Rinunce di una maschera di Callie_Stephanides (/viewuser.php?uid=7973)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Senpai ***
Capitolo 2: *** Sposa ***
Capitolo 3: *** Conchiglia ***
Capitolo 1 *** Senpai ***
Fictional Dream © 2006 (4 luglio 2006)
I L’Arc~en~ciel (nella prima formazione major, Tetsuya Ogawa,
Ken Kitamura, Hideto Takarai e Yasunori Sakurazawa, poi Yukihiro Awaji in luogo
di quest’ultimo) sono uno dei più celebri gruppi di musica rock-pop giapponese.
L’autrice non intrattiene con i succitati artisti alcuna
relazione di tipo economico-collaborativo.
Questo testo narra eventi di pura fantasia, destinati al
diletto ed all’intrattenimento di altri fans: non persegue alcun intento
diffamatorio (né pretende di dare informazioni veritiere sulle persone di cui
tratta) o finalità lucrativa.
Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla
personalità degli artisti succitati si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright
dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa
altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
*****
L’aveva conosciuta ai tempi dell’Iwaki. La chiamava senpai,
perché aveva tre o quattro anni più del ventenne sconclusionato che era. Nessuno
avrebbe detto fosse bella: aveva un viso largo e occhi piccoli. L’unica nota
davvero attraente di quel viso anonimo era il sorriso. Per questo forse, senza
ascoltare davvero nessuno, Hideto aveva deciso di innamorarsene.
Aveva vent’anni, ma se non avesse esibito – a tratti con uno
scatto violento e rabbia evidente – la propria patente, nessuno gli avrebbe
forse permesso di lavorare, perché a Wakayama, Kansai, vive gente di campagna e
sani principi. Nessuno accetta studentesse delle scuole medie con occhi da
rubarti l’anima. Aveva vent’anni, i capelli lunghi di un nero intenso, mani da
bambola e l’aria svanita. Voleva fare il chitarrista e smettere così di sentirsi
un piccolo animaletto buffo da tenere al riparo di una teca. Sul momento poteva
accontentarsi di tutto, purché non implicasse avere a che fare con pensionati e
ciambelle, oppure impilare CD sulla scaffalatura più alta, perché non era
piacevole fare quotidianamente i conti con un mondo fuori misura.
Hideto era davvero timido, ma in un suo modo personalissimo.
Forse aveva paura del giudizio degli altri, perché gli arrivava sempre da un
punto molto più in alto del suo orizzonte. Sapeva di essere troppo ingenuo, a
tratti, per non sembrare stupido. Troppo spontaneo per non essere vulnerabile.
Troppo ignorante – della vita e del mondo e pure culturalmente parlando – per
non sembrare scemo. Era timido e dunque taceva per buona parte del tempo. Poi,
se ritrovava gli amici di una vita – ragazzi come lui, con cui aveva scorrazzato
in bicicletta dai tempi della Kawanishi, pattinato o campeggiato sotto le stelle
–scoprivi che era un pagliaccio, che sapeva rendersi irresistibile e che era
forse la persona più carina in cui ti fossi mai imbattuto, oltre le regole e gli
stereotipi, non solo nell’aspetto.
Hideto non aveva paura di farsi toccare, anzi, s’era lui a
vederti triste o abbattuto oppure felice, era il primo che ti stringeva, con
quelle braccia da bambino e forti come quelle dell’uomo che stava diventando. Se
era arrabbiato o deluso o stanco o offeso, invece, cominciava a strepitare di
non toccarlo. Aveva un modo di leggere i rapporti fondato su sensi che un
giapponese a modo sacrifica sempre all’educazione: il tatto, prima di tutto.
Forse Hideto Takarai non era un ragazzo perfetto o un modello di stile, però
sapeva rendersi unico e irresistibile con una tale evidenza ch’era impossibile
ignorarlo davvero.
Aveva un viso bellissimo, malgrado le piccole cicatrici che
dalla mascella s’intrecciavano sotto il mento. Lo sguardo obliquo e un po’
sfocato dei miopi che non vogliono arrendersi all’onta degli occhiali. Sorrisi
spontanei, abbaglianti. Eppure non aveva mai trovato il modo di sentirsi bello,
perché nessuna delle cotte che si era concesso come ogni adolescente era andata
davvero a buon fine. Pensava di non piacere alle ragazze. Forse non piaceva
soprattutto a se stesso. La verità era fosse troppo piccolo e carino perché lo
prendessero sul serio. Aveva qualche amica, ma nessuna, a dir la verità, aveva
mai provato nei suoi confronti qualcosa in più di una dolce tenerezza. Sì, era
bello accarezzargli i capelli, pattinargli accanto, ascoltarlo suonare, ma
Hideto era Hideto. Non era un ragazzo come gli altri.
Hideto aveva vent’anni e nello specchio trovava solo un
giapponese troppo basso, non la risposta a quella sua strana aura, così
attraente da lasciarlo però irrimediabilmente solo. Così, quando quella
senpai che bella non era, se non nel sorriso, cominciò a salutarlo ogni
mattina, mentre scivolava in volata sulla propria bicicletta – una mano sola,
perché l’altra gli serviva per fumare – lungo la via principale di Wakayama, un
giovane cuore cominciò a battere più forte.
Hideto era molto attratto dalla bellezza, ma la intendeva a
modo suo. Quel sorriso radioso su un viso pulito e semplice rappresentava quanto
di più vicino assimilasse a un ideale, forse perché somigliava a sua madre, e
Hideto sapeva che oltre l’Apple era difficile trovare autentica serenità.
Lavorava in uno store a meno di un blocco dall’Iwaki. A volte
si incontravano per la pausa di mezzogiorno. Hideto non tornava più a casa e si
faceva durare la cherokee tra le dita, mentre passeggiava lungo la Burakuri Tei,
senza curarsi d’essere tanto scoperto nei suoi sentimenti da sembrare ridicolo.
Non era il tipo da curarsene; aveva più paura del silenzio e di quanto restava
inespresso, non di voler bene.
Per un poco anche la musica passò in secondo piano, e Pero,
che lo conosceva abbastanza da sapere con quanta intensità vivesse le proprie
passioni, senza saper distinguere tra un falò e un incendio, più di una volta
l’aveva richiamato all’ordine. Era il leader dei Kiddies Bombs, in fin
dei conti, un gruppo che perdeva pezzi con regolarità inquietante e che non
voleva saperne di occupare un posticino al sole neppure tra le indie più
periferiche.
Hideto sapeva ch’era colpa sua, perché non possedeva la
freddezza e il cinismo con cui la concorrenza gli soffiava i musicisti migliori
e i locali più in vista. Poteva lavorare durissimo e impegnarsi come un operaio
in quel che faceva, ma non aveva la mentalità dello stratega; al dunque era il
primo a scoraggiarsi e a cercare un minimo di sostegno in chi aveva accanto: era
sempre stato troppo coccolato per stringere gli altri nell’abbraccio della
sicurezza, insomma. E poi, a dirla tutta, gli ridevano in faccia come apriva
bocca, e il suo timbro tenorile, greve di inflessioni dialettali, sembrava lo
scherzo divertito di una piccola fata tutta occhi e capelli. Non demordeva
perché voleva dare una lezione a chi lo guardava troppo per non vederlo affatto,
forse persino a quei genitori che gli avevano voluto sempre bene, ma che
sembravano i primi a non riconoscergli la virilità che portava tra le gambe e
nel cuore.
Lei, con il suo sorriso aperto, era una piccola luce in
giorni grigi, deposti l’uno sull’altro in un tetro castello di mediocrità. Anche
la vita poteva essere daltonica, si era detto, non meno dei suoi occhi: delle
mille luci che aveva sognato restavano appena i faretti del terzo piano.
Al Wood Rock vendeva chitarre che avrebbe voluto suonare sino
a farsi sanguinare i polpastrelli, a musicisti d’ogni caratura che gli
rifilavano appena un’occhiata sbilenca, quando descriveva un modello o proponeva
un pezzo conveniente. Probabilmente pensavano qualcosa sul genere: ‘Che può
saperne una ragazzina di come si suona il rock?’ con quella superficialità
offensiva con cui tante volte era stato liquidato. Poi, in un giorno di tarda
primavera, lei era passata a trovarlo.
Un regalo, aveva detto.
Hideto aveva annuito, pensando piuttosto che il dono
spettasse a lui, e gliel’avesse mandato il Dio in cui non credeva affatto, pur
scimmiottandone il Figlio in quello stile un po’ hippy e un po’ profetico che
faceva disperare suo padre, le rare volte in cui le loro strade s’intrecciavano
ancora. Non aveva avuto il coraggio di parlare abbastanza da rendersi
interessante, ma una piccola idea per rivederla, be’: quella sì.
Nel pacco essenziale che le aveva confezionato – sperando
quei tabs non fossero per un fidanzato molto kakkoi e troppo geloso
persino per il suo alto dan - c’era anche la locandina che invitava ad ascoltare
quattro sconosciuti, in una piccola live house da sabato sera. L’aveva
disegnata per proprio conto, sfruttando uno dei pochi talenti che sapeva di
avere – ma monco e imperfetto come tutto, del resto.
Anche se non avesse compreso e accolto, poteva consolarsi
pensando di averle lasciato qualcosa di sé: un’esca. Poteva sempre darsi
scegliesse di abboccare.
Il locale era semivuoto, il vocalist aveva steccato più del
previsto e anche i suoi riff non erano bastati a riempire il vuoto
dell’ispirazione. L’unico elemento valido restava Pero, che non poteva
escludere, prima o poi, accettasse l’offerta di un gruppo decente, perché
l’amicizia non giustificava il permanere stagnante in una fossa da ranocchi.
Non era stata una buona serata: poteva solo sperare che la
senpai non avesse accettato il suo invito, rendendo l’indifferenza, una
volta tanto, vantaggiosa. Invece c’era, e si era divertita abbastanza da
regalargli uno dei suoi sorrisi così belli da sciogliergli il cuore.
‘Anche mio fratello suona la chitarra,’ gli aveva
detto con molta semplicità – senza sapere di averlo liberato dal fantasma della
gelosia che lo perseguitava dal giorno dell’incontro all’Iwaki. ‘Sei bravo.’
Non era vero, ma per una volta era quasi comodo crederci e
solleticare l’ego con una bugia che poteva somigliare a un complimento gentile.
Se una ragazza te ne fa, del resto, non deve essere del tutto
senza un perché.
Si erano visti ancora. I Kiddies avevano cambiato
vocalist una quantità infinita di volte, ma la senpai sembrava quasi non
accorgersene: era sempre lì in prima fila. Alla fine, prendendo il suo coraggio
da coniglietto a due mani, Hideto gliel’aveva chiesto, le aveva domandato
obliquo e maldestro da dove nascesse tanta assiduità. E lei, sporgendosi sino a
baciargli la fronte, gli aveva sussurrato che aveva un debole per i chitarristi.
Poi, sorridendo in quel suo modo speciale, gli aveva pure confessato che dalla
prima fila riusciva a vederlo meglio.
La senpai, nei fatti, lo staccava di almeno dieci
centimetri, un po’ come ogni donna che sarebbe entrata nella sua vita. Hideto,
però, non lo sapeva, perché era troppo impegnato ad abbassare lo sguardo e ad
arrossire sotto il suo brutto trucco di scena per sentirsi imbarazzato da quella
sproporzione forse un po’ grottesca.
Lo trovava carino. Forse era persino ricambiato e non ci
sarebbero più stati San Valentino con il cuore al gelo e un vago rimpianto per
un kawaii che non portava cioccolata.
Si erano trasferiti a Osaka, in un brutto blocco quasi
periferico, ma non era importante. Aveva rassicurato i suoi genitori con tutto
l’orgoglio del pulcino che lascia il nido; in fin dei conti, poi, era a un’ora
scarsa di treno, non in un altro mondo.
Aveva continuato a fare il chitarrista e il leader maldestro
di un gruppo di scartine, finché anche l’ultimo vocalist non aveva piantato in
asso i Kiddies e Pero l’aveva fissato con l’intensità di chi pone davanti
ad un bivio.
‘A questo punto ci troviamo un altro chitarrista e canti
tu!’ gli aveva detto con un tono tanto brutale quanto insindacabile. Aveva
quasi inghiottito la cherokee sul momento, mentre lei rideva e gli
raccoglieva i capelli sulle tempie.
‘Perché no? Hai una bella voce,’ gli aveva sussurrato
incoraggiante. Era difficile spiegare a quel punto che avrebbe dovuto rinunciare
persino all’unica cosa cui si legava un po’ del suo orgoglio di musicista; non
era mai stato bravo a prendere decisioni. Soprattutto, poi, si fidava di lei.
Era un portafortuna, un’amica, una mamma: tiravano la cinghia con quello che
guadagnava e gli introiti – magri – del gruppo. Hideto pensava che quella, in
fondo, era proprio la via che avevano percorso anche i suoi genitori, dunque
doveva essere il sentiero che portava al Paradiso.
Non gli importava ancora essere ricco, gli bastava sentirsi
meno solo. La senpai gli ritoccava il trucco e gli acconciava i capelli.
Davanti allo specchio c’erano spesso due donne, solo che la più bella aveva la
voce da tenore e l’aria svanita e perplessa insieme.
‘Saresti stato una ragazza bellissima,’ gli diceva
sempre, con un tono che sapeva di malinconia e di orgoglio insieme.
‘È quello che mi ha sempre detto mia madre,’ replicava
con una smorfia e accendeva una cherokee. I Jerusarem’s Road, però,
malgrado la sua disastrosa incompetenza organizzativa, stavano andando bene. Era
difficile credere alla sostanza dei fatti: era merito suo, della sua voce, del
suo corpo, del suo stile. Merito di Hideto. No. Merito di haido, la donna-uomo
che costruiva con l’altra metà del suo cuore in un brutto camerino.
A volte, quando la domenica pomeriggio, ancora caldo di
sonno, si volgeva nella sua direzione per abbracciare l’ombra di un’assenza in
un futon ormai gelido, sapeva già di potersi aspettare qualche regalo spontaneo
e grottesco insieme, per quel fantasma che nasceva sulla sua pelle e, poco a
poco, si fondeva con lo scheletro da passero di uno come tanti. Per trasformarlo
in un’icona perversa.
‘Ti ho trovato un nuovo fermaglio-un nuovo ciondolo-nuovi
orecchini-una maglia aderente.’
A tratti aveva come l’impressione d’aver smesso d’essere il
suo ragazzo per diventare la sua bambola. Persino mentre facevano l’amore, a dir
la verità, Hideto si masturbava piuttosto con il germe del rimpianto e del
dubbio. Non aveva più vent’anni – ne aveva quasi ventidue – non aveva smesso di
amare il sorriso di lei, ma si sentiva di nuovo sbilanciato e fuori
fuoco, privo di equilibrio come in troppi momenti di una vita segnata da
orizzonti daltonici.
Forse era haido che gli toglieva la terra da sotto i suoi
piedi, facendolo volare troppo in alto per un giapponese basso e senza ali. Non
così sul palco, e cominciava a capirlo.
Lei, in prima fila, sorrideva e forse ne soffriva. C’era
qualcosa di artificiale a tratti nelle sue labbra e persino nelle sue scelte,
come se partecipare dei suoi successi fosse un modo per chiedergli di non
abbandonarla, quando la porta del sogno l’avrebbe inghiottito del tutto. Amava
l’haido che aveva concorso a costruire, ma rimpiangeva forse Hideto, il
chitarrista e il commesso basso dell’Iwaki che si lasciava bruciare una cherokee
tra le dita pur di avere una scusa per vederla.
Non ne parlava, però, forse perché era tutto sotto controllo.
I Jerusarem’s Road avevano qualche fan degno di essere
chiamato tale; voci anonime dicevano che c’era pure un pezzo grosso della scena
underground interessato a lui, alle potenzialità del suo timbro e al suo
incredibile senso scenico, ma Hideto, una volta che riponeva con il trucco di
scena il suo haido, tornava il ragazzetto di Wakayama che sognava in piccolo e
desiderava la cioccolata per san Valentino. Per questo, però, quando il destino
aveva bussato alla sua porta per reclutarlo, quasi non se n’era accorto. La
senpai non c’era quella sera: un turno imprevisto nel negozio in cui
lavorava, perché le entrate di un musicista non erano nulla di sicuro e
bisognava arrangiarsi in qualche modo per pagare l’affitto.
Tetsuya Ogawa era un bassista di cui aveva sentito parlare
spesso, per la sua tecnica e per ambizioni che si dicevano smisurate. A
guardarlo da vicino non pareva nulla di eclatante, ma Hideto si entusiasmava
facilmente e non sapeva resistere a nessuna lusinga che investisse in pieno il
suo ego. E Ogawa era fin troppo abile nel capire il proprio interlocutore,
perché l’aveva blandito con l’intelligenza del vero stratega, lasciandogli
intravedere opportunità che le sue forze non avrebbero mai saputo del tutto
concretizzare.
‘Possiamo diventare davvero famosi.’
‘Come i Dead End?’
‘Più dei Dead End. Più di chiunque altro.’
Forse era stato allora che l’equilibrio si era rotto: quando
lei aveva indovinato la presenza di un’ombra nel loro rapporto. Un’ombra
ch’era al contempo un ragazzo, un amico, un diavolo tentatore, e lo spettro di
un salto nel vuoto. Autentico. Questa volta non era solo la stravaganza di un
ragazzo di provincia: preso per mano da Ogawa, Hideto aveva smesso di
appartenere per sempre al suo passato.
Non se n’era accorto sul momento, ma parlava sempre di lui.
Di Tetsuya – meglio: ora era Tetchan – del suo entusiasmo, di un gruppo
dal nome impossibile, ma bellissimo, del pubblico che cresceva fino a sembrare
una marea, del Kanto che era ora tanto vicino che non pareva vero, appena un
pugno di mesi prima, si fosse rassegnato a ereditare un pub.
Se avesse saputo leggere davvero tra i vuoti di
un’espressione desolata e sorrisi sempre più pallidi, forse avrebbe dovuto
capire che lei l’avrebbe preferito: meglio l’Apple e il mare azzurro di
Wakayama, che lo smog soffocante di Tokyo, ma Hideto non era mai stato sensibile
alle sfumature, a quelle dei sentimenti meno che mai.
Non era poco amore, quello no. Hideto era davvero pieno di
emozioni, ma Ogawa lo attraeva di più, come una luce che chiama a sé le falene
per bruciarle di un falso splendore. Forse era quello che desiderava davvero,
per disperdersi in una corrente di cui non avesse controllo o ragione.
Un’omissione riposante, in fondo.
In quel dettaglio, forse, aveva smesso di essere un uomo per
trasformarsi in qualcosa d’irrisolto e troppo ambiguo perché una senpai
dal viso largo cedesse ancora alla tenerezza.
Quando erano arrivate le prime interviste e poi la Danger
Crue – e il mito del Kanto; già, proprio la sporca e puzzolente Tokyo delle
illusioni – si era seduta al suo fianco, sotto il tiepido kotatsu novembrino,
gli aveva accarezzato come mille altre volte i capelli e poi gliel’aveva detto:
‘D’accordo. Ma io resto qui.’
Due cuori legati dalla Burakuri Tei* si scioglievano a
Shibuya, assieme alla prima neve che imbiancava i lastricati di un precoce
inverno.
Forse non c’era neppure abbastanza spazio per l’Arcobaleno.
*Si tratta della via principale di Wakayama. |
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Capitolo 2 *** Sposa ***
I Dead End erano nati tra Nagoya e Osaka, ma avevano fatto
sognare anche Tokyo. La voce profonda e modulatissima di Morrie – capelli neri,
tenebroso, attraente – e gli arpeggi di quel loro chitarrista fenomenale – erano
gli Iron Maiden del Sol Levante? Non sembrava un confronto azzardato –
riecheggiavano nell’aria persino a tre anni dal loro scioglimento. Tetsuya
l’aveva accolto con l’incredulità addolorata del fanatico – li seguiva da
sempre, lui. Da quando erano indie e Ogawa un ragazzino delle medie
malato di musica – consolandosi forse quando aveva scoperto che Morrie non aveva
deposto il microfono, ma continuato da solo ad alimentare il proprio mito. La
verità era che tutti ascoltavano Morrie. Lo faceva Kiyoji Mori, prima ancora di
diventare Kiyoharu dei Kuroyume, altro simbolo sonoro e sessuale insieme. Lo
faceva un chitarrista talmente bello da sembrare davvero scendesse dalla Luna
che aveva rubato per il suo gruppo, quel Sugizo che avrebbero chiamato
Wolking Porn e identificato con un’icona quasi blasfema. Lo faceva una
piccola bambola dagli occhi grandi e dalla voce profonda, accoccolata in un
angolo della camera di Ogawa, a fissare nel vuoto ombre che solo il suo cuore
riusciva a leggere. Valeva davvero la pena di abbandonare tutto per un pugno di
illusioni? Non ne era del tutto convinto. Per la prima volta, anzi, le parole di
suo padre somigliavano davvero a un oracolo cui prestare fede.
Il mondo là fuori faceva paura.
La solitudine, poi, era uno spettro ancora più doloroso.
“Ha detto che non gli interessa,” aveva scandito senza troppo
sentimento, in replica all’unica domanda si ponessero da tre giorni almeno e che
era stata pure il refrain con cui quel millenovecentonovantatre si era
inaugurato.
Un ritornello inevitabile, in fin dei conti, considerando che
Pero li avesse abbandonati proprio il trenta dicembre, dopo un live memorabile.
Perché?
Hideto lo conosceva da un arco di tempo sufficiente ad
alimentare dubbi amletici; era rimasto al suo fianco quando il gruppo sguazzava
in una pozza di pochi centimetri e lo abbandonava ora che erano a un passo dalla
registrazione di un album vero.
Indie, d’accordo, ma dieci tracce autentiche.
Aveva tentato di lusingarlo e blandirlo e allettarlo con
promesse che sapeva per primo quanto suonassero inverosimili, ma era stato
irremovibile: gli aveva battuto piano sulla spalla e forse detto la verità.
“Non ho niente contro di te, Hideto. Sei fantastico e sono
sicuro che diventerai qualcuno. Ma non chiedermi di sopportare il tuo Tetchan.
Quelli come Ogawa non mi piacciono. Non voglio trasformarmi in un ingranaggio
alle sue dipendenze.”
Hideto non aveva capito. Si era detto fosse probabilmente
troppo stupido o troppo egoista per indossare i panni di un altro, ma non
avrebbe mai potuto lamentarsi di Tetsuya, persino quando lo costringeva a fumare
in veranda. Ogawa lavorava per tutti e risolveva ogni problema.
Quando erano stati sull’orlo del baratro per il lancio del
primo singolo non aveva dormito per settimane, ma se l’era cavata da solo,
rendendo nota la situazione solo quando il futuro era già sgombro di nubi. Era
quello che aveva sempre desiderato, in fondo, eppure c’era chi non la pensava
allo stesso modo.
Ken aveva tratto un profondo sospiro e aveva portato lo
sguardo su Tetsuya, che strimpellava il proprio basso seduto in terra, i capelli
troppo lunghi raccolti alla base della nuca.
“Siamo nella merda un’altra volta, Tetchan. Non sarà che il
tuo nome del cazzo porta pure sfiga?”
Hideto non aveva detto nulla, chiuso nel disagio sordo di una
responsabilità inesistente, eppure pienamente avvertita. Pero era una cellula
del suo passato e si era ribellata. Aveva avuto l’opportunità di rendersi utile
in qualche modo, ma non c’era riuscito. I sogni per cui aveva sacrificato il suo
cuore erano in agonia e neppure riusciva ad avvertire il minimo coinvolgimento.
Peggio, era quasi felice di possedere una scusa per tornare da lei,
tornare al sicuro in una quotidianità senza trucco e senza luci.
Tetsuya aveva fatto il gesto di lanciare il basso a Kitamura,
prima di squadrarli in silenzio e tirar fuori l’ennesima soluzione.
Hideto a volte pensava che a Ogawa avrebbe donato un
cilindro, perché come un mago materializzava dal nulla la risposta a tutto.
“Quando sono stato a Tokyo l’ultima volta, ho incontrato un
tipo molto interessante. Un batterista davvero bravo.”
Ken aveva fatto per accendersi una sigaretta, salvo riporla
sotto lo sguardo carico d’odio del bassista.
“Sarebbe?”
“Sakurazawa. Yasunori Sakurazawa.”
“Mai sentito,” aveva commentato Ken.
“Perché sei ignorante. O distratto. O stupido. Ha già inciso,
s’è per questo. E ha lavorato con i Dead End.”
Tetsuya aveva un modo tutto suo di catturare l’attenzione:
poche frasi. Secche. All’improvviso un sorriso strano, a tratti freddo, degno di
chi possiede una verità essenziale e ha poca voglia di dividerla con gli
stupidi.
“E ha la nostra età,” aveva aggiunto dopo una piccola pausa,
fissandoli poi come per valutare l’effetto.
Ken aveva esclamato un ‘cazzo’ molto partecipe. Hideto
aveva sollevato lo sguardo e mormorato distratto: “D’accordo. Ma a noi cosa
importa?”
Ogawa lo detestava in momenti come quelli, lo sapeva. Odiava
la sua vacuità improvvisa, l’apatia pigra e indifferente che lo attraversava a
tratti. Non l’aveva ancora mai visto perdere davvero la pazienza, però, forse
perché i suoi sogni gli rubavano una quota di energie ben più significativa.
“Gli ho già inviato le nostre demo, e l’ho invitato a provare
con noi. Mi è sembrato piuttosto incuriosito. Potrebbe diventare il nostro nuovo
batterista.”
Ken era esploso in un urletto felice e aveva lanciato a
Tetsuya un bacio di apprezzamento autentico. Hideto era rimasto immobile, con
gli occhi sgranati, sospeso tra sollievo e desolazione. Non c’erano più scuse
valide per smettere: per l’ennesima volta esisteva qualcosa che decideva al suo
posto, una rete che lo avviluppava e lo trascinava in un sogno che non aveva
elaborato, senza che potesse opporsi o tradurvi le proprie illusioni.
“Ma è del Kanto?”
“E allora? Tanto è evidente che qui non possiamo restare.
Prima o poi dovremo trasferirci a Tokyo. Tanto vale cominciare dalle basi.”
“No!” aveva quasi gridato Hideto, alzandosi di scatto e
percependo come un’onda lontana il rinculo dell’imbarazzo.
No a cosa? Alla musica, al gruppo, a Tokyo? No
all’acquiescenza con cui aveva lasciato naufragare persino la storia d’amore
della sua vita? No alla scelta dolorosa e inevitabile di una crescita che
implicava anche scelte di campo?
Era il primo a non saper qualificare la propria ansia, ma a
esserne attraversato in onde successive di ansia e incredulità.
Se n’era andato senza dare spiegazioni, rifugiandosi in un
brutto blocco che ancora conservava l’odore di una vecchia felicità e l’impronta
fuggevole di un amore abortito.
“Hideto, noi siamo una squadra. E siamo appena all’inizio.
Possiamo diventare abbastanza importanti da dettare le regole, ma per cominciare
dobbiamo adattarci. Si tratta solo di stringere i denti per un po’. Possiamo
farlo. So che lo vuoi anche tu.”
Tetsuya era tornato a cercarlo; poche parole, almeno in
apparenza, gli erano state sufficienti per suturare la crepa con cui
l’insicurezza gli aveva leso il cuore. Poche parole, in fin dei conti, bastavano
sempre a comprarlo.
Aveva accettato di incontrare Sakurazawa. Aveva cantato al
meglio delle proprie capacità, forse godendo in fondo al cuore di quello sguardo
impenetrabile che si faceva via via più acuto e non lo abbandonava. Si era
sentito appagato e grato per l’abbraccio con cui tetsu l’aveva stretto poi,
sussurrandogli un ‘Ce l’abbiamo fatta’ che suonava più caldo di un
semplice ‘Grazie’. Poi, poco prima che salisse sullo Shinkansen per Tokyo
– un borsone con pochi abiti, perché in sala di registrazione era inutile
portare haido la bambola – lei si era fatta trovare sulla banchina della
stazione, con il suo bel sorriso e una candida sciarpa bianca.
Gliel’aveva avvolta attorno al viso con la tenerezza di
sempre, sussurrandogli qualcosa che l’aveva incoraggiato più degli yen di un
qualunque ingaggio. “Tokyo è fredda. Ma pensa che ti aspetto,” gli aveva detto.
L’aveva baciata tanto a lungo e con un trasporto così assoluto che aveva quasi
perso il treno.
Kitamura l’aveva agganciato al collo e trascinato dentro,
sogghignando per quell’espressione un po’ ebete e un po’ offesa con cui era
rimasto incollato al vetro, a cercare una mano e il filo rosso di un destino che
non voleva dimenticare.
Hideto non poteva fare a meno di pensare a quel giorno; alla
speranza che si era riaccesa all’improvviso solo per spegnersi altrettanto
repentinamente e fargli ancora più male. Gola spiegata in gorgheggi virtuosi,
ore e ore di prove, senza il minimo errore, solo stringendo nel cuore l’ansia di
riabbracciarla e raccontarle tutto: di quanto fredda davvero e sporca e
spaventosa fosse Tokyo, stronza e snob la gente che vi viveva, false le luci e
desolante la solitudine che ti stringeva sino a farti male.
Ma quando appena una settimana dopo era tornato a casa, il
niente era di nuovo ad aspettarlo, assieme a una lettera che era solo un addio.
‘Scusami se sono stata tanto vigliacca. Volevo dirtelo
quel giorno, ma non mi sembrava giusto per te. O forse avevo solo paura. Mi
sposo, con un ragazzo scelto dai miei genitori. Mi vuole bene e mi rispetta.
Forse non sono fatta per le stelle. Quelle le lascio a te.’
Le aveva spente tutte, invece, per accendergli dentro una
rabbia inumana, mutata in quella freddezza codarda con cui un cuore ferito si
chiude all’esterno e non dimentica.
Colmo d’odio, sì, e di risentimento purissimo: nei confronti
di tetsu che anelava solo a Tokyo, di Ken che non aveva legami e non aveva
incubi ed era tanto bravo a suonare e comporre che nessuno gli avrebbe mai
imposto di piazzarsi davanti a un microfono e dimenticare l’emozione di un riff.
Soprattutto ce l’aveva con quel Sakurazawa, alto, bravo, bello e figlio della
città maledetta che gli aveva tolto tutto, senza offrirgli in cambio altro che
quello stupido kawaii destinato a un haido che non era lui. Un haido
stupido e odioso come il suo riflesso di bambola nello specchio.
Aveva stretto tra le labbra la forcina, strattonando tra le
dita i capelli sempre più lunghi, tinti di un rosso chiaro, che conferiva
qualcosa di volpino al suo mantello d’ebano. Un giro e un altro giro, per
appuntare la prima ciocca. Poi seguiva un largo velo di chiffon bianco, intonato
all’abito e ai guanti. Li avrebbe infilati con cautela, ben attento aderissero e
non sfiorassero il viso imbiancato dalla cipria. haido nasceva lentamente contro
la superficie riflettente, bello di quel suo splendore ambiguo e corrotto, che
cozzava con il candore delle sue spoglie più superficiali.
Alla fine di quel rito che officiava solo avrebbe evitato
l’ultimo sguardo, per impedire a se stesso di identificarsi con la sposa troppo
bella che l’avrebbe irriso dall’altra parte. Una sposa ch’era lui e forse una
senpai che ne aveva ragioni ben più consistenti ed emozioni senz’altro più
pulite di quelle di un palco in cui chiunque sembrava attendere solo che
cambiasse sesso.
Ecco Tokyo: aveva rinunciato all’amore e ora anche al diritto
di essere un uomo.
Lungo il vestibolo che l’avrebbe condotto sul palco
dell’ennesimo club qualche sguardo obliquo lo raggiungeva sorpreso. Camminava a
testa bassa, intimidito, scontroso, muto. Persino tetsu l’aveva rimproverato per
quei silenzi esasperanti, le distrazioni studiate e le frecciate che stoccava a
Sakura, quasi facesse il possibile per provocarlo, o per definire un fossato che
lo isolasse da tutto, persino dai compagni di squadra. Gli aveva risposto con
distanza studiata, quasi sgarbata, come mai sino a quel momento. Gli aveva
chiesto di fare il leader e non lo psicologo, come faceva il cantante, non
l’amico.
Poi, quando srotolava il futon nei pochi metri quadri di un
alloggio temporaneo, contava le lacrime che cadevano in terra senza che nessuno
potesse raccoglierle, vederle o consolarle, come se fossero altrettanti
frammenti di identità e sicurezza e futuro che vedeva stemperarsi nel nulla.
Dune aveva sbancato. Il primo tour era andato tanto bene
che ne era stato finanziato subito un altro. Era stato costretto a trasferirsi
davvero: una vita in poche scatole e un brutto alloggio a poco prezzo, in una
città che continuava a inghiottirlo senza dargli nulla.
Nei corridoi della Danger Crue ora lo conoscevano tutti: era
haido. Un grande cantante. Una promessa mantenuta.
Oppure haido-la-sposa. haido-la-troia.
haido-davvero-minuscolo. haido-sarà-davvero-un-uomo.
Forse non sapevano neppure che si chiamava Hideto, che moriva
di nostalgia ogni giorno, che odiava quel viso così bello che chiunque avrebbe
desiderato baciare – non possedere, no. Non era piacevole somigliare ad una
donna. Un giorno – era ormai novembre e Tokyo si preparava a una di quelle
nevicate squallide con cui si annuncia l’inverno – aveva sfiorato
inavvertitamente un’ombra che sapeva di passato e di futuro insieme.
Morrie gli aveva regalato un sorriso enigmatico, quasi
animato da un riconoscimento del tutto consapevole, prima di oltrepassarlo e
curare le proprie registrazioni. Si era sentito ancora più fuori fuoco e mal
centrato in una cornice in cui sembrava il pezzo d’arredo sbagliato, infilato
con forza in un’armonia di forme che la sua stessa esistenza spezzava. Volava
sotto brutti faretti di luci dozzinali, ma la verità era fosse del tutto privo
di equilibrio. Del palco sposava la comoda menzogna di essere diverso, poi si
ritrovava sulle scale di un orrendo blocco a guardare il cielo plumbeo e a
chiedersi se stava davvero assecondando il destino, oppure tradendo la propria
felicità.
Non c’erano risposte; solo una routine fatta di incontri
casuali e contatti di comodo e lunghi silenzi. Era arrivato ad amare quasi gli
infernali ritmi di prova e registrazione, perché implicavano almeno vedesse
qualcosa di diverso da quattro pareti imbiancate e opache come le sue emozioni.
In modo intollerabile.
Dita lunghe avevano accarezzato il suo collo per qualche
istante, prima di ritrarsi dopo un suo gesto insofferente.
“Scusa?” aveva sibilato polemico. Sakura era indietreggiato
di un paio di passi, per quanto fosse evidente che non avesse ragioni per
sentirsi minacciato. Non si era mai lamentato con tetsu; al più era stato Ogawa
a fargli la morale, a chiedergli d’essere un po’ più gentile e collaborativo,
visto che essere compagni di squadra si risolveva in accenti più cordiali
dell’indiscutibile ostilità con cui guardava al batterista.
Per quale motivo, poi?
A quel punto Hideto scrollava sempre il capo e negava. Negava
sempre. Gli diceva che era una sua impressione. Che non tutti avevano la faccia
come il culo di sentirsi subito amichetti. Che aveva problemi ad arrivare alla
fine del mese, a non morire di fame.
E di solitudine, ma quello non l’avrebbe mai ammesso.
In ogni caso Sakura non aveva alcun diritto di toccarlo, né
di essere gentile, né di provare a fare amicizia. Tanto sapeva cosa pensasse di
lui: poteva leggerlo in quegli occhi troppo scuri, di un maschio maschio,
senz’altro sorpreso e ilare all’idea di accompagnare la sposa fino
all’uscita.
“La cerniera. È solo a metà,” aveva detto senza troppo
coinvolgimento. Hideto aveva fatto scorrere le dita lungo la propria schiena,
lasciando sfilare il cursore con violenza quasi rabbiosa.
“I vestiti da donna sono una bella seccatura,” aveva detto
Sakura con un mezzo sorriso.
“Tanto sono io a metterli, no?” aveva replicato con un tono
meno neutro di quello che gli sarebbe piaciuto. In fin dei conti non gli
interessava mantenere nulla, non la forma e neppure il minimo sindacabile che la
civiltà avrebbe richiesto.
Il successo era la sua umiliazione definitiva; la sua
maschera, in fin dei conti, il simulacro di una condanna già data.
L’ansia si era stemperata al primo attacco. Aveva seguito il
basso di tetsu con gli occhi chiusi, fingendo di ignorare i risolini offensivi
con cui stupide ragazzine credevano di omaggiare la sua essenza, negandola
piuttosto fin dalla radice. Il canto era doloroso come un orgasmo: un turbine di
sensazioni incoerenti, montate sull’onda trascinante di una passione combusta
nel suo zenit.
Hideto annegava nel liquido amniotico in cui haido cresceva
più forte e più crudele, fino a spegnere ogni sua sensazione. Fino a estinguersi
debolmente: neppure ridotto a pura voce.
Quella, in fin dei conti, era ancora haido.
A Hideto restava un cielo nero, di stelle spente e soluzioni
abortite: era la sposa delusa, candida e bella, che accendeva una cherokee sul
gradino di una brutta live-house, soffiando nella notte le ultime illusioni. |
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Capitolo 3 *** Conchiglia ***
Il primo a trasferirsi era stato Kitamura. Dal giorno in cui
l’aveva incontrato, Hideto si era detto che Ken avrebbe rappresentato il simbolo
di quel che non sarebbe mai stato, o non sarebbe riuscito a diventare: un uomo.
Era intelligente e colto, ma non te lo faceva mai pesare. Si concedeva di
giocare con il dialetto, perché non era mai a corto di argomenti di
conversazione. Era alto, era brillante, era pieno di fidanzate e di amici.
Soprattutto, poi, suonava la chitarra come Hideto non sarebbe mai riuscito a
fare. Suonava con il cervello, con il cuore, con il pube: era un concentrato di
energia e suggestioni. Era un compositore come non ne aveva mai trovati. Restava
ad ascoltarlo a bocca aperta, come uno stupido. Quello che era, in fondo.
Da quando i L’Arc~en~ciel si erano costituiti, l’insegna di
un’eccellenza in cui avrebbe dovuto credere gli si era ritorta contro: Hideto
pensava più che mai di non valere niente. Non aveva l’energia, il pragmatismo e
la faccia come il culo con cui Ogawa stabiliva relazioni e contatti. Non aveva
il talento di Kitamura, che giocava con le note come faceva con qualunque gatto
avesse incontrato per strada. Non il carisma di Sakurazawa, che si faceva vedere
e si faceva sentire persino da dietro l’impalcatura dei piatti.
Era haido, d’accordo, ma quando grattavano via il trucco,
cosa restava?
Ken se n’era andato da Osaka quasi subito. Non aveva mai
parlato di quel che era accaduto dopo che aveva comunicato ai suoi la decisione
di abbandonare gli studi. Aveva liquidato la questione con qualche battuta e
imbracciato la chitarra. In privato, poi, Tetsuya gli aveva detto che l’avevano
buttato fuori di casa. Hideto, che già lo vedeva come un eroe, aveva annuito
attonito e pure incredulo: per quanto lontano potessero andare le sue ambizioni
era evidente che mai si sarebbero spinte sino allo scardinamento del rispetto
parentale.
A Kitamura non sembrava importare; un bel giorno li aveva
salutati alla stazione di Osaka, gli aveva pizzicato una guancia e detto:
“D’accordo, vado in esplorazione, trovo un buco per tutti e tre e poi ci si
vede! Non fate cose zozze mentre non ci sono, perché me ne accorgo!”
Era la fine di agosto. La fine dell’agosto del
millenovecentonovantatre. Nei mesi precedenti non avevano fatto altro che
scorrazzare dal Kansai al Kanto, cantando ovunque. Più della metà di quello che
avevano guadagnato se n’era andata per il furgone che avevano ribattezzato L’ar~car.
In un impeto di euforia aveva pure proposto di dipingere un arcobaleno sulla
fiancata, finché Sakura e Ken non l’avevano fatto sentire stupido per l’ennesima
volta.
“Sembreremmo un’allegra comitiva di froci. Manca solo questo,
davvero!”
Solo tetsu, battendogli gentilmente sulla spalla, gli aveva
detto di non farci caso. Erano un porco e un gorilla, che non capivano nulla
della sua poesia. Si era sentito un po’ meglio, ma ancora il pezzo spaiato di
una collezione sbilenca. Non c’era modo d’inserirsi senza sbagliare almeno una
volta. Era la sua maledizione, forse.
Ken, in ogni caso, se n’era andato. Sentiva la sua mancanza,
in un certo senso. Si chiedeva come sarebbe stato poi: poteva tollerare Tokyo
per qualche giorno, non per una vita intera. Infine, una sera, gli era arrivata
la telefonata di Kitamura. Aveva trovato tre alloggi in una weekly mansion non
troppo lontana dal centro. Non erano granché, ma con un po’ di buona volontà
– e tenendo conto di quanto basso fosse l’affitto – potevano accontentarsi.
Si aspettava di vederlo presto.
tetsu, invece, aveva ancora conti da regolare a Osaka. Li
avrebbe raggiunti poi.
“Non ti preoccupare, Hideto. Tokyo è uno spasso,” gli aveva
detto con l’aria di chi non mente. Hideto, però, sapeva che la situazione era
più complessa di come la si poteva leggere sulle superfici.
Non era Kitamura: tutto qui.
Del resto, poi, in quelle settimane ch’erano rimasti lontani,
Ken e Sakura si erano legati ancora di più. Birre e donne e uscite e battute. Si
intendevano alla perfezione; non aveva neppure provato a infilarsi nel mezzo.
Si arricciava nel futon, ascoltava un po’ di musica,
disegnava o chiudeva gli occhi, chiedendosi come fare a essere felice, se la
situazione lo imponeva e il suo cuore stentava a rendersene conto. Poi, una
notte, aveva sognato lei: non come l’aveva conosciuta, ma com’era
diventata.
Un’ombra sfocata, desolata, dolorosa. Una macchia che fissava
senza riuscire a decifrarne la forma, come se i suoi occhi fossero appannati da
una maledetta cataratta. Non aveva carta a portata di mano, così aveva
cominciato a scrivere sulla superficie di formica del kotatsu.
Blurry Eyes.
Impressioni e frammenti estemporanei. Ricordi e ansie
galleggianti, destinate a espandersi come un tumore dalla superficie al suo
cuore.
Blurry Eyes.
Per la prima volta si era sentito un po’ meglio: fissato in
quelle parole che gridavano dentro e si perdevano nello sguardo senza sguardo
con cui fissava il tramonto troppo rosso di una città estranea.
I giorni, le settimane, i mesi si erano succeduti con una
rapidità spaventosa, dandogli l’impressione d’invecchiare e avvizzire senza
essere neppure riuscito ad esistere nel frattempo. Si svegliava, a tratti, con
il cuore che batteva all’impazzata, schiacciato da ansie opprimenti e senza
nome. Accendeva una cherokee, accoccolato a terra davanti a una brutta finestra,
pieno di immagini e suggestioni improvvise, che non sapeva neppure più se
uscissero dalla follia della solitudine o da una metamorfosi imminente. Avrebbe
voluto scambiare due parole con haido, ma quella troia snob gli ricordava solo
di radersi bene, perché la pelle del suo viso doveva essere liscia e compatta,
al fine di accogliere al meglio la cipria con cui avrebbe dato l’ennesimo colpo
di spugna alla sua identità.
Settimane di assenze emotive e sorrisi falsi e pose e
atteggiamenti studiati. Non poteva dire non fosse divertente, ma un’ora di
gloria erano ventitré rintocchi di un pendolo morto. Scendere dal palco voleva
dire tornare in un brutto camerino, fare mattina in uno studio, cadere dal
sonno, ma non poter smettere. Senza tregua. Non voleva sentirsi una palla al
piede, ma era umiliante realizzare di non saper tenere il passo degli altri.
Ken era inesauribile. Sakura e tetsu, a volte, non dormivano
affatto. Solo Hideto finiva con il cercare un angolino in cui sonnecchiare un
po’, senza che gli altri se ne accorgessero, ma capitava sempre e ne rideva
tutta la Danger Crue.
In quella notte plumbea di dicembre una cherokee si era
consumata ancora una volta tra le dita di una sposa delusa, intenta a rovistare
nello scrigno dei ricordi alla ricerca di un segno o di un’identità che potesse
salvarla dal buio desolato del silenzio. L’unico rumore avvertisse nettamente,
per contro, era ancora una volta il battito irregolare del suo cuore, nel
silenzio di una notte che moriva con le ultime luci del Penny Lane.
Aveva schiacciato la cicca quasi con rabbia, prima di
sollevarsi di nuovo e decidere fosse meglio svegliare Hideto, che mettesse a
letto haido e approfittasse della notte per respirare.
Alla fine del dicembre del novantatre erano già tre o quattro
le majors che avevano proposto il proprio appoggio al lancio definitivo
dell’Iride. Tetsuya ne parlava con il suo entusiasmo dirigenziale, ma Hideto
faticava a stargli dietro: era felice della soddisfazione di Ogawa, perché si
diceva ch’era in fondo anche un po’ merito suo, ma non aveva ben chiaro quel che
sarebbe accaduto. Sicuramente avrebbero avuto più soldi, più impegni,
registrazioni vere e persino un appoggio di keyboard, ma si rendeva conto di non
essere nato con quel piglio che aveva fatto di tetsu il leader; sembrava,
piuttosto, sempre l’Alice di turno nello specchio sbagliato.
Dicevano ch’era parte integrante del suo fascino, perché
nessuno, in fin dei conti, si ricordava fosse un ragazzo e il quarto di secolo
si appressasse.
La sensazione più vicina a una specie di consapevolezza era
stata la leggera punturina che l’aveva staffilato com’era parso evidente che la
macchina della grande produzione si era già avviata, stringendogli attorno al
collo il suo guinzaglio: non c’erano pause, né vacanze, né la speranza di
lasciarsi Tokyo alle spalle. C’era da preparare il debutto, lo stile, l’aura di
un gruppo fatto per scalzare dal cielo dell’Oricon chiunque avesse solo provato
a opporsi all’Arcobaleno.
Hideto aveva formulato un sì stentato, poi si era
sforzato di non piangere al telefono, quando suo padre l’aveva chiamato per
dirgli che non vedevano l’ora di riabbracciarlo per la pausa invernale.
Perché c’erano le vacanze, vero? No. Non c’erano
vacanze. Non c’era tregua. Restavano seicento chilometri e l’ombra dolorosa del
rimpianto e dell’assenza.
Aveva stretto i denti e finto la sicurezza che non possedeva.
Si era detto che se avesse piagnucolato, in fin dei conti, avrebbe dato ragione
a quelle perplessità con cui l’avevano sempre guardato, solo perché la natura si
era divertita a tirargli lo scherzo infame di una voce illimitata in una piccola
conchiglia. Doveva vincere l’ossessione di quella maschera, o non sarebbe mai
stato libero. Poi, quando un bel giorno sarebbe definitivamente crollato,
arrendendosi all’invincibilità del parassita, avrebbe ripensato a quei giorni in
cui si sentiva ancora così piccolo e così fragile, eppure non aveva ancora
rinunciato a lottare.
Il Natale di Tokyo era un tappeto di luci ipocrite e
abbaglianti; si poteva anzi dire tanto più ipocrite quanto più si divertivano a
negare ostinatamente il buio. Sembrava quasi che ci fosse un terrore
parossistico e latente per tutto quel che importava il vuoto; era una città che
costruiva rubando spazio al cielo persino dove non v’era che un fazzolettino di
terra buono al più per la cuccia di un cane.
Tetsuya adorava i grattacieli; erano il simbolo del successo,
diceva, perché chi poteva permettersi di vivere sulla testa degli altri era
qualcuno che aveva già raggiunto il suo Paradiso.
tetsu era pieno di immagini concrete, a volte quasi grette,
ma era un vero uomo e non si faceva distrarre dai sentimentalismi. Non gli
importava non tornare a casa, era sicuro che la sua famiglia avrebbe capito e
avrebbe anzi apprezzato l’energia con cui permetteva ai suoi sogni di
realizzarsi.
Hideto avrebbe voluto dirsi altrettanto, perché in fin dei
conti anche i suoi non gli avevano mai fatto mancare appoggio, ma avrebbe
preferito averli e sentirli vicini. Quello era l’unico successo potesse
interessargli.
Aveva raccolto i pochi effetti personali nella borsa da cui
non si separava mai e che insieme a quel suo aspetto così indifeso aumentava a
dismisura l’equivoco sessuale – ma non l’aveva mai realizzato.
Qualche fermata della metropolitana e avrebbe raggiunto il
centro, si sarebbe confuso con la folla di Shibuya, inventandosi un’identità per
una notte e fingendo di dimenticare altrettanti momenti in cui lei, con il suo
viso largo e il suo sorriso, l’aveva abbracciato, traendo dal nulla un regalo
semplice, eppure bellissimo. Aveva indugiato per qualche momento sulla balconata
esterna, sospeso tra il desiderio di coltivare la propria solitudine e quella di
bussare a una porta amica, fosse solo per capire se c’erano ancora sentimenti da
difendere o a cui donarsi senza schermi. Aveva vinto la vigliaccheria per
l’ennesima volta; si era tratto la sua sciarpa bianca sul viso sino a coprirne
una buona metà. A testa bassa, mani in tasca, verso la solitudine affollata di
un’anonima stazione.
Hideto non era effeminato. Lo sarebbe diventato a breve in
modo persino grottesco, sulla scolta degli incentivi della produzione, della
pressione dello showbiz, di quella stupida troia di haido e persino della sua
debolezza, incapace di porre un freno al meccanismo che l’avrebbe stritolato, ma
non lo era allora. Aveva fatto il cameriere, il commesso, scaricava casse di
birra per l’Apple: era più forte di Ken e tetsu messi insieme. Forse solo Sakura
avrebbe potuto dargli del filo da torcere – perché era un judoka, beninteso, non
perché sembrava più maschio di lui. La lacerazione tra la verità e la sua
maschera era totale e stridente in modo grottesco e lo autorizzava a ignoranze
di comodo. Nessun ragazzo di quasi venticinque anni, del resto, avrebbe tratto
lustro dal sembrare una ragazzina di dodici, bellissima, senz’altro, ma falsa in
ogni sua piccola cellula. haido era al contempo un’impostura e un atto di
volontà: non poteva rendere verisimile l’inganno fino a farsi crescere il seno,
ma a nessuno sembrava importare.
Si era fatto una permanente leggera, su suggerimento della
produzione – sarebbero arrivati anche boccoli ben più consistenti e acconciature
quasi classiche, ma all’epoca non erano che piccole onde su un manto che virava
a un rosso cupo, volpino. Contro il candore della sciarpa e del cappotto erano
piccoli bioccoli eleganti, che davano al tatto l’impressione di una morbidezza
estrema. Era diventato più schivo, però: Hideto non era più il primo ad
abbracciare o a farsi abbracciare; ci pensava haido e solo sul palco, altrimenti
chiunque si sarebbe sentito autorizzato a pensar male di lui.
Parlavano già abbastanza, in fin dei conti, da quando
Kiyoharu l’aveva baciato davanti a tutti, con la lingua. Faticava ad ammettere
con se stesso fosse stato uno dei suoi baci migliori, ma l’imbarazzo e un po’ di
schifo non si erano stemperati comunque.
Somigliare a una donna non implicava affatto esserlo: Hideto
rifletteva su quest’inevitabile verità a capo chino, lasciando che la memoria lo
riportasse ai tempi della Matsue, quando un Tetchan che non era Ogawa lo
sbeffeggiava davanti a tutti, perché si permetteva un amore innocente per una
bambina che non era femminile un decimo di quanto non lo fosse il suo riflesso
nello specchio.
Le maledizioni ti colpiscono alla nascita e puoi esorcizzarle
solo morendo, aveva pensato quando era diventato abbastanza adulto da
verbalizzare le proprie impressioni: una ferita che non si sarebbe più
rimarginata e gli avrebbe lasciato dentro l’ombra di un’ossessione sinistra per
la falce che, sola, avrebbe potuto liberarlo.
La folla sciamava ai suoi fianchi. Impiegati nei loro tristi
completi e office-ladies dalle pettinature austere si confondevano con le belle
ragazze di Shibuya, con le loro divise prestigiose e le gambe lunghe di chi già
immagina di arrivare lontano. Schermi al plasma trasmettevano senza soluzione di
continuità CM e idols, mentre dal cielo, lenta e inesorabile come una promessa
esaudita, la neve scendeva con la sua quieta maestà. Aveva teso la mano e ne
aveva raccolto qualche fiocco, pensando somigliassero alle illusioni, e come le
illusioni di spegnevano in un nulla.
Si era incamminato in direzione della Yamanote quando
qualcuno l’aveva strattonato per un lembo della sciarpa. Si era irrigidito
immediatamente e aveva impresso più decisione al suo passo, trattenendo il
fiato. Non era la prima volta capitasse qualcosa del genere, e in ogni occasione
frenare la rabbia irragionevole del momento era tanto doloroso da straziare.
“Ehi, bella! Vogliamo solo farti compagnia.”
Hideto non era bello e desiderava non essere solo, ma aveva
la sua dignità e un’identità oltre la maschera che non voleva rinunciare a
esistere. Un’identità squallida e umile, forse, ma tutto quello che era dal
giorno in cui era nato, piacesse o meno a chi aveva rovinato tutto con la
pellicola scadente di un film per esaltati.
Aveva cominciato a correre in direzione della metropolitana,
con il fiato corto e una paura strana, che nasceva più dai suoi incubi che dalla
situazione. Avrebbe potuto replicare – con il suo timbro più basso e profondo –
che non gli interessavano i pervertiti, ma quella soluzione avrebbe forse solo
peggiorato le cose; le avrebbe trasformate nell’incubo dei giorni infantili in
cui qualcuno cercava di abbassargli i pantaloncini, per capire la sostanza del
suo sesso.
Aveva venticinque anni e non era mai stato bravo a fugare le
ombre della coscienza; al dunque aveva sempre cercato una via di fuga, una porta
concreta o metaforica da spalancare e poco importava si aprisse sull’abisso.
Meglio cadere, che soffrire. Meglio persino morire. Forse.
“Che stronza,” aveva detto uno dei suoi inseguitori,
stringendo con violenza un lembo della sua sciarpa bianca, ultimo brandello di
una mezza felicità. Si era volto per qualche istante, nel tentativo disperato di
riafferrarla, ma le sue dita si erano chiuse sul niente, mentre la terra mancava
da sotto i suoi piedi.
Yasunori Sakurazawa non aveva mai avuto problemi a
relazionarsi con chiunque. Hidetaka, che a tratti gli faceva più da padre che
non da fratello, dall’alto dei dieci anni che lo separavano, ne faceva un
pretesto per rimproverarlo con una certa veemenza. Persino Yuki se ne lamentava
– Yuki che era maggiore solo di un anno, ma amava quel ruolo di vice-madre che
aveva sempre vestito con grande trasporto – ricordandogli che a dare corda a
chiunque si finiva impiccati. Ma Yasunori – Yacchan come lo chiamavano gli
amici, o Sakura, com’era noto da quando era davvero un poppante, eppure già
dominava la scena underground di Tokyo – sorrideva e scrollava il capo: era un
animale sociale, un panda compagnone che si donava agli altri e ne veniva
ricambiato; non c’era nulla che gli sembrasse scorretto fino al punto da suonare
deprecabile.
Se proprio doveva lamentare qualcosa, a dirla tutta, quello
era la manifesta sconfitta sul fronte haido: era evidente che non gli piacesse
per niente, ma ancora non era venuto a capo del problema.
Tetsuya era stato un mediatore gentile, ma non del tutto
convincente. Hideto era timido, d’accordo, ma da lì a fare scena muta come se lo
ritrovava davanti, dopo mesi che suonavano insieme, ce ne correva abbastanza per
preoccuparsene. Aveva lavorato con chiunque, aveva mediato tra le richieste dei
tipi più strani, alcuni abbastanza famosi da permettersi pure di essere stronzi
impuniti come tutti quelli troppo vicini al cielo per ricordarsi di chi
calpestava la terra. Eppure non gli era mai capitato di trovarsi davanti un muro
di cemento armato – posto pure che doveva piegarsi a squadra per essere fissato
con autentico odio. Ogawa gli aveva suggerito di non forzare i suoi tempi,
perché Takarai era un cocco di casa, un pulcino coccolone e guai a chiedergli di
fare l’uomo della situazione. Sakura non era del tutto convinto la ragione fosse
quella: c’era qualcosa che gli correva sotto la pelle – un brivido, un’idea, una
specie di violenza latente – che gli suggeriva tutt’altro.
E poi aveva talento, quello vero; quello che non ti inventi
per fortuna o su due piedi, ma con cui nasci, e non importa se hai un accento
del sud che rende greve la parlata e quasi buffo ritrovarla in un cosino così.
Quando saliva sul palco era l’epifania di un sogno che li
coinvolgeva tutti.
Quel Natale del millenovecentonovantatre Yasunori aveva
trascorso una buona metà del pomeriggio a trastullarsi con Kitamura, bevendo
birra, parlando di donne e di musica come avrebbe fatto qualunque coetaneo in un
giorno noioso di vacanza e lavoro insieme. Ne era uscito a notte inoltrata,
fidando sull’indipendenza che gli nasceva da una moto appariscente e costosa,
non dall’alea di una metropolitana da sfigati.
Stava fumando la prima seven star della sera, quando si era
accorto di Hideto. Camminava come al solito a testa bassa, neppure volesse
sembrare più piccolo di quello che era. Non aveva la sua solita sciarpa bianca,
però, e a guardarlo bene zoppicava vistosamente, mentre arrancava per la
ringhiera del blocco. Gli era andato incontro con indifferenza studiata,
tentando per l’ennesima volta di dare l’impressione di quello amichevole,
gentile, affidabile, per quanto certi vezzi da bambino piccolo e viziato di
Takarai gli suggerissero atteggiamenti assai meno concilianti.
Hideto gli aveva regalato un grugnito stentato,
oltrepassandolo e movendosi in direzione del proprio appartamento. Aveva fatto
spallucce, proseguendo a propria volta nella direzione opposta e rassegnandosi a
un Natale privo di miracoli e sostanziato su quelle che sembravano certezze già
date: il vocalist non poteva vederlo.
Per fortuna, a dirla tutta, che la batteria era ben lontana
dal fronte del palco!
Era quasi arrivato alla propria moto, quando aveva sentito un
rumore sordo, come di colpi ripetuti, affondati con rabbia mal trattenuta,
oppure esplosa all’improvviso, con energia insopportabile. Spinto dalla
curiosità aveva ripercorso le scale che aveva appena disceso, fermandosi in un
punto imprevedibile – e al contempo scontato – dello spazio.
“Scommetto che hai perso le chiavi. Hai provato con la parola
magica, prima di prenderla a calci?” aveva detto per celia.
Hideto, per contro, era scivolato in ginocchio davanti a
quella porta chiusa e aveva cominciato a piangere con una disperazione tale da
spezzarti il cuore.
“Ehi!” gli aveva detto pieno d’imbarazzo, piegandosi su di
lui, senza avere però davvero il coraggio di toccarlo, per quella specie di
persistente rifiuto che aveva sempre percepito in lui. Infine, nondimeno, si era
detto ch’era inutile pensare dove solo il cuore aveva il diritto di dire la sua.
Hideto, in ogni caso, non aveva fatto nulla, solo mormorato,
con una tenuità indifesa e carica di dolore insieme: “Quanto odio questo cazzo
di posto.”
“Lo so. È per questo che ci siamo noi,” aveva replicato,
prima di chiudersi su di lui. Come una conchiglia.
“Non ti preoccupare. Domani mattina andrò a fare la denuncia.
Non è successo nulla di irreparabile.”
Hideto aveva pensato che la voce di Tetsuya non gli era parsa
mai tanto consolante, come la stretta di quelle braccia e la delicatezza con cui
quelle dita scivolavano piano tra i suoi capelli, in una carezza leggera. Aveva
medicato con cautela le abrasioni che si era procurato cadendo dalle scale della
metropolitana, circondato solo dagli schiamazzi degli stronzi che l’avevano
perseguitato e dall’indifferenza di una città troppo ordinata e troppo ordinaria
per uno come lui. Gli aveva chiesto persino scusa, visto che continuava a
piangere quasi lo stesse scorticando vivo e non bendando una parte delle ferite
che la lama della solitudine gli aveva inciso dentro fino a sfigurare il cuore.
Forse aveva pianto tutta la notte, arrotolato in un futon che Ken aveva steso
per lui proprio vicino al kotatsu – e dunque era caldo e tiepido come quella
prova gratuita d’amicizia – svegliandosi con lo stupore intorpidito di chi ha
dormito abbastanza per svegliarsi in un altro tempo.
Forse era davvero così, in fin dei conti, perché per la prima
volta si era sentito ancora in grado di respirare davvero e non per una specie
di brutto riflesso condizionato. Aveva battuto più volte le palpebre, per
mettere a fuoco la scena. Nella sua direzione si era mossa una macchia nera
dalla fisionomia inequivocabile.
Yasunori aveva un bel sorriso, mentre gli porgeva un’enorme
tazza di caffè: un sorriso che non aveva nulla di minaccioso, o derisorio,
neppure per quel suo aspetto che doveva suonare tanto malmesso da essere
ridicolo, con quei capelli da bambola sciolti lungo le spalle ossute, piccole
colline appuntite oltre una t-shirt troppo grande per lui. O il viso un po’
livido come le sue braccia, oltre qualche cerotto di fortuna.
“Forse preferivi tetsu, ma Ogawa ha deciso di terrorizzare la
polizia di Tokyo finché non verrà fatta giustizia. Ken, invece, è andato a
cercare qualcosa per colazione. Così… Insomma… Sono rimasto solo io.”
Hideto aveva abbassato lo sguardo. “Sono contento,” aveva
mormorato imbarazzato, prima che il batterista gli si inginocchiasse davanti e
gli sollevasse il mento.
“Fammi guardare Hideto, una volta tanto. È molto più carino
di haido,” gli aveva detto con tenerezza non simulata.
Aveva abbassato di nuovo il viso, arrossendo in modo
ignominioso e al contempo percependo con nettezza quella verità che
l’insicurezza e l’ansia dolorosa di quei mesi gli aveva mangiato.
Le emozioni non erano morte, doveva solo cercarle scollando i
bordi di una maschera di comodo, ch’era al contempo emblema di vincita o
rinuncia; un dado che solo il banco poteva trarre, agli inizi di una partita
dagli esiti imprevedibili. |
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