La banda degli Storti

di Esteliel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La fuga ***
Capitolo 2: *** Panico tra le autorità ***
Capitolo 3: *** Il covo ***
Capitolo 4: *** Pratiche di giustizia ***
Capitolo 5: *** Il mondo degli Storti ***
Capitolo 6: *** Un leale avvertimento ***
Capitolo 7: *** Un'abile menzogna ***
Capitolo 8: *** La resa ***



Capitolo 1
*** La fuga ***


Nota: Questa storia risale a circa tre anni fa e si trova anche in un altro sito, sotto il nick Alex (sono sempre io). I fatti raccontati sono successivi a La Morte non piange, ma trama e personaggi sono differenti, perciò si può leggere anche senza conoscere l'altra.

 

CAPITOLO 1
La fuga


Le sirene di Hammersmith suonarono troppo tardi.
Ai primi, fastidiosi suoni, ogni singolo detenuto era stato buttato giù dal letto, per una concitata e maldestra perquisizione delle celle. Il riflettore mobile del cortile si spostava forsennato sul terreno, in cerca di tracce di movimento. Il richiamo degli allarmi esterni perforava il silenzio della notte, innervosendo i secondini e strappando grida di ribellione ai carcerati. I neon baluginarono per qualche istante, prima di accendersi quasi in contemporanea, in un’esplosione di luce accecante. Voci adirate, rumori di passi pesanti e imprecazioni mal celate aumentavano la già netta impressione di trovarsi in una bolgia infernale. Il corridoio principale del primo piano era un affollarsi di corpi in frenetico movimento. Nella foga del momento alcune guardie avevano perso i loro cappelli, uno dei quali fu calpestato dagli anfibi sporchi del direttore Sanders.
Irritato per il brusco risveglio alle due del mattino, l’uomo si fece largo a spintoni tra gli ausiliari della prigione, che si erano affiancati ai secondini per riuscire a quietare i bollenti spiriti degli ospiti di Hammersmith. I capelli ingrigiti gli ricadevano scompostamente sulla fronte, nascondendo solo in parte il rossore del volto contratto. Nonostante il richiamo improvviso, aveva trovato il tempo di infilarsi i pantaloni indossati il giorno precedente, da cui fuoriusciva una canottiera con i bordi ingialliti dal sudore. Durante la sua marcia, iniziò a sbraitare frasi spezzettate e incomprensibili, che però ebbero l’effetto di attirare l’attenzione dei secondini.
Rotto solo dall’eco di qualche ultima e sparuta protesta, il silenzio si ristabilì in un tempo relativamente breve, soprattutto grazie all’ausilio dei manganelli usati per disperdere le folle. Alcune guardie erano ancora impegnate a richiudere le celle, quando Sanders riuscì a riprendere un minimo di controllo e a formulare una domanda sorprendentemente coerente, dato il suo stato d’animo.
«Che cazzo succede?»
Una delle guardie, la più vicina al punto in cui Sanders si era fermato, mosse di qualche centimetro la gamba destra. Se anche avesse avuto intenzione di fare un passo avanti, in quel momento non ne trovò il coraggio. Si limitò ad emettere un lieve colpo di tosse, per annunciare la sua intenzione di prendere la parola.
«Un’evasione, signore» dichiarò, cedendo ai nervi proprio sulle ultime sillabe, che vennero fuori in un pigolio incerto.
Sanders si voltò verso di lui, trapassandolo con i suoi occhi castani. Gli si avvicinò con pochi passi lenti e misurati, che presagivano una reazione tutt’altro che tranquilla. Accostandosi alla guardia, gli concesse il privilegio di vedere da vicino il suo volto spigoloso e solcato da rughe di senilità e collera.
«Ti spiacerebbe ripetere?» domandò tra i denti, con una smorfia che mostrava tutta l’irritazione sottesa a quella domanda in apparenza educata.
«Abbiamo avuto un’evasione» ripeté la guardia in un altro balbettio, dimenticando di aggiungere il “signore” per il timore che gli procurava la vicinanza di quel viso paonazzo.
Sanders ristette per qualche secondo, guadagnandosi le occhiate incuriosite degli altri secondini e dei detenuti nelle celle più vicine. La sua bocca si riaprì lentamente, quasi con debolezza. Ciò che ne uscì dopo, però, non risultò né debole né gentile.
«E CHE DIAVOLO CI FATE QUI IMPALATI?»
La guardia indietreggiò d’istinto e impallidì tanto in fretta da dare l’impressione che avrebbe perso i sensi di lì a poco. Tutti gli altri sobbalzarono al grido, ma non ebbero tempo di riprendersi dallo shock, perché il direttore stava nuovamente strepitando.
«Tu, vai dal guardiano notturno, prendi un paio di uomini e raggiungete immediatamente il cancello» ordinò ad un altro secondino, con la voce arrochita per le precedenti urla. «Disseminate le guardie, dovete coprire tutto il perimetro esterno. Muoversi!»
Alle sue parole seguì una corsa disordinata. Tutti gli uomini presenti si precipitarono verso le cancellate che conducevano all’ala centrale, dove erano ubicate le uscite. Uno degli ausiliari, pur essendo solo un tirocinante, si offrì subito di salire al centro comandi, dove si controllavano tutte le telecamere esterne e le luci di ispezione. Ben presto nel corridoio rimasero solo Sanders e la guardia contro cui aveva urlato qualche minuto prima.
Accorgendosi solo in quel momento della sua presenza, Sanders si volse verso di lui con fare minaccioso. L’uomo deglutì a forza sotto il peso di quello sguardo, ma non accennò a muoversi. Il mento gli tremava per la tensione. Lungi dal farsi commuovere da quella reazione, Sanders gonfiò il petto in un respiro forzato. Il ghigno di un detenuto alle spalle della guardia gli fece dimenticare per qualche istante la sua ira.
«Avete perquisito le celle?»
«Sì, signore» replicò in fretta la guardia.
Le pieghe sulla fronte di Sanders si accentuarono, mentre il suo sguardo si posava di nuovo sulla guardia. Maledisse mentalmente la sua poca perspicacia, ma si sforzò di mantenere la calma.
«Chi manca all’appello?»
«Sono loro, signore» tartagliò la guardia, quasi con sofferenza.
«Chi, dannazione! CHI?»
Una serie di bisbigli salivano dalle celle, ma Sanders concentrò tutta l’attenzione sulla guardia, che ora si stava torcendo le mani all’altezza del ventre.
«La banda di Ramsfield.»
La bocca di Sanders si dischiuse in un’espressione basita. Le sopracciglia increspate e la fronte attraversata da nuove rughe di preoccupazione lo fecero sembrare molto più vecchio dei suoi cinquantanove anni. Quando riuscì a recuperare il controllo, richiuse la bocca e si passò una mano tremante sugli occhi.
«Chiama la Corte Criminale» sussurrò, le pupille dilatate per la tensione. «Siamo nei guai.»

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Capitolo 2
*** Panico tra le autorità ***


L’incrocio tra la Broadway e Victoria Street era un rumoroso e uniforme gorgo di autoveicoli. Le macchine civili in circolazione erano costrette ad accostare ogni pochi minuti di corsa, per lasciare il passaggio libero alle auto di pattuglia che uscivano da Scotland Yard a sirene spiegate. La sede del Servizio di Polizia Metropolitana era in completo subbuglio. La frenesia raggiunse livelli talmente alti durante la mattinata, che persino l’insegna girevole all’esterno sembrò vorticare più velocemente del solito. Molti agenti erano stati chiamati in servizio prima che scattasse l’ora di turno, tanto che si erano presentati con l’uniforme sotto braccio ed erano stati costretti ad indossarla nei bagni. Un ispettore era chino sul distributore d’acqua e si stava picchiettando un fazzoletto bagnato sulla fronte. Gli impiegati civili si spostavano a zig zag tra le scrivanie, urtandosi tra loro nella fretta di raggiungere le stampanti che elaboravano gli identikit degli evasi. I telefoni squillavano con impeto selvaggio, come se chi stesse all’altro capo del filo riuscisse in qualche modo a trasmettere agli apparecchi tutta la sua tensione.
Nell’ufficio del capo della polizia era appena iniziata la riunione d’emergenza, un conciliabolo privato che vide protagonisti tre individui psicologicamente provati. Il direttore Sanders si era precipitato lì subito dopo aver avuto conferma delle modalità dell’evasione; si era preso solo il tempo necessario per trovare una camicia che potesse dare anche la minima impressione di essere pulita. I capelli grigi erano più arruffati sulla sommità della testa, come se un pettine si fosse impigliato in quel punto e lui lo avesse tirato via con un violento strattone. Accasciato su una sedia dal sedile troppo infossato, teneva la testa china, ascoltando rammaricato il discorso del giudice Masters.
«Ha una vaga idea di quanto sia stato difficile sbattere Ramsfield e gli altri nella sua prigione?» stava domandando Masters, con quel tono superbo che gli aveva da tempo alienato le simpatie di molti rappresentanti della legge. «Ricade sempre su di noi la colpa della mancanza di disciplina delle vostre…»
«Abbiamo capito, Charles» intervenne il capo della polizia, con un tono indulgente che celava la sua irritazione.
Seduto dietro la sua scrivania, aveva ascoltato pazientemente il resoconto del direttore del carcere. Sul suo volto disfatto dalla stanchezza si coglievano i segni della tensione. Il suo capo, prematuramente colto da calvizie già da quando aveva vent’anni, si era quasi del tutto stempiato in dirittura d’arrivo dei cinquanta.
«Non è necessario ripetersi» proseguì con voce rauca. «Oliver è responsabile dei suoi uomini, questo è vero.»
Il diretto interessato strizzò gli occhi per brevi istanti, prima di sollevare uno sguardo ferito verso di lui. Il giudice Masters protese il mento all’infuori con fare superbo, soddisfatto di aver ottenuto la conferma della propria tesi. I suoi occhi, d’un azzurro slavato e glaciale, dardeggiarono verso il direttore di Hammersmith.
«Ma non ha senso battibeccare tra noi» precisò il capo della polizia, riservando al giudice un’occhiata di rimprovero. «Ormai è successo, quindi ti prego ti mettere da parte interventi che non siano costruttivi.»
Masters emise un verso irritato, sollevando le braccia e lasciandole ricadere contro le proprie gambe. Sanders azzardò un’occhiata nella sua direzione, sforzandosi di non sogghignare.
«Dobbiamo ritrovarli, Whitmore» sentenziò il giudice, piantandosi davanti alla scrivania, con le braccia accostate rigidamente contro i fianchi.
Martin Whitmore si corrucciò, i gomiti appoggiati sulla carta che denunciava ufficialmente la triplice evasione della notte precedente. Sanders si dondolò sulla sedia per un paio di volte, ma non riuscì a trattenersi oltre.
«A questo intervento costruttivo potevo arrivarci anche io.»
«Non adesso» s’intromise Whitmore, poiché il giudice aveva già assunto il tipico cipiglio di chi sta per iniziare una lunga paternale.
Bloccato sul principio del discorso, Masters ingoiò con difficoltà le sue proteste. Non potendo arrischiarsi a scatenare una lite proprio nell’ufficio del capo di Scotland Yard, si limitò a lisciarsi i risvolti della costosa giacca in principe di Galles, adocchiando con eloquenza l’abbigliamento trasandato del direttore Sanders.
Whitmore si lasciò sfuggire un sospiro, adagiando stancamente la schiena contro la spalliera della sua sedia. Quasi senza pensarci, roteò gli occhi di lato, per contemplare una fotografia appena al muro del suo ufficio, sopra il tavolo del fax. Il volto autoritario di Walter Coughly sembrò restituirgli un’occhiata altrettanto pensierosa. Adocchiando i lineamenti indeboliti dall’età dell’ex capo di Scotland Yard, avvertì una bruciante sensazione di sconfitta. Se Coughly fosse stato ancora vivo, gli ultimi eventi l’avrebbero certamente prostrato. Era passato quasi un anno dal suo omicidio, ma Whitmore ancora dubitava di essere la persona adatta per sostituirlo. E l’evasione di Ramsfield non aveva fatto altro che confermare questa sua tesi.
«Coughly si starà rivoltando nella tomba» insinuò il giudice Masters.
Whitmore non distolse subito lo sguardo dalla fotografia, limitandosi ad annuire in modo impercettibile. Sanders corrugò la fronte e si portò una mano a grattare la base della nuca.
«Che vuol dire?» domandò, rivolgendosi testardamente a Whitmore ed evitando così qualsiasi altro spiacevole contatto con il giudice Masters.
L’attuale capo di Scotland Yard staccò gli occhi dalla fotografia di Coughly, riservando uno sguardo talmente mortificato al direttore del carcere, da farlo quasi pentire di aver posto la domanda. Masters serrò le labbra in un’espressione quasi commossa, cosa che ebbe il potere di mettere maggiormente a disagio il direttore Sanders. Nonostante gli squilli dei telefoni continuassero imperterriti a martoriare il silenzio nelle altre stanze, fra i tre sembrò calare una cortina di inquietudine, impermeabile a qualsiasi rumore molesto che provenisse dall’esterno.
Quando quel velo iniziò a diventare soffocante, Whitmore prese un profondo respiro, quasi volesse farsi coraggio.
«Il caso Ramsfield fu l’ultimo di cui si occupò Coughly, prima di essere costretto a ritirarsi.»
Sanders dischiuse la bocca, mentre chiazze rossastre si facevano largo sul suo volto esangue. Colpito da tale risposta, evitò accuratamente di incrociare lo sguardo del giudice, che invece lo stava fissando con un’espressione a metà tra il biasimo e il disgusto.
«Mi dispiace, non sapevo» si scusò Sanders, puntando gli occhi castani su un punto al di sopra della spalla di Whitmore, per risparmiarsi l’imbarazzo di dover sostenere il sottile rimprovero che animava i suoi occhi chiari. «Avevo solo letto i capi d’imputazione, come da procedura.»
«Forse è il caso di riprendere i suoi rapporti» suggerì Masters con tono velenoso.
Il direttore del carcere gli scoccò uno sguardo ostile, piantandosi le unghie della mano destra sulla gamba, per evitare di esternare tutte le volgarità che avrebbe volentieri urlato contro di lui. Il rispetto per la palese frustrazione di Whitmore e la consapevolezza dei suoi errori lo aiutarono a mantenersi saldo nel suo intento di tenere la bocca ben chiusa.
Intuendo la difficoltà di Sanders, il capo di Scotland Yard scosse la testa, sforzandosi di riprendere in mano la situazione, prima di essere schiacciato dal peso del passato.
«Sarebbe opportuno che li rileggessimo tutti» concordò, premendo il pulsante di comunicazione e passando l’ordine di prelevare dallo schedario i vecchi rapporti sui tre evasi.
Chiusa la comunicazione, si alzò dalla scrivania e si avvicinò alla finestra, stringendosi le braccia dietro alla schiena. Il giudice Masters lo tallonò da vicino.
«In quei rapporti manca il quarto elemento.»
Il direttore Sanders inarcò le sopracciglia, sorpreso da una tale dichiarazione. Si alzò a sua volta, ma rimase nei pressi della sua sedia. Lo sguardo di Whitmore corse nuovamente alla fotografia di Coughly. A giudicare dalla sua aria assorta, sembrava aver dimenticato i suoi interlocutori. Ma un istante dopo annuì, voltandosi a fronteggiarli.
«Uno dei suoi uomini ci sfuggì» spiegò, a beneficio di un ignaro Sanders. «Tutti i nostri tentativi di ritrovarlo andarono in fumo. Avevamo pochissimi elementi per identificarlo, se escludiamo un nome di battesimo che porta almeno un terzo della popolazione londinese...»
«Henry» gli venne incontro Masters, con aria saputa.
«Henry» confermò Whitmore, riprendendo a percorrere il suo ufficio con passi lenti e incerti. «Forse si trattava persino di un nome falso. Alla fine fummo costretti a rinunciare. Non vi nascondo che in molti sperarono che fosse semplicemente fuggito.»
«Invece si è solo nascosto, aspettando il momento opportuno per liberare gli altri» insisté il giudice, scoccando un’occhiata eloquente in direzione di Sanders.
«Ho già denunciato alla Corte il secondino responsabile» precisò Sanders, imbronciato. «Era fuori da ogni sospetto, lavorava per me da quasi cinque anni.»
«Nonostante questo, si è lasciato facilmente corrompere, da quanto possiamo arguire» incalzò Masters, compiaciuto di poter continuare a rigirare il coltello nella piaga.
«Quando lo prenderemo, potrà fargli la sua bella ramanzina sulla rettitudine morale» borbottò il direttore tra i denti, avvicinandosi di qualche passo al giudice, il volto contratto dalla rabbia. «Io ho fatto il mio dovere, ho ammesso la colpa della giurisdizione di Hammersmith. E poi, come potevo sapere di un complice sfuggito all’arresto?»
«Ormai avrà passato la Manica» mormorò Masters con alterigia, accantonando con un gesto della mano la mancanza di informazioni dimostrata da Sanders.
In compenso, quando lo raggiunse l’odore che proveniva dal direttore, arricciò con gesto teatrale il suo lungo naso aquilino.
«Allora chiuda il becco, una buona volta» tagliò corto Sanders, tornando ad affondare nella sedia dinanzi alla scrivania di Whitmore.
Il giudice Masters aprì la bocca per protestare, ma il capo della polizia si riscosse dai suoi pensieri in tempo per quietare nuovamente le acque.
«Charles, trattieniti» consigliò. «L’inchiesta sarà avviata a tempo debito. Ora dobbiamo preoccuparci di cosa Ramsfield ha in serbo per la città.»
«Ho letto sui giornali che il loro ultimo colpo portò parecchi danni» intervenne subito Sanders.
«Il centro commerciale di East Court rischiò di collassare» annuì Whitmore, cupo in volto. «La stessa gente distrusse molte strutture, nel panico della fuga.»
«E quei criminali si bearono dello spettacolo.»
«Non sono criminali da quattro soldi, Charles» lo contraddisse Whitmore. «Mettere su un simile spettacolo, come lo chiami tu, deve aver richiesto una precisa sincronia. Se consideriamo che quattro persone sono riuscite a mobilitare un alto numero di pattuglie…»
«Ora li ammiri, Martin?» lo interruppe il giudice, trattenendo a stento una risatina di scherno.
«Semplicemente non li sottovaluto» chiarì Whitmore, scoccando a Masters un’occhiata penetrante.
«Questi pezzenti si prendono gioco di noi» ribatté lui, sputando ogni singola parola come se fosse puro acido.
«Le fa bruciare il sedere, eh?» lo schernì il direttore Sanders.
Il giudice si limitò ad inclinare lo sguardo verso di lui, ma al capo di Scotland Yard non sfuggì il movimento delle sue mani, le cui dita si aprivano e richiudevano come gli artigli di un vecchio rapace.
«Si può dire che lo fa bruciare a tutti» scherzò Whitmore senza troppa convinzione.
Il giudice Masters strinse le labbra, assumendo la sua tipica espressione contrariata e offesa; Sanders ebbe la decenza di mostrare un leggero imbarazzo al tentativo di Whitmore di sdrammatizzare la situazione.
«Mi sta dicendo che la loro intelligenza media è superiore a quella della feccia che marcisce ad Hammersmith. Giusto?» domandò il direttore a mezza voce.
Il capo di Scotland Yard gli restituì un’occhiata preoccupata, che da sola rispondeva alla perfezione a quel quesito. Alla vista del suo volto avvilito, persino il giudice Masters abbassò lo sguardo, chiudendosi in un silenzio meditabondo. Sanders si mosse a disagio sulla sedia, concentrando l’attenzione sul documento d’evasione da lui stesso redatto, aperto sulla scrivania.
«Cos’è che li spinge a creare scompiglio?» volle sapere, pur non avendo il coraggio di affrontare ancora l’espressione affranta degli altri due. «Voglio dire, a che serve?»
Masters sbuffò il suo disappunto, voltando loro le spalle. Alle orecchie di Sanders giunse il successivo sospiro di Whitmore, che si risedette dietro la scrivania e si passò una mano sulla nuca stempiata.
«Non lo so» ammise, lo sguardo perso nel vuoto. «Non so cosa passa per la testa di Victor Ramsfield.»

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Capitolo 3
*** Il covo ***


La movimentata vita notturna di Soho aveva prestato poca attenzione all’arrivo di un anonimo furgoncino bianco, il cui unico segno di riconoscimento era il simbolo stilizzato di una chiave inglese, sormontato dal nome della ditta Tools & Co. Intorno alle quattro del mattino le strade non erano trafficate, poiché tutti i visitatori erano rinchiusi nei locali di dubbia fama che affollavano il quartiere. Il furgoncino percorse lentamente la strada fino ad un vicolo laterale, una minuscola traversa di Shatesbury Avenue, fino a fermarsi dinanzi all’entrata secondaria di una piccola pensione. Nonostante fosse solo una porta di servizio, i due uomini scesi dal furgone si imbatterono in un paio di donne che lasciavano l’edificio. Il loro abbigliamento succinto attirò l’attenzione di uno di loro, che si distrasse a guardarle finché non lo raggiunse un colpo secco sulla scapola destra. Il giovane sussultò e strinse i denti, voltandosi verso colui che l’aveva colpito e indietreggiando in tutta fretta. La vista ravvicinata del volto dell’altro non era un bello spettacolo. Il labbro inferiore della sua bocca era ripiegato verso l’interno da un taglio ormai cicatrizzato, che dava l’impressione di una smorfia perenne. Il volto incavato spiccava maggiormente a causa della testa rasata e non ispirava la minima simpatia. Al quadro si aggiungeva l’inquietante fissità dell’occhio sinistro, che aveva finito per uniformarsi al destro, rimpiazzato da anni da un sostituto vitreo.
«Fottuta miseria!» imprecò il giovane, chiudendosi meglio la giacca logora che copriva la tenuta della prigione di Hammersmith. «Stammi lontano, non voglio vedere quella tua faccia da vicino.»
L’altro continuò a fissarlo per qualche istante, piegando ulteriormente la linea delle labbra, in una specie di sorriso contorto che lo rese ancora più inguardabile.
«Asciugati la bava, Rudge» gli ingiunse con voce raschiante, senza la minima traccia di divertimento. «E vieni ad aiutarmi.»
Per tutta risposta, Rudge assunse un cipiglio offeso, inclinò la testa di lato e si ravviò all’indietro i capelli neri, che gli si rizzavano sulla testa come spine cresciute incolte in un campo abbandonato.
«Fottiti, Powell» rimbrottò, infilandosi le mani in tasca con aria strafottente. «Da quando sei il vice capo?»
Powell gli indirizzò un’ occhiata in tralice, ma non ebbe il tempo di replicare. Una voce autoritaria e seccata, proveniente dall’interno del furgone, si insinuò nel discorso.
«Rudge, datti una mossa.» Le parole rimbombavano nel silenzio del vicolo. «Metterò radici qui dentro.»
Rudge tolse istantaneamente le mani dalle tasche, precipitandosi verso il furgoncino per arrampicarsi all’interno. Powell lo seguì con indifferenza, bloccandosi accanto alle portiere spalancate, gli occhi puntati all’interno. Gli sbuffi e le recriminazioni di Rudge si persero nel comparto posteriore del veicolo. Dopo pochi istanti, piegato sotto il peso di un altro uomo, il giovane raggiunge il bordo del furgone e lanciò un’occhiata spazientita a Powell, che se ne stava stoicamente in attesa.
«Che cazzo aspetti? Di vedermi schiattare?» borbottò tra i denti, a corto di fiato, tentando di assestare meglio il braccio sotto la spalla dell’altro. «Capo, la prigione non ti ha fiaccato per niente.» Ramsfield voltò il capo verso di lui, sul suo volto contratto dallo sforzo si aprì un sorrisetto sghembo. Sulla sua testa si intravedevano strisce di capelli castani, più folti dove la chioma aveva iniziato a ricrescere, dopo l’ultima rasatura fatta in carcere. L’espressione divertita, però, non si estese ai suoi occhi verdi, che si inclinarono verso il basso, fissandosi su Rudge.
«Powell, dagli una mano o finirò per schiacciarlo, povero ragazzo.» Il palese sarcasmo delle sue parole si concretizzò in un sonora pacca sulla schiena già provata di Rudge.
Imperturbabile, Powell si fece avanti, appoggiò un piede all’interno del furgone e prese Ramsfield da sotto l’altro braccio. In due riuscirono a sollevarlo e a depositarlo a terra con una certa attenzione. Lo sforzo, però, costò uno strappo muscolare a Rudge, che colse l’occasione per lamentarsi del fatto che Powell lo avesse sbilanciato di proposito.
«Sei irritante» fu la secca risposta di Powell, che non sembrava intenzionato a raccogliere le sue provocazioni.
Rudge spalancò la bocca in tutta la sua ampiezza e corrugò la fronte.
«Sarei io quello irritante?»
Powell non aspettò neanche che finisse la domanda. Gli voltò le spalle, incamminandosi al lato del furgone, verso il sedile del conducente. Rudge non parve gradire la sua reazione.
«Dove credi di… Sto dicendo a te, figlio di puttana!»
Ramsfield li ignorò. Una delle portiere aperte del furgoncino sfiorava la parete di mattoni scuri e crepati che chiudeva il vicolo. Addossandosi ad essa, zoppicò per tutta la sua lunghezza e si aggrappò alla maniglia esterna con la mano sinistra. Rivolgendo le spalle agli altri due, inclinò la schiena in avanti in direzione del muro, ansimando con evidente sforzo. La mano che stringeva la maniglia era talmente salda che il pallore delle nocche si stagliava nettamente contro la carnagione arrossata delle palme. La gamba sinistra era saldamente piantata a terra, il ginocchio piegato un po’ per lo sforzo di reggere tutto il corpo. L’altra gamba era tenuta inclinata in avanti, completamente rigida. Ramsfield sollevò il volto stanco e fissò di sottecchi il muro poco lontano. Nonostante la sua resistenza minacciasse di cedere, gonfiò il petto in un profondo respiro, pronto ad avventurarsi verso la porticina della pensione, distante appena pochi metri. Era evidente che trascinare il peso non indifferente del proprio corpo doveva costargli parecchio. La gamba paralizzata si mosse quasi al rallentatore, aiutata dal braccio libero dell’uomo. L’altra mano si era già staccata dalla maniglia del furgoncino, quando si udì uno scalpiccio di passi affrettati alle sue spalle.
«Ho trovato questo» spiegò affannosamente un quarto uomo, accostandosi a Ramsfield. In mano reggeva un robusto bastone da passeggio, dalla superficie laccata di nero. «Dovrai piegarti un po’, ma almeno è resistente. Nella stanza c’è…»
«Andrà benissimo, Townsend» lo interruppe Ramsfield, afferrando subito il bastone con la mano che non aveva più l’appoggio della maniglia.
La sua schiena dovette piegarsi di parecchi centimetri, strappandogli un verso infastidito. Tuttavia, quel piccolo dolore valeva il supporto. Quando la punta sbozzata del bastone toccò terra, scaricandovi tutto il peso del corpo, l’uomo poté tornare a respirare normalmente.
Townsend continuò a fissarlo con apprensione. Ora che l’altro si era piegato, arrivava persino a superarlo d’altezza. Passò da un piede all’altro, puntandosi un dito contro la stanghetta degli occhiali per aggiustarli sul setto nasale.
«Copro il furgone con una cerata…»
I suoi occhi chiari tornarono quasi subito su Ramsfield, in attesa del suo consenso. L’altro teneva il viso rivolto a terra, gli occhi si spostavano sul selciato della strada come se scorressero su una fila di pensieri. Townsend restò in attesa, concentrato. Dal modo in cui lo fissava, era chiaro che non si sarebbe mosso di un centimetro senza un permesso.
Finalmente Ramsfield annuì, sollevando lo sguardo su di lui. Le lenti sporche di Townsend trassero il riflesso del suo capo che si voltava a metà in direzione degli altri due. Nonostante la sua attenzione si fosse fissata sul volto contratto di Powell, era evidente che la sua mente si trovava altrove.
«Sapevo di potermi fidare» mormorò, mentre il suo sguardo vagava dal furgone alle sue spalle agli uomini lì presenti con lui.
La sua voce aveva assunto un timbro roco, che la rese cupa come il brontolio di un lupo. Ma Townsend non dovette ricevere la stessa impressione, poiché si permise un sorriso soddisfatto.
«Ho solo seguito il piano» replicò, senza riuscire a togliersi quell’espressione trionfante dalla faccia, parzialmente nascosta da una massa di capelli d’un biondo pallido.
«Alla prossima servirà un cambio di turno.» Ramsfield inclinò lo sguardo verso di lui. «Te la senti?»
Il sorriso di Townsend si incrinò, ma l’uomo si affrettò ad annuire vigorosamente, facendo scivolare ancora di più i capelli a coprire il viso dalla mascella debole.
«Mi sembra giusto.»
Ramsfield si raddrizzò un po’ e usò la mano libera per assestargli al centro della schiena una pacca, che fece spostare l’altro di un paio di centimetri in avanti.
Le luci dei lampioni in strada stavano sbiadendo a mano a mano che il chiarore del nuovo giorno si insinuava tra le sacche di buio della notte morente. I rumori provenienti dai locali si erano ormai affievoliti, riducendosi alle sparute grida di qualche ubriaco che era stato buttato fuori all’orario di chiusura. Ramsfield scrutò le ombre che si disperdevano alla fine del vicolo, pensieroso.
«Fai sistemare da Rudge il furgone» ingiunse finalmente in un mormorio affaticato.
Puntellandosi al bastone, si diresse senza esitazione alla porticina laterale della pensione. Procedeva con scatti rapidi e bruschi, alternando in fretta la gamba funzionante all’appoggio di fortuna del bastone. Townsend restò a fissare la sua schiena per qualche istante, prima di sospirare e voltarsi verso gli altri due, riluttante ad interrompere la loro discussione. Si stava già avviando a passo lento verso di loro, quando Ramsfield gli venne in aiuto.
«Powell» chiamò, continuando a percorrere imperterrito la distanza che lo separava dalla pensione.
Dover dividere il fiato di cui disponeva tra lo sforzo di muovere la gamba paralizzata e quello di parlare gli aveva arrochito la voce. Ma quel richiamo bastò a sedare il litigio. Rudge si zittì, sul suo volto si dipinse un silenzioso sorriso d’esultanza. Powell si prese solo il tempo necessario a scoccargli un’occhiata d’avvertimento, prima di voltargli le spalle con indifferenza.
Raggiunse Ramsfield nel momento in cui questi scaricava il peso sul bastone, per potersi sporgere in avanti a spingere la porticina secondaria. Powell rimase in attesa appena dietro di lui, lasciandogli lo spazio necessario per permettergli di muoversi. Fissò l’occhio buono sul volto incupito di Ramsfield, ma non accennò ad aiutarlo. Sapeva bene che detestava interventi del genere.
Dopo un piccolo sforzo, le dita di Ramsfield toccarono la porta semichiusa, riuscendo a spalancarla con una pressione un po’ più forte. Rinsaldò la presa sul bastone con un grugnito e percorse qualche metro con una serie di falcate instancabili, prima di essere costretto ad appoggiarsi alla parete dello stretto corridoio per riposare. Powell era scivolato silenziosamente dietro di lui.
Nel silenzio, i due poterono udire le proteste di Rudge, che aveva finito col prendersela anche con Townsend. Le ignorarono senza alcun commento, come se per un tacito accordo avessero prestabilito di tenerle in poco conto.
«La stanza è al secondo piano?» domandò Ramsfield.
Teneva la spalla sinistra appoggiata alla parete, lo sguardo fisso sul corridoio che si dispiegava davanti a lui. Sentì un fruscio alle sue spalle, segno che l’altro aveva cercato e poi tratto qualcosa dalla tasca.
«Numero 22, secondo piano» confermò Powell, rigirandosi tra le lunghe dita il cartellino appeso accanto alla chiave della stanza.
Conscio di non poter essere visto, Ramsfield sollevò gli occhi al cielo. Emise un respiro mozzato, ma non accennò ancora a volersi allontanare dalla parete. Girò la testa verso destra con una piccola torsione del collo.
«Era già funzionante, vero?»
«Avevo già controllato l’innesco» replicò Powell, laconico. «La miscela era pronta, anche se non credo che quella dose di nitrato sia…»
«Sai che non capisco niente di questa roba.» Il collo di Ramsfield si torse ancora un po’ il collo per riuscire ad intercettare lo sguardo dell’altro.
Powell lo fissò per qualche istante senza battere ciglio, nell’occhio di vetro baluginava il riflesso della lampadina elettrica che illuminava l’angusto corridoio.
«È funzionante.»
«Il materiale che ti ha procurato Townsend andrà bene per costruire quello che manca?»
«Meglio di niente» concesse Powell con aria di sufficienza.
«Allora, muoviamoci.»
Senza aspettare di udire il suo verso di approvazione, Ramsfield si staccò dal muro con una spinta decisa.

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Capitolo 4
*** Pratiche di giustizia ***


Scotland Yard si era quasi svuotata, gli agenti cui erano stati affidati compiti meno urgenti erano stati spediti per le strade, sulle tracce degli evasi. I telefoni continuavano a squillare incessantemente, spesso arrecando più disturbo che aiuto. La popolazione londinese, memore di passati episodi di cui la banda era stata protagonista, si stava dimostrando più zelante del solito. Le linee d’emergenza erano sovraccariche; persone che abitavano nei più disparati distretti della città chiamavano in preda al panico, assicurando di aver appena visto un membro o l’altro della banda alla cassa del supermercato, allo sportello di una posta o nelle scuole dei loro figli. I giornalisti non risparmiavano certo le forze degli impiegati della polizia. Una calca di reporter e cameraman si era già appostata fuori dei portoni della sede, bloccati dalle guardie.
In una simile situazione, non era facile per il capo di Scotland Yard restarsene impotente nel suo ufficio, a scartabellare vecchi rapporti nella speranza di trovare qualcosa di utile alle indagini. Lo stesso Sanders, pur interessato a saperne di più, si mostrava sempre più irrequieto. Il giudice Masters, dal canto suo, non sembrava particolarmente ansioso di mettersi all’opera sulla strada. Nonostante le sue parole, se ne stava seduto sull’altra sedia disponibile, di fronte alla scrivania di Whitmore. Tuttavia, il fatto che non protestasse della vicinanza del direttore del carcere era sintomatico: persino lui non avrebbe riposato bene finché la banda non fosse stata catturata.
«Steven “Speed” Rudge» lesse ad alta voce Whitmore, con il fascicolo del detenuto aperto tra le mani. Fissava il volto insolente di Rudge immortalato nella foto numerata della prigione di Hammersmith. «Come era chiamato nell’ambiente. Pare che fosse incredibilmente veloce nel suo lavoro.»
«Un ladro di macchine» commentò Masters, sprezzante.
Sanders storse la bocca, pensieroso. Si puntellò con i gomiti sullo sui braccioli della sedia e scoccò un’occhiata in direzione di Whitmore.
«Significa che è il meno pericoloso?»
«Non ne sono certo» replicò subito Whitmore, senza staccare gli occhi dal rapporto cartaceo su Rudge.
Sanders spostò lo sguardo da lui al giudice, intuendo il disappunto dalla sua faccia sconcertata.
«É un ladro di macchine, Martin» ripetè Masters, con un tono a metà tra l’infastidito e lo stupito. «Un piccolo, pidocchioso ladro di macchine!»
Whitmore appoggiò il rapporto sul tavolo e sollevò lo sguardo preoccupato su di lui, usando la mano sinistra per abbassarsi sul naso gli occhiali da lettura che aveva inforcato poco prima. Sembrava troppo stanco per sforzarsi ancora di celare la sua frustrazione.
«Devo ricordarti che c’era anche lui ad East Court?»
Prima che Masters avesse modo di replicare, Sanders si chinò in avanti verso la scrivania.
«Di preciso, cosa è successo al centro commerciale?» domandò, tentando un tono neutro che non riuscì a mascherare del tutto la sua curiosità.
Il giudice voltò la testa verso di lui, squadrandolo dall’alto in basso con alterigia. Anche Whitmore spostò lo sguardo sul direttore del carcere, corrugando la fronte. Dopo un breve sospiro, si tolse gli occhiali da lettura e li appoggiò sulla scrivania.
«Una serie di micro ordigni posizionati in vari punti del centro.»
La bocca di Sanders si spalancò in modo poco dignitoso, strappando nuovamente al giudice uno sbuffo infastidito.
«Ma… Come è stato possibile? La sicurezza del centro…» tentò Sanders, deglutendo a vuoto, quasi volesse rimangiarsi le proprie parole.
La stessa prigione di Hammersmith avrebbe dovuto essere sorvegliata in ogni momento. Nonostante questo, quella notte c’era stata una triplice evasione, con la conseguenza di un’accusa ancora non ufficiale di mancato controllo, l’inutile ricerca di un secondino corrotto e una caccia all’uomo che aveva messo in allerta tutta la città.
«Si è trattato di azioni sincronizzate» spiegò Whitmore. «Alla prima sono seguite immediatamente le altre. I magazzini, un parcheggio e due dei piani principali si sono riempiti di fumo in un batter d’occhio.»
«Ci saranno state molte vittime…» mugugnò Sanders.
Sollevò lo sguardo in tempo per notare che gli altri due si scambiavano un’occhiata.
«Un ferito lieve» lo informò Whitmore con tono stranamente duro.
Sanders ebbe una pausa incerta. Inarcò le sopracciglia, piegando la schiena in avanti e facendo scorrere uno sguardo stupito tra i due uomini che erano insieme a lui.
«Mi prende in giro?»
«Abbiamo di meglio da fare che beffarci di lei» sibilò Masters di rimando. «Non ci furono morti, come ha già detto Whitmore.»
«Curioso.» Sanders emise uno sbuffo di incredulità.
«Intenzionale» lo corresse il capo di Scotland Yard. «Gli ordigni erano stati posizionati in modo da non nuocere alle persone. A mezzogiorno i magazzini erano vuoti e quel parcheggio era ancora chiuso.»
Le labbra di Sanders si dischiusero ancora una volta, mentre una serie di rughe si disegnavano sulla sua fronte.
«Quelli ai piani del centro furono sistemati in un ufficio informazioni vuoto per la pausa pranzo e in un locale chiuso per ristrutturazioni» proseguì Whitmore.
Il direttore del carcere non fece subito caso alla tensione che serpeggiava nelle sue parole, troppo occupato a cercare una spiegazione a quello che aveva udito.
«Insomma, mi sta dicendo che hanno volutamente evitato di far del male alla gente?»
«Che importa ora?» si intromise Masters con veemenza. «Le abbiamo raccontato quello che è successo. Proseguiamo con i rapporti o pernotteremo qui dentro.»
«Veramente lei non mi ha raccontato un bel niente» puntualizzò Sanders, spingendo fuori il mento con aria irriverente.
«Oliver, non è il caso.» Whitmore riprese gli occhiali e li sollevò per poterli inforcare. Bloccò quel gesto a mezz’aria, interrotto dalla reazione stizzita del giudice.
«Non ho niente da raccontarle!» sbottò questi, spingendo la sedia all’ indietro con uno stridio fastidioso.
Sanders digrignò i denti. Sollevò un dito e lo puntò contro il naso di Masters, pronto a riversare su di lui una lunga serie di colorite recriminazioni. Whitmore si sistemò gli occhiali sul naso, concentrandosi su un altro rapporto, che aveva appena disteso sulla scrivania.
«Ramsfield era un poliziotto.»
Il suo intervento sedò il nascente litigio, congelandolo in un silenzio carico di tensione. Masters girò la testa dall’altra parte, per non mostrare il volto arrossato che si faceva paonazzo.
«Wow» commentò Sanders, allungando il collo per guadare la foto di Ramsfield sul rapporto.
In effetti, Victor Ramsfield vi era rappresentato con la divisa d’ordinanza della polizia inglese, il cappello calcato in testa a nascondere i folti capelli scuri. Gli occhi verdi gli brillavano d’orgoglio.
«Che gli è successo?»
«Sei anni fa si verificò uno scandalo nella prigione di Brookbanks, poco fuori Londra» mormorò Whitmore, lo sguardo ancora fisso sul rapporto dinanzi a sé.
Sanders non poté notarlo, troppo preso a sbirciare la fotografia allegata, ma gli occhi del capo della polizia non scorrevano sulla pagina. Sembravano piuttosto persi nel vuoto, come se, oltre le righe scritte, rivedessero gli stessi eventi che lui stava raccontando.
«A quel tempo i giornali parlavano molto delle violenze nelle carceri. Ma il putiferio scoppiò quando si scoprì che negli atti di violenza erano coinvolti gli stessi secondini.»
Sanders si esibì in un discreto verso di comprensione, lanciando un’occhiata in tralice a Masters, certo di scorgere nel suo volto un’espressione di rimprovero. Quello che vide, però, servì solo a spiazzarlo più di quanto già non fosse. Il giudice teneva la testa china verso la scrivania, i suoi occhi di ghiaccio seguivano le linee del legno come se fossero qualcosa di estremamente interessante. La linea delle sue labbra era storta e la bocca era tenuta serrata con nervosismo.
«Esisteva la possibilità che anche Thompson, il direttore del carcere, sapesse qualcosa. Così fu immediatamente allontanato, con l’accusa di favoreggiamento e mancata denuncia» continuò Whitmore con voce spenta.
«Non fu sbattuto dentro?» lo interruppe Sanders, stupito.
Masters non si mosse di un millimetro, ma la sua mano destra serrava con forza il bracciolo della sedia. Whitmore sollevò lo sguardo a fissare la porta chiusa del suo ufficio, gli occhiali gli scivolarono un po’ lungo il setto nasale.
«Ci provammo.» Si sfilò gli occhiali per passarsi una mano sugli occhi arrossati. «Fu inviata una pattuglia a Brookbanks, per arrestarlo.»
Sanders tacque, le sue sopracciglia si intrecciarono a formare un’unica linea severa. Rimase seduto sulla sua sedia, ma dal modo in cui aveva rizzato la schiena era evidente che si era messo in allerta. Con la coda dell’occhio badava a tenere sotto controllo le reazioni di Masters, che ora non riusciva a mascherare il suo disagio.
«Cosa c’entra Ramsfield in tutto questo?»
«Ramsfield faceva parte di quella pattuglia» mormorò Whitmore, confermando i timori di Sanders.
I due uomini si guardarono negli occhi, trovando per la prima volta un’intesa immediata.
Confortato dalla comprensione del direttore, Whitmore emise un sospiro a bocca chiusa e proseguì il racconto.
«Non potevamo immaginare che il direttore di Brookbanks potesse arrivare ad aprire il fuoco contro i nostri» commentò, desolato. «Alcuni dei secondini corrotti lo spalleggiarono. Fummo fortunati ad avere la meglio su di loro.»
«Anche lei era lì» bisbigliò Sanders.
Whitmore annuì, chiudendo con gesto quasi gentile il rapporto su Ramsfield. I suoi occhi erano arrossati per la stanchezza, le linee intorno alla sua bocca si approfondirono in una smorfia di rammarico.
«Ramsfield fu uno dei primi ad entrare e ad essere colpito» terminò, concentrandosi sulla copertina del terzo rapporto, ancora chiuso e pigiato sotto le sue mani aperte sulla scrivania. «Perse l’uso della gamba destra.»
Sanders emise un verso a metà tra uno sbuffo e un sospiro e si lasciò ricadere sulla sedia.
«Questo cambia tutto.»
«Non cambia niente» sillabò Masters tra i denti, rientrando finalmente in conversazione.
Gli altri due si voltarono all’unisono a fissarlo, quasi colpiti dal suo tono, che era tornato freddo e autoritario.
«È un criminale, esattamente come tutti quelli che marciscono nella sua prigione.»
Le sue guance erano incavate dalla rabbia e la palpebra sinistra si muoveva con piccoli scatti quasi impercettibili, in un tic nervoso. Sanders aprì e richiuse la bocca, senza saper cosa dire. Quella reazione era eccessiva persino per un rigido conservatore come il giudice Masters.
«Fin dove può spingersi un uomo tradito dalla giustizia?» mormorò Whitmore.
Masters serrò i denti, sospingendo indietro la propria sedia ancora una volta e alzandosi con uno scatto rabbioso. Sanders lo fissò a bocca aperta, aspettandosi quasi di vederlo aggredire il capo di Scotland Yard, che al contrario sembrava tranquillo. Il suo volto rifletteva lo sconforto provato in tempi lontani e, a ben guardarlo, anche un senso di colpa che ancora assillava la sua coscienza. Era la forza di questi sentimenti contrastanti a permettergli di affrontare l’ira di Masters con stoico distacco. Il giudice dovette indovinare cosa si agitava nell’animo di Whitmore, poiché non osò dire una sola parola. Voltò bruscamente le spalle e si diresse verso la porta, annunciando in un sibilo irritato che aveva bisogno di un po’ d’acqua.
Quando la porta si fu richiusa alle sue spalle, Sanders soffocò una risatina in un colpo di tosse e si rivolse al capo della polizia.
«Che gli è preso?»
«Errori del passato» replicò Whitmore, rimettendosi gli occhiali sul naso e aprendo il terzo rapporto. «Torniamo agli Storti, se non ti dispiace.»
«Eh?» articolò Sanders, aprendo in modo esagerato la bocca per pronunciare quell’unico suono.
«La banda degli Storti» ripeté Whitmore. «E’ così che si fanno chiamare. Forse può immaginare il motivo.»
«Storti rispetto al resto del mondo.»
«O più semplicemente rispetto a noi», Whitmore annuì tristemente. «Storti nell’anima, oltre che nel corpo…»
Sanders si schiarì la gola, fingendo di non cogliere la nota dispiaciuta nelle parole dell’altro.
«Gordon Powell» lesse il capo di Scotland Yard, picchiettando le dita sulla superficie della scrivania.
«Lui è un problema?»
Il volto scavato di Powell li fissava dalla cornice della fotografia. Whitmore finì di scorrere rapidamente la pagina, come se già sapesse quello che li aspettava. Sollevò gli occhi a fissare l’altro da sopra la montatura ovale degli occhiali da lettura.
«Lui è un problema.»

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Capitolo 5
*** Il mondo degli Storti ***


La stanza era piccola e opprimente. Le pareti scrostate tendevano ad un giallo disomogeneo e sporco. Lo spazio di manovra tra il letto a due piazze e l’angolo che si apriva accanto alla porta del bagno permetteva a malapena il passaggio di una persona. L’unica parete libera era occupata da una piccola scrivania, posizionata in modo che chiunque vi fosse seduto si ritrovasse di spalle al letto. Per Townsend fu una benedizione. Pur non potendo evitare di udire i continui borbottii di Rudge, appollaiato sull’angolo destro del letto, era almeno esentato dalla necessità di dover intavolare una conversazione con lui. Preferì concentrarsi sul modulo che aveva davanti a sé. Controllò per la quarta volta che tutte le voci fossero corrette e compilate nei campi giusti. Di tanto in tanto sollevava la penna come se avesse intenzione di aggiungere qualcosa, salvo riabbassarla qualche istante dopo. I suoi occhi correvano nervosi dal foglio alla piccola chiave appoggiata contro il suo portapenne di plastica. Le serrande erano state abbassate per schermare i raggi del sole e la luce opaca del piccolo lume sulla scrivania produceva ombre scure sotto i suoi occhi stanchi.
«Powell, porta il tuo culo fuori da quel bagno!» strepitò Rudge.
Strinse le gambe con una smorfia e si raggomitolò sul suo angolo di letto. Townsend sussultò per l’urlo improvviso, ma si limitò a piegare la schiena in avanti, senza voltarsi. Rudge fissò la sua nuca, stringendo gli occhi per l’irritazione. Poi si volse alla propria sinistra, abbassando lo sguardo su Ramsfield.
«Perché non glielo dici tu?»
Ramsfield, disteso rigidamente sul materasso duro, emise un grugnito di fastidio. Si era sfilato la giacca della prigione, che ora giaceva in un angolo, insieme a quella degli altri. Nonostante il relativo fresco che si avvertiva nella stanza, il suo petto si gonfiava ad intervalli irregolari, tirando la canottiera pulita in tutta la sua ampiezza. Gli sforzi delle ore precedenti gli avevano affaticato la respirazione. Rimase immobile per qualche istante, prendendo un respiro più profondo dei precedenti e rilasciandolo lentamente. Spostò il braccio con cui si era coperto la fronte e inclinò la testa verso destra. La nuca sprofondò nel cuscino mentre lui puntava gli occhi su Rudge.
«Lascialo in pace, deve essere concentrato per domani.»
C’era qualcosa nel suo sguardo, qualcosa di autoritario che serbava le tracce di una fermezza d’animo da tempo sopita. Rudge storse la bocca in un modo che lo fece somigliare molto a Powell. Gettò la schiena all’indietro e colpì con violenza la testata del letto. L’urto gli strappò un lamento imprevisto, che lui riuscì a sopprimere solo in parte, facendo appello ai suoi rimasugli di dignità. Ramsfield si limitò a sollevare gli occhi verso il soffitto, sobbalzando solidale con il letto. Townsend, invece, lasciò cadere la penna e si voltò di scatto verso di loro.
«E tu che cazzo guardi?»
A Rudge non sembrava vero di poter cogliere subito l’occasione per un nuovo battibecco.
«Dacci un taglio» borbottò Ramsfield, tornando a coprirsi il volto con il braccio.
«Posso respirare almeno?» rimbeccò Rudge.
«Se proprio non puoi farne a meno.»
Nel suo tono si avvertiva una strana nota, a metà tra la stanchezza e l’indulgenza. Il grosso avambraccio gli oscurava quasi del tutto la faccia, schiacciando il naso e lasciando solo la bocca libera di muoversi. La quiete durò poco.
«Devo pisciare» si lamentò ancora Rudge.
«Tienitela» fu l’unico mugugno che ottenne in risposta.
Aprì la bocca per protestare, ma lo sguardo mortificato di Townsend attirò la sua attenzione.
Non stava guardando direttamente lui. I suoi occhi chiari erano posati sulla gamba destra del loro capo, che era distesa sul letto, inerte. La differenza con l’altra, piegata quasi ad angolo retto, rendeva la loro vista molto più strana. Rudge seguì la direzione del suo sguardo, sollevando appena la schiena dalla testata del letto.
Il silenzio, rotto soltanto dal respiro pesante di Ramsfield, divenne imbarazzante. I due continuarono a scrutare la gamba immobilizzata quasi senza pensarci, come in preda ad un qualche torpore.
«Smettetela» ingiunse la voce di Ramsfield, secca.
Townsend chinò lentamente il capo, rivolgendo lo sguardo verso le proprie scarpe da tennis. I capelli biondi ricaddero a nascondere il suo volto contratto. Rudge piombò una seconda volta contro la testata, mugolando di dolore. In un ultimo tentativo di darsi un contegno, si passò più volte entrambe le mani tra i capelli neri e incolti. Ramsfield stiracchiò debolmente la gamba sinistra, spostando un po’ il bacino per trovare una posizione più comoda.
Il rumoroso passaggio di una metro di superficie fece tremare i vetri della finestra, riscuotendo Townsend, che spezzò quel momento d’imbarazzo con un colpo di tosse. Voltò la schiena ai due, riportando l’attenzione sui fogli sparsi sulla scrivania, e si prese qualche secondo prima di parlare.
«Tutti i moduli di prelievo sono pronti.»
Accanto ai moduli c’era un passaporto dalla copertina consunta e la fotocopia di un bonifico bancario, che recava in calce una firma. “H. Townsend” era tracciato con una calligrafia piccola e quasi illeggibile.
«Ho svolto legalmente tutte le operazioni di deposito» proseguì, rivolto alla piccola chiave sulla scrivania. «Nella prima parte dell’operazione non ci daranno problemi. Una volta presa la cassetta dentro la camera blindata…»
«Ci penserà Powell» lo prevenne Ramsfield.
Lasciò ricadere il braccio e tentò di sollevarsi sui gomiti, per lanciare un’occhiata a qualcosa oltre il piccolo comodino alla sua sinistra. Rudge alzò istintivamente le spalle, curvandosi in avanti per allungare un braccio verso di lui. Ramsfield gli lanciò un’occhiata in tralice, i suoi occhi verdi espressero un tacito avvertimento. Il giovane strinse le labbra e si mise a sedere, rinunciando a fornire qualsiasi aiuto. Incrociò le gambe e fissò invece le scapole del suo capo, che si spostavano di lato sul letto. Incastrato tra il comodino e la parete accanto alla porta c’era un apparecchio ortopedico, modellato per adattarsi ad una gamba. L’interno appariva consunto e, ad una prima occhiata, non sembrava per niente comodo.
«È un tutore rigido» spiegò Townsend, fissando a sua volta la protesi. «Non è della stessa qualità di quello che ti hanno permesso di tenere in prigione, però…»
Ramsfield fece scorrere lo sguardo sul tutore, in silenzio. Si adagiò sull’avambraccio sinistro e si prese qualche minuto per regolarizzare il respiro. I capelli a spina di Rudge fecero capolino alle sue spalle, seguiti subito dopo dai suoi occhi socchiusi.
«Una gamba di legno era più comoda.» Puntellò goffamente una mano sul letto e si sollevò sulle ginocchia. «Te l’immagini, capo?»
Sul volto di Ramsfield spuntò un sorriso tirato. Townsend lo fissò di sottecchi, prima di appoggiare la scapola destra alla spalliera della sedia e abbassare lo sguardo. Rudge si concesse una breve risatina in reazione alla sua stessa battuta e poi voltò il capo a fissarlo.
«Ma tu come facevi a parlare in tribunale?» gli domandò a bruciapelo, appoggiandosi all’indietro sui propri calcagni.
Gli occhi di Townsend si spalancarono dietro le lenti opache degli occhiali. Dischiuse la bocca, emettendo qualche suono incerto, prima di richiuderla e invocare l’aiuto di Ramsfield con un’occhiata nervosa. Ma lui emise un altro sbuffo tornò ad adagiarsi sul letto, come se non avesse neanche udito la domanda.
«N- non sono andato oltre i tirocini» si decise a rispondere Townsend, sollevando il mento nel tentativo di mostrarsi più spavaldo di quanto non fosse.
Rudge aggrottò la fronte, restituendogli un’occhiata vacua.
«Significa che ha fatto solo un po’ di pratica» intervenne la voce cupa di Ramsfield.
Rudge emise un verso di comprensione. Poi si esibì in un’altra smorfia e infilò una mano tra le proprie gambe, poco sopra la giuntura delle ginocchia.
«E poi hai mollato?»
Townsend mise su un cipiglio offeso, prima di rendersi conto che la reazione di Rudge non era collegata alla domanda che gli aveva appena fatto, ma ad un effettivo bisogno fisiologico.
«Poi ho saputo di Brookbanks» mormorò, volgendo le spalle ai due, in modo da rendere chiara la sua intenzione di interrompere lì la conversazione.
Ramsfield sollevò il collo per fissare la sua schiena. Distolse lo sguardo in tempo per intercettare l’occhiata di Rudge.
«È una storia che ha lasciato cicatrici profonde.» Sprofondò nel cuscino e chiuse gli occhi. «In tutti i sensi.»
Rudge si sforzò di sorridere, senza successo. Si sollevò sui calcagni e si gettò sul letto, tentando una contorsione che gli provocò un paio di crampi alla coscia. Imprecò ad alta voce, sforzandosi in tutti i modi di trovare una posizione comoda, pur insistendo a tenere la mano tra le ginocchia serrate. Il sospiro di Townsend si perse tra i rumori provocati dai suoi movimenti. Ramsfield si coprì gli occhi con l’avambraccio, rassegnandosi a sobbalzare come un corpo inerte.
La loro attenzione si appuntò subito sulla porta del bagno. Powell apparve sulla soglia, con un asciugamano appoggiato sulle spalle nude. Fili d’acqua gocciolavano ancora dalle sopracciglia e dal labbro superiore. Inarcò un sopracciglio umido e abbassò lo sguardo su Rudge, che si era quasi raggomitolato su se stesso, gli occhi serrati. Non appena udì il cigolio dei cardini, il giovane spalancò gli occhi. I pantaloni di Powell entrarono nel suo campo visivo e lui si gettò giù dal letto, atterrando violentemente su un fianco. Ramsfield e Townsend si scambiarono un’occhiata divertita. Rudge cacciò un urlo, si rimise in piedi e spintonò via Powell, che si lasciò scansare con inerzia, senza fare il minimo sforzo per spostarsi. La porta fu sbattuta con forza contro lo stipite.
Powell, per niente sconvolto da un tale trattamento, sollevò le braccia e strofinò l’asciugamano dietro la nuca, avvicinandosi a passi lenti alla scrivania. Townsend sollevò lo sguardo verso il suo petto. Rabbrividì alla vista di una serie di cicatrici biancastre e si affrettò a distogliere lo sguardo. Sentì gli occhi di Powell che gli perforavano la nuca, ma non accennò a guardarlo in faccia. Sussultò quando si ritrovò il suo braccio a pochi centimetri dal naso. Una mano dalle dita sottili prese il modulo e lo sollevò di qualche centimetro. Townsend deglutì a vuoto, ma non disse nulla. Quando Powell gli restituì il modulo e si allontanò verso il letto, si lasciò sfuggire un sospiro tremulo, come se fino a quel momento avesse trattenuto il respiro.
«Rilassatevi» borbottò Ramsfield.
«Mi dispiace» si scusò subito Townsend, passandosi una mano all’attaccatura dei capelli.
Si alzò lentamente e si avvicinò alla finestra, aprendo il vetro di uno spiraglio per far entrare un po’ d’aria. Powell prese il suo posto sulla sedia, traendola lontano dalla scrivania. Tirò via l’asciugamano dal collo e lo usò per tamponarsi il viso.
«Quando li avvertiamo?»
«Presto.» Ramsfield inclinò gli occhi verso il basso per scoccargli una rapida occhiata. «La lettera è pronta.» Sollevò due dita per indicare una busta chiusa, appoggiata sulla scrivania, a pochi centimetri dal braccio di Powell. Poi appuntò la sua attenzione sull’apparecchio posato sul comodino. «Il telefono funziona?»
Colto alla sprovvista da quella domanda, Townsend gli rivolse uno sguardo stupito.
«La linea è collegata con l’esterno» confermò, appoggiandosi al muro accanto alla porta del bagno. «Credevo che volessi usare il mio, una volta che...»
«Ci servirà dopo» lo interruppe Ramsfield. «Prima voglio chiamare da qui.»
Townsend richiuse la bocca e annuì con un certo sforzo. Quel cambiamento imprevisto lo mise sulle spine, ma lui non fiatò oltre. Powell, che fino ad allora si era apparentemente disinteressato al discorso, gettò l’asciugamano nell’angolo e fissò Ramsfield.
«Ci possono intercettare.»
«Saremo già in movimento» replicò Ramsfield.
Il suo tono lasciava trapelare un filo di irritazione, che Powell non sembrò cogliere.
«Non voglio avere fretta, quando aprirò la cassetta.»
«Non l’avrai» assicurò Ramsfield. «Ricordi la seconda parte del piano? Inizierà solo quando saremo tutti pronti.»
Le sue parole parvero soddisfare le perplessità di Powell. Townsend si limitò a scuotere impercettibilmente la testa. La piccola stanza fu riempita dal rumore dello sciacquone. Qualche istante dopo la porta del bagno si spalancò, mancando per un pelo i piedi di Townsend, che indietreggiò in tutta fretta. Rudge gli lanciò un’occhiata sospettosa e sospinse la porta con una mano, mentre usava quella libera per sollevarsi la lampo dei jeans. Degnò Powell di uno sguardo veloce. Dopo essersi assicurato che non intendesse rubargli il posto sul letto, si stiracchiò e si gettò sul materasso. Spalancò le braccia, occupando tutto lo spazio che poteva, senza invadere la parte dove giaceva Ramsfield. Questi attese pazientemente che il letto si assestasse, prima di inclinare la testa verso la propria destra.
«Te la cavi ancora a rubare macchine?»
Rudge, che aveva già chiuso gli occhi, li spalancò di colpo e si sollevò sui gomiti.
«Che cazzo di domanda è?» esclamò, sorpreso. «Certo che me la cavo ancora.»
Ramsfield rimase a fissarlo per un po’, come se stesse soppesando quella risposta. Rudge attese pochi secondi, finché non fu costretto ad appoggiare le spalle, poiché i gomiti gli tremavano per lo sforzo.
«Perché?» incalzò, a disagio sotto quell’esame critico.
«Ci servirà per l’azione finale» spiegò Ramsfield, con un sorriso sghembo. «Ti spiegherò strada facendo.»
Detto questo, si voltò con un grugnito dall’altra parte e chiuse gli occhi.
«L’azione finale?» ripeté Rudge.
Alzò lo sguardo in tempo per vedere Townsend e Powell che si scambiavano un’occhiata. Ancora incerto, sprofondò la testa sul cuscino, restando sveglio a riflettere. L’idea gli sovvenne quando gli altri occupanti della stanza stavano ricadendo nel torpore del sonno.
«Cazzo, non ci credo!» esclamò al colmo dell’entusiasmo, rizzandosi a sedere e voltandosi con una torsione per poter vedere la nuca di Ramsfield. «Vuoi che resti io, vuoi che…»
«Vedo che hai capito» commentò Ramsfield, con voce un po’ impastata. «Ora calmati e lasciami dormire.»
«Certo, sì. Sicuro, io…», le parole di Rudge si persero in un balbettio agitato.
Townsend, seduto sotto la finestra, gli rivolse un pallido sorriso di comprensione. Al contrario, il volto di Powell, che si era accovacciato contro la parete accanto alla scrivania, era inespressivo. Senza guardarla, rigirava tra le dita sottili una scatola del colore della latta opaca. Rudge intercettò il suo sguardo vitreo. Si sporse un po’ per controllare che Ramsfield avesse davvero chiuso gli occhi e sollevò bruscamente la mano destra in direzione di Powell, mostrandogli il medio. Nonostante la sua mancata reazione, Rudge parve soddisfatto. Si rigirò dall’altra parte e si preparò a dormire.

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Capitolo 6
*** Un leale avvertimento ***


La notte non aveva portato né consigli né novità incoraggianti. Il giorno successivo alla triplice evasione cominciò, se possibile, in modo ancora più frenetico del precedente. Il vento freddo dei primi giorni di marzo che si insinuava attraverso le finestre aperte del grattacielo di Scotland Yard non era sufficiente a far desistere le decine di giornalisti che ormai si davano il cambio davanti ai portoni al pianterreno. Pochi reporter insistevano ancora a chiedere notizie alle guardie spossate, ma nessuno di loro sembrava disposto a cedere. Se ne stavano appostati a poca distanza dalle porte sbarrate, insieme ai rispettivi cameraman e furgoni di servizio. Di tanto in tanto, quando un commissario usciva di soppiatto dalla sede della polizia, un nugolo di giornalisti lo assaliva, accompagnandolo fino alla macchina d’ordinanza e lasciandolo in pace solo quando il malcapitato partiva a sirene spiegate. Sorte peggiore fu riservata al portavoce della polizia, che fu dato in pasto alle televisioni allo scoccare delle otto. La donna, fasciata in un severo tailleur rosso cupo, si fece largo tra i microfoni tesi con aria professionale, alzando le mani per invitare i giornalisti a mantenere la calma.
«Signori, per favore» esordì, sforzandosi di alzare il tono di voce per farsi udire al di sopra del coro di voci. «I nostri agenti sono in servizio, dal primo all’ultimo. Invitiamo tutti i cittadini a stare tranquilli e ad evitare i luoghi affollati, come centri commerciali, luoghi di ritrovo e uffici statali.»
«Credete che gli Storti possano colpire una scuola?» chiese un giornalista più basso degli altri, che era riuscito ad infilarsi attraverso la calca e ora puntava con decisione un piccolo registratore contro il portavoce.
La donna impallidì, i suoi occhi scuri si sgranarono per la paura.
«No, non crediamo che arriveranno a tanto» rispose dopo un attimo di esitazione. «Ma dobbiamo chiedervi, per favore, di non intralciare il nostro lavoro» insisté, più decisa. «Le foto segnaletiche stanno già girando per le stazioni locali, non c’è motivo…»
«Potrebbero trovarsi al Museo Nazionale? O nella cattedrale di Westminster?» la interruppe un’altra giornalista, addossandosi ai suoi vicini per potersi sporgere verso di lei.
«Secondo lei, possono essere così sfacciati da tentare qualcosa nei pressi di Buckingam Palace?» si sovrappose un altro, spintonando a suo volta la collega. «O alla torre dell’Orologio?»
«Signori, vi ho già assicurato che i nostri agenti li stanno cercando» ripeté il portavoce. «Non possiamo sapere dove…»
«La banda avvertì prima di colpire ad East Court» si intromise un giornalista di colore, sovrastando le voci degli altri con un tono baritonale.
«Non abbiamo ricevuto alcun avviso, per il momento» ammise il portavoce, lanciandosi un’occhiata alle spalle, in cerca di una via di fuga.
«E pensate che avvertiranno anche stavolta?»
«È probabile che mantengano la stessa linea e quindi…»
«Il giudice Masters! Da questa parte!» la interruppe il grido di un giornalista, che aveva appena notato Masters scendere dalla sua auto.
Una delle guardie si fece avanti, raggiungendo il giudice e schermandolo dalle domande insistenti. Masters aumentò il passo quel tanto che gli era possibile senza dover danneggiare la sua dignità ed evitando di spiegazzare i pantaloni del costoso completo gessato che indossava. Procedette a testa alta, dietro la protezione della guardia, e si infilò attraverso lo spiraglio che un’altra guardia gli aveva aperto nel portone.
Borbottando qualcosa tra i denti, si diresse sicuro verso gli ascensori, ignorando gli sparuti impiegati che gli passavano accanto, rivolgendogli un cenno di saluto. Di lì a pochi minuti spalancava con stizza la porta dell’ufficio di Whitmore, precipitandosi dentro come un’anima in pena.
«Il mio telefono sta squillando dalle cinque di questa mattina!» sbottò, prima di accorgersi che non era stato il primo ad arrivare.
Sanders era sprofondato in una poltrona posizionata in un angolo della stanza. Accanto ad essa c’era un piccolo tavolino, su cui era appoggiata una bustina di tabacco e un posacenere colmo di mozziconi. Il direttore di Hammersmith emise un verso rauco e vi spense la sigaretta che stava finendo in quel momento. I suoi polpastrelli erano giallognoli per il contatto con il tabacco sciolto. Masters gli scoccò un’occhiata disgustata, prima di rivolgere la propria attenzione al capo di Scotland Yard. Appena i suoi occhi freddi si posarono su di lui, il giudice dischiuse la bocca per la sorpresa, suo malgrado. Whitmore era seduto dietro la sua scrivania, con la schiena appoggiata all’indietro contro la spalliera della sedia. Solchi scuri gli segnavano la pelle sotto gli occhi. Non era difficile notare che indossava gli stessi abiti del giorno precedente.
«Il mio non ha smesso dalle cinque di ieri» replicò, esausto.
Sollevò la tazza di caffé con la mano destra e ne buttò giù a forza un altro sorso.
Il giudice strinse le labbra, sprofondando una mano nella tasca della giacca. Pur di non incrociare lo sguardo di Sanders o essere costretto a salutarlo, cominciò a vagare per l’ufficio. Non si fermò neanche quando echeggiò il trillo del telefono. Whitmore posò la tazza di caffé, sollevando la cornetta con gesto stanco.
«Certo, avranno trovato un rifugio» lo sentirono replicare gli altri due, con una punta di esasperazione. «Non hanno lasciato la città.»
Sanders emise uno sbuffo di derisione, allungando ancora una volta la mano verso la sua busta di tabacco. Masters notò il suo gesto con la coda dell’occhio.
«Le dispiace?» sibilò.
Sanders lasciò ricadere la busta con gesto stizzito, mordendosi la lingua in tempo per trattenere parole poco gentili. Dopo pochi istanti Whitmore chiuse la comunicazione.
«Come può essere certo che non abbiano lasciato la città?» lo interrogò subito Sanders, senza avere il tatto di fingere di non aver udito la conversazione.
«Non se ne andrà così» sospirò Whitmore.
«Tuttavia non ci sono stati avvertimenti» interloquì Masters, appoggiato sul termosifone accanto alla finestra. «A meno che la notizia diffusa dal vostro portavoce non sia falsa.»
«Non ci sono stati avvertimenti» confermò Whitmore, accigliandosi per la velata offesa del giudice. «Per il momento.»
Sanders si schiarì rumorosamente la gola, passando lo sguardo dal capo di Scotland Yard al giudice. Sembrava invitare Whitmore a mostrare un po’ di polso, ma non si azzardò ad esprimere alcun pensiero in tal senso.
«Forse è il caso che torni ad Hammersmith.»
L’unica cosa che ottenne fu un ghigno soddisfatto da parte di Masters. Lì per lì, sembrò che Whitmore non l’avesse neanche udito. Se i suoi due ospiti avessero fatto più attenzione ai lineamenti del suo volto, avrebbero notato il movimento quasi impercettibile delle guance che si contraevano per lo sconforto e l’atroce senso di impotenza. Deluso, il direttore del carcere si alzò con un grugnito per raggiungere la porta.
Il telefono squillò di nuovo. Sanders si bloccò a pochi passi dalla soglia. Per mascherare il suo intento di origliare ancora, tornò verso la poltrona che aveva occupato fino a poco prima, raccogliendo il sacchetto di tabacco che aveva casualmente dimenticato. Masters scosse la testa e strinse le braccia dietro la schiena. Non degnò l’apparecchio di uno sguardo, preferendo distrarsi a guardare fuori della finestra. Whitmore non poté non notare il malcelato interesse di entrambi, così schiacciò direttamente il pulsante del viva voce.
«Whitmore, Scotland Yard» si presentò con voce monotona, ripetendo la frase con cui aveva principiato le decine di telefonate arrivate fin dal giorno precedente. «Con chi parlo?»
Si udì un respiro pesante e un rumore di passi di sottofondo.
«Martin, spero tu stia bene.»
La voce all’altro capo del filo suonò cupa, ma il tono era piano, quasi gentile. Il capo di Scotland Yard sobbalzò leggermente sulla sedia. La mano che aveva schiacciato il pulsante ebbe un tremito improvviso.
«Victor.» Pronunciò quel nome con una sorta di risentito disagio.
Il pacchetto di tabacco di Sanders cadde a terra con un suono ovattato. Le spalle di Masters sussultarono. Senza che nessuno dei due l’avesse premeditato, l’istante successivo si trovarono entrambi davanti alla scrivania, le mani appoggiate sulla superficie lignea.
«Chi c’è lì con te?» volle sapere Ramsfield, a cui non poteva essere sfuggito quel rumore di passi affrettati.
La domanda fu formulata con un’ innocente curiosità, che strideva con il tono basso della sua voce. Whitmore sollevò gli occhi verso gli altri due. Masters scosse impercettibilmente la testa.
«Il direttore del vostro carcere» replicò Whitmore con cautela.
«Salve, signor Sanders» salutò Ramsfield, in un tono così cordiale da mandare in bestia il diretto interessato, già irritato dal fatto di essere stato nominato da solo.
«Cosa credi? Di prenderti gioco di me?» ringhiò contro il tasto acceso del viva voce. «Non sperare, ci rivedremo presto!»
Seguì una breve pausa, riempita da una risatina dall’altra parte. Dal timbro si capiva chiaramente che proveniva da qualcun altro.
«È possibile» concesse Ramsfield.
Echeggiò uno schiocco, il tipico rumore di uno schiaffo, e poi riprese a parlare la voce di Ramsfield.
«Mi sembrava giusto avvertirti, Martin.»
«Tu parli di giustizia?» sbottò ancora Sanders, impedendo a Whitmore di chiedere delucidazioni.
«Ha ragione» ammise Ramsfield, ma il suo tono era ironico e deluso allo stesso tempo. «Dovremmo chiedere lumi al giudice Masters, in merito.»
Sanders scoccò un’occhiata infuocata a Masters, il cui volto era talmente pallido che si intravedevano le vene pulsanti sotto gli occhi. Whitmore allungò una mano per ripristinare la comunicazione normale, ma il direttore del carcere glielo impedì, sporgendosi sulla scrivania.
«Perché non glielo chiedi direttamente?» propose Sanders, guardando il giudice con aria vendicativa. «È proprio qui.»
Il silenzio fu disturbato dal gesto brusco di Masters, che si allontanò spaventato dalla scrivania.
«Quale onore» riprese la voce di Ramsfield, con una nuova sfumatura minacciosa. «Quando avrà giudicato se stesso, faremo una lunga chiacchierata, giudice.» L’ultima parola era stata marcata con evidente disprezzo.
Masters, che si teneva lontano dalla scrivania come se temesse di vedere spuntare Ramsfield proprio da lì, sembrava sconvolto. Le braccia fasciate dal completo gessato tremavano lungo i fianchi. Il direttore del carcere spostava lo sguardo da lui al telefono, sorpreso che il suo gesto avesse causato una tale agitazione. Ma, prima che uno dei due potesse fare altro, Whitmore calò la mano sulla scrivania, colpendo il legno con un gesto stizzito.
«Per l’amor del cielo, Victor!» esplose, usando la mano libera per tergersi il sudore che gli cadeva sugli occhi. «Che hai in mente?»
«I Lloyds, amico mio.»
Quelle parole caddero come pietre nell’antro spossato della mente dei presenti. Sul volto di Whitmore si dipinse un’espressione attonita. Sanders non seppe decidere se era dovuta al luogo nominato o all’appellativo con cui l’altro si era rivolto a lui e, in ogni modo, era troppo preoccupato dall’ultima rivelazione per preoccuparsene. Masters emise un respiro mozzato, chinando la testa.
«È una follia» commentò, la voce resa rauca dalla tensione.
Whitmore appuntò lo sguardo su di lui e poi ancora sulla luce rossa del telefono. Gli sembrava quasi di poter vedere Ramsfield che tendeva l’orecchio, dall’altra parte.
«Follia è non sapere cosa si sta facendo» replicò. «Io lo so bene. Possiamo dire che il tuo Thompson lo sapesse altrettanto bene?»
Il tono della sua voce suonò diverso, stentato. La rabbia era tenuta a freno dietro parole amare.
«Il tuo Thompson?» ripeté Sanders ad alta voce, guardando la spia rossa del viva voce come se potesse dargli una risposta.
Whitmore gli lanciò un’occhiata di ammonimento, prima di coprirsi la fronte con la mano. Non vide il giudice che indietreggiava ancora, fino a crollare su una sedia poco distante. Il direttore del carcere, invece, lo ignorò apertamente. Troppi eventi stavano scorrendo davanti ai suoi occhi e il suo cervello, abituato a registrare nomi e condanne, non era pronto ad interpretarli tutti all’unisono. Solo l’occhiata del capo della polizia lo convinse a richiudere la bocca, costringendolo a fissare ancora la cornetta chiusa del telefono, in attesa che il loro interlocutore saziasse la sua curiosità. Quello che udì, però, deluse le sue aspettative.
«Ti ho avvertito, Martin» concluse Ramsfield, risoluto. «Non è questo il momento di dare spiegazioni.»
La sua voce sembrava tornata ad assumere un tono piano, ma Whitmore conosceva bene il significato sotteso a quelle parole. Sapeva che il suo ex collega aveva appena ingoiato un boccone amaro, come aveva fatto negli ultimi anni. Il dispiacere per la sua condizione riusciva quasi a superare il disagio causato da quel gesto di lealtà. Perso dietro le fila dei propri pensieri, fu colto alla sprovvista quando sentì che il respiro dall’altra parte si affievoliva, segno che Ramsfield stava mettendo giù la cornetta.
«Victor!» lo richiamò Whitmore, aggrappandosi a quel nome come se fosse la sua ancora di salvezza contro il peso delle decisioni che avrebbe dovuto prendere.
«Sono qui.»
La sua voce si era tinta di un intento consolatore che distrusse gli ultimi barlumi di autorità che ancora aleggiavano in quella stanza. Whitmore strizzò gli occhi, tenendo la testa bassa in modo da non dover sostenere lo sguardo inquisitore di Sanders che, ne era certo, lo stava fissando da vicino. A malapena udì il gemito soffocato di Masters, concentrandosi invece su quella che riteneva sarebbe stata la sua ultima domanda ad un vecchio amico.
«Pensi di ottenere così la giustizia che ti è stata negata?»
Si era rivolto alla cornetta chiusa, ma non poté impedire alla sua mente di immaginare la fronte dell’altro che si corrugava, l’ombra che attraversava i suoi occhi verdi; occhi che guardavano lontano, ispezionando vecchi ricordi comuni.
«Non penso» lo corresse Ramsfield. Il cupo brontolio aveva lasciato il posto ad una ferrea risoluzione. «Io voglio.»
Whitmore spalancò gli occhi, colpito da quella risposta. Istintivamente allungò una mano verso il telefono, le pupille dilatate per la tensione prolungata. Aveva già sollevato il ricevitore, quando un impiegato irruppe nell’ufficio. A giudicare dal lembo di cravatta che svolazzava al di sopra della sua spalla e dagli occhiali che gli pendevano di traverso, aveva salito di corsa diversi piani.
«Signore, gli Storti hanno inviato un comunicato alla stampa!» esclamò con il poco fiato che gli era rimasto, tanto che subito dopo fu costretto ad un’inspirazione forzata.
Notando che iniziava a barcollare, Sanders gli andò incontro, stringendogli una spalla. Whitmore sbatté le palpebre un paio di volte, prima di premersi la cornetta del telefono contro l’orecchio. L’unico rumore che gli restituì fu quello della linea libera.
«I Lloyds» mormorò, abbassando la cornetta con gesto lento, come se non sapesse che altro fare.
L’impiegato si aggrappò al braccio di Sanders, fissando sbigottito il suo superiore. Ancora a corto di fiato, annuì lentamente, mentre i suoi occhi schizzavano nervosi da Whitmore a Masters. Il giudice era ancora accasciato sulla sedia, con la testa china in avanti e stretta tra le mani pallide.
«Mobilita tutte le auto» gli giunse l’ordine del capo di Scotland Yard.
L’impiegato lasciò di colpo Sanders, quasi temesse di essere lui la causa dell’espressione affranta del suo superiore. Annuì un’altra volta e si prese solo qualche istante per raddrizzarsi gli occhiali, prima di lasciare l’ufficio con la medesima fretta con cui vi era entrato.
Whitmore deglutì a vuoto e si volse verso il direttore di Hammersmith.
«Andrò anch’io.»
«La accompagno» si offrì prontamente Sanders, gonfiando il petto. Indugiò qualche attimo, prima di scoccare un’occhiata in direzione di Masters. «Che significa “il tuo Thompson”?»
I suoi occhi scuri lo fissavano con dura ostinazione, incuranti della crisi in cui l’altro era precipitato dopo la telefonata. Whitmore non reagì in alcun modo a quella domanda. Passò accanto al giudice come se fosse un soprammobile e lasciò il suo ufficio senza una parola. Sanders fu sorpreso da quell’improvvisa freddezza, ma non si diede per vinto. Masters dovette sentire il peso della sua insistenza, poiché emise un altro gemito e si affondò le dita tra i capelli grigi.
«Lui e mia figlia stavano ancora pagando la loro casa» confessò, con voce tremante. «Che altro potevo fare?»
Le ultime sillabe si persero in un leggero balbettio. Il suo volto era ormai nascosto tra le mani malferme. Sanders corrugò la fronte e continuò a fissarlo, torreggiando su di lui. Un po’ di concentrazione lo aiutò a mettere insieme gli ultimi pezzi.
«Schifoso bastardo» borbottò, sputando quelle due parole come se fossero veleno. La sua bocca si contrasse in una smorfia. Voltò le spalle a Masters e marciò verso la porta. «Anche noi ci rivedremo presto.»
La porta che sbatteva alle sue spalle assegnò un tono solenne alla sua minaccia. Rimasto solo con la sua colpa, il giudice si piegò in avanti, finché i suoi gomiti toccarono le ginocchia.
«Che altro potevo…» balbettò ancora, la voce rotta da lacrime di rabbia e vergogna.

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Capitolo 7
*** Un'abile menzogna ***


Il rumore persistente delle sirene si infranse sulla facciata della Banca d’Inghilterra, la sua eco si insinuò all’interno dell’edificio. L’ampio ingresso della banca, celato dietro la facciata neoclassica, era semi deserto. La maggior parte della popolazione londinese aveva seguito alla lettera le raccomandazioni del portavoce della polizia. Persino un buon numero di impiegati era stato colto da un improvviso quanto misterioso malore, che li aveva costretti a rinunciare alla consueta giornata di lavoro allo sportello. Due guardie giurate erano immobili all’esterno, oltre le cabine circolari di vetro spesso che si aprivano sul salone principale. Un’ altra si trovava di fronte agli ascensori, seduta dietro il banco di comando delle telecamere. La banca aveva aperto puntualmente due ore prima, alle nove precise, quando gli addetti alle pulizie avevano sgombrato gli uffici ubicati al piano superiore. Non sembrava ci fosse molto da controllare, le riprese del circuito chiuso rimandavano le immagini di corridoi deserti, attraversati di tanto in tanto da pochi impiegati che si spostavano da un ufficio all’altro. Da quando era terminato l’afflusso di impiegati che si recavano ai loro posti di lavoro, le porte degli ascensori erano rimaste aperte e immobili, l’interno rischiarato da piccoli neon dalla forma rettangolare.
Le sirene della polizia avevano distratto la guardia alle telecamere solo per un momento. L’attimo successivo, l’uomo aveva lanciato un’occhiata annoiata agli ascensori aperti e si era concentrato sulla lettura del Times, ripiegato sulle ginocchia in modo che sparisse sotto il bordo spiovente del banco ovale.
Un impiegato, impeccabile nella sua giacca grigio polvere, si muoveva lungo il corridoio che conduceva alle stanze blindate, tallonato da vicino dal suo cliente. Gli lanciò un’occhiata veloce, aggiustandosi il nodo della cravatta in un gesto automatico.
«Hanno un bel da fare, eh?» domandò con fredda cortesia.
Townsend si riscosse alla domanda dell’impiegato, rivolgendogli uno sguardo vacuo, come se da principio non avesse inteso le sue parole. Teneva le labbra serrate, nel tentativo di non esternare il proprio nervosismo con qualche balbettio sospetto. Quando fu certo di poter mostrare una reazione neutra, sollevò gli angoli della bocca in un sorriso privo di entusiasmo. La montatura pesante dei suoi occhiali spiccava sul volto magro; libere dai capelli stopposi, legati stretti dietro alla nuca, le guance sembravano letteralmente sparire sotto le lenti.
«È probabile che abbiano ricevuto una chiamata» proseguì l’impiegato, con aria saputa. «Altrimenti non se ne andrebbero così, a sirene accese.»
«O magari una soffiata» buttò lì Townsend, temendo che il suo silenzio potesse alla lunga risultare controproducente.
«Santo cielo, che situazione orribile» sospirò l’impiegato con tono affettato.
Si posizionò davanti a Townsend, nascondendo alla sua vista la tastiera numerica incassata nella porta di ferro davanti alla quale si erano fermati. Le sue dita si mossero rapide e sicure a comporre il codice richiesto.
L’interno della camera blindata era abbastanza ampio da non risultare claustrofobico, come quello delle banche più piccole. L’impiegato guidò in silenzio il suo cliente fino al numero segnato sul dattiloscritto che reggeva in mano e lo aiutò a prelevare la cassetta di sicurezza con il numero corrispondente alla sua chiave.
«Se si vuole accomodare nella saletta qui accanto…»
«Non potrei aprirla qui?» lo bloccò Townsend. «Non resterò molto» assicurò, tentando disperatamente di deglutire senza fare troppo rumore.
L’impiegato mostrò un’educata sorpresa ma, in onore delle regole di un istituto prestigioso quale la Banca di Inghilterra, non insisté oltre.
«La saletta serve solo a garantire la sua privacy.» Si strinse nelle spalle. «Ma se desidera, può aprirla qui.
Townsend si sforzò di sorridere in segno di gratitudine. Notò con la coda dell’occhio un movimento fuori della porta blindata rimasta aperta, prima che l’impiegato gli voltasse la schiena, informandolo che lo avrebbe atteso fuori.
Townsend distolse lo sguardo, concentrando la propria attenzione sulla cassetta, che reggeva con entrambe le mani. Tirò un lungo respiro tremante e dovette sforzarsi per non serrare gli occhi. Tese l’orecchio, aspettandosi di udire il richiamo d’aiuto dell’impiegato da un momento all’altro. Ma udì solo un urlo soffocato, seguito da un tonfo. Non gli fu difficile immaginare quello che era successo. Ne ebbe conferma poco dopo, quando Powell entrò nella sala blindata all’indietro, trascinando per i piedi il corpo privo di sensi dell’impiegato. Lo mollò all’inizio della fila di cassette di sicurezza con uno sbuffo irritato e marciò con decisione verso Townsend, che si affrettò a sollevare la cassetta, la chiave già infilata nella serratura.
Powell prese la piccola chiave tra le dita sottili e aprì la cassetta, infilandovi le mani per estrarre con cautela un piccolo involto quadrato. Si accovacciò a terra e iniziò a rimuovere quello che sembrava uno spesso strato di pellicola. Senza staccare gli occhi da quello che stava facendo, infilò la mano libera nella tasca dei pantaloni. Gettò sul pavimento un rotolo di nastro adesivo e frugò nuovamente nella tasca, tirandone fuori un agglomerato di fili. Townsend rimase per qualche istante impalato a fissarlo, i suoi occhi si soffermarono sulla divisa blu che l’altro doveva aver prelevato dagli stanzini degli addetti alla pulizia.
«È andato tutto bene?»
«Se sono qui, significa che è andato tutto bene» rimbrottò Powell, l’occhio buono che seguiva i movimenti precisi delle sue mani. «Ora lasciami lavorare, Ramsfield sta aspettando agli ascensori.»
Senza farselo ripetere due volte, Townsend si diresse verso l’uscita della camera blindata. Passando accanto al corpo dell’impiegato, notò un livido scuro farsi strada sulla sua nuca. Cercando di non pensare alla gentilezza con cui quell’uomo l’aveva accolto, ripercorse il corridoio quasi a passo di corsa. Scorse un altro uomo, appoggiato alla parete degli ascensori; anche lui indossava una divisa scolorita ma, a giudicare dai numerosi bottoni lasciati aperti, non si trattava del suo proprietario originario. Si bloccò di colpo, alzando una mano per spingersi gli occhiali su per il naso sudato. Le sue gambe non risposero subito all’impulso nervoso, procedendo ancora di qualche passo prima di fermarsi. Dopo i primi attimi di smarrimento, non poté non notare il tutore rigido che imprigionava la sua gamba destra. Il tonfo del bastone che colpiva il pavimento lustro lo fece sobbalzare.
«Powell è già al lavoro?» gli domandò Ramsfield, girando la testa nella sua direzione.
Aveva il respiro affannoso, ma sembrava sforzarsi di non darlo a vedere. Townsend annuì, avvicinandosi a sua volta agli ascensori. Notò di sfuggita che in entrambi lampeggiava una luce rossa, su cui era impresso il simbolo delle porte aperte.
«Abbiamo usato due ascensori diversi» spiegò Ramsfield, prevenendo la sua domanda. «Mentre era distratto con me, Rudge l’ha tramortito.»
Townsend seguì la direzione indicatagli e intravide le gambe della guardia, stesa dietro la postazione delle telecamere. Qualcun altro stava armeggiando dietro il banco, la serie di imprecazioni ininterrotte che si udivano non lasciava molti dubbi sulla sua identità.
«Degli altri impiegati cosa…?»
«Hanno ricevuto una chiamata urgente dall’ufficio del direttore» rispose Ramsfield, sollevando il mento ad indicare la parte opposta del salone, dove si apriva un altro corridoio. «Da lì non possono vederci.»
«Non ti sorprende così poca sicurezza?»
Il petto di Ramsfield si sollevò in una risata silenziosa e senza allegria. I suoi occhi verdi si inclinarono a fissare Townsend.
«Si è sparsa la notizia dei Lloyds.»
Townsend serrò la bocca, distogliendo lo sguardo per l’imbarazzo. La comparsa improvvisa di Rudge, dietro di lui, lo fece sobbalzare. Perse l’equilibrio e fu costretto ad aggrapparsi alla cornice dell’ascensore per non cadere.
«Dovrei infilarmi questo schifo?» protestò Rudge, agitando i pantaloni della divisa che aveva sottratto alla guardia. «Ma senti qua.»
Li sollevò all’altezza del naso per annusarli e contorse il viso in una smorfia di disgusto. Ramsfield lo squadrò da capo a piedi, dal cappello appena appoggiato sulla testa alle gambe nude. Inarcò un sopracciglio, sbuffando per trattenere una risata. Per tutta risposta, Rudge sollevò ancora di più i pantaloni, speranzoso.
«Mettiteli, signorina» lo canzonò. «Nessuno qui ha voglia di godere ancora della visione delle tue cosce.»
Punteggiò la schiena all’indietro contro la parete e sollevò il bastone, piegando il gomito verso l’alto in modo da assestare un colpo dietro le ginocchia scoperte di Rudge. Townsend si accigliò, fermando uno sguardo discreto sulla giacca della sua divisa ed evitando di soffermarsi sui boxer che si intravedevano poco sotto. Rudge gli scoccò un’occhiata infuocata, ma non osò controbattere a Ramsfield. Si piegò in avanti per infilare i pantaloni, sbuffando sonoramente durante tutta l’operazione.
«Cazzo di idea» borbottò infine, mentre si stringeva la cintura in vita.
Ramsfield si sporse in avanti e allungò la mano libera a calcargli il cappello sulla testa.
«Bada a non fare errori.»
La voce uscì a stento, le sue labbra si strinsero per per trattenere un gemito di dolore. Rudge annuì un paio di volte, improvvisamente serio. Imbarazzato dal tono quasi paterno del suo capo, distolse subito lo sguardo, fingendo di non notare la sua sofferenza. Mentre Ramsfield si voltava verso il corridoio delle camere blindate, il giovane si limitò a scambiare un’occhiata di sottecchi con Townsend. Sapevano bene che l’uomo che avevano deciso di seguire non avrebbe gradito alcun tipo di pietoso conforto. Pur non fissandolo direttamente, entrambi sentivano di essere oppressi dal peso schiacciante del confronto e, allo stesso tempo, erano sollevati di avere qualcuno da seguire ad occhi chiusi. Non servivano parole per far percepire a Ramsfield un tale stato d’animo né per mostrare quanto lo stesso lo rendesse fiero.
Quando intravide Powell venire verso di loro dal corridoio, gonfiò il petto per prendere un respiro profondo. Strinse il braccio di Townsend con la mano libera, facendogli un cenno in direzione del banco delle telecamere ed incamminandosi a sua volta. Nonostante l’aiuto del tutore rigido, doveva compiere qualche sforzo per muovere il passo con la gamba offesa, costretto a trascinarla leggermente verso il lato per evitare di sbilanciarsi durante il percorso. I tonfi del bastone cominciarono ad echeggiare con cadenza regolare all’interno del grande salone. Rudge li seguì, mentre Powell avanzava a grandi passi verso le cabine d’entrata. Si appiattì contro la parete alla destra dell’ultima cabina, si inginocchiò e fissò l’involto che aveva preparato nella camera blindata con alcuni pezzi di nastro adesivo. Tra la massa di strisce argentate era visibile un ordigno delle dimensioni di una scatola di fiammiferi; due piccole luci intermittenti emanavano il loro tenue bagliore, tre filamenti sottili, intrecciati tra loro, facevano capolino dalla parte sottostante. Dopo essersi assicurato del giusto posizionamento, Powell prese delicatamente il groviglio di fili e iniziò a dipanarlo con gesti lenti e precisi, camminando all’indietro, la schiena inarcata sulle ginocchia.
La testa di Rudge fece capolino da dietro la postazione delle telecamere, i suoi occhi scuri seguivano il dispiegarsi dei fili con crescente nervosismo. Powell era ancora a metà percorso, quando il giovane decise di averne abbastanza. Si ritirò dietro il banco, sollevando le ginocchia e stringendole al petto con le braccia. Un’occhiata alla sua destra gli rivelò che Townsend si era acquattato in modo identico. I due si scambiarono uno sguardo di comprensione, prima di tornare a fissare ognuno le proprie scarpe. Ramsfield, alla destra di Townsend, era immobile in una posizione scomoda, con il ginocchio sinistro piegato e il peso del corpo appoggiato sul tallone. A testa china, Rudge gli lanciò un’occhiata di sbieco, per constatare che l’altro lo stava fissando.
«Ce la farai» gli assicurò Ramsfield, piegando le labbra in quello che apparve un tentativo di sorriso.
Townsend mostrò la sua partecipazione con una leggera gomitata nelle costole di Rudge che, al contrario, deglutì a vuoto, senza trovare fiato per rispondere. I suoi occhi si erano fatti umidi per la tensione così lui, dopo un piccolo sforzo, riuscì solo ad articolare con le labbra un afono “grazie”.
Nello stesso istante comparve nella loro visuale la schiena di Powell, che si accucciò accanto a Ramsfield. Appoggiò sulle proprie gambe la terminazione dei fili intrecciati, che scomparivano all’interno del detonatore, fabbricato da lui stesso il giorno precedente.
«Quando vuoi» borbottò, rivolto a Ramsfield.
Appoggiò la testa all’indietro contro il legno chiaro del banco e chiuse gli occhi. Respirava lentamente, come se si preparasse ad un esercizio ginnico. Nonostante l’apparente calma, due dita della mano destra erano già in attesa sopra l’interruttore del detonatore. Ramsfield girò il viso verso Townsend, che si affrettò ad armeggiare all’interno della tasca dei suoi pantaloni. Estrasse un telefono cellulare e glielo passò.
«Ho memorizzato il numero che mi hai dato.»
Ramsfield appoggiò la spalla sinistra al banco, pigiando il pulsante di ricerca numeri. Individuò subito la voce che gli interessava. Sollevò un po’ il tallone dolorante e accostò il telefono all’orecchio. Dopo parecchi squilli, dall’altra parte fu aperta la comunicazione. Stavolta il “Whitmore, Scotland Yard” si udì più ovattato, soffocato da una caotica serie di altre voci, rombi di macchine in arrivo e l’eco di qualche sirena non ancora spenta.
«Martin.»
Dall’altro capo giunse un tramestio, tra cui spiccò un’imprecazione del direttore Sanders.
«Victor?» domandò Whitmore, sorpreso.
La sua voce era affannosa. Per un attimo Ramsfield non udì più il suo respiro, ma una serie di fruscii. Tutto lasciava ipotizzare che ci fosse qualche interferenza con le radio della polizia o, cosa che in realtà stava accadendo, che il direttore del carcere stesse cercando di strappar via il telefono al capo della polizia, senza alcun ritegno.
«Victor?» ripeté la voce di Whitmore, attraversata da una sfumatura turbata. «Per favore, i Lloyds… Stiamo facendo evacuare…»
«A proposito dei Lloyds» lo interruppe Ramsfield, con un tono quasi affranto. «Spiacente. Io e i ragazzi abbiamo cambiato idea.»
Non si udì risposta immediata, ma non gli fu difficile immaginare che il capo di Scotland Yard fosse ammutolito nel disperato tentativo di digerire quel nuovo scacco. Ramsfield attese, nonostante il calcagno sinistro avesse iniziato a tremargli per lo sforzo.
«Dove siete?» lo raggiunse finalmente la domanda di Whitmore.
Pur colpito dal suo tono rassegnato, Ramsfield non cedette, limitandosi ad abbandonare la sfumatura canzonatoria con cui aveva cominciato la telefonata.
«Banca di Inghilterra, Martin» replicò, duro. «Ti aspetto.»
Un fioco “bontà divina” all’altro capo del telefono fu sufficiente a segnalargli che l’informazione era arrivata. Senza attendere risposta, spostò il pollice sulla tastiera e chiuse la comunicazione. Fece ricadere il cellulare nelle mani tese di Townsend e lanciò un’ultima occhiata di incoraggiamento in direzione di Rudge. Si voltò per lasciarsi cadere a terra con un tonfo e stese la gamba funzionante. Voltò appena la testa per incrociare lo sguardo deciso di Powell, che ora aveva riaperto gli occhi. Sollevò una mano a mostrargli il palmo, puntando poi un dito verso l’esterno e tendendo l’orecchio.
Powell restò immobile a fissarlo, le luci artificiali dell’interno baluginarono sul suo occhio di vetro, mentre le sue dita si spostavano sull’interruttore, in attesa del segnale.

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Capitolo 8
*** La resa ***


Le volanti della polizia sfilarono in una rumorosa processione lungo Cornhill Street, lasciandosi alle spalle il grattacielo dei Llyods, nascosto dietro il portale risalente ai primi del Novecento. La serie di auto scorreva come un nastro infinito lungo le carreggiate sgombrate dai civili, le sirene emettevano senza sosta il loro perforante richiamo.
L’agente che guidava la macchina del capo di Scotland Yard dovette quasi rammaricarsi del fatto che il sibilo delle sirene non giungesse all’interno dell’abitacolo. Senza dubbio, sarebbe stato preferibile alle ininterrotte imprecazioni di Sanders. Dal sedile posteriore il direttore si sporgeva quanto più possibile verso il guidatore, la faccia quasi schiacciata sulle grate che isolavano gli arrestati. Le sue dita erano aggrappate come artigli e scuotevano il divisorio con fare iroso.
«Non sai andare più veloce?» sbottava di tanto in tanto, facendo sobbalzare l’agente. «Quella Ford ha accostato, passale accanto. Muoviti, non vedi che puoi infilarti da lì?»
Whitmore, seduto sul sedile anteriore alla sinistra del guidatore, trattenne un sospiro.
«Oliver, se potessi…»
«Ma perché resti incolonnato, dannazione!» tuonò Sanders, colpendo la grata con il palmo della mano. «Ridicolo, la macchina del capo della polizia che deve seguire le altre…»
«Anche se arrivassimo prima noi, non potremmo fare niente.»
«… come se fosse l’ultimo dei cadetti…» insisté Sanders, senza prestargli ascolto.
Whitmore fu grato di sentire la radio della pattuglia che gracchiava il codice in corso. Afferrò il ricevitore, agitando un mano per far segno al direttore del carcere di tacere.
«Gli artificieri smontano in questo momento» si udì la voce di un altro agente attraverso le scariche.
«State attenti, uno dei loro è là dentro e conosce il suo mestiere» avvertì Whitmore, prima di perdere la comunicazione.
Stizzito, imprecò a mezza voce, adagiando la schiena all’indietro. Con la coda dell’occhio notò che Sanders lo stava fissando attraverso le grate.
«Ha detto che gli è scoppiata una bomba in faccia, quando era in servizio.»
«È così» confermò Whitmore, concentrando lo sguardo sull’orologio dal cinturino consumato che l’altro portava al polso. «Quello fu l’errore che gli costò la carriera e una buona parte del volto.»
«Eppure ad East Court non ha fatto errori. Ramsfield ha scelto bene i suoi uomini.»
«È più probabile che siano stati loro a scegliere lui» sospirò Whitmore, continuando a fissare le lancette dell’orologio che si muovevano piano lungo il quadrante. «È sempre stato così. Chi non accettava lo stato delle cose, sapeva a chi rivolgersi per cambiarle.»
Sanders emise un mugolio di comprensione. Approfittò della pausa di silenzio per intimare ancora una volta all’agente di accelerare e tornò a guardare il capo della polizia.
«Ed è così che si cambiano le cose?» incalzò. «Facendosi sbattere in galera?»
Whitmore si schiarì la gola con un colpo di tosse, appoggiando il capo contro il poggiatesta e fissando lo sguardo sul tetto dell’auto.
«A volte mi chiedo se fosse andata diversamente» confessò, con tono amaro. «Se io avessi fatto qualcosa per cambiare la situazione, così come aveva tentato lui in passato.»
«Non si va avanti con i “se”» rimbrottò Sanders, disturbato dal tono colpevole di Whitmore, e si afflosciò sul sedile posteriore.
L’agente alla guida evitò a Whitmore la pena di dover trovare una risposta.
«Signore» lo richiamò, sterzando bruscamente per fermare l’auto. Spostò il cambio a folle e sollevò una mano per indicare la zona antistante la Banca d’Inghilterra. «Gli artificieri sono già in posizione.»
Un manipolo di uomini in uniforme nera stava smontando dietro al loro furgone d’ordinanza, i volti nascosti da caschi a calotta la cui superficie a specchio catturava i riflessi del sole di metà mattina. A pochi metri da loro, la squadra degli artificieri si era radunata e si preparava a un cauto avvicinamento. Decine di agenti in uniforme avevano formato un semicerchio a distanza di sicurezza dal portale d’ingresso, trattenendo a viva forza l’irruenza delle troupe televisive. I segnali inviati dalle postazioni mobili della televisione contribuivano a disturbare le comunicazioni delle auto di servizio.
Il capo di Scotland Yard aprì lo sportello e scese dalla macchina, restando per un attimo aggrappato al finestrino. Sanders si gettò sulla portiera posteriore per fare lo stesso, facendo scattare a vuoto la sicura. Rammentando che le portiere dei prigionieri sono sempre bloccate, imprecò ad alta voce e urlò qualcosa all’agente alla guida. Whitmore si riaffacciò all’interno della vettura, piegando la schiena e voltando il capo in direzione del direttore di Hammersmith.
«Oliver, forse è il caso di…»
Le sue parole di ammonimento e gli strepiti di Sanders furono coperti dal boato proveniente dalle loro spalle. Il capo di Scotland Yard ricadde in avanti, ma riuscì a tendere le braccia davanti a sé per atterrare sul sedile. Le sue ginocchia si piegarono e cozzarono violentemente contro il paraurti dell’auto. L’onda d’urto causata dall’esplosione dell’ordigno scosse le auto di pattuglia più vicine, mandando a gambe all’aria gli agenti che si erano riparati dietro di esse. L’ondata di calore si sparse sul manto stradale, seguita a breve distanza da nuvole di gas e piccoli frammenti di vetro delle cabine esplose.
Il direttore Sanders si sollevò quanto gli permetteva il tetto basso dell’abitacolo, spostando spasmodicamente lo sguardo dalle nubi di polvere sollevate dall’esplosione agli agenti che correvano ai margini della zona colpita, gridando ordini e richiamandosi l’un l’altro. Nella confusione generale, nessuno riuscì a distinguere i movimenti sospetti che il grigiore del gas stava nascondendo.
«Whitmore!» sibilò il direttore attraverso la grata.
Il capo della polizia emise un rantolo di dolore. Si lasciò scivolare sul selciato e puntellò i gomiti contro il sedile, per riuscire a rimettersi in piedi. L’agente alla guida smontò in fretta e, insieme ad un sergente sopraggiunto di corsa, sostenne il capo della polizia da sotto le braccia, sollevandolo quasi di peso.
«Sto bene» assicurò Whitmore in un bisbiglio agitato, una mano appoggiata sulla fronte grondante di sudore freddo. «Quali sono i danni?»
Un artificiere gli si era appena accostato, aiutandolo ad appoggiarsi alla portiera dell’auto.
«La detonazione è stata minima, signore» lo informò. «Nessun ferito, per il momento. Appena si deposita la polvere, procederemo a…»
«Fatemi uscire di qui, maledizione!» strepitò la voce di Sanders dall’interno dell’auto, i cui vetri tremarono sotto i colpi delle sue nocche.
«… sgombrare i detriti ed evacuare» terminò lentamente l’artificiere, fissando il direttore del carcere ad occhi sgranati.
Whitmore lo congedò con un gesto della mano, pregando poi l’agente che li aveva accompagnati di far uscire Sanders dall’auto. Con la schiena ancora appoggiata contro la portiera, strizzò gli occhi per il dolore alle giunture e adagiò la nuca contro la carrozzeria.
«Sono ancora dentro, signore» spiegò a bassa voce il sergente appena sopraggiunto, preoccupato per un suo eventuale stato di shock. «Ci prepariamo ad entrare.»
Whitmore sollevò una mano a mostrare il palmo, gli occhi sbarrati e fissi sulla polvere che andava depositandosi davanti al portale semi distrutto della Banca di Inghilterra. Il sergente seguì il suo sguardo ed emise un verso di sorpresa. Tre figure si stagliavano tra i detriti sollevati dall’esplosione.
«Che diavolo fanno?» sbottò la voce di Sanders, che era riuscito a raggiungerli.
Whitmore non rispose. Deglutì a vuoto e strinse le labbra, incapace di smettere di fissare i tre uomini che si facevano avanti, due di loro con le braccia sollevate verso l’alto. Il rumore di una sgommata poco lontano non servì a distoglierlo da quello spettacolo. Se pure nella sua mente si chiese distrattamente il motivo per cui un'auto non identificata si stesse allontanando come se niente fosse, non riuscì a fare subito mente locale per preoccuparsene. Come ipnotizzato, seguì con lo sguardo la squadra speciale che correva verso i tre uomini e li circondava da ogni lato, stringendoli all’interno di un cerchio compatto di scudi umani. Emise un sospiro mozzato, tentando di ignorare le urla degli agenti e, soprattutto, di non fissare l’uomo con la gamba destra costretta in un tutore rigido.
L’operazione fu svolta talmente in fretta che Whitmore quasi non si accorse che i suoi agenti stavano già portando via gli arrestati. Si riscosse solo quando Sanders gli afferrò il braccio.
«Perché sono tre?» Ogni singola parola era permeata dall’ansia crescente. «Perché sono… Whitmore, DOVE DIAVOLO È IL QUARTO?»
«Come?» Il capo di Scotland Yard era ancora intontito da quella rapida serie di eventi.
Un altro agente li raggiunse di corsa, la mano pigiata sulla testa scoperta.
«Signore, manca una nostra auto!» esclamò ad alta voce per riuscire a farsi udire al di sopra della confusione.
Sanders spalancò la bocca in tutta la sua ampiezza, voltandosi a fissare i prigionieri che venivano trasportati a viva forza verso un’auto poco distante, le braccia incastrate dietro la schiena e i polsi serrati nelle manette. Due agenti accompagnavano Ramsfield, sostenendolo per le spalle da entrambi i lati. Quando passarono accanto a loro, Whitmore sollevò lo sguardo in tempo per incrociare i suoi occhi verdi. Fece in tempo ad intravedere la loro espressione trionfante, prima di essere richiamato dall’arrivo di una donna, che si frappose tra lui e Sanders.
«Signore, devo parlarle.»
Frastornato, Whitmore si sforzò di distogliere lo sguardo dal suo amico di un tempo. Corrugò la fronte e sventolò la mano in aria, nervoso.
«Non adesso, ispettore Hunt» la rimproverò, asciutto. «Controllate…»
«Signore, è importante» insisté l'ispettore Hunt con tono d’urgenza. «La lettera con cui la banda ha avvertito i giornali conteneva altre informazioni.»
«Informazioni?» le fece eco Sanders, nel tentativo di infilarsi nella conversazione.
Whitmore si volse a guardarla, il disagio che gli stringeva il cuore come una morsa.
«Che tipo di informazioni?»
«Informazioni sul caso Thompson, signore» spiegò lei.
Le labbra di Whitmore si dischiusero per lo sconcerto. Ignorando gli sguardi insistenti di Sanders e dell'ispettore Hunt, abbassò gli occhi a terra, portandosi una mano tremante a sfiorare la fronte. Il rumore degli sportelli che si chiudevano lo fece sussultare. Si voltò verso la macchina più vicina, intravedendo il volto di Ramsfield che lo fissava dal sedile posteriore. Forse perché li conosceva troppo bene, vide spiccare il verde dei suoi occhi attraverso il vetro opaco. Prima che l’auto mettesse in moto, le labbra di Ramsfield si mossero.
Nel frastuono provocato dalle sirene in funzione e dal continuo vocio di poliziotti e giornalisti, Whitmore non poté udirlo. Ma, seguendo i movimenti del labiale, non gli fu difficile comprendere ciò che stava dicendo. Due parole che nei mesi a venire sarebbero rimaste impresse a fuoco nella sua mente.
Io voglio.



- Un ringraziamento particolare a Megara X e Steph808 che hanno ripescato questa storia. Anche a distanza di anni ci sono affezionata e vi ringrazio ancora per aver letto e recensito - Alessandra

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