In Punta di Piedi

di RossaPrimavera
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Pezzi di vetro sparsi sul nostro cammino ***
Capitolo 2: *** Haunted ***
Capitolo 3: *** Amazed by You ***
Capitolo 4: *** Amando, Credendo, Tradendo, Perdendo ***
Capitolo 5: *** Do you, remember me? ***
Capitolo 6: *** A Window to the Past and Future ***



Capitolo 1
*** Pezzi di vetro sparsi sul nostro cammino ***


In Punta di Piedi

di Elle H.


PREFAZIONE

 (Il sole sulla tenuta degli Allworthy; la piccola Celeste dai capelli rosso fiamma)

 

“La fiamma rossa  è il mattino.
La viola, il mezzogiorno.
Il giallo, il tramonto
e dopo è il nulla.

Ma a sera infinite scintille
rivelano la vastità bruciata,
il territorio d'argento
non ancora distrutto.”

-          Emily Dickinson - 

 

 

La mattina primaverile apparve luminosa, un caldo tepore che si faceva strada ad alta velocità nell’aria.

La boscaglia verdeggiante vicino alla tenuta degli Allworthy era ricolma dei versi degli animali che si risvegliano progressivamente dal letargo.

Il verso dell’urogallo maschio, in cerca di una compagna, risuonò forte e limpido.

“Padre, padre! Lo riusciremo a prendere?”

“Padre, Andy non vuole ricaricarmi il moschetto quando sparerò!”

“Tanto tu non c’è la farai mai a prenderlo, stupido!”

“Andrew, non insultare tuo fratello. E adesso fate silenzio: con il vostro chiasso, sicuramente non prenderemo un bel niente”.

La voce autoritaria e spazientita di un padre interruppe il bisticcio dei due fratellini.

L’uomo fece loro un cenno,e  tutti e tre si sdraiarono, pancia a terra; incuranti del fango che macchiava i loro abiti, avanzarono strisciando sul terreno.

Appostati dietro un masso, imbracciarono i moschetti non appena il gorgheggiare dell’urogallo riempì la radura.

“Per l’ennesima volta, cosa vi ho detto riguardo allo sparare?” domandò a bassa voce, gli occhi puntati sull’animale.

“Mira bene, sbaglia poco” snocciolarono prontamente i due.

“Esattamente. Quindi, sparate solo se dopo il mio sparo, non l’avrò pres … “

Il padre non fece neppure in tempo a concludere la frase.

Non appena l’urogallo si mosse, Daniel, il minore, gli sparò accidentalmente.

Il colpo si perse nel folto del bosco, e l’uccello spiccò il suo basso volo, atterrando su un ramo più alto, e continuando a gorgheggiare  imperterrito, come a volersi burlare di loro.

“Dan sei un idiota! Ci hai appena fatto scappare il pranzo!” urlò Andrew, tirando una pacca al fratello.

Il padre non redarguì il figlio, limitandosi ad alzare gli occhi al cielo, esasperato.

“Padre come facciamo a riprenderlo? E’ pure contro sole!” chiese il figlio maggiore, spazientito,  mentre Dan, sentendosi in colpa, si faceva piccolo piccolo al suo fianco.

Mentre tutti e tre fissavano l’animale, schermandosi la vista con la mano, risuonò uno sparo alle loro spalle.

L’urogallo cadde al centro della radura, stramazzando al suolo con un tonfo sonoro.

I tre guardarono per un istante il corpo del pennuto, poi si voltarono stupiti.

“Ma non è giusto! Padre, l’ha fatto di nuovo!” si lamentò Andrew, pestando i piedi dall’insoddisfazione, indicando la bambina che indossava abiti maschili. I suoi abiti, per l’esattezza.

“Celeste: sei una forza!” urlò invece Dan, lanciandosi nella radura tutto contento, raccogliendo il trofeo.

Il padre guardò la bambina, le mani sui fianchi, l’espressione del viso incerta se porsi sull’arrabbiato o sul sorridente.

La figlioletta se ne accorse, e con un sorriso furbo gli corse incontro. Gli porse la piccola rivoltella e gli tese le braccia minute per essere presa in braccio.

“Celeste, quante volte tua madre ti ha detto che non ti devi mettere gli abiti dei tuoi fratelli?” le domandò, mentre, poco dopo, in fila indiana si dirigevano verso casa.

“Tante padre … ma non posso sopportare gli abiti da femmina” rispose prontamente la piccola.

“Non ti piacciono gli abiti come quelli della mamma?”

“Sì padre, mi piacciono tanto! Ma non riesco a correre se li indosso, mi si impigliano ovunque, e non mi va di andare in giro nuda” concluse seria la piccola.

L’uomo decise di sorvolare sull’argomento vestiario.

“E io cosa ti ho detto invece?”

Celeste chinò la testolina, i capelli rossi che le nascondevano il viso come una tenda

“Di non toccare le armi, perché potrei farmi male, e che sono molto, molto, molto pericolose” ripeté a memoria, lasciando che un tono annoiato influenzasse le parole.

Il padre si lasciò sfuggire un sorriso.

“Brava tesoro. Non voglio che la mia piccolina si faccia del male, chiaro?” chiese, solleticandole una guancia morbida con un bacio.

“Chiaro, padre …” rispose Celeste, stringendosi a lui.

In prossimità alla loro abitazione, i due fratelli si lanciarono in una corsa, le gambe ancora infantili, veloci e scattanti.

“Chi arriva per primo prende la coscia più grande!” urlò Andrew, sfidando sia il fratello che la sorella.

Quest’ultima, ridendo, sgusciò dalla presa del padre e iniziò a correre a sua volta.

Tempo pochi minuti, e la bambina era già in testa, la corta zazzera di capelli rossi che si muoveva alle sue spalle come una fiamma.

Conrad Allworthy si concesse finalmente un sorriso spontaneo e gioioso: in presenza dei figli soleva essere autoritario e severo, concedendo solo un poco della sua tenerezza all’unica figlia; ma amava profondamente ognuna di quelle piccole pesti, che tanto assomigliavano a lui e a sua moglie, sia fisicamente che in ognuno dei loro pregi e difetti.

Dal testardo e saccente Andrew, alla curiosa e furba Celeste, all’ espansivo e gentile Daniel, ognuno di loro rappresentavano, insieme alla loro terra fertile, a quella casa dignitosa e il loro tenore di  vita, i frutti dei tanti sforzi che aveva compiuto in gioventù.

La vista della moglie sulla porta di casa, poco distante ormai, ampliò, se  possibile, il suo sorriso.

Martine Gabrielle rimproverava Celeste, infine arrivata per prima, per essere uscita di casa senza il suo permesso, e soprattutto, per gli abiti sconvenienti.

Ma entrambi i genitori erano al corrente della singolarità della bambina: astuta come una volpe e curiosa oltre ogni limite, seguiva i fratelli e il capo famiglia come un’ombra, imparando ogni cosa che il padre insegnava ai due maschi. Ma in contraddizione a questo lato ribelle del suo carattere, era cosciente di quando era richiesta l’obbedienza e di quando doveva stare al suo posto; una cosa che entrambi reputavano incredibile.

Come incredibile il fatto che, a soli 7 anni, riuscisse ad imbracciare,caricare, mirare e sparare con una rivoltella, seppur piccola e neppure troppo pesante.

 Ma, dopotutto, quella figlia insolita rappresentava per lui una continua, piacevole sorpresa.

Mentre entrava in casa, gettando uno sguardo distratto ai floridi campi di granoturco e cotone, non poté fare a meno di sentirsi soddisfatto di essere al mondo.

 

 

 * * * * * * *

 

 

 

CAPITOLO  1 
Pezzi di vetro sparsi sul nostro cammino

(Quel che resta della famiglia Allworthy; consigli e oscuri presagi ; terrore indicibile.)

 

“And the days will come and go,

And the band will march alone

Till the day you cast a shadow

And it’s nothing like your own.

  

E I giorni andranno e verranno

E la banda marcerà da sola

Fino al giorno in cui tu offuscherai

E non sarà nulla in confronto alla tua ombra”

-Rolling in On a Burning Tire, The Dead Weather -

 

 South Carolina, 1776.

 

 Sophie stringeva fra le piccole mani il mazzolino di fiori di campo che aveva appena raccolto.

Papaveri, margherite, denti di leone si confondevano fra loro, mentre li posava con gran cura sulla pietra tombale. Li legò strettamente con un nastro colorato, che si era appena levata dai lunghi capelli biondo cenere.

“Piaceranno alla mamma?” domandò la piccola, i grandi occhi scuri rivolti alla figura alle sue spalle.

Celeste si chinò e la prese in braccio, abbracciandola.

“Sono bellissimi, piccola mia. Alla mamma piace tutto ciò che le regali, non devi mai dubitarne” le rispose la sorella maggiore, portandola con se in casa per non perderla di vista, come faceva sempre quando doveva svolgere qualche lavoro domestico.

I suoi occhi scandagliarono attenti i dintorni, nella vana ricerca di qualcuno dei fratelli, spariti chissà dove nella boscaglia dove passavano le loro giornate spensierati. Sospirò, stancamente.

Martine Gabrielle Allworthy era morta ormai da tre anni, lasciando soli il marito e i sei figli.

Complici le numerose gravidanze che ne avevano indebolito il fisico, durante un inverno più rigido degli altri, una polmonite le aveva stroncato il respiro. Quando ebbe chiuso gli occhi per l’ultima volta, tutti, seppur addolorati, tirarono un respiro di sollievo, ringraziando di non dover più vedere la donna soffrire.

Ovviamente ne erano usciti devastati dal dolore, in particolare il padre, che non era più stato lo stesso. La moglie era stata l’unica donna della sua vita, e averla persa l’aveva reso, per un lungo periodo, un cadavere ambulante. Un morto che cammina.

L’equilibrio si era ristabilito con fatica, ma in quel periodo di guerra c’era poco da stare allegri.

“Signorine, cena essere pronta tra qualche minuto” le avvertì Mami, la governante nera, che nonostante fosse da anni in America, faticasse ancora a parlare inglese; era però una donna dolce ed amorevole, ormai necessaria per mandare avanti la casa e accudire i piccoli.

A tavola i fratelli si sedettero in un allegro vociare, zittendosi solo per unire le mani e recitare il padrenostro, come la madre aveva sempre raccomandato loro di fare prima di morire.

I piatti presenti sul tavolo erano sufficienti a soddisfare la loro fame, il che era una vera e propria fortuna.

I loro campi e le poche bestie nella tenuta riuscivano a dare loro lo stesso tenore di vita degli anni passati, ma sapevano di famiglie, sia in città che lì nelle campagne,che pativano ogni giorno la fame.

Mentre Celeste si versava dello stufato, guardò di sfuggita i posti vuoti di suo padre ed Andrew: erano mesi che erano distanti da casa.

Erano partiti con l’intenzione di arruolarsi nell’esercito, ma come poi aveva scoperto dalle lettere che riceveva ogni due settimane, erano entrati a far parte dell’esercito di volontari, guidati da un colonnello dall’animo incredibilmente forte e coraggioso, Benjamin Martin.

La loro ultima missiva, risalente a qualche giorno prima, sosteneva che stavano bene e che avrebbero continuato a combattere imperterriti, ma la tensione per la loro sorte era ben palpabile nell’aria, nascosta dietro i quotidiani pensieri e le risate dei membri della famiglia.

Con i suoi 17 anni appena compiuti, Celeste era  rimasta la maggiore in casa.

La morte della madre, cui era molto legata, l’aveva fatta crescere, rendendola più consapevole del compito che le spettava: si occupava infatti di ognuno dei suoi fratelli con dedizione, come una vera e propria madre.

Daniel , 15enne, era il ragazzo più grande, e avrebbe dovuto ricoprire il ruolo di “uomo di casa”, se non fosse stato per il carattere fin troppo timido a tratti.

Come lui, i fratelli minori pendevano dalle labbra di Celeste: negli anni a venire si erano aggiunti Cecilia, che aveva compiuto da poco i 10 anni; Devid coi suoi 7 e la più piccola, Sophie, con tutta l’ingenuità dei suoi 5 anni.

I fratelli Allworthy si assomigliavano l’uno all’altro come gocce d’acqua: non troppo alti di statura; pelle chiara e vellutata, insensibile alle imperfezioni tipiche della crescita o ai forti raggi solari; visi dai tratti fini e morbidi con grandi occhi a conferirgli espressione.

I colori su di loro si erano distribuiti ad opera d’arte: Cecilia, Daniel e Devid avevano ereditato dal padre occhi di un blu cobalto e lisci capelli di un castano intenso.

I colori si invertivano su Andrew e Sophie: mossi, indomabili capelli biondi e caldi occhi color del cioccolato, simili in tutto e per tutto alla loro defunta madre.

Celeste era invece il risultato di un perfetto miscuglio dei genitori: i capelli rosso fiamma si erano col tempo gradualmente adattati ad un rosso ramato, che al sole risplendeva di mille gradazioni; gli occhi erano gli stessi di quando era bambina, quegli stessi occhi il cui colore le aveva meritato il nome: Celeste.

“Signorina, voi sapere di essere bella ragazza. Perché voi non sposare?” domandò Mami, interrompendo i pensieri della giovane, che smise di muovere le dita sulla tastiera.

Dopo aver messo a letto e augurato la buonanotte ai fratellini, Celeste era solita sedersi al vecchio pianoforte a muro in salotto e suonare un’aria qualsiasi delle sue preferite.

Aveva ereditato quella passione dalla madre, e col tempo, quando crescendo aveva piantato i giochi che includevano armi, lotta e caccia, vi si era dedicata con sentimento.

Quando suonava Celeste si rendeva conto di entrare in un mondo a parte, tutto suo. Evadeva dalla vita reale, estraniandosi dalla sua dimensione e ritrovandosi in una terra di profonda, pura bellezza. Quando vi accompagnava il canto, con la sua voce candida e pura, ascoltarla diveniva un piacere.

Ben avvolta in uno scialle di lana, approfittando di una delle ultime sere ancora tiepide,Mami  rammendava una sottoveste di Sophie; seduto sulle scale Daniel intagliava con il coltellino una figura in un ciocco di legno, lasciando che la musica lo cullasse.

“Mami, non dire sciocchezze. Tutti gli uomini sono in guerra … a meno che tu non voglia che mi sposi con lo spaventapasseri nel campo” ribatté la giovane, ridendo e sdrammatizzando le parole della donna.

“Oppure potresti sposare un bell’Inglese” disse ironico il fratello, beccandosi un occhiataccia dalla sorella.

“Preferirei morire zitella. E poi Mami, ho solo 17 anni, c’è tutto il tempo del mondo” concluse Celeste, ben sapendo che quella era una bugia. Leslie, la sua migliore amica che non vedeva ormai da settimane, aveva la sua stessa età, ma era sposata e aspettava già un bambino.

La governante lo sapeva bene, e rincarò la  dose.

“Questa casa troppo vuota. Troppo pericoloso stare in casa dove non esserci neanche uomo adulto” li ammonì, l’inglese stentato reso ancor più evidente dall’impeto con cui la donna pronunciò le parole.

“Ma grazie Mami, e io chi sarei? Il vicino della porta accanto?” protestò Dan, fingendosi offeso, ma la sorella non rise.

“Che intendi dire Mami? Nessuno combatte nei dintorni, non ancora almeno” chiese la giovane, la  voce che tradiva nervosismo,  premendo qualche tasto a casa.

“Io sapere che vostra mira migliore di quella di soldato e voi coraggiosa altrettanto, ma voi sempre donna restare. Se soldati inglesi arrivare qui, noi essere tutti spacciati” urlò quasi Mami, gli occhi sgranati che risaltavano sulla pelle scura.

Celeste si morse il labbro, pensosa. Capiva che Mami voleva solo il loro bene, ma l’idea che qualsiasi soldato inglese facesse loro del male le pareva assurda. Che motivi c’erano, ora che gli unici che avevano l’età per combattere se n’erano andati?

“Mami, finché nostro padre e Andrew saranno via, Celeste non può e non deve sposarsi con nessuno. Non avrebbe senso senza la loro benedizione: nostro padre non le perdonerebbe mai un matrimonio senz’amore, l’ha sempre detto” disse saggiamente Daniel, il tono di voce calmo e pacato.

La governante tacque, chinando la testa come a voler scusarsi della propria intromissione.

Celeste le sorrise, gentilmente, rassicurandola.

“Mami, non ti devi preoccupare. Quando saranno tornati, prometto che tornerò in società, e allora potrai vedermi tutta contenta a fianco di mio marito. Ma fino ad allora, non mi va di prendere in considerazione quest’idea” concluse, cortese ma risoluta.

Quella sera, a letto, la giovane passò diverso tempo fissando il soffitto, ripensando alla discussione di poco prima.

Sposarsi non esercitava su di lei quell’attrattiva che calamitava tutte le ragazze della sua età ai balli e ad ogni occasione mondana. Le occasioni di conversazione con le altre giovani vertevano spesso sugli stessi argomenti, dai gioielli e gli abiti, al matrimonio e ai buoni partiti; e finché ai primi due la giovane concedeva il suo ascolto, partecipandovi con scarso entusiasmo, all’ultimo faceva orecchio da mercante.

La stessa parola “Amore” per lei aveva un significato poco chiaro: le melense, zuccherose storie d’amore che le amiche si raccontavano sortivano su di lei un effetto soporifero.

Amore era di più, molto di più. Quel qualcosa di più che spesso si era trovata a cercare nello sguardo di qualche giovane, mentre danzavano nei balli comuni. Vi aveva visto attrazione, curiosità, ammirazione … Ma mai quel “qualcosa in più”, a cui non sapeva porre un nome. Semplicemente, l’annoiavano, e la sua attenzione, così pronta a scattare se si parlava di tanti altri svariati argomenti, rimaneva intanto sopita.

Celeste si alzò, rendendosi conto che la finestra era aperta, e chiudendola aspirò il profumo di campi, di natura e dei primi freddi che le portava il vento. Gli odori della campagna che tanto amava.

Ritornando a letto, gettò uno sguardo distratto allo specchio.

Come confermavano i ritratti, la giovane crescendo diventava sempre più simile alla madre.

E sua madre era, a detta di tutti, lei compresa, bellissima.

Forse era un po’ più bassa; un po’ più magra; le curve meno pronunciate, i capelli e gli occhi di colori differenti, la pelle più chiara … ma le differenze finivano lì, come non faceva che ricordarle lo sguardo malinconico del padre.

La bellezza di Celeste era pura e limpida come quella della madre:  nessun trucco, nessun orpello. Semplice.

E limpida. E pura.

 

Avete mai notato che, nell'universo della vostra percezione,  

la morte è qualcosa che succede sempre a qualcun altro?” 

 

L’indomani Celeste fece vestire i fratelli con più curatezza del solito, e lei stessa sostituì una delle solite vesti da casa ad un abito più decoroso.

Le visite a Mary Town, la città più vicina a loro, a cui si recavano mensilmente per gli approvvigionamenti o per barattare beni di consumo, rendevano sempre i fratelli allegri e agitati. Spezzavano la monotonia della loro vita di campagna, e consentivano loro di andare a visitare lo Zio Jules, fratello di loro madre.

Mami e suo marito vi si unirono, e si occuparono di sbrigare le faccende per conto di Celeste e intrattenere i bambini, intanto che lei e Daniel si avviavano dallo zio.

Jules Kinglake era il fratello maggiore di loro madre, e insieme alla moglie e all’unica figlia dirigevano la panetteria locale; nonostante il lavoro modesto, godevano di un relativo agio economico.

“Zio Jules, buongiorno!” trillò Dan, entrando nell’emporio.

L’uomo alzò la testa ingrigita, osservandoli da dietro gli spessi occhiali. Un largo sorriso gli illuminò il volto anziano.

“I miei nipoti preferiti! Fatevi vedere ragazzi miei!” proferì, venendo loro incontro, zoppicando come sempre. Da quando avevano memoria i due, lo zio aveva sempre zoppicato. Colpa di una pallottola vagante durante la guerra contro i francesi, diceva loro padre, ma era stata proprio quella gamba malmessa ad esonerarlo dalla nuova guerra con gli inglesi.

“Daniel, ragazzo mio, stai diventando un uomo! E tu Celeste … diventi sempre più bella, assomigli sempre di più a tua madre!” concluse, osservandoli commosso.

“Zio, smettetela di fare il ruffiano e ci racconti le novità” lo esortò la nipote, ridendo.

I ragazzi erano desiderosi di apprendere le notizie, in particolare Celeste che desiderava sapere dell’amica.

“Allora zio, Charles è tornato dal fronte?” domandò la ragazza, alludendo al marito della migliore amica.

Lo zio scosse lentamente la testa.

“Celeste, a volte mi chiedo se sei fin troppo ottimista o semplicemente vivi in un altro mondo. Charles è impegnato a combattere, esattamente come vostro padre e vostro fratello” le rispose, un implicito rimprovero nella voce burbera.

“Ma credevo che ora che aspettasse un bambino sarebbe tornato a casa da Leslie” sussurrò la giovane, intristita solo all’idea che il giorno del parto, il padre non avrebbe potuto assistervi.

“Che vuoi che importi la nascita di un bambino in questa guerra? Tesoro, l’aiuto di ogni singolo soldato è più necessario ora che mai. Sapete, si vocifera che gli inglesi abbiano alte probabilità di vincere la guerra” disse lo zio, abbassando la voce e guardandosi attorno circospetto.

Celeste scosse la testa, nervosa; odiava parlare di guerra, primo perché non capiva praticamente nulla di schemi di difesa o attacco e di eserciti, secondo perché le causava un’immediata malinconia.

“Sapete, a volte penso che forse dovreste lasciare la casa” annunciò lo zio, più tra se e se che rivolto ai ragazzi. I due fratelli si voltarono di scatto, osservandolo sorpresi.

“Non guardatemi così ragazzi miei … è troppo pericoloso ormai, le campagne non sono più un luogo sicuro, dovreste saperlo”

“E’ quello che Mami ha detto a Celeste … anche se aggiunto che dovrebbe sposarsi” spiegò Dan, ridendo, beccandosi un calcio dalla sorella che lo guardava esasperata.

Zio Jules rimase però serio.

“Sposarsi è il consiglio tipico di un’altra donna, ma il mio è ben diverso: venite qua. Lasciate la casa, trasferitevi da me. Staremmo stretti, certo, ma sarebbe sempre meglio che stare là” concluse, guardando intensamente Celeste.

Seguì un attimo di silenzio.

“Zio, di cosa avete paura, esattamente?” domandò la ragazza, apprensiva.

“Giungono sempre più voci di continue repressioni contro i ribelli da parte degli inglesi … Case bruciate, bambini picchiati fino a ucciderli, donne violentate e massacrate, schiavi fucilati uno dopo l’altro o deportati chissà dove. Se dovesse succedere lo stesso a voi … non oso immaginare”

Gli tremava la voce, la fronte imperlata di minuscole gocce di sudore.

Celeste da parte sua non osava nemmeno osare pensare a quell’ipotesi.

“C’è la mettete tutta per terrorizzarci, eh zio?” ironizzò Dan, il sorriso contratto in una smorfia amara.

“Dovreste essere terrorizzati, ragazzi miei! Si dice che delle rappresaglie si occupi il reggimento dei Dragoni Verdi, quando non sono impegnati sul fronte. Sono famosi per la loro ferocia, tant’è che il loro colonnello è persino stato soprannominato “Il Macellaio”” confidò loro, avvicinandosi e posando una mano sulla spalla di Dan, la cui espressione preoccupata era identica a quella della sorella.

“Vi prego ragazzi, pensateci. Finora vi siete occupati egregiamente della casa e della famiglia, specialmente tu Celeste, ma non permettere che il tuo orgoglio o l’attaccamento a quella casa vi portino incontro ad un destino orribile” disse abbracciando entrambi, congedandoli, prima di servire un cliente appena entrato.

“Ci penseremo zio, ve lo promettiamo” gli assicurò Daniel, prima di uscire.

Mentre tornavano a casa, la mente della giovane Allworthy lavorava già spedita.

“Ci trasferiremo, vero?” domandò Dan, seduto accanto a lei, a cassetta.

Celeste gli rivolse uno sguardo stanco e denso di preoccupazioni, tanto che il ragazzo non faticò ad intuirne i pensieri.

“Certo. L’unica cosa che conta è che non capiti nulla di male ai ragazzi” concluse, risoluta.

All’improvviso, il futuro non pareva così certo e sereno; Celeste non avvertiva più la luce splendente del sole: l’ombra di un pericolo imminente l’aveva oscurato.

 

Il grilletto destinato a sconvolgere la vita di una persona si preme in un secondo."

 

I preparativi erano imminenti. I ragazzi passavano la metà delle loro giornate a fare i bagagli, cercando di scegliere tra cosa fosse indispensabile e cosa non lo era. Inutile dire che per ognuno, persino per la piccola Sophie, tutto era indispensabile.

“Non potete portarvi dietro tutto ragazzi, cercate di scegliere, vi prego” predicava Celeste, che a sera si ritrovava, distrutta, a sperare che il giorno della partenza, una settimana più tardi, giungesse in fretta, per quanto l’idea di abbandonare la casa e i servitori con cui era cresciuta la distruggesse.

“Ma torneremo, vero?” domando una delle ultime sere Cecilia, raggiungendola a letto.

Il viso della bambina, tanto simile al suo, era corrucciato in un espressione di inusuale tristezza.

Il suo sguardo era rivolto allo stipite di legno della stanza, su cui il padre, puntualmente, segnava le loro altezze non appena gli sembrava fossero un po’ cresciuti. Le bastò ricordare il padre, intento ad incidere una linea orizzontale e la prima lettera dei loro nomi, perché il suo umore precipitasse di nuovo.

“Ma certo Celia, non dovresti neppure chiederlo. Appena nostro padre ed Andrew torneranno, ritorneremo, e tutto sarà come prima” disse, rassicurando quasi più se stessa che la sorellina.

La lasciò trotterellare via, il sorriso ingenuo e fiducioso riacquistato.

Celeste invece si lasciò crollare tra le coperte, sconfortata.

Aveva quasi timore di dormire: da alcuni giorni i suoi sogni erano gonfi di ombre e oscuri presagi, rendendole difficile godersi le ultime notti nel letto in cui aveva trascorso ben 17 anni della sua vita.

Quando riuscì finalmente a chiudere gli occhi, le parve di aver dormito solo per pochi minuti, prima che delle forti pacche sul braccio la svegliassero.

“Celeste … Celeste svegliati! Dai!” la voce concitata di Devid era ridotta in un sussurro.

La ragazza si voltò appena a guardarlo, gli occhi che dovevano ancora abituarsi alla penombra della stanza.

“Muoviti, ti prego! Stanno arrivando degli uomini a cavallo!” bisbigliò ancora, continuando a cercare di smuoverla.

Non appena udì quelle parole, la sorella si riscosse. Spostò di peso le coperte e corse alla finestra, passando frettolosamente la mano sul vetro per cancellare la condensa, e ciò che vide le fece salire il cuore in gola:

almeno cinque uomini a cavallo, delle torce infuocate strette in mano, si profilavano all’inizio del viale alberato, dirigendosi speditamente verso casa.

Si concesse solo una manciata di secondi per pensare.

“Dev sveglia tutti gli altri. Su, muoviti!” lo esortò, avvolgendosi nella vestaglia e precipitandosi in corridoio, e poi nella stanza del padre.

Estrasse il più in fretta possibile da sotto il letto un baule in cui il padre riponeva sempre le armi, ora praticamente vuoto a parte la stessa rivoltella che utilizzava da bambina.

La prese e la caricò, tornando in corridoio, dove i fratelli si stavano riunendo: pallidi, scarmigliati e spaventati, tutti la fissavano con gli occhi spalancati e attoniti. Bastò uno sguardo per notare l’assenza di Devid, e un cenno di Dan le confermò che il piccolo, imprudente, doveva essere sceso.

Preoccupata e guardinga, stringendo quasi dolorosamente la rivoltella tra le mani, scese le scale in un silenzio carico di tensione. Dall’atrio si spostò alla sala da pranzo, sussurrando il nome del fratello, e si sentì un briciolo più rassicurata vedendolo muoversi nello stanzino adiacente, aggrappato al moschetto come ad un ancora di salvezza.

Entrambi udirono dei rumori all’esterno e fecero giusto in tempo a nascondersi dietro gli stipiti e sbirciare, che la porta di casa venne aperta così violentemente da scardinarla. Gli uomini irruppero nell’atrio, la luce della torce che li illuminava in un atroce gioco di luce e ombre: erano chiaramente inglesi, bastava gettare uno sguardo ai pantaloni nere e alla giubba dell’uniforme, rossa con larghe bande verdi. Gli elmetti da cavallo erano sormontati da una sorta di palco di piume nere, che sarebbero stati capaci di farla ridere in un altro momento, ma in quella situazione l’effetto suscitato era orrendo.

Si guardarono attorno, circospetti.

“Andate a controllare di sopra. Trascinate da basso chiunque troviate” ordinò l’uomo davanti.

Celeste non poteva permetterlo. Se si fossero anche solo azzardati a toccare uno dei ragazzi …

Alzò la rivoltella e la puntò sul primo uomo che stava per salire le scale e si accinse a premere il grilletto, quando sentì la canna di un'altra pistola premere duramente contro la sua tempia.

“Signorina, è pregata di abbassare la pistola, o mi creda: la fine che farà non sarà sicuramente piacevole” le sibilò una voce fredda, ma chiaramente soddisfatta di averla sorpresa.

Fu con autentico terrore che si ricordò di aver dimenticato di chiudere la porta sul retro.

Celeste trattenne un singulto, mentre abbassava la rivoltella, che le venne prontamente strappata dalla mano.

La ragazza fu poi spinta violentemente a terra, battendo dolorosamente le ginocchia e i gomiti, che le strapparono un gemito di dolore.

Gli uomini rimasti si voltarono stupiti a guardarla, mentre dall’altro stanzino emergeva un soldato che strattonava Devid, impaurito e confuso.

“No vi prego, lasciatelo stare!” urlò la giovane, guardandoli, ma come unica risposta ricevette un calcio nel fianco, che le strappò un secondo grido di dolore.

Il suo aggressore la prese prepotentemente per i capelli e la fece alzare, torcendole un braccio dietro la schiena. In quel momento le urla dei ragazzi esplosero sulle scale, mentre venivano trascinati e spinti nell’atrio, tra le imprecazioni dei militi.

“Silenzio!” urlò uno degli uomini, zittendo i fratelli che gemettero spaventati, ritirandosi in un angolo, guardando la sorella maggiore.

“Wilkins, quanti sono?” domandò l’aggressore di Celeste, continuando a strattonarla, benché la ragazza non osasse opporre resistenza.

“Cinque in tutto Colonnello: 3 femmine, due maschi. La più grande sembra la ragazza” rispose rispettosamente l’uomo, chinando la testa e indicando con un cenno Celeste.

La giovane venne voltata  come una bambola, e spinta contro la finestra, in modo che la luce lunare le piovesse sul viso. Il dolore che avvertì all’osso sacro mentre batteva violentemente contro il davanzale non era nulla in confronto al timore che provò nel fissare in pieno viso il suo aggressore.

L’uomo doveva avere almeno trent’anni buoni, e Celeste avrebbe mentito a se stessa nel negare che possedeva una cieca, devastante bellezza.

Era un fascino violento quello che emanava da ogni singolo tratto del suo volto, i cui gelidi occhi di un pallido grigio/azzurro la osservavano superbi e sicuri di se, cosicché la giovane faticò a sostenerne lo sguardo.

“Siete la famiglia Allworthy, non è così?” domandò, la voce calma e vellutata.

Celeste avrebbe quasi preferito che urlasse; quel tono di voce era inquietante a tal punto che un brivido le percorse la spina dorsale.

Si limitò ad annuire sbrigativamente, gli occhi che saettavano dal volto dell’uomo a quelli dei fratelli.

“Siete al corrente, signorina, che vostro padre Conrad Allworthy e vostro fratello Andrew sono militanti in un esercito di volontari?    E che con le continue scorrerie e atti di sabotaggio minano la reputazione della nostra beneamata madrepatria?” chiese nuovamente, la voce alzatasi di un ottava, in modo che anche i fratelli riuscissero a sentire.

Celeste lo guardò atona: aveva all’incirca una decina di risposte possibili, che spaziavano da un insulto a quella “beneamata madrepatria” ad un arrogante risposta che gli avrebbe chiarito il punto che si: sapeva benissimo che suo padre ed Andrew erano dei volontari, e ne andava fiera; ma non osò aprire bocca.

L’uomo parve intuire i suoi pensieri, ed alzò la rivoltella che le aveva sottratto prima, puntandola sui suo fratelli.

“O forse, ne sono al corrente i suoi fratelli, signorina?”

Il suo sorriso le parve mostruoso, una piega sadica e crudele.

“No per l’amor di Dio, loro non sanno niente” sussurrò Celeste, allarmata, cercando di scattare in avanti.

L’uomo la respinse contro il davanzale,puntandole l’arma dritta al centro della fronte.

“Ciò lascia presumere che voi sapevate … e ditemi, signorina, sapete anche dove si trovano al momento?” domandò, premendo maggiormente la canna sulla sua pelle.

“Non lo so signore, non lo so! Non li sento da tempo!” La paura aveva fatto breccia nella sua voce: le sue parole tremarono come se fosse scossa da continui tremiti.

L’uomo finalmente ritirò la rivoltella e mollò la presa, lasciando che Celeste si accasciasse a terra.

Si guardò intorno, lanciando uno sguardo beffardo all’ambiente.

“Questo è un gran peccato, speravo poteste esserci più utili. Ora direi di passare ad una dimostrazione pratica di quanto spetta a chi osa anche solo porsi sulla strada tra noi e la vittoria” proferì con un arroganza tale che un impalpabile rabbia fece breccia nella barriera di paura della giovane.

Ma venne subito ricomposta quando vide il colonnello volgersi verso i suoi fratelli.

“Ebbene, che potremmo fare di voi? Uccidervi uno ad uno e spedire le vostre teste a quei bifolchi?

Lasciarvi bruciare vivi in questa casa? O magari utilizzarvi come servi?” domandò spietatamente, avanzando.

“Signore no, la prego. Li risparmi, sono solo dei bambini innocenti” tentò di fermarlo Celeste, raggiungendolo.

L’uomo a sorpresa la prese per la gola violentemente, stringendola con forza, e con uno strattone la trascinò fuori dalla casa, gettandola a terra.

Celeste sentì il polveroso sapore della terra in bocca, ma quando cercò di rialzarsi trovò la figura dell’uomo a sormontarla, stringendole ancora dolorosamente la gola.

“Vostra madre non vi ha insegnato a frenare la lingua quando vi rivolgete ad un uomo?”

In quel momento la giovane provò un odio viscerale nei confronti di quell’uomo, un odio talmente forte che la rese capace di sostenere quello sguardo crudele.

“Non c’è l ho una madre, non ho questa fortuna” ma la voce rabbiosa venne smorzata dalle dita che premevano, inopportune, sulla sua candida gola.

“Ma davvero? Dei piccoli orfani, protetti dalla figura della sorella maggiore. Bè signorina, non siete riuscita  a mantenere le vostre intenzioni a quanto pare” dichiarò con disprezzo.

I suoi occhi discesero dal viso della giovane, dedicandosi a squadrare il suo esile corpo, soffermandosi sull’incavo dei seni che si intravedeva nello scollo della camicia da notte.

Quando Celeste rincontrò il suo sguardo, capì che qualcosa nell’opinione dell’uomo era cambiata. Non la guardava più attraverso gli occhi di un Colonnello dell’esercito; quel suo sguardo era ora in primis quello di un uomo adulto, cosciente di avere in suo possesso una ragazza mezza nuda.

“Quanti anni avete, signorina?” domandò improvvisamente, cogliendola di sorpresa.

“17, signore” rispose rigidamente. Ogni minuto che passava, la sensazione che stesse per avvenire una disgrazia aumentava.

“Solo 17 … così giovane, per sostenere una famiglia intera. Un gran peccato” concluse, rilasciando la presa sulla sua gola.

Celeste cercò di rialzarsi, massaggiandosi la trachea, dove le sembrava quasi di intuire la posizione esatta dei segni rossastri lasciati dall’uomo.

“Dimmi ragazza, cosa ci guadagnerei a risparmiare dei mocciosi?” le chiese, e alla giovane non piacque il passaggio alla seconda persona. In quell’istante il pensiero di salvare i propri fratelli era superiore ad ogni altra cosa. Più importanti della sua stessa vita; ma sapeva quasi con dolorosa certezza che le sue intuizioni sul nuovo comportamento dell’uomo non erano errate.

 “Sono solo degli innocenti signore. Questa terra è già lorda del sangue della guerra, perché dovreste aggiungere il loro?”

Il Colonnello inclinò la testa appena, come a valutarla.

“E cosa saresti disposta a fare perché io li risparmi?”

Celeste esitò prima di rispondere, conscia che tutto sarebbe dipeso dalla sua risposta.

“Qualsiasi cosa, signore” affermò questa volta, con più sicurezza.

“Qualsiasi cosa …” ripeté lui, le labbra che si increspavano nell’ennesimo maligno sorriso.

Si risollevò, tornando a rivolgersi ai suoi sottoposti, che avevano già spinto fuori dalla casa i ragazzi.

“Bruciate la casa, uccidete gli schiavi. Lasciate che i bambini vadano dove vogliano” ordinò, secco.

Celeste riuscì a rialzarsi, e poté riabbracciare i fratelli senza che né il Colonnello né gli altri soldati li disturbassero.

“Shh … va tutto bene, tutto bene” sussurrò, stringendoli a se, asciugando con un lembo della camicia da notte le lacrime di Celia e Sophie.

Si girarono tutti di scatto quando sentirono degli spari e le urla degli schiavi nella piantagione.

Celeste strinse maggiormente le sorelline, trattenendo le lacrime per la sorte di Mami e degli altri.

Furono costretti a spostarsi quando i soldati gettarono violentemente le torce contro la facciata della casa e al suo interno, che prese immediatamente fuoco, crepitando come una creatura viva.

Lacrime di dolore apparvero negli occhi di Celeste e dei ragazzi, mentre osservavano la culla in cui erano nati e cresciuti cadere in pezzi fiammeggianti.

“Andremo da Zio Jules. Ce la faremo, sono solo 2 km nel bosco” affermò la maggiore, più per auto convincere se stessa che i fratelli.

“Andremo? Parli ancora al plurale, ragazza?”

La mano del Colonnello si avvolse d’un tratto intorno al suo esile polso, traendola  a se.

“Ho detto che i vostri fratelli sono liberi di andare dove gli pare. Il tuo posto, invece, è dove dico io” decretò, osservando con attenzione le reazione sul volto della giovane.

Come i fratelli rimase inebetita, prima che il pianto di Sophie si facesse più acuto e disperato, mentre la piccola si aggrappava alle ginocchia della sorella.

Celeste cercò di chinarsi per abbracciarla, ma la presa dell’uomo glielo impediva.

Prese un respiro, lentamente, la paura e la  tensione che ormai la rendevano debole e stanca.

Tutto ciò che contava era che i suoi fratelli si sarebbero salvati.

“Obbedirò ai vostri ordini, Signore, andrò ovunque voi vogliate. Lasciatemeli salutare … la prego …” implorò, la voce fattasi ormai supplicante.

Il colonnello la lasciò andare, ma non si allontanò da lei di un millimetro.

Celeste si chinò e abbracciò ognuno dei suoi fratelli, che le parvero dei rigidi, freddi manichini, i volti atteggiati in una maschera di terrore.

“Dove ti portano?”

“Cosa faremo?

“Perché devi andare via?”

La sorella li zittì con uno sguardo. Baciò le loro fronti fredde, respingendo le lacrime che premevano infide per lasciarsi cadere dai suoi occhi. Si mostrò salda e sicura di se, l’esatto contrario di quanto provava.

“Andrà tutto bene, vedrete. Ci ritroveremo, più presto di quanto crediate” sussurrò, per poi rivolgersi a Daniel.

“Dan, sei tu il maggiore adesso. Portali lontano da qui, stando ben attenti a non incrociare nessuno.

Attraversate la boscaglia e andate da zio Jules, e raccontategli ogni cosa”

Il fratello annuì, insicuro, lasciandosi andare e abbracciandola un’ultima volta.

“Muoviti, non farmi perdere tempo” ordinò il Colonnello, spazientito.

Celeste si voltò, mostrando un sorriso tremolante ai suoi fratelli, e seguì il Colonnello verso un possente cavallo sauro.

L’uomo montò agilmente e le tese la mano, che seppur con estrema riluttanza, la  ragazza fu obbligata ad accettare, posando il piede ancora nudo sulla staffa e montando davanti a lui.

“Dragoni: avanti!” ordinò nuovamente, mentre con dei decisi colpi di redini, i cavalli si lanciavano al galoppo. La giovane dovette aggrapparsi al collo del cavallo e stringere le gambe per non cadere, e avvertendo con odio il petto dell’uomo premere sulla  propria schiena.

Mentre stavano per uscire dal viale, Celeste inevitabilmente si sporse  e voltò la testa: la casa avvolta dalle fiamme, i cui alti fumi grigi si levavano fino al cielo, e i fratelli pallidi e persi di fronte ad essa formarono un’immagine che, lo seppe subito, l’avrebbe perseguitata per l’eternità.

La giovane permise controvoglia alle lacrime di abbandonarsi sulle sue guance, e mentre voltava la testa, incrociò lo sguardo freddo dell’uomo. La guardava sprezzante, come se quelle lacrime traditrici lo disgustassero tremendamente.

“Sei pregata di piangere in silenzio” le sussurrò con crudeltà in un orecchio, mentre la ragazza voltava il viso, cogliendo uno scintillio maligno in quegli occhi gelidi.

E in quel momento, la paura l’assalì completamente, con una violenza tale da stordirla.

 

 

Elle's Space -

Questa non è la prima Fanfic che scrivo (e spero non sia neanche l'ultima!); ma è la prima che ho deciso di pubblicare, perchè ... Non saprei nemmeno io per quale motivo ho scelto di pubblicare proprio questa. Ma mi sono intestardita, ed eccomi qua.

"In Punta di Piedi" nasce dopo essermi guardata a ripetizione per fin troppe volte Il Patriota, e non ho potuto fare a meno di rimanere impressionata dal personaggio del Colonnello Tavington (sorvolando sul fatto che Jason Isaacs è un figo allucinante. Anzi, non sorvoliamo affatto). Ma non appena l'ho visto, ho deciso di contrapporgli un altro personaggio: Celeste, per l'appunto.

Ho cercato di mantenere lo stesso contesto storico/territoriale, ma qualcosa (per esempio, la piccola cittadina di Mary Town) ho dovuto inventarmela. Spero non la consideriate un'eresia (in tal caso, siete liberi di bruciarmi viva).

Altro da aggiungere? Nulla, credo. Anzi, la speranza di ricevere almeno qualche parere: devo sapere se continuare... o no?

Continuerei lo stesso: muoio dalla voglia.

Buona serata a tutti e, aggiungo, buon anno nuovo!

Elle H. 

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Capitolo 2
*** Haunted ***


In Punta di Piedi
di Elle H.



CAPITOLO  2
Haunted
 
              

(Un' apatico inferno;i miserabili incontri; occhi di ghiaccio e occhi di vetro)


“I am done
Smoking gun
We’ve lost it all
The love is gone.
 
E’ finita
La pistola fuma
Abbiamo perso tutto
L’amore è finito”
-You lost me, Christina Aguilera-

 
Le tiepide luci di una cittadina si profilarono all’orizzonte, rompendo il buio omogeneo delle campagne circostanti. Celeste si ritrovò a ringraziare il cielo che quella corsa notturna fosse terminata: avevano cavalcato per quelle che le erano parse ore, e i suoi muscoli indolenziti e le membra fredde invocavano pietà a gran voce.
Il gruppo di militi cambiò la direzione, seguendo il loro colonnello, dirigendosi spediti verso quello che risultò essere solo un agglomerato di poche case e vie fiocamente rischiarate da qualche fiaccola.
Fermarono i cavalli e smontarono di fronte ad un edificio illuminato, dal cui interno provenivano cori di voci e rumori di bicchieri che picchiavano pesantemente tra loro.
Celeste dovette accettare nuovamente la mano del Colonnello per smontare da cavallo, e mentre cercava di guardarsi intorno per farsi un’idea di dove fosse stata condotta,lui le diede una spinta secca sulla schiena, spronandola a camminare. Fu costretta ad entrare in quella che, lo capì subito, non era altro che una taverna.
La sala era grande e i lunghi tavoli di legno erano occupati da una moltitudine di soldati inglesi di ogni grado dell’esercito, intenti a bere da alti boccali di birra o a giocare a carte, in un continuo risuonare di risate sguaiate.
Con sorpresa la giovane notò di sfuggita delle donne muoversi tra i tavoli: pensò fossero cameriere, tenendo conto che tra le mani reggevano vassoi e distribuivano boccali ai clienti, ma a giudicare dagli abiti succinti e da come si concedevano agli uomini, lasciandosi afferrare e toccare tra risatine civettuole, il loro ruolo era ben altro.
Celeste in vita sua aveva visto solo una volta una prostituta, quando era più piccola,  durante una gita con i genitori a Mary Town. La donna era fuori da una locanda, e mentre parlava con degli avventori, la sua risata acuta aveva fatto voltare la bambina; era rimasta sorpresa e affascinata dal suo aspetto appariscente, prima che la madre le coprisse la vista e la trascinasse via, rifiutandosi di rispondere a qualsiasi delle sue ingenue domande.
Nessuno nella sala parve dar conto dell’entrata del nuovo gruppo di uomini, accompagnati da una ragazza scarmigliata e in camicia da notte, ma mentre questi si dirigevano ad occupare un posto, il colonnello prese per il polso la giovane e la trascinò dalla parte opposta della sala.
Una fila di soldati attendeva da bere al bancone, ma quando si accorsero dell'avvicinarsi del loro superiore, questi si spostarono immediatamente, chinando rispettosamente la testa. Il taverniere si chinò verso di lui, un espressione vagamente spaventata sul volto, e ascoltò ciò che gli venne sussurrato nell'orecchio.
Annuì brevemente, indicando poi una porta nell’angolo della sala.
Prima che la ragazza potesse tentare di porre qualche domanda, il Colonnello la trascinò nuovamente, tenendola ancora saldamente per il polso, verso quella porta; preoccupata, puntò i piedi sul legno del pavimento, inutilmente.
Ma con sua sorpresa, l'interno della stanza si rivelò essere semplice: un tavolo e qualche sedia, riscaldati dal chiarore di una stufa.
 Un vestibolo apparentemente, visto che in un angolo una scala conduceva ai piani superiori.
L’uomo si voltò e squadrò nuovamente Celeste, che ricambiò il suo sguardo con astio.
“Come  hai detto che ti chiami, ragazza?”
La ragazza sentì un fiotto d’ira invaderla appena sentì la sua voce.
“Non l ho detto” rispose, il tono irato che aveva sostituito quello supplicante di poco prima.
Lo vide sorridere e d’improvviso le tirò uno schiaffo, così violento da girarle la faccia e farla vacillare.
Celeste si massaggiò la guancia, senza osare più guardarlo.
Le sue labbra si mossero, controvoglia e doloranti.
“Celeste, signore” rispose infine, la voce ridottasi in un bisbiglio intimorito.
“Celeste … è un bel nome. Ti si addice direi” constatò, ridendo brevemente tra se.
La giovane realizzò solo dopo un istante che quello doveva essere un complimento, e quando alzò la testa incrociò ancora il suo sguardo beffardo.
“Perché mi ha condotta qui?” domandò, assetata di quella fatidica informazione.
“Desidero che tu inizi a lavorare qui, dove possa … vederti spesso” rispose, camminando dinnanzi a lei, calcando volutamente sulla parola “vederti”.
“Lavorare? Quale dovrebbe essere il mio ruolo?” chiese, spaesata, un cattivo presentimento che le attanagliava lo stomaco.
“Apparentemente, la cameriera in questa taverna. Io però preferirei chiamarlo prostituta”.
Il tono deliziato con cui lo disse le  fece accapponare la pelle, ma non era nulla in confronto allo shock che che le causò quella singola parola.
“Prostituta … Prostituta … Prostituta …” la parola le rimbombava nella mente, come se qualcuno la stesse urlando a gran voce.
“No!” proruppe, angosciata, indietreggiando verso la porta.
Era inconcepibile; non poteva essere possibile. Lei, proprio lei, avrebbe dovuto vendere il proprio corpo, schiavizzarsi e prostrarsi agli ordini di qualsiasi uomo la desiderasse?  La morta era una prospettiva decisamente più appetibile.
“Ti stai forse rifiutando? Preferiresti forse che domani mattina andassi a cercare quei bastardi dei tuoi fratelli, che li facessi a pezzi e ti riportassi ognuna delle loro piccole ossa?” chiese, prendendola per le spalle e allontanandola dall’unica via di uscita, la voce minacciosa e tagliente come una lama.
Celeste si sentì crollare: aveva combattuto per i suoi fratelli; si era lasciata trasportare di peso lì, per loro.
La loro vita era l’unica cosa che contava veramente.
Doveva quindi vendersi ora, per salvarli?
Scosse il capo, inghiottendo l’ennesimo groppo di lacrime.
Un istante dopo, la porta che conduceva al locale si aprì, lasciando entrare una signora.
La donna doveva già avere 50 anni buoni, ma il suo fisico dalle forme grandi e piene possedeva ancora una certa florida bellezza, benché il viso, dalla pelle cotta dal sole, che denotava una vita passata nei campi, fosse attraversato da una sottile rete di rughe.
Quando vide l’uomo, si lisciò la gonna e sorrise affabile, portandosi alla bocca una pipa finemente intagliata.
“Colonnello Tavington, è un piacere rivederla. Mi dica, in cosa posso esserle utile stasera? Desidera passare la notte con … “ incominciò, con una voce leggermente gracchiante, ma l’uomo la interruppe.
“Per stasera, nulla, Madama. Ho condotto qui questa ragazza, desidero che si aggiunga a voi” spiegò, indicando Celeste, che osservava la donna intimidita.
Ella sembrò notare solo allora la presenza della ragazza: le si avvicinò, la pipa stretta tra i denti e la osservò attentamente.  Le pose le mani sulle spalle e la fece girare, senza che Celeste osasse protestare, limitandosi a tossire alle nuvolette di fumo che l'avvolgevano.
Le tastò sbrigativamente i fianchi e le gambe, poi il viso ed infine una ciocca di capelli.
“Sei un po’ troppo magra ragazza, ma puoi piacere. Beh colonnello, bella è bella. Come ti chiami, ragazza?”  chiese realmente interessata, come se la giovane fosse diventata d'improvviso una preziosa mercanzia.
“Celeste, signora”
“Hai anche un bel nome e una bella voce. Va bene colonnello, la prendo con me” decretò infine, soddisfatta. Poi parve ripensarci un istante.
“Sei vergine, ragazza?” domandò dubbiosa.
Celeste esitò e involontariamente un debole rossore le dipinse le guance pallide.
Annuì, occupata ad osservare il ghigno malevolo sul volto del colonnello.
“Meraviglioso, un affare davvero meraviglioso. Potrei far pagare alta la tua verginità … “ concluse ragionando tra se, deliziata dalla scoperta.
“Al riguardo, proporrei uno scambio” intervenne Tavington, rimasto in ascolto durante le domande della donna.
“Che scambio, colonnello?” domandò sospettosa, il sorriso trasformatosi in un broncio.
“Io vi cedo la ragazza, e mi aggiudico la sua prima volta. Nessuno dei due dovrà versare un centesimo.
E’ un affare perfetto, non trovate?” propose, un sorriso gonfio di soddisfazione che si faceva strada sul suo volto.
Sapeva in anticipo che la donna non avrebbe rifiutato.
Infatti, come previsto, la signora sospirò e assentì.
“Siete un uomo astuto, Colonnello. Ebbene, si può fare … la desiderate già stasera?”
Lo sguardo di Celeste saettò sull’uomo e ne incrociò lo sguardo, mentre avvertiva la paura montare nuovamente.
“No, un altro giorno andrà benissimo. L’idea di trovarmi un pezzo di legno nel letto non mi aggrada” concluse, sorridendo canzonatorio, e rivolgendole un ultimo sguardo sprezzante, uscì dalla stanza.
Celeste si voltò di scatto verso la donna, incerta su cosa fare e dire, completamente stordita dall'imprevisto corso degli avvenimenti.
In quel momento la porta si riaprì ed entrò una ragazza, sicuramente poco più grande di Celeste.
“Madama, John mi ha detto che ne è arrivata una nuova …” disse, ma si fermò non appena vide la giovane.
“Capiti al momento giusto Kat! Devo tornare di là, tu portala di sopra e occupati di lei, dalle la camera vicino alla tua. Oh, e già che ci sei, falle fare un bagno, sembra stia morendo di freddo” ordinò distrattamente la donna, uscendo in fretta dalla stanza, come se avesse perso improvvisamente interesse per la nuova venuta.
La nuova ragazza invece guardò curiosamente Celeste, che suo malgrado ricambiò l’attenzione.
Era piuttosto carina, un gradevole contrasto tra pelle naturalmente abbronzata e soffici, spumosi boccoli biondi; l’abito succinto evidenziava ogni curva del suo corpo dalle forme voluminose.
“Io sono Katrina, ma puoi chiamarmi Kat come fanno tutti” disse presentandosi, sorridendo incoraggiante e tendendole la mano. Celeste l’afferrò, e tentò di sorridere, ma le sue labbra rimasero ostentatamente serrate in una smorfia tirata.
“Io sono  Celeste” pronunciò il proprio nome senza vivacità, sentendosi improvvisamente stanca, mentre il freddo e la tensione le abbandonavano il corpo. Kat parve accorgersene.
“Dai, vieni con me, ti faccio vedere la tua camera” disse, e sempre tenendola gentilmente per la mano, l’ accompagnò verso le scale.
Celeste si lasciò condurre mollemente, osservando il lungo corridoio non appena giunsero di sopra: malamente illuminato, una serie di porte chiuse; le parve un posto da incubo.
La sua stanza, scoprì, era in fondo al corridoio.
“Quella imparte è la mia, basta che bussi se hai bisogno di qualsiasi cosa … ovviamente quando non ho clienti, dubito apprezzerebbero e sai che scenate farebbe Madama!” si affrettò ad avvertire.
Le parlava con vivacità, come se fosse una  sua vecchia amica d’infanzia, tentando di distrarla.
Notò sollevata che la stanza era piccola e semplice, occupata per la maggior parte da un grande letto e, nell’angolo, da un armadio in legno.
“Non hai abiti, ci scommetto. Ma non ti preoccupare, ne abbiamo molti di riserva e domani Madama penserà a procurartene qualcuno della tua taglia. Sai, sei così magra …” disse a mo di scusa, guardandola con occhio critico.
Celeste non rispose, limitandosi a sedersi stancamente sul letto.
Katrina la guardò con compassione.
“E' dura all’inizio. Molto dura, direi … Ma poi ti ci abituerai, davvero! La nostra vita è relativamente comoda: abbiamo più privilegi di quanto tu possa credere, e nessuno tra gli uomini che serviamo osa farci del male. Madame non glielo permetterebbe mai” disse, cercando di consolarla, sedendosi accanto a lei.
“Chi è questa Madama?” domandò Celeste, dopo averla sentita nominare varie volte.
“Ma come, l’hai vista tu stessa poco fa! Tutti la chiamano così. E' una donna incredibile...  certo, è schietta e forse un po’ troppo brusca, ma ha un fiuto straordinario per gli affari ed è più astuta di una volpe. Ci tratta molto più bene di quanto farebbe qualsiasi mezzana, credimi”.
Celeste annuì con distacco, le  parole che le entravano da un orecchio e le uscivano dall’altro: in quel momento, tutta la sua attenzione era rivolta altrove.
Che stavano facendo i suoi fratelli? Avrebbero aspettato l'alba a muoversi? Sarebbero riusciti a oltrepassare da soli il bosco?
“Ma cosa ne sarà della mia famiglia?” chiese infine, e lo sguardo dell'altra si fece allora incerto.
"Ecco … non saprei … dipende. Cosa è successo?” domandò,tra il mortificato e l' incuriosito.
Celeste raccontò il tutto con poche, fredde parole. Ciò l’aiutò a guardare la situazione obbiettivamente, e gli occhi ammirati di Katrina glielo confermarono: aveva agito con coraggio, aveva salvato la sua famiglia. Ma a quale prezzo?
“Però così hai condannato la tua vita” sottolineò infatti, carezzandole una mano, dispiaciuta.
Gliela strinse con forza, tornando a sorridere.
“Non ti preoccupare Celeste, saremo tutte buone con te. Basta che non fai nulla per far arrabbiare Madama … Niente sciocchezze ti prego, come tentare di scappare”
“E quell’uomo? Quel Tavington?” la interruppe la giovane.
Il sorriso di Katrina scomparve.
“Non possiamo sparlare dei clienti. Ma..." 
Si guardò intorno, circospetta.
"Lui viene sempre qua, e perciò dobbiamo soddisfarlo. Si dice che sia un uomo spietato, non ha rispetto nemmeno per i suoi superiori, men che meno con noi!"  ribadì alzandosi, tormentandosi le mani nervosa.
“Devo tornare da basso. Ti mando una cameriera con la tinozza … almeno ti puoi fare un bagno caldo prima di andare a dormire.
Cerca di riposarti come puoi, domani ci penserò io a svegliarti” le disse infine sorridendo conciliante e abbassandosi per darle un familiare bacio sulla guancia.
Rimasta sola Celeste attese la cameriera immobile come una statua di granito.
Sentiva il suo corpo come un estraneo, il desiderio di fuggire, correre, sentirsi libera e soprattutto poter tornare dai suoi fratelli era superiore su ogni altra sensazione, dal dolore fisico delle botte ricevute al fango che le insozzava i piedi e la camicia da notte.
Quanto entrò la domestica con tinozza e secchi d’acqua calda, la ragazza la guardò solo di sfuggita, ringraziandola con voce flebile.
Solo immergersi nel bagno caldo le causò una ventata di ricordi … A casa sua il bagno si faceva una volta ogni tre giorni, molto più che in ogni altra famiglia della campagna. Sua madre era stata una maniaca della pulizia, e ognuno vi si sottoponeva senza proteste, chi con espressione contrita e chi con autentica, schiamazzante gioia.
Le lacrime di Celeste le defluirono  dagli occhi come una cascata, uno stillicidio di gocce salate che andarono ad aggiungersi all’acqua bollente. Si lasciò cullare dal tepore come se fosse quell’abbraccio che le era stato sottratto, e quando l’acqua tornò fredda, a malincuore si strinse nell’asciugamano, trascinandosi al letto come un invalida.
E invalida si sentiva: avvertiva un vuoto opprimente al petto, come se le fosse stato reciso un organo vitale; si stupiva che con tutto il dolore che provava il suo cuore battesse ancora.
Si rannicchiò in un angolo del letto, abbracciandosi le ginocchia al petto, e tirò il lenzuolo sopra il viso; come faceva da piccola, quando aveva paura.
L’ultima cosa che le passò per la testa fu di dormire.
Si abbandonò tra le braccia di un pianto terribile e disperato.

 

“Your body's aching 
Every bone is breakin' 
Nothin' seems to shake it 
It just keeps holdin' on
 
Il tuo corpo dolorante

Ogni osso è rotto
Nulla 'sembra scuoterlo
Si continua ad aspettar
e”

-Beat the Devil Tattoo, Black Rebel Motorcycle Club -

 

“Fammi indovinare: ti sei addormentata all’alba, eh?” dichiarò Kat, scuotendole delicatamente una spalla.
Celeste sollevò appena la testa dal cuscino ancora umido di tutte le lacrime versate. Constatò stupita di essersi infine addormentata, in quella che poteva dichiarare con certezza la notte più brutta della sua vita. Poi si ricordò della notte che l’attendeva ancora e il suo umore, se possibile, peggiorò drasticamente.
“Che ore sono?” biascicò mettendosi a sedere, sollevandosi dagli occhi gonfi la massa di capelli ramati,annodati e indomabili.
Il viso di Katrina le apparve sorridente e di buon umore mentre apriva le tende, inondando di luce la stanza.
“Mezzogiorno passato … se scendi pranziamo, così puoi conoscere le altre” suggerì, gentile.
La prospettiva non le parve così orrenda dopotutto, e Celeste si alzò,indossando uno scialle che Kat le tendeva e seguendola oltre la porta.
Gli ambienti, illuminati a giorno, le parvero  molto più rassicuranti della sera prima, e quando giunsero da basso, trovò la sala grande pulita e deserta, all’infuori di quattro donne sedute ad  un tavolo.
Quando le raggiunsero, le loro teste si voltarono a guardarla.
“E lei chi è?” domandò la ragazza che, a occhio e croce, le parve la più giovane. Pelle ambrata, grandi occhi scuri come i capelli che le incorniciavano il viso dagli zigomi alti e dalle narici leggermente larghe; era di un’esotica e appariscente bellezza.
“Ragazze, vi presento Celeste! E’ arrivata ieri sera” spiegò Kat con vivacità, presentandola.
Gli occhi delle donne si velarono di una leggera ostilità, e Katrina parve notarlo immediatamente.
“L’ha portata qui Tavington” disse, come se fosse una giustificazione.
I visi delle donne si distesero in un’espressione compassionevole, e le fecero subito cenno di sedersi al tavolo  con loro.
Un attimo dopo una cameriera minuta, poco più di una bambina, si fece strada timidamente tra loro, posando delle ciotole ricolme di brodo e qualche boccone di pane.
“Facci l’abitudine, è tutto quello che passa il convento. Carne solo una volta al mese” disse ancora la ragazza dalla pelle scura, accennandole un sorriso.
Celeste la guardò con più attenzione e lei ne intercettò lo sguardo.
“Ti stai chiedendo da dove arrivi eh? Dal Mexico, mi querida. Il mio nome è Azula, vedi di ricordatelo” le disse, sorridendo più  intensamente. Celeste fu colpita da quella sorta di brio presente nella sua parlantina sciolta e nel suo gesticolare continuo.
La donna davanti a Celeste pareva pensare la stessa cosa.
La osservò con più attenzione: doveva essere la più grande tra loro, forse aveva addirittura più di 30 anni, ma qualcosa nel suo aspetto molle e arrendevole, o nelle belle labbra carnose con un neo scuro sopra, o persino nella crocchia di capelli corvini sfatta, la rendevano estremamente affascinante.
“Non sai quanto invidio il tuo entusiasmo Azula” commentò la donna, con una sorta di amarezza nella voce.
“Qualcuno deve pur tenere alto l’umore del gruppo, tesoro” cinguettò di risposta, sorridendo al suo indirizzo.
Spontaneamente anche gli angoli della bocca di Celeste si tesero in un vago sorriso, sorprendendola, e la donna davanti lo notò, sorridendo a sua volta.
“Io sono Cherry tesoro, è un piacere avere una faccia nuova come la tua” disse, con quello che doveva probabilmente essere un complimento gentile.
“Io sono Caroline” si presentò con uno sbadiglio una ragazza nell’angolo.
Celeste pensò che doveva probabilmente avere poco più di 20 anni, ma il suo aspetto anonimo contrastava con la bellezza delle altre tre donne: i suoi capelli color sabbia ricadevano in spirali rigide come una corda srotolata, senza poter valorizzare il viso dai tratti appena accennati, come se qualcuno li avesse sfumati; gli occhi erano marroni, ma scuri e piccoli come pezzi di carbone, del tutto irrilevanti.
Celeste si guardò attorno, ingoiando l'ultima cucchiaiata di brodo.
“Ma scusate, siamo solo noi?” accennò timidamente, guardando interrogativamente le altre donne.
“Manca Cynthia, sarà su a dormire dopo l’ennesima notte di lavoro, tanto per cambiare” borbottò Azula, finendo la sua minestra in un ultimo famelico sorso.
“Che ti aspettavi, dolcezza? Mica è un bordello questo” disse Cherry, guardando con riprovazione il modo con cui Azula leccava il piatto.
“Ah no?” chiese ancora la nuova arrivata, confusa.
“No sciocchina. Te l’ho detto che è una taverna … siamo a metà strada tra il forte e l’accampamento, bastiamo per gli ufficiali e i soldati di passaggio, credimi” la corresse Kat.
“In teoria saremmo anche cameriere, ma a mandare avanti la caparra è il lavoro notturno, stanne certa. Ci concediamo solo agli ufficiali, ma non ti devi neanche preoccupare di chi ci prova con te; è Madama che provvede a scegliere i clienti” disse Cherry, con la stessa buona volontà di un insegnante che spiega una lezione piuttosto semplice ad un alunna relativamente testarda.
“E vedi di ricordarti di chiedere il pagamento anticipato: si definiscono uomini d’onore, ma tentano sempre di fare i furbi, quei porci” commentò aspramente Azula.
“Cerca sempre di soddisfarli, e quando sei in sala mostrati sempre gentile e disponibile: solo così ti scelgono, e puoi star sicura che Madama non ti butterà in strada” continuò, imperterrita.
Celeste le guardò con occhi sgranati, leggermente confusa dai loro atteggiamenti spicci.
Di rimando, loro la osservarono con più indulgenza.
“E’ la tua prima volta?” chiese a bassa voce Caroline,  come se le stesse chiedendo di rivelarle un intimo segreto.
La giovane annuì, senza il minimo desiderio di parlarne.
Caroline timidamente le sfiorò la mano in una carezza, come se volesse consolarla ma non trovasse le parole.
“La prima volta è la peggiore tesoro, non preoccupartene troppo. Dopo ci farai l’abitudine, gli uomini sono tutti uguali” disse consolatoria Azula.
“Gli uomini sono tutti uguali? Perché devo sentire queste stronzate di prima mattina?” domandò un’alta, velenosa voce femminile.
Un’altra ragazza si aggiunse a loro, scendendo la scala a balzi, facendo ondeggiare la sottoveste semitrasparente che indossava come camicia da notte, lasciando ben poco spazio alla fantasia.
Il suo viso pareva perennemente increspato da un'espressione imbronciata, causata delle voluminose labbra dalla forma a cuore. I tratti spigolosi dovevano evidenziare una certa bellezza da bambina cattiva, che doveva sicuramente esercitare attrattiva negli uomini, ma che Celeste trovò subito volgare. I suoi capelli svolazzanti si accordavano al viso: un osceno arancio brillante, sicuramente ottenuto con chissà quale mistura.
“Cynthia cara, Azula stava appunto spiegando a Celeste che gli uomini sono tutti uguali, come hai ben sentito” disse Cherry, utilizzando un tono educato, velato di un evidente sarcasmo.
Il sorriso di Cynthia si oscurò appena non appena notò il volto nuovo. Non si presentò né la saluto, limitandosi ad afferrare una mela dalla tavola.
“Una nuova arrivata eh? Beh allora vedi di istruirla come si deve, senza raccontare cazzate del genere” ribattè, addentando la mela e masticandola a bocca aperta, sedendosi in disparte.
Cherry la fissò con palese disgusto.
“Anzi, ci penso io, visto che qua sono quella che guadagna più di tutte messe assieme” dichiarò, ridendo scioccamente.
“Bada a come parli Cynthia, qua lavoriamo tutte quante” ribatté aspramente Azula, senza nemmeno guardarla.
Cynthia fece finta di non averla sentita, continuando a guardare malignamente Celeste.
“Innanzitutto gli uomini non sono tutti uguali … C’è chi lo fa meglio ovviamente, e quelli sono i migliori. Ma forse una con la faccia come la tua non se li beccherà mai” disse, fingendosi dispiaciuta.
“A questo tavolo dubito qualcun altra oserebbe dire che Celeste non sia bellissima” la difese Azula, con un’espressione disgustata sul viso.
“Tesoro non arrabbiarti, Cynthia ha solo paura che Celeste gli rubi i clienti” disse Katrina.
La derisione del suo tono fece scattare Cynthia.
“Ma per favore! Con la faccia da melina bianca che si ritrova, dove vorrebbe andare? Ci metto la mano sul fuoco che sei vergine, e nessuno ti ha ancora comprata” disse, scagliandosi contro di loro e fissando Celeste.
Lei non batté ciglio, ostentando un’espressione incolore.
“E invece qualcuno l’ha già scelta, cara mia… come vedi, ha subito fatto conquiste” ribattè Kat, esagerando volutamente.
“E chi sarebbe? Bordon? No no, aspetta… Garrett! So che gli piacciono le bambine … “ insinuò, malevola.
Un attimo di attesa serpeggiò nella tavolata, perché solo due di loro ne erano effettivamente al corrente.
“L’ha scelta Tavington” concluse infine Kat, distogliendo lo sguardo.
Quando udì quel nome Celeste si riscosse. Benchè la discussione vertesse proprio su di lei, abituata come sempre a ignorare i litigi nella cerchia delle sue conoscenze, non prestava la minima attenzione alle parole delle ragazze. Soprattutto non le interessavano le critiche di una qualsiasi acida prostituta.
Le sole parole “cliente”, “pagamento”, “soddisfare” erano bastate perché si chiudesse in un volontario mutismo, mentre la sensazione di essere piombata in un incubo si acuiva.
Ma il nome del colonnello, quel mostro che aveva osato strapparla alle braccia dei suoi fratelli, aveva il potere venefico di calamitare tutta la sua attenzione; in lei si accendeva  un reale interesse, un sentimento nuovo, un misto di pura rabbia e autentico terrore.
Alzò la testa in tempo per poter vedere l’espressione esterrefatta di Cynthia.
“No, non è possibile! Da quando il Colonnello sceglie in modo così scadente? Passi Caroline, ma ora lei!” urlò quasi, il volto paonazzo, alzandosi in piedi.
A Celeste ricordò una bambina capricciosa che pesta i piedi perché le è stato rubato il giocattolo preferito.
Poi parve riprendere il controllo di se, tornando a sedere e posando quel che rimaneva di una mela stritolata.
“Devo proprio averlo fatto impazzire l’ultima volta … si, sicuramente è andata proprio così. Perché, forse non lo sai … ma nessuno ti sa sbattere come sa fare lui” disse, tendendosi verso di lei.
Il sorriso dolciastro con cui parlava di quell’uomo mandò Celeste su tutte le furie.
“Faccio anche a meno di quest’informazione” sibilò, le mani che le prudevano dalla voglia di tirarle uno schiaffo.
“Ma che parlo a fare con una vergine?”disse Cynthia con dispregio, sputando la parola “vergine” come il peggior insulto.
Due mani batterono fortemente sulla tavola, facendole sobbalzare.
“Celeste, per favore, sii così gentile da accompagnarmi a ritirare del tabacco all’emporio qui davanti” proruppe Cherry, alzandosi subito in piedi.
Celeste si alzò immediatamente, il viso che si distese non appena furono fuori da quella casa.
“Ci metto due minuti, aspettami fuori” disse Cherry, entrando in una squallida bottega dove si poteva a malapena scorgerne gli interni, a causa dei vetri incrostati di sporco.
Celeste si guardò attorno: la corta strada era deserta, nelle poche case presenti sembrava che le persone vi si fossero barricate dentro.
Si poteva a malapena definirlo paese: era più una specie di “punto d’incontro” tra due distanze.
Quando la donna uscì, le fece cenno di seguirla sul retro della taverna, dove davanti ad un minuscolo lenzuolo di terra adibito ad orto, vi era una panchina sgangherata.
“Sembrava stessi per colpire Cynthia” disse Cherry, come se fosse una cosa molto divertente.
Celeste non rispose, gli occhi puntati sul lavoro del tabacco: la donna lo estraeva a pizzichi, avvolgendolo in un piccolo pezzo di carta. Lo portò poi alla bocca, accendendolo con un fiammifero e aspirando voluttuosamente il fumo.
Anni addietro, aveva osservato zio Jules fare lo stesso di soppiatto, nascosto nel retrobottega.
“Puoi parlare liberamente con me … a meno che tu non abbia intenzione di picchiarmi” disse ancora Cherry, estremamente divertita.
Celeste sorrise leggermente: si sentiva stranamente a suo agio con quella donna. Aveva la sensazione che dovesse avere esperienze ben peggiori delle sue,e ciò la faceva sentire un po' più rassicurata.
“Quando ero piccola mi picchiavo regolarmente con il mio fratello maggiore … Ero un tipo impulsivo. Poi, crescendo, ho dovuto imparare a comportarmi da signorina, e armarmi di pazienza ” disse la giovane, la dolcezza sulle labbra nel nominare il proprio pacifico passato.
Anche Cherry sorrise vedendo l’espressione rasserenata della ragazza.
“Bè anche chi è armato delle migliori intenzioni, con Cynthia perderebbe la calma” commentò, osservandosi i piedi nudi sporchi di polvere, proprio come quelli di Celeste.
“La odio. Anzi, l’ho sempre odiata, dalla prima volta che l’ho vista. Quella sciocca ragazza rappresenta chiaramente tutto ciò che più detesto. Incarna lo stereotipo che ogni uomo ha di una puttana: stupidità e volgarità” disse, quasi nauseata.
“Tu non sembri stupida, né tantomeno volgare, se questo ti è di qualche consolazione” le suggerì Celeste, incuriosita dalle sue motivazioni.
“Non lo sono mai stata, benché sia una miserabile prostituta da ben 7 anni”
La ragazza la fissò allibita, gli occhi azzurri sgranati.
“7 anni?! Ma … è tantissimo”
Come poteva una donna come Cherry, bella, affascinante e probabilmente anche intelligente, essere finita in quello schifo di “mestiere”?
“E’ un tempo che ti pare infinito, lo so. Ma ci si fa l'abitudine, come a tutto. Ho troppi debiti con Madama, non potrei mai tirarmi fuori da questa merda” commentò, lanciando via il mozzicone.
Il suo sguardo si perse, e il silenzio sostituì le loro parole, prima che la curiosità di Celeste vincesse il riserbo.
“Che ti è successo?” domandò semplicemente.
Gli occhi della donna rimasero immersi in un passato lontano, lasciando che le parole che le fluivano lente dalla bocca dessero dei connotati ben definiti alla sua storia.
“Un tempo appartenevo ad una famiglia contadina: la nostra vita era relativamente dura, e dovevo sudare sui campi come ogni altro membro della famiglia. Ma avevo sogni ben diversi da quelli delle mie sorelle: sognavo un matrimonio in grande stile, una casa grande ed elegante, una famiglia ben diversa dalla nostra.
Ero, ovviamente, una sciocca. Mi lasciai coinvolgere in una relazione con un uomo di un rango sociale molto più alto del mio, immaginando chissà quali piaceri e privilegi. Avevo 19 anni quando rimasi incinta. Non appena lui lo seppe, mi abbandonò; quando la mia famiglia lo scoprì, mi sbatté fuori casa”
Fece una pausa; la sua voce era ferma, ma un lieve tremolio della mano mostrò quanto in realtà le emozioni la stessero divorando.
“Vivevo non lontano da qui, da questo paesello che prima della guerra era ancora piuttosto abitato. Sapevo che vi viveva una mia lontana prozia, un’irrimediabile zitella che, ne ero certa, mi avrebbe accolto. Lo fece, ma in seguito dovetti mantenere da sola me e Matthew, il mio bambino. Lavoravo già qua, esclusivamente come cameriera allora, ma ogni giorno che passava i soldi non bastavano mai. Mio figlio aveva una salute molto fragile, e mia zia protestava giorno e notte. Iniziai a indebitarmi sempre più con Madama, finché fui costretta ad ammettere a me stessa che così non si poteva continuare. Quando la mia prozia mi disse che si sarebbe trasferita a Savannah ed era intenzionata a condurre con se Matthew, non opposi resistenza. Dopodichè, non ebbi più uno scopo, e rimasi qui con Madama, al suo servizio” concluse, come spenta.
“E voi vi siete più …?” domandò Celeste, desiderosa di apprendere la fine della storia.
Ma Cherry scosse la testa.
“No, non ho mai più rincontrato il mio bambino. Era nei patti che non ci saremmo più dovuti vedere. Lui sarebbe cresciuto felice, imparando dei sani valori cristiani, senza più dover camminare nella miseria o contare su una madre che passa le sue giornate a vendersi al miglior offerente” disse con amarezza, asciugandosi furtiva una lacrima che minacciava di lasciarsi cadere da un occhio.
“Però va tutto bene, sai? Dopotutto, Matthew crescerà sano e felice” continuò poi, compiendo lo straordinario sforzo di sorridere.
“Sai Celeste, la vita di chi ami è l’unica cosa che conta davvero nella vita. Conta più della tua stessa vita” disse ancora, sfiorandole una guancia.
Bastò uno sguardo, e Celeste spontaneamente raccontò quello che era successo solo il giorno prima.
Parlandone, le sembrò che fossero già trascorsi giorni interi, tanta era la calma con cui ne parlava.
Alla fine, si sentì sollevata, come se qualcuno le avesse strappato un peso dal cuore, e riuscì persino a non piangere.
Cherry fischiò, ammirata.
“Anche tu ti sei sacrificata, ma a differenza mia sei giovane e hai ancora tutta la vita davanti. Hai avuto un coraggio straordinario. E poi, agire così di fronte  a Tavington …” sussurrò, meravigliata.
Celeste attese che continuasse, ma la donna non aggiunse dettagli su quel maledetto uomo, motivandola a porre ulteriori questioni.
“Quell’uomo … come è con le donne?” chiese, esitante, sperando di ottenere più dettagli rispetto a quelli avuti da Katrina.
Non aveva bisogno di domandare come fosse in generale: aveva già avuto prova di che razza di crudeltà fosse capace.
“Su di lui girano pessime storie: la tua piantagione non è la prima che brucia, e non sei la prima ragazza su cui mette gli occhi” iniziò, parlando come calcolando il peso di ogni sua parola.
“E con le donne … cosa ti posso dire, è come qualsiasi altro uomo. E' un bravo amante, dicono” ammise a malincuore.
“Ma sceglie sempre Cynthia o Caroline, quelle che gli paiono più manipolabili o indifese” aggiunse.
Celeste si mordicchiò il labbro inferiore, come faceva sempre quando era molto nervosa.
“Ma forse dopo la prima notte si stancherà, e tornerà da loro” disse, cercando un po’ di approvazione negli occhi della donna.
“Forse” rispose lei, senza un briciolo di convinzione.
Si alzò, come a voler chiudere il discorso, ma Celeste la fermò.
“Io ti sembro indifesa?”
Cherry si voltò, e il suo sguardo era molto triste.
“Sinceramente Celeste … si, lo sembri”


 

“I won't soothe your pain
I won't ease your strain
Eyes on fire

Your spine is ablaze
Felling any foe with my gaze

 
Non allevierò il tuo dolore

Non faciliterò il tuo esaurimento
Occhi di fuoco
La tua colonna vertebrale è in fiamme
Fulmino qualsiasi nemico con lo sguardo”

-Eyes on a Fire, Blue Fondation-

 
Era lei, ma non era lei.
La ragazza nello specchio non poteva semplicemente essere Celeste.
Più si guardava, più trovava inconcepibile che quel riflesso dovesse essere per forza appartenere a lei
Lo specchio rimandava l’immagine di un corpo da giovane donna, la pelle così bianca da apparire alabastrina, avviluppato in panni da puttana.
L’abito di raso verde scuro le lasciava indecentemente scoperte le caviglie, ma peggio ancora era l’oscena scollatura che poneva in bella mostra i suoi candidi seni, stretti all’inverosimile nel corsetto.
“Ci farai l’abitudine, tranquilla … anche per me all’inizio era difficile” sussurrò Caroline, che aveva seguito l’espressione incredula della giovane.
Quella ragazza parlava poco o niente, ma comunicava con gesti solleciti e gentili; le stava appunto pettinando i capelli e legandoli in un semplice chignon sulla nuca, quando la porta della sua stanza si spalancò ed entrò Madama.
Identica alla sera prima, a parte il cambio d’abito, persino l’espressione compiaciuta sul viso era la stessa.
Analizzò entrambe con occhio critico, avvicinandosi tanto da poterle quasi sfiorare con la punta del naso.
"Caroline, vedi di truccarla. Nessun uomo vorrebbe qualcosa che può già avere a casa” decretò infine, uscendo spazientita.
La ragazza sospirò, continuando a pettinarle i capelli.
“Non è sempre così … spesso e volentieri si, ma a volte sa essere persino gentile” disse a bassa voce, ma Celeste non l’ascoltava.
Il riflesso nello specchio si deformò. Era diverso, ma in un certo senso anche più bello: era un volto appariscente, di una bellezza più aggressiva, ma sotto tutta quella maschera, Celeste riuscì ancora a scorgervi il proprio volto innocente.
Il suo aspetto faceva a pugni con i suoi pensieri: in quel momento sarebbe stata disposta a vendere l’anima al diavolo, pur di poter scappare da quell’inferno.
Non toccò cibo, non bevve neppure un sorso di vino a cena. La sua gola era secca e arida come un deserto mentre scendeva da basso con le altre, i volti e gli abiti identici ai suoi.
La sala si stava riempiendo velocemente, una massa di giubbe rosse che fluivano ai tavoli come se fossero trasportati da una corrente invisibile.
Celeste si appostò vicino al  bancone, osservando i comportamenti delle compagne e al contempo tentando di mimetizzarsi con l'ambiente, prima che Madama la scovasse e la spedisse a prendere le ordinazioni.
“Ma tu guarda, una nuova! Che bel faccino che hai, bambolina!” ululò il primo uomo che appuntò lo sguardo su di lei, afferrandole un lembo dell’abito.
“Ha molto altro di bello questo tesoruccio, fatti dare un’occhiata da vicino, bellezza!” si aggiunse un altro, prendendole un polso.
I commenti e i volti già ubriachi degli uomini la disgustavano.
E quelli dovevano essere dei gentiluomini inglesi? Quando le pagarono le ordinazioni, infilandole le monete nel corsetto, dovette reprimere la nausea.
Desiderava parlare con Cherry o con le altre, ma scoprì che era impossibile: tutte si muovevano frenetiche, caracollando su e giù con i vassoi in mano, e sedendosi tra gli uomini per soddisfare le loro chiacchiere.
Solo i loro sguardi incoraggianti, che aveva la fortuna di incrociare qualche volta, la sostenevano a continuare a servire senza scappare in cucina a nascondersi.
Era impegnata a distribuire gli ultimi boccali sul vassoio, quando una strana sensazione la colse: si sentiva come osservata. Certo, era tutta sera che decine di sguardi la percorrevano, ma questa era una percezione diversa.
Si voltò di scatto e incontrò quel freddo, tremendo sguardo azzurro che fu capace subito di procurarle un brivido.
Si diede della stupida nell’aver sperato che quella sera non si sarebbe presentato a reclamarla.
Tavington era seduto ad un tavolo circolare con altri ufficiali, intenti a bere dai loro boccali e a parlare ad alta voce, come tutti gli altri.
Cynthia era seduta in braccio a uno di loro, cinguettava melensa e beveva dal suo bicchiere, ridendo.
Celeste dovette a malincuore avvicinarsi non appena il Colonnello le fece un cenno del capo, sorridendo beffardo.
“Oh mia cara, unisciti a noi, su! Fai compagnia a questi poveri, valorosi soldati” gorgheggiò Cynthia. Celeste si chiese se quella sciocca ragazza fosse realmente ubriaca o stesse solo facendo finta.
Optò per la seconda ipotesi.
“Ma questa … è la ragazza di ieri? Che meraviglia, devo farti i complimenti signorina!” disse uno degli uomini, guardandola meravigliato.
Celeste non riuscì nemmeno a sorridere, mentre Tavington allargava il braccio sulla panca, come aspettandosi che lei si sedesse contro di lui.
La giovane al contrario si appollaiò sul bordo della panca, senza neppure degnarlo di uno sguardo.
“E come ti chiami, dolcezza?” domandò ancora l’uomo di prima, facendosi più audace.
“Celeste” rispose lei, semplicemente, senza aggiungere una sola parola gentile.
Ma lui neppure parve notarlo.
“Un nome azzeccatissimo! Che ne dite, ragazzi, c’è la giochiamo tra noi per stanotte?” suggerì l’uomo, estraendo delle carte da gioco da una tasca e iniziando a mischiarle.
“Giocate pure amici miei, ma la ragazza stasera è già impegnata” intervenne Tavington, sorridendo sfrontatamente, quasi con sfida.
Gli uomini intorno si fecero subito meno baldanzosi.
“Sei sempre un passo avanti a noi, eh William, vecchio mio?” domandò l’unico rimasto tranquillo, già intento ad affondare il volto nel florido decolté di Cynthia, che rideva contenta come una bambina la mattina del giorno di Natale.
Il colonnello non rispose, e sogghignando tese il braccio e attirò a se  Celeste per la vita, facendola scontrare contro il proprio petto.
Non le rivolse la parola mentre giocava a carte, ma in ogni caso le prestava attenzione: la sua mano scorreva imperterrita sulla sua coscia, accarezzandole l’abito, sollevandolo a tratti.
Celeste non osò muoversi, ma quel contatto la ripugnava profondamente.
La serata entrò nel vivo poco dopo: le voci si alzarono di un’ottava, si udirono canti stentorei e grasse risate, e alcuni si alzavano per sparire: chi per vomitare tutto ciò che aveva bevuto, chi accompagnato da qualcuna delle prostitute nelle camere.
“Devo dire che con il trucco sei piacevolmente cambiata” disse Tavington improvvisamente, distogliendola dai suoi pensieri.
Lei si voltò a guardarlo, mentre l’uomo si attorcigliava intorno al dito una sua ciocca di capelli sfuggita dallo chignon, portandola al naso e odorandola.
“E dimmi, come è stata la prima notte qui?” chiese, un ghigno bastardo che gli illuminava il volto.
Celeste si rifiutò di rispondergli con garbo.
“Uno schifo” dichiarò, senza enfasi.
L’uomo rise, tirandole così forte la ciocca quasi fino a strappargliela.
“Non farci l’abitudine: le tue notti d’ora in poi non saranno certo sprecate a dormire. Non quando ci sarò io, ovviamente” concluse, sussurrandole nell’orecchio.
“E dimmi, sei emozionata all’idea che stanotte ti strapperò uno ad uno i tuoi abiti? Bè, non che tu ne abbia molti addosso … “ aggiunse, solleticandole il lobo con le labbra.
Celeste trattenne il respiro involontariamente.
“Non vedo perché dovrei” sibilò, tentando di mantenere un controllo che neppure aveva.
Un uomo di un altro tavolo si avvicinò e li interruppe.
“Via William, non vorrai tenere questo gingillo tutto per te? Lasciala venire un po’ da noi!” lo sollecitò, gioviale.
Tavington lo fissò con freddezza, irritato per essere stato interrotto.
“La ragazza è già prenotata Garret, tu e i tuoi uomini tenete le mani apposto per stasera” ordinò senza alzare la voce, ma l’effetto fu immediato: l’uomo si ritirò, il sorriso tremante.
Non era l’unico uomo a guardare Celeste; ad ogni tavolo, qualcuno buttava l’occhio furtivo su di lei.
Anche il Colonnello parve notarlo.
“Si aspettano tu vada da loro; come dei bambini che vogliono  provare il nuovo giocattolo” disse, stringendole più fermamente la vita.
“E’ quello che esattamente state facendo anche voi” disse la giovane, sdegnata e in un certo senso impressionata dalla leggera rabbia nella sua voce.
L’uomo invece di arrabbiarsi, sorrise intensamente.
“La differenza, Celeste, è che io sono arrivato per primo”
E a sorpresa, con impeto, la prese per la nuca e posò le labbra sulle sue. La mano si spostò sulle sue giovani guance, premendo fino a quando lei non gli concesse l’accesso.
Il colonnello affondò la lingua nella sua piccola bocca, profanandola, esplorandola.
Celeste spalancò gli occhi, sbigottita: prima ancora di sottrarle la verginità, quell’uomo si divertiva a rubarle il primo bacio. Attese quasi fiduciosa un’immediata sensazione di disgusto, ma questa non giunse.
Non ricambiava il bacio, ma in un certo senso non osava nemmeno ritirarsi man mano che questo si approfondiva ulteriormente.
“Vammi a prendere da bere” sussurrò l’uomo, appena si staccò dalla sua bocca.
Celeste si alzò, malferma sui piedi come se dovesse cadere da un momento all’altro, ancora scombussolata da quel gesto impetuoso e improvviso.
Mentre si dirigeva al bancone per ritirare un’altra birra, ebbe l’assurda sensazione che la sala si fosse allungata quasi, tanto le parve il tempo che impiegò ad andare e tornare.
Si guardò un attimo attorno: non incrociò più lo sguardo di nessuno; al suo passaggio, le teste si voltavano sistematicamente, evitandola.
Tavington parve soddisfatto di ciò, ma ugualmente l’attirò nuovamente a se.
Alternava piccoli sorsi di birra, leccando via la schiuma che gli macchiava la pelle, a continui, profondi baci.
Celeste rimaneva passiva tra le sue braccia; i suoi stessi pensieri si erano come ovattati e lei giaceva così, come una bambola di pezza.
Ma quando l’uomo chinò la testa e le leccò lascivamente il collo, non poté trattenere un brivido.
La mano dell’uomo le sfiorava il seno, anticipando un contatto ben più reale. Celeste, che ne seguiva il percorso apprensiva, alzò lo sguardo e incrociò nuovamente il suo: le iridi dei suoi occhi, simili a ghiaccio, parevano scintillare, ricolme di un desiderio bruciante e violento.
“Andiamo su. Adesso” ordinò, cogliendola di sorpresa, nonostante fosse consapevole che sarebbe successo.
La prese per un polso prima che potesse replicare, e si avviò a passo spedito verso la porta in fondo alla sala.
Celeste si voltò, cercando disperata i volti di qualcuna, ma gli sguardi di Cherry e Azula, le uniche che individuò, erano solo incredibilmente dispiaciuti. Non l’avrebbero salvata, non potevano.
Nessuno poteva più.
Si ritrovò a salire le scale frettolosamente, rischiando di cadere quasi, e in cima il colonnello la sospinse contro la parete del corridoio.
“Qual è la tua stanza?” chiese, respirando affannosamente sul suo collo, come se avesse compiuto una lunga corsa.
“Quella in fondo” rispose lei in un sussurro, prima che l’uomo le prendesse il volto e le strappasse l’ennesimo bacio, come se fosse incapace di resistere oltre.
La trascinò poi in camera, e una volta dentro si premurò di chiudere la porta a chiave e lasciare cadere per terra l’unica via di salvezza della giovane.
Celeste si lanciò verso il comodino, cercando una candela o anche un solo fiammifero, terrorizzata da trovarsi immersa nel buio in sua compagnia.
Tavington fu però più veloce, e afferrandola per la vita, la spinse sul letto, sormontandola, cercando nuovamente le sue labbra.
“Mi lasci! Mii lasci andare!” urlò quasi Celeste, presa dal panico.
Era l’identica, terribile paura del giorno prima: pur dimenandosi, pur cercando di colpirlo o di schivare il suo volto, si trovò incapace di fronteggiare i suoi gesti.
Tavington le prese i polsi, bloccandosi ai lati della testa della giovane.
“C’è ancora bisogno che ti minacci, Celeste? Devo ancora nominare i tuoi fratelli?” domandò, senza un briciolo di rabbia, ma anzi con una calma glaciale. E dieci volte più inquietante.
I tentativi di ribellione si sedarono all’istante.
“Vedi di soddisfarmi” sussurrò l’uomo, compiaciuto dal risultato ottenuto dal semplice uso delle minacce.
Si tuffò nuovamente sul suo collo, stavolta mordendolo con forza, godendo del gemito di dolore che ricevette. Leccò i morsi, scendendo lungo tutta la sua gola, soffermandosi sull’ampia scollatura, e afferrati i bottoni sul retro dell’abito, iniziò a slacciarli inesorabilmente uno dopo l’altro.
Le aprì violentemente l’abito, rivelando il suo corpo nel fiore della giovinezza, avvolto ora solo in corsetto e sottogonna.
L’uomo attese  un suo gesto, ma la ragazza giaceva sulle lenzuola spiegazzate, gli occhi azzurri spalancati e intimoriti.
“Avanti, spogliami” fu costretto a esortarla, in un sussurro.
Le mani di Celeste tremarono mentre sbottonava la giubba dell’uniforme, lasciandogliela cadere alle spalle.
Passò alla camicia bianca dal collo elaborato, ma non osò toglierla, e pudicamente allontanò le mani da lui, sottraendosi al suo ordine.
Tavington si alzò, levandosi la spada e la rivoltella che teneva infilate nella cintura, per poi spogliarsi del tutto. La ragazza distolse immediatamente lo sguardo, ma all’uomo non sfuggì il lieve rossore che le imporporò le guance.
Per quello l’aveva voluta! Era proprio quella sua castità che aveva avuto l’istantaneo potere di eccitarlo, che l’aveva spinto a condurla lì. E ora solo l’idea di poter derubare della sua purezza quella pelle così liscia a e candida lo fece quasi impazzire.
Si impossessò del corsetto e della sottogonna, che fecero subito la stessa fine dei suoi abiti a terra. Si concesse solo una manciata di secondi per poter ammirare appieno il suo corpo, prima di tornare a sormontarla completamente.
Le sue mani vagarono accuratamente su quel corpo, tastandone la morbidezza, come a voler esplorare un nuovo territorio; modellò i suoi seni, ostentando un ghigno compiaciuto quando, guardandola negli occhi, le prese in bocca un capezzolo, succhiandolo avidamente come un lattante.
Celeste si mosse, a disagio: avvertì uno spasmo alla bocca dello stomaco, e più l’uomo continuava a giocare col suo corpo, gustandolo come se fosse un piatto squisito, più si chiedeva che cosa stesse aspettando.
Si era ormai arresa all’evidenza che non sarebbe potuta venire a capo di quella situazione, e desiderò soltanto che tutto ciò si  concludesse in fretta.
Ma dopo la frenesia iniziale, l’uomo parve di tutt’altro avviso.
Con lentezza, lasciò una scia di baci e saliva su tutto il suo petto,  e improvvisamente, non senza una certa irruenza, la penetrò con un dito.
Celeste sentì tutti i muscoli del proprio corpo irrigidirsi violentemente non appena iniziò a muoverlo con una lentezza esasperante, ma era determinata a non mostrare più nessuna emozione, a non lasciar cadere neppure una lacrima o un lamento.
I suoi propositi furono subito infranti quando, con un affondo più deciso, la ragazza fu costretta a mordersi un labbro per non gemere; non poté nemmeno fingere a se stessa che fosse per dolore.
Non poteva essere piacevole. Non doveva assolutamente essere piacevole.
Tavington osservò con attenzione le sensazioni che incresparono il volto della giovane: non era minimamente consapevole di essere un libro aperto sotto ai suoi occhi.
“Sottomettiti a me, Celeste” sussurrò, divertito. E in quegli occhi la giovane vi lesse l’esatta trama di quanto stava per succedere.
Serrò gli occhi con decisione quando le prese le cosce allargandogliele, e lo sentì penetrare in lei.
Li chiuse con così forza che il nero improvviso dietro le sue palpebre la stordì, ma al contempo non poté impedire che dalle sue labbra si strappasse un grido.
Fu paura. Fu terrore. Fu dolore.
Il male era così forte, così avviluppato intimamente al suo cuore che non fu nemmeno più in grado di controllare il proprio corpo.
Mentre l’uomo si accaniva, quasi con bestialità, su di lei,la sua volontà si chiuse a riccio.
Era come avvolta in una bolla di estraneità: avvertiva ciò che le succedeva e al contempo non lo avvertiva.
Sentiva l’impeto delle spinte con le quali l’uomo profanava irruentemente il suo corpo; sentiva  il calore liquido, sangue sicuramente, che le scorreva tra le gambe; sentiva persino le proprie mani arpionare le lenzuola convulsamente, o l’ansimare appagato dell’uomo.
Aveva coscienza di ogni dettaglio, ma ciò non la toccava più. I suoi occhi restarono chiusi e  asciutti e le sue labbra non emisero più un gemito.
Era come morta, proprio come avrebbe desiderato essere.
Le spinte accelerarono incredibilmente, provocando l’ennesima ondata di sordo dolore al suo corpo, e poi diminuirono fino a cessare.
La bolla di estraneità in cui si era rifugiata esplose, e aprendo gli occhi, si ritrovò a fissare quelli del colonnello, che ancora era accasciato su di lei.
Rimasero a guardarsi per un istante, prima che scivolasse fuori dal suo corpo, distendendosi al suo fianco.
La luna si intravedeva appena oltre le nubi, ma la sua pallida luce illuminava i due corpi, gli occhi di entrambi spalancati, concentrati sul biancore del soffitto.
Non una parola, non un gesto.
Il silenzio si distese tra loro, stampandosi come una didascalia.



Elle's Space -

Credo che questo si possa definire un gran ritardo, ma ammetto di essermela presa con comodo, un po' per pigrizia e un po' perché ho la pretesa di continuare altre storie contemporaneamente. Quindi, pur essendo già gennaio inoltrato, auguro a tutti buon anno! :D
Di questo capitolo, che dire? Ho con sorpresa scoperto che esistono altre fic sul Patriota dove la protagonista è costretta a divenire una prostituta. Sorvolando sul fatto che sono magnificamente scritte (e me ne sono già innamorata **), ho deciso di continuarla perché sono particolarmente legata al personaggio di Celeste, e perché il significato della storia è in ogni caso differente.
Riguardo alla "fatidica prima volta"... Lo so che Tavington è un figo allucinante, e se me lo trovassi realmente davanti agli occhi probabilmente gli salterei addosso, ma se mi avesse praticamente distrutto l'esistenza il giorno prima, ammetto che avrei seri problemi ad eccitarmi (semplificando il dibattito sorto con una mia amica sul "Se è un figo, perché non se lo gode?!")

x Cipychan87 : Le storie su Tavington sono davvero poche, e in generale anche quelle su tutti i personaggi di Jason. Almeno con questa storia contribuisco ad ingrandire il numero, lieta che ti sia piaciuta (:

x ragazzapsicolabile91 : Il tuo commento mi ha causato un espressione identica a quella che ebbi da piccola quando mi risposero alla domanda "Pesa più un kg di piume o uno di piombo?". Purtroppo faccio errori frequenti di grammatica, sicuramente capiteranno ancora, mi scuso in anticipo ç_ç. Per il resto, grazie mille dei complimenti e spero che questo capitolo non ti deluda!

Ebbene, ho finito! Buona lettura  e buona serata gente.


Elle H.

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Capitolo 3
*** Amazed by You ***


In Punta di Piedi

di Elle H.

 

CAPITOLO 3 
Amazed by You 


(Di violenza e di speranza; crudele verità; l'usignolo imprigionato; acqua bollente e fiamme gelate)



“And it's so easy when you're evil
This is the life, you see
The Devil tips his hat to me
I do it all because I'm evil
And I do it all for free,
Your tears are all the pay I'll ever need!

 

Ed è così facile quando sei cattivo
Questa è la via, vedi
E il Diavolo inclina il suo cappello verso me
Faccio tutto ciò perché sono cattivo
E lo faccio gratis,
Le tue lacrime sono l'unico guadagno d cui avrò mai bisogno!”

-When you’re Evil, Voltaire- 

 

Poteva certamente far finta che fosse stato solo un incubo.

Seriamente, era quello che si ostinava a fare, da più di un mese, ogni singolo giorno: le sue notti erano solo una piccola parentesi della sua nuova vita, un sogno di pessimo gusto che, immaginava, le capitasse solo per pura casualità.

Dopotutto, ogni mattina si risvegliava sola, abbandonata tra le lenzuola sgualcite e piene di grinze, nella propria camera deserta; nessuno le poneva domande, si avvolgeva in un velo di riservatezza.

Per mezza giornata, era tutto apposto: giaceva in una beata incoscienza, si muoveva appena dalla propria camera, fuggiva le attenzioni delle compagne.

Era una pace perfetta e fragile; e irreale.

Non appena il sole compiva il suo arco, e i suoi caldi raggi abbandonavano la terra, l’incubo iniziava a serpeggiarle attorno, a circondarla tra le sue crudeli spire.

Abbigliata nei suoi abiti da meretrice, non appena incontrava quei gelidi, impietosi occhi azzurri, desiderava morire.

Dopo la prima notte, l’imbarazzo di trovarsi nuda di fronte a lui, e persino quel soffocante dolore fisico si erano dileguati: durante l’intero amplesso, la giovane giaceva apatica, gli occhi vitrei e spenti puntati sul soffitto, tesi a immaginare un passato che non poteva più avere.

“Sai Celeste, vorrei che quando fossimo insieme ci mettessi più impegno” le sussurrò una notte Tavington, mentre, imperterrito, continuava a leccarle la candida pelle della gola, come se desiderasse scioglierla.

La ragazza tacque, rintanata nel suo silenzio protettivo.

L’uomo allora le morse il collo, strappandole un gemito di dolore.

“Esattamente, proprio come un urlo: ti voglio in tutta la tua spontaneità” le spiegò, sorridendo compiaciuto.

“Mi creda, sono più che spontanea in vostra presenza” ribatté gelidamente.

Un altro morso, sul seno, la fece quasi urlare.

Tavington rise, dolcemente, leccandole il segno inflitto dai propri denti.

“Siete un mostro … come potete provare piacere nel torturare una ragazza?” sibilò Celeste, senza fiato, tentando di sottrarsi da quella presa opprimente.

“Questa è una domanda che non dovresti nemmeno pormi, Celeste. Basta guardarti” rispose, sollevandola e trascinandola dinnanzi al grande specchio, tenendola saldamente per le braccia.

Celeste spalancò gli occhi; non era certo la prima volta che si osservava senza abiti indosso, eppure non si era mai vista così … nuda.

I propri occhi indugiarono sulla vita sottile, sui seni che l’uomo poteva comodamente tenere nel palmo di una mano, sulle curve aggraziatamente delineate … Per quanto esile, quello era il corpo di una donna.

Ed effettivamente, era stata costretta a divenire donna prima del tempo.

Alle sue spalle, Tavington l’ammirava con occhi colmi di bramosia, le mani che, invadenti, le accarezzavano i fianchi e i seni, rimarcando il suo possesso.

Celeste non poté fare a meno di osservare, quasi timorosa, il corpo del colonnello: distogliendo lo sguardo dal suo addome, con un vivido barlume di vergogna, risalì il suo petto tonico, dalle spalle ampie e forti, la planimetria dei muscoli guizzanti perfettamente intuibile. La sua pelle chiara era punteggiata da alcune sottili, pallide cicatrici. Quante battaglie doveva aver affrontato quell’uomo? Quante ferite aveva sopportato? E quante razzie e violenze aveva perpetrato su persone innocenti, proprio come lei?

 Non volle saperlo.

 “Io ti trovo, come dire … particolarmente eccitante” disse l’uomo sogghignando, chinandosi su di lei, avvicinando la bocca al suo orecchio.

“Domani devo partire, e ho bisogno di soddisfarmi … stanotte voglio goderti in ogni singolo momento” sussurrò, infilandole la lingua nell’orecchio, poi sollevandola e sbattendola nuovamente tra le coperte.

Celeste accolse la sua immancabile bolla di estraneità come un’amica benvenuta, ma questa volta una nuova sensazione la sosteneva: una flebile speranza si faceva strada in lei.

La speranza di poter finalmente essere lasciata in pace, lontana da quelle continue torture.

All’alba, stanca e provata dopo quella notte che le era parsa quasi interminabile, l’uomo la baciò lascivamente per quella che, sperò con tutta se stessa, fosse l’ultima volta.

“Vattene, vattene, vattene!” urlava a gran voce la mente di Celeste, guardando Tavington rivestirsi.

“Ricordati: quando tornerò, voglio che tu sia molto, molto più accogliente di stanotte” la avvertì, chiudendosi l’ultimo bottone della giubba.

“Vattene, vattene, vattene!” pensò ancora con forza, mentre la sua bocca si era come sigillata.

“Mi hai capito, Celeste? Non so quanto starò via, ma appena torno voglio trovarti qui, su questo letto: a quattro zampe, come una cagna fedele e devota” concluse, ridendo tra se, afferrandole il viso e delineandole il contorno delle labbra con la lingua.

“Vattene, vattene, vattene!”

Quando l’uomo uscì dalla stanza, un ghigno ancora stampato sul volto, la ragazza scese debolmente dal letto, avvolgendosi nel lenzuolo,  raggiungendo la finestra.

Vi si appoggiò, attendendo impaziente.

“Vattene, vattene, vattene!” continuava imperterrita, una cantilena straziante che aveva il potere di assorbire ogni altro pensiero.

Poi vide il colonnello uscire a grandi passi dal portone, rimontare a cavallo e dirigersi, senza voltarsi neppure una volta, verso ovest.

Nei raggi del sole nascente, Celeste, il volto stravolto, pregò perché quell’uomo non facesse più ritorno.

 

 

“Can we pretend that airplanes
In the night sky
Are like shooting stars
I could really use a wish right now

 

Possiamo far finta che gli aerei
Nel cielo notturno
Siano le stelle cadenti
Posso esprimere un desiderio in questo momento”

-Airplanes, BoB ft. Hayley Williams –

 

Dicembre e i suoi freddi avevano disteso una coltre di brina sulle terre del South Carolina.

Le giornate e, in particolare, le notti erano fin troppo fredde anche solo per mettere il naso fuori di casa; nella Taverna, il tempo scorreva con una lentezza esasperante, ma imbottito di note dalla melodia  continua e armoniosa.

Da quando, molti giorni dopo la partenza di Tavington, dei rigattieri avevano offerto a Madama la possibilità di comprare un vecchio pianoforte, la vita di Celeste era cambiata.

“Non so che farmene di un pianoforte, credete forse che qui si insegni a strimpellare?” aveva detto la donna, indignata quasi dall’offerta, ma tentando di nascondere una certa tentazione all’idea di poter attirare maggiore clientela.

“A dire il vero Madama, io ne sono capace …” aveva ribattuto, in un sussurro, Celeste.

La sua vita aveva fatto un salto di qualità: non poteva certamente dire di essere felice, lontana com’era dalla sua vera vita, ma quando le sue dita premevano sui tasti, il sorriso tornava ad addolcirle le labbra. Suonava febbrilmente, tanto che staccarla dallo strumento per i pasti o per dormire diveniva sempre più difficile, ma in compenso ascoltarla era divenuto uno dei quotidiani piaceri delle sue compagne.

Con lei riscoprirono l’arte: immacolata, cristallina; ben diversa dagli unici piaceri peccaminosi a cui erano abituate.

Ogni minuto immerse in quella musica intatta e pura, era un minuto lontano dal loro “lavoro”; e per Celeste, un minuto lontano dal pensiero di Tavington e dalle sue continue preoccupazioni.

Erano passati due mesi dalla partenza degli ufficiali, e la presenza dei soldati si era ridotta fino a scomparire: là fuori, da qualche parte, la guerra mieteva le sue vittime; ogni notte, prima di addormentarsi, Celeste pregava che la morte si portasse via anche l’anima del colonnello.

“Ehi, non pensi più a scappare vero?” chiese una sera Azula, seduta ad un tavolo con una tazza di latte bollente tra le mani.

Le serata ora le passavano così, attorno alla figura dell’ultima arrivata e alle sue dita dall’incantevole dono; perfino Cynthia, apparentemente di malavoglia, si sedeva con loro, miracolosamente in silenzio e con un’espressione malinconica sul viso.

Celeste esitò prima di rispondere, passando le dita sugli amati tasti bianchi e neri, ora ripuliti da tutta la polvere e lo sporco che i rigattieri, senza cura, avevano lasciato depositare sullo strumento.

“No, non più” rispose semplicemente.

Azula sorrise, come se quelle povere parole l’avessero rallegrata.

“Allora vuol dire che qui tra noi ti trovi bene!”

Cherry alzò appena lo sguardo dall’immancabile tabacco.

“Non mi pare abbia mai detto una cosa del genere”

Celeste si voltò, sorridendo senza allegria.

“Non ci penso per il semplice fatto che non ho i mezzi per andarmene, non perché io mi trovi bene qua”

“Ma…” tentò di ribattere Azula, ma colse lo sguardo ammonitore di Caroline, seduta in un angolo con un lavoro a maglia tra le mani.

Grazie a Katrina, tutte sapevano della triste storia che aveva condotto Celeste tra loro, ma non osavano parlarne in sua presenza, in una sorta di riverente ammirazione al suo coraggio e contegno.

“E poi, dubito Tavington approverebbe questo colpo di testa” concluse Kat, sdraiata su una panca, avvolta, freddolosa, in quanti più scialli era riuscita a trovare.

Al solo nominarlo, Celeste fece un gesto nervoso, sbuffando, come se volesse scacciare una mosca.

“Celeste, il tuo problema è che non sai apprezzare! Uomini come lui sono più che rari” disse la voce sferzante di Cynthia, sfidandola con il suo solito, strafottente sorriso.

“Devo proprio fidarmi delle tue parole, visto che ormai te li sei passata tutti” rispose aspramente Celeste, che dalla partenza del colonnello, scopriva ogni giorno in se una nuova forza; Cynthia non era più stata capace di zittirla, e finivano per battibeccare per ore intere, prima che qualcuno le fermasse per evitare che venissero alle mani, strappandosi ogni singolo capello dal capo.

“Non è certo colpa mia se tutti mi vogliono!” ribatté con civetteria, attorcigliandosi una ciocca arancione attorno al dito.

Celeste alzò gli occhi al cielo.

“Mi stai indisponendo” disse infastidita, alzandosi e avviandosi alla finestra, decretando la fine della serata e del discorso.

Cynthia era però di tutt’altro avviso.

“E ancora non capisco come possa trascorrere tutte le sue notti con te, con una che non gode neanche! Mi sento trascurata, io e lui eravamo una coppia fantastica” le fece notare, mimando un broncio indispettito.

La risata di Celeste risuonò  così piena di sarcasmo che l’altra ragazza ammutolì.

“Credimi, si merita tutto il silenzio che io gli concedo” disse Celeste, scostando il laccio che teneva serrate le tende.
“Sta zitta Celeste. Tu sei fortunata, e neppure te ne rendi conto” disse improvvisamente, lapidaria, Caroline.

Tutte alzarono lo sguardo su di lei, sorprese.

La voce della ragazza, sempre così composta e gentile, vibrava di rabbia repressa.

Celeste rimase per un attimo spiazzata, dandole motivo di continuare.

“Tu non sei una prostituta, tu non ti concedi agli uomini” disse ancora, stringendo i pugni.

“Scusami? Sono o non sono qui con voi?!” chiese Celeste, a disagio.

“Tu vai a letto solo con lui. Nessun altro ti sceglie, perché ti ha già scelto lui. Nessuno ti guarda, perchè lui non permette che gli altri ti guardino. Nessuno ti tocca, perché lui non lascia toccare le sue cose” rispose prontamente, alzandosi, stringendo il lavoro a maglia al petto, come un prezioso tesoro.

“Che cosa intendi dire?” chiese esitante Celeste, ma già intuendo quella verità che non avrebbe mai voluto che qualcuno gli sbattesse in faccia.

“Tu sei una cosa sua, tu gli appartieni. Tu non sei una puttana, sei la sua favorita. Sei la sua amante!”urlò Caroline, tradendo così pensieri che celava da chissà quanto tempo, e forse neppure desiderava rivelare.

Si portò la mano alla bocca, spalancando gli occhi alla sua stessa audacia.

Sembrò voler dire qualcos’altro, ma gli sguardi meravigliati delle compagne e quello ferito di Celeste la fermarono.

Scosse la testa, voltandosi e si dirigendosi di sopra, lasciando tutte basite.

Celeste si accoccolò sul davanzale, il viso completo di una maschera malinconica.

Quella era una maledetta verità; una realtà che avrebbe preferito negare.

Sapeva perfettamente che Tavington, per quanto sottilmente crudele e spietato, le aveva riservato un trattamento, per così dire, “di favore”. Eppure non aveva mai contemplato l’idea di essere un qualcosa in più di una semplice prostituta.

Gettò uno sguardo all’esterno: oltre al buio, solo un lenzuolo di terra umida e coperta di brina.

Inutile dire che la veduta dei grandi campi di cotone e granoturco e dell’interminabile boscaglia, il paesaggio in cui era nata e cresciuta, le mancava più di quanto avesse mai potuto pensare.

Cynthia si alzò, sbuffando infastidita per non essere più calcolata, dirigendosi di sopra; i suoi passi arrabbiati risuonarono sul soffitto, facendo scoppiare a ridere le altre.

Anche Celeste si concesse una breve risata, ma la sua voce risuonò opacizzata.

Guardò il cielo, trapuntato di qualche raro scintillio di stelle.

Se fosse stata a casa ….

Se fosse stata piena estate …

Se fosse stata con i suoi fratelli …

Sarebbe stata lì, in una delle radure del bosco, abbracciata a Sophie o a Celia, gli occhi rivolti al cielo terso.

Avrebbero atteso tutti insieme, fiduciosi, qualche stella cadente.

Si sarebbero sollecitati a vicenda, tra strilli e risate, ad esprimere un desiderio.

Appoggiò la testa contro il vetro freddo, reprimendo le lacrime a quel meraviglioso ricordo, che sentiva così distante come se fosse appartenuto ad un’altra ragazza, e non a lei.

Sentì una presenza alle sue spalle e Cherry le si sedette accanto, aprendo leggermente la finestra e appoggiandovisi per fumare.

“Non pensare troppo a quello che ti ha detto Caroline” le suggerì, mostrandole uno di quei suoi rari sorrisi.

“Ma ha ragione” replicò la giovane, chinando la testa.

“Non ho detto che non sia vero, ti ho solo consigliato di non pensarci”

"Ho solo 17 anni, e quando mi guardo allo specchio il mio volto mi pare di un candore assoluto. Davvero, non credevo di poter far gola a qualcuno. Non ad un uomo del genere comunque" disse in un sussurro.
Cherry le lanciò uno sguardo obliquo.

"Tu sei pazza, Celeste. Tu, tra noi, sei come nessun'altra."

Celeste alzò lo sguardo, esaminando ancora il cielo.

Nessuna stella cadente quella notte, nessun desiderio purtroppo.

 

 

“Sweet dreams are made of this
Who am I to disagree?
Travel the world and the seven seas
Everybody is looking for something.

 

I dolci sogni sono fatti di questo 
Chi sono io per dissentire? 
Girare il mondo e I sette mari 
tutti stanno cercando qualcosa”

-Sweet Dreams, Eurythmics-

 

Celeste sapeva di comportarsi da illusa sin dal principio, ma quando era giunta la notizia che gli inglesi avevano vinto la battaglia e sarebbero tornati vittoriosi forse già quella sera, si disse di essere stata fin troppo ottimista.

Si fece nuovamente speranzosa quando, la  mattina, un ragazzino che abitava nelle vicinanze, bastardo di qualche soldato inglese sicuramente, snocciolò qualche nome dei morti. Nessuno degli ufficiali.

Troppo ottimista,decisamente.

Si trascinò in camera, chiudendovisi dentro senza uscire nemmeno per mangiare.

Soffocò un urlo angosciato, seguito da un lungo pianto nervoso, nella morbida stoffa del cuscino: le sue preghiere non erano state nuovamente ascoltate.

Quella sera sarebbe tornata a caracollare per quella maledetta sala, a indossare quegli stracci osceni, a mostrare una maschera di falsa cortesia. Quella sera, forse, si sarebbe trovata di nuovo sotto il corpo di Tavington.

Era solo pura illusione sperare di passare almeno il Natale avvolta in un bozzolo di quieto dolore, ripensando agli anni passati, crogiolandosi nel struggente pensiero di aver però assicurato la festa migliore dell’anno ai suoi fratelli.

Quando quel pomeriggio Madama entrò in camera sua, riscuotendola dal dormiveglia e posandole sul letto un vaporoso abito bianco, non avrebbe potuto sentirsi peggio.

Al solo indossarlo, le parve di caricarsi di un peso, pronto a trascinarla nuovamente nell’incubo.

“Volevo scusarmi per ieri sera. Ho perso la calma, io non…” esordì Caroline quella sera, che come sempre era venuta ad aiutarla per acconciare i capelli.

Celeste la fermò alzando la mano, zittendola.

“Non c’è bisogno che ti scusi, sarebbe come se cercassi delle scuse per aver pensato quelle cose. Sappiamo entrambe che sono vere.” decretò semplicemente, finendo di legarsi in vita una fascia rossa.

Oltre ad una smodata passione per i quattrini, Madama trascorreva le sue giornate tra broccati e velluti per creare abiti per le sue sottoposte, con segrete aspirazioni da sarta di alta moda corrotta da scollature e spacchi di dubbio gusto. Nonostante ciò, dovette ammettere che l’abito era incredibilmente bello.

La gonna bianca, ricoperta di trine, era così vaporosa da avvolgerla come in una nuvola, con il solo potere di enfatizzare la sua magrezza; la cintura in vita, un nastro di velluto color porpora, e la scollatura che le copriva appena i capezzoli era un inno ad una grazia peccaminosa.

Bianca e pura; rossa e corrotta. Un perfetto connubio che rimandava al peccato originale.

“Sei molto bella, Celeste” disse in un sussurro Caroline, finendo di legarle i capelli in uno chignon.

La giovane annuì, rigidamente, tormentandosi le mani con evidente nervosismo.

Da basso giungevano già il vociare e lo sbraitare dei soldati, tornati di evidente buonumore dal fronte.

Quando si affacciò alla porta, dopo essersi convinta a scendere tra le suppliche di Katrina, la sala era gremita.

La pace delle sere prima era stata definitivamente smembrata e fatta a pezzi.

“Tu puttana, ho sete! Portami subito da bere!” urlò un uomo al suo indirizzo.

Il suo viso, già stravolto dall’ubriachezza, subì un repentino cambiamento quando lei lo guardò.

Celeste la rossa. Celeste occhi pallidi. Celeste pelle da morta. Celeste magra come uno scheletro.

Celeste, amante del colonnello William Tavington.

L’uomo biascicò una serie di scuse, rattrappendosi su se stesso tra i compagni ammutoliti.

La ragazza lo ignorò, proseguendo e guardandosi attorno: del colonnello,per ora, nessuna traccia.

Tirò un sospiro di sollievo, distribuendo i boccali ai commensali.

A metà serata, il suo pallido sorriso di sollievo per non aver ancora visto il suo aguzzino, stemperò in una solida, quieta disperazione.

Tavington era lì, in fondo alla sala, con altri due ufficiali al fianco, apparsi quasi magicamente come i cattivi nelle favole. Indicavano il pianoforte, il SUO pianoforte, a Madama.

La donna sorrideva affabile, faceva cenni allo strumento e poi si voltò, come a cercare qualcuno.

Cercava proprio lei, e la indicò agli uomini al suo fianco.

Gli occhi di Celeste incrociarono quelli del colonnello: si sentì spogliata, sondata, profanata da quello sguardo.

La ragazza trattenne il respiro, quando le fece cenno di avvicinarsi.

“La ragazza della tenuta!” disse uno dei due ufficiali non appena la guardò con più attenzione.

Celeste lo ignorò, lo sguardo puntato su Tavington: per qualsiasi altro, gli occhi celesti della giovane erano solo due gemme colorate e attraenti, ma per l’uomo il loro messaggio era chiaro. Sotto quel velo di quieta compostezza, si celavano in egual misura rabbia, sfida e ribellione. Da soffocare, da punire.

 Era quello il divertimento di sottomettere Celeste.

“Capitano Wilkins, Maggiore Bordon, questa è Celeste” disse Madama, tendendo la mano verso di lei.

I due le sorrisero solo leggermente, poiché lo sguardo di Tavington si era spostato, circospetto, ad analizzare le loro espressioni.

“Suonerai qualcosa ai signori stasera” disse sbrigativamente la donna, come se fosse una cosa che la ragazza era abituata a eseguire ogni sera

“Cosa?! No, assolutamente no!” proruppe spontaneamente Celeste, scuotendo la testa.

I tre uomini risero, mentre Madama la prendeva da parte, irata.

Ma il colonnello la fermò, facendole un cenno, e la trascinò fino allo sgabello.

“Voglio sentirti suonare, Celeste” disse con un ghigno, stringendola per il polso.

“Cosa ne può sapere un uomo come voi della musica?” disse tra i denti la ragazza.

Non gli aveva mai parlato in quel modo, e lui decisamente non parve apprezzare.

Strinse la presa con decisione, come se volesse quasi spezzarle il braccio, ma caparbia la giovane non si lasciò sfuggire neppure un lamento.

“Non mi fate male, colonnello” gli disse, con un velato tono di sfida.

“Questo non è un problema, ho tutta la notte per punire la tua insolenza, ragazzina” ribatté, spingendola a sedere.

Celeste si accorse solo in quel momento che il vociare si era placato, lasciando spazio ad un irreale silenzio frammentato da sussurri.

Avvertiva centinaia di sguardi puntati sulla schiena, e maledì la sciagurata idea di Madama.

Era voltata, ma al contempo perfettamente consapevole di ogni singolo uomo presente nella sala; Tavington, appoggiato al pianoforte al suo fianco, la osservava con il perenne ghigno beffardo sul viso, non facilitando il suo compito.

Celeste posò le mani, tremanti, sulla tastiera e istintivamente premette il primo tasto. Poi il secondo. E un terzo.

Non seppe capacitarsi del motivo per cui aveva dato inizio a quella melodia: forse perché era l’ultima canzone suonata di fronte ad un grande pubblico. Proprio lì, al matrimonio di Charles e Leslie, la sua migliore amica.

Quasi un anno prima, aveva dedicato loro quella canzone, in uno splendente giorno di sole estivo.

Le sue labbra si mossero da sole: le note, pure  e cristalline, intonarono la canzone più bella che avesse mai composto.

“Erano pezzi di vetro,

sparsi sul nostro cammino…”

 

Tavington fissò Celeste: prima sorpreso, poi basito e, infine, completamente agghiacciato.

Quella musica lo rimandò violentemente ad un passato che credeva di aver ormai seppellito.

 

“Le nostre difese,

lasciate sospese…”

I ricordi della campagna inglese in cui era nato e cresciuto si sommarono alla musica, riportandolo in una serie di nostalgici ricordi a cui si era ripromesso di non concedersi mai più.

 “Fluida acqua che scorre,

 i nodi miei già si sciolgono”

 

Per crescere, per combattere, per fronteggiare ogni singolo problema della propria vita, si era raccomandato di abbandonare tutto ciò che era stato: ogni ricordo, ogni sano pensiero.

 

“Come neve, d’estate, ma

ti guardo tornare,

 su letti di spine”

 

C’erano cose che sentiva distanti come sogni: erano mai avvenute davvero? Non erano state solo un desiderio di normalità, durante una notte di sbornia in un accampamento gelato?

 “Le nostre paure,

 immotivate… congelate…”

 

Il viso di sua madre. Gli occhi di sua sorella.

Che ne era stato della sua famiglia? C'erano ancora, da qualche parte, vivi e vegeti?

 

 “L’amore con te è come camminare

In Punta di Piedi,

senza potermi fermare”

Celeste era meravigliosa.

Non che non ne fosse al corrente: l’aveva presa con se apposta per quello.

Ma quello che vedeva ora era qualcosa a cui non aveva mai neppure prestato attenzione.

 

Ma sento il tuo calore forte

negli angoli bui,

delle mie stanze gelate”

La sua voce era come lei: pura, limpida come il suo sguardo.

Quegli occhi che parevano fatti di cristallo, che vedeva come appannarsi quando gli si rivolgeva.

 

“Appesa al tuo respiro, mi vedo cadere

 per poi ritornare a sentirmi felice”

Era una cosa che non l’aveva mai turbato, anzi, era un incitamento a piegare quel corpo al suo volere.

Ora, improvvisamente, trovò quel suo sguardo insopportabile.

 

“Ma la tensione che sento  verso il tuo respiro

mi distoglie dal pensiero,

di tutto ciò che è andato perso”

 

Avrebbe voluto tendere una mano e sollevare il suo viso: incontrare i suoi occhi, il suo reale sguardo, e cercare la sua bocca fino ad annegarvi tutto il respiro.

 “E credo con te di potere riparare,

di poter ricostruire,

 tutto nuovo, un po’ diverso”

 

Avvertì una sorta di eccitamento piombare nella musica, cacciare quasi con dolcezza i ricordi, soffermandosi a torturarlo mentre si imbeveva di lei, mentre i suoi occhi si incupivano di desiderio.

“Mi fermo di fronte al tuo viso,

tu che dormi disteso e non sai…”
 

Dardeggiavano intorno alla sua figura, saettando dalla bianca gola, al sottile, desiderabile corpo, inguainato in quell’abito inutile.

 “Di poterti affidare, di poterti fidare… di me”

 

Eppure per la prima volta avvertì quel pregustare il piacere come un atto blasfemo, una bestemmia che insozzava quella musica angelica. Per la prima volta in vita sua, provò un barlume di vergogna di fronte a una donna.

 “Puoi fidarti di me”

 

Quando le ultime note si esaurirono, Celeste realizzò, non senza sgomento, di qual’era l’autentica verità.

Quando aveva scritto la canzone per gli sposi, il suo pensiero era rivolto a se stessa.

A se stessa e al giorno in cui sarebbe stata felice come la sua migliore amica.

Il giorno in cui avrebbe potuto donare il proprio cuore e il proprio corpo con un sorriso sulle labbra.

Il proprio corpo.

Sollevò di scatto lo sguardo su Tavington.

Il silenzio si infranse, una serie di applausi e fischi la circondò. Se si fosse voltata, avrebbe incontrato sguardi ammirati, persino riverenziali, e riconoscenti.

Ma non poteva: era troppo occupata ad osservare la nuova espressione apparsa sul viso del colonnello.

 

 

“There's no smoke without fire,

Baby, baby you're a liar.

 

Non c’è fumo senza fuoco,

Baby, baby sei un bugiardo.”

-Smoke Without Fire, Duffy-

 

 

“Lei è stata fantastica signorina, mi ha ricordato la giovinezza. Anche la mia Margaret suonava così bene il pianoforte, prima di servirmi il tè alle 5 precise di ogni pomeriggio… Ah, come mi manca la mia Maggie” le raccontò uno dei soldati, stringendole vigorosamente la mano, molto nostalgico e molto ubriaco.

Non appena si era alzata in piedi, era stata sospinta tra le acclamazioni dei soldati: non solo si erano complimentati con lei, ma avevano persino fatto a gara per stringerle la mano. Era finita a sentirsi raccontare aneddoti di vite passate, ma ciò in un certo senso le aveva fatto piacere: i loro sguardi erano mutati, come se si rivolgessero ad un abituale  musicista dei salotti londinesi, invece che una prostituta di una qualsiasi taverna di periferia americana.

“Celeste, vedi di non perdere tempo. Il colonnello ti sta aspettando di sopra” la redarguì Cherry, passandole accanto con un vassoio carico e sfiorandole il gomito di malagrazia. Mentre saliva le scale, colse alcuni sguardi delle sue compagne: gonfi di rimprovero e accusa. Probabilmente, in un certo senso, solo invidiosi.

 In corridoio incrociò diverse serve, tutte alle prese con catini di acqua fumante, tutte dirette verso la sua stanza. Quando si accostò all’uscio vide la grande tinozza, in cui facevano regolarmente il bagno, posta al centro della stanza.

Maledì l’uomo per quell’ennesima trovata.

Entrò in camera pronta a qualsiasi cosa, sfruttando quell’impalpabile nuova forza: a ribattere ad ogni sua maligna parola, a colpirlo se necessario.

Si aspettava di tutto, ma non l’identica espressione di poco prima.

Il suo sguardo pareva offuscato, il perenne ghigno strafottente scomparso.

Esitò un istante, prima di battere leggermente le nocche sullo stipite della porta.

Tavington, appoggiato al muro, si riscosse dai suoi pensieri, guardandola, avvicinandosi a lei.

“Chiudi la porta” ordinò, secco e perentorio come sempre.

Irritata, Celeste la chiuse con violenza, facendo tremare i vetri delle finestre.

L’uomo inarcò un sopracciglio, ponendosi di fronte a lei.

Celeste non abbassò lo sguardo, non accennò un movimento: le braccia distese lungo i fianchi, lo guardò.

Sotto la sua espressione neutra, ribolliva un calderone di pece infuocata.

 “Chi ti ha insegnato a suonare in quel modo?” domandò Tavington, cogliendola totalmente di sorpresa.

Sgranò gli occhi, quasi incredula.

“Mia madre” rispose infine, dubbiosa.

“Sei brava” disse con enfasi.

Era una semplice constatazione, molto più di un complimento.

Celeste si morse il labbro inferiore, nervosa. L’agitazione aveva scacciato la rabbia, e si ritrovò con ansia ad attendere un ordine qualsiasi. Che non tardò ad arrivare.

“Spogliami” sussurrò il colonnello, ma fu proprio lui a prenderle i polsi.

Con delicatezza, portandoseli dolcemente al bavero della giubba, stupendola ancor più di prima.

Che cosa era successo, per mutare improvvisamente la sua morsa bestiale e frenetica, a quel tocco mite ma deciso?

Dubbiosa, gli afferrò la giacca e lentamente la sbottonò, ma prima di poter procedere a levargli la camicia, l’uomo prese il sopravvento su di lei: la afferrò per la vita, voltandola di scatto e slacciandole l’abito con gesti esperti.

Affondò la bocca sul suo collo, limitandosi a sfiorarlo con la lingua.

Si sentì quasi in dovere di sbottonargli i pantaloni e calarli ai suoi piedi, mentre l’aria fredda della stanza le solleticava la schiena quasi del tutto scoperta. Vide i propri occhi riflessi sulla lucida rivoltella, ma l’appoggiò a terra, senza osare impossessarsene.

Tavington si distanziò da lei, dirigendosi alla vasca, entrandovi.

Celeste rimase ferma sul posto, girandosi lievemente, lo sguardo ostentatamente rivolto altrove.

Lo udì sospirare, sciacquarsi per diversi minuti, e guardandolo di sbieco lo vide sciogliersi i capelli dall’abituale laccio; gli arrivavano  poco sotto le spalle, lisci capelli castani, mossi solo da qualche ricciolo.

Anche lui la guardava, superbo, sicuro di se. Le parve quello di una belva, in attesa di un pasto meritato.

Tavington la esigeva; la pretendeva.

Ad un suo cenno si chinò accanto a lui; si aspettava di doverlo sciacquare, come una qualunque schiava col proprio padrone, ma lui la sorprese, attirandola per il braccio nella vasca, ancora con indosso la sottoveste che, bagnata, le aderì immediatamente addosso, come una seconda pelle.

Celeste tentò di aggrapparsi ai bordi, l’acqua che già straripava senza sosta sul pavimento, ma l’uomo la trasse nuovamente a se.

La prese per la nuca, avvicinando le labbra alle sue e baciandola.

Non fu come le ultime volte: la sua forza era come controllata, le sue labbra spronavano le sue con dolce violenza, sollecitandola a ricambiarlo.

La giovane non riuscì a capire che cosa fosse cambiato, si sforzò ma senza risultato; si ritrovò a baciarlo veramente, per la prima volta, le lingue che si intrecciavano in un divorarsi frenetico.

Tavington si impossessò dello straccio bagnato che l’avvolgeva ancora, gettandolo sul pavimento con violenza.

Celeste si scostò, sorpresa dai propri gesti, da come aveva perso il controllo. Ma era conscia, ormai, che il più era già stato compiuto.

Era, per così dire, ad un punto di non ritorno.

Quando il colonnello l’afferrò per le natiche, portandola sopra di se, sentì il proprio corpo prendere il sopravvento su qualsiasi altro impulso.

Non c’erano più pensieri, né ideali o divieti mentre l’uomo la penetrava, schiacciandola contro di se.

La bolla di estraneità in cui si era sempre rifugiata era definitivamente scomparsa, forse non era mai neppure esistita: non lo sapeva. Non aveva più importanza.

Era nuda e inerme di fronte al baratro di passione e perdizione in cui l’uomo la stava trascinando senza pietà; le sue braccia si abbarbicarono per la sua schiena, sfiorando ogni muscolo guizzante, aggrappandovisi come ad un ancora di salvezza.

Gli graffiò la pelle, arrivando fino a quasi strappargli lembi di carne viva, quando dalle labbra le sfuggì il primo gemito, seguito immediatamente da un altro. Posò la bocca sul suo collo, ma non fu abbastanza per soffocarli; si stava liquefacendo in un mare di piacere, travolta da onde su cui non aveva nessun potere.

Era così intenso da parere doloroso. In quell’unico barlume di lucidità rimastogli, intuì di star sfogando in ogni grido tutto ciò che finora l’aveva torturata: dolore, lussuria, colpevolezza, angoscia, ansia.

Si svuotò nelle grida, abbandonandosi al corpo dell’amante, senza rendersi conto di essere arrivata ad un passo dal farlo impazzire.

Tavington schiacciò quel corpo senza forze contro al bordo della tinozza; accecato, sfrenato, stravolgendo la realtà: non erano mai stati nemici, non erano mai stati né preda e aguzzino, o padrone e puttana.

Erano semplicemente amanti, il corpo di uno che terminava dove iniziava quello dell’altro.

Il  suo viso lasciò trasparire nitidamente tutto il piacere che era arrivato a sconvolgerlo, e Celeste lo vide: i suoi occhi azzurri erano incatenati ai suoi, stanchi e ricolmi di quell’identico, squisito, perfetto piacere.

Che si placò e scemò fino a scomparire, ma non per questo le loro carni si separarono.

L’acqua era schizzata quasi tutta sul pavimento, e la poca rimasta nella tinozza era gelida; ma nessuno dei due parve avvertirlo.

Abbracciati ancora l'uno all'altro, i loro corpi stavano in compenso bruciando.

 

 

Era qualcosa di estremamente proibito, eppure terribilmente confortante.

Non stava sognando, lo sapeva, ma non riusciva ad ammettere che il sorriso sulle proprie labbra fosse dovuto proprio a lui, all’uomo che le aveva sottratto tutto.

Eppure, il calore di un sole di mezzogiorno l’avvolgeva, e il petto su cui aveva poggiato la testa la sera prima, addormentandosi, era incredibilmente confortevole ed invitante.

Protetta dal suo braccio, scaldata dal suo corpo, Celeste spalancò gli occhi sul mondo e sulla nuova, confusa prospettiva che aveva acquistato durante la notte.

Poggiando la testa su una mano, lo guardò apertamente in viso. Era sveglio come lei, la guardava con medesima intensità.

Celeste non aveva mai fatto caso a quanto il colore dei suoi occhi fosse chiaro: era quasi cristallino, incredibilmente attraente.

Attraente.

Tavington le scostò una ciocca di capelli, capricciosa, dal volto.

“Buongiorno, Celeste” disse, sorridendo con un barlume di furbizia.

 

 

Elle's Space -

Eccomi di ritorno, con un altro notevole ritardo a pesare sulla fedina penale. Ma il colpevole resta la scuola (e altre bozze, ma questa è un altra storia v.v)

Questo può sembrare un capitolo un po' "morto", ma è fondamentale ai fini della storia: qui è dove tutto cambia, dove Tavington comprende la purezza di Celeste, ed  è persino consapevole di averla, in un certo senso, "macchiata". E Celeste... beh, all'improvviso si lascia andare (e finalmente, aggiungerei!).

La canzone, la spettacolare "In Punta di Piedi" di Nathalie (non impazzisco per la musica italiana, ma questa merita davvero) è stata uno spunto per l'intera storia, per il carattere di Celeste. Consiglio di ascoltarla perché è straordinaria **

X ragazzapsicolabile91: Hai visto bene sulle prostitute "amiche-nemiche"; più che altro, anche ai giorni nostri, in un gruppo di sole donne è normale che nascano gelosie e litigi (anche troppi!), anche sorvolando su persone come Cynthia (perché, ne sono convinta, gli stronzi spuntano come fiori). Grazie ancora per i complimenti, spero che anche questo capitolo non ti deluda (:

Auf Wiedersehen! :3

Elle H.

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Capitolo 4
*** Amando, Credendo, Tradendo, Perdendo ***


In Punta di Piedi

di Elle H.

 

CAPITOLO 4
Amando, Credendo, Tradendo, Perdendo   

(Natale senza guerra; anime ingorde e anime dolenti; spine tra le mani, spine tra le dita)

 

“-Quanto è bella, 

 la principessa Salomé questa sera!

-Tu la contempli sempre.

Tu la contempli troppo...”

-Salomè di Oscar Wilde-

 

Impossibile che il Natale fosse riuscito a penetrare le fredde, peccaminose pareti di quel luogo, ed essere riuscito a stabilire un clima quasi familiare, gradevole ed accogliente.

La coltre di neve, candida, farinosa  e scintillante come zucchero a velo; i verdeggianti decori di pino, miracolosamente indenni alla guerra, appesi sopra ogni porta; una profusione di candele in ogni stanza, a diffondere uno stucchevole odore di cera negli ambienti; i continui, elaborati pasti, le cui portate stupivano ogni volta i commensali, non avvezzi a quei peccati di gola; e per i quali, Celeste lo sapeva, erano stati assunti diversi ragazzini del villaggio, promossi ad aiuto cuochi. Tutto contribuiva a perfezionare l'atmosfera natalizia.

Madama stava spendendo un fiume considerevole di denaro per quell’unica festività, ma la ragazza ne comprendeva fin troppo bene la causa: complici il breve periodo di licenza e la sospensione delle battaglie per le continue bufere di neve, molti soldati e quasi tutti gli ufficiali si erano fermati alla Taverna per diversi giorni.

Celeste si piegò su una tavolata, pulendo accuratamente con uno straccio, un’estesa macchia di vino che si andava allargando a vista d’occhio sulla tavola. Era grata di poter nascondere il viso tra i capelli, lasciati sciolti e coronati da morbidi boccoli per l’occasione.

Servivano a nascondere i suoi occhi ancor più assenti del solito.

Notò solo di sfuggita l’ingordigia del soldati; o l’ostentato contegno di alcuni ufficiali; o gli sguardi supplicanti delle altre prostitute che elemosinavano, con sguardi e moine, qualche boccone di cibo, ridendo poi gioiosamente quando venivano imboccate.

Il suo pensiero, la sua presenza erano come sempre altrove, accanto alle inseparabili figure dei fratelli.

Se li immaginava così: rannicchiati attorno alla tavola imbandita degli zii, i volti sorridenti.

Si rifiutava di concepire i loro visi senza sorriso, così come non osava abbandonarsi ai ricordi, o concedersi il lusso di anche solo un boccone; aveva lo stomaco chiuso ermeticamente.

Affaccendata a pulire anche il pavimento, dove il vino era sgocciolato, non si accorse della presenza alle sue spalle.

Non si era neppure accorta di quegli occhi che, abbandonato ogni riserbo, avevano seguito con una sorta di struggimento ogni suo gesto: lo spostarsi di una ciocca di capelli, la mano tesa sul pavimento, l’inclinazione del collo, l’inumidirsi le labbra …

Tavington  si chinò e la prese per la vita, facendola alzare senza la minima fatica.

La guardò solo per un altro istante, ma come ormai capitava sempre più spesso, la ragazza si sentì attraversare da una scossa d’intensità, tremando sotto quello sguardo. Un brivido di anticipazione.
Sotto agli occhi di tutti, il colonnello le prese delicatamente il mento e le strappò un bacio a fior di labbra.

“Non hai fame?” le domandò semplicemente, gli occhi che analizzavano la sua espressione.

“No” rispose Celeste, parole umide contro quelle labbra che tanto la bramavano.

L’uomo la strinse per i fianchi, rimarcando il suo possesso esclusivo.

“Allora vieni di sopra, non voglio più vederti pulire” concluse, conducendola verso le scale.

Gli occhi di tutti i presenti li seguirono con riprovazione mista ad un senso d’invidia.

Tutti ormai sapevano, forse ancor prima di quei due, che tra Celeste Allworthy e il colonnello William Tavington l’odio andava, incredibilmente, trasformandosi in qualcos’altro di ben diverso.

Il tempo per loro si era come cristallizzato.

 

 

“Come è pallida la principessa!

 Mai l'ho veduta così pallida.

Sembra il riflesso di una rosa bianca

in uno specchio d'argento”

-Salomè di Oscar Wilde-

 

La passione è un nemico mortale.

Il luogo in cui viene consumata, un campo di battaglia.

Eppure non c’erano vincitori: anzi, ogni volta, entrambi segretamente si stupivano di essere entrambi perdenti. Non che il sesso non fosse più che soddisfacente … O che uno dei due dovesse farsi pregare per spogliarsi.

Da quella notte insieme, nella tinozza da bagno, le cose tra loro erano completamente cambiate.

I primi giorni la giovane si era trincerata in un silenzio colpevole, crucciandosi su cosa avesse maledettamente stravolto la situazione. Ma smetteva immediatamente di pensarci non appena si trovava nuovamente in camera con lui, scoprendosi smaniosa in un modo che non credeva possibile.

L’aspetto più interessante della questione si era però rivelato il “fuori dal letto”.

In effetti, tra loro non vi erano mai state parole che non fossero minacce e insulti.

Ora, all’improvviso, sembrava sorto dal nulla un oceano intero di parole da dire, segreti da confessare.

Non che Celeste non fosse diffidente; o che Tavington non smettesse i suoi panni crudeli …

Ma quando erano assieme, faccia a faccia, viso contro viso e corpi ancora intrecciati, sembravano aprirsi come una bella di notte sotto la luce della luna.

Parlare così liberamente della propria famiglia, proprio con l’uomo che l’aveva separata da essa, era pazzesco, illogico e irrazionale, eppure al contempo immensamente confortante.

E conoscere, come in un eguale baratto, dettagli della vita di quell’uomo in cambio, aveva l’istantaneo potere di rasserenarla.

William Tavington aveva 37 anni.

William Tavington era nato nella città inglese di Liverpool, che lei aveva sentito nominare una sola volta.

William Tavington era il quarto di sette fratelli, ma di essi ricordava con piacere solo l’unica sorella.

Il suo nome era Mary Kelly.

Eppure, nonostante finissero per raccontarsi spontaneamente parte della propria vita tra le coperte, spesso Tavington si rivelava per essere il solito strafottente, arrogante bastardo.

“Sai, dicono che i ribelli stiano tornando nel South Carolina” disse un pomeriggio, quasi con casualità, accarezzandole lentamente un fianco.

A Celeste però non sfuggi il velato sentore di pericolo contenuto nella frase.

Ancora col viso poggiato nell’incavo del collo dell’uomo, cercò di non mostrargli il proprio disagio.

“E’ una cosa certa?” domandò con finta noncuranza.

“Una nostra spia ci ha riferito che hanno superato il confine del North Carolina, dove si erano rifugiati. Saranno qui a giorni … credo dovremmo andare ad accoglierli degnamente” disse, sottolineando la parola “degnamente” come se fosse qualcosa di molto piacevole e divertente.

L’espressione maligna sul suo volto era inequivocabile.

Celeste avvertì il sangue defluirle dal viso, impallidendo, mentre veniva violentemente strappata dalla pace ritagliata da quella momentanea parentesi di piacere.

Si scostò di scatto come se si fosse scottata, sollevando le lenzuola per coprirsi.

“No!” proferirono le sue labbra.

Non con sfida, né con rabbia, ma con un ardore e un’angoscia tali da riuscire ad impressionare il colonnello.

La osservò tacitamente, appoggiandosi più comodamente alla spalliera del letto.

“Tutta questa preoccupazione per dei ribelli … che non hanno fatto nulla per te, o sbaglio?” le fece notare subdolamente.

Celeste lo guardò con astio. Era tenacemente animata dalla certezza di appartenere alla stessa razza di quegli uomini coraggiosi, che tanto coraggiosamente combattevano la tirannia inglese.

“Loro si ribellano per un giusto ideale, combattono per tutti noi americani, inseguono un sogno di speranza e libertà! Ma dubito voi possiate anche solo comprendere una parola di ciò che dico!” concluse con disgusto, alzandosi rabbiosamente in cerca della sottoveste.

Prima che potesse anche solo protendersi per afferrarla, Tavington si era già alzato, spingendola rudemente contro il muro.

Le afferrò la gola, alzandole il viso per guardarlo con tutta la superiorità in suo possesso.

“Cos’è che non potrei comprendere, Celeste? Forse hai dimenticato che anche io ho combattuto duramente finora? Che ho ucciso, nel nome della mia stessa patria?” domandò, la voce ridotta in un basso ringhio.

Ma la giovane non si lasciò impressionare, gli occhi che ostentavano uno sguardo di sfida.

“Quegli uomini hanno abbandonato tutto, nella speranza di veder migliorare le nostre vite, di ottenere i diritti che ci sono dovuti! Famiglie intere aspettano il loro ritorno, per accoglierli a braccia aperte o piangere sui loro corpi, che voi tanto disprezzate!” rispose con rabbia, sentendosi punta sul vivo.

Portò le mani contro il suo petto nudo, come a volerlo spingere indietro.

“Come osate paragonarvi a loro?! A mio padre, a mio fratello … Voi siete un mostro, un patetico, viscido, arrogante inglese!” pronunciò la parola “inglese” come se fosse uno sputo, un tremendo insulto.

Attese prontamente uno schiaffo per quelle parole battagliere, ma nessun colpo arrivò, come in passato, a punire la sua insolenza.

Alzò lo sguardo sul suo viso e sentì le accese protese rimastegli in bocca evaporare completamente: l’intensità del suo sguardo la tramortì.

In quei devastanti occhi di ghiaccio, la rabbia era stata accantonata per lasciar spazio ad una dolorosa consapevolezza, un sentimento nuovo che la fece esitare.

L’uomo le mollò il viso, girandosi e dandole le spalle senza proferir parola, iniziando a rivestirsi.

Celeste si sentì per la prima volta sgradevolmente in imbarazzo in sua presenza: era una sensazione nuova, dettata da un senso di colpa a cui non sapeva nemmeno attribuire una causa.

Aveva detto solo quello che pensava, giusto? E allora perché si sentiva terribilmente in colpa?

“Colonnello …” lo chiamò, flebilmente, le mani che si stringevano nervose, ancora nuda di fronte a lui.

Qualcosa nel suo tonò dovette destare la sua attenzione, perché si girò immediatamente, mostrandole lo stesso medesimo sguardo di prima.

“Non vi ho mai chiesto cosa vi spinse ad entrare nell’esercito” sussurrò, attribuendo istintivamente

L’uomo posò la camicia, che si stava per infilare, sul letto. Si passò una mano sul viso, come se la ragazza avesse risvegliato in lui antichi ricordi, che un tempo aveva faticato per seppellire.

“Anni fa, i miei fratelli sono stati così gentili da aiutarmi a sperperare tutta l’eredità lasciataci da nostro padre nel gioco. Erano dei buoni a nulla, ma furono più furbi di me. In ogni caso, non ebbi altra scelta per mantenere la famiglia” rispose l’uomo freddamente.

Celeste sentì qualcosa smuoversi dentro di se, sollecitata dal tono atono con cui aveva pronunciato ogni parola.

Si avvicinò a lui lentamente, sollevandosi poi sulle punte e cingendogli il collo per baciarlo.

L’uomo la lasciò fare, sedendosi e attirandola su di se, affascinato dall’arrendevolezza con cui la ragazza gli si offriva, come a voler riparare un danno.

Quando si separarono, la giovane posò la fronte contro quella dell’uomo, mischiando i loro respiri.

“Provi compassione per me ora, Celeste? Non dirmi che ti faccio pena …” lo udì domandare, mentre le sue mani vagavano nuovamente sul suo corpo, che ormai conosceva come una mappa, pronto a riappropriarsi della sua pelle e dei suoi sensi.

“No colonnello, certo che no…” concluse in un sospiro, lasciandosi spingere tra le lenzuola.

Ma era una bugia.

 

 

“Per me si va ne la città dolente, 
per me si va ne l’etterno dolore, 
per me si va tra la perduta gente.  

Dinanzi a me non fuor cose create 
se non etterne, e io etterno duro. 
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate"

-Canto III Inferno, Divina Commedia, Dante - 

 

Quando, spalancando la finestra, una mattina aveva sentito il profumo della primavera e il canto dei merli darle il buongiorno, aveva sentito il cuore stringersi di commozione.

La primavera aveva il potere, ogni anno, di farla tornare bambina.

Ma era bastato abbassare lo sguardo sullo spazio antistante all’entrata della taverna perché il suo umore precipitasse: con il disgelo, i pochi ufficiali rimasti ripartivano verso il fronte.

Tavington compreso.

Il ricordo della loro ultima notte assieme era un pensiero meraviglioso, ma che faceva perennemente a pugni con i sensi di colpa. In ogni caso, ogni notte si addormentava cullandosi con esso.

Invero, non sapeva più cosa le stava succedendo.

Da una parte l’immagine dei propri fratelli, spaesati e impauriti di fronte ad una casa in fiamme, si era impressa indelebile nella sua testa, ma ormai si presentava raramente a bussare ai suoi incubi.

Ad essa si era ormai contrapposta la presenza del colonnello: per quanto crudele, sadico; un mostro; un vizioso, un depravato; un senz’anima né cuore, la cui insensibilità era la concreta prova di quanto fosse…

Un vizio. Un piacere peccaminoso.

La sua assenza poteva essere paragonata all’astinenza di un accanito fumatore di oppio.

Non riusciva più a concepire la sua vita senza di lui, dopo la violenza con cui si erano a vicenda spinti l’uno tra le braccia dell’altra.

Forse era semplicemente pazza. Forse erano pazzi entrambi.

“Vedi di farti ammazzare, colonnello. Sarò la prima a distribuire rose e baci sulla tua tomba”

“E tu vedi di moderare i termini ragazzina, o potrei cambiare idea sul trattamento da riservarti al mio ritorno”

Sorrise tra se, ripensando alle loro ultime parole, all’ultimo gesto del colonnello: posare sul comodino il proprio orologio da taschino, che col suo ticchettio aveva scandito lo scorrere delle ore delle loro giornate assieme.

“Lo conosco fin troppo bene quel sorriso, so a chi stai pensando” cantilenò Kat, superandola sulle scale con un balzo. Avevano trascorso un’altra serata nella taverna deserta, ridendo tra loro come ai primi di dicembre.

Le aveva fatto piacere poter riallacciare i rapporti con le compagne, o perlomeno, non incrociare più i loro sguardi astiosi. Inizialmente diffidenti e sospettose di fronte al nuovo comportamento del colonnello, si erano infine abituate alla sua predilezione per Celeste e a quell’insospettabile dolcezza.

Katrina gioiva persino per la buona sorte dell'amica.

 “Ah si? E sentiamo a chi starei pensando?” ribatté Celeste, ridendo e stando al gioco dell’amica, la prediletta nella ristretta cerchia.

Kat l’attese in cima alle scale, un sorriso furbo sul volto che ricordò tanto a Celeste quello della piccola Sophie.

“Un certo colonnello suppongo … e chi lo sa, magari anche lui starà pensando a te!” concluse civettuola, infilandosi nella camera da letto, mandandole un bacio con la mano.

La verità è che, all’improvviso, vivere era tornato ad essere molto semplice.

Quasi “felice”.

Nei  suoi sogni, ricordi luminosi di giornate piene di sole e sorrisi familiari, all’improvviso era apparso anche la figura del colonnello.

Quando chiudeva gli occhi la sera, addormentarsi era un piacere.

Nienti più incubi.

Zoccoli di cavalli che battono violentemente sul terreno.

Rumori sordi.

Botte violente contro una porta, che si scardina con gran fragore.

Voci urlanti, risate sguaiate.

Grida da straziare l’anima.

Celeste si svegliò di soprassalto, boccheggiando.

Toccò le lenzuola affannosamente, come ad accertarsi di essere ancora viva e vegeta, al sicuro nella propria camera.

Solo un incubo, solo un ricordo di quella tremenda notte di pochi mesi prima.

Un ricordo ormai lontano. Andava tutto bene, si disse, cercando di rassicurasi.

Le urla di Lucy rimbombarono improvvisamente nel corridoio.

Celeste fissò orripilata la porta chiusa, mentre l’eco delle grida filtrava nella stanza, rimbalzando contro le pareti come una palla impazzita. Afferrò dal comodino l’orologio del colonnello: nella fredda luce lunare, vide che erano quasi le cinque del mattino. A breve sarebbe stato giorno.

Rimase indecisa sul da farsi solo per un istante, poi, con uno scatto di reni, si alzò e si lanciò contro l’uscio, spalancandolo e gettandosi nel corridoio.

Spalancò gli occhi, sconvolta, lasciandosi sfuggire un gemito d’orrore.

Nel corridoio, ancora illuminato dalle lampade ad olio, vi erano quattro uomini, energumeni malamente vestiti dai volti sconosciuti; tre di loro battevano rumorosamente alle porte delle altre, ridendo tra loro, ma il quarto era concentrato sulla figura di Caroline: addossata alla parete, la ragazza batteva debolmente i pugni contro la schiena dell’uomo, impegnato a strapparle con ingordigia gli abiti di dosso.

Celeste si pentì troppo tardi del proprio istinto, pensando che avrebbe fatto bene nascondendosi da qualche parte: come un sol uomo, tutti e quattro si voltarono a guardarla.

Prima che potesse anche solo afferrare la maniglia della porta, l’uomo più vicino si era gettato come una belva su di lei, arpionandola saldamente per i polsi.

“E tu carina? Dove pensi di andare?” lo udì biascicare, tentando di afferrarle il viso, inondandola con un alito dal putrido odore di tabacco e gin scadente.

Non perse tempo a urlare: non appena la mano si avvicinò alle sue labbra, la morse con rabbia, nella speranza di  poterla trapassareda parte a parte.

Avvertì in bocca il sapore ferruginoso del sangue, e un attimo dopo l’uomo mollò la presa con un gemito di dolore. Approfittando di quell’attimo, si lanciò in una corsa cieca lungo il corridoio, guidata unicamente dall’istinto di sopravvivenza.

Credette persino che la fortuna fosse veramente dalla sua parte, prima che una gomitata dritta nello stomaco la mandasse a cozzare contro il muro, facendola poi cadere a terra.

La fortuna non era dalla sua parte, non lo era mai stata.

Sentì una mano callosa afferrarle rudemente la caviglia nuda; voltando la testa scoprì solo un altro viso sconosciuto, ricoperto da una folta barba scura e ghignante al suo indirizzo.

Si aspettò di essere trascinata indietro, spogliata come una bambola, nuovamente sotto violenza; ma rimase ancor più sconcertata quando, crudelmente, l’uomo la spinse con decisione verso le scale.

Il suo corpo rotolò dolorosamente lungo l’intera rampa di gradini, picchiando polsi, schiena, ginocchia e infine la testa, dritta contro il muro di fondo.

I sensi per un attimo le si offuscarono, vide solo buio, e sentendosi sollevare per le braccia e trascinare altrove, non riuscì nemmeno a ribellarsi.

L’aria della notte fu uno schiaffo in pieno viso: aprì gli occhi colmi di sgomento, respirando a pieni polmoni per riacquistare i sensi, mentre alle sue spalle la seguivano le urla isteriche delle compagne e le accese protese di Madama.

Senza che gli uomini proferissero parola, a parte insulti o bestemmie, furono costrette a terra in ginocchio.

Cherry, il volto composto, le labbra ridotte in una piega disgustata.

Azula, gli occhi fissi a terra, probabilmente concentrata a trattenere un tremolio delle membra.

Katrina, il dolce viso contratto dalla paura, rannicchiata come se volesse scomparire.

Cynthia e Madama, gli occhi sgranati, evidentemente scioccate da comportamenti a cui non era mai stata avvezze.

E infine Caroline, disperata e piangente, intenta a reggersi la camicia da notte lacerata.

I quattro uomini camminarono davanti a loro a grandi passi, osservandoli spavaldi; sotto la luce della luna Celeste poté guardarli distintamente: la pelle cotta dal sole, i vestiti impolverati e sporchi, i volti ricoperti di barba scura e malfatta, come i capelli mal tenuti.
Avevano un aspetto selvatico e rude, e quando Celeste udì la voce di uno di loro, capì con un colpo al cuore che potevano essere tutto, fuorché inglesi.

“Ora non fate più tanto le sfrontate eh, puttanelle traditrici?” proferì uno di loro, quello che si era avventato per primo su Celeste, in un perfetto accento del South Carolina.

Con sgomento e paura, la giovane notò solo in quel momento che tutti e quattro avevano una rivoltella infilata nelle cinture.

“Scommetto che con i vostri amichetti inglesi non fate tanto le schizzinose, vero?” disse invece un altro, dall’aspetto leggermente più curato, la voce più calma.

Da come gli altri lo guardavano, Celeste intuì rappresentasse il capo.

“E tu, ragazzina, dovrei forse insegnarti un ruolo migliore per usare la bocca, invece di mordere il mio amico come una lurida cagna?” aggiunse, chinandosi sulla ragazza, gli occhi scuri ridotti a fessure.

Mentre Celeste distoglieva lo sguardo, Madama esplose nuovamente in proteste.

 “Noi non abbiamo fatto niente! Siamo americane!” urlò a gran voce.

Ricevette un immediato schiaffo che la gettò a terra, facendole battere la testa sulla strada polverosa.

“Non osare insozzare la nostra patria! Chiunque se la fa col nemico non merita la nostra clemenza” ripetè l’uomo, estraendo la pistola e puntandola su di loro.

“Ian sei troppo buono, queste puttane meritano molto peggio!” disse un altro uomo, arrancando verso di loro.

Il capitano, l’uomo chiamato Ian, si massaggiò il mento, chinandosi nuovamente e passando la canna della pistola lungo l’esile collo di Celeste.

La giovane chiuse gli occhi, terrorizzata, mentre tentava di aggrapparsi ad una serie di pensieri per non cedere definitivamente alla paura. Ma la sola ipotesi che quegli uomini fossero ribelli, quanto suo padre o suo fratello, la gettò definitivamente nel caos più totale.

“Innanzitutto, Elliot, io direi che ci possiamo rilassare con loro… sapete, abbiamo viaggiato molto. Se sarete brave, promettiamo di uccidervi senza torturarvi prima” concluse Ian, rialzandosi in piedi, acclamato dalle risate dei compagni.

“Aspettate! N-Non è colpa nostra se dobbiamo andarci! Loro ci pagano e basta! Noi andremmo anche con voi se..” iniziò confusamente Katrina, balbettando concitata, protendendosi verso uno di loro, nel tentativo di salvare tutte loro.

Vano, inutile tentativo.

Come a rallentatore, tutte osservarono orripilate la mano di quell’Ian alzarsi, il dito posarsi sul grilletto e premerlo con forza, ma non riuscirono nemmeno a proferire una parola.

Cosa avrebbero potuto fare per fermarlo, dopotutto?

Celeste ebbe la sensazione di cadere in una spirale di agghiacciante orrore; il battito del proprio cuore le rimbombò nelle orecchie, un attimo prima della detonazione.

Lo sparo risuonò nella strada, lacerando la notte.

Il corpo esamine di Katrina cadde a terra con un tonfo.

Vi fu solo un altro istante di silenzio, poi con un gemito sommesso Azula si gettò sul cadavere dell’amica, urlando e piangendo al contempo, portandosi le mani tra i capelli e strappandoseli.

Celeste rimase senza fiato: i suoi occhi oscillarono sulla figura della compagna, la prima con cui aveva stabilito un legame, una sorta di amicizia. I boccoli biondi immersi nel pulviscolo della strada, il viso irrealmente calmo, quasi sereno … pareva addormentata.

Ma lo squarcio all’altezza del cuore, una ferita stillante sangue copioso, che andava velocemente ad inzuppare la camicia da notte candida, era inequivocabile.

Esitante si chinò sul corpo, sfiorandole una mano, così pallida da parer luccicare sotto la luce della luna.

Fredda, completamente congelata.

Morta.  Inconcepibilmente morta.

Poteva essere solo un abominio. Era contro natura. Semplicemente, non poteva essere vero.

Le lacrime, così spesso pronte ad uscire in quegli ultimi tempi, parevano ora essersi congelate.

“Ti ho detto che puoi muoverti, puttana?!” urlò l’uomo, afferrandola violentemente per la spalla con così tanta forza da rischiare di fratturargliela. La sollevò, per poi rigettarla a terra con due schiaffi violenti.

La giovane urlò di dolore, portandosi la mano alle guancie in fiamme, il dolore che andava a formare un macigno sul cuore.

Un grido rabbioso di Cherry infranse l’atmosfera, e con la coda dell’occhio la vide alzarsi e gettarsi con tutta la sua forza contro un terzo uomo, colpendolo in viso. Inutilmente.

L’uomo la colpì crudelmente alla nuca con il calcio della pistola; il colpo risuonò stranamente ovattato, e Celeste temette il peggio, ma non potè in ogni caso accertarsene.

Prima ancora che potesse realizzare quanto stava accadendo, Ian, riprendendo possesso della sua spalla, la trascinò verso il retro della taverna, spingendola contro al muro e schiacciandola con tutto il suo peso.

Le afferrò la camicia da notte, afferrandole un lembo per strapparla, e lei  captò lo sguardo: era identico a quello di uno sciacallo affamato, pronto a scarnificare la preda.

Rimembrò per un istante la violenza cui era stata sottoposta dal colonnello: il suo sguardo gelido e bramoso non era mai stato un ricordo tanto dolce.

Il corpo della giovane mutò in quello di una pazza: le sue mani smaniose iniziarono a colpire l’uomo dove capitava, i piedi scalciarono frenetici per liberarsi da quell’opprimente presa, sfogando la rabbia e il dolore nelle urla.

L’uomo infastidito tentò di tenerla ferma bloccandole le braccia, ma infine esasperato estrasse la rivoltella, puntandogliela sulla fronte.

Come un tempo aveva fatto anche Tavington. Che, intuì con un groppo in gola, non avrebbe mai più potuto vedere.

Il solo pensiero rischiò di farle perdere anche l’ultimo barlume di autocontrollo rimastole.

Tentò di fermare l’uomo.

“Sono la figlia di Allworthy! Conrad Allworthy!!”  biascicò, tentando di calmarsi,

Le parve di sentire in lontananza il nitrito di un cavallo, facendo accendere in lei una flebile speranza.

L’uomo parve non farci caso.

“Allworthy? Andrew Allworthy?” chiese, interessato.

“Si si è mio fratello!” si affrettò a rispondere, incredula.

Un ghigno sadico gli illuminò il volto.

“Quel figlio di troia mi deve fin troppi soldi, da troppo tempo. E la mia pazienza ha un limite.”

Udì ancora dei rumori estranei, altre persone forse, ma non aveva più importanza: Ian non pareva darci troppa importanza, tutto concentrato su di lei.

La guardava con uno sguardo nuovo, ogni desiderio scomparso.

Uno sguardo di pura crudeltà.

“Pareggerò da me i conti: sarà un piacere uccidere la sua sorellina. Peccato tesoro, eri davvero graziosa” disse alzando nuovamente la rivoltella, puntandogliela in mezzo agli occhi.

“No, mio fratello non lo farebbe mai, si sta sbagliando!” urlò Celeste, portandosi istintivamente le mani di fronte al viso.

“Ciao ciao, zuccherino”

Il suo sorriso crudele fu l’ultima cosa che vide prima di serrare gli occhi, e il suo ultimo disperato pensiero fu per il colonnello.

Lo sparò risuonò con violenza.

Il suo voltò fu cosparso di una miriade di gocce di sangue. Le orecchie cominciarono a fischiarle fastidiosamente.

Aprì gli occhi. Il sangue non era suo.

Era viva, paralizzata contro il muro. Ma viva.

Davanti a lei il cadavere di Ian crollò a terra con un rantolo.

Celeste guardò il colonnello, la pistola in mano ancora fumante. Non riusciva a proferire parola.

Le sue lacrime si sciolsero come ghiaccio al sole, e le braccia dell’uomo tornarono ad essere il suo rifugio.

 

 

“Roxanne!

You don't have to wear that dress tonight.
Roxanne!

You don't have to sell your body to the night.

 

Roxanne! 
Tu non devi indossare quel vestito stanotte.
Roxanne! 
Tu non devi vendere il tuo corpo alla notte.”

-El Tango de Roxanne, Moulin Rouge-
 

 

“Prendete le altre e portale al forte, fatele stare con le altre puttane. Di spazio dovremmo averne” ordinò il maggiore Bordon agli altri soldati, insolitamente serio.

Poi si voltò, le mani intrecciate dietro la schiena, rivolgendosi ansioso al colonnello.

“Mio signore, abbiamo fatto quanto ordinato. Abbiamo ucciso i ribelli e seppellito la ragazza”

Tavington annuì appena, tanto che il maggiore dubitò per un attimo che avesse sentito.

“Perfetto, Bordon. Tornate pure al forte, io vi raggiungerò a breve” ordinò però seccamente.

Il sottoposto ne fu però sollevato, sentendosi a disagio di fronte alla freddezza dell’uomo, ancor più glaciale del solito.

“Sì signore, ai suoi ordini signore!” concluse, battendo sui tacchi, e dirigendosi quasi di corsa ai cavalli.

Il colonnello Tavington congedò i suoi sottoposti con un gesto frettoloso della mano, senza neppure guardarli mentre, uno dopo l’altro, raccoglievano sui propri cavalli le prostitute piangenti, che si guardavano attorno come spaesate, stringendosi l’una all’altra.

Celeste non si mosse per salutarle. Non si avvicinò nemmeno a loro.

Accoccolata in un angolo, le ginocchia strette al petto e coperta con la giubba del colonnello contro il freddo pungente, fissava il tumulo di terra sotto cui giaceva il cadavere di Katrina.  Aveva osservato gli uomini scavare la fossa, e non era riuscita ad alzarsi nemmeno per dire qualche parola di estremo congedo.

Forse perché parole da dire non vi erano: le sue lacrime esprimevano tutto ciò che provava, e aveva provato per l’amica, la più cara in quella vita d’inferno.

Era stato il colonnello a dare gli ordini, interrogando prima i ribelli, ma il suo sguardo era sempre stato attento alla figuretta della ragazza, accantonata in un angolo, come se volesse scomparire nell’oscurità.

L’uomo si avvicinò, una leggera pelle d’oca sotto la camicia candida, e si chinò accanto a lei, puntellandosi sulle ginocchia.

“E' una fortuna che la nostra spia ci abbia riferito dello spostamento di quel manipolo di uomini... Come ti senti?” le chiese, apprensivo, sfiorandole una guancia.

Celeste gettò all’indietro la testa, traendo un respiro profondo per calmarsi e tentare di dare un freno alle lacrime.

“Male” rispose, la voce strozzata.

Tavington le prese il viso per un attimo, riscaldandolo tra le proprie mani.

“Mi dispiace per Katrina” disse, indeciso su cosa dire esattamente, sentendosi estraneo al dolore della ragazza.

Ella si asciugò le lacrime con il dorso della mano, guardandolo poi con uno sguardo disarmante.

“Non è solo per Kat … Ma per gli uomini. Erano i ribelli che tanto ho difeso e in cui ho sperato, americani quanto me, e i miei fratelli, e mio padre e…” si fermò, la voce rotta nuovamente dal pianto.

“Sono morti Celeste, li abbiamo uccisi subito … stavano cercando solo qualcuno su cui sfogare la propria inutile rabbia” spiegò con disprezzo.

“Ma ciò non cambia cosa hanno fatto! Io credevo che … che solo voi inglesi faceste cose del genere, che noi fossimo nel giusto! Io non avrei mai immaginato che persone come mio padre, o mio fratello… fossero così” ribattè, con evidente fatica, passandosi le mani tra i capelli annodati.

Poi rivolse nuovamente lo sguardo all’uomo, che la fissava pronto a qualsiasi reazione.

“Che ne sarà delle altre?” domandò, cercando di rimettersi in piedi.

“Le ho fatte portare al forte, ci sono altre prostitute con cui potranno stare” rispose aiutandola a sollevarsi.

“Staranno bene?”

“Ma certo, come qua …  più o meno”

Celeste non si fidò molto di quella risposta approssimativa, ma non aveva più voglia di indagare, accollandosi altri pensieri.

All’improvviso si era profilata una questione più importante dove andare.

 “E io dove andrò?” domandò, dubbiosa.

Tavington le prese le mani, stringendole tra le sue, come se dovesse annunciarle qualcosa di molto importante. Per un folle momento pensò persino che si sarebbe inginocchiato e le avrebbe chiesto di sposarlo.

Un folle, meraviglioso momento.

“Ho pensato che potresti stabilirti all’accampamento, seguirmi negli spostamenti, e…” iniziò, sorridendo lievemente.

“E aspettarti nella tenda durante le battaglie, pronta a mettermi nel tuo letto quando torni?” domandò duramente la ragazza, facendolo arrestare sorpreso.

“Qual è il problema? Saresti al sicuro, potrei sorvegliarti”

“Come un cane? Cosa dovrei essere, la tua puttana, una tua proprietà?” ribatté, senza nemmeno accorgersi di aver, per la prima volta, datogli del “tu”.

Tavington tentò di dire qualcosa, ma lei lo interruppe con un gesto brusco, infervorata.

“Forse non ti ricordi che vita conducevo prima, quella che tu mi hai strappato! Tu mi hai strappato l’esistenza, mi hai trascinato fino a qua per servirti come una schiava, per scaldare il tuo letto ed esaudire i tuoi desideri depravati! E ora che sembrava andare tutto bene, e dopo una notte così, tu mi proponi… questo” urlò, per poi lasciare che la voce si spegnesse lentamente, sentendosi improvvisamente stanca.

Scacciò le lacrime dalle guancie con una manata, come una bambina, aspettandosi come minimo un aspro commento. E rimanendo nuovamente stupita.

La realtà messa in evidenza aveva avuto il potere di stordire l’uomo, che come unica reazione l’afferrò per la vita, stringendola a se.

“Io non voglio che ti capiti niente” sussurrò nei suoi capelli, aspirandone il profumo ancora intatto.

Celeste appoggiò la testa contro il suo petto.

“E io non voglio essere la tua mantenuta” sussurrò.

L’uomo trasse un respiro profondo, preparandosi a ciò che non avrebbe mai desiderato di fare.

La strinse fermamente a se, con un’intensità tale che sentì le proprie membra tremare.

Forse era l’ultima volta che avrebbe potuto fare una cosa del genere.

Alle loro spalle, il nuovo sole fece capolino da una nube, illuminando quella terra desolata, macchiata di sangue innocente, con il primo raggio dorato.

“Allora ti riporto a casa, Celeste” scandì lentamente il colonnello.

 

 

Elle's Space - 

Taratatata... *fanfara d'arrivo*

Ok, è un ritardo pauroso, peggiore del solito, di dimensioni cosmiche, ma... se è per la scuola, sono perdonata, giusto?

Chiedo pardon, ma davvero questo capitolo ha richiesto uno sforzo maggiore del solito, e non ne sono pienamente soddisfatta (sarà per mancanza di scene di sesso? Non mi pongo la domanda, per un altro capitolo sarà così ancora, purtroppo D: Ragioni di copione!)

Beh, che dire di questo? Il mio colonnello preferito dimostra di possedere un cuore! E' sotto ogni punto di vista, un figo. E Celeste, come si intuisce, sta già andando incontro ad un innamoramento perso (eh beh, chiamala scema!)

x ragazzapsicolabile91: "Un usignolo tra i corvi", mi piace *-* Spero questo capitolo non ti abbia deluso... Ok, il colonnello è un bastardo (e sempre lo sarà, oh si!), ma come appunto hai detto, di fronte ad una ragazza come Celeste inizia a moderare il comportamento (è un figo lo stesso v.v)

x RoxHanne: Ma guarda chi c'è! Eccoti il quarto capitolo mia cara, grazie per i complimenti, ma davvero: troppo gentile! (domani ti sbraccio per bene, bella Rosita!)

x queenofoto: grazie mille per i complimenti (dove c'è Jason, c'è casa!) *w* Spero che essendomi discostata leggermente dalla figura bastarda e maniacale del colonnello, non ti abbia creato traumi e incazzature. In tal caso, chiedo umilmente perdono. Puoi linciarmi, se ti aggrada *si prepara già a scappare*

x herAmnesia: lietissima che ti piacciano tutti e tre i capitoli *-* Spero che anche questo non ti deluda, pur trovandolo a momenti un po'... abbozzato!

Eventuali critiche sono ben accette e grazie a chiunque legga la storia, e i soliti BlaBlaBla.

Au Revoir :3

Elle H.

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Capitolo 5
*** Do you, remember me? ***


In Punta di Piedi

di Elle H.


CAPITOLO 5
Do you, remember me?

(Spine e gabbie di sospetti; due luoghi senza ossigeno; l'evasione)

 

“Every rose has its thorn 
Just like every night has its dawn
 
Ogni rosa ha le sue spine
Proprio come ogni notte ha la sua alba”

-Every Rose has its Thorn, Poison-

 

La foschia mattutina fu infranta dal galoppo impetuoso di un cavallo, trascinando con se tutta la feroce disperazione di due anime.
Si arrestò solamente ad un imperioso schioccar di redini dell'esperto cavaliere, fermando la corsa non lontano da una piccola cittadina.
Un uomo, il viso rabbuiato da un'espressione cupa, smontò agilmente da cavallo, tendendo la mano a una giovane donna, con indosso una lacera camicia da notte e una giubba inglese che era il doppio di lei.
La ragazza rabbrividì, il volto illuminato dal tenue bagliore dell’alba, le figure di entrambi avvolte in un silenzio carico di sottintesi.
Bastarono poche parole, nulla di più di pallidi sussurri.
“Buona fortuna, Celeste”
“Buona fortuna... William”
Bastò il tempo infinitesimale di uno sfiorarsi di labbra per sancire definitivamente l’addio.

 

“Ayer la vi por ahí tomando
Queriendo morir, llorando
Quien le hizo eso a ella, tan bella
Que ahoga hoy sus sueños en esa botella

 
Ieri l’ho vista in giro che beveva 
Volendo morire, in lacrime 
Chi le ha fatto questo, lei tanto bella 
Che oggi affoga i suoi sogni,

 in questa bottiglia”
-Ayer la vi, Don Omar-

 

Da quando il corpo di Andrew Allworthy si era lanciato frettolosamente nella pubertà, cambiando fino a divenire quello che era oggi, il suo carattere era  mutato fino ad essere irriconoscibile.
Sotto quella massa di indisciplinati capelli biondi, che gli avrebbero conferito un aspetto da cherubino se non fosse stato per la durezza degli occhi, il suo volto pareva incapace di trattenere i sentimenti.
Sempre animato da una continua smania d’agire, in seguito ai duri mesi trascorsi nella ribellione, la sua bocca fine era atteggiata in una perenne piega di disprezzo.
“Andrew, avresti la buona grazia di metterti a sedere e ascoltare tuo zio?” lo redarguì il padre con asprezza, mentre il cognato si sedeva accanto a loro, posando il bastone a cui era solito sostenersi negli ultimi tempi.
“Oh non fa niente Conrad, i giovani di questi tempi sono tutti così irrequieti … Prendi una bottiglia di brandy, già che ci sei” disse con un gesto beneaugurante.
Il ragazzo si avvicinò alla credenza dove, per la prima volta, aveva il permesso di poter prendere una delle tante bottiglie, sempre presenti da quando era solo un bambino.
Fu sorpreso di trovarne appena tre, e ancor più stupito di intravederne almeno cinque vuote, nascoste in un angolo.
“Siamo contenti del vostro ritorno, sani e salvi… Sono stati tempi durissimi per entrambi, ma la riappacificazione è sempre un lieto evento” esordì Jules Kinglake, impacciato dal consueto imbarazzo per ogni manifestazione di sentimenti tra uomini.
“E’ stato un viaggio pesante Jules, grazie a dio possiamo finalmente bere qualcosa” ringraziò stancamente Conrad Allworthy, mentre il figlio si sedeva sul divano al suo fianco.
“E’ una mia impressione, o ti scarseggiano le bottiglie? Ti sei dato al bere eh, zio?” domandò in modo irriverente Andrew.
Prima che il padre potesse rimproverarlo, lo zio gli fece un cenno, limitandosi a riempire i bicchieri fino all’orlo.
Gli occhi dell’uomo rimasero fermi sulla figura del nipote, che si esprimeva ormai con tutta la sicurezza di un uomo fatto e finito.
“Come procede la guerra, cognato?” domandò, evitando cautamente la domanda di poco prima.
Un respiro profondo e spossato fu la prima risposta che ricevette.
“Siamo in una posizione di stallo. Quei bastardi inglesi non arretrano di un centimetro, ma anche noi ci stiamo facendo valere. Ma non ho voglia di parlare ancora di questa dannata guerra … Parlami dei ragazzi”
Lo sguardò del cognato si velò ulteriormente d'angoscia.
“Mentre ero all’emporio, Lucy vi avrà raccontato qualcosa, giusto?”
Entrambi annuirono silenziosamente, rimembrando la breve conversazione con la moglie.
“All’inizio credevo non sarebbero riusciti a superare il colpo … erano convinti Celeste fosse morta, a nulla valevano le nostre rassicurazioni. Hanno passato notti intere sconvolti dal pianto o chissà da quali terribili supposizioni. Alla fine si sono quietati,affidandosi più alla presenza di Daniel che alla nostra,  ma non si sono mai rassegnati … fino al ritorno della ragazza” concluse, vuotando il bicchiere in un sorso con una smorfia.
Conrad Allworthy centellinò il liquido ambrato primo di portarlo alla bocca, pensieroso.
“E Celeste come sta? Cosa vi ha rivelato?”
“Poco o nulla. Ha raccontato ciò che ha spinto il colonnello inglese a riportarla qua, ovvero l’assassinio della sua amica da parte di alcuni americani di passaggio; ma di ciò che era successo prima, di dove si trovasse o il nome dell’uomo … nulla. Non siamo riusciti a cavarle una parola di bocca”
“Credi l’abbiano minacciata o la ricattino perché non racconti nulla?” chiese prontamente Andrew, stringendo così forte il bicchiere da rischiare di romperlo.
Ma lo zio scosse lentamente la testa.
“No, non credo. Sono portato a supporre che la ragazza nutra un qualche legame con quell’uomo o con qualcun altro che cerca di coprire”
Andrew tentò di protestare, ma il padre lo bloccò con un gesto, lasciando proseguire il cognato.
“Vedete lei aiuta Lucy, gioca con Eloise e i ragazzi, mangia, cammina, legge, suona. Vive come prima, ma … è assente. I suoi occhi non comunicano niente. E’come se fosse … vuota” finì, incapace di descrivere a parole la condizione di quella che era sempre stata la nipote preferita.
“Ed è per questo intanto che si scola le tue bottiglie?”chiese allusivamente Andrew, indicando l’angolo della stanza.
Il padre strabuzzò gli occhi, quasi strozzandosi con un sorso di brandy.
Jules fissò il nipote con astio.
“Tua sorella non è un’ubriacona … ha solo qualche problema, e non dubito che riuscirà a risolverli”
Conrad si limitò a sospirare nuovamente, passandosi una mano sul viso con fare stanco.
“Stasera dopo cena le parleremo. E’ anche una questione di vitale importanza: potremmo avere importanti dettagli sugli inglesi e sui loro spostamenti” concluse.
“Non c’è problema, ci penso io” disse il fratello, alzandosi.
“Usa molto tatto, Andrew, te ne prego. Celeste mi è sembrata ancor più fragile di quanto non fosse prima” lo ammonì lo zio, gli occhi quasi supplicanti
Il ragazzo gli rivolse un sorriso incredibilmente aspro.
“Celeste non è mai stata fragile
"

 
 

"Nel mio cuor dubitoso 
sento bene una voce 
che mi dice:
 "Veramente 
potresti essere felice". 
Lo potrei, ma non oso."
-Umberto Saba-
 

 
 

“Sono contenta che sei qui” sussurrò Sophie, trotterellando verso il grande letto dalle coperte candide, infilandovisi sotto e stringendosi tra le due sorelle.
Celeste sorrise, attirando a se la bambina e stampandole un bacio sulla guancia fresca e vellutata.
“Anche io sono tanto felice di poter stare con voi” le rispose, mentre la sorellina le tirava le dita della mano per gioco, tentando di farle scrocchiare le ossa.
Dall’altro lato del letto intanto Cecilia ascoltava.
“Ti ho sentito litigare con papà ed Andrew l’altra sera. Hai detto di non voler rispondere alle loro domande”disse a bassa voce, con tono accusatorio; del quale si pentì subito, non abituata a rivolgersi in quei termini alla sorella maggiore.
Ma la giovane non parve darvi peso.
“Sì, l ho detto” rispose semplicemente, sistemando meglio le coperte sui loro corpi.
Vi fu un lungo attimo di silenzio, in cui Celeste suppose che le sorelline si fossero addormentate.
Sophie sicuramente, a  giudicare dal respiro pesante, il pollice infilato in bocca; ma Celia, con rinnovata caparbietà, non ancora.
Dal basso dei suoi 10 anni mostrava già un intuito formidabile.
“Quell’uomo, quello che ti ha portato via … tu non lo odi, vero?”
Celeste esitò prima di rispondere, preoccupata dall’idea che una sua risposta potesse compromettere le vaghe informazioni date al padre e al fratello maggiore.
“No, non lo odio” rispose infine, sospirando flebilmente.
Pausa di riflessione, in cui Celia parve rimuginare tra se.
“Quindi non è una persona cattiva?”
Celeste sorrise alla sua benedetta innocenza.
Avrebbe tanto voluto risponderle qualcosa come “No, non è persona cattiva. E’ un bastardo è vero, ma è quanto di meglio possa desiderare”, ma limitò con decisione le proprie parole.
“Non lo so Celia, non lo so. Dormi, che è tardi” concluse, il sorriso che mutava in una piega amara.
Udì sbuffare la sorella mentre le voltava la schiena, tirando a se le coperte.
La maggiore poggiò la testa sulle braccia, osservando la stanza buia, illuminata fiocamente dallo spiraglio sotto la porta, cullandosi con i rumori della casa.
Non era grande, giusto lo spazio necessario per tutti loro, costretti a dormire rannicchiati l’uno all’altro. Il padre e Andrew si erano stabiliti alla locanda, in attesa di ripartire per un'altra missione.
Sentì in lontananza le voci degli uomini, rintanati tra i boccali di birra, intenti a fare progetti e discutere della guerra.
 Il solo pensare a quell’ambiente le riportò come uno schiaffo in pieno viso una manciata di ricordi nostalgici.
Più di due mesi erano trascorsi da quella terribile, dolorosa mattina.
Si era impressa ogni singolo istante nella mente, terrorizzata dal perdere le ultime immagini che aveva di quell’uomo che le aveva sconvolto l’esistenza.
Come in una serie di immagini, i ricordi si dipanavano nella sua testa come se si srotolassero da un rocchetto di filo.
 “Buona fortuna Celeste”
“Buona fortuna, colonnello”
Intollerabile che tutto si fosse concluso così, con quelle miserabili parole.
Non riusciva però a pensare ad un'altra conclusione possibile: nemmeno gettarsi l’una tra le braccia dell’altro sarebbe bastato.
Era una certezza: non si sarebbero mai più rivisti.
A nulla erano valsi lo sgomento incredulo dello zio, la gioia urlante dei fratelli, il successivo ritorno del padre e di Andrew: l’inquietudine provata mentre aveva osservato l’uomo allontanarsi in un galoppo selvaggio, come se avesse uno stuolo di demoni ad inseguirlo, non si era più staccata dalla sua pelle.
L’aveva lasciata vuota, inerme.
Completamente allo sbaraglio.
Spesso le sue notti erano come quella: insonni, gli occhi fissi sul soffitto, immersa nel tepore dei placidi respiri delle sorelle.
Ripensava a Tavington, a Katrina.
Si chiedeva perché, pur essendo tornata alla vecchia vita tanto agognata, non riusciva più ad essere felice.
E non si dava pace.
La mattina seguente si alzò prima degli altri, infilandosi silenziosamente i consueti abiti casalinghi e annodando i capelli in una semplice crocchia. Quasi rimpiangeva la morbidezza dei tessuti  in cui era stata avvolta per tanto tempo.
Come faceva ormai ogni giorno, la mattina amava inoltrarsi nei campi poco fuori l’abitato, spesso con Daniel ma preferibilmente da sola, magari con l'unica compagnia di una sottratta bottiglia di brandy in cui affogare i pensieri.
La guerra aveva aggirato quella zona, senza presentarsi a reclamare le sue vittime ad ogni porta, e l’aria fresca la faceva stare bene.
Le dava la forza necessaria per aggirare l'inquietudine.
Inaspettatamente incrociò Andrew nella piccola cucina. Il passo felpato della giovane sorprese il fratello, che stupito si voltò, rivelandosi intento a riempire il tascapane con alcune provviste.
“Che ci fai già in piedi?” chiese di scatto, con palese tono indagatore.
Come le era già successo da quando era ritornato, Celeste avvertì un senso di disagio in sua presenza che non aveva mai avvertito. Dove era finito il dispettoso ragazzo biondo con cui era solita battibeccare? Tutto di Andrew le pareva cambiato, e sapeva, con dolorosa certezza, che dietro i suoi bei tratti induriti dalla guerra, erano avvenuta una crudele metamorfosi.
“Esco a fare due passi, ho bisogno di pensare” gli rispose, incrociando le braccia spazientita.
Andrew scorse il suo abbigliamento con gli occhi, e non trovando nulla di  anomalo parve tranquillizzarsi.
Poi un nuovo dubbio parve sfiorarlo.
“Non starai andando a incontrare qualcuno, vero?”
Celeste alzò gli occhi al cielo “E chi dovrei incontrare?” chiese laconicamente, avviandosi alla porta e stringendosi nello scialle di lana beige.
“Forse quel figlio di puttana inglese che ha osato toccarti”
Rabbia, pura aggressività che nulla c’entrava con la fraterna protezione.
La giovane si fermò, voltandosi guardinga. Ed Andrew ne approfittò per attaccarla.
“Potrai anche fare la faccia da innocentina con nostro padre, ma io la so più lunga! Cosa credi, che non abbia fatto le mie ricerche?!” urlò, tentando poi di calmarsi, mentre la sorella lo osservava senza battere ciglio.
Attendeva Celeste; voleva scoprire dove voleva andare a parare il fratello.
“Dicono che i dragoni verdi, dopo altre accurate torture ad alcuni dei nostri, abbiano ottenuto altri nomi.
 E provveduto, come ben sai, a visitare ogni casa a loro disposizione; ovviamente, premurandosi di stuprare e uccidere ogni donna e ragazza che trovavano sul cammino.”
Si avvicinò a lei, esaminandole criticamente il viso. Strano: Celeste aveva sempre pensato che la forma dei loro occhi fossi identica.
Si chiese come mai in quel momento le parve così diversa.
“Perché con colonnello del genere a guidarli, "Il Macellaio", hanno deciso di lasciarti in vita?”
Uno sguardo irato, che mai aveva rivolto a qualcuno della sua famiglia, fu l’unica risposta della ragazza.
“Perché non ti fai gli affari tuoi?” aggiunse in un sibilo.
“E tu perché non mi racconti ciò che sai?! Se mi rivelassi ciò che conosci di loro, delle loro abitudine, di quell’uomo … potremmo elaborare un piano, attaccarli a sorpresa magari!” disse concitato, tentando di coinvolgerla.
La vide indifferente, il viso contratto in una smorfia di disprezzo.
“Questi sono affari miei Celeste, sono un uomo a tutti gli effetti ora!” ribadì afferrandola per le spalle, scuotendola.
La sorella lo lasciò fare, per poi prendergli le mani, spostandole con fermezza dal proprio corpo.
“Quello che so, è che quando ho detto il mio cognome a uno di quei bastardi che hanno ucciso Katrina, la mia amica, lui si sarebbe premurato di far fare la stessa fine anche a me, se quel colonnello che tanto odi non mi avesse salvato.”
Si allontanò da lui, dirigendosi di nuovo alla porta “Sai, aveva un conto in sospeso con te, a sentir quel che diceva. Dovevi per caso dei soldi ad un certo Ian?” chiese, guardandolo di sbieco.
Vide il fratello spalancare gli occhi, tra l’inorridito e l’inferocito.
La giovane lo guardò stringendo gli occhi, gonfia di spregio.
“Quale uomo fatto e finito metterebbe in tale pericolo la propria famiglia?!”
Afferrò la maniglia con decisione, tentando di scivolare lontano da quel quel silenzio teso.
Ma le ultime parole del fratello la fermarono, paralizzandola sul posto.
“Comunque anche senza il tuo aiuto, ho saputo svelare la sua identità; dopotutto, non è stato difficile.
Non vedo perché dovresti proteggere un uomo come William Tavington”
Celeste scappò, sbattendo violentemente la porta dietro di se.
Udire quel nome fu uno schiaffo in pieno viso.

 

“I was totally in love with you.
Lost in you, captivated by you.
Amazed by you, dazed by you.
Laugh with me and cry with me
spend those silent times with me
You and I were lovers.
 
Ero totalmente innamorato di te.
Perso di te, affascinato da te.
Stupito di te, stordito da te.
Ridi con me e piangi con me
Spendi questi silenziosi momenti con me.
Io e te siamo stati amanti.”
-We Were Lovers,  Jean Jacques Burnel-

 
Un letto freddo e sfatto.
Un tentativo inutile di scappare, nascondersi, proteggersi.
Spinte laceranti e lacrime.
C’era stato un tempo in cui il colonnello William Tavington era stato l’uomo più ambito da tutte le prostitute del campo. Erika, arrivata pochi mesi prima, aveva sentito solo favoleggiare dell’incredibile bravura e costanza dell’uomo. Aveva sperato, un giorno, di poter finalmente capitare nel suo letto.
Poi, da qualche mese a quella parte, le cose erano precipitate.
Alcuni membri dei dragoni si erano lasciati sfuggire in un sussurro il breve racconto di una ragazza dall’incredibile bellezza, con cui il colonnello era arrivato a intavolare ben di più di qualche notte di sesso.
Incredibile: le donne quando si trovavano riunite tra loro fantasticavano su questa ragazza impossibile e misteriosa; che qualità doveva possedere per essere riuscita, così si diceva, a far innamorare un uomo come il colonnello, tutt’altro che malleabile?
Solo al ritorno del colonnello si erano però rese conto di quanto fosse in realtà grave la situazione: non c’era nessuna donna al fianco dell’uomo, ma tutto di lui pareva invaso da una rabbia cieca e devastante.
C’era stato un tempo in cui le prostitute facevano la fila per essere scelte da quell’uomo; ora la prescelta per la notte era considerata una sventurata.
E mentre il colonnello spingeva dentro di lei con una brutalità tale che, pur non essendo avvezza a gentili maniere, le era impossibile frenare delle lacrime di dolore, si scopriva a desiderare che avenisse qualcosa, qualsiasi cosa perché lui si fermasse e potesse lasciarla scappare da quell'inferno.
Cercava gli occhi dell'uomo, tentando di supplicarlo con lo sguardo per fargli capire quanto stava soffrendo, ma egli ne era del tutto indifferente.
Sorrideva persino a tratti. Un ghigno perverso illuminava il suo bel volto.
William Tavington era consapevole del brusio di voci che giravano sul suo conto, e soprattutto sulla figura di Celeste.
La sola idea che qualcun altro potesse nominarla o pensare a lei non faceva che accendere la sua rabbia, che brillava come un tizzone ardente nel buio della sua anima.
La rabbia, quella cieca collera inestinguibile, era diventata la sua principale compagnia in ogni istante delle sue giornate:  razzie e repressioni il più violente possibili, dove si prendeva la personale briga di fare a pezzi ogni membro di una famiglia di ribelli; battaglie all’ultimo sangue, in cui non si faceva scrupolo di staccare più teste possibili; un numero esorbitante di bottiglie di brandy e whisky ingollate una dopo l’altra.
 Il ritrovarsi una ragazza qualsiasi o una puttana da trascinare nel proprio letto erano solo una naturale conseguenza di tutti questi elementi.
Guardò finalmente la ragazza sotto di se, lo sguardo annebbiato dall’alcool, a cui cercava di fare più male possibile e al contempo saziarsi.
Lunghi capelli scuri, occhi sgranati colmi di lacrime, un corpo fin troppo pieno e dalla pelle tipicamente cotta dal sole.
Aveva un nome … Anne? Mary? Erika forse. Che importanza aveva, dopotutto?
Celeste. Mesi in cui aveva tentato di ripudiare in un angolo della mente quel corpo di cui conosceva l’esatta mappa, quei lunghi capelli di rame, quegli indimenticabili occhi di cristallo, quella pelle lattea ed evanescente.
Di lei era rimasto un puro spettro rarefatto nei sui incubi, una creatura capace di perseguitarlo persino mentre uccideva, colmandolo di sensi di colpa.
Persino mentre si scopava l’ennesima puttana.
Tornò a guardarla: non era Celeste, non avrebbe mai potuto essere lei. Non possedeva lontanamente il suo profumo, o il suono della voce, o quell’impenetrabile sorriso mentre gemeva, abbarbicata a lui come dell’edera.
Piangeva Erika, singhiozzava ad alta voce ormai.
“Per favore … basta, signore, basta. Mi fate male” urlò lamentandosi, straziata da un dolore interno, la sensazione di qualcosa che si spaccava dentro al suo corpo.
Celeste non si era mai lamentata così, aveva sofferto in silenzio continuando a guardarlo negli occhi.
 “Sapete colonnello, mio padre da piccola mi diceva sempre che nei miei occhi si può vedere il mare”
“Sta zitta!” urlò, mollandole un manrovescio sul volto,centrandole il naso e rompendolo.
Erika urlò più forte che mai.
Irato l’uomo afferrò un cuscino e glielo pose sul viso con decisione, soffocando i singhiozzi e mozzandole il respiro.
Il corpo si dimenò violentemente, artigliando l’aria con mani ormai vuote di ogni speranza; William Tavington ottenne infine un misero godimento, riversandosi in quel corpo ora calmo e placido, che andava già lentamente a raffreddarsi.
Si alzò dal letto, dirigendosi ancora nudo alla toilette del proprio alloggio e versandosi un altro bicchiere di whisky; si guardò allo specchio.
Tremava dalla rabbia, ma era anche mosso  da un doloroso senso di angoscia.
Si voltò a guardare il letto: eccola lì, l’ennesima puttana morta per dar sfogo alla sua rabbia.
 
 

 

“Light up the fire
Right on the power
Weapon... 
I have it all.
 
Accendi il fuoco
Aggiusta la potenza
Armi... le ho tutte.”

-Red Fraction, Black Lagoon-
 

“Celeste è un idiozia, se ci trovano abbiamo finito di vivere!” si lamentò a bassa voce Daniel, strisciando a carponi con la sorella in testa, proprio come facevano da piccoli nel sottobosco.
Ora però avevano rispettivamente 15 e 17 anni, e si trovavano nella piccola, polverosa cittadina di Mary town.
“Sta zitto e lasciami ascoltare: devo scoprire che intenzioni hanno. Ho sentito papà dire a zio Jules che questa sera avrebbero stabilito un piano decisivo” spiegò in un sussurro Celeste, mentre assieme al fratello si nascondeva dietro alcuni barili di birra, posti esattamente sotto le grandi finestre spalancate dell’osteria.
Quella sera però non c’era aria di festa, la birra se ne stava tranquilla nei propri boccali: tirava aria di guerra e strategia, e la giovane sapeva di essere parte portante di quel piano.
Sapeva che quella sera avrebbero parlato di William, di un modo per ucciderlo e di conseguenza infrangere ogni strategia dei dragoni.
“Ma che ti frega di quell’uomo, dopo tutto quello che ci ha fatto?!” bisbigliò Dan, confuso dal comportamento della sorella, che prontamente lo fulminò con lo sguardo.
Entrambi si protesero verso il davanzale non appena udirono Benjamin Martin, capo della fazione ribelle, proferir parola.
“Amici miei, siamo fermi ormai da fin troppi giorni, e ci sono giunte notizie di continue rappresaglie da parte dei Dragoni Verdi su sempre più vitime innocenti. E’ ora di passare ad un altro contrattacco. Recentemente la figlia di Conrad, Celeste, è stata presa in ostaggio per diversi mesi da Tavington stesso. Amico mio, sei riuscito a raccogliere qualche informazione?”
Celeste, nel suo angolo, trattenne il respiro.
“Poco o niente, Ben. Celeste si rifiuta di parlare, anzi sostiene che quell’uomo l’ha salvata. Non vuole rivelarmi nemmeno il luogo dove è stata portata”
Si immaginò il volto affranto del padre, e nonostante un senso di colpa le pungesse con insistenza la coscienza, fu fiera di non aver aperto bocca.
Tutt’un tratto si udirono dei passi all’esterno e i due fratelli si rincantucciarono ulteriormente dietro le botti. Risuonò una porta sbattuta e la voce di Andrew invase la stanza.
“Salute compari, ho con me un gradito ospite che saprà aiutarci a risolvere la questione!” proferì, la voce eccitata.
Un brusio animato lo accolse.
“Figliolo, dove hai recuperato quest’inglese?” chiese qualcuno.
“Faceva parte di una pattuglia che esplorava la zona delle piantagioni; l’ho preso da dietro proprio mentre stava pisciando dietro un albero” spiegò sghignazzando, accolto da una serie di risate.
“E’ comunque pronto a rispondere a qualsiasi domanda” aggiunse poi.
Il rumore di un calcio e un gemito furono l’unica risposta.
“Ottimo lavoro Andrew … soldato, dicci il tuo nome” domandò Benjamin, perentorio.
Un attimo di silenzio in cui Celeste sperò che l’uomo si rifiutasse di parlare.
“Jasper Harris” biascicò una voce con tono piagnucoloso.
“Bene, Jasper … Cosa puoi dirci del colonnello Tavington?”
“T-Tavington? Io n-non lo conosco ...” ribatté balbettando, chiaramente terrorizzato dal solo nome.
Un altro rumore secco e un ennesimo gemito.
“Non appartengo al suo reggimento signore, sono solo un soldato semplice!” urlò stavolta, la voce invasa da un'improvvisa paura.
La sua fedeltà all'esercito non doveva valere un granché.
“Questo lo vedo ragazzo … ma voglio sapere ogni dettaglio su di lui, dall'accampamento risiede al numero di stivali!”
“Ben lasciami intervenire … Jasper, hai mai sentito nominare una ragazza di nome Celeste” chiese la voce del padre, cauta e gentile come sempre.
La giovane chiuse gli occhi, incrociando le dita.
Un lungo attimo di silenzio.
“C’era una Celeste, signore. Era una delle prostitute di una taverna poco lontano da qui”
Un calcio più forte degli altri gli strappo un alto lamento.
“Cosa hai detto che era?!” urlò Andrew, infuriato.
“Andrew stai calmo … Jasper, dicci quello che sai di questa giovane. L’hai mai vista?”
“Sì signore.  Giovane, magrissima e non troppo alta. Pelle come un cadavere, lunghi capelli rossi e occhi chiari”
L’intero locale trattenne il fiato, e con loro la giovane stessa.
Possibile che fosse capitato lì proprio uno di quei soldati che la guardavano come ipnotizzati quando passava?
“E’ lei … Che ruolo aveva Jasper? Hai detto che era una prostituta?” proseguì il padre, sempre più coinvolto.
“Non proprio signore … era l’amante del colonnello Tavington.”
Un brusio violento colse gli avventori, e la ragazza poté immaginare perfettamente il volto sconvolto del padre. Avvertì lo sguardo incredulo e accusatorio del fratello, ma si limitò a rifugiare il volto tra le mani, come a volersi proteggere dalle parole.
“L’amante… ? Dicci tutto quello che sai” fu Benjamin a porre le domande questa volta.
“Si signore, la sua amante. Viveva con delle altre prostitute in questa taverna, a metà strada tra Fort Carolina e l’accampamento in cui risiede gran parte dell’esercito. Gli ufficiali e alcuni tra noi soldati andavamo lì spesso la sera, ma solo gli ufficiali potevano intrattenersi con le prostitute. E nessuno poteva toccare quella ragazza al di fuori del Colonnello.”
“Per quale motivo?”
“Non saprei, signore, ma girano strane voci … si dice che il colonnello e la ragazza in questione avessero una storia d’amore in ballo, lei era molto più di una puttana per lui”
“E poi? Che è successo?” chiese suo zio concitato, preso dal racconto come tutti gli astanti.
“Questo signore non lo so, so solo che ci è stato riferito che quella taverna non esisteva più, e tutte le prostitute erano state trasferite al forte. Però si dice che una di loro sia stata uccisa, e che il colonnello Tavington abbia dovuto separarsi dalla ragazza”
Un silenzio meditativo.
“Dobbiamo parlare con lei padre, ora che sappiamo non potrà continuare  a mentirci” disse Andrew.
“E sia … ma prima bisogna pensare alla strategia. Fort Carolina è ad ovest, bisognerà elaborare un piano d’attacco e delle posizioni valide per raggiungere l'accampamento prima e poi…”
Celeste si tappò le orecchie per non sentire altro.
Udire la propria storia in bocca a qualcun altro l’aveva fatta inorridire.
Gli occhi colmi di lacrime, sentì la mano di Daniel sfiorarle il mento, ma lei si ritrasse prontamente.
Una terribile prospettiva si parava all'orizzonte.
“Torniamo in casa, Celeste” le disse con calma il ragazzo, sorprendendola.
Strisciarono ancora carponi per la strada polverosa, rientrando di soppiatto nella casa addormentata.
“Ti prego, dimmi che mentiva” era quasi una supplica quella di Dan, mentre scivolavano sulle scale.
Celeste non rispose, la sua mente lavorava già spedita.
Pianificava, tentava di farsi coraggio, di impedire alla propria voce di tremare.
“Devi darmi dei tuoi abiti” dichiarò infine.
Daniel strabuzzò gli occhi.
“Che cosa hai detto?!”
La giovane si diresse sempre più decisa  nella camera dei fratelli minori, facendo attenzione a non svegliare Devid, che dormiva placidamente.
In testa si era già delineato un piano, che peccava in ogni punto ed era tutto fuorché perfetto.
Ma era l'unica speranza, la sua unica speranza, per riprendere in mano la situazione.
“Mi hai sentito. Mi servono dei tuoi abiti, devo andarmene da qui”
Il ragazzo chiuse la porta con cautela, avvicinandosi a lei per impedirle di aprire l’armadio.
“Sei impazzita? Non dirmi che hai paura di nostro padre? Non ti farà niente, capirà che quell’uomo orribile ti ha obbligato a …”
“Sta zitto”
La voce secca, perentoria: era un ordine.
I due si guardarono, l’uno incredulo e l’altra con la colpa ben delineata sul viso.
“Tu lo ami” constatò infine il ragazzo.
Celeste evitò il suo sguardo.
“Dammi i tuoi abiti, Dan. Per favore” chiese, pregandolo quasi.
"Non se ne parla se non mi dici cosa hai intenzione di fare" si oppose quello, con più fermezza di quanta ne possedesse in realtà.
"Ho intenzione di raggiungere l'accampamento inglese e impedire che i ribelli attirino in qualche imboscata, o chissà quale altra diavoleria, Tavington" spiegò, picchiando il piede impaziente.
Il ragazzo la guardò attentaemtne, ma infine si spostò e lasciò che la sorella prendesse una camicia, dei pantaloni scuri, e il giustacuore.
Si spogliò di fronte a lui, senza imbarazzo, i movimenti resi frettolosi dall’esigenza di partire al più presto.
Dan distolse gli occhi.
“Come farai a trovare l’accampamento?”
“So che è a Ovest”
“E il cavallo?”
“Ne ruberò uno dalle scuderie”
Il piano faceva sempre più acqua da tutte le parti.
Celeste si legò i capelli, sospingendo poi la crocchia sotto un tricorno.
Fu solo una fortuna che la figura del fratello fosse ancora così smilza: gli abiti le erano appena appena un poco più grandi.
Non prese con se nulla a parte un tascapane con una fiaschetta riempita d’acqua e una bussola.
Non possedeva neppure una mappa, non aveva la più pallida idea di quanto avrebbe dovuto galoppare.
Ma era pronta, non aveva bisogno d’altro se non di coraggio e molta fortuna.
Mentre si avviava di soppiatto verso le scuderie in fondo al paese, Daniel la seguiva come un ombra.
“Cosa dirò a nostro padre?” domandò preoccupato.
“Che sono scappata e tu non sai niente” rispose lapidaria la sorella.
Il ragazzo si portò le mani tra i capelli, esasperato.
“Celeste ripensaci, ti prego. Pensa a quello che ci ha fatto, è un mostro... lo è, vero?” pareva persino dubbioso.
“Farei quello che sto per fare, se fosse un mostro?” fu la semplice e allusiva risposta.
Si avvicinò, posandogli un bacio sulla fronte fredda.
“Spero ci rivedremo fratellino. Lo spero davvero” disse, lasciandolo senza parole.
La giovane prese una giumenta scura, ancora con indosso i finimenti, e vi montò sopra con qualche sforzo.
Rivolse un sorriso triste al fratello, ma il suo cuore pulsava di adrenalina.
Riprendeva in mano le redini della propria vita, imbrigliando il destino a suo volere: commettere una sciocchezza del genere era una azzardo tremendo, ma lei era pronta  rischiare qualsiasi cosa per salvare quell'uomo.
Non si voltò neppure una volta.
Si lanciò verso ovest, incitando la bestia al galoppo.
“Spero ci rivedremo fratellino”
“Ma è ovvio che ci rivedremo…” rispose il ragazzo al paesaggio deserto.
All’improvviso non ne era più tanto sicuro.

 
 Elle's Space -
 
Tarataratata *ennesima fanfara di arrivo, accolta da paesaggio desertico con tanto di passaggio di palle di fieno*
Rieccomi a chiedere umilmente perdono, e a spiegarvi con pazienza che si: i miei tempi di pubblicazione sono lenti come la fame, ma purtroppo sono questi. Adeguatevi giovincelli miei! *si guarda attorno con fare impaurito da un possibile linciaggio*
Allora, che abbiamo qua... un capitolo come il precendente,  un po' "di stallo", e pur odiando vederli separati, era necessario. Ma dal prossimo l'atmosfera si vivacizzerà (evvai!), anche se inizia già a prospettarsi un finale imminente (cristo) D:

x ragazzapsicolabile91: l'aria carina e coccolosa del colonnello è venuta un po' meno... insomma, non credo che uccidere una povera disgraziata tanto per sfogarsi sia una cosa carina e coccolosa. Ma compatiamolo, è innamorato (anche se ammetterlo sarà dura, tipo come con Vegeta in Dragonball se hai presente!). Grazie ancora per i complimenti, spero che anche questo non ti deluda ^^

x herAmnesia: mi fa troppo piacere sapere di essere riuscita a comunicare qualcosa con questa storia *-* A volte scrivo capitoli che, ad una seconda lettura, mi sembrano un po' banali e devo rivederli. Spero di non fare mai questa impressione! Grazie mille per il complimento, è una delle cose più carine che mi siano mai state dette *arrossisce*

Passo e chiudo gente, buona lettura! :3

Elle H.

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Capitolo 6
*** A Window to the Past and Future ***


In Punta di Piedi
di Elle H .





CAPITOLO 6
A Window to the Past and Future
 
(Spiragli di luce; fantasmi del passato; per tutta la vita)
 
 

“Greatest thrill, not to kill
But to have the prize of the night
Hypocrite, wannabe friend
13th disciple who betrayed me for nothing!
Old loves they die hard

Old lies they die harder

Il più grande brivido, non per uccidere 
Ma per avere il premio della notte 
Ipocrita, vuoi essere un amico 
Il tredicesimo apostolo che mi tradì per niente!
I vecchi amori sono duri a morire 
Le vecchie bugie sono ancora più dure”

-Wish I Had an Angel, Nightwish-

 
 

Era un odore sgradevolmente conosciuto: metallico, indizio di pericolo.
Era l’olezzo dei campi di battaglia al termine di uno scontro, la terra che da marrone si tingeva di rosso.
Lo conosceva bene il sentore del sangue: lo odiava, e al contempo lo affascinava.
“Pietà signore, vi supplico pietà …” pregò l’uomo accasciato a terra, mezzo nudo e ricoperto di polvere e ferite; ebbe il tempo di alzare appena la testa, prima che l’abbattersi della frusta sulla schiena gli strappasse l’ennesimo lamento di dolore.
A William Tavington non erano mai piaciute le torture. O almeno, non di quel genere.
Se obbligato dalle circostanze, si limitava ad osservarle con distacco; ma occuparsene … quello gli riusciva davvero difficile.
Uccidere era qualcosa di diverso.
Era divenuto quell’elemento che riusciva a ricreare in lui, in modo assolutamente anomalo e barbarico, un senso quasi mistico.
Cosa c’era di più inebriante e potente della sensazione di possedere il potere di falciare vite?
E in più pur essendo perfettamente consapevole di quanto fosse riprovevole e meschina quella soddisfazione, ogni volta che la rabbia veniva a bussare alla sua porta, il suo corpo gli ordinava di rigettarla il prima possibile.
Ma per lui la parola “tortura” poteva solo essere collegabile al mordere la liscia pelle di una donna, fino a farla gemere di dolore.
Quello significava torturare, rifletté con un fugace sorriso.
Le torture fisiche, consumate tra le strette e soffocanti pareti di una cella, erano una cosa completamente differente; gli ricordavano con fin troppa nitidezza l’infanzia.
Le punizioni corporali che suo padre era solito infliggere a lui e ai suoi fratelli, non appena erano stati in grado di sollevarsi sui propri piedi, erano un ricordo ancora vivido.
Era parte della routine quotidiana della famiglia Tavington vedere i figli in fila indiana in attesa di fronte allo scranno del capofamiglia, al centro del piccolo ma distinto soggiorno inglese; non vi era alcuna malevolenza nei gesti del padre, intento ad arrossare le natiche dei bambini con precisi colpi di cinghia.
“Per temprarli” lui spiegava con noncuranza alla madre e all’unica figlia, le quali osservavano quel triste quadretto con i grandi occhi azzurri sgranati e sgomenti.
Sarebbe stato meglio se suo padre si fosse occupato più del suo titolo di baronetto, piuttosto che dell'educazione dei figli.
Tavington riportò il pensiero al presente, in tempo per udire un altro gemito; ribadì a se stesso che quella tortura era assolutamente necessaria.
Pur di portare a termine quell’inutile guerra era ormai necessario ricorrere ad ogni sorta di colpo basso.
Conoscere le strategie americane era sempre più di vitale importanza per concludere il conflitto, scontri e battaglie non bastavano più.
E se solo quel benedetto ufficiale si fosse deciso a vuotare il sacco entro l’alba, avrebbe potuto persino farsi una sana dormita…
Il colonnello  guardò di sfuggita il prigioniero: per lui non aveva nemmeno un nome ed un cognome, era  nulla più che un numero, una necessità da sbrigare; ma se pensava al fatto che fosse americano, americano quanto Lei
Tanto bastava a irritarlo, a fargli ribollire il sangue nelle vene.
“Smettila di fare il duro” ordinò svogliatamente per l’ennesima volta, facendo segno al suo carnefice di donargli altre due decise frustate.
L’uomo gridò angosciato, divincolandosi come alla disperata ricerca di una via di fuga.
“Risparmiatemi, vi prego colonnello… ho moglie e figli” pregò per l’ennesima volta, guardandolo con occhi imploranti.
Questa volta funzionò, le parole stranamente gli entrarono da un orecchio ma si rifiutarono di uscirne.
L’effetto delle parole fu istantaneo: se avesse dovuto dargli un nome, si sarebbe rifiutato di ammettere che fosse un  recondito senso di colpa. O peggio: pietà.
Non era diventato colonnello dei Dragoni Verdi grazie a patetici sentimentalismi.
Eppure la sua mano si mosse immediatamente, fermando il boia e congedandolo con un cenno secco.
Si alzò con lentezza, piegandosi sulla vittima fino a poter percepirne chiaramente l’odore: sudore, sangue, e innegabilmente, paura.
Il corpo era scarno, ricoperto da una serie di piaghe vecchie e nuove, ma per lo più superficiali; il volto smagrito dell’uomo lo fissava con supplica e terrore.
Gli prese il viso con straordinaria delicatezza, sollevandolo appena, incontrando due occhi scuri come pezzi di carbone, e ricolmi di disperazione.
Erano sicuri fosse un ufficiale? Non l’aveva degnato di uno sguardo poco prima, ma ora poteva chiaramente notare quanto fosse giovane; doveva avere appena vent’anni.
“Come ti chiami, ragazzo?” gli chiese a sorpresa, stupendolo, osservandolo tentennare.
“Tom, signore” rispose infine flebilmente, la voce tremante.
Lo valutò per un attimo, occhieggiando gli abiti di cui era stato privato: pantaloni scuri e sdruciti, ed una semplice camicia, lacera e malandata.
“E tu saresti un ufficiale?”
Dopo aver retto così a lungo, i nervi del ragazzo parvero dare un segno di cedimento.
“Non lo sono signore, l’ho detto, l’ho giurato, ma loro…” il ragazzo continuò a biascicare parole, sempre più strozzate; era la perfetta copia di un bambino sul punto di scoppiare in pianto.
Tavington alzò gli occhi al cielo di fronte a quel comportamento, assolutamente riprovevole per un uomo.
Piuttosto cercò di immaginarsi la penosa conversazione che avrebbe dovuto sostenere con il Generale Cornwallis l’indomani: come poteva spiegargli che i suoi uomini gli avevano portato un soldato qualsiasi invece di un ufficiale?
E per cosa avrebbe dovuto punirli: ignoranza, o piuttosto insolenza?
Il ragazzo era in ogni caso molto poco fortunato …  se di fortuna si poteva parlare.
“Ebbene Tom, a quanto pare scampi alla tortura, ma ti sei appena guadagnato un posto sulla forca” proferì; in un’altra occasione avrebbe sorriso di quella tragica ironia.
Osservò il prigioniero divenire, se possibile, ancor più pallido.
“La prego colonnello,  la prego abbiate un briciolo di pietà…”
“Silenzio! Il tuo piagnisteo mi innervosisce” sbottò improvvisamente con disprezzo, sollevandosi furente.
Picchiò il pugno chiuso contro il muro, inveendo contro l’inettitudine dei suoi uomini; maledì quella guerra interminabile, imprecò contro se stesso.
Sentiva la rabbia serpeggiagli nel petto, aggrapparsi alle costole fino a raggiungergli il cuore, allungando i propri artigli con ingordigia.
Il soldato vide lo sguardo del colonnello posarsi nuovamente su di lui: i gelidi occhi, prima del tutto indifferenti, rilucevano d’ira.
 Il terrore provato poco prima divenne nulla in confronto al nuovo.
“Colonnello, la prego mi risparmi, lo faccia per la mia famiglia” supplicò nuovamente, cercando un briciolo di fermezza, tentando di evitare di apparire impaurito; ma finendo per nascondere la testa tra le braccia.
Tavington rimase fermo a guardarlo: avvertiva ancora quell’insolita sensazione di poco prima.
Pietà e senso di colpa.
Fu con un sospiro che tornò accanto al prigioniero, accingendosi ad aprire le catene che gli cingevano polsi e caviglie.
Il ragazzo lo guardò stranito, mentre il clangore del ferro rimbombava contro le pareti della cella.
“Sei del tutto inutile, ragazzo. Persino torturarti rappresenta un impiccio, non riesco nemmeno a divertirmi con i tuoi piagnucolamenti” proferì con disprezzo il colonnello, ma al contempo liberandogli le caviglie.
“E in ogni caso se anche avessi saputo una minima parte di ciò che ti ho chiesto, sono convinto l’avresti persino sputata pur di salvarti la pelle, eh?  Giuramenti di fede alla patria non contano nulla per quelli della tua razza” concluse disgustato.
Si rendeva conto da solo di quanto il suo atteggiamento sprezzante fosse un modo per negare, senza neppure troppa convinzione, di essere caduto nei lacci della correttezza.
Si sorprese di quella parola: da quando considerava quei gesti corretti?
Tom si massaggiò i polsi, asciugandosi poi il volto ancora bagnato di sudore.
“Io penso che sopravvivere conti molto di più, signore” mormorò.
Tavington l’osservò dapprima con freddezza, poi con un barlume di curiosità
“O forse è per via della tua famiglia?”
Il ragazzo faticò particolarmente per cercare di rimettersi in piedi; malfermo, fu costretto ad appoggiarsi ad un bracciolo della sedia.
“E’ la stessa cosa signore. Loro sono la mia vita” ribatté, ansimando.
Cercava di apparire rigido e sicuro di se, di affrontarlo come un egual combattente dopo essere quasi strisciato ai suoi piedi.
Tavington non parve farvi caso, considerando esclusivamente la risposta ricevuta.
“Quindi devo dedurre che le sorti della tua patria non ti interessano” insinuò, con una punta di malevolenza.
Il ragazzo gli rivolse uno sguardo cupo.
“Non ho detto questo signore, non potrei mai pensarlo”
“E invece è la stessa cosa! Tu saresti pronto a disertare, ad abbandonare il campo nel bel mezzo della battaglia, a rivelare ogni tuo turpe segreto, pur di salvar te e la tua patetica famiglia!” ribatté troppo concitato.
Cercò di ridarsi un contegno, di recuperare l’autocontrollo. In qualche modo le parole del ragazzo avevano fomentato una guerriglia di sentimenti contrastanti; in un attimo si era ritrovato del tutto disorientato.
 “Colonnello, la prego, si calmi..” tentò il ragazzo, seriamente preoccupato.
“Sta zitto. Rispondi a questa domanda, e giuro che te ne potrai andare da questo campo con la tua pelle americana ancora attaccata alle ossa” sibilò, avvicinandosi fino a ritrovarsi a faccia a faccia.
Tom trattenne suo malgrado un singulto; la soggezione nei confronti del colonnello Tavington, famoso, per così dire, per la sua spietatezza, era ancora lì: palpabile, come fosse un oggetto.
“Se tieni a tal punto ai tuoi cari, perché continui a combattere? Perché non sei ancora tornato da loro, come già hanno fatto in tanti?”
Il ragazzo gli rivolse uno sguardo straordinariamente limpido.
“Perché i miei figli meritano un mondo migliore in cui crescere, meritano di essere liberi. L’ha detto, colonnello: la patria non c’entra nulla. Ma finché la loro vita non sarà in pericolo, io resterò qui a combattere per loro” concluse, il tono calmo ma risoluto.
“Quegli uomini hanno abbandonato tutto, nella speranza di veder migliorare le nostre vite, di ottenere i diritti che ci sono dovuti!
Il ricordo di parole tanto limpide quanto coerenti sancì la sua definitiva sconfitta.
“Vattene” concluse, asciutto.
Tom si mostrò piuttosto incerto.
“Ma signore, le guardie…”
“Di che ti autorizzo io. Vai, subito, non voglio mai più vederti!”
Il ragazzo afferrò i suoi abiti da terra, titubante, ma infine lasciando apparire un leggero sorriso sulle labbra.
“Grazie, colonnello” bisbigliò, prima di arrancare verso l’uscita; Tavington seguì la sua zoppicante corsa, una piega amara sul viso.
“Colonnello Tavington, dove sta andando il prigioniero?” domandò sorpreso il boia, ricomparendo nella sala; indubbiamente aveva origliato ogni singola parola detta.
“Tu sapevi che non era un ufficiale, vero?” chiese, laconico.
Il boia guardò il colonnello con espressione colpevole.
“Da quanto siete così compassionevole, colonnello?” si azzardò a chiedere.
Il colonnello gli rivolse un’occhiata gelida.
“Non osar insultare la mia intelligenza per la tua inettitudine. E ringrazia piuttosto che questa sera sia particolarmente indulgente” concluse acido, dirigendosi all’uscita con passi fin troppo energici.
Già immaginava fin troppo bene le voci che avrebbero fatto il giro dell’intero esercito nel giro di qualche giorno. Certamente nulla di peggio del favoleggiare delle prostitute riguardo Celeste, neanche fosse una santa.
Sospirò, affrontando le ore più scure della notte a grandi passi, diretto ai suoi alloggi e desideroso di una sana dormita. Maledì ancora una volta quella serata: cosa poteva esserci di più umiliante del rivalutare i propri nemici?
In quel caso americano non poteva nemmeno considerarsi un insulto.
Per un attimo si soffermò a chiedersi cosa avrebbe detto Celeste di quelle considerazioni…
Un messo gli corse incontro, fermandosi sull’attenti ed inchinandosi quasi fino a sfiorar terra con la punta del naso.
“Colonnello Tavington, signore, è appena giunto un forestiero, dice che deve conferire con voi con la massima urgenza. Vi attende al di fuori dei vostri alloggi”
Tavington alzò gli occhi al cielo, passandosi stancamente le mani sugli occhi.
Dio era proprio deciso a non lasciarlo dormire, evidentemente.

 
 

“Somebody bring up the lights I want you to see 
My life turned around but I'm still living my dreams 
I've been through with all, hit about a million walls 
Welcome to my truth...
I still love 
 
Qualcuno accenda le luci, ti voglio vedere
La mia vita si è voltata indietro
ma sto ancora vivendo i miei sogni
Ho chiuso con tutto e
sbattuto contro circa un milione di muri
Benvenuto nella mia verità…io ancora amo”
-Welcome to My Truth, Anastacia -

 

Quando Fort Carolina comparve nell’oscurità, quale microscopico, lontano punto di luce, Celeste tirò un profondo sospiro di sollievo.
La sua non era stata una corsa nella notte, ma qualcosa di più simile ad un vagabondaggio, come unico compagno un groppo in gola e una torcia che minacciava costantemente di spegnersi.
Il cavallo era ormai sfinito, non si era azzardata neppure a fare una sosta per il terrore di incontrare nuovamente qualche sbandato; o qualsiasi altra cosa, all’improvviso le antiche leggende di spiriti della sua infanzia le erano tornate in mente più plausibili che mai.
Ma era oramai distrutta, sentiva ogni arto dolerle e la tensione aveva raggiunto il livello di saturazione.
Sola nel buio si era resa conto di quanto fosse stata azzardata la sua decisione; eppure al contempo realizzò che, per quanto potesse essere sconclusionata, fosse assolutamente e innegabilmente giusta.
Non poté però fare a meno di sentirsi in colpa di fronte all'evidenza di aver nuovamente abbandonato i fratelli, questa volta forse per sempre.
Per sempre. Si pentì di aver ridotto il saluto ad un ultimo sguardo.
Ma dovette riportare la mente al presente, trovandosi a fronteggiare il forte, balenante di qualche sporadica fiaccola sulla sommità.
Rifugio per molti. Prigione per tanti. Speranza per lei.
Si sentì tremare d’emozione di fronte a quel piccolo pezzetto d’orgoglio inglese.
Ma dopotutto era ancora a metà dell’opera; il peggio doveva ancora arrivare.
Le sentinelle all’entrata parvero dare molta importanza al cavallo ansimante e al suo flemmatico andamento. In quanto all’esile cavaliere, valutarono la sua snella figura dubbiosi.
“Vengo in pace” puntualizzò la ragazza, alzando lievemente le mani e faticando a smontare, sibilando quando il piede le rimase incastrato nella staffa.
Osservò preoccupata le sentinelle scambiarsi un occhiata incredula, e si pentì immediatamente di essersi dimenticata di tentar di scurire, anche se sicuramente con scarsi effetti, la voce.
Gli uomini la squadrarono critici, ma con suo sommo sollievo finirono probabilmente per classificarla per un ragazzino particolarmente effeminato, e un po’ tocco per giunta.
“Dichiara il tuo scopo” domandò la più sveglia tra le due, trattenendo però a stento uno sbadiglio.
“Devo assolutamente incontrare il colonnello Tavington, ho il compito di contrattare il rilascio di alcuni prigionieri” affermò, decisa e sicura di se; la mano dentro la tasca incrociava le dita, speranzosa.
Ma al solo udire il nome del colonnello, le sentinelle parvero tranquillizzarsi.
“Puoi entrare, ma lascia il cavallo al garzone all’entrata e bada a consegnare tutte le armi. Verrai scortato da lui” concluse la guardia con rigidità, prima di comunicare il segnale.
Celeste chiuse gli occhi mentre le grandi porte si aprivano, ringraziando mentalmente Dio per così tanta, inaspettata fortuna.
Attese una decina di minuti, osservando lo spiazzo che era il centro del forte, per venir poi condotta negli alloggi dell’esercito; la guardia le intimò di attendere di fronte alla stanza del colonnello, disfandosi subito del compito di sorveglianza, considerandolo evidentemente di scarso pericolo.
Se si fosse trovata in quell’esatto punto anche solo un mese prima, avrebbe certamente avuto la tentazione di dare alle fiamme l’intero locale; ora l’intera faccenda non avrebbe potuto interessarle di meno.
Rimase a dondolarsi sui piedi per un tempo che le parve inesauribile, avvolta nel debole alone di luce di un lume e aguzzando l’udito nel silenzio assoluto.
Dopotutto, che ore potevano essere? L’alba non doveva essere poi così lontana.
Quando nello stretto corridoio giunse l’eco di passi pesanti, sentì il cuore prenderle letteralmente il volo, minacciando seriamente di risalirle in gola; la preoccupazione svanì di fronte all’inequivocabile realtà dei fatti: sicura più che mai della sua scelta, pronta ad accettare quell’irripetibile possibilità.
“Oh ma sei solo un moccioso. Mandano i bambini a trattare ora? Ti avverto che non mi interessa quanti chilometri tu abbia percorso, il tuo viaggio è del tutto vano”
La voce familiare, il tono arrogante e derisorio con cui era stata modulata… bastò a darle un brivido, a farle voltare il volto di scatto verso il suo interlocutore.
Celeste benedì la penombra del corridoio e l’enorme tricorno che le ombreggiava il volto, nascondendole il viso imporporato d’agitazione.
Seguì con trepidazione l’apparire della sua figura, la porta che si apriva e chiudeva dietro il loro passaggio, la candela che venica accesa; ignorò lo squallido ambiente, gli occhi ipnotizzati da ogni movimento del colonnello.
“Allora? Parla ragazzo, non farmi perdere tempo. Se non l’avessi notato, è notte fonda” la spronò nuovamente, senza degnarla di uno sguardo.
La giovane occhieggiava le sue mani, la giubba che scivolava dalle sue spalle, la camicia che veniva allentata; solo intravedere uno scorcio del petto la riempì di tutto il desiderio covato e nascosto per mesi.
Tavington le diede le spalle, versandosi da bere e alzando un bicchierino ambrato al suo indirizzo.
“Perdonami se non ti offro da bere, dubito tu sia abbastanza grande” la schernì ancora, lanciandogli un occhiata sardonica.
Celeste sollevò impaziente il tricorno, poggiandolo sul rozzo tavolo accanto a lei; le dita slacciarono lentamente la crocchia, lasciando piovere lungo le spalle una cascata color rame.
“Non dirmi che stai seriamente pensando di uccidermi” insinuò con una breve risata l’uomo, svuotando il bicchiere con un gesto veloce.
“Non è mia intenzione colonnello, gliel’assicuro” disse, con voce forse fin troppo alta.
Il bicchiere cadde a terra di colpo, infrangendosi in mille pezzi.
L’uomo ignorò quello scroscio di vetri, voltandosi di scatto e cercandola quasi spaventato.
La giovane si avvicinò a lui, ponendosi nel raggio di luce, lasciando che le illuminasse il viso.
“Suvvia colonnello, non mi guardi come fossi un fantasma” lo canzonò, avvertendo tutta via la bocca farsi arida.
Tavington la guardò quasi con diffidenza, prime di convincersi a tender la mano e sfiorarle una tempia; non riuscì a nascondere un accenno d’esitazione, eppure il solo contatto le parve incredibilmente dolce.
“Come diavolo sei arrivata qui?” mormorò inebetito, ma senza degnare d’attenzione l’eventuale risposta.
Lo slancio fu di entrambi, il protendersi dell’uno fra le braccia dell’altro.
William Tavington baciò Celeste come fosse l’unica donna al mondo.
Chinandosi su di lei, premendo la fronte contro quella della giovane: inspirò a pieni polmoni il suo inconsistente, impreciso profumo.
Meritavano il nome che ella portava, quei suoi dannati, cristallini occhi celesti.
Avrebbe potuto annegarci in quegli occhi.
“Confesso che non ho mai spogliato un ragazzo” sussurrò divertito il colonnello, quando armeggiò con una camicia identica alla sua.
“Dovresti ammettere invece che sono piuttosto comodi” lo corresse lei, mentre le mani sul suo corpo divenivano improvvisamente impazienti e frettolose.
Le prese, fermandole con garbo e portandole alle proprie labbra, sfiorandole appena.
“Non c’è fretta colonnello, non c’è nessunissima fretta” bisbigliò.
L’uomo si limitò ad annuire, assorbito dall’intensità di quelle poche parole, da quella sorta di incredibile tranquillità che la ragazza sprigionava.
Perché all’improvviso le pareva così matura, così consapevole di se stessa e del potere che esercitava su di lui?
Lo sapeva quella ragazzina che sarebbe stato pronto a prostrarsi ai suoi piedi, per lei?
Ma Celeste non chiedeva nulla del genere. Finì di spogliarlo con la sollecita dolcezza di una madre.
Sorrise, salendo scherzosamente sui suoi piedi per cercar di risultare più alta.
“Ora sono tutta tua” disse in un sibilo, le labbra dischiuse contro il suo orecchio.
Tavington non se lo fece più ripetere: fretta o no, si chiese perché perdeva secondi preziosi con le mani ancora lungo i fianchi.
Sollevò Celeste senza la minima fatica, facendo volteggiare la sua nuda figura come fosse una bambola.
“Sei pelle e ossa Celeste, ma ti danno da mangiare quei dannati americani?” chiese beffardo, bloccandole in anticipo le braccia ai lati della testa prima che potesse colpirlo.
Si protese per baciarla nuovamente, bloccando eventuali proteste sul nascere, ma ricevette come risposta un morso deciso, che gli strappò un gemito di dolore.
“Siamo pari ora colonnello” disse ridendo.
“Credevo avessi iniziato a chiamarmi William” ribatté lui massaggiandosi il labbro, con tono velato di rimprovero.
Si chinò nuovamente per lambirgli le labbra e proseguire sul petto, disegnando un invisibile percorso fino al seno.
Fu allora che Celeste gli tese definitivamente le braccia oltre il collo, premendo  il proprio corpo contro il suo, attirandolo dentro di se con improvvisa urgenza e chiedendosi cosa cercasse con più necessità: se il piacere, o conforto.
“William…” sospirò il suo nome, quasi fosse una conferma.
L’uomo tacque,  riponendo ogni provocazione, limitandosi a godersi ogni sfumatura di quella notte, rifuggendo l’eventualità che potesse essere la prima e l’ultima.
Ma ora, in quel momento, nessuna maledetta guerra, nessun maledetto americano o inglese che fosse avrebbe potuto separarlo da quella ragazza.
Un suo gemito gli strappo l’ennesimo sorriso, osservandola rabbrividire di piacere sotto il proprio corpo, le dita che percorrevano la sua figuretta incontrollabili, mosso anch’egli da una serie di brividi, sempre più simili ad una deliziosa agonia.
Ma gli occhi di Celeste restavano chiusi contro il presente, le mani saldamente congiunte come in preghiera, decise a non permettergli di allontanarsi nemmeno per un attimo da lei.
E la notte parve all’improvviso più lunga, le ore si dilatarono al punto di apparire eterne.
Nessuno dei due notò il chiarore all’orizzonte, la sottile lunetta di luce che si dipingeva sulle assi di legno del pavimento.
Si erano abbandonati al punto di perdersi, ma senza separarsi l’uno dall’altro.
“Ti ho desiderato così tanto Celeste… credevo di impazzire”
“Non è da te”
“Forse sono impazzito davvero… ho fatto delle cose terribili”
“Oh sì, quello è da te”
L’uomo voltò appena la testa, guardandola stralunato.
Ma Celeste sorrise, allungandosi giusto quel tanto per rubargli l’ennesimo bacio.
Poi salì nuovamente su di lui, stuzzicandolo come un gioco, prima che lui la prendesse per i fianchi e riprendesse il controllo della situazione.
Un’altra volta ancora.

 


“Don’t want to hear about it
Every single one’s got a story to tell
And that ain’t what you want to hear
But that’s what I’ll do
And a feeling coming from my bones
Says find a home

 
Non voglio ascoltare
Tutti quanti hanno una storia da raccontare
E questo non lo vuoi sentire
Ma è ciò che farò
E la sensazione che arriva dalle mie ossa
Dice di trovarmi una casa”

-Seven Nation Army, White Stripes-

 
 

Come erano potute bastare poche parole ad infrangere così bruscamente quell’atmosfera da sogno?
Erano state, dopotutto, poche, banali, scontate domande.
Era bastato domandarle come avesse fatto a scappare di casa, a raggiungere e penetrare nel forte.
Era bastato chiederle perché.
“Sei davvero così stupida Celeste? Correre così tanti pericoli solo per riferirmi i vaneggiamenti  di quattro zotici!” la rimproverò Tavington con disprezzo, allacciandosi rabbiosamente i bottoni della giubba.
“Devi essere cieco per  non far altro che sottovalutarli! Lo sai al pari di me che rappresentano una forza da non ignorare”ribatté Celeste rivestendosi, furiosa per l’incapacità dell’uomo nel comprendere la realtà.
Lui alzò gli occhi al cielo, liquidando le sue parole con un gesto.
“Oh, complimenti, ora ti intendi anche di guerra? Credevo che le tue uniche competenze non andassero oltre il sollevare una misera rivoltella!” ribatté ridicolizzandola.
“Se permetti sono capace di intuire la portata di un pericolo! Non vi basterà la forza questa volta, sono sempre di più e conoscono a memoria ogni singolo palmo di questi territori” ribadì risoluta, ignorando la frecciatina a suo conto.
Tavington alzò gli occhi al cielo, un cenno derisorio verso la ragazza.
“E credi che noi non l’abbiamo esplorato fino a conoscerlo a memoria, prima di avventurarci?”
Fu il turno della ragazza di scoppiare in una breve risata  beffarda.
“Degli inglesi? Ma fammi il piacere! Brancolate nel buio”.
Rimasero a guardarsi rigidi e guardinghi, gli occhi tra il diffidente e il furioso, il letto ancora caldo dei loro corpi a separarli.
L’uomo infine scosse la testa, afferrando spada e rivoltella e assicurandosele alla cinta.
“E’ stato del tutto inutile Celeste. Ti ringrazio per il tuo interessamento, ma non puoi comprendere certe cose” disse con tono forzatamente formale.
“E ora ti prego di scusarmi, ma devo presentarmi dal generale e sistemare definitivamente il problema. Ci vedremo dopo”
Celeste spalancò gli occhi, un vago timore che faceva breccia nella rabbia.
“Che intendi dire?”
William Tavington le mostrò un sorriso sfrontato.
“Prevenire è meglio che curare. Hai detto che aspetteranno il nostro giro di ricognizione per attaccare? Allora gli verrà dato ciò che desiderano, ma con le mie condizioni. Entro sera quei bifolchi saranno sistemati”
La sola idea lo rese estatico.
“Per sempre” aggiunse compiaciuto dalla semplicità del piano.
“No!”
In un attimo la giovane balzò sul letto, avventandosi su di lui, picchiandogli i pugni contro al petto.
“E’ una mossa totalmente azzardata! Un idiozia” urlò stavolta.
Il colonnello non trascurò il tono della sua voce: non più rabbioso, ma gonfio di preoccupazione.
Inclinò appena la testa, sfiorandole il viso teso verso di lui.
“Temi per la mia incolumità, o piuttosto per qualcuno a cui tieni?”
Celeste gli afferrò la mano, stringendola supplichevole, quasi come lo era stata tanto tempo prima per i suoi fratelli; entrambi parvero pensarlo.
“E’ mio padre, William. Ed Andrew è mio fratello” sussurrò, cercando la sua comprensione.
Tavington evitò il suo sguardo, chinandosi per premerle sulla fronte un bacio, afferrandole il viso per sfiorarle brevemente le labbra, nonostante cercasse di divincolarsi dalla sua presa.
“Beh, mi spiace abbiano fatto la scelta sbagliata”
Si avviò all’uscita, aprendo la porta senza neppure voltarsi a lanciarle un ultimo sguardo.
“Evidentemente sarai costretta a sopportarne la perdita” concluse lapidario.
Dopodiché l’attraversò e la chiuse dietro di se con violenza.
Un istante dopo giunse il rumore di una chiava che girava nella toppa.
Celeste rimase per un attimo imbambolata ad osservare la porta sigillata.
Si lasciò cadere sul letto, passandosi brevemente le dita sulle labbra, sfiorando quel bacio obbligato.
Perché tutto in quel momento pareva identico al passato?
Giuda che baciava da dio e la sensazione di aver perso in partenza.
Ma non poteva perdere, qualcosa era cambiato.
L’aveva deciso quando era partita: non tornera indietro.
E non gli avrebbe permesso di renderla nuovamente più impotente di quel che era.

 
 
 
 

“I want my innocence back
And if you can't pacify me
I will break your bones
You think I'm bluffing, just try me
I will never forget the words you used to ensnare me


 
Voglio indietro la mia innocenza 
E se non mi puoi pacificarmi
Io ti romperò le ossa 
Tu pensi io stia bluffando, provamelo
Non dimenticherò mai le parole che hai usato per intrappolarmi”

-I want my Innocence Back, Emilie Autumn-

 
 
 

Il sole del primo pomeriggio sfavillava sulle terre del Sud Carolina, un pressante riverbero che rendeva bruciante e luminosa ogni superficie riflettente: i bottoni delle giubbe rosse, i finimenti dei cavalli lanciati nel galoppo, le armi lucide pronte ad essere sfoderate.
E un vago luccichio sul declivio di una bassa collina erbosa, seminascosta dalla macchia erbosa che ricopriva quel tratto di terra.
William Tavington ripose il cannocchiale, sospirando ansioso per l’imminente scontro: sarebbe stata una carneficina, lo sapeva.
Lo voleva.
Distruggerli definitivamente, spazzarli via in un solo pomeriggio come scarafaggi, cancellare la loro presenza dal continente.
Come poteva non tremare di anticipazione?
Il desiderio di uccidere Benjamin Martin, il loro attuale leader, era ancora forte; prima di incontrare Celeste, un’autentica ossessione, incapace di farlo dormire la notte. Non sopportava l’idea che fosse vivo, figuriamoci occuparsi di dirigere un manipolo di contadini.
Puntò ancora lo sguardo lontano, e constatò con soddisfazione che il finto convoglio inglese, il gioiello del loro piano, era ormai vicino.
Guardò la macchia scura degli alberi, dove sapeva i ribelli erano appostati in attesa.
“Non ti perdonerò mai!”
Strinse nervosamente le redini, a disagio.
Se anche per un puro caso di fortuna, se anche il suo occhio fosse riuscito a cogliere un particolare fisico, una minima rassomiglianza con Celeste, cosa avrebbe dovuto fare?
Risparmiarli restava fuori discussione.
Perché avrebbe dovuto? Loro, individuandolo, a maggior ragione avrebbero cercato di ucciderlo.
E poi se fossero morti, scomparsi dalla vita della ragazza… non vi sarebbe stato più alcun ostacolo rilevante tra loro due.
Sarebbe stata sua, totalmente sua come un tempo, quando non esistevano altre minacce.
Una parte di lui ruggì di approvazione. Era la parte amante dell’omicidio, quella che tra pochi minuti si sarebbe presa permesso di condurlo nella battaglia.
Sorrise compiaciuto quando lesse lo spaesamento sul volto dei ribelli: il convoglio che si rivelava esca, la decina di soldati inglesi e armi in pugno di fronte  a loro, per non contare la ventina nascosta nei larghi campi di grano.
Come un sol uomo, lo squadrone dei Dragoni Verdi si lanciò lungo il declivio al cenno della sua mano.
La rivoltella in pugno, lo sguardo puntato su Martin.
Gli Allworthy  vennero relegati in fondo alla mente.
 

*****

“Il colonnello Tavington è proprio un uomo strano”
“Puoi dirlo forte. Ma dai, guardala!”
“Viene a letto con noi, e poi perde la testa per una come quella?”
“Io trovo che sia molto bella…”
Una serie di occhi scettici si voltò verso l’ultima che aveva parlato.
“Tesoro, sei forse cieca? E’ scheletrica”
“Ma è bellissima!”
“Ma che bellissima, non si può nemmeno considerare una donna!”
Azula si chinò verso Celeste con fare cospiratorio.
“Stiamo escogitando un modo per tappargli la bocca. Ti vuoi unire a noi?”
Celeste le rivolse un sorriso stanco, ignorando le occhiate provocatorie delle prostitute.
“Sei l’ultima persona che mi aspettavo di vedere, Celeste. Quando non ti abbiamo visto qui con Tavington, abbiamo pensato fossi tornata alla tua bella vita” disse Cherry, gettando uno sguardo dubbioso sui suoi abiti maschili, spiegazzati e impolverati.
“Uno spasso che non ti immagini” ribatté la giovane, in un eroico tentativo di ironia.
Guardò le sue interlocutrici una ad una, sedute accanto a lei circondandola come fosse malata.
Sembravano passati anni invece che mesi; i loro visi erano identici, forse solo un po’ più stanchi, più demoralizzati.
Cherry, Azula, Caroline e persino Cynthia. Volti nostalgici della sua mezza vita alla taverna.
Mancava solo Katrina.
Cherry parve leggerle nel pensiero.
“Sì, manca anche a noi. Molto”
Rimasero in silenzio per un attimo.
"E Madama?"
"Ha pagato e se ne è andata. Non ci ha degnate di una parola"
"Che stronza" commentò laconicamente.
Si guardò attorno: la stanza in cui Tavington l’aveva reclusa era l’alloggio delle prostitute dell’intero forte. Non si poteva sostarvi senza provare un senso di disagio di fronte allo squallore in cui vivevano: una decina di  rigide brandine, un divano mezzo sfondato, stuoie a coprire ogni centimetro libero di pavimento. Coperte lacere, polvere e sporcizia, e un innegabile, disgustoso odore proveniente da un angolo della stanza, protetto da una tenda. L’unica privacy che una puttana poteva avere.
“Qui è uno schifo” sentenziò allibita.
“E’ peggio, è un inferno. Ti fa venir voglia di passare la tua intera vita nel letto di chiunque, piuttosto che restare qui” confermò Cynthia, con un’incredibile dose di disprezzo nella voce.
Celeste l’osservò, il labbro superiore arricciato in un accenno di risata.
“Sbaglio o hai cambiato un po’ le due vedute?”
“Stai zitta Celeste. Le mie vedute non cambiano, solo che questo posto è una merda, e  voglio solo che questa guerra finisca”
Caroline tirò il lembo di coperta con cui si erano avvolte: possibile che nonostante l’estate imminente, in quella stanza facesse così freddo? I muri di pietra non erano certo clementi.
“Se anche finisse presto, non avremmo in alcun caso un posto in cui andare” disse gettando un occhiataccia a Cynthia, che tratteneva la coperta con testardaggine.
“Parla per te sorella. Io cercherò in ogni modo di tornare in Messico” ribadì Azula con energia, un largo sorriso che scacciava l’espressione annoiata.
“Ma laggiù non ti è rimasto niente!” ribatté Caroline.
“Appunto per questo. Voglio andarci per rincominciare tutto da capo”
Celeste alzò appena la testa a quelle parole, mentre le due donne incominciavano a battibeccare.
“Per rincominciare tutto da capo”
Ma era possibile, lasciarsi tutto alle spalle e crearsi una nuova vita?
Non senza di lui, parve dire una voce dentro di lei, che stranamente apparteneva alla parte più ragionevole.
In quel momento le parve totalmente impossibile, e al contempo, la cosa che aveva mai desiderato di più in vita sua.
Fu colpita dall’importanza che Tavington aveva acquisito.
Contava più di quella stupida guerra, più della sua terra, contava più del destino che avrebbe subito.
E con un singulto si rese conto che contava più della sua famiglia, più di ognuno dei suoi fratelli, più dell’onore di suo padre e della sua famiglia.
Era più importante del suo orgoglio, del suo senso di giustizia. Contava più di ogni altra cosa al mondo.
Interruppe la conversazione con violenza, scagliando le sue parole con un impeto tale che anche le prostitute dall’altro lato della stanza si voltarono sorprese.
“Dovete aiutarmi a farmi uscire di qui, adesso!”
Cherry tentò di afferrarle la mano e farla tornare a sedere sulla branda, ma la giovane gli scostò la mano di malagrazia.
“Celeste, è impossibile. Se non te lo ricordi siamo in un forte inglese, e questa stanza è chiusa a chiave”
“Non ti perdonerò mai!”
Aveva urlato, prima che Tavington chiudesse la porta, chiudendola nuovamente a doppia mandata.
“Ci deve pur essere un modo per entrare  e uscire da questo posto” sussurrò, tornando a sedersi e scorrendo le spoglie pareti della stanza.
“Negativo. Noi non possiamo mai uscire, la porta è sempre chiusa fino a sera, quando gli ufficiali vengono a sceglierci”
Entro sera lui potrebbe già essere morto.
Celeste si prese la testa fra le mani, sentendosi più che mai impotente.
Poi si alzò nuovamente in piedi.
“Come fate a mangiare?”
Cherry la guardò confusa.
“Un inserviente ci porta qualcosa a pranzo e a cena, ma io non lo chiamerei cibo, piuttosto..”
“Quindi qualcun altro ha le chiavi della porta, e prima o poi dovrà aprire!” disse eccitata, osservando i visi poco convinti delle compagne.
“Celeste, se anche riuscissi a scappare, la sola idea di uscire dal forte è assurda…”
“Come ci sono entrata, riuscirò anche ad uscire, non è questo il problema” liquidò l’obiezione sbrigativa, cercando di chiarire il possibile piano.
Fuggire, cercare l’uscita, prendere il cavallo, tornare verso Mary Town.
Con la luce del sole sarebbe stato più semplice, e al contempo più difficile: non sarebbe bastato un tricorno a farla sembrare un ragazzo.
“Celeste ragiona, è assurdo. Se ti scoprono a gironzolare qua in giro se la prenderanno con te” disse Azula, con la stessa ponderata dolcezza che avrebbe usato Katrina.
“Non importa, almeno devo tentare” ribatté risoluta.
“Potresti aspettare fino a stasera”
“Per stasera potrebbe essere già morto”
Guardandosi  a vicenda le donne si scambiarono uno sguardo indeciso.
“Avevamo ragione allora, già quando eravamo alla taverna tu e lui…” chiese Caroline, ma Celeste la interruppe.
“Non chiedermelo, per favore”
Non avrebbe sopportato di dirlo ad alta voce, non in quel momento, sospesa tra ciò che era possibile e cosa non lo era.
“Proviamoci” disse improvvisamente Cynthia.
Celeste la guardò stupita.
“Che cosa hai detto?” chiese, contemporaneamente ad Azula.
“Ha la fortuna di poter avere un uomo come Tavington. Non c’è nulla di male nel tentare di tenerselo stretto”
“Hai presente che se ci beccano faremo una brutta fine?” domandò Caroline, con tono ormai arrendevole.
“Allora vediamo di non farci beccare. E dopotutto, abbiamo poco tempo: è quasi mezzogiorno”
Per un attimo le labbra a forma di cuore si distesero in un sorriso sincero, illuminandole il viso.
Capelli aranciati a parte, Celeste la trovò per la prima volta carina.
“Sembri quasi avere buone intenzioni Cynthia”
La ragazza alzò gli occhi al cielo.
“Lo faccio solo per me, stupida. Non ti ho mai sopportato Celeste, prima te ne vai, meglio è” concluse incrociando le braccia divertita.
 

*****

 
 

Andrew Allworthy compì una rotazione sul posto: la mano destra reggeva un corto pugnale, la sinistra un fucile; un profondo taglio sul collo di un soldato, due potenti colpi alla testa del secondo e, imbracciando l’arma e puntandola contro un terzo, un ultimo, preciso e mortale sparo.
Con un solo movimento era riuscito ad uccidere ben tre inglesi. Senza contare i precedenti e, pensò con un brivido di soddisfazione, i seguenti.
Andrew faceva parte dei rimasti, della ventina di uomini rimasti nella boscaglia a combattere.
Erano stati presi alla sprovvista, alcuni erano morti senza neanche riuscire a puntare le armi contro al nemico.
Benjamin aveva decretato la ritirata, seguire il corso del torrente e ripiegare per uno scontro successivo. Erano in netta minoranza, lo sapevano.
Ma ad Andrew non importava, e neanche a suo padre.
Non erano in pochi gli uomini rimasti a combattere, nonostante fossero diversi gli inglesi rimasti e i Dragoni Verdi avessero già fatto una bella piazza pulita con la consueta ferocia.
Andrew si sentiva immune agli attacchi, mieteva vittime con una spaventosa costanza, evitando colpi su colpi come fosse guidato dalla dea Fortuna.
Ma i suoi occhi non si staccavano mai dalla figura di William Tavington: un solo sguardo all’inizio della battaglia era bastato ad accenderlo di un fervore bruciante, una rabbia cieca che gli consentiva di guadagnare ogni minuto passi verso di lui, senza ancora sentirsi stanco.
Quel figlio di puttana che si è preso la verginità mia sorella.
Non pensava esplicitamente ai sentimenti di Celeste, non aveva dato importanza alla sua fuga, come invece aveva fatto suo padre.
La sola idea di Celeste, senza abiti, completamente debole e inerme di fronte alle voglie di quel depravato… l’urlo di dolore del soldato inglese, nel trovarsi la giugulare trafitta da parte a parte, fu una chiara manifestazione del suo odio.
L’avrebbe ucciso. No meglio, l’avrebbe massacrato.
Osservava la sua preda con tanto ardore da non accorgersi che, poco lontano, Conrad Allworthy avrebbe decisamente necessitato un'altra mano per riuscire a vivere per un’altra decina di minuti.

 
 

“Don't get me wrong I love you
But does that mean I have to meet your father?
When we are older you'll understand
What I meant when I said

"No,I don't think life is quite that simple"
 
Non fraintendermi ti amo
Ma questo significa forse che devo conoscere tuo padre?
Quando saremo più grandi capirai
Cosa intendevo quando dissi

"No, non penso che la vita sia tanto semplice"
-Simple and Clean, Utada Hikaru-

 

Fu facile. Immensamente facile.
Era successo tutto in fretta: un attimo prima era dentro, e quello dopo era fuori.
Un attimo prima era evidentemente una donna, e quello dopo era un ragazzo.
Non riusciva a capacitarsi di come Cynthia avesse distratto il servitore, poco più di un ragazzino, prima che potesse anche solo domandare cosa ci facesse un  suo coetaneo nell’alloggio delle prostitute.
O di come Cherry l’avesse accompagnato fino all’ingresso del forte, e avessero incrociato un soldato.
“E voi che ci fareste in giro? E costui?”
Un’idea balenante: una risatina giocosa, un piccolo buffetto sulla guancia di Celeste.
“Sarà il nostro miglior infiltrato”
“Un infiltrato? E perché io non ne sarei al corrente?”
“Ordini del colonnello Tavington”
Un sorriso che si smorzava, la via verso la libertà.
Macinava chilometri in gran fretta, spronando il proprio cavallo oltre i limiti del consentito. C’erano vaghe tracce nella polvere, pesanti segni di ruote di qualche convoglio e molti, infiniti zoccoli.
Chi poteva dire se fosse o meno sulla strada giusta?
“Dio signore, aiutami ti prego…” sussurrò, pensando più a sua madre che a Dio in persona.
Ma a quanto pare chiunque la stesse seguendo da lassù, parve ascoltare le sue preghiere.
Il nitrito di un cavallo la spaventò, e voltandosi vide un sauro, ancora con indosso sella e finimenti, allontanarsi di gran carriera da una macchia verde, poco lontano da dove si trovava.
“Vale la pena tentare” disse risoluta, cambiando bruscamente direzione.
Non avvertiva nulla: niente dolore per essere un incapace a cavalcare, niente sete per non toccare liquidi da ore, niente fame per non mangiar nulla da quasi un giorno; il vuoto allo stomaco era per la paura.
Paura, e un senso di vertigini come se si trovasse ad un’elevata altezza, come se si fosse sospinta sul bordo esatto di un baratro, in un punto da cui sarebbe stato impossibile fare marcia indietro.
Il clangore delle armi divenne evidente anche quando mancavano ancora parecchie miglia. Solo in quel momento ebbe un cenno di esitazione, colta dall’istintiva paura degli scontri.
Il fatto che tu sappia sollevare un’arma non fa di te una combattente, dico bene?
La parte di lei, quella non ragionevole e sottilmente crudele, minacciava di farla scappar via a gambe levate. Fu anche per sedarla che, quando fu vicina, smontò da cavallo e corse tra i gli arbusti e gli alberi sottili.
Osservò la serie di cadaveri a terra e dovette reprimere un conato di vomito.
Più che uno scontro sembrava una mattanza, uno scempio, un autentico bagno di sangue.
Cadaveri di inglesi giacevano scomposti tra quelli degli americani: non erano forse tutti identici ora?
Provò un fremito nel riconoscerne alcuni del villaggio, e si costrinse a continuare, osservando i morti quasi con disperazione.
Cosa avrebbe fatto se avesse riconosciuto suo padre, o Andrew?
O William…
Erano pochi i rimasti sul campo di battaglia, una decina di soldati inglesi e altrettanti ribelli, che si accanivano l’uno sull’altro senza più un particolare scopo.
Chi manteneva il suo dovere e chi sfogava semplicemente il suo odio?
Di Benjamin Martin nessuna traccia.
Li vide non appena si addentrò maggiormente tra gli alberi.
Conrad Allworthy combatteva ormai allo stremo delle forze con un dragone: la bocca tesa alla ricerca del respiro, i gesti sempre più deboli e imprecisi…
Se qualcuno non fosse intervenuto, non ce l’avrebbe fatta.
In preda al panico spostò lo sguardo alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa, e scorse William.
O meglio, scorse William impegnato in un acceso combattimento con Andrew.
“Acceso” era un eufemismo: la rabbia di entrambi era fuoco che divampava, le lame cozzavano l’una contro l’altra con tocco di morte.
Non dubitava che un solo colpo andato a segno avrebbe decretato la morte di uno dei due.
Nel panico più completo si guardò intorno, tentando di far combaciare quel poco coraggio che le rimaneva a qualsiasi gesto sensato.
Che fosse ragionevole o meno, si lanciò verso i cadaveri, spostando con fatica e disgusto arti e corpi, fino a ritrovare un fucile.
Era scarico, ma dopotutto non sarebbe neppure riuscita a sparare. Lo sollevò a fatica e impugnandolo come fosse una mazza, corse nuovamente da suo padre, passando tra gli alberi.
Non fu coraggio quello che la spinse a lanciarsi sul dragone; rigirò la paura a suo favore, la possibilità di rimanere orfana che schiacciava ogni conseguenza.
Non attese un momento propizio, semplicemente si lasciò cadere accanto a loro e, con tutta la forza in suo possesso, calò il calcio dell’arma sulla nuca dell’inglese, ottenendo un disgustoso, duro tonfo.
L’uomo cadde a terra con un lamento, mentre suo padre alzava lo sguardo allibito.
“Celeste! Ma cosa diavolo…?”
Non lo lasciò finire, correndo verso gli altri due combattenti.
“Andrew!” urlò con tutto il fiato che aveva.
Entrambi si voltarono a guardarla stupiti, ma non per questo Andrew smise di combattere.
Approfittò della distrazione del nemico per assestargli un altro fendente, fortunatamente intercettato.
“No! No, basta!” urlò, correndo verso di loro.
Ma a fermarli fu qualcos altro. Celeste si voltò agghiacciata
Alle sue spalle provenne un colpo, un alto urlo di dolore.
Riuscì a cogliere il dragone che credeva di aver abbattuto ricadere a terra stremato, la mano che reggeva la punta metallica della baionetta, ancora premuta nel corpo di suo padre.
Conrad Allworthy crollò a terra senza un ulteriore lamento.
E non ci fu spazio per nient’altro.
Sentì un urlo nascerle in gola, sentì le sue labbra aprirsi per lasciarlo fuoruscire liberamente, sentì i suoi piedi muoversi da soli, inciampare varie volte, cadere accanto al corpo di suo padre.
Toccò con ansia la schiena dell’uomo, da cui fuoriusciva la lama; tentò invano di girarlo o estrarla, fermandosi non appena udì un gemito di dolore.
Si limitò a prendergli con delicatezza il viso, voltandolo verso di lei.
“Padre… vi prego..” singhiozzò, osservando gli occhi, tanto simili ai suoi, farsi vacui, come coperti di una sottile patina appannata.
Gli sfiorò la mano, scossa da un leggero tremore, il calore che sembrava già sul punto di spegnersi.
“Padre, padre…” lo chiamò ancora, senza ottenere nulla di più di un battito di ciglia.
La bocca si apriva come volesse dire qualcosa, ma restava semichiusa incapace di proferir suono.
“Andrew! Dannazione, Andrew!” urlò il nome del fratello svariate volte, constatando finalmente che avevano smesso di combattere.
E mentre William si avvicinava, osservò il fratello non accennare un solo passo.
Non verso di loro almeno. Indietreggiò semmai, il volto impietrito.
Per un attimo le sembrò in preda ad un grande emozione, come se dentro di lui qualcosa stesse lottando freneticamente per emergere. Ma poi il suo viso si spense, le emozioni scivolarono via come fossero acqua.
E Andrew tornò ad essere lo strano individuo che aveva faticato a riconoscere come fratello.
Lasciò cadere a terra la spada, e sgusciò via, oltrepassando il bosco, correndo lontano dalla morte e dal dolore.
Abbandonandola al suo destino.
Celeste chinò la testa contro la fronte del padre, posandovi le labbra in un gesto tanto inusuale per loro due.
“Padre… mi dispiace, mi dispiace per tutto” sussurrò ancora, le mani ferme tra i suoi capelli ingrigiti.
“Mi dispiace per i ragazzi, per Dan e Devid. E Celia, e Sophie. Mi dispiace per Andrew. E mi dispiace per William” disse piano.
Gli occhi di Conrad vagarono appena alle spalle della figlia, osservando il colonnello Tavington fermarsi accanto a lei; ma la giovane non si voltò, e tornò con le sue ultime forze a guardarla.
Aprì la bocca in un ultimo eroico sforzo, cercando di spingere la voce ad uscire.
Il nome uscì senza vocali e senza consonanti, un gorgoglio ineleggibile.
Ci riprovò, risultando essere un solo filo di voce, poco più di un sospiro. Ma Celeste era vicina, lo udì perfettamente.
“F eli c e” sibilò, le lettere distaccate le une dalle altre, ma perfettamente riunibili in una sola parola.
Felice. Sii felice.
Singhiozzò più forte che mai, mentre il respiro dell’uomo si fece sempre più fievole, fino a spegnersi.
Celeste continuò a sussurrare il suo nome. Anche quando si accorse che il respiro era scomparso. Anche quando il calore sgusciò via dalla sua presa.
Continuò a sussurrare il suo nome anche quando William si chinò a chiudere gli occhi al padre della donna che amava.
Continuò a sussurrare il suo nome anche quando la sollevò e la prese in braccio contro il suo volere, portandola via con se.

 
 

“La cosa più grande che tu possa imparare
 è amare,e lasciarti amare”
-Dal film Moulin Rouge! di Baz Luhrmann-

 
 
 

Aveva cavalcato seguendo il corso del torrente dalla parte opposta a dove si era diretto Martin coi suoi uomini.
Non verso Fort Carolina, non vero Mary Town, ma anzi lontano da entrambi.
Non aveva la più pallida idea di dove si stesse dirigendo, con il calare della notte faticava persino a intuire dove fossero esattamente.
Smontarono in una macchia boschiva dove gli alberi si facevano più fitti e concedevano riparo da qualunque sguardo.
Non avevano nient’altro oltre le armi.
Non aveva in ogni caso nulla da offrirle.
Il colonnello la guardò: un tenue, basso falò a illuminarle il volto, Celeste se ne stava appoggiata al tronco di un albero, le gambe raccolte tra le braccia e la testa chinata.
Non aveva ancora detto una parola. Ogni tanto tirava su con il naso e ricominciava  a piangere.
“Sai, anche io ho perso mio padre” disse improvvisamente.
La ragazza alzò un attimo gli occhi, gonfi e arrossati, ma le cui iridi rilucevano straordinariamente chiare per via delle lacrime.
Restò senza fiato di fronte a quello sguardo.
“E cosa hai provato?”
Lui alzò lievemente le spalle.
“Niente. Era uno stronzo”
Si pentì subito di aver parlato, rendendosi conto di quanto erano insensate le sue parole.
Ma Celeste tentò un sorriso, che subito morì affogato tra nuovi singhiozzi.
Ma almeno ci aveva provato.
William si alzò, sedendosi accanto a lei, senza ancora osare toccarla.
“Però mi ha anche insegnato molto. A combattere nonostante avessi perso in partenza, a valutare i miei nemici non per la prestanza fisica, a saper riconoscere il valore. Tuo padre era senz'altro un uomo valoroso”
Lo stava ascoltando, e dopo poco fu lei ad avvicinarsi cercando conforto, lasciandosi circondare dalle sue braccia.
Rimasero in silenzio per molto tempo, fino a quando il sole concluse il suo arco, gettando la terra nel buio, una striscia di luce sospesa a occidente.
“Cosa farai ora?” chiese infine la giovane, alzando la testa a guardarlo.
“Quello che farai tu, suppongo. Cosa vorresti fare?”
Aveva già preso la decisione mentre cavalcava. Non gli era costata alcun sacrificio.
Celeste, al contrario, non si aspettava una risposta del genere.
“Non vuoi tornare al forte?” chiese stupita.
“Perché dovrei?”
La ragazza tacque ancora, un’altra lunga pausa tra quelle parole che tanto faticavano a uscire.
“Beh, io non ho un posto dove andare”
“Non vuoi tornare dai tuo fratelli?” questa volta a stupirsi fu il colonnello.
“No. Ho già detto loro addio”
Ancora silenzio.
“E poi, a Mary Town non sarei più il benvenuta. Non credo di essere il benvenuta da nessuna parte”
L’uomo fu colto dall’ironia della sorte; rise brevemente, mentre Celeste lo guardava interrogativa.
“Perdonami. Credo che anche un colonnello inglese disertore non sia ben accetto, né qui né oltreoceano. Credo dovremo tentare altrove”
La ragazza si lasciò conquistare per un attimo da quella possibilità.
“E dove? Non ho un soldo”
Ma ancora esitava a pronunciare il “noi”, a unire la sua presenza alla sua.
“In un modo o nell’altro troveremo qualcosa. Vivremo di espedienti fino a quando arriveremo in Canada”
Lo disse quasi senza pensare, ma poi realizzò che era davvero l’unica cosa possibile da fare.
“In Canada? Perché?”
“Perché ci sono colonie inglesi, la guerra vi è già passata ed è abbastanza lontano perché le voci della mia diserzione giungano in fretta. E in più conosco qualcuno che ci può aiutare”
Celeste tacque ancora.
“Perché insieme?”
“Tu vorresti che ci separassimo?”
“No!” proruppè con troppa veemenza, procurandogli un sorriso.
Nonostante tutto si sentì arrossire.
“Mi chiedo solo perché…”
Il colonnello sentì che il momento di parlare era giunto, un momento che fino a poco tempo prima era convinto non avrebbe mai vissuto in tutta la sua misera esistenza.
“Ti ricordi quella sera, sì quella sera in cui suonasti alla taverna? Fu la sera in cui ti vidi davvero per la prima volta. Non come una puttana da portarmi a letto, una ragazzina insolente da sottomettere, ma come…”
Si arrestò, faticando a trovare qualsiasi altra parola.
Ma Celeste pendeva dalle sue labbra, attendeva come fosse di vitale importanza.
E in effetti, ormai lo era.
“Sei riuscita in qualcosa che nessun’altra donna ha mai potuto fare. Nonostante la mia natura, nonostante tutto ciò che ti ho fatto, mi sei entrata dentro. Piano, in silenzio…. In punta di piedi”
Celeste spalancò gli occhi, rimase attonita per un istante a guardarlo.
Aveva sognato svariate volte quel momento, nel limbo del dormiveglia, nelle notti stretta tra le sue sorelle.
L'aveva sognato in cento modi diversi, ma mai in quel contesto, mai dopo una perdita.
Perdere per ritrovare pensò mentre si sollevava per tendere la bocca verso la sua, sfiorandogli le labbra e baciandolo appena, come se stesse cercando una conferma.
Come se lui volesse dargliela.
L'uomo le posò le mani sui fianchi, trattenendola a se, baciandola con passione, stordito dall’entità delle sue parole, dalle decisione che aveva preso, da quanto ne sarebbe conseguito. Ma sapeva che era stata la cosa giusta.
La giovane interruppe il bacio, lasciandogli le labbra umide di saliva e lacrime.
Apparve un sorriso tremulo, il viso ancora bagnato ma da cui trasparì un incredibile, coraggiosa felicità.
“Sii felice”
“Devi ascoltarmi" sussurrò, prendendogli delicatamente il viso e impedendogli di baciarla ancora.
"Ho perso tutto ciò che avevo, mi è sfuggito dalle mani senza che riuscissi a fare davvero alcunché. L'ho perso, o mi è stato strappato”
Il colonnello ebbe per un attimo un’espressione colpevole, ma Celeste continuò a sorridere.
“Ora, lo giuro, non voglio mai più perdere di vista ciò che conta davvero. Ci siamo trovati, ci siamo odiati, ci siamo cercati e ora ci siamo trovati di nuovo. E ora io ti amo, e lo giuro: voglio passare tutta la mia vita con te”
Il sole era ormai calato da un pezzo, eppure all’improvviso sembrò sorgere di colpo.
Come fosse l'alba. L'alba di un nuovo giorno.



Elle's Space 
Io amo questa storia. Davvero, penso che sia la storia più bella che abbia mai scritto.
Forse perché è la prima. Lo stile non è magistrale, a volte mi rendo conto che potrei fare di meglio. Eppure continuo a prediligerla. Lo so, chiedo venia per il mostruoso ritardo, definiamolo pure una pausa.
Perché? Mi riconosco tanto in Celeste forse anche per questo, un amore che a tratti ti eleva e un attimo dopo ti distrugge.
Mi porta ad essere inconcludente, si prende tutti i miei pensieri.
In ogni caso, chiarisco all'infuori di ogni dubbio che io amo Celeste. Penso che sia uno dei personaggi migliori che abbia delineato.
E' inerme, come lo siamo tutti a volte. Forse più degli altri. Ma è forte, ha qualità che io non potrei mai avere.
E il colonnello è appena abbozzato nel film, viene mostrata solo la sua crudeltà. Chi può dire se dietro la facciata si nasconda qualcos'altro, un'infanzia dolorosa o, giust'appunto, una ben nascosta sensibilità?
Li amo come coppia perché sono totalmente fuori dai limiti, malassortiti eppure perfetti. E finalmente si amano (siiii *-*)
E ora la smetto di blaterare e ringrazio coloro che leggono, che continueranno a seguire questa storia nonostante sia una stronza nell'aggiornare e che sono caritatevoli a recensire,  herAmnesia e  Hilly89 .
Grazie per i consigli e a presto (giuro, stavolta ci proverò davvero!) :3


Elle H .

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