The lost resonance

di Puglio
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ritorno ***
Capitolo 2: *** Ombre. Un fantasma dal passato? ***
Capitolo 3: *** Horror vacui. La forma terribile della paura e del rimpianto? ***
Capitolo 4: *** Lo scorrere del tempo. Perchè non sei rimasto al mio fianco? ***
Capitolo 5: *** Intermezzo. Ancora una volta, sarà la nostra paura a dividerci? ***
Capitolo 6: *** Allo specchio! La colpa è in ciò che non ci siamo mai detti? Sei tu che mi hai reso ciò che ora sono? ***
Capitolo 7: *** Allo specchio! La colpa è in ciò che non ci siamo mai detti? Riusciremo a vedere al di là di noi stessi? ***
Capitolo 8: *** Per te, finché avrò vita! Cosa si cela dietro alla scomparsa di Soul? ***
Capitolo 9: *** Il peso insopportabile di un segreto inconfessato: la terribile scelta del Sommo Shinigami? ***
Capitolo 10: *** Tristezza, sfiducia, disperazione? Il potere di un dubbio che cancella ogni cosa? ***
Capitolo 11: *** Ad un bivio! La verità dietro l'illusione? ***
Capitolo 12: *** L'ora decisiva! La difficile risoluzione di un'anima innamorata? ***
Capitolo 13: *** Contro ogni difficoltà! Il coraggio della mia piccola anima? ***
Capitolo 14: *** Intermezzo II: Ancora una volta, coraggio! Sarà il caso a rivelare il nostro destino? ***
Capitolo 15: *** Comincia la battaglia! Come vinceremo le nostre paure? ***
Capitolo 16: *** Il viaggio di Maka! Paura, dolore, rimpianto? Quale segreto si agita in un cuore dolorante? ***
Capitolo 17: *** Dentro la tempesta! Black Star e Tsubaki: un'anima sola contro la paura? ***
Capitolo 18: *** Verso lo scontro decisivo! Il coraggio di Maka? Un amore che vince ogni cosa? ***
Capitolo 19: *** Dolore, disperazione, speranza: sarà l'amore a guidarci? ***
Capitolo 20: *** Viaggio e ritorno: per noi, una nuova consapevolezza? ***
Capitolo 21: *** Dead or alive: si scatena il potere della paura? ***
Capitolo 22: *** Davanti alla paura! Liz, Death The Kid: fiducia, smarrimento? Riusciremo a riprenderci il nostro destino? ***
Capitolo 23: *** Speranza, rassegnazione: il duro volto della realta! è davvero questa la fine? ***
Capitolo 24: *** La fine? Ovunque tu sei: contro il destino, la risonanza di due anime unite ***



Capitolo 1
*** Ritorno ***


Il treno si fermò sbuffando e una nuvola di vapore si levò dai binari, subito dispersa dalla pioggia incessante. Tutto raccolto nel suo tabarro spelacchiato, il capotreno si affacciò dalla carrozza di coda, il cappello calato in testa, il bavero rialzato attorno al collo. Alzò lo sguardo.

«Death City!» gridò, a contrastare il rumore assordante della pioggia che non accennava a smettere. Come pallidi spettri i passeggeri presero a riversarsi fuori dalle carrozze, fermandosi giusto un momento alla diafana luce che dai vagoni rischiarava la pensilina, prima di fuggire nella notte densa che avvolgeva la stazione come un manto. In pochi istanti, la debole eco della loro presenza fu come lavata via dall'acqua che il cielo continuava a riversare sulle loro povere teste.

Restava solo un'ombra. Si muoveva lentamente, come pensando ad ogni movimento che stava per compiere. Teneva lo sguardo costantemente fisso sul riverbero lontano della città, le cui luci si riflettevano nella notte in un timido e tremolante bagliore giallognolo. Perplesso, il controllore lanciò un'occhiata a quella figura silenziosa, scuotendo la testa.

«Che fa, sale?»

Il ragazzo volse lentamente lo sguardo. Fissò il controllore per un istante, senza dire nulla. Quindi tornò a voltarsi.

«No» rispose. «Sono appena arrivato».

Il controllore accettò senza discutere quella risposta. Estrasse la bandiera di segnalazione dalla tasca del tabarro, quindi soffiò nel fischietto. Con uno sbuffo sonoro e uno stridio meccanico, il treno prese lentamente a muoversi.

«Se non si toglie da lì, si beccherà un malanno!» gridò il controllore al ragazzo, che continuava a restare fermo al suo posto, nel bel mezzo della pensilina deserta. Mentre il treno gli passava davanti, lo vide voltarsi a guardarlo. Un attimo prima che la notte e la pioggia lo inghiottissero, il capotreno fece in tempo a cogliere l'accenno di un ultimo sguardo. Durò un istante soltanto, ma fu sufficiente a far sì che non riuscisse più a dimenticarlo.

Era così strano.

Era appena arrivato e i suoi occhi già supplicavano di portarlo via.

 

 

*

 

«Arrivo!»

Ma porca...

Due, erano le cose che Black Star proprio non sopportava. Non essere tenuto nella giusta considerazione ed essere svegliato nel cuore della notte. E dal momento che la prima rappresentava l'offesa maggiore che gli si potesse arrecare; e considerando che la seconda era inevitabilmente legata alla prima, perché non si sveglia qualcuno alle tre del mattino se gli si porta il dovuto rispetto, ecco spiegato il motivo per cui si sentiva così profondamente incline a qualche azione sconsideratamente violenta.

«Vuoi che vada io?»

Il volto turbato di Tsubaki emerse dall'ombra. Seduto sul bordo del letto, Black Star sospirò; quindi si portò una mano ai capelli arruffati.

«No, me la sbrigo io in due secondi. Tu continua a dormire».

Per nulla convinta, Tsubaki si sedette nel letto, aggiustandosi il cuscino dietro la schiena. Attese che Black Star barcollasse assonnato fuori dalla camera, quindi accese la luce, trattenendo il respiro.

Non era normale che qualcuno bussasse a quell'ora. Black Star avrebbe dovuto capirlo subito. Ma, come al solito, era meglio non insistere con lui, e lasciare che gestisse le cose a modo suo. In cinque anni di matrimonio e in oltre dieci di collaborazione, lei aveva imparato a capirlo.

Black Star avanzò a passo incerto nella penombra che avvolgeva la sala. Sbadigliando, allungò la mano verso la maniglia, un attimo prima che il campanello suonasse di nuovo.

«Ho detto che arrivo, cazzo!» esclamò. Decisamente innervosito da tanta insistenza, sganciò la catena e spalancò la porta, lanciando uno sguardo fiammeggiante alla figura che gli si parò davanti. Tuttavia, bastò un secondo perché il suo volto passasse dalla rabbia allo sconcerto, e infine alla freddezza.

«Tu?»

Fanculo.

 

In piedi sulla porta della camera da letto, Tsubaki fissava impensierita Black Star, che se ne ritornava sbadigliando, come se nulla fosse. Lui le passò accanto rivolgendole uno sguardo vuoto, e lei si strinse nella sua vestaglia di flanella rosa, agitando i lisci capelli neri mentre passava con gli occhi dalle spalle del marito alla porta di ingresso, avvolta nell'ombra.

«Chi era?» chiese. Black Star si lasciò cadere sul letto, sbuffando.

«Nessuno. Rompipalle» disse. Lei aggrondò.

«Alle tre del mattino?»

Black Star si incupì. Senza rispondere altro, si infilò sotto le coperte, tirandosele fin sopra le orecchie.

«Black Star, non vuoi dirmi chi era veramente?»

Lui tacque per un istante. Sentiva lo sguardo di lei puntato addosso. Sapeva che avrebbe accettato il fatto che lui non volesse parlare. Però sapeva anche che non era giusto. In fondo, era sua moglie, ed era anche stata una sua amica.

«Non vuoi dirmelo?» insistette lei, con prudenza. Lui borbottò qualcosa di inudibile, muovendosi nel letto.

«Te l'ho detto, non era nessuno» fece, poi. «Solo quell'idiota di Soul».

Con il cuore in gola, Tsubaki si precipitò alla porta, pregando disperatamente che lui fosse ancora là. Ma quando la aprì, non trovò nessuno.

«Soul...» mormorò. Fece alcuni passi verso le scale, ma quando vi si affacciò, queste rimandarono solo un silenzio assordante. L'intero palazzo era sprofondato nel sonno.

«Stupido» fece. Quindi, con gli occhi colmi di tristezza, si incamminò verso casa, richiudendosi mestamente la porta alle spalle.

 

 

*

 

Alle otto del mattino, Kid si presentò puntuale all'appuntamento. Era emozionato. Quello era un giorno davvero importante, per lui: si trattava del primo giorno di scuola di suo figlio.

In qualità di vice rettore della Shibusen, Kid aveva un'immagine da mantenere. Perciò, d'accordo con la madre, aveva deciso di iscrivere suo figlio alle lezioni un anno prima del dovuto. Lei aveva appoggiato subito questa decisione, e d'altra parte non poteva essere altrimenti. Per quanto riguardava lo studio e l'impegno, loro due l'avevano sempre pensata in modo molto simile. Erano altre, le cose che li vedevano divisi.

Per esempio, la terribile cocciutaggine di cui lei si dimostrava costantemente capace.

Con il cuore rigonfio di eccitazione, suonò il campanello. Si aspettava di veder comparire sulla soglia il suo bambino, già pronto e ansioso di rivederlo; fu perciò piuttosto deluso, quando al suo posto vide stagliarsi la figura curva e balbettante di Crona.

«Oh, Kid... buongiorno» fece lui, con un timido sorriso. Rassegnato, Kid alzò distrattamente una mano, in un vago segno di saluto.

«Prego, entra» lo invitò Crona, facendosi da parte. «Maka sta finendo di prepararsi».

«Sono venuto a prendere Daniel» fece Kid, guardandosi intorno. Come al solito, la casa era semplicemente perfetta, e trasmetteva una sensazione di calore e di benvenuto. Sul grande divano rosso, che campeggiava al centro della stanza, una felpa azzurra col cappuccio e un paio di jeans aspettavano che qualcuno li indossasse, mentre dalla cucina arrivava il suono allegro delle stoviglie che Crona stava riponendo ordinatamente.

«Abbiano appena finito di fare colazione...» si scusò il ragazzo, arrossendo.

Kid annuì. Con le mani in tasca, si avvicinò al divano, fermandosi in piedi a guardarlo. Con un sorriso vi si sedette, sprofondandovi beatamente. Adorava quel divano. Comodo ed elegante, ma senza pretese. Capace di farti sentire a tuo agio. Esattamente come Maka, che era capace di donare a tutto ciò che la circondava un colore e un calore particolari. Era questo l'aspetto che più amava di lei. Qualcosa che non avrebbe mai dimenticato e che da sempre portava nel cuore.

«Ah, eccola, la nostra giovane matricola».

Kid balzò in piedi, aggiustandosi confuso la giacca. Un bambino sui cinque anni, già molto alto e snello per la sua età, lo fissava attraverso dei penetranti occhi verdi, sul volto un sorriso di dissimulato orgoglio. Alle sue spalle, una giovane ragazza dai biondi capelli raccolti, in maglietta e pantaloncini, osservava divertita la scena.

«Accidenti, sembri davvero un ometto» fece Kid, avvicinandosi al bambino. Quando gli fu davanti, si chinò, guardandolo dritto negli occhi.

«Dì, sei emozionato?» chiese, con un sorriso. Il bambino fece segno di no, con convinzione.

«Io no!»

«Ah, sì?» fece Kid, strizzando un occhio a Maka, che rideva in silenzio, in disparte. «E come mai? Io lo sarei, al posto tuo».

«Sono uno Shinigami!» obiettò il piccolo, con sguardo convinto. «Io non ho paura di niente. E poi la scuola è mia».

«Niente da dire, è proprio tuo figlio» fece Maka, scrollando le spalle e stirando le labbra in una smorfia divertita. «Tra te e Black Star, ho un bel da fare a crescerlo in modo normale».

Kid lasciò che Crona aiutasse il piccolo Daniel ad indossare la cartella, quindi «è davvero cresciuto» mormorò, infilandosi le mani in tasca. Maka gli si appoggiò con le mani alla spalla, fissando il bambino.

«Sembra ieri, che era piccolo così...»

Lui si volse a guardarla. Senza spostarsi, lei fissò gli occhi in quelli di lui, sorridendo.

«Che c'è?» chiese. «Vuoi dirmi qualcosa?»

«Usciamo, una di queste sere?» le domandò lui. Maka inarcò un sopracciglio.

«Forse» disse, tenendosi sul vago. Kid si risentì.

«Possibile che tu debba essere sempre così scostante?» fece. «Devo supplicare in ginocchio per uscire con la madre di mio figlio?»

«Guarda che non siamo sposati, né fidanzati» disse lei, drizzando il busto. «Aver fatto un figlio insieme, non ti dà l'esclusiva su di me. Potrei anche avere altro da fare».

«Per esempio?»

«Fatti miei» disse lei, distogliendo lo sguardo. Kid sospirò, scuotendo la testa.

«Mi farai impazzire» mormorò.

«Papà, andiamo?»

Kid si volse, sorridendo. Allungò la mano al bambino, che la strinse.

«Comportati bene, Daniel. Intesi?» lo richiamò Maka, portandosi le mani ai fianchi. Il bambino annuì distratto, mentre trascinava letteralmente suo padre fuori dalla porta. Crona e Maka li guardarono uscire, quindi si precipitarono alla finestra, seguendoli finché non li videro sparire dietro l'angolo della strada, tra la folla che lentamente stava rianimando la città. Con un sospiro, Maka si abbandonò contro il divano.

«E così, è fatta» disse, tristemente. «Dovrò abituarmi a non averlo più a casa tutto il giorno». A quelle parole Crona sorrise. Stava per ribattere qualcosa, quando un'ombra attrasse insolitamente la sua attenzione. Maka notò l'espressione stranita sul volto del ragazzo e aggrondò.

«Qualcosa non va?» chiese. Dopo un attimo di incertezza, il ragazzo si volse a guardarla, scuotendo vigorosamente il capo.

«No, niente» farfugliò. «Credevo di aver visto...»

«Cosa?»

Crona deglutì, voltandosi a guardare nuovamente la strada.

«Niente» fece, con tutta la convinzione di cui era capace. «Devo... sì, devo proprio essermi sbagliato».

 

 

*

 

 

Quella mattina, Maka non aspettava visite. Era il suo giorno libero, suo figlio sarebbe stato a scuola fino alle cinque e lei non aveva nemmeno verifiche da correggere. La sua massima occupazione, sarebbe stata infilarsi qualcosa di comodo e caldo e leggere un libro, sprofondata sul suo divano mentre sorseggiava del tè. Per questo, quando suonarono il campanello, la tentazione di far finta di niente fu forte.

Peccato che proprio non ce la facesse, ad essere così menefreghista.

«Eccomi...»

Scalza, si avviò alla porta. Si chiese chi poteva essere, per andarla a scocciare perfino a casa. Non certo uno studente, perché l'avrebbe preso a calci fino a scuola; né uno dei suoi amici, perché erano tutti al lavoro alla Shibusen.

«Ohi, Maka».

Ecco, quello proprio non se lo aspettava.

Ferma sulla porta, Maka restò a guardare il volto smagrito di quello che, senza alcun dubbio, era stato il suo compagno fino a otto anni prima. E in un attimo, le si mozzò il respiro.

«Cosa ci fai qui?» esalò. Lui sorrise. Un sorriso triste, che la ferì come una spada.

«Non mi fai entrare?»

Lei indietreggiò di un passo; quindi abbassò gli occhi, facendosi da parte. Con titubanza, Soul varcò la porta, senza mai osare alzare gli occhi su di lei. Con un sorriso, lasciò che lo sguardo vagasse per la casa.

«Ti sei sistemata bene» disse. «Hai un appartamento molto carino».

«Grazie. Cosa vuoi?»

Lui aggrondò. Si volse a guardarla ma abbassò subito gli occhi, di fronte al suo sguardo torvo.

«Ti ho disturbato?»

Lei sospirò. «Ormai sei qui» disse. «Vuoi un tè?»

Lui annuì.

«Dammi un attimo. Torno subito».

La vide sparire dietro la porta della sala. Sollevato, prese a guardare negli angoli della casa, curiosando tra le foto.

Con un sorriso, sollevò una foto incorniciata che ritraeva Maka insieme al piccolo Daniel, che al momento dello scatto doveva avere poco più di due anni. Alle loro spalle, Kid li abbracciava entrambi. Sembravano felici.

E così, hai un figlio...

«Quante cose sono successe, non è vero Maka?» sussurrò tra sé e sé. Dei passi nel corridoio annunciarono il ritorno della ragazza. Imbarazzato, Soul posò velocemente la cornice, appena prima che Maka facesse il suo ingresso in sala.

«Allora» disse lei. Tra le mani aveva una scatola di tè. «Cosa ti riporta a Death City?»

«Passavo di qua» fece lui, alzando le spalle. «Pensavo sarebbe stato carino salutare».

«Davvero carino, sì».

Lui si zittì. Fece qualche passo attraverso il salotto, lanciando ogni tanto uno sguardo in tralice alla ragazza. Lei sembrava non degnarlo di alcun interesse, restandosene di spalle ad accudire il bollitore sul fuoco.

«So che hai avuto un bambino».

«Sì, fece lei», voltandosi finalmente a guardarlo. Persino gli sorrise, seppur fugacemente. «Si chiama Daniel».

«Ho visto la foto» fece lui, alzando un pollice ad indicarla. «È un bel bambino».

«Già».

«E...»

«Se stai per chiedermi se è di Kid, la risposta è sì. È suo» rispose lei, mentre apriva uno sportello della cucina per prendere una tazza. Soul restò a guardarla mentre versava l'acqua bollente nelle tazze, in cui aveva messo due bustine di tè alla vaniglia. Il suo preferito.

«Te lo ricordi ancora» disse lui. Lei lo guardò come se non capisse cosa stava dicendo. «Il tè... alla vaniglia».

«Oh, è che ho solo questo» fece lei, prendendo le tazze. Si avvicinò, porgendogli la sua. Soul la prese, ringraziandola con un sorriso goffo. Con un cenno, lei gli indicò dove sedersi.

«E tu e Kid, siete sposati?» domandò. Nel farle quella domanda, per poco non si rovesciò il tè addosso. Era più forte di lui. Non riusciva per niente a essere sciolto. Si sentiva un elefante in un negozio di cristalli. Lei lo fissò sconcertata.

«No, ma va'».

«Pensavo...»

«Siamo stati insieme, cinque anni fa. Per due anni. È successo, ecco tutto».

«Ma...»

«Sai cosa penso degli uomini, e del matrimonio» disse lei. «Con Kid poteva funzionare, è vero... ma non me la sono sentita. Suona complicato, ma in realtà non lo è così tanto. E comunque Kid è sempre presente. È un ottimo padre per Daniel e gli voglio un gran bene».

«Certo» disse lui, sorridendo. «Capisco».

«E tu?» fece lei, fissandolo sprezzante. «Che hai da dire?»

«Sono venuto per salutare i vecchi amici, tutto qui» disse, portandosi la tazza alle labbra. Maka lo fissò in silenzio per qualche istante.

«Hai finito con queste stronzate?»

Lui tossì, sputando quel po' di tè che aveva in bocca. Si passò il dorso della mano sulle labbra, fissandola di sottecchi.

«Maka...»

«Ti presenti qui dopo quello che hai fatto, e hai anche la faccia tosta di far finta di niente? Cosa ti aspetti, che ti getti le braccia al collo e ti dica 'bentornato, Soul... quanto mi sei mancato...'?»

«Io...»

«Taci, stronzo».

Maka appoggiò violentemente la tazza sul tavolo di vetro, che risuonò minacciosamente. Soul si irrigidì, fissandola con i suoi occhi rubino.

«Sei un figlio di puttana» esalò lei, «hai tradito me e la Shibusen, e hai anche il coraggio di ripresentarti qui... ti ricordi cosa ti dissi, allora, Soul?»

«Che non mi avresti mai perdonato» ringhiò lui. Maka sorrise.

«È così».

Il campanello suonò. Un lampo attraversò gli occhi di lei, che per un attimo si velarono di una profonda tristezza. Fu solo un istante, sufficiente però perché lui se ne accorgesse.

«Sono per me, vero?» disse lui, posando la tazza sul tavolo. Lei impallidì, guardandolo con disprezzo, ma anche con profonda commiserazione.

«Sì, li ho chiamati prima» ammise. Lui annuì, calmo.

«Capisco» sospirò. «Me l'aspettavo».

«Se è così, perché sei venuto?» chiese lei, con la voce che cominciava a tremarle. Lui si alzò, ficcandosi le mani in tasca.

«Immagino, perché avevo voglia di rivederti. Ecco perché».

In quel momento, la porta si aprì di botto, e una squadra di agenti in abito scuro si riversò nell'appartamento, circondando completamente Soul e Maka. Uno di essi si avvicinò alla ragazza.

«È lui?» chiese, accennando a Soul, che se ne stava immobile, con un sorriso sghembo stampato in faccia. Maka lanciò a Soul uno sguardo smarrito e lui ammiccò agli agenti, alzando le mani.

«Sono Soul Evans. Immagino che mi steste cercando».

L'uomo in completo scuro fece un cenno con la mano ai suoi uomini, che si avvicinarono a Soul, afferrandogli i polsi e torcendogli le braccia dietro la schiena. Con una smorfia, lui si piegò in avanti, mentre quelli lo ammanettavano.

«Soul Evans, sei in arresto per il reato di alto tradimento. Verrai immediatamente condotto alla prigione di Death City, dove rimarrai in attesa di giudizio. Conosci i tuoi diritti?»

«Risparmia il fiato, non c'è bisogno di elencarmeli» fece lui, alzando gli occhi sul volto cereo di Maka. Lei tremò, l'ombra di una lacrima come sospesa agli angoli degli occhi.

«Non è colpa tua» fece lui, rassicurandola. «Hai fatto quello che dovevi, come al solito».

Lei strinse i pugni. Avrebbe voluto colpirlo, ma non lo fece. Avrebbe voluto ferirlo, ma non sapeva come... perché invece lui era così bravo a farle del male?

«Non provarci, Soul. Sei tu quello che ha sbagliato» disse. Ma la voce le tremava e così le gambe. Era come se il mondo avesse preso improvvisamente a liquefarsi.

Perché non riusciva a stare in piedi?

«Magari mi perdonerai, un giorno?»

Lei nicchiò, mentre gli uomini della polizia lo spingevano fuori dalla stanza.

«Non lo farò» fece. Lui si rattristò per un attimo, ma poi sorrise, seppur debolmente.

«Eppure, posso sempre sperarlo» disse un attimo prima di sparire fuori dalla porta, scortato dalla folla di agenti. Maka sentì un brivido percorrerle la schiena. Fremette, e le lacrime presero il sopravvento.

«Non lo farò!» gridò, con tutto il fiato che aveva. «Mi hai sentito? Io non ti perdonerò mai, Soul Evans!»

E con uno scatto furioso colpì la tazza sul tavolo, mandandola a infrangersi contro la parete.

 

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Capitolo 2
*** Ombre. Un fantasma dal passato? ***


Il giorno era ormai finito. Seduto sul fondo umido della sua cella, Soul guardava il soffitto con occhi stanchi, mentre le tenebre divoravano lentamente e in modo inesorabile l'ultimo scampolo di luce che le sbarre alla piccola finestrella ancora lasciavano trasparire.

Alla fine, ce l'hai fatta, pensò. Non era questo, quello che volevi?

Beh, non esattamente.

Con una smorfia, piegò le gambe. Le catene che lo stringevano, gli impedivano di distendersi completamente. Gli unici movimenti che gli erano concessi gli permettevano di restare seduto, con le ginocchia raccolte, oppure di alzarsi in piedi. Se avesse voluto restare seduto e allungare le gambe, non avrebbe potuto. Le catene gli bloccavano sia i polsi che le caviglie ed erano legate tra loro in modo tale che, ogni volta che provava a distendere le gambe, i polsi che aveva legati dietro la schiena venivano trascinati verso il basso, lasciandolo assolutamente bloccato. Così, dormire era del tutto escluso, perché la necessità di sgranchirsi lo costringeva ad alzarsi frequentemente in piedi, per poter anche solo sciogliere un attimo le articolazioni e allungare le membra intorpidite e formicolanti. Una sorta di diabolico giochetto studiato apposta per impedirgli di riposare, e per caricarlo di una tensione continua.

Rassegnato, si abbandonò con la testa contro la parete. Aprì svogliatamente gli occhi, fissando il frammento di cielo che si intravedeva dall'unica finestra della sua cella. Una nuvola dai contorni nitidi, screziata di rosa dagli ultimi deboli raggi del sole, si stagliava nettamente su uno sfondo blu cobalto. Doveva essere un cielo davvero magnifico da guardare. Soul ridacchiò. Era incredibile come si arrivasse ad accorgersi di certe cose, solo quando qualcosa impediva di gustarle.

E così, eccoti qui.

Il volto di Soul si decompose in una smorfia di disprezzo. Reclinò il capo, nascondendo il volto tra le ginocchia.

Ti nascondi da me? Non capisco. Per quale ragione dovresti fare una cosa del genere?

«Vattene via» mormorò lui. L'ombra che lo circondava era ormai così densa, che sembrava spalmarsi sulle lisce e umide pareti di quella cella come uno strato spesso di cera liquida, che colava tra gli interstizi ammuffiti delle pietre per poi raccogliersi negli angoli privi di luce, là dove l'oscurità era così fitta che faceva male a guardarla.

Con un sorriso stiracchiato, Soul chiuse gli occhi, ascoltando in silenzio il brivido che quell'oscurità gli procurava.

«Non mi interessa quello che hai da dirmi» aggiunse. Quindi alzò la testa, mostrando un ghigno forzato. Aprì gli occhi. Nell'ombra che ormai l'avvolgeva stretto, qualcosa si mosse, guizzando. Lui seguì quel movimento, teso, aspettando con ansia ciò che sapeva sarebbe avvenuto.

Fu quella carezza viscida e untuosa, che lo risvegliò completamente.

Eppure lo sai, quanto io ci tenga a te. Tu sei tutto ciò che conta, per me.

«Va' a farti fottere».

«Non sei gentile».

Con gli occhi sbarrati, Soul alzò la testa. Una luce chiara e accecante lo colpì agli occhi, costringendolo a distogliere lo sguardo. Cercò istintivamente riparo col corpo, ma le catene si tesero, spargendo la loro eco sinistra tra le mura spoglie della piccola cella. Quando riaprì gli occhi, vide il profilo di Kid stagliarsi contro la luce che dalla porta filtrava fino a lui.

«Scusa» mormorò Soul, cercando di trovare una posizione più confortevole. «Non mi riferivo a te».

Kid inarcò un sopracciglio, guardandosi intorno. «E a chi, allora? Qui non ci siamo che tu ed io».

Soul ghignò, tirando su col naso.

«Allora, vuol dire che parlavo da solo».

Kid sporse le labbra, infilandosi le mani in tasca. Si voltò verso la porta. Ai due lati di essa, due guardie restavano in attesa, pronte ad intervenire ad ogni evenienza.

«Non è stato molto furbo da parte tua, ripresentarti qui» riprese Kid. Quindi tacque, come per dare il tempo all'eco delle sue parole di depositarsi. «Sono curioso di sapere perché l'hai fatto».

«Non posso tornare a salutare i miei amici?»

«Amici?» Kid sogghignò. «E tu di solito i tuoi amici li tratti così? Li tradisci, proprio quando tutti ripongono in te la loro fiducia? Tu eri la Death Scythe di mio padre, per dio!»

«Avanti, Kid...»

«Cosa?»

Soul sospirò. Quindi scosse la testa, mettendosi a ridere sommessamente.

«Voglio parlare con tuo padre» disse. Kid si fece torvo.

«Non c'è. Al momento, sono io a reggere Death City».

Soul ammiccò, inarcando un sopracciglio.

«Allora, ho scelto proprio il momento peggiore per tornare».

«Lo credo anch'io».

Ci fu di nuovo silenzio. Quindi «non appena tornerà, gli dirò di te», disse Kid, sospirando.

«Te ne sarei grato» ribatté Soul.

Kid scrollò le spalle, quindi si voltò, incamminandosi verso la porta. Era già uscito, quando si voltò a guardarlo un'ultima volta.

«Hai bisogno di qualcosa?» gli chiese. Soul notò un certo tono di apprensione nella voce, e sorrise.

«Sì. Non è che mi potresti slegare?»

Kid aggrondò. «A parte questo, ovviamente».

«Allora, direi di no».

Kid sospirò profondamente, quindi uscì. Con un cenno, ordinò alle guardie di chiudere la porta e queste obbedirono immediatamente. Soul ascoltò il cupo rimbombare della porta che si richiudeva davanti a lui, e il clangore metallico con cui la pesante serratura scattò, rinchiudendolo nuovamente all'interno di quella stanza buia. Lentamente, il suono dei passi di Kid e delle guardie si affievolì sempre più, finché non svanì del tutto. Un silenzio opprimente calò come un pugno sopra la sua testa e Soul digrignò i denti. Era come se tutto, intorno a lui, avesse improvvisamente acquisito un peso diverso, quasi fosse stato schiacciato al suolo da quel silenzio tanto profondo e pesante che lo circondava. Sentiva la testa scoppiargli e persino le orecchie gli fischiavano, come se stesse precipitando da chissà quale altezza.

Con sguardo desolato, fissò la linea che la debole luce della luna tracciava davanti ai suoi piedi. Era come trovarsi seduti davanti all'orlo di un precipizio buio. Solo che lui si trovava seduto dalla parte sbagliata di esso.

E così, eccoci di nuovo soli.

«Vaffanculo» ringhiò. E con le mani, strinse l'ombra che lo avvolgeva da dietro la schiena. La sentì sgusciare tra le dita, liquida e densa. Quando riaprì la mano, era completamente sparita.

«Devo uscire da qui», mormorò, digrignando i denti.

 

 

*

 

 

«Alzati».

Soul ebbe appena il tempo di rendersi conto che qualcuno lo stava scrollando. Quattro mani forti lo afferrarono saldamente per le braccia, costringendolo a sollevarsi mentre ancora lottava con quel po' di sonno che era riuscito faticosamente a conquistare. Strabuzzò gli occhi, strizzando le palpebre per sfuggire alla luce tagliente del giorno, che lo feriva ai sensi.

«Hai dormito bene, Evans?»

Soul boccheggiò, scuotendo la testa. Alzò gli occhi. Spirit lo fissava duramente, il volto teso in un'espressione indecifrabile.

«Spirit, che piacere...»

«Chiudi il becco, idiota» fece quello, la voce tesa. «Sei stato fortunato che non ti ho incontrato per primo. Altrimenti, adesso saresti morto».

«Anche io sono contento di rivederti» scherzò Soul. Per tutta risposta, Spirit gli sferrò un pugno allo stomaco. Soul digrignò i denti, crollando la testa sul petto.

«Avanti, portatelo fuori».

Lungo i corridoi che dalle prigioni conducevano ai piani superiori della Shibusen, Soul ebbe modo di osservare come il suo arrivo a Death City non fosse passato inosservato. Gli studenti si riunivano in piccoli capannelli al suo passaggio, osservandolo timorosi mentre borbottavano tra loro. Gli insegnanti, quando lo incrociavano, si scansavano, lanciandogli occhiate malevole. Ma il peggio fu quando passò davanti alla vecchia classe Luna Crescente. Tsubaki, che stava entrando in quel momento, lo vide e si fece da parte, abbassando lo sguardo. Lui le sorrise, ma non appena gettò gli occhi dentro la porta, vide l'intero gruppo dei suoi vecchi amici che si era raccolto all'interno dell'aula gremita di studenti, e che lo fissava torvamente mentre passava, scortato da Spirit e dalle guardie della Shibusen. Soul inarcò un sopracciglio, distogliendo lo sguardo. Con la coda dell'occhio, vide Maka uscire furiosa dall'aula, per poi fermarsi a guardare nella sua direzione finché non girarono l'angolo, sottraendosi alla sua vista.

Salirono le scale che conducevano all'ufficio di Shinigami. Quando varcarono le porte, Soul sentì un brivido scorrergli rapido lungo le membra e si irrigidì. Le guardie lo strattonarono malamente, spingendolo ad entrare.

«Muoviti» lo richiamò Spirit «il sommo Shinigami ti sta aspettando».

Soul alzò gli occhi sulle lame affilate delle ghigliottine che costituivano l'ultimo corridoio che ancora lo divideva da Shinigami. Era così tanto che non passava da lì. L'ultima volta, era stato otto anni prima, quando era uscito per l'ultima missione affidatagli proprio da Shinigami. Una missione che, però, lui non aveva mai compiuto.

Quando la processione ebbe varcato anche l'ultima ghigliottina, Soul deglutì. Non osava nemmeno alzare gli occhi.

Spirit fece un passo avanti.

«Sommo Shinigami, ti abbiamo portato Soul Evans, come ci avevi chiesto» disse. Soul ascoltò il suono delle sue parole. Sorrise. Quella situazione, nella sua tragicità, aveva comunque qualcosa di ridicolo.

«Lasciatelo. E anche voi, lasciateci soli».

Spirit fece un cenno alle guardie, che lasciarono immediatamente la presa su Soul. Lui si ritrovò a reggersi da solo, barcollando leggermente per la sorpresa. Le catene gli caddero dai polsi e dalle caviglie e lui sospirò sollevato, massaggiandosi gli arti anchilosati.

Non appena vide Spirit scomparire oltre le porte dello studio di Shinigami, Soul alzò gli occhi sulla maschera del dio della Morte, che lo fissava in silenzio a pochi metri da lui.

«Shinigami» fece, con un ghigno.

Il dio della Morte avanzò di un passo, restando a guardarlo in silenzio per diverso tempo. Quindi si piegò su di lui, alzando una mano.

«Soul, quanto tempo» disse. «Mi hai fatto davvero preoccupare».

 

 

*

 

 

«Come sarebbe a dire, reintegrato?»

Maka era furiosa. Al suo grido, l'intera aula era caduta nel silenzio più totale. Lei spostò gli occhi sui volti terrorizzati dei suoi studenti, che la fissavano cerei, sprofondati nei loro banchi.

«Vieni, usciamo» le sussurrò Tsubaki, prendendola delicatamente per un braccio. «È meglio se ne parliamo fuori».

Quando uscirono dall'aula, Maka trovò ad attenderla sia Kid che Black Star. Tsubaki richiuse la porta dell'aula, facendo cenno agli studenti di restare in silenzio. Cosa del tutto inutile: perché non appena la porta fu chiusa, nella classe esplose un clamore eccitato e improvviso, assolutamente prevedibile.

«Allora, è vero?» chiese Maka, con una smorfia. «Davvero hanno reintegrato Soul?»

«Così pare» fece Black Star, crollando le spalle. «Anche se faccio fatica a crederci».

«Ma che gli salta in testa a tuo padre?» ringhiò Maka, lanciando a Kid un'occhiata rabbiosa. Lui impallidì. Non amava che Maka mostrasse tutta quella disinvoltura nel criticare l'operato di suo padre. In fondo, era pur sempre il dio della Morte.

«Ho provato a parlargli, ma non ha voluto dirmi niente» rispose, indirizzandole un'occhiataccia. «Ha detto solo che era deciso a dare a Soul un'altra occasione».

«Questo significa che lo riprenderà come Death Scythe?» chiese Tsubaki. Kid nicchiò.

«No, su questo è stato categorico. Per il momento, quel posto resta a Spirit».

«Capirai» commentò Maka. «Come se averlo come insegnante nella scuola fosse meglio».

«Per quanto sia» riprese Kid, schiarendosi la voce «questo è ciò che il sommo Shinigami ha deciso. Quindi, non possiamo che attenerci alla sua volontà».

«Sì, ma...»

«Comunque, per quel che ne so, Soul non avrà vita facile, nella scuola» buttò lì Black Star, con un ghigno. Tutti si zittirono, fissandolo curiosi.

«Che vuoi dire?» chiese Maka, aggrondando.

«Che le voci circolano e che gli studenti non sono scemi» fece lui. «In giro si dice che vogliano boicottare le sue lezioni».

«Non dirai davvero?»

Tsubaki si incupì. Abbassò gli occhi, triste.

«È una cosa bruttissima» fece. «Non dovrebbero farlo».

«Ma che dici?» insistette Black Star. «Invece è il minimo che gli spetta, a quel deficiente».

Maka annuì. Era assolutamente d'accordo. Per lei, Soul avrebbe dovuto marcire all'inferno. La vergogna di trovarsi la classe completamente vuota ogni volta che vi metteva piede, forse l'avrebbe spinto ad andarsene, una volta per tutte.

«Sentite, lasciamo che le cose vadano come devono andare» suggerì Kid. «Se questa situazione durerà a lungo, sono sicuro che mio padre capirà di aver fatto una scelta sbagliata, e toglierà a Soul il suo incarico».

«Più che giusto» commentò Black Star. «Dai, andiamo... o quei cinquanta stupidi che mi aspettano in classe non diventeranno mai capaci di combinare qualcosa».

Maka osservò i suoi amici allontanarsi, diretti alle rispettive aule. In silenzio, ritornò in classe, incurante del vociare che si era levato fino a raggiungere livelli inaccettabili. Tuttavia, non appena la videro riprendere posto alla cattedra, i suoi allievi recuperarono immediatamente il consueto atteggiamento di silenzioso rispetto che lei pretendeva sempre nelle sue lezioni.

I ragazzi fissarono Maka, che restò appoggiata con i pugni alla cattedra, gli occhi sbarrati su un punto sfocato davanti a sé. Qualcuno bisbigliò qualcosa di inudibile, qualcun altro si schiarì la voce. Un colpo di tosse ridestò Maka dai propri pensieri, costringendola ad alzare lo sguardo sulla sua classe, che la fissava attonita, in attesa.

«Per oggi la lezione è finita» mormorò. La sua voce le suonò strana e ovattata, tanto che aggrondò, tossicchiando. «Andate a casa».

Senza osare alcun tipo di commento, gli studenti raccolsero le loro cose, sciamando silenziosamente fuori dall'aula. Quando la porta si richiuse alle spalle dell'ultimo di loro, Maka chiuse gli occhi, colpita dal fragore delle voci che all'esterno si scambiavano concitate il proprio stupore.

Non è possibile, pensò.

Credeva di essersi finalmente liberata di lui, ed ecco che invece se lo ritrovava ancora una volta tra i piedi. Quella sua presenza così scomoda, il fantasma con cui aveva dovuto lottare per tutti quegli otto anni in cui era stato assente, dopo che l'aveva così miseramente abbandonata...

Lei si era fidata di lui. Lui era stato tutto ciò in cui aveva sempre creduto. Ma poi...

Ero riuscita a dimenticarti, maledetto bastardo.

Voleva sapere perché era tornato, e cosa si aspettava di ottenere. Perciò, lasciò che fosse la rabbia che sentiva a guidarla attraverso i corridoi, fino alla sua aula; una piccola aula nella sezione vecchia della scuola. Uno dei posti più disprezzati dagli studenti. Il posto adatto, per uno come lui.

Quando fu davanti alla sua porta, era letteralmente furiosa. Lo vide seduto alla cattedra, le gambe incrociate, mentre leggeva tranquillo. Non c'era nessuno, oltre a lui. Nemmeno si accorse di lei che, con la mano già alta, pronta a bussare, se ne stava immobile a fissare quel suo profilo illuminato dal sole, che splendeva come coronato da una pallida aureola. Un tocco di santità che traboccava di ironia, vista la realtà della situazione.

Improvvisamente, il cuore di Maka sussultò. Intimorita dalla repentina quanto lacerante consapevolezza di trovarsi da sola con lui, si gettò contro il muro, a lato della porta, portandosi le mani al petto, in preda a un'imprevedibile eccitazione. Non riusciva a capire cosa le fosse preso, tutto d'un tratto, né perché vederlo le provocasse quella strana sensazione, come se il suo intero corpo stesse lentamente scivolando verso di lui. Era la seconda volta, da quando l'aveva rivisto, che le capitava. Respirò a fondo, cercando di riacquistare lucidità.

Cautamente, si sporse ad osservarlo. Ora non provava più rabbia, ma qualcosa di diverso. Possibile che fosse pena? Non sapeva a cosa fosse dovuto, ma di una cosa era comunque certa: vederlo così, solo, gettato in un angolo come una cosa dimenticata, era qualcosa che non poteva sopportare. A quel punto, allora, era meglio non vederlo affatto e lasciare le cose come stavano.

E così se ne andò sollevata, quasi fuggendo.

 

 

*

 

 

La sua ora era quasi terminata, quando Soul alzò debolmente gli occhi dal libro. Si era aspettato di trascorrere un'intera ora in solitudine, ben conscio del disprezzo che l'intera Shibusen bramava di riversargli addosso; cosa che, per altro, non lo stupiva più di tanto. Per questo fu del tutto sorpreso quando vide aprirsi la porta dell'aula, e il suo primo e forse unisco studente del corso fare il suo timido ingresso in classe.

Con uno scatto, Soul richiuse il libro che teneva appoggiato sulle gambe, gettandolo sulla cattedra. Quindi si alzò in piedi, infilandosi le mani in tasca.

«E tu, che accidenti ci fai qui?» chiese, torvo. Non gli avrebbe reso la vita facile. Se ciò che la Shibusen desiderava da lui era qualcosa da disprezzare, allora lui avrebbe dato alla scuola esattamente ciò che si aspettava.

Un bambinetto di cinque anni, alto e magro, dai vividi occhi verdi e dai capelli di un nero lucido e intenso, lo fissava serio, il volto atteggiato in un'espressione di vivo contegno.

«Sono venuto per la lezione».

«Tu sei il figlio di Death the Kid» fece Soul, scendendo dalla cattedra e andandogli incontro. «Questo corso non è per te. È solo per le Buki».

Il bambino lo fissò intensamente per alcuni istanti. Quindi «cos'è una Buki?» chiese. Soul drizzò il busto, sorpreso. Quindi rise.

«Come sei capitato qui?» gli chiese. Il bambino si voltò verso la porta, pensieroso; quindi tornò a guardarlo.

«È stata la mamma a dirmi di venire. Mi ha portato lei».

Soul si irrigidì, stupito. Lanciò un'occhiata alla porta, quindi abbassò nuovamente gli occhi sul bambino che aveva davanti e che continuava a scrutarlo con un interesse per nulla nascosto.

«Davvero è stata lei a portarti qui?» chiese, stringendo gli occhi. Il bambino annuì.

«Sì. Solo che non dovevo dirlo. Ho fatto male?»

Soul non seppe cosa rispondere. Aprì la bocca, come per dire qualcosa; ma le parole gli restarono letteralmente appiccicate alla lingua, ingarbugliandosi l'un l'altra in un discorso inarticolato.

«No, hai fatto bene» disse, alla fine. «E comunque» aggiunse, con un sospiro «non le diremo che ti è sfuggito».

Il bambino lo fissò a lungo, e alla fine gli tese la mano. «Mi chiamo Daniel, piacere di fare la sua conoscenza, signore».

Soul osservò sbigottito la piccola mano che il bimbo tendeva verso di lui. E a quel punto, scuotendo la testa, sorrise.

«Piacere, Daniel» fece, porgendogli la mano a sua volta. «Io sono il professor Evans. E sono l'insegnante di disciplina Buki».

«Io non so cos'è una Buki» ripeté Daniel, aggrottando le piccole sopracciglia scure. Soul si drizzò, fissandolo sorridente con le mani in tasca.

«Davvero? Beh, visto che ormai sei qui» gli disse, «vorrà dire che te lo spiegherò».

 

 

 

 

Nota dell'autore: Grazie mille a Chrona e Rein94 per le loro recensioni. Mi hanno fatto davvero piacere, e sono lieto che la storia vi sia piaciuta. È anche per questo che ho deciso di dedicarmi prima del previsto a questa storia, in modo da aggiornarla. Grazie anche per gli errori che Rein94 mi ha fatto notare di aver commesso. Non me ne ero accorto, e ho subito corretto! :)

Spero continuerete a farmi notare ciò che funziona e ciò che non funziona. Credo che questo sia l'unico modo per migliorarsi, quindi... non abbiate timore di darmi la vostra opinione, quale che sia. Io la accetterò sempre con estrema gratitudine.

A presto.

Puglio

 

 

 

 



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Capitolo 3
*** Horror vacui. La forma terribile della paura e del rimpianto? ***


Imbarazzata e confusa, Maka continuava a tenere gli occhi fissi sul piatto. Si rigirava la forchetta tra le dita, mentre cercava di infilzare un'oliva che sgusciava un po' ovunque.

«Maka, tutto bene?»

Lei alzò gli occhi. Incontrando lo sguardo preoccupato di lui, arrossì.

«Sì, certo. Perché me lo chiedi?»

Lui si incupì. Era nervoso almeno quanto lei, e lo si vedeva bene. Prese a guardarsi intorno.

«Forse non ti piace questo posto?» le chiese, avvicinandosi e parlando sommessamente. Lei si irrigidì.

«No, perché?» fece, rispondendo quasi immediatamente. «È molto bello, elegante...»

Scema.

Persino lei si era accorta che la sua voce suonava falsa a un chilometro di distanza. Spostò gli occhi sul volto di lui, che si era fatto teso. Improvvisamente, lo vide incupirsi e lei provò un tuffo al cuore.

«Ok, ho commesso una stupidaggine» disse lui, poggiando il tovagliolo sul tavolo. Perfetto, pensò lei. Era riuscita a rovinare completamente quella serata.

«Soul, io...»

Lui alzò una mano, scuotendo la testa. Per qualche istante rimase a guardare il fondo del piatto, come se cercasse disperatamente di trovare in esso un modo per uscire da quella fastidiosa situazione.

«Non avrei dovuto dirtelo» mormorò, alla fine. «Avrei dovuto capirlo da solo».

Lei si morse le labbra. Si portò una mano alla fronte, scostandosi nervosamente un ciuffo della frangia che proprio non voleva saperne di stare al suo posto.

«Mi hai colto alla sprovvista» si giustificò. Cercava di sorridere. Allungò la mano, a stringere quella di lui. «Non ho avuto modo di pensarci, ecco... sì, dovrei rifletterci, e...»

Soul sogghignò. «Già, come no».

Lui sottrasse la mano e lei rabbrividì. Non si era mai sentita così lontana da lui come in quel momento. C'era come un muro di invisibile incomprensione che sorgeva ora a dividerli. E per quanto potessero provare a scavalcarlo o ad abbatterlo, lei sentiva che nulla sarebbe mai più stato come prima. Crescendo, quel muro aveva incrinato il sottile equilibrio che aveva sorretto le loro anime fino ad allora. Un equilibrio fatto di silenzi e di sottili allusioni, e di spazi vuoti che non dovevano per nessun motivo essere colmati.

La loro unione si basava su quel tacito accordo. Una risonanza che rispecchiava esattamente i loro cuori, così fragile eppure forte nella comunione che riusciva a costruire con l'altro. A patto che nessuno violasse il confine che, silenziosamente, si erano costruiti attorno a loro stessi e che in quel momento, per qualche goffa ragione, era stato calpestato e distrutto.

«Mi dispiace» fece lei. Non voleva piangere. Sapeva che lui si sarebbe innervosito ancora di più. Era sempre così. Ogni volta che lei soffriva, lui doveva farsene una colpa.

Ma non è colpa tua, stupido.

Di chi era la colpa se lei non trovava mai il coraggio di essere felice?

Sarebbe bastato così poco. Se solo avesse aperto la bocca per dire ciò che veramente provava...

Ma anche quella volta, non ci riuscì.

«Io non sento lo stesso per te» disse. Lui chiuse gli occhi.

«Beh, almeno ora non dovremo più girarci intorno, no?» fece, cercando di mostrarsi sereno.

«Continuerai a essere la mia Buki? E a voler diventare una Death Scythe?» gli chiese, ansiosa. Sorrideva, ma aveva la voce che le tremava. Quasi si vergognava a fargli quella domanda, dopo quanto era appena successo. Ma quello, era tutto ciò che d'ora in avanti le sarebbe rimasto di lui. La possibilità di stringerlo quando si abbandonava alle sue mani e alla sua volontà, attraverso il contatto più intimo e privato che avesse mai avuto con qualcuno. Poteva bastarle, se lui avesse continuato a concederglielo nonostante tutto. O almeno, così sperava.

Come poteva rinunciarvi?

Lui ci pensò sopra, scuotendo la testa. Quindi sorrise, sforzando le sue labbra in una smorfia spiegazzata.

«E cos'altro potrei fare...»

Maka...

«Maka?»

Il frastuono della sala esplose all'improvviso. Maka drizzò la testa, sbattendo le palpebre. Kid, di fronte a lei, la fissava con un misto di frustrazione e di ansia.

«Ma stai bene?»

Lei schiuse le labbra, incerta su cosa dire. Spostò gli occhi sull'ambiente circostante. Il ristorante era gremito, quella sera, e una musica di pianoforte aleggiava discreta nell'aria, sollevandosi sopra al vociare confuso e al rumore di stoviglie come un sottile filo di perle agitato dal vento. Era la classica colonna sonora di luoghi come quello, fredda, distaccata ed elegante. Una musica bella ma priva di qualsiasi contenuto, come quei volti da copertina che svaniscono dalla memoria subito dopo il primo, rapido sguardo.

«Io...»

Accanto a loro, una giovane coppia dall'aria piuttosto annoiata guardava in direzione opposta. Maka posò gli occhi sulla ragazza. La vide mentre si portava alle labbra un bicchiere di vino rosso, che sorseggiò a lungo, quasi cercasse di far passare in quel modo qualche minuto in più. Quando lo posò, passandosi leggermente la punta della lingua sulle labbra, la vide rivolgere un rapido sorriso al suo compagno. Lui ricambiò, un attimo prima di distogliere nuovamente lo sguardo. A quel punto, lei tornò a fissare vacuamente la sala.

«Maka?»

«Sì?»

Kid aggrondò. «Ti ho chiesto se va tutto bene» disse. «Ma ad essere sinceri, non mi sembra proprio».

Lei sospirò. In quel momento, il pianoforte smise di suonare per un istante. Quindi il pianista riattaccò con un'improvvisazione impersonale su The man I love.

«Scusami, non mi ero resa conto» fece. Kid la scrutò intensamente.

«Come non ti eri resa conto di quello che facevi quando hai portato nostro figlio in classe da Soul?» disse. Lei impallidì, sbarrando gli occhi.

«Quello che non capisco è perché» insistette Kid. «Tu sei stata la prima a lamentarti del fatto che mio padre gli avesse offerto una posizione nella scuola... credevo che volessi anche tu che lui se ne andasse; e invece, ecco che gli porti a lezione addirittura il nipote di Shinigami».

Maka strinse le labbra, abbassando gli occhi.

«Bel modo per fargli pubblicità» sentenziò Kid, masticando furiosamente un boccone del suo filetto al pepe. Lei scrollò le spalle nude, stringendosi nelle braccia lasciate scoperte dall'elegante tubino di seta nera che le fasciava il corpo sottile.

«Mi spiace, non so cosa mi sia preso» mormorò. «Ho commesso una sciocchezza».

Lui trasalì, alzando gli occhi e fissandola sbigottito.

«Aspetta un attimo, mi stai forse dando ragione?» disse. Lei posò la forchetta, portandosi il tovagliolo agli angoli della bocca.

«Credo che sia stato perché ho provato pena per lui» ammise, incurante dell'espressione stupefatta di Kid. «Mi sono lasciata prendere alla sprovvista, ma non accadrà ancora. E prima di rifare una cosa del genere, ti prometto che verrò a parlartene».

Kid lasciò cadere le posate sul piatto, deglutendo. Quindi annuì.

«Va bene» fece. «Ti ringrazio».

Maka lo fissò con gli occhi imperlati di lacrime.

«Otto anni fa, proprio in questo posto, lui mi disse che non voleva più essere una Buki» disse. Kid inarcò un sopracciglio.

«Non lo sapevo» fece. «Non me ne hai mai parlato».

«Lo so» disse lei, scuotendo la testa. «Non ne ho mai parlato con nessuno».

«Perché?»

«Non lo so. Credo che mi vergognassi, in qualche modo».

«Vergognarti di cosa?» ribatté lui. «Era una sua scelta, che c'entravi tu?»

Un cameriere si materializzò come dal nulla. Maka si abbandonò contro lo schienale della sedia, mentre quello ripuliva la tavola dalle stoviglie usate.

«Ti dispiace se andiamo a casa?» fece Maka, non appena il cameriere si fu allontanato. «Non mi sento troppo bene».

 

 

*

 

 

«Ma guarda chi si rivede. Soul Eater Evans, nientemeno».

Soul posò la birra che stava sorseggiando, quindi richiuse il libro che teneva aperto sul tavolo. Con un cenno distratto, indicò la sedia accanto alla sua.

«Liz Thompson» fece. Posando gli occhi sull'audace scollatura della ragazza, Soul si chiese come facesse a non morire dal freddo. «Che piacere. Ti trovo in forma».

Liz sorrise, vagando un po' intorno con gli occhi. Il juke box suonava un'anonima versione di All the things you are, diffondendo nel locale una patina di malinconica tristezza. Qualche ubriaco era crollato sul bancone del bar, mentre solo due tavoli erano ancora occupati. Niente più che un rado gruppetto di studenti che mirava a tirare tardi.

Con un cenno di intesa, Liz si sedette, appoggiando i gomiti sul tavolo e fissando i suoi sottili e profondi occhi azzurri in quelli di Soul.

«Sai, quando Kid ce l'ha detto, non riuscivo a crederci» esordì.

«E invece, eccomi qua» rispose Soul, tranquillo. Liz ghignò.

«In giro si dicono grandi cose di te» fece. Lui sorrise.

«Per esempio?»

«Che sei tornato strisciando come un verme».

Soul ammiccò, portandosi il boccale di birra alle labbra. Dopo averne mandato giù un sorso, schioccò le labbra.

«Verme o no» disse «sono comunque tornato».

«Già...»

Tacquero per qualche istante. Uno degli studenti si alzò, avvicinandosi al juke box in fondo alla sala. Vi si appoggiò con una mano, chinandosi a studiare i titoli. Quindi frugò in tasca ed estrasse una moneta, infilandola nella fessura della macchina. Premette un pulsante; e dopo un attimo, la voce dolente di Morrissay degli Smiths cominciò a intonare How soon is now.

«Immagino che tu abbia saputo di quei due».

«Ti riferisci a Kid e Maka?» chiese Soul. Di fronte al sorrisetto malizioso di Liz, lui annuì, passandosi una mano tra i capelli arruffati.

«Sì, ho saputo. Oggi ho avuto a lezione il piccolo Daniel».

«Davvero?» fece Liz, incredula. «In gamba, la peste, vero?»

«Notevole, per la sua età».

Liz abbassò gli occhi sul libro che Soul teneva davanti. Quindi lo puntò con un dito.

«Dì, ti sei trasformato in un intellettuale, per caso?»

Soul sporse il labbro, allontanando il libro da sé.

«E tu che mi dici?» fece. «Tu e tua sorella siete sempre al servizio di Kid?»

«Puoi scommetterci» fece lei, sporgendosi verso di lui. «Ora io e Patty viaggiamo come su due binari verso il titolo di Death Scythe» esclamò, allungando le braccia e lanciando un fischio sordo. «Nessuno riuscirebbe a toglierci il primato, nemmeno tu» aggiunse, mordendosi le labbra mentre lo guardava con una vena di seduzione. Soul annuì, inarcando un sopracciglio.

«Vuoi da bere?» le fece. Lei lo fissò con aria impertinente.

«Ho già bevuto abbastanza, professore».

Soul ridacchiò. «Sei ubriaca?»

«Forse» ammise lei. «Ma mi resta quel tanto che basta di lucidità per riconoscere l'unico uomo decente in questo posto di merda» disse. Quindi «Che dici, ce ne andiamo?»

Soul la guardò per un istante. Non era ubriaca, forse era solo un po' allegra. Il suo sguardo non era per nulla vuoto, anzi; al di là di una leggera euforia, Liz sembrava assolutamente padrona di sé.

«Fantastico» disse lui, alla fine.

E così, sgusciarono fuori dal locale, confondendosi nelle ombre barcollanti che avvolgevano Death City.

 

L'appartamento di Liz non era affatto lontano. Per tutto il tragitto, a piedi, lei non aveva fatto altro che parlare e ridere, stretta al braccio di Soul mentre procedeva con le spalle chine, avvolta in un giubbotto militare imbottito che le lasciava però scoperto un lembo di pelle della sua pancia liscia e piatta. Era evidente che, in tutti quegli anni, Liz non aveva perso la mania per i jeans a vita esageratamente bassa.

«Siamo arrivati, vieni» fece lei, tirandolo per la mano «ti faccio strada».

Lui non si oppose minimamente. Nella condizione in cui si trovava e dopo la giornata che aveva avuto, Liz era la cosa migliore che potesse capitargli. L'avrebbe seguita anche se lei gli avesse proposto di andare insieme sulla luna.

Lei si fermò davanti alla porta di una discreta casetta a due piani. Soul la fissò con stupore crescente. Il piccolo giardino ben curato, i vasi di fiori che ornavano il vialetto di ingresso e il parco giochi, proprio davanti... possibile che quella fosse proprio la sua casa?

«Ehi, ferma un attimo» disse lui, con un ghigno. «Ma davvero abiti qui?»

Lei allungò un'occhiata all'ambiente circostante; quindi si volse verso di lui, strizzandogli l'occhio proprio mentre infilava la chiave nella serratura, facendola scattare.

«Sì, me l'ha trovato Kid. Non male. Tranquillo, anche se un po' troppo, forse».

Soul ghignò. Aveva ragione. Quel posto non era minimamente in stile con una come Liz.

«E poi, ho il parco giochi vicino. Così, quando Patty viene a trovarmi posso farla giocare» scherzò lei. Soul ascoltò la sua risata argentina, proprio mentre spariva dietro la porta di casa. La ragazza accese la luce e si fece da parte, invitandolo ad entrare con un'occhiata allusiva.

Lui chinò la testa sorridendo, mentre entrava con le mani ficcate nelle tasche dei pantaloni. Non appena mise piede in casa, Liz richiuse la porta, gettandoglisi letteralmente addosso. Soul si ritrovò appiccicato alla porta, con Liz che lo baciava furiosamente, mentre le sue mani frugavano impazienti sotto i suoi vestiti.

«Ehi, calma...»

Per tutta risposta, Liz gli prese il volto tra le mani, insinuando la lingua tra le labbra di lui. Soul sentì un improvviso languore diffondersi in tutto il suo corpo.

«Vuoi qualcosa da bere?» mormorò Liz, mordicchiandolo alla base del collo. Soul piegò le ginocchia, schiudendo le labbra.

«No, direi che sono a posto così, grazie... abbiamo appena bevuto, no?»

Lei ridacchiò. Cercava di stimolarlo, ma lui era più insensibile di una statua di marmo. Non capiva cosa gli stesse succedendo, non era la prima volta che aveva a che fare con una ragazza, anche se era difficile trovarne una con tanta iniziativa; eppure, non riusciva a lasciarsi andare, ecco tutto.

«Liz...»

Lei cominciò a sbottonarsi la camicetta, mordendosi le labbra. Soul cercò di divincolarsi, ma lei lo bloccò.

«Non ti facevo così timido» disse lei, divertita. Lui si annichilì.

«Veramente...»

«Avanti, Soul Evans» gli sussurrò Liz, «mostrami ciò che sai fare...»

Lei lo abbracciò, baciandolo con passione. I suoi capelli biondi lo avvolsero completamente e per un attimo, lui ebbe la visione che non avrebbe mai voluto avere. E semplicemente, gli fu impossibile andare avanti.

«Liz, fermati».

Lei si staccò, fissandolo, incerta. Quando vide la sua espressione risoluta, indietreggiò.

«Che ti prende?»

Soul sospirò, cercando di riassettarsi la camicia.

«Non posso farlo».

«Che vuol dire che non puoi?»

«Vuol dire che non posso. Tutto qui».

Liz restò a fissarlo incredula per qualche istante, quindi scosse la testa.

«Non posso crederci, è per lei, vero?»

«È meglio che vada» fece lui, riabbottonandosi la giacca. «Scusami».

Fece per uscire, quando lei lo fermò, bloccando la porta con un pugno.

«Ti prego, non andare. Non voglio restare sola» fece. Soul si voltò a guardarla. Lei lo fissava supplicante, stringendosi i lembi slacciati della camicetta contro il petto.

«Liz, io...»

«Non mi importa se lo facciamo o no. Ma ti prego, resta qui, stanotte. Sono stanca di dormire da sola. Voglio stare abbracciata a qualcuno. Persino Patty è riuscita a trovarsi un uomo... io...»

In quel momento, lui la vide come non l'aveva mai vista. Completamente smarrita. Non voleva prendersi gioco di lei, ma in fondo non ci sarebbe stato nulla di male a dormire insieme per una notte. Non si trattava di fare altro, solo di dormire. E di curarsi le proprie ferite, a vicenda.

«D'accordo» fece, con un sorriso.

«Ci prendiamo qualcosa da bere?» suggerì lei, rasserenata. Lui annuì.

«Già, credo che sia il caso».

 

 

*

 

 

Una volta a casa, Maka si voltò, appoggiandosi all'uscio chiuso. Kid le si avvicinò e lei sorrise, mentre lui la circondava con le braccia, posandole un tenero bacio sulla bocca. Quando si separarono, lei si passò la lingua sulle labbra, arrossendo.

«Vuoi fermarti?» gli chiese. «Daniel sarebbe molto contento di vederti, domani».

Kid la fissò, ammiccandole. «E tu?»

«Io sarei molto contenta di vederti anche adesso» ridacchiò, «ma anche se non è mia intenzione guastarti i programmi, ti chiederei di non fare nulla. Ho solo voglia di compagnia».

«Compagnia?»

Kid alzò gli occhi al cielo.

«Esco con te dopo due mesi, e tu vuoi compagnia

«Scusa» fece lei. «È che stasera non è il caso».

Lui la guardò profondamente, assumendo un'espressione preoccupata.

«Senti, so che questa cosa di Soul può averti sconvolta, ma...»

Maka sorrise, ma nella frazione di un attimo il suo volto si piegò in una smorfia stiracchiata, per poi cedere a un pianto silenzioso. Kid la osservò smarrito, mentre lei si passava furiosamente il dorso della mani sugli occhi, cercando di ricacciare indietro le lacrime.

«Forse non è una buona idea, che tu ti fermi» singhiozzò. «Sono una frana».

Lui scosse la testa.

«Maka...»

«Vai a casa» fece lei, spingendolo via fin troppo rudemente. «Grazie per la serata, ma è meglio se ora me ne torno dentro».

Kid provò a lottare contro la sua cocciuta volontà, ma come al solito fu un tentativo inutile. La osservò mentre scompariva dietro la porta, chiudendola ermeticamente a chiave. Rassegnato, si appoggiò con le mani al muro, chinando la testa.

Dannazione.

Tutta quella storia, il ritorno di Soul... si era rivelata proprio una dannata seccatura.

E il problema era che nemmeno sapeva come sarebbe mai andata a finire.

 

Quando Maka si richiuse la porta alle spalle, Crona, che attendeva sul divano davanti alla televisione accesa, si risvegliò di soprassalto. Sbatté le palpebre, stropicciandosi gli occhi con la punta delle dita. Non appena vide la sua amica rannicchiata e in lacrime davanti all'uscio di casa, si precipitò verso di lei, tendendo timidamente una mano.

«Maka?» balbettò. «Cosa è successo?»

Maka scosse la testa. I suoi capelli biondi, raccolti come al solito in due sottili code ai lati della testa, oscillarono spenti. Singhiozzò. Quindi strinse le ginocchia al petto, nascondendo il volto contro di esse.

«È tutto uno schifo» pianse. «E io non so che fare».

A quel punto, Crona si inginocchiò accanto a lei. Tese una mano, sfiorandole una spalla. La sentiva ancora più esile e fragile di quanto il suo corpo non lasciasse immaginare.

«Maka...» mormorò, sentendosi del tutto inutile.

Ma lei non lo udì neppure. Continuava solo a consumarsi di lacrime, in un silenzio che affogava il suo cuore e che non voleva saperne di abbandonarla.

 

 

*

 

 

Era tutta la notte che la seguiva. Quella ragazza, che era uscita per ultima dal pub. Aveva salutato gli amici, e si era avviata spedita verso casa. Sola.

Imprudente ragazza.

Sapeva chi era. L'aveva vista a scuola, durante il cambio di lezione. Con lei aveva anche scambiato alcune chiacchiere.

Non era stato facile, sgusciare fuori dal letto, non visti, e spingersi fin là. Nemmeno sperava di trovare qualcuno ancora in giro, per placare la propria fame. Invece, del tutto casualmente, ecco che il destino gli aveva servito quella inerme ragazza su un piatto d'argento.

Lei camminava tenendosi stretta la borsetta al fianco. Ingenua. Non era la borsetta ad interessarlo.

Ciò che voleva, era la sua anima.

Lei si voltò. Frugò con gli occhi nell'ombra, la fronte corrugata. Giusto qualche secondo, prima di rimettersi a camminare spedita. Cominciava a sentire qualcosa? Forse. Meglio così. Aveva fame. Avrebbe rimandato il suo consueto giochetto ad un'altra occasione.

Sgusciò fuori dall'ombra, e i suoi passi presero a riecheggiare lenti, alle spalle di lei. La ragazza non si voltò. Adesso non aveva più bisogno di vedere, per sapere che qualcuno la stava seguendo.

Aumentava il passo. Che seccatura. Voleva sfuggirgli.

Ma non si può sfuggire alla propria paura.

Con un guizzo, le ombre la circondarono. Lei trattenne il respiro, guardandosi intorno smarrita. Quando lo vide, tirò un sospiro di sollievo.

«Oh, è lei professore» disse, rasserenata. «Per un attimo, ho avuto paura...»

Sorrideva, addirittura.

Poverina.

Quando la divorò, lei aveva ancora quell'espressione incredula sul volto. Ma la cosa più buffa, era un'altra. Lei era morta credendo che fosse stato lui ad ucciderla.

Era così divertente. Chissà cosa avrebbero creduto gli altri...

Già. Cosa avrebbero creduto...

...Soul?

 

«No!»

Soul si sollevò a sedere. Liz, accanto a lui, accese la luce della abat-jour, fissandolo spaventata.

«Che ti succede?» chiese, scrutandolo in volto ansiosa. «Stai poco bene?»

Il corpo madido di sudore, Soul si osservò le braccia. Con una smorfia, sentì le mani irrigidirsi e il cuore contrarsi nel petto, come fosse stato stretto in una morsa.

No, pensò con rabbia. Non ancora, non di nuovo maledizione!

«Soul?»

Ansimando, Soul aprì gli occhi sul volto pallido di Liz. Avrebbe voluto rassicurarla, dirle che tutto andava bene e che si trattava solo di un brutto sogno.

Ma, purtroppo, non era così.

 

 

 

 

Nota dell'autore: grazie a Shi_Mei per la recensione e per i tanti complimenti. Ecco un nuovo capitolo. Spero che ti piaccia!

 

A presto.

Puglio

 

 

 

 

 

 

 

 

 



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Capitolo 4
*** Lo scorrere del tempo. Perchè non sei rimasto al mio fianco? ***


«E questa, come ti sembra?»

Maka allungò la mano a raccogliere il fascicolo che Kid le aveva appena fatto scivolare davanti agli occhi. Ormai era inutile protestare. Aveva deciso di mostrarsi paziente con lui, anche se cominciava a sentirsi piuttosto stanca di tutta quella sua continua insistenza.

Dopo una velocissima occhiata gettò via il fascicolo, che andò a posarsi sopra gli altri in un mucchio disordinato a lato del tavolo.

«Non so» disse, portandosi alle labbra la tazza di tè e sorseggiandolo lentamente, «non è che mi dica gran ché...»

Esasperato, Kid si abbandonò contro lo schienale della sedia, portandosi le mani al volto.

«Ma non è possibile» lamentò. «Te ne ho portati venticinque, che insieme ai quindici di ieri e ai sette dell'altro giorno fanno quarantasette candidati. Quarantasette! E ogni volta il risultato è sempre lo stesso... possibile che tu non riesca a trovare qualcuno che ti vada a genio?»

«Cosa posso farci se non mi ispirano?» fece lei, scrollando le spalle. «E poi, non ho nessuna voglia di ricominciare da capo con un'altra Buki».

«Ah, no? E cos'hai intenzione di fare allora?»

Maka non rispose. Si limitò ad alzarsi e a raccogliere le tazze vuote insieme al piattino dei biscotti. Quindi si avviò in cucina, dove posò le stoviglie nel lavello, sempre senza dire una parola.

Un modo come un altro per fargli capire che per lei l'argomento era concluso.

«Maka?»

«Preferisco continuare ad allenarmi» disse, visibilmente annoiata e voltando appena la faccia. La luce della lampada la illuminava debolmente, di lato, avvolgendo morbidamente il suo volto pallido e mettendo in risalto la tristezza che da qualche giorno le era rimasta come impigliata ai lati degli occhi e della piccola bocca. Tutt'intorno a lei, il grigiore di quella giornata di pioggia continuava a riversarsi nella stanza, avvolgendosi su se stesso come un grumo spesso e scivolando tra gli spiragli delle finestre socchiuse e sotto l'orlo delle tende che accarezzavano soffici il pavimento di legno chiaro. Un mondo in chiaroscuro, in perfetta risonanza con le emozioni che albergavano nel suo cuore.

«Non puoi farlo» mormorò Kid, serio. «Questa storia non può continuare, e lo sai anche tu».

Lei tuffò le mani nell'acqua che aveva raccolto nel lavello. Con cura, prese a sciacquare le tazze, una ad una.

«Perché?» disse, fingendosi allegra. «Sto facendo progressi, sai? Si tratta solo di avere pazienza...»

«Sì? E per quanto? Per altri cinque anni?»

Maka sollevò leggermente la testa. Scrollò una tazza e la posò sul ripiano del lavello, piuttosto rudemente.

«Ho avuto piuttosto da fare, in questi cinque anni» ribatté «non so se te ne sei accorto».

«Aspetta, stai forse insinuando che quello che ti è capitato è colpa mia?»

«Sto dicendo che non c'ero solo io su quel divano, cinque anni fa» disse lei, voltandosi a guardarlo con un lampo negli occhi «ma a volte hai la tendenza a dimenticartelo. Cosa che io non posso permettermi di fare».

«Io sono il figlio di Shinigami, e ho degli obblighi...»

«Anche io ho degli obblighi, come madre e come membro della Shibusen» esclamò lei, livida. «E ti consiglio di fare attenzione a quello che stai per dire, perché ti stai muovendo su un terreno molto pericoloso».

Kid tacque, arrossendo. Ficcandosi le mani in tasca, lanciò uno sguardo imbarazzato al vecchio e comodo sofà, la cui sola vista gli riportava alla memoria una serie infinita di ricordi. E con un sospiro rassegnato, scosse la testa.

«E allora, perché non hai voluto sposarmi?» fece lui, quasi sussurrando. «Le cose sarebbero state diverse, adesso».

Maka sorrise.

«Non avevo voglia di passare la giornata a controllare che le tazzine fossero in fila e la carta igienica sempre piegata» disse, con una scrollata di spalle. «Abbiamo convissuto per quasi due anni, e sai anche tu che ciò che potevamo avere insieme l'abbiamo avuto. Più di così, non avrebbe funzionato».

«Sei ingiusta» mormorò lui. «Non puoi esserne così sicura». Maka si voltò a guardarlo.

«Non prendertela» gli disse, rivolgendogli un'occhiata intenerita. «Lo sai che ti voglio bene».

«Anch'io, se per questo, ed è proprio perché mi interessi che sono così preoccupato per te» disse lui, allargando le braccia. «Sono cinque anni che non esci più in missione. Cinque anni, Maka. Ammetterai anche tu che è un'eternità».

«Ti chiedo ancora un po' di tempo» fece lei, incupendosi. «Tutto qui. Voglio provare ancora un po'... sento di esserci vicina...»

Kid fece una smorfia. «Non è vero, e lo sai anche tu. Ancora non riesci a trasformarti in modo consapevole, e forse non ci riuscirai mai. Non sei una Buki, Maka. L'unico motivo per cui sei riuscita a trasformarti, quella volta, è perché Soul ti aveva infettato con il sangue nero che scorreva dentro di lui... è inutile ingannarsi».

«Ma se ci lavoro» provò a insistere lei, con un sorriso incoraggiante «se...»

«Se, se... con i se non andremo da nessuna parte».

Maka impallidì, fissando spenta il volto improvvisamente duro di Kid. Lui si passò una mano tra i capelli, sospirando.

«Anche se hai ucciso Asura, e la tua fama è ancora alle stelle, tutto questo non durerà per molto. Ti confesso che non è stato per nulla facile reperire delle persone disposte a lavorare con te, Maka. Sai cosa dice la gente di te?»

«Cosa?» fece lei, aggrondando.

«Che sei troppo strana e scostante. Che Asura ti ha privato di tutte le tue capacità. Che a stare con te, una Buki impazzisce. E alla fine, o fugge o muore».

Maka drizzò il busto, fissandolo dritto in volto. Cercava di mostrarsi forte, ma gli occhi le tremarono; e fu costretta a distogliere lo sguardo.

«Anche tu lo pensi?» mormorò. Costernato, Kid le si fece vicino, prendendole le mani.

«No, e lo sai» le disse. «Ma non importa cosa penso io. Importa cosa pensa la Shibusen. Tu hai un dovere, verso questa scuola. Ti sei impegnata a combattere le streghe e ad impedire la rinascita dei Kishin. Come pensi di fare, se te ne resti tutto il tempo confinata in un'aula scolastica?»

«I miei studenti si sono sempre rivelati i migliori» obiettò lei, quasi in lacrime. «Non ho mai fatto mancare il mio appoggio alla Shibusen, mai una volta e lo sai! Do e pretendo il massimo e non...»

«Non è abbastanza».

Lei si zittì, annichilita. Non aveva mai pensato che i suoi studenti o peggio, i suoi amici, potessero pensare questo di lei. Che fosse finita, e inutile. Abbattuta, si lasciò cadere sul divano, abbassando gli occhi a fissarsi smarrita la punta dei piedi.

«Capisco che possa essere dura, per te. Soprattutto ora che Soul è tornato. Ma a meno che tu non voglia chiedere a lui di riprendere il suo posto...»

«Mai!» fece lei, dura. «Preferirei lasciare la Shibusen, piuttosto».

«Ma è quello che succederà, se non ti deciderai a riconquistare il posto che ti spetta» disse Kid. «Perciò, ti prego... dai un occhiata a quei fascicoli».

Maka strinse le labbra, battendo i pugni sulle ginocchia.

«Non ce la faccio» disse «a fidarmi ancora un'altra volta... non...»

«Maka» fece Kid, posando le mani sulle sue. «Ti prego».

Lei lo fissò, con gli occhi velati di angoscia. Sbatté le palpebre e tra le ciglia splendette qualche debole lacrima, che lei proprio non si rassegnava a lasciar cadere.

«Non puoi almeno darmi qualcuno di decente?» singhiozzò. «Con quelle, al massimo posso entrare in risonanza al centro commerciale».

Kid rise, ma scosse la testa.

«È tutto quello che c'è» fece, triste. «Mi dispiace».

Maka alzò gli occhi verso il mucchio di fascicoli abbandonati sul tavolo. Le si spezzava il cuore all'idea di dover ricominciare tutto da capo, ancora una volta. Avvicinare qualcuno, aprirsi con lui... dare e ricevere fiducia...

Era tutto così assurdo.

Non sarà mai più come con lui.

Ma questo, l'aveva sempre saputo.

«Va bene, darò un'occhiata a quei fascicoli» disse, rassegnata. «Appena ne avrò il tempo».

Kid sorrise, sollevato.

«Me lo prometti?» fece. Lei chiuse gli occhi.

«Sì» disse. «Te lo prometto».

 

 

*

 

 

Anche quella mattina, quando Soul entrò nella sua classe, la trovò vuota.

Non che la cosa lo stupisse, o lo colpisse più di tanto. Sebbene fosse ritornato alla Shibusen da pochi giorni soltanto, la sua nomea di traditore sembrava averlo preceduto. Gli sguardi sospettosi degli studenti lo trafiggevano come piccole e fastidiose punture di insetto, colpendolo meschinamente alle spalle mentre si beveva un caffè al distributore automatico o mentre leggiucchiava qualcosa in biblioteca. Persino tipi come Stein o Sid sembravano del tutto intenzionati ad ignorarlo. Per non parlare dei suoi vecchi amici, che quando lo vedevano comparire in sala insegnanti prima si zittivano, poi fuggivano da ogni parte alla chetichella.

L'unica persona che oltre a lui sembrava aver una qualche ragione per presentarsi al suo corso, era il piccolo Daniel; come ogni mattina il bambino lo aspettava in classe, chino su un libro, le piccole manine sottili a sorreggere la testolina, leggermente reclinata di lato. Era solito leggere così. Proprio come sua madre. E proprio come lei, quando leggeva, sembrava ancora più piccolo e fragile di quanto non fosse in realtà. Ad alcuni accadeva quando dormivano; ad altri, invece, succedeva quando ridevano. Daniel e Maka mostravano la loro fragilità quando erano soli davanti a un libro. Forse perché entrambi si sentivano al sicuro solamente quando riuscivano a usare l'immaginazione e la fantasia, per creare una barriera invisibile dietro cui cercare una qualche sorta di rifugio dal continuo insorgere della realtà.

Sorpreso dai suoi stessi pensieri, Soul si ritrovò a fissare il bambino forse troppo intensamente. Aveva così tanto di Maka. Lo stesso viso affusolato, gli occhi verdi e profondi, le labbra rosee e sottili che si muovevano leggermente, ad accompagnare il suono muto che le parole si trascinavano dietro, nel flebile mormorio che le animava.

Scrollandosi di dosso una sensazione di sgradevole malinconia, Soul sbatté i libri sulla cattedra. Daniel, che non si era accorto dell'ingresso del suo professore, trasalì, alzando gli occhi e sbattendo confusamente le palpebre, come se si fosse appena ridestato da un sogno.

«Comodo» mormorò duro Soul, quando il bambino schizzò in piedi per salutare. «Dì, stai ancora leggendo?»

Daniel allungò un'occhiata al libro, che giaceva aperto sul banco. Annuì.

«Se continui a leggere così tanto, ti verranno gli occhi marci» fece Soul, secco. «Poi diventerai gobbo; e senza rendertene conto, ti ritroverai così curvo da camminare con le mani che ti strisciano per terra».

Il bambino deglutì, facendosi pallido.

«Ma la cosa peggiore, è che diventerai petulante e saccente come tua madre».

«Mamma non è così» fece Daniel, accigliandosi.

«Lo vedi?» esclamò Soul, ficcandosi le mani in tasca. «Già le assomigli. Mai che diate retta agli altri, voi due».

Daniel abbassò gli occhi, senza saper cosa ribattere. Soul restò a fissarlo. Quindi si voltò, seccato, aprendo un libro a caso.

«Non ti avevo detto di non tornare più?» disse, inarcando un sopracciglio. Alle sue spalle, Daniel alzò timidamente lo sguardo su di lui.

«Sì...» mormorò. «Ma...»

«E perché sei qui, allora?» riprese Soul, con fare inespressivo. «Se è tua madre a obbligarti, non avere paura. Le parlerò io».

«No».

Soul si voltò leggermente. «No, cosa?» disse, aggrottando.

«Non parli alla mamma. A me piace venire».

Soul si voltò a fronteggiarlo. Quando lo vide così determinato, non poté trattenersi dal sorridere.

«Così ti piace venire qui?» fece. «Mi chiedo perché. Tu non segui il corso di Black Star? Non vuoi forse diventare Shokunin?»

«Sì, ma...»

«Ma, ma, ma... se vuoi la mamma la trovi nell'aula in fondo al corridoio principale» ringhiò Soul. Daniel chinò il capo, intimidito.

«Mi scusi» mormorò.

Dispiaciuto, Soul strinse le labbra, passandosi una mano tra i capelli. Restò a fissarlo per qualche istante chiedendosi cosa dire, finché «ascolta, io non ho molto da insegnarti. Tutto quello che posso fare, è spiegarti cosa vuol dire essere una Buki, e mi sembra di averlo già fatto. Perciò...»

«Io voglio sapere come si diventa una Buki».

Soul lo fissò interdetto. Richiuse il libro con un colpo secco, posandolo lentamente sulla cattedra alle sue spalle.

«Vuoi sapere come si diventa una Buki?» fece. «E perché?»

«Una Buki si trasforma in un'arma per il proprio maestro» fece Daniel. Soul annuì, perplesso. «Mio papà dice che sarò un maestro, come lui e la mamma. Però...»

Soul socchiuse gli occhi. «Però?»

«Io... so fare questo».

Con un guizzo, il piccolo braccino di Daniel si trasformò in una splendida porzione di falce. La liscia superficie di acciaio rifletteva tutt'intorno lucenti bagliori azzurrognoli, che incendiarono come scintille gli occhi increduli e fissi di Soul. Senza parole, il ragazzo avvicinò una mano, sfiorando timidamente la lama per saggiarne la consistenza.

Era assolutamente perfetta, pensò. Non si trattava di una trasformazione da quattro soldi. La lama era salda, e forte; e trasudava persino una certa energia.

«Chi ti ha insegnato a farlo?» domandò. Daniel alzò le spalle, senza rispondere.

«Vuoi dire che hai imparato da solo?»

«Una volta ho visto mamma farlo» ammise. A quelle parole, Soul trasalì.

«Tua madre... lei riesce a trasformarsi?»

«Sì, ma quando lo fa è strana. Le viene un'espressione diversa e allora Crona mi dice sempre di andare in camera mia».

Soul socchiuse gli occhi. Con una smorfia, prese a fissare i vetri delle finestre, su cui la pioggia continuava ad abbattersi con insistenza.

Maka, ma che diavolo stai combinando?

Forse aveva fatto bene a tornare, pensò. Al di là di tutto, c'era ancora qualcosa di buono che poteva fare. Qualcosa per lei, per rimediare a ciò che le aveva fatto...

Sempre se ne avesse avuto il tempo.

Tic, tac... tic, tac...

«Senti, non mi va di restare qui» fece Soul, voltandosi all'improvviso verso Daniel. Il bambino lo guardò, perplesso. «Andiamo a bere una cioccolata, ti va? Poi ti spiegherò come si diventa una Buki».

Daniel annuì, contento. Era già fuori dall'aula, quando Soul si voltò ad osservare il proprio riflesso alla finestra.

Tic, tac... tic, tac... faceva la sua ombra, fissandolo con un ghigno. Tic, tac...

E con una smorfia, Soul uscì, spegnendo la luce alle sue spalle.

 

 

 

Nota dell'autore: grazie a tutti per le recensioni. (in ordine alfabetico: Cheche, Chrona, Maka evans, Rein94, Shi_Mei) Siete stati davvero tanti a farmi i complimenti e sono davvero lieto che la storia vi piaccia! Scrivere è davvero bellissimo, ma la cosa ancora più bella è sapere che ciò che si ha scritto ha regalato qualche emozione a chi ha letto. Perciò, spero che ciò che scriverò possa continuare a emozionarvi e interessarvi; e spero che tutti continuerete, avendone voglia si intende, a suggerirmi ciò che vi piace e ciò che non vi piace di questa fan fiction, in modo che io possa migliorarmi ogni volta con il vostro aiuto.

Ancora una volta grazie, davvero, a tutti voi.

 

A presto,

Puglio

 

Ps: purtroppo, non ho ancora avuto modo di leggere il manga di Soul Eater... perciò mi posso rifare solo all'anime. Se nel corso della storia doveste riscontrare qualche imprecisione o qualche punto risultasse in contrasto con quanto descritto nel fumetto (a livello di personaggi, luoghi, caratteristiche varie), vi prego di farmelo notare, in modo che possa correggere.

 

Grazie!

 

 

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Capitolo 5
*** Intermezzo. Ancora una volta, sarà la nostra paura a dividerci? ***


«Smettila. Guarda che non è mica un accendino».

Soul lanciò a Daniel un'occhiata storta. Non ce la faceva più. Erano dieci minuti che quel bambino continuava a trasformarsi il braccio a ripetizione. Ancora un po', e sarebbe impazzito.

Aveva avuto una pessima idea a volersi intrattenere con quel piccolo petulante. Dopo cinque minuti, com'era ovvio aspettarsi, non aveva più trovato nulla di sensato da dirgli e il discorso si era semplicemente esaurito. Proprio come un torrente che sprofondi all'improvviso nel deserto.

Innervosito, Soul rivolse un'occhiata nemmeno troppo nascosta al proprio orologio. Incredibile, era solo un quarto d'ora che si trovavano seduti insieme su quella panchina, e già avrebbe avuto voglia di darsela a gambe.

Daniel alzò timidamente gli occhi sul volto tirato di Soul. Sporse le labbra, in silenzio, quindi riportò il braccio alla sua forma consueta.

«Mi annoio» lamentò.

Soul grugnì qualcosa di incomprensibile. Cosa poteva interessare a un bambino di quell'età? Per quanto provasse a pensarci, non ne aveva la minima idea.

«Vuoi un altro gelato?» disse, dopo un attimo di riflessione. Daniel nicchiò.

«Allora si può sapere che vuoi?»

«Tu come hai scoperto che potevi trasformarti?»

«Ti ho già detto che non mi va di parlarne» fece Soul, piuttosto rudemente. Si appoggiò allo schienale della panchina, frugandosi nelle tasche interne del suo spelacchiato giubbotto di pelle. Estrasse un pacchetto sgualcito di sigarette, praticamente intatto, da cui ne sfilò una, portandosela alle labbra. Daniel lo fissava assorto, senza perdersi un solo suo movimento.

«Che hai da guardare?»

«Mamma non vuole che stia dove si fumi».

«Tua madre è intelligente. Si preoccupa per te» biascicò Soul. Avvicinò l'accendino alla sigaretta, schermandolo con la mano. Ma un'ultima occhiata al viso assorto di Daniel lo fece improvvisamente desistere.

«Lasciamo perdere» mormorò infastidito, sfilandosi la sigaretta dalle labbra. Daniel distolse lo sguardo, spostandolo sulla strada che scorreva davanti al portico della caffetteria. Da un po' aveva smesso di piovere e un timido sole si affacciava ora tra le nuvole esauste. Sul selciato, la pioggia aveva disteso come un velo di cristallo sottile, che splendeva tremolante ai raggi caldi del sole. Un leggero alito di vento si sollevò dolcemente, spettinando per un istante le chiome screziate d'oro e di ruggine degli alberi lungo la strada. Ancora madide di pioggia, le foglie tremarono, luccicando allegre come tante piccole gemme dai bagliori accecanti.

Alcuni ragazzi avevano appena raggiunto il campetto in cemento che si trovava dall'altro lato della strada. Se ne stavano a confabulare in circolo, guardandosi attorno con aria perplessa. Uno di loro reggeva una palla, che talvolta faceva rimbalzare senza preavviso. Sembravano discutere se fosse il caso di giocare ugualmente, viste le condizioni del campo.

«Ti andrebbe di raggiungerli?» fece Soul all'improvviso, la sigaretta ancora spenta tra le dita. Aveva notato l'attenzione con cui il bambino osservava quei ragazzi. A quelle parole, Daniel trasalì. Chinò la testa, imbarazzato, lasciando penzolare le gambe dalla panchina.

«Non lo so» fece. Soul inarcò un sopracciglio.

«Che vuol dire non lo so? O ne hai voglia, o non ce l'hai».

«Allora ne ho voglia» rispose Daniel.

«Allora, vai».

Daniel allungò lo sguardo su Soul, fissandolo interrogativamente. Quindi osservò a lungo i ragazzi nel campo, che sembravano aver deciso di giocare, nonostante tutto.

«Non li conosco» mormorò quasi scusandosi, le guance leggermente arrossate.

«E allora?»

«E poi sono più grandi di me».

«Quante balle» sbuffò Soul. La sigaretta ora gli penzolava inerte tra le labbra, mentre stringeva l'accendino nella mano. «Vai là e chiedi se puoi giocare. Sono in numero dispari, vedrai che ti dicono di sì».

«E se mi dicono di no?»

«In quel caso, torna pure qui ad annoiarti».

Daniel si strinse nelle spalle.

«Perché non mi vuoi dire come sei diventato una Buki?»

«Perché non ne ho voglia» ribatté Soul, «è molto semplice, no?».

Il discorso si arenò nuovamente. Daniel continuava a far oscillare in silenzio le piccole gambe sottili, mettendo a dura prova la pazienza di Soul. Esasperato, lui si tirò via la sigaretta dalle labbra, cacciandola in tasca insieme all'accendino.

«Senti, se te lo dico poi ci vai da quei ragazzi?» sbottò. Daniel annuì. Con un sospiro rassegnato, Soul si strinse nelle spalle.

«Ti ho spiegato che per diventare una Buki devi ereditare dei poteri di trasformazione dalla tua famiglia. Non tutte le persone possono essere Buki. Solo se appartieni a una famiglia che ha alle spalle una tradizione di quel genere, puoi diventarlo. Mi segui?»

Daniel annuì.

«La mia famiglia era così» riprese Soul. «Una famiglia con una lunga tradizione di disciplina Buki. Vuoi sapere perché sono diventato un'arma? La verità è che non c'è nessuna storia da raccontare. Niente di sensazionale, o di affascinante. Sono diventato una Buki perché tutti nella mia famiglia lo erano. Tutto qui. Fin da quando sono stato abbastanza grande da capirlo, ho sempre saputo quale sarebbe stato il mio futuro; finché un bel giorno, perché così doveva essere, i miei mi hanno mandato alla Shibusen, per seguire le orme di mio fratello e di mio padre. Fine della storia».

Soul si rigirò la sigaretta tra le dita, fissandola assorto. Daniel aggrottò le piccole sopracciglia nere, fissandolo a lungo senza dire nulla.

«Quindi, non hai scelto tu di diventare un'arma» commentò alla fine. A quelle parole, Soul ridacchiò, pestando un mozzicone abbandonato con la punta della scarpa.

«Nella mia famiglia non c'era molta possibilità di scelta» disse, con un velo di amarezza. Daniel corrugò il viso.

«E come mai io posso trasformarmi?»

«Beh, tuo nonno materno è una Buki. Probabilmente, hai preso da lui. Così come anche tua madre, in parte, ha preso da lui. È normale che riusciate a trasformarvi, anche se non completamente».

Daniel tacque, come riflettendo su quanto Soul gli aveva appena detto. Quindi trasse un respiro, sollevando le sue spallucce esili.

«Io non so cosa voglio fare» confessò. «Se essere una Buki o no».

Soul sospirò.

«Essere una Buki è una fregatura» mormorò. «Non ne vale la pena»

«Ma tu eri la Buki della mamma, vero? Perché non lo sei più? Lei non ti piaceva?»

Soul impallidì, mordendosi le labbra. Teneva gli occhi fissi nel vuoto, come a fissare un punto lontano e indistinto.

«Non mi hai detto che una Buki serve fedelmente il suo maestro per sempre?» insistette Daniel. Soul spostò lentamente gli occhi su di lui, serrando i muscoli del volto.

«È stata lei a dirtelo?» fece. «A dirti... di noi?»

Daniel scrollò le spalle, e i suoi occhi si fecero tristi.

«Alla mamma non piace che io le chieda di te. Lei non vuole. L'ho fatto una volta, ma poi è diventata triste come quando si trasforma».

Soul annuì. «Già, posso capirla» fece. A quelle parole Daniel si voltò a guardarlo, gli occhi accesi da un improvviso furore.

«Sei stato tu a tradire la mamma» esclamò. «Per colpa tua, lei ora non lavora più e per questo litiga sempre con papà. Li ho sentiti anche l'altro giorno. Lui vuole che la mamma trovi un'altra Buki, ma lei dice che non vuole, perché dopo di te non si fida più di nessuno... e così continua a trasformarsi, perché preferisce fare tutto da sola. Solo che io ho paura quando lei si trasforma, perché non sembra più la mia mamma. Allora ho pensato che, forse, se riesco a diventare una Buki, magari lei vorrà usarmi...»

«Ed è per questo che vuoi essere una Buki?» chiese Soul, sorpreso. «Tu in realtà non mi sopporti, visto quello che ho fatto a tua madre, non è così? Ma continui a venire a lezione perché vuoi diventare la sua arma, in modo da non costringerla più a trasformarsi...»

Daniel smise di dondolare le gambe. Continuò a fissarsi i piedi, ora immobili, con il volto teso e assorto.

«Che sciocchezza» mormorò Soul. Entrambi restarono a lungo in silenzio, osservando i volti ignari della gente sfilare impassibili davanti a loro. Alla fine, Soul distolse lo sguardo, passandosi una mano tra i bianchi capelli arruffati.

«Senti, mi dispiace per tua madre» sussurrò. «Puoi non credermi, ma è vero quando ti dico che non volevo farle del male, andandomene».

«Allora, perché l'hai fatto?»

«Perché non potevo più restare» ribatté Soul, in modo definitivo. Poi, improvvisamente, scosse la testa, rabbonendosi.

«Ma sì, che ne sai tu. In fondo...»

sei uguale a lei. In tutto.

Daniel si morse le labbra, intrecciando le mani in grembo.

«Mi aiuterai lo stesso a diventare la Buki della mamma?» chiese. Soul sorrise. Scosse la testa.

«No» fece. Daniel lo fissò, scuro in volto.

«Perché?»

«Perché tanto tua madre non ti vorrebbe mai con sé. Non potrebbe mai metterti in pericolo, lo capisci?»

«Sì, ma...»

«Ad ogni combattimento, lei avrebbe paura per te. Affronterebbe ogni attacco con il terrore che tu possa rimanere ferito, e non riuscirebbe ad utilizzarti per difendersi. Rischierebbe in continuazione la vita per te, per la sua arma. E questo non è possibile. È l'arma che deve essere pronta a morire per il suo maestro, non il contrario. E tua madre tutto questo lo sa benissimo».

Daniel si ammutolì, cupo. Quindi «e tu eri pronto a morire per la mamma?» mormorò. Soul abbassò gli occhi sul volto di Daniel. Per un istante, un lampo improvviso balenò in essi, facendoli risplendere vividi come due rubini. Poi passò.

«Senti, non è che potresti levarti dalle scatole e andare a giocare, adesso?» fece, ammiccando in direzione dei ragazzi che correvano nel campetto. «Che ne dici? Io ho rispettato la mia parte del patto. Ora tocca a te».

«Ma...»

«Niente ma» ribatté Soul, duro. «Fila».

Daniel obbedì, scendendo dalla panchina in silenzio. Soul lo osservò correre fino al campetto, dove il bambino se ne stette per un po' defilato a guardare quei ragazzi passarsi il pallone tra loro. Lo vide che si voltava a cercarlo, indeciso, quasi si aspettasse da lui un gesto di approvazione o di incoraggiamento. Con un cenno stanco della mano, Soul lo incitò a farsi avanti; e a quel punto, Daniel mise un piede nel campo, avvicinandosi timidamente a uno del gruppo. Il gioco si interruppe per un attimo. La palla rimbalzò a terra e per qualche ragione finì tra le mani di Daniel. Un secondo dopo, stava già giocando con gli altri.

Visto, com'è facile? pensò Soul, con un debole sorriso. Solo allora estrasse nuovamente la sigaretta, portandosela alle labbra. La accese e trasse una profonda boccata, reclinando la testa e chiudendo stancamente gli occhi.

E tu, sei pronto a morire per lei?

Aprì gli occhi, espirando lentamente il fumo. Il riverbero del sole si era fatto accecante. Cominciava a fare piuttosto caldo, nonostante fosse Ottobre inoltrato. Con un gesto annoiato, Soul spense la sigaretta, gettandola nel vaso portacenere lì a fianco.

Non aveva senso rispondere a quella domanda. Che fosse lui a farsela, o che fosse quella voce che lo tormentava da così tanto tempo, la risposta era una sola, ed era chiara.

Avrebbe fatto tutto quello che era necessario.

In fondo, era pur sempre una Buki.

 

 

*

 

 

Svoltato l'angolo del corridoio sotterraneo, Sid si ritrovò faccia a faccia con Stein. Per un istante i due si guardarono senza dir nulla. Quindi Stein si fece da parte, lasciando che Sid prendesse posto al suo fianco.

«Vai di sopra anche tu?» chiese Sid, vagamente. Stein non rispose, non subito. Dopo qualche istante mugugnò qualcosa, con un tono di voce indefinibile.

«Immagino sia per lo stesso motivo per cui mi ha chiamato» continuò Sid. Stein estrasse una mano dalla tasca del camice e con due dita si sfilò la sigaretta dalle labbra.

«Stavo per dire la stessa cosa» affermò. Sorrise. Sid grugnì.

«Non mi è mai piaciuto questo genere di cose. Che ci vuoi fare, ero fatto così».

Stein annuì, inarcando un sopracciglio. A forza di parlare e di stare in silenzio, avevano raggiunto l'ufficio del sommo Shinigami. Varcarono una ad una le ghigliottine che conducevano al Dio della morte, finché non lo trovarono come di consueto che dava le spalle all'ingresso, fermo davanti al suo enorme specchio.

«Eccoci, sommo Shinigami».

Shinigami si volse, emettendo un debole lamento.

«Stein, Sid... che piacere. Grazie per essere venuti così presto».

Spirit fece un passo avanti, andando a raggiungere i due che erano appena entrati.

«Gli altri?» fece, serio.

«Ho incontrato Nygus e Tsubaki poco fa» fece Sid. «Ho detto loro di avvertire gli altri».

«Immagino che saranno qui a momenti» commentò Stein, con un leggero colpo di tosse. «Non è che possiamo sapere con più esattezza qual è il problema?»

Spirit si volse verso Shinigami, che continuava a starsene immobile, con aria preoccupata.

«Sembra che sia sparita una ragazza. Una studentessa del quinto anno» disse Spirit, torvo. Stein si volse con fare perplesso a scrutare il volto teso di Sid.

«Quando?»

«I suoi amici ne hanno denunciato la scomparsa proprio oggi. È da due giorni che non ne hanno notizia. L'ultima volta che l'hanno vista, risale a due sere fa, quando erano insieme in un pub. Dopo che si sono salutati e che lei se n'è andata da sola, la ragazza è come scomparsa nel vuoto».

«Qualche idea?» chiese Sid. Spirit aggrondò.

«Per il momento, nessuna» rispose Spirit. «Ma che in città accadano fatti del genere, non è per nulla rassicurante».

Stein scrollò le spalle, reclinando la testa di lato. «E voi sospettate che...»

«Non è da escludere».

«Ah...»

Nessuno fiatò. Quindi Stein trasse un profondo sospiro.

«Se le cose stanno così» fece, rigirando la grossa vite confitta nella sua testa «direi proprio che abbiamo un problema».

 

 

*

 

 

«Ehi tu...»

Soul strabuzzò gli occhi. Per un attimo, stentò a riconoscere ciò che aveva intorno, perso com'era nei propri pensieri.

«Non hai sentito una parola di quello che ti ho detto, vero?»

Lui trangugiò in un sorso il vino che ancora gli restava nel bicchiere. Liz, seduta al suo fianco sul divano, allungò le gambe nude, appoggiandogliele in grembo. Lui restò a guardarla passivamente, senza scomporsi più di tanto.

«Ti sembra carino ignorarmi così?» si lamentò lei, scuotendo la sua massa di capelli biondi, che ondeggiarono provocanti davanti al suo volto. «Meriteresti una punizione».

«Hai ragione, scusami» fece lui. Liz restò a guardarlo, le labbra appoggiate al bordo del bicchiere.

«Ehi, si può sapere che ti succede?» chiese, sinceramente preoccupata. Quando parlò, la voce risuonò dentro al calice, uscendole leggermente distorta. Vedendo che lui non dava segno di aver inteso, lo punzecchiò sulla coscia con la punta del piede.

«Dico a te, sai?»

Soul osservò l'alone che il vino aveva lasciato sulle pareti del suo bicchiere. Una sottile linea rossastra, densa e cupa come sangue, che colava fino a raccogliersi sul fondo. Per un attimo gli parve quasi di annegare in quelle poche gocce, tanto il loro addensarsi lo trascinava lento verso le profondità più insondabili della propria anima.

«Sei gentile con me» disse lui. «Anche se sinceramente non ho idea del perché».

Liz sollevò leggermente il capo, fissandolo con curiosità. Quindi, sorrise.

«La verità è che mi piaci».

Lui la guardò. Stava ancora sorridendo, e aveva le guance leggermente arrossate. «Non mi capita spesso di dire una cosa simile ad un uomo, sai?» confessò.

Lui si fece teso.

«Liz, non voglio mentirti, io...»

«No, fermati».

Lei posò il bicchiere per terra, raccogliendo le gambe e mettendosi a guardarlo con intensità. «Sinceramente, non potresti prendere la cosa con un po' più di leggerezza?» disse. «Potremmo divertirci, io e te, divertirci un sacco. E guarda che non ti sto mica chiedendo di sposarmi. Hai capito?»

«È solo questo, quello che vuoi?» le fece lui, fissandola dritta in volto. «Qualcuno con cui passare il tempo?»

Sorpresa dal suo tono duro, Liz abbassò gli occhi, per poi tornare a guardarlo con rinnovata energia.

«No, mi sembra ovvio» fece, con un velo di amarezza nella voce. «Ma non vedo cos'altro possiamo avere, adesso, noi due».

Lui la ascoltò in silenzio. Continuavano a guardarsi, ma nessuno sembrava aver bisogno di aggiungere qualcosa a quanto era appena stato detto. In fin dei conti, era una verità che bastava a se stessa.

«Siamo due anime solitarie, noi» fece lei, con l'aria scherzosa di chi la sa lunga. «Vaghiamo per il mondo alla ricerca di dio solo sa cosa. E così finiamo sempre e comunque allo stesso posto, ogni volta un po' più soli».

Lui fece una smorfia.

«Stai cercando di commuovermi?»

Liz rise. Una risata sottile e delicata, che lui trovò molto bella.

«Forse sto cercando semplicemente di spiegarmi ciò che non so spiegare. E cioè perché, pur avendo tutto, in realtà non ho niente di ciò che voglio».

«E cos'è che vuoi?» le chiese Soul accarezzandole dolcemente il collo del piede. Lei appoggiò la testa alla spalliera del divano, sporgendo le labbra e lasciando che gli occhi si spostassero su ciò che aveva davanti e che solo lei riusciva a vedere.

«Non saprei dirlo, con esattezza» disse, quasi in un sussurro. «Ma continuo a sperare che quando lo troverò, allora saprò riconoscerlo. O che almeno mi aiuti a farlo».

Lui tacque. Restò a guardare assorto il volto di lei, così bello alla luce calda delle candele che aveva sparso un po' ovunque, attorno a loro. Con la mano risalì lungo la linea sottile della sua gamba e lei fremette. Chiuse gli occhi, sorpresa da quel tocco così dolce e prolungato.

«Sei un po' come me, tu» fece «sempre solo, con l'aria di saper bastare a te stesso. Ma a chi vogliamo darla a bere? Senza qualcuno a fianco, non siamo che due poveri scemi, che non sanno dove sbattere la testa. Era normale che finissimo insieme».

«Davvero sei così?» fece lui. Lei scrollò le spalle.

«Credi di essere l'unico a cui manca qualcosa?» gli disse. «In tutto questo tempo, ho visto gli altri crescere, e farsi una vita. Qualcuno ha avuto dei figli, qualcuno si è sposato... io sono l'unica che non è cambiata. In dieci anni, otto da quando sei partito, io ho continuato ad essere la solita vecchia Elizabeth, e cioè la sorella di Patty e l'arma di Kid. Ma quando torno a casa, la sera, tutto questo resta fuori da quella stramaledettissima porta. E qui dentro non c'è niente e nessuno che stia ad aspettarmi e che quando mi veda entrare dica ''ehi, sei a casa'' o ''tesoro, come stai?'' Ogni giorno io lo passo ad ascoltare quello che gli altri hanno da raccontare, e da dire. I loro problemi, le loro ansie o le piccole cose che li rendono felici. Io ascolto sempre, con la consapevolezza che anche il giorno seguente sarò lì ad ascoltarli senza aver fatto un solo passo in avanti nella vita. Ma sono contenta quando loro sono felici, così come divento triste quando non lo sono. Però, ti confesso che certe volte vorrei avere anche io qualcosa da dire. Vorrei vivere quello che vivono loro, e vedere come si sta da quella parte del mondo. Insomma, forse tutto ciò che desidero, è avere una prospettiva tutta mia. La vita secondo Elizabeth. Capisci cosa voglio dire?»

«La vita secondo Elizabeth... suona bene» fece Soul, ridendo. Liz rise a sua volta, e gli occhi le si ridussero a due sottili e luminose fessure.

«Già, una cosa del genere» fece.

Soul annuì, calmando a poco a poco la sua risata. Liz lo guardò a lungo, arricciandosi un ciuffo di capelli attorno a un dito.

«Secondo te, io spavento gli uomini?» disse, tutto ad un tratto. Soul trasalì.

«Come?»

«Una volta Marie mi ha detto che secondo lei io spavento gli uomini. Credi che sia così? Cioè, che in qualche modo io possa fare qualcosa per cui...»

«Non essere stupida» tagliò corto lui. «Non c'è niente che non va, in te».

Lei si ammutolì, pensierosa. Quindi «tu mi spaventi» mormorò. Soul la fissò, triste. Al che, lei chiuse gli occhi.

«Però, mi piacciono le tue carezze» mormorò.

Con un sospiro, Liz si avvicinò a lui, sfilandogli il bicchiere ormai vuoto di mano, quindi gli montò cavalcioni in grembo. Sorpreso, ma nemmeno tanto, Soul sollevò la testa, fissandola dritta in volto. Respirò il suo profumo, lasciandosi avvolgere dal corpo caldo e rassicurante di lei. Lasciò che lei esplorasse il suo corpo con le labbra, fremendo dalla dolcezza che Liz imprimeva in ogni suo bacio.

Era quello, in fondo, ciò che voleva anche lui? Qualcuno che lo amasse, qualcuno che lo stringesse, facendogli perdere il senso di ciò che era stata la sua vita fino a quel momento. E smettere così di pensare, anche solo per pochi istanti...

No.

Liz si sbagliava. Non erano uguali, loro due. Lei era diversa. Poteva avere una vita, e l'avrebbe avuta se solo avesse smesso di piangersi addosso. A lui, invece, non interessava nulla di prospettive e di progetti a lungo termine, perché non poteva sperare in qualcosa del genere. Tutto ciò che desiderava ogni giorno, da quando apriva gli occhi fino a quando tornava faticosamente a richiuderli, era smettere di pensare a lei, e trovare ristoro dal tormento che il suo volto esercitava sul suo cuore, e dalla rabbia che nasceva in lui a causa del risentimento per la direzione che aveva preso la sua vita.

Eppure, era colpa sua. Poteva prendersela solo con se stesso, se ora loro due erano così lontani che lui non avrebbe potuto sfiorarla mai più né avvicinarla, in un qualche modo, prima...

Prima di vederla svanire, come tutto il resto.

«Maka...» mormorò. Liz sollevò leggermente il volto. Lo fissò intensamente; quindi, con tenerezza, lo baciò.

«Se ti può aiutare, pensa che sia lei» disse, accarezzandogli il viso. «Però non chiedermi altro». Lui chiuse gli occhi, e una lacrima gli sfuggì inconsapevolmente lungo la guancia. Liz se ne accorse e la baciò via, stringendolo a sé.

«Povero stupido...» gli disse. Lui la strinse, premendo il volto contro il suo petto e baciandola poi con passione.

Liz ora si muoveva con audacia. Soul poteva sentire le sue mani frugare ansiose sotto i vestiti, trascinandolo in un vortice indistinto di sensazioni che cozzavano l'una con l'altra nella sua testa stanca e appesantita. In fondo, perché non doveva farlo? Perché non doveva lasciarsi andare e accettare tutto quello che Liz gli offriva come fosse un semplice dono, anzi, uno scambio? Un modo come un altro per affogare ogni sensazione e ogni preoccupazione.

Lei ha fatto lo stesso. Magari anche adesso...

L'immagine dei corpi nudi di Kid e di Maka che si intrecciavano in preda alla passione si affacciò alla sua mente, turbandolo. Una rabbia sorda e segreta stava già sorgendo in lui, sussurrandogli con una voce opprimente cose che non voleva sentire. Lui impallidì, cercando di svuotare completamente la sua testa da quei pensieri. Liz era lì, sopra di lui, ed era uno schianto. Pronta a seguirlo in qualsiasi cosa lui le avesse proposto. Lo capiva da come si muoveva, da come lo cercava. Si concentrò su di lei. Per un attimo, la sua immaginazione si animò all'idea di quello che insieme avrebbero potuto fare. Non sarebbe stato niente male.

Fu allora che abbandonò ogni resistenza. Le sue mani cominciarono a scivolare sul corpo di lei, libere finalmente di seguire l'eccitazione che le animava in modo sempre crescente. Liz rispose prontamente a quelle carezze, avvicinando le labbra a quelle di Soul e passandovi sopra delicatamente la punta della lingua.

«Portami dove vuoi, ma fallo adesso» mormorò lei, cercando i suoi occhi. «O giuro che non rispondo di me...»

Lui fece per sollevarla e lei gli si aggrappò, cingendolo con le gambe e le braccia. Soul stava per distenderla sul tappeto, quando il campanello suonò, gettando su entrambi un velo di gelo. Con espressione mortificata, Liz vide la passione spegnersi improvvisamente sul volto di lui. E capì che era tutto finito.

«Meglio aprire» fece Soul dopo un attimo, con un sorriso conciliante ma spento. Lei si passò una mano tra i lunghi capelli biondi, alzando gli occhi al cielo. Con un profondo sospiro, lo osservò mentre si separava da lei, lasciandola sola su quel tappeto enorme e ruvido.

Vaffanculo, cazzo.

Profondamente seccata, si alzò, dirigendosi con furia alla porta. La sua delusione non fece che aumentare, quando sulla soglia si ritrovò Patty e Kid. Le uniche due persone che non avrebbe mai voluto vedere in un momento come quello.

«Ciao, Liz» la salutò freddamente Kid, come di consueto. «Vestiti in fretta. Dobbiamo recarci al più presto dal sommo...»

«Ma quello è Soul!» gridò Patty, agitando un braccio verso di lui e mettendosi a saltellare tutta allegra. Kid si affacciò alla porta, spostando sorpreso gli occhi all'interno del salotto di Liz. Soul se ne stava proprio là, ritto in piedi, la camicia slacciata e fuori dai pantaloni, i capelli arruffati, le mani in tasca. Con un ghigno, Kid lo vide rivolgere loro una specie di saluto.

«Piacere di rivederti, Patty... Kid...» disse, con un cenno tranquillo del capo. Liz impallidì, notando l'espressione improvvisamente torva di Kid. Patty era troppo occupata a ridere per accorgersi di quanto lui ora fissasse la sorella con un misto di disapprovazione e rabbia.

«Interessante» fece Kid. «Vedo che ti sei sistemato in fretta» ringhiò, spostando gli occhi su quelli ombrosi di Soul. Per tutta risposta, Soul reclinò il capo, senza dire nulla. Offeso da quello che interpretò come un gesto di assoluta arroganza, Kid serrò le labbra, lanciando a Liz uno sguardo di fuoco.

«Ti do un minuto per vestirti. Vedi di non farmi perdere altro tempo».

«Scusa» fece lei, stringendosi mesta nella camicia del pigiama «arrivo subito».

Liz si volse mortificata in direzione di Soul, che le rivolse un debole sorriso. Senza aggiungere nulla, lui raccattò la giacca, infilandosi poi alla bell'e meglio la camicia nei pantaloni. Quindi uscì, sfilando in silenzio davanti al volto indurito di Kid.

«Vale anche per te, Evans» gli ringhiò dietro Kid, sovrastando l'eco delle risate di Patty. «Devi venire anche tu».

Soul non si voltò neppure, limitandosi ad alzare una mano. Quindi lasciò il vialetto e svoltò lungo la strada, alzandosi il bavero della giacca attorno al collo e procedendo chino, le mani in tasca, avvolto da una notte che calava sempre più buia.

 

 

 

Grazie a tutti voi che avete recensito l'ultimo capitolo (CheChe, GisiSuperchicca, Maka evans, mirtaokkiblu, Rein94, Shi_Mei, vi cito sempre in ordine alfabetico). Sono felicissimo che vi sia piaciuto. Rispondendo a CheChe, certo che sono felice! :) ma ciò che mi rende più felice ancora è avere lettori come voi. Grazie mille per tutti i complimenti e gli incoraggiamenti che non mi fate mai mancare.

Spero di cuore che anche questo capitolo possa piacervi quanto gli altri.

 

A presto,

Puglio

 

 

 



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Capitolo 6
*** Allo specchio! La colpa è in ciò che non ci siamo mai detti? Sei tu che mi hai reso ciò che ora sono? ***


Maka socchiuse la porta, spingendola piano. Nella penombra della stanzetta, il volto addormentato di Daniel spuntava tranquillo dalle coperte, i neri capelli striati di bianco che gli ricadevano confusi sulle piccole tempie e sul cuscino. Con un sorriso deliziato, Maka entrò in punta di piedi, piegandosi sul lettino per salutarlo con una carezza.

«Mamma?»

Maka sorrise. Si piegò sulle ginocchia, avvicinandosi con il volto a quello di lui. Daniel socchiuse gli occhi, infastidito dalla luce che filtrava dalla porta della camera, leggermente accostata. Una pallida smorfia gli increspò le labbra sottili mentre si stiracchiava, avvicinandosi al bordo del letto e rannicchiandosi su se stesso. Tutto avvolto nelle coperte, si protendeva verso di lei, in attesa di quel bacio che Maka gli posò dolcemente sulla fronte.

«Non volevo svegliarti» gli sussurrò lei, accarezzando il suo profilo con la mano. Daniel nicchiò, deciso.

«Non fa niente. Non dormivo. Aspettavo te e papà».

«Perché? Qualcosa non va?»

Lui fece segno di no, assumendo un'espressione seria e concentrata. Fissò con gli occhietti ben aperti il volto della madre e il profilo scuro del padre, che si stagliava leggermente discosto, ai piedi del letto. Kid fece un passo avanti e i lineamenti del suo viso emersero improvvisamente dall'ombra. Sorrideva.

«Avevi paura?» gli chiese lui, sedendosi sul lettino. Daniel fissò entrambi i suoi genitori interrogativamente, quindi annuì.

«Dicono che c'è un mostro, in città» disse, vagamente. Maka si irrigidì per un istante. Si trattenne dal voltarsi a guardare Kid, anche se sentiva perfettamente il suo sguardo sulla nuca. Cercò di mostrarsi il più possibile tranquilla.

«Chi ti ha detto una cosa del genere?» disse, accarezzando il faccino angosciato del figlio. Lui abbassò gli occhi, incerto se rispondere oppure no.

«Ho sentito Yuko che ne parlava al telefono. Diceva che c'è un...» il suo viso si piegò in una smorfia corrucciata «... non ho capito cosa, però diceva che mangia le persone e che non si può uscire di notte. Anche lei aveva paura».

Maka non poté trattenersi dal sorridere. Persino Kid, alle sue spalle, rise.

«Non devi preoccuparti» lo rincuorò Maka «al momento non c'è nulla di sicuro. E poi, sia io che papà sappiamo come combattere contro mostri come quello. È il nostro lavoro. Non lasceremo che ti faccia del male, puoi stare tranquillo».

«Io non ho paura di lui...» fece Daniel.

«E allora, di cosa hai paura?»

Daniel tese le braccia e si aggrappò in silenzio al collo di Maka. Sorpresa, lei lo trasse a sé, lasciando che le sue manine le carezzassero le spalle e la schiena, percorrendola tutta come alla ricerca di un contatto rassicurante con il suo corpo. Sembrava quasi che con quelle carezze lui volesse imprimere nelle proprie mani il ricordo di lei, e la sensazione che gli dava toccarla.

Il bimbo premette il volto contro quello della madre, nascondendo il faccino tra i suoi capelli biondi aspirandone il profumo. Non piangeva; ma per qualche ragione che Maka non comprendeva, non voleva più separarsi da lei. Sopraffatta dall'emozione di quel contatto così delicato e improvviso, e dalla tenerezza che le suscitava il corpicino di suo figlio così intensamente avvinghiato al suo, Maka trasalì.

«Hai paura per me?» gli chiese sorpresa, stringendolo forte. Lui fece cenno di sì, dandole un bacio. «Ma perché, sciocchino?»

Daniel sollevò il volto, fissandola contrariato.

«Perché non hai una Buki. E se incontri il mostro non puoi combattere».

Maka si irrigidì. Poteva quasi sentire i pensieri di Kid, in quel momento fermo dietro di lei. Sicuramente stava pensando che Daniel avesse ragione. La cosa la infastidì.

«Non devi pensare a una cosa simile» disse, con fare sicuro ma dolce. «Non mi accadrà nulla».

«Ma se...»

«Te lo prometto».

Daniel sembrò pensarci sopra un attimo, poco convinto. Alla fine, si allontanò dalla madre, mettendosi a sedere e fissando Maka dritto negli occhi.

«Mamma, voglio diventare una Buki».

Un velo di gelo cadde sulla stanza. Maka sentì chiaramente il respiro di Kid fermarsi per un istante. Con la coda dell'occhio lo vide allontanarsi di un passo per poi uscire in silenzio.

«Ne riparliamo un'altra volta, va bene?» fece lei, cercando di mostrarsi conciliante. «Adesso è tardi, ed è meglio se torni a dormire».

Daniel accettò la cosa senza discutere. Si rintanò sotto le coperte che Maka gli rimboccò con cura, prima di salutarlo con un ultimo bacio. Quindi lei uscì, trattenendosi solo un ultimo istante sulla soglia, come se una forza più grande di lei le imponesse di restare accanto a quell'esserino che amava più di se stessa.

«Buonanotte» disse. La risposta tranquilla di Daniel le arrivò come un sussurro, avvolgendole il cuore e riscaldandolo, improvvisamente. Consapevole della responsabilità che le pesava addosso, Maka chinò la testa. E affranta, richiuse la porta.

Nel salotto, Crona parlava a bassa voce con Yuko, la studentessa che Maka era solita chiamare quando aveva bisogno di una babysitter. Kid sedeva pensieroso in disparte. Yuko sembrava decisamente preoccupata e chiedeva notizie sul Kishin che sembrava aggirarsi in città.

«... io non so... non credo che dovrei parlarne...» balbettava Crona, che lanciò un'occhiata supplichevole a Maka non appena si accorse di lei. La ragazza, ancora appoggiata alla porta della camera, sospirò, facendosi avanti. Prese la borsetta dal tavolo e vi frugò dentro, estraendo un portafoglio. Lo aprì, prendendo alcune banconote che porse poi a Yuko.

«Ecco» disse, con un sorriso un po' stanco «è qualcosa più del solito, visto che ti ho chiamato così all'improvviso».

Yuko accettò il denaro con un inchino rispettoso. Ma quando sollevò nuovamente il viso, la preoccupazione di lasciare quella casa le si lesse chiaramente in volto, perché continuava a lanciare occhiate smarrite alla porta.

«Professoressa, io... mi chiedevo...»

«Sì, forse è meglio se stanotte ti fermi a dormire qui» convenne Maka, intuendo quello che stava per chiederle. La ragazza sorrise, improvvisamente sollevata.

«Davvero? Non le recherò disturbo?»

«Certo che no. Però dovrai accontentarti del divano»

Yuko assicurò che andava benissimo.

«In questo caso, avverti pure i tuoi. Io vado subito a prenderti lenzuola e coperte».

Maka si allontanò per recuperare il necessario nella propria camera. Kid, senza dire una parola, attese che sparisse oltre la porta, quindi si alzò dal divano e le mosse dietro. La trovò china davanti all'armadio, che frugava per tirare fuori alcune lenzuola pulite e una coperta. Quando Maka si girò, lo vide fermo dietro di lei. Gli rivolse un'occhiata seria, prima di distogliere nuovamente lo sguardo.

«So già quello che stai per dire» commentò lei, annoiata. «Quindi, per favore, risparmiamelo».

«Da quant'è che va avanti questa storia?» chiese Kid, ignorando completamente quello che lei gli aveva appena detto. «Pensavi di dirmelo, prima o poi?»

Maka sbuffò, sollevando alcune coperte per estrarne una dal fondo.

«Guarda che io ne so quanto te» fece, stringendo le labbra mentre sfilava la coperta da sotto le altre «è la prima volta che gli sento dire una cosa simile».

«Ti renderai conto anche tu che è un'assurdità» commentò Kid. Maka gettò la trapunta sul letto, accanto a due lenzuola pulite e perfettamente piegate. Ancora china sulle ginocchia, sollevò gli occhi sul volto di Kid, la bocca leggermente socchiusa.

«Assurdità» fece, alzandosi «mah, non saprei...»

«Non saprei?» Kid allargò le braccia, esasperato. «Nostro figlio se ne salta fuori con una storia assurda, e tu gli dai pure corda?»

«Cosa c'è di tanto assurdo nel voler diventare una Buki?» fece lei, caricandosi le lenzuola sulle braccia. «Mi sembra una cosa normale quanto diventare Shokunin».

«Mio figlio non diventerà mai una Buki» ringhiò Kid, frapponendosi tra Maka e la porta. «E questo deve essere chiaro».

Maka fissò a lungo Kid senza dire una parola. Stava per dire qualcosa di cui in seguito si sarebbe sicuramente pentita e fu solo perché Crona apparve in quel momento sulla soglia, che la discussione non degenerò.

«Maka... tutto bene? Vuoi una mano?» balbettò Crona, rivolgendole un'occhiata preoccupata. Infatti li aveva sentiti discutere, ed era accorso subito. Maka gli porse le lenzuola e la coperta che teneva tra le braccia, ringraziandolo con un sorriso sbiadito.

«Quando esci, chiudi la porta per favore».

Crona eseguì. Maka e Kid erano di nuovo soli, ma l'atmosfera tra i due si era improvvisamente distesa.

«Capisco la tua sorpresa, anche per me è stato lo stesso» si sforzò di dire lei, con tutta la calma che le era possibile mantenere in quel momento. «Ma è solo un bambino. Qualcosa lo preoccupa, e sente il bisogno di farsi notare. Magari è un'idea del momento, lasciamolo fare... assecondarlo per un po' non può fargli poi tanto male, non credi?»

«Non voglio litigare per questo» fece Kid, scuotendo la testa. «Ma da domani Daniel non andrà più a lezione da Evans. E su questo non ammetto discussioni».

Maka sorrise, torva. «Perché lo decidi tu?»

«Mi sembra evidente».

«Beh, io non sono d'accordo».

Kid impallidì, facendosi nuovamente teso.

«Vuoi che continui a frequentare quel tipo?» fece lui, avvicinandosi minaccioso. «Davvero vuoi che nostro figlio frequenti quel poco di buono? Maka svegliati» disse, afferrandola per le spalle e scuotendola «non ti rendi conto che è stato lui a montarlo con tutta questa storia? Lo fa perché vuole vendicarsi, sicuramente».

«Ma davvero pensi di essere sempre al centro dell'universo?» ringhiò lei. «Davvero credi che tutto questo dipenda esclusivamente da te?»

«E da cos'altro dovrebbe dipendere, altrimenti?» ruggì lui. «Prova a pensarci! Da quando è tornato, Soul cerca solo di dividerci, di metterci l'uno contro l'altro. Prima l'ha fatto con Daniel, riempiendogli la testa con queste sciocchezze sul diventare una Buki, poi con Liz... come fai a non accorgerti che fa di tutto per indebolirmi, allontanando da me le persone a cui tengo? Vuole colpirmi rompendo i legami che ho con te e Daniel, e con le mie armi».

Maka scosse la testa, confusa. Per quanto quel pensiero la ripugnasse e ancora non riuscisse, nonostante tutto, a figurarsi Soul capace di bassezze del genere, doveva ammettere che il suo atteggiamento passato e l'ambiguità con cui agiva nel presente non lo rendevano certo un individuo degno della massima fiducia. Come se non bastasse, quella sera aveva mancato la riunione convocata da Shinigami, riunione in cui il Dio della Morte aveva riferito la notizia della possibile presenza di un Kishin in città. Mancando all'appello, Soul aveva letteralmente dato uno schiaffo a tutta la Shibusen, mostrando una sfrontatezza e un'arroganza ingiustificabili. Oltre che un'assoluta mancanza di responsabilità.

«D'accordo, forse hai ragione» ammise, chiudendo gli occhi. «Non mandiamolo più da Soul, mi sta bene. È stato un errore, da parte mia, credere che potesse servire a qualcosa; ti chiedo scusa. Ma questo non ha niente a che vedere con il resto» aggiunse, decisa. «Sappi che se Daniel avrà comunque intenzione di diventare una Buki, io non lo fermerò».

«Tu vuoi davvero che nostro figlio, uno Shinigami, diventi una Buki?» esalò Kid. «Vuoi che si copra di ridicolo? Quando mai s'è visto un Dio della Morte che si mette a servizio di una persona qualsiasi?»

«Adesso non darti tutte queste arie» ribatté Maka, veramente infuriata. «Non è che tu sia poi tanto diverso da molte persone qualsiasi, sai? L'unico che ha paura di coprirsi di ridicolo, qui, sei tu. Del resto non te ne frega niente».

Kid parve non gradire molto quel commento. Il suo volto sbiancò all'improvviso e il suo corpo si tese, tutto irrigidito.

«Non puoi parlarmi così» sibilò.

«Così come, come a un cretino?» fece Maka, livida. «Beh, è quello che sei. Parli delle Buki come se fossero qualcosa di disprezzabile. Ma ti ricordo che senza di loro, noi non contiamo niente».

«Una Buki è solo un arma!» esplose Kid. «Senza un maestro che la usi...»

«Non ti sei nemmeno accorto del motivo per cui lui vuole essere una Buki!» ribatté Maka. «Vuole farlo per me! Hai capito? Lui è preoccupato per me, per questo vuole essere una Buki, non per un capriccio, o perché vuole farti dispetto. Lo fa perché ha paura e perché spera di potermi salvare!»

Maka si portò una mano alle labbra, colta da una commozione improvvisa. Sentì gli occhi che le bruciavano e dovette lottare contro la forza delle proprie emozioni per non piangere. Kid impallidì, colpito dall'evidenza di quelle parole.

«Non te la devi prendere con lui, ma con me» fece Maka, sospirando per ricacciare indietro le lacrime che le imperlavano le ciglia agli angoli degli occhi. «Per tutti questi anni ho rifiutato di rimpiazzare Soul, e adesso mi ritrovo senza una Buki con cui combattere. E proprio mentre un Kishin si aggira per Death City. Come faccio a difendere le persone che amo? Persino Daniel l'ha capito, mentre io... dio, che razza di stupida sono...»

Kid abbassò gli occhi, improvvisamente più calmo. Maka, dal canto suo, continuava a pensare a Daniel, che dormiva al di là della parete che divideva le loro stanze. L'idea di averlo preoccupato a tal punto da spingerlo a compiere una scelta del genere, la faceva sentire letteralmente uno schifo. Magari anche adesso era sveglio, preoccupato dalle loro grida; e forse si sentiva persino in colpa per quel loro litigio...

Niente da dire, pensò. Come madre, era proprio un fallimento completo.

«Io sono orgogliosa di lui» mormorò «e anche se non potrei mai volerlo come Buki, io non posso evitare di sentirmi felice per quello che mi ha detto... perché è il mio bambino, e gli voglio bene».

Kid chiuse gli occhi davanti alle lacrime di lei, che sgorgavano senza che lei potesse far nulla per evitarlo. Vedendola scossa da così violenti singhiozzi, lui la prese tra le braccia e la strinse, posandole un bacio sulla fronte.

«Non devi farti una colpa di quello che è successo con Soul» le mormorò, accarezzandole i capelli. «Chiunque nella tua situazione avrebbe fatto lo stesso».

«No» fece lei, mordendosi le labbra per resistere alla violenza del pianto. «Non tutti. Io ho pensato che lui fosse diverso, perché me l'ha fatto credere. Nella mia debolezza, mi sono fidata e sono stata ingannata. Una persona più forte, con meno dubbi, non avrebbe fatto quello che ho fatto io».

Kid chiuse gli occhi. Era contento che lei finalmente avesse raggiunto una tale consapevolezza. Anche se gli dispiaceva sinceramente che per farlo avesse dovuto soffrire così.

«Cosa intendi fare, ora?» le chiese. Lei assunse un'espressione dura. Si sfregò gli occhi con il dorso della mano, scostandosi da lui rudemente.

«Vado a cercarlo» affermò, decisa. «Scommetto che si è rintanato da qualche parte a fare la vittima incompresa, proprio come faceva mio padre. Lo troverò, come riuscivo a trovare sempre anche lui. E non appena l'avrò tra le mani, lo obbligherò a compiere il suo dovere».

«E come pensi di fare, se non si è nemmeno degnato di rispondere alla chiamata di mio padre? Stasera c'eravamo tutti, tranne lui».

«Hai sentito cos'ha detto tuo padre, no?» fece lei. «Soul è ancora il mio compagno. Io ne sono responsabile. Sono stata io a renderlo una Death Scythe, e io devo rispondere delle conseguenze dei suoi gesti. Non mi importa se lui intende fuggire ancora, perché questa volta lo costringerò a seguirmi, dovessi incatenarlo a me stessa. Non pianterà in asso la Shibusen un'altra volta».

Kid sogghignò. «E poi?» fece. «Cosa speri di ottenere?»

«Non mi interessa cosa otterrò io» rispose Maka. «Ciò che mi interessa è che lui faccia ciò per cui l'ho addestrato. Poi, per quanto mi riguarda, quello stronzo può anche marcire all'inferno».

 

 

Nota: da stavolta ho scelto di rispondere alle recensioni del capitolo precedente utilizzando la funzione apposita fornita dal sito. Se non doveste visualizzare nulla, magari fatemelo sapere che troverò un altro modo. Grazie e a presto!

 

Puglio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



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Capitolo 7
*** Allo specchio! La colpa è in ciò che non ci siamo mai detti? Riusciremo a vedere al di là di noi stessi? ***


«Sei sicura che sia qui?»

Crona alzò gli occhi sull'insegna traballante, che tingeva la notte di freddi bagliori elettrici. Il verde e il blu del neon si alternavano ad un arancione carico, lampeggiando a un rimo tanto confuso da far male agli occhi. La scritta «The Smashin' Pumpkin» mancava di qualche lettera, ma non era che un semplice accorgimento pubblicitario. Un tocco decadente che rendeva il locale decisamente più cool.

«Hai qualche dubbio?»

Maka liquidò la questione in un attimo. Tenendo aperta la porta, lasciò che il fumo che si addensava nel locale venisse spazzato via dalla fredda corrente notturna. Sul fondo, oltre i tavoli occupati da qualche ubriacone addormentato, la chioma bianca e spettinata di un giovane ragazzo dall'aria annoiata svettava chiarissima sopra le altre. Con un cenno, Maka lo indicò a Crona.

«Andiamo» disse. «Ci metto un attimo».

«Io... resto qui» ribatté Crona. Maka gli rivolse appena un'occhiata, a cui Crona si sottrasse timidamente.

«Come ti pare» fece, ed entrò.

Il locale era come sempre piuttosto affollato. Di giorno era una semplice caffetteria, che serviva la clientela più svariata. Ma una volta passata la mezzanotte, il locale si trasformava completamente. Cominciavano a venire serviti gli alcolici e alcune bellissime e disinvolte ragazze spuntavano magicamente dal retrobottega, andandosi ad accompagnare discretamente agli avventori che sedevano ai tavoli. Più che un locale, allora, sembrava un puttanaio dal leggero tocco trendy, che quella vaga vena hardboiled che lo animava gli permetteva in qualche modo di mantenere.

«Ho scelto di chiamarlo così perché ricorda la storia di Cenerentola» le aveva raccontato Blair il giorno in cui le comunicò che aveva rilevato il vecchio Chupa cabras, il locale in cui aveva lavorato così a lungo. «Sai, la carrozza che alla mezzanotte si trasforma in una zucca... Mi piacciono così tanto le zucche! Solo che il mio locale è una zucca che si trasforma in qualcosa di più divertente di una carrozza!».

Maka non aveva avuto dubbi, in proposito. Anche se il suo concetto di divertimento, in qualche modo, differiva sensibilmente da quello di Blair.

Era evidente che il locale stava per chiudere. Le ragazze cominciavano a invitare i clienti a lasciare il tavolo, mentre quelli più malmessi erano accompagnati all'uscita da alcuni ragazzoni dall'aria truce e professionale. Blair, avvolta in un vestito lilla che metteva in risalto i fianchi e i morbidi seni, ridacchiava allegra al bancone. Un giovane con in mano un bicchiere di single malt con ghiaccio, ormai completamente sciolto, le sedeva davanti e non smetteva di tenerle gli occhi puntati addosso, in un punto non ben precisato del corpo.

Disgustoso, pensò Maka, con una smorfia. Incredibile come bastassero un paio di tette, per mettere un uomo al tappeto.

Non appena se la vide passare accanto, Blair interruppe la sua conversazione con un gesto svelto ed elegante della mano. Era sorpresa. Maka non aveva mai messo piede nel locale dopo la mezzanotte.

«Maka!» miagolò, suadente. «Ma che sorpresa...»

Maka le rivolse un'occhiata sfuggente. L'uomo al bancone sembrò soppesarla per qualche istante con fare interessato. Con un solo sguardo, Maka lo costrinse a distogliere gli occhi dalla sua scollatura, che si intravedeva sotto il lungo cappotto.

«Lasciami indovinare, sei qui per lui vero?»

Con un cenno del capo, Blair indicò il punto in cui Soul sedeva solitario. Maka annuì.

«Se dovete litigare, però, ti pregherei di farlo fuori» le disse Blair, toccandole lievemente il braccio. «Anche se stiamo per chiudere, non vorrei trovarmi a gestire una situazione imbarazzante».

«Nessun problema» fece Maka. «Non ho intenzione di litigare».

Blair le rivolse uno sguardo dubbioso e triste al tempo stesso. La osservò allontanarsi cupa in direzione di Soul, quindi ritornò a sedersi al suo posto, sfoggiando il più dolce dei suoi sorrisi di repertorio.

Soul non si accorse nemmeno di avere Maka a un passo da lui. Quando alzò gli occhi dal libro in cui si era immerso, per un attimo fu realmente stupito. I suoi occhi balenarono, dilatandosi. Quindi le lanciò un ghigno, scosso da una risata sibilante.

«Maka» fece. «Ma che meraviglia».

«Ti sei messo a fumare?» fece lei, indicando con un cenno le sigarette sul tavolo. Soul posò il libro, afferrando il pacchetto. Ne estrasse una e la portò alle labbra, accendendola. Quindi soffiò il fumo, stringendo gli occhi sul volto teso di lei.

«Stai per farmi la predica?»

Maka scosse le spalle.

«Questa è la zona fumatori» le disse lui, irridendola. «Non ti fa bene stare qui. Vattene».

Per tutta risposta, Maka gli sfilò la sigaretta dalle dita e se la portò alle labbra. Trasse una profonda boccata ed espirò il fumo lentamente, fissandolo dritto negli occhi. Quindi gliela rese. Soul, che per tutto il tempo aveva osservato quella scena in silenzio, la spense, schiacciandola nel portacenere.

«Ho la tua attenzione, adesso?» gli fece Maka, impassibile. Lui sogghignò.

«Ma tu guarda che cattiva ragazza sei diventata...»

«E cosa dovrei dire di te?» fece lei, sedendoglisi di fronte. Lui si raddrizzò, facendo posto sul tavolo. «Fumi, bevi... fai tardi in una sottospecie di bordello... ci manca solo che tu stia leggendo un libro di Burroughs, e poi il quadretto beat è completo».

Soul la ascoltò con una leggera smorfia dipinta sul volto. Quindi spinse verso di lei il libro che aveva sul tavolo. Maka gli allungò un'occhiata. Si trattava de Il secolo di Luigi XIV, di Voltaire. Inarcò un sopracciglio, colta dalla sorpresa.

«Allora, Maka. Ce ne hai messo a venire» disse lui, divertito. «Ormai pensavo che non ti saresti fatta viva».

«Ti sarebbe piaciuto?»

«Forse sì» ammise lui. «Anche se trovarti qui mi fa piacere, lo ammetto».

Lei aggrondò.

«Perché non sei venuto, stasera? Sai che non si può disubbidire al Sommo Shinigami. È un affronto che...»

«Non mi interessa cosa pensa quel vecchio balordo» fece Soul. Maka impallidì davanti all'espressione disgustata di Soul. «So già per cosa mi aveva chiamato. Gli ho detto più volte che non sarei mai più stato la Buki di nessuno, e così intendo fare. Peggio per lui se non ha recepito il messaggio».

«E sai anche che probabilmente c'è un Kishin, che si aggira in città?»

Soul si abbandonò contro lo schienale della poltrona, allargando le braccia e reclinando la testa all'indietro. Per un po', si concentrò a fissare una macchia sbiadita sul soffitto, sopra di lui.

«Parlo con te, sai?»

«E se anche fosse?» mormorò lui. «Non è un problema mio».

«Ma si può sapere che ti è successo?» fece Maka, battendo le mani sul tavolo. Alcune ragazze si voltarono a guardarla, per poi scambiarsi un'occhiata perplessa. Maka non si curò nemmeno di loro, troppo sconvolta dal modo di comportarsi di Soul. «Non ti riconosco più. Sei ancora più stronzo e bastardo di quando eri con me».

«Stronzo e bastardo» rise Soul. «Accidenti, Maka, tu sì che sai convincere le persone a seguirti».

«Io non ho bisogno di convincerti» fece lei, dura «perché tu mi seguirai».

«Davvero? E cosa ti rende tanto sicura?»

«Perché tu me lo devi».

Soul la guardò con uno sguardo indefinibile. Per un attimo Maka pensò di aver scorto nei suoi occhi un barlume di tristezza, ma doveva essersi sbagliata. Ciò che ora leggeva nei suoi occhi era solo odio, e un profondo disprezzo.

«Io non ti devo un cazzo».

Maka impallidì. Si trattenne a stento dal rovesciare il tavolo e avventarsi contro di lui, tanta era la rabbia che quel suo modo di fare le scatenava in corpo.

«Tu non hai idea di quello che ho passato» gli sibilò, allungandosi sul tavolo. «Quando te ne sei andato, chi credi che abbia dovuto subirne le conseguenze? Ho passato mesi a cercarti... sono stata persino degradata. Ho impiegato due anni per riacquistare il mio ruolo all'interno della Shibusen. Due anni passati a sbrigare faccende da matricola. E tutto per il tuo maledetto egoismo...»

Soul scosse la testa. «Ma per piacere...»

«Già, certo» fece lei, ridendo nervosa. «Cosa può mai interessare tutto questo a uno come te...»

«No, sei tu quella a cui non frega un accidente di niente!» sbottò lui. Maka sbiancò, di fronte al livore improvviso di Soul. «Non te n'è mai fregato niente di me, ma sei tanto cieca ed egocentrica che riesci solo a vedere ciò che ti ruota intorno».

«Ma di che diavolo stai parlando?» fece lei.

«Avanti, Maka!» sbottò Soul. «Cosa ho rappresentato, io, per te? Niente. In me tu hai visto sempre e soltanto un oggetto, qualcosa che ti serviva per raggiungere il tuo stramaledetto scopo. Non è forse così?»

«Cosa?» esalò lei. «Credevo che ciò per cui lottavamo fosse il nostro scopo. Cos'è adesso questa stronzata?»

«Il nostro? Ti sei mai chiesta se a me interessasse diventare una Death Scythe? Te lo sei mai chiesta davvero?»

«Certo che no, perché tu lo volevi!»

«Io non lo volevo!» ribatté lui. «Non me ne fregava niente di diventarlo o non diventarlo. Non ti ho chiesto io di farmi diventare l'arma di Shinigami, non sono io quello che non vedeva l'ora di abbandonarti!»

Maka tacque, sconvolta. Fissava il volto decomposto dall'ira di Soul e non poté fare a meno di riflettere su quello che lui le stava rinfacciando.

Era sempre stata sicura che anche lui volesse esattamente ciò che lei da sempre inseguiva. Diventare una Death Scythe, raggiungere la gloria...

Ma sì, per forza. Dicendo così, voleva solo farla sentire in colpa.

«Non ti credo, io...»

«Tu non vuoi credermi perché questo significherebbe ammettere la persona che sei» disse lui. «Un'egoista, che per tutto il tempo non fa che lamentarsi degli altri e che non è nemmeno in grado di vedere al di là del suo naso».

Maka tremò. Improvvisamente, fu come se l'intero locale fosse sprofondato in una grotta umida e senza luce.

«Vuoi sapere perché me ne sono andato?» esalò Soul. «L'ho deciso il giorno stesso della cerimonia, quando mi hanno nominato Death Scythe. Ero lì, davanti a tutti quei volti contenti, tutti allegri e pronti a congratularsi con me per qualcosa che per me, in realtà, non aveva nessun significato. L'ennesima beffa della mia vita! Costretto a fare qualcosa che non volevo nemmeno... È stato allora, che ho capito quello che avrei davvero dovuto fare».

«E così, te ne sei andato il giorno dopo, quando più avevamo bisogno di te» fece lei, livida. «Bell'affare. Ti faccio i miei complimenti».

«Non mi importava più niente» fece Soul. «Ormai, avevo esaurito ogni speranza di farti capire le mie motivazioni. Ci ho provato, Maka. Per tutto il tempo in cui siamo stati insieme dopo la morte di Asura, ho cercato di farti capire che non ne potevo più, di quella vita. Non ce la facevo più a reggere i tuoi ritmi. Quando ci siamo conosciuti, tu volevi fare di me una Death Scythe e io ho pensato ''perché no? Sembra una tipa in gamba, una che finalmente sa accettarmi per quello che sono''. Dopo aver passato una vita intera in una famiglia che non era capace di vedere in me nulla di valido, pensavo di aver trovato una persona diversa. Qualcuno che vedesse in me qualcosa di più che l'ombra di mio fratello, o un oggetto da plasmare a proprio piacimento. Ma non era così. Tu avevi solo bisogno di qualcuno da usare per perseguire il tuo progetto. Punire tuo padre, umiliarlo e far vedere al mondo che non avevi bisogno di lui, ecco cosa contava per te. Per un po' ho provato a mentire a me stesso, a convincermi che era la tua debolezza, ciò che avevi vissuto, a renderti così dannatamente fredda e insensibile. Ma ogni volta che ci trovavamo in battaglia, ogni volta che ottenevamo una vittoria, tu pensavi solo al modo per vincere, e a come fare per tornare a vincere. E più vincevi, più volevi vincere ancora. E io uccidevo, e uccidevo ancora, per ingrassarmi di quelle anime che a te facevano tanto gola... finché non ce l'ho più fatta».

Soul si fermò, abbassando gli occhi come fosse preso da un eccesso di pudore. Sospirò.

«Non era quello, ciò che io volevo. Non era per quello che continuavo a stare al tuo fianco... ma tu sembravi tanto ansiosa di raggiungere quell'obiettivo... tanto ansiosa da non capire che una volta raggiunto, non saremmo mai più stati insieme. Ma la cosa peggiore, in tutto questo, era che nemmeno ti accorgevi che quelli che ammazzavamo erano persone, Maka» disse «gente come me e come te, persone che avevano smarrito la strada, certo, ma che un tempo erano state qualcuno. Ma più io mostravo dei dubbi, in proposito, più tu mi spingevi a nasconderli e a divorare anime su anime perché così voleva la Shibusen, costringendomi a far di tutto per trasmetterti una forza che non avevo e che non avrei mai potuto avere a patto di smarrire me stesso! Tu volevi il successo, la vittoria definitiva, il riscatto su tuo padre. Ma ti sei mai fermata a pensare a quale sarebbe stato il prezzo di tutto questo?»

«Credi davvero che io non ci abbia mai pensato?» sibilò lei. «Mi reputi davvero così insensibile e stupida da non aver mai avuto un dubbio in tutta la mia vita?»

«E perché non me ne hai mai parlato, allora?» ribatté lui. Maka tacque. Non era vero, e lo sapeva. Lei gli aveva parlato, sicuramente. Doveva averlo fatto, solo che in quel momento non se ne ricordava.

Soul sogghignò.

«Questa è la cosa triste» mormorò. «Siamo stati insieme quasi dieci anni, combattendo fianco a fianco. Ho vissuto con te per tutto il tempo, dandoti tutto me stesso. Ma tu sembravi non vedermi nemmeno. Per te ero solo una Buki. Qualcosa da sfruttare, da usare. Volevi che fossi forte non perché tenevi a me, ma perché dovevo essere forte per te, per garantirti la vittoria in battaglia. E io lo sapevo, pur continuando a illudermi che un giorno ti saresti potuta accorgere che in fondo l'unica cosa che ancora mi spingeva a restare, tutto ciò che volevo, eri tu».

«Non ci provare».

Soul alzò gli occhi. Maka ora lo fissava con astio, le lacrime che le sgorgavano dagli occhi.

«Non osare provarci, maledetto bastardo» fece. «Quella sera, prima che tu partissi, io ero venuta da te. Ero venuta per dirti che mi ero decisa, che ero finalmente pronta a stare con te, ad amarti come avevo sempre desiderato, anche se non avevo mai trovato il coraggio di farlo fino a quel momento. Mi sono fidata di te. Ti ho baciato, il primo bacio della mia vita, e ho messo il mio cuore nelle tue mani. E tu, il giorno dopo, sei sparito senza lasciare traccia. Quale maledetto schifoso fa una cosa del genere?»

Soul distolse lo sguardo.

«Non hai nulla da dire?» insistette Maka, con un ghigno che le affiorava tra le lacrime. «Ti ricordi ancora quello che mi dicesti, quella sera? Io sì. Che mi amavi, che saremmo stati sempre insieme, che non mi avresti mai dato modo di dubitare di te. Cos'è rimasto di quelle belle parole, riesci a dirmelo, adesso?»

Lui non la guardava. Spostò gli occhi sull'orologio, stringendo le labbra.

«Sono stanco, me ne vado a casa» mormorò. Maka chiuse gli occhi, stringendo i pugni.

«Sei identico a lui!» gridò. «Siete tutti uguali! Tu conoscevi la mia paura, sapevi quanto ero fragile! Tutto ciò che volevo, era qualcuno di cui fidarmi... e adesso ti presenti qui dopo otto anni, dopo avermi abbandonato come un cane, e osi anche farmi la predica!»

Maka scattò in piedi, piantandosi davanti a Soul per sbarrargli il passaggio, levando una mano per schiaffeggiarlo. Lui le bloccò il polso appena in tempo, ma lei continuò a divincolarsi, in lacrime. All'improvviso, lui le lasciò la mano e lei prese a colpirlo al petto con i pugni, sconvolta. Solo alla fine lui la strinse a sé, tenendola tra le braccia finché lei non si calmò.

«Adesso basta» le sussurrò, bloccandola per le spalle. «Ho capito».

«Ti odio, schifoso... io...»

Lui le posò una mano sulla nuca, chiudendo gli occhi. Maka si aggrappò alla sua giacca, lasciando che lui la abbracciasse finché i singhiozzi non cessarono.

«Adesso vai a dormire» le fece. Quindi, con fare rassegnato «ci vediamo domani» aggiunse.

La lasciò in piedi, il volto devastato dal pianto. Lei si voltò, gridando il suo nome prima che uscisse.

«Se domani non ci sarai» sibilò, «Sappi che stavolta non avrò pietà, Soul. Ti strapperò in due l'anima con le mie mani, lo giuro».

Soul la fissò per un istante, prima di ficcarsi le mani in tasca con un sorriso spento.

«È una promessa?» chiese. Maka si voltò a fronteggiarlo, annuendo con decisione.

«Se dovesse venire il momento» concluse lui, prima di uscire «ricordati di mantenerla».

 

 

*

 

 

Fuori dal locale faceva freddo. La notte era in quel momento che precede immediatamente l'alba, quando il buio è più denso che mai. Crona se ne stava appoggiato al muro di mattoni grezzi, battendo i denti.

Soul si accorse di lui solo dopo un istante. Senza voltarsi a guardarlo, si limitò a infilarsi una sigaretta tra le labbra. Trasse una boccata, alzando gli occhi al cielo. Le stelle, sopra di loro, brillavano a milioni.

«Ci sei anche tu, allora?» disse. Si voltò. Crona lo fissava. La luce dell'insegna al neon si spense e il suo volto pallido scomparve nel buio.

«Molto bene».

Crona non disse nulla, ma fece un passo avanti, avvicinandolo. Soul gettò via la sigaretta, fumata a metà. Quindi si abbottonò la giacca di pelle sgualcita, tirandosi il bavero attorno al collo.

«Le sei rimasto accanto come ti avevo chiesto» fece, con un sorriso dolce. «È stato un bel gesto. Ti ringrazio».

Crona non disse nulla. Un'ombra sgusciò fugace tra gli spazi lasciati vuoti dalle pareti ruvide, brillando scura sotto i raggi lunari. Durò un attimo. Crona rabbrividì, percorso da una sottile scarica elettrica, mentre osservava Soul che si allontanava nella notte, in silenzio. Quando fu sparito, inghiottito dal buio, Ragnarok emerse dalla schiena di Crona, appoggiandosi assorto sulle spalle del ragazzo.

«Soul ha un nuovo amico» fece, dopo un attimo. «Hai visto?»

Crona tremò. Non era sicuro di aver visto davvero qualcosa. Ma dubitava seriamente che, qualunque cosa fosse quell'ombra sinistra che era sgusciata via nel buio, potesse essere qualcosa di simile a un amico.

 

 



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Capitolo 8
*** Per te, finché avrò vita! Cosa si cela dietro alla scomparsa di Soul? ***


Maka non riusciva ad essere tranquilla. Se ne stava seduta alla sua poltrona, aspettando che Soul si facesse vivo, ma per il momento non era ancora accaduto. Innervosita, lanciò un'occhiata all'orologio sul camino, che segnava le dieci e trenta. Soul aveva un ritardo di mezz'ora. Ormai era chiaro che non sarebbe arrivato.

Si passò una mano tra i capelli, accavallando le gambe. Avrebbe dovuto aspettare? Forse ancora cinque minuti, giusto per essere sicuri...

Erano quasi le undici quando alla fine Maka si alzò. Senza dire una parola, raccolse l'impermeabile e lo infilò, dandosi una veloce occhiata allo specchio. Quindi raccolse le chiavi di casa e si avviò cupa alla porta. Yuko, la babysitter, sporse la testa oltre il divano.

«Professoressa, ma... che fa? Esce?»

Maka si allacciò l'impermeabile, infilando in tasca le chiavi. Quasi sembrò non averla notata.

A quel punto, Yuko si alzò, andandole incontro e stringendosi nelle braccia.

«Signorina Albarn...»

«Io vado, Yuko» fece Maka, senza voltarsi. «Mi raccomando, non aprire per nessun motivo. E non lasciare mai solo Daniel. Ti ho lasciato il numero della Shibusen, nel caso sentissi qualcosa o avessi bisogno di aiuto. Chiama, e loro ti manderanno subito qualcuno».

«Sì» fece Yuko, perplessa. «Ma lei...»

«Questo è il mio dovere» commentò Maka, come fosse una cosa ovvia. «Non posso restarmene qui, mentre gli altri rischiano la vita. Non credi anche tu?»

«Ma lei non ha una...»

Di fronte all'espressione sconcertata di Maka, Yuko arrossì, rendendosi conto di aver detto qualcosa di troppo. Maka si accorse del suo imbarazzo, e le posò una mano sulla spalla, sorridendo.

«Anche se non ho una Buki, combatterò ugualmente. Anzi, probabilmente lo farò anche meglio» disse, sforzandosi di apparire sicura. Yuko la fissò con uno sguardo poco convinto. Maka impallidì.

«Non aver paura. Ci vediamo domattina» le disse, cercando di scacciare dalla sua mente il ricordo dello sguardo della ragazza. Aveva già abbastanza paura. Non aveva bisogno di caricarsi anche di quella degli altri.

Fu con un certo sollievo che uscì di casa, richiudendosi piano la porta alle spalle. Fuori, l'aria era pungente. Maka strizzò gli occhi, respirando a fondo. Il suo fiato si addensò in una nuvoletta tremolante, che per un attimo le galleggiò attorno al viso, prima di dissolversi del tutto. C'era silenzio, intorno a lei. Un silenzio tanto profondo che ad ascoltarlo sembrava di calarsi in una tazza di melassa gelatinosa. La lampadina delle scale mandava un ronzio appena udibile, vibrando in quella notte densa come una debole e lontana interferenza. Non si muoveva nulla. Tutta Death City sembrava calata in un sonno inverosimile.

Maka rabbrividì. Chiuse gli occhi, chiamando a raccolta tutto il proprio coraggio. E finalmente, si staccò dalla porta.

I suoi passi lungo il piccolo portico risuonarono spettrali. Un passo, due passi, tre...

Era come camminare in una sala vuota.

Maka misurò la distanza che la separava dalle scale. Ogni passo era come un macigno, che piombava pesantemente al suolo. Il tacco dei suoi stivali di pelle batteva sulle mattonelle di cotto con una tale determinazione che sembrava dovesse quasi penetrarle. Ad ogni passo, Maka si sentiva come sprofondare. Forse era perché le gambe le tremavano, o forse era per quel suono così strano che mandavano i suoi passi, un suono cupo e secco, simile a un martello, che si staccava dai suoi piedi per poi vibrare a lungo nell'aria, attorno a sé; fino a quando non andava a raggiungere le ombre che danzavano ai lati dei suoi occhi, pallide come tanti spettri febbricitanti.

Smettila di pensare. Ti stai lasciando suggestionare come una stupida.

Shinigami aveva detto che il Kishin aggrediva le ragazze sole. Erano già tre, le persone sparite da quando il Kishin era apparso la prima volta. Tre ragazze intorno ai venticinque anni. Proprio la sua età.

Maka scrollò le spalle, scossa da un brivido. Si sollevò il bavero dell'impermeabile, chiudendoselo davanti alla bocca. Non era da lei provare tutta quella paura. Non capiva il perché le capitasse una cosa del genere, proprio in un momento come quello. Era una Shokunin. Aveva combattuto centinaia di volte nella sua vita, e aveva sempre vinto.

Però, prima di allora, non era mai stata sola.

Quando mise piede sul primo gradino, un rumore, unito al breve guizzo di un'ombra in fondo alle scale, la fece trasalire. Maka si irrigidì. Restò a fissare quell'ombra farsi sempre più grande e scura, mentre lei continuava a non muovere un passo. Provò a pensare alla tecnica che aveva appreso per trasformarsi, ma per qualche ragione non le veniva in mente. La sua mente era completamente vuota. Sudava.

Dei passi risuonarono lenti, su per i gradini. Maka trattenne il fiato. Doveva assolutamente trasformarsi, ma più pensava a come farlo, più non sapeva da dove cominciare. Si era allenata a lungo, ma non era mai uscita in missione da sola e non aveva considerato l'ansia che prende in quei momenti, svuotandoti la mente. Quella era la prima volta, dopo tanto tempo, che usciva per un incarico. E se non cambiava presto qualcosa, sarebbe stata anche l'ultima.

Lentamente, Maka ritornò sui suoi passi. Risalì il gradino, senza voltarsi, gli occhi fissi sulla curva che facevano le scale. La mano che teneva attorno al collo le scivolò come abbandonata lungo il fianco. Provò a stringerla a pugno, ma era intorpidita. Si passò la lingua sulle labbra socchiuse, ormai secche per il freddo e per la paura.

Era stata una stupida a uscire. Ma ormai era lì, e non si sarebbe tirata indietro.

Ciò che si nascondeva in fondo alle scale prese a risalire. Maka attese, mentre il suono dei suoi passi si faceva sempre più vicino. Chiuse gli occhi per un attimo, forse l'ultimo istante della sua vita. Chissà se doveva pregare, in un momento come quello...

Non che le importasse. Non conosceva molte preghiere.

Con un sospiro, Maka trattenne il suo cuore dall'esplodere. Ora era nuovamente padrona di sé. Ascoltava ciò che la sua mente le diceva, e cominciava a riacquistare energia. Pur nella sua debolezza, aveva un qualche punto di vantaggio. Il campo di battaglia era pur sempre casa sua. E poi i suoi amici, non vedendola arrivare, sarebbero venuti a cercarla. Forse.

Comunque, ormai non c'era più ragione di preoccuparsi. Era questione di pochi istanti, poi...

«Ohi, Maka».

Maka strabuzzò gli occhi. Incredula, fissava il volto assonnato di Soul, che risalì in quel momento l'ultimo gradino con un grosso sbadiglio.

«Soul?»

Lui si grattò la testa, frugandosi nella tasca della giacca. Estrasse una sigaretta, che fece per accendersi. Furiosa, Maka gli si scagliò contro, strappandogliela dalle labbra. Lui la osservò perplesso, mentre la buttava a terra e la pestava con la punta aguzza dello stivale.

«Sei in ritardo» esclamò lei. Lui sembrò realizzare quanto era appena successo solo in quel momento.

«Non mi avevi detto l'ora» disse, ma senza aver l'aria di volersi scusare. Maka digrignò i denti.

«Muoviti, idiota».

Camminavano veloci. O meglio, Maka camminava veloce. Soul le stava dietro annoiato, limitandosi a non perderla di vista. Seccata, Maka si voltò, squadrandolo.

«Vuoi darti una mossa?» fece. «Gli altri ci stanno aspettando da un pezzo».

«Se vuoi il mio parere...»

«Non mi interessa il tuo parere».

«Come vuoi» fece lui, «ma non credo che sia una buona idea muoversi tutti insieme».

Maka rallentò il passo, lasciando che lui la raggiungesse. Lo guardò perplessa.

«E perché?» chiese.

«Non hai detto che il Kishin attacca solo ragazze sole? Se ci muoviamo come un branco di iene, non si farà mai vedere».

«E tu cosa suggerisci?»

Soul sollevò le spalle. «Credo che sarebbe meglio andare divisi. Due al massimo. Tre, se non si vuole lasciare Crona da solo. Ma non di più».

Maka sembrò riflettere su quanto Soul aveva appena detto. Per quanto odiasse ammetterlo, la sua idea non era affatto male. Anzi, sembrava decisamente sensata. Chissà perché non era venuto in mente anche a lei.

«Eccoli» fece Soul. Maka alzò gli occhi. Nella piccola piazza, proprio davanti a loro, un folto gruppetto di persone attendeva raccolto. Non appena i loro compagni li videro sbucare dal fondo della strada, si levò un mormorio agitato.

«Finalmente» latrò Black Star. «Credevamo già di dovervi venire a prendere nello stomaco del Kishin. Lasciami indovinare, Maka» aggiunse, lanciando un'occhiata obliqua all'indirizzo di Soul. «La colpa è di quel deficiente, vero?»

«Hai qualche dubbio?» commentò Maka, inarcando un sopracciglio. Improvvisamente si rabbuiò, notando l'occhiata di intesa che Liz stava rivolgendo a Soul, credendo forse di essere non vista.

Per quanto la cosa la seccasse, doveva assolutamente resistere alla tentazione di guardare se lui le rispondeva. Non gli avrebbe dato quella soddisfazione, per nulla al mondo...

Ha risposto! Quel bastardo maledetto.

«Bene, adesso che ci siamo tutti possiamo organizzarci» cominciò Kid. «Io direi di cominciare col battere la zona del mercato, quindi...»

«Aspetta».

Gli occhi di tutti si voltarono verso il volto di Maka. Sembrava in preda a una forte determinazione, e ad un certo fastidio.

«Quello scemo di Soul ha avuto un'idea che mi sembra buona... anche se mi secca ammetterlo» aggiunse con un ringhio, avvertendo la soddisfazione di lui nel ghigno che portava vagamente stampato in volto. «Credo che sia meglio se andiamo divisi».

«Divisi?» commentò Tsubaki. «Ma potrebbe essere pericoloso».

«Sì, però è il modo migliore per coprire tutta la città. E poi, il Kishin non si farà mai vedere se agiamo in gruppo. Se siamo al massimo in due, le probabilità che sia lui stesso ad attaccarci sono molto più alte».

Quell'idea lasciò tutti piuttosto perplessi. Ma per quanto provassero a pensare diversamente, era chiaro che aveva parecchio senso.

«D'accordo, faremo come dici tu» convenne Kid. «Ma cerchiamo di muoverci in modo preciso. Non procediamo a casaccio, altrimenti rischieremmo di allontanarci troppo gli uni dagli altri. In caso di necessità, diventerebbe troppo difficile arrivare in tempo per i soccorsi».

«Movimento simmetrico» lo schernì Black Star, ondeggiando i fianchi. Kid impallidì.

«Fissiamo dei punti di raccolta» suggerì Tsubaki. «Ci troveremo tutti davanti alla chiesa, che ne dite? Poi vedremo come procedere».

Convennero tutti che era una buona idea. Si sarebbero incontrati sotto il campanile all'incirca dopo mezz'ora. Quindi, dopo essersi scambiati le ultime raccomandazioni, si allontanarono; e ogni Shokunin scomparve imboccando un vicolo di Death City, assieme alla propria Buki.

«Siamo rimasti soli» commentò alla fine Soul, con un ghigno. «Devo dire che la cosa non mi dispiace».

Maka gli rivolse un'occhiata sferzante.

«Per favore, risparmiami le tue melensaggini» disse, con aria di evidente disgusto, «e vedi di non metterti a fare qualche tiro dei tuoi, intesi?»

Soul alzò le mani, assumendo un'espressione offesa. «Io?» disse. «Assolutamente».

Fu con un sospiro che Maka si incamminò insieme al suo vecchio compagno, calandosi con lui nella nera notte che avvolgeva Death City come un manto.

 

 

*

 

 

Le campane risuonarono per la seconda volta. Erano le due. Ancora poche ore, e sarebbe spuntata l'alba. Il Kishin non si era visto.

Maka calciò un ciottolo, sbuffando silenziosa. Soul, al suo fianco ma molto più discosto, se ne vagava per nulla interessato a quello che avevano intorno. Ogni tanto lanciava una qualche occhiata a Maka, indugiando su di lei più del dovuto e trovandola via via stanca, pensierosa, frustrata.

O arrabbiata, come in quell'ultimo caso.

«Si può sapere che vuoi?»

«Scusa, non ti si può neanche guardare?»

Maka sollevò le spalle, riparandosi dietro il bavero dell'impermeabile. Soul tacque, preferendo non aggiungere nulla.

«Almeno sei venuto, anche se non è servito a molto» farfugliò lei. Soul fece finta di non aver sentito.

«Ho detto che almeno sei venuto!» ripeté Maka. «Dove sei stato, piuttosto? Scommetto che eri al locale di Blair».

«Ero in giro. Dove, non ti riguarda».

«Oh, mi scusi. Non intendevo farmi gli affari suoi, signore».

«Come io non mi faccio i tuoi» aggiunse Soul.

Per un po', nessuno disse nulla. Quindi, «senti, Kid si è arrabbiato e non vuole più che Daniel venga a lezione da te...» saltò su Maka. «Mi dispiace». Soul, alle sue spalle, annuì.

«Lo immaginavo».

«Cosa?»

«Che prima o poi sarebbe successo».

Maka alzò gli occhi dal vicolo buio in cui stava guardando, per fissarli sul volto annoiato di Soul.

«Adesso non metterti a fare del sarcasmo» fece. «Se è successo, è solo colpa tua».

«Io non ho fatto nulla» ribatté Soul, fermo. «Ma in un certo senso mi sento sollevato. Credo che sia meglio, se Daniel non pensa più alle Buki. Almeno per un po'...»

Maka arrossì. Le aveva fatto uno strano effetto sentirlo pronunciare con tanta familiarità il nome di suo figlio. Si intenerì, anche se non ne sapeva bene il perché.

«Kid pensa che lui voglia farlo per dispetto, e che magari sia stato proprio tu a spingerlo».

«E come avrei fatto?»

Maka rise. «Non lo so. Kid a volte si comporta in maniera stupida. Ma se lo fa, è perché ci tiene a noi».

«Noi?»

«Daniel ed io».

Soul aggrondò. Per qualche istante era riuscito a dimenticare che loro erano una specie di famiglia.

«Perché è finita?» azzardò. Maka stava rovistando tra alcuni sacchi dell'immondizia, spostandoli con un manico di scopa abbandonato trovato lì accanto. Nemmeno sollevò gli occhi.

«Cos'è che è finito?»

«La storia tra te e lui» disse Soul. Maka gettò via il bastone, spazzandosi le mani l'una contro l'altra.

«Chi ha detto che è finita?» chiese, perplessa. Davanti al suo sguardo inespressivo, Soul impallidì.

Al diavolo.

«Tu, piuttosto» fece lei, infilandosi le mani in tasca e frugandovi alla ricerca di un fazzoletto. «Ti vedi con Liz?»

Lui grugnì qualcosa di indistinto.

«Come?»

«Così pare» ripeté, ora a voce un po' più alta. Maka sentì un fremito improvviso. Per un attimo, l'alone fiacco della luce che i lampioni spargevano attorno a loro, parve indebolirsi ancora di più.

«Interessante» commentò. «Non me l'aspettavo...»

«Non ci vado a letto».

Maka arrossì. Lo guardò, ma trovandolo che la stava fissando, distolse immediatamente lo sguardo, posandolo sull'androne buio di un palazzo alla sua destra.

«Non te l'ho chiesto, e comunque non è affar mio».

«Questo è sicuro, ma mi sembrava giusto dirtelo».

«Non vedo perché».

Lui sospirò. Maka sorrise.

«Comuque... grazie», mormorò.

Soul inarcò un sopracciglio. «Davvero ti piace ancora?» le chiese. «Kid».

Maka scoppiò a ridere. Lo guardò, le guance leggermente arrossate. «Ti dispiacerebbe?»

«Potresti limitarti a rispondere senza fare tutte queste domande» obiettò lui, caustico. «Sei sempre la solita petulante...»

Per un attimo si guardarono, e calò il silenzio. Lui sembrava attendersi qualcosa, ma non accadde nulla. Lei gli rivolse uno sguardo curioso.

«Che c'è?»

«Mi aspettavo che tu mi tirassi una sberla, o qualcosa del genere» fece lui, inarcando un sopracciglio. «Un tempo l'avresti fatto».

«Già, ma ora sono cresciuta. Non mi preoccupo più di certe cose... però» fece raccogliendo alcuni ciottoli di ghiaia che si erano sollevati dal selciato «posso sempre trovare qualcosa con cui colpirti».

Lei prese a lanciargli i sassolini, ridendo. Lui li schivò, con un pallido sorriso sul volto. Quando il suono dell'ultimo sassolino che rimbalzava sul selciato si spense, Maka si strofinò le mani per pulirsele dalla polvere, e abbassò gli occhi. Improvvisamente triste, si morse le labbra.

«Quando sei così, chi riuscirebbe a non volerti bene?» disse. Soul si fermò, perché anche lei si era fermata. Lo guardava, torva.

«Non capisco perché te ne sei andato, Soul» fece. «Avresti potuto dirmi tutto. Avremmo trovato una soluzione».

Lui la guardò a lungo, senza dire nulla. Quindi gonfiò il petto in un profondo sospiro, grattando l'asfalto sotto i suoi piedi con la punta della scarpa.

«Non a questo, Maka» fece. Lei tacque. In silenzio, lui estrasse una sigaretta e se la portò alle labbra. Quando avvicinò l'accendino, per un attimo, il suo volto risplendette dei vividi bagliori azzurrognoli della fiamma. Quindi, tutto ciò che restò a brillare nel buio, fu la punta ardente della sua sigaretta.

«E allora, perché sei tornato?» esclamò lei, livida. «Perché non te ne sei stato in quel buco in cui ti sei cacciato per tutti questi anni? Stavamo bene senza di te. Io stavo bene. Poi torni, e tutto diventa improvvisamente troppo complicato».

«Non c'è nulla di complicato. E poi non ho intenzione di restare qui a lungo».

Maka sbiancò. Si avvicinò di un passo, fissandolo dritto negli occhi. Lui aspirò l'ultima boccata di fumo, trattenendola sul fondo dei polmoni e rilasciandola dopo qualche secondo. Quindi gettò la sigaretta a terra, pestandola col piede.

«Parti?» chiese lei, timidamente. «Ancora?»

Lui scrollò le spalle.

«E perché sei tornato, allora? Non capisco».

«Perché avevo fatto una promessa a Shinigami. E perché dovevo rivedere...»

Maka socchiuse le labbra. «Chi?»

Lui la guardò. Quindi si volse, muovendo qualche passò lì attorno.

«Sei sicura che si tratti di un Kishin?» fece, cambiando improvvisamente discorso. «Non potrebbe essere un semplice delinquente, un uovo di Kishin?»

Maka divenne dura, ma scosse la testa. «No» fece, scrutando nell'ombra. «Shinigami è sicuro che si tratti di un Kishin. Sembrava molto preoccupato ieri, quando siamo andati da lui. Si è raccomandato di usare la massima attenzione».

«Capisco».

«Ma è strano» fece Maka, perplessa. «Non riesco a capire... ho provato a leggere l'anima del Kishin e sento che è vicinissimo. Ma per quanto mi sforzi, non riesco a individuarlo. Percepisco chiaramente la presenza della sua anima, ma allo stesso tempo la sento vicina e lontana... vedo la tua, e sento la mia... quella del Kishin è fortissima, ma non so dove sia. È come se fosse a un palmo dalla mia mano eppure, ugualmente, è lontanissima e sfocata».

Soul ghignò. «Forse, hai perso parte della tua capacità».

«Non è così» obiettò lei, senza curarsi della sua ironia. «C'è qualcosa di strano. È come se l'anima del Kishin si nascondesse dietro un velo, la cui forza riesce in qualche modo ad occultarla. Forse si fa scudo con l'anima di qualcuno, o forse...»

«I miei complimenti».

Maka si voltò. Un'ombra si staccò lentamente dal muro, prendendo forma davanti ai suoi occhi. Era come se il buio si stesse improvvisamente cristallizzando, assumendo la forma di un corpo vivo. Con stupore crescente, Maka fissò le due cavità che si aprivano in quello che doveva essere il volto di quell'essere, due buchi profondi come pozzi scavati nella terra nuda e nera, sul cui fondo ardevano fiamme le cui lingue rossastre si contorcevano come impazzite. Due lunghe strisce di tenebra si separarono dalla notte con uno schiocco sinistro, saettando gocciolanti attraverso l'aria improvvisamente gelida. Il corpo ancora informe del Kishin si sollevò facendo forza su quelle due semplici braccia, fino ad emergere completamente, un liquido grumo notturno che assorbiva ogni luce attorno a sé.

«Sei una ragazza davvero intelligente, Maka. Non c'è che dire» mormorò il Kishin. La sua risata gli uscì da quella che sembrava essere la sua gola, ma che in realtà non era che un ammasso agglutinato di materia bruna, che formicolava incessantemente come alla ricerca disperata di quella forma che ancora tardava a manifestarsi. Maka indietreggiò, cercando Soul con la coda dell'occhio.

«Soul...» mormorò. Lui non rispose.

«Ah, cerchi lui» sibilò il Kishin. «Avanti, Soul. Non aiuti la tua amica?»

Maka si voltò. Soul era là, alle sue spalle, il volto pallido e teso. Fissava duramente il Kishin.

«Soul, trasformati! Presto» gridò Maka. Soul digrignò i denti.

«Soul?»

«Non posso».

Per Maka fu come una doccia fredda. Tremò, volgendo lentamente lo sguardo verso il Kishin. L'ombra si era fatta sempre più cupa e densa, ma ora aveva acquistato una qualche forma, seppur vaga. Si era rimpicciolito, e allo stesso tempo sembrava aver assunto tratti più armoniosi. Le lunghe lingue di tenebra che fungevano da braccia si erano ridotte, e ora penzolavano leggermente oscillanti lungo i fianchi di quello che sembrava essere un corpo umano. Le membra erano ancora mobili e tondeggianti, come serpenti che brulicavano fluttuanti nell'aria. Solo gli occhi erano gli stessi, ma più intensi.

«Che succede, Maka?» fece il Kishin. La sua voce era fredda, e tagliente, come il vento che colpiva Maka in volto, ferendola alla pelle. «Percepisco il tuo smarrimento. Hai paura? Sì, hai paura. Ti senti abbandonata... poverina».

Rise, e fu come se tutte le stelle del cielo si fossero spezzate, riducendosi in polvere. Maka non riusciva a reggersi sulle gambe. Cercava disperatamente una soluzione, ma si sentiva soffocare. L'aria si era come rarefatta, inghiottita dalla notte che turbinava intorno a quell'essere come un uragano.

«Ora capisci come ci si sente, non è vero? Essere soli, abbandonati, in balia di qualcosa che non si può gestire...»

«Io non ho paura» mormorò lei, con tutte le sue forze. Il Kishin si chinò su di lei. Maka ne sentì il terribile puzzo di morte penetrarle fin sotto la pelle.

«No, tu non hai paura... Tu sai vincere la paura, ma questo... non ti servirà. E sai perché?»

Ti prego, Soul...

Maka tese una mano dietro la schiena. Soul doveva solo toccarla.

«Non ti servirà perché non è la paura ciò che devi temere. Ciò che più devi temere, è il dubbio. Senza il dubbio, la paura non esiste. Se non abbiamo dubbi, non abbiamo paura. Ma non possiamo non avere dubbi, perché questi non dipendono da noi. Il dubbio è come un verme» fece il Kishin, e dalla sua mano aperta sgusciò fuori una cascata di grossi vermi bianchi, che caddero al suolo contorcendosi tutti, l'uno sull'altro. «Esso si insinua dentro di noi, in silenzio, senza che noi possiamo fare nulla per impedirlo. Come il verme scava lentamente la terra, il dubbio rode la tua coscienza, e depone in essa le sue uova. Quando queste si schiudono, la tua anima viene imprigionata da altri dubbi, che come vermi disgustosi e striscianti serpeggiano al suo interno, moltiplicandosi fino a sbriciolarla. Finché, alla fine, tu... non esisti più».

«Soul, dannazione!»

Maka sudava. Aveva la pelle d'oca in tutto il corpo e il sudore le gocciolava lungo la schiena e la fronte, mandandole dei brividi.

«Ora, proprio adesso, tu hai dei dubbi, Maka. Ti chiedi se hai fatto bene a fidarti ancora una volta di Soul. E ti chiedi se i tuoi amici riusciranno ad arrivare in tempo...»

«Loro arriveranno».

«Loro arriveranno di certo» ridacchiò il Kishin. «Resta da vedere quando».

Maka indietreggiò ancora. Sembrava che il Kishin non avesse alcuna fretta. Sapeva che gli altri sarebbero giunti da un momento all'altro, perché non vedendola al punto di ritrovo sarebbero corsi a cercarla. E poi, Stein avrebbe percepito immediatamente la presenza dell'anima del Kishin. Almeno lui sarebbe arrivato...

… allora perché quell'essere era così dannatamente sicuro?

«Dubbi, dubbi...»

«Smettila!»

«Dubbi, dubbi... quanti dubbi. Sembra facile fidarsi, quando tutto va bene, vero? Quando tutto è facile, quando non si ha paura di perdere tutto. In quel momento, però, cominciamo a chiederci se quelle debolezze che ognuno ha, non impediranno a coloro a cui ci siamo affidati di salvarci. In fondo, sai che i tuoi amici non sono abbastanza forti. E sai anche che tu stessa non possiedi la forza necessaria per vincere. Non è vero?»

Maka si sforzava di non sentire. Ma per quanto lo facesse, la voce di quell'essere le trapanava il cranio con un'insistenza a cui non riusciva minimamente a opporsi.

«Ah, ora sento il dubbio, dentro di te. Lo sento, bello grasso e vivo. Lo percepisci? Come una crisalide, si sta dibattendo... prima lentamente, e poi sempre più convulsamente, finché...»

«Soul, dammi la mano!»

Maka si voltò, lanciando a Soul uno sguardo supplichevole. Lui indietreggiò.

«Soul, per l'amor di dio!»

«Non posso essere la tua Buki!»

«Che diavolo fai, Soul! Muoviti!»

Lui alzò gli occhi sul Kishin, le cui braccia guizzanti terminavano unendosi in un abbraccio con la notte che li circondava entrambi. Ancora pochi attimi, e...

«Soul! Trasformati ora, o vattene!»

Soul guardò angosciato Maka, che lo fissava con le lacrime agli occhi, ma sul volto un'espressione di dura condanna. Strinse i denti.

«La senti, Maka?» esclamò il Kishin, trionfante. «La senti? È qui, e non la puoi battere! Arriva! È questa, la vera...»

«Maka, no!»

«...paura!»

Soul cercò di sottrarsi alla presa di Maka, ma non ce la fece. Non appena lei gli afferrò il braccio, il richiamo della sua volontà fu talmente forte che lui fu costretto a trasformarsi per lei. In un attimo, Maka strinse tra le mani una falce scintillante, la cui lama lucida rifletteva come bagliori di tenebra viva.

Gli occhi del Kishin dardeggiarono. Indietreggiò.

«E adesso» fece Maka «ti farò assaggiare la vera...»

Fu come se qualcosa avesse risucchiato l'aria attorno a lei. Maka strabuzzò gli occhi. Sentì la pelle tendersi e seccarsi, per poi spaccarsi e accartocciarsi. Fiamme di fuoco le dilaniavano la carne viva sotto di essa, e le ossa al suo interno si frantumarono. Lanciò un grido, che non lasciò mai la sua gola in fiamme. Un dolore lancinante la percorse tutta. Il sangue prese a ribollirle nelle vene.

Cadde, come da una distanza altissima. Era come se stesse cadendo all'interno di un pozzo, un pozzo profondissimo e buio. Una risata folle echeggiava attorno a lei, dentro di lei, risalendo le sue terminazioni nervose. Le esplose nel cervello, che si liquefece, come ghiaccio sotto l'azione del sole cocente. Si trovò a navigare in quella brodaglia grigiastra da cui le ombre di pensieri e ricordi spuntavano come punte di iceberg qua e là, o come pallidi relitti morenti.

Sentiva una pazzia sorda crescere in lei, e un'insana voglia di sfogare tutta la propria frustrazione, e rabbia. I suoi occhi le bruciavano, e sentì come una fiamma, ardere in fondo ad essi.

Doveva solo cedere. Era così, che diceva quella voce, no?

Abbandonati a me. Non ti lascerò mai più andare, te lo prometto...

«Maka!»

Ci fu uno schianto, e Maka tornò a respirare. Con le lacrime agli occhi, fissava smarrita il cielo sopra di sé. Era sdraiata a terra, il corpo raggelato e immobile. Il volto di Crona si affacciò ai suoi occhi.

«Crona...»

Con grandissima fatica, lei spostò lo sguardo sul ragazzo, che si voltò a guardare in un punto non precisato, poco lontano da loro. Maka si alzò, debolmente. Soul, nuovamente umano, aveva bloccato con un solo braccio l'avanzata del Kishin. Non appena vide che la ragazza si era ripresa, il suo sguardo si fece duro.

«Stai bene?»

Lei scosse la testa. Guardò Soul, quindi il Kishin. Poi abbassò lo sguardo. Fu allora, che se ne accorse.

L'ombra. L'ombra di Soul era unita a quella del Kishin.

Con le lacrime agli occhi, Maka socchiuse le labbra.

«Cosa hai fatto?» mormorò. Lui distolse lo sguardo. Improvvisamente, il Kishin scomparve, trasformandosi nell'ombra di Soul. Con un ultimo ghigno, essa rimase come scolpita sul muro, poi strisciò fino al suolo, svanendo.

«Ho provato a dirtelo» fece lui. «Ecco perché non potevo essere la tua Buki».

Maka non capiva. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma le lacrime la soffocavano.

«Soul...»

«Mi dispiace».

Il suono di numerosi passi echeggiò nella notte ormai agli sgoccioli. Soul serrò le labbra. Quindi si rivolse a Crona.

«Continua a prenderti cura di lei, per favore» disse. Crona annuì, triste. Maka li fissò entrambi, senza capire.

«Ieri mi hai fatto una promessa, Maka» fece Soul con un sorriso triste. «Mi aspetto che tu faccia il possibile per mantenerla. Vedi di non deludermi».

Quindi sparì, fuggendo nella notte.

Quando giunsero gli altri, Soul era già scomparso. Maka si alzò, liberandosi dalle domande insistenti degli altri con un gesto infastidito. Mosse qualche passo incerto, raggiungendo il punto in cui fino a pochi istanti prima si trovava Soul.

La notte stava finendo. Il silenzio che regnava su Death City era più fondo che mai. Un pallido raggio di luce accese l'orizzonte. Il mattino arrivò, e con esso un nuovo giorno.

Maka abbassò gli occhi. Ai suoi piedi, nella fredda luce di quel giorno appena nato, qualcosa emetteva un tenue bagliore. Si chinò. Era una piccola chiave, caduta lì chissà come. La prese, tenendola sul palmo.

Quindi si coprì gli occhi, e pianse.

 

 

 

 

 



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Capitolo 9
*** Il peso insopportabile di un segreto inconfessato: la terribile scelta del Sommo Shinigami? ***


Davanti al suo specchio, Shinigami osservava la neve cadere. Guardava i piccoli fiocchi scendere fitti sui tetti di Death City e sulle strade deserte, ormai completamente imbiancate. Un silenzio irreale ammantava la città, risalendo lungo i vicoli bui e le piazze ormai vuote, per poi stendersi come un velo sui giardini spogli e addormentati. E intanto, davanti ai suoi occhi, il Dio della Morte vedeva la notte calare un po' ovunque con la stessa, malinconica indifferenza con cui la neve ricopriva lentamente ogni cosa.

«Si sta facendo sempre più buio...»

La sua voce risuonò ovattata, come se il silenzio che la neve portava con sé si fosse via via accresciuto, avesse impregnato come una muffa i muri spessi della Shibusen e si fosse infine riversato al suo interno, stringendola in una morsa glaciale.

Shinigami si volse. Alle sue spalle, Stein fissava nel vuoto. Sembrava essersi smarrito nei propri pensieri.

«Sembra che alla fine sia successo ciò che più temevamo» mormorò Shinigami. «Non è così?».

Stein si ridestò improvvisamente, percorso da un brivido. Alzò gli occhi su Shinigami, fissandolo come se non avesse sentito. Quindi si frugò in tasca, ed estrasse il pacchetto di sigarette. Con una smorfia, notò che al suo interno ne rimaneva soltanto una.

«Sapevi benissimo che sarebbe potuto succedere» fece, accendendo un fiammifero. La fiamma divampò con un debole crepitio e lui la avvicinò alla sigaretta, che gli pendeva spiegazzata dalle labbra. Quando l'ebbe accesa, con un gesto secco Stein spense il fiammifero, ficcandoselo in tasca. «Dico bene?»

Shinigami taceva. Con sguardo fisso, continuava a osservare allo specchio l'immagine tremolante di Death City, come ipnotizzato.

«Spirit è ancora da Maka?» chiese Shinigami, dopo un tempo lunghissimo. Stein sospirò, gettando fuori tutto il fumo dai polmoni.

«Penso di sì» disse. «Vuoi che lo chiami?»

«No, non importa».

Stein annuì. Inarcò un sopracciglio, muovendo qualche passo per la stanza vuota.

«Maka sta bene, ma penso che per lei sia stato un duro colpo» saltò su, tutto d'un tratto. Alzò la testa a guardare il Dio della Morte che ancora taceva, dandogli le spalle. «Sinceramente, non ho idea di come reagirà».

«Ho piena fiducia in Maka» disse semplicemente Shinigami. «So che agirà nel modo migliore».

Stein annuì. «Tuttavia, quello che le è successo non è da sottovalutare» commentò. «Non devi dimenticarti che anni fa è stata infettata da Soul. Anche se è passato molto tempo, quella volta ha rischiato seriamente di cadere vittima della pazzia».

«Quella volta ha rischiato, è vero» ribatté Shinigami, deciso «ma alla fine è rimasto tutto sotto controllo».

«Mi spiace contraddirti, sommo Shinigami» disse Stein «ma la pazzia non è mai sotto controllo».

Shinigami si volse. Stein si sfilò la sigaretta dalle labbra, guardandolo distrattamente.

«Tu ne sai qualcosa?»

A quelle parole, Stein impallidì leggermente. Quindi sorrise, avvitandosi lentamente la grossa vite che gli trapassava il cranio.

«Touché» fece.

«Anche io sono preoccupato» ammise Shinigami. «Ma non per le tue stesse ragioni. Ciò che mi preoccupa, è l'integrità di Maka. Mi spaventa quello che può arrivare a fare, se scopre che quanto è accaduto a Soul, in parte, è legato proprio a lei».

Stein si spense la sigaretta contro il camice logoro, quindi infilò il mozzicone in tasca.

«Avremmo dovuto dirle tutto quando era il momento» fece. «Adesso è troppo tardi, non credi?»

Shinigami sospirò. Per un attimo, la sua figura curva e ingrigita apparve gravata da tutto il peso della fatica e delle responsabilità che aveva dovuto sopportare per così tanti anni. Vedendolo così provato, Stein ne provò quasi compassione. Un sentimento nuovo per lui, che lo sorprese.

«Non sarei mai voluto arrivare a questo» mormorò Shinigami. «Non un'altra volta».

«Con Azura fu diverso» fece Stein. Shinigami scosse la testa.

«Anche allora ho fallito» disse. «Ma stavolta, non permetterò a un mio errore di compiere di nuovo un tale disastro».

«E come pensi di fermarlo? Giusto per sapere».

«Troverò il modo» rispose Shinigami. Stein annuì, infilandosi le mani in tasca.

«Spero che tu sappia quello che stai facendo» mormorò «altrimenti...»

«No, che non lo sa».

Entrambi si volsero, sorpresi. Kid si trovava sulla soglia, il volto livido e teso. Fissava torvamente il padre, seminascosto dall'oscurità che regnava nella stanza. Shinigami, non appena lo riconobbe, gli mosse subito incontro.

«Kid...»

«Non hai la minima idea di cosa fare. Non è così?» fece Kid, scostandosi bruscamente. Shinigami non rispose. Restò immobile a guardare suo figlio, con le braccia ancora levate verso di lui. In silenzio, le lasciò ricadere stancamente.

«Tu che ci fai qui?» disse sprezzantemente Kid, rivolgendosi a Stein. L'uomo scrollò le spalle,con indifferenza.

«Sono dove Shinigami vuole che stia» rispose. «Se non mi vuoi, chiedi a tuo padre di congedarmi».

«No, resta» ordinò Shinigami. Kid aggrondò.

«Sembra che tu preferisca confidare i tuoi segreti agli estranei, piuttosto che a tuo figlio» fece. Shinigami lo fissò a lungo, ma senza alcuna ombra di ostilità.

«Kid, non c'è nulla che io voglia nasconderti».

«Smettila».

Il Dio della Morte si zittì, e sulla stanza calò un silenzio di ghiaccio.

«La madre di mio figlio è in un letto d'ospedale, quindi smettila di comportarti così, e di parlarmi con quella voce da vecchio ubriacone» ringhiò Kid. «Questa tua farsa da pagliaccio mi ha stancato, papà. Quindi, vedi di piantarla e comincia a dimostrare un po' di rispetto per me e per Maka, comportandoti in modo adeguato a quello che sei!»

Stein socchiuse gli occhi, improvvisamente interessato da ciò che stava accadendo. Spostò lo sguardo sulla maschera di Shinigami, osservandolo attentamente. Lo vide sospirare e chinarsi sul figlio, fissandolo dritto in volto attraverso le orbite vuote della sua maschera bianca.

«Hai ragione» disse Shinigami, inaspettatamente. La sua voce risuonò cupa e profonda, abbandonando il consueto tono ilare. «Mi dispiace».

Kid sospirò, cacciandosi le mani in tasca.

«Maka sta bene» fece, cercando di mostrarsi tranquillo. «Nygus ha deciso di trattenerla solo per alcuni accertamenti. Suo padre è ancora là, gli ho detto di non preoccuparsi e di restare tutto il tempo che ritiene necessario. Spero non ti dispiaccia».

«Kid, ciò che è accaduto a Maka è stata solo colpa mia» disse Shinigami. «Io...»

«Certo che è stata colpa tua» ringhiò Kid, voltandosi di scatto. «Sbaglio o ti avevo supplicato di non affidarle più quel balordo? E tu non hai trovato nulla di meglio che fare proprio il contrario di quanto ti avevo chiesto!».

«Non capisci, io...»

«Ho sempre fatto tutto quello che mi hai chiesto» sibilò Kid, avvicinandosi minacciosamente al padre. «Ho sempre eseguito i tuoi ordini, senza mai farti una domanda. Ti ho sempre assecondato, senza chiedere nulla. Tutto ciò che volevo, era che tu proteggessi la mia famiglia. Ti costava così tanto, accontentarmi?»

Shinigami scosse il capo. La sua maschera aveva progressivamente abbandonato i tratti gentili di un tempo, assumendo dei lineamenti più duri e cupi.

«Non avrei mai voluto mettere Maka in pericolo, lo sai».

«No, io non lo so!» esclamò Kid. «Perché adesso lei è in infermeria, mentre se solo tu non l'avessi mandata con Soul...»

«...se solo tuo padre non l'avesse mandata con Soul, probabilmente qualcun altro adesso sarebbe morto» si intromise Stein. «Davvero avresti voluto una cosa del genere, Kid?»

Kid si voltò, lanciando a Stein un'occhiata tagliente. Serrò le labbra, infastidito dalla sua intromissione. Detestava ammettere che avesse ragione; ma per quanto si sforzasse, non riusciva a trovare nulla per controbattere.

«Io sapevo che Soul l'avrebbe tradita di nuovo» scattò, livido. «Tutti lo immaginavano. Eppure...»

«Soul non l'ha tradita» fece Shinigami, del tutto all'improvviso. Sorpreso, Kid lo fissò aggrondando.

«Cosa?»

«Soul non ha mai tradito Maka» ripeté Shinigami. «Tutto quello che ha fatto, è stato per proteggerla».

«Proteggerla?» rise Kid. «E da chi? Dal Kishin che per poco a causa sua non l'ammazzava?»

«Da quello» fece Stein, scuro in volto. «E dalla parte più terribile di se stessa. Quella parte di lei, che ancora Maka non sa di avere».

«Voi siete fuori di testa» sbottò Kid. «Volete farmi credere che Soul è diventato un mostro per proteggere...»

Improvvisamente, gli occhi di Kid si accesero di una consapevolezza completamente nuova. Fissò prima il padre, poi Stein, scuotendo la testa incredulo.

«no... non può essere...»

Stein inarcò un sopracciglio, sorridendo.

«Il legame che c'è tra quei due, va molto al di là di quello che immagini» fece. «Ed è per questo che ora Maka si trova in infermeria, e che Soul divide la sua anima con un Kishin».

Kid abbassò gli occhi, stordito. Era incapace di pensare. L'idea che Soul si fosse spinto a tal punto per aiutare Maka, apriva degli scenari per lui del tutto inaspettati, mostrandogli per la prima volta e tutta insieme la terribile fragilità di Maka. Una fragilità di cui lui non si era mai veramente accorto e che ancora non riusciva completamente ad accettare.

«Com'è potuto accadere?» domandò, sbattendo le palpebre confuso. Stein lo fissò con una luce sinistra negli occhi.

«Davvero vuoi saperlo?» fece. «Perché forse ti sarà più facile accettare le cose per come ti appaiono adesso».

«È naturale che voglia saperlo» sibilò Kid. «Sono stanco di tutte queste menzogne».

Stein fece per dire qualcosa, ma Shinigami lo zittì con semplice gesto della mano. Kid sollevò gli occhi su di lui, fissandolo duramente.

«Durante la sua prima battaglia contro Crona, Soul è stato infettato dal sangue nero» disse Shinigami. «Ma questo già lo sai, come sai che anche in seguito, quando lui e Maka si sono trovati ad affrontarlo di nuovo, per vincere hanno dovuto fare affidamento alla pazzia prodotta proprio dal sangue nero che scorreva nel corpo di Soul. È stato un rischio quello che hanno corso, e molto grande. Avrebbero potuto cadere entrambi vittime della pazzia... ma per qualche ragione, hanno resistito. E alla fine, hanno vinto».

«So tutto di questa storia» tagliò corto Kid «esattamente come so che Maka ha aiutato Soul a sconfiggere il demone della follia che il sangue nero gli aveva nascosto in corpo. Quindi, per favore, raccontami qualcosa che ancora non so!»

«Quello che non sai, è che qualcosa in Maka, dopo quella battaglia contro Crona, è cambiato profondamente» intervenne Stein. «Durante lo scontro con Azura, Maka si è trovata a dover affrontare da sola un Kishin. L'ha fatto ricorrendo a tutte le sue forze e al suo coraggio, è vero; ma per un brevissimo istante, la paura e il terrore che Azura le ha riversato addosso, hanno risvegliato in lei quel sangue che a suo tempo l'aveva in qualche modo infettata, e che aspettava solo di essere stuzzicato».

«Vuoi dire quando...»

Stein annuì. «Esatto. Quando Maka si è trasformata in Buki, è stato a causa del sangue nero. Lei si era accorta di essere stata infettata da Soul già molto tempo prima, esattamente nello scontro contro Free, a Londra, poco dopo l'incontro con Crona. A quanto pare, il sangue nero riesce a trasmettersi da una Buki al suo Shokunin attraverso la semplice risonanza dell'anima, o attraverso il semplice contatto. Ma ancora non sappiamo nulla di preciso al riguardo, perché Shinigami non mi permette di fare gli esperimenti necessari...»

Stein lanciò al Dio della Morte un'occhiata in tralice, seguita da un brevissimo ghigno. «E forse, visto come stanno le cose, non ha tutti i torti. Ma il punto è un altro, e cioè che ormai Maka si era infettata. Il sangue nero aveva preso a scorrere anche dentro di lei, oltre che in Soul. E ogni volta che la loro debolezza veniva in qualche modo allo scoperto, per vincerla facevano inconsapevolmente affidamento alla forza che il sangue nero sembrava loro concedere. Questo, almeno, finché Maka non si è trovata per la prima volta sola di fronte alle proprie paure... è stato in quel momento che il sangue nero ha preso il sopravvento su di lei. Servendosi dei suoi dubbi, ha annullato la sua coscienza, risvegliandola come arma».

«Ma questo cosa c'entra con...»

«Ora ci arrivo» riprese Stein. «Otto anni fa, Soul venne da me perché qualcosa lo impensieriva. Si era accorto che durante gli ultimi combattimenti, tra lui e Maka era cambiato qualcosa. Più combattevano, più dovevano scontrarsi con i limiti che derivavano dalla loro debolezza... una debolezza che Maka non riusciva ad accettare ma che ha sempre avuto. È inutile nasconderlo. Lei e Soul non sono mai stati una coppia molto forte. Prendi Black Star e Tsubaki» fece Stein, scrollando le spalle. «Loro sono forti ed equilibrati, i migliori in assoluto. Ma sebbene Maka fosse deboluccia e Soul avesse qualche pecca, avevano un'arma dalla loro parte, qualcosa che gli altri non avevano. Il coraggio di Maka, e la dedizione assoluta di Soul... fu questo che permise loro di superare tutti gli ostacoli, ergendosi al di sopra di tutti i loro compagni. Tuttavia, a lungo andare anche queste qualità non bastarono più...»

Stein si interruppe di nuovo, mettendosi a frugare nelle tasche alla ricerca di una sigaretta. Non trovandola, il suo volto si piegò in una smorfia di delusione.

«Comunque, per farla breve» riprese, schiarendosi la voce «più passava il tempo, più Soul si accorgeva che il sangue nero che scorreva in Maka aveva cominciato a risvegliare una parte di lei fino ad allora nascosta. Era quel lato della sua persona che usciva allo scoperto solo nei momenti di maggiore tensione e paura. Quando questo accadeva, Soul avvertiva chiaramente la presenza di qualcosa di estraneo, qualcosa che cercava di intromettersi silenziosamente tra loro, e che per qualche ragione riusciva persino a sottomettere la sua anima alla propria volontà. Era come se un'altra Maka si dibattesse nel profondo di se stessa, una Maka permeata da una forza oscura e pericolosa. Ogni volta che quell'essere si risvegliava in lei, Soul sentiva che la sua anima era letteralmente costretta ad affidarsi al sangue nero, se voleva resistere... questo lo portò a diventare sempre più dipendente da esso, finché non si rese conto che ogni volta che lui si serviva del sangue nero, l'essere che cresceva dentro di Maka aumentava la propria potenza; e questo fu chiaro nel momento in cui avvertì chiaramente l'anima di quell'essere, per la prima volta, come qualcosa di indipendente e di vivo».

Kid spalancò gli occhi, incredulo.

«L'anima?» sussurrò. «Vuoi dire che il sangue nero...»

«Si era impossessato a tal punto di Maka da appropriarsi della parte più nascosta di lei, quella che le permetteva di trasformarsi in Buki. Legandosi ad essa, il sangue nero cominciò a darsi un corpo e una forma... forse non lo sai» mormorò Stein, ammiccando «ma Soul faceva spesso un sogno. Un incubo, a dir la verità. Sognava di trovarsi rinchiuso in un luogo buio, illuminato da una sola, pallida luce. Oltre quella luce, lui sentiva la voce di Maka, che lo chiamava. Con un grandissimo sforzo, lui riusciva a risollevarsi e a risalire lungo le tenebre fino a raggiungere la luce... ma quando finalmente riusciva a sbucare all'aperto, scopriva che il luogo da cui era uscito non era altro che il ventre stesso di Maka. Quel sogno, in qualche modo, raccontava la verità. L'essere che cresceva dentro Maka, si stava pian piano formando; e presto, grazie alla presa che il sangue nero esercitava su di lei, avrebbe acquistato la capacità di sviluppare un proprio corpo, dividendo così l'anima di lei in due. Se fosse riuscito a farlo, Maka si sarebbe trovata per sempre legata a un Kishin, realizzando proprio ciò che Medusa aveva cercato di fare con Crona, anche se in modo molto diverso... perché in questo caso, il Kishin si sarebbe sviluppato da Maka stessa; e non da un essere estraneo fuso con lei. Fu per questo motivo che Soul decise di prendere su di sé quella responsabilità. Per liberare Maka dal potere del sangue nero, cominciò a essere il primo a servirsene. Presto, il sangue nero cambiò oggetto delle sue attenzioni, trovando in Soul un corpo più forte e un alleato all'apparenza più docile. Soul fece tutto questo di nascosto, senza dire nulla alla Shibusen. Fu questo il suo errore. Ma se lo fece, fu comunque in buona fede... perciò, immagino possa essere scusato. Almeno in parte...»

Stein si interruppe, tirando su col naso. Guardò Kid intensamente, e provò tenerezza per lui, vedendolo scosso da un'emozione che riusciva a stento a trattenere. In fondo, era solo un ragazzo gravato da responsabilità che nessuno, alla sua età, avrebbe mai dovuto avere.

«Ma perché non ha detto nulla?» domandò Kid, cupo. «Poteva parlarne con noi, con i suoi amici... poteva parlarne con Maka...»

«Aveva provato a parlare a Maka delle sue perplessità» disse Shinigami. «Sebbene con riluttanza, le espresse il falso desiderio di lasciarsi la vita della Shibusen alle spalle. Maka non prese bene la cosa e lui, per non farla soffrire, accettò di continuare a combattere. Questo andò avanti finché Maka non riuscì a trasformarlo in una Death Scythe. Lei era così felice... aveva raggiunto il suo scopo, ciò per cui aveva lottato così duramente per tanti anni. L'unico problema era che, in tutto quel tempo, il sangue nero aveva continuato a esigere il proprio tributo all'anima di Soul. In silenzio, il demone era cresciuto dentro di lui; finché Soul non si accorse che questo si era completamente risvegliato in un essere indipendente, che per quanto si sforzasse non riusciva più a controllare».

«Avvenne durante l'ultima battaglia che Soul combatté insime a Maka» intervenne Stein. «In quell'occasione, lei cadde improvvisamente in stato di incoscienza. Soul provò a fermarla, ma sembrava impossibile. Era come se l'essere che nascondeva dentro di sé si fosse impossessato anche di lei, spingendola sull'orlo di una pazzia incontrollabile. Fu solo con uno sforzo estremo che Soul riuscì a liberare entrambi dal Kishin. In seguito, Maka non ricordò nulla di quanto le era accaduto, ma Soul ne uscì terrorizzato. Venne da me, raccontandomi per la prima volta ogni cosa. E io, a mia volta, ne parlai a Shinigami. Fu allora, che tuo padre decise di allontanarlo».

«Allontanarlo?» esalò Kid, che non riusciva a rassegnarsi a quello che Stein gli stava confidando. «Siete stati voi a mandarlo via? Ma perché? Non potevate invece aiutarlo?»

«Non avevamo scelta» riprese Shinigami. Kid sbarrò gli occhi, colpito dalla durezza del padre. «Maka non avrebbe mai accettato di lasciare Soul e se avesse saputo quello che stava succedendo, avrebbe potuto reagire anche in modo tale da cadere vittima del sangue nero che ancora scorreva in lei. In quel momento, era troppo vulnerabile: noi dovevamo assolutamente fermare il Kishin, ma l'unico modo che avevamo era lasciarlo venire allo scoperto. Solo che, così facendo, avrebbe potuto approfittare nuovamente della debolezza di Maka. Fu per questo che incaricai Soul di svolgere alcune missioni in solitaria. Sapevo che una volta solo, Soul avrebbe lasciato spazio al Kishin, perché ormai la sua anima era troppo debole per resistere alla forza di quell'essere. Credo che anche lui se ne rendesse conto, perché fece tutto ciò che gli venne ordinato, senza mai tirarsi indietro. E man mano che combatteva, il mostro dentro di lui cresceva... finché, alla fine, non esplose».

Kid scosse la testa. Le labbra socchiuse, non riusciva a credere che suo padre avesse potuto fare una cosa del genere a un suo amico. Per un attimo non trovò nulla da dire, ancora confuso dall'eco assordante di una verità che lo sconcertava.

«E perché è tornato, allora?» disse, deglutendo con grandissimo sforzo. «Perché tornare, visto quello che lo attendeva...»

«Perché mi aveva promesso di farlo non appena il Kishin si fosse pienamente manifestato, in modo da poterlo uccidere quando ancora non aveva annullato del tutto la sua volontà».

Kid socchiuse gli occhi. «Uccidere il Kishin...» mormorò. «Ma questo...»

Shinigami si zittì. Stein annuì gravemente col capo.

«Vedo che hai capito» disse. «L'unico modo che abbiamo di uccidere il Kishin, è distruggere l'anima che lo sorregge. Perciò, per ucciderlo, bisogna prima uccidere Soul».

Kid vacillò. Alzò gli occhi smarriti sul volto del padre, come a supplicarlo che quanto aveva appena sentito non fosse vero. Di fronte all'espressione desolata di Shinigami, Kid si sentì come annientato.

«Non posso crederci» esalò. «Praticamente... voi l'avete condannato a morte».

«C'era una ragione superiore» fece Stein. Kid si voltò a fulminarlo con lo sguardo.

«Ragione... superiore?» esalò. «E lo chiami così, questo schifo?»

«Come sei ingenuo» ribatté Stein, torvo. «Credi che il bene possa trionfare sempre e comunque e che sia sufficiente mettersi ad aspettare, perché accada? Soul sapeva quello che rischiava. Avrebbe potuto rifiutarsi, ma non l'ha fatto. Ha fatto semplicemente il suo dovere, per la Shibusen e per il suo Shokunin».

«Lui non aveva il dovere di immolarsi».

«Tutte le Buki hanno il dovere di sacrificarsi per il loro Shokunin. E ognuno di noi ha il dovere di farlo per la Shibusen» obiettò Stein. «Se non la pensi così, non capisco proprio cosa tu ci stia a fare, in questa stanza».

Kid si scagliò contro Stein, afferrandolo per il colletto. L'uomo sghignazzò, trovando molto divertente quel suo gesto inconsulto.

«Come osi parlarmi così, razza di pazzo maniaco...»

«Adesso basta!»

Shinigami si voltò, affrontando Kid con gli occhi ridotti a due sottili fessure. «Ciò che è successo, è mia completa responsabilità. Sono stato io a volere che Soul sviluppasse il demone che aveva in corpo, e sono stato io a volere che lasciasse la Shibusen senza dire nulla a nessuno. Ma ciò che ho fatto, non è assolutamente in discussione!»

«Quindi è così?» sibilò Kid, fissandolo con aria di sfida. «E ti aspetti che anche stavolta io faccia quello che vuoi, senza ribattere?»

«No, io mi aspetto che tu ti fidi di me» mormorò Shinigami, improvvisamente intenerito. «Solo questo, Kid...»

Kid indietreggiò, allentando la presa su Stein fino a lasciarlo. Lentamente, alzò il volto sulla maschera del padre.

«Soul era mio amico, papà» fece, con gli occhi che gli tremavano per la commozione. «Ti rendi conto di quello che mi chiedi?»

«Soul non esiste più» disse Stein, in tono piatto, rigirando la vite che aveva in testa. «Farai meglio ad abituarti all'idea, per il bene di tutti».

Kid strinse i pugni, voltando le spalle a entrambi. Prese un profondo respiro, chiudendo gli occhi. Quindi «qualcun altro sa di questa cosa?» chiese, in tono piatto. Shinigami fece un passo verso di lui.

«Solo Spirit» disse, posandogli una mano sulla spalla. A quel tocco inaspettato, Kid trasalì.

«Maka non dovrà mai saperlo» fece, senza voltarsi. «Se lo scoprisse, ne morirebbe».

«Lei vorrebbe saperlo» obiettò Stein. «Non è più una bambina, Kid».

«Lei non lo saprà finché non sarò io a decidere se e quando dirglielo» ringhiò, fulminandolo con lo sguardo. «E se qualcuno prova a farne parola con lei, giuro che lo uccido con le mie mani».

 

 

 

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Capitolo 10
*** Tristezza, sfiducia, disperazione? Il potere di un dubbio che cancella ogni cosa? ***


«Bene, direi che è tutto a posto».

Nygus diede un'ultima occhiata alla cartella, prima di richiuderla con uno scatto. Maka la guardò speranzosa. Era tutto il giorno che se ne stava immobile su quel letto e ormai non ne poteva davvero più.

«Allora posso andare?» domandò. Di fronte al suo sguardo incredulo, Nygus sorrise. O almeno così pensò Maka, perché le bende che le avvolgevano il viso si tesero leggermente e le palpebre le si socchiusero appena, creando due piccole e graziose rughe agli angoli degli occhi.

«Sì, ma devi promettermi di non affaticarti troppo» rispose Nygus. «Dopo tutto, quello che ti è successo non è mica uno scherzo».

Già...

Maka chiuse gli occhi; e subito il volto del Kishin si materializzò come dal nulla, pronto a tormentarla insieme all'eco terribile della sua voce, che ancora le gridava nelle orecchie fino a farle sanguinare. Con un brivido, Maka avvertì la sua risata spettrale risalire lungo il suo corpo con un'insistenza viscida e perversa. Era come essere percorsa da una lingua fredda e affilata, che leccandola le sollevava la pelle, scorticandola fino a raggiungere la carne viva e dolorante e le ossa bianche sotto di essa. La udì spingersi e penetrarla fino ai recessi più nascosti della propria anima, dove finì con l'avvolgersi stretta attorno al cuore, stringendolo tra le sue spire come una serpe molle e disgustosa.

Bastò quell'attimo, perché l'intera stanza in cui si trovava finisse aggrovigliata nella notte più densa e profonda che potesse ricordare. Una notte in cui sembrava morta ogni speranza.

«Maka?»

Maka riaprì gli occhi. Il volto di Nygus era chino su di lei e la fissava intensamente, come a cercare sul suo volto le tracce di un qualche male invisibile.

«Sto bene» fece Maka con un sorriso spiegazzato.

«Prova ad alzarti».

Maka annuì, ma fu un'impresa meno semplice del previsto. Una volta sollevata dal cuscino, la testa prese a girarle convulsamente e un vago senso di nausea le serrò immediatamente lo stomaco. Il suo malessere peggiorò appena cercò di mettersi in piedi. Era come se qualcuno le avesse appena sferrato un pugno all'addome, divertendosi poi a conficcarle un lungo chiodo in testa, a martellate.

«Sto per vomitare...» esalò, piegandosi su se stessa. Nygus si affrettò a sorreggerla proprio mentre le gambe stavano per cederle. Confusa, Maka si afflosciò contro il letto, appoggiandosi al materasso con le mani e aggrappandosi alle lenzuola per non cadere. Trattenne il fiato, cercando di dominare i conati che le risalivano lungo l'esofago. Dopo qualche secondo, quando finalmente tornò a respirare, si sentiva come se avesse bucato la superficie dell'acqua dopo un'interminabile apnea.

«Va tutto bene?» chiese Nygus, chinandosi a guardarla in volto preoccupata. Maka annuì distrattamente, stringendo le labbra fino a farle diventare livide.

«Benissimo» mormorò.

Ovviamente, non era vero. Non andava bene per niente.

«Probabilmente è stato un calo di pressione» osservò Nygus. «Non avresti dovuto alzarti tanto in fretta».

Maka sospirò, drizzando la schiena e chiudendo gli occhi. Si sentiva tutta indolenzita, come se qualcuno le avesse camminato addosso. E più si muoveva, più il dolore aumentava.

«Dio, che sensazione schifosa» fece, asciugandosi la saliva agli angoli della bocca «mi sembra di essere di nuovo incinta».

Nygus strabuzzò gli occhi, afferrando la cartella che aveva lasciato sulla scrivania. Cominciò a scorrere i dati degli esami con aria preoccupata. Maka rise.

«Tranquilla» fece. «Ti assicuro che non può essere».

Nygus la studiò per un istante, perplessa; alla fine sembrò convincersi, e tornò a rilassarsi. Con un sorriso divertito, allungò a Maka la giacca, aiutandola pian piano a rivestirsi.

«Dì un po', cosa pensi di fare con lui?» disse, all'improvviso. Maka la guardò senza capire. La vide ammiccare in direzione della porta, e si sporse a guardare, incuriosita. Suo padre passò davanti al vetro proprio in quel momento. In volto aveva un'espressione tetra e sembrava decisamente preoccupato. Probabilmente, camminava avanti e indietro davanti a quella porta da ore.

«È qui da stamattina» osservò Nygus, con un sorriso affettuoso. «Non l'ho fatto entrare perché non volevo che ti agitassi. Però, adesso...»

«Da stamattina, dici?»

Maka terminò di abbottonarsi l'impermeabile, fissando annoiata la porta. Suo padre si fermò, appoggiando le mani contro il vetro e mettendosi a sbirciare ansiosamente all'interno. Maka arrossì.

«Non è che posso uscire dalla finestra?» domandò. Nygus ridacchiò, ma accorgendosi che Maka faceva sul serio, le rivolse uno sguardo corrucciato.

«Maka, credo che sia davvero in pensiero...»

«Non mi interessa» fece lei, del tutto indifferente.

«Beh, interessa a me. Non lo lascerò lì a tormentarsi. Quindi ora lo farò entrare, che ti piaccia o no».

«Fai pure, ma non aspettarti che io resti ad ascoltare le sue lagne».

Si avvicinò alla porta, ma Nygus fu più veloce di lei. Le sbarrò la strada, frapponendosi tra lei e il corridoio e sporgendo la testa a cercare Spirit. Maka, dietro di lei, spingeva per uscire; ma non appena Spirit si accorse che l'infermiera era sbucata dalla stanza, si volse e si affrettò ad avvicinarsi di corsa alla porta, costringendola a retrocedere.

«Maka?» domandò, affacciandosi nervoso a cercarla. Vedendola in piedi alle spalle di Nygus, fece per entrare. Maka impallidì, spostandosi prontamente contro il muro.

«Maka! Come stai?»

«Sto bene» fece lei, sgusciando con una smorfia oltre la porta. Nygus cercò di fermarla, ma Maka fu più decisa e si liberò facilmente della sua presa. Si affrettò ad allontanarsi, senza quasi voltarsi indietro.

«Vattene, papà. Non hai niente da fare, qui» gli gridò, affrettando il passo.

«Come?»

Mortificato, Spirit lanciò a Nygus un'occhiata confusa. Di fronte allo sguardo desolato di lei sorrise, colto da un profondo imbarazzo.

«Non diceva sul serio...» fece, quasi per scusarsi. Nygus inarcò un sopracciglio.

«Maka, aspetta!» Spirit si congedò da Nygus con un rapido quanto rigido cenno di saluto. Quindi corse dietro alla figlia, che già aveva svoltato oltre il corridoio.

«Non dovresti andare da sola» le disse, una volta raggiunta. Maka scrollò le spalle.

«Lasciami in pace» ribatté lei, fredda. Fissava dritto davanti a sé, senza nemmeno dedicargli uno sguardo. Spirit allungò il passo e fece per toccarla, ma lei si girò di scatto ad affrontarlo, fissandolo livida.

«Non toccarmi!» sibilò. Spirit indietreggiò, stupito. Maka lo fissò senza sapere cosa dire, in parte sorpresa dalla sua stessa reazione. Non sapendo nemmeno dove posare gli occhi, fece per voltarsi ed andarsene; ma dopo appena due passi, la testa cominciò a girarle confusamente e lei si accasciò contro la parete, stordita. Spirit si precipitò subito a sorreggerla.

«Visto?» sibilò Maka, portandosi una mano alla fronte, mentre con l'altra cercava il muro alle sue spalle. «È tutta colpa tua».

«Dovresti sederti» le disse Spirit, senza curarsi degli schiaffi che lei gli rifilava per tenerlo lontano. Strinse le labbra, guardandosi attorno. C'era un distributore automatico, poco più avanti. Lui glielo indicò con un cenno.

«Vuoi un caffè?» chiese. Maka sbuffò, fissandolo di sottecchi.

«Poi però ti togli dai piedi?» disse. Spirit annuì, con l'accenno di un sorriso.

«In questo caso, vada per il caffè».

Non c'era posto per sedersi, e il caffè dovettero berlo in piedi. Oltretutto, era quasi freddo; insomma, faceva davvero schifo. Maka lo finì ugualmente, bevendolo come si può bere una medicina. Sembrò funzionare. Per un attimo, la nausea che ancora provava parve attenuarsi.

«Grazie per il caffè» disse, gettando con una smorfia il bicchiere nel bidone dei rifiuti e stringendo la borsetta sotto il braccio. «Adesso però devo proprio andare».

«Maka, aspetta ti prego».

Maka si girò, fissando il padre con un astio profondo. Spirit gettò via il bicchiere mezzo vuoto, pulendosi le mani sul suo elegante vestito gessato, ormai tutto spiegazzato.

«Mi dispiace davvero per quello che ti è successo» fece. Maka lo fissò incredula per qualche istante. Quindi, inaspettatamente, scoppiò a ridere.

«Ti dispiace?» disse. «E perché? Cosa mi è successo, di tanto strano?»

Lui scosse la testa. Sembrò non capire.

«Quello che ti è successo oggi» fece, scuotendo il capo. «Soul, il Kishin...»

«Papà, lascia che ti spieghi una cosa...»

Maka si avvicinò di un passo. Si morse le labbra per poi socchiuderle, come se cercasse le parole giuste da dire. Non venendole in mente nulla di preciso, alzò gli occhi sul volto sconcertato del padre, decisa a dire semplicemente quello che sentiva.

«Oggi, non è successo nulla» esordì. «Niente che non conoscessi già. Vuoi sapere cos'è successo? Beh, eccoti accontentato. È successo che sono stata tradita ancora una volta da un uomo di cui mi fidavo. Questo ti dice qualcosa, papà?»

Spirit arrossì, colpito dall'evidenza di quelle parole.

«Maka, io...»

«No, ovvio» riprese lei, senza nemmeno lasciarlo finire. «E come potrebbe, visto che sei così inconsapevole che nemmeno ti accorgi di quello che fai, quando lo fai. Sai, persino mio figlio è più maturo di te. E ha solo cinque anni».

Maka strinse il pugno. Fu allora, per la prima volta, che si rese conto di avere ancora in mano la piccola chiave che aveva raccolto in strada, quella mattina. Non l'aveva lasciata per tutto il tempo in cui era stata trattenuta in infermeria. Quando aprì le dita, la chiave era proprio lì, sul suo palmo arrossato, che risplendeva debolmente alla fredda luce bianca del neon. Senza dire una parola, la strinse, portandola inavvertitamente al petto. Era calda.

«Non dire così» mormorò Spirit, desolato. «Tu sai che io amo te e la mamma più di ogni cosa».

A quelle parole, Maka inorridì.

«Non è vero» fece. «Smettila di dire sempre le stesse cose, una buona volta! È tutta la vita che mi ripeti che ''mi ami più di ogni cosa''... mi prendi per scema?»

«Ma è la verità!» esclamò Spirit, con un'enfasi che suonò esagerata persino a lui stesso. Arrossì, schiarendosi la voce e abbassando gli occhi di fronte a un gruppo di studenti che passava in quel momento di là. «Io non potrei mai mentirti, Maka» sussurrò.

«Ma se lo fai in continuazione!» Maka scoppiò a ridere, allargando le braccia. «Senti, papà, fammi un favore: lascia perdere. Se sei qui per metterti il cuore in pace, sappi che io sto bene. Dopo tutto quello che mi hai fatto passare, a cose come queste sono vaccinata. Cosa vuoi che sia un tradimento in più o in meno?»

Spirit lanciò un'occhiata agli studenti, che ora lo fissavano e lo indicavano curiosi, parlottando fittamente tra loro. Due ragazze gli rivolsero una smorfia piuttosto sprezzante.

«Maka, tu non sai quello che è successo» disse, cercando di prenderla per le spalle per portarla lontano. Ma non appena le fu vicino, Maka indietreggiò disgustata, alzando le mani.

«Non provare a toccarmi» sibilò, dura. «Dici che non so cos'è successo? Beh, non me ne frega un cazzo, papà, di quello che è successo. Non me ne frega un cazzo di sapere perché quello stronzo mi ha piantato in asso per la seconda volta, né del perché tu ogni volta che mi fai una promessa, ti diverti poi a infrangerla. La verità è che sono stanca di te, di lui, di tutti quelli come voi. Voi giocate con le persone, e non vi preoccupate di nient'altro che di voi stessi. Mi fate venire il vomito».

«Maka, tu non pensi questo».

«Lasciami finire!»

Spirit drizzò la schiena, infilandosi le mani in tasca, in silenzio. Gli studenti che si erano riuniti lì attorno per curiosare si allontanarono imbarazzati, senza alzare gli occhi dai libri che avevano aperto distrattamente. Maka li osservò dileguarsi con le lacrime agli occhi, e il volto acceso dall'emozione. Quindi si voltò, fissando il padre in preda a una furia che riusciva a stento a trattenere.

«Per tutta la vita ho cercato di dimostrare al mondo che non avevo bisogno di te» fece, tirando su con il naso. «Ho passato la mia infanzia a cercare di capire se ero io la colpa di tutto, e cosa ci fosse in me che non ti piaceva... perché credevo che fossi io l'errore, che fosse dentro di me, o che non fossi abbastanza bella per te».

«Non è così» mormorò Spirit, commosso.

«Lo so, io non ho fatto niente. Ma ho dovuto capirlo da sola, papà. Ci ho messo anni a capire che non è colpa mia, se sono quella che sono. Posso non essere perfetta, posso non essere la figlia che volevi, ma sono quello che sono e mi hai messo al mondo anche tu. Ma il problema è che a te non interessa avere una figlia. E se questo a te non interessa, allora non importa più neanche a me. Non voglio più dispiacermi perché non mi consideri, né voglio cambiare perché l'uomo che amo non mi reputa abbastanza per lui».

«Ma di che stai parlando?»

«Io sono io, papà» fece Maka, puntandosi un dito contro il petto, in lacrime. «E volevo farti vedere che potevo essere forte anche senza di te. Volevo raggiungere la mamma e sorpassare la tua fama, ma adesso... adesso non mi interessa più» pianse. «Sai cosa? Non mi frega più un cazzo di te. Non ne vale la pena di perdere del tempo per te. L'unica cosa che mi dispiace, è che per quanto io provi a non volerti bene, proprio non ce la faccio a non pensare che sarebbe bello se tu fossi mio padre... ed è per questo che poi io ci ricasco ogni volta, perché prima mi ignori, poi mi vieni a cercare... ed è così bello quando ci sei... solo che tu, poi, non ci sei mai davvero».

Spirit si avvicinò di un passo, ma lei si allontanò, quasi fosse pronta a fuggire.

«Maka, mi dispiace» mormorò Spirit, la voce rotta dall'emozione. «Credimi!»

Maka scosse la testa, passandosi rudemente il dorso della mano sugli occhi e scostandosi la frangia dal volto.

«È questo, tutto quello che sai dire... mi dispiace. È tutta la vita che dici mi dispiace, e credi che basti? La verità, è che fai finta di interessarti a me, quando non sai niente di chi sono, o di cosa faccio. Cosa sei venuto a fare, oggi? Spiegamelo!»

«Come puoi dire che non so niente di te?» ruggì Spirit, ora davvero arrabbiato. «Tu sei mia figlia! E sono venuto perché ero preoccupato per te».

«Allora avanti!» gridò lei. «Se è vero quello che dici, dimmi qualcosa, qualcosa su di me che dovresti sapere. Dimmelo!»

«So... so che ami i libri più di ogni cosa» fece Spirit, senza troppa convinzione. Maka sbatté le palpebre, e una lacrima le scese solitaria lungo la guancia.

«Non è vero».

Spirit impallidì. «Lo fai apposta» disse, torvo. «Tutti sanno che leggere è la cosa che ami di più».

«Tutti lo sanno, ma non significa che sia vero, papà» mormorò Maka. «Come dicevo, tu non sai niente di me».

Spirit si sentì raggelare. Fu in quel momento che forse cominciò a guardare il volto di sua figlia per la prima volta, senza darlo più per scontato. Sbatté le palpebre, cercando di aggrapparsi a qualcosa, qualsiasi cosa potesse riportargli alla mente un particolare dimenticato che riuscisse a farle capire quanto in realtà si sbagliasse su di lui, perché lui le voleva bene davvero. Ma più si sforzava, più il volto della bambina che per tutto quel tempo aveva continuato ad avere davanti agli occhi impallidiva, lasciando al suo posto quello di una ragazza di cui non ricordava quasi nemmeno il nome.

«Se non so niente di te, è perché tu non mi permetti di far parte della tua vita» disse. Maka sorrise freddamente.

«Sì, è così» disse, con tutta la calma che riuscì a mantenere. «Io non voglio più avere niente a che fare con te».

Spirit sbiancò, serrando le labbra. Per un attimo, gli mancò perfino il respiro.

«Sei crudele» esalò.

«E tu, allora?» riprese Maka, con aria di sfida. «Sei esattamente uguale a lui. Illudete le persone, promettete di essere quello che non siete. Mi avete fatto credere di essere importante, per voi. Io vi ho creduto, ho creduto a te, e a lui» singhiozzò. «Ma almeno lui... pensavo non mi avrebbe mai abbandonato, credevo che non fosse come te e ne ero così sicura... ancora una volta, ci sono cascata come una stupida».

«Maka, tu non capisci» le disse lui. «Sei così furiosa con me, e lo capisco... ma Soul...»

«Vai al diavolo» mormorò lei, scoppiando a piangere. «Tu e lui. Andatevene al diavolo e lasciatemi in pace, una buona volta!»

Del tutto inaspettatamente Spirit si slanciò sulla figlia, afferrandola e stringendola teneramente tra le braccia. Maka si dibatté con tutta la sua forza. Scoppiò in singhiozzi, picchiandolo furiosamente ovunque riuscisse a colpirlo.

«Lasciami, figlio di puttana!» piangeva, contorcendosi tutta. Per tutta risposta, Spirit la strinse ancora più forte. Il ricordo di Soul che l'abbracciava allo stesso modo solo la sera prima, la colpì con l'evidenza di un fulmine. E in un attimo, una rabbia inarrestabile prese a infiammarle il sangue.

«Ti chiedo scusa, Maka» sussurrò Spirit, chiudendo gli occhi. «Ti giuro che mi dispiace».

«Basta, basta!» Lei si staccò da lui, spingendolo via con violenza. «Non voglio più sentirti parlare, non voglio più vederti!» gridò, in lacrime. «Voglio che mi lasci in pace, e che sparisci all'inferno, proprio come lui!»

«Maka!»

«Va' via!»

Piena di rabbia, lei gli scagliò addosso la chiave che ancora stringeva in pugno, per poi correre via tra i singhiozzi. Spirit restò a guardarla come impietrito, incapace di reagire; quindi, quando anche l'eco dei passi di lei di dissolse, chinò la testa, abbattuto. Con stupore, notò allora qualcosa che riluceva per terra, proprio a un passo da lui. Era una piccola chiave. Brillava debolmente, come fosse accesa di una tenera luce.

 

 

*

 

 

La neve si era tramutata in pioggia, sciogliendo quella già caduta e riducendo tutto a un cumulo di fanghiglia grigiastra. Le luci della città, riverberandosi nel cielo plumbeo, tingevano la notte di una sfumatura sanguigna, che calava sull'intera Death City come un velo di cupa disperazione. Anche le mura del castello abbandonato, fuori città, apparivano più spettrali del solito. Grondavano acqua come da una ferita aperta nella roccia, percosse da una pioggia battente che scivolava loro addosso per poi strisciare e raggrumarsi in pozze scure, là dove si raccoglieva il sangue denso dei cadaveri che giacevano sparsi al suolo, un po' ovunque.

«Ah, che bello. Uno spettacolo magnifico».

Soul digrignò i denti. Lanciò al Kishin un'occhiata assassina, prima di sputare per terra.

«Oh, non lo pensi anche tu? Che peccato, Soul. È evidente che non possiedi il gusto del gotico» fu la risposta del Kishin. «Tutto questo sangue, in una notte così cupa... molti lo apprezzerebbero».

«Perché non ci dai un taglio, con queste stronzate?» ringhiò Soul. «Mi hai rotto».

Il Kishin ridacchiò. Una risata stridula e sottile, simile al suono del ghiaccio quando si spezza.

«Oh, sei così puro, tu. Ma anche tanto servizievole. Sei stato tu a condurmi qui, Soul... ricordi?»

«Io non ho fatto niente» fece Soul, abbassando gli occhi sul corpo di una giovane strega, che giaceva riversa ai suoi piedi, con gli occhi freddi e sbarrati nel vuoto. Aveva la gola completamente squarciata. Rabbrividendo, Soul distolse lo sguardo.

«Bugiardo» fece il Kishin, chinandosi a sollevare un cadavere per i capelli. «Tu sapevi di questo posto. E volevi che io venissi qui, per fare quello che ho fatto».

«No».

«Non mentire!»

Il Kishin gettò via il cadavere come fosse carta straccia. Svolazzando, andò a piazzarsi davanti Soul, fissandolo dritto negli occhi. Non appena gli fu accanto, l'aria si fece irrespirabile a causa del suo alito fetido. Soul si sentì mancare; ma per quanto dovesse fare affidamento a tutte le sue forze, non abbassò mai gli occhi.

«Sei un piccolo bugiardo, non è così? Sì, che è così... piccolo, piccolo bugiardo Soul... ti piace vedermi uccidere, ma ancora non vuoi essere la mia falce. Vorresti mangiare tutte quelle anime, lo so... ma qualcosa te lo impedisce...»

Soul voltò le spalle, allontanandosi lungo le mura. Si sollevò il bavero della giacca, appoggiandosi contro le pietre umide.

«Non capisco perché sei così arrabbiato» riprese il Kishin, volteggiando sopra i corpi senza vita che occupavano il cortile. «Non abbiamo fatto quello che la Shibusen si aspettava? Guarda!» disse, allungando una mano d'ombra ad indicare lo spazio attorno a sé. «Sono streghe. Sono tutte streghe... e sono morte. È una cosa buona, no? Io posso renderti più forte! Devi solo affidarti a me».

«Non è questo ciò che vuole la Shibusen».

«No?»

Il Kishin compì un giro su se stesso. I suoi occhi di fuoco dardeggiarono nella notte, come due fiammelle lontane e vivaci.

«Non capisco» fece. «Non è forse vero che tu e i tuoi amici andate in giro ad uccidere coloro che non agiscono secondo i canoni di Shinigami?»

«Questo è stato un massacro» fece Soul. «Solo un assassino agisce così».

«E quindi?»

Soul piegò le labbra in una smorfia. Il Kishin rise.

«Sei strano» esalò. «Agisci sulla base di uno strano concetto della giustizia. Uccidere una persona alla volta va bene, due o tre no».

«Queste non sono due o tre!»

«E cosa importa! Io non capisco...»

Il Kishin allargò le braccia. I corpi delle streghe presero a dissolversi, lasciando il posto alle loro anime tremolanti. Soul rabbrividì. L'intero castello brillava di anime che galleggiavano come tanti piccoli fuochi fatui, tingendo di viola la notte umida e buia.

«Assaggiane una» fece il Kishin, afferrando un'anima e porgendola a Soul. «È buona. Ma questo lo sai già, non è vero?»

Soul si voltò, disgustato.

«No?» sussurrò il Kishin, divertito. «Non ti va?»

Soul strinse i denti, cercando di non pensare alla nausea che provava in quel momento.

«Mangiale tu» sibilò. «E strozzati».

Il Kishin restò a guardare l'anima che gli brillava in mano. Se la rigirò davanti agli occhi, ammirandola come se si trattasse di un'opera d'arte. Quindi la serrò tra le lunghe dita scheletriche, stringendola fino a strizzarla. L'anima si dibatté prima debolmente, poi con sempre più energia, disperatamente; finché non esplose in una miriade di piccole scintille che si spensero tremolanti, disperdendosi nella pioggia.

«Perché?» scattò Soul, strabuzzando gli occhi. «Quella era l'anima di una persona!»

«Non avevo fame» rispose il Kishin. Soul strinse i pugni. Avrebbe voluto distruggere quell'essere, e probabilmente gli si sarebbe scagliato addosso a costo della vita, se qualcosa non avesse attirato improvvisamente la sua attenzione. Tra i cespugli, nel buio, intravide il corpo semi nascosto di una giovane donna, che lo fissava sconvolta. Soul trasalì. Subito cercò di fare il vuoto nella propria testa. Se il Kishin avesse letto le sue emozioni e i suoi pensieri, per quella donna non ci sarebbe stato alcuno scampo.

«Non è il tuo lavoro, Soul?» gridò il Kishin, allontanandosi a raccogliere le anime che volteggiavano più lontano. Evidentemente non si era accorto di nulla. «Ricordo che ti piaceva mangiare le anime».

Soul cominciò a sudare freddo. Con tutto se stesso, cercò di non guardare verso i cespugli.

Doveva pensare a qualcosa, qualcosa che non permettesse al Kishin di leggere nella sua mente.

Qualcosa, qualcosa...

Pensa...

Maka...

«Sto parlando con te» sibilò il Kishin. Soul annuì, ritrovando un barlume di lucidità.

«Lo facevo prima» rispose, in tono fermo. Il Kishin si voltò.

«E perché non lo fai più?»

Maka...

«Dovresti saperlo» fece Soul, allontanandosi lungo la parete. «Non voglio più aiutarti a fare ciò che ti piace».

Il Kishin rise. «Povero sciocco. Ancora pensi che io e te siamo qualcosa di diverso. Quando imparerai che siamo la stessa cosa?»

«Io e te non siamo uguali».

«E invece sì...»

Maka...

Soul lanciò un'occhiata al cespuglio dietro cui si nascondeva la donna. Se riusciva a tenere il Kishin lontano da lì, forse si sarebbe salvata.

«Maka, Maka... possibile che tu non sappia pensare ad altro?»

Il Kishin raccolse un'anima, avvicinandosi pericolosamente al luogo in cui si nascondeva la donna. Soul si irrigidì.

«Voglio che mangi un'anima per me» fece il Kishin. «Solo una. E ti prometto che non farò del male alla tua Maka».

«Lei non devi toccarla» ringhiò Soul. «Erano questi i patti».

«Sai, perché un patto sia valido, deve essere stipulato da due persone che hanno un interesse comune... o valori comuni... o che in comune hanno il semplice desiderio di fare qualcosa. Io e te siamo diversi, lo hai detto tu stesso. Perché dovrei fare un patto con te?»

«Se osi farle del male...»

«Cosa?» rise il Kishin. «Mi ucciderai? E come? Se ucciderai te stesso, io non morirò comunque. Mi basterà riprendere dove avevo interrotto, e sondare il cuore della tua bella Maka... sono sicuro che c'è ancora parecchia oscurità che si nasconde, là dentro».

Soul fece per scagliarsi contro il Kishin, ma con un semplice gesto, questi lo mandò a sbattere contro la parete. Soul tossì, cercando vanamente di rimettersi in piedi.

«Sai, ancora non capisco perché tu tenga tanto a lei. Non è niente di speciale, in fondo. Una persona come un'altra, una che ti ha usato, che ha visto in te un semplice modo per raggiungere il proprio scopo... strano che tu non l'abbia ancora capito».

«Lei non è così».

«Invece sì» ghignò il Kishin. «Ma anche tu lo sai, e lo sai bene. Sento i tuoi dubbi, Soul. Io li percepisco tutti. E sai perché? Perché io mi nutro di essi. Le anime non mi interessano, le lascio a quelli come te, quelli della Shibusen...»

«Allora perché uccidere?» ringhiò Soul. «Perché continuare a farlo?»

«Perché è bellissimo».

Soul rabbrividì. Il Kishin afferrò un'anima e la polverizzò, esattamente come aveva fatto con la prima. «Uccidere dà un senso di potere notevole. E poi, è un attività come un'altra. Non trovi anche tu?»

«Assolutamente no».

«Eppure dovresti spiegarmi perché» esalò il Kishin. «Onestamente, Soul... guardati intorno. Tutto ormai è caduto nella banalità. Non esiste più nulla di inviolabile. Persino i rapporti tra le persone... guarda la tua Maka. Lo sai che il suo unico interesse era raggiungere il padre e scalzarlo dal suo primato presso Shinigami? Tu le servivi per questo, e lei l'ha sempre saputo. Ti ha usato, come si usa qualcosa. E questo perché ognuno ragiona così. Si guarda per primi a se stessi, e ci si dice: ''io ho il diritto di essere felice'' eccetera, eccetera... Ti assicuro che è sempre così. Ognuno guarda a se stesso. Se gli altri soffrono, che colpa ne hai tu? In fondo, hai diritto ad essere felice. Se gli altri subiscono un torto, perché dovrebbe essere colpa tua? In fondo, nessuno ha detto loro di mettersi in mezzo».

«Non capisco cosa vuoi dire, maledetto pazzo».

«La Shibusen dice che uccidere è sbagliato. La Shibusen dice che fare questo, quello... tutto è sbagliato. Io mi chiedo: perché? Esiste un motivo? O è solo perché loro sono i più forti? Se non esistono valori incrollabili, se non esiste nulla di inviolabile, Soul... allora chi, chi potrebbe dirmi che ciò che faccio, in assoluto, è giusto o sbagliato?»

«Quindi questo ti dà la libertà di uccidere?» fece Soul, con un ghigno. «Patetico».

«Forse» osservò il Kishin. «Facciamo così, voglio darti ragione almeno a metà. Siccome oggi abbiamo ucciso i nemici della Shibusen, vorrà dire che domani uccideremo qualcuno della stessa Shibusen, in modo da pareggiare il conto. Che ne dici? Così dovremmo agire in modo più che equo. In fondo, l'uno o l'altro... a me non interessa. A me basta creare il caos».

Soul impallidì. Sentì il cuore che cominciava a battere incontrollato. Chiuse gli occhi, cercando di trovare la calma di cui aveva bisogno.

Maka...

Più aumentava la paura, più il suo pensiero andava a quella donna nascosta. Con uno sforzo che gli prosciugò ogni energia rimastagli in corpo, cercò di svuotare la mente, concentrandosi sull'unico pensiero che potesse dargli forza.

«Ti spiacerebbe se cominciassi proprio da Maka?» fece il Kishin. «Sai, ho quello che si dice un conto in sospeso, con lei...»

«Prova solo a toccarla e io...»

«Certo, Soul. Ma se non vuoi che renda pazza la tua amica, devi darmi qualcosa in cambio».

Soul serrò i pugni. Sapeva esattamente dove quel mostro voleva arrivare.

«Cosa vuoi?»

«Voglio che mangi» disse. E con una mano agguantò un'anima, allungandola davanti al volto di Soul. «Mangia» ripeté «e Maka sarà salva»

«Fottiti...»

Il Kishin gli afferrò il volto, scuotendolo.

«Mangia!» esalò. «O la prossima volta trasformerò la mente di Maka in un luogo di tale pazzia che implorerà di essere uccisa! Mangia, ti ho detto!»

Soul si dibatté, ma il Kishin lo strinse con forza. Abbassò il volto scuro verso di lui, avvolgendolo con l'ombra che lo ricopriva come un mantello.

«Sai cosa le accadrebbe, se diventasse come me?» sibilò. «La ucciderebbero, squartandola e appendendola alla sua stessa pelle... le conficcherebbero chiodi nella carne viva, strappando via la pelle pezzo per pezzo, lentamente, per non rovinarla. Tutto questo richiede tempo, Soul, e procura molto dolore. Un dolore insopportabile. Tu hai visto di cosa è capace Shinigami, hai visto cosa ha fatto con Azura... lui era suo amico... ma ha sbagliato. Era giusto fare quello che Shinigami ha fatto? Chissà... chissà... lo farebbe anche a lei? Chissà... chissà...»

Soul schiuse lentamente le labbra. Con una risata trionfante il Kishin gli cacciò l'anima in bocca, serrandogli poi le mandibole. Soul fu costretto a ingoiare e non appena l'anima si fuse con lui, un dolore accecante lo pervase, trafiggendogli il corpo come una serie infinita di spilli. Il Kishin scoppiò a ridere.

«Meno una!» fece. «Ne restano ancora tante, ma per ora è più che sufficiente. Sei stato bravo. Continua così e presto io e te saremo una cosa sola... com'è che si dice? Nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia...»

Soul aprì leggermente gli occhi. Sudava. Sentiva come un'ombra gravare sul proprio cuore, come se si stesse lentamente avvolgendo attorno alla propria anima. E provò paura.

«...Finché morte non vi separi. Ah, a proposito...»

Il Kishin si avvicinò, lo guardò per un attimo; quindi una lunga striscia d'ombra saettò all'improvviso dal suo fianco, trafiggendo il corpo della povera donna che ancora si nascondeva tra i cespugli. Soul lanciò un grido strozzato, vedendola irrigidirsi e poi accasciarsi al suolo. Sconcertato, spalancò gli occhi vitrei sul volto senza forma del Kishin, che piegò la testa di lato, fissandolo intensamente attraverso il suo vivido sguardo di brace.

«Come ti ho detto» fece, in un sussurro «io e te siamo una cosa sola, Soul. Non puoi nascondermi nulla. Assolutamente nulla. Perciò, è molto meglio se ti rassegni. Perché per quanto tu possa lottare, io ho già vinto».



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Capitolo 11
*** Ad un bivio! La verità dietro l'illusione? ***


La porta si aprì e Maka scivolò dentro l'appartamento, richiudendosi in fretta la porta alle spalle. Con un sospiro, vi si abbandonò contro. Era sollevata.

Ora che era a casa, poteva finalmente lasciarsi tutto alle spalle. Soul, suo padre, il mondo intero. Dietro quella porta, era solo Maka. Una semplice ragazza, niente di più. Una madre il cui figlio la attendeva a casa, la sera.

«Daniel?»

Nessuna risposta.

Che strano.

Maka sbatté le palpebre, lottando contro l'oscurità presente nella stanza. Tutto era avvolto da un silenzio profondo, quasi irreale. Calava su ogni cosa come una cappa di denso fumo scuro, rendendo l'aria irrespirabile. L'atmosfera era così spessa, che il cuore rimbombava nelle orecchie.

L'unica luce proveniva dalle finestre, dove le tende lasciavano filtrare il debole alone che dai lampioni, lungo la strada, risaliva a bagnare le pareti di una luce opaca e lattiginosa. Per il resto, l'oscurità era così fitta che sembrava sgorgare direttamente dalle profondità della terra.

Maka strizzò gli occhi due o tre volte. Pian piano, cominciavano ad abituarsi al buio.

«Daniel? Sono a casa».

La sua voce risuonò timidamente. Maka deglutì, a disagio. Era una sciocchezza, ma quella situazione non le piaceva. La casa non era mai stata così silenziosa e lei non era più abituata alla solitudine. Non da molto tempo, almeno.

Slacciandosi la sciarpa e l'impermeabile, si staccò dalla porta, muovendo qualche passo nel salotto semi avvolto dall'oscurità. Con una mano si chinò ad accendere la lampada. La luce improvvisa gettò sulle pareti le ombre nette dei mobili, deformandole. Maka si guardò attorno. Non c'era nessuno. Era sola.

«Daniel? Crona?»

Abbandonò la borsetta sul divano, avviandosi verso le camere. Quando accese la luce nella stanza di Daniel, per un attimo socchiuse gli occhi, ferita dall'improvviso bagliore. Era vuota. Il letto era fatto. Anche la stanza di Crona era vuota. Maka spense l'interruttore restando immobile di fronte alla porta, perplessa. Si era aspettata di trovare suo figlio alzato, pronto a correrle incontro. Trovare la casa completamente deserta la stupì. Leggermente in pensiero, si diresse verso la cucina, dove accese la piccola lampada sopra il tavolo. Ormai doveva accendere tutte le luci che trovava. Era necessario, come se farlo significasse riappropriarsi di quello spazio che le aveva lentamente sottratto il buio.

C'era un biglietto. Si trovava sopra il tavolo, sotto il barattolo dello zucchero. Maka lo prese, spostandolo sotto la luce.

Era di Yuko. Le diceva che se n'era andata perché Crona aveva portato Daniel dal padre, su sua precisa richiesta. Aveva provato a chiamarla, ma il cellulare era spento. Quindi, dopo averla aspettata per un po', era tornata a casa, prima che facesse buio. Seccata, Maka accartocciò il foglietto, gettandolo dentro il cestino dei rifiuti. Kid avrebbe almeno potuto consultarsi con lei, prima di prendersi Daniel... ma forse, pensandoci, era meglio così. Meglio che Daniel restasse alla larga da lei per un po'. Con Kid, sarebbe stato di certo più al sicuro.

Con l'impermeabile slacciato e la sciarpa ancora in mano, Maka si appoggiò esausta al mobile della cucina. La luce le illuminava le spalle, avvolgendola. Il silenzio era più profondo che mai.

Stropicciandosi gli occhi con la punta delle dita, Maka alzò la testa, guardandosi intorno. L'unico rumore che si sentiva, era il sottile ronzio del frigorifero. Fuori dalla finestra, le strade erano completamente deserte. Aveva persino smesso di piovere. Le sembrò quasi di essere l'unica persona rimasta sulla faccia della terra.

Si sfilò l'impermeabile, gettandolo malamente su una sedia insieme alla sciarpa. Quindi prese il bollitore e lo riempì d'acqua, mettendolo sul fuoco.

Mentre attendeva che l'acqua bollisse, lanciò un'occhiata all'appartamento. Così vuoto, era proprio uno schifo. Con la luce accesa, i mobili sembravano ancora più freddi e impersonali; anzi, a ben guardare, tutto l'appartamento aveva un che di depresso. La luce giallognola delle lampade si spalmava come fango denso sulle pareti bianche, sul divano sfondato, e sul tavolo di vetro, leggermente appannata dal buio fitto che si affacciava alle finestre. Ogni cosa, tra quelle quattro mura, sembrava stranamente incapace di trasmettere il minimo segno di vita; così come ogni gesto produceva un rumore insolito, che riecheggiava goffamente, bucando ogni volta il silenzio come fosse un foglio di carta spessa.

Svogliatamente, Maka si avvicinò all'impianto stereo. Si mise a guardare senza particolare energia i dischi che si trovavano ordinatamente riposti a lato di esso, sopra una mensola. Era la raccolta di Soul. Dischi che lui aveva lasciato prima di sparire, e che era solito ascoltare quando ancora vivevano insieme, nella vecchia casa, da ragazzini. Maka aveva pensato più volte di buttarli, ma suo malgrado amava troppo alcuni di quei vecchi Lp per riuscirci davvero. Insieme a Soul, aveva passato intere sere ad ascoltarli, chiacchierando con lui di tutto e di niente fino a notte fonda; o anche solo restando in silenzio davanti alla musica, con una tazza fumante di tè alla vaniglia tra le mani, e sulle gambe una soffice coperta calda.

Spulciando nel mucchio, ne sfilò qualcuno, rigirandoselo indecisa tra le mani. Non è che avesse un'idea precisa di cosa ascoltare. Più che altro voleva cancellare quel silenzio opprimente che la avvolgeva, facendola sentire così sola e a disagio. Optò per un disco di Miles Davis. Era uno dei suoi preferiti. Era stato Soul a regalarglielo, tanto tempo prima. L'aveva messo a una sua festa di compleanno, e da allora lei ne era rimasta affascinata.

Maka sfilò il disco dalla custodia, reggendolo con tre dita, stando attenta a non toccarlo se non sul bordo. Le aveva spiegato Soul come fare, se lo ricordava bene. Era importante non toccare il disco con le dita, o si sarebbe potuto rovinare.

Quando la puntina si posò delicatamente sul disco, le casse presero a sfrigolare, come tante piccole braci scoppiettanti. Maka amava quel suono, così carico di attesa. Anche quello era un regalo che le aveva fatto lui, qualcosa che nel suo piccolo aveva cambiato di un poco il suo modo di vedere la vita.

Soul non aveva mai amato i cd. Sosteneva che il loro suono era freddo, e poco originale. Maka all'inizio non capiva tutte quelle sottigliezze. Per lei la musica era sempre musica, che uscisse da un disco, da una cassetta o dalle cuffie di un Ipod. Ma col tempo aveva imparato ad amare il fruscio confortante che usciva da quei vecchi dischi in vinile. Quando la puntina sfregava sul piatto, prima che la musica cominciasse, si creava come una sorta di sospensione, un momento quasi magico, capace di creare una piccola parentesi nel tempo. Si restava lì, ad aspettare che la musica iniziasse, quasi trattenendo il respiro; e solo allora, quando le casse prendevano improvvisamente vita, si tornava a respirare, accompagnati dalla magia inesprimibile del suono.

Il piano di Bill Evans cominciò ad attaccare l'incipit di Blue in Green. Quando la tromba di Miles Davis si unì lentamente, esalando le prime deboli note, Maka chiuse gli occhi. Il silenzio che le stringeva le membra fino a quel momento divenne un ricordo lontano. Avvertì come un calore improvviso scendere sopra di lei, avvolgendola per poi accarezzarla lungo le spalle, quasi fosse un tenero abbraccio. Lei sorrise, aprendo di nuovo gli occhi. Per un attimo, fu come se il tempo avesse invertito bruscamente la sua marcia.

L'acqua dentro al pentolino aveva già cominciato a bollire. Maka si affrettò a spegnere il fuoco, e la versò nella tazza. La bustina di tè si inzuppò subito, accartocciandosi lievemente. Un leggero sbuffo di vapore si levò dalla tazza diffondendo nell'aria un intenso profumo di vaniglia, che si dissolse nell'attimo esatto in cui i ricordi che portava con sé cominciavano a prendere corpo.

Soul...

Com'era possibile che avesse fatto una cosa del genere?

Il pensiero di quello che era diventato, non le dava tregua. Non riusciva ancora a credere che avesse abbandonato quello che era per diventare...

No, non il Soul che conosceva. Non quel dannato, meraviglioso ribelle. Lui non avrebbe mai potuto...

...diventare un Kishin.

Maka strizzò gli occhi, allontanando la tazza dalle labbra con un gemito. Il tè era ancora troppo caldo. Rischiava di scottarsi.

Ma in fondo, pensò lei, dirigendosi al divano, era abituata a scottarsi.

Non è questa la prima volta, e non sarà l'ultima.

La colpa era sua. Era stata lei a fidarsi. Perché l'aveva fatto? Cosa sapeva davvero di lui?

Più ci pensava, più si rendeva conto che in realtà lui era come un estraneo. Com'era possibile che in quasi otto anni di collaborazione, non avesse raggiunto la più vaga idea di chi, in realtà, fosse stato il suo compagno?

Aveva vissuto con lui, aveva cenato, riso, scherzato e litigato con lui. Gli aveva preparato la colazione per anni, imparando alla perfezione cosa gli piaceva e cosa non gli piaceva – non sopportava le uova sul pane, le voleva assolutamente nel piatto. E guai a proporgli il succo d'arancia, la mattina...

Ma poi? Che altro sapeva di lui?

Niente.

Non gli aveva mai parlato molto della sua famiglia. O forse sì? Strano che lei non se lo ricordasse. Forse, l'unica volta in cui aveva tirato fuori la storia dei suoi, era stato proprio la sera prima, al locale di Blair. Perché non l'aveva mai fatto, prima di allora?

Ma soprattutto... perché lei non glielo aveva mai chiesto?

Di che diavolo avevano mai parlato, loro due? Su cosa si fondava tutta quella fiducia tra loro che per lei era sempre stato un punto di orgoglio?

Le prime battute di So What riempirono la stanza. Le casse vibrarono leggermente, al ritmo sincopato del basso. Come in seguito ad un improvviso risveglio, Maka aggrondò.

Non era quello il punto. Poteva anche darsi che tra loro non esistesse il rapporto che credeva. Benissimo. Ma cosa aveva a che fare, questo, con il loro essere partner? Non certo il fatto che lui non avesse mai voluto parlarle dei fatti suoi. Se non l'aveva fatto, era sicuramente per validi motivi. D'altra parte, una delle loro tacite forme di accordo, prevedeva il rispetto di una giusta distanza, la volontà di non superare mai quella linea che divideva i fatti privati dell'uno o dell'altra da quello che era il loro lavoro. Perché loro erano partner. Nient'altro contava. Potevano anche essere due completi estranei, o perfino odiarsi; ma quando erano insieme, lo erano per quell'unico preciso motivo, perché lui era la sua arma e lei il suo Meister. Tutto il resto, ogni cosa, veniva dopo di questo. Dopo la Shibusen, dopo il dovere.

Dopo. Non prima.

Non aveva sbagliato, non era colpa sua quello che era successo. Lei aveva semplicemente rispettato il suo silenzio.

Perché avrebbe dovuto chiedergli di parlare di qualcosa, se lui era il primo a non volerlo fare? Evidentemente, non la riteneva abbastanza.

Già... che se ne vada al diavolo...

Maka finì di bere il tè, posando la tazza sul tavolo. Si voltò verso il giradischi, fissandolo arcigna. Era stufa di quella musica, così deprimente. Portava con sé il puzzo terribile della malinconia.

Alzò la puntina, togliendo il disco dal piatto. John Coltrane si ritrovò il sassofono strappato di bocca, proprio nel bel mezzo di un formidabile assolo. Il silenzio ripiombò subito pesante, rotto solo dall'oscillare quieto del giradischi.

Maka gettò il disco sul divano, senza troppe cerimonie. Dalla mensola tirò fuori alcuni album, lasciandoli cadere tutti a terra dopo una rapida occhiata. Tutti tranne uno, che mise sul giradischi.

Forse era vero, si disse. Forse continuava a sbagliare, lasciandosi abbagliare da uomini che nel suo immaginario potessero in qualche modo rimpiazzare suo padre. Era sempre così. Credeva di trovare in qualcuno ciò che non aveva mai avuto. Ma alla fine, anche quello non si rivelava che una semplice illusione che la lasciava esattamente come prima, se non peggio. Sola, e con il cuore in frantumi.

Fanculo.

Ma sì, pensò. Fanculo Soul, fanculo papà. Fanculo ogni cosa. In fondo, non aveva bisogno di niente. Proprio come sua madre.

Non appena il basso elettrico prese a scandire l'inizio di Material girl, Maka alzò il volume. Si sfilò gli stivali e li gettò in un angolo, mettendosi ad accompagnare il ritmo con qualche timido movimento del corpo. Chiuse gli occhi, mordendosi le labbra. La musica cominciò a pulsare, la sentiva scendere dentro di sé, scacciando con la sua energia ogni pensiero che ancora le affollava la mente. Ben presto, senza nemmeno accorgersene, il suo corpo si muoveva a un ritmo sempre più frenetico.

Che andasse a farsi fottere, pensò. Non era stata lei ad abbandonarlo. Lei era lì, per lui. Se solo lui le avesse parlato, allora, se solo avesse avuto voglia di renderla partecipe della propria vita, lei sarebbe stata pronta.

Some boys kiss me, some boys hug me...

Non aveva bisogno di nessuno, proprio così. Men che meno di lui, o di suo padre. Che andassero tutti al diavolo.

Chi erano, loro, per esercitare quel potere su di lei? Perché era stata così sciocca da concedere loro tutto quella forza? Era solo colpa sua, ma ora sapeva che non avrebbe mai più commesso un simile errore.

La musica prese ad accelerare. Maka allargò le braccia, ruotando su se stessa. Un sorriso di gioia le si allargò in volto.

Nessuno aveva il diritto di farla soffrire. Nessuno avrebbe mai più avuto quel potere su di lei...

Con un salto, Maka balzò sul divano, prendendo a saltare al ritmo del ritornello. I capelli, raccolti nei soliti codini ai lati della nuca, le sferzavano il volto come impazziti. Con gli occhi chiusi, Maka cantava a squarciagola, alzando le braccia al cielo. Rideva. La voce elettrica di Madonna riempiva la stanza.

Che bisogno aveva, lei, di un uomo? Nessuno. Sua madre era sola. E stava benissimo.

Tanto più che lui, adesso, era un mostro.

Ho provato a dirtelo, ma tu non volevi ascoltarmi...

Il volto contratto di Soul le apparve, subito seguito dall'ombra fosca del Kishin, che le si avventò addosso come per inghiottirla. Maka spalancò gli occhi in uno scatto improvviso, perdendo l'equilibrio. Scivolò e cadde pesantemente per terra. Per un attimo, il dolore alla schiena si fece assordante, coprendo il volume della musica. Maka mugolò, sollevandosi.

Qualcuno bussò alla porta. Massaggiandosi la schiena, Maka si alzò in piedi. Abbassò il volume e si diresse barcollante all'ingresso. Dallo spioncino intravide il volto deformato di Kid.

«Che vuoi?» gli chiese lei, spalancando la porta con una smorfia. Lui strabuzzò gli occhi, sorpreso.

«Volevo vedere come stavi. Posso entrare?»

Maka lo fissò imbronciata, facendosi da parte. Ormai la voce di Madonna era solo un'eco lontana. La schiena, al contrario, le faceva ancora male.

Kid entrò, slacciandosi il pesante cappotto di lana. Si diresse allo stereo, sollevando la puntina e prendendo il disco dal piatto.

«Ma che roba ascolti?» disse, con una smorfia sorpresa. Maka gli strappò il disco dalle mani, torva.

«Sei venuto per rompere?» fece. «Visto che hai deciso da solo di portarti via Daniel, mi stavo gustando la casa vuota» mentì. «Sono anni che non riuscivo a starmene un po' per i fatti miei».

«Ah» fece lui, inarcando un sopracciglio. «Capisco...»

Kid si rilassò sul divano, accavallando le gambe. Miles Davis e il suo quintetto oscillarono pericolosamente sul bordo del cuscino, come sull'orlo di un precipizio. Quindi caddero.

«Ehi, stai un po' attento!»

Lui guardò il disco per terra, senza scomporsi. Quindi alzò lo sguardo su di lei.

«Allora» disse, con calma. «Come stai?»

«E come vuoi che stia?» fece lei, chinandosi a raccogliere il disco. Lo infilò nella sua custodia e lo rimise con cura al suo posto. «Ammaccata».

«Non mi riferivo al fisico».

«Nemmeno io».

Kid accusò quella rivelazione come un colpo in piena faccia.

«Ti va di parlarne?» fece dopo un attimo, schiarendosi la voce. Maka restò immobile davanti alla mensola, dandogli le spalle. Chinò il capo.

«No, non c'è bisogno».

«Sul serio?»

Lei tacque. Richiuse il giradischi, spegnendolo. Il piatto rallentò sempre più, finché non rimase immobile.

«Quello che non capisco, è come abbia potuto fare una cosa del genere» mormorò, dopo un tempo quasi interminabile. «Avrebbe potuto parlarmi di tutto... e io avrei capito. Ma questo...»

«Maka...»

Lei sollevò la testa, le labbra strette, fissando fuori dalla finestra.

«Non è perché mi ha tradito» fece, con la voce che le tremava per l'emozione. «Non è solo questo... o almeno credo. È che... mi sento un fallimento completo. Non ho capito nulla di lui. Credevo di conoscerlo, pensavo di sapere chi fosse... invece, mi sono completamente sbagliata».

Kid tacque. Fissava Maka con il volto sempre più pallido.

«Lui era un ragazzo buono» continuò lei. «Il Soul che conoscevo io non avrebbe mai fatto qualcosa di simile... ma io ero lì. E ho visto quello... quello che è diventato. E ho capito che io in realtà non lo conoscevo affatto».

«Le persone cambiano» mormorò Kid. Ma subito le parole gli morirono in bocca per la vergogna.

«Pensavo che a lui non sarebbe mai successo» commentò Maka. «E adesso che ho visto cosa ha fatto... io lo odio, e lo disprezzo. E so che dovrei ucciderlo...»

«Ma?»

Maka si voltò, guardandolo tremante, con gli occhi lucidi.

«È che per quanto lo odi, per quanto vorrei davvero vederlo distrutto, io...»

Kid alzò gli occhi sul volto di lei. Maka si asciugò le lacrime, con un gesto brusco.

«... vorrei tanto abbracciarlo, e dirgli che va tutto bene».

«Perché?» mormorò Kid, stupito. Lei scosse la testa.

«Perché lo amo» disse, scrollando le spalle, con le lacrime che le solcavano il viso. «E mi detesto per questo, ma... lo amo. E non posso farci niente».

Lui si impietrì. La fissò a lungo, cercando di mettere a tacere il turbine indistinto di sensazioni che gli ronzavano in testa. Lei si spostò contro al muro, stretta nelle braccia, perdendosi con gli occhi nell'oscurità che si intravedeva alla finestra.

«Lo ami?» ripeté Kid confuso. «Io... non riesco a capire... nonostante tutto quello che...»

«Nonostante tutto, io lo amo ancora, sì» ammise lei. Quindi sospirò, voltandosi a guardarlo.

«Mi dispiace, smetterò» fece lei, sfregandosi decisa gli occhi con il dorso della mano. «Dammi solo qualche tempo, e io...»

«No».

Lei lo fissò, sorpresa. Kid si alzò dal divano con un sospiro. Si diresse in silenzio alla finestra, dove scostò la tenda, restando immobile a guardare fuori dal vetro.

«Lo ami da sempre, non è così?» fece, senza mai voltarsi. Lei non rispose.

«E io?»

«Certo che ti ho amato» fece lei, muovendo un passo verso di lui. Kid si voltò a sorriderle.

«Ma ora non mi ami più, vero?»

Maka lo guardò dritto in volto, smarrita. I suoi occhi erano tristi ma non mentivano, incapaci com'erano di trattenere anche solo per un attimo i sentimenti che la agitavano nel profondo del proprio cuore. Kid impallidì. Quindi abbassò il volto rassegnato, sorridendo mesto.

«In questo caso» fece, lasciando ricadere la tenda «credo che sia giusto che tu sappia la verità, Maka».

Lei strinse gli occhi, scuotendo la testa.

«La verità?» sussurrò. «Su cosa?»

«Siediti» le disse lui, infilandosi le mani in tasca. «Temo che ciò che sto per dirti, non ti piacerà affatto».

 



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Capitolo 12
*** L'ora decisiva! La difficile risoluzione di un'anima innamorata? ***


«Ecco, questa è tutta la verità».

Kid smise di parlare, passando in rassegna i volti sconcertati dei suoi compagni. Nessuno fiatava. Solo Patty continuava a guardare imperterrita le nuvole che vagavano tranquille sulla cupola dello studio di Shinigami, quasi si trovasse in un altro mondo.

«E così» esordì Black Star «alla fine quel deficiente c'è riuscito a fare una cazzata».

Tsubaki gli allungò un'occhiata. Il volto di Black Star era composto, e non tradiva la minima emozione. Lei si chiese come riuscisse a mantenersi così impassibile, visto che Soul un tempo era stato il suo migliore amico.

«Davvero non esiste alternativa?» osò chiedere timidamente Liz. Kid la fissò duramente, e lei arrossì, distogliendo lo sguardo.

«Se fosse possibile agire in modo diverso, credi che non ci avrei già pensato?» fece lui. «Purtroppo, questo è l'unico modo possibile. Non abbiamo altra scelta, se vogliamo fermarlo».

«Sì, ma...»

«Ora basta, smettila!» ruggì Kid, furibondo. «Non è questo il momento di pensare ai propri interessi personali. È in gioco il destino stesso della Shibusen, e di conseguenza quello del mondo intero».

«Cosa? Credi che io parli così, solo perché Soul mi piace?» avvampò Liz. «Ti sbagli! Come al solito, non hai capito nulla. Io...»

«Non mi interessa cosa pensi, né perché» la interruppe Kid, secco. Davanti al suo volto teso, Liz impallidì. Gli occhi le tremarono e lei si zittì, atterrita, prendendo a fissarsi la punta dei piedi. «Ciò che mi aspetto, e che pretendo, è che tu faccia il tuo dovere».

«Il mio dovere» mormorò lei, con un pallido sorriso stiracchiato. «Ma certo. In fondo, tu riesci a considerarmi solo per questo, no? Sulla base di come faccio il mio dovere, di quanto sono perfetta...»

Kid la ignorò, sottraendo gli occhi allo sguardo malevolo con cui lei ora gli si rivolgeva. Con un sospiro, si voltò verso gli altri membri del gruppo.

«Capisco che possa sembrarvi terribile, forse persino sbagliato» disse. «Ma non abbiamo scelta, purtroppo. Ormai, Soul e il Kishin sono così legati tra loro, che non esiste altra soluzione. Per sconfiggerne uno, dobbiamo per forza sconfiggere l'altro».

«E viceversa» rise Patty. Tutti le rivolsero un'occhiata imbarazzata.

«Ma come possiamo esserne sicuri?» esclamò Tsubaki. Appariva pallida, e gli occhi le tremavano. «Voglio dire... Soul era un nostro amico. Se provassimo a parlargli, se cercassimo di capirlo? Magari...»

«Capirlo? Dì, ma ti sei bevuta il cervello?»

Tsubaki trasalì. Black Star la fissava torvo, con aria di profonda disapprovazione. «Non c'è nulla da capire. Quello è un Kishin, e noi dobbiamo farlo fuori. Tutto qui. Capire?» sbuffò, sprezzante. «Se volevo capire la gente, avrei fatto lo psicologo».

«Ma... Black Star, lui era tuo amico» farfugliò lei, confusa. «Come puoi dire una cosa del genere? Come puoi dimenticare quello che è stato per tutti noi?»

«Ti sbagli! Quello non è mio amico» ringhiò lui. «Quella cosa mi ripugna, mi fa schifo. Se lui ha scelto di diventare una cosa così, beh, allora deve essere pronto a pagarne le conseguenze».

«Ma l'ha fatto...»

«Non mi importa perché l'ha fatto!» esclamò lui, fulminandola con lo sguardo. «Non mi importa un accidente, come non mi importa nulla di quello che dici. Sono solo chiacchiere. Solo perché si tratta di qualcuno che conosciamo, ci mettiamo a fare i teneri? Quando però dobbiamo combattere contro dei semplici sconosciuti, nessuno si pone questo genere di problemi, no? Nessuno dice mai ''poverino''».

«Penso sia normale» mormorò Liz, inarcando un sopracciglio. Black Star la ignorò, sogghignando.

«No, non lo è» fece. «Noi abbiamo un dovere, e persino Soul lo sa. Scommetto che se ha ancora un barlume di lucidità in testa, quell'idiota approverebbe la nostra decisione. Al nostro posto lui farebbe lo stesso, ne sono sicuro».

«No, lui non lo farebbe...» mormorò Liz, serrando le labbra. Tsubaki annuì, decisa.

«Lui ha scelto di sacrificarsi» obiettò. «Forse, se l'avessimo aiutato, invece che girargli le spalle...»

«Io non gli devo niente!» gridò Black Star, con gli occhi iniettati di sangue. «Non gli devo le mie scuse, e non gli devo alcun favore. Quell'idiota non mi vedrà piangere sulla sua tomba; e l'unico favore che gli farò, per la sua stupidità, sarà strappargli l'anima in due! Chiaro?»

Tsubaki fissò sconvolta il volto livido del marito. Non riusciva a capire da dove gli provenisse tutta quella rabbia; era esplosa all'improvviso, come se avesse strappato la catena con cui lui aveva cercato di contenerla. Ma alla fine capì. Vedendo i suoi occhi farsi più luminosi e chiari, quando si voltò per nascondere la propria emozione, tutto le risultò immediatamente facile da capire.

Era il dolore a parlare. Il dolore di perdere ancora una volta qualcuno di caro, e sempre per lo stesso motivo. Perché aveva ceduto alla follia.

«No, hai ragione» fece. «Non è stata colpa tua, come non è stata colpa di nessuno. Non potevi farci niente. Soul ha scelto di fare quello che ha fatto da solo, perché evidentemente pensava di poterci proteggere tutti. L'ha fatto per Maka, ma anche per noi. È stato stupido da parte sua, è vero... ma noi abbiamo comunque il dovere di aiutarlo, se ci è possibile».

«Ma non potete».

Gli occhi di tutti si voltarono, andandosi a posare sulla figura allungata e ricurva di Stein. L'uomo entrò in quel momento, accompagnato da uno Spirt cupo e dimesso. I due andarono a raggiungere il centro della stanza, mettendosi in modo che tutti potessero vederli. Quando fu certo di avere l'attenzione di tutti, Stein gettò via la sigaretta che teneva tra le dita e pestò il mozzicone con la punta della scarpa.

«L'anima di Soul ormai è strettamente legata al Kishin» fece. Un ultimo sbuffo di fumo gli uscì dalle labbra, quasi ad accompagnare il lento dissolversi delle sue parole. «Se anche riuscissimo a distruggere la manifestazione fisica di quel mostro, la sua essenza continuerebbe ugualmente ad esistere, perché profondamente radicata all'anima stessa di Soul. In pratica, il Kishin si serve di essa per proteggersi e sopravvivere... perciò, quello che vediamo non è il vero Kishin, ma solo la sua proiezione fisica. Il vero Kishin si nasconde tra le pieghe più nascoste dell'animo di Soul. Ed è lì, che dovremo cercarlo, e ucciderlo».

Tutti tacevano, riflettendo su quanto avevano appena sentito. Alla fine, Tsubaki prese la parola.

«Cioè, praticamente il Kishin si serve dell'anima di Soul per sopravvivere... come farebbe un parassita?» domandò. Stein annuì.

«Vedo che hai centrato il problema. Come ogni parassita, il Kishin ha messo le radici nell'anima di Soul. Se provassimo ad estirparlo da lì, adesso, le ferite che Soul riporterebbe sarebbero troppo gravi per potergli garantire la sopravvivenza. Senza contare che l'unico modo certo che abbiamo per distruggere il Kishin, è di mietere l'anima di Soul, così da renderlo più debole e vulnerabile ai nostri attacchi».

«Il che equivale a dire che, in caso noi uccidessimo Soul, anche il Kishin morirebbe» concluse Kid. Black Star ascoltava tutto in silenzio, senza parlare. Il suo volto era pallido e non mostrava emozioni.

«Forse» disse Stein, lanciando un'occhiata in tralice a Spirit. «Ma non è da escludere che il Kishin possegga altri modi per tutelare la propria... integrità».

«E questo cosa significa?»

«Significa» riprese Spirit «che se anche riuscissimo ad uccidere Soul, non è detto che questo abbia come conseguenza la morte del Kishin. Potrebbe benissimo sopravvivere. In quel caso, ci troveremmo a dover combattere anche contro di lui, stavolta però nella sua essenza più vera. Cosa che lo renderebbe di certo più vulnerabile».

«E a quel punto, basterebbe mietergli l'anima» fece Liz, torva. «Non è così?»

«Sì, in teoria» convenne Stein. «Ma con un essere così potente, si tratterà di una gran bella battaglia. Pensate di essere pronti?»

Tutti si guardarono. Nessuno di loro riuscì a rispondere. L'idea di dover andare in battaglia per uccidere un loro amico, era qualcosa di assolutamente incomprensibile.

«Dovete aver ben chiaro che il Kishin sfrutterà i vostri sentimenti» fece Stein. «Lui si servirà di Soul per colpirvi più duramente possibile. Sa che avrete difficoltà ad accettare l'idea di uccidere un vostro amico: perciò, lui punterà proprio su questo. Vi tartasserà con i sensi di colpa, vi costringerà ad uscire allo scoperto, a mostrare i vostri punti deboli. Se non saprete resistere, vi colpirà. E quando lo farà, vi farà molto male».

«E Maka? Dove sarà lei, in tutto questo?»

Fu Liz a parlare. Spirit le lanciò un'occhiata dura, seguito da Kid.

«Maka non parteciperà» fece Kid. «Questa è stata una mia decisione. Lei è troppo coinvolta, e troppo debole. Il Kishin potrebbe attaccarla e piegarla fin troppo facilmente. In più, non possiede un'arma e ciò la rende praticamente inutile».

«Cadere vittima del Kishin?» fece Tsubaki, turbata. «Come, non capisco. Credevo che dopo Soul...»

«Nessuno è immune dal veleno del Kishin» spiegò Spirit. «Se dovesse riuscire a infliggervi qualche ferita profonda, potrebbe benissimo impossessarsi di voi, così come ha fatto con Soul. Questo significherebbe sicuramente la morte».

«Il che significa che ognuno di noi potrebbe essere la prossima vittima del Kishin» fece Stein estraendo con noncuranza una sigaretta da un pacchetto sgualcito e guardandola come fosse qualcosa di raro. «Nessuno escluso. Proprio per questo motivo dobbiamo essere più che sicuri che coloro che accetteranno di scendere in campo, siano davvero pronti a tutto. Se non ve la sentite, se per voi l'idea di combattere Soul fino alla morte è troppo difficile da accettare, allora fate un passo indietro. Nessuno vi condannerà per questo. Ma se accettate di combattere, sappiate che ogni defezione in battaglia verrà severamente punita. Non possiamo permetterci di trovarci nel pieno dello scontro, con qualcuno di voi in preda a un rimorso di coscienza».

Tutti si guardarono, studiandosi in volto. Stein accese la sigaretta, inspirando profondamente, con gli occhi chiusi. Quando li riaprì, fissandoli uno per uno, il fumo prese a uscirgli lentamente dalle narici, galleggiando come un ectoplasma davanti al suo volto.

«Allora» disse. «Chi è dei nostri?»

Liz impallidì, vedendo Kid compiere un passo avanti.

«Io ci sono» disse, con tranquillità. «Farò ciò che è necessario».

«Anche io».

Tsubaki trasalì. Black Star era teso, e gli occhi tradivano tutto il peso che la sua anima doveva sopportare; ma si trovava lì, oltre la linea di coloro che avevano già deciso, e dove l'aveva trascinata di conseguenza.

«Bisogna fermare quello stupido» disse «e sarò io a farlo. Solo io».

Tsubaki scosse il capo. Sentiva le lacrime che premevano dolorosamente agli angoli degli occhi, per uscire. Se avesse potuto, avrebbe gridato contro quell'assurdità con tutto il fiato che aveva.

«Ehi, sei con me?» le disse Black Star, posandole dolcemente una mano sul braccio. Al tocco di quelle dita spesse e nodose, lei tremò, lasciandosi sfuggire un singhiozzo smorzato.

«Io... non lo so» fece, sinceramente. Lui socchiuse gli occhi.

«Ti prego. Ho bisogno di te, in tutto questo».

Tsubaki impallidì. Fissò sconcertata il volto degli altri, che la guardavano in attesa della sua risposta definitiva. Quindi, con la morte nel cuore, chinò il capo. E annuì.

«Va bene» mormorò, sconfitta. Ma qualcosa nel suo cuore continuava a ripeterle che era tutto profondamente sbagliato.

 

 

*

 

 

Quando il corpo cadde a terra, esanime, Soul trasse un profondo respiro. Sentiva i suoi polmoni come pronti ad esplodere, quasi stesse trattenendo il fiato da lunghissimo tempo. Con uno sforzo estremo, cercò di resistere a quella disgustosa tentazione che gli proveniva dal profondo dell'anima, l'orribile desiderio di tuffarsi sul cadavere e di frugarne le viscere, alla ricerca dell'anima che ancora vi si nascondeva.

«Perché fai resistenza?»

Soul digrignò i denti. Il corpo senza vita della guardia, un giovane Shokunin sconosciuto, giaceva ai suoi piedi, accanto a quello di altri tre uomini e delle rispettive Buki. Davanti a lui, le mura di Death City si levavano alte, nella pallida e tremolante luce della luna.

«Senti che silenzio» mormorò il Kishin. «Sembra quasi che stia cadendo la neve...»

Soul vide il suo volto riflesso nel liquido scuro che si raccoglieva in una pozza, accanto al cadavere sventrato di una giovane Buki dai lunghi capelli neri impiastricciati di sangue. Trasalì. Aveva la nausea.

«Perché non mi uccidi» mormorò, a denti stretti «e non mi lasci in pace?»

«Ucciderti?»

Il Kishin volteggiò accanto a lui. Si chinò a guardarlo, passando una mano d'ombra a tergergli il volto sudato. Soul rabbrividì. Fu come essere attraversati dalla morte stessa.

«E allora dove andrebbe a finire il divertimento?»

Il Kishin rise, e il suo corpo sembrò quasi essere percorso da una serie di scariche elettriche. Il suo volto si fece più pallido, e lentamente, nel buio della notte, prese ad assumere vaghe fattezze umane.

«Credo proprio che tu stia dando corpo alle tue paure» disse il Kishin. «Non ho uno specchio, con me... ma sento che mi stai lentamente donando un volto, un'identità... sai, il riconoscimento è il primo passo verso la completa accettazione di se stessi...»

«Bastardo».

«Ah...»

Il Kishin agguantò l'anima della guardia, che in quel momento prese a volteggiare delicatamente sopra il suo corpo. La rimirò a lungo, quindi la presentò a Soul. Lui tentò di ritrarsi, ma era come se il sangue che gli scorreva nelle vene avesse preso improvvisamente a bruciare. Si sentiva irresistibilmente attratto da quell'anima. La bocca gli si riempì di saliva e i muscoli si tesero. La mente gli si offuscò.

«Tirala via» esalò, strizzando gli occhi. Sentiva il corpo vittima di spasmi incontrollabili. «Tiramela via da lì...»

«Perché? Non ti piace?»

Soul strinse le labbra. Se le morse fino a farle sanguinare.

«Mangia» sibilò il Kishin. «Mangia, Soul, e sarai mio. Mangia, o mi prenderò lei e ne farò scempio».

Soul strinse i pugni. Non riusciva a fare nulla, né a pensare nulla. Lentamente, la sua volontà cominciò a cedere e il suo corpo si rilassò. Fu come perdere i sensi. Cadeva, da un'altezza indefinita. Una vaga beatitudine si impossessò delle sue membra, forse legata a quella consapevolezza di essersi ormai arreso e che galleggiava dolcemente nella sua anima, come una foglia cullata dal vento.

Era inutile lottare. Per quanto potesse sforzarsi, quell'essere aveva già vinto.

Maka...

Senza pensarci, aprì le labbra. Quando scese giù per la gola, l'anima era ancora calda.

«E adesso» fece il Kishin, stringendo con orgoglio la sua nuova falce e facendone brillare la lama al tenue bagliore della luna «andiamo ad incontrare i tuoi amici. Credo proprio che ci stiano aspettando con ansia».

 

 

*

 

 

«Ecco fatto, adesso fai la nanna».

Maka sorrise. Daniel la fissava assonato, il volto che sbucava di poco dalla trapunta. Dopo avergli rimboccato le coperte, lei si chinò su di lui e gli posò un bacio in fronte.

«Mamma, per quanto tempo dovrò restare a casa di papà?» fece. «Qui è una noia».

Lei si incupì leggermente, ma solo per un attimo. Con un sorriso confortante, si sedette sul bordo del lettuccio.

«Ancora per un po'» fece. «Non ti piace stare qui?»

Daniel fece una smorfia.

«Sì, ma papà vuole che io rimetta tutto a posto, quando gioco. Però a me non va sempre».

Maka rise, fissando i giocattoli accuratamente riposti nel baule, ai piedi del letto. Ogni vagone del trenino sembrava incastrato al suo posto come in un puzzle. E i soldatini di piombo erano disposti sul tavolo in una perfetta formazione, quasi dovessero attaccare battaglia da un momento all'altro contro l'esercito napoleonico.

«Parlerò al papà e gli spiegherò di lasciarti un po' più libero, ok?» disse. «Ma per il momento è meglio se restiamo qui. Siamo più al sicuro».

«Per il mostro?»

Maka impalllidì. Fissò a lungo Daniel, cercando di nascondere la propria ansia.

Sì, per il mostro, pensò. Per quel mostro che lei stessa aveva aiutato a creare, e che ora i suoi amici avrebbero dovuto uccidere. Un mostro che in qualche luogo, dentro di sé, nascondeva ancora la parte migliore di lei, quella che lei gli aveva donato dopo che lui era riuscito a farla fiorire, inaspettatamente.

Prima che lui diventasse quello che era. O forse, chissà, anche dopo.

«Prova a dormire» gli fece Maka, lottando contro la smorfia in cui il suo sorriso tendeva a piegarsi. «Qui non ci succederà nulla. La casa del papà è molto robusta».

«Come un castello?»

«Più o meno» fece lei, ora di nuovo divertita. «Un bel castello, che nasconde un piccolo ranocchio» disse, chinandosi su di lui «ma se gli diamo un bacio, ecco che il ranocchio diventa un bellissimo principe».

Daniel ridacchiò, cercando di scansare i baci che la madre gli posava sul faccino. Alla fine la abbracciò, stretta.

«Mamma, perché non posso più andare dal professor Evans?» disse. «Papà non vuole, ma io mi divertivo. Lui è un po' antipatico, però le lezioni mi piacevano».

Maka impallidì. Strinse le labbra, ma si sforzò di mantenersi tranquilla.

«Vedi, non è più possibile. Il professore...»

Lui la fissava curioso. Maka non sapeva cosa dire. Lo guardò, scostandogli un ciuffo dalla fronte.

«Lui... non può più fare lezione. Ecco perché».

«Perché?»

«Perché il mostro... gli ha fatto un incantesimo».

«Un incantesimo?» Daniel si agitò nel lettino, improvvisamente sveglio. «Un incantesimo malvagio?» sibilò. Maka sorrise.

«Sì, molto, molto cattivo. E adesso, deve cercare di liberarsi da questo incantesimo».

«E si farà baciare da una principessa?» fece Daniel, con un'espressione schifata. «Nelle storie fanno sempre così...»

Maka scoppiò a ridere. Passò una mano sulla testolina del figlio, accarezzandogli i bei capelli neri e lisci.

«Ah, sì? Vorrà dire che gliene troveremo una, va bene?» disse. «Chissà, magari anche lui si trasformerà in un bellissimo principe, proprio...»

Maka si intristì all'improvviso. L'eco delle sue parole non si era ancora spento che già qualche lacrima cominciava ad affiorarle agli angoli degli occhi. Con forza le ricacciò indietro, cercando di sorridere.

«Ora dormi, però» fece lei, alzandosi. «È tardi».

Daniel si rigirò nel letto, tirandosi la coperta fin sul faccino. Lei era già sulla porta, quando lui la richiamò un'ultima volta.

«Mamma, Ponkey!»

Maka si piantò le mani sui fianchi, guardandosi intorno con espressione corrucciata.

«Accidenti! È vero. Ma tu guarda... dove si sarà cacciato?»

Daniel tirò fuori un braccio dalle coperte.

«Lì...» fece, indicando vagamente avanti a sé. A un'occhiata attenta, Maka intravide una zampetta di peluche che sbucava da sotto la felpa abbandonata sulla poltrona. Con un sorriso la sollevò, prendendo l'orsetto che vi stava sotto e facendoselo oscillare davanti alla faccia.

«Eccolo qui! Birbante di un Ponkey».

Daniel rise, allungando le braccia. Maka glielo posò accanto al cuscino, un attimo prima che lui lo stringesse. Lo fissò perplessa.

«Ma questo non è il solito Ponkey» fece, guardandolo meglio. Quindi spostò gli occhi su Daniel. Lui si fece serio.

«Lo so» disse. «È partito per un viaggio e quando è tornato era cambiato».

Maka si fece curiosa. «Per un viaggio?» disse. «Che vuoi dire?»

«Ho perso Ponkey» ammise Daniel cupo. «Credevo di averlo portato da papà, ma quando ho cercato non c'era. Non so dove l'ho lasciato. Papà allora mi ha comprato questo. Solo che non assomiglia a Ponkey, cioè un po' sì...» fece, aggrottando e dedicandogli uno sguardo attento. «E allora immagino che sia Ponkey, solo che faccio finta che è tornato dopo aver fatto un viaggio, ed è cambiato».

«E non ti manca il vecchio Ponkey?» chiese Maka, accarezzando lievemente il pancino peloso dell'orsetto. Daniel ci pensò un attimo. Guardò l'orso, quindi la madre; e scosse la testa.

«Gli ho messo la sciarpa che d'inverno mettevo anche a Ponkey. Così è come se fosse lui, perché è vestito con le cose che mi ricordano lui. E anche se è diverso, sembra uguale».

Maka annuì, intenerita. Il pancino di Ponkey, sotto le sue dita, era morbido e caldo.

«Ho capito» fece. «Allora, buona notte, Ponkey l'esploratore» disse, chinandosi a dare un bacio all'orsetto e a Daniel, che le tendeva le braccia. «E buonanotte a te, piccolo ranocchio» disse, facendogli poi una leggera pernacchia sulla guancia. Daniel rise, rigirandosi nel letto.

«Buonanotte, mamma».

Maka si avviò alla porta, lanciando un'ultima occhiata al figlioletto ormai addormentato. Quindi, con un sospiro, uscì dalla stanza.

Era davvero incredibile l'immaginazione dei bambini, pensò. La loro capacità di creare mondi così assurdamente impossibili...

Sarebbe stato fantastico, se anche lei...

Un momento.

Maka si impietrì. Si trovava in mezzo al corridoio, tra due fila perfettamente ordinate di soprammobili antichi quando, per un istante, tutto si offuscò, attorno a lei. Vide i soprammobili cadere, frantumandosi, e il loro rumore si sparse come un grido, nella sua mente. Il cuore le si fermò, e si sentì come scossa da un'improvviso vuoto d'aria. Fu come se nel pavimento, sotto di lei, si fosse aperta una voragine, facendola precipitare nel vuoto. Le ci volle un attimo, per riprendersi.

Non poteva essere così semplice. Così chiaro.

Rivestire se stessi di qualcosa che ci appartiene intimamente. Come Ponkey, ritrovare se stessi grazie a una semplice sciarpa, uno stupido oggetto che ti ricorda chi sei quando nessuno sembra ormai riconoscerti più.

Una semplice, banalissima sciarpa, ma che porta con sé l'essenza più vera di una persona. Qualcosa che nessun altro può riuscire a vedere.

È diverso, ma l'ho vestito come lui. Così mi ricorda com'era.

Com'era. Prima che si smarrisse, prima che accadesse.

Prima dell'incantesimo...

«Dio...»

Maka si portò le mani alle labbra.

I ricordi. Erano quelli la chiave. Ciò che custodisce in sé l'essenza più pura dell'anima di qualcuno.

Era un'idea così assurda che poteva anche funzionare. Sì, avrebbe funzionato, avrebbe funzionato senz'altro.

Doveva solo trovarli, e prenderli per lui. Forse non poteva fare altro, forse era solo una povera inetta, ma quello lo poteva fare. Quello poteva farlo benissimo.

Li avrebbe trovati, quei ricordi, e glieli avrebbe portati. Avesse dovuto camminare fino alla fine del mondo, quello era esattamente ciò che avrebbe fatto per lui, prima che fosse troppo tardi.

Restava solo da trovare il modo.



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Capitolo 13
*** Contro ogni difficoltà! Il coraggio della mia piccola anima? ***


Il corridoio era deserto. Maka si affrettò, accompagnata solo dal confuso scalpiccio che le sue logore scarpe da jogging producevano sulle mattonelle tirate a lucido. Aveva dovuto risalire sei rampe di scale, ma alla fine ce l'aveva fatta. La risposta alle domande che la ossessionavano forse era proprio lì, davanti a lei. Oltre la porta di Shigami, che si intravedeva in fondo al corridoio.

Maka allungò il passo, mettendosi quasi a correre. Passò la serie interminabile di ghigliottine che la separavano dallo studio del Dio della Morte; le contò, una per una. Non le erano mai parse così tante, e così minacciose.

«Shinigami...»

Si guardò intorno, incerta. La sala era vuota. Le luci erano spente e la volta trasparente lasciava intravedere solo il pallido bagliore di quella notte senza nuvole.

Con il cuore affranto, Maka si avvicinò al centro della stanza. Il grande specchio era immerso nel buio. Sembrava un gigante muto, addormentatosi in piedi per chissà quale sortilegio, in attesa che qualcuno lo risvegliasse. Avvicinandosi ad esso, Maka vide il suo volto riflesso emergere improvvisamente dall'ombra, come una maschera grondante un liquido scuro e denso, ma dai riflessi pallidi e cangianti. Lei si osservò, avvicinandosi ancora di un passo. La sua pelle era chiara, del colore della luna. Ad ogni movimento, tutta una serie di ombre si agitava sul suo viso, come fosse percorso dalle dita disgustosamente rapaci di uno spettro. Solo i suoi occhi brillavano puri, come due luci lontane sul fondo di un abisso. Il suo cuore tremò, quando l'immagine dei Kishin si sovrappose alla sua. Calò su di essa come una nebbia sottile. E per un attimo, i loro tratti si confusero, facendosi una cosa sola.

«Maka?»

Si volse. Una figura scura emerse dall'ombra. In mano reggeva un mazzo di chiavi.

«Papà?»

Maka scosse leggermente la testa. Lo specchio, stranamente, sembrava ancora più muto di prima.

«Che ci fai qui?» le chiese Spirit, guardandola con fare stranito. Si volse verso l'ingresso, come se si aspettasse di veder entrare qualcun altro oltre a lei. «Non dovresti essere di sotto?»

«Voglio vedere Shinigami» fece Maka, risoluta. Spirit si ficcò le chiavi in tasca. Tintinnarono, come tante piccole campanelle agitate dal vento.

«Non c'è» disse. «È da tre giorni che manca».

«Dov'è andato?»

«Ha lasciato Death City, per riunire personalmente le forze dalle altre città. Ha affidato la reggenza a Kid. Lui non ti ha detto nulla?»

Maka abbassò gli occhi.

«Che succede?» Spirit si avvicinò, fissandola preoccupato. «Non ti senti bene? È per qualcosa che è successo a Daniel?»

«No, io...»

Maka si morse le labbra. Era una maledetta sfortuna, la sua. Era convinta di essere a un passo dalla soluzione, ma senza Shinigami a cui chiedere aiuto era tutto inutile.

«Maka?»

«Pensavo di avercela fatta» disse lei scuotendo la testa. «Sai, a trovare una soluzione».

Spirit non capì quello a cui si stava riferendo. Più la guardava, più gli sembrava che ci fosse come un muro, a dividerli. Una speciale barriera che impediva a ciascuno dei due di dare un'occhiata al mondo dell'altro.

«Una soluzione a cosa?»

«A tutto».

Lui restò per un attimo senza dir nulla. Quindi sospirò, cacciandosi le mani in tasca. Fissò la figlia con un aria sempre più confusa.

«Maka, non credo di capire».

«Voglio dargli una nuova anima».

«Che cosa?»

Spirit scosse il capo, arrotondando le labbra. Si avvicinò per guardare meglio il volto della figlia, seminascosto dal buio.

«Ma... ma come ti è venuta in mente un'idea simile?» balbettò. Maka allargò le braccia.

«So che è assurdo» ammise lei. «Ma è qualcosa che mi è venuto in mente così, all'improvviso. Se io riuscissi a dare a Soul un'anima nuova, un'anima in cui fossero preservati tutti i suoi vecchi ricordi, ciò che lo ha reso quello che era... quando ancora non era vittima del Kishin...»

«Ma ti rendi conto dell'assurdità?» commentò Spirit. Maka restò a fissarlo con la bocca socchiusa. «Per prima cosa, come pensi di fare? Dove credi di poterli andare a prendere, i suoi ricordi? Non è che li puoi trovare in un negozio qualsiasi».

«Speravo che Shinigami potesse...» fece lei. Spirit scrollò le spalle.

«Nemmeno lui può aiutarti, in questo. Nessuno può rivivere il passato. E poi, anche ammesso che tu riesca in qualche modo a procurarti quei ricordi... un'anima! Ti rendi conto? E dove pensi di recuperarla?»

«Non lo so, io...»

«Non lo sai. Ovvio, perché è assurdo! Tu non sei un dio, Maka! Questa tua... follia... è una cosa da streghe!»

Maka lo fissò dura.

«Beh, almeno ci ho provato!» gridò. «Almeno ho tentato di fare qualcosa per lui, perché è così che si dovrebbe fare, no? Non sono fuggita davanti ai problemi, come hai sempre fatto tu».

Spirit restò senza parole. Fissava il volto serio della figlia, sbattendo lentamente le palpebre

«Ma sì, cosa mi ero messa in testa» disse lei, in un ghigno. «Era inevitabile che fallissi anche stavolta. In fondo, non sono che la figlia di un balordo incapace...»

«Ora basta».

«Basta?» disse lei, aggredendolo. «E perché? Sei stanco di sentirti ricordare quello che sei? Hai la più vaga idea di come mi senta io, di cosa provi in questo momento? Mi trovo di fronte a te, quando so che lui è là fuori, in preda a un mostro orribile; e tutto solo perché io l'ho spinto verso quella cosa, perché volevo che prendesse il tuo posto! Volevo che tu, miserabile schifoso, un debosciato inconcludente, un padre che non è un padre, avessi finalmente quello che meritavi! Volevo che ti ritrovassi in mezzo a una strada, là dove un puttaniere come te meriterebbe di essere!»

Spirit impallidì, trafitto dalla veemenza di quelle parole.

«Hai idea di cosa significhi mantenere un impegno? No, non lo sai. Tu nemmeno la conosci quella parola... e dire che per anni ho cercato in lui, in tutti, qualcuno in grado di sostituirti, di darmi quello che tu non mi hai mai dato... ma cosa c'è da sostituire? Tu non esisti, non sei niente, mentre io e lui... io e lui, anni fa, ci siamo scelti, ci siamo voluti come partner. Da allora abbiamo condiviso tutto; e ogni cosa, adesso che la vedo alla giusta distanza, mi fa capire quanto io in realtà sia sempre stata simile a te, quanto sia stata cieca, egoista, capace solo di pensare al mio interesse del momento. Degna figlia di tale padre» rise, sbuffando. «Mi sono servita di lui, quando invece lui pensava solo a darmi tutto di sé. E ora... ora lui sta per essere ucciso da voi, anzi da noi; dai buoni, da coloro che avrebbero dovuto aiutarlo, i suoi amici! E io sono qui che non riesco a fare nulla, e non faccio altro che pensare a quanto vorrei che ci fossi tu, al suo posto... o io».

Spirit sbiancò. Con un gesto improvviso, alzò la mano, colpendo Maka al volto. Lei trasalì, restando come congelata, con gli occhi sbarrati. Scosso da quanto aveva appena fatto, Spirit si portò la mano davanti agli occhi, fissandola sconvolto come se non gli appartenesse.

«Maka» balbettò «scusami, io...»

Lei lo guardò, con gli occhi che brillavano per l'umiliazione.

«Vaffanculo papà» sibilò, prima di correre via.

«Maka!»

Spirit allungò un braccio per trattenerla, ma lei gli sgusciò via, senza fermarsi. Tutto ciò che lui poté fare, fu restare a guardarla mentre scompariva oltre le ghigliottine avvolte dall'ombra, finché anche il suono leggero dei suoi passi si fece così lontano e indistinto che svanì nell'aria, portandosi dietro il ricordo della sua presenza in quel luogo. Con un sospiro, Spirit chinò il capo. Era già la seconda volta che lei fuggiva davanti a lui, e tutto nel giro di nemmeno un giorno.

«Direi che non ce la fate proprio a capirvi».

Spirit alzò gli occhi. Il profilo sghembo di Shinigami si staccò dall'ombra, come un grumo spesso. Si mosse silenziosamente, andando a raggiungere la sua Arma, al centro della stanza.

«Da quant'è che sei lì?» chiese Spirit, socchiudendo gli occhi. Shinigami si fermò a un passo da lui, la maschera bianca illuminata dal chiarore debole della notte. Si volse verso l'entrata.

«Da un po'» fece. «Sono tornato da poco».

«Fatto buon viaggio?» commentò Spirit, con un sospiro. Shinigami annuì.

«Sono venuti tutti. Siamo pronti».

Spirit allungò di nuovo un'occhiata là dove Maka era sparita. Scosse la testa.

«Non volevo fare quello che ho fatto» si giustificò. «Ma quando ho sentito che era pronta a gettarsi via, a gettare via la sua vita...»

«Certo, deve volergli molto bene» disse Shinigami. Quindi tacque. Spirit emise una leggerissima risata, che venne assorbita quasi subito dal silenzio che li circondava.

«Dio, che schifo» fece. «Non ho saputo fare nulla di buono. E dire che con lei, avevo davvero raggiunto tutto ciò che potevo desiderare».

«Tu le vuoi bene, però» fece Shinigami. Spirit annuì, mesto.

«Ma non è mai abbastanza».

«Allora capisci come deve sentirsi in questo momento».

Spirit chiuse gli occhi, ghignando. «Ma anche se volessi aiutarla, come potrei? Non esiste possibilità al mondo di darle quanto desidera. Ormai, per Soul non c'è speranza. Lo sapevamo benissimo fin dall'inizio, quando si è ripresentato qui. È per questo che è tornato. Per consegnarsi a noi. Nessuno di noi credeva davvero che lo avrebbe fatto, che avrebbe trovato la forza per portarsi fin qui, perché questo avrebbe significato la sua fine».

«Ma questo lo sapevamo solo noi. Maka non ne era al corrente...»

«Certo! E credi forse che non mi dispiaccia per quel ragazzo? Credi che se potessi, non lo aiuterei? Non sai che darei per riconsegnare a quei due i loro sogni, ma... non è possibile».

Shinigami si voltò verso il suo specchio. Quando gli si avvicinò, la superficie sembrò quasi riconoscerlo, perché a un suo gesto lanciò un bagliore improvviso, che subito si dileguò, lasciando il vetro più scuro e vuoto di prima.

«Sai, questo specchio è molto importante» mormorò, quasi parlando a se stesso. «Ha un potere davvero eccezionale. Può mostrare qualsiasi cosa. Attraverso di esso, è possibile vedere ciò che più si desidera, basta chiederlo. E in più, mostra sempre la verità. Davvero molto, molto utile».

Spirit inarcò un sopracciglio. Perché diavolo si era messo a parlare di quel dannato specchio?

«L'unico problema, è che non può essere portato fuori di qui. È legato indissolubilmente alla Shibusen, e a questa stanza. Ma questo già lo sai, perché sta a te proteggerlo. Come sai che l'unico modo per portarlo fuori, sarebbe quello di romperlo... ma in tal caso, si perderebbe anche il suo potere, perché svanirebbe dai frammenti entro pochissimo tempo. Anche se per un po', certo, potrebbe anche durare».

Spirit drizzò il busto, facendosi improvvisamente attento. Shinigami lo fissò intensamente, restando per qualche istante senza dire nulla.

«Forse non lo sapevi, ma attraverso di esso è possibile anche ritrovare il passato... basta porlo in un luogo in cui possa recuperare ricordi che ci interessa vedere» disse. «Te l'avevo mai detto?»

Spirit impallidì.

«No» mormorò «in effetti non ne sapevo nulla».

Shinigami gli voltò le spalle.

«Ovviamente, è un bene che ci sia tu a proteggerlo. Se si rompesse, sarebbe un vero guaio... non ce n'è un altro uguale e adesso che dobbiamo affrontare il Kishin... credo che tutta l'operazione subirebbe un certo ritardo, lasciandoci solo la possibilità di arginare il mostro, senza però poter coordinare le forze per combatterlo... almeno per qualche ora».

«Shinigami...»

«Sid mi ha assicurato che tutta la popolazione è stata messa in salvo. Sono sicuro che qualche ritardo in più non causerebbe un danno eccessivo, anche perché il Kishin è più interessato a distruggere me che altro... ma perché preoccuparsi? Tanto, lo specchio è ancora tutto intero, no?»

Spirt deglutì, annuendo. Shinigami scrollò le spalle.

«Beh, buonanotte, Spirit».

Il vestito ondeggiante di Shinigami si fuse nuovamente con le tenebre, finché il Dio della Morte non si ritrovò avvolto da esse, sparendo alla vista. Una volta solo, Spirit ascoltò il silenzio che era sceso gravemente intorno a lui.

Guardò lo specchio. Brillava di una luce delicata e soffusa, riflettendo pallidamente il profilo ricurvo della Death Scythe che gli stava davanti. Spirit si avvicinò, sfiorandolo dolcemente con le dita. Il vetro era freddo. Quando lui vi posò sopra la mano, con emozione lo vide appannarsi leggermente attorno ad essa. Durò tutto solo un istante, giusto un attimo, prima che il suo braccio si trasformasse in una lama di falce e bucasse con forza la superficie, mandandola in frantumi. Le schegge di vetro caddero rumorosamente ai suoi piedi, come al suono di una fragorosa cascata.

Spirit si guardò intorno, con circospezione. Non c'era nessuno. Con un sorriso, si chinò sui frammenti, sparsi un po' ovunque attorno a lui. Nel buio, non riusciva a distinguere bene. Voleva scegliere un pezzo bello grosso, che racchiudesse in sé potere a sufficienza per durare il tempo necessario. Ma mentre cercava, gli capitava anche di pestarne qualcuno, rompendolo in tanti pezzi più piccoli. Ogni volta che gli capitava, si malediceva per la sua sbadataggine.

Alla fine, gli sembrò di aver trovato il pezzo che faceva al caso suo. Si chinò, per raccoglierlo, ma ritrasse immediatamente la mano, portandosi un dito alle labbra. Il sapore ferrigno del sangue gli punse i sensi. Quel dannato vetro era più tagliente di un rasoio.

Estrasse il fazzoletto di tasca e si chinò nuovamente, avvolgendo il frammento nel fazzoletto e facendo attenzione a non romperlo mentre lo sollevava. Quindi lo avvolse nel tessuto e lo infilò in tasca. A quel punto, guardò l'orologio.

Erano già passati cinque minuti.

Aveva poco tempo. E a Maka, ne serviva il più possibile perché, a quel punto, ogni cosa poteva ancora accadere. Ora che aveva davvero in mano quel frammento e che aveva fatto una cosa del genere, mettendo nei guai tutta la Shibusen, tutto poteva verificarsi. Anche che sua figlia ritrovasse una speranza ormai perduta. Anche che lui diventasse finalmente un padre, fosse pure per un brevissimo istante.

Fu con questi pensieri in testa, che si precipitò fuori dalla stanza.

 

 

*

 

 

Trovare Maka non fu difficile. La vide ferma sulla terrazza, che guardava l'orizzonte. Chissà perché, ma qualcosa dentro di sé gli aveva suggerito di andare a cercarla lì, come se al di là di quel muro invisibile che non gli permetteva di raggiungerla, la sua voce sottile continuasse a chiamarlo. Forse il problema era proprio quello. Frequenze. Si trattava di aggiustare la propria anima, perché potesse riuscire ad abbracciare la risonanza che proveniva da quelle che la circondavano.

Spirit si fermò a pochi passi da lei. Con il cuore in gola, estrasse il fagotto che aveva in tasca. Il vetro scheggiato pungeva le mani, nonostante fosse ancora avvolto nel fazzoletto. Spirit lo strinse leggermente, stando però attento a non esagerare, quasi fosse qualcosa di vivo.

«Maka».

Lei non si voltò. Semplicemente, restò a guardare avanti a sé. La luna si rifletteva sui suoi capelli, facendoli brillare come se fossero bagnati di polvere di stelle.

«Scusami. Non volevo farti del male».

Maka abbassò il capo. Si voltò. Non piangeva, ma era profondamente triste.

«Non è quello che mi fa più male» disse, in un sussurro. «È il fatto che ho fallito. Che pensavo di poterlo aiutare, quando invece non mi è possibile».

«Sì, che puoi».

Lei aggrondò. Fissò il padre senza capire, quindi abbassò gli occhi su quanto lui teneva in mano. Spirit alzò entrambe le mani con un sorriso, e in un gesto di offerta le mostrò il frammento.

«Cos'è?» fece lei, avvicinandosi.

«Un frammento dello specchio di Shinigami» fece Spirit, posandogli il fagotto tra le mani. «Fai attenzione, è molto tagliente».

«Papà...»

«Con questo puoi trovare i suoi ricordi. Non lo sapevo, altrimenti te lo avrei procurato prima... ma devi sbrigarti, o il suo potere potrebbe svanire».

«Potere?»

«Devi trovare un luogo in cui quei ricordi siano vivi» fece Spirit. «Se porti là il frammento, questo saprà leggerli e tu potrai vederli. Tuttavia, non credo che tutti i ricordi siano davvero importanti... dovresti concentrarti su qualcosa che è alla base della trasformazione di Soul, qualcosa che racchiude veramente tutto il segreto del suo essere... ma è solo un'idea».

«Ne terrò conto» fece lei.

«Ascolta, per quanto riguarda l'anima... su questo, non so proprio aiutarti.».

Maka sorrise, con gli occhi che le brillavano.

«Tranquillo» disse. «Saprò trovare un modo».

«Ti prego, cerca solo...»

Spirit tacque, abbassando gli occhi. Lei si infilò il frammento nella borsetta, quindi gli posò una mano sul braccio.

«Ti prometto che non farò nulla di stupido, papà» disse. Lui sorrise. Era commosso.

«Ah, già... dimenticavo» fece, tirando su col naso. «C'è anche questa».

Spirit tirò fuori dalla tasca la piccola chiave d'ottone che Maka aveva trovato là dove Soul era sparito. Gliela porse, e lei la prese tra le mani, come fosse qualcosa di sacro.

«Dove l'hai trovata?» chiese, col volto illuminato dalla sorpresa.

«Veramente, me l'hai gettata in faccia ieri» fece lui. «Sarebbe stato difficile non trovarla».

Maka arrossì, scrollando le spalle. Lui rise.

«Sei davvero unica, tu» fece, allungando una mano al suo volto. Ma all'improvviso si fermò, con gli occhi che gli tremavano. Il ricordo del suo gesto di poco prima lo spaventava ancora.

Maka notò la sua reazione; e per tutta risposta gli afferrò la mano, premendosela contro il volto. Il cuore di Spirit mancò di un battito, e il suo viso si fece pallido per l'emozione.

«La mia bambina» mormorò. Maka sorrise.

«Promettimi che tornerai presto» fece lui. «Lo farai?»

«Lo farò. E lui sarà con me».

«Ne sono sicuro».

Maka fece per allontanarsi. Quando era già sulla porta che conduceva alle scale, si volse, guardando il padre con un sorriso.

«Cucinare» disse. Spirit aggrondò.

«Cosa? Che vuol dire?»

«È ciò che mi piace di più. Cucinare per gli altri. Ora lo sai».

Spirit restò inebetito a guardarla, mentre correva fuori dalla porta.

Era vero. Ora lo sapeva.

Non l'avrebbe più dimenticato.

 

 

 

 

Nota dell'autore: da me, a tutti voi che leggete, i più sinceri auguri di buone feste!

 

Puglio

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Capitolo 14
*** Intermezzo II: Ancora una volta, coraggio! Sarà il caso a rivelare il nostro destino? ***


Quando Kid arrivò davanti alla porta di Maka, la trovò aperta. La casa era completamente sottosopra. Crona, pallido, in un angolo, osservava la ragazza mentre gettava tutto all'aria, senza parole.

«Dove diavolo era... eppure sono sicura di averlo visto...»

«Maka!»

Lei sollevò la testa dalla pila di dischi che aveva accatastato per terra. Guardò distrattamente in direzione della porta, quindi ritornò alle sue occupazioni come nulla fosse.

«Ciao» disse. «Scusa ma sono occupata, come vedi».

Kid si avvicinò, scansando i fogli e gli scatoloni che si trovavano sparsi un po' ovunque sul pavimento. Lanciò a Crona un'occhiata innervosita, digrignando i denti proprio mentre cercava di non inciampare su alcuni raccoglitori, gettati a terra accanto al divano.

«Si può sapere che ti è preso?» fece. Lei non lo guardò neppure, continuando a inumidirsi le dita per sfogliare le sottili pagine di un vecchio diario. «Quando sono tornato a casa e non ti ho trovato, ho avuto paura. Credevo che ti fosse successo qualcosa...»

«No, non mi è successo nulla» fece lei. Solo dopo un attimo sollevò la testa, sorridendogli in modo vago.

«Non direi».

Kid si guardò attorno. La casa era un disastro. Sembrava che tutti i ricordi della giovinezza di Maka fossero spuntati direttamente dal pavimento, come una colonia di funghi.

«Ho parlato con Spirit» fece Kid, serrando le labbra. «Mi ha raccontato tutto. Non riuscivo a crederci».

«Non riesco a trovarlo...»

«Maka, mi ascolti?»

Lei lo guardò. Restò per un attimo senza parole, quindi posò il raccoglitore che aveva tra le mani, e si alzò in piedi.

«Tu sai dove abitava?»

Kid trasalì. «Chi?»

«Soul. Sto cercando casa sua. Non mi ci ha mai portato e non me ne ha mai parlato... speravo che da qualche parte avesse un biglietto, o una lettera, un ricordo... qualcosa dei suoi, insomma. Così da poter ritrovare l'indirizzo».

«Sei pazza?»

Lei lo scansò, in malo modo. Si chinò a frugare nei fogli che lui stava pestando.

«Non ti lascerò fare una cosa simile, scordatelo!» reagì lui.

«Non so se te ne sei accorto, ma la sto già facendo».

«Smettila subito, allora!»

«Non se ne parla».

Maka si drizzò in piedi, fissandolo infastidita. Dopo qualche istante, sbuffò, rassegnata.

«Senti, non ho davvero tempo per litigare» fece, con una smorfia. «Se vuoi aiutarmi, te ne sarò davvero grata. Se non vuoi, allora togliti dai piedi».

Kid rimase di stucco. Si lasciò spostare, osservandola mentre gli sfilava davanti, immersa nuovamente nella sua ricerca. Alla fine, scosse il capo.

«Razza di testona...»

«Non ti sento!»

Lui rise, suo malgrado. Si chinò a raccogliere alcuni quaderni. Erano tutti quaderni di scuola. Ce n'erano molti di Maka, che si potevano riconoscere per i colori sgargianti e per il fatto che non avevano nemmeno una piega. Kid ne aprì uno, osservando con ammirazione il modo in cui Maka li aveva riempiti con la sua scrittura ordinata e pulita.

«Già allora eri una precisa» fece lui. «Ah, devo dire che mi è sempre piaciuto questo tuo amore per la perfezione...»

«Era solo per non aver problemi a casa, quando dovevo studiare gli appunti» fece lei, fissandolo corrucciata. «In realtà, ho sempre preferito cose molto meno simmetriche».

Kid la guardò, ammiccando. «Non sempre» fece. Quando si rese conto a cosa alludeva, lei arrossì all'improvviso, facendosi confusa.

«Sì, non sempre» ammise. «Trovato qualcosa?»

Lui si schiarì la voce, evitando lo sguardo imbarazzato di Crona.

«No, niente...»

Un piccolo diario, chiuso da un laccetto, attrasse improvvisamente la sua attenzione. Kid lo intravide sul fondo di uno scatolone, coperto da una serie di cianfrusaglie inutili.

«Come accidenti ci è finito, qui, questo?» mormorò. «Dannazione, un diario insieme a questa roba... ma l'ordine dove sta?»

Si chinò a prenderlo, sollevandolo con due dita, quasi schifato. Lo rimirò, rigirandoselo davanti agli occhi. Quindi lasciò da parte i quaderni che aveva tra le mani, sistemandoli con cura, e si dedicò al taccuino.

«Guarda qui...»

Maka gli dedicò un'occhiata veloce. Quando si accorse di cosa aveva in mano, si avvicinò.

«Che roba è?»

«Sembra un diario. Ma è vuoto. Ci sono solo biglietti, tra le pagine, e foto... guarda».

Maka prese una foto che Kid gli stava porgendo. Era una vecchia foto sbiadita, dai contorni mangiucchiati e dai colori slavati. Raffigurava due ragazzi, di cui uno più grande dell'altro. Maka riconobbe subito Soul, il più piccolo tra i due, anche se in quella foto aveva un sorriso che non gli aveva mai visto.

«Chi è l'altro?» chiese Kid, curioso, riprendendo la foto. Maka restò a fissarla dall'alto.

«Suo fratello... penso».

Aggrondò. Doveva essere per forza il fratello, quel ragazzo così alto e dall'espressione così indecifrabile. Sorrideva anche lui, ma il suo sorriso aveva un che di profondamente diverso da quello di Soul... tanto quanto il suo mostrava una felicità sincera, evidente per la sua età, quello del fratello maggiore sembrava nascondere qualcosa di sbagliato. Era come se dietro a quel sorriso così inconsistente si nascondesse un volto destinato a sbiadire sempre più, fino al più totale annullamento.

«Accidenti, è davvero un bel ragazzo» osservò Kid. «Quando l'hai conosciuto?»

«Non l'ho mai fatto» osservò Maka, riscuotendosi come da un sogno. Era vero, pensò, lanciando alla foto un'ultima occhiata. Quel ragazzo era di una bellezza straordinaria.

«E come fai a sapere che si tratta di lui?»

«Non potrebbe essere diversamente» osservò Maka, con una scrollata di spalle. «Soul ha un fratello, che io sappia; e l'altro nella foto è lui. Quindi, ho semplicemente dedotto che...»

«Guarda, qui c'è un francobollo» disse Kid, mostrando a Maka il retro della foto. Era vero. Qualcuno l'aveva spedita, come una cartolina.

«Conosci questo posto?» chiese Maka, chinandosi sulla spalla di Kid. Lui annuì.

«Non è lontano da Death City. Lo si raggiunge in un'ora col treno».

«Adesso sono quasi le sette» fece Maka, osservando l'orologio appeso al muro. «Se mi sbrigo, faccio ancora in tempo a prendere il primo treno».

Kid strabuzzò gli occhi, rendendosi conto troppo tardi che lei era già sparita oltre la porta. In un lampo, si alzò, correndole appresso.

«Maka, aspetta!» gridò. «Dove vai?»

Ma era troppo tardi. Lei era già scomparsa.

 

 

*

 

 

«In carrozza!»

Maka si scrollò di dosso la pioggia insistente che aveva cominciato a cadere fitta, quella mattina. Il sole non era ancora sorto, e la luce gialla dei lampioni lungo la facciata della stazione si rifletteva tremolante sulle pozzanghere, la cui superficie era lievemente increspata dalle gocce sottili che cadevano dal cielo come tanti piccoli spilli di ghiaccio. Non appena Maka fu salita sul vagone, il caldo soffocante, misto al puzzo di sporco e di chiuso, la costrinse a sbottonarsi l'impermeabile.

Maka percorse in silenzio il corridoio, alla ricerca di una qualche cuccetta libera. Qualcuno sostava in piedi, accanto al finestrino. Vedendola arrivare, le persone lungo il corridoio le lanciavano lunghe occhiate, squadrandola da capo a piedi, come se dovessero prenderle le misure. Maka fissava quelle persone senza troppo imbarazzo, continuando a incedere con il suo passo disinvolto. Gli uomini la osservavano senza voler dare troppo nell'occhio, attratti dalla sua presenza, nonostante forse la reputassero una bellezza non proprio esagerata. Ma si sa, pensò lei, gli uomini sono così. In certe situazioni, non possono fare a meno di dare il peggio di sé.

Il treno era mezzo vuoto, ma in compenso le cuccette erano un vero schifo. Maka faticò a trovarne una in cui le luci funzionassero e che non puzzasse come una stalla. Con disgusto, si mise a guardare il pavimento lercio e attaccaticcio, chiedendosi da dove diavolo arrivasse quel treno. Sembrava quasi che prima di caricare i passeggeri a Death City avesse fatto tappa in un porcile.

«È libero?»

Maka sollevò gli occhi, voltandosi a guardare. Una anziana signora sostava sulla porta, scrutando speranzosa l'interno. Con un sorriso, Maka la aiutò con i bagagli.

«Certo, prego. Si accomodi».

La donna la ringraziò per la gentilezza. Maka le sistemò i bagagli e prese posto di fronte a lei, ripiegandosi l'impermeabile tra le mani. La donna la guardò e si scambiarono qualche timido sorriso. Maka distolse lo sguardo, senza sapere cosa dire; e in quel momento la donna si sporse leggermente verso di lei.

«Posso chiederle dove va?»

Maka le disse il nome della sua fermata. Il volto della donna si illuminò.

«Ah, anche io scendo lì».

«Davvero?»

Che coincidenza.

«Sa, lavoro come governante. Ho trovato lavoro presso una casa, qui a Death City, dei signori molto a modo. Ma ora che la città è stata sfollata, dovevo scegliere se restare o tornare a casa... e ho preferito tornare».

«Certo» commentò Maka, non molto interessata. «Capisco bene».

«E lei, invece? Perché vi è diretta?»

Di fronte all'espressione diffidente di Maka, la donna arrotondò le labbra.

«Oh, mi perdoni, non volevo sembrare invadente...»

Maka arrossì. «No, è che... beh, vado a trovare la famiglia di un mio amico».

«Sì?» fece la donna, sempre più curiosa. «E chi? Sa, glielo chiedo perché io conosco tutti, laggiù! Posso dire di aver visto nascere tanti di quei bambini... non mi crederà, ma ho tenuto quasi tutti i bambini del mio paese, anzi: lei quanti anni ha? Ventuno, ventidue...»

«Venticinque» la corresse Maka, con un sorriso.

«Oh, sembra molto più giovane... comunque conoscevo tanti ragazzi che adesso avranno più o meno la sua età. Allora lavoravo presso una famiglia importante, molto conosciuta... non so se ne ha sentito parlare... gli Evans».

Maka la fissò sconcertata.

«Lei lavorava per gli Evans?» fece. «Sul serio?»

«Ah, li conosce!» esultò la donna, che si sistemò sul sedile come se dovesse prepararsi a scattare da un momento all'altro. «Sì, ho lavorato anche per loro. Delle persone squisite, veramente, anche se molto sfortunate...»

«Perché?»

La donna la guardò, stringendo gli occhi. «Non lo sa?»

Maka scosse il capo.

«Ah, è una storia triste. Ancora adesso, se ci penso, mi vengono le lacrime agli occhi... io ho lavorato da loro per quasi vent'anni, sa... vent'anni... dopo così tanto tempo, alla fine, alla gente ti ci affezioni...»

Maka annuì, incitandola a proseguire.

«Ricordo ancora come eravamo felici quando nacque il signorino. Il figlio minore, Soul. Era un bambino meraviglioso, pieno di vita. Di una gentilezza unica. Non ho mai dimenticato il suo faccino, anche se ora credo proprio che lui non si ricorderà più di me».

Non era possibile, pensò Maka. Se quella donna era stata di una qualche importanza, per lui, Soul non l'avrebbe mai dimenticata. Lui era fatto così.

«E cosa successe, poi? Perché ha detto che sono stati sfortunati?»

La donna assunse un'espressione dispiaciuta.

«Beh... non so se dovrei parlarne...»

«La verità è che io sono amica di Soul Evans» fece Maka. «Non lo vedo da tanto, e ho pensato di andarlo a trovare a casa sua, per fargli una sorpresa...».

«Oh, ma non ci vive più nessuno da anni, là...»

Maka impallidì.

«Cosa?»

«È davvero molto che non lo vede, altrimenti saprebbe tutto» disse la donna, la cui espressione tradiva tutta la voglia di raccontare quanto sapeva. «Vede, se ne sono andati via tutti dopo la morte del signorino Andrew. Una vera disgrazia, sa, da cui la famiglia non si è più ripresa...»

Maka tacque. La donna tirò su col naso, aprendo la pochette ed estraendo un fazzoletto di batista. Il vagone ebbe un leggero scossone, e nel silenzio, cullato dal rumore delle carrozze che sfrecciavano sui binari, la pioggia continuava a sferzare i vetri, incollandosi ad essa e allo sporco che vi colava via.

«Quello fu un giorno terribile. Andrew aveva da poco compiuto vent'anni, e il signorino Soul ne aveva solo undici. Ricordo ancora quando la polizia venne a portare la notizia a casa... fui io ad aprire... non riuscii nemmeno a capire quanto stavano dicendo...»

La vecchia si soffiò il naso. Maka distolse gli occhi, fissando il riflesso del suo volto al finestrino. Era come sdoppiato, quasi fosse un riverbero di se stessa.

«Il padrone si dimostrò molto forte, mentre la madre ne uscì sconvolta. Volevano un bene tale a quel giovane... era un autentico prodigio, sa, un genio della musica. Avrebbe dovuto vivere una vita meravigliosa, invece...»

«Come accadde?» chiese Maka.

«Un incidente stradale. La polizia trovò l'auto giù per un dirupo. Una cosa tremenda».

«Oh...»

«Ricordo che da allora il signorino Soul si è come chiuso in se stesso. Era sempre stato particolarmente legato a suo fratello... erano degli studenti modello, tutti e due, e anche il signorino Soul suonava il piano divinamente».

«Sì, lo so» fece Maka. Infatti lo sapeva bene.

«Da allora, però, in lui cambiò qualcosa. Smise completamente di toccare lo strumento. Più i genitori lo pregavano di studiare, più lui reagiva in malo modo, chiudendosi a riccio. Presero a obbligarlo, ma lui non si metteva di impegno e così presto il prestigioso conservatorio a cui l'avevano iscritto lo espulse. Il padre non la prese affatto bene. Il signorino era solo un ragazzino, ma da allora fu come se il rapporto con i genitori si fosse del tutto incrinato. Il padre non sosteneva più la sua presenza, e la madre continuava a chiudersi sempre più in se stessa, fino a che il dolore per la perdita del figlio la rese pazza. Quando accadde, il padre, per allontanarlo da casa, decise di iscrivere il signorino in questa scuola speciale, in cui avevano studiato tutti quelli della sua famiglia. Anche il signorino Andrew avrebbe dovuto studiare lì, per seguire le orme del padre. Ma poi... ah...»

Maka aggrondò. Era una storia molto diversa da quanto credeva di sapere.

«Io pensavo che fosse stato Soul a decidere di andare alla Shibusen, per dimostrare che valeva qualcosa...»

La donna la fissò come se avesse detto un'eresia. «Mai e poi mai!» fece. «Il signorino odiava l'idea di andare a quella scuola. Ma lo fece perché vi venne costretto. Il padre non tollerava più di averlo accanto, e in più doveva occuparsi della moglie malata. Così il signorino, un brutto giorno, partì. Io lasciai la casa, e da allora, non li rividi mai più».

«Non sa cosa è successo poi?» fece Maka. «Intendo ai genitori di Soul».

«So che la signora è morta qualche anno dopo» fece la donna. «Il padre è ancora vivo, credo. Immagino viva da qualche parte, lontano da qui... non saprei».

Maka si zittì. Era tutto sbagliato. Non aveva idea che le cose fossero davvero andate così.

Soul...

Perché quello stupido non le aveva mai detto nulla? Avrebbe potuto aiutarlo, o almeno confortarlo.

Invece, era stata del tutto inutile.

Il treno prese a rallentare la sua corsa. La donna si avvicinò al vetro, stringendo gli occhi.

«Ah, direi che siamo arrivati!» fece, tutta pimpante. «A parlare con qualcuno il tempo passa così in fretta... lei allora è amica del signorino Soul?»

Maka annuì, alzandosi per aiutare la donna con il bagaglio.

«E mi dica, come sta?»

«Non lo so, veramente» fece Maka. Era vero. Avrebbe dato qualsiasi cosa per sapere cosa gli passava in quel momento per la testa. «Ma spero di saperlo presto».

«Lei è una ragazza tanto carina, e poi è molto graziosa» fece la donna, uscendo dallo scompartimento, seguita da Maka. «Sono contenta di sapere che è amica di quel povero ragazzo... ma forse sono davvero troppo sfacciata...»

«No, non si preoccupi» fece Maka, allegra. «Non è un problema. Un tempo io e lui siamo stati molto legati».

«Oh, davvero? Allora, speriamo che possiate rincontrarvi presto, sì?»

Maka non rispose. Si limitò a sorridere debolmente, abbassando gli occhi.

«Ah, eccoci. Finalmente».

La donna scese, aiutata da Maka. Una volta raggiunta la pensilina, si voltò verso di lei, gonfiando il petto e sistemandosi il cappello sulla massa gonfia di capelli ingrigiti.

«È stato davvero un piacere, signorina...»

«Maka» fece lei. «Maka Albarn».

«Maka, che nome grazioso» disse la donna. «Se dovesse rivedere Soul, allora, gli porti i saluti della signora Simmons e gli dica che lo ricorda con tanto affetto».

«Non mancherò» rispose Maka, salutandola con la mano.

La signora Simmons si incamminò lungo la pensilina, schivando le pozzanghere che tempestavano il fondo di cemento sgretolato. Maka restò a guardarla per un po', quindi spostò gli occhi sul paesaggio, sconfortata.

Era tutto tremendamente cupo, e desolato. Ma era lì che si trovava l'anima di Soul. O almeno, quello che ne restava.

Così, con la borsetta sotto il braccio, si avviò; anche se ancora non aveva la minima idea di cosa avrebbe fatto in seguito.

 

 



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Capitolo 15
*** Comincia la battaglia! Come vinceremo le nostre paure? ***


Fuori dalla stazione, alcuni taxi aspettavano in fila. Sembravano tante conchiglie vuote, che giacevano abbandonate sulla spiaggia. Maka si avvicinò alla prima vettura della colonna, bussando al finestrino chiuso. Un uomo corpulento si agitò sul sedile, colto di sorpresa. Spostò gli occhi sonnacchiosi sul volto della ragazza, alzandoli dal giornale che teneva aperto e poggiato sul volante. Con qualche movimento confuso si mise a cercare il pulsante per abbassare il finestrino, alla cieca.

«Salve, è libero?»

Maka restò a guardarlo dal finestrino mezzo abbassato, sorridendo in attesa di una risposta. L'uomo sbuffò, accennando al sedile posteriore.

«Vede qualcuno?» fece. Il sorriso sul volto di Maka vacillò per un momento, per poi riprendersi come se nulla fosse. Con un movimento fluido, la ragazza salì sulla vettura.

«Dove andiamo?» grugnì l'uomo, guardando Maka senza voltarsi, attraverso lo specchietto retrovisore. Lei richiuse la portiera, agitando le mani fradice di pioggia.

«Dovrei recarmi a casa degli Evans» disse, strizzandosi i capelli fradici. «Ma non conosco il nome della via. Magari lei sa dove si trova?»

Il tassista la fissò a lungo.

«Casa di chi?»

«Evans... sa, quella famiglia...»

«So chi sono» disse lui, aggrottando. Maka si zittì, di fronte al tono brusco dell'autista. «Ma se pensa che io mi avvicinerò a quel posto, sta fresca».

«Come?»

«Ha capito. Io non ci vado. Se vuole andare laggiù, si faccia portare da qualcun altro, oppure vada a piedi».

«A piedi? Ma...»

«C'è l'autobus, qui, poco distante» fece l'uomo, agitando un braccio in modo vago. «Prenda quello. Costa anche meno».

Maka lo fissò esterrefatta, con un codino fradicio ancora stretto tra le mani.

«Io ho i soldi, cosa crede?» protestò. L'uomo nicchiò, del tutto indifferente.

«Può anche avere il tocco di re Mida, in quelle manine» disse. «Ma io là non ce la porto. Mi dispiace. Se vuole, posso arrivare fino a un certo punto, poi però dovrà continuare da sola».

«Allora chiederò a qualche suo collega...»

«Nessuno la porterà» fece l'uomo con un sorriso. «Di questo può starne certa. Nessuno va in quel posto, se ha un po' di sale in zucca».

Maka strinse le labbra. Agguantò la borsetta e aprì bruscamente la portiera.

«Grazie lo stesso. Vorrà dire che andrò in autobus» disse, uscendo furiosa dall'auto.

«Stia attenta, quello non è un posto sicuro» fece appena in tempo a dire l'uomo, prima che Maka gli sbattesse la portiera in faccia. Lui la seguì con gli occhi per un po', scrollando poi le spalle nel più completo disinteresse non appena fu abbastanza lontana.

Idiota, sbottò Maka tuffandosi sotto la pioggia, che cadeva fittissima. Rassegnata, si mise a correre, sollevandosi l'impermeabile sopra la testa nell'inutile tentativo di ripararsi i capelli ormai zuppi.

La fermata dell'autobus era davvero poco lontana; peccato solo che non esistesse neppure una tettoia sotto cui ripararsi. Maka si guardò attorno. Alcune persone accanto a lei la fissavano vacuamente. Tutti attendevano l'autobus e tutti avevano l'ombrello. Nessuno, però, sembrava curarsi del fatto che lei stesse letteralmente annegando. Scambiò un sorriso pieno di speranza con una signora che la fissava vagamente interessata, che però non appena si accorse che Maka la stava guardando, distolse subito lo sguardo.

«Prego, vuole usare il mio ombrello? Oh, grazie, molto gentile...» mormorò Maka, con una smorfia.

L'autobus tardava ad arrivare. A quel punto, pensò, avrebbe fatto quasi meglio a prendere il taxi, arrivare fin dove quel tipo aveva intenzione di lasciarla e proseguire a piedi. Forse si sarebbe bagnata meno. Ma ormai era tardi per mettersi a fare pensieri del genere. Magari l'avesse saputo prima.

La pioggia non accennava a smettere. Disperata, Maka si guardò attorno. Le persone attendevano tranquille, per nulla indispettite. Probabilmente, sapevano esattamente l'orario a cui sarebbe passato l'autobus, e lo attendevano senza troppa preoccupazione.

«A che ora arriva?» chiese Maka, all'improvviso. Quelli si guardarono. Lei attese, spostando gli occhi da un volto all'altro. Nessuno rispose.

Fantastico. Sono nel paese dei morti viventi.

Per certi versi, l'atteggiamento sempre imbronciato di Soul non le sembrava più molto strano. Se era cresciuto in un paese come quello, non c'era per nulla da stupirsi del suo essere schivo e taciturno.

Un ragazzetto si tolse le cuffie e la guardò annoiato, sporgendo le labbra. Richiuse l'ombrello e fece un vago cenno col capo, in direzione della strada. Maka si voltò, confusa. L'autobus aveva svoltato in quel momento, e si avvicinava alla fermata.

«Dio, ti ringrazio» esalò, rabbrividendo per la pioggia che ormai l'aveva bagnata fin nelle ossa.

L'autobus si fermò con un leggero stridio. Quando le portiere si aprirono, con uno sbuffo, una frotta di persone si riversò fuori, travolgendola. Maka cercò di spostarsi, ma veniva spinta sempre più lontano. Quando finalmente riuscì ad avvicinarsi alle porte, queste si richiusero all'improvviso, proprio davanti al suo naso.

«Ehi!»

Batté con la mano sul vetro. L'autobus, che aveva già ripreso la marcia, frenò di botto; l'autista riaprì le porte, fissandola seccato mentre saliva.

«Non mi ha visto?» esclamò Maka stupefatta, gli abiti grondanti di pioggia. Mentre avanzava lungo il corridoio, lasciandosi dietro una lunga scia sul pavimento bagnato, la gente si scansò infastidita, guardandola in tralice. L'autista le rispose con un'occhiataccia, che la raggiunse dal grosso specchietto montato sul parabrezza.

«Se lei non si mette davanti all'entrata, come faccio a vederla?»

Maka si voltò. Sulle porte da cui era salita, era incollato un cartello con su scritto ''uscita''. Arrossì, confusa.

«Mi spiace» fece. «È che con tutta questa pioggia...»

L'uomo la fissò di sbieco, ruotando il grosso volante. L'autobus oscillò, riprendendo la sua marcia. Colta alla sprovvista, Maka perse l'equilibrio e per poco non cadde.

«Dove si ferma?» chiese l'autista, guardandola attraverso lo specchietto con un certo interesse. Maka sorrise, avvicinandosi barcollando.

«Dovrei recarmi a casa Evans» disse, aggrappandosi al palo a fianco del guidatore. L'autista si voltò, sbarrandole gli occhi dritto in faccia.

«Dice sul serio?»

Lei annuì. Si sfilò l'impermeabile. La gente, attorno a lei, prese a guardarla come fosse l'attrazione principale di un circo. Maka aggrondò, arrossendo vagamente.

«Prima il tassista, adesso lei!» sibilò, seccata. «Insomma, mi sa dire cosa c'è di così strano?»

«Proprio niente» fece lui, scrollando le spalle. «È che non c'è nulla, là. Quella casa è vuota da anni».

«Anni?»

«Per lo meno dieci. Ma forse di più. Quindici, direi... ad occhio e croce».

Maka si fece pensierosa.

«Quindi, non c'è nessuno che possa aprirmi la casa?»

«Aprirle la casa?» l'uomo rise. Guardò Maka a lungo. «Lei è una ragazza strana, lo sa?»

«Perché?»

«È che qui girano delle storie... storie quella casa. Storie strane».

«Strane?»

L'uomo scrollò le spalle, sporgendo le labbra. Girò il volante, sporgendosi leggermente. L'autobus svoltò, compiendo quasi un giro su se stesso e inclinandosi di parecchio. Maka si sentì sballottare di lato e si aggrappò con forza al palo, per non cadere.

«Sì, le solite cose che si dicono sulle case vecchie e abbandonate. Che ci sono gli spettri, e roba simile».

«Lei non ci crede, però», fece Maka, cercando di tenere i piedi ben saldi per terra.

«Io no» disse l'uomo, squadrandola con un sorriso. «Però molti sì».

Maka annuì. «Io vorrei poter visitare la casa».

«E infatti non le ho detto che è strana?» commentò l'autista. «Ma per quanto ne so, non è possibile. Quella casa è chiusa. Si dice che esista un custode, qualcuno che va ad aprirla ogni tanto, perché talvolta si sente della musica e si vedono delle luci. Almeno è quello che dicono, io non ho mai visto altro che erbaccia e ragnatele, un vero schifo. Ma se esiste un custode, nessuno lo conosce. Deve essere un tipo di fuori... oppure si tratta davvero di un fantasma.».

Maka si morse le labbra. Abbassò gli occhi sul frammento di specchio che si intravedeva sul fondo della sua borsetta, che richiuse velocemente stringendola con il braccio contro il fianco.

Le cose non andavano molto bene. Presto il potere del frammento sarebbe svanito e lei non aveva ancora trovato un solo ricordo. Stava solo perdendo tempo.

«E non esiste nessun altro in grado di farmi entrare?» chiese. «Magari qualcuno di qui».

«No, mi dispiace».

L'autista fermò l'autobus. Maka gli rivolse un'occhiata curiosa.

«Se davvero le interessa casa Evans» disse lui, con un cenno. «Deve scendere qui. Prosegua fino alla fine della strada, appena fuori dal paese, là dove la strada si restringe e fa una curva. Troverà una via, sulla sinistra, che dopo poco termina davanti a un cancello. C'è un viale, molto lungo. Sono circa duecento metri a piedi, più il resto attraverso il giardino. Ma come le ho già detto, se anche il cancello fosse aperto, non troverà nessuno laggiù. Si riempirà di fango per niente».

Maka annuì, infilandosi l'impermeabile.

«La ringrazio» disse. «Quant'è per il biglietto?»

L'uomo prese i soldi dalla sua mano, guardandola fisso mentre le rendeva il resto.

«Non ha un ombrello?» chiese. Lei nicchiò.

«No, ma grazie per avermelo chiesto» fece, salutandolo con un sorriso mentre scendeva. Quando le porte si chiusero, l'uomo restò a guardarla mentre correva lungo la strada, con l'impermeabile fradicio sulla testa, i jeans incollati alle gambe sottili e le scarpe bagnate. Scosse la testa.

«L'ho detto che è strana» fece lui, riportando l'autobus sulla carreggiata. «Bella, ma strana. Non è così, signora Wallcott?»

La donna, seduta proprio dietro di lui, fece finta di nulla, voltandosi a guardare altrove. L'uomo arricciò le labbra, rivolgendo a Maka un'ultima occhiata proprio mentre le passava davanti con l'autobus per l'ultima volta.

«Eh, sì. Proprio bella. Ma anche parecchio strana» commentò, mettendosi a fischiettare.

 

 

*

 

«Trovato qualcosa?»

L'aria era densa e pesante. Con un sospiro Black Star si chinò sulle ginocchia, a controllare. Il sangue che imbrattava la strada, davanti a lui, era ancora caldo.

«Non dev'essere lontano» fece, sfregando tra loro le dita impiastricciate. «Muoviamoci».

Tsubaki si voltò. Alle sue spalle, la lunga discesa che si avvoltolava come una serpe attorno al monte su cui Death City riposava ancora addormentata, scompariva pallida nella nebbia dopo pochi metri, tinta solamente dalla luce diafana di quel giorno senza sole. Il silenzio era totale.

«Forse dovremmo aspettare gli altri, non credi?» fece. Black Star sollevò l'angolo di un labbro, digrignando i denti.

«Non se ne parla nemmeno. Lui è mio».

Tsubaki si rassegnò. Era tipico di suo marito, ormai lo conosceva bene. Eppure, solo per quella volta, avrebbe tanto voluto vederlo agire in modo diverso. Magari con più umanità. Anche se forse quella non era la parola giusta.

«Guarda, Tsubaki».

Lei abbassò gli occhi sul punto che lui le indicava. Dietro un cespuglio, era nascosto qualcuno. Si intravedeva il corpo, seminascosto dalla nebbia. Black Star si avvicinò cautamente, stringendo gli occhi.

«Ehi» fece, aggrottando. «Dico a te. Puoi uscire».

Tsubaki si avvicinò di un passo.

«Black Star, non credo che vada tutto bene» fece. «C'è qualcosa che non mi convince».

«Di che diavolo parli?» fece lui, affondando una mano nel cespuglio, fino a toccare il corpo dell'uomo che vi si nascondeva. «Non vedi che è solo spaventato...»

Il corpo dell'uomo si mosse e la sua testa sbucò improvvisamente dalla nebbia, fissando Black Star e Tsubaki attraverso le orbite vuote. Sulle labbra, si leggeva ancora un grido strozzato, come congelato sul suo volto.

«Cosa diavolo...»

Inorridito, Black Star ritirò la mano. La testa dell'uomo ciondolò lentamente, finché con un'ultima oscillazione non si staccò completamente dal tronco. Con un grido, Tsubaki restò a guardarla penzolare, attaccata al collo solo da un sottile filo di carne. Black Star scattò in piedi, trascinando subito via Tsubaki che, singhiozzando, si coprì il volto con le mani.

«Chi ha fatto una roba simile» mormorò lui «è davvero un mostro...»

«Black Star!»

Si voltò. Tsubaki gli si premeva contro, abbracciandolo. Bianca in volto, indicava un punto alle sue spalle, con la mano che le tremava leggermente. Black Star aguzzò gli occhi. La nebbia era fitta, ma qualcosa si muoveva... ci mise un po' a capire di cosa si trattava.

Il sangue scuro che inzuppava il selciato aveva preso improvvisamente a ribollire. Dalle ferite che ricoprivano i corpi sparsi attorno a loro, prese a sgorgare un liquido denso, scuro e viscido come petrolio, e che avvolgeva i cadaveri da cui fuoriusciva come in un bozzolo. Black Star si voltò, di scatto. Dal collo mozzato dell'uomo dietro il cespuglio, lo stesso liquido scuro si riversava a terra come sgorgando da una fonte viva, sobbollendo e agitandosi quasi fosse animato da un'energia nascosta e primordiale.

Impallidendo, Black Star indietreggiò, allargando le braccia e cercando il contatto rassicurante con il corpo di Tsubaki.

«Ma che cazzo succede?» esalò. Lei non rispose. Continuava a guardarsi intorno, terrorizzata.

All'improvviso, il liquido prese ad addensarsi sempre più, stringendosi attorno a loro in un cerchio. Come fosse vivo, si incanalò lungo gli anfratti della strada, tra i ciottoli e i sassi, sgusciando tra i fili d'erba, per poi riunirsi in una sola gigantesca pozza, al centro della piazzetta. Lingue di ombra saettavano dalla sua superficie, come sbuffi di lava incandescente.

«Non saresti dovuto venire solo».

Black Star trasalì. Soul, alle sue spalle, si ergeva solo, nel centro esatto della strada. Le mani in tasca, il capo reclinato in avanti e le spalle leggermente piegate, era molto più alto di quanto lui ricordasse e il suo fisico era innegabilmente diverso. La camicia spiegazzata e mezza slacciata lasciava intravedere i muscoli asciutti e il petto ampio e glabro. Black Star represse una smorfia. Quel maledetto si era fatto piuttosto robusto.

«Guarda chi si vede» fece Black Star, dissimulando in un ghigno la sua tensione. Cercava di mostrarsi tranquillo, mentre teneva d'occhio sia Soul che il liquido scuro, accanto a lui. «Soul Evans. Finalmente, ci degni della tua presenza».

Soul sorrise. Alzò gli occhi e guardò prima lui e poi Tsubaki.

«Avrei preferito non incontrare voi due» disse. «Ma immagino fosse inevitabile».

«Sta' zitto, cazzone» fece Black Star. «Tanto sappiamo tutti e due come andrà a finire questa cosa, vero?»

«Certo».

Soul si sfilò le mani dalle tasche. Posò gli occhi di brace su entrambi i suoi vecchi amici, e il suo volto si fece improvvisamente triste. Tsubaki, vedendolo, impallidì.

«Mi dispiace» fece Soul. «Non avrei voluto che finisse così».

«Ma che diavolo dici?» ringhiò Black Star. «Io volevo che finisse così! Finalmente ti ucciderò, mostro!»

Si slanciò con impeto contro di lui. Soul non si mosse neppure. Aspettò semplicemente che gli arrivasse vicino.

Black Star caricò il pugno. Soul attese. In un attimo, il suo braccio guizzò, parando senza alcun problema il colpo di Black Star, che si ritrovò senza equilibrio ad incespicare al suo fianco.

«Maledetto!»

«Non rifarlo».

Black Star lo fulminò con lo sguardo.

«Chi pensi di essere?» gridò. «Vieni qui e credi di potermi sconfiggere? Pensi che un mostro come te possa avere ragione di uno come me?».

«No» mormorò Soul. «Non sarò io a vincere. Ma nemmeno tu».

«Tsubaki!» gridò Black Star. «Lama Demoniaca!»

Lei lanciò a Soul un'occhiata preoccupata, quasi avesse intuito qualcosa. Lui le fece segno di no con la testa, fissandola con uno sguardo implorante. Indecisa, lei si volse supplichevole verso il marito.

«Tsubaki!» fece lui, torvo. «Adesso!».

«Ti prego, non farlo» fu quanto lesse lei sulle labbra di Soul. I suoi occhi erano spenti, ma trasmettevano una tristezza impossibile da definire. Qualcosa che difficilmente avrebbe dimenticato.

Fu con un gesto di estrema risoluzione che lei si trasformò. Era il suo Shokunin a comandarglielo, il suo compagno, suo marito.

Lei era lì per aiutarlo, per proteggerlo, per fargli da scudo in quella battaglia. E lo avrebbe fatto, a qualunque costo.

«Ora vedrai di cosa siamo capaci» sogghignò Black Star, stringendo la sua arma tra le mani febbrili. Fu allora che lui apparve. Dietro le spalle di Soul, l'immensa figura del Kishin si manifestò nella sua interezza. Fu come se la notte stessa fosse risorta dalle sue ceneri, raggrumandosi in un unico punto, un immenso buco nero capace di fagocitare fino al più piccolo atomo di luce.

Black Star strabuzzò gli occhi, incredulo. Il Kishin avvolse di ombra le spalle di Soul, scivolandogli addosso come un manto.

«Così tu sei Black Star» fece il Kishin, reclinando leggermente il capo informe e mettendosi a scrutare il suo avversario con curiosità. «Soul ha parlato spesso di te».

«Taci!»

Black Star strinse le mani attorno all'impugnatura di Tsubaki. La sentì fremere. Il Kishin si fermò per un attimo, quindi i suoi occhi si fecero leggermente più accesi, fissando la lama.

«Sai, avresti dovuto ascoltare il tuo amico» fece. Il suo braccio d'ombra scivolò lungo il corpo di Soul, che si trasformò all'istante in una splendida falce di metallo nero, docile alle sue mani dalla forma grossolana. «Non saresti dovuto venire qui da solo».

«Che diavolo dici, mostro» ruggì Black Star. «Io non sono solo, non lo vedi? Ho la mia arma, con me».

Il Kishin rise. E il cuore di Black Star cessò per un istante di battere.

«Oh, sì...» fece il Kishin, mettendosi a guardare il riflesso che la luna gettava sulla lama lucida e nera della sua Buki. «Ancora un istante, e te ne accorgerai».

Black Star si guardò attorno. Non capiva.

«Di cosa?»

«Non lo capisci? Percepisco i suoi sentimenti anche da qui. Sento la sua paura, i dubbi che la animano. E so che lei non combatterà, perché è già mia».

Lui trasalì. Guardò Tsubaki e sentì la sua mente come vacillare. La sentì leggera, e inconsistente come non gli era mai accaduto prima. Ebbe paura.

«Black Star, non ascoltarlo!» fece lei quasi percepisse i sentimenti che lo agitavano. Lui la guardò con gli occhi spalancati, attraverso il riflesso che il suo volto gettava sulla lama. Quindi la strinse, annuendo.

«Ti sbagli» fece, deciso. «E te lo dimostrerò».

«Tu non dimostrerai nulla» disse il Kishin, freddo. «E presto avrai paura. In quel momento, Black Star, comincerà il mio divertimento. E in tutta sincerità, non vedo l'ora che arrivi».

«Basta!»

Black Star si avventò con un grido contro il Kishin. Il mostro non si mosse, ma appena Black Star gli fu vicino, agitò rapido la falce, parando il colpo e scivolando di lato come volteggiando. Black Star fu pronto a voltarsi, rispondendo con un rapido affondo; ma per quanto cercasse di sorprenderlo, quell'essere usava Soul in un modo che non aveva mai visto prima. Era come se fosse parte di lui stesso. Non esisteva arma, e non esisteva maestro. Erano un tutt'uno, un'unica anima mossa da una nera e sinistra sinergia, una forza segreta agitata da un istinto lucido e omicida.

Black Star parò, schivò, e parò e schivò ancora. Era come una danza, quella in cui l'aveva coinvolto il Kishin. Una danza che aveva qualcosa di sublime nella sua crudeltà. Si muovevano come volteggiando su delle nubi, agitando gli atomi di nebbia che fuggivano attorno a loro, mescolandosi alle ombre vaghe e dai contorni morbidi che animavano quel paesaggio da incubo. Black Star sudava, si terse la fronte con la mano. Sentiva la sua anima risucchiata lentamente da Tsubaki. In tutti quegli anni aveva sviluppato una notevole resistenza alla Lama Demoniaca, ma sinceramente sperava di porre fine alla battaglia il più in fretta possibile. Anche lui aveva un limite, nonostante cercasse in tutti i modi di non pensare a una cosa del genere.

«Sei stanco?» fece il Kishin, posando la falce. «Vuoi riposarti?»

«Non preoccuparti per me» fece Black Star. «Mi riposerò quando ti avrò ucciso».

«Come preferisci».

Black Star fece una finta improvvisa e lanciò un affondo che colpì Soul sul manico. La lama scalfì la superficie della Buki, emettendo alcune grosse scintille dai bagliori bluastri. L'unica speranza che aveva, era quella di uccidere Soul, in modo da rendere il Kishin disarmato. Poi l'avrebbe attaccato, e finito. A quel punto, avrebbe solo dovuto resistere: anche quel mostro doveva pur stancarsi.

Fu in quel momento che capì di non avere speranza. Il Kishin ritrasse la falce, liberandola dalla lama con un movimento circolare così bello e fluido che Black Star, non fosse stato nel bel mezzo di una battaglia, si sarebbe fermato a guardare incantato. Il Kishin ruotò su se stesso, e la falce saettò nell'aria, gli passò sul capo e gli scivolò dietro la schiena mentre l'essere terminava il suo movimento andando a mettersi proprio alle spalle di Black Star. Con un grido strozzato, lui si voltò, impreparato ad affrontare il prossimo attacco. Che però non arrivò.

«Come diavolo hai fatto!» mormorò, ansimando. Il Kishin fissò la sua falce, passandole una mano sul manico.

«Tu non capisci l'essenza che lega una Buki al suo maestro» disse. «Voi, ridicoli pupazzetti di Shinigami... non capite niente di ciò che fate. Agitate le vostre armi nell'aria, ma non sentite ciò che più conta. Non avvertite il miracolo, che si nasconde in ciò che fate».

Black Star fissò Tsubaki, stringendo gli occhi. Sentiva che anche lei era sorpresa.

«Chi sei?» disse, stringendo gli occhi sul Kishin. «Tu non sei un mostro qualsiasi. Tu...»

«Chi sono?» il Kishin rise. «Io non sono nessuno. Io sono ciò che fa sì che gli altri non siano».

«Non ci capisco un cazzo in quello che dici» ringhiò Black Star. «Ma ti farò pentire di essermi venuto tra i piedi. Tu e quella tua falce maledetta».

«Adesso basta giocare».

Il Kishin allungò una mano. Black Star strabuzzò gli occhi, sentendo la sua Buki che gli fremeva tra le mani, come agitata da un vento impetuoso, desideroso di strappargliela. Chiuse gli occhi.

Il silenzio si fece improvviso. Non sentiva più nulla. Era come se ogni rumore, persino il più piccolo, persino il battito del suo cuore, fosse stato completamente cancellato dalla faccia della terra. Quando riaprì gli occhi, il Kishin era davanti a lui. Chino sul suo volto, lo guardava.

«Cosa...»

Durò un attimo. Il cuore riprese a martellargli in petto e nelle orecchie, pompando come un mantice colossale. Confuso, Black Star barcollò. Si guardò attorno.

Il Kishin era sparito.

Dove sei?

Solo allora si accorse che qualcosa non andava. Tsubaki si era fatta più pesante. Abbassò gli occhi. Con disgusto e raccapriccio, si accorse che la lama grondava un liquido denso, lo stesso che imbrattava la strada e da cui era letteralmente sgorgato il Kishin. Con il cuore in gola, Black Star si gettò in ginocchio, mettendosi a scuotere la sua Buki.

«Tsubaki!» esalò. «Tsubaki, rispondi!»

Ma l'arma taceva. Non emetteva suono, né vibrazione. La sua anima era lontana, come un lumicino flebile agitato dal vento, la cui pallida luce si intravede appena all'orizzonte. Black Star deglutì, cercando di concentrarsi.

«Tsubaki?» fece. «Ti prego, Tsubaki...»

«Lei non c'è» fece una voce. Era il Kishin?

«Cosa le hai fatto?» Black Star si alzò in piedi. Furioso, prese a guardarsi attorno, scagliandosi contro ogni ombra che intravedeva nella nebbia. Ma non c'era nessuno oltre a lui. Era completamente solo.

«Ora come ti senti, Black Star?» riprese la voce. Lui trattenne il fiato, per cercare di capire da dove provenisse. Ma per quanto si sforzasse, non riusciva a distinguere bene. Forse dalla nebbia, o dal terreno. O forse, dalla lama stessa.

«Sei solo, ora. Capisci cos'è la solitudine?»

«Vieni fuori e combatti!» gridò. Il Kishin rise. La sua risata era secca, senza eco. Si spalmò sulla nebbia, che sembrò sgretolarsi come un muro di sabbia.

«Perché? Perché dovrei combattere? Io ho già vinto. Ti ho mostrato cosa significa essere soli, combattere contro se stessi. Ce la farai Black Star? Riuscirai a ritrovarla? Lentamente, lei si sta lasciando assorbire. Così debole, così...»

«Smettila!»

Black Star impugnò la spada con entrambe le mani. Tremava. Improvvisamente, si accorse che le sue membra erano bagnate da qualcosa di viscido e appiccicaticcio, che trasudava direttamente dalla sua pelle. Con sgomento, prese a pulirsi le braccia nude da quel liquido denso e nero, che però non faceva che aumentare, imprigionandolo.

«Sento i dubbi che vi animano. Lei è distante da te, lo sai? Ma anche tu lo sei da lei. Certo. Da qualche tempo hai cominciato a sentirla lontana, diversa. Per un po' ti sei chiesto che problema avesse, senza però riuscire a capirlo. E intanto non ti accorgevi che lei continuava a chiudersi in se stessa, sempre di più... presa da un senso di inadeguatezza e inutilità, aveva paura».

«Di che diavolo parli...»

«Ah, la sento. Sento la sua paura, la sua disperazione. Sento la sua solitudine, cresciuta dietro l'ombra della sua paura. Sento il dubbio nel suo sguardo, quel dubbio con cui ti guardava come dietro a un velo, nel terrore che tu la vedessi in modo diverso rispetto a prima, rispetto a quando si sentiva perfetta, per te... e quell'ansia, l'angoscia...»

«Io...»

«... tutto per quel figlio che non riesci ad avere. Vero, Tsubaki?»

Black Star impallidì. Il fiato gli si mozzò. Sbarrò gli occhi e il corpo gli si irrigidì. La spada gli cadde dalle mani.

Quando toccò terra, il suono metallico della lama contro le pietre si spense quasi subito. La spada rimbalzò leggermente, quindi giacque al suolo, inerte.

«E adesso» mormorò il Kishin, prendendo improvvisamente forma davanti a Black Star «comincia il vero divertimento».



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Capitolo 16
*** Il viaggio di Maka! Paura, dolore, rimpianto? Quale segreto si agita in un cuore dolorante? ***


Maka trovò il cancello proprio dove le era stato indicato. E come le era stato indicato, lo trovò chiuso.

Si guardò attorno. Alle sue spalle, la strada si allontanava dal paese, lasciandosi indietro le ultime case, abbarbicate alla collina. Le finestre che dall'alto si affacciavano su quel lato della strada erano tutte chiuse, quasi a scongiurare ogni possibile occhiata a quella casa così spettrale, che si intravedeva oltre il folto del bosco.

Lungo il ciglio della carreggiata, sgretolato e infangato, i rovi si aggrovigliavano ai tronchi nodosi degli alberi, così fitti da crescere quasi uno sull'altro e da creare una vera e propria muraglia invalicabile agli occhi.

Maka lanciò un'occhiata alla strada, là dove si perdeva digradando verso valle. Poche centinaia di metri più in basso, l'asfalto curvava in un tornante, smarrendosi dietro un fitto strato di boscaglia. La pioggia continuava a cadere. E anche se si era progressivamente indebolita, non aveva perso la sua insistenza. Picchiettava le foglie con delicatezza, producendo un vago crepitio che si perdeva tra i rami intrecciati, mentre tutt'intorno si spargeva l'odore di muschio e di asfalto bagnato. Il silenzio era profondo, e le piante selvatiche, a guardarle, sembravano quasi appartenere a un mondo congelato e inesistente.

Maka alzò gli occhi sul cancello. Era un alto cancello di ferro battuto, ormai parecchio arrugginito. Sulla sua sommità, delle punte aguzze si allungavano verso l'alto come lance, rendendo impossibile scavalcarlo. Il muro di cinta era altrettanto alto, e troppo liscio per presentare qualche appiglio. Insomma, pensò, tanta fatica ed ora si trovava a un punto morto.

«No, forse, no...»

Sul muro erano presenti alcune punte acuminate, simili a quelle del cancello e disposte ad intervalli regolari, forse per bellezza. Maka si sfilò l'impermeabile e provò a lanciarlo su una di quelle punte. Come immaginava, questo si agganciò subito; la tela cerata forse era abbastanza spessa e resistente per sorreggerla... avrebbe solo dovuto provare.

«Addio al mio impermeabile nuovo» mormorò, strattonandolo per saggiarne la resistenza. Sembrava funzionare.

Con un balzo, Maka si aggrappò all'impermeabile. La tela scivolò, per poi arricciarsi attorno alla punta; era parecchio tesa, ma sembrava reggere. Maka strinse le labbra. Aveva il suo appiglio, ma salire non era comunque facile. Per quanto puntasse le scarpe, il muro era umido e ricoperto da una sottile patina di muffa e la suola liscia delle sue scarpe non aiutava affatto. In un vano tentativo, slittò e scivolò, sbattendo contro il muro e sbucciandosi una mano. Con un gemito, Maka cercò di puntare nuovamente i piedi e in qualche modo riuscì a fare presa, sebbene in modo molto precario. Chiamando a raccolta tutte le sue forze, tese i muscoli fino allo spasimo e si issò. Credeva di aver fatto chissà che progressi, ma con sua grande delusione, guardando in basso, vide che era salita solo di pochi centimetri.

«Dio, non ce la farò mai...»

Ok, era difficile, ma non poteva arrendersi. Non adesso, non quando era a un passo dalla verità che aveva così a lungo cercato.

Strinse gli occhi. Sentì i piedi sdrucciolare, mentre spingeva con tutta se stessa. Tirò con forza. La tela emise un lamento, e la punta cominciò a forare l'impermeabile, spuntando pericolosamente. Maka allungò un braccio, cercando con le dita un punto a cui aggrapparsi. Poco più in alto, cominciava il cornicione... era quasi fatta! Tastò leggermente la pietra sdrucciolevole: bastava un piccolo sforzo, e...

La tela si lacerò, all'improvviso. Maka lanciò un grido di sorpresa mentre ripiombava pesantemente al suolo, ancora aggrappata all'impermeabile.

«Vaffanculo!» gridò, alzando gli occhi dalla pozza di fango in cui era precipitata. «Merda!»

Tra le mani teneva ancora un lembo di tela cerata, ormai inutilizzabile. Disperata, Maka lo strinse così tanto che le nocche le si arrossarono, ma alla fine lo gettò lontano. Solo allora si ricordò del frammento di vetro che aveva nella borsetta.

«Ti prego, dimmi che sei ancora intero...»

Cercò la borsa, che era caduta accanto a lei. La aprì, con il cuore in gola. Con un sospiro, constatò che il frammento era intatto.

Restava comunque inutile, esattamente come il suo viaggio fin là, se non trovava al più presto un modo per entrare in quella dannata casa. Si alzò in piedi, cercando di pulirsi le mani dal fango che le imbrattava, insieme ai vestiti e ai capelli. Mentre cercava inutilmente di ripulirsi, un rumore insolito la sorprese. Maka si voltò, giusto in tempo per vedere una vettura svoltare lungo il sentiero. In un lampo, raccolse la borsetta e ciò che restava dell'impermeabile e si rifugiò tra i cespugli.

Poteva essere il custode, ma qualcosa la trattenne dal farsi vedere. Era convinta che, chiunque fosse, non le avrebbe mai aperto vedendola in quelle condizioni. Spiegargli tutto sarebbe stato troppo complicato e avrebbe richiesto troppo tempo. Meglio cercare di sfruttare quell'occasione in modo più subdolo.

Attese che l'uomo uscisse dall'auto, un grosso fuoristrada. Era un uomo alto e dall'aspetto distinto. Maka non riusciva a vederlo bene in volto, perché aveva un cappello calato fin sopra gli occhi e il bavero del soprabito nero rialzato. Ma il suo portamento aveva qualcosa di fiero, e di nobile. Persino le sue mani, lunghe e affusolate, non avevano nulla a che vedere con quelle di un uomo avvezzo ai lavori manuali. Forse era una specie di domestico.

L'uomo prese ad armeggiare con le pesanti catene che chiudevano il cancello. Per Maka, era il momento decisivo. Non avrebbe avuto altre possibilità. Se fosse andata male, avrebbe dovuto ricorrere a ben altre maniere, per entrare; ma se poteva, preferiva evitare.

Una cosa era certa, comunque. Non se ne sarebbe andata di là senza mettere piede in quella casa, costasse quel che costasse.

Con un guizzo sgusciò dai cespugli, dirigendosi alla vettura. L'uomo, ancora di spalle, sembrò non notarla. Lei aprì la portiera posteriore e si infilò dentro, acquattandosi nello spazio tra i sedili posteriori e quelli anteriori. Era stretto, sì; ma largo a sufficienza per permetterle di nascondervisi. A volte, essere magre come uno stecco presentava persino qualche vantaggio, pensò.

L'uomo risalì in macchina, senza accorgersi di nulla. Maka trattenne il fiato finché non lo sentì richiudere la portiera e mettere in moto. Solo allora, si rilassò un poco.

Il fuoristrada si fermò nuovamente subito dopo l'ingresso. Maka alzò la testa, per sbirciare i movimenti dell'uomo, che era andato a richiudere il cancello. Con un guizzo altrettanto fulmineo, scivolò fuori dalla vettura, andando a rintanarsi dietro ad una siepe che ornava il viale del giardino. Si acquattò al suolo, stringendo la borsetta al petto. Chiuse gli occhi, deglutendo. La terra era fredda e umida, sotto di lei; e i pantaloni bagnati le davano fastidio. Ma non ci badò. Era entrata, e quello era tutto ciò che le interessava.

L'uomo risalì in macchina e si avviò lungo il viale. Maka attese che il rumore della vettura si allontanasse, quindi si affacciò sul sentiero e prese a dirigersi verso la casa, che si intravedeva appena nella nebbia sottile, alcune decine di metri più avanti. Per un attimo, le luci rosse dei freni dell'auto rischiararono la foschia. Maka si fermò, riparandosi contro un cespuglio. Vide l'uomo scendere e aprire il baule, da cui estrasse una scatola di cartone. Quindi lo osservò risalire le scale e scomparire dietro la porta di ingresso.

Maka corse, tenendosi bassa. Raggiunse il cortile dove era parcheggiato il fuoristrada e si acquattò contro il muro. Il baule dell'auto era ancora aperto, e conteneva altre casse. Probabilmente il custode sarebbe ritornato, quindi entrare dal portone di ingresso era escluso. Doveva trovare un altro modo per introdursi in casa.

Fece un giro sul retro, stando attenta al minimo rumore. Sembrava tutto tranquillo. Ora che era più rilassata, si permise persino di lanciare un'occhiata al giardino, che circondava l'intera abitazione. Un tempo doveva essere stato un magnifico giardino: cespugli di siepe e di buganvillea nascondevano ancora tra i rami cresciuti disordinatamente le forme a cui erano stati un tempo piegati; una fontanella da cui non sgorgava più acqua taceva, insignificante, nel mezzo di un laghetto salmastro. Poco distante vi era un piccolo gazebo, contornato da panchine ormai completamente marce. Nel prato, i roseti un tempo forse splendidi e rigogliosi, erano ora avvolti dalle erbacce; e il muro di cinta era stato sfondato da un gigantesco albero di canfora, che sbucava dalle pietre come l'immensa prua di una nave, svettando alto verso il cielo.

Maka si voltò. La casa, alle sue spalle, era fin troppo silenziosa. Le sue mura grigie e screpolate la facevano sembrare una gigantesca pietra, piombata lì dal cielo chissà come e perché.

Una finestra sbatté, attirando l'attenzione della ragazza che si sporse, avvicinandosi. Era un finestrino della scala. Sembrava abbastanza facile da raggiungere, bastava trovare qualcosa per arrampicarsi. Maka si guardò attorno. Raccolse un vecchio barile che forse un tempo conteneva l'acqua per irrigare il prato e lo avvicinò al muro. Lo girò, in modo da avere il fondo sul lato superiore e vi batté sopra col pugno. Le parve abbastanza resistente, quindi si issò.

Il finestrino era aperto. Il meccanismo di chiusura era completamente arrugginito e si era spezzato. Maka spinse il vetro e un odore carico di muffa e di chiuso la colpì violentemente alle narici. Aggrondando, si aggrappò al davanzale e si issò sulle braccia. Non era stato facile, ma alla fine ce l'aveva fatta. Era dentro.

La casa era silenziosa e polverosa. Maka tratteneva leggermente il fiato, suggestionata dal silenzio che la avvolgeva. Si mosse lungo le ampie scale di marmo, fissando ammirata le pareti bianche e il soffitto decorato. La casa era ancora ammobiliata, e sembrava che al suo interno gli anni non fossero mai passati. Sebbene un denso strato di polvere ricoprisse tutto, là dentro, c'era ancora qualcosa che vi si nascondeva, qualcosa che sfuggiva al destino di oblio a cui sembrava essere condannato il resto della casa. C'era come un'anima, ingabbiata tra quelle mura; qualcosa che ancora, inspiegabilmente, non riusciva ad arrendersi allo scorrere del tempo.

Maka raggiunse il pian terreno. Attraverso le finestre chiuse, oltre le imposte marce, qualche raggio di luce riusciva a filtrare, agitando la polvere e andando a illuminare lo spigolo di un mobile, o il pavimento a scacchi, o qualche fotografia che giaceva seminascosta in un angolo. Un volto, in una cornice, apparve all'improvviso, appena sfiorato da un lembo di luce. Maka si avvicinò, tendendo delicatamente la mano a sollevare il portafoto.

Soul e il bellissimo ragazzo che aveva visto nella foto a casa sua, erano a fianco di due persone, probabilmente i loro genitori. Una donna dai ricci capelli neri e lucenti fissava l'obiettivo con sguardo spento, ma intensamente seducente. Sul suo volto si intravedeva un sorriso, ma per quanto a un primo sguardo potesse sembrare felice, c'era qualcosa che si agitava, nascosto, dietro di esso. Era come un'ombra di infelicità, qualcosa di represso, che Maka non si seppe spiegare, ma che la colpì profondamente. L'uomo al suo fianco, invece, appariva serio, e fiero. Il volto era piacevole, anzi affascinante. Il fisico robusto e il portamento altero lo rendevano un uomo senz'altro bellissimo, ma la sua espressione severa, a tratti tenebrosa, piegava i suoi occhi in uno sguardo forse esageratamente duro. Maka ripose la foto, lanciando un'ultima occhiata ai due ragazzi al centro. Due spiriti in apparenza tanto diversi, ma che evidentemente erano uniti da qualcosa di molto più profondo. Qualcosa che aveva segnato l'uomo che amava in modo irreversibile e che lei voleva assolutamente scoprire.

Con emozione, tirò fuori il frammento di specchio dalla borsetta. Lo strinse tra le mani, rimirandolo affascinata. Piena di speranza, provò a toccarlo. Ma con sua grande delusione, non accadde nulla.

«Non può aver già perso il suo potere...»

Un rumore di passi risuonò poco distante. Maka, con il cuore in gola, si cacciò in un angolo buio. Il custode si fece sempre più vicino, per poi allontanarsi senza mai passarle davanti, chiudendosi una porta alle spalle. Con un sospiro di sollievo, Maka uscì dal suo nascondiglio.

Si trovava in una specie di salotto. Alle pareti erano appesi quadri e ritratti incorniciati, che rendevano quella casa molto bella e molto ricca, ma che allo stesso tempo le conferivano un che di fin troppo austero. A ben guardare, sembrava più un museo, che una semplice abitazione.

Al centro della stanza si trovava un tavolo, su cui era appoggiato un violino. Quando se ne accorse, Maka si avvicinò, per osservarlo più da vicino. Chinandosi su di esso, notò che una incrinatura lo percorreva tutto, da parte a parte, come una profonda cicatrice. Qualcuno doveva averlo rotto e per poi assemblarlo malamente, usando della colla. Un vero sfregio, per uno strumento così bello, che di certo non avrebbe suonato mai più.

Maka estrasse nuovamente lo specchio e lo avvicinò agli occhi, giusto per fare un altro tentativo. Provò a guardare al suo interno, ma non accadde nulla. Continuava a vedere solo il riflesso del suo volto sporco e disperato, e le ombre di sconforto che si agitavano sul fondo dei suoi occhi stanchi. Delusa, si guardò intorno. Non aveva la minima idea di cosa fare: era riuscita a raggiungere la casa di Soul, era entrata... aveva fatto come gli aveva detto suo padre, andando alla ricerca di quei ricordi che potessero mantenere vivo il significato della sua trasformazione... ma ora, nonostante tutti i suoi sforzi, si trovava in un vicolo cieco.

Posò lo specchio inutilizzabile sul tavolo accanto al violino, e si abbandonò su una poltrona, con il volto tra le mani. Se avesse potuto, avrebbe pianto. Ma non aveva nemmeno la forza per farlo, tanto si sentiva svuotata, e privata di ogni significato. Aveva perso Soul, definitivamente. Non era riuscita a salvarlo, per quanto avesse provato con tutta se stessa.

Era un fallimento.

«Soul...»

Una musica cominciò a diffondersi vagamente nella stanza. Maka alzò gli occhi umidi di lacrime. Delle ombre luminose si agitavano sulla parete, davanti a lei, colorando i muri come fossero l'interno di un gigantesco caleidoscopio. Con un balzo, Maka scattò in piedi, avvicinandosi cautamente al tavolo su cui era posato il frammento di vetro. Si terse le lacrime dalle ciglia.

Il vetro rifletteva qualcosa. Erano ombre confuse, bagliori colorati che si agitavano sotto la superficie. Maka continuava a sentire una musica provenire dal frammento, sebbene la sentisse lontana e indistinta, come attraverso una parete spessa.

Stringendo gli occhi, posò un dito sul vetro: questo prese ad agitarsi, rivelando forme più precise ma ancora indistinte. Si avvertiva un'energia profonda scorrere dentro di esso; e al suo contatto, l'anima di Maka fremette e sussultò, lasciandola assolutamente sorpresa.

Cosa doveva fare? Nessuno gliel'aveva spiegato. Non sapeva come far funzionare quell'affare. L'unica cosa che le veniva in mente, era di permettere alla sua anima di entrare in contatto con quei ricordi. Si trattava di entrare in risonanza con loro, facendo più o meno ciò che le riusciva meglio in assoluto. Leggere l'anima delle persone. E anche se in quel caso si trattava solo di ricordi, forse avrebbe funzionato ugualmente.

Avanti...

Maka chiuse gli occhi e avvicinò il frammento alla fronte. Si concentrò, pensando intensamente al volto di Soul, alla sua voce, al suo spirito ribelle e generoso, e all'energia che le dava stringere il suo corpo durante una battaglia...

Soul.

All'improvviso, eccolo. Lo vedeva, davanti a sé. E in un attimo, la sua anima si colorò dei ricordi che lo specchio tratteneva.

Quando Maka riaprì gli occhi, lo specchio rifletteva nitidamente le immagini, proprio come l'aveva visto fare tante volte nello studio di Shinigami.

«...il prossimo brano che ascolteremo...»

Maka ci mise un po' a capire cosa stava vedendo. Doveva trattarsi di un teatro, o qualcosa del genere... e infatti era proprio così, un teatro gremito da centinaia di persone. Alzò le braccia, puntando il vetro contro un raggio di luce che penetrava dalla finestra. L'immagine si proiettò direttamente sulla parete, come una diapositiva; e le figure di due ragazzi si stagliarono nitide contro il muro, a grandezza naturale. Stavano facendo il loro ingresso sul palco proprio in quel momento, accompagnati da un applauso caloroso. Con le braccia alzate, Maka trattenne un sospiro. Il ragazzo che stava prendendo posto al piano era Soul. Al suo fianco, un ragazzo di una bellezza straordinaria aveva appena imbracciato il violino. Si trattava di Andrew, suo fratello.

Soul sembrava molto giovane. Doveva avere più o meno dieci o undici anni. Andrew probabilmente andava per i venti.

Quando il silenzio fu totale, Soul e suo fratello si scambiarono un'occhiata. O sarebbe meglio dire un sorriso. Quindi, Andrew sollevò l'archetto. Prese un respiro. E attaccò la Sonata Kreutzer.

Quando il primo accordo fluì dalle corde del violino, ogni persona presente in sala rimase senza fiato. Maka socchiuse le labbra, incantata. Mai aveva sentito qualcosa di tanto bello, e di tanto fragile. Quella melodia si levava sopra la sua testa come un fiore, un germoglio ormai pallido e stanco, ma che trova ancora la forza di resistere ai primi gelidi segnali di inverno.

Quando Soul si unì al fratello, il clima mutò rapidamente. Maka aggrondò. Percepiva una vaga ansia, e qualcosa di energico nel suo modo di suonare, come se tentasse di riportare tutti con i piedi per terra. Per un attimo, ne fu infastidita. Perché voleva privarli di quella magia? Era crudele.

Ma più la musica avanzava, più i due fratelli cominciavano a dialogare tra loro, con i loro strumenti, più le sensazioni che agitavano il cuore di Maka si fecero pressanti e quasi insopportabili. Non era ansia, non era felicità quello che sentiva. Erano panico, ed estasi. La musica di Beethoven avanzava macinando come un rullo compressore tutto ciò che si frapponeva sul suo cammino. Sollevava i presenti e li abbatteva al suolo, violenta come un uragano: l'archetto di Andrew volava sulle corde, graffiandole, facendole gemere, piegandole a una volontà gentile ma allo stesso tempo ferrea. La musica si levava in volo e si abbassava al suo comando, come per magia, ruggendo come un drago, per poi venire trascinata al suolo dal pianoforte di Soul, che disperatamente cercava di imbrigliare quella musica così viva, così piena di libertà.

Era evidente che l'esecuzione ruotava attorno ad Andrew. Era lui che imprimeva la direzione alla musica, lui che ne guidava l'energia. Maka ne fu letteralmente folgorata. Vedeva il volto di Soul, la sua determinazione. Lo vedeva sudare, affaticato, per reggere il ritmo feroce che il fratello aveva impresso alla musica. Vedeva le sue mani ancora piccole aggredire i tasti del piano, sforzandosi di raggiungere quegli accordi troppo grandi per lui, ma così necessari per stringere l'anima del fratello e non lasciarla volare via. E mentre lei spostava gli occhi sul volto angelico di Andrew, capiva che il suo sorriso, la facilità con cui suonava ciò che per altri sarebbe stato impossibile, era legato a un'anima che già guardava serena a un mondo da cui il fratello tentava disperatamente di trascinarlo via.

Solo allora, Maka capì. Confusa, cercò sul volto dei presenti le stesse emozioni che le agitavano il cuore. Ma non vide nulla. Tutti guardavano attoniti, rapiti: ma perché nessuno se ne accorgeva? Perché tutti ascoltavano, e non capivano cosa stava accadendo?

Ma non vedete?

Non era un semplice concerto. Era una lotta tremenda tra due anime profondamente diverse, dove la musica si levava fino alla vetta più irraggiungibile e solo per poter gridare al mondo la sofferenza che l'animava. Andrew la spingeva in alto, finché Soul non la trascinava giù, in catene, con la forza, preparandosi a un nuovo assalto, lottando perché il fratello si allontanasse da quel mondo che era così spaventosamente lontano e triste, e che già lo serrava come in una terribile prigione a cui però sembrava essersi consegnato.

La musica accelerò fino agli ultimi accordi conclusivi, che si abbatterono sul pubblico come macigni. Per un istante, Maka rimase come stordita. Sentiva la gente applaudire entusiasta, quasi fosse attorno a lei. Andrew sorrideva, e anche Soul. Il pubblico era letteralmente impazzito. Il concerto era finito.

Quando Andrew ritornò sul palco, seguito da Soul, il cuore di Maka batteva forte. Si dimenticò del dolore alle braccia, ormai indolenzite; e per quanto provasse, non riusciva a togliere gli occhi da quel ragazzo così bello e dall'espressione così spenta. Tanto che, se avesse potuto, sarebbe corsa sul palco per stringerlo tra le braccia. Ma anche volendo, non ne avrebbe avuto il tempo. Il teatro, e la gente che lo riempiva, svanirono lentamente, lasciandola con lo specchio tra le mani, e un vago senso di sconforto nel cuore.

«Ancora» mormorò, stringendo le labbra. Doveva trovare altri ricordi. Doveva capire, ricostruire quello che cominciava già ad immaginare. Senza più preoccuparsi di restare nascosta, Maka si precipitò lungo le scale. Al piano di sopra aprì tutte le porte finché non trovò quella che credeva fosse la vecchia camera di Soul. Il letto era ancora fatto, come se lui avesse continuato a dormirci fino al giorno prima. Alle pareti, alcuni poster di giocatori di basket, qualche quadretto insignificante, due o tre foto che lo ritraevano al piano o in divisa scolastica. Sulla scrivania, una foto con il fratello, in costume da bagno, quando erano molto più piccoli. Ridevano, e si tenevano stretti davanti al bordo di una piscina.

Maka richiuse la porta e avanzò fino al letto. Lo specchio prese a illuminarsi e lei si sedette sulla trapunta. Il materasso scricchiolò sotto il suo corpo leggero. Quando lo specchio cominciò ad animarsi, Maka lo appoggiò con il vetro sopra all'abat-jour accesa, quindi si sdraiò e attese. Dopo pochi istanti, l'immagine si proiettò sul soffitto.

«Ehi, sei sveglio?»

Lo specchio rifletteva la camera di Soul. Proprio dove si trovava lei in quell'istante, Soul leggeva; teneva le gambe allungate sul letto, e aveva i capelli arruffati e ribelli come al solito. Ma il suo volto era insolitamente sereno, come Maka non l'aveva mai visto. Con tenerezza, lei allungò una mano nel posto accanto al suo, immaginando così di sfiorare il corpo di Soul.

Andrew entrò, richiudendosi la porta alle spalle. Teneva una chitarra, in mano, e sul volto aveva un'espressione sorniona.

«Voglio farti sentire una canzone».

«Andrew...»

«Dai, non rompere».

Soul si alzò, mettendosi a sedere. Andrew scostò la seggiola dalla scrivania, lasciandovisi cadere sopra. Con pochi movimenti sicuri, prese ad accordare la chitarra; quindi, le prime note di People are strange riempirono la cameretta. La sua voce era sottile e ovattata e aveva qualcosa di tremendamente dolce e sofferente. Soul lo ascoltò in silenzio, fino alla fine. Proprio come Maka.

«Bella» disse poi il bambino, lasciandosi ricadere nel letto. «Ma deprimente».

«Trovi?» fece Andrew, posando la chitarra. «Io penso che Jim Morrison avesse capito tutto, quando l'ha scritta».

«Perché?»

Andrew si alzò, posando la chitarra sul letto. Era scalzo, e indossava dei pantaloncini sdruciti e una semplice maglietta. Da una tasca, estrasse un pacchetto di Lucky Star e ne portò una alle labbra, accendendola. Si sporse leggermente dalla finestra aperta e soffiò il fumo all'esterno. Da fuori, giungeva il monotono mormorio delle cicale.

«Sai, è così che ti senti» disse, all'improvviso, agitando vagamente la mano in cui teneva la sigaretta. «Quando non riesci a integrarti. La gente ti sembra strana, è come se camminassi in un mondo irriconoscibile. Tu sei lì, che cerchi di parlare con loro, ma loro nemmeno ti vedono. Cammini, ed è come se fossi un fantasma. Sei solo. Ma la verità è che non sei tu ad essere invisibile. È che loro sono capaci di vederti solo per quello che riesci ad offrire. Se vai contro le loro aspettative, smetti persino di avere un volto».

Soul inarcò un sopracciglio.

«Non è facile» commentò Andrew, grattandosi la fronte.

«Capisco» fece Soul, serio. «Ti riferisci a papà».

Andrew lo fissò sorridendo.

«Tu sei l'unico a farlo» mormorò. Soul alzò gli occhi.

«A fare che?»

«A capirmi».

«Non è vero».

«Sì, che lo è».

Soul alzò le spalle. Andrew esalò il fumo dal naso, lentamente.

«Questo mondo è una merda» fece. Quindi spense la sigaretta sul davanzale. Soul sospirò, allungando una mano verso la chitarra.

«Com'è la scuola?» chiese, incuriosito. Andrew lo guardò. Si morse un labbro, restandosene fermo, come congelato.

«Dì, ne vuoi sentire un'altra?» fece, ignorando del tutto la domanda. Soul si voltò verso la porta.

«Sai che papà non vuole che suoniamo il rock».

«Chissenefrega. Papà è fuori, non tornerà fino a tardi».

Non aveva ancora finito di parlare che l'introduzione di Johnny B. Goode risuonò nella camera. Quando Andrew cominciò a ballare e a cantare, Soul scoppiò a ridere, come avrebbe dovuto fare ogni bambino di quell'età. E di fronte a quell'immagine qualcosa, nel cuore di Maka, si incrinò.

Era ancora sul letto, quando i ricordi che lo specchio rievocava cambiarono improvvisamente. Si fece buio. Soul dormiva nel letto e dalla finestra aperta si udiva ancora il suono caldo dell'estate. Era una notte simile alla precedente, ma che custodiva qualcosa di diverso. Era come se un vago presentimento aleggiasse nell'aria. Qualcosa che si sentiva sarebbe avvenuto, e che avrebbe cambiato ogni cosa.

Maka si alzò lentamente, togliendosi le scarpe e salendo in piedi sul letto, per sfiorare il soffitto con la punta delle dita. Davanti ai suoi occhi, Soul si rigirò tra le lenzuola e si scoprì. Lei si mise a fissarlo con le labbra socchiuse, alla luce pallida che la luna riversava nella sua cameretta, seguendone i tratti del volto con le dita. Lo vedeva dormire, piccolo e indifeso, come un qualsiasi bambino. In quell'istante, tutto ciò che riuscì a pensare fu che gli ricordava tanto suo figlio. Gli parve la cosa più bella che avesse mai visto.

Inaspettatamente, Andrew entrò dalla porta. Sgusciò nella camera e si sedette sul letto, davanti agli occhi di Maka. Quindi si chinò a guardare Soul e lo scosse con una mano.

«Fratello, svegliati».

Soul si portò le mani agli occhi, lamentandosi debolmente. Quindi si volse.

«Che vuoi?»

«Devo parlarti».

«Di che? Stavo dormendo».

Andrew si morse un labbro. Era nervoso, e i suoi occhi erano accesi da una luce sinistra, che tradiva una certa inquietudine.

«Soul, tu mi capisci, vero? Tu lo sai come sono».

«Ma di che parli?»

«Sai che non potrei vivere diversamente da quello che sono. Sai che non ce la farei. Io sono stanco, Soul. Non voglio più stare così. Me ne vado».

Soul si alzò a sedere sul letto, ora completamente sveglio.

«Non puoi!»

Andrew gli indicò lo zaino, già pronto. Soul scosse il capo.

«E la mamma? Non pensi a lei?»

«Ci dovrai pensare tu» fece Andrew. Soul lo spinse via.

«No, non se ne parla! Non puoi farle una cosa del genere!»

«Io devo andarmene, lo capisci?» esalò Andrew, prendendolo per le spalle. «Non ce la faccio più a stare in quella scuola. Odio fare la Buki, odio seguire gli ordini di papà, odio quello che sono costretto a fare per Shinigami. Ancora un giorno in quel posto, ed esco di testa».

«E quindi te ne vai? Davvero geniale».

«Stammi a sentire» ringhiò Andrew, strattonandolo. «Stammi a sentire». Soul impallidì e anche Maka trattenne il fiato, sconvolta. «Sei stato tu a chiedermi com'è la scuola, no? Vuoi saperlo, davvero ci tieni?»

«Andrew, basta. Mi fai paura».

«Vieni, allora. Ti faccio vedere».

Andrew afferrò il volto di Soul costringendolo a tenere la fronte contro quella di lui. Soul si dibatté per un po', poi si calmò. Restò in silenzio per qualche istante, poi prese ad agitarsi, e a singhiozzare sempre più forte. Finché non si dimenò disperato.

«Basta!» pianse. Maka scattò, impulsivamente. Percosse il soffitto, prendendolo a pugni, nel tentativo inconscio di liberarlo; ma tutto ciò che ottenne fu che l'immagine prese a vacillare, come se si trattasse di un qualche riflesso su uno specchio d'acqua.

«Ho dovuto farlo» fece Andrew, accarezzando i capelli arruffati di Soul. «Non potevo più tenermi tutto dentro. Ho dovuto dartene una parte, perché la portassi con te. Questo è quello che loro chiamano risonanza. Le nostre anime sono legate, adesso. Ora sai cosa si prova, sai come mi sento, perché hai potuto leggere la mia anima. Io non voglio più farlo, Soul, non voglio più uccidere. Ogni volta che lo faccio, qualcosa dentro di me muore».

Soul lo fissava in lacrime, sconvolto.

«Ti prego, perdonami. Non volevo farti del male. Volevo che sapessi, perché anche tu, un giorno, potessi scegliere. Anche tu, adesso, sei un po' come me. Non è così?»

«Andrew...»

Andrew raccolse lo zaino e si avviò alla porta, voltandosi un'ultima volta a guardare il fratello che piangeva in silenzio.

«In gamba, fratello» disse. Soul si sfregò gli occhi, tirando su col naso. Quindi Andrew uscì, tirandosi lo zaino in spalla e chiudendo la porta. Maka lo seguì fuori dalla camera. Lo vide scendere le scale. Era sull'ultimo gradino, quando le luci si accesero e l'ombra di suo padre si proiettò ai suoi piedi.

«Che diavolo pensi di fare?» gli disse, fermo sul pianerottolo. Come una furia scese le scale, andando a raggiungerlo. Andrew posò a terra la custodia del violino, fissandolo spento.

«Dico a te. Cosa è questa trovata?»

«Me ne vado, papà».

«Tu cosa?»

Maka intravide la madre di Soul affacciarsi alla camera. Scalza, si avvicinò alla balaustra.

«Non voglio più servire Shinigami, papà» diceva Andrew. «Quello è qualcosa che spetta a te, non a me».

«Tu farai quello che ci si aspetta da te, e basta!»

«Io non lo farò!» gridò Andrew. «Sono stanco. Non mi riconosco nella vostra battaglia, non mi interessa. Voi parlate di giustizia, di equità... ma il mondo non sarà mai giusto, né equo! Ovunque uno guardi, troverà sempre un uomo pronto a diventare un Kishin, per egoismo, paura o arroganza. Tutto ciò che facciamo, è inutile... uccidiamo e continuiamo a farlo senza alcuna speranza di porre rimedio al male del mondo. Ma io non voglio più farlo».

«Tu non vuoi?» il padre di Soul sogghignò. «E cosa vorresti fare, sentiamo?»

«Voglio suonare, papà. Voglio vivere secondo i miei sogni».

«Suonare...»

L'uomo prese a fissare la custodia del violino. La sollevò e la aprì. Estrasse lo strumento e lo guardò.

«Tu vuoi suonare?»

Andrew tacque, facendosi pallido. Forse già si aspettava quello che sarebbe successo.

«E cosa suonerai? Io ti ho comprato questo violino! Io ti ho mantenuto, e ho pagato i tuoi studi! Solo perché hai vent'anni, credi di poterti ribellare? Come vivrai, quando non avrai più un soldo? Perché io non ti darò nulla, razza di ingrato!»

Andrew fissò il padre con profondo disprezzo.

«Troverò un modo» fece. Il padre impallidì.

«Quindi è così? Vuoi suonare? Provaci!»

L'uomo afferrò il violino per il manico e lo sbatté a terra con violenza. Maka trasalì, portandosi una mano alla bocca. La madre lanciò un gemito strozzato.

«Tu farai quello che ti dico io» ringhiò il padre ad Andrew. «Ora telefonerò subito a Shinigami, scusandomi per il tuo comportamento inaccettabile. Da domani, mi aspetto che tu ti presenti a lezione regolarmente. Farai attività extrascolastica e chiederò che tu venga assegnato a qualcuno in grado di gestirti... è evidente che quella tua Shokunin ti ha rovinato... ma rimedieremo...»

«Lei non ha colpa, papà. Sono io che non sono in grado di proteggerla».

«No!» gridò lui. «Lei non è capace di utilizzarti. È una sciocca incapace, ecco quello che è. Tu sei mio figlio, appartieni a una famiglia che da sempre ha servito gli Shinigami con onore e per dio continuerà a farlo! Sei solo caduto in confusione, ma io so quello che vali e ti rimetterò in carreggiata! Lo farò».

Andrew scosse la testa, disperato.

«Non capisci che non ci riesco? Lei si è sacrificata per me, ed è solo colpa mia se ora è ridotta in quello stato, perché non ho saputo combattere...»

«Smettila!»

Il padre alzò la mano, colpendo Andrew al volto. Lui barcollò, chinando il capo.

«Farai quello che ti ordino. Io sono stato la Death Scythe di Shinigami e tu non mi coprirai di ridicolo e di vergogna davanti al mio vecchio amico e maestro! Non fuggirai davanti al tuo dovere come un qualsiasi codardo! Sono stato chiaro?»

Andrew alzò la testa, pallido come un cencio. Negli occhi, non aveva più alcuna luce.

«Sì, papà».

Maka vide l'immagine svanire lentamente. Fece appena in tempo a vedere, tra le lacrime che le bagnavano le ciglia, il volto tumefatto di Soul, che aveva assistito a tutta la scena nascosto dalla ringhiera. Quando si ritrovò di nuovo sola, in camera da letto, restò immobile a fissare il soffitto vuoto, sopra di sé. Finché, come lottando contro una forza che la schiacciava al suolo, si mise in piedi, barcollando leggermente.

Scese le scale, senza sapere cosa pensare. Aveva visto quello che era successo. Ma ancora faceva fatica a dargli una forma. Aveva bisogno di spiegazioni, per quanto dolorose potessero essere. Però, non sapeva a chi chiederle.

Quando raggiunse il pianerottolo, una musica la raggiunse leggera. Maka aggrondò, ancora intontita, voltando lentamente la testa. Oltre la porta del salotto, era accesa una luce. Il corridoio era vuoto, e polveroso. Ma la porta sul fondo era accostata.

Maka si diresse verso di essa e la aprì. Una vecchia canzone risuonava nella stanza. Era un logoro 78 giri, gracchiante, ma dal suono ancora molto buono. Un uomo stava in piedi davanti al giradischi, dando le spalle alla porta. Maka strinse gli occhi. Sembrava il guardiano, ma non era sicura. Aveva i capelli ingrigiti e ben pettinati. Ad una prima occhiata gli ricordava qualcuno, ma...

Certo!

«Lei!»

L'uomo si voltò. Maka riconobbe subito il padre di Soul.

«Oh, eccola qua» fece lui, con un ghigno. «Mi sembrava di averla vista davanti al cancello. Mi chiedevo quando si sarebbe decisa a venire».

Maka impallidì. L'uomo sorrise.

«Non so cosa sia venuta a fare, qui, né chi sia» disse. «Ma spero che abbia trovato le sue risposte, perché non avrà più altra occasione per cercarle».

Maka indietreggiò. Presa da una vaga inquietudine, cominciò a guardarsi intorno. Era in una stanza senza finestre, con una sola porta alle spalle. Provò a ricordare la strada che conduceva all'atrio, ma si ricordò sgomenta che non ci era mai passata. Non la conosceva.

«Io sono un'amica di Soul» fece. «Non volevo...»

«Un'amica di Soul?»

L'uomo impallidì, quindi sorrise.

«Se lei davvero è amica di quell'essere disgustoso» disse, trasformando il suo braccio destro in una Kama scintillante, «allora mi ha appena offerto un motivo più che valido per ucciderla. E mi creda, è esattamente quello che intendo fare».

 

 

 

 



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Capitolo 17
*** Dentro la tempesta! Black Star e Tsubaki: un'anima sola contro la paura? ***


«E adesso comincia il vero divertimento».

Black Star alzò gli occhi sulla figura del Kishin, che si levava davanti a lui sovrastandolo minacciosamente. E provò paura.

«Cosa succede, Black Star» rise il Kishin. «Dov'è finita tutta la tua forza, il tuo essere simile a un dio? Non avrai paura, per caso?»

Black Star si irrigidì. Fissò vacuamente la sua Buki, che giaceva a terra inerte e spenta, immersa in una pozza di liquido scuro e gelatinoso la cui superficie continuava ad allargarsi, gorgogliando cupamente.

Tsubaki...

Cercò di concentrarsi sulla sua lunghezza d'onda, ma senza risultato. Lei non rispondeva.

Sconvolto, Black Star provò ad avvicinare la mano; ma alla fine la ritrasse. Quella cosa, qualunque cosa fosse, non era più Tsubaki. Era inutile illudersi. Lei se n'era semplicemente andata, inghiottita da quelle tenebre maledette che oscuravano tutto, attorno a loro; e andandosene, l'aveva lasciato solo in balia di quell'incubo.

Era questo, ciò che più lo terrorizzava. Il fatto che lei non fosse più lì con lui, per quanto lui si affannasse a cercarla. Ancora una volta, la vita l'aveva voluto solo.

«Sinceramente, mi aspettavo molto di più da uno come te... uno abituato a raggiungere da solo i propri obiettivi...»

Il Kishin distese un braccio e improvvisamente le tenebre che lo avvolgevano si sciolsero, scivolando lungo le sue braccia ossute e colando dense come il sangue dalle sue dita lunghe e scheletriche. Lingue d'ombra sottili cadevano a terra fitte, rotolando come serpi, aggrovigliandosi l'un l'altra mentre strisciavano lungo il terreno, raggrumandosi lente negli angoli tra le case e risalendo lungo i muri spogli, là dove scomparivano rintanandosi negli spazi ancora vuoti di luce. Black Star torse gli occhi, guardandosi attorno. Senza nemmeno accorgersene, si era ritrovato al centro di una notte improvvisa, che non lasciava filtrare alcuna luce.

«Ti credevo molto più forte» continuò il Kishin, muovendo le dita per liberarsi dalle ombre che ancora vi restavano come appiccicate «così come credevo che fosse molto più forte il tuo legame con Tsubaki... evidentemente, mi sbagliavo. Non è così?»

«Smettila».

Black Star chiuse gli occhi. Le tenebre, unite a quella voce così insistente che gli trapanava il cranio, lo avvolgevano lentamente, scivolando sulla sua pelle e penetrandolo fin dentro le ossa. Ogni volta che quel mostro parlava, il suo cuore e la sua anima reagivano, come deboli fiamme attizzate da una improvvisa corrente d'aria. Era qualcosa di strano, qualcosa che non aveva mai provato e che lo spaventava a morte.

«Vuoi che la smetta?» sibilò il Kishin «E allora, sai cosa devi fare».

«No...»

Il Kishin svolazzò allegramente al suo fianco. Con un movimento ampio del braccio, stese su di lui un manto di tenebra, che gli si spalmò sulle spalle come cera liquida, diffondendo tutt'intorno un orrendo puzzo di morte. Black Star trasalì, ma nonostante tutto non si sottrasse a quel tocco gelido, che lo mordeva come un veleno dolcissimo.

«Devi solo lasciarti andare» gli sussurrò il Kishin all'orecchio, dolcemente. «Sai qual è la tua vera natura, non è così? Inseguire la vittoria, costi quel che costi. E tu puoi farlo! Puoi vincere ogni battaglia, devi solo volerlo. Io posso mostrarti la strada, e fare di te un dio».

«Io lo voglio» mormorò Black Star, «e lo farò» aggiunse, fremendo. I suoi occhi tremavano di inquietudine e la sua mano era sempre più vicina all'elsa di Tsubaki, pur non riuscendo mai veramente a raggiungerla.

«Certo che lo vuoi. Tu vuoi essere un dio» continuò il Kishin, con voce melliflua. «Ma ogni grande vittoria, richiede grandi sacrifici».

Sacrifici...

Quella parola echeggiò nella mente di Black Star, galleggiando a lungo come una foglia secca sulla superficie calma dei suoi pensieri. Finché, alla fine, non affondò.

«Che genere di sacrifici?» chiese. E il suo sguardo era duro, e freddo.

«Tutti quelli necessari».

Black Star alzò gli occhi sul Kishin. Era accanto a lui, adesso, ma non provava paura. Avvertiva una strana energia che li collegava, un'energia misteriosa e segreta che scaturiva direttamente dal fondo dell'anima di entrambi. Se solo avesse potuto leggere l'anima di quell'essere! Cosa avrebbe visto?

Forse qualcosa di terribile, pensò; qualcosa che lo avrebbe tormentato per il resto dei suoi giorni.

O forse, avrebbe visto soltanto il riflesso di se stesso.

«Sembra che tu mi conosca molto bene» mormorò Black Star, stringendo finalmente le sue dita attorno a Tsubaki. Il Kishin emise un sibilo sinistro, che raggelò l'aria attorno a loro. Per un attimo, i suoi occhi di fuoco si illuminarono, accesi da un'insaziabile malvagità.

«Nessuno ti conosce meglio di me» fece.

«Non è vero, tu vuoi solo trasformarmi in un mostro. Proprio come hai fatto con Soul» disse Black Star, accennando alla falce che il Kishin teneva in mano. Il mostro spostò lentamente gli occhi sulla lama della sua Buki, accarezzandola deliziato.

«Un mostro, dici?» fece. «Ti sbagli. Io penso che sia meraviglioso».

Black Star rabbrividì. Serrò le dita attorno alla sua Buki e improvvisamente le tenebre che lo avvincevano si dissolsero, lasciandolo con un brivido.

«Meraviglioso?» fece, con uno scintillio selvaggio negli occhi. «Forse per un essere disgustoso come te!»

Con un movimento fulmineo, Black Star scattò in avanti sollevando Tsubaki, pronto a brandirla contro il Kishin. Ma con sua grande sorpresa, la trovò pesante e per nulla maneggevole. La lama non rispondeva e continuava a grondare quello strano liquido scuro da cui era completamente avvolta. Black Star cercò invano di ripulirla; ma non appena la sfiorò con le dita, il liquido che la ricopriva reagì selvaggiamente, aggredendo il braccio e la mano con cui lui la impugnava. Con grande fatica, Black Star cercò di assumere una posizione di attacco, lottando contemporaneamente con il liquido che fuoriusciva da Tsubaki e che ora gli risaliva vorace lungo il braccio, quasi volesse fagocitarlo.

«Che diavolo è questa roba?» esalò, spostando gli occhi freneticamente dal Kishin alla sua Buki. «Che cosa hai fatto a Tsubaki?»

«Io?» fece il Kishin, sollevandosi in tutta la sua mole e scoppiando in una risata maligna. La sua falce prese a roteare selvaggiamente, tagliando l'aria con un sibilo sinistro. «Io non le ho fatto nulla. È la tua stupidità che ha fatto tutto».

«Cosa?»

Il Kishin fece una finta, che Black Star riuscì a parare a stento. La spada non reagiva ai suoi comandi e lo sbilanciava da ogni parte, costringendolo a modificare spesso all'ultimo tutti i suoi movimenti. Il liquido nero che grondava ininterrotto dalla lama gli aveva ormai completamente avvolto il braccio, paralizzandolo, succhiando via la vita dai muscoli come un ammasso di viscide sanguisughe.

Black Star si gettò contro un muro, ansante, cercando di resistere alla tentazione di tastarsi il braccio per liberarsi da quella sostanza schifosa. Sapeva che se l'avesse fatto, anche l'altro braccio sarebbe stato contaminato. E allora, per lui sarebbe stata la fine.

Il Kishin sembrò non avere fretta di proseguire lo scontro, perché abbassò Soul, la sua Buki, mettendosi a fissare divertito il suo avversario.

«Tu e la tua ossessione di essere il migliore» fece, rivolgendosi a Black Star e piegando la testa di lato. «Come uno stupido ti sei lasciato prendere in giro da Shinigami... il tuo dio ti ha piegato al suo volere, come un inutile pupazzo di cartapesta... che pena, rispetto a ciò che saresti potuto diventare...»

«Non è vero!»

Con un ringhio selvaggio, Black Star si staccò dal muro, tentando un affondo al petto del Kishin; ma il suo braccio era ormai troppo debole, e non riusciva quasi più a sostenere il peso dell'arma. Dimenticandosi di ogni cautela, provò ad aiutarsi con l'altra mano: ma non appena questa toccò l'elsa di Tsubaki, il liquido che la ricopriva ne aggredì la pelle con spaventosa voracità. Con sgomento, Black Star abbandonò subito la presa, scuotendo via dalla mano quella cosa molle e disgustosa, che pareva viva.

«Te la farò pagare, per questo...» esclamò. Il Kishin scrollò le spalle.

«Certo, come no... Ma ora dimmi, Black Star... dici che Shinigami non si è preso gioco di te. Ma non è forse vero che tutto quello che fai, in un certo senso lo fai per ripagare Shinigami della sua magnanimità? Non è per dimostrare a lui e al mondo intero che non si era sbagliato, quando ti ha risparmiato la vita, tanti anni fa? Avrebbe potuto riservarti lo stesso destino dei tuoi genitori...»

«Taci!»

«... quel destino che ancora ti ostini a non accettare, vero? Certo, tu dici a te stesso che era giusto così, che non poteva permettere che degli assassini la facessero franca... ma sai che non è vero. Anche tu sai che il criterio in base al quale Shinigami sceglie se uccidere o salvare qualcuno, non è molto diverso da quello di chi sceglie di farlo per altri interessi... la voglia di vincere che ti anima, per esempio. La stessa voglia che Shinigami sfrutta per i suoi scopi, e che è così tremendamente vicina alla strada per diventare un Kishin... tu stesso l'hai provata, una volta, no? Dimmi, Black Star, cosa si prova? Non è esaltante quella incredibile paura che ti anima fino ad eccitarti, che cancella ogni sensazione e che libera tutti i tuoi istinti?»

Black Star si irrigidì, serrando i denti.

«Tutte balle!» gridò.

«In quel momento, tu e la tua Buki eravate tutt'uno, una sola anima, un solo cuore... non è meraviglioso? Non è un miracolo?»

Black Star squadrò torvo il Kishin. Quindi raschiò in gola e sputò a terra, proprio ai piedi del mostro.

«Se credi di manipolarmi con queste stronzate» fece «ti sbagli di grosso. Non sono stupido fino a questo punto».

«No» mormorò il Kishin, secco «forse non lo sei. O forse sei solo troppo cieco, per capire che la differenza tra essere un Kishin ed essere un paladino di Shinigami consiste nella libertà di agire per se stessi, la stessa libertà che può renderti il dio che hai sempre desiderato essere, ma che evidentemente non meriti di diventare».

Con una mossa improvvisa, il Kishin si avventò contro Black Star, che colto alla sprovvista non fece in tempo a schivare. Il Kishin eseguì una finta e allungò di scatto il manico della falce, andando a colpire Black Star alla spalla. Un dolore acuto strappò un grido al ragazzo, che barcollò, cadendo bocconi. La spada gli scivolò di mano rotolando fino ai piedi del Kishin, mentre il liquido che gli avvolgeva il braccio e che ormai lo stringeva fin quasi a spezzargli le ossa, aveva già raggiunto il collo e cominciava lentamente a soffocarlo.

«Cominci a sentire quella sensazione?» sibilò il Kishin, mettendosi a volteggiare stretto attorno a Black Star. «Senti il dolcissimo suono della disperazione? È così che ci si sente... ma tu lo sai, non è vero? Sai cosa vuol dire essere soli... perché è questo quello che sei. Tu sei solo. Segui Shinigami non perché credi in quello che fa, o in quello che dice. Tu sei solo interessato a diventare sempre più forte... perché non vuoi sentirti solo, perché vuoi che qualcuno ti accetti e ti tenga con sé, dandoti un ruolo, una famiglia, e uno scopo. È questa la risposta che cerchi, non è vero? Non è così?»

«La risposta a cosa, maledetto?» ruggì Black Star, ormai senza fiato. «Se vuoi uccidermi, perché non la smetti di giocare e la fai finita una volta per tutte?»

Il Kishin si fermò improvvisamente. Il suo vestito di tenebra svolazzante prese a turbinargli attorno al corpo, rivelando a tratti le sue membra scure e sottili, mentre fissava Black Star attraverso i suoi occhi di fuoco.

«Ti sbagli, io non voglio ucciderti» disse il Kishin. Black Star continuò a guardarlo, restandosene come sospeso. Quindi il mostro agguantò la falce e la levò di scatto. E per un attimo, ogni cosa si fece immobile, come fosse scolpita nel ghiaccio.

«Ciò che voglio, Black Star...»

Uno scintillio sinistro lampeggiò lungo la lama di Soul. Black Star sbatté le palpebre. Il sudore gli imperlava la fronte, colandogli negli occhi.

«... è la tua anima!»

Con un sibilo, la falce si abbassò su Black Star, colpendolo al braccio con incredibile violenza. Il cuore di Black Star si spezzò, come fosse stato squarciato da una lama infuocata. Ma non c'era sangue, non c'era alcun taglio. La falce lo aveva colpito molto più in profondità, dritto nella sua anima, che aveva raggiunto e lacerato, trapassandola da parta a parte. Con un grido straziante e gli occhi sbarrati, Black Star si piegò in due, strisciando al suolo e muovendo disperatamente le dita sull'asfalto, in cerca della sua spada, che raccolse confusamente stringendola al petto.

«Guardati» esalò disgustato il Kishin, torreggiando sopra di lui. «Il grande Black Star... tutto quel tuo voler essere simile a un dio... mi fai quasi pena. Tutti i tuoi sforzi, ogni tua azione... cosa sono, se non il disperato tentativo di essere riconosciuto da qualcuno? Tutto quello che vuoi, è che qualcuno ti dica chi sei, perché la verità è che non hai più nessuno! Tu sei come un albero, che con tutte le sue forze tenta di levarsi fino al cielo, ma che non si accorge di poggiare le sue radici sull'acqua. Dimmi, Black Star: chi ti sorreggerà quando cadrai? Ci penserà Shinigami?»

«Io sono forte, non ho bisogno di nessuno!» biascicò Black Star, stringendo gli occhi per resistere al dolore che lo distruggeva dall'interno. Raccogliendo tutte le sue forze, si alzò, scagliandosi contro il Kishin. Ma dopo pochi passi, si abbatté al suolo, sconvolto da quelle visioni confuse e ammassate che gli tormentavano inesorabilmente la testa. Rivedeva se stesso, e i suoi genitori. Risentiva il puzzo tremendo del sangue, che colava lungo le strade durante le scorribande della sua famiglia. E risentiva la paura di Tsubaki, quando per poco non aveva ceduto al suo lato demoniaco. Tutte le sue paure, tutte le sue ansie erano tornate improvvisamente a tormentarlo, agitandosi davanti ai suoi occhi senza lasciargli alcuna tregua.

«Non ti accorgi di quanto sei debole?» riprese il Kishin, parlando fittamente al suo orecchio. «Tu puoi essere forte, ma per farlo devi lasciarti alle spalle tutto ciò che ti indebolisce. La paura, il desiderio di non essere riconosciuto, di essere di nuovo solo. Perché è questo, ciò per cui fin'ora hai lottato, no? Il tuo desiderio di vittoria, cos'è se non il desiderio di costringere gli altri a guardarti, a vederti anche solo per una volta?»

«Vaffanculo!»

Il Kishin rise, osservando Black Star che barcollava confusamente, strisciando la lama di Tsubaki contro l'asfalto. Con un ringhio sordo, il ragazzo sollevò la sua arma, puntandola contro il Kishin.

«Io ti ucciderò, figlio di puttana» fece. «Lo giuro!»

«Avanti, allora» rispose il Kishin. «Io sono qui. Sono sempre stato qui, dove potevi vedermi».

Black Star lanciò un grido e si gettò con tutto se stesso contro il Kishin. Era il suo ultimo attacco. Sentiva che le forze lo stavano lentamente abbandonando. Ma soprattutto, ciò che lo stava abbandonando, era la speranza.

Tsubaki taceva, la sua lama era come spenta. Non era lì, con lui, quella volta. Lo aveva abbandonato. Era successo perché lui non l'aveva capita, e l'aveva lasciata sola a sprofondare lentamente nelle tenebre che quel mostro aveva creato apposta per lei, ancora prima di incontrarla. Proprio come era capitato a lui.

Aveva fallito, tradendo le sue promesse e la fiducia che lei aveva riposto in lui come compagno. E per lui, questo era peggio di qualsiasi cosa, peggio di qualsiasi sconfitta.

«Crepa!» gridò, con voce strozzata. Con un movimento fluido, il Kishin si spostò di lato, lasciando che la spada sfilasse stancamente accanto al suo volto. Quindi gli bastò sollevare la falce e deviare in alto il braccio di Black Star. Lui si accorse troppo tardi di quello che stava succedendo. Con sguardo spento osservò Il Kishin ruotare rapidamente su se stesso, e poi sparire alle sue spalle. Ormai sconfitto, Black Star sbatté le palpebre, una, due volte, voltandosi appena. Quando si voltò, il Kishin era lì, davanti a lui, pronto a colpirlo. Rassegnato, chiuse gli occhi, lasciando scivolare a terra la spada.

«E adesso» ruggì il Kishin «sarai mio!»

«No!»

Con le ultime forze che ancora gli restavano, Black Star aprì gli occhi. Tsubaki era lì, davanti a lui. Si era liberata dalla presa del fango nero e con un braccio aveva parato la falce del Kishin, pronta a calare inesorabile sulla testa di Black Star. La lunga lama della falce sfregò contro il braccio scintillante della ragazza; e una cascata di scintille bluastre esplose a rischiarare le ombre che si stringevano attorno a loro. Con un ringhio, il Kishin si allontanò, lasciando Tsubaki a proteggere il corpo esausto di Black Star.

«Sono sorpreso» fece il Kishin. «Non mi aspettavo che avessi tutta questa forza».

«Beh, ti sbagliavi» ribatté lei, torva. «Ti sei sbagliato su tante cose».

Il Kishin rise. Lentamente, prese a muoversi attorno ai due, descrivendo un ampio cerchio.

«Sai, credo proprio che dovrò ucciderti» fece. «Tutto questo tuo ottimismo mi dà la nausea».

«Non mi lascerò spaventare da te» reagì Tsubaki, senza lasciarsi intimorire. «Ora so cosa fai e so di cosa sei capace. Non ti lascerò prendere Black Star, proprio come non ti lascerò prendere Soul».

«Ti sbagli» sibilò il Kishin. «Lui è già mio... e presto, anche voi due lo sarete».

«Non credo proprio».

Tsubaki sogghignò, notando che il mostro si era fatto improvvisamente silenzioso.

«Pensi di poter davvero dominare Soul?» insisté. «E allora perché, prima, avrebbe cercato di avvertirmi? Lui sapeva che trasformandomi in lama demoniaca, tu avresti potuto avere accesso alla mia anima... ha cercato di farmelo capire, per impedire che tu riuscissi a sfruttare il sangue demoniaco che scorre dentro di me e dominarmi. Perché è questo quello che sei, no? Un demone».

Il Kishin continuava a tacere. Tsubaki poteva sentire il suo respiro farsi sempre più denso, e teso.

«Credi di sapere tutto, vero?» fece lui, con voce cupa. «Non sai niente».

«So quello che serve. So che costringi Soul a combattere per te... non so come fai, ma so che non è stato lui a fare questo, vero?» disse lei, indicando con un cenno i corpi senza vita attorno a loro. «Sei stato tu. Se lui avesse fatto una cosa simile, non avrebbe mai cercato di mettermi in guardia... tu credi di possederlo, ma non ce la farai mai! Potrai piegarlo, ma non potrai sottometterlo per sempre... e questo, perché lui ha qualcosa che lo rende libero e che tu non potrai mai cancellare, né distruggere».

«No!» ruggì il Kishin, furioso. «Io conosco il mistero che si nasconde dietro una Buki! Cosa vuoi insegnarmi, tu, ridicola marionetta di Shinigami?»

«Lo scoprirai» sorrise Tsubaki. «Molto presto».

Il Kishin batté a terra con il manico della sua falce. Le ombre che lo cingevano si levarono alte, come onde di un mare in tempesta.

«Lui è già mio!»

«No! Lui non sarà mai tuo. Nessuno di noi lo sarà» ribatté Tsubaki, stringendo i denti. «Ma soprattutto, io non lo sarò!»

Tsubaki era pronta, e anche il Kishin. Lei stava già per lanciarsi all'attacco, quando una voce alle sue spalle la trattenne.

«Tsubaki!»

Si voltò, sorpresa. Black Star si era appena sollevato e fissava torvo il Kishin, fermo davanti a loro.

«Tsubaki, modalità lama demoniaca» sibilò «subito».

Lei trattenne il fiato, scuotendo il capo.

«Ma non puoi, non ne hai la forza...»

Lui sogghignò, gli occhi accesi da una luce scintillante. Lentamente, senza mai togliere gli occhi dal Kishin, Black Star prese a sfasciarsi la benda che teneva attorno alla mano destra.

«Adesso» insistette. Tsubaki annui, incerta, ma alla fine obbedì. Quando la strinse, Black Star sentì il cuore ghiacciarsi improvvisamente, ancora una volta. Era il Kishin, che cercava di nuovo di dominarlo, introducendosi in lui attraverso il sangue demoniaco che scorreva nella sua spada. Con un sospiro, Black Star chiuse gli occhi, concentrandosi esclusivamente sul volto di Tsubaki. E allora tutto, attorno a lui, improvvisamente sparì. Restò solo la voce di lei, negli occhi il suo sorriso delicato e triste, come il fiore della camelia. Quando li riaprì, Black Star si assicurò la spada alla mano, fasciandola stretta con la benda. Attraverso la lama, Tsubaki lo fissava sconcertata.

«Cosa fai?» ansimò. «Così...»

«Ti prometto che non ti lascerò mai più cadere» fece lui, fissando dritto negli occhi il Kishin. Quindi abbassò lo sguardo su di lei, e sorrise. Lei lo guardò. Quindi, con gli occhi che le splendevano di lacrime, annuì.

«Sì» mormorò, felice. «Ho capito».

«E adesso» esalò lentamente Black Star, levando alta la lama scintillante della sua Buki «vediamo di riprenderci quel deficiente di Evans. E già che ci siamo, diamo una lezione a questo bastardo».

 

 

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Capitolo 18
*** Verso lo scontro decisivo! Il coraggio di Maka? Un amore che vince ogni cosa? ***


«Ammetto che hai avuto davvero un bel coraggio a venire qui».

Il padre di Soul agitò il braccio, che sotto gli occhi di Maka si trasformò in un piccolo e maneggevole falcetto. Maka osservò come ipnotizzata i sottili bagliori d'argento che si irradiavano dall'arma e che nella penombra saettavano febbrili lungo la lama ricurva, facendola risplendere ogni volta che incontrava la luce. Con ansia crescente, spostò gli occhi sul viso di quell'uomo, piegato in smorfia sinistra; quindi torse lo sguardo, gettandosi una velocissima occhiata alle spalle, mentre indietreggiava.

Forza. Ci sei quasi.

Ancora un passo, solo uno; e finalmente sarebbe stata fuori da quella maledetta stanza.

«Davvero» riprese l'uomo, quasi senza guardarla «sei molto, molto coraggiosa. Anche se è un coraggio del tutto inutile, il tuo, visto che non ti lascerò uscire viva da qui. Non dopo quello che hai fatto».

Maka lo guardò confusa, scuotendo la testa. Non riusciva a capire.

«Che ho fatto?» fece, continuando a lanciarsi occhiate alle spalle. «Ma io non ho fatto nulla...»

In un istante, una lunga catena d'argento cadde tintinnando ai piedi del padre di Soul. Con un semplice movimento del polso, l'uomo la scosse, facendola guizzare nell'aria per poi arrotolarsela elegantemente attorno alla mano.

«Ora basta parlare» ringhiò lui, gettando a Maka uno sguardo omicida. «E preparati a combattere, strega

La Kama sibilò, fendendo l'aria e colmando in un lampo la distanza che la separava dalla ragazza. Colta di sorpresa, Maka scansò la lama solo all'ultimo momento, gettando un grido strozzato. Ebbe appena il tempo di constatare che era ancora viva, che la lama le si avventò nuovamente contro, senza darle tregua, ronzandole sinistra all'orecchio e andando a conficcarsi nello stipite della porta, alle sue spalle. Con il cuore in gola e in preda a un'incredibile confusione, Maka alzò subito gli occhi. Il padre di Soul aveva già tirato a sé il falcetto. Lo faceva ruotare sopra la testa, tenendolo per la catena, pronto per un nuovo attacco.

«Le ripeto che si sbaglia, non ha capito nulla...» provò a dire Maka, con le spalle al muro. Ma non riuscì neppure a terminare la frase, perché la Kama partì nuovamente all'attacco, aggredendola senza alcuna pietà. Maka si gettò di lato come poté, rotolando a terra disordinatamente e andando a sbattere con la testa contro al muro. Il colpo la stordì lievemente, lasciandola temporaneamente senza difesa. Un dolore sordo le esplose all'interno del cranio e lei chiuse gli occhi, portandosi istintivamente le mani alla testa.

Non avrebbe mai dovuto chiudere gli occhi in battaglia, lo sapeva. Era la prima regola in ogni combattimento. Ma quella battaglia era diversa dalle altre che aveva combattuto in passato, senza contare che era cominciata nel peggiore dei modi. Quell'uomo era dannatamente forte e non le dava nemmeno il tempo di organizzare i propri pensieri. Maka era completamente smarrita: senza un'arma, non riusciva ad avere il pieno controllo di se stessa e delle proprie emozioni. Troppe paure e insicurezze la dominavano, e la rendevano simile a una matricola inesperta, in totale balia del proprio destino.

Quando aprì gli occhi, fece appena in tempo ad abbassare la testa, per evitare di venire decapitata dalla Kama che rimbalzò fulminea contro il muro, sopra di lei, facendo letteralmente esplodere l'intonaco alla parete e rilasciando nell'aria un tintinnio secco che continuò a risuonare a lungo nella sua testa.

«Io non sono una strega...» continuava a ripetere lei, riparandosi gli occhi dall'intonaco che le cadeva in testa. Ma non era nemmeno sicura che quelle parole le fossero uscite realmente di bocca. La paura che in quel momento provava, era tale che non si sentiva nemmeno padrona del proprio corpo.

Per qualche ragione, si accorse solo allora di aver perso la borsetta. Angosciata, Maka si voltò a cercarla, trovandola davanti alla porta, a pochi passi da lei. Si tuffò per prenderla, ma il padre di Soul era più vicino e la precedette, allontanandola con un calcio.

«Maledetta strega» ruggì il padre di Soul, torreggiando davanti a lei «ti ripagherò per quello che hai fatto a mio figlio, una volta per tutte».

Con gli occhi sbarrati, senza saper cosa fare, Maka si rannicchiò, alzando le mani di fronte alla lama che si levava implacabile sopra la sua testa, pronta a calare su di lei. Schiuse le labbra, tremante, incapace di muovere anche un solo muscolo.

«No...» esalò.

non ancora, ti prego...

Ormai attendeva il suo destino. Quando chiuse gli occhi, tutto ciò che vide fu il volto di suo figlio, che apparve davanti a lei come dal nulla, sorridendole allegro.

Era quella l'ultima immagine. L'ultimo scampolo di serenità, tutto ciò che le era dato vedere, prima che tutto finisse in quel modo assurdo.

Non ce l'aveva fatta. Per quanto avesse provato, aveva fallito. E ora, avrebbe perso tutto. Daniel, Soul...

Soul...

Mi dispiace...

«Ma che diavolo...»

Maka aprì gli occhi, titubante. Davanti a lei, il padre di Soul tentava nervosamente di liberare la sua Kama, che si era arrotolata attorno alla lama spuntata all'improvviso dal braccio destro della ragazza. Maka la guardò, incredula. Era una falce elegante e sottile, percorsa da intensi bagliori rossi lungo tutta la lama di metallo azzurrato. Le trasmetteva un'energia tanto forte che, non appena si fu ripresa dalla sorpresa, le bastò tirare il braccio per far sbilanciare il suo avversario, costringendolo ad allentare la presa e a darle il tempo per rialzarsi e riprendere fiato.

«E così» fece lui, richiamando a sé la sua Kama, che gli volò dritta in mano «oltre a essere una stega, sei anche una Buki».

«No, si sbaglia» disse Maka, levandosi fiera e scuotendo i capelli che le ricadevano confusamente sul volto. «Ho cercato di dirglielo. Io sono una Shokunin. La Shokunin di Soul Evans, suo figlio. E se sono qui, è solo perché voglio aiutarlo, e non per farle del male».

Il padre di Soul aggrondò, fissando alternativamente lei e la falce che le spuntava dal braccio. Quindi rise.

«Aiutarlo?» fece. «Vuoi prenderti gioco di me? Nessuno può aiutare quel mostro, tanto meno una come te. Se non sei una strega, sei solo una povera sciocca che non ha le idee molto chiare» ridacchiò, fissandola torvo. «Ma non mi interessa. Nel dubbio, ti ucciderò comunque. E metterò fine per sempre a questa pagliacciata».

L'uomo lasciò andare la catena; e con un lampo abbagliante, anche il suo braccio sinistro si trasformò in un falcetto, che lui scagliò addosso a Maka, facendolo seguire subito dal secondo dei due. Lei si abbassò di scatto, lasciando che le due falci le passassero sopra la testa, quindi si gettò di lato, per evitare il colpo di ritorno. Con una smorfia, il padre di Soul accorciò la catena che legava le due falci tra loro, richiamandole a sé prima di lanciarle nuovamente addosso alla ragazza, ora mirando a due punti diversi del suo corpo. Maka sussultò, colta alla sprovvista. Alzò un braccio, deviando la prima; ma la seconda la urtò alla gamba con il dorso della lama, provocandole un dolore acuto. Con un grido, lei si piegò in due, crollando a terra.

«Già finito?» rise il padre di Soul. «Che cosa ridicola».

Maka lo fulminò con lo sguardo, serrando i denti. Lo vide scattare verso di lei, sul volto un sorriso trionfante, mentre si faceva sempre più vicino. Lei non reagì. Attese. Lui le era già sopra, pronto a colpirla, quando due lunghissime lame spuntarono come dal nulla dalle scapole della ragazza, andando a circondare in un abbraccio mortale il corpo del padre di Soul. L'uomo vide le due lame scintillanti saettargli a fianco e si fermò, sorpreso, lanciando a Maka un'occhiata spaesata. Con un ghigno, la ragazza ruotò su se stessa e le lame si richiusero, come fossero forbici. L'uomo fece appena in tempo a balzare via, prima di venire tranciato in due.

«Non male, come trucchetto» fece, squadrandola con un ghigno di cupa soddisfazione dall'altro lato della stanza. «Me l'avevi quasi fatta. Devo dire che non sei poi così sprovveduta come sembri».

«Non voglio combattere, ma lei non mi lascia scelta» disse Maka, alzandosi in piedi con una smorfia di dolore. La gamba le faceva ancora male. Senza curarsene, cercò con gli occhi la borsetta. Era ancora là, davanti alla porta, solo un po' più spostata.

«Se solo mi lasciasse spiegare...» disse, cercando di prendere tempo.

«Non c'è niente da spiegare, piccola sgualdrina» fece il padre di Soul, fissandola torvo. «Sono stato la Death Scythe di Shinigami e ci vorrà molto più di qualche trucchetto come questo, per battermi».

Con un gesto improvviso, l'uomo scagliò una falce contro la ragazza, che reagì prontamente all'attacco. Ma con sua grande sorpresa, il colpo non arrivò. Con un ghigno, il padre di Soul bloccò la catena, ritirandola all'ultimo per poi lanciarsi in un attacco a sorpresa con la seconda falce. Maka si sbilanciò, deviando il colpo con una parata improvvisata. Non si era accorta che l'uomo aveva impresso all'altra delle sue armi una rotazione improvvisa. Il cuore di Maka cessò di battere, quando sentì l'aria spostarsi davanti al suo volto e vide la lama passare sibilando proprio davanti al suo occhio sinistro, sollevandole un ciuffo di capelli biondi. La seguì atterrita, fissandola mentre si allontanava scintillando, come al rallentatore. E non si accorse che il padre di Soul, intanto, aveva bloccato con la catena la falce che le spuntava dal braccio, e che lei aveva usato per difendersi.

L'uomo tirò con forza e Maka perse l'equilibrio, sbilanciandosi in avanti. A quel punto, a lui bastò far saettare la catena, che subito si avvolse attorno al corpo esile della ragazza, stringendola; nel disperato tentativo di difendersi, Maka sollevò il braccio, infilando come poté la punta della falce in uno degli anelli della catena. Con uno stridio assordante, la lama sfregò contro il metallo, lanciando scintille che sprizzarono nell'aria come impazzite. Quando la lama incise il duro metallo della catena, questa si allentò improvvisamente e il padre di Soul indietreggiò, lanciando un grido sordo. Maka alzò gli occhi su di lui, ansante ma libera. Lo vide tenersi il braccio, ora tornato nuovamente alla sua forma umana.

«Maledetta puttana!» sibilò lui. Maka non perse tempo. Con un sorriso di soddisfazione si voltò, gettandosi sulla borsetta e lanciandosi poi oltre la porta. I suoi passi risuonavano veloci lungo il corridoio deserto, illuminato da quei pochi raggi di luce che ancora filtravano dalle finestre sbarrate. Con il cuore in gola, Maka si voltò. Un suono sordo esplose nella stanza alle sue spalle, seguito da un grido rabbioso. Maka accelerò, disperata. L'eco dei passi del padre di Soul, alle sue spalle, si faceva sempre più vicina. Con il cuore che le pulsava nelle orecchie e la gola secca, Maka raggiunse la fine del corridoio. Svoltò all'improvviso, e la suola liscia delle sue scarpe da ginnastica scivolò sulle mattonelle polverose, rischiando di farla cadere. Con un grido, Maka si aggrappò al muro, conficcando le unghie nell'intonaco fino a spezzarle, pur di tenersi in piedi. Quindi riprese a correre, senza mai fermarsi.

Si ritrovò in una stanza con tre porte. Senza pensarci si buttò sulla prima, trovandola chiusa. Anche la seconda lo era. In preda a una confusione crescente, Maka si gettò sulla terza; ma non appena mise mano alla maniglia, uno schianto secco le strappò un grido. Alzò gli occhi sulla Kama che si era appena conficcata nella porta, proprio accanto alla sua testa, e trasalì. Si voltò, riuscendo a scorgere l'ombra del padre di Soul che si avvicinava sempre più, facendo tintinnare spaventosamente la catena legata al falcetto. Cercando di ritrovare la calma, Maka aprì la porta, riuscendo in qualche modo a sgusciare fuori.

«Fermati!»

Lei non ci pensava nemmeno. Combattere era fuori discussione. Ancora non sapeva come era riuscita a dominare la sua trasformazione, visto che non l'aveva nemmeno cercata... era successo per caso. Per un puro, fortunatissimo caso, che forse non si sarebbe mai più ripetuto. E lei non voleva morire.

Non adesso, almeno, non con un figlio che la aspettava a casa e non quando era a un passo dal salvare l'uomo che amava.

Un altro corridoio e un altro ancora. Le porte che Maka incontrava erano tutte sbarrate, o davano su stanze chiuse, dalle finestre inchiodate. Fu per puro caso che si ritrovò nell'atrio. Con sgomento, alzò gli occhi sulla grande scalinata che aveva intravisto nel ricordo di Soul, la scalinata su cui si erano infranti i sogni di suo fratello e che ora emergeva silenziosa nella polvere, come lo scheletro di una gigantesca carcassa abbandonata e completamente avvolta dall'ombra. Se aguzzava lo sguardo, riusciva ancora a immaginare Andrew, in piedi sull'ultimo gradino, e suo padre davanti a lui, che lo schiaffeggiava davanti allo sguardo triste e preoccupato di Soul.

Con un moto di speranza nel cuore, Maka alzò gli occhi sull'unica luce che illuminava quella specie di antro spaventoso e buio. La porta. Era lì, a pochi passi di distanza.

Ce l'aveva fatta. Ormai era salva.

Con le lacrime agli occhi, Maka si lanciò contro la porta a vetri, aggrappandosi alla maniglia con tutte le sue forze. La abbassò, e con un cigolio sentì la serratura scattare. I passi alle sue spalle erano sempre più vicini, ma lei si sforzò di non ascoltarli. La porta aveva cominciato ad aprirsi e un'aria gelida e umida di nebbia si intrufolò nell'atrio, costringendo Maka a chiudere gli occhi, rabbrividendo. Poi, finalmente, come al termine di un lunghissimo incubo, la porta si spalancò e Maka poté di nuovo aprire gli occhi alla luce. Era fuori.

Fu allora, che qualcosa le si aggrappò alla caviglia, facendola cadere a terra. Maka si voltò, confusa, sentendosi trascinare lungo il pavimento polveroso senza che lei potesse fare nulla per resistere. Il padre di Soul le aveva avvolto la catena attorno alla caviglia e la stava tirando lentamente a sé. Con angoscia, Maka vide la porta richiudersi pesantemente su se stessa, mentre lei tentava disperatamente di liberarsi. Ma era troppo tardi. Lui la immobilizzò con un piede, premendogli la suola contro la gola.

«Credevi davvero di potermi scappare?» sibilò. Maka lo fissò, con le lacrime agli occhi. Non respirava. Sentiva il fiato farsi sempre più sottile, e il suo corpo prese a reagire convulsamente. In preda a una paura sorda, tentava di liberarsi in tutti i modi, picchiando con i pugni contro la scarpa che la soffocava, sempre più confusa e spaventata. Finché non spalancò la bocca e gli occhi, terrorizzata, senza più energie né fiato.

«Che c'è, vuoi dire qualcosa?» disse il padre di Soul, sollevando leggermente il piede dal collo della ragazza. Maka roteò gli occhi, tossendo.

«La prego...» esalò. Lui rise, premendole più forte contro la gola.

«Pregarmi non ti servirà a niente».

Con gli ultimi scampoli di forza, Maka avvicinò le dita alla borsetta, frugandovi dentro alla ricerca disperata del frammento di specchio. Quando l'uomo la vide estrarlo, lo colpì con la catena, mandandolo a infrangersi contro la parete. Maka esalò un gemito, dibattendosi tra le lacrime.

«Era il tuo ultimo trucco, strega» disse il padre di Soul, avvolgendole la catena attorno al collo. «Credevi di venire qui, e di terminare il tuo lavoro? Dì la verità, eri venuta a cercarlo, a vedere se era riuscito a ingannarmi, come gli avevi ordinato di fare... ma ti sbagliavi. Lui non mi ha ingannato. E tu pagherai per aver trasformato mio figlio in quell'essere orrendo!»

Maka scosse la testa. Si portò le mani alla gola, cercando di resistere a quella stretta. Ma ormai non aveva più forze. Era la fine.

People are strange, when you're a stranger...

Una chitarra risuonò debolmente nell'atrio, spargendo tutt'attorno le note sottili di una malinconica canzone. La voce di Andrew si levava debole e diafana sopra di essa, reggendosi traballante nell'aria come sull'orlo di un precipizio, intrisa di tutta la tristezza che Maka aveva imparato a conoscere così bene. Improvvisamente, il volto del padre di Soul si fece cereo. Sbarrò gli occhi, puntandoli sui frammenti dello specchio che giacevano a terra, accanto alla porta; e lasciò la catena. Con un sospiro, Maka chiuse gli occhi, tornando a respirare.

«Non può essere...»

Il padre di Soul si avvicinò a ciò che restava dello specchio, chinandosi tremante a guardarlo. Il volto di Andrew si rifletteva su entrambi i frammenti, splendido nella sua sofferenza così ardentemente nascosta. Soul, al suo fianco, lo ascoltava rapito.

«Che trucco è mai questo» mormorò l'uomo, avvicinando allo specchio le lunghe dita sottili. Cadde in ginocchio, con un gemito strozzato; quindi raccolse i due cocci, mettendosi a fissare con gli occhi sbarrati i ricordi che Maka aveva raccolto.

In silenzio, Maka si alzò sulle ginocchia, massaggiandosi la gola. Ancora scossa, alzò gli occhi sul padre di Soul, ormai perso nel riflesso di quelle immagini che rievocavano alla sua memoria momenti così dolorosamente dimenticati. Quando anche l'ultimo ricordo contenuto nello specchio svanì, lui alzò il volto smarrito su di lei, gli occhi sbarrati come se nemmeno la vedesse veramente.

«Cosa significa?» mormorò.

Maka si alzò. Vincendo le sue emozioni si avvicinò a lui e gli si chinò davanti. Posò le mani sulle sue, prendendogli dolcemente il frammento.

«È il motivo per cui sono qui» disse. «Sono i ricordi che Soul ha lasciato in questa casa. Sono venuta per raccoglierli».

Lui la guardò socchiudendo gli occhi, come se non capisse nulla di quanto lei gli stava dicendo.

«Perché?» chiese. Lei sorrise.

«Perché voglio salvarlo».

«Salvarlo?»

Il padre di Soul abbassò gli occhi confuso, scuotendo la testa.

«Io... non avevo capito... non sapevo che tu... tu volevi davvero...»

Maka infilò i due frammenti nella borsa, fissandoli preoccupata. Ormai, il loro potere era agli sgoccioli. Quando alzò di nuovo gli occhi, vide stupefatta il padre di Soul, chino su se stesso. Piangeva in silenzio, scosso da violenti singhiozzi.

«Signore...»

Maka avvicinò una mano alla spalla dell'uomo. Quando lui le si aggrappò disperatamente, lei si fece indietro, con un sussulto, credendo che volesse farle del male. Ma non era così. Di fronte al suo improvviso smarrimento, Maka si addolcì, fissandolo triste. In realtà, quello era solamente un uomo solo, e dal disperato bisogno di comprensione e conforto. Qualcosa che in tutti quegli anni, forse, non aveva mai avuto.

«Ora devo andare» mormorò lei, dopo qualche istante. L'uomo alzò la testa, a guardarla. Maka sorrise, vedendo la sua immagine riflettersi vagamente nei suoi occhi spenti e grigi. Per quanto la intenerisse, non poteva far nulla per lui, in quel momento. Aveva troppa fretta.

Fece per alzarsi, ma lui la trattenne, fissandola intensamente. Maka provò di nuovo paura.

«Se davvero vuoi salvarlo, ci sono cose che devi sapere» fece lui, teso, sorprendendola. «Cose che solo io posso dirti. Ma devi promettermi che farai tutto quello che è in tuo potere, per salvare mio figlio».

Maka aggrondò. Serrò le labbra, lanciando un'occhiata alla borsetta.

«Sì» rispose alla fine, decisa. «Lo farò».

Lui la fissò a lungo. Quindi annuì.

«Seguimi» disse, alzandosi. «Vieni con me. Ti spiegherò ogni cosa».

 

 

*

 

 

Black Star socchiuse gli occhi. Alle sue spalle, la via era chiusa. Ai lati, le mura delle case di Death City impedivano qualsiasi via di fuga. Era bloccato. Tutto ciò che poteva fare, era combattere.

Fantastico!

«Ti diverti, Black Star?» sibilò il Kishin, di fronte al ghigno allegro del ragazzo. Black Star gli rivolse uno sguardo spavaldo.

«Mi divertirò di più quando ti avrò sventrato, schifoso ammasso di fanghiglia puzzolente...»

«Black Star! Tsubaki!»

Kid, Liz e Patty si materializzarono improvvisamente alle spalle dei Kishin. Il mostro si volse, tranquillo, lasciando i cinque compagni a fronteggiarsi tra loro. Black Star sorrise, divertito.

«Ah, siete qui. Fossi stato in voi, avrei aspettato ancora un po'».

Kid sospirò sollevato, realizzando che il suo amico doveva stare bene se aveva ancora l'energia per fare del sarcasmo. Quindi si volse verso il Kishin, lanciandogli un'occhiata cupa.

«Liz, Patty... trasformazione» mormorò. Le due ragazze annuirono e con un lampo abbandonarono i loro corpi per trasformarsi in due scintillanti pistole automatiche. Kid le puntò dritte al corpo informe del Kishin, che in tutta risposta lo fissò ridacchiando sommessamente.

«Che diavolo ci trovi di così divertente?» ringhiò Kid. Il Kishin emise un verso simile a un gorgoglio.

«Nulla» fece. «Mi piacerebbe davvero restare a giocare con voi, ma purtroppo ho ancora molte cose da fare... e una di queste è uccidere tuo padre, Kid».

Kid impallidì. Una paura improvvisa si insinuò in lui, lasciandolo per qualche istante del tutto in confusione.

«Non ascoltarlo, Kid!» gli gridò Black Star, vedendolo in preda a un'improvvisa incertezza. «Non lasciare che ti manipoli attraverso la paura! Fa così per indebolirci!»

Kid aggrottò, ritornando improvvisamente in sé e aggrappandosi selvaggiamente alle sue Buki.

«Tu non farai nulla, mostro» sibilò, premendo il grilletto. «Perché io non te lo permetterò».

Una pioggia di colpi tempestò il corpo del Kishin, che traballò indietreggiando, afflosciandosi in una risata selvaggia contro la parete. Quando Kid abbassò le armi, ancora fumanti, il Kishin stava ancora ridendo, seppur debolmente. Il suo corpo deforme e martoriato era crivellato di colpi e grondava di denso liquido scuro, che fuoriuscendo dalle ferite andava ad inzuppare il terreno ai suoi piedi. Kid fissava quello spettacolo del tutto schifato e per nulla colpito.

«Finiamolo» fece, lanciando a Black Star un cenno d'intesa. Il ragazzo annuì e fece per scagliarsi contro il mostro. Ma del tutto all'improvviso il Kishin si disciolse, trasformandosi in una massa gelatinosa e scura, che ribolliva gorgogliando davanti a loro.

«Ehi, ma che accidenti...»

«Dove diavolo è andato?» mormorò Kid, guardandosi intorno. Il Kishin era come sparito.

«Possibile che l'abbiamo già ucciso?» suggerì Black Star, perplesso, chinandosi a guardare la pozza di gelatina scura con una smorfia di disgusto. Kid scrollò le spalle.

«Io non...»

«Kid, guarda! Lassù!»

La voce di Liz costrinse Kid e Black Star a voltarsi. Un improvviso muro d'ombra aveva cominciato a scalare gli edifici di Death City, ribollendo sulle pareti più lontane mentre si elevava oltre i tetti, fino al cielo. Con sgomento, Kid osservò quelle ombre disgustose spingersi fin sulla torre più alta del castello, avvolgendola stretta come una serpe.

«Ma cosa...»

Black Star si voltò e il suo volto sbiancò all'improvviso. Uno strano groviglio oscuro prese ad agitarsi convulsamente sul fondo del vicolo. Qualcosa si mosse verso di loro, lenta ma inesorabile. Man mano che avanzava, Black Star capì di cosa si trattava.

Ombre. Un'infinità di ombre che ricoprivano i muri, l'asfalto, ogni cosa che incontravano. Quando emersero dal vicolo, si levarono alte di fronte a loro, fondendosi in un unico corpo dalle estremità guizzanti, simile a un'immensa idra dalle tante teste.

«Cazzo!» gridò Black Star. «E questo che diavolo è, adesso?»

«Lassù c'è mio figlio!» urlò Kid, indicando la torre del castello. «Devo andare a prenderlo!»

Black Star si voltò appena in tempo per vedere Kid che sfrecciava verso la fortezza di Shinigami. Lanciò alle ombre un ultimo sguardo, poi, sebbene a malincuore, abbandonò la battaglia e mosse dietro al suo amico, seguendolo veloce su per la collina.

Era cominciata, pensò Black Star, con una smorfia, alzando gli occhi sulla torre ormai completamente avvinta dall'ombra. La vera battaglia aveva appena avuto inizio.

 



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Capitolo 19
*** Dolore, disperazione, speranza: sarà l'amore a guidarci? ***


«Vieni, entra».

Maka si sporse dentro la stanza, lanciando qualche rapida occhiata in giro. Il padre di Soul le teneva aperta la porta, e la guardò sorridendo.

«Su, coraggio. Non ti voglio fare del male»

Lei non sembrava molto convinta, ma alla fine cedette. Non appena mise piede nella stanza, fu subito colpita dall'enorme quantità di fotografie alle pareti.

«Quante foto...» mormorò, specchiandosi nel riflesso di un'immagine che ritraeva il padre di Soul insieme ad altri quattro ragazzi. Erano tutti molto giovani e ridevano, circondati dalla neve e con gli sci ai piedi.

«Prego, siediti».

Maka si volse. Il padre di Soul le stava indicando una poltrona, poco distante. Lei annuì, sorridendo. Quindi si sedette, posandosi graziosamente le mani in grembo.

«Vorrei offrirti qualcosa, ma ho solo dello scotch» fece il padre di Soul, prendendo una bottiglia piena di liquido ambrato da una vetrina lì accanto, e fissando la ragazza con fare interrogativo. Maka scosse la testa, con un sorriso timido. L'uomo annuì e si riempì un bicchiere. Lo scotch si riversò nel vetro con un gorgoglio allegro.

«Mi spiace, ma è molto che non ricevo visite» fece lui, riponendo la bottiglia. «Già che ci siamo... so che è tardi per farlo, ma vorrei scusarmi con te. Non avrei dovuto aggredirti in quel modo».

Maka scrollò le spalle.

«Sì, è vero. Ma è passato. Scuse accettate».

L'uomo strinse le labbra, annuendo. Quindi trangugiò quanto restava nel bicchiere, facendo schioccare la lingua contro il palato. Quando ebbe finito di bere, si appoggiò alla parete, tenendo il bicchiere tra le dita, e rigirandoselo davanti agli occhi.

«Perché vuoi salvarlo?» chiese, quasi all'improvviso. Seguiva con gli occhi fissi il raccogliersi di una goccia di scotch sul fondo del bicchiere. Quando si voltò a guardarla, Maka trasalì. Alzando gli occhi sul viso di quell'uomo, vide che la fissava, triste.

«È il mio partner» rispose, in imbarazzo. Lui continuò a guardarla, senza mutare espressione.

«Solo questo?»

«Non basta?»

«Chissà, forse sì».

Maka arrossì, distogliendo lo sguardo. Lui posò il bicchiere.

«Voglio farti sentire una cosa».

Maka inarcò un sopracciglio. L'uomo si avvicinò a un vecchio giradischi, lo stesso davanti a cui lei l'aveva sorpreso quando era entrata per la prima volta nella stanza. Lo vide prendere un disco dalla mensola ed estrarlo con cura dalla custodia in cartone. Quando lo avvicinò al volto, gonfiando leggermente le guance per soffiar via la polvere che si era depositata sui solchi, Maka credette di trovarsi davanti all'ombra di Soul: quando in casa, la sera, lui metteva sempre un disco prima di preparare il tè, che le serviva bollente e accompagnato tutte le volte da un bastoncino di cannella.

Commossa, si mise a fissare in silenzio il profilo di quell'uomo, osservandolo mentre sostituiva il disco a quello che ancora girava sul piatto. Con un gesto delicato, lui sollevò il braccio della puntina e lo posò sul vecchio vinile, che prese improvvisamente a frusciare. Dopo pochi istanti, la morbida voce di Lucienne Delyle prese a intonare Sous les pontes de Paris, avvolgendo entrambi con malinconica tenerezza.

«Conosco questa canzone» fece Maka, rizzando la schiena. «Soul la sentiva spesso. È molto bella... mi piace così tanto...»

«Avresti dovuto sentire come la cantava lei» mormorò con un sorriso il padre di Soul, fissando intensamente il disco che ruotava davanti ai suoi occhi. Maka aggrondò.

«Lei?»

L'uomo sospirò. Allungò una mano e prese una cornice dall'asse che sovrastava il camino. Le lanciò una debole occhiata, quindi la porse a Maka. Quando lei la vide, riconobbe subito nella giovane donna che vi era ritratta la madre di Soul.

«Conobbi Emma quando era molto giovane» raccontò lui. «Ero in missione a Parigi, allora, insieme al mio maestro, Shinigami» disse. E indicò a Maka una foto, appesa alla parte alle sue spalle. Lei non l'aveva ancora notata. Incuriosita, si alzò, avvicinandosi al muro.

«Questo è lei» sussurrò Maka, indicando il ragazzo dai corti capelli neri, sulla destra. «E questo... è il sommo Shinigami?»

Maka fissò incredula il giovane che sorrideva accanto alla donna bellissima che sedeva tra lui e il padre di Soul. Era un giovane molto bello, e dall'aria intelligente. Gli ricordava da vicino Kid.

«È la prima volta che lo vedo senza maschera» ammise, stupita. «Assomiglia così tanto a suo figlio... conosceva anche lui sua moglie?»

L'uomo annuì, avvicinandosi alla fotografia con le mani in tasca. La fissò, sorridendo malinconicamente.

«Era davvero una donna bellissima» confessò Maka. Lui sospirò, stiracchiando le labbra in un sorriso molto simile a una smorfia.

«Lo era davvero. Eravamo tutti innamorati di lei, allora» fece. «Anche Shinigami. Ma alla fine, lei scelse me. E questo è il risultato».

Maka aggrondò.

«Lei non può accollarsi la responsabilità di quello che è successo» commentò. L'uomo rise.

«No?» disse, con ironia. «Lascia che ti racconti come sono andate le cose, allora».

La canzone terminò. Per un istante, nella stanza calò il silenzio, finché le note di La Mer non presero a riversarsi soffici dall'amplificatore.

«La prima volta che la vidi, cantava in un piccolo locale, a Belville» raccontò lui. «Era un posto squallido, buio, che puzzava di fumo. Ma quando lei apparve su quel piccolo palco, dritta e sottile, a fianco del pianoforte, tutto acquistò improvvisamente una luce diversa. Era come se dal suo corpo si sprigionasse pura elettricità... mi attraeva, mi sentivo come se stessi lentamente scivolando verso di lei. Facevo fatica a stare seduto, le mie membra si rifiutavano di obbedirmi. Era come se mi stessi sciogliendo, come se tutto, attorno a me, si stesse sciogliendo... la sedia su cui sedevo, il tavolo... persino Shinigami, al mio fianco... galleggiavo immerso in una coscienza liquida, che al suo centro aveva lei. Lei che mi stava guardando, in quel momento, ma che non mi vedeva veramente. Non come la vedevo io».

Maka annuì. Capiva a cosa si stesse riferendo. Anche lei aveva avuto la stessa sensazione il giorno in cui, poche settimane prima, Soul le era ricomparso davanti dopo anni di assenza. Anche per lei, in quel momento, fu come se tutto, attorno a loro, avesse cessato di avere importanza. Esistevano lei e lui. E nemmeno lo spazio che sorgeva a dividerli, aveva più un senso.

Il padre di Soul alzò gli occhi sulla foto. Sorrise, quindi si voltò, facendo qualche passo lungo la stanza.

«Lei non era una Buki, non era una Shokunin. Nemmeno aveva idea di cosa fosse un Kishin, o un demone... era una ragazza normale, come tante, che cercava di vivere una vita normale. Eppure, per me non assomigliava a nessuna che avessi mai visto. Fu quasi per una forza incontrollabile che mi ritrovai a parlare con lei, seduto ad un tavolo in quello squallido posto. Mi raccontò che il suo sogno era cantare. Adorava la musica. Era giunta a Parigi dopo aver abbandonato il suo paese, nella provincia, proprio perché voleva studiare canto e perché un giorno sperava di poter fare carriera e coronare il suo sogno. Quando la conobbi, aveva più o meno ventidue anni, e io ventisette. Era quanto di più incredibile avessi mai incontrato. Avevo visto di tutto, ormai, nella mia vita; ma davanti a lei, ero come perso».

Maka tacque. Fissò il volto di quella donna, che sorrideva felice attraverso il vetro della cornice. Era così diverso, il suo sorriso, da quello che aveva intravisto nell'ombra del corridoio, in quella foto che la ritraeva insieme al marito e ai figli. Mancava la tristezza che aveva notato allora, insieme a quella sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato, di fuori posto, che le era rimasta come incastonata nel volto, agli angoli della bocca.

«Quando fu il momento per me di ritornare a casa» riprese il padre di Soul, «eravamo già innamorati. Mi chiese di restare, ma io non potevo. Avevo fatto un giuramento a Shinigami, e dovevo pensare all'onore della mia famiglia, alle aspettative di mio padre... le proposi di venire con me, la supplicai. In fondo, pensavo non avesse nulla che la trattenesse a Parigi. Lei accettò; per amore mio, credo. Ma da allora, qualcosa in lei si spense per sempre».

«Perché dovette abbandonare la musica?» chiese Maka. «Ma non avrebbe potuto cantare anche qui?»

Il padre di Soul si zittì, fissando il pavimento ai suoi piedi.

«Certo, che avrebbe potuto farlo. Ma dopo poco, lei rimase incinta di Andrew. Ci sposammo. E per il mio egoismo, io pretesi che lei restasse a casa, ad occuparsi del bambino. Mi dissi che era giusto così; e vedendola accettare quel ruolo con serenità, pensai di non essermi sbagliato. Credevo che fosse d'accordo con me, che condividesse le mie idee. E intanto, continuavo a dirmi che avrebbe potuto benissimo riprendere la sua carriera un giorno, quando Andrew fosse cresciuto. Non so quanto mi ripetei questa frase, e quanto l'abbia ripetuta a lei... forse allo sfinimento. Tanto che, alla fine, me ne convinsi davvero. Lei, d'altra parte, non oppose mai resistenza, non mi diceva mai di no. Tutto quello che io le chiedevo di fare, lei lo accettava. Non so perché lo facesse, come non so perché io fossi così esigente con lei. Inconsapevolmente, la privai di tutto quello che era stata la sua vita fino a quel momento, sostituendola con quanto credevo fosse giusto, piegandola all'immagine che mi ero fatto di lei. Non mi accorsi che proibendole di cantare, di esibirsi, io le stavo lentamente togliendo la vita. Finché...»

Maka trattenne il respiro. «Finché?»

«Quando Andrew morì, in lei qualcosa si ruppe. Fu come se tutto il dolore che aveva tenuto nascosto fino a quel momento avesse all'improvviso rotto gli argini, travolgendo completamente la sua anima. Smise di parlare, e di mangiare. Si lasciò andare, non viveva più. Se non avessi fatto qualcosa, avrebbe certamente rischiato di morire».

Maka abbassò gli occhi, triste, posando sul tavolo il ritratto che ancora teneva tra le mani. Il padre di Soul la guardò di sbieco, drizzando il busto.

«Sai come è morto mio figlio?» disse, con fare duro. «Dal momento che hai visto quei ricordi, dovresti essertene ormai fatta un'idea».

Maka impallidì, sorpresa.

«Io... no» fece, presagendo qualcosa di brutto. «Non lo so».

«Davvero?» lui rise. «Te lo dirò io, allora. Così capirai perché mi senta così. È morto per causa mia. Proprio così. Come con sua madre, io volevo controllare la vita di Andrew, volevo essere io a scegliere cosa fosse meglio per lui. Come un idiota, non riuscivo a vedere al di là del mio egoismo... volevo che diventasse una Death Scythe, come suo padre e suo nonno, come tutti nella mia famiglia. L'idea che potesse inseguire un suo sogno, che potesse avere un suo sogno... non mi sfiorava neppure. Tutto quello che vedevo, in lui, era la mia prosecuzione. Lui doveva essere me, seguire i miei passi, vivere la vita che avevo vissuto io prima di lui. Ma lui, semplicemente, non l'ha accettato».

Maka inorridì. Scosse il capo, lentamente.

«Vuol dire che...»

«Non siamo mai riusciti a capire se la sua morte fosse stata davvero un incidente, ma io sono convinto di no. D'altra parte, la polizia disse di non aver trovato alcun segno di frenata, prima della curva».

«Ma perché?» esalò Maka. «Perché avrebbe dovuto uccidersi? Non poteva semplicemente andarsene?»

«No, non dopo quello che era successo».

Il padre di Soul si morse le labbra. Si avvicinò con la mano al tavolo su cui era poggiato il grammofono polveroso e lo accarezzò con la punta delle dita.

«Andrew non era un ragazzo forte. Certo, per i primi tempi si era preso cura di Soul, quando lui era ancora molto piccolo... Puoi immaginarlo da sola: un bambino albino, con gli occhi rossi... Soul cadeva sempre vittima degli scherzi dei ragazzi più grandi. Andrew lo difendeva ogni volta. Fu così che cominciò a crearsi un legame molto forte tra i due, molto più forte di quanto potessi mai immaginare. Ma man mano che passarono gli anni, i ruoli si invertirono. Andrew, cresceva pieno di dubbi e insicurezze. Si sentiva incompreso e cominciò a vedere nel fratello qualcuno con cui potersi aprire e confidare. Soul, dal canto suo, era il vero carattere forte. La solitudine a cui lo avevano abituato gli scherzi dei compagni, lo aveva resto presto indipendente, anche se forse lo aveva leggermente indurito. Sembrava molto più grande della sua età, e non faceva molto per nasconderlo. Andrew, invece, era di indole completamente diversa, incapace di affrontare la realtà, bisognoso di continue rassicurazioni. Soul lo sapeva, se ne rendeva conto. E cercava in tutti i modi di rendersi invisibile, piegandosi a qualsiasi cosa per attenuare le sfuriate a cui Andrew ci aveva abituato. Era come se volesse fare da cuscinetto, tra noi e lui, mettendosi da parte per permettere ad Andrew di godere di tutte le attenzioni necessarie. In un certo senso, immagino che abbia sofferto molto per questa mancanza di affetto... anche se non l'ha mai fatto vedere».

Maka socchiuse gli occhi. Fissò il padre di Soul con un certo fastidio.

«Mi sta dicendo» fece, secca «che non amavate Soul quanto amavate suo fratello? È così?»

«No... cioè, forse» ammise il padre, scuotendo il capo, confuso. «Non c'è una risposta. Non so perché fosse così, ma Soul... noi lo amavamo in modo diverso. So che può sembrare terribile, ma sono cose che un genitore non riesce a prevedere, né a decidere. L'amore, a volte, è incomprensibile...» lui la guardò. Maka lo fissava torva.

«Tu hai dei figli?» le chiese. Maka annuì.

«Allora sai di che parlo».

«No, che non lo so» disse. «Tutto quello che so, è che Soul era vostro figlio, tanto quanto Andrew».

«Sì, ma Andrew aveva più bisogno di noi» si giustificò l'uomo. «Soul era indipendente. Era più forte. Poteva fare a meno di quelle attenzioni di cui Andrew aveva bisogno, per questo non ci preoccupavamo di lui. So che è sbagliato... ma anche se era più grande, Andrew aveva costantemente bisogno di essere guidato, e incoraggiato. Era troppo sensibile. Speravo che entrando alla Shibusen potesse cambiare, invece... fu peggio».

Maka socchiuse gli occhi. «Perché?» fece. «Cosa accadde?»

«Durante una missione di routine, Andrew semplicemente si bloccò. Per qualche ragione, non riuscì a trasformarsi. Qualcosa, nella sua testa, gli impediva di accettare quello che gli veniva richiesto. Fu sufficiente per mettere in pericolo la sua squadra. La sua Shokunin, intuendo quello che stava per accadere, cercò di metterlo in salvo, rimanendo gravemente ferita. Quando la ricoverarono in ospedale, era già in coma. Andrew non riuscì mai a perdonarsi la cosa. Ne uscì segnato. Fu allora, che decise di andarsene, ma io glielo impedii. Non potevo accettare che gettasse via la sua vita, e tutte le speranze che io e sua madre avevamo riposto in lui. Così come non potevo accettare che gettasse la spugna davanti a uno stupido errore. Ma lui non la pensava come me e dovetti costringerlo. Finché, pochi giorni dopo, la sua Shokunin morì. Fu l'ultima goccia per lui, non resse alla notizia. E così...»

L'uomo tacque, volgendo altrove la testa. Maka schiuse le labbra. Era davvero una storia terribile.

«Da quel giorno, tutto cambiò. Emma cadde nel suo baratro, e io mi resi conto che se volevo salvarla non avrei avuto tempo per curarmi anche di Soul. Sebbene a malincuore, lo mandai alla Shibusen, convinto di fare la cosa migliore per lui».

«Era solo un bambino».

«Forse, ma era grande abbastanza».

«No, non lo era!» gridò Maka, furiosa. «Continua a parlare di lui come di un pacco indesiderato, qualcosa che è capitato e che ha procurato solo fastidio. Ma perché i genitori sono così? Mettono al mondo i figli, e poi pretendono da loro cose assurde... proprio come lei! Ma cosa si aspettava, da un bambino di undici anni? Cosa poteva fare, da solo?»

«Poteva capire, ed essere forte!» esclamò lui, torvo. Maka si infervorò.

«Essere forte?» latrò, fuori di sé. «Ma davvero crede in quello che dice? In quel momento, Soul aveva bisogno di lei più che mai. E tutto quello che lei ha fatto, è stato allontanarlo e farlo sentire sgradito per l'ennesima volta!»

«Tu non capisci!» fece lui, battendo un pugno contro la parete. Maka lo fissò cupa, senza lasciarsi intimidire. «Io non volevo farlo soffrire, ma dovevo fare una scelta. Ero solo! Cosa potevo fare? E comunque... adesso tutto questo non ha più alcuna importanza...»

«Che vuol dire?»

«Tu dici di volerlo salvare» ghignò il padre di Soul. «Ma non puoi farlo. Nessuno può salvarlo. Hai visto anche tu l'essere disgustoso in cui si è trasformato... un Kishin! Ciò che di più malvagio esiste nel mondo, ciò che ho giurato di combattere fino alla morte. Dimmi, come puoi salvarlo? Nessuno può! Quando l'ho visto...»

«Visto?» Maka trasalì. «Soul è venuto qui?»

«Sì, è arrivato all'improvviso qualche settimana fa. Ho capito subito che c'era qualcosa che non andava in lui. Quando ho visto l'aura della sua anima...»

«... lei non ha trovato nulla di meglio da fare che allontanarlo ancora una volta, non è così?»

«Quello non era mio figlio, era un dannato Kishin!» esclamò lui. «Cosa avrei dovuto fare, secondo te? Avrei dovuto ucciderlo, ma non l'ho fatto... non ci sono riuscito. L'ho lasciato andare, cercando di dimenticare ogni cosa di lui. So che è stato l'odio a trasformarlo così, l'odio che ha covato per tutti questi anni nei miei confronti... e questa è la mia punizione, ciò che mi spetta per tutti gli errori che ho commesso...»

«Basta!»

Il padre di Soul fissò stupito Maka, che era scoppiata improvvisamente a piangere.

«È tutto così... così tremendamente ingiusto» singhiozzò lei. «Continua a parlare come se tutto dipendesse da lei, come se lei fosse al centro dell'universo. Ma non capisce? Continua a ripetere cose come mio figlio, la mia vita, la mia famiglia... parla come se tutto le appartenesse, come se tutto ruotasse intorno a lei».

«No, io...»

«Tutto questo tempo, tutti questi anni passati a commiserarsi, e a preoccuparsi di un solo figlio quando l'altro non riusciva nemmeno a vederlo. Era così occupato a prendersi cura di Andrew, che ha lasciato che Soul crescesse da solo, senza sapere mai nulla di lui e di quello che provasse».

«Ascoltami...» le disse lui, posandole una mano sulla spalla. Maka si allontanò, fronteggiandolo dura.

«Basta!» gridò, con gli occhi che le brillavano. «Non provi a giustificarsi, non osi! Parla di odio, ma è evidente che non sa niente di Soul! Soul non sa odiare, non può! Tutto quello che fa, lo fa seguendo il cuore... è questo quello che ho imparato da lui» esclamò Maka, commossa. «Sì, è vero... è burbero e scontroso, fa fatica a esprimere i suoi sentimenti e a volte è un vero stupido, ma è il ragazzo più buono che conosca; e se lei parla di lui così, vuol dire che non lo conosce per niente!»

Il padre di Soul tacque, distogliendo lo sguardo.

«Sa perché sono qui?» continuò Maka. «Perché lui ha bisogno di me. Perché quello stupido idiota ancora una volta ha deciso di essere forte, proprio come voleva lei. Ha voluto proteggermi, perché è questo quello che volevate da lui, vero? Che fosse sempre forte, che non vi stesse tra i piedi mentre voi eravate occupati a proteggere e coccolare suo fratello... beh, voglio dirle una cosa. Lui è forte. E sa perché lo so? Perché sono io la causa di tutto quello che gli è successo. Se non fosse stato per me, lui non sarebbe nella condizione in cui è adesso, non sarebbe sul punto di diventare un Kishin. E nonostante tutto, lui cerca ancora di proteggermi e di resistere fino alla fine per me. Solo per me. Che ne dice?» ringhiò. «È abbastanza forte, secondo lei? Si sente soddisfatto?»

«Colpa tua?» mormorò il padre di Soul. «Cosa vuol dire, non capisco...»

Maka sospirò. Si terse le lacrime dagli occhi, sfregandoseli decisa con il dorso della mano.

«Anni fa, durante un combattimento, io e Soul affrontammo qualcuno che era stato infettato dal sangue nero, sangue demoniaco che una strega, Medusa, aveva creato per risvegliare il Kishin Asura».

«Asura...» Il padre di Soul sorrise inaspettatamente, scuotendo la testa.

«Durante quel combattimento, per qualche ragione, mi bloccai. Non riuscivo più a combattere. La mia paura mi impediva di mantenere il controllo sulle mie emozioni e il mio corpo si rifiutava di obbedire ai miei comandi. Venni disarmata. Stavo per essere uccisa, quando Soul si levò a proteggermi. Quella volta, rischiò quasi di morire... ma quel che è peggio è che venne infettato dal sangue nero».

Il padre di Soul sospirò, stringendo le labbra.

«Credo di capire» fece. Maka si volse, imbarazzata.

«Da allora, ogni volta che combattevamo, il sangue nero rischiava di impossessarsi sia di me che di Soul. E infatti anche io, dopo poco, mi accorsi di essere stata infettata. Soul mi aveva trasmesso il sangue nero in qualche modo, probabilmente attraverso la risonanza dell'anima. Ma a differenza di lui, io sembravo essere in grado di controllarlo, grazie alla lunghezza d'onda Anti Demone che ho ereditato da mia madre. Ma per Soul era diverso... rischiò più volte di cadere vittima della pazzia, finché insieme raggiungemmo il baratro; e in qualche modo, facendoci forza l'un l'altra, ne uscimmo. Credevo che non avremmo mai più avuto problemi con il sangue nero, in seguito: avevamo battuto Medusa e Asura, avevamo vinto le nostre paure... ma evidentemente, per qualche ragione che ancora non riesco a capire, non era così. Ben presto, Soul si accorse che qualcosa di quella follia continuava a sopravvivere, dentro di lui; qualcosa di cupo, legato in modo profondo alle sue paure. Si rese conto che quando combattevamo, il sangue nero continuava a scorrere in noi, nascosto, inducendoci lentamente alla pazzia. Io cominciai a combattere in modo inconscio. Mi capitava sempre più spesso di perdere il controllo, di agire senza alcuna consapevolezza. Soul ne fu spaventato e provò a parlarmene, ma non lo ascoltai. Tutto quello che volevo, era renderlo una Death Scythe e raggiungere il mio obiettivo: essere più forte di mia madre, e surclassare mio padre. Anche io, come lei, non riuscivo a vedere Soul per quello che era. Per me non era che un mezzo, un oggetto, un'arma che agitavo nell'aria combattendo per la mia vanagloria. Fu per proteggermi, per impedire che cadessi vittima della pazzia, che Soul decise di assorbire tutto il veleno che il sangue nero riversava in noi durante i combattimenti. Lo fece per anni, resistendo come poté, in silenzio... finché non fu più in grado di farlo e non gli restò che fuggire. Fu l'ultima cosa che fece per me, l'ultimo gesto di una Buki per il suo Maestro».

«Quindi, ciò che è successo... quello che ho visto, quando è venuto qui...»

Maka sorrise, triste. Gli occhi le si velarono nuovamente.

«Non fu Soul a volerlo» mormorò. «Se vuole prendersela con qualcuno, se la prenda con me. È solo colpa mia, se lui è così. Anche se non so perché» confessò. «Credevo che avessimo battuto quel dannato demone... io ho visto Soul mangiarlo, accettarlo come parte di sé...»

Il padre di Soul guardò Maka intensamente. Quindi sorrise, intenerito.

«E tu vuoi salvare Soul perché gli sei grata?»

«No» fece lei, riscuotendosi all'improvviso. «Voglio salvarlo perché lo amo».

«Lo ami?»

Il padre di Soul rise, scuotendo la testa. «Davvero lo ami?»

Maka annuì, arrossendo.

«Sai, questo spiega molte cose. Per esempio, come mai ti sei trasformata proprio in una falce».

«Come?»

«Sei figlia di una Buki, vero?» fece lui. «Chi è? Tua madre o tuo padre?»

«Mio padre» ammise lei, con leggero fastidio. «Spirit Albarn. È la Death Scythe di Shinigami».

«Spirit, certo» fece lui. «Lo conosco. Ha preso il mio posto. Era l'arma di Stein, prima di essere quella di Kami».

«Lei conosce mia madre?» chiese Maka, stupita.

«Molto bene» fece lui. «Eravamo amici. Una donna eccezionale, che devo dire ti somiglia molto».

Maka sorrise. Quello era davvero un bel complimento, per lei.

«Quando ho visto quella falce» fece lui, accennando al suo braccio «ho capito che c'era qualcosa di speciale che ti legava a Soul. Ho creduto che tu fossi una strega, che lo aveva dominato spingendolo a trasformarsi in Kishin... ma mi sbagliavo, ancora una volta. È l'amore che ti guida. Lo stesso amore che ha fatto sì che la tua anima scegliesse una falce, per trasformarsi; magari la stessa falce in cui si trasforma tuo padre» disse, ammiccandole. «Quei riflessi rossi mi ricordano tanto gli occhi Soul, ma il metallo azzurro...»

Maka non disse nulla. Si limitò a impallidire.

«Qualcosa mi dice che anche tu non hai avuto un'infanzia felice».

«No, è vero» disse lei. «Ma forse, dopo tanto tempo e dopo aver parlato con lei, ho capito una cosa».

«Ah, sì?» fece lui, curioso. «E cosa?»

«Che è inutile restare attaccati al passato. Possiamo scegliere se essere infelici, continuando a vivere nel ricordo di ciò che non abbiamo avuto. O possiamo accettare le cose come stanno, e cercare di prendere il meglio da quello che abbiamo. Io ho odiato mio padre per anni. Adesso non voglio più farlo. So che è un pessimo padre, ma è quello che ho, e fa di tutto per dimostrarmi che mi vuole bene. Fa quello che può, certo, e non è il massimo. Ma ho deciso che partirò da qui. Non dimenticherò mai quello che ha fatto, ma smetterò di pensare esclusivamente a quello. Mio padre non è solo colui che mi ha abbandonato da piccola. È anche quello che mi ha aiutato quando avevo davvero bisogno. Così come Soul... sarà pure un Kishin, ma è l'uomo che è sempre stato al mio fianco, e che mi ha fatto dimenticare la paura di innamorarmi».

«Quindi è così...» fece il padre di Soul. «Immagino che tu abbia ragione».

Maka sorrise. Solo allora, in modo del tutto inaspettato, si ricordò di una cosa.

«Ah, già!» esclamò, curiosa. «Ma Soul cosa voleva da lei, esattamente? Perché è venuto qui?»

Il padre di Soul aggrondò. «Non so» disse, facendosi pensoso. «Voleva che gli custodissi qualcosa... una chiave, credo. Diceva che era molto importante, e che se gli fosse successo qualcosa avrei dovuto consegnarla a qualcuno...»

Maka trasalì, improvvisamente.

«Una chiave?» mormorò, frugando nella borsetta in preda a una crescente agitazione. Di colpo, le sue dita si strinsero attorno alla piccola chiave di ottone che aveva trovato quando Soul era sparito. La estrasse, tenendola sul palmo e mostrandola tremante a quell'uomo, davanti a sé.

«Questa?» domandò, in preda all'ansia. «È questa la chiave?»

L'uomo la guardò, socchiudendo gli occhi.

«Sì, mi pare sia proprio quella» disse.

«Sa cosa apre? La prego, è importante!»

«No, mi dispiace» fece lui, scuotendo la testa. «Di sicuro nulla che sia in questa casa, non l'ho mai vista prima».

Maka si afflosciò come un cencio.

«Credevo...»

«Potresti usare lo specchio» suggerì l'uomo. «Se è in grado di leggere i ricordi, forse saprà leggere quelli contenuti nella chiave...»

«Giusto!»

Maka frugò come un'ossessa nella borsetta, estraendo un frammento di specchio. Quando lo guardò gli sembrò più opaco del solito.

«Sta perdendo il suo potere» mormorò, tesa. «Devo fare in fretta».

Con ansia crescente, Maka appoggiò la chiave allo specchio. Dopo pochi istanti, una debole immagine dai contorni sbiaditi si materializzò nel centro del frammento, brillando di una pallida luce. L'immagine era sfocata, ma si riusciva in qualche modo a intravedere una stanza, dalla tappezzeria chiara e dai molti quadri appesi alle pareti.

«Io ho già visto questo posto...» mormorò Maka, perplessa. «Ma certo! È alla Shibusen» esclamò. «È da qualche parte alla Shibusen, ne sono sicura».

«Forse Soul custodisce qualcosa, in quella stanza» fece l'uomo. «Magari è per questo che voleva proteggere la chiave».

«Devo tornare alla Shibusen, subito!» fece lei, già pronta a lanciarsi fuori dalla porta. L'uomo la fermò per un braccio. Maka si voltò, fissandolo sorpresa.

«Aspetta, ti accompagno io» le disse lui. «In macchina faremo prima».

Maka aggrondò.

«Viene anche lei?»

«Mio figlio ha bisogno di me» fece il padre di Soul, con un sorriso. «Hai ragione tu. Stavolta, non mi tirerò indietro. Ti aiuterò, perché rivoglio indietro mio figlio, costi quel che costi».

Maka sorrise. Si voltò a guardare quell'uomo, stringendogli forte la mano. Quindi annuì.

«Coraggio, allora» disse. «Se vogliamo salvarlo, dobbiamo muoverci. Non abbiamo più molto tempo».

 

 

 

 

(Richiesta di aiuto a tutti i lettori! So che nel manga, Maka si dice affezionata a una canzone, dal titolo «Pon Pon Song». Qualcuno sa dirmi se nel fumetto compare il testo di questa canzone o se viene semplicemente citato il titolo? Altra cosa: nel manga, Soul diventa una Death Scythe? Ringrazio tutti quelli che mi forniranno suggerimenti in proposito. È importante, perché vorrei evitare di scrivere inesattezze!

Grazie a tutti!)



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Capitolo 20
*** Viaggio e ritorno: per noi, una nuova consapevolezza? ***


L'oscurità sembrava essersi impadronita della Shibusen. Una sottile patina di fanghiglia grigiastra trasudava gocciolante dalle pareti e i lustri pavimenti di marmo chiaro, sommersi dal fango che traboccava fin dal soffitto, avevano ormai perso tutta la loro lucentezza, cedendo il posto a una palude lugubre e puzzolente.

Kid avanzava come un pazzo lungo quel viscido e disgustoso budello, pulendosi il volto dagli schizzi che i suoi passi frettolosi gli sollevavano intorno. Con gli occhi velati da un'angoscia sempre crescente, scansava le ombre che gli si paravano davanti senza guardarle, senza dedicare loro un'occhiata in più del necessario, prima di prenderle di mira e fare fuoco; con la coda dell'occhio le vedeva scomparire, dissolversi alle sue spalle sotto i suoi colpi precisi, mentre lui correva ancora di più, ancora più forte di prima, con la disperazione alle calcagna e il cuore che gli mordeva in petto, ormai gonfio di angoscia davanti allo sciame di corpi caduti e riversi al suolo, le bocche vuote e spalancate in quelle grida di muto stupore che nessuno avrebbe mai più ascoltato, e che forse avrebbero continuato a impregnare le mura della Shibusen per chissà quanti anni a venire. Il triste ricordo di qualcosa che era stato permesso accadesse. Qualcosa che nessuno, purtroppo, avrebbe mai dimenticato.

Daniel...

L'unico pensiero, tutto ciò che ancora gli muoveva le gambe era suo figlio. Il suo bambino, che si trovava da qualche parte in quel posto di merda, lontano da lui. Cosa avrebbe fatto per poter passare attraverso quei muri, in un balzo, e raggiungerlo...

Ma non poteva fare nulla, se non continuare a correre, e sperare. Chiudere gli occhi davanti al volto decomposto dei suoi compagni uccisi, là dove ancora si scorgevano i segni di quella paura che precede la morte. E, in qualche modo, andare avanti.

Ancora un passo, e poi uno. Finché...

Daniel... resisti, per l'amor di dio!

«Kid!»

Con uno slancio improvviso, Black Star afferrò Kid per il braccio, costringendolo a fermarsi e voltarsi. Sorpreso, Kid alzò le due Thompson contro di lui, ansante, fissando sbigottito il volto pallido che aveva di fronte e che non riconosceva, ma che lentamente stava riacquistando ai suoi occhi i tratti decisi di Black Star.

«Calmati, sono io» fece Black Star, senza scomporsi. Kid sbatté le palpebre, abbassando le due Buki, smarrito.

«Scusa» fece, scuotendo la testa. «Avevo altri pensieri».

«Guarda».

Kid aguzzò gli occhi. Nell'ombra, poco lontano da loro, qualcosa si muoveva. Una persona, forse. Qualcuno ancora vivo.

«Tu» disse Kid, avvicinandosi con cautela, le due pistole puntate contro la tenebra che avvolgeva ogni cosa. «Mostrati».

Il cuore batteva forte. Ci fu un attimo di silenzio, in cui lo spazio sembrò dilatarsi, per poi restringersi improvvisamente attorno a loro. Quindi, il volto di Kim Diehl emerse dall'ombra.

«Kid...» mormorò, «aiuto».

Kim tese una mano, che emerse dalla fanghiglia come un lungo bastone avvizzito. Il suo corpo era interamente ricoperto da quella schifezza grigia, che la invischiava come fosse petrolio grezzo. La ragazza cercava disperatamente di sollevarsi, gli occhi ricolmi di lacrime e di spavento; ma ogni volta che provava a muoversi, quella melassa densa la trascinava a terra, finché lei non si abbatté esausta contro la parete, tossendo, con il fango che le colava dalle labbra rosee, inzuppandole la

t-shirt.

«Come ti senti?» mormorò Kid, aiutandola a liberarsi. «Sei ferita?»

Kim lo fissò vacuamente, prima di scoppiare in singhiozzi.

«Ho avuto... così paura...» esalò, «tutti... sembravano tutti come impazziti...»

Kid e Black Star si guardarono.

«Impazziti?»

«Eravamo di guardia» cercò di spiegare Kim, tossendo e sputando altro fango. «Io e Ox. Avevamo disposto la squadra, credevamo di poter resistere a lungo. Era tutto perfetto, non c'erano errori, lo sai come siamo, noi... Ox, lui... lui fa sempre tutto con ordine, io...»

Kim fissò Kid negli occhi, rimettendosi a piangere. Lui le scostò un ciuffo di capelli che le stava appiccicato alla fronte.

«Non è colpa tua, né degli altri» disse. «Dimmi che è successo».

«Quella cosa... è arrivata» mormorò Kim. «All'improvviso, ce la siamo trovata davanti. Non sapevamo cosa fosse, era... era come fango, ma era vivo. Si spalmava lungo le pareti, ci scorreva tra le gambe, ci colava addosso dall'alto. Era ovunque. Prima ancora che riuscissimo a capire cosa stava succedendo, noi...»

Kim fece una pausa. I suoi occhi si spensero e si persero a fissare chissà quale immagine nel vuoto. Kid strinse le labbra, e la scosse.

«Cosa? Parla!»

«Io non lo so...» balbettò lei, chiudendo gli occhi. Scosse la testa, sempre più forte, finché «Non lo so!» gridò, strappandosi i capelli. «Non riesco a ricordarmi nulla» fece, con le lacrime agli occhi. «Ricordo solo che era come se quella roba ti strisciasse dentro, come se riuscisse in qualche modo a passarti attraverso la pelle. Era fredda, e molle... e quando la sentivi, era come se tutto, attorno a te, fosse diventato improvvisamente privo di significato... niente aveva più importanza. Tutto era assurdo, e... allora... avevi paura...»

«Cosa è successo agli altri?» domandò Black Star. «Non è possibile che in così tanti...»

«Hanno cominciato a combattere tra loro» fece Kim, spaesata. Kid strabuzzò gli occhi, rivolgendo poi un'occhiata a Black Star.

«Che diavolo vuoi dire, con combattere tra loro?» fece lui, torvo. «Vedi di spiegarti».

«Erano come impazziti... le Buki, gli Shokunin... combattevano l'uno contro l'altro, rinfacciandosi cose assurde. Tutto era pieno di grida, c'era chi urlava, chi piangeva, chi voleva fuggire... nessuno rispettava più gli ordini, nessuno restava al suo posto. E intanto quella cosa era lì, nascosta sotto il fango, che ci guardava. Mentre lottavo, mentre sentivo la paura crescere dentro di me, potevo sentirla ridere. Rideva di noi... rideva... di me...»

«Vuoi dire» fece Black Star, scuro «che quegli idioti si sono uccisi da soli?»

«Black Star...» sibilò Kid. Kim lo fissò in lacrime.

«Io non volevo... ho cercato di spiegare che non aveva senso... ma loro gridavano, erano furiosi... volevano fuggire, volevano ribellarsi. Le Buki cominciarono a dire che la Shibusen le aveva solo sfruttate, gli Shokunin rispondevano urlando degli ordini... Ox cercò di prendere in mano la situazione, ma rischiò di venire massacrato. Ci rifugiammo qui, sentivamo la battaglia, e le grida. Io stringevo Jacqueline, ma non osavo combattere, perché avevo paura. Credevo che se avessi osato sollevarla, lei mi si sarebbe rivoltata contro. Sentivo la sua rabbia, percepivo la sua paura... volevo tranquillizzarla, ma... non ce la facevo... era come se lei provasse un'avversione profonda, verso di me».

«Dov'è lei, ora?» chiese Kid. «E Ox?»

«Non lo so» pianse Kim. «Quando mi sono rifugiata qui, Ox se ne è andato per cercare rinforzi. Non è più tornato. Jacqueline è qui, da qualche parte» disse, lanciando al fango un'occhiata disgustata «ho preferito lasciarla, ma non so dove... e adesso ho paura a cercarla».

«Lei è la tua Buki» ringhiò Black Star. «Devi trovarla per forza. O non sei degna di essere chiamata una Shokunin».

«Ma io...»

«Trovala!»

«Black Star!»

Black Star spostò gli occhi sul volto serio di Kid. Quindi si calmò, annuì con la testa e si allontanò di un passo.

«Ascolta, Kim» fece Kid, «sto andando a cercare Daniel. Ti porterei con me, ma voglio essere onesto: mi rallenteresti. E io voglio assolutamente salvare mio figlio. Ti lascerò con Black Star» disse, rivolgendo al ragazzo un cenno di intesa. «Insieme, cercate di raggiungere lo studio di mio padre. Lì troverete tutti gli altri e...»

Kim alzò gli occhi. Quindi scosse la testa.

«No, io resterò qui» fece. «Voi andate pure».

«Cosa?»

Kid e Black Star si guardarono, stupiti.

«Kim, non è il momento di fare la stupida» fece Kid, torvo. «Se resti qui, potresti anche morire. Queste ombre...»

«No, Black Star ha ragione» fece lei, decisa, tirando su con il naso. «Devo ritrovare Jacqueline. E poi, se Ox dovesse tornare indietro e non trovarmi, chissà cosa penserebbe. Mi andrebbe sicuramente a cercare, e rischierebbe di morire per colpa mia. E io non voglio che quello scemo muoia. Gli ho già reso la vita un inferno, fin'ora, perciò basta. Ma voi andate, io vi raggiungerò».

Kid strinse le labbra. «Sei sicura?» fece. Lei annuì, sorridendo.

«Sì» disse. «E se doveste incontrare Ox, ditegli che sto bene, e che non si preoccupi. Ci rivedremo quando sarà tutto finito».

«Lo faremo» le assicurò Black Star, con un sorriso. Quindi, accennando al fango e sollevando Tsubaki in segno di saluto, «buona fortuna» mormorò, prima di allontanarsi insieme a Kid.

 

 

*

 

 

«Eccolo, è lì».

Maka non attese nemmeno che la macchina fosse ferma. Aprì la portiera e si slanciò fuori, mettendosi a correre come una pazza lungo la salita che conduceva alla Shibusen. Il padre di Soul, alle sue spalle, la inseguiva velocemente.

«Non possiamo passare da qui, è tutto bloccato!» gridò, da un punto imprecisato alle sue spalle. «Vieni, facciamo il giro».

Maka alzò gli occhi. L'intero castello sembrava avvolto da una spirale di tenebra. Era incredibile come tutta quella massa minacciosa e scura si scontrasse contro il sole che aveva fatto capolino tra le nubi, mettendosi a brillare alto nel cielo. In quello strano spettacolo, però, non c'era alcuna luce, nulla di nulla. Era come se quella notte densa, che si spalmava su tutto, avesse assorbito ogni energia, ogni luminosità, facendo apparire persino il sole come una sterile palla di vetro che risplende di una luce non sua.

Il pensiero di Maka andò al piccolo Daniel. Sapeva che si trovava nel castello, ma la sua speranza era Kid. Era certa che lui avrebbe fatto di tutto per mettere in salvo il loro bambino. Di Kid, poteva assolutamente fidarsi.

«Presto!»

Aggirarono le mura, che brulicavano di ombre inquiete e sinistre. Maka schivò l'attacco di qualche lingua d'ombra, che guizzò nell'aria verso di lei, pronta a stringerla come in un laccio. Con un movimento preciso del corpo la ragazza tranciò l'ombra in due, facendo risplendere alla luce la lama sottile ed elegante che le spuntava dal braccio, senza mai fermare la sua corsa.

«Ci sai fare» le disse il padre di Soul, lanciandole un sorriso. «Ecco, ci siamo. Dobbiamo salire lassù».

Maka raggiunse i gradoni di pietra che conducevano sopra le mura. Il padre di Soul si fermò accanto alla parete, aiutandola a salire. Quando Maka posò un piede sulle sue mani, lui la issò, finché lei non riuscì a ergersi completamente. Quindi si sporse, e gli tese la mano.

«Andiamo» fece lui con un sospiro, non appena si fu issato al suo fianco. «Ricordo che c'è una grata, poco più avanti, che serve come sfiatatoio per le segrete. Dovremo calarci da lì».

Maka annuì. Insieme correvano lungo le mura, sfilando accanto al precipizio che si apriva alla loro destra. Con il cuore che le batteva come impazzito, Maka lanciò allo strapiombo una timida occhiata, quasi rischiando di cadere. Non aveva mai sofferto di vertigini, ma quell'altezza la spaventava. O forse era qualcos'altro a spaventarla. L'idea di quello che avrebbe potuto trovare una volta all'interno della Shibusen. O l'idea di essere assolutamente incapace di aiutare Soul, nel momento stesso in cui avrebbe dovuto farlo sul serio.

Il padre di Soul la fermò, bruscamente, prendendola tra le braccia. Trasognata, lei alzò gli occhi su di lui.

«Ci siamo» fece lui, sorridendo. Maka aggrondò.

«Dove?» disse. «Non vedo nulla...»

«Ci sei sopra» le rispose lui, con un cenno. Maka abbassò gli occhi. Stava pestando una piccola grata di metallo, da cui fuoriusciva una debole corrente fredda, che puzzava di umido e muffa. Maka si chinò, riparandosi gli occhi dal sole.

«Sembra molto fonda» fece, come faremo a scendere?»

«Scenderai tu» le disse il padre di Soul, che stava ancora riprendendo fiato. «Ti calerò io, usando questo».

Con un guizzo, il braccio del padre di Soul si trasformò in una Kama, la cui lunga catena d'argento ricadde al suolo con un tintinnio secco. Maka osservò la catena risplendere alla luce del sole.

«Dice sul serio?» fece «perché io...»

«Una volta giù, dovrai risalire fino all'atrio. Sono quattro piani di scale, ed è molto buio. Non so cosa possa nascondersi là sotto, ma visto che qui tutto è caduto preda della tenebra...» lui ammiccò, stringendo le labbra. «Credo tu possa immaginare quello che ti attende».

Maka annuì. Lanciò un'occhiata verso il condotto, là dove la luce veniva inghiottita dal buio.

«Sono pronta» disse. E fece per scalzare la grata. Il padre di Soul la prese per un polso, costringendola ad alzare gli occhi.

«Voglio dirti una cosa» fece. «Ci ho pensato su, dopo quello che ho visto in quello specchio, e quello che mi hai raccontato. Credo anche io che non sia Soul, il Kishin. Credo che tu abbia ragione, che sia qualcos'altro, qualcosa che ha dentro e che lo manovra grazie a qualche tipo di ricatto» disse. Maka annuì. «Ma non penso sarà facile liberarlo. Se è davvero come dici, quella cosa ha per forza legato la sua anima a quella di Soul. Non è escluso che l'anima di Soul sia parte di quella cosa, o viceversa... quando ho visto quello che Andrew ha fatto a Soul, prima di volersene andare... lì ho capito. Quel demone di cui parlavi, è stato lui a metterlo dentro Soul. È attraverso la risonanza che in quel momento Andrew aveva creato con Soul, che parte dell'anima ferita di Andrew si è riversata in lui... forse perché era troppo piccolo, o forse perché soffriva lui stesso... forse anche per colpa mia, quella tristezza che aveva segnato ormai irrimediabilmente Andrew rifluì in Soul. Per questo...»

«Per questo non siamo mai riusciti davvero a sconfiggere quel demone» continuò Maka, improvvisamente accesa da una nuova consapevolezza. «Perché...»

«Perché era parte di Soul, solo che lui non l'ha mai saputo, perché ha sempre cercato di mettere a tacere i propri sentimenti. Ma quando ha avuto paura per te, quando ha creduto di poterti perdere, il demone si è risvegliato. Il sangue nero ha fatto il resto... e anche se alla fine Soul ha creduto di poter accettare questa parte di sé...»

«...in realtà, siccome io ho continuato a spingere entrambi sempre più al limite, lui ha avuto di nuovo paura per me...» mormorò Maka «ma...»

«La verità, è che quella cosa che Soul ha dentro, si è trasmessa a te perché anche tu, in qualche modo già la possedevi» fece il padre di Soul, posandole una mano sulla spalla. Maka alzò gli occhi, confusa. «Credo sia così... anche tu, come Soul, e come Andrew, hai sofferto. La tua sofferenza è ciò che ha permesso al sangue nero di infettarti, trapassando da Soul a te... il demone che tu hai è qualcosa che ancora non hai affrontato... anzi direi...»

Maka strabuzzò gli occhi.

«Sono io» sussurrò, terrea. «Quella cosa che muove Soul... quell'essere...»

«È qualcosa che era dentro di te già da molto tempo, qualcosa che a lungo andare avrebbe rischiato di farti impazzire, e che Soul ha scelto di strapparti prima che fosse troppo tardi» fece il padre di Soul. Vedendo la reazione di Maka, lui si intenerì.

«Mi dispiace» mormorò. Maka si asciugò le lacrime dal volto, scuotendo la testa.

«Non deve» fece. «Sono io la causa di tutto... ma metterò fine a questa cosa. Lo farò» disse, guardando il padre di Soul negli occhi. «A qualunque costo, io mi riprenderò Soul, e le riporterò suo figlio. È una promessa».

«So che la manterrai» fece lui, sorridendo. «Sei pronta, allora?»

Maka annuì. Quindi il padre di Soul strinse i denti e sollevò la grata. Con uno stridio e un suono sordo, le sbarre si sollevarono, sgretolando leggermente le pietre dell'imboccatura.

«Ecco fatto» fece lui. «Questa era la parte facile. Ora però, comincia quella difficile».

 

 

*

 

 

«Daniel!»

Kid si gettò a precipizio lungo il corridoio della Shibusen che conduceva al suo appartamento. Era deserto, ma anche lì l'ombra si era già impadronita di tutto. Kid lo percorse con il cuore in gola, e quando la porta di casa sua gli apparve, poco più avanti, Kid la riconobbe a stento. Il fango la ricopriva quasi interamente, e non appena qualcuno cercava di avvicinarsi, cominciava a gorgogliare sinistramente, ricoprendosi di grosse bolle.

«Oh, fantastico!» esclamò Black Star. «Dì un po', come pensi di entrare?»

«Stai indietro».

Kid alzò le sue Buki, puntandole senza troppe cerimonie contro la porta ed esplodendo una raffica di colpi. Il fango prese a dissolversi, e la porta si scheggiò in mille pezzi. Quando Kid ripose le armi, ormai della porta non restava che qualche asse scheggiata.

«Ottima soluzione» fece Black Star, sporgendo le labbra.

«Daniel! Dove sei!»

Kid entrò, le armi in pugno, voltandosi sospettoso. Sembrava che il potere degli Shinigami avesse in qualche modo protetto la casa. Il fango si era arrestato alla porta, non riuscendo a spingersi oltre.

Almeno fino a quel momento.

«Kid, meglio se ci diamo una mossa» fece Black Star, richiamando l'attenzione del compagno, che si voltò giusto in tempo per vedere il fango strisciare veloce lungo il pavimento, insinuandosi tra gli interstizi della porta ormai distrutta. Con una smorfia di disgusto, Kid indietreggiò, gettandosi a capofitto lungo il corridoio su cui si aprivano le camere.

Quella di Daniel era l'ultima in fondo. Mentre correva, Kid sentiva il cuore pronto ad esplodergli in petto. Deglutì, e per un attimo, gli occhi gli tremarono. Sentiva la gola secca. Il sapore del fango gli ricopriva la lingua ed era come se ogni passo ne contasse venti.

Posò la mano sulla maniglia. Con un sospiro, la girò. Avrebbe voluto chiudere gli occhi, ma invece guardò. Guardò, e non trovò nessuno.

«No...»

La stanza era vuota. Il letto, ancora sfatto, lasciava intuire che Daniel era stato lì fino a poco prima.

«Daniel...»

Black Star represse un gemito di frustrazione. Lanciò un'occhiata alle spalle. Il fango aveva cominciato a risalire lungo le pareti.

«Senti, qui non c'è... dobbiamo...»

«Papà?»

Daniel si affacciò da dietro il lettino, il volto striato di lacrime. Crona era al suo fianco e lo stringeva stretto, mentre al tempo stesso brandiva Ragnarok. Non appena riconobbe Kid, sospirò, lasciando libero il bambino di correre tra le sue braccia.

«Papà, ho avuto paura» pianse il bimbo, premendo il volto contro quello del padre, che se l'era issato in braccio. «Il mostro...»

«Va tutto bene, stai tranquillo. Sono venuto qui a prenderti e adesso andremo tutti insieme dal nonno» lo rassicurò Kid. «Là saremo al sicuro e vedrai che tutto si sistemerà, ok? Non ci succederà nulla».

«Anche mamma è là?» singhiozzò Daniel, spaventato. Kid impallidì, lievemente.

«Mamma arriverà presto, vedrai».

«No, non è vero» esclamò Daniel, con le lacrime che gli rigavano il volto e gli riempivano gli occhietti di luce. «Lei non sta bene, se no sarebbe qui...»

«Mamma sta benissimo, l'ho vista poco fa» mentì Kid. «Lei sta per arrivare, ha dovuto prima fare qualcosa di importante».

«Ha dovuto baciare il professor Evans?» fece Daniel, sbarrando gli occhietti. A quelle parole, Kid trasalì.

«Che cosa?» chiese. «Chi ti ha detto una cosa simile?»

«Mamma» fece Daniel, tranquillo, mentre Kid lo conduceva fuori dalla cameretta reggendolo tra le braccia, e lanciando qualche ordine a Crona e Black Star con un semplice movimento del capo. I due avanzavano tenendo Kid e Daniel nel mezzo, facendo loro scudo contro il fango che cercava di assalirli.

«Mamma mi ha detto che il professor Evans è stato magincantato e che per farlo tornare normale deve essere baciato da una principessa».

«Magincantato?»

«Sì, gli hanno fatto un magincantesimo, molto cattivo!»

«Nessuno ha fatto un incantesimo al professor Evans, e tua madre non è una principessa» disse Kid, torvo. «Non sarà lei a baciarlo».

«Ma allora» chiese Daniel, rivolgendo a Crona uno sguardo smarrito «chi aiuterà il professor Evans?»

Crona, che seguiva Kid mantenendosi leggermente discosto, arrossì; e non sapendo come rispondere, semplicemente abbassò gli occhi, concentrandoli sul fango nero.

«Nessuno aiuterà il professor Evans, Daniel» fece Kid, risoluto, svoltando l'angolo del corridoio principale della Shibusen e imboccando le scale che portavano al piano superiore. «Perché non c'è nessuno che possa farlo, ormai. E questo è tutto quello che c'è da sapere».

 

 

*

 

 

«Pronta?»

Maka annuì. Quindi si sporse sul condotto e sospirò. Chiuse gli occhi e dopo un istante vi scivolò dentro, calandosi di testa.

«Ti farò scendere lentamente» gli disse il padre di Soul, che le aveva fissato la catena della sua Kama attorno alla caviglia. «Se dovesse succedere un imprevisto, o se per qualche ragione non te la sentissi di continuare, dimmi qualcosa, che ti tirerò subito fuori».

«Non accadrà nulla» fece lei. Il padre di Soul annuì.

«Era meglio dirtelo comunque» fece. «Andiamo?»

Maka annuì. Lasciò la presa contro le pareti e anche le gambe sgusciarono dentro al condotto. Penzolava con la testa all'ingiù, e i capelli le offuscavano la vista. Sentiva le spalle e il collo tirare per la posizione innaturale, ma non ci fece caso.

«Cerca di guardarti bene intorno» le diceva il padre di Soul. Maka chiuse gli occhi. Quando li riaprì, si erano già leggermente abituati al buio. La luce ormai era lontana, perciò decise di concentrarsi sul fondo. Era quello, dopotutto, ciò che la preoccupava di più.

Continuava a scendere. La catena era tesa, e ogni tanto dai suoi anelli argentei si levava un sottile stridio. Maka sospirò. Poteva sentire il rimbombo del suo cuore, tra quelle pareti così strette.

«Vedi qualcosa?»

«Niente, ancora» fece lei. Serrò le braccia, incrociandole contro il petto come in un abbraccio. Quindi chiuse gli occhi.

Percepiva qualcosa. Provò a concentrarsi.

C'era qualcosa nell'ombra, qualcosa di sinistro, e di denso. Era qualcosa che...

Quella cosa. Quella dannata cosa la stava chiamando.

«Maka? Tutto bene?»

Lei non rispose. Non andava bene. Non andava bene per niente. Sentiva una strana energia intorno a sé. Era come se quella tenebra stesse reagendo alla sua presenza. Come quando aveva incontrato il Kishin: era stato come sprofondare in un baratro di fuoco, che le bruciava la carne in profondità, trafiggendole l'anima con lingue di ghiaccio incandescente. Adesso, era la stessa cosa. Sentiva tutta una sofferenza nascosta, sotto quelle tenebre. Era come se, scendendo in quel buco, stesse in realtà sprofondando lentamente in se stessa, come se quelle ombre fossero lì per lei, ad attenderla.

Qualcosa si mosse. Fu una semplice sensazione, nemmeno così precisa. Ma fu più che sufficiente per lei.

Con uno scatto, Maka allargò le braccia. Le falci in cui aveva trasformato le braccia scintillarono nella tenebra, raccogliendo sulla loro lama tutta la luce che ancora riusciva a trasparire dall'alto. Ci fu uno stridio e dalle tenebre si levò un grido straziante.

Maka aprì gli occhi, sorridendo.

«Non mi avrai, maledetto» fece. Quindi, con un balzo, si sganciò dalla Kama.

Atterrò a terra goffamente, non riuscendo a distinguere bene. Davanti a lei qualcosa si agitava. Era difficile da vedere, ma in un punto, poco lontano, era come se le tenebre si fossero concentrate, raccogliendosi fino a generare la notte più nera. Maka aguzzò gli occhi. Le torce alle pareti erano spente. Non riusciva a capire dove fosse la porta.

Sei arrivata, finalmente.

Maka strinse le labbra. Si guardò attorno.

Dov'era la porta?

Perché continui a ignorarmi? Sai che sono qui per te.

«Maka, tutto bene?»

La voce del padre di Soul le arrivò lontanissima. Sembrava quasi appartenesse a un altro mondo.

La verità è che ciò che deve succedere, prima o poi succederà. Tu lo sai, questo, vero?

La porta, la porta...

Maka si mosse leggermente. Qualche passo nell'ombra, stando attenta a non sfiorare nulla. Cercava la porta, quella dannata, maledetta porta.

È così tanto tempo che ti aspetto, così tanto... speravo davvero di poterti rincontrare, un giorno... quando eravamo piccole, stavamo così tanto insieme...

La porta...

e anche adesso...

Dov'è quella fottuta porta?

«... io e te staremo sempre insieme, Maka».

Un'ombra emerse dal buio, raggrumandosi davanti ai suoi occhi. Lo scintillio di una lama balenò nel buio. Maka indietreggiò, portandosi sotto la luce che dall'alto del condotto si riversava a terra, tracciando sopra i ciottoli ricoperti di muffa un piccolo quadrato di luce bianca.

«So chi sei, e non mi fai paura» disse Maka, mentre continuava a guardarsi attorno, cercando di prendere tempo. Dall'alto, il padre di Soul la fissava preoccupato. Doveva aver capito quello che stava succedendo.

«La vedi?» fu ciò che lei lesse sulle sue labbra. Con un movimento leggero del capo, Maka gli fece segno di no.

«Ma io non voglio farti paura» disse l'ombra, avanzando ancora. Maka sentì i muscoli farsi più tesi. Alle sue spalle, le ombre cominciavano a gorgogliare, pericolosamente. «Tutto ciò che voglio, è ritornare dentro di te... io voglio essere te».

«Tu non sei me» mormorò Maka. Qualcosa si mosse, poco sopra la sua testa. Ne scorse il movimento con la coda dell'occhio.

«Ne sei... sicura?»

Dall'ombra si materializzò una figura umana. Vestiva un lungo cappotto di lana bianco e i suoi capelli erano scuri, e lisci. Due sottili codini ricadevano allegri ai lati della testa, solleticando le spalle, mentre la pelle era nera e lucida come una notte fonda e densa, così come gli occhi erano chiari, quasi due squarci sulla profondità insondabile di quell'anima buia. Non appena la vide, Maka trasalì.

«Non mi riconosci?» disse quella figura. Maka cominciò a sudare. «Eppure, eravamo così simili, una volta... ricordo ancora quanto mi stringevi, dietro la porta di camera tua, quando tuo padre ti faceva soffrire...»

«Basta...»

«E non ricordi» continuò l'ombra, avanzando, mostrando tra le mani una lunga falce che ricordava tanto Soul «quanto mi cercavi, ogni volta che avevi paura di essere ferita, quanto desideravi la mia forza tutte le volte che lui ti guardava in quel modo, mettendo in crisi le tue certezze, quello che insieme, in tanti anni, avevamo costruito? Tu mi dissi che saresti stata sempre mia, che io e te saremmo state sempre insieme, sole...»

«No...»

Qualcosa luccicò. Fu un attimo, poi si spense.

«Ma poi, tu gli hai creduto. E lui... eh, sì. Alla fine è saltato fuori che era davvero innamorato di te. Povero stupido, ha rovinato tutto».

«Smettila».

«O sei stata tu?»

«Ti ho detto di smetterla!»

Maka fece balenare la sua falce. L'ombra la parò e per un attimo le scintille che le due lame gettarono nell'oscurità andarono a illuminare il corpo della ragazza, gettando la sua ombra contro la parete. L'ombra di fronte a lei svanì e Maka si voltò appena in tempo per parare l'attacco che le veniva mosso alle spalle.

«Avresti dovuto continuare a credere in me, solo io potevo darti la forza di cui avevi bisogno» disse l'ombra, con un ghigno. Maka rise.

«Tu mi davi solo rabbia, e odio, e disillusione» disse. «Come sono cresciuta, con te? Con un cuore duro come la pietra, indifferente a ogni cosa, incapace di reagire a un sentimento semplice come l'amore».

«Ora menti a te stessa».

«No, non è vero» fece Maka. «Lui era lì, davanti ai miei occhi. E tutto quello che sapevo fare, era trattarlo come un oggetto. Qualcosa che potevo usare. La verità, è che quando ho scoperto di potermi trasformare e ho capito che se solo avessi voluto avrei potuto fare a meno di lui, ne sono stata persino felice. Ero contenta di sbarazzarmi di lui, perché era un uomo e perché lo ritenevo solo ingombrante. Riuscivo a vedere in lui solo l'arma che era, e non vedevo la cosa più importante. L'anima».

«Quante balle...»

«Forse» fece Maka. «Ma adesso è tutto ciò che mi interessa, mentre tu... mi spiace, ma non sei il mio tipo».

La Kama che ancora penzolava lungo il condotto tornò a girarsi. Maka aveva capito che era opera del padre di Soul, che dall'alto cercava di mandare qualche riflesso lungo le pareti, per riuscire a mostrarle dove si trovava la porta. Fu in quel momento, che Maka la vide. La Kama si illuminò, per un istante, rischiarando le tenebre. La porta era là, alle spalle della sua ombra.

Con uno scatto, Maka si lanciò ad aggredirla. Puntò dritto su di lei, senza chiudere gli occhi. Non sfoderò armi, non fece nulla. Semplicemente, si buttò all'attacco. L'ombra la guardò, stupita. Quindi rise.

«Stupida» mormorò. Maka riuscì a sentirla, mentre le passava accanto. La vide cercare di colpirla, ma era troppo tardi. Con un gesto improvviso e di estrema eleganza, Maka la abbracciò, sguainando la falce dal suo braccio destro. In un attimo, era oltre la porta. La sua ombra si dissolse lentamente, alle sue spalle.

«Povera stupida...» mormorava ancora, prima di spegnersi. «Soffrirai».

Ma a Maka non importava. Tutto quello che le interessava, era risalire le scale, scansando le ombre man mano che le si paravano davanti. Non pensava, né si fermava davanti a qualcosa; continuava a salire, gradino dopo gradino, e a correre. Sentiva che non era lontana, sapeva che avrebbe riconosciuto la stanza, se solo l'avesse vista. Avrebbe cercato ovunque, in qualunque anfratto della Shibusen. Ma alla fine, l'avrebbe trovata.

Terzo piano, Quarto. L'atrio, davanti a sé. La tenebra che avvolgeva ogni cosa, e la sua determinazione che la faceva andare oltre, al di là di ogni paura. Raggiunse le scale, le salì. Al piano superiore, un lungo corridoio. I quadri, alle pareti, e le tende. Era nel posto giusto. Era quello, e c'era arrivata.

Sul fondo, una porta. Maka continuò a correre. Sentiva l'ombra, alle sue spalle, che soffiava livida, sollevandole i capelli sporchi e imbrattati di polvere e fango, raggelandola tutta, insinuandosi fin sotto la pelle e congelandole il fiato nei polmoni. Maka si gettò contro la porta, che la respinse. Agguantò la maniglia, la girò.

Una calma insolita la avvolse, quando si fu richiusa la porta alle spalle. Era come se in quella stanza, l'ombra non fosse riuscita a entrare, come se qualcosa l'avesse tenuta lontana, preservando quel luogo da ogni influenza malvagia.

Maka si guardò intorno. Era vuoto. I quadri alle pareti erano gli stessi che aveva intravisto nel frammento di specchio. Anche le pareti, con quell'intonaco giallo, erano le stesse. Doveva per forza essere nel posto giusto.

Fece un passo avanti e girò oltre l'angolo. Quindi trasalì. Un pianoforte era tutto ciò che occupava la stanza, l'unico mobile. Quando si volse, vide le pesanti tende bordeaux che dal soffitto cadevano fino a terra, arricciandosi elegantemente, e capì dove si trovava.

Maka si avvicinò al piano. Era lo stesso piano che Soul aveva suonato per lei quindici anni prima, quando, ancora bambini, si erano incontrati e avevano deciso di diventare partner. Lo riconosceva benissimo. Come aveva fatto a non capirlo prima, quando aveva visto quella stanza attraverso lo specchio?

Con sicurezza, provò a sollevare il coperchio. Era chiuso. Lei aggrondò, quindi, improvvisamente, il suo cuore compì un balzo. Le mani cominciarono a tremarle e la mente le si confuse un po'. Estrasse la piccola chiave dalla tasca dei jeans e restò così, a guardarla con gli occhi che le tremavano per l'emozione.

Non poteva essere...

No, non poteva essere. Non poteva aver scelto di legare la sua anima a quel particolare ricordo, perché avrebbe significato...

… avrebbe significato...

La chiave entrò perfettamente. Maka si portò una mano alle labbra, mentre con le lacrime agli occhi fece scattare la serratura. Ci fu un piccolo suono, debole e secco. E il piano si aprì.

«Stupido» disse lei. Una lacrima le solcò la guancia e le spalle le tremarono per i singhiozzi. Non aveva bisogno di specchi o di altra robaccia per quel ricordo. Era ancora vivo, dentro di lei, e non se ne sarebbe mai andato. Le bastò posare le dita sui tasti e fu come se un'energia segreta le si fosse trasmessa a tutto il corpo. Quando il tasto si abbassò, morbidamente, e il martelletto si alzò a percuotere la corda, un suono debole ma chiarissimo risuonò in tutta la stanza. E improvvisamente, tutto cambiò.

«Perché non suoni qualcosa per me?»

Lui si voltò. La stava guardando con un'aria sorpresa, quasi non si aspettasse di trovarla lì.

«Sai suonare? Sai suonare davvero?» gli chiedeva lei, avvicinandosi. Lui trasalì. Forse fu per tenerla lontana, che le rispose.

«Sì, io... io suono. Un po'».

«Allora, suona qualcosa per me».

Adesso lui non sembra molto convinto. La guarda. Lei sorride e lui si fa cupo. Abbassa la testa, quindi si volta.

«se proprio vuoi...» dice. Lei insiste e lui la fissa triste.

«Questo... è quello che sono» dice, prima di posare le dita sul piano. Lei lo ascolta in silenzio. Sulla sua piccola bocca, il sorriso si spegne e la sua fronte si piega, formando una piccola ruga in mezzo agli occhi. Aspetta che lui finisca, quindi balza in piedi e gli si avvicina.

«Ti piacerebbe essere partner?»

Lui la guarda, come se non avesse capito. Di fronte alla sua mano tesa, e al suo sorriso, lui non sa che fare. Tutto ciò che gli riesce, è indossare una maschera, come ha sempre fatto.

«Fico» dice.

Ma era diverso. Quella volta, lo pensava davvero.

 

Quando Maka riaprì gli occhi, tutto ciò che ancora si agitava nel suo cuore aveva finalmente trovato il suo senso. Si terse le lacrime e sorrise. Chiuse il piano. Quindi, si infilò la catenina con la chiave al collo, nascondendola sotto la camicia.

E senza aggiungere una parola, uscì.

 

 

 

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Capitolo 21
*** Dead or alive: si scatena il potere della paura? ***


Era buio. Avvolta dalla più profonda desolazione, tutto ciò che restava della Shibusen erano le sue ampie navate silenziose e i corridoi, lunghi e deserti, che correvano tra le pareti spoglie. Non si udiva nemmeno il singolo risuonare di un passo. I tempi in cui gli studenti accorrevano a frotte ad affollare quelle stanze luminose e splendide, e dalle cui pareti ora grondava un silenzio pesante, sembravano già irrimediabilmente lontani.

L'eco della battaglia si era spento da tempo. Avvolte da un sinistro senso di inutilità, le Buki giacevano al suolo un po' ovunque: molte di loro non erano nemmeno riuscite a riprendere la propria forma umana, prima della morte e i loro corpi abbandonati se ne stavano accatastati l'uno sull'altro, semplicemente, in una massa confusa di oggetti senza più significato.

Qualcosa non va?

Con gli occhi fissi a terra, Soul si faceva strada in modo un po' goffo tra quei corpi senza vita, cercando di evitarli per non inciampare. Ogni tanto gli capitava di sollevare lo sguardo, attirato improvvisamente da una falce o da un coltello che lanciava un bagliore inaspettato, emergendo dal buio di un angolo con la lama accesa da un rapido raggio di luce. Quando lui vi passava accanto, gli capitava di notare con la coda dell'occhio quel sottile baluginio, che subito lo spingeva a voltare la testa e a frugare nella notte con gli occhi sbarrati, in preda a un'angoscia dettata da chissà quale speranza.

Hai davvero intenzione di continuare ad ignorarmi?

Non crederai davvero che serva a qualcosa?

«Merda!»

Soul trasalì, inciampando contro qualcosa che a causa di tutto quel buio non riuscì a distinguere bene. Per la paura che si trattasse di una Buki, balzò a lato, appiattendosi contro il muro. Dentro la sua testa, una risata prese a levarsi sommessamente.

Sei così ridicolo! Che importanza vuoi che abbia?

Soul ignorò quella domanda con una smorfia. Rifiutarsi di rispondere a quella voce che lo punzecchiava tormentosamente da ormai troppo tempo, era per lui come cercare di negare la sua stessa esistenza. Un modo come un altro per sopravvivere, più o meno. Anche se piuttosto sciocco.

Sono tutti morti.

«Non è un buon motivo...»

Ah, finalmente hai ripreso a parlarmi!

Soul impallidì, mordendosi il labbro. Esausto, alla fine abbassò gli occhi con un sospiro rassegnato, fissandosi le punte logore delle scarpe nere.

Non essere così tragico, adesso. In fondo, hai ancora la tua anima, no?

Soul scoppiò a ridere. L'ombra che aveva dentro di sé tacque; e per qualche istante, lui sentì il suo cuore alleggerirsi da un peso, mentre si abbandonava contro il muro, frugandosi nelle tasche.

«Ti piacerebbe, vero? Prenderti anche quella» disse, estraendo una sigaretta e portandosela alle labbra. «Figlio di puttana».

Soul sfregò il fiammifero contro il muro, schermandolo con le mani; quindi si chinò, avvicinando la sigaretta alla fiamma. Quando fu accesa, Soul sollevò la testa, circondata da una nuvola di fumo caldo. Inspirò, trattenendo a lungo il fumo sul fondo dei suoi polmoni. Solo dopo qualche istante cominciò a espirare lentamente, con gli occhi chiusi.

Se tu mi lasciassi entrare, sarebbe tutto più facile, no? Cosa ti trattiene, ancora?

«Qualcosa che non puoi capire».

Non dirmi che è lei!

«Abbiamo un patto, ricordi?»

La voce del Kishin tacque. Il silenzio era così fondo che Soul poteva sentire il suo cuore battere in modo assordante.

Non è nemmeno qui! Ti ha abbandonato, proprio come tu hai fatto con lei...

Il volto di Soul si tese in una smorfia. Sentì la rabbia crescere dentro di lui, e il sangue farsi denso e premere contro le pareti del suo cuore. Cercò di mantenersi calmo, e di non cedere alla collera.

Sai cosa accadrà, se io non potrò averti...

Lo so.

...mi prenderò lei.

Silenzio.

Vorresti vederla?

Soul inspirò a fondo, socchiudendo gli occhi. Quindi gettò a terra la sigaretta non finita, pestandola con la punta del piede. Il fumo gli uscì dalle narici e dalle labbra socchiuse, piano piano.

«Perché no?» disse. «Tanto so già cosa mi chiederai in cambio».

La voce sibilò leggermente, un suono lungo e sottile, ostile come lo strisciare di una serpe.

Dovresti saperlo, ormai... io ottengo sempre ciò che voglio.

Soul piegò la testa, fissando dritto a terra. Non aveva più voglia di sorridere, né di pensare. Tutto ciò che voleva, era dimenticare e perdersi un'ultima volta nel ricordo di lei.

Un'ultima volta...

Soul?

Il suono così inaspettato di quella voce lo fece tremare. Quando si voltò, le mani ancora in tasca, lei era lì, un'ombra tremolante e vaga che fluttuava completamente avvolta dal buio, racchiusa in uno specchio alla parete. Soul estrasse lentamente una mano dalla tasca, deglutendo a fatica. Avvicinò i polpastrelli al vetro, posandoli direttamente sulla sua superficie fredda. Lei lo guardava, tenendosi a distanza. Sembrava confusa, forse era spaventata.

«Maka...»

Sei triste, fece lei, volgendosi a guardarlo. Ti senti in colpa per me, non è così?

Silenzio.

Non devi.

Con uno sforzo immenso, Soul riuscì a sbattere le palpebre. Quando le riaprì, lei era ancora lì, solo più vicina. Il suo volto brillava davanti a lui, splendente tra le lacrime che gli bagnavano le ciglia.

«Non posso farne a meno» mormorò.

L'ombra di Maka fluttuò dolcemente, avanzando verso il vetro. Quando vi fu vicino, lui si specchiò nei suoi occhi chiari e nel suo volto pallido, osservandola rapito mentre posava la mano sopra la sua, al di là del vetro.

Sapeva che non era vera, che era solo un'illusione. Quella che aveva di fronte non era che l'ombra di lei, il residuo di quel passato che lui aveva cercato di strapparle dal cuore, nell'ultimo disperato tentativo di renderla finalmente libera da quel dolore. Da quanto tempo portava con sé quello spettro, custodendolo così gelosamente... Ma anche se la Maka che vedeva non era che un riflesso, un frammento di oscurità, lui l'avrebbe amata ugualmente. Anzi, l'aveva sempre amata. L'aveva amata fin dal primo istante, avendo trovato in lei la risposta più sincera a quel dolore che lo affliggeva da così tanto tempo.

Per questo ancora la custodiva, come il suo tesoro più prezioso. Perché anche quel puro nulla, era comunque parte di lei.

Vuoi che me ne vada? disse lei all'improvviso, come leggendo nei suoi pensieri. Davvero?

Lui la fissò a lungo, tra le lacrime. Quindi annuì. Lei chinò la testa di lato, gli occhi grandi e spalancati, le labbra socchiuse per la sorpresa.

Non verrò con te?

No, non qui. Non stavolta.

Credevo saremmo stati sempre insieme... mi lascerai anche tu? Anche tu mi lascerai, proprio come lui?

«Portala via» mormorò Soul. La voce di Maka continuava a farsi sempre più stridula, e insistente. Spaventata, adesso gridava, battendo con le mani aperte contro lo specchio.

Non puoi lasciarmi, non tu...

«Portala via!» gridò Soul, chiudendosi le orecchie con le mani. La sentiva piangere, disperata; e sapeva che tutto quello non era che l'ombra di ciò che era davvero accaduto. Il segno tangibile della sua colpa verso di lei, di quando l'aveva lasciata sola facendola soffrire.

Era quello l'inferno che avrebbe portato per sempre con sé, e che aveva scelto di abbracciare cinque anni prima.

Silenzio, di nuovo.

Ora taceva.

«Lei...»

È andata via. Come tuo fratello, e tua madre prima di lui.

Soul sospirò. Lasciò cadere lentamente le mani, che gli restarono a penzolare lungo i fianchi, stanche. Quindi sollevò la testa, drizzando le spalle.

«Allora» disse, con voce spenta. «Cosa vuoi?»

Voglio che suoni qualcosa per me.

Soul ridacchiò, finché la sua risata non si fece più forte. Alla fine, scrollò le spalle e si infilò le mani in tasca.

«Dunque è questo?»

Silenzio.

«Prometti che non la toccherai mai?»

Mi lascerai entrare?

Sì.

Allora, affare fatto.

Non fu doloroso, quasi non se ne accorse. Gli bastò ritornare a quel momento; quando lei, alzandosi da quella sedia nel mezzo della stanza, prese a incamminarsi decisa verso di lui. Mentre gli tendeva la mano, pronunciando il suo nome, lui smise di sentire. Il suo cuore compì un balzo, mentre la fissava negli occhi. Poi arrivò l'ombra, ad inghiottire tutto.

E da quel momento, fu il buio.

 

 

*

 

 

«Lo senti?»

Spirit tirò su con il naso. Un rombo cupo sembrava levarsi minaccioso dal terreno, sotto i loro piedi. Alla fine sorrise, chiudendo gli occhi.

«Già. Direi che sta arrivando».

Stein si frugò in tasca ed estrasse un pacchetto di sigarette ancora sigillato. Lentamente, come misurando tutti i suoi gesti, lo aprì, sfilando la sottile pellicola di plastica che avvolgeva la scatola e trattenendola per un istante tra l'indice e il pollice, prima di lasciarla cadere. Quando toccò terra, il suo fruscio sembrò risuonare come una pietra lanciata nel vuoto di una caverna.

«Potrebbe essere l'ultima» biascicò Stein, con la sigaretta tra le labbra.

«Forse sarebbe il momento di discutere il piano» azzardò Sid, facendo un passo avanti. Nygus al suo fianco, annuì. Stein alzò gli occhi su di loro, agitando la mano per spegnere il fiammifero. Marie, al suo fianco, lo fissò triste. Lui le rispose con un sorriso, alzando la mano ad accarezzarle il volto.

«Hai paura, Marie?» fece. Spirit, di fronte a quel gesto così intimo, distolse lo sguardo.

«Sì» ammise lei. E il suo viso si fece pallido.

«E allora, sfoga adesso la tua paura» fece lui teneramente, prima di alzare gli occhi sugli altri. «Sfogate tutti la vostra paura, perché dopo non ci sarà tempo per farlo. È così che il Kishin cercherà di impossessarsi di voi, attraverso i vostri sentimenti. Se avete paura, è giusto ed è normale; ma tra poco, non potrete più permettervi di avere paura. Non se volete continuare a sopravvivere».

«Come potremo fermarlo? Hai qualche idea?» chiese Azusa. Lei e Justin erano gli unici a non lasciar trapelare alcuna preoccupazione. Stein si voltò verso Spirit, e insieme scrollarono le spalle.

«Non lo so» rispose. «Nessuno lo sa, a parte il sommo Shinigami».

Tutti tacquero. Si voltarono a guardare Shinigami, che torreggiava in silenzio nel bel mezzo della stanza. Se ne stava immobile, dando loro le spalle, quando all'improvviso si volse e li guardò tutti a lungo senza dire una parola. Alla fine, batté le mani tra loro, con una certa allegria.

«Prepariamoci» disse, semplicemente. «Ormai è qui. Vediamo di non farlo aspettare».

 

 

*

 

 

Maka si richiuse la porta alle spalle. La pesante serratura scattò, e un suono denso si propagò lento attraverso il corridoio vuoto.

Non c'era nessuno.

Non c'era proprio nessuno, era sola. Che cosa strana, pensò. Si era immaginata di dover affrontare chissà che fuori da quella porta, mentre invece ad aspettarla non c'era assolutamente nulla. Ma non era tranquilla. Sentiva comunque una strana sensazione pesargli sul cuore, come una sensazione di angoscia profonda, qualcosa che la spingeva a staccarsi da quella porta, muovere le gambe ed affrettarsi. Sentiva che se non si fosse mossa in fretta, tutto ciò che di terribile poteva accadere, sarebbe avvenuto prima del previsto.

Non poteva restare lì come una scema. Doveva muoversi, se voleva salvare Soul.

Sollevare il piede da terra fu il primo passo. Difficile, come tentare di estrarre il piede da uno strato di fanghiglia spessa un palmo; ma con la differenza che lì, a trattenerla, non c'era nulla. Le mattonelle splendevano lustre alla luna che si affacciava oltre le vetrate, e che tingeva tutto di un chiarore tenue e lattiginoso. Quand'è che era calata la notte? Non se lo ricordava.

Maka fissò le dense strisce di polvere che si agitavano davanti ai suoi occhi, rilucendo nella tenebra di sottili bagliori argentei. Tutto era immobile, fisso. Maka trasalì. Era come se ogni cosa, attorno a lei, si fosse cristallizzata nel tempo. Poteva vedere ogni singolo granello di polvere splendere solitario nella notte, sospeso nel vuoto, percepire il minimo movimento dei suoi muscoli e il battito del suo cuore al rallentatore. Fu come se il tempo si fosse fermato, attorno a lei, in modo irreversibile, congelandosi in un singolo istante soltanto.

Maka spalancò le labbra, sentendosi mancare il fiato. Annaspò. Immobile, provò a chiudere gli occhi. Quando li riaprì, una scarica elettrica le attraversò le pupille, e tutto parve riacquistare improvvisamente velocità. Tirò il fiato, tossì. Un'angoscia insostenibile si fece largo nel suo cuore e dalle sue ciglia si staccò una lacrima.

Spaventata, si guardò attorno. La tenebra stava crescendo intorno a lei, dentro di lei. Era come se qualcosa le avesse strappato l'anima. La chiave che portava al collo cominciò a pesare, incredibilmente. Maka abbassò lo sguardo. Lanciò un grido.

La maglietta. La sua maglietta era completamente imbrattata di fango nero.

Maka si sfilò la catenella. Dalla piccola chiave sgorgava senza sosta del liquido scuro e fangoso, che la faceva rabbrividire solo a toccarlo. Per un attimo, Maka perse il controllo. Provò a ripulirla, disperatamente, cercando di lottare contro quel liquido disgustoso che continuava a ricoprirla. Ma alla fine rinunciò. Non poteva vincere, non ancora. La battaglia era ancora tutta da combattere.

Con un sospiro, e senza pensare, si infilò la chiave sotto la camicetta. Il fango, al contatto con la sua pelle, era freddo e viscido. Sentiva che le strappava dal cuore tutte le emozioni, ma per qualche ragione riusciva a tenerlo lontano dalla propria anima. C'era qualcosa, in lei, un'energia nuova che aveva scoperto solo quando aveva affrontato se stessa e le proprie paure, nei sotterranei della Shibusen. Non si era accorta di avere quella forza, prima di allora. Era quella l'energia che le aveva permesso di passare indenne attraverso tutte le sofferenze di quegli ultimi anni, e che le aveva permesso di giungere fin lì. Non sapeva da dove le venisse, ma era come se qualcuno o qualcosa le avesse tolto un gran peso dal cuore, un peso che si portava appresso da troppo, troppo tempo.

Con decisione, Maka prese a correre, lanciandosi lungo il corridoio. L'ombra sembrava essersi via via ritirata, man mano che si avanzava verso la cupola di Shinigami. Era come se tutta l'energia negativa si stesse concentrando là, lasciando alle sue spalle solo rovina.

Girò l'angolo e si precipitò lungo il corridoio. I suoi passi risuonavano svelti, e decisi, mentre gli specchi disseminati lungo il corridoio riflettevano la sua immagine limpida. Improvvisamente, qualcosa si mosse al suo fianco. Un soffio delicato le accarezzò le spalle e il braccio, procurandole un fremito e istigandola a correre ancora più forte. Era ormai davanti alla porta che conduceva alla torre centrale, quando dal nulla emerse davanti a lei una colonna di tenebra. Maka si fermò appena in tempo, prima di andarci a sbattere contro. Alzò gli occhi. La tenebra si raccolse su se stessa, vorticando fino ad acquistare un volto; e lei si trovò a rispecchiarsi improvvisamente in se stessa, ancora una volta, guardandosi attraverso i suoi stessi occhi ma come da una distanza incolmabile.

«Perché vuoi scappare da me?»

Maka non rispose. Non avrebbe voluto. Ma quella voce scaturiva direttamente dal suo cuore, e dalla sua mente. Sentì le parole formarsi nella sua testa, pronte a rispondere contro ogni sua volontà a quella domanda.

Non sto scappando, non più. Tu non mi interessi affatto.

«Non è vero».

Maka strinse le labbra. Fece per voltarsi; ma quando girò le spalle, si ritrovò davanti la sua ombra ancora una volta.

«Lasciami passare» ringhiò. La sua ombra nicchiò lentamente, fissandola con sguardo triste.

«Non ti permetterò di salvarlo».

«Non sta a te decidere».

«Lui è mio. E verrà con me».

«No, non lo è».

L'ombra chinò la testa di lato. «Davvero lo vuoi così tanto?» fece. «Eppure sei stata tu a consegnarmelo, dicendo che non lo volevi, che non avresti mai voluto nessuno».

«Mi sbagliavo».

«Non sa più nemmeno chi è» insistette l'ombra, tesa «e nemmeno sa più chi sei tu».

«Questo non ha importanza» affermò Maka, decisa. «Ciò che conta, è che io so chi è lui. E so chi sono io».

L'ombra parve vacillare per un istante. Quindi abbassò lo sguardo.

«Quanta decisione» mormorò. Maka non fece neppure in tempo a sfoderare la sua lama. La tenebra guizzò verso di lei improvvisa, come una serpe. Tutto ciò che Maka riuscì a fare, fu chiudere gli occhi e trattenere il fiato.

«Vai! Ora!»

Quando Maka sollevò le palpebre, trovò il padre di Soul che con il suo corpo le faceva da scudo. Aveva ingabbiato l'ombra con la catena della sua Kama, impedendole di muoversi. Come un animale rabbioso, l'ombra di Maka si dibatteva tra grida orribili, e il suo volto si deformava in preda a un furore assoluto e senza limiti.

«Muoviti, non riuscirò a trattenerla a lungo» ringhiò il padre di Soul. Maka annuì. Lui sorrise, con una smorfia affaticata.

«Cerca di tenerti alla larga dai corridoi» disse. «O troverà il modo di fermarti ancora. Passa dall'esterno».

Lui le indicò una finestra aperta, la stessa da cui lui era entrato e da cui ora si riversava nel corridoio buio la luce calda del sole. La notte sembrava essersi improvvisamente dileguata.

«C'è un cornicione che corre lungo tutta la torre. Seguilo. Arriverai direttamente sopra la cupola di Shinigami».

Maka annuì, avvicinandosi alla finestra. Quando fu con un piede sul davanzale, si voltò.

«Io...»

«Muoviti, avanti» fece il padre di Soul. «O sarà stato tutto inutile».

Maka lanciò all'uomo un'ultima occhiata, prima di uscire del tutto. Chinò la testa, sgusciando fuori; quindi posò entrambi i piedi sulla sottile striscia di mattoni e si addossò alle vetrate, evitando di guardare in basso. Il cornicione era largo a malapena per una persona che camminasse di traverso. Quando Maka sollevò gli occhi e vide la cupola di Shinigami levarsi alta decine di metri più avanti, capì che ci avrebbe messo un'infinità ad arrivare.

Ma non era importante. Sarebbe comunque arrivata e Soul avrebbe fatto in modo di resistere fino al suo arrivo. Di questo era assolutamente sicura.

In fondo, aveva pur sempre con sé la sua anima. Là dove nessuno avrebbe mai potuto trovarla.



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Capitolo 22
*** Davanti alla paura! Liz, Death The Kid: fiducia, smarrimento? Riusciremo a riprenderci il nostro destino? ***


Le porte si aprirono all'improvviso e le lame delle ghigliottine che bloccavano il passaggio scattarono verso l'alto con un clangore assordante. Nessuno di loro si aspettava un'intrusione così fulminea, tanto che tutti rimasero come paralizzati. Prima ancora che le Buki potessero vincere la loro sorpresa e trasformarsi in armi che i loro maestri potessero impugnare, Black Star, Kid e Crona fecero il loro ingresso nella stanza, sotto gli occhi smarriti di tutti i presenti. Kid attese che tutti fossero passati, quindi con un gesto veloce richiuse i battenti, imponendovi il proprio sigillo. Le pesanti lame delle ghigliottine luccicarono sinistramente prima di abbattersi al suolo con un lungo stridio, bloccando definitivamente l'accesso alla stanza di Shinigami, l'ultimo baluardo di tutta la Shibusen.

«Eccoci qua, scusate il ritardo» sospirò Black Star, infilando Tsubaki nel fodero. Quindi alzò gli occhi, guardandosi intorno. Non appena si accorse dello stupore che ancora aleggiava sul volto dei suoi compagni, li fissò divertito, esplodendo in una risata di scherno. «Ehi, ma che vi prende?» osservò. «Mica pensavate che non ce l'avremmo fatta ad arrivare fin qui, no?»

«Credevamo fosse il Kishin» mormorò Marie, pallida, ancora scossa dai brividi. In un attimo, tutta la tensione sembrò scivolarle via dal corpo, e lei si rilassò con una debole risata, che fece eco a quella più vigorosa di Black Star. «Siamo felici che ce l'abbiate fatta».

«Sì, ma il Kishin è davvero vicino, dobbiamo prepararci» intervenne Kid, posando a terra Daniel che già si era fatto irrequieto. Il bimbo si voltò da più parti, sbirciando tra la folla con gli occhietti vispi; quindi, non appena individuò Shinigami, gli corse divertito tra le braccia. Spirit gli fu subito dietro, avvicinandosi a entrambi e chinandosi a salutare il bambino con affetto. Davanti a quella scena, Kid sorrise intenerito.

«L'avete visto?» domandò teso Sid, richiamando subito l'attenzione di Kid. «Il Kishin».

«Ho visto solo l'ombra che si porta dietro» rispose Kid, spostando gli occhi su di lui. «È ovunque. Quando sono andato a prendere Daniel, aveva già raggiunto la sua camera. Abbiamo fatto appena in tempo».

«Terribile» mormorò Marie, voltandosi a lanciare a Daniel uno sguardo preoccupato. Il bimbo rideva, adesso; ma al pensiero di quello che sarebbe potuto accadergli, il sangue le si gelò nelle vene.

«Vedo che siete pronti, comunque» ironizzò Black Star, grattandosi il collo. «Sul serio, i miei complimenti. Se fosse stato davvero il Kishin, a entrare da quella porta, vi avrebbe spazzato via in un attimo».

«Visto che ti credi tanto in gamba, perché non provi a suggerire tu un piano, invece che sputare sentenze?» lo attaccò Nygus, affacciandosi dal folto del gruppo. Black Star le indirizzò un ghigno malevolo.

«Sicuro, anche perché se aspettiamo te...»

«Ora basta!»

La voce di Stein si levò decisa a sovrastare le parole nervose che già volavano per la stanza. Tutti si zittirono, voltandosi stupiti a guardarlo. «Non è il momento per stupidi litigi. Anche questo non è che un modo per essere deboli agli occhi del Kishin. Se vogliamo vincere questa battaglia, dobbiamo essere forti e lasciarci alle spalle incomprensioni e antipatie».

«E come possiamo fare?» intervenne Azusa. «Sembra che quell'essere maledetto non abbia punti deboli».

«Non è possibile che non abbia punti deboli» la corresse Justin, tranquillo. «Deve per forza averli».

Azusa lo fissò con aria di scherno.

«E cosa ti dà tanta fiducia?» fece.

«Potrei farti la domanda inversa» ribatté lui, impassibile. «Cosa ti rende così scettica?»

«Non litigate!» esclamò Stein, ora davvero seccato. Colpito dal tono stridulo della sua voce, Spirit gli lanciò un'occhiata vaga alle mani, e impallidì. Stavano tremando. «Ma non capite? Non è certo così che vinceremo, aggredendoci gli uni gli altri. Justin ha ragione. Chiunque ha un punto debole. Il nostro problema è che non siamo ancora riusciti a capire quale sia quello del Kishin; ma questo non significa che non riusciremo trovarlo. E comunque, nel frattempo» fece, rigirandosi con un sospiro la grossa vite che aveva conficcata in testa, cosa che sembrò improvvisamente calmarlo «c'è una cosa che possiamo sicuramente fare».

«E sarebbe?» chiese Kid. Stein gli rivolse un sorriso sghembo, piuttosto inquietante.

«Sappiamo quali sono i nostri punti deboli» disse. «La paura, il dubbio. La mancanza di fiducia nei nostri compagni e nei nostri amici. Dobbiamo concentrarci su queste debolezze, e vincerle».

Dalla compagnia si levò subito un mormorio concitato. Nessuno voleva ammettere ciò che Stein stava dicendo. Farlo, era come ammettere la sottile falsità che animava i loro rapporti quotidiani e che ognuno cercava di negare o nascondere dietro una patina di ipocrisia.

«Non c'è nulla di male» rise Stein. «Anche per me è lo stesso. Sebbene conosca Spirit da anni, e nonostante io senta di potergli affidare la mia vita, so che non riuscirò mai a vincere la paura che qualcosa possa andare per il verso sbagliato, durante uno scontro. Inoltre» disse, rivolgendo a Spirit un'occhiata ironica che ricacciò in bocca alla Buki ogni desiderio di controbattere «so benissimo che lui ha paura di me, e del mio carattere instabile... ma so anche che possiede la volontà di lasciarsi questa paura alle spalle. È questo l'importante. Se io percepissi esclusivamente la sua paura, e non la sua volontà, comincerei a dubitare di lui. La verità è che non mi interessa che abbia paura. Anzi, in un certo senso mi tranquillizza, perché vuol dire che almeno uno di noi due è normale» ridacchiò, condividendo con Spirit un cenno di intesa. «Nessuno di noi può mai essere assolutamente sicuro degli altri, e delle reazioni che avranno di fronte alle circostanze più inaspettate. Ma ciò di cui possiamo essere sicuri è la loro volontà di vincere questa paura. Possiamo sentirla, se sappiamo entrare correttamente in sintonia con la loro anima. Dobbiamo concentrarci su questo, e rischiare. Se lo facciamo, possiamo vincere, o anche perdere. Ma noi oggi siamo qui per vincere, no? La sconfitta non è contemplata».

Nessuno fiatò. Tutti si limitarono a fissarsi poco convinti, cercando di leggere sul volto dei propri compagni una traccia di quella determinazione o fiducia di cui parlava Stein, ma allo stesso tempo sottraendosi vergognosamente agli occhi di chi tra loro cercava di indagare forse troppo in profondità. Ben presto, nessuno di loro fu più in grado di sorreggere lo sguardo degli altri.

«Complimenti» mugugnò Spirit rabbioso, avvicinandosi all'orecchio di Stein che si grattava perplesso la nuca. «Davvero incoraggiante, come discorso. Ora non riescono nemmeno più a guardarsi in faccia».

«Tu avresti saputo fare di meglio?» replicò Stein, seccato. «Sai benissimo che quanto ho detto è la verità».

«Sì, ma...»

«Io non ce la faccio».

La voce di Liz si sollevò timida, ma ricadde sui presenti come un macigno. Quando tutti si volsero a guardarla, increduli, lei impallidì, scuotendo vigorosamente la testa.

«Liz» esclamò Kid, facendosi strada verso di lei. «Che diavolo ti salta in mente?»

«Mi spiace, ma io... io non ci riesco» fece. Aveva quasi le lacrime agli occhi, per la troppa emozione. Fissava gli altri sgomenta, incapace di muovere un solo muscolo. Sembrava paralizzata da qualcosa che andava al di là della paura o della tensione. Forse si vergognava, o forse a parlare erano tutte quelle sensazioni che le si erano accumulate nel cuore e che ora avevano preso il sopravvento, non avendo mai trovato uno sfogo prima di allora.

«Non voglio combattere, non ci riesco. Ho visto di cosa è capace quell'essere... io...»

«Smettila di dire idiozie!» la aggredì Kid, prendendola risolutamente per un braccio. «Tu non puoi piantarci in asso, non adesso! Sei forse impazzita?»

«No!» gridò lei, divincolandosi. «Ne ho abbastanza. Io non combatterò, non stavolta. Ho già combattuto contro un essere come quello e non lo rifarò. Questa non è la mia battaglia e nemmeno quella di Patty».

«Cosa?»

Liz drizzò il busto, lanciando alla sorella un'occhiata decisa. «Patty, andiamocene» disse. «Forse siamo ancora in tempo».

Patty abbandonò la mano di Kid, riacquistando con un lampo la sua forma umana. Fissava confusa sia la sorella che il suo Shokunin, incerta su cosa fare. Kid si fece livido, e le lanciò uno sguardo intimidatorio.

«Patty» sibilò «resta al tuo posto».

«No, lei viene con me» ringhiò Liz, squadrandolo con gli occhi lucidi ma con un'aria di sfida. «Tu non puoi darle ordini. E io non permetterò che tu la porti alla morte».

«Non morirà nessuno, nemmeno tu».

«Non puoi saperlo!» gridò Liz. «Non lo sapevi nemmeno allora, ma io ti ho seguito lo stesso, perché avevo fiducia in te! Ma quando mi sono trovata lì, io... io...»

«Hai avuto paura» disse Kid. «Lo capisco, è...»

«No, non capisci» ruggì Liz. «Lei è tutto quello che ho. Tu hai Maka, hai Daniel. Black Star ha Tsubaki. Io non ho nessuno, nessuno!» disse. «Se le dovesse succedere qualcosa, se...»

«Liz...»

«Tu non pensi mai a me!» gridò lei, spingendo via Kid che tentava inutilmente di calmarla. «Lo vedo come mi guardi. Per te nemmeno esisto, sono solo un'arma, un oggetto che usi in battaglia. A causa di questo, ormai agli occhi degli altri io non sono che la tua Buki... ma io ho un nome, Kid! Te lo ricordi il mio nome?»

Lui impallidì, fissandola cupo.

«Sono stanca di tutto questo. Tu non hai bisogno di noi quando non siamo armi, e lo sai. Non passi mai del tempo con noi, non vieni mai a trovarmi. Io sto sempre sola in quella maledetta casa in cui mi hai piazzato come un vecchio soprammobile usato, morendo di solitudine nell'attesa che tu mi chiami a compiere il mio cosiddetto dovere!» esclamò. «Ma io ho un solo dovere, quello di vivere una vita felice! Cosa che non posso fare, finché me ne resto qui, circondata da persone che non hanno alcun interesse verso di me».

«Non è così» le fece lui. «Ti assicuro che non è così. Io ho bisogno di voi...»

«Bugiardo».

Liz scoppiò in lacrime, e lui si guardò attorno, smarrito. Nessuno fiatava, nessuno guardava.

«Come credi che faccia a mantenere la calma in battaglia?» mormorò lui, andandole vicino. «Perché ci siete voi. Voi sapete come sono, conoscete i miei punti deboli e sapete prevenirli. La verità è che do per scontata la vostra presenza, ma...»

«Io sono una donna, Kid» disse lei, debolmente. «Non sono una dannata arma da puntare addosso a qualcuno. Voglio ridere, e innamorarmi. Voglio uscire a cena, andare a ballare, divertirmi con mia sorella quando siamo sole. Non me ne frega niente della tua battaglia, lo capisci? Io non voglio essere circondata da tutto questo, questa... morte, quest'ombra disgustosa e questa tristezza, così lugubre...» pianse. «Quando mi hai proposto di lavorare con te, non mi aspettavo una cosa del genere. Non credevo che sarei passata da una vita di merda a una ancora più di merda! Non è questo quello che volevo, non è questo quello che voglio!»

«E allora cos'è che vuoi?» fece Kid, esasperato. «Cosa ti aspettavi, venendo con me? Pensavo di essere stato chiaro, di averti spiegato...»

«Quello che voglio, è essere importante per qualcuno» mormorò Liz, triste. «Qualcuno che voglia proteggermi e portarmi lontano da tutto questo schifo. Non sbattermelo in faccia, giorno dopo giorno, aspettandosi anche che lo ingoi senza protestare».

Kid la fissò a lungo, profondamente colpito. Quindi le si avvicinò, lanciandole un'occhiata malevola.

«La verità, è che tu vuoi lui, vero?» sibilò. «Mi stai punendo perché non sono stato come lui, non è così? L'eroe perfetto, l'uomo che tutte le donne vorrebbero avere accanto... Soul Evans, che si sacrifica per il suo amore... beh, ti dico una cosa: io non sono Evans. E tu non sei Maka».

Lei impallidì. Quindi, «tu» gli disse, fissandolo tra le lacrime con profondo disgusto «non hai capito un cazzo».

Kid strabuzzò gli occhi. Solo in quel momento, davanti alla profonda delusione di lei, capì l'errore che aveva fatto. Un errore stupido, che aveva commesso a causa del suo orgoglio. Un errore che ormai non poteva essere cancellato e che gli sarebbe costato tutto quello che aveva costruito così duramente in così tanti anni. Con coraggio, decise di affrontare le conseguenze di quel suo gesto così stupido, di cui si era già profondamente pentito.

«Davvero vuoi andartene?» le disse, con un sorriso triste. «Sai benissimo che senza di voi io non combinerei niente. Niente, Liz. Dico sul serio. Per me siete importanti, molto più di quanto riesca a dimostrarvi».

«E allora» fece lei, risoluta «lasciaci andare. Ti prego».

Kid fissò Liz con le labbra socchiuse. Non sapeva cosa altro dire. Avrebbe potuto provare ad insistere, ma a cosa sarebbe servito? Lei aveva già deciso, glielo leggeva negli occhi. E in fondo, se ciò stava davvero accadendo, era solo colpa sua e del suo essere stato così ottuso.

Sconfitto, alla fine Kid abbassò la testa, e sorrise.

«Va bene» mormorò. «Se è questo che volete, andate pure».

«Kid, cosa...»

«No» fece lui, bloccando Black Star che già si era levato, pronto a protestare. «Non sarò io a fermarle. Liz ha ragione. È capace di scegliere da sola ed è libera di farlo. È stata lei a decidere di venire con me, quindici anni fa. Ora, se ha scelto di andarsene, non la fermerò».

Liz fissò Kid tra le lacrime. Quindi annuì, spostando gli occhi sulla sorella.

«Andiamo, Patty».

Patty alzò gli occhi, sbattendo le palpebre; quindi sorrise, saltellandole allegra al fianco. Agitò la mano salutando i presenti come se quella fosse la cosa più normale da fare, prima di allontanarsi al fianco di Liz. Kid restò a guardarle mentre uscivano dalla stanza, aspettando che si voltassero un'ultima volta, cosa che però non accadde. Varcarono entrambe la soglia e lui fece appena in tempo a pronunciare il nome di Liz, prima che la pesante lama della ghigliottina ricadesse fragorosamente alle loro spalle, vibrando a lungo nel silenzio attonito che avvolgeva la stanza.

«Liz...»

Il suono della sua voce si mescolò al tonfo provocato dalla chiusura delle porte. Kid serrò le labbra, irrigidendosi e stringendo dolorosamente i pugni in tasca, conficcandosi le unghie nei palmi.

State attente, pensò. Vi prego.

 

 

*

 

 

«E adesso cosa facciamo?»

Patty continuava a gonfiare le guance, arricciando le labbra e roteando gli occhi tutt'intorno. Esasperata, Liz le si piazzò davanti premendole gli indici contro le guance, che le si sgonfiarono con un sonoro sbuffo. Desolata, Patty abbassò gli occhi a terra, leggermente imbronciata.

«Non abbiamo bisogno di loro, né di nessuno» fece Liz, rivolgendosi più a se stessa che a Patty, mentre si voltava a guardare verso il corridoio che si apriva silenzioso davanti a loro. «Andiamo».

«Ma Kiddo?» fece Patty, strusciando la suola dei suoi scarponcini contro il pavimento. «Lui potrebbe avere bisogno di noi, no?»

«Lascialo perdere».

Un suono, simile a un lento gocciolio, risuonò in lontananza. Liz si voltò, pallida, stringendosi alla sorella.

«Cos'è?»

«Cosa?»

«Non hai sentito?»

Liz socchiuse gli occhi, cercando di vedere attraverso il buio. Era strano. Il corridoio era perfettamente illuminato dove si trovavano loro, ma la tenebra sembrava inghiottire tutto appena pochi passi più avanti. Doveva essere scesa la notte... ma non era mezzogiorno solo poco prima?

«C'è qualcosa...»

Lentamente, lasciò la mano alla sorella. Un passo dopo l'altro, Liz prese ad avanzare lungo il corridoio, affacciandosi al buio che stringeva ogni cosa. Ormai era su di lei: lo sentiva, freddo, che le scendeva sulle spalle, e poi giù giù fino al cuore.

«Patty...»

«Non c'è».

Liz trasalì. Si voltò, lentamente, quasi presagendo qualcosa di terribile. Quando vide la sorella, a poca distanza da lei, che ridacchiava dandole le spalle, provò una rabbia incontenibile.

«Credi che sia uno scherzo, stupida?» fece, prendendola per un braccio. «Guarda che potremmo anche morire...»

«Lo so».

Liz lanciò un grido. Le mani le tremarono e le gambe non riuscirono più a reggerla. Al volto della sorella si era sostituito quello di un essere mostruoso, dagli occhi di fuoco, che dilaniò in due ciò che restava di Patty per riversarsi all'esterno della sua pelle come una colata di lava scura. Liz provò a correre via; ma per quanto provasse a muoversi, non riusciva a spostarsi di un centimetro.

Il mostro era sopra di lei, adesso. Cresceva a dismisura, raccogliendo su di sé la notte in un sinistro turbinio. La fissava divertito.

L'avrebbe uccisa?

Non lo farò.

Perché?

Perché sei già mia.

«Sorellona!»

Liz sbatté le palpebre, cercando disperatamente di vedere attraverso le lacrime che le offuscavano gli occhi. Si guardava attorno, confusa, chiamando disperatamente il nome di sua sorella. Voleva vederla, sentiva la sua voce, ma per quanto guardasse...

...dove sei, dove...

«Patty!»

Liz si terse le lacrime. Davanti a lei, proprio nel bel mezzo della colonna di tenebra, la figura di Patty si materializzò, facendosi largo fino a lei. La vide attraversare quella notte densa, come se fosse su un piano diverso, distante, come in un'altra dimensione. Stupita, la vide piazzarsi davanti a lei, sorridente.

«Che hai?» le fece, schermandosi gli occhi con una mano e scrutando verso il corridoio. «Ti sei persa?»

Liz la fissò confusa. Alzò gli occhi. L'ombra era ancora là, al suo posto. Ma ora sembrava più lontana e nemmeno troppo minacciosa.

«Non... non la vedi?» chiese. Patty si voltò. Guardò verso l'alto, verso il basso. Poi si voltò di nuovo e scosse la testa.

«Proprio no».

A quel punto, Liz schiuse le labbra. Restò a fissarla masticare la sua gomma, le mani piantate sui fianchi, assolutamente indifferente. Quindi, senza riuscire a trattenersi, scoppiò a ridere.

«Ti trasformeresti per me?» fece. Patty scrollò le spalle, sorridendo.

«Ok».

Fu con grande divertimento che Liz prese a sparare all'ombra che cercava di agguantarla. Ad ogni sparo, la sicurezza cresceva. Sentiva il cuore di Patty pulsare tra le sue mani, la cosa più piccola e pura con cui avesse mai avuto a che fare. E nulla sembrava più in grado di sfiorarla.

Sparava, Liz, e sparava ancora. E ogni volta che premeva il grilletto, ricacciando all'inferno quelle lingue di orrore che sembravano volerla rapire, sentiva di non essere mai stata così libera in vita sua.

 

 

 

 

 

 

 



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Capitolo 23
*** Speranza, rassegnazione: il duro volto della realta! è davvero questa la fine? ***


Con una spallata, Maka riuscì ad aprire il piccolo lucernario, che si spalancò scricchiolando. Tossì. Quando riaprì gli occhi, la polvere che si era sollevata dal vetro era ancora lì, che galleggiava densa nel sole come una piccola nuvola solitaria, in attesa di essere spazzata via dal vento.

Maka infilò la testa nell'apertura, usando una certa circospezione. Aveva sentito degli spari, poco prima. Non poteva essere altri che Kid. Per questo aveva deciso di fermarsi e di dare un'occhiata, visto che Daniel si trovava sicuramente con lui.

«Kid?» esalò. «Sei tu?»

La sua voce rimbalzò contro le pareti avvolte da una fitta cortina di tenebra. Per un attimo, un velo di gelo discese su di lei, facendola rabbrividire e contrastando con la piacevole sensazione di calore che le producevano i raggi di sole sulla schiena.

Non c'era nessuno.

Eppure...

Maka aguzzò gli occhi. Qualcosa, davanti a lei, si stava muovendo. Era ancora presto per dire se si trattasse davvero di Kid, o non fosse piuttosto qualche mostro di tenebra, pronto a sgusciare fuori dall'ombra per aggredirla. Ma era solo questione di attimi. Poi, l'avrebbe scoperto.

Preparando la falce, Maka socchiuse gli occhi. Ancora pochi passi... ancora uno...

«Maka!»

Liz?

Maka strabuzzò gli occhi. Liz era sbucata di corsa fuori dalla tenebra, andando a fermarsi proprio sotto al lucernario. La fissava stupita attraverso quel sottile cono di luce, schermandosi gli occhi con la mano. Quando fu certa che quel profilo scuro appartenesse proprio a Maka, Liz abbassò la pistola, e le sorrise.

«Dio, che bello vederti. E vedere di nuovo il sole».

«Che accidenti ci fai, qui?» chiese Maka. Continuava a guardare nel buio che circondava la ragazza, sperando di veder sopraggiungere Kid. Quando si rese conto che non sarebbe arrivato, spostò gli occhi su Liz, squadrandola torva.

«Non dirmi che...»

Liz impallidì e un'ombra di colpevolezza le discese sugli occhi.

«Io... stavo cercando di raggiungere gli altri». Disse. «Insieme a Patty».

Maka guardò prima lei, poi la pistola che agitava nel pugno.

«E dove diavolo è Kid?»

«L'ho lasciato con gli altri. Da Shinigami».

Maka trasalì. Fissò Liz senza capire, poi scosse la testa.

«Mi stai dicendo che avete lasciato lui e mio figlio da soli?» gridò. «Ma siete impazzite?»

«Maka, mi dispiace» si scusò Liz. «Ma ho avuto paura».

Paura? E chi non ha avuto paura, razza di stupida?

Se avesse potuto averla tra le mani, probabilmente Maka l'avrebbe strozzata. Non è che negli ultimi tempi andasse d'amore e d'accordo con Liz. La relazione che la ragazza aveva avuto con Soul, per quanto breve, aveva turbato Maka profondamente, caricandola di emozioni contraddittorie. Senza contare che da sempre Liz la trascinava inconsapevolmente in una strana forma di competizione, probabilmente dovuta al fatto che, in qualche modo, si erano trovate a dividere gli uomini della loro vita. Prima Kid, poi Soul.

«La paura non è una scusa, Liz» ringhiò Maka, in tutta risposta. Si rese conto di aver parlato in modo esageratamente brusco ma Liz sembrò non farci troppo caso.

«Lo so. Sto solo cercando di rimediare».

«Già...»

Beh, per quanto detestasse ammetterlo, Liz sembrava sincera. Ok, ce l'aveva con lei. Però non poteva negare che in fin dei conti, in passato, per Kid c'era sempre stata.

«Sai qual è la strada?» sospirò Maka. Liz annuì.

«Sì, e so anche come tenere a bada quell'ombra. Almeno per un po'. Ma c'è un problema. Kid ha messo i suoi sigilli alla porta e nessuno può entrare».

«Vuoi dire che da quella porta si può solo uscire e non entrare?» fece Maka, sollevata. «Beh, meno male che c'è Kid. Almeno lui è una garanzia».

«Senti, Maka» mormorò Liz, allargando le braccia. «Io... a proposito di Soul...»

Maka arrossì violentemente. «Non è questo il momento» fece. «Dobbiamo trovare il modo di farti arrivare fin qui. Da qui si può arrivare alla cupola, passando per l'esterno. È più sicuro».

Liz provò a guardarsi intorno. «Non so da dove passare» ammise. «Solo al pensiero di tornare là in mezzo...»

Maka le fece segno di tacere. Liz la fissò, impallidendo all'improvviso.

«Che diavolo è?»

«Cosa?»

«Ho sentito dei passi, e...»

Liz spianò la pistola, puntando decisa verso un punto non precisato nella tenebra. Maka, dall'alto, cercava disperatamente di vedere cosa si stesse muovendo nel buio.

«Guarda che non mi fai paura» gridò Liz, anche se il suo tono risultava poco convincente. «Hai capito?»

«Non ho intenzione di farti paura. Quindi metti giù quell'arma».

Maka sospirò sollevata, vedendo emergere dall'ombra il volto esausto del padre di Soul. L'uomo aveva la faccia ricoperta di graffi e di escoriazioni. Le mani erano avvolte in fasce insanguinate e la camicia sul petto era strappata. Lui sollevò lo sguardo, socchiudendo gli occhi alla luce calda del sole che filtrava dal lucernario. Quando intravide il profilo di Maka stagliarsi netto davanti a lui, tutta la stanchezza sembrò abbandonare il suo volto.

«Ciao» disse, alzando la mano con cui ancora stringeva la catena della sua Kama. «È bello rivederti».

Maka ricambiò il sorriso. Era felice di rivedere quell'uomo.

«Non potete stare qui, è pericoloso» disse lui, riprendendo subito il consueto tono deciso. «Il Kishin sta per arrivare».

«Ne sei certo?» domandò Maka. Liz rabbrividì, stringendo Patty tra le mani.

«L'ombra si sta addensando» fece l'uomo, accennando al buio alle sue spalle. «Tra poco inghiottirà ogni cosa. È questione di attimi, ormai».

«Stiamo cercando di raggiungere la cupola» fece Maka. «Puoi aiutarci?»

L'uomo annuì.

«Proseguite dall'esterno e non percorrete i corridoi. Lì la tenebra è troppo fitta e voi dovete cercare di risparmiare energie. Piuttosto» disse, lanciando a Liz e Patty un'occhiata severa «voi due chi diavolo siete?»

«Siamo le Buki di Deth the Kid» rispose Liz.

«Il figlio di Shinigami?» esclamò il padre di Soul, sorpreso. «E perché non siete con lui?»

«È una storia lunga».

«Non mi interessano le storie lunghe, visto che non c'è il tempo per ascoltarle» tagliò corto il padre di Soul. «Immagino che vogliate raggiungerlo, no?»

Liz annuì. L'uomo si passò una mano tra i capelli grigi.

«Dovrai pensarci tu» disse a Maka. «Io non posso occuparmi anche di loro».

«D'accordo» rispose lei, pronta.

Il padre di Soul tese la mano a Liz, che si trasformò subito. Quando ebbe tra le mani entrambe le pistole, le soppesò per bene; quindi alzò gli occhi su Maka.

«Sei pronta?»

Maka annuì. L'uomo strinse le labbra e lanciò prima una pistola poi l'altra. Maka le afferrò al volo, senza problemi. Quindi, se le infilò alla cintura.

«Prosegui senza fermarti» le disse lui. «Ho provato a tenere a bada quell'ombra, ma credo che farà di tutto per impedirti di proseguire. Se dovessi incontrarla, cerca in tutti i modi di non aprirle il tuo cuore. Se dovesse leggere le tue emozioni e capire cos'hai in mente, per te e per Soul sarebbe la fine».

«Non ti preoccupare» fece Maka, decisa, «se dovessi incontrarla, saprò come fermarla».

«Maka» disse l'uomo. Lei si fermò, voltandosi a guardarlo. «Ricordati una cosa. La vita di mio figlio dipende da te. Ti prego, fai di tutto per salvarlo».

Lei lo fissò in silenzio. Quindi sorrise.

«Rivoglio indietro il mio partner» affermò, decisa. «Non lo lascerò mai in mano a quell'essere».

L'uomo annuì. «Lo so» rispose. «Ma stai attenta».

Maka lo salutò con un cenno, quindi sparì lungo il cornicione. Il padre di Soul restò un istante a guardare il sole che si affacciava caldo dal lucernario. Stava cambiando posizione, e presto i suoi raggi non avrebbero più illuminato il corridoio. Non appena la luce cominciò a indebolirsi e a farsi più opaca, il padre di Soul si riscosse. Senza perdersi d'animo, si rituffò nella tenebra.

 

 

*

 

 

«E adesso, che facciamo?»

Kid strinse le labbra. Continuava a guardare il piccolo Daniel, che sorrideva tra le braccia di Shinigami. Era solo un bambino, ma si era reso perfettamente conto di quanto stava accadendo, e faceva di tutto per non mostrarsi preoccupato. Kid glielo leggeva negli occhi. Conosceva suo figlio. Sapeva che quella sfumatura cupa che si era depositata sul fondo dei suoi profondi occhi verdi, così simili a quelli della madre, tradiva una preoccupazione vera. Tuttavia, quel ragazzino aveva un carattere davvero incredibile e si vedeva dalla forza che riusciva a dimostrare anche in casi come quello. Sentiva l'ansia che lo circondava, forse riusciva a percepirla meglio di chiunque altro lì dentro. Eppure, tutto quello che faceva era sorridere.

«Che facciamo?» mormorò Kid, per rispondere alla domanda che gli aveva appena fatto Black Star. «Niente. Aspettiamo».

«Tutto qui?» commentò acido Black Star. «Vuoi dire che restiamo qui a far niente? Come dei polli?»

«E cosa vorresti fare, attaccare in massa?» lo riprese Spirit. «Ci abbiamo già provato con Azura, ma non è servito a molto. Ricordi?»

«Io ricordo solo che tu e gli altri vecchi non c'eravate, quella volta» masticò Black Star con evidente atteggiamento di sfida. Spirit impallidì.

«Basta, litigare non serve».

Kid lanciò ai due un'occhiata eloquente, quindi si allontanò. Era stanco di quei battibecchi inutili. Tutto ciò che voleva, in quel momento, era tenere suo figlio tra le braccia, prima che forse fosse troppo tardi per farlo.

Aveva fatto male a tenerlo con a sé. Si era dimostrato un pessimo padre. Se non avesse pensato esclusivamente ai suoi desideri egoistici, adesso Daniel sarebbe stato in salvo da qualche parte lontano da lì. Invece, a causa sua e della sua arrogante sicurezza, probabilmente sarebbe morto come tutti.

Era a pochi passi da lui. Daniel aveva già alzato gli occhi verso il padre, sorridendogli, quando Kid vide lo stupore impadronirsi del suo viso. Il bimbo alzò una mano.

«Mamma!»

Kid non capì, non subito. Si voltò. Guardò con gli occhi prima verso gli altri, poi li alzò sulla cupola. Ad una delle finestre c'era qualcuno, che faceva dei gesti per richiamare l'attenzione. Kid socchiuse gli occhi.

Maka?

Lei puntò una pistola contro il vetro, e fece fuoco. Un grido strozzato percorse la stanza e tutti alzarono gli occhi, sorpresi e spaventati, scansando confusamente i frammenti di vetro che piovevano dal soffitto. Maka si affacciò alla finestra, colpendo con i pugni le schegge che ancora non volevano staccarsi dall'infisso.

«Ehi, tutto bene?» gridò. Tsubaki, non appena la vide, si precipitò sotto la finestra.

«Maka! Che bello che tu sia qui!»

Maka rise. Per un istante il suono argentino della sua risata sembrò spazzare via la cupezza che si era impadronita degli animi di tutti.

«Kid, qui c'è qualcuno per te» fece poi, agitando le due pistole. «Sono molto dispiaciute di averti lasciato solo».

Kid, incredulo, si precipitò sotto la finestra, afferrando al volo le due Thompson che Maka gli aveva lanciato. Non appena le ebbe in mano, le strinse forte.

«Razza di stupide» mormorò, ma con il sorriso sulle labbra. «Avreste potuto anche morire».

«Scusaci, Kid» disse Liz, il cui volto sorridente si rifletteva attraverso la canna lucente dell'automatica. «Non accadrà mai più, promesso».

Lui annuì. Quindi si infilò le pistole alla cinta.

«Maka, devi andartene da qui» disse, alzando gli occhi verso di lei. «Presto arriverà il Kishin».

«C'è Daniel lì?»

«Mamma, sono qui».

Il piccolo Daniel si avvicinò al padre, alzando gli occhi verso la sommità della cupola. Quando Maka incrociò i suoi occhietti, avvertì un improvviso tuffo al cuore.

«Daniel, cerca di fare il bravo, ok?» disse, cercando di mascherare il tono tremolante della sua voce. «Presto la mamma verrà a prenderti. Nel frattempo, fai tutto quello che ti dice papà. Guai se fai di testa tua».

Il bimbo annuì, serio. Maka sorrise. Quindi lanciò a Kid uno sguardo deciso.

«Kid, farò in modo di intercettare il Kishin, ma...»

«No, Maka» gridò lui. «È troppo...»

«È troppo tardi!» gridò Marie. «È qui!»

Maka spostò gli occhi sulle ghigliottine, ancora abbassate. Un suono cupo, simile a una vibrazione profonda, salì improvvisamente dal suolo, propagandosi tutt'attorno e facendo tremare sommessamente le lame. Qualcuno aveva preso a bussare pesantemente contro di esse. Il gelo scese sui presenti.

«Cercate di mantenere la calma» gridò Stein. «Preparatevi per la Catena dell'anima. Quando il Kishin entrerà, dovremo essere pronti e trovarci sulla stessa lunghezza d'onda».

Tutti si strinsero tra loro. Maka si guardò intorno, cercando un modo per scendere e unirsi agli altri. In quel momento, in modo del tutto inaspettato, la prima della lunga serie di ghigliottine scattò. Con uno stridore assordante la lama saettò verso l'alto, spezzando l'infisso che la sorreggeva con uno schianto secco. Quindi ricadde al suolo, dibattendosi come un'anguilla e riecheggiando cupamente per tutto il corridoio.

«Mio dio...» mormorò Marie, cercando di mantenere la calma. Stein, al suo fianco, le strinse la mano.

«Va tutto bene» mormorò. «Cerca solo di concentrarti».

La seconda ghigliottina cedette ancor più facilmente. Il Kishin continuava ad avanzare, senza che nulla potesse apparentemente fermarlo. Maka lanciò a Daniel un ultimo sguardo. Il bambino era come paralizzato e lei non era da meno. Sentiva che doveva muoversi, ma non ci riusciva. Non poteva allontanare gli occhi dal suo bambino.

Lui si voltò a cercare il suo sguardo. Non aver paura gli sussurrò lei, da lontano. Daniel lesse le sue labbra, che ora si erano piegate in un sorriso. E annuì, pallido.

Una dopo l'altra, le ghigliottine scattarono come molle. Davanti all'ultima, bloccata dai sigilli di Kid, il Kishin si arrestò.

«Speriamo che quei dannati sigilli tengano» mormorò Black Star. «Almeno finché non abbiamo instaurato questa maledetta Catena...»

In quel momento, si udì un sommesso scricchiolio, che si fece via via più forte. La lama prese a piegarsi, e a incurvarsi. Quindi, all'improvviso, ogni rumore cessò del tutto. I presenti si guardarono, incerti. Il silenzio era ovunque, e avvolgeva ogni cosa.

«Cosa diavolo è successo?» mormorò Black Star. Poteva sentire il suo respiro affannoso, e il cuore battere furiosamente. Cercava con gli occhi, leggeva nel volto degli altri la stessa incertezza e ansia che lo avvincevano.

«Sono i sigilli» mormorò Sid. «Sembra che abbiano funzionato».

Improvvisamente, la ghigliottina schizzò verso l'alto, mandando in frantumi l'intera struttura. Le porte si aprirono e un conato di tenebra si riversò all'interno come una gigantesca onda nera.

«Catena dell'anima!» gridò Stein. Tutti, nessuno escluso, si concentrarono a cercare una frequenza comune. Daniel venne spinto da Kid dietro allo specchio di Shinigami, dove si accucciò in silenzio. Shinigami, fermo davanti agli altri, fissava senza dire una parola l'ombra che andava via via raggrumandosi.

«Resistete!» mormorò Stein. La catena era quasi raggiunta. Maka assisteva sgomenta.

Fu allora che il Kishin parve accorgersi di lei. Una lingua d'ombra saettò rapida verso la finestra, colpendo Maka dritto al volto. La ragazza lanciò un grido e scomparve oltre il parapetto.

«Maka!»

Al grido di Spirit, Kid si voltò smarrito verso la cupola. La Catena si infranse con uno schianto. Sconvolti, gli altri si guardarono tra loro, del tutto impreparati e inermi. Il Kishin torreggiava sulla soglia, gli occhi accesi da un fuoco che si agitava denso e scuro, animato da una profonda malvagità.

«Eccoli qui, i pupazzetti di Shinigami» mormorò, agitando nell'aria una falce nera dai bagliori di fiamma. Pur nella paura, tutti restarono come meravigliati davanti alla bellezza di quella falce, che si muoveva sinuosa ai loro occhi, in una sorta di danza ipnotica. Sembrava che dalla sua lama colasse il veleno di un serpente, lo stesso serpente che pareva averne posseduto il corpo, tanto quell'arma si muoveva con incredibile elasticità.

«Mi spiace avervi colto di sorpresa» esalò il Kishin. «Ma non si può dire che non vi avessi avvertiti del mio arrivo...»

Il Kishin fece per alzare la lama. Stein fu pronto ad impugnare Marie, ma del tutto inaspettatamente Shinigami si frappose tra il Kishin e gli altri membri della Shibusen. Non aveva armi con sé. Spirit giaceva a terra, abbandonato, e fissava Shinigami con gli occhi sconvolti dalla sorpresa.

«È solo me che vuoi» disse Shinigami. «Loro non c'entrano».

Il Kishin rise, indietreggiando di un passo. Sembrò squadrare Shinigami e soppesare lentamente le sue parole.

«E come combatterai? Non hai un'arma».

«Sì che ce l'ha» esclamò Spirit coraggiosamente, alzandosi in piedi. «Io...»

«No, tu resterai al tuo posto» fece Shinigami duro, senza nemmeno voltarsi. «Questa cosa non ti riguarda. E poi, se io dovessi cadere, gli altri avranno bisogno di te».

«Sommo Shinigami...»

«Fai come ti ho ordinato!»

Spirit tacque. Pallido, si avvicinò lentamente al gruppo, stringendosi accanto agli altri.

«Se sarà necessario» disse Shinigami «combatterò da solo».

Il Kishin ammiccò.

«Eroico da parte tua. Non ti credevo capace di tanto. Di solito lasci che siano gli altri a immolarsi per la tua giusta causa».

«E tu, allora?» rispose, Shinigami accennando alla falce che il Kishin teneva tra le mani. «Sei forse diverso da me? Perché non lo lasci andare? Non gli hai procurato già abbastanza dolore?»

«Lui è parte di me» esalò il Kishin, fissando ammirato la sua arma. «Lo è sempre stato. Siamo cresciuti insieme, e lo sai... proprio come con suo fratello, prima di lui. Il suo destino, è anche il mio».

«E allora» disse Shinigami, duro. «Morirete insieme. È davvero questo che vuoi per lui?»

Il Kishin scoppiò a ridere.

«Tu minacci me?» fece. «E come, che non hai neppure un'arma?»

«Ora ce l'ha».

Il Kishin si volse, sorpreso. Dall'ombra, alle sue spalle, emerse il profilo esausto del padre di Soul, che entrò nella stanza zoppicando, andando a posizionarsi accanto al Sommo Shinigami. Non appena lo vide, questi lo salutò con un cenno.

«Gilbert» lo salutò Shinigami.

Il padre di Soul sorrise debolmente, deglutendo a fatica. Il Kishin sbuffò.

«E così, ce l'hai fatta a uscire da quel buco in cui ti eri cacciato» ringhiò. «Stupendo. Vorrà dire che vi ucciderò entrambi in un colpo solo, risparmiandomi la fatica di dovervi venire a stanare uno per uno, come topi in trappola».

Shinigami tese la mano verso Gilbert, che subito si trasformò in una lunga catena d'argento, alle cui estremità brillavano due falcetti sottili. Il Kishin indietreggiò con il volto decomposto in un ghigno sardonico.

«E così ci siamo» esalò, con in volto una maschera di assoluta perfidia. «Alla fine, la nostra vecchia battaglia ha di nuovo inizio. Bene, che vinca il migliore».

 

*

 

Uno, due...

Dannazione. Niente da fare.

Maka continuava a guardarsi le punte dei piedi, che penzolavano nel vuoto. Quando il Kishin l'aveva colpita, aveva abbandonato la presa e si era ritrovata a scivolare lungo la cupola. Se non era precipitata, era stato solo grazie al suo provvidenziale istinto di sopravvivenza, che le aveva fatto sfoderare la falce con cui era riuscita ad aggrapparsi a un sottilissimo quanto precario cornicione. Ora si trovava lì, inerme. La lama a cui stava aggrappata era tutto ciò che la teneva in vita. Ma era una posizione per nulla comoda. Il braccio cominciava già a farle male e non era sicura che avrebbe resistito ancora per molto in quelle condizioni.

In un momento come quello, sarebbe stato normale per chiunque provare paura. Perciò era ancora più strano che le capitasse di trovarsi con la mente completamente vuota. Le era successo anche mentre cadeva lungo la cupola. Tutto ciò a cui aveva pensato, in quegli attimi, era che sarebbe presto morta e che nulla avrebbe avuto più molta importanza. Suo figlio, Soul. Ogni cosa sembrava essersi improvvisamente fatta più lontana, e aver perso quei contorni definiti che fino a un secondo prima rendevano quei pensieri, ora così inconsistenti, delle assolute certezze.

Era come se una parte di sé cercasse di convincerla ad arrendersi.

Ok, davvero vuoi buttarti via così? Sto parlando con te.

Con uno sforzo, Maka chiamò a raccolta tutte le proprie energie e provò a issarsi ancora una volta. Sentì i muscoli delle spalle tendersi fino allo spasimo e il collo irrigidirsi per lo sforzo. Mentre si sollevava, facendo leva sulla falce che le spuntava dal braccio, poteva sentire le energie che le scivolavano lentamente fuori dal corpo.

Avanti, forza...

Bastava poco, solo un altro sforzo. Se non riusciva adesso, non ce l'avrebbe fatta mai più.

Maka tese la mano. Il cornicione era poco più in alto. I muscoli erano così tesi che lanciò un gemito, strizzando gli occhi per la fatica. Era vicina, era a un passo...

Non ce la faccio.

Il corpo ricadde pesantemente, procurandole un violento strappo alla spalla. Maka gemette, mordendosi le labbra fino a farle sanguinare. I muscoli erano a pezzi, le lacrime le offuscavano la vista. Era esausta.

Non si accorse nemmeno della borsetta che, lentamente, stava scivolandole dalla spalla. Maka assistette impotente al disastro, senza nemmeno la forza di lanciare un grido, o di muovere un dito per tentare di fermarla. La borsetta cadde. Lo fece in silenzio, scomparendo nel vuoto.

Era finita. Anche se per un miracolo i frammenti di specchio fossero stati ancora integri, lei non avrebbe mai avuto il tempo di scendere fino a terra e di ripercorrere ancora una volta tutta quella strada. Ammesso che riuscisse in qualche modo a non morire.

Maka alzò gli occhi. Sentiva il braccio intorpidito, segno che la falce cominciava a indebolirsi. Presto il suo braccio avrebbe riacquistato la propria forma umana e per Maka ciò voleva dire la fine. Sarebbe precipitata nel vuoto, senza dubbio. Tirando su con il naso, si sforzò di non guardare in basso. Ogni volta che abbassava lo sguardo, un vago senso di nausea e di vertigini le attanagliava lo stomaco. Sentiva uno strano languore al bacino e la testa farsi sempre più leggera. La paura cresceva e la concentrazione svaniva. Stava per svenire.

Merda.

Ok, aveva fallito in tutto, completamente. Aveva perso l'unica speranza di salvare Soul e ora stava anche per morire. Era un vero disastro. Ma non poteva finire così. Non ancora. Per quanto una parte di sé cercasse di convincerla a rassegnarsi, lei proprio non ce la faceva.

Mossa dalla disperazione, Maka provò a tastare la parete con la punta dei piedi, alla ricerca di qualche sporgenza. Non ne trovò nessuna. In cambio, il piede urtò contro qualcosa che risuonò seccamente, in modo del tutto inaspettato. Maka abbassò gli occhi. La vertigine la colpì subito, costringendola a distogliere lo sguardo e a prendere un profondo respiro. Quando li riaprì, si sentiva leggermente più calma, ma il dolore al braccio si era acuito, facendosi quasi insopportabile. Quella era l'ultima possibilità che aveva. Se non riusciva a sfruttarla, era finita.

Provò a chinare la testa, per guardare meglio. Non si vedeva gran che, ma non poteva essersi ingannata. Doveva esserci una vetrata, lì sotto. Ma siccome non riusciva a vederla, tutto ciò che poteva fare era affidarsi alla fortuna.

Con le ultime energie che le restavano, fece ondeggiare la gamba e colpì il vetro con forza. Non accadde nulla. Maka ondeggiò e la falce si mosse pericolosamente, facendola oscillare su se stessa. Disperata, Maka tentò il tutto per tutto. Raccolse entrambe le gambe e scalciò con tutta la forza che aveva. Il vetro si ruppe, con un gran fragore. Maka esultò, cercando di raggiungere il davanzale con la punta dei piedi. Lo sentiva, sotto di sé. Doveva solo lasciarsi andare.

Lasciarsi andare. Una parola.

Ok, puoi farcela. Coraggio, andrà bene.

Maka sospirò. Strinse i denti, trattenne il fiato.

Niente.

Non riusciva a lasciarsi andare. La paura era troppa.

Forza! Uno, due...

All'improvviso, la falce si staccò e il braccio riacquistò la sua forma consueta. Maka lanciò un grido, ritrovandosi improvvisamente in bilico sul davanzale della finestra rotta. Con il cuore in gola, si chinò cercando con le mani tremanti qualche sporgenza a cui aggrapparsi. Quando scivolò dentro al corridoio buio, si accasciò a terra in fretta, scossa da una serie di brividi interminabili. Si strinse tra le braccia, agitò le gambe. Ogni cosa andava bene pur di sentirsi ancora vivi.

Asciugandosi le lacrime, si alzò in piedi. Le gambe erano ancora malferme, e sentiva la testa girare vorticosamente. Si appoggiò al muro, portandosi una mano agli occhi. La sensazione di lei che cadeva nel vuoto, un attimo prima di toccare il davanzale, era ancora lì, ben presente nella sua mente. Difficilmente se ne sarebbe dimenticata.

Ma guardati. Sei uno straccio. Davvero ti aspetti di farcela?

Maka alzò gli occhi. Il corridoio era buio, illuminato solo dai tiepidi raggi di sole che filtravano attraverso la vetrata rotta. L'ombra che Maka gettava sul pavimento era immobile. Lunghissima, sembrava tendere le braccia verso le tenebre più fitte, che si affacciavano là dove la luce non riusciva a spingersi. Maka sapeva cosa si agitava, tra quelle tenebre. Per quanto avesse cercato di ignorarla, quella dannata ombra non voleva saperne di lasciarla in pace. Proprio come le aveva predetto il padre di Soul, era lì che la attendeva. Aveva ripreso forza in seguito alla caduta, affacciandosi nuovamente al suo cuore gravido di paura. Per tutto quel tempo, aveva aspettato che lei la raggiungesse, che si spingesse fino al luogo in cui si trovava, nascosta, per tenderle l'ultima trappola. Anche adesso, poteva sentire i suoi occhi vuoti che la fissavano attraverso il vetro opaco degli specchi che ornavano la parete. Quanto avrebbe desiderato sferrarle un pugno e mandarla in frantumi come quelle vecchie vetrate polverose.

So cosa vorresti fare... perché non lo fai? Avanti, sfogati. In fondo, la situazione è piuttosto critica. È normale che tu sia stressata.

Non mi sarebbe di nessun aiuto.

No, non le sarebbe stato di nessun aiuto. Anche se avesse davvero colpito quel vetro, e l'avesse ridotto in mille frammenti minuscoli, quell'ombra non sarebbe svanita. Anzi. Avrebbe approfittato di quel suo improvviso scatto di nervosismo per diventare ancora più forte. In fondo, l'aveva già combattuta due volte, eppure non voleva saperne di lasciarla in pace. Ormai aveva capito che avrebbe dovuto conviverci ancora a lungo.

Vorresti liberarti di me, non è così? Dillo. Abbi la forza di ammetterlo, qui, davanti a me. Tu vuoi fare a meno di me. Ma nessuno può vivere senza la propria ombra.

Maka storse leggermente gli occhi. Il suo volto si rifletté nel gigantesco specchio che aveva di fronte, racchiuso da una cornice di legno scrostato. Ma anche quello che vedeva non era il suo vero volto. Appariva opaco, e spento. E gli occhi erano vuoti, privi di ogni vita.

Lanciò un'occhiata all'ombra che dai suoi piedi andava a confondersi con le tenebre che avvolgevano lo specchio. Per tutta risposta, il suo riflesso oltre il vetro sorrise.

Devi proprio startene lì, a guardarmi come un avvoltoio? pensò Maka. Distolse lo sguardo. Quella cosa la infastidiva. Sapeva che non avrebbe potuto toccarla, non lì e non adesso, non dopo che l'aveva definitivamente sconfitta. Non c'era più posto per lei, nel suo cuore, non finché Maka avesse voluto così. Non aveva potere, se non era lei a volerglielo dare. Forse era per quello che restava a guardarla dietro quel vetro, senza fare nulla. Era semplicemente incapace di lasciarla andare, così come invece Maka aveva fatto con lei.

Beh, puoi startene lì finché ti pare. Non mi riguarda affatto.

Se è così, perché non te ne vai? Io non potrei seguirti. Vattene, forza. Liberati di me, se sei così convinta di poterlo fare.

Convinta... certo, avrebbe potuto farlo benissimo.

Non credere che sia un problema.

Avrebbe solo dovuto muovere un passo, dirigersi verso la porta che conduceva alla stanza di Shinigami e...

Non ce la faceva. Qualcosa la bloccava. Era come se tutto il suo corpo si fosse improvvisamente congelato, impedendole di muovere anche solo un passo.

L'ombra ridacchiò sommessamente. Il sibilo della sua risata si insinuò ovunque e per un istante parve quasi che l'ombra avesse riacquistato maggior vigore.

La verità è che senza la mia forza, non potresti mai farcela. Sei la solita testarda, non vuoi proprio capire. Sono stata io a renderti quello che sei. La paura e la rabbia sono state la tua forza, finora. E il dolore. Senza di loro, non saresti mai arrivata dove sei. Perciò, lascia che ti aiuti. Io e te in fondo vogliamo solo la stessa cosa.

Noi non vogliamo la stessa cosa. Io voglio Soul, mentre tu, tu vuoi solo me.

L'ombra tacque per un istante. Si fece pensierosa, come se stesse soppesando le parole di Maka sul palmo della mano. Quindi la guardò.

E se anche fosse?, disse l'ombra. Non pensare di avere comunque molta scelta. Continui a vedermi come una nemica, mentre io voglio solo il tuo bene. Sei così pronta ad abbandonarmi, ma chi è che ti ha protetto quando eri vulnerabile? Ricordi cos'è successo quando hai provato a lasciarmi da parte? Lui ti ha spezzato il cuore. Proprio come tuo padre.

Maka maledisse quella parte di sé. Sapeva che non era vero quello che stava dicendo, ma non poteva fare a meno di ritornare con la mente a quel passato, quando lei si era fidata di lui, aprendogli il suo cuore, e lui se n'era andato senza una parola, facendola sentire uno straccio.

Non è così, non è così. Lui non mi ha mai abbandonato.

Davvero lo pensi?

Sì.

No.

L'ombra rise.

Scusa, ma non mi sembri molto sicura.

Lui non mi ha mai dimenticato, pensò Maka, stringendo forte la chiave che portava attorno al collo. L'ombra sbuffò, sbadigliando vistosamente.

Eppure, sei tu che ora stai rischiando la vita. Non ti è mai passato per la mente che in te lui non veda altro che una responsabilità? Forse lui ha scelto di andarsene proprio perché voleva fare come te... lasciarsi alle spalle qualcosa che sentiva come un peso. La verità...

Smettila...

la verità è che tu sei la sua ombra, la sua dannazione. Ciò che gli ricorda ogni momento il suo fallimento. Sei tu la sua paura più grande, il suo dolore, ciò che lo ha spinto a perdersi. Se lo ha fatto, è stato solo per te, perché tu vivessi. Anche adesso, tu hai fallito. La cosa migliore che tu possa fare, è sparire.

Lei era la sua ombra, la sua dannazione. Ciò che gli ricordava ogni momento il suo fallimento. Lei era la sua paura più grande, il suo dolore, ciò che lo aveva spinto a perdersi.

Se lo ha fatto, è stato solo per me, perché io vivessi.

Maka aprì la mano e fissò la chiave. Era piccola e lanciava tenui bagliori dorati.

Ora ti senti debole. È comprensibile. Nessuno si aspetta da te una cosa simile. Nessuno pensa che tu debba sopportare tutto questo. Puoi fermarti, e non fare nulla. Nessuno ti accuserà. Ma se vuoi, io posso renderti forte. Basta solo che tu mi apra il tuo cuore. Posso aiutarti a superare le tue difficoltà e a salvare tuo figlio e Soul, e mettere a tacere quel grido che senti dentro di te.

Un brivido la percorse, mentre tornava con la mente al terrore che l'aveva afferrata mentre stava precipitando, al dolore che aveva provato mentre vedeva la borsetta cadere e le sue speranze infrangersi nel vuoto.

Tu hai avuto paura. Anche adesso hai paura. Continui a cercare di sfuggire la paura, ma non ci riesci. Anche prima, là fuori, mentre cadevi, hai provato paura. Non è così?

No...

Si.

È per questo che continui a fallire. Perché la paura ti impedisce di vedere la realtà. Combatti, ma non sai perché. Credi di volere lui, quando in realtà tutto ciò che hai sempre cercato era un comodo rimpiazzo, qualcuno con cui sostituire tuo padre. Era questo che vedevi in lui, non è vero?

No.

Sì. Anche adesso, è la tua paura a parlare. La paura di ammettere che in realtà non lo ami affatto. Che lui non ti ha mai amato. Che ciò che volevi era credere che lui ti amasse, per poterlo rifiutare, per mostrare a te e agli altri che potevi fare a meno di un sentimento del genere. Tu hai paura di ammettere che il tuo è solo egoismo.

Eppure...

Ora vuoi aiutarlo. Vuoi salvarlo dalla sua paura, e dalla sua disperazione. E come pensi di combattere la sua paura, quando non riesci a battere nemmeno la tua? Hai perso tutto. Hai perso te stessa, e lui. Hai perso i suoi ricordi, che erano tutto ciò che avrebbe potuto salvarlo. E sei stata tu la causa. Vuoi negarlo?

No.

Esatto. Sai benissimo che non ti resta più nulla. Tutto ciò che ti resta, è l'immagine di lui che ancora credi di possedere. Ma anche quella svanirà. L'unica via è che tu ti abbandoni a me. Credimi. La rabbia, il dolore... lascia che questi sentimenti prendano possesso del tuo cuore, e non sentirai più la paura. Perché tu non vuoi provare paura, vero?

No.

Paura. La paura significava impotenza. Incapacità di fare qualsiasi cosa. Ma lei non poteva lasciarsi andare alla paura. Non poteva lasciare che Daniel crescesse senza di lei, e che Soul compisse quel suo maledetto destino...

Stupido. Stupido, stupido Soul.

Forse era vero che lei era la sua ombra, la causa di tutto il suo dolore. Almeno di quello presente. Ma qualcosa le diceva che la rabbia non poteva essere la soluzione, nemmeno quella rabbia che provava da sempre verso se stessa, e che così tante volte l'aveva spinta a odiarsi. Lei era lì per rimediare. Era lì per offrirgli una speranza, e per cambiare la sua anima. Se voleva riuscirci, doveva essere la prima a credere che fosse possibile. E forse doveva essere persino capace di affrontare per prima i suoi demoni.

Lo amava?

Forse quella era l'unica cosa certa di tutta la sua vita.

Davvero vuoi sapere se ho paura?, pensò Maka, alzando lo sguardo sul suo riflesso. Sì, ho paura. Ho avuto paura là fuori, tanto che sarei scoppiata a piangere. Ho paura adesso, perché non so cosa fare, e so che avrò paura quando entrerò là dentro, perché quello che dovrò affrontare è un essere terribile, e io non ho idea di come fare a batterlo. So che avrò paura per Daniel, e per Soul e per tutti i miei amici. Avrò paura per me, e per la mia vita. Tremerò, non riuscirò a muovere un muscolo. Ma non importa. Io non voglio farmi vincere dalla paura. Non voglio lasciare Soul in mano a quell'essere. Sì, io sono una fifona e una gran vigliacca. Ho paura di tutto e il mio coraggio è solo una maledettissima maschera. Ma quando entrerò là dentro, cercherò di indossare quella maschera ancora una volta e nascondere la mia paura, come ho sempre fatto. Mentirò, perché voglio che lui mi veda forte, e che non abbia paura per me. Voglio che mi veda sicura, che sappia prendere fiducia da me. Ecco, quello che voglio. Forse non sono la persona coraggiosa che Soul si merita, ma sono arrivata fin qui per dargli un'anima nuova. E ci riuscirò, usando le forze che ho. Dici che l'unica cosa che mi resta di Soul è l'immagine che ho di lui? Bene, allora vuol dire che partirò da quella.

L'ombra rise.

Davvero pensi di farlo? E come?

Maka sorrise. Si infilò la chiave sotto la camicetta e trasse un respiro profondo.

Ti piacerebbe saperlo, vero? Pensò. Beh, vaffanculo.

Con uno scatto improvviso, Maka compì un passo in avanti. Sentì come se dai suoi piedi si fosse staccata una lunga striscia di fango appiccicoso, che si strappò con uno schiocco sonoro e secco. Quando si voltò, incredula, vide la sua ombra in piedi dietro di lei, ferma, che la fissava in preda a una profonda tristezza. Con un sospiro, Maka si guardò i piedi. La sua ombra era svanita, ma pian piano cominciò ad addensarsi di nuovo intorno a lei, fino a ricostituirsi totalmente.

«Non hai più nulla da dire?» disse Maka, rivolgendosi all'ombra che le sorgeva di fronte, ormai lontana. L'ombra tacque. Maka sospirò. Voltandosi verso lo specchio, vide il suo viso riflettersi vivo, finalmente libero dall'angoscia.

«Questa è l'ultima volta che parlo con te», mormorò Maka, fissando intensamente la sua ombra. «Non riuscirai più a mettere in dubbio le mie certezze. Io e te non abbiamo più nulla da dirci».

L'ombra annuì gravemente.

Sembra che tu ce l'abbia fatta, mormorò in tutta risposta. Complimenti.

Maka restò a guardare la sua ombra che svaniva nel buio. Aveva già distolto lo sguardo quando qualcosa richiamò la sua attenzione. Con gli occhi socchiusi, fece un passo avanti, cercando di vedere al di là del buio. Ma la sua ombra era già svanita.

C'era stato un attimo, in cui le era sembrato di scorgere un sorriso sul suo volto.

 

*

 

«E così, Sommo Shinigami, è tutto qui quello che sai fare?»

Il Kishin sferrò il suo colpo definitivo. Shinigami tentò di pararlo, ma la forza del Kishin era spaventosa. Con un rantolo, Shinigami ruzzolò contro il muro, sbattendo violentemente la testa.

«Padre!»

Kid fece per soccorrerlo, ma Stein gli si parò davanti, impedendogli di uscire dal cerchio.

«Mantenete la concentrazione» fece. «O sarà tutto inutile».

«Fate come vi dice, o vi spazzerò via in un attimo. E allora addio divertimento» ragliò il Kishin, mentre si avvicinava gongolante a Shinigami, che giaceva ancora al suolo, inerme. Il Dio della Morte alzò lo sguardo verso il mostro, fissandolo esausto.

«Allora» fece il Kishin, scansando con un gesto annoiato la Buki che il Dio della Morte aveva sollevato per difendersi e posandogli una delle sue enormi mani nere sulla maschera. «Dimmi. Cosa si prova a rivivere tutti i propri incubi, Sommo Shinigami?»

Shinigami si aggrappò alla mano del Kishin, cercando inutilmente di strapparsela dal volto.

«Vuoi conoscermi?» sibilò il Kishin. «Vuoi sapere qual è la mia natura? Sarò magnanimo. Voglio accontentarti... anche se non so quanto tu sia preparato a conoscere la mia verità».

Shinigami cominciò a tremare, e a lanciare urla terrificanti. Kid si scagliò contro Stein, rompendo la Catena, che continuò a reggersi solo grazie alla profonda concentrazione degli altri.

«Non essere stupido» gli sibilò Stein trattenendolo per un braccio. «È quello che vuole... trascinarci fuori dal gruppo».

«Quale gruppo!» gridò Kid, disperato. «Stiamo qui a lasciare che lui venga massacrato?»

«Non siamo ancora pronti!»

«Non mi interessa!» fece Kid. «Spostati, o giuro...»

«No!»

Kid spostò gli occhi sul padre, che tendeva supplichevole una mano verso di lui.

«Kid, non uscire da lì» gridò Shinigami, la voce rotta dalla disperazione. Il Kishin rise, abbattendolo al suolo.

«Sei più tenero di quanto mi aspettassi. Basta così poco a ferirti?» disse, agitando la falce. «Eppure, dovresti sapere che tutto ciò che ti ho mostrato, non è che la conseguenza dei tuoi ordini, Dio della Morte...»

«Tu... tu non puoi capire» mormorò Shinigami, sfinito. Il Kishin lo fissò e un lampo di crudeltà attraversò i suoi occhi.

«Forse no, ma capire non mi interessa affatto. Ciò che voglio, è solo annientarti una volta per tutte. Tu e quell'inetto di Gilbert... e mettere fine alla tua assurda regola».

«Fermo!»

Il Kishin si volse. Maka, era comparsa all'improvviso e se ne stava ferma all'ingresso, ansante. Lo fissava duramente.

«Sono qui. Dicevi che avevamo un conto in sospeso io e te, non è vero?»

Il Kishin rivolse a Shinigami un'occhiata veloce. Quindi lo abbandonò del tutto, volgendosi interessato verso di lei.

«Maka» disse. «Ma che piacere. Bello da parte tua che ti sia unita alla festa».

«Perché non li lasci andare, e resti a vedertela con me?»

«Oh, credi davvero di avere tanta importanza? È cosa ti dà tutta questa sicurezza, se posso saperlo?»

«Sappiamo entrambi che ho qualcosa che ti interessa. Non è così?»

Il Kishin si avvicinò al volto di Maka, chinandosi su di lei ad annusarla. Lei aspirò il suo alito fetido, cercando di mantenersi calma e di non lasciarsi prendere dal disgusto. Riuscì persino a sfoggiare un sorriso di sfida, mentre lui le leccava avidamente la pelle del collo e del volto.

«Già, già» mormorò lui, girandole alle spalle e accarezzandole i capelli. «Avevo cominciato un bel discorsetto con te... eravamo buoni amici, mi sembra, no?»

«Lasciali andare, e io verrò con te» disse lei. Il Kishin rise.

«E io dovrei crederti?»

«Tu fallo. E poi vedremo».

«Vedremo...»

Il Kishin la squadrò a lungo, quindi scattò verso il gruppo racchiuso all'interno della Catena.

«Guarda questi poveri stupidi» esclamò, girando divertito attorno a loro. «Se ne stanno qui cercando di trovare le energie per combattermi, mentre tu te ne stai lì tutta da sola. Non ti fanno pena?»

Maka socchiuse gli occhi. Non presagiva nulla di buono.

«Sento tanta paura, qui» sibilò il Kishin, aspirando l'aria attraverso la voragine che aveva al posto delle labbra. «Tanta, tanta paura... va bene, adesso non posso passare» disse, picchiettando con la punta della falce sulla cupola di energia che racchiudeva il gruppo «ma chissà...»

Il mostro continuava a girare attorno al gruppo raccolto, cercando di cogliere uno sguardo di terrore a cui potersi aggrappare. Quando giunse davanti a Marie si fermò, fissandola a lungo. Lei strizzò gli occhi, stringendo la mano a Stein. Il Kishin rise, quindi passò oltre.

«Non la senti anche tu, Maka? La paura» rise il mostro. «Io la sento, proprio qui. È così tanta che potrei...»

In un lampo, il Kishin piantò la sua falce nella cappa di energia che sorreggeva la Catena dell'Anima. Marie lanciò un grido. Con uno schianto, la Catena si infranse, lasciando gli Shokunin e le Buki completamente esposti alla furia del Kishin, che lacerò ciò che restava dell'Onda dell'Anima senza fatica.

«Cucù!»

«Disperdetevi» gridò Stein, impugnando Marie. Il Kishin lo falciò subito con il manico della sua Buki, mandandolo a sbattere contro la parete. Stein si accasciò su se stesso, esanime.

«Pezzenti» gridò il Kishin. «E voi sareste maestri d'armi? Non siete degni di portare quel nome».

«Se tu lo sei, affronta me» disse Maka, alzando la voce. «Io e te, nessun altro. Se vinco io, lasci libero Soul e te ne vai all'inferno».

«E se vinco io?» ghignò il Kishin. Maka sorrise.

«Farai quello che vuoi».

«Sei sicura di te» disse il mostro. «Mi piace».

«Sei pronto allora?»

Il Kishin annuì.

«Solo un attimo» fece, alzando un dito. Sghignazzando, indietreggiò lento fino a raggiungere lo specchio infranto di Shinigami. Quindi, con un ghigno, tese la mano e agguantò il piccolo Daniel, che ancora si nascondeva là dietro. Maka impallidì, sentendosi gelare il sangue. Con lo sguardo cercò Kid, che dopo un attimo di stordimento si accorse di quanto stava accadendo.

«Come sai, io non amo seguire le regole» sibilò il Kishin. «Sono un tipo arrogante. Perciò, vediamo come te la cavi adesso. Puoi scegliere. La vita di tuo figlio in cambio della tua. Cosa ne dici?»

Maka lanciò al Kishin uno sguardo di fuoco. Lui scoppiò a ridere.

«Sai, sei ancora più carina quando ti arrabbi».

«Va bene, facciamo a modo tuo» acconsentì lei. Mentre parlava, cercava in tutti i modi di non fissare Kid che, muovendosi lentamente alle spalle del Kishin, aveva appena sfoderato le sue armi puntandole dritte contro il mostro.

«Crepa!» gridò Kid all'improvviso, aprendo il fuoco. Il Kishin non si voltò neppure. Sopportò tutti i colpi senza sottrarsi. Quando anche l'ultimo colpo fu esploso, il corpo ormai senza forma del Kishin si dissolse in una fanghiglia puzzolente, che ricoprì il suolo ai loro piedi. Kid si avvicinò, cauto. Daniel era immobile, tremante, gli occhi fissi sulla madre. Aveva i piedi immersi nel fango.

«Mamma» mugolò, muovendo un passo verso di lei. Maka trasalì.

«Non muoverti!» gridò. Daniel si fermò, giusto un attimo prima che il Kishin, riplasmandosi in un lampo, lo cingesse di tenebra, puntandogli al collo la lama della propria falce.

«A-ah! No, no, no piccino. Obbedisci alla mamma» sibilò il mostro. «E tu sparisci, lurida cornacchia» fece, lanciando a Kid uno sguardo minaccioso. «O giuro che gli spacco il cuore in due».

Kid lanciò a Maka un'occhiata. Lei annuì, calma. A quel punto, lui alzò le mani, allontanandosi. Il Kishin ridacchiò divertito.

«Allora, Maka» disse, tornando a rivolgersi a lei. «Sto aspettando. Ma ti avverto. Al prossimo scherzo dei tuoi amici, a tuo figlio salterà la testolina».

«No!»

Maka alzò le mani, fissando terrorizzata il Kishin. Daniel la guardava atterrito, senza saper cosa fare. Lei gli sorrise, pallida.

Tranquillo gli mormorò. Lui annuì, ma aveva paura. In quel momento, Spirit fece un passo avanti.

«Maka...»

«Non fate niente» scattò lei, rivolgendosi a lui e agli altri del gruppo, che nel frattempo si erano disposti in cerchio attorno a lei e al Kishin. Guardò Tsubaki e Black Star, intensamente. «Non fate nulla, finché non ve lo dico io».

Loro annuirono, seguiti dal resto del gruppo.

«Ascoltami» disse, spostando gli occhi sul mostro. «Siamo io e te, adesso. Lascia andare mio figlio, ok? Posso darti questo, in cambio».

Il Kishin fissò curioso Maka, che si sfilò una catenella dal collo.

«Che diavolo è?»

«Racchiude l'anima di Soul» fece lei. «Se la vuoi, è tua».

Il Kishin rise. «L'anima di Soul?» fece. «Avanti, puoi fare di meglio. Sai già che lui è mio».

«No, non lo è».

«Non lo è?»

Senza preavviso, il Kishin si scagliò dritto contro Maka, aggredendola con l'intento di falciarle l'anima in due. Un grido si levò dai presenti, ma Maka sembrava assolutamente tranquilla. Non mosse un muscolo. Il Kishin sollevò la falce, la abbassò veloce. Fece per colpirla, ma lei non si spostò. Non chiuse nemmeno gli occhi. All'ultimo istante, la lama deviò la traiettoria e le passò accanto al volto, procurandole solo un graffio superficiale alla guancia. La lama tranciò uno dei codini, che si sciolse. I capelli, ormai liberi, le ricaddero morbidamente sul volto, in ciocche disordinate. Il Kishin la fissò sconvolto.

«Come vedi» fece lei, con un ghigno, «lui non sarà mai tuo».

«Voglio quella chiave» gridò il Kishin. «Dammela!»

«La vuoi? Prendila».

Maka lanciò la chiave lontano. Il Kishin non ci pensò un secondo e abbandonò a se stessa la sua falce, che subito riacquistò la sua forma umana. Soul, sconvolto e smarrito, si materializzò proprio davanti agli occhi di Maka. Traballò leggermente, voltandosi confuso verso di lei, quindi abbassò gli occhi su Daniel, che si trovava ancora fermo accanto a lui, in mezzo alla stanza. In un lampo, Maka trasse a sé Daniel, spostandolo vigorosamente di lato. Quando vide che era al sicuro dietro di lei, si volse dura verso Soul.

«Maka...»

«È vuota!» gridò il Kishin, la cui ombra si stava ancora contorcendo come impazzita sopra la chiave. «Maledetta sgualdrina, cosa significa...»

Lei rivolse al Kishin un ghigno di sfida, prima di torcere gli occhi sul volto di Soul. Lui la fissava confuso, sembrava quasi non capire. E a quel punto, lei sfoderò la falce.

«Mi dispiace, Soul» mormorò, mentre una lacrima le solcava la guancia. E con un colpo preciso, lo trapassò da parte a parte.

«No!»

Il Kishin restò a guardarla impietrito. Nessuno dei presenti riuscì a credere a ciò che vedeva, ma Maka non si fermò. Con uno scatto deciso, affondò ancora di più la sua falce nel petto di Soul, finché non sentì la sua anima dibattersi spaventata. A quel punto, torse la lama e la estrasse con un movimento fulmineo. Ci fu un rumore sordo, seguito da un sibilo. E l'anima di Soul si squarciò, cessando di pulsare.

«Sono qui» mormorò lei, ansiosa, affrettandosi a sorreggere il corpo esanime di Soul che le crollò tra le braccia.

«Soul» gli sussurrò, tra le lacrime «perdonami, ma non c'era altra scelta».

Lui le strinse la mano, fissandola dolcemente attraverso le palpebre socchiuse. Tossì. Sentiva che le forze lo stavano abbandonando.

«Ben fatto, Maka» fece in tempo a dire. Sorrise. Cercò di imprimersi a fondo il suo volto nella memoria, quel volto che non avrebbe mai dimenticato. Poi gli occhi gli si chiusero e intorno a lui discese il buio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



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Capitolo 24
*** La fine? Ovunque tu sei: contro il destino, la risonanza di due anime unite ***


Soul

 

 

 

Sì.

 

Avanti, svegliati.

 

Con uno sforzo, Soul sollevò le palpebre. Non vedeva nulla. Tutto ciò che lo circondava era una tenebra talmente fitta e impenetrabile da far male agli occhi.

Aspetta. Lascia fare a me.

Qualcuno schioccò le dita e un pallido bagliore risplendette improvvisamente, esile e tremolante come la fiamma di una candela. Soul fece una smorfia. Accanto a lui un piccolo demone sorrideva intensamente, seguendo con gli occhi le volute della fiamma che gli si agitava nel palmo e che illuminava il suo volto deforme, percorso da ombre che danzavano veloci.

Direi che così va meglio, sospirò il demone, accennando a quella debole luce. Non trovi anche tu?

Soul sospirò. Alzò gli occhi, guardandosi attorno. Non c'era nessuno a parte loro. In quell'immenso spazio vuoto, erano soli.

«Dove sono?»

Il demone scrollò le spalle.

Di sicuro non sei morto. Almeno non ancora.

Soul aggrondò, fissando duramente il buio che lo circondava. Non parlava. Il demone lo scrutò per un po', dapprima incuriosito, poi sempre meno interessato. Forse si aspettava qualcosa, una reazione qualsiasi, che però non arrivò. Annoiato, alla fine prese a giochicchiare con la fiamma che gli ardeva nel palmo, divertendosi a soffocarla tra le mani. Soul non gli prestò la minima attenzione. Per qualche ragione, sembrava essere scivolato in un sonno pesante, ad occhi aperti.

All'improvviso, il demone cominciò a canticchiare. La sua voce gracchiante risuonò bassa, simile al suono della puntina smussata di un vecchio giradischi. Si insinuò viscida nelle orecchie di Soul, riscuotendolo dal torpore in cui sembrava essere placidamente caduto. Quando Soul abbassò gli occhi sul piccolo demone, lo vide concentrato nel suo gioco, la lingua rosea che guizzava tra i denti aguzzi mentre snocciolava sommessamente le parole incomprensibili di una qualche canzone. Tra le sue mani, la luce si spegneva e si accendeva, si spegneva e si accendeva, illuminando a tratti il suo volto irregolare.

«Smettila» fece, seccato. «Mi dai sui nervi».

Il demone si arrestò. La sua voce gracchiante si seccò improvvisamente, come un ruscello che si trovi a sfociare nel deserto. Lanciò a Soul uno sguardo maligno, quindi si guardò intorno rassegnato.

Vuoi startene lì a fare nulla?, chiese. Soul chinò la testa.

«Non c'è nulla che possa fare. Quello che è successo...»

Per un istante, il ricordo del volto di Maka lo riportò all'attimo in cui lei aveva mietuto la sua anima. Sorrise. Trovava ironico quello stravolgimento di ruoli... il mietitore che viene mietuto. Ma quando ripensò alle lacrime sul volto di lei, un attimo prima che sferrasse il suo colpo, non ci trovò più nulla da ridere.

«Va bene così» disse, sospirando. Il demone lo fissò a lungo, quindi roteò gli occhi.

Guarda. C'è un pianoforte là, fece, levando una mano con fare annoiato. Forse dovresti suonare.

Soul allungò lo sguardo. Era vero, c'era un pianoforte poco lontano da loro. Chissà come c'era finito, lì. Era completamente avvolto dall'oscurità, e sembrava galleggiare nel vuoto. Ogni tanto, i suoi tasti bianchi e il suo mobile di legno nerissimo lanciavano improvvisi bagliori che perforavano il buio, taglienti, per poi scomparire fluttuanti come la vaga scia di un ectoplasma.

«Non ho nessuna ragione per suonare» affermò Soul, reciso. Il demone nicchiò.

Davvero? Nemmeno se...

Soul, ti prego...

Soul aggrondò. Per un momento gli era sembrato...

«Hai sentito?» domandò, in preda all'agitazione. «Quella voce, l'hai sentita anche tu?»

Il demone scrutò vagamente le tenebre, rivolgendo gli occhi verso l'alto. Restò a fissare il vuoto per un tempo indefinito; quindi torse gli occhi sul volto tumefatto di Soul, che ancora tratteneva il respiro, smarrito. Sospirò. Con un semplice gesto, spense ogni luce.

Sai, mormorò, prima di svanire, credo proprio che dovresti suonarlo, quel piano...

...Soul

 

*

 

«Soul, per l'amor di dio, entra in risonanza con me!»

«Che cosa hai fatto!»

Maka alzò lo sguardo appena in tempo. Il Kishin volava verso di lei. Una furia sorda agitava il fondo dei suoi occhi di brace, che muoveva freneticamente dal volto di lei a quello ormai pallido di Soul.

«Non lasciatelo avvicinare!» gridò Maka. Subito, come si fossero riscossi da un sogno, i suoi compagni le si raccolsero attorno, affrettandosi a ergere uno scudo davanti a lei e alla sua Buki. Il Kishin si fermò sorpreso davanti a quell'improvvisa barriera, agitandosi in cerca di uno spazio in cui far breccia.

«Voi, come osate» sibilò. «Vi spazzerò via come insetti!»

«Maka, non preoccuparti di lui» sibilò Black Star, tagliente, senza mai abbassare gli occhi dal Kishin. «Preoccupati solo di riportarci indietro quell'idiota di Evans. Al resto pensiamo noi».

Maka annuì. Non aveva bisogno di sentirselo dire. La battaglia che infuriava, accanto a lei, non la sfiorava neppure. Tutto ciò che le importava, ora, era continuare a tenere la mano premuta contro il petto di Soul, alla ricerca di quella risonanza che sembrava perduta per sempre.

Il suo cuore pulsava ancora, lo sentiva, seppur debolmente. Era il segno che la sua anima era ancora là, dentro di lui, anche se si stava lentamente spegnendo.

«Soul, ti prego» lo implorò, scostandogli un ciuffo di capelli dal volto. «Ti scongiuro, entra in risonanza con me».

Maka chiuse gli occhi, umidi di lacrime. Lottava con tutte le sue forze per stabilire una risonanza, ma sentiva l'anima di Soul farsi sempre più debole e lontana. Era inevitabile. L'aveva spezzata in due e stava lentamente morendo, senza che lei potesse fare più nulla per impedirlo. Continuava a premere le mani contro il suo cuore, mentre cercava di leggere la sua anima ancora una volta; ma dentro di sé sapeva che era tutto inutile. La concentrazione continuava a sfuggirle, lasciando che la sua mente si affollasse di pensieri e immagini che parlavano di una realtà per lei inaccettabile. Quando riaprì gli occhi, Maka vide che Soul si era fatto sempre più pallido, i muscoli del volto ormai rilassati. E la speranza fluì da lei come sangue da una ferita nel cuore aperto.

«Ero convinta che avrebbe funzionato, perdonami» pianse. Scossa dai singhiozzi, avvicinò la fronte a quella di lui, posandovela dolcemente contro in un ultimo, disperato tentativo. E in quel momento, l'anima di Soul cessò di pulsare.

«Ti prego, no» gemette, stringendolo a sé senza più forze. «Devi entrare in risonanza con me... devi farlo...

 

 

...devi...

 

 

 

Una musica dolcissima cominciò a farsi spazio nel suo cuore. Maka chiuse gli occhi, lasciandosi guidare da essa. Le sembrava di vagare nel buio, senza meta, ondeggiando lenta come una barca abbandonata alle onde dell'oceano. Quando riaprì gli occhi vide un'immensa stanza buia, illuminata solo da pallidi riflessi che la percorrevano veloci. Sentì il pavimento gelido, sotto i piedi nudi. Un velo d'acqua le lambiva le caviglie, increspandosi ad ogni suo passo. Un brivido la percorse. Aveva freddo. Quel posto era gelido.

Maka tese le orecchie. Adesso la musica taceva. Intorno a lei era solo silenzio. Confusa, provò a guardarsi intorno, ma non vide nulla. Tutto ciò che vedeva, erano quei fragili frammenti di luce che si levavano dal suolo come scintille impazzite, sorgendo dal nulla per poi spegnersi velocemente nel buio, ormai privi di ogni energia. Affascinata, Maka tese le mani verso di essi. Ma non appena ne sfiorava uno, questo si contorceva su se stesso, allontanandosi da lei per poi perdersi nella notte.

«Chi sei?»

Maka si voltò. Un bambino dai capelli d'argento la fissava assorto, attraverso due profondi occhi rossi. Indossava un elegante gessato nero e una camicia bianca, dal cui colletto pendeva una cravatta di seta nera.

«Come mai sei qui?» disse il bambino, fissandola infastidito. «Credevo che non sarebbe potuto entrare nessuno».

Maka schiuse le labbra. Fece per dire qualcosa, ma non riuscì a trovare le parole.

«Eri tu che suonavi?» chiese, sforzandosi non poco per aprire bocca. Il bambino la guardò intensamente e dentro di lei qualcosa fremette.

«Io mi chiamo Soul» mormorò il bambino. A quelle parole, Maka sorrise.

«E io mi chiamo Maka» fece, avvicinando il viso a quello di lui. Il bambino abbassò gli occhi sui piedi nudi di lei. La guardò, curioso.

«Non hai freddo?»

«Giusto un pochino» fece lei. «Mi vuoi dire perché sei qui da solo?»

Il bambino si guardò attorno. Scosse le spalle.

«Non so» disse. «Io... stavo facendo qualcosa, prima; ma poi mi sono perso».

«Qualcosa?»

«Sì. Ma non mi ricordo. Ora non mi ricordo più».

Maka fissò intensamente il volto del bambino, che sembrava cercare smarrito nel buio il senso della propria presenza in quel luogo. Quindi alzò gli occhi, guardandosi attorno. Vide un pianoforte, poco lontano, che galleggiava su uno specchio d'acqua sottile, illuminato da una luce bianchissima e pura.

«Forse stavi suonando?» azzardò lei, alzando una mano ad indicare il pianoforte con un sorriso. «Sai, sono arrivata fin qui proprio ascoltando una musica».

Il bambino si volse. Guardò il pianoforte e un'ombra discese sul suo volto.

«No, io...»

«Non eri tu?»

Lui la guardò. Gli occhi gli tremarono, poi si spensero improvvisamente. Una luce dura li attraversò, facendo apparire il suo volto molto più adulto di quello che era.

«Vorresti suonare per me?» chiese lei. Lui nicchiò.

«Io non suono mai quando qualcuno mi ascolta. Non ci riesco».

Maka sorrise, incoraggiante.

«Sai, a dire la verità io sono qui per cercare un mio amico» disse. «Anche lui suona il piano, proprio come te».

Il bambino abbassò gli occhi.

«Mi piace molto quando lui suona. Ma non suona mai per me. Vorrei tanto sentire qualcuno suonare per me, almeno una volta» sorrise. Quindi «credi che tu potresti farlo? Voglio dire... suonare per me».

«Davvero vuoi?»

«Perché non dovrei?» chiese Maka. Lui scrollò le spalle.

«Nessuno mi ascolta mai quando suono».

Lei sorrise.

«Io sì».

Il bambino la guardò, scrutando avidamente il suo volto. Sembrava cercare qualcosa in lei, e Maka si sentì turbata. Era come se quegli occhi rossi e profondi avessero frugato dentro di lei, scavando tra le macerie che nascondevano la parte più nascosta e sincera della sua anima.

Il bambino la guardò ancora a lungo. Quindi si fissò le mani, prima di voltarsi verso il pianoforte.

«Va bene» disse, semplicemente. E senza aggiungere altro, si allontanò da lei.

Ancora scossa, Maka restò in disparte, seguendo il profilo sottile di quel bambino che provava a salire sul seggiolino forse troppo alto per lui. Avrebbe voluto aiutarlo, ma sentì che non era il caso. C'era qualcosa, nei suoi movimenti, che tradiva una consapevolezza assoluta, insieme all'orgoglio di chi non necessita dell'aiuto degli altri, pur mantenendo nel profondo dei propri occhi il dolore e il disprezzo per ciò che gli è stato così crudelmente negato. Probabilmente, quel bambino era cresciuto imparando a prendersi cura di sé in modo autonomo. Infatti si sedette tranquillo, per nulla imbarazzato dallo sforzo compiuto. Quindi si sistemò la giacca del suo elegante gessato scuro, fissando il pianoforte con aria di sfida mentre alzava il coperchio della tastiera, quasi senza fare rumore.

Trattenendo il respiro, Maka lo osservò posare le dita sui tasti bianchi, e chiudere gli occhi. Lei si stupì, ma non sapeva che lui non aveva alcun bisogno di vedere. Conosceva quella musica benissimo.

Le prime note della Fantasia di Skrjabin si sollevarono dolcemente, ricadendo nel silenzio che avvolgeva ogni cosa come deboli esplosioni di luce, lucciole che smarrivano la loro forza per poi precipitare in uno stagno scuro, spegnendo la loro vita nel lento incresparsi dell'acqua. Maka fissava le piccole mani muoversi esperte sui tasti. Ogni loro gesto portava con sé una melodia, che sembrava nascere direttamente dal corpo e dall'anima di quel bambino. Era come se lui stesse componendo quella musica davanti agli occhi avidi di lei, tessendola attraverso le proprie dita, attraverso i movimenti eleganti delle braccia sottili. Fluiva dal suo volto concentrato, brillava nei suoi occhi chiusi, ergendosi davanti a lei come qualcosa di vivo e di splendido.

Maka sentiva quella musica dentro di sé, la sentiva crescere e sollevarsi, rapire la sua anima come il turbine di una tempesta, finché lei non si trovava su, sempre più in alto, splendente nei raggi caldi del sole che sorgeva luminoso sopra le nubi. E improvvisamente, pianse senza una ragione.

Continuò a seguire quella musica fin dove essa riusciva a sorreggerla. Raggiunse vette da cui avrebbe voluto precipitare, abbandonandosi al vuoto che si apriva dentro di lei come uno squarcio. Ma quella musica era sempre lì, pronta a riprenderla ogni volta che cadeva. Maka la seguì nelle sue evoluzioni, il cuore che batteva forte. Finché qualcosa si ruppe.

Fu come se l'intera costruzione si fosse improvvisamente infranta. Un vaso di cristallo purissimo che, entrato in risonanza, si sgretola e cade su sé stesso.

Il bambino si voltò, sconvolto. Fissava Maka pallido.

«Ho sbagliato».

Maka non capì cosa volesse dire. Le sembrava tutto perfetto. Cos'è che aveva sbagliato?

«Ho sbagliato. Ho sbagliato! Non hai sentito quella nota? Era sbagliata, io...»

«Va tutto bene» fece lei, precipitandosi accanto a lui. Lui la guardava tra le lacrime. Era sconvolto.

«Mi dispiace, non ho fatto apposta, non volevo...»

Maka lo strinse a sé. Sentiva i singhiozzi che lo agitavano tutto. Il suo corpicino esile si perdeva tra le sue braccia. Lei lo strinse forte, posandogli un bacio sui capelli.

«Non mi importa se hai sbagliato una nota. Non mi importa se ne sbagli mille» lo consolò. «Non mi importa niente, capito? Niente. Ma ti scongiuro, continua a suonare per me».

In quel momento, ogni cosa svanì. Maka abbassò lo sguardo e vide che il bambino che stringeva tra le mani era scomparso. Spaventata, alzò gli occhi. La tenebra aveva lasciato spazio a un immenso cielo azzurro, solcato da poche nuvole candide. Il profumo caldo del sole si mischiava a quello che proveniva dall'erba, e all'odore secco della terra. Un vento sottile le agitò i capelli e le sollevò i vestiti, correndo poi leggero tra le felci rigogliose a spettinare il dorso delle colline in lontananza.

«Alla fine ce l'hai fatta».

Maka si voltò. Soul era davanti a lei, e la guardava sorridendo.

«Sei proprio una gran testona».

Maka si scostò i capelli dagli occhi. Quindi scoppiò a ridere.

«Ma dove siamo?» chiese, guardandosi attorno piena di gioia. Soul le si avvicinò, prendendole dolcemente la mano.

«Vieni» disse. «Voglio portarti in un posto».

Risalirono la collina. Maka continuava a guardarsi attorno rapita, mentre il sole le solleticava dolcemente la pelle. L'erba era fresca sotto i piedi nudi, e gli alberi in lontananza piegavano leggermente le chiome all'alito caldo del vento. Nascoste nell'ombra, le cicale cantavano rumorosamente. Sembrava fosse esplosa l'estate.

«Ecco, ci siamo».

Maka alzò gli occhi sull'enorme albero di canfora che le si ergeva davanti. Sorgeva sulla sommità della collina, immerso nel verde del prato e nel blu di quel cielo senza fine. I suoi rami erano così fitti che i raggi del sole non riuscivano a filtrare attraverso di essi e a raggiungere il terreno ai suoi piedi. La sua chioma gettava un'ombra luminosa e imponente tutt'intorno a sé.

«Conosco questo posto» fece lei. «È a Death City, appena fuori dalla città. È lì che ti andavi a rifugiare ogni volta che volevi stare tranquillo. Non so quante volte sono dovuta salire fin quassù a prenderti...»

Soul rise. Le tenne la mano finché lei non si fu seduta nell'erba, incrociando le gambe. Quindi lui prese posto al suo fianco.

«È bellissimo, vero?» le chiese. Lei annuì, lasciando che i suoi occhi vagassero per tutto quello spazio immenso.

«Manca la panchina, però» fece. Soul sorrise.

«È come questo posto dovrebbe essere, o almeno come io l'ho sempre immaginato» disse. E il suo volto si fece scuro. «Ma immagino che in realtà, se non ci fosse Death City, questo posto nemmeno esisterebbe. Il deserto inghiottirebbe ogni cosa, come sempre».

Maka tacque. Fissò il profilo assorto di Soul. Quindi gli posò una mano sulla sua.

«Forse» disse. «O forse no».

Lui si voltò a guardarla. Sorrise, triste.

«Perché sei qui?» fece. «Non saresti dovuta venire».

«Intendi nella tua anima?» rise lei. «Ero troppo curiosa di vederla!»

Soul abbassò gli occhi.

«Credevo di essere morto. Per certi versi, quel pensiero è stato una specie di consolazione».

«So che hai passato dei momenti terribili» ammise lei. «Ma non devi...»

«Avresti dovuto lasciarmi andare» fece lui, duro. «Perché sei voluta venire fin qui, in questo posto fuori dal tempo... solo per...»

Lei lo guardò triste. Lui digrignò i denti.

«Oh, al diavolo» sibilò, distogliendo lo sguardo.

«Non essere arrabbiato».

«Non dovrei esserlo?» scattò lui. «Cosa credi, che sia facile, per me, vederti qui? Io morirò, Maka. Tutto questo, non è che una bolla di sapone, l'ultimo sforzo che la mia anima è stata in grado di compiere, perché tu sei riuscita a farmi entrare in risonanza con te. Ma quando tu te ne andrai, non rimarrà niente di tutto questo».

«Non dire così, io...»

«E cosa dovrei dire?» esclamò lui. «Avrei potuto abituarmi all'idea di perderti... ancora» sussurrò, guardando lontano. «Ma adesso, dopo che ti ho rivisto qui... io non ne sono per niente sicuro».

Lei lo fissò intensamente. Quindi, con le lacrime agli occhi «e sarei io, la testona?» disse, dura. Lui la guardò sorpreso. «Sempre a cacciarti nei guai. Di chi credi che sia la colpa se siamo in questa situazione?»

«Ah, sarebbe colpa mia?»

«E di chi, se no?» gridò lei. «Se tu non avessi voluto agire come al solito, cercando di fare l'eroe...»

«L'eroe?»

«Sì!» esclamò lei, infervorata. «Non ti ho mai chiesto di proteggermi. Mai! Avresti dovuto parlarmi, piuttosto, e confidarmi quello che ti stava succedendo!»

«Non potevo, io...»

«Non dire balle, è che tu fai sempre così!» lo interruppe lei. «Se tu ti fidassi davvero di me non ti comporteresti come un idiota, ma mi renderesti partecipe delle tue scelte».

«Io mi fido di te, ma...»

«E allora smettila di proteggermi! Smettila di credere che io ne abbia bisogno, perché non è così!»

«Ma ne ho bisogno io!»

Lei sbarrò gli occhi, sorpresa. Soul la fissava senza fiato, pallido.

«Credi che l'abbia fatto per te? Non è così. L'ho fatto per me» sibilò. «Prendilo pure come un gesto egoistico, se preferisci. Dici che voglio fare l'eroe, ma io non sono un eroe. Non sono il protagonista di un film, il classico ragazzo che ha avuto una vita difficile e che con le proprie forze riesce a diventare l'eroe della situazione. Io sono una persona normale. E la verità è che da solo non combino nulla».

Maka socchiuse le labbra. Guardava Soul senza sapere cosa dire.

«Credi che l'abbia fatto perché volevo essere forte, ma non è così» continuò lui. «L'ho fatto perché tutto ciò che di buono ho compiuto nella mia vita, è stato grazie a te. Sei tu, ad essere forte. Tu mi hai reso una Death Scythe, tu mi hai reso una persona migliore. Tutto ciò che facevo, prima di incontrare te, era restare a piangermi addosso, odiando tutto e tutti. Poi sei arrivata tu, e tutto... tutto è stato diverso».

«Soul...»

«Ciò che ho fatto, Maka, l'ho fatto per me» disse lui, fissandola triste. «L'ho fatto per preservare ciò che nella mia vita aveva senso. Tu sei tutto ciò che ha senso per me, null'altro conta. Io ho bisogno di sapere che tu resterai sempre libera, che potrai continuare a essere la Maka che amo perché solo così potrò dire di non aver fallito ancora una volta. Non c'è niente di eroico in questo, credimi. Il mio, è solo egoismo. La volontà di preservare ciò a cui tengo di più».

Maka tacque. Fissava Soul intensamente e sentiva gli occhi che le bruciavano. Il vento che soffiava tiepido spazzava via le lacrime che ancora si reggevano debolmente tra le sue ciglia.

«Stupido» mormorò. «Sei davvero uno scemo».

Lui tacque. Maka sospirò.

«Io ho trovato il modo, sai?»

Soul si volse. La fissò, come da una distanza lontanissima.

«Cosa?»

«Ho trovato il modo» riprese lei, sommessamente. «So come fare per portarti via da qui. L'ho capito solo da poco, quando ho finalmente affrontato me stessa. È stato allora che mi è parso tutto così chiaro».

«Maka...»

«Ho visto tutto» disse lei, stringendogli le mani. «Ho visto chi sei, quello che sei. Ho viaggiato nei tuoi ricordi, e li ho vissuti con te. In un primo momento credevo di doverli trattenere, di doverli conservare in modo che non andassero persi... per questo avevo preso lo specchio di Shinigami...»

Lui aggrondò, scuotendo la testa confuso.

«Maka, ma di che cosa stai parlando?»

«In realtà ho capito che non era necessario. C'è un posto in cui quei ricordi vivranno per sempre, insieme a tutto ciò che io ho vissuto con te. Non servono chiavi, specchi... non serve nulla. È un luogo che ci vede sempre vicini, e che posso raggiungere in ogni momento. Io sono già là, e anche tu lo sei. Sei là, Soul» disse lei tra le lacrime «solo che tu ancora non puoi rendertene conto».

«Io non capisco...»

Maka si asciugò le lacrime, quindi avvicinò le mani al petto. Le premette dolcemente e chiuse gli occhi. Una leggera smorfia le si dipinse sul volto. Soul impallidì, fissandola preoccupato. Quindi abbassò gli occhi sulle mani di lei. Trasalì.

«Sentissi com'è calda!» mormorò Maka, commossa. Lui scosse vigorosamente la testa.

«Ma sei impazzita?»

Lei aprì le mani, mostrandogli la propria anima. Vibrava pulsante, chiara come la luce che illuminava ogni cosa attorno a loro.

«Tu sei sempre stato qui. Ogni ricordo, ogni emozione che mi lega a te... è tutto qui dentro» disse. «Anche adesso, tu sei qui. Sì, so che non vi troverai tutta la tua vita» ammise, scrollando le spalle «ma ci troverai l'essenziale per ricominciare. Tuo fratello, tua madre... persino tuo padre. Qui dentro ho salvato i tuoi ricordi, quelli che ho vissuto insieme a te. E ho salvato tutti i nostri ricordi, l'immagine che ho di te, ciò che so di te. Vi resteranno per sempre, nessuno potrà toccarli. Finché ci sarò, proteggerò questi ricordi con la mia stessa vita».

«Maka» esalò Soul, sconvolto «io non posso prendere la tua anima!»

«È solo un pezzettino» lo rassicurò lei. «Ma credo che sarà sufficiente per far rinascere in te tutto ciò che credi di aver dimenticato, se solo lo vorrai. Io so che tu sarai sempre Soul Evans, il mio Soul, qualunque cosa accada».

Lui la guardò. Quindi spostò gli occhi su quella piccola anima che si dibatteva teneramente tra le sue mani. Lei gliela porse e lui strinse le proprie mani attorno alle sue.

«Io...»

«Ti prego» sussurrò lei. «Prendila».

Soul serrò le labbra. La guardò. Quindi si portò le mani di lei al volto e le baciò.

«Quanto mi sono mancate le tue mani» sussurrò. Con un sorriso, Maka spinse le sue mani contro al petto di lui. L'anima si dibatté un poco, poi svanì dentro il suo petto. Soul fece una smorfia.

«Come ci si sente?» mormorò lei, nascondendo a fatica la propria commozione. «Ad avere un'anima?»

Soul aprì gli occhi. La guardò, poi sorrise.

«Fa un po' male» disse. «Ma è piacevole».

Maka rise. Lui la guardò assorto, avvicinando la mano al suo volto in una carezza.

«Mi dispiace per averti ferito» disse, guardando triste il piccolo taglio che lei aveva sulla guancia «e per i capelli» aggiunse. Maka si passò una mano a spettinarsi i lunghi capelli biondi, ridendo allegra.

«Non fa nulla disse. Tanto avevo bisogno di tagliarli».

Lei si alzò, pulendosi dai fili d'erba che le erano rimasti attaccati ai vestiti.

«A questo punto possiamo anche andare, no?»

Lui la guardò e la fissò incerto. Sembrava sul punto di dirle qualcosa, ma all'ultimo si trattenne.

«Che succede?»

«Ora che ho perso la mia vecchia anima» ammise lui «non credo che potrò mai più trasformarmi. Come Buki sono finito. Non posso esserti di alcun aiuto, là fuori».

«E quindi vuoi restartene qui?»

Lui impallidì. Maka aggrondò, facendosi cupa.

«Ma certo».

«Cerca di capire» fece lui «qui... qui è tutto perfetto. Io posso continuare a immaginarti, a immaginare ogni cosa come dovrebbe essere. E questo grazie a te».

«Io non sarò qui per sempre, Soul» fece lei. Lui alzò gli occhi, smarrito, e lei gli sorrise. Si chinò e gli posò un bacio sulla bocca. Un languore dolcissimo si impadronì di lui, che durò anche quando lei si sciolse dal suo abbraccio, mordendogli dolcemente il labbro. Per un po' il suo sapore resistette sulle labbra di lui, come il profumo di un ricordo lontano.

«È vero, puoi restare qui, in questo posto fuori dal tempo per sempre. Forse staresti bene» riprese lei. «Oppure puoi tornare là fuori e affrontare la realtà. La scelta spetta a te. Ma sappi che se quando aprirò gli occhi, là fuori, io non ti vedrò, ne rimarrò molto delusa. Io ti rivoglio. E ti rivoglio là fuori. Se anche tu mi vuoi, vienimi a prendere. Io ti aspetterò».

Soul abbassò gli occhi, fissando l'erba che si agitava nel vento. Quando rialzò lo sguardo, lei era già sparita.

Abbassò il capo, mettendosi ad ascoltare il vento che muoveva le foglie sopra la sua testa. Le cicale avevano cessato di cantare. Era rimasto solo.

«È così dunque» mormorò. Quindi, sorrise. «A quanto pare, non c'è proprio scelta».

Esatto fa una voce dentro di te.

E così, decidi di svegliarti.

 

Quando riprendi i sensi, è solo lei che vedi. Il suo volto occupa tutto il tuo spazio visivo. È il tuo mondo, l'orizzonte del tuo senso. Ti sorride e ti tende la mano. Senti che qualcuno parla, attorno a te, e senti l'odore della paura spingersi fino all'estremo confine della tua coscienza. È lì, pronto a pungerti. Ma tu lo respingi. Senti la mano calda di lei, vedi ancora i segni che le lacrime hanno inciso sul suo volto. Ma sei vivo. E sorridi.

«Non posso più trasformarmi» le dici. Lei scrolla le spalle. Ti dice qualcosa, qualcosa che non capisci bene, perché è troppo forte il suono della paura che grida attorno a te.

«Sarò io la tua Buki». Il senso è quello. E senza nemmeno rendertene conto, la impugni.

Fai scorrere le mani su di lei. È una sensazione fortissima, molto diversa da come la immaginavi. Senti il suo corpo tra le tue mani, pronto a reagire. La tua pelle brucia al contatto con quell'arma duttile che è il suo corpo, e che si muove elegante e sinuoso ad ogni tuo gesto. Risponde al tuo desiderio, e ti trascina nel suo, inebriandoti. Siete una cosa sola, come quando lei faceva scorrere le sue mani su di te.

Ora non hai più paura. Vedi la tua paura ergersi davanti a te. Indietreggia, sconfitta. I tuoi amici assistono senza parlare. Tuo padre è lì e ti guarda, forse per la prima volta.

Ti avvicini. Senti la paura che sta per spezzarsi. Ti grida qualcosa, ti aggredisce, ma tu non l'ascolti. Le sue ferite non ti fanno alcun male. È tutto passato.

Poi alzi l'arma. E in un momento tutto finisce.

 

 

*

 

 

La stazione era vuota. Due fila di binari correvano dritte verso il deserto, perdendosi vagamente all'orizzonte in entrambe le direzioni. Sotto il calore del sole, le traversine esalavano un odore acre di catrame e di ruggine, che aleggiava denso nell'aria ogni volta che il vento cessava per un attimo di soffiare.

Soul alzò gli occhi verso il punto più lontano in cui si perdevano i binari. Un vago baluginio si levava dalla sabbia riarsa, sperdendosi tremolante nell'aria fino a confondere il profilo irregolare dei monti più lontani.

L'orologio della stazione segnava l'una. Soul lanciò ai binari un'ultima occhiata, spingendo gli occhi là dove già da molto avrebbe dovuto far la propria apparizione il suo treno.

Nulla. Sospirò.

«A quest'ora è sempre in ritardo».

Si volse. Maka stava salendo in quel momento sulla pensilina, avanzando a passo lento verso di lui. Sorrideva.

«Cosa fai qui?» le fece lui, lanciandole un'occhiata smarrita. Daniel li osservava imbronciato poco lontano. A un cenno di lei, il bimbo sollevò il piede e calciò un sassolino, prima di correre a raggiungerli.

«Credevo ci fossimo già salutati».

«Non mi bastava».

Maka gli si fermò accanto, il piccolo Daniel che scrutava torvamente Soul avvinghiato al corpo della madre. Lei rise, passandogli una mano a spettinargli i capelli.

«È arrabbiato» disse lei, come per rispondere all'occhiata interrogativa che Soul le aveva appena lanciato. «È voluto venire a controllarmi, perché è convinto che mi porterai via con te».

Soul sorrise.

«Davvero pensi questo?»

Daniel annuì torvo, stringendosi ancora di più alla madre.

«Dove vado io non c'è posto per lei» gli disse lui. «E nemmeno per un ragazzino petulante e noioso come te».

Daniel arrossì. Maka assisteva alla scena divertita.

«Però...» riprese Soul «tornerò a trovarvi. E se vorrai, mi farà piacere tornare a parlare con te. E anche vedere se sei finalmente diventato capace di giocare a basket».

«Io sono capace» protestò Daniel. Soul inarcò un sopracciglio, per nulla convinto.

«Daniel, ora vai ad aspettarmi dentro» fece Maka, indicando con un cenno la stazione alle loro spalle. «Io e il professor Evans abbiamo bisogno di parlare un po'».

Daniel annuì, obbediente. Quindi fece un passo avanti verso Soul e gli tese la mano. Soul la strinse, sorridendo leggermente sorpreso.

«Mi ha fatto piacere conoscerla, signore» disse Daniel, serio. «Ma non credo che diventerò mai una Buki».

Soul gli rivolse un'occhiata curiosa. «Ah, davvero?» fece. «E come mai?»

«Perché credo che sia una gran fregatura».

Soul scoppiò a ridere, seguito da Maka. Daniel li guardò entrambi, sorridendo a sua volta. Quindi abbracciò improvvisamente Soul, che restò impietrito a guardarlo.

«Grazie» disse il bambino. E scappò via, correndo.

«Hai fatto colpo» mormorò Maka, intenerita, mentre guardava suo figlio aprire la porta della sala d'aspetto e sedersi obbediente su una panchina. «Credo che non ti scorderà facilmente».

Soul ammiccò.

«E tu?»

Maka lo guardò di sbieco, sorridendo maliziosa. Quindi si voltò e con le mani intrecciate dietro la schiena si mise a fissare i binari.

«Che hai fatto ai capelli?» le chiese Soul. Lei scrollò le spalle, arricciando leggermente le labbra.

«Li ho tagliati» fece. «Ho dovuto farlo, visto che ieri a causa tua ho perso un intero codino... o te ne sei dimenticato?»

«Non stai male» bofonchiò lui, imbarazzato. Lei sorrise, divertita da quella sua goffa reazione.

«Lo prenderò come un complimento».

Il treno annunciò il suo arrivo con un fischio prolungato, che si propagò in lontananza. Soul e Maka si voltarono a guardare nella direzione in cui si intravedeva una densa nuvola di vapore bianco levarsi alta fino al cielo, là dove il vento leggero di quella splendida giornata di autunno la disperdeva velocemente.

«Direi che ci siamo» fece Soul, caricandosi in spalla il suo sacco. «Questo è un addio, allora».

Maka nicchiò. Nascose tra i suoi occhi una lacrima e si scosse la frangia dagli occhi, con un'elegante scossa del capo.

«No» fece, tendendo la mano. «È solo un arrivederci».

Soul sorrise. Le guardò la mano e la strinse nella sua, quindi «non so quando tornerò» disse. «Ma lo farò. Dovrò viaggiare molto per i primi tempi, Shinigami mi ha avvertito. Ma se questo è il prezzo da pagare per riacquistare la sua fiducia e quella di tutti, non mi tirerò indietro».

Maka annuì.

«Sai già dove andrai?»

«Per qualche mese viaggerò con mio padre» rispose Soul. «Shinigami lo ha richiamato in servizio e gli ha affidato alcuni compiti da svolgere prima dell'inizio delle lezioni di primavera. Per allora credo che avrò già raggiunto il Giappone, dove mi vedrò con Tsubaki e Black Star, che per allora si saranno già trasferiti là».

«So che ci rimarranno per un po'» fece Maka. «Tsubaki ha bisogno di tranquillità e penso che tornare a casa dei suoi le possa fare bene. Black Star ha avuto una bella idea. Credo che starsene un po' da soli li aiuterà a ritrovare quella serenità di cui entrambi hanno bisogno per affrontare il futuro».

Il treno fischiò nuovamente. Stava per entrare in stazione.

«Maka, io non so cosa mi riserverà il futuro» saltò su Soul, turbato, «ma... prima che parta, voglio solo dirti che tornerò. Davvero. Con questo non ti chiedo di aspettare per forza... voglio solo che tu sappia che anche se non posso sapere quando ci rivedremo, so che un giorno accadrà di sicuro. Fosse anche per vederti solo...»

«Basta».

Lei gli prese la mano e la strinse. Quindi restò a guardarlo tra le lacrime che ora non riusciva più a trattenere.

«Non hai bisogno di dire nulla» disse. «Torna da me appena puoi. Torna. E non dimenticarti di farlo».

Lui annuì. Lei gli prese il volto tra le mani e lo baciò sulle labbra.

«Non sarà la distanza a dividerci» mormorò lei. «Non adesso, non più. Io e te condividiamo qualcosa che va al di là di tutto questo. Tu hai una parte di me di cui prenderti cura, ora; e io sarò sempre con te ovunque andrai, per bastonarti nel caso tu commetta qualche sciocchezza» rise. Soul le baciò la fronte, aspirando il profumo caldo dei suoi capelli.

«Solo, non dimenticare di guardare ogni tanto qui dentro» continuò lei, posandogli le mani sul cuore. «Se dovessi sentire la mia mancanza, o se solo volessi incontrarmi... voglio dire...» singhiozzò «io e te abbiamo la stessa parte di anima, ora. Se entrerai in risonanza con me, ovunque sarai, io ti raggiungerò».

«Lo so» fece lui. «È solo questo, che mi dà forza».

Maka trattenne il respiro. Il treno arrivò sbuffando, e lo stridio assordante dei freni coprì le ultime parole che lui le stava dicendo. Lei scosse la testa, avvolta da una nuvola di vapore bianco.

«Non ho sentito» disse. La locomotiva lanciò un fischio e lei si portò le mani alle orecchie. Soul sorrise, salendo sul predellino della carrozza.

«Soul!»

«Ci vediamo presto» fece lui. Maka scosse la testa. Il capotreno agitò la bandiera e la locomotiva prese a muoversi lentamente.

«Soul!» gridò lei, seguendo il convoglio. «Non ho capito!»

Il treno acquistò velocità. Soul si affacciò al finestrino, chinandosi fino a lei. Le strappò un bacio, un attimo prima che il treno abbandonasse la pensilina.

«Custodiscila tu» gridò lui, agitando la mano. Maka abbassò gli occhi a guardarsi intorno, confusa. Quando li rialzò il profilo del treno cominciava già a sbiadire all'orizzonte.

«Non ho capito...»

Si toccò vagamente le labbra con la punta delle dita, come a voler imprimere su di esse il ricordo del bacio caldo di lui. Quindi, colta da un'improvvisa illuminazione, si frugò in tasca.

«Ma...»

La catenella con la piccola chiave di ottone era lì, nel palmo della sua mano. Maka la fissò sorpresa, alzando poi gli occhi verso il punto in cui il treno si era ormai allontanato.

«Stupido» mormorò. Scosse la testa, con un sorriso. Quindi si passò la catenella attorno al collo e nascose la chiave sotto la camicia. La sentiva premere contro il proprio petto, là dove batteva il suo cuore. Sarebbe sempre stata lì, finchè lui un giorno non fosse tornato a reclamarla. E con essa lei, il suo amore e la sua vita intera.

Maka alzò gli occhi verso il sole, quindi si volse, a guardare Daniel che la salutava con la manina attraverso la porta a vetro della sala d'aspetto. E con un sorriso di gioia, si incamminò verso di lui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ringraziamenti (e qualcosa in più che troverete alla fine)

 

E così, eccoci alla fine. Questo è l'ultimo capitolo e la ff si chiude. È stato davvero emozionante scrivere e avere la vostra compagnia per tutti questi mesi. Per un po' ho sognato insieme a voi, dando voce ai pensieri e alle emozioni che mi legavano ai personaggi di questo splendido anime.

Non credo che scriverò ancora su Soul Eater. Quello che sentivo di avere da dire sui personaggi credo di averlo esaurito in questa ff, quindi... questo è tutto! Non ho molto altro da aggiungere.

Tutto ciò che vorrei dire, adesso, è un grazie a tutti voi che mi avete seguito con così tanto affetto per tutto questo tempo. Grazie a chi ha recensito, chi ha speso parte del suo tempo prezioso per farmi conoscere ciò che aveva da dire su quanto scrivevo, fornendomi consigli utili e sempre preziosi, ma soprattutto mettendomi a parte di emozioni e di pensieri che hanno costellato la mia ispirazione aiutandomi nel mandare avanti questa storia. Se questa storia è arrivata fin qui, è in gran parte dunque merito vostro.

Quindi grazie. Grazie a tutti voi. Grazie ad Altariah, che mi ha seguito sempre, fino all'ultimo, e grazie a Hyakii, a Shi mei, a Rein94 la prima a recensire; grazie a Smemoranda93, a Kirara90 che mi ha suggerito delle correzioni da apportare ad alcuni miei grossolani errori presenti nell'epilogo (Grazie mille Kirara!) e anche per tutte le questioni che riusciva a sollevare e che tanto mi hanno aiutato a migliorare il mio modo di spiegare le cose. Grazie ad Eureka e grazie a Marghepepe per avermi scritto una recensione che mi ha sinceramente commosso. Grazie a La Giuli, a Gisisuperchicca e grazie a Chrona (non il personaggio!), a Cheche, e a Keyrlah, Senna, Roby rox e Cassandra Wolf... insomma, grazie a tutti coloro che hanno scritto, e a coloro di cui non ricordo il nome (vi prego di non volermene!), ma che hanno comunque lasciato in me un ricordo piacevolissimo legato a questa esperienza.

 

Ps. Non crediate che abbia pensato di restare indifferente ai vari mormorii di fondo sul finale. Per me la storia si conclude così, ok, ma siccome sono un romanticone e so che i viaggi me li sarei fatti comunque, ho deciso di pubblicare qui sotto un piccolo capitoletto che getta uno sguardo su come si sono evolute le cose dopo la fine. Non so se vi è piaciuto il capitolo in sé, non so se vi piacerà questo... insomma, posso solo sperare che siano entrambi per voi una buona lettura. Se così sarà, allora avrò raggiunto il mio scopo. Che non è quello di essere uno scrittore, ma di poter sognare, per un po', insieme a tutti voi.

 

Ciao a tutti

Puglio

 

 

 

 

5 anni dopo

 

 

L'atrio era affollato. Il primo giorno d'inizio dell'anno scolastico era sempre così. Frotte di studenti di tutte le età che camminavano per i corridoi a passo svelto, lanciando tutt'attorno occhiate curiose in cerca di qualcuno che potevano conoscere, mentre parlavano fitto fitto con le persone che avevano accanto. I ragazzi più grandi parlavano a voce esageratamente alta, per attirare l'attenzione su di loro. Alcuni ridevano in modo sfrontato, mentre tra i gruppetti di ragazze che li fissavano sognanti, cercavano con gli occhi quella a cui avrebbero volentieri chiesto un'incontro nel corridoio. Le giovani matricole, invece, si affollavano all'ingresso, sporgendo la testa dal folto del gruppo per non perdere di vista coloro che entravano, urlando in preda all'agitazione non appena ritrovavano un loro vecchio amico.

Daniel se ne stava in disparte a mangiare la sua colazione. Una ciambella ricoperta di cioccolato fuso. Adorava quel tipo di dolci, anche se in generale non era un tipo particolarmente goloso. Mentre masticava, molto lentamente, appoggiato alla parete controllava con occhi stanchi la folla che si assembrava davanti al tabellone delle assegnazioni, là dove gli studenti più in gamba della Shibusen si trovavano a cercare nel folto delle segnalazioni il compito a cui erano stati destinati in orario extrascolastico.

Senza alcuna fretta, ingoiò l'ultimo boccone, accartocciando il sacchetto e gettandolo nell'immondizia. Qualcuno passò accanto a lui, salutandolo. Daniel rispose con un cenno del capo, tornando poi a spostare gli occhi sul tabellone. Sid aveva appena finito di scrivere e la gente faceva ressa per vedere. Era ancora presto. Decise di aspettare che gli animi si calmassero, prima di avvicinarsi.

«Tu sei Daniel, vero? Il figlio del Sommo Shinigami».

Daniel alzò pigramente gli occhi sulla ragazzina che aveva di fronte.

«Tu sei...?»

«Mi chiamo Sayuki. Vengo dal Giappone, insieme ai miei genitori. Sono arrivata da pochi giorni. Comincio il triennio in questa scuola».

«Quanti anni hai?» fece Daniel, interessato. «Sembri piuttosto grande».

«Dodici» rise lei. «Ho perso qualche anno perché i miei veri genitori sono morti, sei anni fa, lasciandomi sola. Mia madre... cioè, la mia mamma adottiva, mi ha iscritto comunque al triennio, perché sia lei che papà credono che così potrò imparare meglio e recuperare ciò che mi sono persa. Ci siamo trasferiti qui apposta dal Giappone, sai? Tu li conosci, intendo i miei genitori adottivi... sono dei grandi amici di tua mamma e di tuo papà e mi hanno tanto parlato di loro e di te. La mia madre adottiva si chiama Tsubaki, mentre il mio nuovo papà è il grande Black Star».

«Ah».

Daniel lanciò un'occhiata al tabellone. La ressa sembrava essere diminuita.

«Sai già se diventare Buki o Shokunin, quindi» disse lui, avvicinandosi al tabellone con le mani in tasca. La ragazza lo seguì allegra.

«Buki» fece. «Papà ci tiente tanto. Dice che con le mie doti posso diventare una grandissima Buki, la più grande di tutte».

«Davvero?» chiese Daniel. «E che sai fare?»

«Mi so trasformare in shuriken, in katana, in wakizashi e kusarigama. Ma papà vorrebbe anche che imparassi a trasformarmi in coltello e magari in Kama. Sarebbe fantastico».

«Caspita».

«Daniel the Death?»

Daniel si voltò, seguito a ruota dalla ragazza. Un uomo alto e corpulento, con indosso l'uniforme da portiere della scuola, era in piedi davanti a loro. Tra le mani reggeva un grosso pacco di lettere.

«C'è questa per te» disse, consegnando a Daniel una busta. Lui la aprì. Conteneva una cartolina stropicciata che lui guardò aggrondando. Quindi la voltò, e finalmente sorrise.

«Una cartolina?» fece Sayuki, sporgendo le labbra. «Chi te la manda?»

«È di mia madre» disse lui. «È partita l'anno scorso, quando ho terminato il primo anno del triennio inferiore» disse.

«Partita? E ora vivi solo?»

«Certo, come tutti quelli che iniziano il triennio» disse lui. «Anche lei alla mia età ha cominciato a vivere da sola. Io ho cominciato un anno prima perché mi hanno iscritto a scuola quando avevo cinque anni. Fra un anno toccherà anche a te».

Sayuki sbirciò la cartolina. Era una vecchia cartolina spiegazzata, raffigurante il profilo di una città al tramonto ma che lei non aveva mai visto. C'era anche una parola, scritta in caratteri incomprensibili.

«Cosa vuol dire?» chiese.

Daniel abbassò lo sguardo. «Ah, questo» fece. «Significa coraggio».

Sayuki aggrondò.

«Devi sapere che questa cartolina ha una storia molto lunga» rise Daniel. «La mandò mia nonna a mia madre tanto tempo fa, in un momento in cui lei aveva parecchio bisogno di aiuto. Le diede molta forza. Quando è venuto il momento per me di trasferirmi in un appartamento scolastico, mia madre manifestò il desiderio di partire, e di allontanarsi da Death City. Io le dissi che avrei accettato il fatto che andasse via da casa solo se mi avesse scritto dicendomi di essere felice, e di aver raggiunto ciò che cercava. Questa è la lettera che aspettavo. Ora so che sta bene».

«Via da casa? E perché tua mamma è andata via?»

«Per cercare qualcuno a cui aveva dovuto dire addio tanto tempo fa, quando scelse di essere una madre, prima ancora che una donna innamorata».

Sayuki aggrondò. Non capiva molto di tutta quella storia. I suoi genitori le avevano parlato di Maka Albarn, la madre di Daniel. Ma non le avevano raccontato cose così strane.

«Ma adesso è felice, no?» domandò. Daniel annuì.

«Ora sì. E anche io».

«E dove si trova?»

Daniel girò la cartolina. Sayuki si sporse, appoggiandosi a lui e allungando lo sguardo.

«Non c'è scritto nulla» lamentò.

«Sbagli» disse Daniel. «Per me c'è scritto tutto».

Daniel infilò la cartolina nella busta e la cacciò nella tasca interna del suo giubbotto di jeans. Quindi lanciò un'occhiata a Sayuki, che lo fissava di sbieco.

«Che hai?» chiese, torvo.

«Sei strano» disse lei. «Dici che tua mamma sta bene, ma come fai a saperlo? Sai con chi è? Potrebbe essere stata persino rapita!»

«Non mi avrebbe mandato quella cartolina» disse lui, tranquillo. «E poi so benissimo con chi è».

«Cioè?»

Daniel spostò gli occhi su di lei. Quindi «sai qual è il segreto che unisce una Buki al suo Shokunin?»

Sayuki aggrondò, torva.

«Scusa, ma che c'entra?»

«Lo sai o no?»

Lei sbuffò, facendosi pensosa.

«La fiducia?»

«Saper ascoltare ciò che l'altro ha da dire» affermò Daniel. Sayuki schiuse le labbra. Lui sorrise. «Me lo ha insegnato una grande Buki. Una persona che non dimenticherò mai».

Lui si strinse nelle spalle, passandosi una mano tra i capelli. Si voltò a guardare la ragazza, che lo fissava piuttosto sconcertata.

«Senti» fece «se non ti hanno ancora assegnato a qualcuno, e se sei d'accordo, potremmo lavorare insieme. Che ne dici? Mi piacerebbe molto lavorare con te. Chissà, se lavoriamo sodo, un giorno potremmo davvero andare in missione».

Sayuki sbarrò gli occhi, fissandolo incredula.

«Io?» esclamò. «Con il figlio del sommo Shinigami? È un sogno!»

«Non montarti la testa» fece lui, serio. «Io sono uno come tutti».

Sayuki annuì. Poi alzò gli occhi sul tabellone, fissandolo con aria sognante.

«Chissà se un giorno vedremo anche i nostri nomi scritti su quel tabellone» sospirò. Daniel volse leggermente la testa, annuendo.

«Sono sicuro di sì» fece. «Se ci impegneremo, e se in parte saremo fortunati. E se non riusciremo, proveremo ancora, e ancora. Tanto abbiamo un sacco di tempo. Il mondo non crollerà adesso. Perlomeno, non ancora».



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