Labhair dorchadais aingeal ris di My Pride (/viewuser.php?uid=39068)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** [ Atto I › Scozia, 1888 ] Graceful Degradation ***
Capitolo 2: *** [ Atto II › Scozia, 1888 ] A room without a mirror ***
Capitolo 3: *** [ Atto III › Scozia, 1888 ] Fragile ***
Capitolo 4: *** [ Atto IV › Inghilterra, 1888 ] Metamorphose ***
Capitolo 5: *** [ Atto V › Inghilterra, 1888 ] Night in Gale ***
Capitolo 1 *** [ Atto I › Scozia, 1888 ] Graceful Degradation ***
Un oscuro angelo_1
[
Prima classificata al contest «Competition
for long-fic published»
indetto da Insana e valutato da NonnaPapera ]
Titolo: Labhair
dorchadais aingeal ris
Autore: My
Pride
Fandom: Originali
› Sovrannaturale › Vampiri
Tipologia: Long
fiction [ 5 capitoli ]
Genere: Romantico
(Dipende moltissimo dai punti di vista e dall’idea di
romantico),
Drammatico, Malinconico, Sovrannaturale
Rating: Giallo
/ Arancione
Avvertimenti: Slash,
Probabilmente Non per
stomaci delicati, Lime
Nota1: Nel
corso della storia potrebbero essere presenti espressioni
come “Aye” e “Nay”, che
significano rispettivamente “Sì” e
“No” in italiano, e
“Och”, che è un rafforzativo del
“Sì”. Esse non sono un errore,
bensì una
scelta personale dell’autore, ormai affezionatasi a tale
dicitura. Tenendo
inoltre conto del luogo e dell'anno in cui la storia è
ambientata, esse
sono un’ottima
scelta linguistica, proprio come lo stile utilizzato.
Nota2: Le
immagini presenti e
con cui si apre la storia sono tratte dalle doujinshi da cui prendono
spunto i titoli, tutti spiegati accuratamente in ogni nota presente nei
capitoli successivi
Nota3: Gli
incipit con cui si aprono i capitoli sono di mia esclusiva creazione,
dunque i credits vanno a me medesima
Introduzione:
In ginocchio su quella strada
lastricata, dove la pioggia caduta ore addietro aveva reso lucida la
pavimentazione, sentì anche i suoi occhi inumidirsi di
lacrime.
Non di nuovo,
pensò angustiato, non
di nuovo, per l’amor del Cielo.
DISCLAIMER:
All rights reserved
©
I
personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi
appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura
immaginazione. Ogni riferimento a
cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente
casuale.
This
work
is licensed under a Creative
Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.
LABHAIR
DORCHADAIS AINGEAL RIS [1]
ATTO I: INVERNESS
› SCOZIA, 1888
GRACEFUL DEGRADATION [2]
Rigoglioso
germoglia
il
frutto del mutamento,
perdendosi tra i flutti
d’antiche
memorie.
La
pioggia autunnale cadeva fitta ormai da parecchie ore, abbattendosi sui
mille
colori della brughiera mentre vorticava nel vento che si innalzava da
essa.
In
quell’antica
magione, s’udivano suoni
cupi ogni qual volta uno spiffero
d’aria
s’insinuava nei cunicoli,
disturbando la solitaria figura accomodata su una
poltrona accanto al caminetto; con distratta
svogliatezza, osservava
il whisky
dorato che lambiva il bordo del bicchiere in cui era contenuto, con il
palmo
d’una mano poggiato sulla copertina consunta d’un
libro che aveva abbandonato
sulle cosce, entrambe nascoste dal pesante tessuto in tartan che usava
per riscaldarsi.
L’uomo
sospirò pesantemente e accostò il cristallo alla
bocca, bevendo giusto un sorso
prima di
storcere il naso mentre lo sguardo si perdeva fra le fiamme che
scoppiettavano
allegre nel camino. Il piacevole calore che trasmettevano si disperdeva
con il
lieve venticello e con qualche goccia di pioggia che entrava nel
salotto,
simbolo
che una delle grandi vetrate era
stata
lasciata socchiusa; notò difatti le tende danzare
in quella
brezza, simili a oscuri fantasmi che si perdevano
nella
penombra circostante e che creavano, come le pieghe dei più
pregiati abiti
d’una dama, invisibili archi rigonfiandosi sul davanti, quasi
fossero l’enorme
ventre d’una bestia famelica.
Non si scomodò,
però, per
andare a
chiudere la porta-finestra, abbandonando semplicemente il bicchiere per
immergersi ancora una volta nella propria lettura. Gli occhiali che
indossava erano
in bilico sul naso, ma parve non prestarvi poi molta attenzione;
se li
alzò appena con l’indice della mano destra,
ascoltando il dolce sottofondo che
la pioggia creava per lui e pochi altri che, in quel maniero, potevano
sentirla.
Dai piani inferiori, gli giungevano alle orecchie i suoni
delle vettovaglie e i richiami di qualche capo cuoco,
intento a
dar direttive alla restante servitù. Mancava poco
all’ora di cena e, poco prima
che venisse servita a tavola, uno dei suoi domestici sarebbe salito a
chiamarlo
per scortarlo nella grande sala da pranzo, ne era certo.
Voltò pagina e si ravvivò dietro
alle orecchie qualche ciuffo di capelli scuri, castigati in una lunga
coda che
gli ricadeva morbidamente sulla spalla opposta a quella nascosta dallo
scialle.
Sbadigliando, accavallò con disinvoltura le gambe, vedendo,
con la coda
dell’occhio, il barlume d’un lampo lontano solcare
il cielo.
Lo sciabordio della pioggia
divenne
più fitto e scrosciante, picchiettando insistentemente
contro i vetri di
tutta la magione. Quando minacciò d’inondare il
pavimento del salone, l'uomo si alzò, lasciando il libro
e gli occhiali
sul tavolino, proprio accanto al bicchiere mezzo pieno. Non fece caso
alla
coperta in tartan che cadde in terra, avviandosi verso il balcone senza
fretta, dove scostò le tende e si innamorò di
quella vista spettacolare e terribile al tempo stesso. Ogni
chioma,
ramo o cespuglio era sferzata dal vento che soffiava furente, mentre le
goccioline d’acqua mulinavano in una danza infinita insieme
alle
foglie che si
staccavano dagli alberi; la visibilità non era né
scarsa
né ottima, ma si riuscivano
vagamente a scorgere le luci delle lanterne della città
lontana. Carrozze
cercavano di risalire le stradine scoscese e fangose, tutte simili a
piccole
formiche che si muovevano laboriose.
Per qualche minuto, la figura
si
concentrò su quel trionfo di suoni e cupi colori,
perdendosi a sua volta
in esso. Gli sembrava che fossero passati anni da quando si era
ritrovato ad
osservare, con una tranquillità che non avrebbe mai
creduto possibile, la
bellezza terrificante della natura: il rombare dei tuoni, il sibilo
sferzante del vento tra gli anfratti e i cunicoli, le folgori
che
squarciavano la volta oscura del cielo; tutto ciò gli
riportava alla mente un
solo ed unico istante, vecchie memorie e
rimembranze d’un ragazzo
che ancora non sapeva nulla della vera vita e delle crudeltà
che essa aveva in
serbo continuamente.
Un sorriso amaro gli si
disegnò
sulle labbra sottili, poi chiuse la vetrata del balcone con lo sguardo
ancora perso nel vuoto.
Un suono
dietro di sé richiamò la sua totale
attenzione, facendolo voltare, anche se
di poco, verso la soglia del soggiorno. Proprio lì,
immobile, si trovava un
ragazzo dalla capigliatura mora che, in silenzio, l’osservava
con i suoi occhi
profondi e azzurri, come se attendesse un suo consenso per qualsiasi
cosa. Fu
difatti con esitazione che fece qualche passo avanti, entrando
completamente
nella stanza solo quando gli venne fatto appena un cenno con la testa.
Indossava il suo stesso vestiario, ma con una o più
varianti: non portava con
sé lo sporran [3],
né
tanto meno portava drappeggiato sulla spalla il suo solito scialle,
facendo sì
che la bianca camicia non fosse nascosta alla vista. Il kilt [4],
tenuto fermo da una cintura borchiata dalle rifiniture in argento, era
invece
in tinta unica, privo dei ricchi ornamenti e senza i colori che
indicavano
l’appartenenza del ragazzo a quel nobile e antico casato.
Proprio lui si stava
tormentando le mani, quasi avesse timore di parlare. Anche la vena
pulsante del
collo, che l’altro osservava con velato interesse dal punto
in cui si trovava,
sembrava dare la stessa identica impressione. «Vi stiamo
attendendo
per la cena, m’Athair [5]»,
disse sottovoce, il tono simile al pigolio d’un pulcino
abbandonato nel nido.
Le iridi
dell’altro, gelide e austere, lo fissarono attento e gli
fecero
correre un brivido lungo la schiena; gli venne quasi spontaneo chinare
il capo
e indietreggiare, come se la sua sola presenza potesse irritare il
possessore
di quegli occhi che continuavano ad osservarlo in silenzio. A malapena
sentì i
passi leggeri che aveva compiuto per avanzare verso di lui,
accorgendosi della
sua vicinanza solo quando una gelida mano gli sfiorò appena
il viso. Tremò
senza poterne fare a meno, socchiudendo le palpebre. Ma non gli
sfuggì
l’esitazione che si impadronì subito dopo di
quell’arto, allontanato dal suo
proprietario che parve quasi sospirare sebbene non avesse emesso alcun
suono.
«Vi raggiungerò fra poco, Jason»,
rispose
infine, semplicemente, voltandosi ancora una
volta verso il balcone come se nella stanza fosse solo.
Senza aggiungere altro, il
ragazzo si
congedò frettolosamente, ritrovandosi in poco nel corridoio
freddo e
parzialmente illuminato. Si gettò giusto uno sguardo alle
spalle, quasi temesse
d’esser seguito. Fu deglutendo che tornò a
guardare avanti, massaggiandosi le
braccia per riscaldarsi come poteva. Ormai da un paio d’anni,
l’uomo che aveva
considerato alla stregua d’un padre non era più
colui che aveva conosciuto ed
imparato ad amare.
Ricordava bene il giorno in cui
l’aveva
preso con sé,
allontanandolo da Londra per portarlo in quel vecchio maniero ai
limitari di
Inverness; quel giorno, per lui, era stato come ricominciare a vivere.
Senza
casa e senza famiglia, si era rassegnato a quella vita passando da
orfanotrofio
ad orfanotrofio. Un’infanzia infelice e grama, per un bambino
di appena sei
anni. E poi era arrivato, inaspettatamente, quel giovane uomo che
l’aveva
accolto e trattato come un figlio dato che non avrebbe potuto mai
averne,
nemmeno risposandosi. Da quel momento aveva imparato a sorridere
davvero, ad
amare ogni singola cosa del mondo circostante: si divertiva ad andare a
caccia
con lui durante la stagione della lepre, lo ascoltava attentamente
quando gli
narrava imprese eroiche o gesta d’uomini che erano passati
alla storia; tutte
piccole cose che assimilava e apprendeva, beandosi del calore e dei
sorrisi
sereni che riscontrava nel suo volto e in quello della
servitù. Ma, come ogni
cosa bella, non poté durare. Fu durante la sua
quattordicesima estate, poco più
di tre o quattro anni addietro, che le cose cominciarono radicalmente a
cambiare. Le mattinate o i pomeriggi passati insieme si ridussero a non
più di
qualche ora, così come le gran feste di gala a cui, di tanto
in tanto, amavano
partecipare per conoscere uomini di culto e gente nuova che si riuniva
ogni
anno prima dell’inverno. Il suo tutore passava infinite
giornate chiuso nel suo
studio, ordinando ai domestici di non disturbarlo assolutamente se non
necessario. Ne usciva solo quando era ormai sera tarda, cenando
velocemente in
sua compagnia prima di lasciarlo nuovamente solo e tornare a
rinchiudersi in
quella stanza che era ormai divenuta il suo mondo.
Tutto ciò era
cominciato dopo un
incontro di lavoro, quando un uomo dall’aspetto giovane e
aristocratico aveva
fatto loro visita in quell’antica dimora. S’era
presentato come un annoso amico
di famiglia - sebbene non dimostrasse più di ventidue anni
-, affermando
d’esser lì per riscuotere un vecchio debito. Dopo
varie ore passate fra una
chiacchiera e l’altra, s’era scoperto che tale
giovane aveva conosciuto il
padre dell’attuale padrone di casa, anche se la cosa
risultava quasi
impossibile. Fatto stava che, da quando era comparso quel giovane nelle
loro
vite, nulla era rimasto più come un tempo. Il ragazzo vedeva
il padre adottivo
passare svariate ore in compagnia di quel misterioso ospite, rivolgendo
unicamente a lui le sue attenzioni o i suoi sorrisi. E tutto
ciò avveniva senza
che si capacitasse del perché. Nemmeno i domestici, che lo
conoscevano sin da
quando era bambino, riuscivano a spiegarsi questo repentino
cambiamento. Giorno
dopo giorno, anno dopo anno, il loro signore diveniva sempre
più pallido e
stanco, sebbene conservasse quello sguardo fiero e quei lineamenti
decisi che
l’avevano sempre caratterizzato. Avevano sperato che, con il
passar del tempo,
tutto sarebbe tornato come una volta, ma tutt’ora
quegl’incontri non erano
affatto diminuiti; non passava un mese o un mese e mezzo senza che
quell’uomo
venisse a far loro visita. Ed era quasi giunto il giorno del suo
arrivo. Forse
era per tale motivo che, al ragazzo, il tutore appariva più
distaccato e
lontano.
A sguardo chino, il giovane
discese le scale che
lo separavano dai piani inferiori, attraversando quel vasto disimpegno
mentre
gli sembrava di sentire su di sé lo sguardo degli uomini
raffigurati nei quadri
lì presenti. Deglutì ancora, adocchiandone uno di
sfuggita; mai
come quella notte, forse a causa del temporale che stava avendo luogo,
quegli
occhi obliqui - così simili a quelli del padre adottivo -
gli sembravano freddi
e saccenti, quasi dotati di vita propria. Aumentando il passo,
stornò lo
sguardo, concentrando l’attenzione
solo e unicamente sulla
strada che stava percorrendo. Alle orecchie gli giungevano, lievi, gli
ultimi
preparativi dei domestici, affaccendati a mettere in tavola calici e
posate.
Arrivato alla grande sala, vide uno di loro riempire il bicchiere che
un
uomo
già accomodato gli stava porgendo, prima di chinare il capo
e dileguarsi alla
volta delle cucine.
Il ragazzo
s’avvicinò al tavolo e
salutò con un cenno del capo, vedendo suo zio Seamus alzare
lo
sguardo dal
giornale che aveva dinanzi per puntarlo su di lui. Sembrò
squadrarlo,
forse saggiando il suo vestiario. «Quanto ci farà
attendere, stavolta?»,
domandò, quasi disinteressato, lasciando su una piccola
catasta d’altri
giornali quello che stava studiando per allungare una mano verso il
calice. Non
bevve, osservando solo il vino oscillare al suo interno.
Con un sospiro, Jason si
sedette
a sua volta, poggiando le mani sulla tovaglia che nascondeva il
pregiato legno
d’ebano nel quale la tavola era intagliata. Senza guardare il
suo
interlocutore, sebbene fosse conscio della sgarbatezza, si
concentrò solo sui
movimenti dei domestici che vedeva di tanto in tanto. «Non lo
so, nobile zio»,
rispose in un mormorio mesto, alzando lo sguardo per osservarlo.
L’uomo si carezzò i
baffi curati con
fare pensoso, prima di portarsi il bicchiere alle labbra e bere un
sorso; lanciò un’occhiata
al giovane e soppesò ancora una volta il suo abbigliamento,
poggiando una mano sui giornali posti a lato del tavolo
prima di
togliersi gli occhiali che indossava. «Come mai ti sei
cambiato d’abito?», gli
porse un altro quesito - forse per cambiare argomento -, attento a
nascondere i
titoli che svettavano con inchiostro nero.
Il giovane si strinse
nelle spalle, sistemandosi la camicia.
«M’Athair preferisce che applichi
le vecchie usanze almeno in casa, nobile zio. Dovresti
saperlo», rispose con
semplicità, voltando appena lo sguardo quando
sentì l’avvicinarsi d’una cameriera
che portava con sé i primi piatti. Li poggiò in
tavola rivolgendo ad entrambi
un cenno formale del capo, allontanandosi mentre un’altra
donna portava le
restanti porzioni.
Nuovamente soli, Seaums
fissò il nipote. «Come
sta?», chiese, lasciando trapelare dalla voce la
preoccupazione che cresceva, in modo viscerale, dentro di lui. Era da
oltre un anno che
lasciava la
tenuta che possedeva a Londra per passare uno o due mesi in loro
compagnia,
forse per tener sotto controllo le instabili condizioni del padrone
che, di
tanto in tanto - nonostante i suoi domestici l’implorassero
più volte di non
muoversi, preoccupati per la sua salute -, si recava a sua volta in
quella zona
per chissà quali affari di lavoro. Come tutti in quella
casa, anche lui
conosceva il padrone sin da quando erano entrambi bambini; avevano
passato
insieme già i primi anni della loro infanzia, divenendo nel
corso del tempo più
simili a due fratelli che a degli amici. Crescendo, poi, il loro
rapporto si
era consolidato. Sebbene a quel tempo - e tuttora, c’era da
aggiungere -
abitassero lontani l’uno dall’altro, si scrivevano
molto spesso, quasi
suscitando l’ilarità, ma anche la gioia, dei loro
genitori. Il rivedersi
durante eventi mondani o cene di famiglia erano i momenti che
più attendevano;
dopo cena salivano nelle stanze ai piani superiori e, proprio come
fratelli, si
raccontavano ogni cosa, tenendosi informati su tutto. Avevano condiviso
pianti,
risate. Giorni felici ormai divenuti un ricordo sbiadito. Perso
com’era nei
suoi tristi pensieri, quasi non sentì la risposta del
ragazzo, scusandosi
immediatamente per la sua distrazione.
«Sta come tutti gli
altri giorni»,
ripeté paziente lui, rigirandosi una posata fra le dita.
«A volte mangia, altre
no... sembra che nemmeno gli interessi il fatto che salta i
pasti». Aveva
tenuto gli occhi azzurri bassi, senza avere il coraggio di incontrare
lo
sguardo dell’uomo. Il solo trovarsi lì, per lui,
equivaleva a dare allo zio
spiegazioni che avrebbe preferito fossero rimaste sepolte. La sua
attenzione
cadde, per chissà quale motivo, sui giornali che proprio lo
zio cercava di
tener nascosti come poteva. «Li hai
portati da Londra o da Inverness, nobile zio?», fu il suo
turno di chiedere e
cambiare argomento, alzando finalmente lo sguardo sul volto intristito
di lui.
Quando lo zio era arrivato, poco più di qualche ora prima,
il ragazzo non aveva
fatto poi tanto caso a ciò che aveva con sé.
S’era semplicemente soffermato
sulla valigia, non potendo chiedergli nulla dato che era stato
accompagnato dai
domestici nelle sue stanze. Ma adesso che aveva trovato un pretesto per
distrarsi, la curiosità e il sapere avevano sostituito per
poco la solita
maschera preoccupata che indossava da anni.
Seamus, seppur colto
un po’ alla sprovvista dal quesito, si limitò ad
annuire, cercando comunque di
occultare i titoli. «Purtroppo sono tutte cattive notizie,
Jason», gli rispose
con voce spenta, prendendo la catasta di giornali per poggiarsela sulle
gambe.
Così facendo evitò al ragazzo di leggere anche
per sbaglio, ma gli fece
corrugare le fini sopracciglia scure dall’angoscia.
«Quali cattive
notizie?», chiese
immediatamente, insistente.
Lì, ai limitari del nulla, non
avevano i mezzi per tenersi informati su ciò che accadeva
nel mondo. Era raro
che i loro domestici, quando lasciavano il maniero per rifornire le
dispense e
dirigersi ad Inverness, pensassero a comprare un giornale o a chiedere
qualcosa
alla popolazione. Le notizie, quindi, riusciva ad
assimilarle solo
quando, come in quel momento, era lo zio a pensare a ciò.
Ancora una volta,
però, l’uomo
scosse la testa; non sembrava intenzionato a parlarne.
«È una faccenda molto
delicata», asserì con una nota flebile e accorata,
decidendo infine di
cominciare a mangiare.
«Ed è
per questo che te lo
chiedo», rimbeccò Jason, senza darsi per vinto.
Gli occhi azzurri
scintillavano
di preoccupazione e, allo stesso tempo, di voglia di sapere. Ci
impiegò tutta
la sua forza di volontà per riuscire a far cedere
l’uomo. Nonostante
continuasse a ripetere che non era il caso di venire a conoscenza di
tali
fatti, lui insisteva il più possibile, forse comportandosi
come un bambino
capriccioso. Quando infine, probabilmente esasperato, glielo disse
lasciandogli
uno dei giornali, il ragazzo si limitò ad osservare il
titolo, scioccato.
Si sentiva le labbra secche, e dovette umettarle più volte e
deglutire prima di
riuscire a parlare con un po’ di disinvoltura. «Un
assassino?», domandò con voce
spezzata, come se si fosse dimenticato della crudeltà che
imperversava nel
mondo. Nell’agio e nella felicità di quella sua
esistenza, divenuta da troppo,
ormai, un suo sogno dorato, aveva lasciato al di fuori di tutto
ciò la vita
vera, ritrovandosi poi sbattuto con forza contro tale terrificante
realtà, come
un naufrago in balia delle onde.
«Lo chiamano Jack
lo squartatore
[6]»,
rispose suo zio, interrompendo il flusso
disarticolato dei suoi
pensieri. «Ironico
quanta malvagità possa risiedere in un solo uomo, vero?
Alcuni
dicono che sia opera del Diavolo, altri pensano che siano riti pagani
tornati agli albori... io credo che sia solo uno psicopatico che ha
trovato il modo di far parlare di sé. Persino
Scotland Yard non ha nessuna pista e sta ancora
investigando».
Il ragazzo ci mise un po' per
riprendersi, sentendo la gola quasi impastata.
«È... una
cosa terribile», riuscì a dire con voce incrinata,
senza aggiungere altro. Rilesse più volte
quel paragrafo,
rendendosi sempre più conto della verità dei
fatti. Eppure, sebbene la sua
mente avesse ormai immagazzinato quelle informazioni, il suo cuore
ancora si
rifiutava di crederci. Chi poteva mai essere così folle da
ammazzare a quel
modo delle persone? Erano delle prostitute, certo, ma non per questo si
erano
meritate quella fine. Cosa poteva mai spingere un altro essere umano ad
agire
contro natura?
Immerso com’era nei suoi pensieri,
Jason sussultò quando sentì la mano dello zio
posarsi sulla sua spalla,
accorgendosi solo in un secondo momento che si era ripreso il giornale.
Sconvolto com’era dall’aver appreso quella notizia,
aveva quasi estraniato il
mondo circostante.
«Non farne parola con tuo
padre», gli raccomandò, con una
lieve inclinazione preoccupata nel tono di solito composto della sua
voce.
«Tali notizie non giovano alla sua salute».
Jason annuì
automaticamente, a sguardo chino. «Non
l’avrei fatto di sicuro, nobile zio», lo
rassicurò, fissando con poca convinzione il cibo ancora
presente nel piatto
mentre sentiva l’altro tornare al suo posto.
Cincischiò con la forchetta senza
portarsi nulla alla bocca, versandosi del vino in un calice ma senza
prenderlo
per bere. Sembrava semplicemente che facesse quei piccoli gesti solo
per
distrarsi. Gli unici suoni che si sentivano erano i loro respiri e
l’insistente
ticchettio della pioggia sui vetri o, a volte, qualche scricchiolio del
vecchio
maniero. «Nobile zio», lo chiamò
d’un tratto il ragazzo, quasi insicuro,
abbandonando per l’ennesima volta la posata nel piatto. Ma
non continuò finché
gli occhi marroni non si puntarono su di lui, attente. «Cosa
ne pensi
dell’omicidio?» chiese a bruciapelo, vedendo il suo
interlocutore dilatare gli
occhi, come se non avesse intuito il perché di tale domanda.
Prima che potesse anche solo
provare
a rispondere, tuttavia, fu un suono proveniente dal vano della porta a
richiamare l’attenzione d’entrambi.
«Gradirei che non si parlasse di tali cose,
alla mia tavola», esordì il padrone di casa,
appena giunto nella sala da
pranzo. Aveva sciolto i lunghi capelli d’ebano, creando
così un forte contrasto
sulla bianca camicia bordata e sul pallido viso.
Entrò e
ignorò i loro sguardi e la
loro palese sorpresa, forse perché, proprio a causa di quel
suo presenziare o
alla luce più forte lì presente, il pallido
colore del viso risaltava ancor di
più. Quasi con eleganza prese posto a capotavola, facendo
vagare i suoi occhi
cerulei sull’abbondante cena prima di scoccare veloci
occhiate ad entrambi. Con
altrettanta grazia agitò piano una mano, come ad invitarli a
consumare la loro
cena. «Mangiate, mangiate. Non preoccupatevi»,
disse in tono
ammaliante.
E, quando incurvò le labbra in un
piacevole sorriso, gli altri due commensali non seppero spiegare la
provenienza
del brivido che sentirono all’unisono, legato probabilmente
anche al tono con
cui il padrone di casa pronunciò ben altre parole.
«La notte è ancora lunga».
[1]
Letteralmente
significa “Un oscuro angelo
parlò a lui” ed è gaelico scozzese.
[2]
Titolo
di una
doujinshi di Idea (Rin Seina/Houseki Hime) uscita il 19 marzo del 2006.
Indica la degradazione a cui il protagonista principale va
incontro, sebbene al principio lui non sembri pensarla esattamente in
questo
modo.
[3]
Borsetta
che si indossa sopra il kilt. Realizzato in pelle o pelliccia,
l’ornamentazione del sporran è determinato dalla
formalità del vestito
indossato con esso. Viene indossato su un cinturino
in pelle o a catena, convenzionalmente
posizionato di fronte all’inguine
di chi lo indossa.
Poiché il kilt non
ha tasche, lo sporran funge da raccoglitore e contenitore per tutti gli
oggetti personali.
[4]
Indumento
maschile scozzese,
composto da tessuto in tartan indossato insieme ad uno sporran (la
borsetta di
cuoio posta sul davanti) e portato senza nulla sotto.
Anticamente veniva confezionato con un pezzo di stoffa molto
lungo, così da poter essere assicurato alla spalla con una
spilla dopo averlo
legato intorno alla vita, dando la sensazione voluminosa che richiamava
quasi i
drappi.
In tempi non molto lontani era disprezzato da chi
considerava gli Highlanders dei selvaggi, chiamati con
l’appellativo
dispregiativo “redshanks” a causa del colorito
paonazzo che assumevano a causa
del clima e delle condizioni atmosferiche alle quali erano esposti.
[5]
Padre
mio, gaelico
scozzese.
Abbreviazione ottenuta dal pronome possessivo “Mo”
(Mio)
dinnanzi alla vocale di “Athair” (Padre)
[6]
Serial
Killer
che, durante l’autunno del 1888 (Anno in cui la storia si
svolge, quindi),
commetteva omicidi nel quartiere di Whitechapel e negli adiacenti
distretti.
Prendeva di mira solo le prostitute, seguendo sempre lo
stesso modus operandi; le sgozzava e le sventrava, abbandonandole a
“opera”
conclusa.
Alla polizia e ai giornali, durante quel periodo, arrivavano
migliaia di lettere che riguardavano il caso, dov’erano molte
le persone che
cercavano di fornire informazioni sul serial killer, sebbene la maggior
parte
di tali testimonianze fossero considerate abbastanza inutili.
Messaggio No Profit
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Capitolo 2 *** [ Atto II › Scozia, 1888 ] A room without a mirror ***
Un oscuro angelo_2
ATTO II: INVERNESS
› SCOZIA, 1888
A
ROOM WITHOUT A MIRROR
[1]
Qui, solitario loco
ove anch’io
posso trovare il
sonno eterno,
tu, o mio infido amante,
chiudi l’occhi
al
tristo mietitore.
Quel
giorno, il sole era sorto a carezzare piacevolmente il maniero e i suoi
dintorni, portando con la sua luce una placida tranquillità
nei cuori dei suoi
abitanti.
I domestici avevano già
cominciato a
darsi da fare sin dalle prime luci dell’alba, tra le pulizie
di casa e la
colazione per i loro padroni. Solo un’anima, come se fosse
preda di incubi o deliri, si agitava fra le sue
coltri,
artigliando fra le dita la bianca camicia da notte che indossava.
Scosso da
immagini e voci che correvano veloci nella sua mente, muoveva la testa
sul
cuscino, dov’erano sparpagliati i suoi capelli mori.
D’un tratto, Jason aprì di scatto
le palpebre, fissando gli occhi azzurri sul soffitto. Aveva il respiro
velocizzato e la fronte madida di sudore, quasi avesse la febbre.
Deglutì più volte
prima di mettersi
a sedere, portandosi una mano alla testa per intrecciare le dita fra i
capelli;
non ricordava nulla del sogno che l’aveva turbato, ma quella
sensazione che
aveva provato durante quell’incubo non era scomparsa.
Rammentava solo che si
era ritrovato in un luogo buio, senza alcuna luce, dove non era giunto
nessuno
a portarlo via da lì. Quell’angoscia
l’aveva sentita soltanto durante i primi
anni della sua vita: quel terribile senso di abbandono;
quell’essere
consapevole di non poter contare su nessuno se non su se stesso; quella
paura
che lo scuoteva durante le notti trascorse in orfanotrofio. Aveva avuto
il
potere di fargli tornare alla mente quei giorni,
quell’incubo. E non voleva
che quei fantasmi del passato tornassero a tormentarlo.
Con un po’ di incertezza, si
liberò
con mano tremante delle coltri, poggiando poi i piedi oltre il bordo
del
materasso. Si sorreggeva ancora il capo, come se in quel modo potesse
cancellare del tutto la sensazione che aveva provato e i suoi
molteplici
pensieri. Gettò uno sguardo al grande balcone posto alla
sinistra della sua
camera, vedendo qualche raggio di sole infiltrarsi birichino fra le
tende. Il
ragazzo si strofinò gli occhi più volte mentre si
alzava, camminando scalzo sul
pavimento per andare ad aprire la porta-finestra che dava
sull’ampio cortile.
Il canto della pernice giunse nitido e armonioso alle sue orecchie,
lenendo
almeno in parte le sue preoccupazioni. Tutti i colori della
vegetazione, poi,
erano ravvivati dalle goccioline di pioggia ivi rimasta:
dagl’iris al germoglio
appena spuntato; dagl’alberi di pino ai larici; persino le
felci che
s’intravedevano risplendevano di tante minuscole gocce. Anche
una delle
cameriere, che s’affaccendava nel piccolo orto, sembrava
godere d’ogni minimo
suono e di quel sole che, dopo il temporale del giorno addietro,
scaldava
piacevolmente il Paese. Sorrideva serena mentre raccoglieva carote e
rape,
scostandosi di tanto in tanto i fulvi capelli; li teneva come suo
solito
castigati in un’alta crocchia, dalla quale qualche ciuffo
ribelle sfuggiva
ricadendo ad infastidirle il viso. Sembrava canticchiare una dolce
nenia nella
sua lingua natia, interrompendosi solo per scambiare qualche
chiacchiera con il
giardiniere poco distante che, con il medesimo e allegro sorriso di lei
dipinto
in volto, potava le rose tranquillamente.
Jason distolse lo sguardo, richiudendo
la porta-finestra per estraniare dalla sua
stanza
la familiare melodia mattutina. Tornò al suo letto,
soppesando con lo
sguardo gli indumenti che aveva indossato la sera addietro e che aveva
lasciato
lì, come stracci vecchi, sulla sedia della sua scrivania: da
quel che sapeva,
nessuno di loro aveva portato più quell’indumento
da quando la battaglia di
Culloden
[2]
-
di
cui tanto aveva sentito parlare dal padre con fervore - s’era
conclusa con una
sconfitta, sebbene quel bando fosse stato abolito già da
parecchio tempo. Ma,
ben sapendo quanto lo stesso padre tenesse alle vecchie usanze e
tradizioni,
indossava quegli abiti solo all’interno del maniero, e solo
ed esclusivamente
per fargli piacere. Si ritrovò a scuotere la testa come per
scacciare un
pensiero fastidioso, dandosi una sistemata per vestirsi poi con una
semplice
camicia e un calzone. Mentre attraversava i corridoi,
però, una bizzarra ed opprimente ansia lo scosse, senza che
lui riuscisse a
capire da dove arrivasse quella sensazione. Era dovuta forse al sogno
che aveva
fatto? Non avrebbe saputo darsi una risposta concreta. Aveva
sicuramente
bisogno d’uscire, di respirare aria fresca; sarebbe andato in
città, prendendo
uno dei purosangue dalle scuderie per non scomodare il cocchiere. Una
cavalcata
fino ad Inverness gli avrebbe fatto più che bene. Quel
pensiero bastò a
rallegrarlo di poco e a fargli affrettare il passo, come se volesse
consumare
velocemente la sua colazione per lasciare il maniero.
Giunse
alla sala
da pranzo e si sorprese quando, oltre allo zio Seamus,
trovò seduto a tavola
anche suo padre: sembrava molto rilassato, più dei giorni
precedenti, ma, ciò
che maggiormente lo stupiva, era la sua presenza. Era molto raro,
difatti,
vederlo consumare dei pasti il primo mattino e, in particolar modo, in
compagnia di qualcuno. Non fece domande mentre s’avvicinava
per accomodarsi,
nonostante gli occhi azzurri non lo perdessero un attimo di vista.
Erano
entrambi in silenzio, a far colazione con qualcosa di leggero: il padre
aveva
cominciato a sorseggiare tranquillamente del the e, dalla densa e
delicata
fragranza che si spandeva nell’aria, sembrava
essere Earl Grey
[3];
lo
zio, invece, aveva dinanzi a sé un filetto di salmone cotto
in camicia e
qualche focaccia di grano. Jason si sedette in silenzio e si
limitò ad osservarli, ringraziando distrattamente quando un
cameriere portò anche il suo
pasto, composto dalla
medesima pietanza.
Non si scambiarono parole mentre
consumavano la colazione ma, di tanto in tanto, scoccava qualche
occhiata al padre che, come suo solito, non si era fatto portare nulla
se non quel
the.
Lasciò la sala solo qualche minuto dopo, facendo appena un
rapido cenno di
saluto, probabilmente per rinchiudersi nuovamente nelle sue stanze.
Quando
furono soli, il ragazzo sentì lo zio trarre un lungo
sospiro,
anche se non
fiatò. Si concentrò solo sulla restante
colazione, e lui fece lo stesso; non
era mai stato così grato di quel silenzio come quella
mattina. E fu ancor più
riconoscente quando terminarono e lasciarono la sala, salutando lo zio
prima di
correre verso le scuderie. Vi trovò Mòrag, la
giovane donna a cui erano
affidate le cure dei cavalli. Aveva raccolto i lunghi capelli biondi in
un’alta
coda e, serena come lo erano stati la cameriera e il giardiniere
durante le
prime ore di quella mattina, stava mormorando qualche parolina ad uno
dei
cavalli, forse per farlo stare buono mentre s’occupava del
suo manto.
Quando s’accorse del ragazzo,
interruppe il suo lavoro per voltarsi del tutto verso di lui,
chinandosi a
mezzo busto con le mani abbandonate lungo le cosce.
«Buongiorno, signorino»,
disse, regalandogli un sorriso.
Jason sorrise di rimando, gettando
poi uno sguardo veloce ai restanti box pieni. «Potresti
sellare Samhradh
[4], Mòrag?»,
le chiese cordiale, avvicinandosi al suo purosangue per accarezzargli
il muso.
«Vorrei raggiungere la città».
Seppur un po’ perplessa da
quella
richiesta, lei non domandò altro, aprendo il box per
preparare il cavallo del
suo signorino. Samhradh, questo era il suo nome, era un possente
puledro dal
manto nero che era stato regalato al ragazzo il giorno del suo
quindicesimo
compleanno: l’aveva chiamato così
perché, semplicemente, la stagione in cui
l’aveva ricevuto in dono era l’estate. Ricordava
che aveva provocato l’ilarità
della sua lontana cugina Màiri per quella scelta. Un nitrito
del cavallo bastò
a richiamarlo dai suoi pensieri e, quando si voltò, i suoi
occhi si persero in
quelli neri dell’animale. Gli carezzò nuovamente
il forte
muso, rivolgendo alla donna un altro indulgente sorriso.
«Grazie
davvero, Mòrag», mormorò
il ragazzo, issandosi in groppa al
cavallo mentre lei teneva ferme le briglie e l’osservava.
«E di cosa,
signorino», parve
polemizzare, anche se divertita. «Questo è il mio
lavoro».
Il giovane sorrise ancora,
carezzando il collo dell’animale.
«Tornerò nel pomeriggio»,
annunciò,
picchiettando i fianchi del destriero per fargli fare qualche
passo e
uscire dalle scuderie. «Ci penserò io a Samhradh,
poi».
«Come desidera»,
disse subito lei,
seguendolo con lo sguardo mentre s’allontanava.
Jason lanciò il cavallo al
trotto e poi al
galoppo, godendo di quella libertà che sentiva man mano che
il maniero dietro
di sé diventava solo un punto indistinto. Avrebbe tanto
voluto lanciarsi fra i
boschi, stare ad ascoltare ogni singolo suono della natura; gli sarebbe
piaciuto anche cacciare, magari per distrarsi, anche se con
sé non aveva
portato praticamente nulla per farlo. Con quei pensieri che si facevano
largo
nella sua testa quasi non s’accorse d’esser giunto
nei pressi della città,
raggiungendola quando il sole fu quasi alto nel cielo. Scese da cavallo
e lo legò accanto ad una mangiatoia poco distante,
carezzandogli
il
muso e
sussurrandogli che sarebbe tornato presto.
S’inoltrò poi fra le vie della
città, sentendosi quasi rasserenato. La vita che percepiva
scorrere,
accompagnata al chiacchiericcio allegro e alle tonanti voci dei
venditori,
riusciva a fargli dimenticare parzialmente cosa affliggesse il luogo in
cui
viveva. Non era mai stato un ragazzo egoista ma, almeno quel giorno,
voleva
pensare solo a se stesso e al suo benessere, cancellando tutto il
resto. Si
meravigliò d’ogni minima cosa che vedeva,
d’ogni più piccolo oggetto; gli era
sembrata un’eternità quella che aveva passato
rinchiuso nella magione senza
partecipare più alle serate mondane. Non se ne interessava
molto di tali cose,
certo, ma un tempo erano un modo come un altro per poter scoprire cose
che non
avrebbe creduto possibili.
Non seppe quando tempo
passò fra quelle strade, consumando un pasto leggero che
quei pochi soldi che
si era portato dietro gli avevano permesso di comprarsi. Solo quando
vide le
vie spopolarsi decise a sua volta di tornare, ripercorrendo i suoi
passi per
recuperare il suo cavallo. S’affrettò un
po’, quasi correndo, e anche quel
semplice fare lo fece stirare un altro sorriso. Ad una distanza non
molto
considerevole vide il possente animale allargare le narici quando
s’accorse
della sua presenza, scalpicciando.
«Jason, se ben
ricordo». La voce che
udì alle sue spalle, però, fu capace di
farlo sussultare, tanto che si
fermò a pochi metri da dove aveva lasciato legato il suo
destriero. Fu con
molta lentezza che si voltò, specchiandosi in quelle polle
innaturalmente
dorate che l’osservavano con bislacco divertimento. Il
sorriso dipinto sul
volto di quel nuovo arrivato ammorbidiva i lineamenti delle sue labbra
sottili,
donandogli un aspetto quasi bonario ed angelico. Qualche ciuffo di
ricci
capelli castani cadeva scomposto sul volto d’alabastro,
perfetto nella sua
imperfezione: il suo possessore sembrava un angelo scacciato dal
Paradiso. Era
più pallido di quanto il ragazzo ricordasse, ma, passato
quel suo momento di
iniziale stupore, chinò con fare cortese il capo,
salutandolo.
«È un piacere
rivederla, Sir
William», gli disse, sebbene nella sua voce
risuonò una sfumatura di falsità
ben celata. «Mio padre attendeva con ansia il vostro arrivo
in città». Quella
invece, seppur avesse voluto il contrario, era la pura e semplice
verità. Il
padre adottivo, anche senza dar voce al suo desiderio, lasciava
espressamente
intendere quanto la lontananza di quell’angelo
l’opprimesse. Non aveva mai
avuto il coraggio di chiedergli perché
l’affliggesse tanto quella separazione,
ben conscio che non avrebbe ottenuto nessun favorevole risultato.
Jason osservò quelle labbra
sottili
incurvarsi in un altro piacevole sorriso, prima che quegli occhi
d’ambra
soppesassero la sua postura quasi con aria critica. «Avrei
dovuto mandarvi una
missiva per informarvi che sarei arrivato quest’oggi,
probabilmente», rifletté l'uomo,
rivolto più a se stesso che al ragazzo. «Mi par da
maleducati giungere senza
preavviso».
Il giovane scosse la testa,
come ad indicare che non importava. «Non si
preoccupi. Come le
ho ben detto, l’attendevamo». Messo in chiaro tale
concetto, indicò con un
gesto svogliato della mano il cavallo poco distante che scalpitava e
nitriva,
come stufo di quell’attesa o come se avesse fiutato qualcosa
di sgradevole.
«Posso portarla io, al maniero. Stavo giusto
tornando», continuò il ragazzo,
incamminandosi verso l’animale senza far caso al suo
comportamento. «Può forse
sembrare un po’ disdicevole, ma, almeno, non le
farò perdere tempo alla ricerca
d’una carrozza».
Un altro sorriso accondiscendente
solcò le morbide labbra del nobile, che agitò in
risposta una mano. «Non
rifiuterei mai una così cordiale offerta»,
dichiarò. «E poi, sono anni che non
cavalco». Accompagnò quelle parole con un breve
cenno del capo, annullando a
sua volta la distanza che lo separava dal purosangue. Ad una spanna da
lui,
però, il cavallo nitrì e
s’imbizzarrì, quasi sfuggendo alla presa del
moretto
che stringeva le redini ora sciolte.
«Deagh, Samhradh, deagh
[5]!»,
cercò di calmarlo il ragazzo,
parlando con la sua lingua madre in tono duro e imperativo. Ma
più i piccoli
occhietti scuri del destriero guizzavano come impazziti sul volto del
nobile
dalle iridi dorate, più i nitriti sembravano acquistare
intensità diventando
alti e spaventati. La presa delle redini si fece meno salda, tanto che
Jason fu
tentato di lasciarle finché non vide una pallida mano
avvicinarsi al muso del
destriero. Ancora un nitrito si levò dalla gola
dell’animale a quel tocco, ma,
quando stavolta guardò quello sconosciuto negli occhi, smise
d’agitarsi
tornando il cavallo mite di sempre. Quella mano di porcellana
passò sotto alle
narici, forse attendendo che identificasse l’odore e lo
ricordasse. Il
possessore di quell’arto, poi, si voltò verso il
ragazzo che aveva osservato
tutta la scena incredulo e senza fiatare. Solo in presenza di pericolo
aveva
visto il suo cavallo comportarsi in quello stesso e identico modo; era
successo
qualche anno prima, durante una delle ultime battute di caccia in cui
si erano
ritrovati a far fronte a qualche bestia selvatica. Ma quel sorriso
indulgente
che gli veniva rivolto, per lui, non aveva nulla di pericoloso. Solo
di...
ipnotico.
«Aveva semplicemente bisogno
di fare
la mia conoscenza», si fece sentire quella voce soffice e
vellutata, prima che
l’uomo gli regalasse un ennesimo sorriso. «Direi
che possiamo partire, adesso.
Non vorrei far attendere più del dovuto il tuo buon
padre».
Il ragazzo non rispose né
aggiunse
nulla alle parole dell’altro, montando soltanto in sella per
aiutarlo poi a
fare lo stesso. Con una mano il nobile declinò gentilmente
l’offerta,
provvedendo da solo per cingere poi, in un contatto forse fin troppo
intimo, i
fianchi del giovane seduto dinnanzi a sé.
Quest’ultimo sussultò, a quel fare,
sentendo quasi un fastidioso gelo invaderlo a poco a poco, penetrando
al di
sotto degli abiti che indossava. Ma non disse nulla nemmeno stavolta,
limitandosi solo a deglutire mentre faceva schioccare le briglie. Il
cavallo
partì al galoppo con un basso nitrito quando lo
guidò, picchiettandogli i
fianchi con uno stivale. Ben presto si ritrovarono in aperta campagna,
dove
tutti i colori ivi presenti cominciavano a tingersi
dell’acceso colore del
tramonto. Il vento s’insinuava fra i capelli
d’entrambi, scompigliandoli,
suonando alle loro orecchie melodie senza musica o parole; sembravano
esserci
solo loro e la natura selvaggia. Le Highlands, durante quel periodo
dell’anno,
erano sempre uno spettacolo da rimirare e da vivere.
Tagliarono per i campi gettando
maggiormente al galoppo il destriero che, essendo un cavallo nato per
correre,
non risentì minimamente di quello sforzo. Ancor prima che
calasse il sole,
erano quindi giunti fino agli enormi cancelli che segnavano quella
proprietà.
Lasciarono il cavallo nelle scuderie, trovandole stavolta vuote.
Mòrag,
probabilmente, era andata a svolgere qualche commissione. Dopo essere
smontati entrambi dalla
groppa, il ragazzo fece cenno al nobile di
seguirlo,
addentrandosi nel piccolo giardino fino a giungere ai portoni.
Aprì facendo
accomodare prima il suo ospite, intrattenendo una piccolo chiacchierata
con lui
mentre gli faceva strada nel maniero; incaricò uno dei
domestici di scortare il nobile dal padre, scusandosi di non
accompagnarlo lui
stesso. Ma quell'uomo, con un breve cenno della mano, gli fece capire
che non
importava,
seguendo quel servitore fino ai piani superiori.
Quando si ritrovarono dinanzi alle
porte dello studio del padrone di casa, il domestico
s’affrettò ad aprirle, senza
azzardarsi ad entrare. «Mio signore, l’ospite che
attendevate è arrivato»,
annunciò, chinando il capo con fare referenziale per
salutare il
nobile, lasciandoli poi
soli entrambi.
Sir William lo seguì con lo
sguardo, lasciandosi andare ad uno sbuffo ilare mentre faceva il suo
ingresso
nello studio. Una lunga libreria dai ripiani ben pieni occupava tutto
il lato
nord, mentre due poltrone di pelle erano poste al centro della stanza,
l’una
perfettamente dinnanzi all’altra. Non c’era molta
luce, ma questo non parve turbare
il visitatore.
«Sei qui,
finalmente», si fece
sentire una voce, bassa e profonda. Proveniva da un’altra
poltrona avvolta
dalla penombra in cui la stanza era, dove si riusciva a scorgere a
malapena la
figura lì accomodata.
Gli occhi dorati non faticarono
molto a riconoscerla, e il loro possessore stirò le labbra
in un lieve e dolce sorriso. «Oh... allora
è vero che mi
attendevi con ansia», disse con
scherno, avvicinandosi. Vide quella sagoma abbandonare la
sua postazione e aggirare la pregiata scrivania in legno di noce, tutto
per
avvicinarsi unicamente al caminetto posto al lato opposto dello studio.
Seguì i
suoi movimenti, il suo chinarsi accanto; non stornò lo
sguardo nemmeno quando
una delle sue mani prese della legna da ardere per gettarla
all’interno. Con
l’attizzatoio, alimentò le fiamme,
ritornando in posizione eretta
per voltarsi verso di lui. I colori arancioni del fuoco danzavano sul
suo volto
innaturalmente pallido e sui suoi capelli mori, donandogli
un’aria tetra e lugubre.
«Sai bene cosa stavo
aspettando, in
realtà», dichiarò, in tono schietto e
duro.
Intuendo di cosa parlasse, William
arrivato accentuò il sorriso, facendolo ben
presto sparire nella
curva delle sue labbra. Atteggiò il viso ad
un’espressione addolorata,
portandosi teatralmente una mano al petto. «Sono da poco
giunto qui e già
pretendi di abusare di me?», chiese, fingendosi
scandalizzato. «Che uomo
di pochi principi morali».
«Non voglio prediche da un
mostro»,
ribatté immediatamente l’uomo, incamminandosi
verso di lui per poterlo
osservare meglio. Ma l'altro s’allontanò ben
presto, distogliendo lo sguardo
dal suo interlocutore per farlo vagare con finto interesse alla grande
finestra
posta sulla destra. Aveva portato le braccia dietro alla schiena con il
fare
tipico dei bambini, quasi quella conversazione che stavano
intrattenendo per
lui non significasse nulla.
«Dopo tali parole potrei anche
decidere di negarti ciò che desideri, sai?», disse
sarcastico, voltando di poco
la testa verso di lui. «Ma il mostro che hai dinanzi ha un
onore».
«Dammelo e basta»,
replicò
l’uomo,
tendendo una mano verso di lui.
William sollevò finemente un
sopracciglio. Osservò quel
palmo proteso e poi il volto del proprio interlocutore, ritrovandosi
per l’ennesima volta a sorridere.
«Se vai così di fretta,
devo supporre che quello che ti avevo lasciato un po’ di
tempo fa sia del tutto
finito», fece, sondando con lo sguardo la sua postura come se
volesse scrutare
nella sua anima.
Il Lord non si lasciò
abbindolare né
da quelle parole né tanto meno da quello sguardo, facendo
ancora una volta un
cenno con una mano. «Questo riguarda solo me. Tu limitati a
darmelo», ripeté
nuovamente, senza dargli spiegazioni o soddisfazioni.
«È diventato come
una droga per te,
vero?» esordì il nobile William, tentatore.
«Dovresti essermi grato
invece di trattarmi così», continuò,
tornando verso di lui per alzare il viso
ad incontrare il suo. «Non regalo a chiunque un assaggio del
mio bacio
immortale». Si specchiò in quelle polle celesti,
che sembravano rilucere d’un
ardore e d’una rabbia repressa che ben altre volte aveva
veduto. Era come se
ammetterlo a se stesso lo facesse star male e, tale discordanza sul
giusto e
sbagliato, era un chiaro invito a nozze per quel nobil uomo. Senza dir
nulla
allungò il volto per sfiorare le sue labbra, un breve
contatto che servì solo
ad annullare quelle distanze fisiche. «Siediti,
sciocco», disse poi,
baciandogli lievemente un angolo della bocca. «Sai bene
quanto sia potente
questo mio dono».
Riscontrò
l’incertezza in quelle
iridi, quando s’allontanò; lo vide poi socchiudere
le palpebre per annuire,
come un bambino che obbediva agli ordini dettati dal padre. Sorrise
ancora nel
vedere tale sottomissione, schiudendo le labbra per rivelare infine un
paio di
candide zanne. Le sfiorò appena con la lingua, le
leccò; snudandole del tutto
si scoprì un polso, affondandole poi in esso per ferirsi. Il
sangue sgorgò
inondando la sua bocca, inebriando i suoi sensi con quel rugginoso
profumo. Su
di sé sentì lo sguardo dell’uomo che,
accomodatosi su una poltrona, sembrava
attendere, più che impaziente, soltanto lui.
Allontanò le labbra macchiate
per ricambiare quell’occhiata, avvolgendo l’altra
mano intorno al polso per
evitare che il sangue cadesse in abbondanza sul pavimento mentre
s’avvicinava
alla poltrona. Quando lo raggiunse, accostò il punto ferito
alla sua bocca,
assicurandosi che l’odore di quel liquido vermiglio venisse
inspirato a pieni
polmoni. Sentì poi, quasi insicura, la lingua del Lord
accarezzare piano la
pelle che si stava rimarginando pian piano, lappare il sangue che la
sporcava
in gran quantità; fu poi il turno di quell’incerto
succhiare, di quel cercare
di volere più di quanto non potesse ottenere. Rammentava
bene il momento in cui
si erano scambiati quel patto nella tenebra e nel sangue:
quell’uomo, molti
anni addietro, era diventato un suo schiavo per
l’eternità senza esserne
pienamente cosciente. Già il suo bisnonno, a suo tempo,
avrebbe dovuto
diventarlo; ma le cose non erano andate come sperava ed era stato
costretto a
rinunciare a quel suo capriccio. Li aveva quasi perseguitati, passando
di padre
in figlio alla ricerca d’un anello debole che avrebbe
spezzato la catena: loro,
stirpe d’antichi cacciatori, non si sarebbero mai abbassati a
divenire servi
d’un’immonda creatura come lui. Ma in tutte le
famiglie esisteva la pecora
nera: lui, la sua, l’aveva trovata. Era l’agnello
sacrificale che avrebbe
condotto con sé all’Inferno.
Il suo viso si trasfigurò in
una
maschera di puro piacere quando sentì quel risucchio
aumentare, quasi con
avidità e lussuria; le mani dell’uomo avevano
avvolto il suo esile polso, quasi
non riuscisse a fare a meno di quel poco sangue che gli era stato
donato. Il
nobile fu costretto a staccarlo delicatamente da sé, a quel
fare, usando una
forza misurata per evitare di fargli del male. Troppo prezioso, per
rischiare.
«Basta così, per oggi», lo
ammonì, con il tono premuroso d’una madre.
«Ne hai
bevuto abbastanza».
S’allontanò per girovagare nello
studio senza badare più di tanto al viso del Lord, che
mutò e si storse in una
smorfia mentre si leccava via il sangue dalle labbra. Sembrava esserne
disgustato sebbene non riuscisse a farne a meno.
Più volte, difatti,
l’uomo
abbassò e
rialzò le palpebre, ripulendosi la bocca con due dita.
«Di un po’, sei stato tu
ad uccidere quelle donne a Londra?», chiese d’un
tratto in tono acido,
adocchiandolo appena con la coda dell’occhio.
William, che stava camminando come
se nulla fosse per la stanza, gli lanciò un rapido sguardo,
fermandosi a
ridosso dei grandi scaffali della libreria. «È
giunta notizia anche fin qui,
di quegli assassinii?» domandò in risposta,
stirando le labbra sottili in un
piacevole sorriso.
«Mio fratello ha portato dei
giornali», fece l’altro, come se ciò
spiegasse tutto. «Non mi pare che tu mi
abbia dato una risposta, però», soggiunse,
tenendoglielo ancora presente.
Il nobile diede vita ad una di quelle
scrollate di spalle che potevano significare tutto o niente.
«Se te lo domandi con tanta
apprensione, nay.
Non
sono stato io», rivelò pacatamente, sfiorando le
copertine consunte di qualche
libro prima di voltarsi verso di lui. «Che bisogno avrei di
fare uno scempio
simile? Io caccio per necessità e, solo raramente, per
divertimento».
«Che parole
immonde», esordì
l’uomo,
come disgustato da quella confessione. «Parli con cotanta
semplicità
d’un’uccisione».
S’udì appena uno
sbuffo divertito,
poi i passi dell’altro che s’avvicinavano. Con
grazia felina prese posto sulla
poltrona accanto a lui, poggiando una mano sul bracciolo mentre agitava
svogliatamente l’altra. «È
forse
sbagliato uccidere per sopravvivere?»,
domandò, con quella voce soave e candida, quasi fosse un
bambino innocente. Ma distolse lo sguardo dai suoi occhi
d’ambra, il Lord, quasi non riuscisse a sostenere quei
profondi pozzi d’oro
fuso.
«Non vi è nulla di
più errato
dell’omicidio», rispose, provocando al suo
interlocutore una piccola, quanto divertita, risata.
«Och, adesso sei tu nel
torto», fece
ancora il nobile William, accavallando con disinvoltura le gambe mentre
faceva
vagare con non curanza lo sguardo in quello studio di cui, ormai,
conosceva
ogni anfratto. «I miei non sono affatto degli omicidi. Io lo
faccio per
mantenere questo corpo in grado di muoversi, uccidendo solo i malvagi e
i
malfattori. Siete voi umani a darvi battaglia, togliendovi la vita a
vicenda
anche quando siete innocenti».
«Non puoi giustificare il tuo
comportamento in quest’assurdo modo. È
inaudito».
«Inaudito, dici?»,
ripeté William,
fingendosi
perplesso. «Perché non ti domandi dunque quale sia
il motivo di quel tale, Jack
lo squartatore? Con il suo mietere vittime ha facilitato di molto la
mia
caccia, laggiù a Londra. Come vedi, mio sciocco amante, gli
uomini sono capaci di qualunque malvagità anche senza dover
credere ad un’entità
sovrannaturale votata al male stesso».
Il Lord scosse nuovamente il capo,
come se non volesse sentire. «Perché devi
uccidere?», insistette, corrugando
con fare quasi preoccupato le sopracciglia. «Non puoi... non
puoi fare
esattamente come fai con me?»
Fu in grado di provocargli
un’altra
risata, con quelle parole, vedendo poi una pallida mano intrecciarsi
fra quei
fili castani. «È
ben diverso», gli spiegò
tranquillo. «Tu sei legato a me, hai bevuto il mio sangue
mescolato con il tuo.
Non c’è unione più sacra di questa. Non
mi tradiresti nemmeno se volessi. Gli
umani là fuori invece sono deboli, patetici. Se li lasciassi
in vita, dopo
essermi nutrito di loro, non potrei più vagare indisturbato.
Su tale logica non
credi che, in fondo, l’omicidio sia perdonato?».
Joseph sbatté una mano sul
bracciolo della
poltrona, aggrottando la fronte. «Nay, non
posso accettarlo»,
disse ancora, sempre più insistente.
«L’omicidio è sempre un
errore».
Un mesto sospiro sfuggì dalle
labbra
sottili del nobile vampiro, prima che fosse lui a scuotere la testa con
fare
contrariato. «Non citare il te tanto caro Wilde
senza comprendere appieno
il significato di tale frase. Ti soffermi sempre su quella prima
parte», gli
tenne presente, distaccato. «Proprio non vuoi
comprendere, nevvero?
Sei esattamente come tuo padre, e come suo padre prima di
lui», soggiunse, vagamente nostalgico. «Ma a
differenza loro il tuo spirito
è battagliero,
sebbene tu ti sia lasciato soggiogare molto facilmente».
«È
stato per mia scelta, non mi
sono fatto soggiogare da nessuno», ribatté sicuro
di sé. «Tanto meno da te». Ma
sussultò quando, senza che lui se ne rendesse conto o se ne
accorgesse, il
volto del suo interlocutore si trovò ad una spanna dal suo.
Gli sarebbe bastato
alzare, anche di poco, una mano per sfiorare il suo petto marmoreo o le
sue
labbra sottili e fredde.
«Non dicevi così
qualche anno or
sono, mo chridhe
[6]»,
parve mormorargli lui, quasi con inaudita dolcezza. «Per
quanto tu ti sia
sforzato, sei unicamente mio,
adesso».
Cadde un pesante silenzio fra i due,
dopo tali parole. Tutto ciò che s’udiva era il
ticchettio dell’orologio a
pendolo che scandiva lo scorrere del tempo e, forse agitato, il respiro
dell’uomo. Sentiva il cuore battere quasi furente nel petto,
il ritmico rombo
del sangue nelle orecchie; gli occhi azzurri erano ancora puntati
altrove, ma
un brivido lo scosse quando, come un soffio di morte, il gelido respiro
del
vampiro gli solleticò quasi dolcemente il collo. Parve
inebriarsi del suo
profumo, la creatura, sfiorandogli con la punta della lingua la vena
pulsante.
«Sei stato tu a lasciare che questa passione ti consumasse,
tu mi hai aperto i
meandri oscuri della tua anima lasciando che la spiassi senza
opporti»,
continuò, rompendo quella quiete opprimente. «Sei
stato tu a dar vita a
questa follia che ti dilania. Non io».
Il cuore del Lord batteva sempre
più
forte, quasi all’impazzata, con un ritmo calzante che
trasformò i tocchi di
quel suo ospite in gesti languidi e cadenzati. Una gelida mano gli
sfiorò il
viso quando lui s’allontanò, osservandolo con quei
pozzi d’ambra che altro non
erano che i suoi occhi.
«Rifletti su queste mie
parole»,
sussurrò, quasi lascivo. «Tra sei notti, spero di
trovarti a Londra». Detto
questo s’alzò, con un unico movimento fluido.
Sempre con moderazione si diresse
verso la porta, facendo ondeggiare i suoi lunghi capelli ricci ad ogni
minimo
passo, quasi fosse lui a comandar loro di farlo. Si fermò
proprio sulla soglia,
con le dita che sfioravano appena la maniglia lucente. «Ti
farò recapitare un
messaggio, così saprai esattamente dove
raggiungermi». Voltandosi verso
di lui con quel dolce sorriso tentatore, sparì come una
triste apparizione
dalla sua vista, lasciandolo solo con la sua angoscia e il suo tormento.
[1]
Titolo
di
una doujinshi di GDMechano (Izumi Yakumo) pubblicata nel 2004, il cui
titolo in
giapponese è “Kagami no Naiheya”.
La scelta di tale titolo sta ad indicare non l’assenza
d’uno
specchio nella stanza in cui i due protagonisti si trovano,
bensì un confronto
inesistente fra loro.
[2]
Battaglia
combattuta il 16 aprile del 1746 nei pressi di Inverness, che vide
sconfitti i
giacobiti, sostenitori di “Bonnie Prince” (Charles
Edward Stuart), dalle forze
lealiste guidate da William di Cumberland, figlio del re Giorgio II.
Lo scontro si concluse in una disastrosa sconfitta,
soprattutto a causa delle scarse innovazioni belliche di cui
l’esercito scozzese
era dotato; gli Highlanders, difatti, s’ispiravano ancora a
strategie e
concetti risalenti al medioevo.
La fine della battaglia impedì del tutto agli Stuart di
riconquistare il trono inglese, ponendo fine al sogno della Scozia di
rendersi
ancora una volta indipendente dall’Inghilterra.
Dopo la disfatta furono molti i prigionieri, sia giacobiti
che sostenitori, dei quali una stragrande maggioranza fu deportata
nelle
colonie, mentre i restanti vennero condannati, tenuti in carcere o
mandati in
esilio.
Per sottomettere definitivamente la Scozia, tra l’altro, il
governo britannico ne annientò costumi e tradizioni,
proibendo ai civili scozzesi
di indossare il kilt (Da qui ciò che viene accennato nel
secondo capitolo) o di
suonare la cornamusa, fatta eccezione per i reggimenti facenti parte
dell’esercito inglese.
A ciò si aggiunse inoltre l’abolizione
dell’autorità che i capi
avevano sui propri clan.
Il bando venne abolito solo nel 1782, il periodo in cui
l’immagine del mondo celtico andava pian piano estendendosi.
[3]
Uno
dei thé più famosi in Inghilterra.
Il
suo sapore e il suo aroma si distinguono grazie all’aggiunta
di un olio
estratto dalla scorza di bergamotto.
Il
nome deriva dai Jacksons di Piccadilly, che ne rivendicarono la
paternità.
[4]
Significa
“Estate” in gaelico scozzese.
Praticamente
è la stagione in cui, nel mese d’agosto, il
cavallo viene regalato a Jason,
come accennato nel capitolo.
[5]
Letteralmente
significa “Buono Samhradh,
buono” in gaelico scozzese.
L’aggettivo
“Deagh” (Buono) viene utilizzato prima
d’un nome (In questo caso quello del
cavallo), e non bisogna confondersi con “Math ; Maithe ;
Fheàrr” (Buono/Bene),
aggettivo usato invece per indicare uno “stato” _
Ciamar a tha thu? (Come
stai?) ; Tha mi math, tapadh leibh (Bene, grazie)
[6]
Cuore
mio, gaelico scozzese.
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Capitolo 3 *** [ Atto III › Scozia, 1888 ] Fragile ***
Un oscuro angelo_3
ATTO III: INVERNESS ›
SCOZIA, 1888
FRAGILE
[1]
L’animo tuo altro
non è che l’inverso del mio.
Ne traggo
nutrimento, rendendolo fragile:
come
un’incrinatura
su una superficie di cristallo.
Era
ormai tarda notte, e la magione si presentava estremamente silenziosa.
I suoi
abitanti erano sprofondati da diverso tempo nel sonno, non una luce
illuminava le stanze nelle quali erano chiusi. Soltanto uno di loro
sembrava
non riuscire a trarre conforto da quelle ore notturne, vagando fra i
corridoi
desolati come un’anima in pena. La lunga vestaglia che
indossava - tra l’altro
insufficiente per difenderlo dal freddo - creava un sinistro fruscio
sul
pavimento ogni qual volta lo sfiorava, rendendolo sempre più
simile ad
un’antica apparizione. Ma non sembrava nemmeno rendersene
conto, come se fosse
completamente immerso nei propri pensieri. La mente vagava verso gli
avvenimenti accaduti esattamente due giorni addietro, perdendosi
persino in
ricordi ben più lontani: nel percorrere quei disimpegni che
conosceva più di
chiunque altro, forse persino dei domestici stessi, non smetteva di
tormentarsi
e martoriarsi il cervello, quasi fosse alla ricerca
dell’esatto momento che
aveva scatenato tutti quegli eventi futuri. Non avrebbe mai negato
d’esser
stato stolto, accettando quella condizione che gli era stata offerta;
il suo
animo era stato combattuto fra due diverse ragioni per mesi e mesi,
prima della
fatidica decisione. Gli era stata mostrata la consapevolezza di morire
poco a
poco, giorno dopo giorno, consumato dalla malattia che lo divorava o la
scelta
di farla sparire per sempre.
Ormai da molti anni, prima che
quel suo carceriere si presentasse al suo cospetto, aveva scoperto
d’aver
contratto un morbo sconosciuto. Già cagionevole di salute,
non si era
meravigliato poi tanto di quella sua situazione, accettandola a poco a
poco
come tutte le altre tragedie già capitate nella sua vita. I
primi periodi era
dunque stato abbastanza sopportabile, senza grosse complicazioni;
svolgeva
tutto normalmente, sforzandosi d’apparir tranquillo agli
occhi della società e
a quelli degli abitanti del maniero, in particolare dinanzi al figlio
adottivo. Ma con il passar del tempo, per lui, aveva cominciato a
diventare
tutto più difficile. Fingeva quanto poteva, questo era
indiscutibilmente vero,
ma la malattia che aveva contratto aveva iniziato a deteriorarlo attimo
per
attimo. L’arrivo di quello sconosciuto - che gli si era
subito rivelato per ciò
che realmente era, senza porre condizioni per quei primi periodi -,
quindi, era
stato per lui come un’ultima preghiera o desiderio. Ed era
stato da quel
momento che le visite erano cominciate, alternandosi di mese in mese.
Durante
quei loro incontri segreti lui recuperava pian piano la salute, pagando
tale
dono con la sua integrità ed anima. Uno scambio equo, al
principio. Scambio che
era per lui divenuto un bisogno troppo necessario in seguito, proprio
come
aveva dimostrato quella sera stessa in cui quel nobile era andato a
fargli
visita. Non poteva resistere a lungo senza quel suo nettare proibito,
sebbene
lui stesso non ne capisse il motivo e ne fosse consapevole solo in
parte.
Un tetro sospiro sfuggì dalle
sue
labbra, condensandosi in una piccola nuvoletta di vapore che
lui osservò con sguardo vacuo; quasi si sentiva come quel
sospiro divenuto
visibile a causa dell’umidità presente in
corridoio. Era come se potesse
svanire da un momento all’altro, senza lasciar nessuna
traccia di sé non appena
qualcuno avesse mosso una mano. Se confrontava su un piano artistico il
suo
stato d’animo, poteva benissimo azzardarsi a dire
d’esser simile ad
un’imperfezione su tela che sarebbe potuta sparire con altre
rapide pennellate.
Si ritrovò a stirare le labbra in un sorriso che non
esprimeva nulla, un
sorriso privo di vita. Era diventato quello, in fin dei conti. Un
quadro
incompleto a cui mancavano dettagli e ritocchi.
Svoltò l’angolo e
percorse un
altro disimpegno, accantonando per qualche attimo i suoi pensieri
mentre si
guardava con falsa attenzione intorno. Nemmeno si rese esattamente
conto
dell’ala del maniero in cui adesso si trovava, camminando
adagio
a causa del
buio che si fece più fitto. Allungò a tentoni una
mano,
sfiorando un mobile e
poi un muro; continuò, passo dopo passo, ad esplorare quegli
antri oscuri che
erano quei corridoi, toccando con la punta delle dita qualsiasi cosa.
Giunse
senza accorgersene nella piccola sala che, ormai da un paio
d’anni, avevano
adibito a studio per il suo amico, entrandovi senza un apparente
motivo. Le
dita andarono automaticamente alla ricerca della lanterna a gas,
cercando a
tentoni il beccuccio per accenderla e far luce; si schermò
gli
occhi con
l’altra mano, poiché la poca intensità
di quella
fiammella gli aveva ferito la
vista abituata al buio. Quando il fastidio
s’attenuò,
poté gettare uno sguardo
all’interno di quella stanza, trovando tutto perfettamente in
ordine tranne la
grande scrivania. Lì, difatti, oltre ai vari tomi rilegati
in
pelle e altri
fogli sparsi, era presente una pila di giornali dalle pagine
spiegazzate,
nonché qualche stilografica gettata in ogni dove. La sua
attenzione fu però
catturata proprio da quei giornali, che suppose essere quelli di cui
aveva
vagamente sentito parlare qualche sera addietro. Sapeva dei casi
d’omicidio -
sebbene l’amico credesse l’esatto contrario - ma,
seppur ne
avesse ascoltata qualche parola, non era ancora riuscito a leggere
nulla su quel caso. Fu per quel
motivo che s’avvicinò, prendendo un periodico; non
ci fu
nemmeno bisogno di
sfogliarlo del tutto, sin dalle prime pagine apprese più di
quanto volesse
forse venir a conoscenza.
Lesse e lesse fino a saziare del
tutto la sua sete di sapere, senza tralascere il benché
minimo
particolare su quegli efferati omodici e su quell'uomo che sfidava ogni
legge dell'umana malignità, lasciando poi ricadere il
giornale
senza prendersi la briga di rimetterlo a posto. Perse invece tempo a
cincischiare con un altro, passando poi ad un altro ancora;
passò forse un’ora
ad andare avanti così, uscendo dallo studio e tornando sui
suoi
passi solo
quando si fu stancato. Percorse a ritroso quei corridoi con la stessa
aria
smarrita che aveva avuto in principio, fermandosi d’un tratto
in
mezzo al
disimpegno solo quando sentì un fruscio dietro di
sé. Si
voltò di scatto,
riacquistando una parziale ombra d’emozioni su quel suo viso
che
sembrava di
cera; gli occhi s’erano ridotti a poco più di due
fessure
per riuscire a
scrutare con più facilità fra quelle tenebre,
mentre la
mano vagava alla
ricerca di una possibile e improvvisata arma. Ma nulla parve muoversi,
nemmeno
le molteplici ombre che distinse maggiormente quando tornò
fra i
disimpegni
illuminati fiocamente. Era sicuramente stata una semplice suggestione,
la sua.
Ne era più che convinto. Scosse quindi il capo e riprese a
camminare, stavolta
conscio di ciò che stava facendo; e fu forse per quel motivo
che
tornò nelle
sue stanze, ritrovandosi a coricarsi nel letto e a lasciarlo solo
quando
vennero a svegliarlo il mattino dopo. Nemmeno ricordava esattamente
quando
avesse abbassato le palpebre, ma quel giorno si sentiva meno stanco di
quelli
precedenti. Che fosse a causa di quella visita?
A quel pensiero, gli occhi corsero
rapidi alla cassettiera poco distante da dove si trovava, tanto che si
ritrovò
a lasciar perdere temporaneamente la camicia che stava indossando per
avvicinarsi. Aprì uno dei cassetti, tastando un
po’ con le dita fino a trovare
ciò che cercava; sentì poi il click
d’apertura dello sportello abilmente
nascosto, rivelando il doppio fondo lì presente. La prese
con due dita per il
collo e la guardò, facendo oscillare il liquido al suo
interno prima di
storcere il naso: era quella la causa di tutto, era di quello e del suo
possessore che avrebbe dovuto liberarsi; e invece si ostinava a
conservare
l’uno e a non voler allontanare l’altro.
Si maledisse ancora
quando si ritrovò a stappare l’ampolla,
capovolgendola per tappare la bocca con
un dito. L’allontanò solo quando il polpastrello
si macchiò di vermiglio,
avvicinandolo poi alle labbra con aria disgustata. Chiuse gli occhi, lo
leccò;
diede un paio di rapide lappate, compiendo quella stessa azione altre
due volte
prima di riporre in fretta e furia l’ampolla al suo posto
quando sentì bussare.
Richiuse il cassetto, facendo poi un colpo di tosse per schiarire la
voce.
«Avanti», esordì, invitando
quell’inaspettato ospite ad entrare. Voltò giusto
di poco lo sguardo verso la soglia, ritrovandosi poi a sbattere
più volte le
palpebre più volte, come stupito.
Ad osservarlo a braccia
incrociate, e con un cipiglio tutt’altro che gioviale, si
trovava il suo amico
e fratello, che sembrava soppesare la sua postura con aria abbastanza
critica.
«Sembri star meglio, stamani», disse
tranquillamente lui, chinando lievemente
il capo in avanti a mo’ di saluto.
Il Lord produsse un piccolo suono
s’assenso, come se non volesse dargli né ragione
né torto. Doveva
soltanto comportarsi normalmente, tutto qui. «Le medicine che
porta Sir William
da Londra non le pago certo per nulla», riprese
semplicemente, in tono quasi di
scherno.
«Medicine, dici?»
ripeté
scettico. «Secondo me dovresti tenerti alla larga da
quell’uomo».
Entrò circospetto nella camera,
facendo vagare un po’ ovunque lo sguardo come se stesse
assimilando ogni
dettaglio. Di rado osservava il suo interlocutore, che si stava intanto
apprestando a darsi un’ultima sistemata. Infine si
lasciò andare ad un lungo
sospiro, continuando. «Dovresti partecipare più
attivamente alle serate
mondane, Joseph», gli consigliò, anche se in tono
di paterno rimprovero.
«Dovresti riprendere le tue solite attività,
lasciare più spesso questo posto
sperduto. Non puoi restartene confinato qui per il resto dei tuoi
giorni».
Joseph sospirò e si
passò una mano fra i capelli per ravvivarsi alcune
ciocche dietro alle orecchie, passando a sistemarsi il solino al collo
e a
comportarsi come se l’altro non avesse aperto bocca. Non ci
voleva di certo lui
a dirgli quelle cose, ne era ben consapevole. Si diede
un’ultima rapida
sistemata prima di voltarsi verso l’amico, lasciando
temporaneamente perdere il
kilt e i restanti abiti che avrebbe voluto riporre nel cassetto. Forse
più per
nascondere lo sportello che per vera necessità.
«Non ho tempo per certe cose,
Seamus», gli parlò con voce tranquilla, forse per
tentare in quel modo di
rassicurarlo. «Se non avessi dei compiti da svolgere uscirei,
davvero».
Che mentiva era palese, e
l’altro
non si fece scrupoli nel farglielo notare. «Non puoi andare
avanti così»,
ribatté. «Jason e tutti noi siamo preoccupati, e
nessuno dei tuoi domestici ha
il coraggio di dirti quanto tu sia cambiato», si
avvicinò, azzardandosi a
passargli un braccio intorno alle spalle sebbene vide Joseph restar
sorpreso
sia dal gesto che dalle parole. «Hai bisogno di svago, di
divertimento. Non hai
ancora l’età per lasciarti andare
così», lo condusse verso la porta, come se lo
stesse invitando ad uscire. «Hai bisogno di conoscere gente
nuova,
d’appassionarti ancora una volta a qualcosa. Una donna, ecco
di cosa hai
realmente bisogno».
A quella constatazione, Joseph oppose
resistenza,
allontanandogli il braccio di malomodo prima di scuotere il capo, come
se non
avesse mai preso in considerazione quell’alternativa.
«Sai
bene che non voglio
nessuna donna da quand’è successo,
Seamus»,
replicò lugubre, abbassando lo
sguardo come se non riuscisse più a sostenere quello
dell’altro.
«Sono passati anni,
Joseph. Comportarti così non servirà a farli
tornare indietro». Schiette ma
veritiere, quelle parole colpirono il Lord come una pugnalata al cuore.
Ed era
proprio quello a fargli male, accumulando ferita dopo ferita. Forse era
stata
proprio quella tragedia a spingerlo, seppur inconsciamente, ad adottare
Jason.
Con lui non ne aveva mai parlato, facendo in modo che anche i restanti
abitanti
della casa tacessero su quell’avvenimento. Un anno prima che
Jason entrasse
nella sua vita, difatti, lui sarebbe dovuto divenire padre. Era stato
sposato,
un tempo. Sua moglie, Elisabeth, l’aveva conosciuta
all’età di diciassette anni
ad un ballo in onore di un qualche nobile di cui vagamente
ricordava il
nome, a Londra. Vi si era recato con la famiglia dell’amico
Seamus, i McDougal,
e, vedendo quella bionda e fragile figura fra le altre dame, ne era
rimasto
inesorabilmente attratto.
Tutto era iniziato da un semplice
valzer insieme, poi da comuni incontri tempo dopo; erano convolati a
nozze in
pochi mesi, amandosi intensamente negli anni che seguirono. Avevano
provato ad
avere un figlio per un lungo periodo, prima che avvenisse quel miracolo
che li
aveva resi felici e impazienti dell’arrivo del nascituro.
Durante
la gravidanza,
il giovane Lord era rimasto quasi sempre vicino alla donna, sentendo il
cuore
sempre più colmo di gioia. Lui, a cui era stato detto che
non
avrebbe potuto avere figli, avrebbe ben
presto avuto un erede. Ma le cose si erano complicate poco
più
di sei mesi
dopo; il bambino voleva uscire anche se prematuramente, e il
medico di
famiglia aveva fatto tutto ciò che era in suo potere.
Elisabeth
era
morta a causa dell’emorragia, e a lui, che si trovava nel
salone
adiacente, era
stato comunicato da una delle domestiche che aveva assistito il medico
durante
il parto. Quasi non aveva voluto credere alle sue orecchie, quando gli
erano state dette quelle parole; l’aveva osservata smarrito,
con
quell’espressione da fanciullo ancora
presente in viso. Non aveva nemmeno vent’anni, quando
successe.
Persino il
conforto di avere ancora suo figlio gli era stato negato. Era morto fra
le sue
braccia quella sera stessa, non avendo i polmoni abbastanza sviluppati
per
poter respirare normalmente e con regolarità.
Quella
tragedia l'aveva segnato dentro. Dopo i funerali, non aveva voluto
vedere nessuno per giorni e giorni,
né tanto meno parlarci; non mangiava e non beveva, se ne
restava solo chiuso
nella camera matrimoniale, seduto al centro del letto, ad osservare il
vuoto con
sguardo spento. Gli ci erano voluti mesi per riprendersi almeno in
parte, e,
quando si era ritrovato quasi per sbaglio a passare accanto a
quell’orfanotrofio, quel bizzarro pensiero gli aveva
oltrepassato la
mente. Tra tutti i bambini lì presenti, la sua attenzione
era stata richiamata
proprio da quel moretto di sette anni o poco più; se avesse
avuto la
possibilità di crescere, aveva pensato il giovane Lord, suo
figlio sarebbe
potuto diventare così. Ed era stato quel pensiero a
spingerlo ad adottare
proprio Jason, imparando a volergli bene proprio come se fosse stato
davvero il
suo bambino.
Joseph scosse finalmente la testa per
scacciare quei tristi e amari ricordi, senza prendersi la briga di dare
una
risposta all’altro uomo che, fino a quel momento, non aveva
fatto altro che
osservarlo in silenzio. Si recarono entrambi ai piani inferiori, senza
proferir
parola nemmeno una volta. Il resto della giornata passò
così velocemente che
nemmeno se ne resero conto; entrambi si erano diretti verso i propri
studi,
rincontrandosi solo a cena insieme a Jason. Sentendo che qualcosa non
andava,
aveva provato ad intavolare con loro un discorso, ma venendo ignorato
aveva
deciso di concentrarsi unicamente sulla cena, in silenzio. Il Lord era
poi
tornato nelle sue stanze, incaricando parecchie ore dopo, senza
spiegazione
alcuna, una cameriera di chiamargli il vecchio cocchiere. E lei si
trovava a
dirigersi verso le camere della servitù, adesso, quasi
tremante.
Quando raggiunse la porta, la donna
esitò, facendosi
coraggio solo pochi attimi dopo. «Hamish?»
chiamò
intimidita, bussando leggera. Da dietro la porta si
levò un grugnito,
come se l’uomo presente all’interno di quella
stanza si
fosse appena svegliato.
Attese con il cuore in gola mentre si guardava intorno, lei, quasi
trasalendo
quando si ritrovò ad incrociare le iridi castane
dell’anziano cocchiere. I
lunghi capelli canuti erano sciolti ad incorniciargli il viso, segnato
dalle
rughe tipiche dell’età; sebbene gli occhi
apparissero
assonnati, inoltre,
conservavano ancora quell’aria vispa che l’avevano
caratterizzati sin da quando
l’uomo era giovane.
«Cosa ti porta qui a
quest’ora,
Giselle?» domandò infine lui, portandosi una mano
alla bocca per evitarsi di
sbadigliare. Osservò invece la donna, cercando di capire il
perché di
quell’espressione che aveva in viso. Sembrava apprensiva,
quasi impaurita,
tanto che continuava a guardarsi intorno come se temesse
d’esser seguita o
tenuta d’occhio. Perché si comportava
così, quella notte?
La risposta gli fu data in breve,
anche se la donna sembrò solo diventare più
timorosa. «Il... il Lord ha chiesto
di te», soffiò via con voce tremante, facendo
accigliare non poco l’uomo.
«Di me, dici?»
chiese conferma,
come se non credesse alle sue orecchie. La vide annuire energicamente,
prima che facesse qualche passo indietro per incitarlo a muoversi. Era
sempre
stata una donna goffa e inquieta, certo, ma quella notte sembrava aver
superato
il limite; sin da quando l’avevano presa a lavorare in casa
non aveva fatto
altro che tentare di svolgere al meglio il compito che le era stato
affidato,
sbagliando solo di tanto in tanto e venendo richiamata dalle cameriere
più
anziane. Ma quando si parlava del Lord diveniva ancor più
nervosa, come se lo
temesse. In molte avevano provato a rassicurarla e a dirle che la sua
era una
paura inutile, ma ogni qual volta glielo ripetevano lei non riusciva ad
abbandonare questo suo terrore. Eppure l’uomo non riusciva a
capire da dove
potesse provenire tale atteggiamento. Aveva assistito il Lord sin da
quando era
bambino, divenendo quasi la figura d’un tutore e
d’un secondo padre per lui
nonostante fosse solo un semplice cocchiere; era cresciuto come un
ragazzino
normale e per niente viziato, il suo nobile signore, data
l’educazione che il
genitore gli aveva impartito sin da piccolo. Perché avrebbe
dovuto incutere
timore a qualcuno?
Scosse la testa per schiarirsi i
pensieri, facendo appena un lieve cenno con il capo prima di seguire la
donna
lungo il corridoio. E quel via vai silenzioso fu colto di sfuggita da
una terza
persona che era appena uscita dalla biblioteca, e che si
ritrovò a sbattere
perplesso le palpebre nel vedere con quanta inquietudine sembravano
scambiarsi
le parole. In un primo momento il ragazzo quasi decise di non prestarvi
poi
molta attenzione. Ma quando si voltò e fece per tornarsene
nella sua camera, non
si mosse, gettandosi uno sguardo alle spalle. Si stavano allontanando
piano, e continuavano a mormorare tra loro. Chiuse e riaprì
gli occhi più
volte, prendendo in considerazione l’idea di seguirli.
Così fece, senza
aspettare oltre; strinse a sé il libro che aveva preso
pedinandoli silenzioso,
accorgendosi solo in un secondo momento che il corridoio che stava
percorrendo
era quello che portava alle stanze di suo padre. Un orrendo pensiero
gli
attraversò la mente, facendogli affrettare il passo; che
fosse accaduto
qualcosa? Che fosse peggiorato? Era per quel motivo che il cocchiere e
la
cameriera apparivano così ansiosi?
Non perse altro tempo a fare
domande a se stesso, attraversando quegli ampi disimpegni ricchi di
quadri e
ornamenti per arrivare allo studio del padre. Vide la cameriera
accennare
appena un saluto verso l’uomo prima di dileguarsi trafelata,
come se non
volesse restare lì. E il ragazzo approfittò di
quel momento, avvicinandosi
svelto nello stesso istante in cui l’anziano cocchiere
entrò nello studio di
suo padre. Istintivamente deglutì, senza capire il
perché di quella segretezza
con cui si era introdotto lì dentro; che cosa stava
succedendo, in quella casa?
S’affrettò, adagiando poi la
schiena contro il muro prima tendere le orecchie ed ascoltare, cercando
d’essere il più silenzioso possibile. Non
s’azzardò ad affacciarsi, limitandosi
solo a sentire ciò che avevano da dirsi.
«Mi ha fatto chiamare,
Milord?» la
voce dell’uomo si fece sentire mentre lui si torceva le dita,
forse solo perché
non riusciva a star fermo più che per nervosismo.
Osservò il retro della
poltrona sulla quale il suo signore era accomodato, vedendo appena una
sua mano
allungarsi verso la bottiglia di whisky presente sul tavolino.
«Te la sentiresti
d’intraprendere
un lungo viaggio, Hamish?» domandò in risposta il
Lord senza alcun giro di
parole, sfiorando con due dita il vetro.
L’uomo restò
esterrefatto,
ritrovandosi a sbattere più volte le
palpebre. «Perché questa domanda,
Milord?» chiese ancora, azzardandosi a fare qualche passo
avanti per
avvicinarsi alla poltrona, così da poter osservare il viso
del suo
interlocutore. Ma lo vide allontanare il braccio
dalla bottiglia ed alzarsi, voltandosi poi verso di lui con un vago e
lontano
sorriso dipinto sulle labbra. Un sorriso bizzarro, come non ne aveva
mai visti
da anni.
«Voglio che tu mi accompagni a Londra»,
rispose semplicemente il
nobile, aggirando la poltrona e avvicinandosi lui stesso, assumendo una
postura
quasi regale quando si fermò.
Hamish inclinò il capo di
lato, portandosi i capelli dietro alle orecchie prima di drizzare
la schiena. «Se posso, Milord, come mai questa
scelta?» s’arrischiò a chiedere
nuovamente, andando forse ben oltre di quanto volesse. «Non
poteva attendere
domattina per mettermene al corrente?» soggiunse poi,
tormentandosi un po’ le
mani.
Joseph scosse la testa, come se
quell’ipotesi non fosse fattibile. «Non voglio che
nessun altro, oltre te, sappia di questa partenza», disse,
osservandolo serio
con quegli occhi dal taglio a mandorla, abbastanza rari per uno
scozzese. «Non
voglio forzarti, data l’età, ma di te mi fido
ciecamente, Hamish».
Fu il silenzio a regnare, subito
dopo. Nessuno dei due proferì parola, come se stessero
aspettando il momento
giusto per farlo. E fu proprio un sospiro del cocchiere ad infrangere
quella
quiete, facendosi di poco da parte. «Farò come
desidera, Milord», disse infine,
chinando referenziale il capo prima di guardarlo con fare quasi severo.
«Ma le
chiederò il motivo, se lo rammenti».
Riuscì a strappargli un
piccolo
sorriso, così facendo. «Sempre pronto a fare la
parte del padre come tuo
solito, eh?» fece, socchiudendo di poco le palpebre mentre
tornava ad
accomodarsi sulla poltrona. «Partiremo all’alba, ti
ringrazio». E fuori da quella stanza, a quella
parole, il ragazzo - che aveva fino a quel momento origliato tutta la
conversazione avvenuta - socchiuse gli occhi, lasciandosi sfuggire un
sospiro
silenzioso. Dunque il padre voleva partire. Voleva partire per Londra
anche se
non ne capiva il motivo.
Jason s’allontanò
a passi felpati, onde evitare che il padre o l’anziano
cocchiere potessero
sentirlo. Avrebbe fatto finta di nulla, per il momento, senza dar ad
intendere
ciò che aveva udito; quando sarebbero partiti, avrebbe fatto
in modo di
seguirli a sua volta. Con qualsiasi mezzo a lui necessario.
[1]
Titolo
di una doujinshi di
Idea (Rin Seina/Houseki Hime) uscita il 30 maggio del 2007,
nonché seguito di
“Graceful Degradation”
Indica appunto l’animo del protagonista che, man mano che la
storia segue il suo corso, diventa sempre più fragile, quasi
deteriorandosi.
Messaggio
No Profit
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Farai felici milioni di scrittori.
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Capitolo 4 *** [ Atto IV › Inghilterra, 1888 ] Metamorphose ***
Un oscuro angelo_4
ATTO IV: LONDRA
› INGHILTERRA, 1888
METAMORPHOSE
[1]
Volgi lo sguardo al
cielo e osservi, attento;
torni poi a
guardare
la foglia, scoprendo
che il bruco
è divenuto farfalla.
Le
nuvole in quel cielo plumbeo, grigie e sfilacciate, minacciavano
un’insistente
pioggia, esattamente come nella stragrande maggioranza dei giorni
passati. Il
tempo non era affatto cambiato durante il lungo viaggio che lui,
signore della
tenuta di Beul an latha
[2],
aveva affrontato; solo di rado qualche timido raggio di sole filtrava
attraverso le coltri di nubi, rischiarando il paesaggio prima di venir
inghiottito ancora una volta.
Aveva preso quella decisione senza
avvertire nessuno, tanto meno il figlio o il suo caro amico.
All’insaputa di
tutti, domestici inclusi, aveva preparato lui stesso un bagaglio
leggero e
ordinato all’anziano cocchiere, che serviva la sua famiglia
da parecchi anni,
d’accompagnarlo in quella lontana traversata. Indossato un
pesante soprabito e
un cilindro, poi, aveva preso il vecchio bastone da passeggio che era
appartenuto a suo nonno ed era salito in carrozza, partendo alla volta
di
Londra. Se fosse stato più coscienzioso, avrebbe di sicuro
evitato il viaggio;
ma le parole che Sir William aveva pronunziato non avevano fatto altro
che
vorticargli insistentemente nella testa, non permettendogli di
conservare
quella poca pace che aveva nell’animo. E mentre i pensieri si
perdevano, lui
continuava a guardare con distratta svogliatezza fuori da quella
carrozza: quei
pochi cittadini presenti fra le strade avevano quasi tutti
un’aria divertita e
assorta, vivacità dovuta probabilmente anche al clima mite
nonostante fosse
autunno.
Si meravigliò non poco di
come fosse cambiata
Londra dall’ultima volta che l’aveva visitata; quei
piccoli negozietti che
ricordava sembravano aver acquisito un nome altolocato, come se
fossero
un marchio di garanzia per chi, nobile o borghese che fosse, ne
acquistava le
merci in esposizione. Signori e dame camminavano quasi fianco a fianco
con
piccoli orfanelli, sebbene né gli uni né gli
altri prestassero una reale
attenzione a tale vicinanza. Sembrava tutto nuovo, per lui. Era
attento
ad ogni minimo particolare, ad ogni più piccolo cambiamento
che si sarebbe
potuto scorgere. E la cosa lo turbava ed emozionava al tempo stesso; si
sentiva come un bambino che, per la prima volta, veniva
accompagnato dai
genitori
a vedere un nuovo mondo. Avrebbe voluto toccare tutto con mano,
comprare tutto
ciò che poteva permettersi. In quegli anni di
auto-reclusione nella sua stessa
casa, si era negato le bellezze che il mondo avrebbe con
così tanta cura potuto
offrirgli. Ma, ormai, era troppo tardi per recuperare. Ben si rendeva
conto
della sua situazione, non doveva dimenticarlo. Era come uno schiavo;
uno
schiavo lasciato però libero d’agire come meglio
credeva, purché lo facesse nei
limiti delle condizioni a cui era legato.
Forse furono proprio quei pensieri a
farlo sospirare affranto, tanto che si ritrovò a sporgersi
per aprire la
piccola finestrella che consentiva di parlare al cocchiere.
«Ferma la carrozza da
qualche parte, Hamish», esordì, dovendo fare un
piccolo colpo di tosse per non
rendere la voce troppo rauca o stridula. «Ho voglia di fare
due passi».
In risposta sentì prima il
nitrito
dei cavalli, forse simbolo che l’anziano aveva dato un
ennesimo strattone alle
briglie. «È sicuro, Milord?»
domandò lui, la voce ovattata dai tasselli di
legno che li dividevano. «Non credo sia il caso, date le
vostre condizioni».
«Portami lungo le rive del
Tamigi»,
continuò tranquillo il Lord, come ripensando alla loro
destinazione, senza
prestargli la minima attenzione. «Portami lungo il Tamigi e
ferma la carrozza,
per favore».
Sebbene il volto del cocchiere
avesse assunto un’espressione preoccupata e
tutt’altro che accondiscendente,
lui non contestò oltre, limitandosi semplicemente ad
eseguire gli ordini del
suo signore. S’udì il nitrito dei cavalli, che
aumentarono la loro andatura
dopo uno schiocco; il nobil uomo s’adagiò
nuovamente contro lo schienale dalla
morbida imbottitura, abbassando le palpebre per concentrarsi unicamente
sul
suono degli zoccoli sull’acciottolato. Voleva pensare che non
esistesse
nient’altro all’infuori di quello, voleva cercare
di cancellare tutto il resto
e fissare la sua mente solo su quel rumore familiare che in passato
l’aveva
accompagnato per lunghe ore. Gli era persino sembrato di riascoltare i
suoni
della foresta, il richiamo della pernice bianca o quel suono simile ad
un
uggiolio che emetteva la volpe rincorsa dai cani.
Non si accorse neppure che avevano
oltrepassato quei quartieri in cui si trovavano da parecchio tempo,
ridestandosi da quel suo bizzarro dormiveglia solo quando
sentì l’anziano
cocchiere annunciare il loro arrivo. Rialzò piano le
palpebre e gettò
un’occhiata fuori, ritrovandosi ad osservare le piccole
imbarcazioni ivi presenti
e lo specchio argentato che il fiume sembrava essere in quel momento.
Un’innocua pioggerellina aveva cominciato a riversarsi dalle
nuvole, creando
piccole onde e increspature quando toccavano quella superficie che
l’uomo stava
osservando. Non era ancora sceso dalla carrozza, ma aveva stretto una
mano
intorno al bastone come se si apprestasse ad impugnarlo per raggiungere
la
strada. Pochi attimi dopo, difatti, aprì la porticina che lo
separava
dall’esterno, respirando a pieni polmoni quell’aria
pura e fresca d’umidità che
non sentiva da tempo. Sorrise, forse inconsciamente; era la
libertà, quella?
«Ti ringrazio,
Hamish», disse
infine, voltandosi verso il cocchiere per rivolgere lui quel sorriso.
Mai come
in quel momento si sentiva vivo, l’uomo d’un tempo,
come se avesse subito una
regressione o una metamorfosi; e forse ciò era dovuto a quel
senso di benessere
che sembrava avvertire nell’aria.
«L’aspetto qui,
Milord», fece
pacatamente l’uomo, togliendosi la coppola che indossava per
chinare referenziale
il capo. «La prego solo di non restare troppo tempo sotto
questa pioggia. Non
fa affatto bene alla sua salute».
«Mio buon Hamish, sono solo
poche
gocce», rispose lui, per la prima volta dopo tanto tempo
quasi in tono
scherzoso. «Non aggraverà di certo la mia salute
passeggiare un po’».
L’anziano cocchiere
sospirò, sospiro
che sembrava rassegnato
e che sapeva di
tempi lontani. «Anche in questo siete diventato simile al
vostro compianto
padre, Milord», esordì lui con veemenza.
«La testardaggine non vi manca».
«E non è stata
forse questa mia
testardaggine a condurmi dove sono adesso, Hamish?»
domandò in risposta,
incamminandosi senza attendere una possibile replica. Come si era
prefissato
voleva godersi quegli attimi, voleva pensare che tutte le cose a cui
era andato
incontro non fossero mai accadute. Desiderava credere che quel lungo
periodo
che lo vincolava a quel patto di sangue si sarebbe concluso, che presto
avrebbe
ripreso il normale andazzo della sua vita senza più doversi
preoccupare di
nulla o del possibile regresso della sua malattia che per anni
l’aveva
logorato; bramava un ritorno ai tempi andati, ai tempi in cui suo
figlio
contava più di qualunque altra cosa; ardeva dalla voglia di
passare ogni attimo
della sua restante vita a far ciò che si era negato, senza
dover ostinarsi a
ricercare colui che, per lui, era divenuto una droga. Perché
era ciò che era,
anche se cercava di convincersi che non lo fosse.
Scosse la testa per
scacciare quei pensieri, sforzandosi ancora una volta di sorridere con
rinnovata tranquillità; in quel momento voleva solo far
finta d’esser lì per
suo capriccio, vivere l’illusione di trovarsi a Londra per lo
stesso motivo che
spingeva nobili come lui a recarvisi. Puro e semplice svago, un modo
come un
altro per passare il tempo.
Nemmeno tenne il conto delle ore che
se ne andarono nel vagare fra quei Café o quei negozi sulle
rive del Tamigi, né
tanto meno si fece problemi per la pioggerella che picchiettava
insistente sul
cilindro che gli copriva il capo. Si inoltrò nei vicoli, si
fermò alle vetrine
dei negozi di balocchi; rise persino ad una piccola rappresentazione di
marionette, probabilmente messa su per attirare un discreto pubblico al
circo
recentemente arrivato in città. Nessun londinese sembrava
preoccuparsi di
nulla, anzi: rare erano le persone che si guardavano intorno con aria
attenta,
forse temendo quel killer che la stessa Scotland Yard aveva
ribattezzato Jack
lo Squartatore.
Ne sapeva poco, di lui, il Lord.
Tutto ciò di cui era venuto a conoscenza l’aveva
letto sui giornali che il suo
amico e fratello Seamus McDougal aveva portato; e probabilmente fu
proprio il
nuovo pensiero su quell’assassino a fargli ricordare il reale
motivo per cui si
trovava lì e a farlo tornare sui suoi passi, così
da raggiungere nuovamente la
carrozza e partire alla volta del West End
[3]
,
dove l’abitazione che era la sua meta stanziava poco distante
da quei
distretti, apparendo quasi come una casa desolata che metteva
soggezione. E fu proprio quella che provò quando
gli si presentò dinanzi agli occhi quell’enorme
villa patronale, circondata da
un vasto giardino avvolto dal buio. Aveva congedato il cocchiere
dicendogli che
non sarebbe occorso attenderlo lì fuori al freddo, visto che
sarebbe tornato
solo a mattina inoltrata; non contava di certo di far così
tardi, ma,
conoscendo il nobile che l’aveva invitato a raggiungerlo fin
lì, prima
dell’alba non gli sarebbe di certo stato concesso
d’andarsene. Seppur avesse
dovuto fare i conti con la riluttanza dell’anziano uomo -
sempre stato, da quel
che ricordava, parecchio diffidente su tutto -, era riuscito a
tranquillizzarlo
e a convincerlo ad andar via senza preoccuparsi di nulla. Era un uomo
adulto,
sapeva ciò che faceva. Ma era da più
d’una decina di minuti che si trovava lì
fuori, quasi non avesse il coraggio d’entrare.
Brividi gelidi correvano lungo la
sua schiena, come se, in qualche modo, il suo corpo volesse metterlo in
guardia; in guardia da cosa, però, non ne era a conoscenza.
E, quando infine
prese una decisione, la porta che fino a quel momento aveva osservato
s’aprì
con un sinistro cigolio, facendolo quasi trasalire. Avrebbe anche
strillato se
non avesse avuto un minimo di contegno. Si ritrovò
istintivamente a deglutire,
accorgendosi solo in un secondo momento di dover abbassare lo sguardo
per
guardare in viso colui che era venuto ad aprirgli. Era un uomo molto
basso e
tarchiato, con degli spessi occhiali a nascondergli gli occhi piccoli e
stretti; dall’abbigliamento che indossava, poi, si sarebbe
potuto dire un
maggiordomo composto e d’aspetto ordinario. Fu persino certo
che lo stesse
scrutando con attenzione, quando le iridi d’entrambi
s’incontrarono.
«Sir William vi stava
aspettando,
Lord Dellinton», asserì formale, senza la
benché minima sfumatura nella voce.
«Prego, mi segua», e, detto questo, si fece da
parte per far accomodare l’uomo
nell’ingresso, richiudendo poi la pesante porta
d’ebano che produsse lo stesso
identico suono di quando era stata aperta.
Con il cuore in gola il signore di
Beul an latha si ritrovò a seguire quel suo cicerone,
azzardandosi di tanto in
tanto ad osservare di sottecchi l’arredamento. Pochi erano i
quadri appesi alle
pareti, più che altro vecchi affreschi risalenti ad epoche
ormai lontane;
antichi candelabri da parete rilucevano quasi sinistramente alla luce
del
doppiere che il maggiordomo reggeva - e che, tra l’altro, non
gli aveva
minimamente visto prendere -, sebbene sembrassero spenti da molti anni
a causa
dello stato della cera delle candele.
Oltrepassarono solo una grande
finestra dalle ante chiuse, le cui tende che non le nascondevano del
tutto
lasciavano intravedere parzialmente il giardino che circondava la
villa. Si
riusciva a scorgere ben poco data la scarsa luce ma, anche in quel
modo,
sembrava ben tenuto. «Da questa parte, prego», si
fece sentire, ancora una
volta, la voce atona del maggiordomo, distraendolo da quelle sue
contemplazioni.
Quando svoltarono l’angolo,
una
piacevole musica gli giunse armoniosa alle orecchie; fu quasi certo che
si
trattasse della Sonata in Re maggiore
[4]
di
Mozart, riproduzione indubbiamente fedele a quella del grande maestro.
Le note
erano chiare e concise, come se colui che stava dando vita a quella
melodia
fosse il reale compositore. Ipotesi che, naturalmente,
scartò subito, ma che
restò ancorata nella sua mente per tutto il tragitto che
separò lui e il suo
accompagnatore da quella che scoprì, in seguito, essere la
sala musica.
«Siamo arrivati, Lord
Dellinton»,
annunciò l’uomo, accostandosi alle due grandi
porte in legno d’ebano per
spalancarle quasi con grazia. Appena la debole luce proveniente dal
salone
inondò il corridoio, la musica cessò, rivelando
mille volti e occhi che
osservavano adesso nella loro direzione. Alcune donne dai visi nascosti
da
maschere e voluminosi ventagli avevano interrotto la loro ciarliera
conversazione, portando la loro più completa attenzione su
quel nuovo arrivato.
Persino gli uomini, di cui si riuscivano a malapena a scorgere gli
occhi a
causa delle nere maschere che anch’essi indossavano,
sembravano meravigliati e
seccati al tempo stesso da quell’ospite per loro inaspettato.
Chi non sembrava
per nulla sorpreso o infastidito era un giovane dal taglio corto e
sbarazzino,
che si era invece distinto regalandogli un sorriso. Aveva
anch’egli il viso nascosto,
e ciò rendeva la curva delle sue labbra ancor più
invitante e carnosa. Era
seduto su uno sgabello di legno, esattamente dietro ad un lucente piano
smaltato di nero; era dunque lui l’artefice di quella
melodia, melodia che era
quasi riuscita ad incantare il nobile come nessuna aveva mai fatto.
Forse
nemmeno quella suonata dallo stesso Mozart.
Quel fanciullo sconosciuto
allontanò
le mani dai tasti bianchi e neri, sfilandosi la maschera con un unico
movimento
fluido. Due occhi perfetti, tendenti quasi ad ambrato che ben
conosceva,
squadrarono con bislacco divertimento l’espressione che si
era dipinta sul
volto del nobil uomo, sorridendogli ancora una volta bonario.
«Lord Dellinton, devo
supporre»,
esordì con voce squillante, ma non per questo fastidiosa.
«Mo bhràthair
[5]
William
mi ha parlato molto di lei. Ne ha parlato a tutti
noi»,
soggiunse, enfatizzando soprattutto le ultime
parole. E forse fu
a quel punto che i precedenti timori dell’uomo si
manifestarono all’improvviso.
Era entrato da solo nella tana del lupo: aveva lasciato che quel suo
carceriere
tessesse con abilità quella tela, cadendovi preda.
Il Lord si sentì la gola
secca, resistendo
all’impulso d’indietreggiare e scappare. Avrebbe
solo reso la loro caccia più
eccitante, poiché sapeva cos’erano quegli esseri.
Gli sguardi che avvertiva su
di sé erano quasi famelici, o forse era solo lui ad avere
quell’impressione;
occultati alla vista com’erano, non avrebbe mai saputo dire
cosa nascondessero
realmente quegli occhi che l’osservavano. Cercò
quindi di dimostrarsi
tranquillo, azzardandosi persino a chinare cordialmente il capo.
«Sono onorato
di tutto quest’interesse nei miei riguardi,
davvero», rispose, con
l’intonazione più naturale che riuscì a
trovare nonostante la nota incrinata
che lui stesso sentì. «Ma devo ammetterlo,
dinanzi ad una tale bellezza che mi
mostrate, mi sento quasi fuori luogo».
Stava tergiversando, certo, ma in
qualche modo, a quelle parole, sentì una risata provenire da
un gruppo di dame
accomodate su un divanetto poco distante e si voltò,
incontrando due profondi
occhi d’un celeste cristallino.
«Un ospite davvero divertente,
non
c’è che dire», esordì colei
che aveva riso, chinando di poco il ventaglio
piumato per lasciar intravedere le labbra rosse e carnose.
«Questa volta la
scelta è stata sicuramente migliore delle
precedenti».
Il viso di lei aveva lineamenti
delicati ma decisi, quasi austeri, e i biondi capelli che glielo
incorniciavano
ricadevano delicati sullo stretto corpetto color panna che indossava e
che
metteva in risalto il suo corpo longilineo; pizzi e broccato rendevano
armonioso quell’abito, anch’esso d’un
tenue e spento colore. Aveva concesso un
sorriso al nobile, la donna, e nel farlo sembrava aver sciolto
l’iniziale
tensione che, fino a quel momento, aveva regnato in quella sala.
«Si accomodi
con noi sino al ritorno del nostro amato William, Lord
Dellinton», esordì
ancora una volta lei, con tono caldo e sensuale.
«Arthur ci delizierà con
la sua musica mentre attendiamo. Vedrà, le
piacerà da morire».
Il Lord deglutì
e, seppur riluttante
dopo le ultime parole udite, mentre andava ad accomodarsi su uno dei
piccoli divani
presenti, il basso e armonioso chiacchiericcio che era stato interrotto
riprese, quasi simile ad una bassa nenia che accompagnava ogni nota che
aleggiava
lieve. Cominciò a guardarsi intorno, leccandosi le labbra
che
sentiva secche, con tutta la discrezione possibile; mentre la sua
attenzione vagava
sui volti cinerei ed immoti che sotto quella luce soffusa acquisivano
sinistri
toni, i suoi pensieri continuavano a correre veloci, mulinando
nella
sua mente
come fiocchi di neve. Era giunto sin lì poiché
richiesto e desideroso di farla finita, ma colui che aveva
espresso tale desiderio non si era nemmeno degnato
d’attenderlo in casa. E ora
era lì fuori, chissà dove e a fare
chissà cosa, mentre lui aveva preso posto su
quel divano di velluto rosso, circondato da esseri che era stato ben
attento a
non catalogare umani. Quell’aspetto che possedevano, le
movenze con cui
compivano anche il più minimo gesto; no, quelle creature
erano esattamente
quelle che aveva pensato al principio: vampiri. Creature che
ammaliavano,
sconvolgevano e conducevano alla perdizione.
Con quei pensieri nella mente, non
osò nemmeno toccare i pregiati calici che, di tanto in
tanto, qualche domestico
s’apprestava a portare - ironicamente, a dir suo - su un
vassoio d’argento.
Osservava gli ospiti consumare i beveraggi, tuttavia: osservava quei
loro
sorrisi accondiscendenti, quel loro far oscillare con lentezza il
bicchiere;
ascoltava il limpido suono delle loro voci e delle loro risate
smaliziate,
tonalità diverse che andavano talvolta confondendosi
cristalline con le note
create dal pianoforte. Fece persino fatica ad accorgersi che la Re
maggiore era
divenuta la Sonata in Sol maggiore
[6],
tanto che si era perso in quelle sue osservazioni.
Si ridestò solo quando
sentì un
morbido peso prender posto accanto a sé e una carezza su una
guancia, che per
poco non lo fece trasalire per la freddezza. Stupì persino
se stesso per il suo
voltarsi lentamente, incontrando un paio d’occhi
d’un verde così intenso che
stentò quasi a credere che un colore simile esistesse. La
donna che aveva dinanzi
era giovanissima, forse poco più che ventenne; non indossava
più la maschera, e
ciò permetteva di distinguere maggiormente ogni lineamento
del viso. Pallida
come tutti i presenti, sembrava però esser
l’emblema più assoluto
d’un’innocenza dannata. Nel guardarla con
attenzione, difatti, l’uomo si rese
conto di non aver dinanzi a sé una donna, ma una ragazzina
poco più che
tredicenne; i seni erano ancora acerbi, il corpo non aveva acquisito la
forma
aggraziata e lussuriosa d’una giovane donna. Ma
l’aspetto con cui si mostrava
la faceva apparire più grande, conferendole una
sensualità che non le
apparteneva. E il pensiero di quanti anni potesse realmente avere
quella
creatura che stava osservando colpì la mente del nobile come
una folgore. In
nome di Dio, dov’era capitato?
«Sembra annoiato e in ansia,
Milord»,
la ragazza finalmente parlò, arrotondando il suono delle
consonanti con un
forte accento francese. «La nostra compagnia non vi
è gradita, forse?»
Deglutì più volte,
lui, quasi non
sapesse come poterle rispondere. Fece guizzare nuovamente gli occhi
scuri su
quella gracile figura, corrugando le sopracciglia per dar vita ad
un’espressione quasi addolorata; dimostrava pochi anni meno
di suo figlio, buon
Dio. Si sforzò di restare ancora una volta calmo,
concentrando la sua
attenzione sulla musica che sentiva ancora aleggiare. Quello, forse,
l’avrebbe
anche aiutato a distrarsi. «In realtà non vorrei
arrecare disturbo, piccola
miss», le rispose cortese, usando un tono quasi paterno.
«Non ho nessun diritto
di privarvi del vostro riposo».
Quando lei rise innocente e in modo
genuino, la cosa lo colpì parecchio, forse più di
quando gli afferrò un braccio
per stringerselo al petto. Sussultò un po’,
l’uomo, al freddo contatto che
s’avvertiva nonostante il velo dei vestiti, e non
poté far altro che sentirsi
peggio nel constatare che quel corpo non sarebbe mai cresciuto.
«È stato William a
parlarle della
nostra
natura, non è così?» chiese
ingenuamente lei, guardandolo con quei suoi occhi
profondi. Aveva dato un suono e una pronuncia diversa alla maggior
parte delle
parole, quasi si divertisse ad utilizzare il suo accento straniero.
Lord Dellinton annuì, non
riuscendo ad intavolare
un vero e proprio discorso.
Ad ogni
domanda che gli veniva posta, rispondeva esattamente allo stesso modo,
buttando
lì giusto qualche parola sconnessa quando se ne richiedeva
l’occasione; sebbene
quelle creature della notte fossero a conoscenza del fatto che lui
sapeva, non
avevano ancora provveduto ad eliminarlo. E forse era proprio questo a
metterlo
in guardia e a renderlo maggiormente sospettoso, attento ad ogni minima
mossa
che vedeva compiersi.
In realtà era raro che si
muovessero
o, se lo facevano, lui stentava semplicemente ad accorgersene. Persino
i movimenti delle mani del giovane di nome Arthur, che fino a
quel
momento aveva suonato ininterrottamente, sembravano quasi invisibili ai
suoi
occhi umani. Ma fu proprio in quel mentre che il ragazzo si
fermò, alzando di
scatto il viso per puntarlo sulla porta, come un cane che aveva appena
fiutato
la sua preda. E così fecero gli altri, subito dopo; una
marea di sguardi si
spostò in quella direzione, esattamente come quando era
giunto il nobil uomo
sin lì. Il primo ad entrare da quella soglia fu un distinto
gentiluomo, munito
semplicemente d’un bastone da passeggio: gettava nella sala
sguardi un po’
spaesati, quasi non capisse il motivo di quelle attenzioni su di
sé; qualche
attimo dopo fu il turno di una dama, di entrare, amorevolmente a
braccetto con
un giovane dalla lunga capigliatura dorata. Proprio lui,
invitò quel nuovo
arrivato a farsi avanti, sussurrando qualche parola - probabilmente di
conforto
- all’orecchio della donna. Quello sguardo ambrato si
soffermò poi sul volto
del signore di Beul an latha e, riconoscendolo, gli regalò
un ampio sorriso che
sembrò quasi risplendere in quel luogo di luce soffusa.
Lasciò andare la donna
richiudendosi
la porta alle spalle, invitando ancora una volta entrambi a farsi
avanti per
arrivare quasi al centro della sala. «Coraggio, non siate
timidi», li esortò,
quasi in tono divertito. «Ho invitato voi e la vostra dama
per festeggiare, Sir
Scott. Senza la vostra presenza la festa non ci sarebbe».
Un piccolo mormorio ilare, molto
simile ad una lieve risata, corse fra i presenti a quelle parole. Solo
Lord
Dellinton assisteva quasi allibito alla scena, come se non comprendesse
a pieno
ciò che stava accadendo o che sarebbe presto accaduto. Non
si rilassò nemmeno
quando vide la donna sorridere e l’uomo ricambiare il
sorriso, quasi vago e
sparuto, come se non si rendesse realmente conto di dove si trovava.
«Lei è stato troppo
gentile, Sir
William», replicò cordiale, e fu il suo turno di
prendere a braccetto la dama,
che sembrava far vagare semplicemente lo sguardo senza pronunciar
parola.
«L’abbiamo vista al club solo rare volte, e non
abbiamo potuto dialogare come
si conveniva. Questa serata sarà un’ottima
occasione per farlo».
«Una
ghiotta occasione», lo
corresse con falso tono di rimprovero, sempre con quel suo solito
sorriso
bonario. «Ma accomodatevi, prego. Le faccio
conoscere
i restanti
ospiti».
I minuti che passarono andarono
avanti così, tra scambi di convenevoli e saluti
referenziali; William non aveva
degnato il signore di Beul an latha nemmeno
d’un’attenzione, se si escludeva
quell’unica occhiata che gli aveva rivolto
quand’era entrato. Aveva bensì
interagito con gli ospiti, parlato con quello che aveva scoperto essere
il
fratello. Ma nemmeno per un attimo era sembrato interessarsi a lui,
nemmeno
quando uno di quegli ospiti che aveva portato prese posto accanto a lui
e alla
ragazzina che ancora stringeva il suo braccio.
Lord Dellinton aveva quindi deciso
d’intrattenere una conversazione con quell’uomo,
che sembrava dal canto suo non
curarsi affatto di come la sua accompagnatrice stava sollazzandosi.
Parlava e
parlava, perdendosi in discorsi che decantavano l’arte e la
musica d’un paese o
d’un altro; farneticava di argomenti
d’attualità, bofonchiando
sull’inettitudine della polizia londinese e su come quei
crimini sanguinosi
passassero tranquillamente sotto il loro naso. E faceva finta
d’ascoltare e
d’esser interessato, il nobil uomo, annuendo di tanto in
tanto. Anzi, non
potendo più soffrire altro, dopo un’interminabile
sproloquio decise d’alzarsi,
lasciandolo in compagnia della ragazzina che pendeva letteralmente
dalle sue
labbra. Fece per uscire da quella stanza
quando un urlo agghiacciante lo richiamò, facendolo voltare
di scatto; proprio
dove poco prima era accomodato, quell’uomo che corrispondeva
al nome di Scott
giaceva mezzo disteso sul divano, con la ragazzina seduta a cavalcioni
sulle
sue gambe. Vista da occhi estranei sarebbe potuta essere fraintesa,
quella
situazione. Ma per lui, che conosceva il vero aspetto di quelle
creature, fu
come fare i conti con tutto quello che fino a quel momento non aveva
voluto
vedere. La ragazzina aveva affondato le piccole zanne nel collo di quel
mal
capitato, e ciò che si sentiva, oltre gli strilli della
donna,
era quell’intenso
succhiare e deglutire senza sosta.
Lord
Dellinton si portò una mano alla
bocca,
reprimendo l’impulso di dare di
stomaco; si
costrinse invece a
guardare, come se volesse imprimersi quella scena nella mente. Quella
fanciulla, in quel momento, gli era apparsa per ciò che era
in
realtà: un semplice mostro che si nutriva degli sventurati
esseri umani che si ritrovavano sul suo cammino. E trattenne un conato
di vomito quando lei, con un gemito alto e compiaciuto,
sollevò
di scatto la testa e schiuse le labbra, ripulendosi sensualmente il
sangue che colava da esse con la punta della lingua.
«Sono desolato, signori», si fece
sentire William, sovrastando tutto quel baccano con fare
divertito.
«Temo che la nostra piccola Juliette abbiamo deciso
d’anticipare i
festeggiamenti».
Si levò una nuova risata, a
quelle
parole. «Dunque possiamo cominciare con
l’antipasto?» replicò un uomo che si
trovava poco lontano da lui, attendendo fremente una risposta.
William atteggiò giusto il
viso ad
un’espressione tranquilla e impassibile, sbattendo con
lentezza, per ben due
volte, le palpebre, quasi come se volesse accennare a qualcosa. Una
nuova
risata, più cristallina della precedente,
serpeggiò nella stanza quando il
ragazzo seduto al piano s’alzò, avvicinandosi al
fratello per cingergli i
fianchi con le braccia.
«Sei sicuro di non volerne un
po’,
mo bhràthair?» il suo fu più un
mormorio che una vera e propria domanda, e
strofinò di poco il viso contro il suo collo prima
d’adocchiare di sfuggita il
Lord. Gli sorrise, snudando le zanne; con le stesse carezzò
la pelle del
maggiore, senza distogliere lo sguardo da quegli occhi scuri che
sembravano
squadrarlo.
William piegò il capo di
lato, alzando un braccio per intrecciare le dita fra i capelli di
Arthur.
«Questo è per voi, adesso. Solo per
voi», replicò, poggiandogli poi l’altra
mano su un braccio per farsi lasciare, allontanandosi poi da lui per
far
schioccare appena le dita; fu un attimo, e le urla della donna
ripresero più
forti mentre lei tentava di scappare.
Gli ospiti che erano
apparsi così normali al signore di Beul an latha, stavano
mostrando adesso i
loro veri volti - mutando, avrebbe osato dire -, avventandosi senza
pietà su
quei corpi che martoriavano in più punti: c’era
chi alzava le gonne per
azzannare una coscia, chi si accontentava più semplicemente
del collo; chi,
invece, sembrava tranquillamente assorto ad incidere un esile polso,
lasciandolo stillare goccia per goccia. Intingeva un dito, lo portava
alle
labbra; lasciava che il viso si trasfigurasse in una maschera di puro
piacere,
compiendo quel rito a poco a poco. E il Lord era rimasto impalato
accanto alla
soglia, con la schiena contro la porta mentre osservava quel massacro
di carne
e sangue. Gli occhi azzurri sembravano ingigantiti dalla paura e,
forse, anche
da un qualcosa di molto simile all’eccitazione della caccia.
Erano anni che non
provava più quella sensazione e, il provarla per la scena a
cui stava
assistendo, gli fece storcere il viso per l’indignazione.
Quand’era diventato
così?
Fu solo a quel punto che il suo
carceriere gli si avvicinò, prendendolo per una mano per
esortarlo ad
allontanarsi da lì e ad avvicinarsi al banchetto.
«A te non faranno nulla, non
temere», mormorò con tono dolce e comprensivo,
quasi stesse parlando ad un
bambino. «Puniscono solo i malvagi».
«Tu sei folle, un sadico
pazzo»,
replicò immediatamente l’uomo, sconvolto e ad
occhi sbarrati. Ma riuscì solo a farlo ridere,
sentendo le sue mani sulle spalle.
«Erano complici
d’un omicidio e andavano
puniti, mio sciocco amante. E l’omicidio è sempre
un errore», gli mormorò divertito, alzandogli il
viso per fargli vedere meglio
la scena che entrambi avevano dinanzi. I volti degli uomini e
delle donne
lì presenti erano divenuti quasi simili a quelli di una
statua di marmo bianco,
solo di rado vedeva le labbra di costoro macchiate del vermiglio colore
del
sangue. Ancora una risata si levò dalla gola
di William, che si strinse maggiormente all’uomo per
continuare a sussurrare al
suo orecchio: «Fosti tu stesso a dirmi tali parole».
[1]
Prima
parte di una
doujinshi di Idea (Rin Seina/Houseki Hime) uscita il 29 dicembre del
2005, rilasciata
insieme a “Planetarium”.
Potrebbe indicare metaforicamente il cambiamento di pensiero
che sta avvenendo nella mente del protagonista, così come
potrebbe indicare il
cambiamento vero e proprio che viene messo in atto dai vampiri presenti
nella
villa.
[2]
Non
si può definire
esattamente come nome d’un territorio patronale.
In realtà significa “Alba” in gaelico
scozzese.
[3]
E’
il principale distretto di shopping e divertimento, ed
è incluso nella cosiddetta City of Westminster, uno dei 32
distretti di Londra
che paradossalmente ha anche lo status di città.
Il luogo più conosciuto della zona è Trafalgar
Square, mentre Oxford Street è
una strada per lo shopping famosa in tutto il mondo.
[4]
Fu
composta ed eseguita a Londra nel
1765,
ed è la quarta sinfonia dell’allora giovane
Mozart.
Si
apre con un Allegro per variare poi con un Andante e concludersi con un
Presto.
[5]
Mio
fratello, gaelico
scozzese.
I primi tre pronomi possessivi causano lenizione alla parola
“bràthair” (Fratello), alla quale si
aggiunge, appunto, l’ “H”.
[6]
Venne
composta tra l’estate e l’autunno del 1774, e fa
parte delle sei sonate per
pianoforte che Mozart scrisse.
Come quella in Re maggiore, anch’essa si suddivide in tre
tempi.
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Capitolo 5 *** [ Atto V › Inghilterra, 1888 ] Night in Gale ***
Un oscuro angelo_5
ATTO
V: LONDRA › INGHILTERRA, 1888
Piangi e ti disperi,
cancellando
tutto il
resto;
ma cadi e ti
rialzi
ad un passo
dalla
fine.
Le strade apparivano desolate, a
quell’ora della
notte.
Non un suono si levava ad infrangere
quel silenzio, rendendo la quiete quasi irreale. Camminando accanto a
quei due
giovani per quei distretti bui, sorpassando gente e persone che avevano
un'aria più losca dei suoi accompagnatori, persino al
signore di
Beul an latha
quel mondo
appariva etereo, quasi distaccato dalla comune concretezza alla quale
era
abituato. Le poche luci lì presenti erano così
offuscate e cupe da far sembrare
ancor più fattibile quella sensazione, tanto che, mentre
continuava ad
avanzare, il gelo e l’angoscia avevano cominciato a farsi
sempre più spazio nel
suo animo.
Avevano lasciato la ricca villa non
più d’un’ora addietro, uscendo insieme a
quegli altri ospiti. Non avevano preso
strade simili, separandosi; lui era salito in carrozza con Sir William
e il suo
giovane fratello, osservando l’allontanarsi delle restanti
creature per quanto
gli era stato concesso. L’unica a degnarlo di una vera e
propria attenzione era
stata la ragazzina di nome Juliette, che gli aveva rivolto un sorriso e
mostrato le zanne prima di scomparire. In religioso silenzio, poi,
quella
carrozza era partita; si erano fermanti non molto lontano dal East End [2],
un quartiere che il nobil uomo non
aveva mai visitato per ovvi motivi. Era lì che si
concentravano i più poveri
fra i distretti di Londra, e sembrava, d’altronde, che fosse
in quella zona che
il serial killer agisse. Adesso si trovavano a vagare proprio da quelle
parti,
ma l’unico che temeva qualcosa era lui. Non lo dava a vedere
a causa del suo
orgoglio, anche se faceva continuamente guizzare gli occhi da una parte
all’altra. Non aveva, inoltre, osato chiedere il
perché di quella sosta e il
loro andare a piedi, guardandosi da solo le spalle poiché
sapeva che di quegli
esseri non c’era da fidarsi.
Si ritrovarono ben presto a svoltare
in un vicolo, dove vaghi suoni e rumori gli giunsero alle orecchie:
risate
sguaiate, musica proveniente probabilmente da una tavernetta da quattro
soldi;
riuscì persino a distinguere l’odore del piscio e
del liquore annacquato,
storcendo il viso in una smorfia per il tanfo. Vide poi, qualche attimo
dopo, i
primi moribondi gettati ai cigli delle strade o adagiati contro i muri,
sudici
quanto il posto che li circondava se non di più. Bambini dai
vestiti
logori frugavano fra le vesti dei sicuri cadaveri, scappando
poi veloci con
il misero bottino ottenuto. Non più di qualche sterlina,
molto probabilmente, ma
che per loro
sembrava equivalere anche a troppo.
Lord Dellinton si perse negli occhi di
un uomo -
stranamente distinto, dato il luogo in cui si trovavano - che gli
passò accanto e distolse subito lo sguardo,
adocchiando solo di sfuggita i volti marmorei dei suoi due
accompagnatori:
sembravano l’uno più indifferente
dell’altro, come se quelle fossero cose che
vedevano ogni singola notte. Fu a quel punto che capì il
motivo per cui, forse,
si trovavano lì. Dovevano sfamarsi e l’avevano
portato a caccia. Si tenne per
sé una nuova domanda, continuando a seguirli senza proferir
parola. Non
sembravano nemmeno molto propensi alla conversazione, in quel momento.
Quando i due giovani si fermarono,
trovando le loro vittime, lui guardò ancora una volta
altrove per non vedere quello sfacelo; gli
era
bastata la scena a cui aveva assistito in casa per fargli comprendere
quel
perverso meccanismo. Un pensiero lo fulminò nel sentire
comunque quel succhiare
e deglutire e gli ultimi aneliti di vita di quel povero disgraziato:
anche
quando era lui a fare la parte del cibo quel vampiro aveva in volto
quella
stessa espressione? L’aveva vista solo di sfuggita, ma sul
suo viso aveva letto
un qualcosa paragonabile solo alla lussuria. Era questo ciò
che provavano i
vampiri nell’uccidere? Un qualcosa di simile alla sensazione
che derivava
dall’atto sessuale? Il solo rifletterci gli fece arricciare
ancora una volta la
punta del naso, cercando inoltre di resistere all’impulso
d’allontanarsi per
scappare via. Non aveva la benché minima idea di dove si
trovasse; sarebbe
stato solo preda di poco di buono, dato il ricco modo in cui era
vestito.
Trasalì quando
sentì una mano su una
spalla, ritrovandosi ad osservare gli occhi verde ambra che
appartenevano al
più giovane dei due. L’altro si stava ancora
nutrendo, cingendo la sua vittima
in un abbraccio letale e possessivo. «Sei ancora convinto che
questo
nostro modo d’agire sia sbagliato?» gli
domandò con voce sicura, senza la
benché minima traccia di quel sadico divertimento che
sembrava caratterizzare
invece il fratello maggiore.
L’uomo non rispose, ma
s’affrettò a non guardare oltre quelle iridi
ferine. Nemmeno
il
giovane disse altro, come se non gli fosse mai interessata una vera e
propria
risposta; tornò invece accanto al fratello, lasciando il
signore di Beul an
latha ad attendere non molto distante. Fu solo quando lasciarono quei
vicoli e
salirono nuovamente sulla carrozza - il cocchiere li aveva attesi fin a
quel
momento - che il Lord riacquistò quel minimo di calma e
razionalità che lo
caratterizzavano.
Si sedette su quel morbido sedile
dopo che si furono accomodati gli altri due, attendendo ancora una
volta che
partissero alla volta della residenza che occupava lì a
Londra. C’era un
qualcosa che per lui non quadrava, nell’aria. Se fossero gli
sguardi o il
silenzio di William e Arthur non avrebbe saputo dirlo con certezza
nemmeno lui.
Fatto stava che, quando arrivarono - poco prima che scendesse per
lasciarsi
finalmente alle spalle quella notte -, le parole che il vampiro
più grande gli
rivolse lo raggelarono.
Si fermò con una mano su uno
sportello e si voltò, cercando di dare un’aria
saccente e distaccata
all’espressione dipinta sul suo viso. «Perdonami,
cosa hai detto?» chiese,
fingendosi il più cordiale possibile. Ma
l’occhiata che gli venne rivolta
fu ben diversa dalle solite a cui era abituato. Appariva fredda,
inespressiva,
come se ad osservarlo fosse una statua di marmo.
«Prendi
ciò che ti occorre
senza farti vedere da nessuno e torna indietro»,
ripeté William, paziente
nonostante l’espressione. «L’incontro che
potresti fare in casa potrebbe non
piacerti».
«Che mucchio di
sciocchezze»,
replicò Lord Dellinton, senza prestargli altra attenzione.
Per quella sera ne
aveva avuto abbastanza.
«Non sono sciocchezze, te ne
renderai conto tu stesso», parve protestare ancora una volta
William, senza
nessuna sfumatura nella voce. Il suo volto lasciava intendere solo una
vaga
cortesia: non c’era nient’altro che rivelasse
ciò che lui, all’interno di
quella casa, aveva avvertito.
Il signore di Beul an latha
scostò
la mano dallo sportello e si voltò verso entrambi,
osservando prima il minore
per appuntare poi la sua totale attenzione sul viso del maggiore.
«Voglio che
tu mi lasci in pace», quasi ordinò, come se quello
potesse servire ad essere
ascoltato.
«Non lo vuoi davvero,
altrimenti non
saresti venuto sin qui», ribatté immediatamente
l’altro, accavallando
disinvolto le gambe.
«Sono venuto per dirti
addio».
«Quanto sei sciocco a
convincerti
che sia così», fece ancora il vampiro, gettando un
rapido sguardo al fratello
che sorrideva come se fosse divertito. «Sei venuto
perché non sei riuscito a
starmi lontano».
Lord Dellinton scosse di poco il
capo, rivolgendogli poi uno sguardo risoluto e ricco di mille emozioni.
«Io
rivoglio la mia vita», replicò solenne, riuscendo
solo a strappare una piacevole
risata ad entrambi. I lineamenti del viso di William si erano persino
addolciti.
«Ancora non ti sei reso conto
che
non hai più una vita da anni, ormai?»
s’intromise nel discorso Arthur,
alzandosi per scendere le scalette della carrozza e avvicinarsi al
Lord. «Mo bhràthair te l’ha rubato tempo
addietro, è inutile ostinarsi».
Joseph scosse ancora una volta il capo,
indietreggiando verso l’entrata
mentre non perdeva di
vista nessuno dei due. «State mentendo entrambi»,
dichiarò, forse più per
convincere se stesso che accusare loro. Ma una nuova risata si fece
sentire,
prima che fosse William a parlare ancora una volta.
«E che
bisogno avremo di
farlo?» chiese, scrollando di poco le spalle come se nulla
fosse.
«Perché siete
vampiri».
«Non tutti mentiamo, mio
sciocco
amante».
«C’è
persino chi dice che non
siamo
affatto bravi», soggiunse il minore, cominciando a girare
intorno al moro come
una tigre che si preparava a balzare sulla sua preda. Ben presto
anche William scese dalla carrozza, raggiungendo gli altri due
per
guardarsi distrattamente intorno. Faceva vagare lo sguardo in ogni
dove, quasi
con svogliatezza, soffermandosi giusto per pochi attimi sul paesaggio
che li
circondava per tornare poi a guardare il giovane fratello e il nobil
uomo.
Il sorriso non aveva abbandonato il
suo volto, anche se quello stesso sorriso rassomigliava ad uno
derisorio o di
scherno. «Continui ad aggrapparti ai tuoi ideali come se
valessero ancora
qualcosa», buttò lì, sbottando per la
prima volta. Nonostante apparisse
tranquillo, difatti, dalla voce sembrava quasi indispettito. Non aveva
mai
sentito quel tono, Lord Dellinton, tanto che si ritrovò a
deglutire anche non
volendo. Il suo viso però ostentava ancora
quell’espressione spavalda e fiera,
un’espressione che l’aveva sempre caratterizzato.
«Anche tu avrai avuto i tuoi
ideali,
un tempo», replicò, ignorando la rapida occhiata
che gli venne lanciata dal
minore dei due. «Fatico a credere che un ragazzo come te
fosse già così».
Non ebbe nemmeno il tempo di
accorgersene, subito dopo, che sentì le mani
di William afferrarlo per il
solino che aveva alla gola, venendo quasi issato da terra mentre lo
sguardo
chino si perdeva in quegli oscuri oblii che erano adesso gli occhi del
castano.
«Se tu fossi nato nell’epoca in cui sono nato io
non parleresti affatto in
questo modo», ribatté, forse rabbioso.
«Ho veduto la prima alba del tuo paese [3],
la
ribellione alla Corona [4]
e
persino la sconfitta dei giacobiti secoli dopo. Meglio tacere su cose
che non
conosci», disse ancora, mostrandogli senza remore le zanne.
«Ora vai in casa,
se proprio lo desideri. Ma ricorda che ti ho messo in
guardia».
Lasciò andare la presa solo
quando
sentì una mano del moro posarsi sul suo avambraccio, vedendo
la sua bocca
muoversi senza emettere suono, come se non avesse voce. Si accorse solo
in quel momento
d’essersi fatto guidare dalla rabbia e di aver stretto
troppo, rischiando quasi
di strozzarlo. Ma non fece una piega, limitandosi ad osservarlo mentre
si
massaggiava la gola e tossiva, indietreggiando. Senza perdere altro
tempo, poi,
Lord Dellinton diede loro le spalle e si precipitò dentro,
lasciandoli lì ad
osservare la sua figura che scompariva.
Guardandolo ancora con la coda
dell’occhio, Arthur si avvicinò al fratello
maggiore, assumendo quasi un
cipiglio bambinesco. «Pensavo che ti fossi deciso a porre
fine a tutta questa
pagliacciata», asserì, come se fosse vagamente
irritato. «Quell’uomo ti ha
rubato molto più tempo del previsto».
Con lo sguardo ancora perso in
direzione della casa, William arricciò appena le
labbra per dar vita ad
un’espressione contrariata. «Non c’era
bisogno che fossi tu a ricordarmelo,
Arthur», rispose, in tono quasi dolce nonostante il viso
contratto in una
specie di smorfia. «Ho intenzione di chiudere la questione
stanotte stessa, non
temere», soggiunse poi, voltandosi verso di lui per
sorridergli in un
lampeggiar di zanne. «Ma dovrai fare anche tu la tua
parte».
«Aspettavo soltanto che tu me
lo
dicessi, mo bhràthair», ribatté,
tornando ad assumere quella vaga
tranquillità che sembrava far da pilastro portante a tutto
il suo essere.
«Bada a non lasciarti sfuggire
l’occasione», gli ricordò immediatamente
il maggiore, serio. «Deve essere sul
punto della disperazione, e io ho lavorato troppi anni per arrivare
fino a
questo momento».
«Andrà tutto come
stabilito, non
temere».
Nessuno dei due disse altro o
aggiunse qualcosa, poi. Si limitarono solo ad avanzare in direzione
della
residenza dopo aver chiuso lo sportello e fatto un rapido cenno al
cocchiere,
che chinò brevemente il capo prima di spronare i cavalli a
partire. Lo
seguirono con lo sguardo finché la carrozza non
sparì del tutto dalla loro
vista, attraversando il piccolo giardino per giungere alla porta.
Proprio all’interno di quella
casa,
frattanto, v’era chi si affaccendava in silenzio e frugava in
ogni dove, quasi
fosse alla ricerca di qualcosa. Sembrava agitato e frettoloso, anche se
di
tanto in tanto non mancava di gettare uno sguardo fuori dalla finestra
posta a
lato della stanza, quasi a ridosso del muro. Sospirò di
sollievo quando trovò
il tanto agognato oggetto della sua ricerca, infilandosi in tasca
quella
piccola ampolla prima d’attraversare l’ampio
salone. Si sarebbe dapprima
disfatto di quella una volta per tutte, ponendo così fine ad
una parte della
follia che lo stava lentamente consumando. Ma si fermò poco
lontano
dall’ingresso quando vide una figura accucciata accanto al
camino,
riconoscendola quando le fiamme guizzarono creando riflessi arancioni
sui suoi
capelli, illuminandogli anche il viso.
«Jason?»
chiamò sorpreso, quasi
credendo d’essere impazzito. Suo figlio non sarebbe dovuto
trovarsi lì, ma ad
Inverness. Che ci faceva così lontano da casa? Quella doveva
senz’altro essere
una visione mostratagli dalla sua follia, non poteva essere altrimenti.
Dovette
però ricredersi quando lo vide voltarsi, incontrando quegli
occhi azzurri nei
quali danzavano, rispecchiandosi, le fiamme.
Come un bambino colto sul fatto a
compiere una marachella, Jason abbassò il
capo non appena incrociò lo sguardo
del
genitore, osservando il pavimento con fin troppo
interesse. Non
aveva
il coraggio d’alzare il viso, forse per non vedere
l’espressione sbigottita e
al contempo infuriata che segnava il volto del tutore. Era la prima
volta, in
fondo, che s’allontanava così tanto da casa senza
nessuno con sé; la residenza
era riuscito a trovarla solo perché, negli anni passati, si
erano recati a
Londra per diversi eventi, altrimenti non avrebbe mai potuto
arrischiarsi ad
intraprendere quel viaggio. Montando in sella al suo cavallo, difatti,
aveva
lasciato a sua volta il vecchio maniero per seguire il padre, dovendo
sostare
più volte in locande o taverne per rifocillare sia se stesso
che il suo
destriero. Provare a raccontare quel suo vagabondare al tutore,
però, non
sarebbe servito a nulla; probabilmente avrebbe solo fatto valere la sua
autorità paterna, ammonendolo per quell’atto tanto
stupido quanto sconsiderato.
«Che cosa ci fai
qui?» gli venne
chiesto infine, ma non osò comunque alzare lo sguardo.
Il ragazzo si strinse solo un
po’ nelle spalle,
come se si vergognasse a rispondere. «Ecco, io...»
provò ad articolare qualche
parola, forse tentando nel contempo di metter su una scusa abbastanza
plausibile. Ma nemmeno lui sarebbe stato in grado di spiegare
ciò che lo aveva
spinto a seguire il moro fin lì, quindi la scelta migliore
fu quella di restare
ancora una volta in silenzio. Sentì i passi del tutore
giusto
qualche attimo dopo, ritrovandosi a sussultare come poche sere addietro
quando
sentì entrambe le sue grandi mani sulle spalle.
«Devi andartene da qui,
Jason», asserì Lord Dellinton, accorato ed
imperativo al tempo stesso. «Devi andartene
subito».
Forse fu proprio quel tono sparuto a
dargli il coraggio d’alzare il viso,
rispecchiandosi in quei pozzi
d’onice che, forse anche a causa delle fiamme, sembravano
rilucere
sinistramente. Non capì il perché di quelle
parole, sentendo però la stretta
aumentare; che avesse avuto ragione nel credere che il padre stesse
nascondendo
qualcosa a tutti loro? Già l’esser partito senza
dir nulla non lasciava spazio
a fraintendimenti.
«Perché dovrei
farlo,
m’Athair?»
riuscì finalmente a domandare, sentendosi come se si fosse
tolto un peso. «Cosa
sta succedendo? Cosa vi sta succedendo?»
Gli occhi di Lord Dellinton
guizzarono serpentini ovunque, come se distogliendo lo sguardo avesse
potuto
eludere la domanda. Ma ben sapeva che non era così. Suo
figlio non era affatto
stupido. «Ti racconterò tutto, te lo
giuro», esordì poi, aumentando la presa sulle
sue spalle esili. «Ma per adesso lascia questa residenza, te
ne prego». Detto
ciò allontanò le mani, lasciando ricadere le
braccia lungo i fianchi per
avvicinarsi al caminetto acceso.
Il ragazzo volse lo sguardo verso di
lui e l’osservò fissare le fiamme, contemplarle
con una luce di follia che
quasi gli brillava negli occhi azzurri. Restò interdetto per
quel modo di fare:
mai come in quel momento, l’uomo che stava osservando non gli
sembrava affatto
il tutore con cui era cresciuto. «M’Athair,
perché dite tali cose?» domandò
insistente, provando ad avvicinarsi. Ma lo vide infilare una mano in
tasca ed
estrarre una piccola ampolla, facendo oscillare lentamente il liquido
rossastro
al suo interno.
Joseph si voltò verso di lui,
sorridendogli senza la benché minima traccia
d’emozione. «Perché ho intenzione
d’infrangere il patto stretto con un angelo delle tenebre,
figlio mio», gli
rispose semplicemente, senza che quella vena di pazzia avesse
abbandonato
quelle polle cerulee.
Jason sbatté le palpebre con
fare perplesso,
tentando di dire qualcosa. Ciò che lo fermò non
fu lo sguardo del genitore,
bensì il gesto che fece subito dopo: chiuse la mano intorno
all’ampolla dopo
averla guardata un’ultima volta, gettandola poi fra le
fiamme. Le stesse ebbero
un guizzo e un fremito, come se avessero preso vita, ritraendosi poi
all’interno del caminetto prima d’esplodere in
lingue di fuoco, quasi d’un
cobalto tendente al violaceo. Boccheggiò, il ragazzo, non
credendo ai propri
occhi. Contrariamente a Lord Dellinton, che aveva assistito alla scena
senza
battere ciglio. Proprio lui si voltò ancora una volta verso
il giovane,
facendogli rapidamente cenno di seguirlo.
Vedendo che non rispondeva, fu
lui stesso ad avvicinarsi, afferrandolo per un braccio per trascinarlo
via con
sé. «Se proprio non vuoi andartene da solo
dobbiamo affrettarci», esordì di
punto in bianco, in tono spiccio. «Non riusciremo ad andare
troppo lontano,
altrimenti».
«M’Athair,
cosa...?» provò a
chiedere il ragazzo, ripresosi parzialmente, ma ottenne solo risposte
vaghe
mentre attraversavano il salotto e si dirigevano verso le cucine,
passando per
il corridoio secondario dov’erano situate le stanze dei
domestici. La maggior
parte erano vuote, per il momento, ma una era occupata dal vecchio
cocchiere;
dovettero quindi fare più silenzio possibile mentre
passavano, affrettando il
passo solo quando non furono a portata d’orecchio. Si
ritrovarono ben presto ad
uscire dalla porta delle cucine, collegata con il giardino che
attraversarono
immersi nella stessa quiete di poco prima.
Il ragazzo continuava a non capire
lo strano comportamento del tutore mentre si lasciavano alle spalle la
residenza ma, d’un tratto, furono entrambi costretti a
fermarsi. Dinanzi a loro
si trovavano due figure, entrambe elegantemente vestite e
d’aspetto
aristocratico, differenti solo nei tratti del viso e poco altro.
«Sir... Sir William?» chiamò
dopo aver
riconosciuto una delle due figure, ma una mano del padre
l’afferrò per un braccio e lo fece indietreggiare
di malo modo, come se volesse
metterlo al sicuro da un qualche pericolo.
«Vattene, Jason»,
gli sussurrò Joseph,
in tono accorato e spaventato. E forse fu proprio quello a convincerlo,
indietreggiando rapido mentre provava comunque a far vagare lo sguardo
dall’uno
all’altro senza comprendere la situazione.
«Quasi stentavo a credere che
mi
avresti reso le cose difficili», si fece sentire la voce
pacata del biondo, le
cui parole erano rivolte a Lord Dellinton, che l’osservava
con sfida. «Pensavo
d’averti in pugno, ormai».
«A quanto pare ti
sbagliavi»,
ribatté prontamente con la medesima voce,
indietreggiando a sua volta per
raggiungere il ragazzo. «Se ti bruciassi, succederebbe la
stessa cosa che è
accaduta al tuo sangue?» domandò poi, quasi in
tono sarcastico.
William arricciò il naso
in una smorfia, lasciando ben intravedere quanto l’esser
venuto a conoscenza di
ciò che aveva fatto lo irritasse profondamente. Senza
parlare, gli si avvicinò,
fermandosi solo quando fu a pochi passi da lui prima
d’allargare di poco le
braccia, quasi stesse invitando l’uomo a colpirlo.
«Allora fallo, se è vero che
vuoi liberarti di me», disse semplicemente, come se la cosa
non lo sfiorasse
minimamente nonostante l’espressione del viso. «Ma
so per certo che non
parleresti così, se ti privassi di ciò che ti
è più caro», sussurrò
sibillino,
quasi in un tono velatamente minaccioso.
«Di cosa diavolo
stai...» cominciò
l’uomo, ma un urlo di dolore interruppe le sue parole. Lord
Dellinton si voltò
di scatto, sgranando gli occhi esterrefatto quando le sue polle scure
si
posarono su quella scena: poco lontano da lui si trovava Jason, tenuto
immobile
per i fianchi dall’esile braccio di Arthur. Il volto di
quest’ultimo era
nascosto nell’incavo del collo del ragazzo, la cui bocca era
ora spalancata in
un grido senza voce; gli occhi, di solito d’un azzurro
iridescente, erano vacui
e inespressivi. Perdeva copiosamente sangue da un’arteria
lacerata, dove ben si
riuscivano a scorgere le zanne appuntite del vampiro, macchiate di
vermiglio.
«Jason!»
esclamò Joseph, sconvolto,
correndo verso di loro per scostare con un gesto brusco Arthur che,
contrariamente a ciò che si sarebbe aspettato, non fece una
piega. Fu invece
lui stesso a scansarsi maggiormente, leccandosi le labbra mentre li
osservava
con un vago sorriso ad illuminargli il volto. Troppo agitato per
badargli, Lord
Dellinton non gli prestò la benché minima
attenzione, chinandosi in terra per
stringere a sé il corpo del figlio adottivo. I profondi
occhi azzurri di lui
erano nascosti dalle palpebre, abbassate e lievemente tremanti; la
bocca, dalla
quale scorreva all’angolo un finissimo rivoletto di sangue,
era schiusa per dar
vita a respiri irregolari e frammentati. Sembrava che anche il solo
farlo gli
provocasse dolore, data l’espressione dipinta sul suo viso.
All’uomo tremarono le mani, a
quella
vista. In ginocchio su quella strada lastricata, dove la pioggia caduta
ore
addietro aveva reso lucida la pavimentazione, sentì anche i
suoi occhi
inumidirsi di lacrime.
Non di nuovo,
pensò angustiato, non
di nuovo, per l’amor del
Cielo.
Non voleva vedere nuovamente suo
figlio spegnersi fra le sue braccia. Avrebbe preferito morire con lui,
piuttosto che continuare a vivere con quel nuovo dolore nel cuore. Con
delicatezza, quasi temesse che anche il minimo tocco potesse fargli del
male,
sollevò piano il capo del ragazzo, adagiandolo attentamente
sulle sue cosce. Spasmodico
cominciò a passargli delicatamente le dita sulle guance,
sulle labbra, fra i
capelli mori quasi completamente fradici di sudore. Umidità
e sangue. Questi
gli unici odori che l’uomo sentiva.
«Jason, Jason», lo
chiamò ancora, in
un rauco sussurro spezzato. «Rispondimi, figlio
mio». Ma il
ragazzo non riusciva a parlargli, muoveva solo la bocca senza emettere
suono. E ciò
non fece altro che
angustiare maggiormente l’uomo, che gli premette il palmo
d’una mano sul collo
per tentare d’arrestare l’emorragia.
Sentì il calore del sangue contro la
pelle, quello stesso liquido vermiglio scorrergli fra le dita; e i
respiri del
giovane erano sempre più irregolari, quasi gli mancasse il
fiato. «Perché lo hai fatto!»
strillò fuori
di sé, rivolto al più giovane dei due vampiri.
«Che ragione avevi di farlo!»
William si strinse appena nelle
spalle, come se l’asprezza delle sue parole per lui non
avesse alcun peso o senso.
Sembrava perfettamente tranquillo. «Perché forse
in questo modo non farai cose
stupide», rispose infine, con semplicità inaudita.
«È mio figlio!»
strepitò
Joseph,
accalorato. «Mio
figlio, dannazione!» Non riusciva a credere che
l’avesse
lì, agonizzante fra le sue braccia, e che l’unica
cosa che riuscissero a fare
quei due fratelli fosse solo guardare. In un impeto d’ira si
issò - dopo aver sdraiato
in terra il ragazzo - quasi in un unico movimento, scattando verso
Arthur per
afferrargli senza riguardi il collo con una mano, come se
quell’unico gesto
potesse servire realmente a qualcosa. «Se lui
muore», cominciò, in un sibilo
rabbioso «non mi darò pace. Troverò il
modo d’ammazzare entrambi».
Il minore lo guardò pacato, a
quelle
parole. Non tentò di liberarsi dalla presa, bensì
si limitò semplicemente a
posare una mano sulla sua. «E se ti dicessi che non esiste
nessun modo?» esordì
calmo, distogliendo lo sguardo da quegli occhi scuri per puntarlo oltre
la
spalla del moro, precisamente dov’era riverso il ragazzo.
«Se ti dicessi che,
qualsiasi cosa tu faccia, ciò non comporterebbe alcun
risultato?»
La stretta aumentò,
così come
l’ardore in quelle polle d’onice. «Non
siete immortali», ribatté Lord
Dellinton, astioso. «Fingete di esserlo, ma non lo
siete».
Fu a quel punto che sentì
anche la
presa di Arthur divenire più salda, quasi volesse spezzargli
le ossa della
mano. Si limitò invece a scansargliela con
facilità, quasi fosse appartenuta ad
un bambino di cinque anni. «Mentre sei qui a minacciarci,
lì c’è tuo figlio che
muore. Te ne rendi conto, vero?» gli mormorò in
tono soave, facendo qualche
piccolo passo indietro. Ridacchiò, poi, nel vedere il volto
dell’uomo
tramutarsi da una maschera d’odio ad un’espressione
di consapevolezza, prima
che abbandonasse temporaneamente la sete di vendetta per tornare svelto
accanto
al figlio. Gli aveva preso delicatamente una mano e
gliel’aveva stretta forte,
sporcandola con il sangue che macchiava la sua. Cominciò poi
a mormorargli
qualche parola nella sua lingua, come se in quel modo potesse calmare
anche il
battito impazzito del proprio cuore.
Lord Dellinton vide quegli occhi
aprirsi di poco e cercarlo, ma sembrava che la scintilla della vita
stesse
scemando a poco a poco. Non riusciva a vederlo così, non
poteva sopportarlo.
Era tornato a premergli una mano sul collo, certo, ma non aveva idea di
quanto
sarebbe riuscito ancora a resistere. Se lo issò quindi in
braccio, rimettendosi
in piedi con lui; l’avrebbe portato via da lì,
anche a costo di venir
ostacolato da quelle due creature che lo stavano osservando.
«M-M’Athair», la voce di Jason gli
giunse in un bisbiglio stridulo e strascicato, quasi troppo basso per
poter
essere udito e compreso. Gli mormorò solo qualche altra
parola di conforto per
calmarlo, facendo poi in modo che reclinasse un po’ la testa
verso il suo
petto.
«Andate già
via?» domandò
divertito
Arthur quando lo vide, incrociando tranquillamente le braccia al petto
per
squadrare poi la postura dell’uomo. Proprio lui non gli
rispose affatto,
dandogli le spalle con tutto il coraggio che era riuscito a
raccogliere. Non
aveva tempo per i loro giochetti; doveva portare suo figlio da un
medico,
immediatamente. Affrettò quindi il passo con il cuore che
gli batteva
all’impazzata, meravigliandosi di non esser seguito quando
s’azzardò a lanciare
uno sguardo dietro. Ma dovette ricredersi prima di svoltare
l’angolo, ritrovandoli
entrambi dinnanzi a sé. Era in trappola e non poteva
fuggire: qualsiasi strada
provasse a prendere li ritrovava sempre lì, sempre davanti a
lui ad attenderlo
come spettrali presenze. Si arrese all’evidenza, crollando
con tutto il proprio
peso sulle ginocchia mentre stringeva convulsamente a sé il
ragazzo. I suoi
respiri ormai si erano ridotti al minimo, era già un
miracolo che avesse resistito
così a lungo; gli aveva stretto debolmente la mano, ma anche
quel gesto
sembrava divenir meno sicuro.
Non si curò dei passi che
udì subito
dopo, restando con lo sguardo puntato sul volto pallido del figlio. Ma
fu
proprio nel guardarlo che un pensiero malsano gli balenò
nella mente,
facendogli alzare di scatto la testa. «Tu puoi
salvarlo!», gridò d’un tratto,
voltandosi verso William che, fino a quel momento, aveva osservato la
scena
come se si fosse estraniato dal mondo.
Sentendo tali parole, sbatté
più volte
le palpebre, stirando poi le livide e sottili labbra in un ammaliante
sorriso.
Scoprì le zanne, senza avere l’accortezza
d’occultarle alla vista del suo
interlocutore. «Salvarlo?», domandò lui,
sollevando finemente un sopracciglio.
«Och, mo chridhe... sei sempre
stato così ingenuo», mosse qualche passo verso di
loro, abbassandosi alla loro
stessa altezza per sorridere ancora. «Tutto ciò
che io potrei fare sarebbe solo
completare l’opera di mio fratello e condannarlo».
«Ma
vivrà!» insistette l’uomo,
comportandosi
quasi come un bambino capriccioso al quale era appena stato negato un
gioco. Sapeva
che, compiuto quel passo, non sarebbe potuto più tornare
indietro. Tuttavia,
ciò che maggiormente gli premeva era non perdere suo figlio.
Un gesto
egoistico, il suo, ne era ben consapevole.
«Cosa ti da il diritto di
decidere
per lui?» si fece sentire la voce di William - interrompendo
così i suoi
pensieri -, con una tonalità così calda che quasi
stentò a credere gli
appartenesse. Non avrebbe voluto rispondere, né sentiva di
avere abbastanza
tempo per farlo. La stretta della mano del figlio diveniva sempre
più debole,
senza permettergli di ragionare con freddezza e lucidità. Ma
di una cosa era
certo: non voleva vederlo morire. In cuor suo, però, sapeva
che ciò sarebbe
accaduto lo stesso. Avrebbe salvato suo figlio solo per vederlo morire;
l’avrebbe condannato all’Inferno, un Inferno dal
quale non sarebbe più riuscito
a fuggire. Ma, in quel caso, l’omicidio non appariva
più come un errore, per
lui. Appariva come un’ultima possibilità per il
suo unico figlio. «Ti darò
qualunque cosa tu chieda», provò l’uomo,
sentendo quel groppo in gola aumentare
mentre lo sguardo era chino sul pallido volto del moretto.
L’ombra d’una risata
giunse però in
risposta, lieve come la pioggia che sarebbe presto tornata a lacrimare
sul
mondo. «Oh, ma io ho già tutto ciò che
voglio», sussurrò ancora, quasi spietata
e tagliente, quella voce al suo orecchio. «Io ho
te».
Lord Dellinton non distolse lo
sguardo dal volto del giovane anche quando udì quelle
parole, sebbene sentisse
un peso opprimente nel petto. «Se hai me, non lasciare che io
perda lui»,
insistette, come se quello potesse far maggiormente presa sul suo
biondo
interlocutore.
Ci fu un silenzio carico
d’attesa,
subito dopo; non un suono o un respiro sembrava infrangerlo, tanto che
l’uomo
fu quasi certo che anche i battiti del suo cuore sarebbero stati
perfettamente
udibili. Sentì poi un lungo sospiro, poi gelide dita
s’intrecciarono fra i suoi
capelli scuri. «Pur di non volerlo perdere lo condanni dunque
alla dannazione
eterna?» gli venne chiesto, quasi nello stesso sussurro di
pocanzi, e voltò di
poco lo sguardo verso il vampiro per fondere i suoi occhi cerulei in
quei pozzi
d’oro.
«Io non...» rispose,
quasi colto
alla sprovvista, ma ancora una volta quelle dita gli carezzarono la
cute,
reclinandogli poi la testa all’indietro.
«Non sprecarti in parole
inutili»,
fece immediatamente William, mostrandogli le zanne. «Dimmi
solo se lo vuoi o
no».
Lord Dellinton si leccò le labbra,
stringendo ancor più a sé il corpo del ragazzo.
«Non voglio perdere un altro
figlio», ribatté, riprendendo ad accarezzargli
spasmodicamente le guance
gelide.
Gli giunse alle orecchie un altro
sospiro, prima che con la coda dell’occhio vedesse il vampiro
inginocchiarsi
accanto a lui. «Implorami, allora», gli disse,
quasi con sagacia. «Prostrati
dinnanzi a me e implorami di salvarlo».
L’uomo scosse la
testa, autoritario; non si sarebbe abbassato a tanto. L’aveva
umiliato anche
troppo, durante quegli anni. «Nay, questo non lo
farò».
«Ciò significa che
il tuo orgoglio
vale più della vita di tuo figlio?»
replicò William con fare saccente,
inarcando un sopracciglio. «Eppure non mi sembrava che tu la
pensassi così,
pochi attimi prima».
Come colpito in pieno da quella
constatazione, il Lord chinò lo sguardo per
osservare il volto del
figlio, i cui respiri irregolari e spezzati gli giungevano lievi alle
orecchie.
Tremava fra le sue braccia, biascicando parole che non avevano alcun
senso; le
palpebre continuavano a tremare e il viso diveniva sempre
più freddo. Aveva
quasi smesso di lottare, lasciando che il soffio della vita
abbandonasse il suo
corpo. Il suo orgoglio valeva davvero più della vita del
proprio
figlio? La risposta a quella domanda era più che ovvia.
«Ti prego... non potrei sopportare di perdere anche
lui», sussurrò Joseph,
voltandosi definitivamente verso il vampiro con le sopracciglia
corrugate dalla
preoccupazione.
Fu a quel punto che William
sollevò
appena un angolo della bocca in un sorriso, assaporando quelle parole
come se
le stesse gustando sulla punta della lingua. «Allora chiudi
gli occhi, mo chridhe», mormorò poi, ammaliante,
alzando di poco una mano per fargli scorrere due dita sul viso.
«Chiudi gli
occhi e non pensare ad altro. Sarò io l’ultima
cosa che ti sarà concessa di
vedere».
Forse inconsciamente, Lord Dellinton
si ritrovò ad obbedire a quelle parole. Abbassò
le palpebre, sentendo poi quel
tocco gelido sfiorarle delicatamente per carezzarle con altrettanta
accidia.
Ebbe quasi la sensazione che, man mano che quella carezza si spostava,
ogni
preoccupazione, ogni angoscia o tormento venisse spazzato via, sepolto
sotto
uno spesso strato di ghiaccio. Quello stesso ghiaccio che gli
percorreva adesso
il corpo, facendogli correre brividi inspiegabili lungo la schiena.
Udì vagamente una voce giungere alle sue orecchie, scoprendo
in un secondo
momento che quella voce sommessa e rauca apparteneva a suo figlio.
Voltò subito
il viso nella sua direzione per vedere come stesse, vedendo
però intorno a sé
solo tenebre ed ombre. Persino quando provò ad alzare le
palpebre non distinse
nulla, sentendo solo quella voce cominciare a chiamarlo e quelle gelide
carezze
riprendere, insistenti. S’agitò, tentando di
parlare a sua volta, di
rispondergli; ma non un suono uscì dalle sue labbra mentre
quell’oblio
s’intensificava e lo inghiottiva.
Un sussurro si fece largo fra
quelle tenebre, un sussurro che prometteva sangue e passione, dolore e
morte: il sussurro d’un demonio. Ma quello che lo stringeva
in
quell’abbraccio di
morte era il suo angelo. Un angelo oscuro che, nel corso degli anni,
l’aveva inesorabilmente
condotto all’Inferno.
~ END ~
[1]
Titolo
di una
doujinshi di Idea (Rin Seina/Houseki Hime) uscita il 27 marzo del 2005,
facente
parte della serie “Precious Wonders”.
Tradotto, si rifà principalmente a tutto ciò che
succede nel
capitolo fino alle note di chiusura, visto ciò che accade
durante quella notte.
[2]
Prossimo
al vecchio porto di Londra, proprio per tale
motivo è il luogo in cui gli immigrati trovavano un posto in
cui stare.
La
sua storia, a volte vista in chiave romantica, è fatta di
umorismo e valori
della classe operaia, ma anche di delitti come quelli di Jack lo
Squartatore a
Whitechapel, crimine organizzato, gangsters come la Banda Kray,
povertà
affrontata e resa sopportabile dalla tenacia britannica.
La
verità, forse un po’ cruda, è che
nell’East End si concentrano alcuni dei
quartieri più poveri del Regno Unito, con tutti i problemi
che ciò comporta.
[3]
Si
riferisce
ovviamente a quando venne fondato il Regno di Scozia, precisamente
intorno
l’843 dal re Cináed I.
[4]
Qui
ci si
riferisce invece alle guerre d’indipendenza che scuotevano la
Scozia,
precisamente alla famosa battaglia di Stirling Bridge nel 1297 in cui
gli scozzesi si
ribellarono sotto la guida di William Wallace, e quella di Bannockburn
in cui
Robert Bruce, incoronato re di Scozia, ottenne una vittoria
schiacciante contro
l’antica rivale del suo regno.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Questa
storia era stata originariamente scritta per un contest indetto da
Selhin
e Seiko,
“Dalla Frase
alla Storia”,
ma ho poi pensato saggiamente di trasformarla in un'originale,
giacché i personaggi che avevo utilizzato si discostavano un
po'
troppo dai loro caratteri e sarebbero apparsi così
decisamente
OOC.
Ecco perché, dunque, sono nati personaggi come Sir William,
crudele vampiro per antonomasia, e Joseph, uomo che ha sempre avuto
tutto grazie alla propria posizione ma che è stato
più
volte beffato da un destino crudele che ha colpito lui stesso e la sua
famiglia. Il solo personaggio che ho lasciato è Jason,
ragazzo
creato nel lontano 2008 da me e Red Robin per gioco, e che ormai fa
parte della nostra vita quotidiana, per così dire. Un po'
come
se fosse nostro figlio, se proprio vogliamo metterla in questi termini.
Comunque sia, la storia gioca più sugli aspetti psicologici
di
tutti i personaggi e sulla natura crudele degli esseri umani e dei
mostri, sulla soggiogazione che essi possono provocare e sulla
debolezza dell'animo, intersecando così realtà e
immaginazione in un gioco di ombre e sguardi che conduce ad una
drammatica conclusione. Ovviamente l'accenno a Jack lo Squartatore,
dato il periodo, era d'obbligo, e lo si può benissimo
notare,
anche se solo accennato, quando Joseph gli passa vicino. Era una tale
piccolezza per la trama che non ho ritenuto obbligatorio spiegarlo
durante la stessa.
Spero che vi sia piaciuta e che l'abbiate in qualche modo apprezzata.
Alla prossima ♥
Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di
scrittori.
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