Apologia di un misantropo corrotto

di Slits
(/viewuser.php?uid=67046)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #1. Prologue plus Primo appuntamento ***
Capitolo 2: *** #2. Secondo appuntamento ***
Capitolo 3: *** #3. Terzo appuntamento [Parte I] ***
Capitolo 4: *** #3. Terzo appuntamento [Parte II] ***
Capitolo 5: *** #4. Epilogue ***



Capitolo 1
*** #1. Prologue plus Primo appuntamento ***


Note dell'autore:
● Ogni capitolo della storia è stato strutturato in tre parti:
[Presente] [Secondo stadio della misantropia]

- Brevi scorci dell’ospedale
- Scambio di battute fra paziente e psicologo
- Inizio della seduta

[Passato] [Primo stadio della misantropia]

- Si riallaccia alla domanda di inizio seduta
- Brevi scorci dell’ospedale ai tempi del precedente psicologo

[Flashback] [Primi sintomi della misantropia]


● Sebbene abbia deciso di rendere Victor inglese, la storia non è assolutamente ambientata in Inghilterra. Baratie resta una località di pura fantasia, di cui di reale rimane il solo nome. Baratie è, di fatti, il ristorante galleggiante in cui Sanji è cresciuto prima dell’incontro con Rufy.


● Ancora prima di concentrarmi sullo stadio effettivo di misantropia, nella storia ho preferito focalizzare l’attenzione sulle cause che nel tempo la inducono. Trattandosi delle tematiche di sogno ed ideale, ho deciso proprio per questo di rendere Sanji protagonista. Trovo che, nell’opera di Oda, il suo continuo accanirsi nella ricerca di qualcosa che neanche sia detto esistere, possa essere un sogno ancora più grande di quello del Capitano.





Prologue.

Sulle tracce del paziente, Victor capì per la prima volta cosa significasse braccare. L’indifferenza e lo squallore dell’ospedale si trasformavano in ombre fra i volti dei malati. Sanji Regū camminava a larghe falcate fra corridoi che trasudavano abbandono. Riuscì a riconoscerlo solo quando imboccò la strada per la reception e il braccialetto elettronico al polso tintinnò appena. Preso un lungo respiro, Sanji girò a sinistra verso il reparto di psichiatria.
Soltanto pochi pazienti percorrevano il corridoio. Gli infermieri sembravano spettatori indiscreti. All’altezza della saletta inservienti, Sanji si fermò davanti ad un distributore di caffè e scoccò un’occhiata di sufficienza all’uomo alle sue spalle. Prima che entrasse nella propria stanza, lo psicologo lo vide estrarre da una manica del camice un pacchetto rettangolare. Sigarette.




1. Primo appuntamento.

La stanza di un pazzo. Victor immaginò il giovane paziente nel suo letto sfatto, in un groviglio caotico di lenzuola e coperte. Si avvicinò lentamente all’entrata della camera 313. Lo porta era socchiusa. In un eccesso di mal sopportazione Sanji l’aveva bloccata con un vecchio paio di mocassini.
Victor la spalancò e si piazzò davanti ad un mobiletto porta oggetti. Le mensole tarlate erano stracolme di libri di cucina e navigazione. Adocchiò qualche titolo e sbirciò in direzione del paziente.
Sanji era seduto sul suo letto davanti alla finestra, come se non si fosse mai mosso da lì. Le ante erano chiuse dall’interno. Il biondo le pulì con la stoffa della manica, ma non tentò di aprirle. Per un attimo, Victor pensò che si trovasse a suo agio in quella reclusione forzata.
- Anche mio nonno era un cuoco. Faceva più che altro sbobbe nauseabonde, ma gli piaceva pensare di essere un Raffaello dei fornelli. - esclamò.
Era la prima volta che gli parlava. La sua voce suonava titubante ed incerta. Quando si era addentrato nella spinosa burocrazia dell’ospedale, le alte sfere gli avevano affidato il caso di un uomo accusato di omicidio doloso. L’immagine di quell’assassino era come l’ombra di Sanji Regū.
- Si chiamava Victor, come me. Victor Basil. - affermò, poggiandosi alla parete della camera.
L’altro non si prese nemmeno la briga di voltarsi. Si tastò il polso cercando il braccialetto da cui pendeva una cinghia in cuoio, e la fece scivolare sotto la fibietta. Poi prese una sigaretta e la accese dopo due scatti andati a vuoto.
Prima di portarla alle labbra la sollevò e la esaminò attentamente. I suoi occhi si imbatterono in quelli di Victor. Trasudavano l’identica indifferenza che aveva visto nell’ospedale. Lo psicologo continuò a fissarlo e Sanji, stanco di quell’insolito gioco di sguardi, riprese a guardare oltre i vetri appannati.
- Allora Sanji – riprese l’uomo per una terza volta – parlami di te. -
Il biondo rise amaro, ma non disse niente. Quel copione lo aveva già recitato una volta.
Adesso aveva soltanto il sentore di qualcosa di malato ed incredibilmente fasullo.

- Allora, Mr Regū. – lo psicologo portò le mani ad intrecciarsi, scoprendo i canini in un sorriso composto, e fissò oltre la finestra – mi parli di lei. -
Appena lo vide sedersi, Sanji tornò a poggiarsi alla parete. Attraverso la manica linda della camicia si intravedeva il polso emaciato sotto il braccialetto elettronico. Il biondo si affrettò a far perdere le sue tracce fra il cotone ed il calcestruzzo del muro. Si mise a sedere nella poltrona ed aumentò le distanze.


Al ritorno il tramonto aveva trasformato la città in un dipinto di un’epoca lontana. Sanji Regū camminava fumando e non la smetteva di ascoltare gli aneddoti silenziosi di quelle strade che lo avevano visto crescere. Baratie sembrava sprofondata in un sonno pesante ed acquoso, insopportabilmente pacifico, e lo fissava a sua volta con lampioni e vecchi lucernari simili ad occhi indiscreti. Sanji non le parlava più, con le mani sprofondate nelle tasche ed il respiro che sapeva di tabacco. Non aveva più niente da dire a quella città che trasudava mediocrità ad ogni viale, isolato, vecchio o nuovo ciottolo che gli sbarrava la strada. A metà del cammino, prese il mozzicone e lo gettò a terra senza spegnerlo. Che bruciasse pure quel nido di perbenismo.
Arrivò a casa all’imbrunire. Guerric scese le scale e gli andò incontro. La sua presenza lo soffocava e lo nauseava.
- Hanno chiamato da scuola. – disse dal salone.
- Avete fatto una piacevole chiacchierata? -
- Loro indubbiamente.  Anche da assente riesci ad essere un buon argomento di conversazione. -
- Notevole. – tagliò corto – Non pensavo di aver fatto una così buona impressione. -
Si girò per dileguarsi attraverso le scale.
- Se avessi ancora un briciolo di amor proprio, non getteresti alle ortiche ogni ambizione in questo modo. -
Il piede del biondo rimase a mezz’aria per qualche istante, sospeso fra un primo scalino ed il pavimento. Sanji per un attimo si sentì osservato da un punto indefinito della stanza, uno sguardo che non apparteneva a nessuna delle tante facce dell’uomo.
Quando alzò gli occhi per parlare sua madre se n’era già tornata in cucina.
- Ambizione? Stiamo parlando dello stesso demone che ti ha spinto a sposare mia madre per non affondare, Guerric? -
L’uomo tacque. Il biondo sorridendo riprese a salire le scale.



---
S
to ancora cercando di metabolizzare la notizia, quindi concedetemi per lo meno questo delirio.
Che poi delirio neanche sarà, calcolando che con la febbre che mi ritrovo in questi ultimi giorni ho la reattività di un vaso di begonie. .-. Anyway!

L'idea è nata subito dopo l'iscrizione al contest. Perchè ovviamente io prima mi iscrivo a un contest e soltanto dopo arranco fra la nebbia del mio cervello per trovare uno straccio di spunto.

Insomma, per farla breve e per non sapere dire neanche come, ho vinto.
E, davvero, so che dovrei ringraziare LoLLy_DeAdGirL per aver indetto questo meraviglioso contest e complimentarmi con HalfBlood Princess per avermi fatto un po' di posticino sul podio al primo posto ma, seriamente... non ci credo neanche io. .-.
Se qualcuno, anche soltanto un mesetto fa, mi avesse detto che avrei potuto vincere probabilmente gli avrei sputato in faccia. Di tutto cuore.

Per ultimo che poi ultimo neanche dovrebbe essere vi posto il link del contest, con bando, classifica e tutto il resto.
The Nightmare Hospital Contest.

Inutile dire che ringrazio chiunque anche semplicemente darà uno sguardo a questa storia.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** #2. Secondo appuntamento ***


2. Secondo appuntamento.


Il sole sorgeva dietro la clinica quando Victor si tirò su a sedere. Si era premunito di una lattina di caffè freddo e di un giornale. Aveva passato la notte in bianco, rimuginando sul fascicolo di Regū. Aveva tenuto gli occhi incollati ai venti prestampati nella speranza di scovare qualche chiave di lettura fra i pesanti silenzi e le lunghe boccate di nicotina.
Durante l’intera seduta, Sanji si era nascosto dietro il vetro inzaccherato della finestra e non aveva aperto bocca. L’eco delle voci che salivano dalla piazzetta dell’ospedale in quell’ora aveva parlato per lui.
Non appena si fu alzato, lo psicologo aprì la porta, immacolata, e tornò alla finestra. I passi degli infermieri di tanto in tanto davano vita a quell’arteria morta che era il corridoio della clinica. Victor girò intorno al divanetto e si passò entrambe le mani sugli occhi. Rimase in piedi in silenzio ad ascoltare le grida dei pazienti, che andavano e venivano con il tintinnio delle siringhe, lo stridere dei carrelli ed i passi dei medici. Si attardò quanto più possibile.
Si lavò le mani e la faccia nel lavello della penisola cucina finché non sentì più le dita sotto l’acqua fredda. Quando uscì in corridoio, Sanji era già poggiato alla macchinetta del caffè. Aveva premuta alle labbra una sigaretta spenta. Victor la osservò per una discreta manciata di secondi – riconoscendola come la seconda del giorno prima – e si chiuse la porta alle spalle. Vecchi neon si allungavano sopra di loro. Infermieri camminavano impettiti con la testa dritta senza guardare alcunché. Lo psicologo abbassò lo sguardo e vide che gli occhi del biondo non andavano oltre la punta del proprio naso. Fu soltanto in quell’attimo che realizzò che il ragazzo, a dispetto di tutto, era uscito allo scoperto per lui.
Un secondo dopo Sanji fece dietrofront ed imboccò la porta della propria stanza. Il numero di camera spiccava come una macchia sgradevole, un parassita tondo e spigoloso.
Victor considerò la possibilità di attardarsi ancora, ma restare lì, fermo, a tentare di captare di pensieri dell’uomo oltre quella parete, era come essere divorato da un’ansia cieca. Si girò e cominciò a percorrere a grandi falcate il corridoio. Mano a mano che si avvicinava, il parassita si ingrandiva sempre più. Sentì il fumo della sigaretta che si intrufolava da sotto la porta e sporcava un’aria che già sapeva di vecchio e stantio. Nel riflesso in vernice del numero di stanza lo psicologo riconobbe per un attimo il proprio profilo. Quasi non si stupì di specchiarsi nella figura anacronistica del parassita.
L’umidità annacquava i volti di carta ingiallita di santi e madonne. Oltre la finestra si intravedeva la macchia marrone del giardino dell’ospedale. Le pareti umide puzzavano di muffa. Lo psicologo si poggiò con le spalle alla porta della camera, un buon pretesto per non dover guardare ancora al parassita. Scrutò le coperte, come se sperasse ancora di trovarle sfatte, a spiegazione della follia del proprio paziente. Le trovò tirate, inamidate e tese.
Seduto in poltrona Sanji Regū lo fissava sotto il neon. Il fumo di una sigaretta ormai spenta saliva al soffitto in volute azzurrognole. Victor cercò un posto dove sedersi, ma trovò soltanto sedie ricolme di vecchi libri e vestiti troppo larghi.
- Mi dica, Victor, lei ha mai avuto un ideale? – sentì la voce del biondo inerpicarsi su per il silenzio della camera. Non sembrava avere particolari pretese se non scivolare fuori dalle labbra con un po’ di fumo. Gli parve quasi stanca.
- Quando ero uno studente riuscire a conciliare il pranzo con la cena mi sembrava un obiettivo abbastanza nobile. -
Sanji era vicino alla finestra, guardava oltre il vetro e contava i mozziconi sul davanzale. Nonostante tutto, a Victor sembrò non riuscire a cogliere la sfumatura di ironia nelle sue parole.
- Non ho mai avuto un ideale. – aggiunse, schiarendosi la voce – Costava tempo ed impegno che sapevo di non avere. -
Il biondo si poggiò al vetro e fece sentire il rumore del braccialetto rintoccare contro la lastra.
- Il tempo, quando hai qualcosa per cui valga la pena uccidere, solitamente è l’ultimo dei problemi. –

- Quindi ha ucciso, Mr Regū. -
Trafalgar Law aveva chiuso un vecchio libretto la cui copertina sembrava uscita da un’altra epoca.
Parlarono in corridoio, mentre le telecamere riprendevano scorci di camere che, come al solito, sembravano vuote. Gli infermieri passeggiavano in silenzio, lasciando una scia che sapeva di alcol e disinfettante.
Dopo qualche istante, Sanji alzò lo sguardo allo sporco canale di neon e cavi della luce sopra di loro.
- Lei non è di certo qui per discolparmi, signor Trafalgar. Mentire non avrebbe senso. -
- Indubbiamente. – concordò lo psicologo.
- E neanche per aiutarmi. Non conosco un solo psicologo che anteponga il bene del paziente al profitto personale. -
- Ha una concezione disincantata del mondo. -
- Sono un misantropo, non ho alcuna considerazione del mondo. -
Lo psicologo sorrise ed inclinò la testa. Si poggiò al distributore di caffè, ammaccato ai lati dal calci dei pazienti, pronto ad ascoltare ancora una volta la ragione di un pazzo, come i protocolli imponevano.


Si chiuse la porta alle spalle. La stanza era spoglia e maleodorante. Vestiti e trattati di cucina e navigazione pendevano dalle sedie come una seconda pelle. Sanji vuotò la tracolla in un colpo solo. Alcune monete tintinnarono a terra, ma senza riflettere nulla. Non c’era luce in quella camera.
Si lasciò cadere a peso morto sul letto, solido e spesso come un muro. Sentì passi lenti che si avvicinavano. Qualcuno bussò.
- Sparisci, Guerric. – si limitò a dire.
- Se ci tieni tanto, allora scendi e vai a dirglielo. Anche se per farlo dovresti aprire a tua madre. -
Sanji indicò il pomello sbrecciato al lato della porta. Intuì il sorriso della donna, mentre la serratura scattava ed un filo di luce scivolava a terra. Quello era il loro modo di comunicare. Clarissa Regū entrò nella stanza.
Il pavimento era pieno di vestiti inzaccherati ai polsi dallo sporco che si era formato in giorni e giorni di ricercata incuria. La donna spinse una sedia ai piedi del letto e vi si mise a sedere, contando secondo dopo secondo. Si fermò dopo qualche istante. Il petto premeva contro la spalliera in legno.
- Vedi, è l’aroma di chiuso e stagnante che dà il tocco di classe in più a questa stanza. Per non parlare delle macchie grigie alle pareti. Fumo di Londra? -
- Mozzicone di sigaretta. -
- Incantevole. -
Quando si mise a sedere, Clarissa si era fermata a contemplare lo spettacolo indecoroso attorno a sé. Sanji seguì il suo sguardo fino ad una finestra visibile a stento. La donna sedeva davanti al letto, osservando quello sputo di mondo senza trovare niente da dire. Dopo qualche istante sollevò lo sguardo verso il figlio.
Aveva occhi chiari e vivaci, incavati in un viso di bambola. A tratti ricordava una bambina di altri tempi, invecchiata forse troppo in fretta.
- Oltre alla chiamata della scuola, Guerric si è dimenticato di ricordarti anche quella della biblioteca. -
Sanji alzò lo sguardo ed impartì alla donna un ordine muto a continuare. Un debole sorriso increspò le labbra di Clarissa.
- Erano intenzionati a rinnovarti l’abbonamento con qualche agevolazione in più, considerato che metà delle loro sezioni puzza del tabacco delle tue sigarette e l’altra ha l’inconfondibile firma della tua colonia. -
Per nascondere l’ansia che lo divorava Sanji fece per accendersi una sigaretta. Con una mano attese per qualche istante. Il gas dell’accendino perforò l’aria ed impregnò la camera. La donna guardò con apprensione i sottili fili di fumo levarsi verso il soffitto, ma non disse niente. Poi una prima boccata invase la stanza.
- Dunque? -
- Ti aspettano per ultimare alcune pratiche. Il resto gliel'ho dato io stamattina. -
L’altro non rispose. Un paio di volute azzurrognole salirono alte e si impigliarono in un nido di ragnatele sopra il letto. Clarissa scambiò un’occhiata complice e sorrise. Fu allora che la vide.
Sua madre lo guardava in silenzio, gli occhi tondi e delicati. Gli stessi che lo seguivano giorno e notte mentre aspettava con pazienza una breccia che le permettesse di stringere ancora una volta la mano a suo figlio. Più di una volta il ragazzo fu tentato di approfittare di un attimo di debolezza per avvicinarla, ma resistette. L’eco del proprio disprezzo per l’umanità era una forza che travalicava perfino l’affetto. Prese allora l’abitudine di godere in silenzio della sua compagnia, all’ombra di quel ricordo che ancora gli infondeva sicurezza. Si sedeva sulla penisola cucina e la osservava per ore. E nella foschia delle proprie nevrosi spesso rivedeva il bambino, il pazzo che stava diventando, e si chiedeva se anche lui, un giorno o l’altro, sarebbe stato capace di amare come un tempo. Provare semplicemente ancora qualcosa.
- Grazie. -
Quel sussurro rispose per entrambi. No, probabilmente no.



---
A
ggiornamento lampo in vista dell'orribile, orribile ed orripilante settimana che mi si prospetta davanti. Abbastanza compiti in classe da poter campare di rendita fino agli esami ed il tocco di classe in più della terza prova che, effettivamente, non guasta mai. Tanto perchè le mazzate agli alunni è sempre meglio darle con stile.
Per farla breve, la sola volta in vita mia in cui ho concluso una storia è probabile che finirò col lasciarla ugualmente incompiuta. Ma, ei! Non guardatemi male! Sono morta, non è una scusa sufficientemente buona?
Cosa? No?
Va be', almeno concedetemi di averci provato.

Inutile dire quanto possa ringraziare chiunque abbia preferito, seguito o dio soltanto sa cosa questa storia. Grazie.
Ed un ringraziamento ancora più sentito alle due povere martiri che si sono immolate volendomi lasciare una recensione. La risposta è alla terza stella a destra sotto la suddetta.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** #3. Terzo appuntamento [Parte I] ***


Terzo appuntamento. [Parte I]

Una serie interminabile di acquazzoni aveva trasformato ben presto il parco dell’ospedale in un nugolo di pozzanghere che rimandavano l’immagine dell’incedere incerto dei suoi passi. Victor cercò la finestra del paziente, ma la nebbia gli rendeva quasi impossibile vedere ad un palmo dal naso.
Si fermò alle spalle dei cancelli. Nella sua mente avevano cominciato ad affacciarsi le immagini del dialogo avuto con Sanji, come frammenti di una pellicola malandata. Aveva ucciso. Lo psicologo valutò le probabilità di finire in una situazione ben più grande se soltanto avesse cercato di andare a fondo in quella faccenda. Scoccò un’altra occhiata alla facciata della clinica e per un attimo tentennò su una gamba. Si sentiva ancora impreparato per affrontare un caso come quello Regū e, in fondo in fondo, covava la certezza che – a dispetto dei discontinui e vivaci incoraggiamenti del direttore – nessuna di quelle sedute avrebbe mai portato da qualche parte. Il paziente si divertiva a tenere i fili invisibili della conversazione e muoveva i personaggi come un burattinaio, ma raramente avrebbe scoperto gli altarini nascosti dietro ciascun pezzo. Era un misantropo e per assurdo, come ogni misantropo, sembrava conoscere il mondo meglio di chiunque altro.
Victor si strofinò le mani per scaldarle come potè. Valutò l’idea di lasciare tutto. Un mozzicone cadde al suolo tamburellando su una o due tettoie, e si spense in un rivolo d’acqua. Lo psicologo alzò lo sguardo soltanto per vedere Sanji affacciato alla finestra sostare immobile e fissare le chiome spoglie degli alberi. Per un attimo pensò che lo stesse cercando ed una strana morsa lo colse alla bocca dello stomaco: terrore, con ogni probabilità.

Quel giorno il corridoio gli parve infinito. In alto, un fascio interminabile di neon illuminava il soffitto come una lingua di luce. Victor oltrepassò la reception sentendo alcuni infermieri parlottare di fianco l’ascensore. Era la prima volta che un brusio simile si levava nella clinica. Gli parve di sentire distrattamente il numero di una stanza, ma non vi prestò attenzione. Arrivato al distributore, alzò gli occhi e cercò l’ombra dinoccolata di Sanji svettare con la stessa baldanza di sempre. Vide uomini e donne camminare in silenzio. Inservienti infastiditi dal continuo via vai passargli di lato, ma del biondo nessuna traccia. Raggiunse a grandi falcate la camera del paziente, perplesso. Senza l'uomo a guidarlo non poteva fare a meno di sentirsi come uno straniero in terra straniera. A quella considerazione, il parassita parve quasi sogghignare. Victor abbassò la maniglia ed entrò senza un fiato.
Nell’aria aleggiava un tanfo di alcol, come alone di disinfettante.
Lo psicologo rimase immobile sulla porta per una manciata di secondi prima di decidersi ad entrare. Sentì il paziente muoversi. Qualche istante dopo, il rumore della finestra che veniva chiusa. Victor mosse i primi passi in quella che, da una prima occhiata, immaginò essere la scena di un crimine. I libri erano a terra, i vestiti lasciati a penzolare come teli su mobili ed armadi.
Non disse niente. Sanji si poggiò stancamente alla parete e mormorò qualcosa nel vuoto. Un brandello del camice era appallottolato a terra. Victor sentì il paziente muoversi vicino al davanzale e prendere un pacchetto di sigarette. La destra, seppur impercettibilmente, sembrava tremargli. Alla fine l’accendino si spense ed il biondo rimase immobile, con un braccio ancora alzato. L’uomo continuò a fissarlo per un paio di minuti, finché non sentì lo sguardo dell’altro su di sé. Soltanto allora cercò gli occhi del paziente. Sembravano soffocati da una tranquillità plumbea ed irriconoscibile, qualcosa che probabilmente non gli era mai appartenuta. A passi incerti si avvicinò all’uomo, che continuava ancora a fissarlo senza trovare niente da dire, e gli si piazzò davanti. Emanava un odore dolciastro e nauseabondo. Lo scosse leggermente per un braccio e mormorò qualcosa che l’altro non riuscì a decifrare. Si accorse troppo tardi che il motivo per cui Sanji aveva scelto di non spostarsi dalla finestra, neanche per fumare, era perché aveva valutato le probabilità di rompersi l’osso del collo se avesse cercato di muovere anche un solo passo. Accostò la poltrona al letto e con cautela fece sedere l’altro. Il biondo si fece condurre docilmente. L’apatia di un sedato, pensò Victor, con una punta di fastidio.

Si era ritrovato nuovamente nel corridoio dell’ospedale. Il silenzio era intenso, spiacevole. Talmente palpabile che l’uomo probabilmente non avrebbe battuto ciglio se, allungando una mano verso un punto indefinito della clinica, lo avesse potuto prendere e tenere un po’ fra le dita. I corridoi del Santa Maria erano così, si nutrivano principalmente di niente.
Un filo logoro pendeva al centro di una parete di fondo. Victor vuotò quel che rimaneva del suo bicchiere di caffè freddo in un sorso solo e percorse qualche metro verso la macchinetta che dava il fianco ad un cestino. Intravide di sfuggita i numeri della camera di Sanji, tondi e di un colore pastoso. Sul rivestimento laccato della porta il parassita si divertiva a spiccare e confondersi.
Erano passate poco più di due ore. Victor tentò, inutilmente, di convincersi a desistere dall’entrare. Scartò l’idea quasi subito. Meno di un pomeriggio era stato sufficiente a dare un colpo di spugna ad ogni buon proposito. In quel momento, dei quindici e passa motivi per cui aveva deciso di abbandonare il caso Regū non gliene venne in mente nessuno. Col senno di poi, avrebbe forse capito che di professionale in quell’incarico non vi era che la semplice facciata.
Si avvicinò e scambiò un’occhiata complice con il parassita fermo davanti a lui. Un filo di luce penetrava nell’oscurità della stanza, scivolando con polvere e rumori da un’intercapedine dello stipite. Era una follia, si disse. E qualcosa dentro di lui parve concordare.
Pur affacciandosi, Victor non riuscì ad intravedere nient’altro che buio ed abbandono. Guardandola, nessuno avrebbe dato mezza sterlina a quella stanza. Poco più di uno sgabuzzino, grande come una o due dispense, alle pareti i segni di anni ed anni di raffinato abbandono. Eppure, era il rifugio di un assassino. Un pazzo, a detta dei protocolli.
Lentamente aprì la porta. Un puntino luminoso. Poco più in là, i vetri appannati della finestra incorniciavano una bruttura che non aveva bisogno di esser vista ancora una volta per essere ricordata. L’intera camera sembrava avvolta in una bolla di silenzio. Si trattava dello stesso che aveva fagocitato i corridoi della clinica. D’improvviso il puntino parve muoversi e un fascio di luce invase la stanza: Sanji aveva sollevato quel che rimaneva delle serrande della camera.
Victor si poggiò alla parete che era inzaccherata da bruciature di sigaretta e residui di impronte. Nelle mura di quella stanza erano stati ritagliati i frammenti di un passato non troppo lontano, qualcosa fatto di lotte per la libertà portate avanti fino allo sfinimento. Lo psicologo le fissò distrattamente per poi tornare con lo sguardo al proprio paziente. Adesso, l’immagine di quell’uomo era come l’ombra di Sanji Regū.
Il biondo si mise a sedere e lasciò che una prima boccata di fumo si intrufolasse sotto la finestra. Un brusio di voci lontane giungeva dal cortile come eco di quel silenzio. Il vecchio neon pendeva ancora dal soffitto, questa volta senza alcuna luce.
Victor fece per parlare, ma ricacciò quasi subito il fiato in gola. C’era qualcosa di che non andava. Persino nell’aria la si poteva avvertire, quella dannata puzza di sbagliato.
- Come può vedere, signor Victor, qui perfino i macellai hanno degli ideali. -
Victor si avvicinò all’entrata della camera. Da fuori, perlopiù arrivavano le voci degli infermieri della clinica. Sotto quella velata offesa gli parve di vedere ognuna delle loro espressioni.
- Non dovrebbero? -
- Gli ideali, solitamente, possono essere di due tipi: quelli per migliorare il mondo e quelli per appagare se stessi. Cercando di tenere in vita un assassino già condannato quale crede che stiano tentando di reggere in piedi? -
Lo psicologo esitò per qualche secondo, come se non avesse il coraggio di rispondere.
Sanji aspettò che socchiudesse la porta e riprese a parlare. Nonostante tutto, a dispetto della boria, la forza e la sfacciataggine che tanto ostentava, aveva il tono di un malato che vuole fingersi sano.
- La risposta non conta, signor Victor. Sogno, ideale… a dispetto di tutte le stronzate che vi possono propugnare, ciò che conta è che ogni persona ne ha almeno uno a dargli forza. Non importa quanto buona possa essere o quanto… -  si interruppe per un lungo silenzio, lo sguardo perso oltre la stanza - …discutibili possano essere i suoi principi. –
La pausa che seguì fu estenuante. Victor non toglieva gli occhi di dosso dal letto della camera, come se fosse la cosa più interessante nella clinica in quel preciso istante. Sanji tossì un paio di volte, provato. L’uomo non accennò a muoversi.
- Anche tu ne hai avuto uno? – chiese dopo un po’.
Il paziente rise. Una risata amara, in verità. Sembrava insolitamente divertito.
- Mio caro Victor, l’ideale infranto è la gioia degli psicologi e la rovina dei misantropi. Sicuro di non aver oliato qualche ingranaggio per ottenere quella fantomatica laurea? -
L’uomo guardò il paziente che si tirava su a sedere a poco alla volta sotto l’occhio indifferente di una delle telecamere. Avrebbe aspettato il suo sorriso di scherno anche tutta la notte, se necessario. Era lì, pronto a vedere la luce, si disse. Ma non accadde niente. E fu soltanto in quel momento che allo psicologo venne in mente un’altra domanda, meno pertinente e più sfacciata. E tu sicuro di essere un misantropo? pensò, con una punta di fastidio.
Mentre si fissavano un uccello spiccò il volo oltre i cornicioni della clinica. Sanji guardò da lontano i numeri delle altre camere del piano, che si intravedevano attraverso oltre la porta socchiusa. Eccetto due, erano tutte chiuse a chiave. Nelle ultime settimane anche la sua era stata così e, a breve, vi erano ottime probabilità che da lì a qualche giorno sarebbe tornata ad esser tale. Riprese a parlare, come se avesse potuto intuire il pensiero dell’uomo. Quando aprì bocca Victor sobbalzò, colto alla sprovvista.
- Ne sono sicuro, non sarei di certo qui altrimenti. Con il mio odio, il mio rancore e tutto il resto, per il mondo sono diventato un personaggio scomodo. Ed è per questo che mi ha rinchiuso in questa prigione. Di certo non posso biasimarlo: potendo, anche io lo avrei preso e messo in un posto simile. Soltanto che poi gli avrei dato fuoco. -
Victor non rispose. La sedia su cui era poggiato tremò appena. Non aveva mai sentito un ragionamento simile. Un ragionamento lucido nonostante la follia, impassibile, che pretendeva giustizia. Coerente. Senza neanche rendersene conto era rimasto immobile in quella camera, incapace di dar voce ai propri pensieri.
Intanto l’espressione di Sanji, a poco a poco, si era trasformata in una maschera di costante attesa. Sembrava quasi cercare risposte per una domanda che forse non gli sarebbe mai stata posta. Non da parte dell’uomo, per lo meno.
Una volta che la campana della chiesa in fondo al viale ebbe battuto il nono rintocco, il paziente diede un paio di colpi al pacchetto poggiato sul davanzale e ne fece uscire una sigaretta. Era l’ultima della giornata, un buon pretesto per dare all’altro il tempo di rispondere. Aspettò a lungo che parlasse e si rimise a sedere in poltrona. Victor tacque fino alla penultima boccata.
- Concludi. – disse. Aveva tenuto un tono di voce fermo ed autoritario, ma le mani non la smettevano di tremargli. Imprecò qualcosa a denti stretti e le fece sprofondare nelle tasche del soprabito.
- Cosa le fa pensare che abbia qualcosa da aggiungere? -
- Ogni cattivo della storia ha sempre qualcosa da aggiungere, che sia una risata o un interminabile monologo. Non lo si potrebbe chiamare tale altrimenti. -
Per la prima volta Sanji sorrise in modo disteso e tranquillo. Aveva gli occhi vivaci di un bambino.
- Ancora divide il mondo in buoni e cattivi, signor Victor? -
- Preferisco fra persone che hanno le mani sporche e persone che ancora non. -
- E lei sarebbe il tipo con le mani pulite, immagino. Ovviamente mi corregga se sbaglio. -
L’uomo esitò qualche istante, certo di non avere una risposta in grado di compiacere entrambi.
- Sono il tipo che preferisce andare in giro a cercare di ripulire quelle altrui. – ribattè seccamente, sedendosi a sua volta.
Sanji parve sprofondare in un lungo silenzio. Diede un’occhiata veloce al corridoio, come temendo che gli infermieri potessero sentirlo e tornare. Due inservienti camminavano fianco a fianco con un carrello, cercando di spostarlo. Senza distogliere gli occhi dalla scena, mormorò lentamente:
- Scagioni l’innocente di questa storia che per una volta, le posso assicurare, non è l’assassino. -
- Mi stai chiedendo un favore? -
- Le sto chiedendo di diventare il mezzo per tenere in vita il mio ideale. –
- Il sogno del cattivo di turno? -
- Il sogno del cattivo di turno. -
Victor sospirò, piano.
- Dimmi quello che devo fare. -

Avevano camminato fino alla reception dell’ospedale. Una fila di sedie e poltroncine, divenute il rifugio preferito di conoscenti e familiari, si diramava per l’intera parete. Si misero a sedere su un divanetto accanto a una finestra. Sanji prese un lungo sorso dal bicchiere di the caldo che l’altro gli aveva portato.
- Un articolo. – disse alla fine, senza spostare lo sguardo da terra. – Alla luce dei fatti, posso tranquillamente azzardare che lei abbia raccolto informazioni a sufficienza sul mio conto. Oltre al trattato che pubblicherà alla fine di tutto, desidero che scriva anche un articolo in grado di riscattare il vero innocente di questa vicenda. -
- Cosa le fa credere che sia intenzionato a scrivere un trattato sul suo conto? -
- Come già detto, non conosco un solo psicologo che anteponga il bene del paziente al profitto personale. – rispose, in un sussurro che aveva quasi imparato a memoria.
Un infermiere che parlottava annoiato di fianco l’entrata li osservava.
- Ha un senso del tutto distorto della misantropia, Mr Regū. Non sarebbe buona norma da parte del misantropo rinchiudersi nella propria bolla di egocentrismo e da lì odiare con calma il mondo intero? -
- Conosce le tematiche di ideale e mezzo del misantropo, signor Trafalgar? – ribattè l’uomo con un tono privo di sottintesi.
Lo psicologo si sciolse in un sorriso tutto canini.
- Sono tutto orecchi. – disse.
Il paziente annuì ed incominciò a parlare. L’altro chiuse il libretto e sorrise ancora una volta, disinvolto.
Probabilmente non ne avrebbe avuto alcun bisogno.



---
S
ono viva! Sono viva! *O*
Sento l'aria! Sento il fruscio del vento! Il rumore delle automobili!
°ç°
... 'spe. .-. Aut- * BOOM

Ok, sono ancora viva. Ammaccata ma viva.
E tutto questo per dirvi che... che... * si guarda attorno
Oh, al diavolo! Ho postato! Va bene? Ho postato! La prima parte di un lungo, lungo, enorme e sconsiderato capitolo di sette pagine e passa. Abbiate pazienza, è l'ultimo della storia. Si sentiva isolato, povera stella.

Inutile dire quanto possa ringraziare tutte quelle pie anime che finora si siano interessate alla storia. E per quelle gemme rare che hanno avuto perfino l'accortezza di commentarmi, be'... la risposta è lì dove sapete. Usopp dice nel vostro cuore, ma lasciamo stare.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** #3. Terzo appuntamento [Parte II] ***


Terzo appuntamento. [Parte II]

Imboccò il corridoio che portava fino all’aula di consultazione. Era buio, quando si mise a sedere davanti ad una finestra che dava sulla strada, ai confini della città. Il cielo era slavato di tinte arance. In lontananza, Baratie sprofondava in un sonno caotico e l’orizzonte si perdeva in un tripudio di luci che danzavano fino ed oltre la piana. Il confine che separava terra e cielo sembrava essersi perso fra i comignoli e le canne fumarie che svettavano fra le vie della cittadina. Sanji squadrò il grumo di pietre e viali oltre la finestra e deglutì con uno schiocco secco e deciso. Quella visione gli dava una sensazione di stordimento.
Il profilo del mare si stagliava fra i rilievi scoscesi. Era un nugolo d’acqua e fondali e le luci delle barche venivano fagocitate mano a mano che il legno scivolava in profondità. Il cielo incominciava da lì. Sul versante opposto alla corrente l’orizzonte osservava annoiato terra ed abisso e sceglieva dove collocarli. Il biondo aveva sempre pensato che la natura avesse riservato al mare il compito di delimitare il sottile confine fra finito ed infinito, correndo ai ripari lì dove l’uomo aveva deciso di scavalcare Dio. Non contava quanto fosse infinito: l’oceano era uno spazio che non aveva bisogno di costruzioni per essere ordinato. Gli stormi di gabbiani che lo sorvolavano, il fruscio sordo e continuo delle onde, lo scorrere delle maree. Avrebbe potuto spendere una vita intera a cercare: non c’erano altri punti fermi come quelli in tutto il mondo.
Le luci dell’anticamera schioccarono in alto come fuochi d’artificio. A fondo sala, una donna camminava a passi insicuri fra le alte scaffalature. Sanji richiuse il libro che stava leggendo e lo infilò nella borsa. Quando scostò la sedia il riflesso di una copertina gli rimandò l’immagine di sua madre che lo fissava. La vide sostare immobile finché il ronzio di una lampada non lo spinse a sollevare lo sguardo da terra.
- Di sera questo posto ha un fascino tutto particolare. – disse la donna, guardandosi per un attimo attorno.
- Hm. -
Il biondo accostò la sedia e si rimise a sedere. Poggiò entrambi i gomiti sulle ginocchia ed attese. Clarissa Regū sorrise, confortata da quell’insolito invito a restare.
- Voglio farti vedere una cosa. – accennò, lo sguardo perso oltre la foschia del paese – Stamattina l’ho trovata in una vecchia rivista. Ormai erano anni che non ci pensavo più… -
Un pezzo di carta lacera scivolò davanti alla borsa senza far rumore. Sanji lo fissò in silenzio. Uno strano bruciore lo colse per tutta la trachea, fino alla bocca dello stomaco. Aria. Immaginò che fosse l’aria che serpeggiava in quel posto, spessa e ruvida come pagine di pergamena. Soltanto aria.
Sollevò la foto – perché era di questo che si trattava, senza ombra di dubbio – e si immerse una sola volta in quella galleria di un passato ormai troppo lontano per essere raggiunto. Uno scatto rapido e disincantato mostrava una barca il cui nome era sepolto sotto una lingua di sole. Accanto, una donna dal viso di bambola, con un cappello di paglia in mano, stringeva la mano ad un bambino. Assecondando gli svolazzi della carta, le memorie continuavano ad andare e venire, come sprazzi di luce in un corridoio senza fine. Un uomo con un sorriso rozzo e delle mani grandi e forti, piene di antichi calli. Un padre il cui ricordo svaniva giorno dopo giorno, costretto a guardare il proprio figlio soltanto attraverso una pellicola impressionata. Géricault. Suo padre. Quello vero.
Dietro di loro, si intravedeva il mare cristallino e sconfinato di Baratie.
Da quella fotografia avevano cominciato a far capolino i ricordi di un’altra persona che, occasionalmente, incontrava e si sovrapponeva al ragazzo, il quasi uomo e quasi pazzo, che ora Sanji Regū stava diventando. Sembravano quasi voler tracciare un profilo da un’altra epoca.
- E’ rovinata. – disse il biondo dopo un po’, in un mormorio impastato e pesante.
- Ha quasi dieci anni. -
Sanji rimase in silenzio.
Clarissa fece una smorfia imperscrutabile e riprese a guardare oltre la finestra.
- Ho chiamato alla rimessa per…sapere. La barca è ancora in buone condizioni, certo, non ottime, ma a galla sta che è una meraviglia. -
Il biondo la ascoltò senza interromperla, concentrato sui silenzi e le pause che di tanto in tanto si concedeva. Percepiva che quell’imbarcazione era, a modo suo, il filo conduttore che ancora muoveva le memorie di sua madre.
- Domani. – propose. – Domani andremo al mare. -

Erano nei pressi della costa quando Guerric attraccò. Clarissa era talmente assorta a fissare il profilo frastagliato delle onde che Sanji non volle disturbare la sua concentrazione. Faceva scivolare le dita sul pelo dell’acqua con lo stesso sorriso con cui faceva ogni cosa, tenendo ben stretto in grembo il cappello di paglia, e sollevandosi una manica di tanto in tanto. Poco oltre la prua, le ombre gelatinose delle imbarcazioni si proiettavano sulla riva. Stormi di gabbiani svolazzavano fra pescherecci e piccole barche. Il ragazzo immaginò che seguissero le rotte delle navi, sorvolando le correnti della costa, proseguendo poi verso nord. Più che una distesa d’acqua sconfinata, vista dalla tenda di cielo antracite oltre le nuvole, Baratie doveva apparire un fazzoletto di azzurro pastoso e denso. Tra i remi incagliati sul fondale si intravedevano i profili scintillanti di pesci e ciottoli sbrecciati. Poco distanti pescatori e vecchi marinai lanciavano le reti per l’ennesima caccia invisibile, condensata in inganno ed attesa, a turno.
Verso pomeriggio inoltrato da est si sollevò una brezza limacciosa e pungente. Un paio di pescatori gridarono qualcosa in direzione della barca, facendo segno con mani, reti e arpioni scheggiati, ma Guerric borbottò un sussurro di rimando – un’offesa, forse - e scelse di imboccare uno dei canali che serpeggiavano la costa, come se sapesse dove andare. Sanji si voltò a fissarlo, senza dire niente, e per qualche istante il suo sguardo si perse in direzione della riva. Frastuono della corrente, echi nell’aria. Persino inclinazione delle onde. Contemplò il panorama a lungo in attesa di un indizio che lo aiutasse a decifrare i bisbigli dell’oceano. In cielo spicchi di luce disegnavano figure impossibili. A poppa, un groviglio di capelli e scialli si muoveva alle cadenze dei seni di Clarissa, in archi di respiri regolari.
- Se continui a guardarlo così finirai col consumarlo. Rilassati un po’, Sanji. - mormorò la donna.
Il ragazzo sussurrò qualche parola che l’altra non colse e si mise a sedere. Lo scheletro della barca attraversava un grumo d’acqua fatto di increspature cristalline. In lontananza, alcuni scogli svettavano fra le onde simili a basiliche dimenticate.  Al calar del sole un vento caldo mosse l’imbarcazione, scuotendo i remi che penzolavano ai lati, ballonzolandogli come delle specie di braccia, magre e nodose. Clarissa era sprofondata in un sonno così pacifico da poter intravedere, sotto le falde del cappello, un sorriso di mezzaluna. Guerric abbracciava con lo sguardo l’intero orizzonte, senza fissare niente in particolare. In cielo, oltre la costa, grosse nuvole piangevano lacrime di sangue. Il ragazzo non accennò a muoversi, con gli occhi ben piantati sulla figura di carne e seta al suo fianco. Col passare del tempo, poco alla volta, il respiro di Clarissa venne inghiottito dal frastuono delle onde, fino a dissolversi.
Sanji si addormentò con la bocca piegata in una strana smorfia. Un sorriso, forse.
Ricominciò a respirare soltanto dopo aver visto la barca capovolgersi alle sue spalle. Il mare si alzava sopra di lui.
Per qualche istante non riuscì nemmeno a muoversi. La rete della barca si era impigliata ai piedi con un fruscio sordo e lo trascinava giù. Uno dei remi scivolò in profondità. Poi un fascio di legno. E una scarpa. Le ombre che prima popolavano l’imbarcazione. La tempesta le stava inghiottendo tutte. Sbarrò gli occhi. Qualcosa si muoveva sul pelo dell’acqua. Sanji smise di lottare e puntò gli occhi al cielo, oltre l’oscurità. Vide una sagoma agitarsi febbrilmente e un’altra, scossa da un fremito, avvicinarsi sempre più.
Clarissa. Veniva inghiottita a poco a poco.
Si avventò sulle reti dopo averle lanciato un ultimo sguardo. Non respirava. Schiuse le labbra in cerca d’aria, ma dalla sua bocca non uscì nient’altro che un singulto. La sagoma scura di Clarissa precipitò e colpì il fondale prima che l’altro potesse muovere un muscolo. Riecheggiò un rantolo, un gemito assordante che perforò il silenzio. Il vestito le aderiva al corpo come un sudario. Un fremito di freddo e terrore, di angoscia e paura, le squassò il petto come lo schiocco di una pistola. E allora gli occhi di sua madre si spalancarono. La bocca si socchiuse senza però far uscire alcun suono. I suoi capelli ora ondeggiavano nonostante non si movesse più. Sanji sentì le sue pupille posarsi sulle sue, mentre uno scialle le ricadeva addosso. Si rese conto troppo tardi di stare guardando un cadavere.
Riprese a lottare con le reti, cercando disperatamente di liberarsi. L’angoscia invase quello che l’acqua non aveva ancora raggiunto. Era la sua sola speranza. I polmoni sembravano bruciare dall’interno. Si dimenò con tutte le sue forze, urlando, inghiottito dal buio.
Aveva quasi perso la forza di divincolarsi quando una delle reti allentò la morsa, liberandolo. Si fermò di colpo. Una mano inerte teneva il lembo di una maglia e la tirava verso il fondo. Sanji indietreggiò a fatica. Le dita di Clarissa si posarono su di lui. Immobili sembravano accanirsi sulle reti quasi quanto le sue. Erano fredde e incolori. Il ragazzo sentì con spietata lucidità il nodo che aveva in gola stringersi fino a mozzargli il fiato. La consapevolezza era la sola ragione che ancora il terrore non gli avesse strappato. Clarissa era morta. Nessuno aveva fatto niente per salvarla.
In superficie qualcosa si mosse. Lo scheletro della barca si ribaltò su se stesso e si spezzò a prua. Fra i detriti Sanji credette di intravedere qualcosa. E per un istante pregò che fosse soltanto un altro cadavere. Ma poi l’acqua cominciò a turbinare e quel corpo di carne, dolore e vita riprese a muoversi. Guerric.
Le increspature si propagavano dalla poppa. L’ombra dell’uomo che si agitava gli bruciò la vista e il tocco con la mano gelida di Clarissa gli gelò il sangue. Guerric si issò a fatica su una trave e rimase immobile. Per salvarsi l’aveva lasciata morire. Oltre la superficie arrivavano i richiami ovattati di uomini e marinai. La pressione dell’acqua parve aumentare improvvisamente e Sanji si piegò bocconi. Vedeva soltanto i contorni sfocati del fondale. Qualcosa gli sfiorò il braccio. Socchiuse le palpebre ed intravide le dita della madre che galleggiavano accanto a lui e lo cercavano.
Sentì all’improvviso il fragore dell’antica rabbia e un lamento riempire le profondità dell’oceano. Poi afferrò Clarissa per una manica. Per un istante, lento come un’imbarcazione che manovra in un’ansa troppo stretta, ricordò di averla strattonata per una mano, istintivamente, e di averla lasciata subito dopo perché terrorizzato. Infine risalì, avido d’aria come mai lo era stato in vita sua, fino a percepire ogni muscolo, osso o tendine del proprio corpo dimostrargli che era ancora vivo.
Quando rivide la superficie, il peschereccio era a poco meno di una lega dall’imbarcazione di Géricault.
Aveva ancora tempo.
La luce in cui il mare era immerso era quasi violenta. Il sole scivolava dietro la linea d’orizzonte e un odore che sapeva di rovina proveniva da est. Immobile, accanto allo scheletro della barca, qualcuno lo osservava in silenzio. Guerric.
Sanji avanzò a fatica. Le gambe per un attimo parvero cedere ed il corpo di Clarissa scivolò di qualche spanna in acqua. La sostenne mentre l’aria pulita gli perforava i polmoni.
- Clari…a. – sussurrò l’uomo.
L’altro non disse niente.
- Clarissa… - gracchiò, mentre in gola il rancido dell’acqua si faceva meno persistente.
Era stata la propria boria a metterla in pericolo e la sua incapacità a darle il colpo di grazia. Per lo meno le lacrime, si ritrovò a pensare, gliele avrebbe dovute.
- Non volevo…ucciderla. Devi credermi, ti prego di credermi. – disse, cercando con lo sguardo l’assenso del biondo – E’ stato il terrore a guidarmi, credimi Sanji, non ero in me… non ero… mi credi? Mi credi, vero Sanji? Stai annuendo, vero? Mi credi, no? – si inebriò di quella ragione delirante e con entrambe le mani si appoggiò alle gambe del biondo, che nel frattempo si era issato su un fasciame di prua.
Il ragazzo scostò le anche come se il contatto con l’altro bruciasse. La sola idea di poterlo sostenere – aiutare – gli dava il voltastomaco. Guerric fece per schioccare un paio di volte la lingua, punto nel vivo, e si sostenne ad una delle assi della barca mentre con le labbra cercava la veste di Clarissa. Quella pelle trasparente come carta e biancastra sembrava mormorare la sua colpevolezza. Le prese una mano e la strinse forte fra le sue, forse per riscaldarla e rendere le cose meno evidenti.
- Ci volevamo bene, ricordi quanto ce ne volevamo? Lo ricordi vero? Non avrei mai potuto… io non ti avrei mai… -
Le appoggiò un labbro sulla mano e lo lasciò lì per qualche secondo.
Le braccia di Clarissa disegnavano nell’aria cerchi invisibili come ali di gabbiani, sospinte dall’impeto di Guerric. Sanji, pallidissimo, le osservava danzare al suono di melodie impercettibili. Odoravano ancora di salsedine, e sabbia e tante altre cose che neppure cercò di indovinare. Probabilmente sapevano soltanto di morte.
Senza dire una parola, spinse l’altro in acqua. In mano teneva un braccio arrugginito dell’ancora. Poi, lentamente, mise a riposare il corpo di Clarissa sullo scheletro della barca. L’uomo si limitò a fissarlo. Sanji aveva l’impressione che fosse stupito, incerto sul motivo per cui gli fosse stata riservata una punizione così tremenda, nonostante le prove della propria innocenza.
Non tentò di risalire a bordo, ma rimase a guardare sbigottito l’altro. Lo scrutò per un istante che parve infinito, e non si decise a guardare altrove fino a quando le mani del biondo non si strinsero attorno a quelle di Clarissa, quasi come se temessero, in fondo, che qualcosa di ben più grande della morte potesse di nuovo portargliele via.
- Con i tuoi modi di fare l’avevi già uccisa anni fa. – a dispetto della follia che aveva dimostrato in quegli ultimi istanti, il tono con cui Guerric pronunciò quelle parole fu secco e conciso.
Senza rendersene conto, l'altro strinse ancora più forte.
- Non le avrei mai fatto del male. – disse in un fiato.
- Ma non l’avresti neanche mai amata. È il destino dei misantropi questo: non amare e non essere amati. Vi odiate e sopportate a vicenda, ma senza amare. Perché, in fondo, nessuno potrebbe mai amarvi a sua volta.
Neanche Clarissa ti volev… - non riuscì a concludere la frase perché il pezzo di ferro, che prima era nella destra del biondo, gli si conficcò nella spalla.
Sanji si allontanò di scatto ed arretrò fino alla punta estrema di prua. La mano ancora gli tremava. Le grida d’aiuto dell’uomo inondarono il tratto di mare ma lui non si mosse, immerso nello stesso torpore pesante ed acquoso che aveva fagocitato la cittadina. Forse lo stava osservando con l’accenno di un sorriso.
Fu questo che i vecchi pescatori della “Sartie” dissero di vedere quando arrivarono in prossimità del relitto. Un uomo che affogava ed un figghiolazzu che lo fissava senza muovere un dito per aiutarlo.
E sul fondo di prua, come una richiesta di pace, spiccava la mano candida ed emaciata della donna riversa al suo fianco.
Era immobile e si teneva stretta a quella del figlio.
Qualcosa alla fine aveva ceduto.



---
* s
i guarda nervosamente attorno e tenta una fuga
* viene placcata in massa
Ehm, yo! Cosa volete? E' stata una settimana dura! Compiti in classe, interrogazioni, uscite fallimentari... dovevo pur rifarmi su qualcuno! Non è mica colpa mia se Sanji è stato il primo biondo di passaggio!
Ok, siamo seri. Lui è sempre il primo biondo di passaggio. .-.

Vi comunico, per la gioia dei vostri intestini, che questo è l'ultimo capito effettivo della storia. I prossimi saranno l'epilogo e... nonsobeneneancheiocosa. Diciamo che Victor non sapeva cosa fare per passarsi il tempo e che tutte le partite in tivì ormai erano finite.

Come sempre ringrazio le beate anime che recensiscono [sì, pie ormai è passato di moda] e le altre graziate che preferiscono e seguono.

Or dunque! Arigatuò! *O*

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** #4. Epilogue ***


Epilogue.


« L’etimologia della parola “misantropia” deriva dal greco μῖσος ("odio") + ἄνθρωπος ("uomo, essere umano") e fu adottata nella psicologia per descrivere l’atteggiamento di chi prova odio totale o sfiducia nei confronti del genere umano, per cui ricerca l’evasione nell’arte, nell’alienazione, nell’isolamento finché queste non lo intercalano in una propria dimensione ideale.
Fondata su queste basi, la misantropia assume varie forme che assecondano la naturale propensione del soggetto, e che lo indurranno ad uno stato di totale chiusura verso il mondo circostante (scelta destinata a sfociare in casi di eremitismo, suicidio o assunzione di stupefacenti) o a tracce di odio e avversione nei confronti della società e dell’individuo in particolare (studi clinici rinvengono con maggiore frequenza tipologie simili di pazienti).
A seguito di ricerche mirate, i ricercatori psicoanalitici notarono che tratti peculiari dell’atteggiamento misantropo si riscontrarono in pazienti che soffrono di altri disturbi, per esempio, angoscia esistenziale, apatia o atteggiamenti parossistici, o tormentati da una profonda delusione.  
Considerata sotto quest’ultimo aspetto, la misantropia non sarebbe più una prova di avversione verso il genere umano, ma una forma di chiusura, che, spinta dalla preservazione, induce il soggetto a rifuggire ulteriori possibilità di delusione.
Uno dei motivi che mi ha spinto a occuparmi dei vari aspetti della misantropia, nacque in seguito al tentativo di uno psicologo norvegese, Trafalgar Law [1], di dimostrare come una degenerazione della forma seconda possa indurre il soggetto ad agire con atti di violenza esplicita nei confronti del genere umano. Il paziente affetto da tali condizioni, che l’analisi clinica ha poi portato a definire “dissociato” (termine da intendere nel senso letterale della parola) , presenta una delle caratteristiche fondamentali, accantonata nello studio clinico per ragioni a noi ancora sconosciute: la tematica del sogno perduto.
A causa di questo sconvolgimento, il paziente si è reso inaccessibile ai metodi tradizionali della psicanalisi e ogni sforzo terapeutico ha finito col rivelarsi vano.
Questa sfiducia nell’umanità, propria del misantropo, nell’accezione del caso clinico osservato dal norvegese, merita un ulteriore approfondimento. Anche un paziente affetto da una forma elevata, nella casistica finora nota, non si allontanerebbe dai protocolli sociali a lui tanto noti quanto disprezzati. Per volerla enunciare con parole semplici, si potrebbe dire che nessun misantropo giungerebbe a commettere un omicidio.
Tuttavia, il caso recente del paziente ricoverato al Santa Maria ci mostra che la ripercussione della profonda delusione scaturita dal sogno infranto può influire attivamente sul modo del malato di rapportarsi con il mondo esterno. È soltanto a causa di questa condizione di angoscia che è pensabile contemplare l’eventualità di una simile degenerazione e non, seguendo la traccia proposta precedentemente [2] da Trafalgar Law, limitandosi ad avanzare la teoria di un possibile terzo stadio misantropo, destinato a sfociare in un’inestinguibile forma di violenza ai danni della società.
Nel caso del paziente in questione, è stato il progressivo accumularsi di nevrosi a determinare il crollo e non, come finora sostenuto, una degradazione della forma di misantropia in sé.
L’analisi, di fatti, ci ha mostrato che egli non ha affatto interrotto le sue relazioni con le persone ed i medici.
Le intrattiene ancora nella propria dimensione; cioè, sotto un punto di vista puramente utilitaristico, ha sostituito l’impianto della semplice conversazione con una forma colloquiale mirata a ridare vigore alla radice secca lasciata dal sogno infranto, rafforzandolo.
Ne ebbi la prova il pomeriggio in cui mi recai all’ospedale. Avevo già avuto modo di conoscere il caso clinico, pienamente intercalato nella propria misantropia ma ancora sufficientemente fiducioso da richiedere la consultazione con un nuovo psicologo. Penso che fu soltanto per questa condizione che ritenne legittimo raccontarmi i suoi precedenti senza mostrare alcuna reticenza.
Tuttora non so quanto conoscesse di me, ma ad ogni modo si comportò in modo impeccabile, come un paziente qualsiasi. Vi furono brevi visite, alternate da altrettante richieste mute. Fu soltanto durante l’ultimo incontro che, prima della consueta seduta, cominciò col chiedermi, una volta diventato esterno al caso, di dargli una voce nella storia. Mi auguro che voi tutti potrete convenire con me nell’ammettere che alle basi di questo comportamento vi sono ben pochi degli indizi ritenuti validi dal dottor Trafalgar a sostegno della propria tesi. Ciò di cui in quell’ultima seduta venni a conoscenza era in grado di spiegare i – frammentari – particolari appresi dopo aver letto un primo trattato sul caso Regū, sempre ad opera dell’esimio collega norvegese: che a istigarlo a compiere l’omicidio non furono i propri ideali misantropi (nell’articolo brutalmente estremizzati) , quanto piuttosto le fratture che, di fronte all’angoscia del sogno infranto, il subconscio era stato incapace di risanare al momento. Mentre guardavo l’uomo seduto al mio fianco parlare e discutere amabilmente, ebbi modo di approfondire quel campo dello studio misantropo spesso volontariamente frainteso. Nel racconto del sogno infranto del paziente di proteggere e poter sempre vegliare sulla propria madre rividi l’origine delle nevrosi che lo avevano condotto fino a quel punto e, sbigottito, gli chiesi se fosse stata per semplice avversione nei confronti del genere umano o per preservare e rivendicare il ricordo della donna (lasciata a morire dal compagno durante un tragico incidente in mare) che commise il delitto e se, ora, non temesse di passare il resto della propria vita a rimpiangere quell’unica azione. Alla prima domanda scosse vibratamente la testa, in segno di diniego, poi mi sorrise in modo disteso e tranquillo e rispose in tono scherzoso, riprendendo una frase che avevo già avuto modo di sentire durante uno dei nostri primi incontri: “Il tempo, quando hai qualcosa per cui valga la pena uccidere, solitamente è l’ultimo dei problemi.”
Credeva che continuare a perseverare nella propria condizione sarebbe stato sufficiente a ridare vita al proprio sogno.


[1] Specialista nello studio di casi di misantropia e alienazione del paziente, noto nel proprio campo per aver avanzato la teoria di un terzo stadio misantropo
[2]  Si veda a proposito la sua esposizione su “Io come Dio”  nella trattazione del terzo stadio misantropo »



Quando arrivò ai confini del Santa Maria un vento pungente invadeva la via, sovrastata da una prigione fatta di vetri e squallidi padiglioni ospedalieri. Si era lasciato alle spalle l’università di psicologia e i suoi passi lo avevano condotto fino alla genesi di quella scelta. Sottobraccio, in uno scatolone, teneva le quattro cose che possedeva in facoltà. L’eco del proprio pensiero e dell’articolo ancora rimbombava in quelle aule tappezzate di perbenismo, senza mai riuscire ad oltrepassare le mura. La voce di un pazzo non arrivava a chi su di lui si sarebbe poi costruito un nome.
In pochi istanti, da una delle finestre di quegli edifici, comparve l’ombra sbiadita di Sanji Regū. Sul volto, come segni di un parassita tronfio e pesante, spiccavano le prime tracce della malattia. Victor sollevò gli occhi al cielo e si fermò a contemplare quello spettacolo di miseria. L’uomo si spegneva poco a poco, costretto in un camice che presto gli avrebbe fatto anche da sudario. Complicanze dovute alla presenza di liquido nei polmoni, avevano detto i medici. L’aver passato troppo tempo in acqua nel tentativo di ridar vita ad un morto lo stava uccidendo a sua volta.
Lo psicologo indicò con un cenno del capo i plichi del trattato al bordo del davanzale. A piè di pagina intravide annotazioni e richiami. Erano le puntualizzazioni che Sanji aveva voluto fare a chi, pur avendolo conosciuto con il solo scopo di cambiarlo, alla fine lo aveva accettato per com’era e ne aveva scelto di prendere le difese. Gli ultimi ringraziamenti da parte di un misantropo corrotto che, in quanto tale, non avrebbe per alcuna ragione al mondo desiderato farne. Ma che, proprio in quanto corrotto,alla fine aveva deciso di porli in maniera che nessuno, benché meno la persona a cui fossero indirizzati, potesse riceverli. Del resto, Sanji conosceva gli abissi della mente umana meglio di chiunque altro. Persino più dello psicologo che gli era stato mandato nel tentativo di capire quelli che lo tormentavano.
Victor lo cercò un’ultima volta con lo sguardo. L’ultima. Sanji rispose col sorriso di un bambino a cui era stata strappata qualcosa di importante troppo presto. L’infanzia, forse.
O, più semplicemente, era soltanto gratitudine.
Poi sparì nell’oscurità che avvolgeva la camera alle sue spalle. Tenebre che servivano a rendere meno opprimente il cinismo che aveva inglobato la clinica. Questo, ne era certo, lo sapevano entrambi.
Victor sprofondò le mani nelle tasche del soprabito e fece per andarsene ancora prima che l’altro avesse tempo di richiudere le imposte. Per uno psicologo non esisteva niente più denigrante di questo.
Vedere un misantropo che, per aver amato troppo il genere umano, alla fine aveva deciso di trascorrere il proprio inferno in terra.






Note Finali:
● Pur avendo scelto di rendere Sanji misantropo, ho preferito lasciare immutati alcuni aspetti del carattere, quelli che per lo meno ho considerato i capisaldi: la tematica del sogno ed il rispetto, in questo caso estremizzato dall’ideale misantropo, per le donne.


● La malattia di Sanji è la causa per cui, pur essendo accusato di omicidio, ha ancora la possibilità di restare in ospedale. Il particolare ho voluto metterlo in evidenza con la presenza del braccialetto elettronico, tipico dei condannati agli arresti domiciliari.


● Non esiste alcun tipo di terzo stadio misantropo. Il tutto, trattati compresi, è stata una mia invenzione ai fini della storia.


● Suppongo sia inutile ribadire che, a dispetto dell’accanimento terapeutico di medici ed infermieri, non fosse intenzione di Sanji salvarsi. Il particolare ho voluto metterlo in evidenza, oltre che con i metodi usati degli infermieri per curarlo, anche con il fumo, tratto caratteristico del Sanji di One Piece, ma, in questo caso, anche mezzo usato per dar modo alla malattia di avanzare.



---
C
ome tutte le cose belle era anche giusto che questa storia giungesse a termine. Come? Non è bella? E che ci posso fare io! Lamentatevi all'ufficio reclami.
Usopp: psss pss psss!
Coso, davvero. Non fa più ridere. .-.
* continua a fissarla con fare indignato
Ok, ok! Per carità! Usopp dice che è nel cuore di ognuno di voi.
* palla di fieno
Ecco! Sei contento adesso?
* se ne va mortificato.
...
Vabè.

Insomma, tutto questo gran papello per dirvi che la storia è finita. Andate in pace. Che davvero non ho parole per ringraziare chiunque mi abbia commentata, preferita, aggiunta chi lo sa dove, o usata come esca per gatti in una via di Roma.
Grazie, di tutto Quore. *O*
Per chiunque abbia commentato, le risposte sono al solito posto. Basta spostare lo zerbino.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=659233