Synchronicity of Hamburgers, Patisserie and Ancient Philosophers

di Frances
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PARTE I ***
Capitolo 2: *** PARTE II ***



Capitolo 1
*** PARTE I ***


synchronicity

Quando il campanello di casa sua suonò per la prima volta, Arthur Kirkland si trovava nel bel mezzo di una complessa ricerca filosofica che lo aveva impegnato per più o meno un mese e mezzo e che si avviava faticosamente alla conclusione. Si trattava di un’analisi dell’irrazionale che sarebbe poi stata la tematica principale di alcune sue lezioni in classe; lo aveva tormentato fino a fargli vedere fatine e fantasmi volteggiare nel buio ogni volta che aveva chiuso gli occhi durante le sue innumerevoli notti insonni. Si era rivelata così complessa che spesso si era ritrovato a sbottare di frustrazione nel bel mezzo del silenzio in biblioteca, o cedere a terribili crisi di nervi nel momento in cui, leggendo e rileggendo i brani di riflessioni filosofiche famose, non era riuscito a trovare ciò che gli serviva. Molti gli avevano detto sorridendo che con il carattere irascibile ed impaziente che si ritrovava era il filosofo meno credibile che fosse mai esistito (cosa che lo aveva fatto arrabbiare ulteriormente).

Ma lui in fin dei conti non aveva studiato per farsi dire dagli altri cosa doveva fare, né tanto meno per dare credito ai loro commenti lasciandosi andare pubblicamente a scoppi d’ira – si limitava a fare il suo lavoro di insegnante nel migliore dei modi, godendosi quella cattedra che si era guadagnato con tanta fatica e dedizione.

Alzandosi dalla scrivania con una bassa serie di imprecazioni, poggiò attentamente la penna stilografica e abbandonò il blocco note pasticciato di appunti tra libri e fotocopie.

Oltre la porta, sui bassi gradini che rialzavano l’ingresso dal livello della strada, gli occhi azzurri e limpidi di Alfred F. Jones lo guardarono attraverso le lenti degli occhiali, sbattendo le palpebre. Aveva addosso una felpa con il cappuccio e dei jeans larghi strappati sul ginocchio, una borsa dall’aria pesante a tracolla e delle cuffie ingombranti che gli circondavano la testa come un’aureola di plastica lucida; lasciò scivolare queste ultime sul collo con un gesto disinvolto un attimo prima di dire allegramente:

« Hey!» Come se formule più adatte come Buon pomeriggio o Buonasera non riuscissero a trovare posto nel suo già limitato vocabolario americano.

Arthur lo squadrò, indeciso se sentirsi sorpreso da quella visita o piuttosto seccato. Una cosa era certa, era appena stato interrotto in un flusso di coscienza che lo aveva quasi condotto alla fine della sua ricerca – e questo non lo metteva sicuramente di buon umore.

« Hey.» Rispose al saluto con poco entusiasmo. « Cosa c’è?»

Alfred si strinse nelle spalle, regalandogli un sorriso tranquillo:

« Niente. Ho voglia di cenare con te.» Sollevò una mano mostrandogli due buste gonfie fino a scoppiare su cui spiccava la M arrotondata di McDonald’s. « Ho portato da mangiare.»

Arthur squadrò le confezioni, trattenendo appena il respiro quando lo raggiunse l’effluvio di olio vecchio fritto troppe volte oltre il limite di ciò che veniva comunemente definito sano:

« Immagino che siano hamburger.» Constatò, poco convinto. Ebbe la risposta che cercava ancora prima che Alfred aprisse bocca, dalla luce deliziata e felice che gli illuminò il viso un attimo prima di annunciare:

« Certo che si.»

Arthur incrociò le braccia sul petto, chiudendo gli occhi e sancendo con tono critico:

« Allora dubito che lì dentro ci sia davvero qualcosa da mangiare

Alfred assunse un’espressione contrariata, abbassando le buste lungo il fianco; sembrava che quell’insinuazione lo avesse colpito nell’intimo, ferendolo come un’offesa rivolta direttamente a lui.

« Ma ho scelto anche quello con il filetto di pesce impanato e le patatine fritte. E anche l’insalata. Pensavo ti sarebbe piaciuto.»

Per due secondi, la mente di Arthur vacillò tra la tenerezza per quella premura ed il desiderio di evitare in ogni modo che Alfred entrasse in casa sua; fu questa sottile incertezza a farlo esitare – tentò di guadagnare tempo studiando la stella bianca che decorava le cuffie di quella grossa minaccia americana, cercando di ignorare la sua espressione da cane bastonato:

« Mmh.» Dopo una rapida analisi della situazione, realizzò che la sua necessità primaria fosse allontanare quegli hamburger e decise di mentire. « Ad ogni modo ho già cenato.»

« Ah.» Gli occhi di Alfred vagarono verso il basso e poi tornarono sicuri a fissarsi in quelli dell’altro, dopo neppure un secondo e mezzo. « Tanto ho appena deciso che mi farai entrare lo stesso.»

« No, a casa mia decido io chi entra.» Arthur lo disse con fermezza e severità, sollevando il mento nel tentativo di apparire più autorevole verso quel ragazzo che lo superava in altezza di una buona spanna.

Alfred gli rispose con un sorriso genuino e tranquillo, ignorandolo deliberatamente mentre gli poggiava una mano sulla testa per scompigliargli i capelli:

« Con permesso!» Lo spinse all’interno, muovendo passi rapidi sugli scalini e poi sul tappeto dell’anticamera, chiudendo il portone con un piede. « E’ bello sapere che tu apprezzi sempre e comunque la mia compagnia!*»

Nonostante i suoi tentativi di riaprire la porta e di spingere Alfred di nuovo in strada, il giovane americano riuscì facilmente ad averla vinta: gli si aggrappò alle spalle, prendendolo da dietro e poggiando con aria allegra il mento sulla sua testa spettinata. E mentre si lasciava condurre in cucina, senza rinunciare a tentativi energici di divincolarsi, Arthur Kirkland pensò che in fin dei conti poteva sforzarsi di sopportare quella visita, rimandando il lavoro al giorno dopo. Per un breve istante mentre si vedeva costretto ad apparecchiare sul suo tavolo tondo, osò addirittura convincersi che quella serata si sarebbe conclusa rapidamente ed in maniera indolore – avrebbe mangiato con Alfred e poi avrebbe rifiutato qualsiasi sua proposta di vedere un film dell’orrore e poi dormire assieme (dalla borsa pesante che aveva con sé sembrava proprio che quelle fossero le sue intenzioni), chiamando un taxi e spingendocelo dentro a forza pur di levarselo di torno.

Ne fu convinto e se ne sentì rincuorato, perché in fin dei conti poteva sopportare Alfred con facilità, se ci metteva tutto il suo impegno (lo riprese con tono irritato dopo averlo colto in flagrante nella sua ricerca nel freezer di coppette di gelato, lo sgridò quando si sedette e per protesta mise entrambi i piedi sul tavolo, si arrabbiò molto quando gli chiese se avesse almeno una bottiglia di Coca Cola dopo aver inspiegabilmente giocato con i piatti di ceramica rischiando di farli cadere per terra).

Ma stava per sedersi a tavola, con Alfred che sfilava dalle buste il suo panino a base di pesce e la propria mezza dozzina di hamburger, quando il campanello di casa sua suonò di nuovo.

Lo fece più di una volta, componendo un motivetto irritante che fece girare Arthur su sé stesso, con gli occhi spalancati e le terminazioni nervose in allarme.

Ebbe un sospetto terribile.

Quando aprì la porta, e stavolta lo fece con un gesto nervoso e decisamente seccato, Arthur fu investito da un forte e denso profumo di cioccolato fondente.

« Bon soir!» Francis Bonnefoy fece la sua teatrale ed elegante apparizione avvolto in un impermeabile blu scuro lungo fino alle ginocchia; aveva i capelli legati che gli ricadevano sulla spalla, sfiorandogli il collo in onde morbide. Lo salutò con un sorriso, mostrando la fila di denti bianchi e dritti – Arthur a quella vista ebbe l’impulso folle di spaccarglieli tutti con un pugno in bocca. Ma non fece in tempo a mandare il corretto segnale ai muscoli delle braccia, perché l’inaspettato francese fece un passo sugli scalini piazzandogli sotto il naso un ampio pacco rettangolare, accuratamente avvolto in quella che sembrava una costosa carta da regalo avorio. Arthur fissò con diffidenza il fiocco dorato che si ergeva sulla scatola ed i perfetti riccioli del nastrino sottile che ricadevano oltre gli spigoli: gli sembrava quasi di vedere – con vero e sincero disappunto, se non addirittura sdegno – le mani di Francis che premevano con disinvoltura il nastro sulle lame della forbice, ripiegando delicatamente i lembi di carta. Una pura e fine dimostrazione di impegno e dedizione nella ricerca del bello che Arthur Kirkland onorò con un piatto:

« Cosa ci fai qui?»

Francis batté le palpebre, senza sentirsi affatto ferito da quella mancanza di entusiasmo – era evidentemente più che abituato a quel genere di reazioni:

« Ti ho portato una torta» spiegò con gentilezza, un attimo prima di muovere un altro passo verso l’ingresso. « Fatta dalle mie mani apposta perché tu l’assaggi. Mi fai entrare, oui

E anche se la sua era evidentemente una domanda, si mosse senza attendere la tagliente risposta che gorgogliava nella gola di Arthur; il sorriso del francese divenne più profondo mentre si infilava tra il padrone di casa e la porta aperta, stampandogli un bacio lieve sulla fronte e scansandolo con un movimento fluido.

A quel punto, Arthur (o più precisamente il suo cervello confuso e rintronato dall’odore di cioccolato mescolato in maniera inopportuna con l’odore acre dell’olio fritto sulle patatine) andò momentaneamente in stand by. Ci mise almeno un minuto a rendersi conto della situazione, rimanendo fermo davanti all’ingresso aperto e vuoto a fissare gli scalini, il marciapiede e la strada su cui rotolavano silenziose le foglie secche dell’autunno, sospinte dal vento. Quando realizzò di aver appena fatto entrare in casa, insieme, entrambe le persone che non riusciva a sopportare neppure singolarmente e di essersi cacciato da solo in quella che con grande probabilità sarebbe diventata la peggiore serata della sua vita, deglutì appena, lasciandosi sfuggire un sospiro strozzato.

Si ricordò con un ritardo di oltre sessanta secondi del bruciore lasciato sulla fronte dal bacio di Francis; si rivolse a lui con le parole che erano diventate la risposta standard a quelle sue inopportune manifestazioni di…mah, affetto?, nonostante lo sentisse ormai distante, a vagare da qualche parte in casa sua:

« Stammi lontano!» Sbottò con voce alta e gracchiante, mentre chiudeva con frustrazione il portone di casa.

Li trovò in cucina, seguendo le risate assordanti di Alfred e le morbide esclamazioni in francese che scivolavano dalle labbra di Francis.

Li guardò, istupidito, mentre Alfred iniziava distrattamente a mangiare patatine e il francese si sfilava l’impermeabile, ripiegandolo con cura un attimo prima di spostare una sedia per accomodarsi con le gambe accavallate.

E rimanendo immobile sulla soglia della stanza, si chiese con impeto disperato perché? Perché insieme, nello stesso dannato posto, con lui, la stessa sera, alla stessa ora, con quell’assurda sincronia e precisione da orologio svizzero? Perché quell’improvvisa, inspiegabile e irrefrenabile necessità di cenare con lui?

PERCHE’ INSIEME?

Possibile che fosse successo per un maledettissimo caso?

Arthur Kirkland non aveva mai trovato il tempo necessario a per pensare all’amore. Era sempre vissuto nel suo universo di fogli e favole, nei suoi sogni ad occhi aperti, nelle notti insonni passate a leggere libri e a scrivere pagine e pagine che non avrebbe mai fatto leggere a nessuno. C’erano state delle ragazze, durante gli anni della scuola superiore, ma non si era mai trattato di storie serie – l’unico vero amore che avesse mai provato era rivolto alla letteratura. Per molti anni era andato fiero della propria refrattarietà all’amore, della propria capacità innata di essere integro e perfetto in qualsiasi cosa facesse, della propria superiorità intellettuale e degli sguardi ammirati che gli venivano rivolti, nascondendo il timore restio che gli altri provavano nell’avvicinarlo. Andava fiero del proprio essere solo, tranquillo, in pace con sé stesso, completamente padrone della propria vita.

Ne era andato fiero, davvero. Fino a che non erano arrivati quei due dementi, ed era catastroficamente finito a letto con entrambi.

Conosceva Francis Bonnefoy fin dai tempi dell’università, quando lui si era trasferito in Inghilterra per studiare e si erano incontrati per puro e sfortunato caso alla cerimonia di inizio anno. Ed era stato ancora più angosciante scoprire di condividere con lui più o meno tre quarti dei corsi, dopo che in seguito alle prime ed elementari presentazioni Arthur lo aveva catalogato come la creatura più asfissiante e fastidiosamente melensa (e inoltre francese ben oltre i suoi limiti di sopportazione) che avesse mai incontrato. Francis amava la storia dell’arte, sapeva tenere con eleganza il pennello e la tavolozza, era capace di rimanere fermo ed immobile per lunghi minuti nel contemplare un dipinto di Van Gogh o una scultura di Canova; Arthur era legato al fascino dell’inchiostro e della pagina scritta, del frusciare dei libri stampati e dalla poesia insita nella lingua degli uomini. Anche se le loro aspirazioni erano diverse e si consideravano l’un l’altro l’unica vera piaga che infettava il mondo, erano riusciti a frequentare le lezioni seguendo la rigida legge della sopportazione. Qualche volta Francis si era offerto di studiare assieme, ma la sua natura straniera e la sua poco piacevole tendenza a toccare le cose altrui – cose di qualsiasi natura e genere – erano state le principali motivazioni che avevano spinto l’inglese a rifiutare.

Inoltre, Francis Bonnefoy profumava sempre di dolci. A volte aveva odore di crema pasticceria, trascinava dietro di sé l’aroma dei croissant appena sfornati, della marmellata e delle brioche calde. Sin da quando studiava all’università lavorava come aiuto pasticcere alla Maison Bertaux, la più popolare e antica patisserie francese di Londra. Oltre a farsi invidiare da almeno la metà degli studenti di arte del suo corso per la freschezza e la naturalezza con cui mescolava i colori ad olio sulla tela, si vantava di essere anche abbastanza bravo con gli impasti. Arthur non lo aveva mai ammesso apertamente, senza mai concedergli uno straccio di complimento, ma non c’era davvero modo di dargli torto.

E forse era stato a causa di quella sua abilità con i dolci che quella notte invernale era riuscito ad aprire una minuscola, pericolosissima falla nell’integerrimo contegno di Arthur, mettendo a dura prova non solo il suo Orgoglio Inglese, ma anche la sua illimitata stima di sé stesso. Francis quella notte emanava un forte odore di caramello. Bastava un semplice gesto, una mano tra i capelli ondulati, qualsiasi piccola variazione della sua postura sulla sedia perché il profumo di cremè caramel arrivasse ad Arthur forte e delizioso come se gli fosse stato appena servito un enorme vassoio traboccante di budini.

Quella notte Arthur Kirkland aveva fatto l’errore madornale di accettare l’invito di Francis a studiare assieme; Arthur non era un amante dei dolci, ma quella notte Francis Bonnefoy profumava dell’unico dessert di cui Arthur fosse mai andato pazzo. Ed era bastato davvero poco, un avanche ridicola che non avrebbe incastrato neppure la più ingenua e sprovveduta delle femminucce.

La mattina seguente, quando si era avvolto nella coperta desiderando ardentemente di morire, aveva rivisitato brevemente e con orrore i propri ricordi sbiaditi delle cinque o sei ore che erano appena passate. E la testa gli si era riempita di brevi e sommessi mormorii nella notte, della sensazione dolorosa di due ampie mani premute sulle sue cosce e della testiera di ferro battuto conficcata nella spina dorsale. E quel profumo mielato e quasi nauseante dell’unico dolce che lo avesse mai fatto impazzire, quell’odore che aveva annebbiato e saturato il suo mondo per una notte intera.

Inutile aggiungere che dopo quella che fu per lui la più umiliante delle disavventure, non ebbe mai più il coraggio di mangiare qualsiasi derivato della crema inglese.

L’incontro con Alfred era stato stupido e incredibilmente assurdo, ma data la persona in questione non avrebbe potuto aspettarsi niente di diverso. Lo aveva conosciuto durante quello stage negli Stati Uniti a cui aveva partecipato di malavoglia e che ricordava come il peggiore mese e mezzo della sua vita – quando ancora studiava con i suoi colleghi di corso per sostenere l’ultimo esame prima di diventare ufficialmente Bachelor of Arts.

Avevano affittato tutti insieme un appartamento nel cuore di Manhattan, a qualche isolato da Wall Strett, – una sistemazione che Arthur era riuscito a sopportare solo grazie alla dignitosa stanza singola che gli spettò per sorteggio ed alla decisione presa di comune accordo di dividere equamente il prezzo che dovevano al proprietario. L’argomento delle lezioni non lo entusiasmava, il professore che se ne occupava aveva la fastidiosa abitudine di ascoltare le domande degli studenti premendo la lingua contro i denti e la guancia; inoltre non aveva trovato un solo distributore di bevande che facesse un thé decente oltre a quel disgustoso caffé americano.

Malauguratamente costretto a dormire e vivere così a lungo nella città più frenetica e rumorosa del mondo, aveva trovato unico conforto nel momento della colazione: svegliandosi all’alba riusciva ad allontanarsi dagli altri, racimolando a forza il tempo necessario per sé stesso senza dover pensare a nessun’altro. Il cibo americano era per lo più grasso e nauseante, ma la colazione da Starbuck’s o in alcuni Delikatessen era diventata il suo momento speciale, il silenzio e la pace prima di ributtarsi nel rumore terribile di New York al mattino – i dolci ed il thè poco saporito non incontravano completamente il suo gusto, ma riusciva perlomeno a mandare giù qualcosa, storcendo il naso.

Di solito quando si chiudeva in sé stesso per sfuggire a qualcosa che detestava e doveva subire e sopportare nonostante la propria volontà, Arthur Kirkland diventava un uomo taciturno e cupo più del solito; quelle mattine gli era capitato molte volte di chiudersi nella lettura di Oscar Wilde, James Joyce e talvolta Kant e Nietszche, quando la frustrazione oltrepassava il limite del sopportabile.

O almeno, era riuscito a leggere fino al giorno in cui un enorme ragazzone con gli occhiali non si era seduto al suo stretto tavolino senza neppure chiedere il permesso, sbattendo il proprio vassoio di fronte al portatile aperto su cui Arthur prendeva appunti mano a mano che leggeva.

Alfred gli era piombato nella vita con impulsività ed un’invadenza senza pari: si era presentato ed aveva iniziato ad occupare con futili discorsi ad alta voce il suo sacrosanto silenzio mattutino, ovvero l’unica cosa che aveva permesso ad Arthur di non impazzire a New York durante le prime settimane. E avevano continuato a fare colazione assieme tutte le mattine, anche se Alfred sembrava solo in cerca di una persona da imbottire di stupidaggini e l’accento americano rendeva incomprensibili alcune parole elementari all’orecchio di Arthur. Poi si salutavano, e uno se ne andava mettendosi alle orecchie delle enormi cuffie mentre si avviava verso una scuola superiore che a detta sua odiava con tutto il cuore (per quanto Arthur avesse desiderato terribilmente di zittirlo e di poter leggere in santa pace, aveva ascoltato molti dei suoi soliloqui senza fine); l’altro si rituffava di malavoglia nella terribile scacchiera degli isolati di Manhattan.

E poi Arthur aveva fatto il secondo errore più fatale della sua vita, ovvero ubriacarsi con i suoi colleghi la notte prima di prendere l’aereo per l’Inghilterra. L’euforia per il ritorno imminente nella sua amata patria lo aveva esaltato fin troppo ed aveva esagerato con l’alcol.

E il giorno dopo, senza avere la più pallida idea di come e perché, si era risvegliato nel suo letto – e sarebbe stato tutto esattamente al proprio posto se tra quelle lenzuola non ci fosse stato nessun altro, e la testa di Arthur non rimbombasse come l’interno di un barile vuoto ad ogni movimento.

Non aveva mai capito il motivo per cui avesse accettato la compagnia di Alfred con così tanta facilità, nonostante i brontolii e le lamentele silenziose che si era ripetuto ogni volta che lo aveva visto avvicinarsi al suo tavolo, ogni maledetta mattina. Non sapeva neppure come e perché si fossero notati l’un l’altro o perché alla fine avessero iniziato a conoscersi in quello stupido locale di Starbuck’s dove facevano un caffé orribile – non sapeva neppure come avesse potuto accettare la trasformazione di quel posto, il suo santuario di silenzio, nel covo delle chiacchiere frivole.

Ad ogni modo, quella mattina si era svegliato nelle braccia di Alfred F. Jones, che non era altro che un moccioso di cinque anni più giovane – e il suo corpo gridava che era successo l’irreparabile, anche se la sua testa davvero non riusciva a ottenere le informazioni necessarie a spiegargli COME.

Si era illuso di poter mettere la parola fine a quella terrificante avventura americana non appena avesse rimesso piede nella sua adorata Inghilterra, nonostante Alfred gli avesse estorto il numero di cellulare un istante prima della partenza. Se ne era beatamente illuso per due o tre anni, finché Alfred non gli aveva fatto la sorpresa orribile di chiamarlo al telefono, informandolo del fatto che si era appena trasferito a Londra con sua madre per entrare all’università. Come se improvvisamente l’Inghilterra fosse diventata il luogo perfetto per i laureandi o qualcosa del genere, il ricettacolo di qualsiasi studente mediocre, americano o francese che fosse, solo per il semplice fatto che la presenza di tali individui potesse dare fastidio a lui.

Arthur Kirkland, in quella occasione in cui si sentì sperduto ogni oltre dire, rimase in silenzio con il telefono in mano, mentre la risata ebete di Alfred lo rintronava all’infinito. Rimase immobile e si chiese disperatamente perché.

Ad ogni modo, non era ancora minimamente riuscito a farsi un’idea di cosa Alfted studiasse di preciso. Gli chiedeva spesso delle ripetizioni di filosofia, ma Arthur sospettava che Alfred non avesse mai davvero ascoltato con serietà ciò che gli veniva spiegato. L’americano rispondeva sempre con mugolii poco coinvolti, non prendeva appunti, non aveva mai tirato fuori un singolo libro di filosofia dal suo mono-spalla Converse – si limitava a guardarlo mentre parlava, spesso coordinando a quegli sguardi fissi un sostenuto masticare; Arthur aveva solo intravisto qualche grosso e pesante volume di diritto, che inoltre a dirla tutta, sembrava fin troppo ben tenuto e perfetto perchè potesse venire il sospetto che quel ragazzo disordinato ed irruente lo avesse sfogliato più di una volta o due. Inoltre l’idea che qualcuno potesse affidare il proprio destino ad un avvocato di nome Alfred F. Jones (sempre che fosse davvero legge ciò che studiava) lo raccapricciava e inquietava come poche altre cose al mondo.

E nonostante i suoi seri dubbi sulla carriera universitaria di Alfred, non si era mai rifiutato di dargli ripetizioni di filosofia, senza tirarsi indietro neppure quando la serata si trasformava in un’occasione per cambiare argomento e mangiare assieme, o sorbirsi film dell’orrore da quattro soldi. Lo faceva per pura e semplice magnanimità, compassione e per il suo istinto di insegnante. Ovviamente.

E poi era tutto degenerato oltre ogni dire quando Francis e Alfred si erano incontrati: e la cosa più drammatica era che Arthur aveva cercato in tutti i modi possibili di evitare che accadesse.

Era successo per puro caso, mentre Arthur si illudeva che conversare con Alfred del pensiero di Schopehauer e Kierkegaard potesse davvero servirgli a qualcosa e stava seduto con lui su di una panchina a St. James Park. In fondo avrebbe dovuto capire che quell’uscita era stata una cattiva idea dal modo in cui Alfred aveva iniziato a lanciare le molliche del suo panino ai piccioni che tubavano attorno ai loro piedi.

Francis era passato davanti a loro con un blocchetto degli schizzi sotto braccio ed una matita infilata di traverso dietro l’orecchio, tra i capelli biondi – e nonostante Arthur avesse sentito la pelle d’oca pizzicargli la nuca lanciandogli avvertimenti frenetici, tutte le sue speranze che abbassare lo sguardo potesse bastare a passare inosservato si erano rivelate del tutto vane.

E quel pomeriggio che nelle intenzioni di Arthur doveva essere una seduta di ripetizioni all’aperto, in quelle di Alfred un’occasione per perdere tempo con una materia che non gli serviva e in quelle di Francis una ricerca di ispirazione, si era trasformato in un’allegra uscita a tre – e fu allegra, perché il più inglese di loro fu perlopiù ignorato nel suo scorbutico e teso rifiutarsi di partecipare a qualsiasi cosa (e costretto a prendervi parte in ogni caso).

La cosa più terrificante fu constatare come quei due idioti che teoricamente avrebbero dovuto odiarsi per il semplice fatto di essere andati a letto con lo stesso uomo, riuscissero ad andare d’accordo e accettarsi in maniera naturale e disarmante. Anzi, in quelle prime e lunghe ore che passarono insieme, fu probabilmente Arthur Kirkland a diventare il maledetto terzo incomodo, con il suo seccato e continuo tentativo di rovinare la festa.

C’erano però anche i rari momenti in cui quei due sembravano ricordarsi di essere rivali o qualcosa del genere: purtroppo per Arthur, l’istante in cui Francis tentò di imboccarlo con la forchetta che grondava panna montata fu uno di quelli. E non poteva che essere il meno opportuno, per il bene del suo stomaco.

Quando l’inglese decise di accettare e aprì la bocca per accogliere il boccone, corrugando le sopracciglia come se la cosa fosse umiliante e dolorosa come girare nudo tutt’intorno a Trafalgar Square, lo sguardo di Alfred dall’altra parte del tavolo si fece cupo e leggermente contrariato, mentre il suo moto mandibolare si interrompeva di colpo ed un grosso pezzo di hamburger veniva deglutito senza il minimo sforzo.

La panna di Francis era la cosa più dannatamente buona sulla faccia di quella maledetta terra ed il cioccolato era morbido, si scioglieva in bocca e lasciava un retrogusto leggermente amaro sulla lingua. Arthur avrebbe semplicemente voluto prendere quella fetta di torta che aveva cocciutamente rifiutato e mettersela in bocca tutta intera, mentre con l’altra mano ne tagliava un altro pezzo più grande. Ma il suo Orgoglio lo aiutò a masticare tranquillamente e a non fare nessuna di quelle cose. Anzi, quando Francis allontanò la forchetta e gli chiese gioiosamente se fosse buona, aggrappandosi al proprio stoico essere inglese Arthur riuscì a rispondere nel modo più opportuno:

« Fa schifo.» Suonò credibile e senza esitazioni; il francese sembrò non comprendere appieno il significato di quelle parole, perché sorrise come se fossero il migliore dei complimenti – ma durò un istante, perché subito dopo che ebbe posato la forchetta sul bordo del piattino, puntò il gomito sul tavolo e poggiò il mento su di una mano:

« Mon Dieu, il senso del gusto ti abbandona di giorno in giorno.» Gli rivolse un gesto disattento, mostrandogli una smorfia che lo derideva. « Certo, d’altronde cosa vuoi che sia questa raffinata e perfetta panna montata a mano in confronto all’impareggiabile e delizioso aroma di bruciato che impreziosisce i tuoi squisiti stones

Arthur ebbe un fremito ricordando i piccoli fallimenti di pasta annerita che erano emersi dal forno quando lo aveva lasciato riscaldare ad una temperature troppo alta e si era dimenticato di avere il timer rotto. Francis si era rifiutato categoricamente anche solo di avvicinarsi al piatto su cui erano accatastati, dopo averne addentato uno ed aver iniziato a fare strani e poco divertenti giochi di parole.

« Osa dire anche solo un’altra parola contro i miei biscotti e giuro che ti mando via a calci!» Lo minacciò l’inglese, avvampando, mentre afferrava la forchetta e gliela puntava come a volerlo infilzare. Alfred quasi soffocò mandando giù l’ultimo boccone del suo terzo panino. Si sentì probabilmente in dovere di intervenire, perché batté forte la mano sul tavolo, scoppiando forte a ridere:

« Non puoi dargli torto, Arthur, quei biscotti erano terribili.» Mosse una mano davanti al volto in un gesto divertito. « Facevano rivoltare lo stomaco e spaccavano i denti ad ogni morso!»

Arthur si voltò di scatto, paonazzo, con la posata sporca di cioccolato che trovava repentinamente un nuovo obiettivo:

« E mando via anche te, razza di moccioso sfrontato!» Ringhiò, sdegnato. « Non puoi dire una cosa del genere dopo averli spazzolati via tutti come fossero caramelle al miele!»

Alfred F. Jones aveva assaggiato i biscotti di sua spontanea volontà, nonostante il loro aspetto decisamente poco appetitoso, mangiandoli l’uno dopo l’altro senza fare un solo commento. Era stato talmente veloce che Arthur non aveva neppure fatto in tempo ad accorgersene, in quel breve intervallo di tempo nel quale Alfred era stato lasciato da solo in cucina. Gli scones erano semplicemente spariti, e quando Arthur era tornato con in mano qualche tomo su Hegel, aveva incontrato solo lo sguardo innocente di Alfred che lo aspettava.

E il vassoio vuoto. Era bastato quel semplice gesto perché il cuore di Arthur si riempisse repentinamente di un amore incondizionato nei confronti dello stomaco senza fondo di quello stupido americano, nella convinzione deliziosa e rincuorante che avesse mangiato quei biscotti perché gli erano piaciuti nonostante tutto.

Ma Alfred gli fece l’occhiolino tirando in alto il pollice dal pugno chiuso:

« Gli eroi come me hanno il dovere di fare del bene alla gente!» Annunciò con voce stentorea e sicura. «Eliminare quelle schifezze avrebbe senza dubbio fatto un favore all’umanità intera!*»

Bastarono quelle poche parole senza senso perché l’ingenuo sogno inglese di essere stato apprezzato s’infrangesse, trasformando l’amore verso Alfred in puro e semplice istinto omicida.

« Ti odio!» Sbottò con la voce rotta, lanciando la forchetta sul tavolo con un gesto secco. « Idiota! Vi odio tutti e due! E la tua torta fa schifo! Fa schifo da morire!» Aggiunse, tremando, rivolgendosi al maledetto francese che rideva alla sua sinistra.

Senza dubbio sarebbe stato più credibile se dopo qualche istante la sua lingua non avesse reclamato un altro po’ di cioccolato, e Arthur non avesse preso compostamente il piattino con le dita per trascinarlo davanti a sé, conficcando con apparente disattenzione un altro pezzetto di torta.

…ma avrebbe mangiato solo quella.

Francis lo osservò in silenzio, con una sorta di strana e morbida soddisfazione negli occhi blu; quando aprì di nuovo bocca, la sua disgustosa erre moscia e il suo accento francese erano diventati ancora più pronunciati:

« La prossima volta ti porterò una teglia di zuppa inglese, oui

La risposta di Arthur fu immediata e secca, quasi strozzata:

« No.» Ebbe un guizzo nello sguardo mentre lanciava a Francis un’occhiataccia e poi tornava al suo piatto. «Niente crema inglese neppure tra cent’anni

E fu più o meno alla fine di quello scambio che Alfred fece raschiare violentemente la sedia sul pavimento, provocando un frastuono che stupì appena il francese e fece sobbalzare Arthur.

L’americano si sporse sulla tovaglia, lanciandosi sul ripiano con tale irruenza da far tintinnare i piatti e quasi rovesciare un bicchiere: in mano teneva un hamburger a tre strati appena frettolosamente scartato.

« Art!» Disse agitando il braccio teso, fino a che quasi il panino non arrivò a sfiorare il naso dell’inglese ed i lembi della sua felpa non finirono dritti nella panna montata e tra le fragole della fetta di torta. « Assaggia!»

La voglia di mettere in bocca quell’esplosione di grasso, ketchup e altre salse non meglio identificate era più o meno pari allo zero assoluto, mentre ancora sentiva il dolce pizzicargli il palato; ma bastò guardare l’espressione concentrata di Alfred e la sua speranza tenera perché il desiderio di panini untuosi di McDonald’s crescesse almeno di un buon trenta per cento.

Si tese per dare un morso, minuscolo, addentando il primo ed il secondo strato di pane morbido e carne – inutile sottolineare come l’espressione di Alfred divenne luminosa mentre lo osservava masticare lentamente.

« Scommetto che ti piace.» Commentò, pieno di entusiasmo, mentre si sporgeva ancora per offrirgli un altro pezzo. Arthur non ebbe il coraggio di rispondere mentre mordeva ancora e mandava giù il secondo boccone, sentendo in gola un miscuglio di sapori a dir poco vomitevole; mugolò solo qualcosa di incomprensibile mentre masticava, arricciando il naso in una smorfia.

Alfred sembrava molto soddisfatto di quel successo, e spostò la sedia per farsi più vicino, mentre Francis faceva lo stesso, come in una sorta di riflesso incondizionato. E Arthur continuò a mangiare fino a che il suo stomaco non iniziò a piangere e chiedere pietà, mentre il suo palato diventava a poco a poco sempre meno disposto a distinguere il cioccolato e la panna dalla maionese e il cetriolo.

Nota dell'autrice:
Si, sto scrivendo decisamente troppo. Dovrei smetterla. Soprattutto quando si tratta di roba pucci da vomito, perchè è ormai chiara la mia incapacità nel settore.
Cronache di una serata stupida farcita di anedotti di vita reale, compresse in due capitoli. E' stata scritta (ed il seguito verrà scritto) per Juju e Angi <3 a cui la regalo e_e spero che possano gradirla!

E chiunque abbia letto fin qui mi farà un grande regalo a lasciare la propria opinione in merito! ;D

*a causa della mia incapacità e della mia pigrizia che non mi permettono di gestire a dovere Nvu, gli asterischi censurano le stelline che inserisco spesso nella parlata di Alfred. Odio Nvu, e forse un giorno mi impegnerò e troverò il modo per lasciare intatte le battute di America.

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Capitolo 2
*** PARTE II ***


Era vivo, era uno scrittore, aveva una cattedra prestigiosa al King’s College di Londra, il suo dottorato conseguito a pieni voti faceva gola anche a Cambridge e Oxford. La classe si riempiva tanto da non riuscire a contenere tutti gli studenti, iniziava i propri corsi sentendo su di sé gli sguardi ammirati di tanti giovani che pendevano dalle sue labbra mentre parlava.

Firmava autografi seduto ad un tavolo in fondo alla Waterstone’s Piccadilly, apriva la copertina rigida del suo ultimo romanzo e poggiava la penna stilografica sulla prima pagina bianca. Gli ammiratori stavano in fila, facevano un chiasso assordante che non gli permetteva neppure di sentire con chiarezza i nomi delle persone che volevano una dedica e stavano a mezzo metro di distanza da lui. Si bagnava delle loro voci, ascoltava il suono melodioso che ”Arthur Kirkland” produceva sulle labbra di tutti quegli sconosciuti che lo ammiravano, che leggevano le sue storie e celebravano il suo successo ed il suo nome. Un nome che veniva pronunciato con rispetto da tutta Londra, e forse anche in tutta l’Inghilterra, in Scozia, nel Galles, magari più avanti in Europa.

Aprire gli occhi, svegliarsi dal sogno più bello ed appagante della sua vita con un’emicrania lancinante ed un mal di schiena insopportabile fu più o meno traumatico quanto ricordarsi dei propri progetti letterari mai conclusi, o del servizio da thè Royal Worcester che Alfred aveva rotto meno di cinque ore prima.
Sentì vibrare forte la tapparella contro il vetro della finestra chiusa, sferzata dal vento e scossa da un tuono in lontananza. Mentre lui si svegliava sentendosi malconcio e per niente riposato, a Londra si era già avviata indisturbata un’ennesima giornata di maltempo.
Ci mise almeno dieci minuti a rendersi conto di dove esattamente si trovasse, ad analizzare le condizioni delle sue ossa e dei suoi muscoli indolenziti ( senza riscontrare nulla di allarmante) e a riordinare le idee. Aveva dormito male, aveva un caldo terribile, la camicia del pigiama aveva straordinariamente quattro bottoni fuori dalle rispettive asole – aveva la sensazione di aver sonnecchiato per due ore scarse in un letto che sembrava essersi ristretto di una piazza e mezzo.

E se svegliarsi con il piede sbagliato non fosse bastato a rovinare il suo umore mattutino, rigirarsi tra le lenzuola e sbattere la fronte contro qualcosa di compatto, diede senza dubbio un incentivo notevole. Accorgersi che il qualcosa emanava un forte odore di cioccolato, sentirlo mugolare e muoversi appena e rendersi conto di essere steso con lui su meno di mezza piazza di letto, condannò la giornata di Arthur Kirkland a diventare ancora più nera.

Francis Bonnefoy non fece caso al patetico tentativo dell’inglese di voltarsi in tutta fretta per dargli le spalle, anzi riuscì a sfruttarlo a proprio vantaggio – scivolò piano vicino a lui, aderendo completamente alla sua schiena tesa; Arthur sarebbe probabilmente balzato in piedi per dileguarsi se solo la mano dell’altro non avesse provveduto con tempestività a trattenerlo, avvolgendolo piano intorno ai fianchi.

« Bonjour, mon chere

Fortunatamente Arthur non aveva mangiato crème caramel o niente di simile, per cui riuscì in qualche modo a trattenersi dal rabbrividire – avrebbe voluto gridare e dimenarsi e lanciarsi in una vasca gelida per dare una lezione a quel suo corpo debole che si stava surriscaldando là dove era a contatto con la mano e con il petto duro del francese.

« Diventerà una buona giornata dopo che te ne sarai andato da casa mia.»

« Mh, oui, ti amo anche io, petit.» Francis strofinò la punta del suo naso francese contro la nuca di Arthur, vicino all’attaccatura dell’orecchio. « A proposito, quando hai intenzione di lasciare quel ragazzino con gli occhiali e iniziare a pensare solo a me?»

Arthur corrugò la fronte.

Ci volle più o meno un minuto intero per realizzare a cosa si riferisse, una manciata di secondi per arrabbiarsi ed un istante per avvampare di vergogna e sentirsi rincuorato del fatto che nessuno potesse vederlo. Perché l’unico ragazzo con gli occhiali di cui Francis potesse parlare faceva Jones di cognome.

« Non stiamo insieme.» Avrebbe voluto pugnalarsi per via del tremore ridicolo che si impadronì inaspettatamente della sua voce.

« Mmh, capisco.» Francis fece un respiro profondo soffiando aria calda contro l’orecchio di Arthur; l’inglese avrebbe volentieri preso una spranga per ovviare al dramma della loro eccessiva vicinanza.

Al desiderio pressante di un oggetto contundente si aggiunse anche la necessità insopportabile di scavare una fossa e di infilarvisi quando la mano libera del francese abbandonò il suo fianco e lo raggiunse nuovamente dopo qualche istante, piazzandogli davanti alla faccia una cornice rettangolare con i bordi color rame. « Allora immagino che dirai anche che questa foto si è incorniciata da sola ed è volata magicamente sul tuo comodino senza dirti nulla, non

Era una foto talmente insulsa che in qualsiasi altra situazione probabilmente Arthur le avrebbe dato semplicemente uno sguardo distratto, sorridendo appena FORSE, ripensando all’istante in cui era stata scattata. La carta lucida custodita dal vetro conservava un istante stupido e inutile, sullo sfondo di un BigBen fiero in mezzo al cielo grigio di nuvole. E non era assolutamente niente di che: Alfred aveva il braccio teso davanti a sé ed immortalava un bacio a stampo sulla tempia di Arthur Kirkland che non solo era rosso e avvolto in sciarpa ed impermeabile, ma a dirla tutta sembrava quasi sul punto di sorridere.

In quel momento gli parve il ritratto più agghiacciante che avesse mai visto, odiò il colore della cornice ed il riflesso del vetro, odiò il fotografo impedito che l’aveva scattata, la macchina fotografica, il centro commerciale che aveva venduto quella macchina a quello stupido del fotografo. Odiò più di tutti sé stesso perché la sera prima non aveva avuto la brillante e quasi ovvia idea di togliere di mezzo qualsiasi cosa potesse metterlo in imbarazzo.

Nel giro di mezzo secondo strappò quell’oggetto terribile dalla mano di Francis, lo affondò nel materasso e lo fece sparire sotto il cuscino.

« …In realtà non lo hai visto.»

Francis mugugnò qualcosa e si mosse sul materasso e sotto le lenzuola, gli afferrò una spalla e senza fare troppe cerimonie lo ribaltò sul letto, costringendolo a guardarlo in faccia. Arthur si ritrovò supino, e un francese incombeva minacciosamente su di lui, un francese che aveva ancora odore di dolci, dannazione – un maledetto francese che trovò nuovamente il maledetto modo di mettere le sue maledette mani sul maledettamente sincero corpo di Arthur Kirkland.

« Oui, non ho visto nulla.» Lo sguardo assassino di Arthur non bastò ad impedirgli di chinarsi su di lui per regalargli un bacio sulla base della mandibola. E il cervello di Arthur gemeva e chiedeva a Dio quale strano e crudele disegno divino avesse fatto in modo che si ritrovasse invischiato in un imprevisto di tali dimensioni. Perché, accidenti, il fatto di avergli tolto di mano quella foto non gli dava il permesso di iniziare un preliminare in piena regola, SANTO DIO.

« Quando pensi che potrai andartene?» Arthur lo soffiò disperatamente, dopo che il terzo bacio di Francis iniziò a farlo rabbrividire sul serio – aveva la brutta e terribile sensazione che lungo quel tragitto che percorreva la linea della mandibola il francese avrebbe fatto in modo di raggiungergli la bocca. Inoltre non gli piaceva affatto la direzione che aveva imboccato la sua mano sotto le lenzuola, e l’ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento era che un idiota con la faccia da schiaffi mettesse i puntini sulle i al suo imminente attacco isterico. Francis gli sorrise, sollevandosi appena:

« Non prima di averti preparato la colazione, tresor

« Allora corri in cucina. Ora.»

« Hai le uova?»

Arthur cercò di fare mente locale, ci provò disperatamente, avrebbe risposto senza battere ciglio a qualsiasi sua domanda pur di toglierselo di dosso:

« No, non ho le maledette uova.»

« Il burro, mon amour

Arthur si sentì sul punto di vomitare quando pensò distrattamente a quanto quella conversazione fosse disgustosa e rischiò di accartocciarsi su sé stesso per il ribrezzo quando gli tornarono in mente le discussioni del tutto analoghe che aveva visto impegnati suo padre e sua madre; ovvero, fino a prova contraria, una coppia di sposi novelli.

« Non ho neppure quello.» Farfugliò, scalpitando e cercando di mandare via il peso del corpo di Francis. «–cazzo, sparisci da questo letto subito e vai a preparare la colazione

Il francese sospirò con aria rassegnata, obbedendo controvoglia. Arthur si rigirò sul letto e si nascose sotto le lenzuola, allontanandosi il più possibile dalla sponda su cui aveva dormito Francis – era bastata una sola notte perché il tessuto si impregnasse del suo odore ipnotico. Arthur si ripromise di impregnare quelle lenzuola di candeggina quella sera stessa.

« Quanta impazienza per delle crepes….» Arthur lo sentì mormorare dal fondo della stanza e la sua voce era disgustosamente satura di soddisfazione. « Vado a comprare gli ingredienti, tresor. Vado e torno.» E la risposta che Arthur gli propinò per salutarlo mentre lo sentiva scendere le scale ed aprire il portone di casa fu un secco e stridulo:

« Puoi anche non tornare!»

Ci fu un momento di silenzio subito dopo che Francis si chiuse l’ingresso alle spalle: Arthur riuscì per un istante a sentirsi più leggero nella consapevolezza che il francese aveva abbandonato l’ambiente ristretto di casa sua. Riuscì a godersi quella sensazione di libertà per giusto due secondi, affondando la testa nel cuscino. Il secondo dopo fu travolto da un ammasso di lenzuola e da un fortissimo odore di patatine fritte – e a dire il vero fu ricoperto e quasi schiacciato dalla sagoma prepotente di un ragazzone che sbadigliava, batteva le palpebre ed apriva i suoi luminosi ed un po’ assonnati occhi azzurri.

« Mornin’, man!»

Per almeno due secondi, Arthur Kirkland aveva davvero provato ad illudersi che senza Francis in giro avrebbe potuto finalmente iniziare la sua normale giornata. Ma c’era un americano appena sveglio che gli sorrideva con la guancia schiacciata sul cuscino, occupando il centro e la sponda sinistra del suo letto. Com’era ingombrante.

« Ciao, Alfred. Una volta tanto, prova a parlare inglese

Come previsto, le sue parole vennero ignorate – Alfred gli andò addosso stringendolo con forza, le braccia che gli cingevano entrambi i fianchi e se ne infischiavano di essere premute o meno dal peso insignificante di un inglese magrolino.

« Oggi mi dai ripetizioni, vero?»

Arthur storse il naso guardando Alfred che avvicinava il volto al suo con la solita scusa della propria miopia. Avrebbe voluto alzarsi e cercare gli occhiali per sistemarglieli sul naso, in modo da frapporre una barriera di vetro tra di loro.

« Non era in programma.»

Alfred fece una smorfia, arricciando appena le labbra in un muso bambinesco:

« Si, invece. Mi avevi promesso che avremmo parlato di…» Fece una pausa significativa, alzando gli occhi verso il soffitto e mordicchiandosi un labbro; sembrava nel bel mezzo di un enorme sforzo mnemonico, e probabilmente però lo più inventivo. « Plutone e Karl Llewellyn.» Forse la salma polverizzata di Platone aveva appena iniziato a rimescolarsi e dibattersi sottoterra.

« Alfred, Llewellyn era un avvocato.» Arthur non seppe se commuoversi per la sua inaspettata conoscenza in campo legale o se atterrire per l’oscenità che aveva appena sentito. Alfred, dal canto suo, si limito a stringersi appena nelle spalle:

« Vale lo stesso.» Si avvicinò maggiormente, strusciando sulle lenzuola. « Allora oggi stiamo assieme?» Lo disse rivolgendogli uno di quei sorrisi pieni di aspettativa che facevano in modo che Arthur Kirkland divorziasse dal proprio buon senso ed autocontrollo per almeno una buona mezz’ora.

Ci fu un istante di serio tentennamento prima che dalle labbra dell’inglese riuscisse a scaturire un poco convinto:

« Ho detto di no.»

Alfred aveva due tattiche per ottenere da Arthur ciò che voleva, in un modo o nell’altro: la prima,  usata molto più frequentemente, prevedeva un completo disinteresse per qualsiasi protesta o obiezione l’inglese potesse sollevare. La seconda era la più pericolosa, perché prevedeva abbracci e baci e in genere faceva sciogliere Arthur molto più in fretta. Per il bene di Arthur Kirkland, Alfred era perlopiù un ragazzone ottuso che non capiva il significato della parola romanticismo, e di conseguenza gli risultava difficile raggiungere un pensiero tanto fine come “quando bacio Arthur è molto più facile fargli fare ciò che voglio”.

Quella mattina il suo cervello però si dimostrò all’altezza, e Arthur vide tutta la propria determinazione dissolversi come ghiaccio al sole; Alfred approfondì l’abbraccio fino a che il suo naso non arrivò a toccare la fronte dell’altro – gli poggiò le labbra sulla guancia e gli diede un bacio umido e rumoroso. Un bacio che non aveva assolutamente niente di sexy, ma sembrava piuttosto la lappata di un cane festante.

« Sai che ti sono grato per quello che fai, vero?» Un altro bacio ancora più bagnato, sullo zigomo. « Lo sai che tengo a te, vero, Art?»

Arthur avrebbe voluto evitare che lo baciasse ancora ma non riuscì a muoversi – anzi, la cosa più drammatica fu accorgersi che non voleva sottrarsi al suo abbraccio nonostante questa scelta comportasse una guancia bagnata di saliva da far schifo.

« …Si, lo so.»

« Bene, ora preparami la colazione!*»

Era difficile trovare la connessione logica tra la confessione adorabile che gli era appena stata fatta e la richiesta assolutamente improvvisa e fuori luogo (e che a dirla tutta sembra anche abbastanza opportunista), ma il cervello di Arthur subiva ancora profondamente i postumi di quei baci e della voce di Alfred, così non riuscì ad elaborare un commento abbastanza acido:

« Francis ha detto che avrebbe preparato le crepes.» Non c’era niente di strano nel pensare che per una volta Arthur potesse evitare di mettere a friggere delle uova. Ovviamente la promessa di Francis non assicurava che Arthur gli avrebbe riaperto l’ingresso per permettergli di mettersi ai fornelli.

« Ah, fantastico! Almeno non rischierò di rimettere la colazione.»

La cosa terribile fu che dopo aver pronunciato candidamente quell’insulto velato, Alfred ebbe addirittura il coraggio di baciarlo sulla bocca a tradimento, soffocando le sue proteste. E riuscendo quasi ad infilargli la lingua in bocca, con tutta la sua falsa innocenza da ragazzino di appena vent’anni.

Arthur si chiese disperatamente e con le lacrime agli occhi, mentre farfugliava contro la bocca di Alfred, cosa avesse fatto di male per meritarsi quella tortura impossibile.

 

Si era davvero dato da fare per evitare che quei due si avvicinassero alla sua camera da letto. Davvero, ci aveva messo tutto il proprio impegno. Sin da quando era diventato chiaro che non si sarebbero fatti facilmente buttare fuori di casa, la notte prima, il suo cervello era entrato nell’ordine di idee che la zona della sua casa che si trovava oltre le scale ( il bagno, la soffitta e soprattutto la sua stanza) dovesse diventare in qualsiasi modo off limits.

Aveva assecondato Alfred quando si era spostato in salotto senza chiedere il permesso, lamentandosi del suo ultimo panino finito troppo in fretta e dell’assenza di un cheeseburger di riserva. Quel ragazzo aveva preso la cattiva abitudine di comportarsi in casa di Arthur come a casa propria, ma l’inglese di rado riusciva a fare qualsiasi cosa per impedirglielo, e quella sera aveva mangiato troppe schifezze mescolate perché i lamenti proveniente dal suo stomaco gli permettessero di contrastare qualsiasi prepotenza americana. Inoltre percepiva con insistenza la presenza asfissiante di Francis, sempre più consapevole della distanza limite minima necessaria che si rimpiccioliva per qualsiasi stupidaggine. A volte “stammi lontano” non otteneva il risultato sperato.

Dopo aver scongiurato (con la necessaria acidezza) un eccesso di inutile cavalleria da parte del francese ed aver ricevuto una forte e rumorosa pacca sul sedere in protesta, si erano ritrovati tutti e tre seduti sul divano del salotto.

Erano rimasti svegli fino alle tre di notte o giù di lì e tutto l’intrattenimento era spaventosamente uscito dalla grande e inutile borsa di Alfred. Arthur l’aveva vista svuotarsi a poco a poco, svelando misteri e sorprese inquietanti – una delle quali (forse la più shockante) fu constatare come Alfred avesse riempito una tasca di preservativi senza neanche premurarsi di chiuderla per nasconderla a chiunque (e in particolare a lui.)

Avevano giocato in tre ad un diabolico videogioco di corse – Alfred aveva collegato quella diavoleria ludica al televisore nuovo di zecca di Arthur con una disinvoltura ed una velocità strabilianti. Aveva quasi fatto morire l’inglese per un infarto fulminante quando aveva piegato di novanta gradi lo schermo piatto per posizionare qualche cavo, ma poi la tv si era accesa senza alcun danno.

« Chi è l’idiota che continua a sbattere contro il muro?»

E Arthur aveva fatto finta di non essere l’unico deficiente a non capire come accidenti funzionasse quello schermo fastidiosamente suddiviso in tre rettangoli, o in quale di quei kart minuscoli ed assurdi dovesse identificarsi – ma la sua mente era per una buona parte occupata a macchinare come imporre a quei due babbei di rimanere a dormire sul divano.

Dopo la disastrosa partita con quelle diavolerie incomprensibili, Alfred e Francis avevano iniziato a discutere di cinema come due vecchi amici di infanzia; e sarebbe stato tutto normale e molto bello se solo non lo avessero fatto mentre Arthur Kirkland tentava di respingere da una parte un braccio dalle spalle, e dall’altra una guancia che continuava con insistenza a poggiarsi sulla sua testa. Probabilmente Arthur avrebbe partecipato con piacere alla conversazione se solo non si fosse trattato di quei due, e la sua testa non fosse stata impegnata ad arrovellarsi su come impedire loro di avvicinarsi al suo maledetto letto che era grande due piazze e stava al piano di sopra.

Avevano visto un film horror, un’americanata splatter di bassa categoria che Arthur trovò noiosa e decisamente poco interessante (e che ovviamente era spuntata magicamente dalla borsa Alfred). Forse sarebbe stato più semplice seguire quella trama debole se solo Francis ed Alfred non fossero esistiti. Perché se a destra il francese continuava a far finta che sfiorargli l’interno del polso con la punta delle dita fosse la cosa più naturale del mondo, a sinistra Alfred gemeva e urlava per qualsiasi cosa, aggrappandosi a lui fino ad abbracciarlo e quasi soffocarlo. E ancora la testa di Arthur Kirkland era stata notevolmente confusa riguardo al problema di tenere lontane quelle due piaghe dal piano di sopra. Perché accidenti, aveva paura – quei due sembravano andare così schifosamente d’accordo che forse non avrebbero disdegnato l’idea di trascinare Arthur in camera da letto per divertirsi in comitiva.

Ma nonostante avesse tirato fuori le coperte dalla soffitta, nonostante avesse specificato espressamente che avrebbe preparato loro il letto nel soggiorno ed aver chiarito che no, non aveva voglia di bere del rum prima di coricarsi e che no!, non avrebbe ceduto ai piagnistei di Alfred che lo imploravano di dormire abbracciati – alla fine si era ritrovato schiacciato in un lembo di materasso, pressato da due rumorosi ed ingestibili rompiscatole.

Da una parte Francis sembrava divertirsi a sfiorargli la nuca con la punta del naso, dall’altra Alfred gli si era aggrappato ad una spalla gemendo assurdità su zombie e creature mostruose che lo avrebbero perseguitato durante la notte. Alla fine si erano entrambi addormentati prima di lui, lasciandolo in mezzo a guardare il soffitto buio e a contrastare le loro manacce che a quanto pare anche nel sonno tendevano ad allungarsi nella sua direzione. Il risultato di quella disavventura era stata una notte perlopiù insonne, ed un crampo al braccio – perché dopo essersi addormentato Alfred aveva inoltre iniziato pian piano ad occupare più della metà dello spazio.

Ma dopo essersi svegliato di malumore (e rincuorato almeno dal fatto di essere solo seccato ma almeno ancora integro), Arthur Kirkland iniziò ad illudersi che quella giornata potesse in qualche modo risollevarsi.

Quando scesero al piano di sotto (una buona mezz’ora dopo), sui vetri delle finestre picchiettava con forza una pioggia insistente e piuttosto fitta. Mentre Alfred si arenava in cucina come una balena alla deriva, Arthur sbirciò l’ingresso lasciandosi andare in un sorriso di pura soddisfazione quando vide tutta la sua collezione di ombrelli al proprio posto. L’idea che Francis fosse lì fuori e che probabilmente si stesse inzuppando disastrosamente gli apriva il cuore e lo riempiva di una strana e maligna soddisfazione.

Non fece caso ad Alfred che frugava una biscottiera alla ricerca di qualcosa con cui riempire lo stomaco, mugolando spensieratamente una storpiatura ridicola e stonata di una versione personale dell’inno americano. Mise a bollire l’acqua per il thè, strusciando le pantofole sul pavimento – non fece caso ad Alfred che issava i piedi nudi sul tavolo ed ignorò la sua richiesta di una tazza di caffè. Imperterrito nella sua ricerca di normalità, Arthur Kirkland si limitò a sfilare una bustina di thè Twinings dalla scatola e ad inzupparla sistematicamente nell’acqua bollente. Osservò le curve ipnotiche di aroma color miele che lentamente iniziarono a colorare il liquido incolore e fumante, sentendosi per un attimo solo, inglese e perfetto.

Il motivetto canticchiato da Alfred a bocca piena si interruppe bruscamente:

«Art?»

«Cosa c’è?»

«Lo sai che questi biscotti fanno schifo, vero?»

Un fitta di dolore acuto raggiunse il petto di Arthur insieme ad una consapevolezza insopportabile ed umiliante. Perché quegli scones non era riuscito a mangiarli neppure il cuoco che con tanto impegno aveva mescolato gli ingredienti confondendo il sale con lo zucchero e sbagliato ancora una volta i tempi di cottura. Non a caso stava silenziosamente tagliando una fetta della torta francese avanzata nella speranza di passare inosservato, e di riuscire a mangiarla tutta prima che Francis tornasse in cucina (ah, già, Francis non sarebbe tornato).

« Non ti ho chiesto di mangiarli.» Concluse, lapidario, affondando con rabbia e crudeltà il coltello nel cioccolato morbido.

E fece finta di non vedere quando Alfred aprì la bocca ed ingoiò tre dolcetti l’uno dopo l’altro, facendo facce terribili solo per ricordargli che quella premura non solo gli costava una grande fatica eroica, ma che lo faceva per semplice e puro altruismo.

Arthur sbuffò, cercando una tazza in cui versare il thè bollente – gli vennero quasi le lacrime agli occhi quando le sue dita afferrarono il vuoto, nel tastare la porzione di mensola che aveva ospitato le bellissime tazzine di ceramica che Alfred aveva rotto. Ne trovò una di plastica con disegnati sopra dei Teletubbies scrostati dal tempo, un omaggio che aveva ricevuto per l’acquisto di tre scatole di cereali. Fece finta di non accorgersi dello sguardo fisso ed allibito che Alfred riservò alle quattro creature sulla tazza.

« Art?»

« Cosa vuoi ancora?»

« Hai un succhiotto sul collo.»

Il thè appena messo in bocca esplose dalle labbra di Arthur in modo a dir poco disdicevole e poco britannico.

Alfred lo seguì con lo sguardo mentre rischiava di affogare e si aggrappava al tavolo rischiando quasi di rovesciare il resto del thè sul pavimento – quando l’inglese trovò il coraggio di guardalo nuovamente, nonostante il thè gli gocciolasse ancora dal mento, l’espressione afflitta dell’americano era lo spettacolo più avvilente a cui avesse mai assistito. Anche se in quel momento dubitava potesse esistere qualcosa di più avvilente di essere Arthur Kirkland.

« Chi è stato? » il tono di voce di Alfred avrebbe probabilmente convinto un assassino seriale a pentirsi dei propri peccati e costituirsi in centrale.

Ma mentre con le mani tentava in un modo o nell’altro di occultare la pelle della gola, Arthur Kirkland lo guardò con la faccia sporca di thè e gli occhi che fiammeggiavano, perché ormai una funzionalità extra per analizzare le facce di Alfred si era impiantata nel suo cervello e in quel momento gli gridava non fidarti di quella faccia! Non fidarti, imbecille!

Ma per prima cosa, tentò di negare – certo, sarebbe stato più minaccioso se solo non fosse stato in pigiama, non avesse avuto la faccia in ebollizione e le sopracciglia spettinate:

« Se mi stai facendo uno scherzo, non mi sto divertendo.»

Alfred scosse il capo, mettendo in bocca un altro biscotto disgustoso – parlò a bocca piena, con le guance gonfie e gli occhi socchiusi e sofferenti per sottolineare la propria azione caritatevole:

« In realtà non diverthe nepphure me vedherti addossho una cosha del genere e shapere di non esshere shtato io a fharla.»

Arthur, comprendendo con una lentezza inaudita il significato nascosto da quelle parole, letteralmente, inorridì.

Proprio in quel maledetto istante, dall’ingresso provenne il solito motivetto stonato che scomodava l’elegante ed inglese campanello di casa Kirkland per annunciare l’imminente intrusione di Francis Bonnefoy.

Arthur Kirkland maledisse il mondo.

Si impose di ignorare il campanello mentre faceva un ripasso mentale dello stato dei suoi cassetti e del suo armadio, chiedendosi disperatamente dove avesse buttato la sciarpa l’ultima volta che se l’era tolta di dosso. Abbandonò la tazza dei Teletubbies sul tavolo insieme al suo thè ed alla fetta di torta, fiondandosi sulle scale ed in bagno. Il campanello si dimenava e gemeva e chiedeva pietà, ma al momento la cosa lo tangeva quanto la persona che aspettava una benedizione dal cielo aldilà dell’ingresso. Perché accidenti, forse fuori stava diluviando e il francese si sarebbe sciolto in una pozzanghera – ma il giorno dopo Arthur doveva presentarsi davanti ad una classe di cinquanta studenti, e non poteva farlo con un livido sul collo che la diceva lunga sulle sue abitudini sessuali.

« Non apri a Francis?» la voce squillante di Alfred lo raggiunse dal piano di sotto, rimbombando attraverso le pareti. Rischiando di scivolare sul tappetino, cadere all’indietro e rompersi l’osso del collo sbattendo la nuca sul water, Arthur si piazzò davanti allo specchio rettangolare:

« No! E se osi farlo entrare ti ammazzo!» e la sua voce era più alta di almeno un’ottava mentre piegava la testa, scopriva il collo spostando il colletto del pigiama ed esaminava con le dita la pelle chiara della gola.

Continuare a scrutare disperatamente ogni centimetro del proprio riflesso (per un  buon quarto d’ora) ed infine accorgersi che in fin dei conti sulla sua accidenti di gola pallida non si stagliava ALCUNA macchia scura da pervertiti, lo fece sentire stupido. Ma non semplicemente stupido; si sentì un idiota di proporzioni esorbitanti. Perché d’altronde il suo cervello lo aveva avvertito, o no? Non gli aveva gridato nell’orecchio di non fidarsi della faccia di Alfred F.Jones?

Quando tornò in cucina, battendo forte i piedi sugli scalini, trovò due maledetti scocciatori seduti al tavolo – Alfred aveva ovviamente aperto la porta e stava giocherellando con il dito lungo il bordo dell’orribile tazza dei Teletubbies. Francis si era trascinato in casa lasciando una scia bagnata e leggermente fangosa sul parquet lucidato e – bloody hell, cosa diavolo era quella macchia sul tappeto indiano? Ora aveva poggiato le sue compere sul tavolo, se ne stava comodo sulla sedia, la camicia oscenamente appiccicata al petto e le ciocche fradice che gli aderivano alla fronte e alle guance. E se entrambi non avessero avuto sulle labbra il sorriso sardonico di chi sta per scoppiare a ridere, probabilmente l’incazzatura di Arthur Kirkland sarebbe rimasta costante.

« Mi dispiace, petit.» biascicò Francis Bonnefoy mentre una sorta di strana compassione gli attraversava gli occhi « So che in fondo ti sarebbe piaciuto.» Forse si riferiva al succhiotto inesistente, ma Arthur stava letteralmente per detonare sul posto, quindi non fu tanto facile interpretarlo.

L’ultima cosa che sentì prima di afferrare la prima cosa avesse a portata di mano e scagliarla verso di loro, fu la risata spaccatimpani di un americano senza cervello:

« Art, avresti dovuto vedere la tua faccia!*»

Alfred scansò una statuetta di ceramica, sentendola sibilare in volo ad un soffio dal suo ridicolo ciuffo antigravità. Arthur Kirkland la vide fracassarsi contro la credenza e cadere in terra tintinnando: il pezzo più prezioso e raro della sua collezione di fatine in scala, dipinte a mano.

..Voleva morire.

« Oh, com’on, Art! Stai ancora piangendo per quello sgorbietto di ceramica?»

« No.» Arthur tirò su con il naso cercando di farlo nel modo meno rumoroso possibile, battendo le palpebre per camuffare le lacrime tra le ciglia. D’altronde aveva ufficialmente smesso di lamentarsi almeno un’ora prima, dopo aver fissato immobile per lunghi minuti i resti di porcellana ammucchiati nella spazzatura.

Alfred ebbe la brillante idea di consolarlo con una pacca sulla schiena – quel genere di gesto affettuoso che avrebbe anche potuto tranquillamente ucciderlo:

« Rotta una fatina se ne fa un’altra!*»

Arthur rischiò di affogare con la propria saliva, ma alla fine tossicchiò e riuscì a risollevarsi, riempiendo i polmoni d’aria:

« Alfred, chiudi quella boccaccia.»

Sentì la bassa risatina di Francis alla propria sinistra, decisamente troppo vicino all’orecchio:

« Se sei triste per il succhiotto, si può rimediare subito, mon petit chere

« Stammi lontano!»

Francis obbedì, senza tuttavia rinunciare a stampargli un bacio sulla tempia prima di allontanarsi; Arthur storse la bocca, rivolgendogli uno sguardo bieco e quasi disgustato – certo vedergli indossare uno dei propri soprabiti di riserva non era il massimo per tenere a bada l’isteria. Francis sembrò quasi lusingato da quelle occhiate piene di odio e in tutta risposta sollevò il colletto fin sopra il mento:

« Se solo volessi, potrei farti cambiare umore in un attimo.»

Arthur lo guardò, la bocca dischiusa deformata appena da una smorfia:

« Ma quanto fai schifo?»

Che facesse schifo o meno, stava comunque andando con lui ed Alfred a spasso per le strade di Londra, senza una meta e senza un motivo. Giusto per farsi vedere dal mondo insieme a due deficienti. Arthur Kirkland metteva semplicemente un piede davanti all’altro, troppo shockato dalla nottata terribile, dalla cena che l’aveva preceduta e dal ricordo avvilente della statuetta distrutta. Inoltre orribili parole francesi come “chere”, “petit” e “tresor” stavano cozzando rumorosamente contro le pareti del suo cervello, impedendogli di pensare in maniera sana e costruttiva.

« E fammi il favore di piantarla con quei nomignoli disgustosi, perché al prossimo ti giuro che vomito!»

Francis gli sorrise, caricando il proprio sguardo di una dose aberrante d’affetto:

« Come vuoi tu, Arrtiùr.» E fece attenzione ad imprimervi l’accento francese in maniera evidente e dura, accentuando le erre ovunque gli fosse possibile. L’inglesissimo Arthur Kirkland avrebbe volentieri sollevato un ginocchio per piantarglielo in mezzo alle gambe.

Ma dall’altra parte c’era ancora Alfred F. Jones che ridacchiava e gli dava del noioso vecchio, perciò fu costretto a riorganizzare le proprie priorità – punire quel ragazzo sfacciato sfrecciò di colpo al primo posto:

« E tu non solo sei un americano dislessico, ma anche una specie di disastro ambulante! Non credere che mi sia dimenticato delle tazze che hai rotto cercando le tue maledette coppette di gelato!» Sentì la mano di Alfred aggrapparsi alla sua spalla e spingerlo contro il suo petto, facendolo incespicare. « Come se del gelato potesse nascondersi nella credenza! Sono ancora mortalmente arrabbiato! E non dovevamo parlare di filosofia, oggi, eh?» Sentì la presa di Alfred farsi più salda sul proprio corpo e si accorse che il suo sorriso da ebete diventava più ampio. « Ti giuro che questa volta non la passi liscia, non osare mai più chiedermi mpfgh-!» Alfred aveva appena messo in atto la sua tattica infallibile per zittirlo senza sforzo: e come previsto bastò infilargli la lingua in bocca per placare qualsiasi fastidiosa rimostranza.

« Ah, l’amour.» fu il commento sospirato di Francis, mentre regalava una palpata divertita al fondoschiena di Arthur.

Doveva esserci qualcosa di decisamente sbagliato in quegli individui.

Doveva esserci.

« Bene!*» Esclamò Alfred F.Jones dopo essersi allontano dal volto dell’inglese ed aver lasciato Arthur a barcollare per il marciapiede. « Non accetto obiezioni! Tutti i prossimi week-end li passeremo a casa di Art!»

« No!» E Arthur avrebbe voluto dirglielo in tutte lingue, ma al momento la confusione e la disperazione gli permettevano di usufruire solo della sua madrelingua inglese.

Forse un giorno lo avrebbero fatto impazzire e lo avrebbero ritrovato mezzo nudo in mezzo alla strada mentre beveva whisky e biascicava maledizioni che li dannava per l’eternità.

Ma per ora li avrebbe sopportati.

Ancora per un poco.

 

 

Nota dell’autrice:

Si, ribadisco che mi piace tanto il triangolo dei biondi. Che mi piace tanto l’accostamento Blu/Bianco/Rosso in tutte le sue varianti. Che probabilmente scriverò FrUKUS finché scriverò di Hetalia. Che probabilmente continuerò a tormentare Arthur Kirkland ogni volta che ne avrò l’occasione C:

 Questo sanissimo e lecito attentato alla sanità mentale di Inghilterra si conclude qui ;D Ho apportato le modifiche necessarie ad ovviare alcuni problemi che mi sono stati fatti notare dall’amministratrice nel capitolo precedente <3
Regalo anche la seconda parte alle ispiratrici di questa cosa assurda e fondamentalmente priva di senso logico, Juju e Angi: mi avete sfidato/chiesto di scrivere roba che non fosse angst o deprimente, e spero di esserci riuscita xD

Diecimila grazie e ai recensori che mi hanno resa felice! Alicyana (perché è bello leggere una recensione formato fanfiction xD <3!), ballerinaclassica (grazie per la tua approvazione, per la segnalazione e per avermi spinta a riaprire questo file xD), Aerith1992 – leggere recensioni fa sempre crescere un po’ la mia (scarsa) autostima e la mia voglia di scrivere <3

E voi che avete aggiunto la storia tra i preferiti, tra le storie seguite o tra le storie da ricordare, vi voglio bene anche se non mi avete ancora detto il perché u_u (sguardo eloquente d’accusa).

Per ora non ho in programma di scrivere altre scempiaggini simili, ma se mi accorgo che la cosa potrebbe fare piacere a qualcuno, credo che riorganizzerò volentieri le mie priorità in favore di questi tre dementi xD

 

 

Alla prossima! Cough.
Alfred, Francis, lasciate perdere quell’inglese isterico e amatevi tra di voi! Viva il FrUSA


*Copia/incolla dal primo capitolo: a causa della mia incapacità e della mia pigrizia che non mi permettono di gestire a dovere Nvu, gli asterischi censurano le stelline che inserisco spesso nella parlata di Alfred. Odio Nvu, e forse un giorno mi impegnerò e troverò il modo per lasciare intatte le battute di America.

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