Unbreak My Heart

di Ai_chan4869
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Ciao a tuttiii! Oddio, è la prima Fan Fiction di Castle che scrivo, sono emozionata… XD
C’è chimi potrebbe uccidere visto che ho mille altre cose pubblicate da finire, ma quando l’ispirazione arriva, non la si può perdere! Spero di riuscire a postare regolarmente… Mi metterò molto d’impegno!
L’immagine che ho messo mi ha dato uno spunto in più per farla, ci sta bene con quello che scriverò…
(Premetto, è una scena presa da un film che sta girando Stana Katick dal titolo “For lovers only” … Ma con tutta la nostra fantasia, nelle figure possiamo vedere sicuramente Beckett e Castle… ^^ )
Ora vi lascio alla lettura… Spero vi piaccia il primo capitolo! Si accettano anche critiche!


 






- Solitudine -




Non sapeva come, ma era finito tutto finalmente.
Sorrise a Kate che si trovava davanti a lui, poi iniziò a parlarle « Che giornata eh? »
Lei contraccambiò il sorriso « Che giornata »
Castle riprese a parlare, si sentiva stranamente intimidito ed emozionato, ma cercò di non farlo notare « Sai… stavo pensando…» Si bloccò qualche istante, come poteva chiederglielo? Come avrebbe fatto ad invitarla a casa sua per passare una serata con lei? L’aveva stretta tra le braccia quella notte, in quella cella frigorifera e ora aveva voglia di farlo ancora. « Pensavo che forse… » Alzò impercettibilmente lo sguardo, qualcuno si stava avvicinando verso di loro.
In quel momento fu come se le pareti che lo circondavano lo stessero stritolando, si sentì soffocare. « dovrei… si… dovrei …andare a casa, a riposare un po’… » Fece un respiro profondo, e sorrise di nuovo, sperando di riuscire a celare lo sconforto che lo aveva assalito.
« è stata una lunga giornata… » Indietreggiò, all’improvviso voleva uscire da quella stanza « Buona notte… » Le voltò le spalle e si diresse verso l’ascensore.
« buona… notte » Rispose Beckett un po’ disarmata, sapeva che Castle le stava per dire qualcosa, lo sentiva, eppure se n’era andato e nell’esatto istante in cui formulò quel pensiero Josh le sfiorò la schiena com’era suo solito fare, poi l’abbracciò. Non ebbe il tempo di capire cosa gli era preso. Non ancora.
Seguì Rick con lo sguardo finché non lo perse di vista, dopodiché, contraccambiò l’abbraccio del suo ragazzo.
Le porte dell’ascensore si chiusero, appoggiò la schiena alla parete, si era trattenuto dal guardare Kate, faceva male vederla tra le braccia di qualcun altro, ma pensandoci lucidamente forse era meglio così.
Lui, era un donnaiolo, questo doveva ammetterlo, si era sposato più volte e quando ce n’era stata l’opportunità, era andato a letto con molte donne. Come poteva Kate provare qualcosa per lui? Josh era un bravo ragazzo, salvava vite umane, non aveva speranze contro di lui. E poi, la sua occasione di poter stare con lei, l’aveva persa quella stessa estate quando aveva scelto di andare via con Gina.
Mise una mano su di un fianco, l’altra la infilò tra i capelli stringendoli in un pugno.
Iniziò a camminare avanti e indietro per quel che gli era possibile fare in quella scatola di ferro, si strofinò la faccia, poi gli occhi con pollice ed indice cercando di calmare quel sentimento di rabbia che lo stava per assalire. Voleva prendere a pugni qualcosa, qualcuno. Voleva sfogarsi.
Un “ding” lo avvertì che era arrivato al pianterreno, uscì quasi correndo dall’ascensore, chiamò un taxi e si diresse verso il suo appartamento. Quando vi entrò si ritrovò solo.
Solo, come non lo era mai stato.
Alexis e Martha negli Hamptons, Backett con Josh.
Come aveva potuto pensare di potersi dichiarare quella sera? La ragione forse lo aveva abbandonato?
Probabilmente sì. Lo aveva abbandonato il giorno in cui quella bellissima detective era arrivata alla sua festa e gli aveva chiesto di seguirlo in centrale, quando aveva percepito la sua emozione nel ricevere l’anteprima de “la caduta di Storm”, quando lo aveva spinto contro il muro dandogli dell’idiota, preoccupandosi per lui, per la prima volta; e infine, quello che lo aveva probabilmente, se non certamente fatto innamorare di lei, era stato il suo sguardo. Il modo in cui lo guardava l’aveva fatto capitolare. Quando alla fine del loro primo caso lui l’aveva invitata a casa sua per conoscerla meglio e lei lo aveva rifiutato.
Sorrise tra se, perchè ricordava ancora le loro esatte parole:
« Bhè, ci salutiamo qui» aveva detto Bekett.
« e perché? Potremmo andare a cena, interrogarci a vicenda...» gli aveva risposto.
« perché Castle, per essere un'altra delle tue conquiste?»
« potrei esse io una delle tue… »
« è stato un piacere conoscerti Castle »
« è un vero peccato, sarebbe stato fantastico… »
Lei gli si era avvicinata sussurrandogli: « Non immagini quanto… » E il suo sguardo malizioso, quando aveva pronunciato quelle parole, gli avevano fatto capire che non poteva lasciarla. Avrebbe dovuto trovare una scusa per rivederla.
Accese lo stereo, aprì un bottiglia di vino rosso, ne versò un po’ in uno dei suoi calici di cristallo ed infine si sedette sul divano.
La stanza era buia, l’unica flebile fonte di luce proveniva dalla finestra. La musica che usciva dalle casse pronunciava parole tristi, parlava di un amore spezzato, di un cuore distrutto.

“…I need your arms to hold me now
The night are so unkind
Bring back those nights when I held you beside me
Unbreak my heart
Say you'll love me again
Undo this hurt you caused
When you walked out the door…”

Guardò il calice facendolo dolcemente roteare in mano, aveva un colore scarlatto.
Ne annusò il contenuto, profumava di ciliegie. Sorrise tristemente, poi lo sorseggiò più volte.
Spostò all’indietro la testa appoggiandola sullo schienale, ricordando il giorno in cui Kate gli aveva salvato la vita sparando all’assassino di sua madre, il modo in cui si era inginocchiata sull’uomo cercando di rianimarlo, ricordò il sangue che le ricopriva le mani come se fossero un guanti.
C’erano giorni, giorni come quello, in cui si ripeteva che se non avesse insistito a starle accanto, se non si fosse intromesso nella sua vita, forse sarebbe stata più felice.
Quella notte, l’aveva quasi persa dentro alla cella frigorifera, l’aveva stretta tra le braccia, aveva sentito il suo respiro farsi sempre più lento e quando aveva chiuso gli occhi e le era caduta la mano mentre gli sfiorava il mento, in quell’esatto istante si era accorto che non poteva più nasconderle i suoi sentimenti, quel giorno, sarebbero potuti morire entrambi e la sensazione della fine che stava per avvicinarsi, aveva fatto smuove qualcosa dentro di lui.
Doveva farlo. Fino a quella sera era pronto a distruggere la relazione che col tempo si era instaurata tra loro, era pronto anche ad un rifiuto da parte sua, e gli sarebbe andato bene anche se significava non poter più lavorare insieme al distretto. Voleva dirle quello che le aveva sempre taciuto in quei due anni.
L’aveva baciata una volta, sotto copertura, ma bramava ancora le sue labbra. La desiderava con tutto se stesso.
Voleva poter sentire il calore della sua pelle sotto le mani, il profumo di ciliegia del suo collo.
Con lei non era solo questione di attrazione fisica come con tutte le altre donne, l’emozione che gli dava starle accanto non era descrivibile a parole. Con lei vicino, si sentiva vivo come non lo era mai stato.
Avrebbe voluto dirle quanto l’amava quella sera, ma quando aveva visto Josh, gli si erano bloccate le parole in gola.
Lui era tornato per lei. Era tornato per restarle accanto.
Non importava quante volte avesse potuto salvare la vita a Kate, lei avrebbe sempre scelto Josh, come quella sera.
Il campanello suonò, ma non rispose.
Suonò di nuovo. Un’altra volta, ancora e ancora, ma Castle rimase immobile con lo sguardo fisso in un posto lontano ignorando il crudele suono della realtà.




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Ed eccoci alla fine del primo capitolo... È un pò corto... lo so... ma spero che il primo capitolo vi sia piaciuto... ^^
Il capitolo 2 sarà sotto il punto di vista di Kate... e si ripartirà dall'inizio... con un finale di capitolo un pò a sorpresa...

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


“Posso solo inginocchiarmi a voi e chiedere perdono per il ritardo… Buona lettura!” =)

 

    

 
 
 

«Senza te»

 
 
 
Quando lo vide sorridere si sentì scaldare il cuore. Quella giornata era stata davvero difficile e in quel momento il suo sorriso era il raggio di sole nella tempesta. Quando si voltò per andarsene, tornò tutto come prima. Grigio e spento.
Sentì Josh abbracciarla e quando si girò per guardarlo, lui la baciò.
« Ehi… » posò la fronte su quella di lei « andiamo? »
Sentì le porte dell’ascensore chiudersi e le venne istintivo voltarsi a guardarle. Scorse per qualche secondo l’espressione di Castle e si accorse che avrebbe voluto seguirlo, ma l’uomo davanti a lei, l’uomo che era tornato per lei, era la persona giusta con cui stare in quel momento.
 
Erano seduti al loro solito ristorante Thailandese quando squillò il telefono.
Fino a quel momento aveva cercato di restare concentrata sui racconti di Josh, ma la sua attenzione veniva continuamente disturbata dal viso di Castle.
Prese il cellulare dalla tasca, il numero era sconosciuto, ma aveva qualcosa di familiare.
In quel momento, si ricordò che lui era solo. Che aveva cacciato sua madre e Alexis negli Hampton per paura che la bomba fosse scoppiata con loro nella città.
«Scusa, devo rispondere» indicò il telefono.
«Certo, certo, fai pure » Le sorrise.
Si allontanò di qualche metro e andò a nascondersi dietro una pianta di bambù.
« Pronto? »
« Ciao Kate… »
« Ciao Martha, è tutto a posto? »
Seguì una breve pausa in cui si sentì un sospiro carico d’ansia.
« Si, spero… volevo sapere come stavate, Richard non mi ha voluto dire nulla sul vostro caso e sono preoccupata, lo so che non puoi darmi risposte, ma… »
« Stai tranquilla, è tutto risolto… Tu e Alexis potete pure tornare a casa »
Un sospiro, questa volta di sollievo, provenne dall’altro capo del telefono.
« Meno male. Torneremo domani in serata… ora è tardi. Ma lui è con te? »
Si stupì della domanda « No, perché? È successo qualcosa? » Sentì lo stomaco rivoltarsi.
« No, penso di no. È che… non risponde al telefono, ed è una cosa strana, tutto qua »
« Se ti fa stare meglio, posso provare ad andare a vedere se è tutto a posto… »
« Sei un angelo Kate, ma non voglio darti disturbo. »
« Lo faccio volentieri…» Lo faceva davvero volentieri, ma era per Martha, o il solo fatto di sapere che Lui potesse essere in pericolo la spaventava?
« Grazie… »
« Ti faccio sapere al più presto…»
« Grazie, sei un tesoro. »
Arrossì quando le sentì dire “tesoro” era sempre stata gentile con lei, anche quando l’aveva conosciuta per la prima volta, fin da subito l’aveva trattata come una di famiglia, anche se la vita di suo figlio era messa ogni giorno a repentaglio per causa sua. « Di nulla… »
« Ciao… »
Quanto tornò al tavolo, era appena arrivato il cameriere, teneva in bilico sul braccio il piatto dei suoi spaghetti thailandesi preferiti e altri tipi di antipasti tipici.
«Io… devo andare.» Disse subito senza farsi distrarre dal cibo. Aveva fame, ma la paura che fosse successo qualcosa a Rick era più grande.
«Ma Kate… » Josh la guardò perplesso « Non abbiamo nemmeno iniziato a cenare… »
«Lo so, ma mi sono ricordata di una cosa importante, devo scappare, mi spiace. Ti chiamo domani, ok? » Aveva preso la giacca così velocemente che quasi le si rovesciò la sedia addosso. Ignorò il dettaglio e scappo via.
Come aveva potuto dimenticarsene? Era assurdo.
Uscì in strada lasciandosi il ristorante thailandese alle spalle, vagliò l'ipotesi di prendere un taxi, ma a quell'ora sicuramente ci avrebbe messo meno tempo a piedi, a metà strada iniziò a cadere una leggera pioggerellina che si trasformò in acquazzone man mano che si avvicinava al suo scrittore.
Quando arrivò davanti alla porta di casa era completamente fradicia e con il fiatone.
Dall’appartamento proveniva della musica ed era abbastanza alta da poter sentire chiaramente le parole.
 
Un-break my heart
Say you'll love me again
Undo this hurt you caused 

When you walked out the door 

And walked out of my life 

Un-cry that tears 

I cried so many, many nights 

Un-break my
 
Bussò, più e più volte, ma nessuno venne ad aprire.
Iniziò a pensare che forse, aver corso fin li, non era stata una buona idea.
Si sentì improvvisamente una stupida ad aver lasciato Josh al ristorante, solo, senza nemmeno avergli dato una spiegazione. Ma cosa avrebbe potuto dirgli?
Si strofinò gli occhi e iniziò a camminare avanti e indietro nell'ingresso cercando di decidere cosa fare.
Idiota, era l'unica parola che le veniva in mente. Suonò il campanello, forse quello l'avrebbe sentito.
Aspettò dieci minuti, poi si chiese se era il caso di suonare di nuovo o meno.
E se non fosse stato solo? Se ci fosse stata una donna con lui? A lei sarebbe davvero importato? Perché il tarlo della gelosia doveva insinuarsi proprio ora nella sua testa?
 
Un-break my heart 

Come back and say you love me 

Un-break my heart 

Sweet darlin' 
Without you
I just can't go on 

Can't go on...
 
Si sentì ancora più stupida. Poi ripensò a Marta. Lo faceva per lei. Il fatte che lui fosse in dolce compagnia non faceva differenza. Non doveva farne. Non poteva essere gelosa di lui. Punto.
Suonò di nuovo il campanello, con più impeto questa volta e la musica cessò.
Forse l’aveva sentita. Udì dei passi avvicinarsi e i battiti del suo cuore le arrivarono in gola.
Quando scattò la serratura trattenne il fiato. Castle aprì la porta con un bicchiere in mano.
Capì che era qualcosa di alcolico, perché riconobbe l’odore del vino rosso. Lo riconobbe perché lo aveva già bevuto insieme a lui, più di una volta. Aveva un sapore corposo con un retrogusto di ciliegia.
 
“Profumi di ciliegie"
 
Quella volta l’aveva presa così alla sprovvista che il suo cuore aveva fatto un salto mortale. Era sempre stato capace di farle provare emozioni così tanto intese solo standole vicino. Solo parlandole era capace di cambiare radicalmente il suo umore.
«Beckett?»
Dopo qualche secondo di silenzio respirò dicendo: «Perché non rispondi al telefono?»
Alzò un sopracciglio interrogatorio «Forse perché non voglio essere disturbato?»
«Eravamo preoccupate»
«Preoccupate?»
« Si, Preoccupate Castle. Tua madre mi ha chiamato mentre cenavo e mi ha chiesto se eri con me. Perché non le hai risposto? Non le hai nemmeno detto che avevamo risolto il caso. Era preoccupata che ti fosse successo qualcosa»
Era sorpreso. Sorseggiò il vino, guardandola. Era venuta solo perché l’aveva chiamata sua madre e fargli la predica? Provò così tanta rabbia che quasi ruppe il bicchiere con la mano.
«Mi spiace che tu sia dovuta venir fin qui a controllare se stavo bene, ma come puoi vedere non c’è nulla che non vada bene. Puoi riferire a mia madre che sono tutto intero e, se non rispondo al telefono, è perché non ho voglia di sentire nessuno. E per nessuno, intendo che non voglio nemmeno ricevere visite. Non ho bisogno della balia Beckett, puoi anche tornartene a cena dal tuo medico.» Si rese conto subito del tono che aveva usato, ma non si sarebbe scusato. Era stanco. Stanco di scusarsi per niente. Stanco di essere il solo a provare qualcosa. Stanco di essere innamorato di una donna che scappava da lui.
«Scusa?» Kate fece un passo verso di lui, finendo con l’essere a qualche centimetro dal suo viso. Non si era fatta tutta quella strada per farsi trattare in qual modo. 
«Non hai il diritto di parlarmi così. Non m’interessa cosa ti stia passando per la mente in questo momento, ma non osare parlarmi così, mai più. Cosa credi? Che mi sia divertita a correre sotto la pioggia per venire da te? Che mi diverta a ricevere improvvise telefonate da Martha che mi chiede dove sei finito? Pensi che non mi possa preoccupare per te? Che non mi preoccupi ogni singolo giorno per la tua incolumità? Vuoi essere arrabbiato, bene, ma vedi di non far preoccupare le persone che ti stanno intorno. E in particolar modo, quelle persone che ti amano e non vivrebbero senza di te»
Lo scrosciare sui tetti si era fatto più intenso. Di tanto in tanto le sirene di un’ambulanza sovrastavano la pioggia, ma per il resto non si sentiva nulla.
Gli occhi di Castle erano Profondi. Scuri nella penombra del pianerottolo. Intravide la rabbia, la frustrazione e qualcos’altro di ancor più intenso. Qualcos’altro che non era pronta ad affrontare in quel momento e fu quello, a farla allontanare. Si sentì invadere da qui sentimenti ed ebbe paura. Paura, di trovarsi così vicina a lui e sapere di provar qualcosa di così profondo. Quel giorno, dopo aver visto Josh tornare da Haiti per lei, aveva deciso di darsi una possibilità insieme a lui, ed era quello che avrebbe fatto.
«Chiama tua madre Castle.» Si voltò e con passo deciso risalì sull’ascensore lasciandolo li, sull’uscio a guardarla andare via. 
 

Un-break my heart 

Sweet darlin' 
Without you
I just can't go on 

Can't go on...
 
 
 
 
 
 
 
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Eccomi qui, finalmente sono riuscita a scrivere questo capitolo. Non avete idea di quante volte lo abbia riscritto.
Ho fatto almeno una decina di versioni diverse… È stato molto difficile…
Non ero mai convinta di quello che avrei potuto far accadere. Volevo che lui aprisse quella dannata porta, ma da un lato ero spaventata per cos’avrebbero potuto fare se fosse successo. Avevo dei progetti inizialmente, ma visto il tempo che è passato dal primo capitolo al secondo, non so bene come andranno avanti le cose. L’idea di base c’è ancora, ma i fatti verranno un po’ cambiati. Vedremo. ^^
Spero che vi sia piaciuto ugualmente, anche se magari il finale ve lo aspettavate diverso…
(sinceramente ero molto propensa nel farli baciare mentre si guardavano negli occhi, volevo fare una scena molto passionale, ma non me la sono sentita, infondo Josh in quell’episodio è stato importate per lei, e non mi sembrava giusto far finta di nulla, ci saranno altri momenti Caskettosi, tranquilli, ma Kate dovrà lasciare Josh prima di poter fare qualcosa con il nostro Rick.)
Spero di riuscire questa volta, davvero a pubblicare il terzo capitolo a breve… Farò del mio meglio! Sperando di riuscire a conciliare il lavoro e il sonno…
Grazie a tutti per le recensioni che mi avete fatto fino ad ora!
 
 
Un bacione
Ai Chan
 
 
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Forse ce l’ho fatta… non sono in ritardo… noooo poco… ç.ç
Esco di casa alle 7 e torno alle 19.30… posso scrivere solo nel tempo libero, che è assai limitato… in più ci sono state le vacanze e il mio mac ha fatto le bizze… non partiva causa batteria… ==”
Lavorare in un certo senso è come una piaga... sigh

Ufff…

Spero che questo capitolo vi piaccia! =)
Scusatemi ancora per il ritardo

Un bacione! =)







 


«Scena del crimine»





Quando il telefono squillò, era una giornata come tante altre. L'unica differenza, era che non vedeva la sua detective da più di un mese e mezzo.
Dopo il caso della bomba non l'aveva più chiamata. Lei, al contrario gli aveva telefonato più volte, ma lui aveva lasciato che il suo Iphone squillasse a vuoto. Conseguenza fu, che le chiamate diminuissero fino a svanire del tutto.
Quando vide il numero, rispose.
Era Esposito.
«Ciao Javi»
Era semi disteso sul divano con un boccale di birra tenuto con le dita della mano sinistra appeso nel vuoto.
«Ciao Castle»
Nello stesso momento in cui parlò la voce dall'altro capo del telefono, il bicchiere cadde a terra con un rumore secco.
«Si tratta di Beckett» Erano bastate quelle quattro parole a spaventarlo, ma quelle che ne seguirono gli raggelarono il sangue. «È scomparsa»

Aveva impiegato meno di dieci minuti ad arrivare al distretto. Normalmente ci avrebbe messo circa venti/trenta minuti. Non si era cambiato, era uscito così com'era. Una camicia a cubi modello boscaiolo e dei pantaloni di Jeans lisi e scoloriti. In viso si poteva notare la barba incolta.
Per prima incontrò Lanie. Erano entrati in ascensore insieme e gli aveva fatto dei commenti sul suo look sciatto.
«Ti dona la barba Castle» Aveva cercato di essere calma e gentile, ma sapeva che era arrabbiata con lui per non esserci stato in quell'ultimo mese.

Lui, Ryan, Esposito e Lanie erano stati a parlare nell'ufficio del capitano Montgomery per più di un'ora e tutto quello che erano riusciti a capire era che Kate, probabilmente, era stata portata via mentre entrava o era già in casa.
Quando erano arrivati sulla scena del crimine, la porta era socchiusa, la serratura non era stata forzata, quindi si presupponeva che fosse entrata tranquillamente con le sue chiavi prima di essere sorpresa.
La pistola era finita sotto il divano, mentre il distintivo era accanto alla porta d’ingresso. C’erano segni di colluttazione, un vaso rotto, mentre i fiori stesi come corpi morti, erano cosparsi di cocci. I mobili erano spostati, alcuni rovesciati, sotto uno di essi avevano trovato uno staccio imbevuto di cloroformio, ma, quello che li aveva spaventi di più era il sangue.
Una macchia color cremisi al centro della sala.
Altra supposizione era che il rapitore fosse un uomo. Delle gocce di sangue partivano dal centro della stanza e si dirigevano verso l’uscita antincendio, una donna, per quanto forzuta potesse essere, avrebbe di certo faticato a portare giù dalle scale Kate Beckett, che da svenuta, non era sicuramente un peso piuma. Avevano chiesto ai vicini se avevano sentito qualche rumore e al portiere se erano presenti delle telecamere di sicurezza, ma nulla, le scale d’emergenza, era l’unica uscita non sorvegliata e di notte era la via più veloce per non dare nell’occhio.
Sembrava che si fossero volatilizzati nel nulla.
Lanie dal canto suo, aveva cercato di tranquillizzarli dicendo che il sangue non era abbastanza da essere una ferita mortale. Era una ferita profonda, quello si, ma avrebbe avuto solo bisogno di cure mediche urgenti.
«Dobbiamo controllare Farmacie ed Ospedali, nel caso che qualcuno abbia chiesto qualcosa riguardanti ferite provocate da armi bianche»
La dottoressa Parish aprì la cartellina che aveva tra le mani e ne tirò fuori dei fogli. «Questi, sono i farmaci di cui il nostro rapitore avrà bisogno e ci sono anche gli strumenti che dovrebbe adoperare dopo aver disinfettato la ferita. Li ho suddivisi ingruppi, il nostro uomo non è stupido, non comprerà mai tutto insieme, perciò dovrete fare una ricerca incrociata»
«Questa invece» disse Ryan «È la lista di tutte le farmacie di New York, sperando che non si sia spostato in un’altra città» Era una pila di fogli alta minimo due centimetri.
«Ci vorrà tutta la giornata solo per controllare e chiamare quelle nel raggio di un isolato da casa di Beckett»
«Per quale motivo è stata rapita?» Sapeva che era una domanda inutile e soprattutto, senza risposta, ma qualcuno avrebbe dovuto porla. Pensò a Dick Coonan e Hal Lockwood, ai mandanti dell’assassinio di sua madre,ma li escluse immediatamente. Non era nel loro stile. «Stava lavorando a qualcosa?» Sentì una fitta al cuore. Sapere che stava lavorando senza di lui gli faceva male. Aveva smesso di chiamarlo.
Sentì il fiato corto, ma la colpa era solo sua, non di Kate. Il bambino geloso ed egoista era lui.
Lei lo aveva sempre perdonato, gli era sempre andata in contro. Anche quando si era intromesso nella sua vita riaprendo il caso di sua madre, era stata gentile, facendolo tornare ad essere il suo partner.
Lo aveva perdonato quando era sparito con Gina e lui, lui, non aveva fatto altro che abbandonarla.
Lentamente.
Per la seconda volta.
Era successo l’anno prima con Demming e ora, con Josh.
L’aveva abbandonata, e lei non aveva fatto altro che smettere di inseguirlo.
Forse, se la rabbia e la gelosia non lo avessero fatto allontanare, ora, Kate sarebbe li con loro, e lui, sarebbe stato li ad accoglierla con una tazza di caffè fumante in mano.
«Stavamo seguendo una caso» Esposito, fece scivolare verso di lui una delle solite cartelline beige.
Castle l’aprì, e dopo aver scorso velocemente il testo stampato, vide in basso a destra la firma di Beckett.
L’accarezzò leggermente con il pollice, poi prese le foto e le osservò attentamente.
«Uomo, sulla quarantina, ucciso con un colpo d’arma da fuoco alla testa. Il proiettile l’ha perforato da parte a parte. I segni intorno al foro d’entrata indicano che la pistola era vicina al viso della vittima, non più lontana di 40/50 centimetri. Si può presuppore, che fosse steso a terra quando gli hanno sparato per via degli schizzi di sangue a “raggera” sull’asfalto, esattamente intorno il cranio. Singolo colpo. Mortale. Non possiede segni di colluttazione sul corpo, ne di droghe nel sangue. Le mani erano incrociate sul petto, in posa. Sembrerebbe che quest’uomo fosse cosciente nel momento in cui gli hanno sparato per via degli occhi aperti al suo ritrovamento.» Un’attimo di pausa poi Javier concluse dicendo: «Ha guardato il suo assassino premere il grilletto»
Calò il silenzio. Castle si morse un labbro.
«Questo caso potrebbe essere collegato alla scomparsa di Beckett?»
«Non per forza, ma dobbiamo controllare ogni minima pista e questa, al momento, è l’unica che abbiamo»
«E se fossero stati gli uomini che hanno ucciso sua madre?» Era stata Lanie a formulare quell’unica domanda, che tutti, si erano posti e nessuno aveva voluto dire ad alta voce.
«Se fossero stati loro, a quest’ora avremmo trovato il suo cadavere, non una pozza di sangue» Tutti fissarono lo scrittore, terrorizzati solo all’idea di un simile scenario.
Cadavere. Quante volte aveva usato quella parola nei suoi romanzi? Milioni. E per milioni di volte non aveva capito come potesse essere stato così insensibile usare quel termine con tanta leggerezza. Pensò ai suoi libri.
Avrebbe usato questa storia per il suo nuovo romanzo? Era spregevole da parte sua pensarci in quel momento. Il dolore che sentiva però, doveva trasmetterlo a qualcuno o qualcosa. Tradurre le sue emozioni in parole era l’unico modo per affievolire il dolore. Oltretutto, associare la parola cadavere a Kate, gli faceva rivoltare lo stomaco.
Scrivere, era la sua cura.
Qualcuno bussò alla porta entrando pochi secondi dopo.
«Capitano, questi sono i risultati del sangue trovato nell’appartamento della Detective Beckett» Glieli porse.
«Grazie Alex, puoi andare».
La nuova Cartellina, rimase chiusa e appoggiata al tavolo di legno scuro per interminabili secondi, colmati unicamente da un lugubre silenzio.
Fu Roy ad aprirla. L’espressione di Montgomery rimase impassibile.
Castle deglutì. Aveva la gola secca e il cuore che gli martellava nelle orecchie.
«È di Kate».








---
E con questo
finale a souspance... si conclude anche questo capitolo, vi chiedo ancora infinitamente scusa per la lentezza con cui scrivo i capitoli, cercherò sempre di impegnarmi a postare quanto prima! Fatemi sapere cosa ne pensate!
Spero che le vostre vacanze siano passate bene tra maratone di Castle in attesa della quinta serie (per chi è in linea con l'america), acqua di mare o vallate verdeggianti, sabbia, tanto sole e divertimento!

Un abbraccio
Ai chan ^__-

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Eccomi qui! Non pensavo davvero di riuscire a pubblicare così in fretta! Meno male! Sono emozionata!
Ora vi lascio alla lettura! =)
 
 
 

 
 
 
«Vuoto»
 

 
 
 
Tirò un sospiro di sollievo.
«Castle, Chiama tua madre»  Era stato semplice. Tutta l’ansia era svanita nel momento in cui aveva aperto la porta.
Stava bene, e questo, era l’importante.
L’ascensore scendeva lento verso il pian terreno, come se non volesse farla andar via, un “ding” scandiva la discesa da un piano all’altro, finché non smise al terzo piano dove salì un uomo sulla trentina.
Indossava una divisa grigia, il logo di una società sul petto a sinistra, faceva pensare ad un operaio o un responsabile della sicurezza. Quando vide il secchio con stracci e corde, concluse che era un ragazzo delle pulizie.
«Buona sera» L’uomo premette il pulsante per chiudere le porte, poi chiudendo gli occhi si appoggiò alla parete di laminato.
«’sera» Che stano, cosa ci faceva li a quell’ora? Di solito pulivano al mattino, non la sera tardi e oltretutto, cosa se ne faceva del secchio se non aveva nemmeno uno spazzolone?
Lo osservò per tutto il tempo, provava una strana sensazione di disagio in sua compagnia, si sentiva stranamente indifesa pur avendo un’arma pronta a proteggerla.
Per fortuna le porte si aprirono, e l’aria fresca, inumidita dalla pioggia le diede sollievo.
Uscì dal portone principale con passo svelto, voleva aumentare la distanza tra lei e quello strano uomo, ma la distrazione, la fece inciampare e finire contro qualcuno.
Alzò lo sguardo, pronta a scusarsi, ma quando vide che la persona con cui si era scontrata era Josh, restò impietrita.
«Kate»
Lo allontanò spingendolo via.
«Cosa ci fai qua? Mi hai seguito?»
si guardarono in silenzio, mentre la pioggia cadeva sui loro corpi.
«Si»
«Stavi salendo? O mi stavi aspettando?» era innervosita dal fatto che lui l’avesse seguita.
«Dovevo sapere…»
« sapere cosa?»
«Sapere se...» non riuscì a finire la frase, abbassò gli occhi da lei.
«Se ti tradisco con Castle? No. Cos’è che ti infastidisce realmente?» Era esterrefatta. Non riusciva a credere a quello che sentiva.
Tornò a guardarla e il suo sguardo era di guìhiaccio «Mi hai mentito»
«Josh, io non ti ho mentito» gli aveva mentito? No, aveva solo estromesso qualche fatto, ma non gli aveva mentito.
«Hai detto che dovevi fare una cosa, ma non hai voluto specificare quale, e quando fai così, Lui, centra sempre.» Indicò le finestre sopra di lui. Una era illuminata da una soffice luce.
Non sapeva cosa rispondere. Effettivamente era andata così. Per quanto li volesse negare quelli, erano i fatti.
«Senti, non voglio che tu debba mentirmi per vederlo. E se menti per andarlo a vedere, qualsiasi sia la ragione, penso sia lecito avere dei dubbi.»
«No Josh, non è lecito. Non è lecito che tu mi abbia seguita e non è lecito che tu non ti fidi di me. Stiamo insieme da un anno, sai come sono fatta e »
la interruppe «Proprio perché so come sei fatta, ho paura. Quando c’è di mezzo lui, non sei più te stessa»
Quelle parole la ferirono perché sapeva che erano vere. Doveva guardare in faccia la realtà.
«Perché sei tornato qui allora? Potevi restartene ad Haiti»
Lui la osservò con sguardo stupito, come se la risposta a quella domanda fosse implicita.
«Perché ti amo, Kate, e sono disposto a fare qualsiasi cosa per te»
Restò di sasso. Il rumore delle macchine e della pioggia sovrastavano ogni cosa, ma quelle parole le erano arrivate cristalline.
“Ti amo”
Non avrebbe mai immaginato di sentirselo dire.
Cosa doveva fare? Rispondergli… “anch’io”? Sarebbe stata la verità?
Deglutì, Alzando lo sguardo al cielo chiudendo gli occhi.
Gocce fredde le sferzavano il viso. Rabbrividì.
Sentì una mano calda contrastare il gelo delle sue guance. «Kate…»
Aprì gli occhi, Josh la guardava sovrastandola. Era molto più alto di lei, soprattutto, se non portava i tacchi come in quel momento. Con la coda dell’occhio vide la finestra sopra le sue teste diventare buia.
“Castle” Perché pensava ancora a lui quando aveva davanti a se un bellissimo uomo che le stava dichiarando il suo amore?
Gli prese la mano e alzandosi in punta di piedi lo baciò sulle labbra. Questo, in quel momento, era l’unica cosa che poteva dargli. L’unica dimostrazione che gli facesse capire di aver scelto lui e non Rick.
«Andiamo via da qui, siamo fradici» Sorrise e iniziarono a correre.
 
 
Il sole era tornato a splendere su New York quella mattina.
Si stiracchiò nel letto e dopo qualche secondo d’indecisione, si alzò. Indossava solo una camicia bianca. 
Il suo appartamento profumava di caffè e pancake. Quell’odore delizioso arrivava dalla cucina, s’incamminò e quando entrò vide un uomo, che le dava le spalle intento a lavare le stoviglie. Quando si voltò le regalò un sorriso.
«Ciao Katy» Sentì il cuore in gola. Provò la stessa sensazione di un salto nel vuoto. Lo stesso vuoto che si forma quando ti danno una brutta notizia.
«Ciao Josh»
Cos’era quella sensazione di delusione? All’improvviso, le venne in mente il giorno in cui Castle era stato a dormire per la prima volta a casa sua. Al mattino, un mattino come quello, si era svegliata col dolce profumo della colazione che le solleticava il naso. Perché quel pensiero? Perché proprio in quel momento? Aveva passato una bellissima notte, eppure il pensiero che la tormentava riguardava quell’unica persona che avrebbe voluto lì insieme lei. Possibile che lo desiderasse a tal punto? Quella notte aveva scelto la strada più sicura. La scelta, più sicura per il suo cuore già infranto. Non aveva saputo rischiare. Aveva fatto un passo indietro davanti alla porta di Castle. Aveva rifiutato quello che aveva visto nei suoi occhi.
Guardò Josh. Stava facendo saltare un pancake nella padella. Provava qualcosa per lui, ne era certa, ma non era ai livelli del suo “ti amo”. Molto probabilmente, quella notte aveva commesso l’errore più grande della sua vita.
Si sentì una persona spregevole. Sporca. Indegna di stare accanto a quell’uomo.
Il telefono squillò senza darle il tempo di continuare rimuginare.
Lo raggiunse stendendosi sul divano e allungando il braccio verso il tavolino.
«Beckett» Rimase in silenzio, annuendo ogni tanto. «D’accordo, ci vediamo la»
Josh la seguì con lo sguardo, la vide entrare in camera e uscire una decina di minuti dopo. Vestita.
Indossava una camicetta bianca e una giacchetta nera abbinata ai pantaloni.
«Devo andare al lavoro, mi spiace» Gli accarezzò una guancia e uscì, lasciandolo in mezzo alla sua cucina. Solo.
 
 
Quando arrivò sulla scena del crimine, prese il telefono e chiamò Castle. Di solito lo chiamava mentre era in macchina, ma aveva impiegato poco più di dieci minuti e le era sembrato più comodo farlo quando fosse arrivata.
Camminava impaziente da un lato all’altro del marciapiede quando finalmente il suo Iphone riuscì a prendere la linea. Lo lasciò squillare a lungo fino a che non cadde la chiamata. Riprovò di nuovo, forse stava ancora dormendo.
Alla quinta volta lasciò perdere e decise, per il momento, di occuparsi del caso.
 
 
Era passato un mese.
Un mese e una settimana, senza aver notizie del suo scrittore. Sembrava sparito dalla faccia della terra.
La prima settimana aveva provato a chiamarlo ogni giorno. Nella seconda aveva deciso di smettere, ma la sua determinazione era svanita dopo due giorni, era andata anche a casa a cercarlo, ma nessuno le aveva aperto.
Aveva trascorso così le altre due settimane, finché non si era imposta di cancellare il suo numero, ma cancellarlo non aveva risolto nulla. Lo conosceva a memoria.
Per fortuna per tutto quel tempo era stata impegnata con il lavoro, e l’ultimo caso era quello che la teneva più impegnata. Era morto un uomo, più precisamente gli avevano sparato, ma non riusciva a capire perché.
Non era convinta. Sentiva che sotto c’era qualcosa di più di un uomo assassinato a sangue freddo.
Qualcosa che non era ancora riuscita a decifrare.
Era stesa sul divano, con le foto della scena del crimine tra le mani e una lente d’ingrandimento. Cercava di scorgere qualcosa che fosse sfuggito alla scientifica, una piccola traccia nascosta, invisibile all’inizio, ma più chiara col passare del tempo.
Ed eccola lì.
Davanti al naso, ma impercettibile per quanto scontata.
Prese il telefono, compose automaticamente un numero, poi, poco prima di toccare la cornetta verde, si ricordò.
Le si strinse il cuore. Era sparito lasciandola sola e non sarebbe più tornato. Lo sapeva perché quel giorno, aveva sentito spezzarsi qualcosa. Quando aveva lasciato il suo appartamento, aveva avuto il presentimento che non lo avrebbe più rivisto. Cancellò i numeri e digitò il nome di esposito mentre apriva la porta di casa.
Era già con un piede sul pianerottolo quando si sentì prendere di peso e scaraventare di nuovo dentro casa.
Cadde sul pavimento colpendo la spalla destra, rimase immobile per un istante, bastò un respiro, ma chiunque l’avesse assalita, ora era di nuovo all’attacco. Non riuscì a prendere la pistola da dietro la schiena, che si ritrovò bloccata sulle fredde mattonelle della sala. L’aveva presa per un polso, voltata e bloccata quasi nello stesso momento. Era accovacciato sopra di lei, le sue gambe schiacciavano in una specie di schiaccianoci quelle di Kate, impedendogli di muoverle, mentre con un gomito le schiacciava le braccia contro il pavimento. Erano faccia a faccia. Sentiva il suo respiro sul viso e due occhi la guardavano con rabbia.
Con la mano libera, stava cercando qualcosa nelle tasche. Passò poco, tirò fuori un… fazzoletto?
La sua mente viaggiava alla velocità della luce.
Fazzoletto = cloroformio = incoscienza. Fece la cosa più barbara che le venne in mente.
Alzò la testa dal pavimento, di scatto, e con potenza la picchiò contro la fronte del suo assalitore, che, per la sorpresa e il colpo allentò la presa alle gambe e lasciò i polsi.
Con una mossa repentina, Kate, gli prese il collo della felpa, la manica all’altezza del gomito, facendo forza verso il basso e aiutandosi con le gambe lo sbatté a terra invertendo la loro posizione, puntandogli la pistola estratta dalla schiena mentre si voltava.
«Immobile. Non fare nemmeno una minuscola mossa o ti arriva un proiettile in fronte»
La bocca dell’uomo si inclinò fino a formare un ghigno «Sarai più veloce tu… oppure io?»
Kate abbassò lo sguardo, aveva un coltello a serramanico posato sul ventre.
“Merda!” Era in una situazione di stallo. Doveva uscirne, assolutamente.
Lezione fondamentale di sopravvivenza: in una situazione in cui non sapete cosa fare, fate qualcosa che la persona di fronte a voi non si aspetterebbe mai. Le serviva un colpo di scena. Come in un libro.
“Kete Beckett, non è il momento di pensare a certe cose. Non ora.” Possibile che anche quando era in una situazione così drammatica pensasse a Castle? Doveva disintossicarsi da lui, perché ormai, non faceva più parte della sua vita.
I loro sguardi erano fissi l’uno sull’altra. Aveva gli occhi color caramello, ma la sensazione nel guardarli era un brivido freddo.
Doveva essere veloce.
 
 
 
 
 
 

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Ce l’ho fatta! Che record! Ufff… speriamo di riuscire a pubblicare anche il prossimo capitolo con questa velocità =)
Cosa ne pensate del capitolo? Impressioni?
Grazie a tutti per le recensioni, davvero, sono veramente contenta che fino ad ora vi sia piaciuta, spero che continuerà a piacervi!
Un grande abbraccio a tutti!
 
Ai chan ;)

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Che ansia! Che ansia! Non sapevo se sarei riuscita a pubblicare in fretta, ma l’ispirazione mi ha colta in un momento libero, perciò eccomi già qui con il nuovo capitoloo! Lo so, questo è un super record per i miei tempi soliti… spero di riuscire a pubblicare anche il prossimo capitolo lunedì prossimo, con la stessa velocità! =)
 
 
 

 
 
 
 
«Colpa»
 

 
 
 
 
“È di Kate”
 
Quelle tre parole iniziarono a farsi strada nella sua testa fino a occuparla completamente.
 
“È di Kate, È di Kate, È di Kate, È di Kate, È di Kate, È di Kate, È di Kate, È di Kate, È di Kate, È di Kate, È di Kate”
 
Si ripetevano ininterrottamente come una nenia. Implacabili, mentre il senso di colpa gli stritolava il cuore in una morsa di ferro. Lo schiacciava con più forza ogni minuto che passava, sempre di più, fino a farlo esplodere.
Sentì i battiti arrivargli alla gola come colpi di martello, violenti e inesorabili. Salirono fino alle orecchie, finché non esplosero nella testa.
Iniziò a mancargli il respiro, mentre il rimorso gli lacerava l'anima.
Si sentiva semplicemente… Orribile.
Non si era reso conto di aver contratto tutti i muscoli del suo corpo e aver iniziato a trattenere il fiato, Infatti, trasalì quando la mano di Lanie si posò sul suo avambraccio.
«Respira Castle…» Strinse leggermente la presa, poi lo lasciò «La troveremo».
Lanie Parish non voleva farlo notare, ma era tesa e nervosa. Mentre gli stringeva il braccio, aveva sentito un leggero tremito nella sua mano. Aveva Paura. La stessa, che avevano tutti dentro quella stanza.
Era sempre stata una persona oggettiva, lasciava che le sue emozioni non la influenzassero nel lavoro, ma in quel momento non riusciva a nascondere la preoccupazione. Le si leggeva chiaramente in volto.
Notò che Lei ed Esposito si tenevano per mano e quel piccolo dettaglio, fu un’altra coltellata piantata nel cuore.
Fu travolto dall’immagine di Kate mentre faceva la stessa cosa per rassicurarlo, come quel giorno davanti alla piscina dopo che essere stato sequestrato e ancora quando aveva picchiato Lockwood, con il suo tocco leggero mentre gli rifaceva la fasciatura. Aveva delle mani così piccole rispetto alle sue. Le dita sottili e affusolate. Morbide. E le sue labbra erano così…
La voce del Capitano Montgomery lo riportò alla realtà.
«Ryan, Javier, voi farete il controllo incrociato tra le farmacie e i medicinali della lista che vi ha portato Lanie, voi due invece, rileggerete i rapporti redatti da Kate negli ultimi anni» Fece una pausa con un lungo sospiro «Ma prima di tutto, e questo è un ordine, non un consiglio, andate a casa. Questo caso ha la massima priorità, ma dovrete essere lucidi. Andate dalla vostra famiglia, dalle vostre fidanzate, rilassatevi. Perché da domani non ci sarà più tempo per i sentimentalismi. È tardi, andate. Domattina vi voglio qui con la mente sgombra»
«Capitano ma…»
«Niente MA, Esposito. Se vi metteste ora a quelle scrivanie, non sareste obiettivi, quindi, fuori di qui».
In silenzio si alzarono tutti e uscirono. Tutti, tranne Castle.
Era piegato sulla sedia, i gomiti posati sulle ginocchia e il viso nascosto tra le mani.
«Hai fatto una scelta. Non t’incolpare della sua scomparsa, piangersi addosso non serve né a te né a lei. Avrai tutto il tempo necessario per farlo quando l’avrai trovata».
Sentì i passi del capitano allontanarsi e la porta del suo ufficio chiudersi.
Si trascinò faticosamente verso casa.
Era vuota. E lui, era solo.
Il liceo di Alexis aveva organizzato una gita per mostrare agli studenti, i college che avrebbero dovuto scegliere l’anno successivo, mentre Martha stava facendo una breve tournée per sponsorizzare la sua nuova scuola di ballo.
Era in piedi al centro della sala e non sapeva cosa fare.
Nell’ultimo periodo aveva affogato  i suoi dispiacere nell’alcol e nella più completa indifferenza verso tutto ciò che gli accadeva intorno, ma ora non poteva più evitarlo. Gli avevano portato via Kate.
Gli avevano tolto quella sicurezza, la speranza di vederla per caso in mezzo alla strada, dentro un bar a bere un caffè.
Posò le chiavo sul tavolo e si infilò in doccia.
L’acqua calda lo avvolgeva come un abbraccio. Era rassicurante. Alzò la testa, sentiva le gocce cadergli sul viso freneticamente, scivolare tra i capelli, colargli lungo il collo, dividersi in informi rigagnoli che gli accarezzavano la schiena e arrivare fino ai piedi scorrendo dentro lo scarico.
In un impeto d’ira picchiò il muro davanti a se con i pugni, finché li disgusto di sé, non prese il posto della rabbia.
Posò la fronte contro le fredde mattonelle mentre l’acqua continuava a scorrergli sulla spina dorsale come un’impetuosa cascata. Sentì qualcosa di molto caldo sfuggirgli dagl’occhi e tracciargli una linea netta sulle guance.
Da quando non aveva risposto alla sua chiamata, si stava frantumando.
Il suo cuore si era crepato quando aveva visto Kate sceglie un altro uomo; l’aveva vista litigare con lui e il seme della speranza era germogliato dentro il suo petto, ma quando li aveva visti baciarsi sotto la pioggia e correre via mano nella mano, era stato violentemente strappato, come un’erbaccia in un giardino fiorito.
Eppure, il colpo di grazia, se l’era dato lo stesso giorno in cui aveva deciso di allontanarla dalla sua vita.
 
 
La notte passò tra interminabili tormenti e diverse docce fredde al fine di scacciarli. Verso le quattro del mattino, finalmente trovò pace e si addormentò in un sonno profondo ma attorniato ugualmente da incubi.
 
 
Il Campanello suonò alle 8.17 precise.
Lo ricordava così bene perché si era svegliato urlando, gli occhi sbarrati e la fronte impregnata di sudore freddo.
Corse ad aprire la porta in boxer. Il cuore pompava con forza il sangue a tutto il suo corpo, mentre un senso di nausea contraeva le pareti del suo stomaco.
Esposito, un po’ sconcertato lo osservò per qualche istante.
«Ehm…»
Alle sue spalle un gruppo di poliziotti che non aveva mai visto, andavano avanti e indietro parlando alla radio.
«Cosa succede?»
Attese qualche secondo, poi gli rispose:«Innanzitutto, vestiti. Poi, raggiungimi nell’appartamento qui accanto».
La voce gli uscì roca, spezzata, chiusa dal groppo che si stava formando nella sua gola: «Cos’è Successo?»
«Vestiti.» Javier cercò di mantenere un tono calmo, ma i suoi occhi mentivano.
Prese i pantaloni abbandonati accanto al divano e la prima camicia ammonticchiata sull’attaccapanni.
Il suo pianerottolo era disseminato di poliziotti. La porta vicino alla sua era spalancata, Ryan stava parlando con i proprietari dell’appartamento, la donna, con una mano davanti alla bocca cercava di trattenere le lacrime, l’uomo l’abbracciava tenendole le spalle.
Si avvicinò.
Loro erano Samantha e Paul O’connel, abitavano li da circa sei anni e avevano una figlia poco più grande di Alexis, Meredith. Spesso s’incontravano per vedere insieme un film o andare a qualche mostra, perché i genitori di frequente, partivano per lunghi viaggi di lavoro all’estero.
Non riuscì a dire nulla quando li ebbe vicini. Erano sconvolti. Ryan gli fece cenno di entrare.
Li superò, probabilmente non si erano nemmeno accorti della sua presenza. Esposito era accanto a Lanie, che a sua volta era accanto ad un cadavere. Sapeva chi era.
Quello che lo colpì, era l’abito che indossava: Una divisa. Da poliziotto.
«Perché?» fu l’unica cosa che riuscì a dire. Aveva lo sguardo fisso sul corpo, ma in verità era perso nel vuoto.
Lanie senza dire nulla, abbassò il colletto della giacca, non ci fu bisogno d’altro.
«Questo» Javier gli porse un distintivo avvolto in un sacchetto della scientifica «lo abbiamo trovato nel taschino sul petto» fece un respiro profondo «È quello di Kate»
Lo stomaco gli scoppiò, come la testa e il cuore.
Il senso di nausea che fino a quel momento si era sopito, ora stava esplodendo.
Doveva uscire da quella stanza, ma le gambe gli tremavano talmente tanto che quasi inciampò nei suoi stessi piedi.
Corse verso il bagno sbattendo la porta dietro di se. Il primo conato, fu così violento che si sentì squartare dall’interno. Si stava spaccando in due.
Era piegato sulla tazza, una mano sullo stomaco, l’altra stringeva con forza l’asse di legno sopra la sua testa.
Aveva freddo. Si sentiva gelare le ossa e lo stomaco non accennava a smettere di fargli rimettere tutto quello che aveva mangiato negli ultimi mesi.
Voleva gridare. Voleva buttare fuori tutta la sofferenza. Si appoggiò al muro con la schiena, pulì la bocca usando la manica della camicia poi, si rannicchiò portando le ginocchia al petto e le mani nei capelli.
Stava piangendo ancora prima di accasciarsi al suolo, ma con gli spasmi indotti dai conati, non gli aveva dato peso.
Era scosso da silenziosi singhiozzii mentre le lacrime, scivolando lungo le sue guance, finivano col cadere sui pantaloni.
Stava precipitando. Precipitava da un dirupo talmente alto che sembrava non aver fine.
Aveva lasciato che le tenebre lo inghiottissero.
Ormai, era divenuto prigioniero del suo stesso dolore.
 
 
 
 
 
---
Whaaaaa! Non mi sarei mai immaginata di farlo finire così!! Caspiterina, ho iniziato a scrivere e non riuscivo più a fermarmi… Sarà l’influenza della premier!… (Non sto più nella pelle! Stasera! Stasera! Stanotte! *____*)
Spero che la scena della doccia sia stata di vostro gradimento… io l’ho apprezzata molto nel farla…
Spero di riuscire a fare un’altra scena simile… magari descrivendo più particolari del fisico… :P e magari una scena insieme a Kate… :P
Fatemi sempre sapere cosa ne pensate e grazie mille a tutti per le recensioni!
 
Un bacione,
Ai chan

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Eccoci di nuovo qui! Vediamo Che fine ha fatto Kate…
Buona lettura!

 
 

 
 
 
 
«Oscurià»
 

 
 
 
 
Si svegliò quando sentì qualcosa caderle sulla guancia.
Una goccia. Fredda. Umida, come l’aria che le stava intorno.
Era avvolta dall’oscurità.
Ci mise qualche secondo per svegliarsi del tutto. Cercò di mettere insieme gli ultimi avvenimenti, ma non si ricordava molto. Qualcuno l’aveva spinta a terra e poi… il vuoto.
Si sedette su quello che, a contatto con il suo corpo, sembrava un materasso. Il ferro della rete cigolò sotto il suo peso mentre cercava di alzarsi in piedi. Aveva un leggero mal di testa, provocato probabilmente, dalla sostanza che le avevano fatto inalare.
Si toccò l’avambraccio, era fasciato e le dava fastidio. Tastò l’aria con le mani davanti a se e, posando i piedi sul terreno, si alzò con cautela. Una leggera fitta al fianco la fece piegare in avanti: si sentiva spossata e indolenzita.
Portò la mano nel punto dolorante e sentì un rigonfiamento strano. Alzò la maglietta, era leggermente bagnata sotto i suoi polpastrelli e secca al tatto in altri punti. Toccò qualcosa, era ruvida e formata da piccoli quadrettini, riconobbe il tessuto grezzo, era una garza e al di sotto c’era quello che poteva essere un cerotto medico.
Con la mente cercò di tornare indietro alla sera precedente, ma i suoi ricordi erano avvolti da una fitta nebbia.
Si strofinò il viso massaggiandosi le tempie. Non era il momento di farsi prendere dal panico, fece un respiro profondo; era viva, e quella, per il momento, era la cosa più importante.
Per cercare di capire in che luogo fosse finita doveva provare a muoversi. Stese le braccia davanti a se con i palmi alzati e iniziò a camminare. Il terreno sotto i suoi piedi era ruvido e pianeggiante, come il pavimento dei parcheggi sotterranei; si muoveva in linea retta, lentamente. Al quinto passo trovò la parete. Era ruvida e spigolosa. Sembrava essere calcestruzzo. Seguì il muro finché non trovò quella che sembrava essere una porta di ferro; cercò invano di aprirla, ma purtroppo era chiusa a chiave. Sbatté le mani contro il ferro freddo mentre il panico le si insinuava sotto la pelle.
«C’è nessuno!!?» Sbatté più forte finché il dolore all’avambraccio non si fece troppo intenso.
Chiuse gli occhi, stringendo i pugni e con un respiro profondo riprese lucidità scacciando rabbia e terrore.
Oltrepassò la porta andando sempre nella stessa direzione finché non si ritrovò con la spalla contro un’altra parete.
La seguì, ripetendo gli stessi movimenti, ma tenne un braccio alzato in modo tale da poter sentire se ci fosse una finestra o un piccolo lucernaio, da cui poter capire dove la tenevano prigioniera e se, nel caso, sarebbe potuta scappare.
Non trovò nulla, ma doveva ancora provare ad andare dall’altra parte.
Toccò qualcosa con le cosce, lo tastò con le mani: era arrivata al letto. Sospirò, riprendendo la sua strada.
La testa le girava lievemente, era la stessa sensazione che aveva dopo essersi sbronzata. Quel pensiero le fece ricordare la sua infanzia, quando andava alle feste e tornava a notte fonda, senza far rumore, nella sua stanza. Quando ancora si divertiva. Quando non cercava di tenere a distanza tutti per paura di soffrire.
Si fermò. Posando la fronte al muro.
Sospirò di nuovo perché le era venuto in mente lui. Il suo scrittore.
Le si strinse il cuore. Le mancava. Le mancavano le sue battute, il caffè la mattina, ma più di tutto, le mancava il modo in cui la sosteneva. In quel momento ne avrebbe avuto bisogno. Si sentiva fisicamente e psicologicamente male.
All’improvviso, sentì la serratura scattare, si voltò e la luce fuori dalla porta la rese momentaneamente cieca.
Si coprì gli occhi con una mano, mentre una figura scura le si avvicinava.
«Noto con piacere che si è svegliata, detective»
Non rispose, ma doveva scappare.
Il suo corpo era in guardia. Si guardò velocemente intorno senza muovere la testa, non c’erano posti in cui nascondersi.
Non poteva sorprenderlo. Avrebbe lottato contro di lui in un corpo a corpo? Ce l’avrebbe fatta nello stato in cui era?
Rimase in silenzio, studiando la figura di fronte a sé. La luce iniziava a diventare meno intensa e lei iniziò a vedere il suo sequestratore negli occhi.
Quegli occhi…
Il flash di una lotta violenta le si materializzò nella testa. Aveva preso il coltello di quell’uomo puntato nel suo stomaco, ma nel disarmarlo si era tagliata il braccio. Ricordava il sangue che aveva iniziato a colargli fino al gomito.
Si mise una mano sulla fronte mentre una fitta le partiva dalla tempia fino all’occhio.
«Cosa mi hai dato?»
Vide le sue labbra formare un sorriso «Cloroformio… e morfina»
Fu come essere travolta da un fulmine, in quel momento capì cosa poteva fare per fuggire.
Cadde in ginocchio come in prenda ad un violento giramento di testa.
L’uomo le si avvicinò «così sarai più docile detective…» Sentì una mano alzarla da sotto l’ascella e trascinarla verso il lettino, che ora, poteva vedere. Era un letto vecchio, con le sbarre di ferro arrugginite in alcuni punti, comequelli che si vedono negli ospedali psichiatrici o nei film horror.
Si aggrappò alla manica della giacca del suo sequestratore e spingendola verso il basso, lo fece barcollare, dandole l’opportunità di farlo cadere sferrando un calcio roteante a filo del pavimento contro la sua caviglia.
Si alzò con il cuore che le batteva in gola e iniziò a correre verso la porta.
La testa continuava a girarle, quella di prima era stata più scena che altro, ma dopo il calcio, doveva essersi riaperta una delle ferite, le bruciavano entrambe, ma quella sul fianco le dava molto più fastidio dell’altra.
Controllò il punto che le faceva male. La camicia era insanguinata, alzò un lembo e vide il cerotto che le copriva metà fianco carminio. Doveva aver perso ancora molto sangue per sentirsi così spossata.
Le luci dei neon sopra la sua testa erano ancora troppo forti per i suoi occhi, ma cercò velocemente di guardarsi intorno in cerca di una via d’uscita dalla stanza in cui era appena entrata.
Il bianco delle pareti rendeva l’ambiente ancora più luminoso di quanto fosse realmente. Non c’era nulla. Era completamente vuoto. Niente finestre, niente porte. Sembrava un bunker.
Impossibile.
Scacciò l’idea di essere intrappolata lì dentro, poi, qualcosa attirò la sua attenzione.
Una luce verde. Fece un passo e la vide.
La scritta EXIT torreggiava in cima ad una porta d’emergenza nascosta dietro l’angolo di un muro.
Si guardò alle spalle, l’uomo che prima era steso a terra era sparito.
Fece per voltarsi, ma sentì qualcosa prenderla alle spalle. Un braccio le avvolgeva il collo e cercava di soffocarla.
Fece resistenza con le mani, ma servì a poco. Era forte pur non essendo corpulento.
«Non si fa così detective» le sussurrò all’orecchio.
Qualcosa di appuntito le pizzicò il collo mentre sentiva le forze venirle meno.
«Cosa vuoi da me?» la trascinò di nuovo nella stanza buia e la fece sedere sul letto.
Aveva le gambe molli e faceva fatica a stare seduta dritta. Pensò alla puntura sul collo. Doveva essere stata narcotizzata di nuovo, i sintomi c’erano tutti: narcosi, analgesia e rilasciamento muscolare con la conseguente scomparsa dei riflessi.
Piegò la testa verso il basso, stanca e assonnata, ma lui le prese il mento con l’indice e il pollice avvicinandola al suo viso, lasciando solo qualche centimetro tra le loro labbra. Guardandola negli occhi quasi assenti.
«Tu…» disse fremente «sarai la mia vendetta» E le stampò un bacio sulla bocca.
 
L’ultima cosa che sentì fu la porta di ferro sbattere, poi, calò di nuovo in un sonno profondo pieno d‘incubi.
 
 
 
 
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Finito anche questo capitolo!!
 Ok… si sta facendo un po’ drammatica la situazione… tra Castle nel capitolo prima e Kate in questo. All’inizio non avrei mai immaginato che le cose sarebbero andata avanti in questo modo. Comunque ste tranquilli…
Spero comunque che vi sia piaciuto. ^^
Le recensioni sono sempre ben accette ovviamente! =)
 
Un bacione
Ai chan
 

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