Crossroads ~ Strade di sogni infranti

di Feel Good Inc
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo atto. La strada sbagliata ***
Capitolo 2: *** Interludio. Perdersi ***
Capitolo 3: *** Ultimo atto. La strada giusta ***



Capitolo 1
*** Primo atto. La strada sbagliata ***


Primo atto ~ La strada sbagliata

;; follow the yellow brick road ;;

 

 

 

{ I walk a lonely road, the only one that I have ever known

Don’t know where it goes; but it’s home to me – and I walk alone }

 

 

 

Il giorno in cui la ragazza comparve alla curva del lungo sentiero dorato, nel Paese dei Mastichini era piovuto molto.

Allo Spaventapasseri non era mai piaciuta la pioggia. L’acqua non era forse pericolosa per lui quanto il fuoco, ma rendeva pesante e appiccicaticcia la paglia che lo imbottiva, e non era una bella sensazione starsene appesi al palo con le membra intorpidite per via di un acquazzone impertinente. E poi, la pioggia colorava il cielo di grigio: grigio non era affatto un colore adatto ad Oz.

A dir la verità, lo Spaventapasseri avrebbe anche potuto evitare di star lì a bagnarsi. Sarebbe potuto scendere dal palo in qualsiasi momento – perché adesso sapeva come fare; era già sceso dal palo, tanto tempo prima, quando una mano calda e gentile aveva sfilato via il chiodo dalla sua schiena impagliata – ma aveva deciso di non farlo. Non aveva più lasciato il suo palo fin dal giorno in cui aveva abbandonato la Città di Smeraldo: perché lui apparteneva a quel campo di grano, lì dove la sua storia era iniziata, e il suo posto era il punto esatto in cui con lo sguardo poteva controllare costantemente quello stesso angolo del sentiero dorato. E così era rimasto là, ridotto ad un ammasso di cenci flosci e di paglia vischiosa e anche un po’ puzzolente – ad aspettare, come sempre.

Finché la pioggia era passata e nel cielo scuro erano comparse le strisce sottili e colorate dell’arcobaleno.

E allora lo Spaventapasseri, immerso nei pensieri vorticanti che abitavano il suo cervello tutto nuovo, aveva visto sbucare la ragazza dall’angolo della strada che andava a oriente, e si era sentito impazzire un cuore che era solo un altro cumulo di paglia compressa, e si era illuso – stupidamente – che la sua attesa fosse finita.

Evidentemente, lo Spaventapasseri era ancora troppo ingenuo e troppo poco saggio; perché la ragazza non era lei.

Era più grande, già una donna, e aveva capelli più lunghi e più biondi. Aveva occhi confusi, anche, e un poco tristi; non portava con sé alcun panierino, né un cucciolo, e le sue scarpette non erano rosse. Non era lei, semplicemente.

Lo Spaventapasseri aveva continuato a guardarla solo perché non c’era più nient’altro che potesse fare, nulla più che restare lì immobile con il molle braccio stupidamente alzato a fissare una strada con finti occhi stupidamente delusi, e domandarsi cosa dava il diritto a quello stupido arcobaleno di portargli una ragazza che non era lei.

E poi la ragazza era arrivata all’incrocio, aveva alzato lo sguardo e si era accorta che lui la guardava; e allora la confusione nel suo viso pallido aveva lasciato il posto ad un piccolo, timido sorriso.

« Che buffo, che buffissimo. »

 

 

Si era accorta che qualcosa non andava fin dal momento in cui aveva oltrepassato la porta e non aveva visto piante strane né creature variopinte.

Eppure aveva fatto tutto ciò che doveva fare; questa volta sapeva cosa andava fatto, perché era anche ciò che desiderava – ed erano anni, secoli che andava fatto, ma lei ci aveva messo troppo tempo a rendersene conto. Forse era per questo che il suo ritorno veniva ostacolato? Ma no. In fondo la tana era la stessa, e la pozione l’aveva bevuta, e la porta era quella giusta…

Ma allora perché si era aperta su quella strada lunghissima e lastricata di mattoni gialli, invece che a Sottomondo?

Si era mossa con l’unico pensiero che forse, come quell’ultima volta, il viaggio le richiedeva di ritrovare la sua moltezza, di ritrovarsi. Oppure… Cosa poteva fare per dimostrare di voler davvero tornare? Forse credere ad altre sei cose impossibili…

Una: c’è una porta che può portarti in due posti diversi.

« A cosa pensi? »

Alice si scosse e tornò a guardare il buffo fantoccio di paglia nel campo di grano che si stendeva tra due rami dell’incrocio.

Quando si era ritrovata alla sua altezza, angosciata, senza sapere nella maniera più assoluta in quale direzione proseguire, aveva sollevato lo sguardo e si era accorta che quello non era uno spaventapasseri come gli altri. Se c’era una cosa che Sottomondo – che lui le aveva insegnato, era a credere sempre a ciò che vedeva e ciò che sentiva: e questo spaventapasseri la stava guardando fisso fisso. Gli occhi luccicanti sotto la tesa del cappello erano troppo vivi per essere soltanto dipinti, e la bocca che solcava come uno strappo la tela del suo volto era troppo imbronciata per essere finta. Soprattutto, dopo che lei era rimasta per un bel po’ immobile a guardarlo, ad un certo punto il fantoccio aveva sorriso e si era portato una mano alla testa in cenno di saluto. Che buffo, che buffissimo.

« Scusami; mi chiedevo quale sbaglio possa aver mai commesso per finire qui, e dove portasse questa strada. »

Lo Spaventapasseri la guardò dall’alto in basso, come in preda a profonda riflessione. « Sul tuo sbaglio non so dirti, ma la seconda risposta è facile. Ognuno trova in fondo al lungo sentiero dorato ciò che cerca. Io ci trovai un cervello, tanto tempo fa. Così come il Boscaiolo di latta trovò un cuore, ed il Leone il coraggio che gli mancava. Io credo che ogni strada sia intesa per avere una meta diversa per ognuno – ma per la maggior parte delle persone, il sentiero dorato porta semplicemente alla Città di Smeraldo, dove un tempo regnava il Grande Mago di Oz. »

Alice ebbe bisogno di qualche istante per riflettere sulle sue parole.

Due: c’è un leone che ha paura.

Seduta tra le spighe ai piedi del palo, infine alzò gli occhi, tristemente divertita da un ricordo quasi sbiadito. « Nel posto in cui sono diretta c’è un Gatto che dà indicazioni persino più bizzarre delle tue. »

« Davvero? » Lo Spaventapasseri spalancò gli occhi azzurri, così espressivi da sembrare veramente umani. « Un gatto? Parli sul serio? »

Alice annuì. « È un posto dove ogni cosa sembra assurda, dove i conigli portano l’orologio e i bruchi fumano il narghilè… »

E dove i cappellai aspettano, le venne in mente; ma questo non lo disse, perché in fondo non era una cosa tanto assurda.

« Allora non può certamente far parte del Regno di Oz. Le uniche cose assurde qui erano provocate dalle Streghe Cattive; ma ora tutte le Streghe Cattive sono morte. » Lo Spaventapasseri si dondolò pensoso sul suo palo, lo sguardo fisso su un punto lontano del cielo saturo di odore di pioggia. « È un vero peccato che non ci sia più neanche il Mago. Avrebbe potuto pensarci lui a portarti fuori da Oz, sul suo pallone; era un buon uomo, anche se non era affatto vero che fosse un mago. Però è stato comunque in grado di regalare il coraggio al Leone, un cuore al Boscaiolo, ed un cervello a me… »

Alice lo guardò spiazzata. Questa storia del mago che non era un mago ma che aveva elargito doni tanto sorprendenti la confondeva un po’. Ma lo Spaventapasseri continuava a parlare come a se stesso, e lei cercò di stargli dietro, sperando che anche i suoi consigli si rivelassero infine validi come quelli del suo caro Stregatto – che forse in quel momento l’attendeva alla tavola del tè del Cappellaio, levitando appena sopra la sua spalla…

« Penso che la cosa migliore che tu possa fare sia chiedere aiuto a Glinda, la Strega del Nord. In fondo è stata così gentile da accettare di ricoprire il nostro ruolo, quando noi tre abbiamo scelto di smettere di regnare su Oz al posto del Mago. »

Alice quasi non registrò l’informazione sulla Strega del Nord che avrebbe potuto aiutarla – era sconcertata dall’ultima frase dello Spaventapasseri.

« Vuoi dire che tu ed i tuoi amici… avevate preso il posto del Mago? »

« Oh, sì » rispose lo Spaventapasseri, guardandola con un sorriso allegro. « Il Mago avrebbe voluto che gli abitanti della Città di Smeraldo ‘obbedissero a noi come avrebbero obbedito a lui’; disse proprio così. Ma non eravamo molto felici di questo compito. Il Leone voleva andare a terrorizzare le bestie feroci che un tempo lo avevano umiliato; quanto al Boscaiolo di latta, adesso che aveva un cuore era più triste di prima, senza qualcuno da amare… »

Tre: c’è un uomo che sa soffrire con o senza un cuore.

« E tu? » chiese Alice, sinceramente incuriosita, perché d’un tratto il sorriso dello Spaventapasseri aveva assunto una sfumatura triste.

Il fantoccio si studiò per un attimo i guanti imbottiti, come per scegliere le parole giuste, prima di riportare lo sguardo nel punto in cui quello che lui chiamava ‘il sentiero dorato’ curvava a oriente, là dove l’arcobaleno sfiorava l’orizzonte.

« Io volevo solo tornare qui, ad aspettare una persona. Forse lo dico solo perché adesso ho un cervello, però credo che prima o poi ognuno di noi debba capire qual è il proprio posto. Il nostro non era alla Città di Smeraldo; non senza di lei. Il mio posto è questo qui. Se tornerà, lei passerà certamente di qui. »

Alice lo osservò a lungo in silenzio.

Le ricordava tanto il suo Cappellaio. Non avrebbe saputo dire perché; sembravano anzi così diversi: il Cappellaio era perfetto nella sua follia, mentre lo Spaventapasseri sembrava esser diventato molto saggio grazie a quel suo cervello – lo Spaventapasseri aveva voluto un cervello, ma il Cappellaio senza la sua follia non sarebbe probabilmente mai stato felice. Eppure entrambi, in qualche modo, in posti diversi e forse anche per motivi diversi – o forse no – aspettavano.

« Perché non vai a cercarla tu? » mormorò alla fine.

Lo Spaventapasseri non distolse lo sguardo dalla curva. Era incredibile quanta tristezza potesse riversare in quel sorrisone che tra le grinze del tessuto poteva sembrare così buffo.

« Non posso. Vedi, è stato l’arcobaleno a portarla qui la prima volta. Il Mago mi ha reso abbastanza intelligente da riconoscere i miei limiti; non potrei mai pensare di arrivare in un posto così lontano e diverso come una stella, e soprattutto non credo che potrei farlo senza di lei. È stata lei a tirarmi giù dal palo, te l’avevo detto? » Sembrò ricordarsi soltanto allora della presenza di Alice, e allora tornò a guardarla con la sua allegria forzata, molto più fittizia di quanto lui stesso non fosse. « Adesso so camminare da solo – ma mi sembra giusto che sia lei a decidere di tornare, e allora se vorrà potrà anche farmi scendere di nuovo, e così potremo stare insieme. »

Quattro: c’è un arcobaleno che si può oltrepassare.

Alice si alzò scrollandosi appena il vestito, allontanandosi dalle spighe ma restando abbastanza vicina da poter ancora guardare lo Spaventapasseri. Tra le nuvole stava facendo capolino il sole: forse tra poco l’arcobaleno avrebbe iniziato a sbiadire. Per un istante le venne voglia di sollevare le mani e farlo lei, tirarlo giù dal palo – ma sapeva che lui non avrebbe voluto. Lo Spaventapasseri non voleva un aiuto qualsiasi, non voleva neppure un vero aiuto; aspettava solo la sua ‘lei’. E una volta sceso non sarebbe tornato in quella Città di Smeraldo, e non sarebbe andato da nessuna parte, se ‘lei’ non fosse stata con lui. No, lo Spaventapasseri aveva scelto di aspettare – come aveva accettato di fare il Cappellaio…

Mosse un paio di passi indietro, tornando sulla strada lastricata di mattoni gialli, esitante. « La Strega del Nord, hai detto? »

Lo Spaventapasseri annuì energicamente. Sollevò il braccio e indicò l’ovest, la stessa direzione in cui puntava una mano quando lei era arrivata all’incrocio e lo aveva guardato – quando si era resa conto che anche in questo nuovo, strano, ignoto mondo non era necessario essere ‘persone’ per essere vivi.

« Sì, la Buona Strega del Nord. Glinda. La troverai alla Città di Smeraldo, nel centro esatto del Regno di Oz: non puoi sbagliare. Basta seguire il lungo sentiero dorato. »

Alice era un po’ dispiaciuta di lasciarlo lì. Ma dopotutto era quasi certa che, se anche gli avesse proposto di andare insieme da questa Glinda – in modo che anche lui trovasse un modo per lasciare il Regno di Oz – lo Spaventapasseri avrebbe rifiutato; e in fondo riusciva a capirlo.

« Ti ringrazio. » Gli sorrise. « Spero che torni presto da te, Spaventapasseri. »

E lo Spaventapasseri le rivolse ora un sorriso che di finto o di triste non aveva proprio nulla. Si dondolò ancora sul palo, muovendo le braccia di paglia avanti e indietro per mimare un cammino e canticchiando un motivetto allegro: segui il sentiero dorato, segui il sentiero dorato… Poi si portò di nuovo la mano al cappello e la salutò.

« Spero che anche tu trovi ciò che stai cercando. »

Lei gli sorrise ancora, poi si volse, superò un paio di pozzanghere e s’incamminò.

Le nuvole andavano rapidamente disperdendosi. In un moto di preoccupazione e tenerezza, Alice si augurò che l’arcobaleno restasse visibile almeno per il tempo sufficiente a ricondurre dallo Spaventapasseri la persona che aspettava. Era già lontana nel pensarlo, ma quando si voltò vide che il fantoccio era ancora lì, immobile sul suo palo, a scrutare instancabilmente lo stesso punto della strada.

Cinque: c’è uno spaventapasseri innamorato.

Chissà se anche il suo Cappellaio l’aspettava così, con tanta fiducia, con tanto ostinato affetto. Tornò a guardare fisso davanti a sé e camminò con maggior decisione. La Città di Smeraldo, eh? Gli smeraldi erano verdi. Verdi come gli occhi del Cappellaio – che lei non aveva mai dimenticato. Proprio come gli aveva promesso.

Non le importava più di sapere perché la porta non l’avesse ricondotta subito a Sottomondo. Non sarebbe stato certo questo a farle cambiare idea, adesso che finalmente anche lei, come lo Spaventapasseri, aveva capito quale fosse il posto cui davvero apparteneva.

Non doveva far altro che seguire quel lungo sentiero dorato.

Sei: rivedrò il Cappellaio Matto.

 

 

Il sole era di nuovo splendente come avrebbe sempre dovuto essere. L’acqua sui suoi vestiti logori si era quasi del tutto asciugata. La ragazza bionda con gli occhi un po’ tristi e le scarpette azzurre era ormai lontanissima da qualche parte alle sue spalle. E lo Spaventapasseri era sempre là al suo posto. Ad aspettare.

Prima o poi ci sarebbe stato un giorno piovoso in cui l’arcobaleno gli avrebbe riportato Dorothy. Ne era sicuro, così come era sicuro che la ragazza bionda avrebbe trovato la sua meta, così come era sicuro di avere un vero cervello in testa. Dorothy sarebbe tornata.

Però, fino ad allora, tenersi quel sorriso sul volto di tela avrebbe continuato a fare male.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Credits e annotazioni

- Il sottotitolo corrisponde alla battuta “Dovrai seguire il sentiero dorato” pronunciata ne Il mago di Oz per la prima volta da Glinda;

- I versi iniziali sono tratti da Boulevard of Broken Dreams dei Green Day;

- Quando Dorothy arriva nel Paese dei Mastichini dice a Totò: “Dobbiamo essere oltre l’arcobaleno”. Per questo motivo lo Spaventapasseri e conseguentemente Alice sono indotti a credere che sia stato l’arcobaleno a portare Dorothy ad Oz la prima volta, e per questo motivo non viene citato invece il ciclone che è il vero responsabile;

- Il fatto che Alice non mangi nulla per ingrandirsi dopo aver oltrepassato la solita porticina può sembrare una svista, ma è cosa voluta. Beh, più che altro per mio capriccio xD;

- Quando lo Spaventapasseri si riferisce al mondo di Dorothy come ad una ‘stella’ è perché Glinda credeva che Dorothy fosse appunto caduta da una stella del cielo chiamata Kansas, e così gli altri abitanti di Oz;

- Anche il motivetto cantato dallo Spaventapasseri corrisponde alla canzone Follow the yellow brick road (You’re off to see the Wizard) che i Mastichini cantano a Dorothy quando la ragazza parte per la Città di Smeraldo.

 

 

Note (ulteriori) dell’autrice

Questa raccolta nasce da un sogno puramente nonsense, ossia la mia insana esigenza di crossoverare Alice in Wonderland ed Il Mago di Oz, le mie due ‘favole moderne’ preferite – esigenza che ha trovato sbocco grazie al contest “Alice nel paese di...” indetto da Fabi_, che non smetterò mai di ringraziare. Cosa dire? Mi sono venute in mente tre storielle indipendenti l’una dall’altra, ognuna di diverso genere, legate da pochi versi di una canzone che adoro e dai due elementi scelti tra quelli messi a disposizione dalla giudicia: questa immagine ed una citazione (“È una ben povera memoria quella che funziona solo all’indietro”) da Attraverso lo specchio. Le ho scritte, le ho inviate, anche se non mi convincevano fino in fondo, specie questo primo capitolo. Ma il terzo posto a pari merito è stato una piacevolissima sorpresa.

Ringrazio ancora una volta Fabi per l’opportunità concessami, e rinnovo i miei complimenti a tutte le altre partecipanti al contest. E, naturalmente, grazie a chiunque vorrà leggere questa raccolta. ^^

Aya ~






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Capitolo 2
*** Interludio. Perdersi ***


Interludio ~ Perdersi

;; I make the path ;;

 

 

 

{ I’m walking down the line that divides me somewhere in my mind

On the border line of the edge and where I walk alone }

 

 

 

Si diceva che a Sottomondo non vi fosse mai stato un cappellaio abile quanto Tarrant Hightopp, e certo doveva essere vero, se neppure le gocce rosse che tossiva in certi momenti riuscivano a fargli interrompere il suo lavoro.

Lo Stregatto soleva miagolare che c’era stato un tempo in cui al Cappellaio Matto – così lo chiamavano tutti – non era importato molto dei cappelli, e in cui tutto ciò che faceva durante il giorno era stare seduto insieme al Leprotto ed al Ghiro a bere tè dal suo servizio di tazze sbeccate e senza fondo. Il Cappellaio rideva di questo, poiché non ricordava nulla del genere: sapeva soltanto che il suo posto era sempre stato il castello della buona Regina Bianca, là dove Mirana gli affidava di tanto in tanto il compito di cucire un copricapo per lei o per un altro ospite della sua corte – compito cui il Cappellaio stava adempiendo anche in questo preciso momento, volteggiando qua e là tra stoffe e nastri e spilli e aghi con l’eccitazione e lo zelo di un bambino. Perché il suo nuovo cliente era un personaggio tutto particolare, oh sì che lo era, e il Cappellaio era stato a lungo molto curioso di conoscerlo, sin da quando Mirana gli aveva parlato per la prima volta di quel forestiero il cui corpo imbottito di paglia si era accasciato una mattina appena fuori dei suoi cancelli.

Un uomo di paglia, capito? Il Cappellaio Matto doveva conoscerlo.

L’occasione era arrivata ed oggi il Cappellaio, tutto contento, prendeva misure e tagliava tessuti e soppesava colori e intanto non perdeva mai di vista il suo ospite, che attendeva in piedi in un angolo della stanza guardandosi intorno con i suoi occhi dipinti e dondolando le braccia lungo i fianchi. Lo aveva invitato a sedersi, ma lo Spaventapasseri – così si faceva chiamare – aveva sorriso e aveva detto che non ce n’era bisogno, che lui non era mai stanco. Il Cappellaio aveva reputato poco saggio chiedergli perché allora si fosse lasciato cadere davanti alla corte della Regina Bianca, adducendo quello stupido dubbio che gli era sorto alla propria consueta follia, e aveva ripreso a lavorare tossendo ogni tanto le gocce rosse che si facevano sempre più frequenti.

Non avrebbe saputo dire da quanto tempo gli succedesse di tossire rosso. Nessuno avrebbe potuto stabilirlo, in realtà; il Tempo a Sottomondo era fermo da – beh, più o meno da sempre. Qualcuno ancora si ostinava a dire che gli orologi ticchettavano prima del Giorno Gioiglorioso, ma doveva trattarsi di una sciocca credenza popolare, perché persino il Giorno Gioiglorioso – nessuno si ricordava più quando fosse stato, e il Cappellaio Matto meno di tutti.

Lo Spaventapasseri sembrava molto curioso del lavoro del Cappellaio. Continuava a chiedergli spiegazioni ogni volta che lo vedeva preparare un particolare attrezzo o girare una qualche manovella. Di certo era qualcuno cui piaceva apprendere; lo Stregatto non gli aveva mai fatto tante domande mentre lo guardava all’opera: lui si limitava a fluttuargli intorno e a miagolargli all’orecchio che gli sarebbe tanto piaciuto provare ancora una volta il suo cappello – anche se il Cappellaio non riusciva a ricordare quando potesse esser stata l’altra volta. Lo Spaventapasseri invece era interessato a tutto ciò che vedeva.

« Dimmi, Cappellaio, le mie domande ti annoiano? »

Il Cappellaio si voltò infilando alcuni spilli nel cuscinetto che aveva al polso e scosse la testa, sorpreso. « Certo che no, Spaventapasseri. Cosa te lo fa pensare? »

Lo Spaventapasseri, in piedi nel suo angolino, fece un sorriso strano e le labbra posticce distesero il viso increspato. « Devi perdonarmi, ma da quando ho un cervello ho sempre cercato di riempirlo con più cose possibili. So che questo può essere logorante per la persona che tenta di rispondermi. Un Leone mio vecchio amico una volta mi disse che, se non avessi smesso subito di chiedergli notizie della sua foresta, sarebbe diventato erbivoro e si sarebbe dedicato espressamente alla mia paglia. »

Il Cappellaio guardò lo Spaventapasseri con un interesse proporzionale a quello che da lui gli veniva rivolto. « Che cosa vuol dire, ‘da quando ho un cervello’? Non ne hai forse sempre avuto uno? »

« Oh, no » e il sorriso dello Spaventapasseri di colpo divenne triste. « Io sono fatto di paglia, Cappellaio. Tanto, tantissimo tempo fa il mio compito era quello di stare in un campo a spaventare i corvi con la mia sola presenza – ma ero così stupido che persino i corvi si accorsero che non c’era nulla da temere da parte mia. Allora mi dissi che sarei diventato intelligente, che un giorno avrei avuto un cervello al posto della paglia che mi riempiva la testa; e quando all’incrocio è arrivata la persona che per prima mi ha accettato così com’ero, senza indugi l’ho seguita sul lungo sentiero dorato per andare a procurarmi ciò che mi mancava. »

Il Cappellaio Matto non era sicuro delle proprie impressioni, ma gli sembrava che anche la voce dello Spaventapasseri si fosse riempita di tristezza quando il suo discorso si era spostato sulla sconosciuta ‘persona’. Non era famoso per la sua attenzione ai dettagli – gli unici che davvero notasse erano i dettagli dei suoi cappelli; ma ugualmente qualcosa lo spinse ad abbassare lo sguardo, esitante, mentre arrotolava di nuovo il nastro con cui aveva misurato l’ultimo lembo di tessuto che gli serviva – e poi si chinava subito dopo scosso dai soliti colpi di tosse rossa.

« Cappellaio, stai male? »

Lo Spaventapasseri aveva alzato il capo e lo guardava con sincera preoccupazione, ma il Cappellaio scosse con impeto il suo e si raddrizzò.

« Benissimo, sto benissimo. » Guardò dritto dentro gli occhi azzurri dell’uomo di paglia e cercò di figurarsi il cervello oltre la tela del viso. « Ma se hai ottenuto ciò che volevi, allora come sei arrivato qui, Spaventapasseri? »

Quella era l’unica cosa che neppure Mirana sembrava sapere. Quando si era ritrovata lo Spaventapasseri fuori dal castello, naturalmente il suo animo buono e sensibile le aveva suggerito di prestargli aiuto offrendogli ospitalità, ma era stata anche tanto delicata da non chiedergli nulla. Il Cappellaio non era una persona delicata; non c’erano freni ad impedirgli di porre domande scomode o difficili – in fondo i matti non si fanno mai di questi problemi.

Lo Spaventapasseri rimase per un po’ in silenzio e guardò il cielo al di là della finestra aperta. Era di un grigio slavato e compatto, quasi bianco, che non lasciava trasparire né il sole né le nuvole – a Sottomondo non si vedevano più né l’uno né le altre, da chissà quanto tempo, forse da sempre. Alla fine il fantoccio parlò di nuovo, anche se nel suo tono non c’era più traccia dell’allegria che aveva animato le sue domande poco prima.

« Sono andato a cercarla, ma ho smarrito la strada. Temo sia impossibile poter arrivare a piedi dall’altra parte dell’arcobaleno. »

Il Cappellaio Matto rimase a contemplarlo senza dire niente, chiedendosi quanta saggezza fosse racchiusa in quel cervello che lo Spaventapasseri si portava adesso dentro la testa, e se quell’uomo di paglia fosse in grado allora di rispondere a qualsiasi domanda e di risolvere qualsiasi enigma – perché un corvo assomiglia a una scrivania? Non l’aveva mai saputo. Avrebbe potuto chiederglielo; avrebbe potuto…

Tossì di nuovo, e le gocce rosse che si ritrovò sul palmo della mano lo riscossero e lo riportarono con la mente al suo lavoro ormai pressoché completo.

« Ho quasi finito, Spaventapasseri » disse già dal di sopra delle ultime modifiche al cappello destinato al suo nuovo fragile conoscente.

« Davvero? » Lo Spaventapasseri tornò allegro e festoso; batté le mani rese tali dai guanti grezzi e saltellò sul posto. « La signora Mirana mi aveva detto che saresti stato veloce. »

Quando il Cappellaio aveva accettato di creare un nuovo cappello per lo Spaventapasseri venuto da chissà quale regno lontano, aveva pensato ad un lavoro uguale a qualsiasi altro. Adesso che conosceva la storia dello Spaventapasseri, con una minuscola parte della propria mente – quella che era un pochino normale, quella che non lasciava mai emergere: quella che aveva scelto di dimenticare – si rendeva conto che forse il nuovo cappello gli serviva a mantenere in buono stato il cervello che gli era stato donato. Forse, per lo Spaventapasseri raggiungere l’altra parte dell’arcobaleno era tanto importante che lui non voleva correre il rischio di perdere per strada il suo proposito. Forse, lo Spaventapasseri non era come lui, non era disposto a rinunciare tanto facilmente ai ricordi in nome di un posto tranquillo come la Corte della Regina Bianca o di un bel lavoro come quello del fare cappelli.

Il Cappellaio aveva dimenticato se il Tempo fosse mai trascorso, e il Giorno Gioiglorioso, e le tazze da tè sbeccate e senza fondo di cui parlava lo Stregatto. E aveva dimenticato anche una persona – non ricordava, ovviamente, come si chiamasse o che viso avesse. Invece lo Spaventapasseri forse, semplicemente, non voleva dimenticare.

« Spaventapasseri, tu mi sapresti dire perché un corvo assomiglia a una scrivania? »

Il fantoccio di paglia lo guardò con aria mortificata. « Mi dispiace, Cappellaio… Da quando lei se n’è andata, non ricordo più come si fa a pensare. »

Oh, era per questo allora che faceva così tante domande? Il Cappellaio Matto credeva di capire, ma non ne era sicuro. Si limitò ad avvicinarsi e ad iniziare a scucire in silenzio i punti che tenevano il vecchio cappello logoro dello Spaventapasseri unito al sacco che gli reggeva su il cervello.

E quando anche l’ultimo punto saltò e il Cappellaio si ritrovò a stringere tra le dita i lembi della testa dello Spaventapasseri, ebbe un sussulto al vedere che quel cervello di cui tanto aveva congetturato e immaginato si rivelava esser diventato un ammasso di paglia muffita e frantumata.

« Spaventapasseri… Il tuo… »

« Lo so. » Poco più in basso, gli occhi del fantoccio erano ancora di quell’azzurro luminoso, ma così da vicino sembravano un po’ meno vivi e un po’ più dipinti. « Te l’ho detto, Cappellaio. È per questo che devo ritrovarla. Senza di lei, tutto quello che ho avuto si è guastato e io sono tornato ad essere lo stesso pupazzo stupido di una volta. »

Il Cappellaio guardò costernato il cappello nuovo pronto sul tavolo accanto a sé. Era stato un lavoro inutile; non sarebbe più servito a mantenere caldi e sicuri i pensieri e i ricordi della persona speciale dello Spaventapasseri – ma era pur sempre il suo compito, ed ogni compito andava portato a termine. Così il Cappellaio prese su il suo lavoro e ricucì insieme con silenziosa solerzia la stoffa e la tela, richiudendo il vuoto sopra il cervello andato a male di quel povero uomo non umano che anche adesso si teneva dolorosamente stretto il suo bisogno di rivederla.

Forse un tempo il Cappellaio Matto era stato come lui; chissà, magari lo Stregatto se lo ricordava.

Lo Spaventapasseri saggiò con le dita impagliate il nuovo copricapo e sorrise. « Ti ringrazio, Cappellaio. Sei davvero bravo come dice la signora Mirana. »

« Non ringraziarmi; è bello fare il mio mestiere » gli sorrise in risposta, salvo poi portarsi le mani alla bocca e tentare di sopprimere un ulteriore scoppio di tosse che come sempre gli macchiò i palmi di rosso. Lo Spaventapasseri sobbalzò e fece come per aiutarlo a sollevarsi, ma il Cappellaio glielo impedì schermendosi e riprendendo il discorso in fretta – per non rischiare di dimenticare anche quello. « Perdonami, Spaventapasseri, ho ancora un’ultima domanda. Quella persona che dicevi… »

L’uomo di paglia annuì, in attesa.

« Ti ricordi almeno il suo nome? »

Questa volta il sorriso dello Spaventapasseri fu più allegro che mai, e per un attimo al Cappellaio sembrò di poter vedere nella stanza un po’ di quella cosa che doveva essere il sole.

« Certo che me lo ricordo. Non potrei mai dimenticare Dorothy. »

Poco più tardi, mentre lo guardava dalla porta aperta allontanarsi lungo il corridoio deserto del castello, dondolandosi sulle sue lunghe gambe prive di ossa, il Cappellaio tossì ancora, più forte, e si rammaricò di non essere uguale allo Spaventapasseri.

Il Tempo – sì, era il Tempo ad uccidere tutto: i ricordi, i cervelli, forse persino gli indovinelli. Quelli troppo difficili, quelli per cui non si sarebbe mai trovata una risposta. Come quello del corvo e della scrivania, che forse lui aveva posto a qualcun altro prima del Giorno Gioiglorioso, e che sicuramente mai nessuno aveva saputo risolvere.

Eppure, nonostante tutto, nonostante la sua testa stesse marcendo, lo Spaventapasseri ancora ricordava, e continuava a cercare quella sua persona e a sperare di raggiungerla dall’altra parte dell’arcobaleno.

E il Cappellaio che invece stava lì a tossire gocce rosse – forse stava sputando il suo cuore, che era ugualmente marcito da quando il tempo lo aveva fatto dimenticare di Alice.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Credits e annotazioni

- Il sottotitolo corrisponde alla battuta “Lo decido io il percorso” che Alice rivolge a Bayard in Alice in Wonderland;

- I versi iniziali sono tratti da Boulevard of Broken Dreams dei Green Day;

- Il nome Tarrant Hightopp è quello che Tim Burton ha dato alla sua versione del Cappellaio Matto, dunque non è mia invenzione.

 

 

Note (ulteriori) dell’autrice

Questo capitolo è il più cupo dei tre, e onestamente è stato più facile da scrivere rispetto al primo. Forse perché Alice in Wonderland mi ispira davvero molta inquietudine, e così l’immagine di un Cappellaio Matto malato nel corpo e nella mente mi ha ossessionata a lungo, specie se messa in relazione con la figura disperata eppure così terribilmente positiva del mio amato Spaventapasseri. Sì, perché, se non si fosse capito, lo Spaventapasseri è il mio grande amore. <3 x’D

Forse questo è il capitolo che preferisco, ma naturalmente non mi dispiacerebbe un giudizio da parte dei lettori ^^

Ringrazio, a proposito, Carolillina per aver inserito la storia tra le preferite, e PaytonSawyer che l’ha inserita tra le seguite. Spero che anche questo episodio sia di vostro gradimento.

Aya ~






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Capitolo 3
*** Ultimo atto. La strada giusta ***


Ultimo atto ~ La strada giusta

;; some people do go both ways ;;

 

 

 

{ I walk this empty street on the boulevard of broken dreams

Where the city sleeps and I’m the only one, and I walk alone }

 

 

 

Doveva essere uno di quei sogni in cui fai di tutto per andare in una direzione, ma i tuoi piedi ti portano inesorabilmente a prenderne un’altra. Dorothy era consapevole di star sognando – perché, se si fosse veramente ritrovata di colpo nel Regno di Oz, non avrebbe mai percorso la strada di mattoni rossi.

Nel paese dei Mastichini c’erano due sole strade, che si dipanavano come nastri dal cuore del villaggio: una era rossa, e lei non aveva mai saputo dove andasse a finire; l’altra, naturalmente, era il lungo sentiero dorato che conduceva dritto alla Città di Smeraldo, nel centro esatto del regno. Era quella la strada su cui Dorothy aveva vissuto tante avventure, alcune pericolose ed altre esilaranti, e aveva conosciuto i migliori amici che avrebbe mai sperato di avere – tra i quali lo Spaventapasseri, il suo Spaventapasseri, che le mancava più di tutti, proprio come lei aveva temuto e gli aveva sussurrato quando lo aveva salutato con quel bacio. Era perciò la strada dorata che Dorothy avrebbe ripercorso; sarebbe tornata sui suoi passi, sarebbe andata a trovare i suoi amici, e avrebbe finalmente rivisto il suo amico di paglia e stracci che ogni giorno rivedeva nel viso di Hunk e che ogni volta la portava suo malgrado a piangere di nostalgia, nascondendo le lacrime in un fazzoletto ormai logoro perché Hunk non le vedesse e non si preoccupasse per lei.

A Dorothy non importava nulla della strada rossa. Per lei contavano solo il lungo sentiero dorato e i posti che toccava: come il campo di grano. Per questo motivo doveva essere un sogno – e mentre lo pensava la strada rossa la portava inesorabilmente avanti, attraverso un bosco strano, meno spaventoso di quello che circondava il castello della Strega dell’Ovest, ma non per questo meno inquietante.

« Totò, ho l’impressione che non siamo più ad Oz. »

I piedi di Dorothy, che oggi forse non sarebbero più entrati tanto facilmente nelle scarpette rosse e che però ancora un pochino le rimpiangevano, continuavano a muoversi in totale indipendenza dalla sua volontà. La ragazza stringeva Totò tra le braccia; perché Totò non l’abbandonava mai, neppure in sogno, e Dorothy non voleva rischiare di perderlo di vista in quel posto strano che sembrava completamente diverso dal mondo colorato che ricordava. Di nessuna delle piante che vedeva avrebbe saputo dire il nome, così come molti dei versi degli uccelli le suonavano estranei. Oh, quanto sarebbe stato rassicurante se insieme a lei e a Totò ci fosse stato il Boscaiolo di latta a confortarla con il suo buon cuore, o il Leone che con il suo nuovo coraggio avrebbe potuto farla sentire meglio – oppure semplicemente lui, il suo Spaventapasseri, terrorizzato e tremante ma ben deciso a proteggerla, come aveva sempre fatto, sempre, persino davanti al fuoco.

Camminando con Totò in braccio, Dorothy sollevò una mano e si asciugò una lacrima dispettosa all’angolo dell’occhio. Doveva smetterla di pensare allo Spaventapasseri. Ogni giorno che passava il suo ricordo diventava un po’ più doloroso, eppure non sbiadiva mai – e lo zio e la zia si ostinavano a dire che Dorothy aveva sognato tutto! Se così fosse stato, non avrebbe fatto tanto male. No?

A poco a poco il bosco iniziò a diradarsi, finché la strada rossa sfociò in una radura su cui si affacciava un mulino cadente – un mulino in una radura? – e andò a morire di fronte a quella che sembrava una tavola imbandita per una cerimonia del tè.

La cosa si faceva sempre più bizzarra. Ma quell’unico viaggio di Dorothy ad Oz, reale o meno che fosse stato, l’aveva in qualche modo abituata alle cose bizzarre; così fu con una certa curiosità che la ragazza seguì i propri passi fin proprio alla fine della strada di mattoni rossi.

Era davvero una tavolata pronta per il tè, ma in qualche modo era anche qualcosa di assolutamente insensato. Molte tazze erano rotte. I vassoi erano quasi tutti scheggiati e vuoti, e quel poco che c’era da mangiare sembrava andato a male da anni. Un po’ dappertutto sulle tovaglie sbiadite si vedevano foglie portate certamente dal vento e che nessuno si era curato di spazzare via. Quanto poi all’uomo seduto all’estremità opposta della tavolata, lontano, con l’enorme cappello a cilindro a nascondergli la parte superiore del volto – era profondamente addormentato, e qualcosa di lui, chissà perché, dava l’impressione che non si svegliasse da molto tempo.

Strano, stranissimo. Forse il cervello che il mago aveva donato allo Spaventapasseri sarebbe stato in grado di trovare un senso a quella…

Ma a quel pensiero Dorothy si intristì nuovamente. E dal momento che questa volta non pensava di potersi trattenere, e considerando che quella cerimonia cui partecipava un solo uomo addormentato non si sarebbe certo interrotta a causa sua, si disse che forse poteva sedersi un attimo e permettersi di piangere un po’, davvero, soltanto un po’.

Lasciò andare Totò, che corse ad annusare circospetto la più vicina gamba del tavolo; quindi si lasciò cadere su una poltrona dall’aspetto invitante nonostante le tracce evidenti di disuso e posò il capo tra le braccia, rifugiandosi tra poche tazzine sbeccate che non sarebbero riuscite né a nascondere né a contenere le sue lacrime.

Era passato del tempo, e Dorothy ora era cresciuta abbastanza da riuscire ad intuire perché il suo Spaventapasseri le mancasse così tanto. Già in quel giorno lontano in cui lo aveva fatto scendere dal palo e aveva proseguito la strada con lui, e quando erano passati dal prato degli alberi permalosi e lui aveva architettato quello stratagemma perché fossero loro stessi a gettare alla ragazzina le mele che le avevano negato, e quando poi lui le aveva dichiarato che l’avrebbe condotta sana e salva dal Mago di Oz anche se la Strega dell’Ovest aveva minacciato di trasformarlo in un materasso – già in quei momenti, lei sapeva che lo Spaventapasseri, con quei suoi modi gentili e premurosi, con quel suo sorrisone un po’ sciocco ma contagioso, si stava scavando un posticino tutto speciale nel suo cuore. All’inizio era prevalso il bisogno di aiutarlo, di procurargli il cervello che voleva e così vederlo felice; ma a poco a poco si era resa conto di quanto lei stessa fosse felice insieme a lui, di quanto la facesse ridere e di quanto fossero dolci i suoi continui tentativi di aiutarla in ogni modo: sostenendola nel campo dei papaveri avvelenati o anche soltanto asciugandole le lacrime di fronte alla porta chiusa del Mago. Lui le sarebbe mancato più di tutti, gli aveva detto. E si era rivelata essere la verità. E oggi, ogni volta che si soffermava a guardare Hunk lavorare i campi della fattoria di zio Henry ed ogni volta che lui alzava gli occhi e le sorrideva, perdendosi nella sua somiglianza con il suo Spaventapasseri Dorothy non riusciva a non pensare che forse, lei, dello Spaventapasseri si era…

« Bambina, perché piangi? »

Al suono di quella voce dolce e calda come la cioccolata di zia Emma, Dorothy sollevò in fretta la testa dal tavolo – e restò a guardare a bocca aperta il gatto che le fluttuava davanti con un sorriso enorme stampato sul muso.

Da qualche parte ai suoi piedi, sentiva Totò ringhiare, ma piano, come se anche lui per ora si stesse limitando a valutare quella strana creatura.

Sì, questa era la prova: era decisamente un sogno. I gatti non sorridevano, non parlavano e neppure fluttuavano. Neanche quelli del Regno di Oz.

Il felino inclinò la grossa testa con un movimento pieno di umana curiosità, e continuò a fissarla con quegli occhi liquidi e straordinariamente espressivi. Ripeté la domanda, ignorando a bella posta il ringhio sospettoso di Totò.

« Perché piangi? Forse ti sei persa? »

Dorothy strinse le labbra. Sì, si era persa qualche pezzettino del suo cuore in un altro mondo che forse aveva soltanto sognato. Anche se aveva scelto di tornare a casa, si era persa lo stesso. E adesso ci si era messo anche questo nuovo sogno di mezzo, a ricordarle quanto faceva male.

« Ho seguito la strada sbagliata » mormorò in risposta, accennando ai mattoni rossi che si interrompevano bruscamente nell’erba alle sue spalle.

Il sorriso del gatto si allargò; sembrava avere molti più denti di un essere umano, o anche solo di un gatto normale. « Oh, è un problema piuttosto comune. Alcuni vanno di qua, altri di là, altri cercano scorciatoie… È estremamente facile seguire la strada sbagliata, dal momento che nessuno ha una strada tutta sua; non sei d’accordo? »

Quelle parole le riportarono inevitabilmente alla mente le assurde indicazioni che qualcun altro, tanto tempo prima, le aveva dato dalla cima di un palo indicandole alternativamente una strada, poi l’altra, e poi le due strade insieme.

Cercò di sorridere, ma le lacrime si fecero più insistenti e finirono con lo spegnerle la voce in gola.

« Un mio amico una volta mi parlò in modo simile, quando io… »

Un singhiozzo ingoiò il resto, e Dorothy rifugiò il viso tra le mani e pianse senza più alcun ritegno. Totò le si accucciò ai piedi, sotto il tavolo, ringhiando ancora all’indirizzo del gatto come se lo considerasse il diretto responsabile della tristezza della sua padroncina.

« Oh, mi vuoi forse dire che è questo tuo amico che sei venuta a cercare qui? » Il gatto le svolazzò intorno lentamente, o almeno così le parve sentendo la sua voce circondarla a poco a poco, insieme al suono caldo e ronfante delle fusa. « Consolati, piccola. Tutti, prima o poi, trovano ciò che stanno cercando. È così per tutti, dappertutto, ed è stato così anche per la nostra Alice. Alice » e su quel nome il gatto addolcì ancora il tono di voce, intensificando le fusa, passandole tanto vicino che Dorothy sentì il suo morbido pelo sfiorarle la guancia, « che peccato che Alice non sia tu. Se fossi tu il Cappellaio si sveglierebbe; e invece continua a dormire. Non sei un’altra Alice, vero? »

Sorpresa suo malgrado, Dorothy alzò il viso e scosse lentamente la testa. « No, non mi chiamo affatto Alice. Io sono Dorothy, Dorothy Gale. »

« Dorothy Gale? » Il gatto annuì con aria saggia, fluttuando di nuovo verso il centro del tavolo e continuando a guardarla con quel sorriso luminoso. « Sì, non potevi essere Alice. È un vero peccato. Sarebbe stato tutto più semplice se fossi stata tu Alice; tu riesci evidentemente a credere anche a più di sei cose impossibili, mentre l’ultima volta che Alice è stata qui continuava a dire di volersi svegliare. Che peccato, che peccato. Il Cappellaio continuerà a dormire, temo. Gradisci una tazza di tè? »

Muovendo le zampe come fossero mani, il gatto aveva proseguito il suo discorso sibillino versando nel contempo un liquido ambrato dall’odore alquanto forte in una delle tazze sbeccate disposte dinanzi a Dorothy, ed ora gliela tendeva con il suo bravo piattino, come avrebbe fatto un perfetto cameriere. Dorothy lo guardò stupita. Lanciò un’occhiata a Totò e vide che anche lui pareva stupefatto di fronte a quella strana creatura; aveva persino smesso di ringhiare. Senza neppure riflettere, la ragazza tirò su col naso, accettò il tè e lo bevve a sorsi brevi: era bollente, anche se – a giudicare dalle sue impressioni e dalle parole del gatto – doveva essere lì pronto su quel tavolo da molto tempo.

« Devi scusare il Cappellaio se sono io a fare gli onori di casa » miagolò il suo ospite, rivolgendo il suo sorriso sornione all’uomo seduto una ventina di sedie e poltrone più in là. « Come vedi, in questo momento non è al massimo delle sue forze. »

Dorothy osservò a sua volta l’uomo che il gatto chiamava Cappellaio, asciugandosi le guance e sentendo affiorare una lieve curiosità nei suoi confronti – come nei confronti di tutto ciò che la circondava, e che continuava a sembrarle un sogno assurdo, per quanto apparentemente realistico.

« Che cosa gli è successo? » domandò al gatto.

Il felino svanì in una nuvoletta di fumo, ricomparve al suo fianco e riprese a fare le fusa, ‘impastandole’ sul braccio, come facevano i gatti normali di tutti i mondi. Totò emise un altro basso ringhio di avvertimento e saltò sulle ginocchia di Dorothy, pronto ad ogni evenienza.

« Il Tempo è morto » spiegò il gatto, « sin dal momento in cui Alice ha lasciato Sottomondo. Da allora il Cappellaio si è ammalato di tristezza. Si è seduto qui al tavolo ad aspettare che Alice tornasse; ma Alice non tornava, non tornava mai, e intanto il Tempo moriva e gli amici non venivano più a prendere il tè con lui, e il Cappellaio cominciava ad aver sonno. Una volta si è addormentato, e da allora non ha più aperto gli occhi. »

Dorothy guardò dal gatto all’uomo con il cilindro sugli occhi, spaventata. « E da quanto tempo dorme? »

« Non hai ascoltato le mie parole, Dorothy Gale? Il Tempo è morto. Alice se n’è andata e non è passato neanche un minuto, neanche un secondo. Brutto, vero? Ed è molto triste che il Cappellaio si ricordi ancora di lei. È una ben povera memoria quella che funziona solo all’indietro; si dovrebbero ricordare le cose di domani per essere felici oggi. Se non ricordasse la sua partenza ma il suo ritorno, il Cappellaio potrebbe svegliarsi, non ti sembra? »

Dorothy guardò il gatto severamente. « Ma non è possibile ricordare le cose di domani e non quelle di ieri: il cervello non funziona così. »

« Ah » e all’improvviso il gatto smise di sorridere, guardandola con occhi colmi di sorpresa. « Ora sembri molto più Alice che non Dorothy Gale. Ma temo che questo non basterà a svegliare il Cappellaio; non sei ancora Alice, non sei lei. »

Ma Dorothy non lo ascoltava quasi più – tutto quel parlare di ricordi e di cervelli le aveva riportato alla mente il viso ruvido e sorridente dello Spaventapasseri.

Posò la tazza ancora piena per metà e accarezzò tristemente Totò, ancora rannicchiato sul suo grembo. Non le importava di questa Alice, e non poteva fare nulla per il Cappellaio; non le serviva sapere che la strada di mattoni rossi finiva in un mondo che non era né il Kansas né Oz davanti ad un tavolo dove il tempo era morto ma il tè era ancora caldo.

« Voglio andare via » sussurrò, bagnando il pelo di Totò di un’ultima lacrima. « Non è qui che voglio stare. Era la strada sbagliata, quella; questo non è il mio posto. »

Il gatto la guardò in silenzio per un istante, quindi si sollevò leggero in aria e le lambì una guancia con la lingua umida.

« Non puoi sapere se una strada è sbagliata se prima non sai dove vuoi andare, Dorothy Gale. »

Dorothy lo fissò. Ci pensò su. Dove voleva andare, lei?

Per lasciare Oz aveva dovuto capire che nessun posto era bello come casa sua. Ma se oggi sognava queste cose – se tutto, in qualche modo, continuava a farla pensare al suo Spaventapasseri e al suo profumo di paglia e al suo abbraccio morbido quando l’aveva lasciata andare via, allora forse voleva dire che casa sua era un pochino anche il Regno di Oz.

Il gatto sorrise di nuovo al suo lungo silenzio, e si ritrasse ancora verso il tavolo. Dorothy lo vide disgregarsi e riformarsi dall’altra parte del tavolo, al fianco del Cappellaio addormentato che forse in quel momento sognava la sua Alice. Il gatto prese delicatamente tra le zampe la teiera che il Cappellaio teneva tra le mani, avendo cura di non fargli cambiare posizione, e poi tornò indietro in un altro sbuffo di fumo a porgerla a Dorothy.

« Buon viaggiavvederci, Dorothy Gale. »

Quando sollevò il coperchio, Dorothy ebbe appena il tempo di vedere un baluginio rosso sul fondo, prima che una forza irrefrenabile l’attirasse in avanti, in giù, facendola cadere e cadere e cadere forse per miglia nel buio senza fondo, e Totò con lei; e l’unica luce era una mezzaluna che in realtà era il sorriso del gatto.

 

 

« Dorothy, di’ qualcosa! Dorothy! Dorothy! Sveglia! »

Aprì gli occhi alla luce del sole e si ritrovò nel giardino di zio Henry, semidistesa con la schiena contro un albero, con Totò accucciato al fianco ed il viso preoccupato di Hunk a poca distanza dal suo.

« Grazie al cielo stai bene! » Il contadino cercò di assumere un tono severo, ma la ragazza lo conosceva troppo bene per non vedere quanto fosse sconvolto. « Di’ un po’, quante volte ti ho detto di non addormentarti sui rami degli alberi, eh? Eh? Quante? »

Dorothy iniziava a ricordare vagamente di essersi seduta lassù a guardare l’amico lavorare, prima che il sonno la cogliesse di sorpresa. Sospirò.

« Tantissime, Hunk » gli concesse.

« Innumerevoli! » Hunk allargò le braccia e gesticolò furioso, e Dorothy fece fatica a reprimere un sorriso triste; ogni suo cenno, ogni suo minimo movimento le ricordava l’esuberante vivacità del suo Spaventapasseri… « Lo sai che è pericoloso. Difatti sei caduta e hai battuto la testa. Ce n’è voluto di tempo perché ti svegliassi! Poi chi glielo racconta a tua zia che ti sei fatta male perché non hai voluto ascoltarmi? Io no di certo! Che diavolo hai al posto del cervello, non lo capirò mai. Dai, dammi la mano. »

L’aiutò ad alzarsi, e stavolta lei poté abbassare gli occhi in tempo per non mostrargli il lampo di ricordo di una voce che diceva ‘solo paglia’.

« Mi dispiace. Mi sono addormentata senza neppure rendermene conto. Sto bene, Hunk, non preoccuparti per me. »

« Preoccuparmi? E chi ti dice che io mi sia preoccupato? » sbuffò Hunk, per poi fulminarla con i suoi occhi azzurri e sibilarle la verità. « Mi hai fatto morire di paura, va bene? »

Dorothy non poté fare a meno di ridere. « Questa è più una frase da Leone Codardo che non da Spaventapasseri. »

Hunk la guardò attonito. « E adesso di cosa accidenti stai parlando? »

« Oh… » Lei scosse in fretta la testa. « Niente, niente. Non farci caso. Ti ho detto che sto bene. »

« Sarà » fece Hunk, grattandosi pensoso una tempia, « ma a me sembra che tu abbia battuto la testa un po’ troppo forte. » Di colpo le sorrise, quindi si mosse per allontanarsi. « Beh, io torno al lavoro. Tu sta’ buona e cerca di non combinare altri guai, se non vuoi ritrovarti il mio povero cuore sulla coscienza. Capito? »

Questa invece era più una frase da Boscaiolo di latta, rifletté Dorothy sorridendo; ma non disse nulla mentre lo guardava uscire dal giardino e tornare ad occuparsi dell’orto.

Non era sempre così facile fingere allegria con Hunk. Lui capiva sempre quando qualcosa la turbava; la conosceva troppo a fondo, ed era troppo simile allo Spaventapasseri, per non preoccuparsi sempre che lei stesse bene. Dorothy gli era grata di costituire nella sua realtà quel filo sottile che rendeva vivido Oz – che si trattasse di un sogno o di un ricordo, poco importava; Hunk c’era, e anche grazie a lui, lei non dimenticava lo Spaventapasseri. Però qualche volta faceva davvero troppo male sapere che non avrebbe più potuto percorrere il lungo sentiero dorato con i suoi amici, stretta al braccio di quel fantoccio di paglia che si credeva stupido e che senza saperlo le aveva fatto battere forte il cuore per la prima volta.

Non avrebbe mai potuto dimenticarlo. Così come il Cappellaio del suo ultimo, strano sogno non avrebbe dimenticato quella sua Alice… Non si può dimenticare un pezzettino della propria casa. Chissà se il gatto sorridente aveva capito, alla fine.

« Siamo di nuovo tornati indietro, Totò » disse piano; e poi sollevando lo sguardo: « Oh, guarda! C’è l’arcobaleno! »

Alla vista di quella volta colorata la grigia campagna del Kansas parve rifulgere un po’ di più agli occhi di Dorothy, anche se non sarebbe mai stata splendente quanto il Regno di Oz. Stava ancora sorridendo a quel piccolo miracolo nel cielo coperto quando Totò richiamò la sua attenzione, abbaiando forte.

« Cosa c’è, Totò? Che ti succede? »

Quando vide che il cagnolino puntava ai suoi piedi, Dorothy abbassò lo sguardo e rimase sbalordita nel vedere che questi calzavano le scarpette rosse, quelle della Strega dell’Est, quelle che l’avevano riportata a casa e che erano state l’unico legame tra Oz ed il Kansas.

In un solo secondo fu sopraffatta da due consapevolezze: ecco cos’era lo scintillio rosso sul fondo della teiera del Cappellaio – ed ecco la prova che non aveva mai sognato.

Dorothy guardò a lungo le scarpette, poi Totò, poi Hunk che lavorava e fischiettava nell’orto, e poi ancora l’arcobaleno. Se faceva molta, molta attenzione, riusciva quasi a vedere al di là di quei sette colori le guglie verdi della Città di Smeraldo, dove il suo Spaventapasseri l’attendeva con il sorriso di sempre.

Qualunque cosa avesse deciso di fare adesso – beh, alla fine quella di mattoni rossi si era rivelata essere la strada giusta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Credits e annotazioni

- Il sottotitolo corrisponde alla battuta “Tuttavia è difficile seguire le due strade insieme” che lo Spaventapasseri rivolge a Dorothy ne Il mago di Oz;

- I versi iniziali sono tratti da Boulevard of Broken Dreams dei Green Day;

- Nel Paese dei Mastichini c’è davvero una strada di mattoni rossi, che in parte si dipana proprio attorno al sentiero dorato, e che si può notare nella scena in cui Dorothy comincia il suo viaggio per la Città di Smeraldo;

- La prima frase pronunciata da Dorothy richiama la sua battuta nel film: “Totò, ho l’impressione che non siamo più nel Kansas”;

- La prima frase dello Stregatto sulle strade è liberamente ispirata dalla versione Disney di Alice nel Paese delle Meraviglie, e l’ho utilizzata perché richiama in qualche modo le frasi che invece lo Spaventapasseri ne Il mago di Oz pronuncia nel dare le sue particolarissime indicazioni a Dorothy all’incrocio;

- Nel film non viene specificato che fine fanno le scarpette rosse dopo che Dorothy le ha usate per tornare a casa. Il fatto che si trovino a Sottomondo è ovviamente licenza poetica. Come tutto il resto, d’altronde. :P

 

 

Note (ultime) dell’autrice

Ecco che si conclude la raccolta. Parecchie volte, guardando il film, ho ridacchiato pensando a cosa sarebbe successo se Dorothy avesse dovuto seguire il sentiero rosso invece che quello dorato, e dove fosse mai finita; grazie al contest di Fabi_ ho avuto modo di fangirlarci un po’ sopra. Spero soprattutto di aver reso più o meno bene lo Stregatto, perché lo adoro e mi stirerei le mani come Dobby se mi diceste che è OOC .__. Cosa che mi preoccupa molto, in effetti. Che ne dite, accendo il ferro? x’D

Ancora una volta grazie a chiunque abbia letto questi tre capitoli. God bless you all.

Alla prossima storia <3

Aya ~






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