paura, senza sapere perché. Era lì, in una città di cui non conosceva la lingua, e il solo pensiero che in men che non si dica si potesse formare la solita orda di facce sconosciute ed assillanti gli fece mancare l’aria.

Fa’ che non siano fans. Fa’ che non siano fans…

La ragazza indicò la sua fotocamera con un sorriso gentile.

“Picture, please?”

Voleva una foto.

Parlava un inglese molto stentato, ma Bill quasi non se ne accorse, agitato com’era. Le ragazze erano tranquille, ma bloccavano il passaggio sul marciapiede affollato, e molte persone si fermavano a vedere costa stesse succedendo. Avrebbe voluto che Mike fosse lì.

“Yes, sure!” intervenne BJ, notando che Bill era come rimasto pietrificato. “Go ahead, pose, I’ll take it.” (“Sì, certo! Avanti, mettetevi in posa, ve la faccio io.”)

Bill si aspettò di essere assalito da una moltitudine di braccia bramose, invece nulla di tutto ciò accadde. Le ragazze si sistemarono tutte assieme di fronte alla balaustra del fiume e si fecero fare un paio di scatti.

Nessuna gli chiese un autografo. Nessuna gli chiese di farsi fotografare con lui. Nessuna gli disse che lo amava.

Erano solo un gruppetto di liceali in gita scolastica, e nessuna di loro aveva preteso di invadere il suo spazio personale.

“Thank you!” esclamò la ragazza, tornando a prendersi la sua fotocamera. “Go, all together!”, aggiunse poi, facendo cenno a Bill e BJ di raggiungere le sue amiche, ancora ferme in posa.

Bill cercò tentennante lo sguardo di BJ.

“Dai, andiamo!” gli disse l’amico, trascinandoselo dietro.

Si sistemarono in mezzo alle ragazze e la brunetta scattò. Ne fecero anche un’altra, in cui BJ ebbe la folle idea di prendere in braccio la più piccola ed esile delle ragazze, che arrossì furiosamente nel ritrovarsi all’improvviso tra le sue braccia, ma rise di cuore assieme alle amiche.

Alla fine ringraziarono tutte un’infinità di volte e li lasciarono, allontanandosi in un coro di risolini e fitte chiacchiere incomprensibili.

“Molto beneducate, vero?” si compiacque BJ.

Bill era ancora un po’ frastornato. Non riusciva a capacitarsi di aver fatto delle foto con delle ragazze che nemmeno sapevano chi lui fosse, a cui non interessasse farsi vedere con lui.

“Ti sei un po’ spaventato, vero?”

La voce dolce e comprensiva di BJ fece sentire Bill quasi in colpa.

Anni e anni di tolleranza verso fans fameliche lo avevano reso un idiota paranoico e iperansioso?

“Io…” Bill si morse il labbro, vergognandosi di sé. “Sì, un po’.”

Ma BJ, che non era come chiunque altro, non gli diede né del paranoico né dell’iperansioso. Si limitò ad appoggiargli un braccio sulle spalle e sfoderare il tono più tranquillo che si potesse immaginare:

“Che sciocchino che sei. Ci sono qui io a proteggerti!”

A quel punto, a Bill non restò che rilassarsi in una risata.

“Dai, andiamo,” senza lasciarlo andare, BJ se lo trascinò via, puntando una pizzeria dall’altro lato della strada. “Sto morendo di fame.”

Un giorno di libertà senza guinzagli e museruole, pensò, Bill, seguendolo soddisfatto. Dovrei farlo più spesso…

 

***

 

Dovrei farlo più spesso, si disse Kuu quando, ormai all’ora di cena, rientrò nella hall dell’hotel assieme a Gustav, dopo quella che era stata la giornata più bella che avesse avuto da molto tempo a quella parte.

Il tempo era volato così in fretta che non si era accorta che la luce era calata e l’aria si era fatta fredda. Non si era accorta nemmeno che, tra una cosa e l’altra, avevano saltato il pranzo.

Ma non aveva fame, né si sentiva stanca o anche solo affaticata. Aveva gli occhi ancora pieni delle molte bellezze di Praga, i polmoni colmi dei profumi che aveva sentito tra le bancarelle, e sotto alle dite sentiva ancora il braccio solido di Gustav a cui si era aggrappata tra la confusione, un po’ per il terrore di perdersi, un po’ perché, semplicemente, le piaceva la sensazione di sicurezza che le dava.

“Pare che siamo riusciti a tornare all’ovile sani e salvi.”

Gustav rispose con un sorriso, uno di quelli da cui Kuu aveva ormai capito che non avrebbe mai imparato a difendersi, così bello e devastante da mandare in frantumi ogni sua barriera difensiva in meno di un battito di ciglia.

“La fortuna dei principianti.”

“Sì, può darsi.”

Gli stava ancora tenendo il braccio. In qualche modo, riuscì a convincere sé stessa che sarebbe stato meglio per tutti che non si facessero vedere così, e lo lasciò andare con garbo, mentre una parte di lei urlava proteste che lei non voleva ascoltare.

“Sono stata bene, oggi.” Gli disse, chinando lo sguardo, quando ebbero raggiunto il corridoio delle loro stanze. “Grazie per la bella giornata.”

Parole banalissime, di circostanza, che toglievano spazio ad altre che non avrebbe nemmeno saputo come pronunciare. C’era troppa confusione nella sua testa intorpidita dall’improvviso calore dell’hotel.

Avrebbe voluto poter leggere la mente di Gustav, per capire cosa significasse quella sua espressione così maledettamente neutra e pacata, che pensieri celassero quegli occhi insondabili, ora di nuovo scuri, che la scrutavano con un misto di curiosità, timidezza e qualcos’altro che le sarebbe stato impossibile decifrare, se non prendendogli il viso tra le mani e letteralmente tuffandosi dentro le sue pupille.

“Grazie a te di avermi fatto compagnia.”

Era uno di quei momenti che sembravano lasciare qualcosa in sospeso, una parentesi aperta che nessuno se la sentiva di chiudere. Troppi rischi, troppe incertezze, troppi inganni che le illusioni potevano giocare.

“Bene, allora… Buonanotte, Wolf.”

Un piccolissimo sorriso incurvò le labbra di Gustav.

“Buonanotte, Sascha.”

Kuu odiava quel nome. Lo odiava con tutta sé stessa perché aveva accompagnato un passato che non sentiva più suo. Eppure, nonostante quell’odio viscerale, il suono che aveva sulla voce di Gustav le provocava un formicolio piacevole dietro al collo, come una carezza lasciata per caso.

Restarono immobili un attimo, sospesi sulle loro stesse frasi, finché lei decise che prima fosse entrata in camera, meglio sarebbe stato.

Fece per voltargli le spalle, e così fece lui, ma poi all’ultimo istante ci ripensò.

“Wolf?”

Gustav si voltò, stupito dietro ai suoi occhiali.

“Dimmi.”

“Magari ti sfrutterò di nuovo, nella prossima città.”

Lo stupore di Gustav divenne incredulità, poi, per qualche ragione, si dissolse in un’espressione di vaga malinconia.

“Sì,” mormorò. “Magari.”

E con un ultimo sorriso, si allontanò nel corridoio deserto, senza guardarsi indietro, e Kuu rimase a guardarlo, senza sapere cosa pensare.

 

***

 

I feel so wrong when I look at you
I feel so fake, ‘cause you are so true
All this time I thought it was right
Burying all truths under my lies
But I feel so alone when I look at you
‘cause you’re only a dream in my head
We could never be close enough
We will never be
Too many fallen heroes
Too little time
Never look back at me
Just let Juliet die

[Let Juliet Die, Pristine Blue]

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Note:  tre mesi. TRE maledettissimi MESI. Mi domando se i miei lettori si ricordino ancora che io esisto, a questo punto, e che questa storia è ancora in corso. Più che domandare venia, non so che altro fare. Inizierò, anzi, accampando qualche scusa, tanto per: primo, ho avuto un calo di ispirazione verso giugno che mi ha portata a rimandare ogni volta che aprivo una nuova pagina di Word; poi a fine luglio sono partita per la Sicilia (di cui mi sono innamorata) e ci sono rimasta un mese, senza quasi avere modo di attaccarmi a internet o anche solo avvicinarmi a un pc. Sono tornata da pochi giorni e, rinvigorita dalla mia vacanzina marittima, ho aperto il documento di Word che avevo lasciato in sospeso eoni or sono e a quanto pare sono riuscita a mettere insieme abbastanza idee da giungere a quel che oso definire un capitolo di senso compiuto. Lascio a voi giudicare se sia effettivamente degno di tale definizione o meno.  XD

Un grazie di cuore, intanto a

NeraLuna: meglio tardi che mai, come si dice, no? ;) Ebbene sì, il mio intento è proprio gettare lo sprovveduto lettore nella confusione! XD Che vuoi, sono una sadichella. ^^

CatGirl483: sei nata lo stesso giorno di Vi?! Ma allora ieri era il tuo compleanno! Auguroni! E grazie dei complimenti!

tokiettinaa: ma grazie! *__* troppo gentile!

Eclectic_Doll: ebbene, credo che la tua recensione ne sia valsa almeno una decina… e ho detto tutto. Grazie, non so come spiegare quanto mi abbia fatto piacere ogni tua singola parola.

Tigre Bianca: questa è la volta delle recensioni sciogli-cuore e gonfia-ego, mi sa… troppi complimenti! Ç__ç grazie!

Conz483: be’, forse non ho aggiornato presto come speravi, ma spero che almeno gradirai questo capitolo quanto il resto. XD grazie mille!

 Ary_Engel: taccio commenti sulle tue osservazioni per amore della mia sadica segretezza… ma DANKE!

Rhebekka: ma che parole meravigliose! *__* “Vortice sensuale”… uno dei complimenti più belli che mi abbiano fatto! Oh, vedrai quanta sensualità ho in serbo, sissì! ;)

Serenity_Moon: ma grazie! *__* Eh, lo so, sono un vulcano di idee, peccato solo che a metterle nero su bianco poi servano sempre certi travagli lunghissimi… fammi sapere che ne pensi di questo sospirato aggiornamento!

Lales: ma nooo! Io voglio tanto bene alla mia piccola dolce Diva! Avrà anche lui le sue occasioni, vedrai. u.u Mai dire mai, fino all’ultimo!

Baby_Barby: mi sa che, se prima credevi che avessi abbandonato la fic, adesso avrai pensato che io sia morta o abbia rinnegato la Tokio-religion… XD Invece… sorpresa! Viva, vegeta e più tokiomane che mani! ;) Gongolo di fronte alla tua osservazione sul nome Sascha: hai azzeccato in pieno il punto della questione, mia cara! ;) Noterai che i nomi raramente li scelgo a caso, che hanno sempre delle affinità con i caratteri di chi li porta, e quello di Kuu è stato maturato dopo lunghe e attente riflessioni. u.u

Muny_4Ever: so che hai una preferenza per il nostro meraviglioso biondone con gli occhi da cerbiatto, quindi penso che tu abbia almeno un po’ apprezzato questo capitolo. ;)

creamy: hai usato un aggettivo molto acuto, secondo me… “spensierato” è proprio quello che avrei voluto fosse associato allo scorso capitolo, che infatti si chiama “Just Breathe”. E mi sa che ci vorrà ancora un poco di pazienza per inquadrare meglio Kuu come personaggio… mancano ancora dei tasselli da sistemare nel puzzle.

rose_: brava, dico solo questo. Ottimo spirito di osservazione, sì. ;)

Utopy: benvenutissima! Per la situazione tra Georg e Nicole, ci sarà presto un eventuale sviluppo, ma non dico altro. ^^ stessa cosa dicasi per Sissi. Anche a te devo dare dell’acuta osservatrice per tante cose. Complimenti!

 UuhDaphne: ci sono tante sfaccettature di Bill, a mio parere, e finora ne sono emerse solo una minima parte. Verranno i momenti in cui anche tutte le sue altre facce verranno fuori, a suo tempo, promesso. ;)

_Pulse_: curiosa, vedo… bene. XD porta pazienza, però, siamo solo al nono capitolo e la storia è ancora tutta da raccontare!

CowgirlSara: mi manchi! Spero di trovarti presterrimo su msn!

Asia74m: non sai quanto mi faccia piacere sapere che delle tre storie della saga, finora questa è quella che ti coinvolge di più! Ci tengo molto a Once, e ci tengo che comunichi qualcosa di importante, quindi se ti coinvolge così non posso che esserne davvero felice!

ElleClamp: penso che ormai si sia capito che c’è un’abissale differenza tra la versione di sè che Kuu presenta pubblicamente e quella che è davvero, quindi in un certo senso da un lato è una stronza snob superficiale e dall’altro è decisamente più umana. In quanto alla questione Bill vs Gustav… si vedrà. ;)

 alien81: grazie, cara! ^^

 _lile_: che fosse o meno la tua prima recensione a una mia storia, spero almeno che non sia l’ultima! ;) Spero che tu abbia avuto la pazienza di aspettare questo sacrosanto aggiornamento e che ti sia piaciuto. :)

 macoth93: alla fine sei scappata a leggere e non mi hai più fatto sapere cosa ne hai pensato del capitolo! XD Spero che stavolta la foga non rapisca di nuovo le tue buone intenzioni! ;)

 

Orbene, penso di aver adempiuto ai miei doveri, quindi vi lascio alla lettura, mentre io vado a espiare i miei peccati su un cuscino di ceci e puntine. ç___ç Mi raccomando, le recensioni sono sempre gioia per me e la mia Musa, quindi se in qualche modo vi è piaciuto, fatemelo sapere. ;)

 

A presto! (anche se ormai non ci crede più nessuno XD)

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Capitolo 10
*** Everybody's Doll ***


Kuu dormiva spesso insieme a Kaaos.

Fin da bambini – fin da quando lei riuscisse a ricordare – loro due si erano addormentati abbracciati e risvegliati abbracciati così tante volte che, in un modo o nell’altro, negli anni si era trasformato in una sorta di abitudine, quasi una necessità che però ormai da un pezzo suscitava perplessità in quei pochi che ne erano a conoscenza.

Non c’era niente di male in due bambini che dormivano insieme, ed era ancora tollerabile, tutto sommato, anche quando i due bambini diventavano ragazzini. Quando però i due, un lui e una lei, cresciuti simbioticamente gomito a gomito, continuavano a dormire insieme anche da adolescenti, la gente iniziava a farsi delle domande, e giustamente anche dei ragionevoli sospetti.

Non che ai loro genitori fosse mai importato granché. Da piccola, Kuu aveva passato forse più giornate a casa di Kaaos che alla propria. Sua madre, insegnate liceale di inglese, non aveva mai avuto molto tempo da dedicarle e il padre, con il suo negozio di articoli sportivi, era sempre stato più assente che presente. L’infanzia Kuu l’aveva trascorsa praticamente tutta assieme a Kaaos e a sua madre Vera, casalinga, amata e coccolata come una figlia, ma con la triste – e allora inconscia – consapevolezza di fondo che il posto più felice in cui si era mai trovata non era quello che sarebbe di norma dovuto essere.

Erano figli unici, lei e Kaaos, nati a due anni di distanza in due graziose villette a schiera adiacenti, e praticamente spinti dal destino l’uno verso l’altra. Forse fin troppo, pensava a volte lei, perché il legame tra loro due si era sviluppato in modo anomalo, morboso e ambiguo, tanto che infatti, ora che erano famosi, la Germania intera – e forse anche qualcuno oltreconfine – si chiedeva cosa ci fosse realmente tra loro due.

Kuu, dal canto suo, trovava difficile rispondere in modo credibile ed esaustivo alle domande invadenti dei media, perché la risposta sincera e reale a ogni loro ‘Cos’è Kaaos per te?’ nessuno la avrebbe mai potuta comprendere, tanto meno senza interpretarla nel modo sbagliato.

La verità era che Kaaos per Kuu, semplicemente, era tutto.

Lo era sempre stato, anche quando a scuola i suoi compagni lo prendevano in giro perché era amico della Rospa. Anche quando lei, da un paio d’anni a quella parte, aveva iniziato a trattarlo come uno zerbino, proprio a causa dell’eccessiva protettività che lui manifestava nei confronti di lei.

A Kuu i guinzagli non erano mai piaciuti.

Non era mai stata una persona sola: aveva avuto molti amici, anche se definirli tali era forse un po’ un azzardo. Conoscenti probabilmente sarebbe stato più appropriato. Ma, in ogni caso, la piccola Sascha Edelmond non si sarebbe potuta definire una bambina sola. Solo, a nessuno dei suoi amici avrebbe mai affidato la propria vita.

Come invece aveva letteralmente fatto con Kaaos.

Con Mathias.

Lui era il solo che non avesse mai, in ventidue anni che si conoscevano, dato in benché minimo segno di essere interessato all’aspetto di Kuu. Che fosse stata la bella bambina paffuta di un tempo, o l’adolescente bruttina, o la splendida giovane donna, Kaaos la aveva sempre guardata con gli stessi intensi, amorevoli occhi, ed erano occhi che non davano retta alla superficie, qualunque essa fosse.

Sotto quel punto di vista, Kuu non aveva mai avuto dubbi: Kaaos era la sola persona al mondo che l’avesse amata per quella che era, sempre, senza condizioni, anche dopo che lei si era trasformata in una statua di ghiaccio dal cuore arido. Tutto ciò che lui le chiedeva in cambio era un po’ d’amore, e non verso di lui, ma verso sé stessa. Cosa che lei, puntualmente, gli negava. Per quale motivo lui le rimanesse accanto anche se lei spesso e volentieri lo trattava con un giocattolo rotto, restava ancora un mistero. A lui non era mai importato nulla nemmeno della celebrità. Come molte altre cose, la sua scelta di darsi in pasto a telecamere e riflettori non era tanto dipesa da una reale ambizione alla fama, ma piuttosto dalla masochistica volontà di rimanere quotidianamente accanto a colei che da sempre era a tutti gli effetti la sua inseparabile metà.

Sentiva il calore del corpo di Kaaos accanto a sé, tra le lenzuola. Stavano stretti, lì, nella cuccetta del tourbus, ma lui non la mandava mai via quando lei, nel cuore della notte, andava a cercare quelle braccia che non le avevano mai negato protezione, in una vita intera. Era già mattina; avevano viaggiato tutta la notte e ormai non dovevano essere lontani da Lille. Il bus era immobile: probabilmente erano fermi in qualche area di servizio per una pausa per gli autisti. Kuu si alzò, facendo attenzione a non svegliare Kaaos, si infilò una felpa sopra la camicia da notte e, in punta di piedi, scese a dare un’occhiata. Erano in un autogrill e, a giudicare dalla luce, dovevano essere almeno le dieci. I due bus dei Tokio Hotel erano parcheggiati subito davanti al loro e le porte erano aperte. Vide Ebel che chiacchierava con uno degli autisti accanto a uno dei due, mentre ogni loro parola si condensava in dense nuvole di vapore. Doveva fare parecchio freddo.

Chissà se i ragazzi stanno ancora dormendo…

La risposta venne da sé: un attimo dopo che Kuu si fu posta quella domanda, dal primo bus sbucò Bill, infagottato in un vaporoso maglione di lana grigia, occhiali da sole calcati sul naso, rattrappito dal freddo nelle sue stesse braccia. Aveva un’aria piuttosto seccata, e subito dopo Kuu comprese il perché: Tom e Vibeke scesero dietro di lui, sbraitandosi contro l’un l’altra con discreta aggressività. Da dove si trovava, Kuu non riusciva a distinguere quello che si stavano dicendo, ma non le importava granché. Tom le piaceva: era un ragazzo simpatico e spesso si era intrattenuto a chiacchierare con lei, dimostrandole di essere ben lungi dalla persona elementare e superficiale di cui in pubblico amava vestire i panni. Ciò che non si spiegava era cosa lui ci facesse assieme a quella ragazza. Non si poteva dire che Vibeke fosse brutta – anzi – e sicuramente non era solo per il suo aspetto che Tom stava con lei, ma aveva un caratteraccio davvero insopportabile, permalosa e dal giudizio facile, e se poi quei due litigavano tanto – in ogni luogo e a ogni ora, a dispetto della tranquillità altrui – un perché ci doveva pur essere. Forse a Tom faceva comodo avere una ragazza sempre disponibile al proprio seguito, e questo avrebbe senz’altro spiegato perché avesse scelto proprio un membro dello staff della band come sua discutibile compagna.

Fra le altre cose, Vibeke mostrava spesso una seria mancanza di rispetto nei confronti di quello che osava definire il proprio ragazzo: innumerevoli volte Kuu la aveva vista con Bill praticamente spalmato addosso, a farsi coccolare come un gattino indifeso, senza contare, poi, i momenti in cui c’era Gustav nei paraggi. Quello, non solo per Kuu, ma anche per molti altri, per quel che aveva potuto notare, era un grande mistero: se con Tom Vibeke si dimostrava quasi sempre una vipera irritabile, con Gustav, al contrario, era un docile agnellino pieno di attenzioni. Anche davanti a tutti, Vibeke abbracciava Gustav, baciava Gustav, accarezzava Gustav, faceva un sacco di complimenti a Gustav, e gli diceva ‘Ti amo’ con la stessa frequenza con cui a Tom diceva ‘Vaffanculo’. Sicuramente c’era qualcosa che non andava.

Kuu aveva tentato di capirci qualcosa, studiando attentamente le interazioni tra Vibeke e i Tokio Hotel, e aveva tratto scarse conclusioni. L’unica cosa che aveva capito con certezza era che il rapporto più serio e maturo lo aveva con Georg, con il quale discuteva spesso in disparte di cose evidentemente personali e mai, che Kuu avesse visto, si permetteva di osare contatti fisici che andassero oltre una pacca amichevole o un abbraccio veloce. Poteva dipendere dal fatto che Georg fosse palesemente cotto e stracotto della sua Nicole e che per lui le altre ragazze erano a stento presenze degne di nota, ma lui era il solo verso cui Vibeke dimostrasse qualche pudore. Per il resto, a Kuu era incomprensibile come Tom potesse tollerare che la sua ragazza scambiasse certe tenerezze con il suo fratello gemello e uno dei suoi migliori amici.

Quando il gruppetto sparì dentro al bar, con Jost e un paio di bodyguard alle calcagna, Kuu si lasciò per un attimo allettare dalla prospettiva di tornare di sopra e rimettersi a letto, dato che comunque non aveva fame, ma poi arrivò Griet e la costrinse a cambiare idea.

“Scendi e sgranchisciti un po’ le gambe, ragazza mia. I Tokio Hotel sono tutti dentro a fare colazione, vatti a fare quattro chiacchiere con loro. Un po’ di socializzazione e quattro risate non possono farti che bene.”

Kuu non capì se alla fine decise di vestirsi e uscire per propria volontà o solo per mettere a tacere Griet. Si strinse la sciarpa al collo, scendendo, per schermarsi dall’aria gelida, e si diresse verso l’ingresso dell’autogrill. Quando entrò, scorse Georg, Tom e Vibeke già seduti a un tavolo con delle tazze di caffè fumante davanti e un vassoio di croissant; Bill e Gustav, invece, erano ancora al bancone a scegliere.

“Oh, ma guarda chi ci degna della sua regale presenza!” la salutò Bill, appena lei li raggiunse.

Kuu, gli occhi struccati protetti dalle lenti scure, abbozzò un mezzo sorriso.

“Un’altra battuta del genere e mi convincerai definitivamente a fare dietrofront e tornarmene a letto.”

“Ti vedo un po’ pallida,” intervenne Gustav, scrutandola attentamente. “Tutto bene?”

“Credo di non aver digerito bene quella strana insalata di ieri sera,” rispose lei, appoggiandosi una mano sullo stomaco.

“Allora ti serve un the caldo.”

“Era quello che avevo intenzione di prendere.”

“Ok,” fece Bill, e si rivolse alla barista. “A hot tea, please.”

Kuu si compiacque di quel piccolo gesto di galanteria.

“Offri tu?”

Bill sorrise.

“Spero che abbiano da cambiare un pezzo da cento.”

“Paga anche per me, allora, già che ci sei.” Disse Gustav, mentre la cameriera serviva loro le ordinazioni.

“Ok, ma la roba al tavolo me la porti tu.” Disse Bill. “Vedi, Kuu?” fece poi, scuotendo debolmente la testa. “Sono il piccolo del gruppo, ma è sempre tutto sulle mie spalle.”

“Ma se a momenti sulle tue spalle non ci sta nemmeno la tua borsa!” replicò Gustav con un sorriso sornione.

Bill ebbe un istante di tentennamento in cui sembrò che fosse lì lì per rispondere a tono, ma alle fine si arrese e, semplicemente, rise.

“Non lo sa fare il serio troppo a lungo.” Commentò Gustav, divertito, gli occhi a forma di mezzaluna sulla scia di un sorriso che rispecchiava perfettamente la risata di Bill.

Una piccola, timida parte di Kuu si ubriacava di quella scena così rara e preziosa, e ne faceva tesoro, perché ancora ricordava come, anni prima, il suo cuore aveva sognato un momento così in cui poter entrare, di cui poter far parte. Era quello, in fondo, che una fan dei Tokio Hotel sognava: un posto anche minuscolo ed effimero nella loro vita. E, no, Kuu non aveva dimenticato. Aveva solo premurosamente inscatolato le vecchie emozioni da ragazzina sognatrice e le aveva riposte su qualche scaffale buio e polveroso dentro di sé, ben sigillate e nascoste, ma mai dormienti, mai sopite. Era felice, adesso, e orgogliosa, di essere lì a condividere con loro un pezzo della loro storia, un pezzo di storia che a pieni diritti sarebbe stato anche suo.

Nella sua estrema difficoltà ad affezionarsi alle persone, Kuu, lentamente, stava iniziando a rendersi conto che – lei lo volesse o meno – quei ragazzi si erano inconsciamente messi a frugare dentro di lei, a strappare involucri, ad aprire sigilli, e quello che stavano riportando a galla si stava rapidamente facendo largo negli stretti spazi vuoti della sua anima.

***

“Io vorrei proprio capire che cos’hanno da ridere tanto, quei tre. No, sul serio: che cosa le staranno mai dicendo Bill e Gud? Guardala! È tutta sorrisini ammalianti e gesti languidi. Dio, quanto mi sta sul cazzo!”

Tom deglutì pazientemente, fingendo di non sentire. Fingeva sempre di non sentire, quando Vibeke era in vena di scenate di gelosia come quella. Da quando Kuu aveva dismesso gli attraenti panni della superba star capricciosa e aveva iniziato a dimostrare qualche umano interesse verso i Tokio Hotel, lui non riusciva più a sopportare Vibeke. Il problema, per giunta, non erano tanto gli sguardi provocanti che lui e la bella biondina si rivolgevano di tanto in tanto, per nient’altro che puro diletto, perché colei che era solita presentarsi come la sua ragazza non si curava minimamente di quel dettaglio. E il problema non era nemmeno Georg, dato che fin da subito lui e Kuu avevano arbitrariamente deciso di non potersi vicendevolmente soffrire. Il problema vero e proprio erano i due soggetti a cui Kuu sembrava maggiormente interessata, i quali peraltro ricambiavano apertamente l’interesse, e ciò, in nessun caso, poteva essere considerato una buona cosa, a maggior ragione se di mezzo c’era una Vibeke Wolner gelosa come una iena.

“Insomma, voglio dire… Ci sta che a Bill interessi. Sono due dive viziate, amano i vestiti, amano farsi vedere… E lui è notoriamente attratto da tutte le belle cose che luccicano. Ma Gud?! Me lo spiegate cosa diamine ci trova Gud in quella?”

Georg alzò lo sguardo e lo portò su Tom con un’infinita compassione. Tom ricambiò indolente, masticando senza gusto la sua brioche. Lui poteva anche fare finta di niente, ma le sue orecchie, volenti o nolenti, recepivano la seccatissima invettiva di Vibeke, e intanto i suoi nervi vibravano pericolosamente. Tollerava che Bill le si strusciasse addosso in cerca di coccole perché sapeva che non c’era altro che quello. Vibeke, in fondo, faceva sempre un po’ da mamma a Bill e Tom conosceva il proprio fratello abbastanza bene da avere la certezza che lui in lei non vedesse altro che, appunto, una via di mezzo tra un’amica e una figura materna alternativa.

Con Gustav la faccenda era nettamente diversa.

Vibeke, in ogni possibile senso, adorava Gustav. Provava per lui una sorta di venerazione innata, che comprendeva il suo aspetto, la sua personalità, i suoi atteggiamenti, il suo modo di suonare, e persino i suoi difetti, per lei, erano degni di lode. E c’era quella scintilla di amore puro nei suoi occhi quando lo guardava che aveva spesso fatto sentire Tom come un banale elemento di tappezzeria, perché quella scintilla, per lui, negli occhi di Vibeke non c’era mai stata.

“E poi – dai, diciamolo – lei è troppo insipida. Gud si merita una ragazza degna di lui, che valga davvero qualcosa. Non se ne fa niente di una bambolina di porcellana che dentro è vuota.”

Tom deglutì a fatica, e tacque ancora.

“Hagen, tu che sei un uomo serio, dimmi: che cosa ci si può trovare di davvero affascinante in una ragazza come quella?”

“Niente.” Rispose Georg, asciutto, con la bocca mezza piena. “È solo bella e consapevole di esserlo. Per il resto, è tutta scenografia posticcia.”

“Appunto!” convenne Vibeke, concitata. “Per questo non riesco proprio a capacitarmi di come un ragazzo straordinario come Gud possa lasciarsi abbindolare da una sciacquetta come quella.”

Quella. Non chiamava mai Kuu per nome. Diceva ‘quella’, come se si fosse trattato di un oggetto in mostra su uno scaffale.

“Sarà anche brava a cantare, ma ci vuole ben di più per meritarsi uno come Gud. Lui non –”

“Hai intenzione di andare avanti ancora per molto?” sbottò Tom a quel punto, gettando rabbiosamente il croissant nel piatto. “No, perché se è così, dillo, almeno mi sposto ed evito di farmi rimanere la colazione sullo stomaco.”

Vibeke sgranò gli occhi, scioccata. Georg, saggiamente, decise di chiudersi fuori dalla questione.

“Di cosa diamine vai blaterando?”

“Non lo so, Vi, di cosa diavolo hai blaterato, tu, da cinque minuti a questa parte?”

Ma per lei era tutto ok. Era normale che una ragazza parlasse con tanto ardore e trasporto di uno che non era il suo ragazzo. Ma per Tom no.

“Vaffaculo, Vi.”

Furibondo, si passò frettolosamente il tovagliolo sulle labbra, lo sbatté sul tavolo e si alzò, abbandonando la colazione a metà per poi andarsene in malo modo. Uscì a lunghi passi pesanti e nervosi, e respirò quasi con sollievo l’aria fredda. Gli occhi gli bruciavano dalla rabbia e la gola gli doleva per le troppe parole che vi aveva lasciato incastrate. Sentiva il sangue pulsargli violento nelle orecchie e in ogni singolo capillare, fomentando la sua irritazione. Era ridicolo che per colpa di Vibeke fosse addirittura arrivato a detestare, in certi momenti, un amico fraterno come Gustav.

“Ma che ti è preso, si può sapere?”

Tom non si voltò. Il tono spazientito di Vibeke gli diede ancora più sui nervi.

“Vi, levati dai coglioni, o stavolta va a finire male.” La avvertì, gelido come il vento che tirava.

Ma lei non era famosa per il suo buonsenso, né per la sua inclinazione a dar retta a ciò che le si diceva, pertanto non solo non se ne andò, ma ebbe anche l’ardire di avvicinarsi. Tom si sentì appoggiare una mano sulla spalla in un esplicito invito a voltarsi.

“Kaulitz.” Ora la voce di Vibeke era più morbida, e addirittura sembrava divertita. “Non te la sarai mica presa sul serio?”

Tom si sottrasse al suo tocco con un brusco strattone. Fissava il cielo grigio con rancore, vietandosi di guardarla per non esplodere.

“Dai, non fare lo scemo, su…”

“Tu non ne hai idea, cazzo,” Sibilò Tom a denti stretti. “Non hai idea di quanto mi sta sul cazzo quando fai così!”

Una piccola pausa silenziosa gli disse che Vibeke non aveva previsto una reazione del genere.

“Ti sei offeso davvero…” si meravigliò infatti.

Tom si girò bruscamente, facendola trasalire.

“Sì, Vi, mi sono offeso!” sbraitò. “Come sempre, del resto! Non che a te freghi qualcosa di come mi fai sentire, poi, vero?”

“Non dire stronzate!” strillò lei, più acuta del normale.

“No, è vero!” insisté lui. Ormai il freno era tolto e non sarebbe più riuscito a fermarsi. “Non te ne frega mai un cazzo di me, quello che penso io non conta! Come se non esistessi! Gustav ti piace così tanto? Va bene! Mettiti con lui, allora! Fai quel cazzo che ti pare! Ma almeno piantiamola con questa ipocrisia di stare insieme!”

Vibeke era una statua di sale, bianca in viso e completamente immobile. Sembrava che non stesse nemmeno respirando.

“Tu sei fuori di testa!” esclamò infine, con un evidente sforzo di non ridere. “Come fai a farti anche solo venire in mente delle stronzate del genere?”

“Non è una stronzata, Vi, è la verità nuda e cruda! Io e te siamo male assortiti: non facciamo che litigare, e le poche volte che non litighiamo è quando stiamo facendo sesso! Oppure litighiamo mentre facciamo sesso, o facciamo sesso mentre litighiamo. Non è così che dovrebbe essere. Non funzioniamo.”

Tom si sentì male nel sentirsi pronunciare quelle parole che a stento era consapevole di aver spesso pensato. Ebbe il terrore che, ora che glielo aveva urlato in faccia, anche Vibeke avrebbe capito che era tutto sbagliato.

“Dimmi che non pensi veramente il mucchio di cazzate che hai appena detto.” Lo pregò invece lei. “Kaulitz,” lo costrinse a guardarla. “Voglio che tu punti i tuoi maledetti occhioni cerbiattoni dritti nei miei e mi dica che non è vero che pensi tutta quella roba ridicola. Ho bisogno che tu mi dica che non sei idiota fino a questo punto.”

Tom abbassò lo sguardo, impotente. Lo pensava? Non lo pensava? Faceva qualche differenza?

“Ok.” Le mani di Vibeke si adagiarono dolcemente sul suo viso, guidandolo a risollevarsi perché lui tornasse a guardarla negli occhi. Tom si ritrovò a pensare che quegli occhi erano il primissimo ricordo che aveva di lei, la prima cosa che avesse notato. “Come puoi essere così ingenuo da credere seriamente che io possa desiderare qualcuno che non sia tu? Come puoi – come? – essere così deplorevolmente scemo?”

Qualcosa si sciolse in Tom, come se qualche catena che gli aveva costretto i polmoni in una morsa feroce e soffocante si fosse improvvisamente dissolta, permettendogli di tornare a respirare.

“Io ti adoro, Kaulitz. Con ogni mia singola cellula, io ti adoro, e così tanto che certe volte me ne vergogno, perché non è possibile che un essere umano provi sentimenti così forti e sinceri nei confronti di un altro essere umano. A volte mi viene da vomitare da quanto sono satura di te, eppure non ne ho mai abbastanza: ti cerco, ti inseguo, mi ubriaco ancora e ancora di quell’assurdo profumo di casa che hai. E, sì, io amo Gud. Lo amo da morire e lo trovo una persona molto migliore di te, francamente.”

Tom aggrottò la fronte e fece per protestare, ma lei lo precedette.

“È più maturo di te. Più professionale, più sveglio, più sciuro di sé… Eppure, guarda un po’, non è di lui che mi sono…”

Ancora frastornato dalla lunghezza e dall’inimmaginabile calore di quel discorso, Tom quasi non si era accorto del punto a cui erano arrivati. Il suo preferito. Il tasto dolente di Vibeke.

“Dai, dillo.” La stuzzicò, sogghignando, mentre dietro a quell’atteggiamento spavaldo tutto il resto di lui si crogiolava beato nella splendida sensazione di sentirsi insostituibilmente importante.

Vibeke arrossì, imbronciandosi.

“Che fai? Ridi, adesso?”

“Sì che rido. Ti imbarazza confessarmi che sei perdutamente innamorata di me.”

“Non è vero!”

“Dillo, allora.”

Lei si corrucciò ancora di più, stringendo le labbra combattuta.

“Sei un bell’ingrato. E un gran bastardo.”

“Dillo, Vi.” Si impuntò lui. Le prese le mani e, dal viso, gliele fece poggiare sulle proprie spalle, per poi avvolgerle la vita con le braccia. “Dai, ti prego. Lo voglio sentire.”

Vibeke si morse il labbro, lì dove si intravedeva uno dei due minuscoli fori lasciati dall’assenza dei piercing, una delle tante cose a cui lei teneva molto e a cui aveva rinunciato per lui. Lo guardò negli occhi. Esitò.

“Ti avverto che questa me la paghi, prima o poi.”

Poi, tutto d’un fiato, lo accontentò:

“Io, Vibeke V. Wokner, sono fottutamente innamorata di te, Tom Kaulitz.”

E proprio in quel momento, quando entrambi scoppiarono a ridere, Tom si rese conte che effettivamente, tutto considerato, aveva ragione lei: era un emerito idiota.

***

Ogni giorno che passava, Bill vedeva Kuu farsi sempre più vicina al comune concetto di persona noto alla maggior parte della gente. Della fastidiosa diva presuntuosa iniziale stava cominciando a rimanere ormai solo un velo superficiale, o forse era lui che aveva capito come guardare al di sotto di esso. Qualunque fosse il caso, una cosa era certa: era una ragazza molto meno sgradevole di quello che si era immaginato.

Osservandola mescolare il limone nel suo the, Bill si domandava quanto di lei ci fosse ancora da imparare.

Aveva trovato buffo che anche lei si fosse categoricamente rifiutata di togliersi gli occhiali da sole per mangiare, presumibilmente per lo stesso motivo per cui si era rifiutato di toglierli lui: niente trucco a nascondere occhiaie e stanchezza. Non che questo la rendesse meno attraente. Bill aveva anzi la netta sensazione che il potere di Kuu di far voltare la gente al proprio passaggio fosse innato, trucco o non trucco. Anche in quello, si somigliavano molto.

Erano seduti al tavolo con Georg, il quale aveva accolto l’arrivo di Kuu con un’occhiataccia che avrebbe incenerito un blocco di metallo. Lei lo aveva elegantemente ignorato e si era accomodata all’angolo del lato opposto del tavolo, di modo che ci fossero Bill e Gustav a dividerla da Georg. Poco dopo si era aggiunta anche Natalie, che fortunatamente andava molto d’accordo con Kuu; si erano scambiate qualche parola di saluto e poi Natalie aveva iniziato a chiedere a Georg di come stesse andando Emily a scuola, e così si erano ovviate spiacevoli tensioni. Tom e Vibeke invece erano spariti, e preferiva non sapere cosa stessero facendo.

Gustav e Kuu, nel frattempo, avevano intavolato una noiosissima conversazione su quello che avevano visto a Praga il giorno prima. Probabilmente, si disse Bill, erano cose che aveva visto anche lui, gironzolando assieme a BJ, ma non ne era nemmeno consapevole. Non gli interessava granché di monumenti e opere d’arte: si era goduto una serata di quelle in grado di rigenerare uno spirito logorato da settimane intere di stress ed era grato all’amico di avergliela regalata. BJ era una persona talmente solare e piena di vita che finiva sempre per contagiare irrimediabilmente chi gli stava attorno.

“Hei, mennesker! God morgen!” (“Ciao, gente! Buongiorno!”)

Come se si fosse sentito chiamato dai pensieri di Bill, BJ era apparso magicamente accanto al tavolo e sorrideva raggiante a tutti i presenti. Il suo sguardo, prevedibilmente, cadde immediatamente su Kuu, e il modo in cui indugiò su di lei comunicò un esplicito e notevole interesse.

“Kuu,” disse, in un tono così educato e suadente che avrebbe conquistato chiunque. Le porse la mano con un sorriso gentile. “Finalmente ho il piacere di conoscerti di persona. Sono BJ, il fratello di Vibeke.”

Kuu gli strinse la mano, visibilmente colpita, senza staccargli gli occhi di dosso.

“DJ Djevel,” annuì, restituendo il sorriso. “Il piacere è mio.”

Bill conosceva BJ da abbastanza tempo da sapere che per lui suscitare reazioni di quel genere era ordinaria amministrazione, che si trattasse di donne o di uomini. Doveva essersi fatto la doccia da poco, perché emanava un intenso profumo di muschio bianco e alcune ciocche dei lunghi capelli biondi erano umide.

“Su, prendi una sedia!” lo invitò Natalie, che, come tutte le altre donne dell’entourage, provava un’autentica venerazione per lui.

BJ non fece complimenti e si unì a loro. Gli offrirono una brioche, che lui accettò volentieri.

“Ho sentito che anche voi due siete stati in giro per Praga, ieri.” Disse, rivolto a Kuu e Gustav.

“Sì,” rispose Gustav, prendendo un sorso di caffè. “È stata una bella giornata.”

“Molto bella.” convenne Kuu, intercettando i suoi occhi. Si sorrisero.

Bill trattenne una smorfia. Era bastata una giornata, a quei due, per fare comunella. Non era geloso – non esattamente – ma si sentiva in qualche modo svantaggiato. Svantaggiato in merito a cosa, poi, non lo sapeva nemmeno lui. O forse, più probabilmente, lo sapeva ma non gli andava di ammetterlo.

“Sai, Kuu, stavo pensando…” disse BJ, leccando via della marmellata dal croissant con la punta della lingua. “Ti andrebbe di uscire con me, una di queste sere?”

A Bill andò di traverso il caffelatte che stava bevendo e prese a tossire furiosamente. A Gustav accadde la medesima cosa con il caffè. La forchetta con cui Natalie stava sbocconcellando la sua fetta di torta alle fragole ricadde nel piatto, mentre Georg fu colto dal puro sconcerto. La domanda, del resto, sembrava aver sorpreso parecchio anche la stessa Kuu, che stava occhieggiando BJ come per capire se stesse dicendo seriamente o meno.

“Che c’è?” fece il ragazzo, perplesso di fronte al generale sconcerto che aveva provocato. “Cos’ho detto?”

Aveva questa sorta di ingenuità infantile, BJ. Bill era seriamente convinto che l’amico non fosse affatto consapevole del fascino che esercitava sulle persone, o che perlomeno non lo fosse in modo adeguato.

“Che fine ha fatto quel ragazzo con cui uscivi qualche tempo fa? Il nuotatore.” Gli domandò Gustav.

“Ah, Dom. Lo trovavo un po’ troppo interessato al lato fisico del nostro rapporto.” BJ si rivolse quindi a Kuu. “Allora, che ne dici?”

Era semplicemente ridicolo. Cosa c’entrava BJ con Kuu? Erano due persone diametralmente opposte, non avevano assolutamente nulla in comune, se non una qual certa presenza scenica e una buona dose di celebrità. Ed entrambi facevano musica.

Ok, forse qualcosa in comune ce l’hanno, ammise Bill a malincuore.

Per i suoi gusti, c’era fin troppa gente a ronzare attorno a Kuu solo nel raggio di poche decine di metri: primo fra tutti Kaaos, il cui attaccamento verso di lei esuberava di gran lunga da quella che si sarebbe potuta definire una semplice amicizia; poi c’era Gustav, che misteriosamente aveva acquisito con lei una confidenza fondata su nessuno sapeva cosa, esattamente; e ancora Tom, che giocava con lei come due bambini avrebbero giocato a farsi il solletico solo per farsi una risata; e adesso arrivava anche BJ.

Il problema che Bill aveva con tutto questo non era ben identificabile. Gli dava fastidio che lei avesse intorno tutta quella gente, ma d’altro canto non poteva nemmeno definirla gelosia vera e propria. Che Kuu non gli dispiacesse come persona lo aveva capito già durante quella giornata di shopping insieme a lei, ma il tutto si fermava lì. E c’era un abissale differenza tra gradire la compagnia di qualcuno ed esserne innamorato. Probabilmente quello che più lo disturbava era che, una volta tanto, l’attenzione di una persona che lo aveva colpito non era soggetta al suo quasi esclusivo monopolio.

A quanto pareva avrebbe dovuto farsene una ragione. Peccato solo che nel vocabolario di Bill Kaulitz l’espressione ‘farsene una ragione’ non fosse contemplata. La risposta di Kuu alla proposta di BJ, però, sarebbe potuta essere un ottimo incentivo per iniziare a lavorarci sopra.

“Mi piacerebbe.”

Gli occhi di BJ si illuminarono.

“Stupendo! Fammi sapere tu quando preferisci.”

Bill era allibito dalla disarmante disinvoltura con cui BJ si rivolgeva a chiunque in merito a qualsiasi cosa. Non possedeva inibizioni di alcun tipo: parlava del sesso e della morte con la stessa naturalezza con cui sapeva parlare del tempo; se qualcuno suscitava il suo interesse, non si faceva problemi a dirglielo in faccia e, viceversa, quando qualcuno non gli andava a genio, con tatto, lo metteva subito in chiaro. Se in lui esistessero filtri di diplomazia – ipocrisia? – di qualunque tipo, Bill non ne aveva mai intravisti, e per questo lo invidiava. Per chi si trovava in una posizione come la sua, l’assoluta schiettezza era un lusso che non ci si poteva permettere quasi mai.

Restò chiuso in sé stesso per il resto della colazione, lasciando agli altri il piacere di perdersi in chiacchiere e lamentele lavorative. Tom e Vibeke stavano rientrando mano nella mano come una coppietta di ragazzini, quando solo una manciata di minuti prima tra loro c’era stata aria di tempesta; Georg aveva ripreso a discutere con Natalie di figli e scuole elementari; Gustav stava finendo in silenzio il suo caffè, mentre Kuu e BJ erano partiti per la tangente a parlare di pianoforti e musica classica. Al bancone Benjamin stava parlottando fittamente con Griet e il bodyguard Luke e di tanto in tanto scoppiavano in qualche risata discreta.

Erano arrivati in Francia, dunque. Altre date alle porte, altri giorni che se ne scivolavano via tutti uguali senza portare nulla di nuovo.

Qualche volta a Bill, in momenti fragili, capitava di chiedersi cosa sarebbe stato di lui, se non avesse avuto il successo che lo aveva condotto fin lì; se, in mancanza della realizzazione di quello che era sempre stato il suo sogno per eccellenza, avrebbe finito per considerare la propria vita un buco nell’acqua o magari avrebbe trovato il modo di ricavarne un successo diverso, un diverso senso di realizzazione.

Faceva quasi paura, a volte, la consapevolezza che non avrebbe mai più potuto scoprirlo.

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Note: se avete appena finito di leggere il capitolo qui sopra e state ora leggendo queste note è mio dovere rassicurarvi sul fatto che, no, non si tratta di un’allucinazione. Liberi di non crederci, ma così è: la vostra Mary ha aggiornato. E non sono passati tre mesi. Me lo merito un applausone? XD

Devo prostrarmi in un inchino di devoto ringraziamento a tutti voi che, come al solito, mi avete regalato tutti questi commenti così belli da leggere. Ormai lo sapete: le recensioni le considero un po’ cibo per lo spirito e l’ispirazione. E infatti, come avete potuto notare, ho già postato. Penso che adesso per colpa mia pioverà a dirotto per mesi. XD

Un sacco di gente mi chiedeva da un po’ un po’ di attenzione per Tom e Vi e io vi dicevo di pazientare, perché sareste stati accontentati. Il momento è per l’appunto giunto, e spero ne sia valsa la pena. :)

Vi lascio con un enorme bacio di massa e la solita, amorevole speranza che, una volta finito di leggere, avrete anche la pazienza (ma soprattutto la sincera voglia) di lasciare qualche parola di commento. ;)

Alla prossima!

 

p class="MsoNormal">P.S. siccome qualcuno mi ha detto che non si è nemmeno accorto che esisteva, vi comunico che ho un'altra ff in corso, HOW TO SAVE A LIFE, che sarà piccina piccina e decisamente incentrata sul personaggio di Tom (mi ispira, che ci devo fare? XD). Se passate anche di lì, ovviamente mi faree felice. ;)

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