Miniromanzo in n Capitoletti

di Quintessence
(/viewuser.php?uid=34478)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Cosa è successo ad Alessandra ***
Capitolo 2: *** Uno - Cosa ha fatto Matteo ***
Capitolo 3: *** Due - Cosa ha detto Loretta ***
Capitolo 4: *** Tre - Cosa ha deciso Matteo ***
Capitolo 5: *** Quattro - La Gioia ***
Capitolo 6: *** Cinque - La Tristezza ***
Capitolo 7: *** Sei - La Rabbia ***
Capitolo 8: *** Sette - Il Rimpianto ***
Capitolo 9: *** Otto - L'Imbarazzo ***
Capitolo 10: *** Nove - La Vergogna ***
Capitolo 11: *** Dieci - La Speranza ***
Capitolo 12: *** Undici - Il Perdono ***
Capitolo 13: *** Dodici - Come il Tempo è tornato indietro ***
Capitolo 14: *** Epilogo - Cosa è successo ad Alessandra ***



Capitolo 1
*** Prologo - Cosa è successo ad Alessandra ***


Prologo ~ Cosa è successo ad Alessandra

 

"Prendi nota: ammazzarlo alla fine dell'intervallo!"
"E su, calmati, in fondo è inutile fare così. Ti fai solo più male" -Federica prese la sua amica per un braccio e la tirò indietro. Alessandra però sembrava più che intenzionata a fare una di quelle cose stupide che solitamente la facevano piangere, alla fine. Si divincolò, e si diresse verso il tavolo da ping-pong posizionato al centro del corridoio della scuola, e puntò uno dei due ragazzi che stava giocando.
"Matteo!" -Gli stava puntando il dito contro. Ma lui non sembrò farci caso.
"MATTEO!" -Gridò più forte, al punto che sentì la sua voce diventare stridula. Si fermò a pochi centimetri da lui.
"Hey, Andre, hai mica sentito qualcosa? Tipo una zanzara...?" -Fece lui al suo amico, rispondendo al tiro. Il ticchettio della pallina si diffuse per l'atrio vuoto. Alessandra perse la calma.
"Brutto scemo, perché non mi parli?" -Sibilò allungando un braccio e pestando un pugno leggero sulla sua spalla, che non dovette fargli più che il solletico.
"CAZZO, hai rotto! Sto giocando, non lo vedi?!" -Lei si spaventò e arretrò di un passo ritraendo subito la mano che aveva allungato, mentre Matteo perdeva il punto e sbuffava di rabbia. Lei pensò che così era ancora più carino, ma tanto lui non l'avrebbe mai saputo. Sorrise leggermente.
"Senti, mi hai mandato un messaggio con scritto che ti piacevo, perché ora stai facendo finta di niente?" -Domandò con schiettezza. La storia di quell'sms era decisamente tormentata, si disse. Perché mandarlo e poi ignorarne tutte le conseguenze? Matteo non sembrava un tipo irresponsabile.
"Avrò sbagliato numero" -Lanciò la pallina e il tok secco sul tavolo annunciò la ripresa del gioco.
"Sai che non è vero" -Che insistenza. Riprese la pallina con forza e quella andò a posarsi sulla rete. Andrea si lamentò seccamente, "Ma che diavolo stai facendo? Vorrei giocare, Teo!"
Matteo si rivolse verso Alessandra, poggiando per un attimo la racchetta. La fissò negli occhi duri. Vide che non aveva intenzione di arrendersi, voleva solo sapere quel motivo. Quel perché. Lui Sospirò e Lei incrociò le braccia.
"Adesso lasciami in pace, di Te non mi importa niente" -Si voltò di nuovo verso il tavolo e Andrea, e stava per riprendere in mano la racchetta. Aveva allungato le dita. Ma lei allungò il tono e lo costrinse a girarsi di nuovo.
"Bugiardo" -Lo guardava negli occhi in modo da provare imbarazzo per trattenere una lacrima, o due, o mille per quei quattro anni d'amore che finalmente, in un attimo breve in una sera di solitudine su un display male illuminato erano apparsi ricambiati. Ma perché Matteo non si assumeva ogni responsabilità del suo gesto? Perché fare così e poi fingere il nulla assoluto negli occhi cerulei? Perché non le parlava? Qual era il suo recondito motivo di esilio? Perché la trattava così? Solo perché...
"Senti, sei una sfigata" -Eccolo.
"E'... solo questo?" -Domandò leggermente spiazzata. Una smorfia di dolore si dipinse sul suo viso- "Allora lo sfigato sei tu" -Puntò ancora il dito verso di lui in segno di accusa- "Se hai paura dei tuoi sentimenti solo perché sono una..." -Esitò su quella parola. Le faceva male come vetro in gola pronunciarla- "Sfigata".
Nel frattempo lui si era voltato ancora. Schiacciò con forza la pallina nel campo avversario, tanto che Andrea non ebbe nemmeno il tempo di spostarsi a sinistra. E poi prese la ragazza per il bavero della giacchetta azzurra.
"Adesso ascolta bene" -Sibilò- "Non voglio mettere le mani addosso ad una ragazza, ma se continui a seccarmi in questo modo mi vedrò costretto a farlo. Mi hai stufato, è chiaro?"
Lei lo guardò negli occhi. Davvero non mentiva.
Lui la lasciò andare. Lei annuì con gli occhi pieni di terrore.
"Cristallino"

*

Alessandra era bionda. E aveva dei lineamenti molto dolci. Era una ragazza intelligente ma non troppo, una chiacchierona e una persona all'apparenza decisamente spensierata. Nessuno l'aveva mai sentita parlare dei suoi problemi. Ma ne aveva, di problemi. Parecchi. Era una persona molto emotiva, e probabilmente, tutti dicevano, questa sua emotività veniva da una mai estinta mancanza di affetto. Suo padre era morto parecchio tempo prima, nessuno se lo ricordava di preciso, probabilmente perché tutti avevano cercato di tacere, e sua madre da allora era impazzita. Completamente. Non la guardava nemmeno più come una figlia. Ritenendola responsabile dell'incidente accaduto al marito -cosa di cui, fra parentesi, molta gente era convinta. Alessandra chiacchierava molto, e gesticolava molto. Chissà come erano andate le cose in macchina. Magari aveva espanso la sua esuberanza al cambio, o al volante. Insomma, uno schianto secco. Non aveva comunque perso la voglia di chiacchierare, e con grande coraggio aveva continuato la sua vita come se nulla fosse accaduto.
Stoica, dissero tutti. Davvero coraggiosa.
Ma non lo pensavano davvero, insomma, Alessandra era sempre stata considerata strana, un po' da evitare, a causa di questi boccoli biondi mal raccolti e del sorriso infantile, e della voglia di parlare sempre di tutto, e della sua particolare caratteristica di dir sempre la verità. Odiava le bugie, ma non capiva che alcune verità bisogna ometterle.
Una di queste, un giorno le spiegò Matteo, erano certi sentimenti. Non poteva sbandierare così il suo amore per lui. Perché no? Aveva chiesto. Perché è strano, non bisogna esagerare. Perché no? Perché è strano e basta, alcune persone come me sono timide. Perché? Perché di sì! -Non posso mai avere risposte chiare, aveva concluso.
Sua madre evidentemente era carente in quanto a risposte, almeno per quanto riguardava il comportamento. La ragazza aveva tendenze socialmente suicide quali mettere gonne a pois gialli con magliette a quadri verdi, e ben peggio.
La maggior parte della gente sapeva che sua madre beveva un tantino troppo, e sarà forse quello il motivo per cui si veste così? Per cui fa così?
Alessandra era dolce con tutti. Più la si trattava male, più diventava benevolente. Qualcuno disse è la benevolenza che non ha avuto dalla madre. Probabilmente anche qui vero a metà come tutte le voci. Sua madre aveva una propensione per i manganelli e i tubi dell'aspirapolvere, e le frequenti slogature, botte in testa, lividi e maglioni a collo alto anche d'estate parlavano chiaro su quanto tormentato dovesse essere il loro rapporto.
E Alessandra? Alessandra pregava e basta.

*

4 in Storia. Ma tanto la stanchezza le impediva comunque di studiare. E i dolori al collo erano terribili. Poteva farlo solo da sdraiata. L'ultima volta, in effetti, la tempesta era arrivata di sorpresa. Alle sue spalle. Una spranga di ferro, si era detta. Invece no, era solo una borsa molto pesante.
Torniamo al 4 in Storia.
"Dai, non prendertela, ti rifarai presto. Poi la prof Giani ti stima, recupererai" -Tipico dei secchioni parlare così.
"Facile parlare, per te che hai preso 9" -Alessandra si alzò e si allontanò da Giovanni per andare a guardare giù dalla finestra. Quella finestra. Sospirò. Quel bastone. Sospirò ancora. Quel tubo di metallo. Quel sangue rappreso. Per giorni. Non era potuta andare al pronto soccorso. Quanto tempo avrebbero impiegato i vermi a mangiarsi quella ferita sulla schiena...? Magari poteva evitare una morte così lenta. Si sporse dalla finestra. Forse poteva...
"Ale, andiamo a mangiare?" -Si scosse improvvisamente voltandosi verso Federcia che agitava la mano.
"Arrivo" -Ultimo sguardo. Quinto piano. Dovrebbe essere sufficiente. Uscì dalla classe soffocante.

*

Incontrò Matteo mentre era per le scale con Federica. Per la precisione lo scontrò. Sulla spalla. Con forza. Senza volerlo.
"Ah, cazzo, ma allora sei TESTARDA!" -Imprecò lui fermandosi e tenendosi il punto colpito. Alessandra aveva barcollato per la sorpresa, visto che camminava a testa bassa.
"Io non... apposta..." -Aveva balbettato.
"E almeno non prendermi per il CULO!" -Sottolineò con cura la parolaccia. Lei strinse i pugni fino a farsi male. I lividi, le ferite. Il cuore spezzato. Tutto le sembrò inondato di alcool etilico. Abbassò la testa.
"Ma..."
"Ma un cavolo! Smettila di pensare a me, e fatti una Vita!"
Federica cercò di fermarli, ma era troppo tardi.
"Non posso..." -E avrebbe voluto aggiungere non dopo ciò che è successo ma non lo fece.
"Sei una Rompipalle! Una Sanguisuga! Se potesse la gente ti ostracizzerebbe dallo stato!" -non si fermò- "Sei una pazza, pazza, odiosa e-"
"Zitto! Stai zitto!" -Doveva fermare quel vomito di parole. O sarebbe morta troppo presto. Si tappò le orecchie, scoppiò in lacrime e si gettò di corsa giù per le scale. Federica la seguì chiamandola forte.
"Lo odio... Lo odio... Perché non posso essere come mi vorrebbe... Perché ho fatto quel... Quella... cosa... Perché non può accettarlo? Perché non posso dirglielo?" -Federica le accarezzò la testa dolcemente, cullandola.
"Sii paziente. Si accorgerà prima o poi. L'amore che provi e quello che hai fatto non può non essere ripagato" -Le disse guardandole le lacrime.
"Federica, sono ancora io ad essere in debito"

*

Tornò in classe con le occhiaie del pianto e gli occhi arrossati. Rivide quella finestra.
Questa volta, salì sul davanzale. Pensò che non poteva davvero tornare a casa con  un altro 4, né senza un conforto. Non poteva tornare da sua madre, l'avrebbe uccisa lei prima della finestra. Con una sbarra di ferro. Con una borsa. Con la scopa. Con il tubo dell'aspirapolvere.
L'avrebbe inseguita. L'avrebbe presa. Si guardò i lividi. Pensò al sangue rappreso. Pensò a Matteo, poi li coprì con le maniche del maglione. Si mise in piedi sul davanzale, guardando la classe. Una lacrima silenziosa le solcò il viso. La ingoiò, era salata. Si era sempre convinta che le lacrime nascessero dolci, e diventassero salate solo sul viso.
"Basta..." -disse, e sospirò.
"Ale, no!"
"Non fare idiozie"
"Noi ti vogliamo bene" -Lei sorrise un pochino.
"Non basta più".
E in quel preciso istante, Matteo aprì la porta, con i suoi bellissimi occhi cerulei e l'aria un po' strafottente che tutti avevano sempre ammirato. Con una mano in tasca, usò l'altra per sistemarsi i capelli.
"Ti butti?" -Chiese con naturalezza.
"Sì" -Disse lei, risluta e calma. Fredda.
"Oh. Bene. Un buon peso in meno al mondo"
Lei si lasciò andare all'indietro, e volò dalla finestra del quinto piano della scuola con le braccia aperte.
"No, dai, non dicevo sul se-" Matteo allungò una mano per prenderla, e la sentì scivolare. La sentì andare via da lui, che non aveva avuto mai il coraggio di accettare di amarla, se non per un attimo breve in un sms. Nel volo lei sorrideva e teneva gli occhi chiusi. Sillabava con le labbra. Qualcosa che lui non capì, ma doveva suonare come "Ti perdono". Matteo chiuse gli occhi, pensò un secondo a lei. Ai lividi, alle assenze. A come zoppicava. A come gridava di amarlo. Come lo scriveva. Come lo indossava quando si vestiva. Come si metteva una ciocca dietro l'orecchio se era pensierosa, e mangiava le unghie senza ritegno. Pensò a Loro, e a come l'avevano costretto a rinunciarle. Ebbe un conato di vomito, si girò verso l'interno della classe, sbarrò gli occhi, strinse le palpebre, contrasse i pugni, si poggiò ad un banco, respirò tre volte profondamente, si alzò, si risedette, si rialzò. Si affacciò.
Nello schianto, le braccia si erano chiuse sul cuore.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Uno - Cosa ha fatto Matteo ***


Uno ~ Cosa ha fatto Matteo


Non si vide più di qualche luce. E non si sentì più di qualche sirena. Più di qualche singhiozzo. Più di qualche mi dispiace. La madre della ragazza piangeva. Matteo no.
Le persone guardandola l'additavano, è stata colpa sua. Comunque qualcuno ci aveva provato, a chiamare l'ambulanza. E l'ambulanza l'aveva portata in ospedale. E dall'ospedale l'avevano spedita all'obitorio. Diagnosi: morta sul colpo. Poco dopo lo schianto.
I funerali li fecero a porte chiuse. Matteo guardò tutta la cerimonia dal cancello, attaccato con le mani nude alle sbarre fredde. C'era anche Federica. Lei pianse. Lui no. Fu una roccia, dicevano, nemmeno una lacrima. Più di una volta lo videro andare al cimitero e portare dei fiori, ma non pianse nemmeno una volta. Sulla lapide avevano messo una foto di lei sorridente, di quelle in cui mostrava le labbra al lampone e il sorriso smagliante, e i boccoli biondi disordinati. A Matteo piaceva.
*
Ma non gli sarebbe mai venuto in mente di poter fare qualcosa.
Non mangiava, non studiava, non prendeva 9, non dormiva, non usciva, non giocava a calcio, non si mangiava più le unghie.
Ma non gli sarebbe mai venuto in mente di poter fare qualcosa.
Gli venivano in mente molte cose che non aveva voglia di fare, ma niente da fare. Solo cose da non fare. Cose da non fare più. Se ne stava in casa, tutto il giorno, girava per i corridoi come un fantasma. Spaventava sua madre. Non rideva. A scuola non parlava più. Era come se fosse finito qualcosa, per lui. Fissava il banco vuoto di Alessandra. Per tre giorni lo lasciarono lì, come se fosse malata. Come se da un momento all'altro potesse tornare a scuola, porgere il libretto con una giustificazione qualsiasi. Ho avuto la febbre.
Il quarto giorno lo portarono via. Restarono le impronte per terra. La bidella strofinò per due giorni prima di riuscire a toglierle. Matteo pensò che doveva essere stata una faticaccia.
E alla fine, vedendolo così, spiacendosi di tutto quello che era successo, spiacendosi di tutto quello che avevano fatto per separarli seppure incoscienti, e sentendosi in colpa ovviamente, ma senza riuscire a dire più che "Mi dispiace" senza chiedere "perché", Loro invitarono Matteo al luna park.
Era il Luna Park di Ottobre, di quelli che marciano per tutto il pianeta senza sosta, ma una volta all'anno tornano nella tua città. Li riconosci. E anche se tu cresci, loro sembrano non invecchiare mai, con le stesse giostre, lo stesso odore di fritto d'ogni genere e la musica degli anni 50. A volte viene da chiedersi se non siano immortali. Forse venivano anche negli anni 30. Forse anche negli anni 20. Quanti anni hanno?
"No, Grazie" -Aveva risposto lui alla proposta, declinandola con gentilezza.
"Prima o poi dovrai deciderti a fare qualcosa" -Aveva detto Andrea.
"No, Grazie" -Aveva risposto lui di nuovo. E
avevano continuato così per una mezz'ora.
"Ma dai, se continui così ti uccidi anche tu" -La battuta non era piaciuta a nessuno dei due, ma forse aveva mosso qualcosa.
"E va bene. Ma solo perché sei veramente assillante" -Definitivo.
*
Il Luna Park sotto casa di Giovanni sembrava davvero avere cento anni. A Matteo spiacque di pensare che in effetti non lo faceva sentire meglio nemmeno un pochino. L'ottovolante lo fece quasi vomitare, e le patatine fritte erano crude dentro e bruciate fuori. Qualcuno gli aveva regalato un palloncino che era scoppiato poco dopo, alla pesca aveva ottenuto un magro premio di consolazione adatto a bimbi di tre anni, il colore delle luci era attutito da quelle fulminate e lo zucchero filato non era dolce nemmeno un po'. Si rese conto che tutti questi difetti erano sempre esistiti nel Luna Park di Ottobre. Anzi, per Matteo più che difetti erano sempre stati pregi. Come se si trattasse di affermare la sua imperfezione. Quando un anno era venuta anche Alessandra, e Matteo si era lamentato con lei di quanto lo zucchero di una frittella fosse appiccicoso, Lei aveva detto che il Luna Park era bellissimo per questo. Perché lo zucchero delle frittelle è appiccicoso. Matteo non aveva capito.
Però quando la settimana dopo ci era tornato, come un bambino alla prima esperienza aveva capito cosa intendeva Alessandra. Che non ti accorgi di quanto le cose siano belle, se non le guardi da vicino. Se non metti il dito nelle imperfezioni. Se non ti tagli almeno una volta. Se non ti ci ferisci almeno un pochino. Ma quella volta il Luna Park era spento davvero.
E non era per i palloncini o per le luci o per lo zucchero appiccicoso. Era colpa di Alessandra.
Perfino la commessa sembrava avere i suoi stessi boccoli biondi e l'atmosfera, per Matteo, era delle più cupe. Così, stufo di starsene lì con la nausea da patatine e fritto e ottovolante fingendo di divertirsi per compiacerli, Matteo se ne andò dopo poche ore. Con grande scoramento di Andrea, in effetti, che aveva organizzato la cosa apposta per lui. Camminò per un po' senza meta, intorno al Luna park, mentre la musica si affievoliva, giurandosi varie cose, quali che non avrebbe mai più fatto nulla di cattivo, non avrebbe più detto niente di cattivo, non avrebbe mai più preso decisioni in funzione degli altri, non avrebb...
Stava proprio per oltrepassare il cancelletto finto che segnava definitivamente l'uscita dal parco con lettere luminose (Arrivederci, di cui la I, la D e la R erano fulminate. Adesso si leggeva ARR VE E CI. Matteo si chiese se una volta fulminate tutte qualcuno le avrebbe finalmente sostituite) quando per la prima volta in due settimane gli venne voglia di fare qualcosa.
"Desideri realizzabili e non" -recitava la scritta su una imperiosa tenda rossa e blu; Matteo si stupì, quasi si vide da fuori mentre si lanciava nel tendone, con una specie di ... qualcosa dentro. Non volle dargli un nome.
*
"E Tu che cosa ci fai qui?!" -Chiese subito Loretta, vedendolo entrare, i campanelli che trillavano divertiti sulla sua testa. Tutto era avvolto da una inebriante nube di incendio e per un secondo, uno solo, Matteo desiderò di non essere entrato. Si vedeva poco, ma abbastanza per dedurre che la donna stava tenendo gli occhi chiusi. Era vecchia, notò Matteo. Ed aveva un nonsoché di... Mistico.
"Ci conosciamo?" -Domandò comunque, subito, accigliandosi. Non gli andava di farsi trattare in quel modo. Almeno, dire Buonasera.
"No, ma conoscevo Lei. Povera ragazza" -Per un attimo Matteo si sentì mancare. Si accasciò su un pouf color rosso. Uno sbuffo di incenso lo fece tossire. Alzò la testa e guardò Loretta negli occhi. Adesso che ci faceva caso, aveva delle rughe. Solchi sulla pelle. Sembrava ancora più vecchia e stanca di prima.
"Cosa...? E come... Come la conoscevi?" -Nemmeno un nome. E non diede nemmeno del Lei a Loretta. Si sentì maleducato. Non aveva parlato di Alessandra per due settimane. Aveva zittito con rabbia chiunque gli avesse chiesto di lei anche solo per un secondo. Adesso, perché era lui a chiedere di lei? Si stupì di se stesso.
"Ah, anche lei aveva un desiderio" -Disse Loretta sommessa, inspirando l'incenso. Aveva ancora gli occhi chiusi.
"Immagino che ti abbia chiesto una pozione d'amore" -Si fermò un secondo e si sentì ancora più maleducato- "Beh, direi che non ha funzionato, arrivederci" -Si alzò e fece per uscire. Ma ristette.
"Non stavi andando via?"
"Certo, io... non ho tempo da perdere con le pazze. Nemmeno sai chi era, ci scommetto" -Sempre più maleducato- "Credete tutti di sapere tutto, vero?"
"Anche tu" -Disse lei senza rispondergli. E lui si sentì giustificato ad essere stato maleducato, visto che lo era staa anche lei.
Le voltò le spalle per uscire con un gesto -se possibile- ancora più maleducato.
"Ma stai migliorando"
Abbassò il capo
"O non saresti entrato qui"
Si voltò di scatto. Di un tratto si era reso conto che tutta la situazione non era per niente uno scherzo. Che una persona era morta. Non era una cosa di cui discutere. C'era Lei, e poi non c'era più. A che serviva parlarne?! Sapere quello che gli altri pensavano di lei?!
"Che cosa ne sai tu, di lei?" -Chiese risoluto, con una punta di rabbia nella voce. Avrebbe voluto aggiungere che doveva solo chiudere il becco. Ma non lo fece.
"Che ti amava. E che un quinto piano con la vostra complicità l'ha uccisa" -Rispose lei tranquilla.
Lui si risedette. Era lineare. Nessuno in effetti l'aveva spiegato meglio. Il prete aveva parlato per due ore, ma non aveva detto quello che Loretta aveva puntualizzato in un secondo. Che erano stati loro ad ucciderla. Che non si era suicidata. Era stato il quinto piano. E Matteo l'aveva aiutato. D'improvviso aveva la gola secca. Deglutì mentre lei ricominciava a parlare.
"...E che allora hai visto questo tendone, e che hai un desiderio così forte e disperato che sei stato disposto perfino ad entrare. So che non hai vie d'uscita e-" -Ma lui la interruppe con veemenza.
"VOGLIO... Che torni. Perché l'amavo. La amo. Voglio tornare indietro. Voglio salvarla"
Loretta rise. E rise forte. Una risata che di una vecchia aveva molto poco.
"Non dire mai più voglio. E non dire mai più amore. Hai comprato il tuo benestare con la sua Vita. Non hai saputo rinunciare nemmeno a falsi amici per Lei. L'amore è Sacrificio. Se non sei disposto a farlo, rinuncia" -Lui si mosse nervosamente sul pouf.
"E per la cronaca, Lei non ha mai desiderato pozioni d'amore. Non avrebbe saputo che farsene di falsi sentimenti"
Matteo aggrottò le sopracciglia. Se non di conquistarlo, allora che cosa aveva domandato? Che cosa aveva potuto volere?
"...Dunque non conosci il segreto" -Matteo ebbe appena il tempo di scuotere la testa.
"Allora è bene che tu sappia, prima di decidere cosa desiderare. Per non essere di nuovo infelice" -Matteo ebbe appena la forza di annuire.
"Perché ogni desiderio ha un prezzo, lo sai questo? Dovrai pagare. Come ha pagato lei"
Matteo pensò ad Alessandra. A come era fragile. A come si vestiva di giallo limone e si profumava di lillà. La immaginò seduta al buio di quella tenda, a domandare chissà che cosa per cercare di mettere a posto chissà quale casino. Con il suo pronto ottimismo che risolve tutto. La immaginò in una stanza buia a piangere, mentre nessuno la vedeva. Raggomitolata su se stessa a leccarsi le ferite. La immaginò proteggersi con le sole mani da una scopa. La vide nella sua testa aprire un armadietto di medicamenti con le mani tremanti e rabbrividire di dolore disinfettando ferite da coltello. Pensò a quanto poco sapeva di lei.
Qualcosa si sciolse, dentro di Lui, e finalmente cominciò a piangere.



Questa ff è una delle prime originali che scrivo. Ho scritto molto su molti fandom, soprattutto quando ero più giovane, e oggi sento il bisogno di costruire nuovi personaggi e nuove situazioni per non costringermi in cose già inventate. Inutile dire che mi piacerebbe ricevere pareri su quello che faccio, e che scrivo, e che dico. Per cui, se arrivate in fondo, vi chiedo di lasciare un commento di qualsiasi tipo.
Su Alessandra dico che ha una situazione tormentata, ma nasconde parecchi segreti. Che anche Matteo ha molti scheletri nell'armadio. Che per arrivare ad un amore così forte da spingerti al Suicidio ci deve essere un contorno di deserto. E che se avete voglia di andare avanti, vi spiegherò perché ha deciso di farlo... ma attenti, potreste riconoscervici. Nella vittima intendo. O peggio, nei carnefici.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Due - Cosa ha detto Loretta ***


Due ~ Cosa ha detto Loretta


"L'ho conosciuta in un pomeriggio piovoso di qualche tempo fa, ancora faceva la prima superiore credo, ma già ti amava molto. All'epoca, sua madre era una madre modello. Suo padre era vivo e vegeto. Un bellissimo uomo. Un imprenditore" -Matteo ascoltava sorridendo di malinconia. Tutti sapevano della madre di Alessandra. La picchiava quotidianamente. Perché la credeva colpevole di quell'incidente d'auto. Per poco spesso non la uccideva.
Lei sopportava stoicamente. Ma tutti additavano la sua famiglia come marcia. Tutti sapevano che qualcosa non andava. Anche i vicini. Le assenze erano quasi più eloquenti dei lividi a volte. Parlavano di più dei lupetti d'estate. Sempre gli stessi. Bastava che fossero di colore diverso. Rosa, Rosso, Blu, Verde, Nero. Sempre gli stessi.
Provò a immaginare il padre di Alessandra. Un uomo prestante, sempre gentile con tutti, un imprenditore. Sembrava di sentire parlare dell'uomo perfetto. Son sempre i migliori ad andarsene. Fece un paragone involontario con suo padre. Anche lui era un imprenditore. La famiglia di Matteo possedeva la CAR, una grossa azienda di distribuzione di prodotti automobilistici. Di gran successo. Tutto il paese conosceva la loro azienda, e questo era un motivo di gran prestigio per tutti loro. Matteo ne andava molto fiero.
"Allora era ricca, prima?" -Chiese incuriosito dal racconto.
"Abbastanza, sì. Benestante" -Matteo si stupì. Anche lui aveva pensato la stessa parola nello stesso momento. Benestante. Non si addiceva ad Alessandra- "Innamorata di te, come dicevo prima, per parecchio tempo si era interessata di te e anche della tua famiglia, fino a quando è successa la tragedia. Tuo padre è morto in un incidente d'auto. Tua madre è impazzita. Ha cominciato a bere. Ha cominciato a picchiarti. Lei lo sapeva. Sapeva che eri triste, sapeva perché andavi male a scuola, eri magro, perché eri così timido e a volte anche irascibile. Sapeva perché la odiavi. Perché la sua famiglia era perfetta. La tua no..."
"Hey" -Proruppe lui indignato, interrompendola- "Prima cosa, non la ho mai odiata. Secondo, io non sono mai stato così..."
Anche Loretta lo interruppe, facendo come se non avesse sentito una sola parola di quello che lui aveva detto in tono iroso.
"...Ma, come sai, ti amava. e avrebbe voluto fare qualcosa per te. Ovviamente tu non l'ascoltavi. Per chi ha difficoltà è difficile ascoltare chi non ne ha. Aveva perfino chiesto a suo padre, che all'epoca dirigeva con successo la CAR, dei consigli, ma non aveva trovato soluzione. La soluzione era ovviamente denunciare tua madre perché ti picchiava. Non c'era altro scampo, per te. Però sapeva che soffrivi, e si distruggeva".
Matteo ridacchiò divertito, capendo il malinteso. Aveva capito male quello che Alessandra le aveva raccontato. Oppure lei, in uno dei suoi impeti di ottimismo, aveva scambiato le loro vite per dire a Loretta come stavano le cose, e indirettamente stava chiedendo aiuto per se stessa. In poche parole, aveva raccontato una balla. Pensò che fosse doveroso farlo presente a Loretta. Non erano state confidenze avanzate, ma solo bugie. Lei credeva di conoscere Alessandra, forse, invece non sapeva un bel niente di Lei. Arrogantemente, dopo qualche secondo, si prese la parola.
"Non hai capito un cazzo di quello che ti ha raccontato. Hai invertito i ruol-"
"Certo" -Disse lei amabile- "Perché lei mi ha chiesto di farlo"
"COSA?" -Stronzate. Sono tutte stronzate- "QUELLO era il suo desiderio?" -Come può essere possibile una cosa del genere? Non poteva essere assolutamente possibile. Quella donna era completamente pazza, e tutto quello che gli stava raccontando era probabilmente frutto della sua immaginazione e dell'incenso. Lei gli lasciò il suo tempo per riflettere, aspettandosi che da un momento all'altro si alzasse e scappasse. Invece, con grande sorpresa della Donna, rmase lì fermo. Con gli occhi piantati sul pouf colorato, Matteo rifletteva. Voleva dire che si era preso la vita di un'altra persona? Impossibile. Stronzate. Loretta respirò profondamente e riprese a parlare.
"Già. Quando sei morto non ha saputo darsi pace per non essere riuscita a salvarti. Per impedire che la persona che amava venisse uccisa. Avrebbe preferito annientarsi, piuttosto che subire le pene dell'inferno, non vedendoti. Quello che avevi subito, avrebbe voluto subirlo lei per risparmiarlo a Te" -Matteo sbiancò. Aveva detto la parola tabù. Morte. Sapeva che sarebbe arrivata. Però sbiancò lo stesso. Il silenzio era calato su di loro, e a Matteo sembrò che anche la penombra fosse aumentata. Adesso aveva l'impressione che non fosse uno scherzo, che non stesse scherzando, però era ovvio che era delirante. Probabilmente era una sua zia impazzita dopo che la ragazza si era uccisa.
"Basta Stronzate. Non posso essere morto. Io... Io..." -Non sapeva come dirlo esattamente- "Io sono qui!"
"Perché lei lo ha desiderato. E ha pagato perché tu potessi esserci"
"Bugiarda" -La fulminò lui con il suo tono meno gentile.
"Tua madre ti ha ucciso con una coltellata alla schiena. Non hai potuto chiamare l'ambulanza. Ti picchiava, vero?" -Chiese decisa, fissandolo.
Lui era confuso. Non ricordava niente. Nessuna cosa del genere. E se non te lo ricordi, non è successo. Così diceva suo padre. Ma adesso aveva capito che suo padre su una cosa aveva torto. Ci sono cose che puoi sentirtele dentro.
"Io... no... Mia madre non ha mai..." -E anche se cerchi di liberartene con la ragione, il tuo cervello sanguina.
"E alla fine ti ha ucciso, assassino di tuo padre perché tu ti eri salvato e lui no." -Stronzate- "Io avevo rifiutato la proposta di Alessandra, all'inizio, perché come ti ho detto ogni desiderio va pagato, e non volevo che pagasse tanto, una persona pura come lei... Che non ti ha mai invidiato nemmeno dopo... Che non ti ha mai odiato nemmeno dopo tutto quello che è successo... che è successo dopo." -La sua voce tremava, si accorse Matteo- "Non volevo che pagasse tanto per una persona che non l'aveva mai amata. Ma la vedevo. Tornava ogni giorno. Deperiva. I suoi genitori non sapevano cosa fare e io, io... Io lo sapevo..." -Disse, e poi lo ripeté- "Io lo sapevo che non si sarebbe data pace pensando che non aveva fatto tutto il possibile. Avrebbe pensato per sempre che era colpa sua".
Matteo le fece subito un cenno, allungando la testa, esortandola a continuare. Il nodo che aveva in gola non gli permetteva di parlare. Improvvisamente gli sembrò che tutto tornasse ad avere un senso. Si poteva fare! Si poteva ricominciare...
"Ogni desiderio ha un prezzo. Non posso darti tempo se non mi rendi del tempo, non posso cambiare il futuro se non mi dai un futuro differente in cambio, non posso farti volare se non mi dai delle ali... Non posso salvare una vita senza un'altra. Non potevo cambiare la tua vita, né resuscitarti, senza una vita in cambio. Sarebbe stato come chiedermi di scrivere senza una penna"
"Allora... Lei..." -Chiese tacitamente deglutendo. Aveva la bocca secca.
"Ha comprato la tua serenità e la tua Vita con la sua felicità e la sua vita"
"Ma perché?" -Chiese subito allora. Perché non me l'ha detto? Questa era la domanda inziale, poi aveva cambiato idea. In realtà quello che lui voleva sapere era, perché fare una cosa del genere. Perché relegarsi ad una vita di impopolarità e di sfortuna, perché decidere di vivere gli anni delle superiori come una reietta, sempre costretta all'ombra di una figura con una scopa in mano, al posto che alla luce della spensieratezza? Matteo non avrebbe mai cambiato la sua vita con quella di nessun altro. Specialmente non con quella di Alessandra.
"Per amore" -Ma perché, Lui non l'amava!
"Ma io non l'amavo...! O almeno, certo che l'amavo, ma lei non lo sapeva..."
"Ci sono cose che non serve sapere"
Aveva sopportato tutto quello che avrebbe dovuto sopportare lui. Voleva dirlo, ma non gli uscì nulla. Ancora non capiva, anche se il suo cuore gli diceva sì. Non credeva, non voleva creerci, non poteva crederci! Eppure era chiaro, lineare. O come poteva quella donna sapere tutto? Perché Alessandra avrebbe dovuto raccontarglielo? Come sapeva della CAR? Come, come? Erano stati i suoi amici? Non era divertente. Era impossibile. Si chiedeva ininterrottamente come? cercando altre spiegazioni, arrovellandosi, riflettendo, attorcigliando il cervello fino a farsi male, trattenendo il fiato e alla fine rinunciando.
Loretta lo guardava ancora.
"Che cosa desideri?"
Questa volta, Matteo non esitò un istante.
"Voglio tornare indietro nel tempo. Voglio tornare a salvarle la vita. Riportami a qualche ora prima della sua morte. Sistemerò quello che ho fatto. E dopo che l'avrò salvata, voglio che sia felice. Che l'esclusione finisca per sempre"
Loretta lo guardò di nuovo. Questo meravigliava Matteo più di ogni cosa. Lei lo guardava. Nessun altro l'aveva guardato da quando Alessandra era morta. Tutti evitavano accuratamente di guardarlo, forse per paura di trovare qualche traccia sul suo viso che dicesse "sei colpevole". Perché Matteo era colpevole, ma non meno degli altri. L'avevano spinta tutti. Mille mani premute sul suo petto. Chissà se in quel momento Alessandra le aveva sentite. Chissà se aveva riconosciuto le sue.
"Ti costerà un po'" -Suggerì Loretta ricordandogli i prezzi. Per un secondo il suo entusiasmo sfumò.
"Quanto?"
"Vuoi del tempo? Bene, ho bisogno di un po' del tuo tempo"
"Il mio tempo? Quanto?" -La speranza si era riaccesa. Il tempo era un prezzo ridicolo. Si aspettava qualcosa di doloroso. Non so, un tributo di sangue di quelli dei riti voodoo.
"Un giorno" -Disse Loretta- "Posso dilatarlo. Ma non così tanto. Devi darmi un giorno" -Matteo annuì soddisfatto. Non aveva niente da perdere, no? Poi gli salì un dubbio.
"Sì, okay. Ma come te lo do un giorno del mio tempo?" -Non ho dimestichezza con i giochini di magia, voleva aggiungere. Ma gli sembrò scortese.
"Lo metteremo in questa ampolla" -Rispose Loretta estraendo da sotto il tavolo una grossa boccia di vetro a collo alto- "Te ne starai qui a chiacchierare con me di Lei per ventiquattr'ore. Vuoi del tempo per salvarla? Usa del tempo per lei"
Matteo se ne stupì, per la ventesima volta, ma dopo un paio di telefonate e qualche bugia si convinse che sarebbe stato perfettamente possibile passare ventiquattr'ore fuori casa. Disse che avrebbe dormito da Andrea. Avvisò Andrea. Spense il cellulare.
"Okay, sono pronto. Di che vuoi parlare?" -Disse divertito, alla fine, sprofondando nei pouf. Allargò le braccia- "Sono qui!"
"C'è un'altra cosa" -Oddio, si disse lui, ora viene la parte del dolore. Mi chiederà il tributo di sangue e- "Se salvi una vita, dovresti dare una vita" -Addirittura la morte. Bene!- "Ma io sarò buona. Ti chiederò solo di rinunciare ad una vita" -Evvai, niente dolore fisico!- "Se vuoi tornare indietro e salvarla, devi rinunciare a Lei per sempre".


Insomma, alla fine ancora non vi ho svelato segreti abbruttiti, anche se la parola "esclusione" da sola dovrebbe farvi venire in mente qualcosa. Che cosa è successo davvero ad Alessandra? Matteo è pronto a rinunciare a Lei? In fondo sembra che la prima volta non abbia avuto problemi a farlo. Ma la seconda? Il prossimo capitolo sarà un intermezzo. E poi, vi racconterò la verità sui cinque anni che hanno passato insieme, dopo che Lei ha scambiato le loro situazioni, e senza che lui ne sapesse niente. Se avete ancora voglia di seguire, vi garantisco che scoprirete ben peggio che una frase buttata lì, mentre una ragazza è in piedi su una finestra. Recensioni sempre gradite.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Tre - Cosa ha deciso Matteo ***


Tre ~ Cosa ha deciso Matteo


Matteo restò fermo per qualche minuto prima di decidere se aprire la bocca e per dire che cosa. Perché per quanto potesse sembrare irascibile e impulsivo, Matteo ci pensava, alle cose da dire, e rispondeva male solo se davvero portato al limite. Per un attimo si gonfiò di orgoglio. Era una persona intelligente, cazzo!
Non poté impedirsi di chiedersi da quanto tempo erano lì, né se quello che avesse risposto avrebbe avuto o meno un qualche peso rilevante in quella faccenda. Ma non gli veniva in mente nessuna parola, aveva la testa vuota. Solo una parola gli fluttuava nel cervello. Fu quello che disse.
"D'accordo".
Loretta aveva sorriso a malapena, guardandolo negli occhi tristi. E appena i loro sguardi si erano incrociati, la testa di Matteo si era riempita di nuovo, aveva preso fiato e sparato come un mitragliatore.
"Ma non c'è un modo per-" -Ma Loretta aveva un giubbetto antiproiettile antiparole evidentemente.
"Mi dispiace" -Disse sollevando una mano- "Non credo che tu la meriti".
...E Matteo invece non ce l'aveva, il giubbetto antiparole. Lei aveva pure fatto centro. Gli faceva male il cuore, per poco non lo sentiva sanguinare. Si mise una mano sullo stomaco nel tentativo di non vomitare.
"Forse..." -Doveva parlare. Loretta attese- "Forse... hai ragione... Ma... io... faccio fatica ad accettarlo. Sono abituato a trovarmela intorno, visino ridente e occhi blu e tutto il resto. I regali strampalati" -Stava vomitando parole- "L'aria da sfigata" -Cazzo. Alzò lo sguardo e Loretta lo stava guardando con occhi sgranati. Fece uno scatto indietro con la schiena, terrorizzato.
Lei gli puntò il dito contro, e a Matteo non poté che ricordare il giorno al tavolo da pingpong. Si sentì il peso di tutto addosso, sulle spalle, tanto che dovette poggiare le mani sulle ginocchia per sostenerlo.
"TU" -Disse lei, e la voce le vibrava di rabbia- "Dovresti fare silenzio. L'hai uccisa tu" -Farebbe proprio comodo questo giubbetto antiparole. Soprattutto antiverità. Scattò veloce al contrattacco.
"Non posso condannarmi per sempre..."
"Non devi farlo. Non lo sto facendo" -Allargò le braccia come per arrendersi- "Manterrai la tua vita, e lei la sua. Solo che non ti amerà più come prima. Forse dovrai riconquistarla".
Brutta faccenda.
"Non ci proverò".
"Vedi qual è il tuo problema? Sei abituato ad avere il tutto servito. Vuoi tutto e su-" -Questa volta il giubbetto se lo prese da solo. Non voleva sentire un'altra sola parola. Un'altra sola verità e sarebbe scoppiato. Probabilmente avrebbe ucciso Loretta. Alzò una mano e la fermò.
"Senti, accetto questa cazzo di proposta. Cominciamo a riempire la tua cazzo di ampolla senza i tuoi commenti velenosi. So bene cosa ho fatto" -cosa abbiamo fatto- "So che ho sbagliato" -che abbiamo sbagliato- "Adesso rimedierò. AVANTI!" -Stava urlando senza accorgersene. Loretta rise un pochino, con la bocca storta per il dolore che le provocava la dentiera. Matteo aggrottò la fronte e deglutì forte, sentendosi bruciare la gola. Voleva acqua, acqua.
"Va bene. Devi pensarle intensamente"
"Devo pensare ad Alessandra?" -Fece saliva, e la ingoiò per togliersi quel senso di secchezza. Respirò più tranquillo.
"Devi pensare ai momenti passati con lei. Devi ricordarli. Sentirli..."
Okay, si disse Matteo, allora era facile. Si rilassò, non ci sarebbe voluto tanto come credeva.
"...Non ricordi qualsiasi" -Ecco, le cose si complicano, aggiunse a se stesso sospirando.
"Il tempo è di tipi diversi, e me ne serve un po' di ogni tipo.... Perché non cominci con... Non so, un ricordo felice?"
Matteo la guardò. Meglio, la squadrò. Ci pensò su un poco. Un ricordo gioioso con Ale? Ah, quella volta! Sì, si ricordava.
Chiuse gli occhi.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Quattro - La Gioia ***


Quattro ~ La Gioia


"Che fai qui, sola?"
"Forse aspettavo qualcuno"
La schiena poggiata alla bici, una ragazza in piedi che sorride. E' un'immagine sfocata, ma nitida in alcuni particolari. Come nel colore della bici, un verde sconvolgentemente speranzoso. O come nella voce, per esempio, che è cristallina.
"Ma non avevi da fare un assolo al concerto, oggi?"
"Aspettavo qualcuno per andarci insieme. Ho messo la sciarpa per non prendere freddo" -Dice soffocando la voce soffiandola nei guanti. E' gennaio, il cielo promette grigio e le nuvole promettono tanta, ma proprio tanta pioggia. Solleva la bici con fare indifferente, mentre la guardo di sottecchi.
"Rischiava di piovere" -L'apostrofo sapientemente, indicando il cielo incazzato- "Che cavolo sei rimasta qui a fare, scema?"
"D'accordo, smetto di aspettarti e vado via" -Cado dal pero.
"Aspettavi... Me?" -Ride, ed è la cosa più dolce che mi sia capitato di sentire.
"Eh, già. Anche se ci conosciamo da pochi mesi, non volevo andare sola. E sapevo che saresti uscito presto dall'aiuto compiti" -Sgrano gli occhi.
"Presto?! Stai aspettando da almeno mezz'ora!" -Mi squadra, e sembra ancora più divertita di prima. Mi sento un pesce in una boccia. Non sono in grado di proferire un altro suono.
"Quindi vogliamo perdere ancora molto tempo a lamentarci, oppure ce ne andiamo?"
Inforca la bici, e non posso che imitarla. Non posso che seguirla.
*
Guardo curioso sul palco la ragazza che mi piace. Almeno quando è lì faccio finta che non sia una strampalata. Faccio finta che non sia una sfigata con maglioni arancio e blu. Posso amarla come e quanto mi pare. La guardo sorridere, ballare anche un pochino mentre le dita leggere sfiorano le corde della chitarra. E anche quelle del mio cuore. Sento un'eccitazione che non riesco a estinguere. Calamitato dal suo sguardo, mi sporgo verso il palco per stare più vicino. E' veramente brava, dio.
Non è certo famosa, ma c'è un bel capannello di gente che guarda, stasera. Le prove le ha saltate per metà per aspettarmi, ma mi ha discolpato subito con un generico "Scusate, l'ho aspettato... no, no, non era in ritardo. Mia la colpa" -E un segno di pace. L'hanno perdonata subito. E come avrebbero potuto fare altrimenti?
Già, il suo gruppetto è abbastanza seguito, mi dico osservando divertito le persone saltellare al ritmo. Io non sarò mai capace. Ovviamente, gli unici che la considerano una punk fuori di testa sono i miei compagni. Ma Alessandra non suona punk, suona canzoni d'amore dedicate una dopo l'altra a un tipo, anche se lo dice solo alla fine, che sono dedicate alla persona che ama. Non fa nemmeno il nome, sa che lui se ne vergognerebbe anche se lei è sfacciata. Penso che abbia assolutamente ragione.
Mi fa l'occhiolino mentre scivola via il suo assolo dell'ultimo ponte. Suona come non ha mai fatto, e per un'ora o poco più mi lascio prendere da quella musica, fingendo davvero che suoni per me. Credendo sul serio che mi ami anche se non me l'ha ancora confessato. Ma lo farà presto, poco dopo, sul retro del palco. Lo farà con un abito blu, lo stesso blu della notte, lo stesso blu del mare e lo stesso blu dei suoi occhi. Lo stesso blu del concerto.
"Sei stata brava" -Dico sorridendo, e tendo la mano. Lei non la prende e non la stringe. La guarda un po' alienata.
"Grazie per avermi ascoltata" -Dice alla fine, e abbasso la mano. Mi fissa, con il blu del mare, e io annego. Annego, annego, aiuto, non respiro, e poi prendo aria e me lo ricordo. Non va bene, è una sfigata, è impopolare. Non mi ci posso legare. Mi prenderebbero in giro per il resto della vita e- che razza di problemi. Sto annaspando.
"Ah, senti, volevo dirti una cosa" -Dice Alessandra, e mi guarda di nuovo. Affogo. Non riesco a stare a galla. Distolgo lo sguardo e respiro ancora. Questa volta prendo tanta aria, così dopo ne ho di riserva. Almeno posso stare sotto per un minuto, o due. Lei è l'unica che mi guarda negli occhi quando parlo. Gli altri sono interessati ai miei piedi, alle mie camicie. Qualcuno all'orizzonte dietro di me.
"Eh, sì, dimmi..." -Sussurro cercando di non perdere troppa aria. Fra poco tornerà a fissarmi- "Che poi andiamo a casa che è tardi e fa freddo"
"Più che altro questo" -Si avvicina al mio orecchio, e io mi irrigidisco e sono paralizzato. Come potrò aggrapparmi a qualcosa, qualsiasi cosa, se sono paralizzato? Come farò a muovermi, mi domano, ma intanto il profumo di cannella e fragola mi toglie il respiro -di nuovo- e che mi importa se non posso muovermi? Meglio così. Voglio annegare. Le scosse che mi corrono sulla schiena mi fanno quasi tremare, voglio dirle di smetterla di stare così vicina, ma chi è mai stato capace di parlar sott'acqua? 
"Forse mi sono innamorata di te" -Deglutisco, e prendo fiato. Ho ancora gli occhi chiusi. Sono sott'acqua ma questa volta è bello. Fluttuo. Mi muovo veloce e fluidamente. Lei mi ama! Il primo impulso che ho è di scriverlo su un muro. Poi ricordo.
Mi stacco un secondo, sorrido e tentando di nuovo di non precipitare nei suoi occhi per non affogare ancora, cerco una risposta adatta per non ferirla. Cerco, cerco, e annaspo, e alla fine cedo, m'attacco a qualsiasi cosa, a una roccia di serenità, non lo so. Non lo so.
"Forse...?"
*

Loretta lo guardò dimenarsi leggermente e sorridere mentre l'ampolla si riempiva di un delicato vapore rosastro uscito da chissà dove. Gli sventolò una mano davanti alla faccia, ma quello non accennava a riaprire gli occhi. Ridacchiò.
"...Oddio, questo è il tuo ricordo più gioioso?" -Matteo aprì gli occhi di scatto, rabbrividendo d'imbarazzo.
"Eh?" -Ma dov'eri, Teo, nel mondo dei sogni? Accidenti, si disse- "Eh, sì, cioè, è stato il momento in cui siamo stati più insieme, più vicini. Da allora... Non ho più avuto il coraggio di starle vicino... Sapevo che me ne sarei innamorato... Forse... Lo ero già e... Ne avremmo sofferto entrambi" -Non era proprio vero. Circa. Forse- "Perché lei era troppo diversa da me, da noi" -Fino a quel momento si era sempre sforzato di non dire noi. Di non dire cose come se fosse cambiata l'avrei voluta, perché non erano vere. Non voleva dire che l'aveva gettata via perché era diversa dalla massa. Ma lo era, e non poteva farci nulla. Sospirò.
Loretta dovette intuire il suo tormento, perché non fece domande, ma sospirò a sua volta tappando l'ampolla.
"Allora possiamo passare ad un pensiero triste...?"

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Cinque - La Tristezza ***


Cinque ~ La Tristezza


Vorrei essere capace di giudicare meglio le situazioni. Vorrei essere in grado di capire quando la situazione è arrivata al punto di non ritorno. Vorrei essere capace di evitarlo. Da quando, comunque, hanno inserito questa nuova materia del cazzo che si chiama "Comunicazione", e in realtà altro non è se non "Teatro", ho paura sempre più spesso di andarci vicino, di cadere, di superare la linea. Perché questo spettacolo lo stiamo organizzando bene o male da soli, e quell'idiota di insegnante non sarebbe in grado di tenere a bada un canarino. Quindi quelle due ore mi fanno una paura fottuta. Se qualcuno fa qualche stranezza potrebbe pure venire picchiato e nessuno ci farebbe troppo caso.
Alessandra naturalmente in questo è specializzata. Ogni volta se ne salta con una proposta o una sciocchezza diversa, e visto che è stato scelto "Romeo e Giulietta" da inscenare, ha già messo in mostra un paio di idee strampalate. Da cui ovviamente è nata ogni volta una discussione, una di quelle che la fa piangere e scappar via. Sospiro, perché oggi ci sono i provini invece. E lei ha scelto di provare Giulietta naturalmente, con quella sua gaiezza ottimistica e anche un po' cretina se posso dire. Forse l'ha fatto perché sa che mi sceglieranno per Romeo. Non fiato.
Comincia a parlare e sorrido, è davvero perfetta. Ha tutto di Giulietta. Dal primo all'ultimo sospiro. Ha il tormento, e la bellezza, e la magrezza. Ha i lividi, che vedo sotto la maglietta anche se lei li copre con cura, sono sempre lì. Ilaria l'apostrofa subito, a metà discorso e io vorrei tirargli un pugno.
"Scusami tanto, ma sei proprio stramba" -Che simpatica, ma sta facendo un provino, no? Lasciala parlare. Vorrei dirlo, invece annuisco genericamente mentre Ilaria rincara la dose- "Come parli? E poi guarda, quel vestito proprio non c'entra nulla".
Anche Ilaria mi fa paura, anche se è la mia rappresentante. Questo perché non ha paura ad attaccare.
"Tanto in scena ci sono i costumi, no?" -A me sembra un'obiezione più che intelligente, che importa se Ilaria non è d'accordo sui suoi vestiti? Insomma, mica deve fare la sfilata di moda adesso, deve fare un provino. Qualcuno però commenta da dietro, commenti velenosi. Mi gratto la testa, ne arriva anche uno diretto a me, da parte di Andrea-"Quella sta proprio fuori".
Non posso che annuire guardandola. E' fuori dal nostro mondo. Con questa gonna molto country, questo sorriso agghiacciantemente largo quando tutti le stanno dicendo gentilmente che è strana. E' proprio diversa. Vorrei dire che diverso è bello qualche volta, che magari dovremmo provare a darle una possibilità, aprirle la porta.
Ilaria la sta ancora tormentando, lei risponde a tono. Io sto ancora zitto, ma so come finirà. Vedo Federica, prova a fermarla, a dirle di smetterla con questo provino, che chissene frega di questi scemi, andiamo via, ma lei è così. Mi piace anche così. Ma è così, deve dire ciò che è. Esprimerlo.
Questa è una cosa che uno come me non potrà mai essere capace di fare, e forse per questo la invidio. Perché ho paura di essere me, per paura di subire quello stesso trattamento. Una esclusione, o qualcosa del genere. Non credo che potrei sopportarlo, non sono abbastanza forte. Ilaria sta ancora gridando.
"Ti dico una cosa, ragazza. Tu sei scema, matta da legare" -Assensi. Le punta il dito contro- "Devi venire da Marte o da chissà dove... allora, da dove vieni, da Marte o da dove? Perché non te ne torni da dove sei venuta?"
Lei si piega su se stessa come un petalo, come fa sempre. Non piangere, per favore, prego.
"Sto solo facendo un provino" -Nessuno sembra averla sentita, comunque.
"Senti, vuoi fare le cose in modo diverso? Bene! Vattene! Non farlo nella mia classe, chiaro? Fuori dalla mia classe! Ostracizzazione!" -Mi sembra decisamente esagerato. Penso che magari anche loro hanno paura, come ho paura io. Ma molte mani si alzano. Altre. Altre ancora. Stringo i denti.
"Trovati un ragazzo, cazzo!" -Avvampo e mi faccio più piccolo che posso. Quasi mi viene da piangere. Tutti sghignazzano, rumoreggiano, si sporgono mentre lei cerca di difendersi. E' il banco della giuria, e lei è l'imputato. Lei è solo se stessa, è così bella, perché non gli piace?! E io? Io la vorrei, la vorrei con tutto il cuore, vorrei alzarmi e pararmi davanti a lei a braccia aperte e urlare basta, basta! lasciatela stare! Ma non sono un cavaliere. Non sono un eroe. Così non posso averla. Non sono in grado di difendere né me né lei da loro. Non è detto che essere se stessi sia un vantaggio in questo mondo grigio. Se metti colore è davvero un casino, per te.
Adesso mi fissa. Mi sta implorando con gli occhi blu. Aiuto, chiede, aiuto. Ti prego, sembra dirmi, almeno tu, almeno tu che io amo così tanto. Almeno tu guardami, dì qualcosa. Almeno tu. Sembra una carcassa di zebra morente, con i leoni intorno che aspettano di darle il colpo di grazia per divorarla.
Volto la testa, non voglio guardare. Se guardo rischio di piangere.
*

Si riempì di nero, l'ampolla.
"Vuoi dirmi che non ti sei nemmeno alzato e non hai detto nulla?" -Matteo scosse la testa, coprendosi la fronte con una mano.
"Nemmeno una parola" -Disse, più a se stesso che a lei, con un filo di voce- "Non sono capace di remare controcorrente".
Loretta capì e abbassò il capo.
"Cambierà, però" -Disse lui risoluto. Bastava poco, poco tempo, doveva tornare a salvarla. Salvarla da tutto. Dalla morte, dalla vita, da Loro. Da tutto. Da Loro che la volevano diversa, da loro che la volevano uguale. Da loro che la prendevano a capro espiatorio. Quante persone la pensavano come Matteo e non si erano alzate, quel giorno? Non l'avevano fatto per paura di diventare imputati. Zebre.
"Che ricordo devo rispolverare, adesso?"

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Sei - La Rabbia ***


Sei ~La Rabbia


Poche persone mi fanno arrabbiare come Giovanni. E non lo dice uno che è facile alla rabbia, credeteci. Pochi mi fanno arrabbiare come lui. Giovanni è il tipico esempio di secchione-non-sfigato. Si è affermato lasciando che Gabriele copiasse i suoi compiti, e che Andrea prendesse le sue risposte. E' molto intelligente e parecchio perspicace; è una persona che sa quando essere gentile, ma anche quando smettere e dire un bel no secco per evitare di non farsi rispettare. E' una persona da stimare, o almeno così sembrerebbe. E' gentile con tutti, sempre, ma sotto sotto -credetemi se lo dico- è uno sporco ipocrita di quelli proprio del cazzo, che davanti dicono una cosa e stà certo che fra due minuti ne hanno detto un'altra alle spalle.
Comunque in fondo basta stargli lontano, ed è quello che faccio di solito; non me ne importa niente di quello che fa, almeno finché non lo vedo con Alessandra e capisco che sta tramando qualcosa. Perché è questo che fa, Giovanni. Trama. Sempre e comunque.
Lo sento bisbigliare con lei. Mi sale qualcosa in corpo, sono vicini come eravamo vicini quella sera? Impossibile, lei non lo farebbe mai. Non è una facile. Vorrei proprio sapere cosa si stanno dicendo. Faccio in tempo a fare due passi e lei ha già annuito e si sono separati. Se ne va. Lo raggiungo subito in giardino, curioso di sapere.
"Oh, ma perché parlavi con quella sfigata?" -Dico calciando un sasso con aria indifferente. Mi sento una merda a chiamarla così.
"Così, dovevo chiederle una cosa di Latino. Lei va troppo bene in Latino".
E la cosa mi puzza subito, perché Giovanni va molto meglio di Alessandra in Latino.
"Non prendermi per il culo Gio, che le stavi dicendo...?" -Nella mia voce c'è un sibilo che quasi non riconosco. La mia mano s'è chiusa a pugno.
"Ma scusa, a te che te ne frega" -Chiede lui, e ha ragione- "Stavo parlando con lei! Le dicevo della festa di Halloween, voglio invitarla"
Ah, vedi che c'è l'inghippo. E di sicuro ci sarà anche un motivo per cui lui vuole invitarla... Bisogna farlo saltare. Metto la maschera da amicone e mi avvicino aggrottando la fronte in modo convincente.
"Ma sei scemo?" -Comincio- "Hai il cervello in pappa a invitare quella alla festa?! Guarda come cazzo si veste! Voglio dire, è sfigatissima e rompe pure per l'alcool! Sei proprio una testa di cazzo!" -Ottimo, mi dico. Ho fatto un ottimo lavoro. Non si è accorto di niente perché mi guarda scocciato, e io mi sento sempre peggio. Insomma, pur sempre mi piace.
"Ho bisogno che mi porti del ghiaccio secco" -Almeno ha funzionato- "Quella ce l'ha gratis con la madre, e così non lo pago. Tutti vogliono degli effetti da paura. E poi, intendimi...".
Mi fa una faccia eloquente e sono costretto a scuotere la testa. Sto per vomitare. Giovanni è proprio sempre il solito. E mi verrebbe davvero da dire sfigato, ma con lui non si può dire.
Uh, se la vita è ingiusta.
*
"No, ci vado con la madre di Giovanni" -Dice velocemente rifiutando il mio invito. Io ci resto spiazzato, strano, non è da lei rifiutare un mio invito.
"Ale, dai, per favore, vieni con me" -Insisto, e mi sento patetico davvero. Spero che mi dica di sì. Lo so cosa vuole fare Giovanni, prendere il suo maledetto ghiaccio secco per gli effetti e mollarla. Porco e stronzo. Anzi, forse già che c'è, mi ricordo la faccia di prima e capisco che probabilmente le vuol dare una botta già che è lì e ...
"Matteo, no..." -Cerca i miei occhi infiammati di rabbia- "...Dai, gli ho detto di sì, non farmi pentire" -Sorride leggera, e sembra contenta davvero.
Giovanni, sei una merda.
Mi sta crescendo qualcosa dentro di nuovo, ed è una fiamma tale che la prendo per le spalle e la scrollo, e quasi la sbatto al muro. Non sono un violento, lo giuro. Ma nessuno mi fa arrabbiare come Giovanni e... Sto per vomitare davvero. Parole però.
"Senti" -Le dico sottovoce guardandomi intorno- "Ma non lo capisci proprio che lui da te vuole solo l'utile e poi ti butta via?"
Lei mi guarda ancora negli occhi, devo sforzarmi a mantenere la calma. Cazzo. Il sorriso s'è spento.
"Ma che cos'hai? Forse non ti piace Halloween?" -Come è possibile che sia così idiota? Come è possibile che non capisca? Adesso non è solo Giovanni a farmi arrabbiare, ma lei. Lei con la sua ingenuità, lei con le sue gonne di merda, lei convinta che il viola e il giallo si amano e che i mughetti parlino con il sole. Lei e tutte le sue stronzate da prima elementare, e mi arrabbio ancora di più perché le amo anche io. Adesso sono arrabbiato anche con me, e non riesco a fermare questa rabbia terribile, assordante. Mi pulsa la testa e non riesco a non urlare.
"Svegliati!" -Sono a due centimetri dal suo naso- "Quelli non ti vogliono alla loro festa!"
Aggrotta la fronte e sembra arrabbiata anche lei, ma quando mi risponde il suo tono di voce è calmo e freddo.
"Idiota" -Mi volta le spalle spostando le mie mani, ma prima di rientrare si gira di nuovo e il sorriso è tornato. Mi viene da piangere, di nuovo- "Ci vediamo stasera"
Domani non verrà a scuola.
La giustifica citerà, con la sua calligrafia tonda e un po' tremante, forte mal di testa; ma io so cosa è successo.
*

Scosse la testa pensierosa mentre il vapore color ambra passava nell'ampolla.
"Ci hai provato" -Disse. Matteo aveva aperto gli occhi e stava ancora sbraitando, senza rendersene conto.
"CAZZO! Non mi ascoltava quando doveva, e quando on doveva non lo faceva. STUPIDA, CRETINA! Maledizione!"
Loretta annuì, grave, intuendo il profondo dramma che Matteo subiva nell'incomunicabilità della situazione.
"Lo sai, non è facile distinguere. Nemmeno tu ci sei riuscito"
Matteo respirò a fondo per prepararsi; mancava ancora un bel gruzzoletto di ore. Bene, le avrebbe fatte fruttare.
"Che mi dici del Rimpianto?"
Matteo respirò ancora, ancora più a fondo. Rabbrividì solo pensando al ricordo che si stava formando nel suo cervello, e cercò di scacciarlo. No, ti prego, questo no. Non questo. Scosse la testa. No, questo no. Non poteva sopportarlo.
Alessandra, si disse in silenzio senza riuscire ad impedire che il ricordo lo travolgesse come un fiume in piena, prima o poi mi perdonerai.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Sette - Il Rimpianto ***


Sette ~ Il Rimpianto


Ovviamente non posso non dirglielo. Che cosa faccio, faccio una festa di compleanno senza dirglielo? Senza invitarla? Insomma, è il mio compleanno e posso non dirle nulla? No, no di certo. E poi lei la sa la data, verrebbe a saperlo. Un bel dilemma. Allora facciamo così, dai, lo dico alla classe. Così lei è compresa, ma nessuno la costringe a venire. Ah, chi voglio prendere in giro, lei verrà sicuramente! Con i suoi boccoli biondi e forse un regalo strano e bellissimo che profuma di nuovo, come quelli che mi regala sempre.
"Il ventitré, che è sabato" -esordisco una volta ottenuto il silenzio- "Faccio una festa per il mio compleanno. Ovviamente siete tutti invitati a casa mia per festeggiare. Cena offerta e musica per tutta la notte!"
Il rumore mi fa sapere che approvano. Non ho specificato che il volume resterà basso, ma so che le persone lo sanno già in qualche modo. Qualcosa mi dice che va bene anche così. Andrea mi da' una pacca sulla spalla, e si allontana sorridente. Alessandra sussurra qualcosa a Federica, ma non riesco a sentirla.
Poco dopo, sento dire che l'accompagnerà il padre di Federica a casa mia il ventitré. Mi sento male, ma in fondo in mezzo a tanta gente non c'è da preoccuparsi. Saranno tutti troppo occupati per pensare a lei.
Vero?
*
Arriva con il vestito blu notte, e mi fa girare la testa anche senza sentire il suo profumo. La vedo alla finestra; molti sono già arrivati. Quasi tutti a dire la verità, mancano solo due persone. Lei e Federica. Dai, suona, le dico silenziosamente osservando la testa d'oro nel nero della notte, così nessuno ti nota, sali e stai qui un po', stiamo insieme, vicini. Potrò baciarti forse... Dai!
Ma Alessandra non è il tipo che fa il suo ingresso in silenzio. C'è sempre una componente di sfortuna nelle sue situazioni, questo è da ammettere. Tuttavia a volte credo che sia lei a tirarsela dietro, come una coda.
Federica suona prima di lei, e sale in cinque minuti. Alessandra -non capisco come mai- non è con lei. Guardo di nuovo dalla finestra mentre la gente attinge dal buffet di focaccine e pizzette. Ne sto mangiucchiando una ma non per davvero, non riesco ad ingoiare bene. Ha dimenticato la borsa in macchina! Esce dalla portiera sbattendola e l'auto riparte gentile. Vorrei quasi uccidermi, tanto ho paura. Mi tremano le gambe. Forse sto sparendo, adesso, sotto il tappeto. Vorrei fingere che fosse la festa di qualcun altro.
Ho un presentimento improvviso. Vorrei urlare di non suonare, scendere io a prenderla, e subito. Ingoio un altro boccone minuscolo di focaccina e quello si deposita sul fondo dello stomaco come un sasso. Mi sta rovinando la festa, e non capisco il perché.
All'improvviso Andrea mi si avvicina. E' insieme a Gabriele. Brutto segno. Bisbiglia qualcosa al mio orecchio, ma io sono stordito e non capisco cosa abbia detto. Sghignazza soddisfatto mentre borbotta con Andrea di nuovo, e di nuovo non sento, che cosa stanno dicendo? Sto aspettando ancora che suoni il citofono.
"Te l'immagini la sua faccia quando non le aprirai?" -Oh, cazzo.
Mi gira la testa, mi gira la testa.
Suona il citofono.
Ma quanto ci ha messo a trovare il nome?!
Mi faccio strada fra la folla di persone che mangiano nel salotto di casa mia, mi sembrano facce bianche. Mi sorreggono, per fortuna. Mi gira la testa. Faccio per sollevare la cornetta del citofono, ma vengo spiazzato da un altro suono acuto di tromba. Evidentemente Alessandra non si accontenta di suonare una volta. Deve farlo DUE volte.
Rispondo, "Sì?"
In realtà so perfettamente chi è, manca una sola persona, e poi c'è la telecamera al pianterreno, che trasmette l'immagine al citofono. Non che ne abbia bisogno per sapere chi è. Ma sto prendendo tempo. Comunque, non sento nemmeno la sua risposta che una mano mi arriva alle spalle, afferra la cornetta e la riattacca. Mi volto seccato e mi trovo di fronte Gabriele. Dietro di lui c'è Andrea, e sembra quasi che si nasconda.
"E dai, che ti importa, non aprire"
"Dai, ha anche un regalo..." -Dico sembrando materialista e ridendo, quando mi viene da vomitare anche solo all'idea di quella orribile proposta.
"Non aprire, torna di là con noi" -In questo preciso momento so esattamente come andrà a finire, lo capisco dal tono della sua voce. Prendo aria e guardo il soffitto, e suona ancora. Suona, di nuovo. Fa come una tromba nella mia testa. Suona, risuona, risuona ancora. Tiro su di nuovo il citofono per chiedere chi è. La mano l'abbassa per la seconda volta.
E suona.
Basta, mi dico, basta! Mi volto verso Gabriele e Andrea, e non c'è pietà dentro i loro occhi. E' una prova, una specie di scelta. Loro sono i miei 'amici'. Andrea forse è l'unico che abbia mai avuto. Non potete chiedermi di scegliere, no, vi prego. Mi arrabbio.
"Sentite, piantatela un po' per favore. Fatela salire e facciamola finita" -Sibilo, più a Gabriele che ad Andrea... Beh, Gabriele è il personaggio più imbecille mai apparso sulla faccia della terra, ma se sta dalla tua parte allora puoi garantirti l'incolumità. Guardo Andrea. Sembra che lui l'abbia capito e siano in due contro uno, adesso.
"Se la fai salire, ce ne andiamo noi" -Dice Andrea, con indifferenza. Sgrano gli occhi. Non può averlo detto sul serio, ma Gabriele sghignazza e si fanno un cenno d'intesa. Sono d'accordo. Oh, no, vi prego. Per favore... Non potete chiedermi di scegliere.
Alessandra suona di nuovo.
Vorrei davvero tapparmi le orecchie, entrare in una bolla e smettere di sentire questa musica.
"Allora?" -Chiede Gabriele.
Lo guardo, mi fa schifo. Così schifo che non posso pensare che mi abbia rubato anche l'unico amico che avevo. Scuoto la testa. Suona per la quinta, sesta, settima volta. Non lo so, non le ho contate. Prendo il citofono con decisione, e me ne frego di quei due coglioni.
"Sì, chi è?" -Chiedo con tono forte. Poi sento la sua voce, e mi sembra metallica e distante mille miglia...
"Sono Ale. Perché non rispondevi? Hai il citofono un po' rotto?" -Ridacchia e anche la sua risata gracchia nel citofono. Sembra irreale. Mi si stringe un nodo in gola. Quanto è ingenua.
"Ale chi?" -Prendo tempo. Ma che devo fare?!
"Alessandra, scemotto. Dai, fammi salire, che fa un freddo cane"
Purtroppo l'amore non importa adesso. La voce non è mia. Le parole che pronuncio non mi appartengono.
"Spiacente, non ho invitato nessuna Alessandra" -Attacco il citofono con violenza, sussurro 'scusa' ad Andrea e Gabriele e vado in bagno. Vomito. Da lì sento ancora suonare il citofono. Lo fa altre due volte, poi s'arrende, allora viene sotto il balcone e grida, di farla salire per favore perché piove, e fa freddo. Torno in sala, devo essere parecchio pallido ma stiro un sorriso e mangiamo. Mi verso ancora da bere compiendo anni coraggiosi, e mangiando la torta mi sento molto più sfigato di lei; lei continua a urlare da sotto il balcone.
Vuole una fetta di torta.
Vuole salire.
Vuole partecipare.
Ha un regalo per me.
Gli altri sembrano non sentire, ma io le sento tutte le sue grida. Prima nitide, poi sfocate, infine rotte da un pianto disperato. Non la vedo, ma so perfettamente che il mascara nero è tutto sulle sue guance e che è accoccolata sotto il mio portone. Sento tutte le sue lacrime nell'anima, bruciano come acido nel mio cuore. Domani mattina troverò il regalo con un biglietto scritto e decorato a mano in un cestino della spazzatura, e lacrime salate sul nastro. Sarebbe stato l'unico regalo bello della serata, un libro che desideravo leggere da sempre. Vorrei che fosse lei a darmelo. Vorrei scartarlo insieme agli altri, vorrei che il suo bicchiere sbattesse contro il mio, non cento altri, e cento ancora.
Ma a quest'ora non entra e non esce nessuno, non può salire. Può solo urlare contro una porta chiusa. E allora grida. Perché, chiede allora, perché se mi ami fai questo.
Stringo gli occhi, e i pugni, mentre le persone gridano intorno a me e io sento solo la sua voce.
Perché, grida, io l'ho sempre saputo comunque che tu mi ami! Il contrario è impossibile, lo vedo come ti comporti con me. Lo vedo come mi guardi. Io lo sento! Lo so che mi ami, lo so!, grida.
Ma non sa che ci sono cose di me che non le dirò mai.
Non le ho mai detto che la preferivo con i suoi soliti capelli sciolti, né che adoravo sentire il suo respiro su di me, quando mi abbracciava, né che spesso i suoi baci sulle guance profumavano di menta e caramelle al limone, né che quando rideva avrei voluto registrarla, e né che usavo addormentarmi con qualcosa di suo accanto ripensando alla nostra prima sera, e neppure che non aveva bisogno di truccarsi per essere la più bella.
Non le ho mai detto veramente che l'amo, ed è un rimpianto che mi logorerà in eterno.
Ma sono felice che lei lo abbia sempre saputo comunque.
*

Matteo si soffiò il naso con grosso rumore, chiedendosi perché gli bruciassero così tanto gli occhi in quel momento esatto. Mentre il blu saliva smisuratamente nel contenitore di vetro, lui singhiozzava come un bambino pensando alla sua voce. Alla voce di Ale. A come l'aveva lasciata sola. A come l'aveva lasciata sola di nuovo. A come non l'aveva più trovata sotto casa la mattina dopo, andando a scuola. A come gli avevano raccontato che comunque si fosse addormentata lì. A come non aveva avuto il coraggio nemmeno di spingere un bottone, né di scendere a chiederle come stava, né di portarle un po' di torta avanzata a fine festa, magari di sedersi con lei e parlarle di Andrea, e di Gabriele. E di come avesse avuto paura di perdere il suo unico e falso amico.
"Mi dispiace" -Disse Loretta- "Non volevo".
"E' a me che dispiace" -Rispose lui. E quando lei disse che doveva parlare di un ricordo imbarazzante si preparò a resistere. Dio, fa' che manchino solo poche ore, si disse.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Otto - L'Imbarazzo ***


Otto ~ L'Imbarazzo

Quando qualcuno mi chiede di pensare a qualcosa di imbarazzante, prima l'associo alla paura e poi il mio pensiero vola ad un film che guardavo da bambino. Non so se l'avete visto, ma è famoso e con uno strepitoso Robin Williams: Mrs. Doubtfire. Quando ero più piccolo ero quasi terrorizzato dalla scena finale, quella in cui lui ubriaco cade, rivelando il suo travestimento e la moglie -ex moglie, credo- gli grida addosso davanti a tutti. Ho sempre pensato che se ci fossi stato io, al suo posto, avrei preferito morire che trovarmi in una simile situazione. Quando ero più piccolo, quando arrivava quella scena mi sentivo così male che o mandavo avanti il nastro, oppure chiudevo gli occhi e mi tappavo le orecchie per non vedere e non sentire. Alla fine, ho smesso di guardare quel film perché mi disagiava troppo. La videocassetta fu dimenticata con i cartoni animati.
Ho rivisto quel film anni dopo, in DVD, a casa di uno di loro -non importa chi- e quando sono arrivato a quella scena, gli altri hanno riso. Trovavano divertente, mi stupii nel constatarlo, ciò che io avevo trovato terrificante per anni. Risi anche io, lo ricordo bene. Questo non toglie che la scena mi faccia ancora ora un grande effetto al cuore, e che non vorrei trovarmi lì tutt'oggi anche se ne andasse della mia vita. Ma l'esorcizzai. La gente ride di chi è in imbarazzo perché è felice di non stare al posto loro, decisi. Io ho sempre riso con loro per esorcizzare l'immensa paura di trovarmici, un giorno. Di farmi scoprire, vestito da donna, capitombolando da un tavolo e tutti gli occhi su di me. Un incubo.
Da questo momento, però, non ne riderò mai più.
*
Ho un sacchetto di liquirizia in una mano, una grossa cartelletta blu nell'altra. Sembro un dottore, penso. La liquirizia sbatacchia allegramente, e non posso fare a meno di pensare che è una splendida giornata. Alessandra però non viene a scuola da due settimane, e anche se non tutti la adorano, alla fine insieme abbiamo deciso di mandarle un regalino e gli appunti. Io vengo scelto come emissario, compro una confezione di liquirizia -so che le piace- la lego con un fiocco rosso riciclato e, indirizzo alla mano, mi dirigo fischiettando verso casa sua. Non riesco a non saltellare, e quasi ballo. Saluto una signora con un cane, "Buongiorno!" e quella arrossisce; io riprendo a fischiettare. Saltello e ballo da solo fino a casa sua. Salto praticamente a pié pari i tre scalini che mi separano dal citofono e comincio a scorrere i nomi. E' primavera, e c'è il solre, e fantastico sull'idea di una passeggiata, una fischiettata in duetto, un bacio... Torno ai citofoni, riprendo a correre sui nomi, ci salto sopra uno ad uno. 
Corelli, Fasani, Casalino, Ferrani, Gioacco, Mazzetta, Cazzara (Ma come si fa a chiamarsi Cazzara?!), Torriani, Rossetti... Oh, cavolo, non c'è.
Tiro fuori il foglietto con l'indirizzo, controllo i numeri e la scala. Tutto giusto, 483/D.
Allora riprendo a correre sui nomi. Treni, Dono, Della Porta, Cazzara (Dio, come si fa?) -non c'è proprio.
Sbuffo a un passo dalla meta, alla scuola hanno sbagliato. Hanno copiato male l'indirizzo o chissà che cosa. Sono delle vere teste di cazzo, prima in testa quella cretina della segretaria e-
"Sei dei servizi sociali?" -Alzo lo sguardo su un uomo che a occhio e croce ha una sessantina d'anni, ma porta i sacchetti della spesa con facilità. Sembra forte, e ha gli occhi forti. Sorrido, in imbarazzo.
"No, no, no no" -Dico no almeno dieci volte- "No, voglio dire, cercavo Ferri ma non è sul citofono. Devo aver sbagliato indirizzo" -Fissa la cartelletta blu e capisco il malinteso. Ridacchio.
"No, sono solo compiti" -Ho detto no di nuovo- "E la liquirizia" -Spiego gentilmente.
Lui sorride, ma gli occhi forti adesso sembrano fissi, tristi. Tira fuori le chiavi e non dice niente, me le tende e fa un segno con la testa. Capisco all'istante, afferro le chiavi e apro la porta per lui. La tengo aperta mentre la varca, sorrido e saluto.
"Beh, arrivederci allora" -Dico, ma quello mi ferma.
"No, no, non andare via" -Questa volta ha detto lui di no, due volte- "Abita qui!" -M'illumino.
"Oh, davvero? Non ho trovato il nome, che imbranato" -Non è vero. Non sono un cretino, il nome non c'è e ne sono sicuro.
"E' sotto Bacchi, il nome della madre" -Ritiro, sono un imbecille. Come ho fatto a non pensarci? Almeno la segretaria poteva scrivermelo... Che troia. Mi riservo di dirgliene quattro domani!
"Grazie" -Dicco, e sono sincero. Meno male che è arrivato, meno male che mi ha scambiato per i servizi sociali. Alzo la testa, ma è sparito su per le scale, lentamente. Torno al citofono, individuo Bacchi in pochi secondi e suono. La voce che risponde è così acida che quasi devo arretrare.
"Sì, chi è? No posta!" -Ammazza.
"Sono solo un compagno di Alessandra"
"Ah" -Silenzio.
"Posso... Salire?" -ma che succede? Silenzio- "Ho un regalo, e gli appunti"
"Ah" -Silenzio.
"Signora?" -Finalmente sembra scuotersi.
"Certo, sì, sali. Terzo piano" -Il portone scatta e io scatto con lui, spingo e corro come un pazzo su per le scale, supero il signore dagli occhi forti, lui sorride. Leggo, finalmente, Ferri sul campanello. Sto per suonare e sento schiantarsi per terra la borsa della spesa. Lo saluto e mi rendo conto di avere il fiatone. Lo guardo tirar fuori le chiavi e, guarda un po', è proprio lui il signor Cazzara (Poveretto). Infila le chiavi nella serratura e parte il primo urlo.
"GLIEL'HAI DETTO TU, DOVE VIVIAMO" -Guardo in faccia il signore, ma non dice niente. Secondo urlo.
"SE CI VENGONO A PRENDERE TI FACCIO SBATTERE IN ORFANOTROFIO" -Gentile da parte sua. Guardo il signore, spaventato. Ma che succede? Terzo urlo.
"TRA POCO CHIAMERAI I SERVIZI SOCIALI!" -Per ogni urlo, sento la botta. Cazzo. Così mi ha detto, sei dei servizi sociali? Ora capisco. Arretro, ma perché non sta facendo niente? Perché non chiama la polizia? Perché entra in casa così? Mi guarda un'ultima volt con gli occhi forti, mentre chiude la porta. Io tremo. Nemmeno io sto facendo niente. Ma le grida sono cessate.
"E QUANDO SALE, QUELLO!?" -Dio. Mi aggrappo al campanello con forza. Sento il suono al di là della porta e ho il cuore in gola. Mi apre un'Alessandra con vent'anni in più. Sua madre. E' bella e quasi non si nota quanto sia stanca.
"Buongiorno" -Cerco di fermare la voce. Ma il cuore galoppa, e se lo sentisse? Arrossisco, ed è allora che divento Mrs. Doubtfire.
"Sì, uhm, ciao" -Mi aspetto che mi inviti a entrare, ma non lo fa. Mi dondolo sui piedi, sembra poco abituata a vedere persone. Da dietro spunta una testa bionda, e sorride. Grazie, penso, è venuta a salvarmi!
"Matteo! Vieni, dai" -Solo allora la madre si scosta, e io entro in casa. Mi accoglie un odore di tabacco stantio che non so come mi fa sentire subito a casa; Alessandra mi prende per mano e le preoccupazioni di prima spariscono. Me le sarò immaginate. La sua camera non è oscura, non sembra quella di una tormentata, non c'è sangue rattrappito. C'è un poster autografato di Taylor Swift e un sacco di dischi. Molti libri. Ci sono fumetti e un armadio rosso, e un tappeto a forma di coccinella. Le do la liquirizia.
"Oh, Teo, grazie" -Dice lei in un soffio, e sembra talmente felice che non ci credo. Sono cose stupide. Cose minuscole. Le tendo la cartelletta e quasi piange di gioia. Sono terribilmente imbarazzato, ho ancora la giacca addosso. Si china sulla cartella per prendere qualcosa, ed è allora che la vedo. Le grida sembrano tornarmi nelle orecchie quando, per un secondo, la sua maglietta si solleva e scopre un pezzo di blu. L'afferro per un polso e la tengo stretta.
"Ma che è?" -Chiedo sollevandole la maglia- "Che è, Ale?"
Leggo il terrore nei suoi occhi, un segreto che doveva restare tale. Si scrolla. Ma la tengo, sono molto più forte. E lei è magra. Lei è debole. La tengo.
"Niente, io... Niente! Lasciami!" -Non lascio, le sollevo tutta la maglietta e non trattengo due brividi. Il primo è per l'allacciatura del reggiseno, il secondo è per la schiena tumefatta. Sono lividi, mi comunica il mio cervello. Sono tanti, sono blu e gialli, e qualche taglio. Si dimena, ma la tengo ferma con facilità.
"Chi è stato?" -Tanto la risposta la so già- "E' tua madre, vero?"
"BASTA! Io..." -Scoppia a piangere, ma non lascio la presa. Sono cattivo adesso. Un istinto mi si sveglia dentro e al posto di stringere di più però allento e l'avvolgo. L'abbraccio e poggio il mento fra la spalla e il collo, anche se sono più alto. Sento la sua schiena scoperta sulla mia pancia, attraverso la maglietta, e ho un altro brivido.
"Andrà tutto bene" -Dico- "Te lo prometto"
Ma è una promessa che infrango cinque secondi dopo, quando sua madre apre la porta e io sono vestito da donna, sono Robin Williams e preferirei essere morto. L'imbarazzo diventa velocemente paura, non sono in grado di fare niente quando sua madre grida, grida FUORI, Alessandra si strattona la maglietta e la sento strapparsi, e sento il colpo mentre esco, mentre scappo lontano. Lontano da lei, dalla liquirizia, dai lividi, dagli occhi forti del vicino, che mi ha scambiato per i servizi sociali.
Corro finché le gambe mi reggono.
Poi mi fermo, m'addosso a un muro, le ginocchia mi tremano, non riesco a controllarmi, non riesco a controllarmi!
Forse, se fosse la scena di un film, riderebbero tutti. Io grido.
*

"Scappare ti viene bene" -Rise Loretta.
"Non fa ridere" -Per niente, pensò Matteo- "L'imbarazzo è stato il dopo"
"L'imbarazzo di non aver saputo fare niente?"
"L'imbarazzo
di essere scappato!"
Tanto non fa più differenza, ora, lei è morta, si disse Matteo... Alla fine sua madre l'aveva uccisa. Applausi di sottofondo.
"Sai che differenza c'è fra imbarazzo e vergogna?" -Gli chiese Loretta, e Matteo lo sapeva perfettamente.
"L'imbarazzo fa arrossire, la vergogna fa arrabbiare" -Rispose prontamente.
"Non avrei saputo dirlo meglio".

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Nove - La Vergogna ***


Nove ~ La Vergogna


Quando penso a questo periodo, i ricordi si fanno sfocati. Mi sembra di vivere un sogno confuso. Non so bene se definire ancora imbarazzo quello che provo, oppure vergogna. Ma credo sempre che la seconda parola sia più adatta alla situazione, perché l'imbarazzo iniziale è diventato vergogna. Prima l'imbarazzo mi faceva arrossire, adesso la vergogna mi fa arrabbiare. Con me stesso, certo. A volte anche con Alessandra perché pare che lo faccia apposta.
Lei non è popolare, è vero, ma questo oramai l'ho capito e in qualche modo, molto in fondo, l'ho anche accettato, sebbene tema segretamente di legarmi a lei. Perché legarsi a una sfigata è dura. Il mio problema è sempre uno solo, non sono capace di scegliere: lei oppure loro? Faccio sempre finta di non capire la domanda, il punto cruciale. In realtà il problema è che solo che non voglio rispondere.
*
In ogni caso pare che sia un periodo propizio, per lei. Sembra felice di venire a scuola, e ha partecipato a una gara nazionale con la sua band. Ed è arrivata al primo posto. Primo posto! Ma ci pensate! La scuola è così fiera, e il preside gonfia il petto ogni volta che lo dice. Io mi dico che finalmente è questa, la svolta. Sapranno che sa fare molto, l'ameranno per aver portato la scuola alla vittoria, il prestigio, con la sua band... Ma tutti i componenti della band vengono dal liceo accanto, e lei sola dal nostro. Io lo sapevo, che avrebbe vinto. Comunque su questo si può sorvolare, oggi dovrebbe essere un giorno di festa.
Il problema è sopraggiunto quando il preside ha fatto arrivare un messaggio che dice che dovremmo -alla fine della lezione- fermarci tutti a scuola ad aspettarla, perché sta tornando con la targa e deve lasciarla a scuola. L'accompagna un prof, e due ragazze credo. Non lo so, non mi ricordo. Dovremmo aspettarla tutti qui, a scuola, nel corridoio o in classe. Noi della classe, almeno, dovremmo proprio, consiglia il preside; così potremo acclamarla. Acclamarla, sì.
Io di certo non manco.
Nemmeno Federica.
Ma posso immaginare Ale, nella macchina con il prof, seduta dietro con le due ragazze che l'accompagnano, che parlotta soddisfatta e canta anche un po', e si fa un sacco di problemi perché teme di rompere la targa e di rovinare il diploma che accerta la vittoria e si chiede come si saluta, come si fa a farsi portare in trionfo. La immagino mentre corre per il viale che la separa dalle porte della scuola, con il prof che ridacchia e le ragazze che esultano al suo fianco, e in vita mia posso dire, non mi sono mai sentito in imbarazzo come allora. Ed ecco che l'imbarazzo ha finito per mutarsi in vergogna. Scuoto la testa e immagino di nuovo la sua testa bionda. Sì, mi pare di vederla.
Deglutisco rumorosamente, mentre vedo la bidella lavorare nel corridoio. Tuffa il mocio nel secchio, e poi stende un sottile strato umido sul pavimento. Poi torna al secchio, strizza il mocio, e di nuovo lo sbatte per terra, un altro strato di umido profumato. Deve essere faticoso, perché ha tutte le mani rosse e la faccia affatticata. Si asciuga il sudore, e si tira su le maniche. E ricomincia. Strizza, poi bagna il mocio, lo ristrizza e lo lancia sul pavimento. Strato d'umido. Mi sento ipnotizzato.
Vedo Alessandra anche se non è ancora spuntata dalle porte, anche se non è ancora entrata in corridoio. Vedo la bidella strofinare il corridoio e imploro che non spinga le porte, che non entri. So che il corridoio principale è vuoto, e infatti siamo tutti qui, su quello del retro...
E sicuramente Ale non si scoraggerà non vedendo nessuno, lo dirà anche al prof e alle due ragazze, "Ci aspetteranno di là"; lui risponderà con voce roca "Sicuro". E infatti li aspettiamo nel corridoietto sul retro, è verissimo. Siamo quattro. Quattro in tutto. Due insegnanti. Io. Federica.
Appena vede Alessandra svoltare, Federica solleva un grosso cartellone. Più grande di un tabellone segnapunti. Reca la scritta "Complimenti, Ale! Sei la migliore!" -E ci sono molte note con brillantini disegnate, e si vede che ci ha messo un secolo a farlo tutto da sola perché è enorme. Lo tira su per i bordi e ci sparisce dietro, piccola com'è. Io non guardo proprio, ho paura di dire qualcosa di terribile, qualcosa di sbagliato.
Di Federica si vedono solo le dita, ma sono abbastanza vicino da vedere il cartello sussultare e vibrare. Capisco che, lì dietro, probabilmente sta piangendo. Non c'è niente, qui. C'è solo deserto. Niente petardi. Niente trionfo. Nessuno ad applaudire.
Nemmeno uno.
*

"Quella volta c'ero!" -Affermò Matteo con orgoglio, come un bambino. Ero l'unico, sembrò sottolineare.
"Meno male" -Disse Loretta- "Per una volta c'eri, su. Grandiosità d'animo!"
Matteo restò un po' imbarazzato. Poi si ricordò di guardare l'ampolla. Oramai pareva non mancase molto al riempimento completo, che era diventato multicolore come un arcobaleno. Altro rosso si aggiunse al contenuto, che andò a sfumarsi con gli altri colori. Matteo lo fissava, incantato. Tempo. Tanto tempo per tornare a due settimane prima e salvarle la vita. Sì, evviva, pensava fra se gongolando. Non importava se non potevano stare insieme, lei sarebbe vissuta!
"Hey, Romeo, hai ancora due ore da dedicarmi. Quindi per favore, non perderti in questi pensieri sdolcinati"
"Ok, ok, andiamo avanti" -Sbuffò Matteo.
"Se sia un sentimento positivo o negativo, non lo so. Ma vorrei che ricordassi la speranza"

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Dieci - La Speranza ***


Dieci ~ La Speranza


Il primo, amaro sentore. La previsione della beffa. Il pregustare la delusione. Il retrogusto dell'illusione. La speranza. Schifosa, bastarda, falsa e infida. E io l'ho incontrata, e posso dirvelo che è proprio una stronza! Anzi, forse è il caso di dirle che sono stato io a dargli una bella batosta per farla essere così, però non ho saputo resistere. Mi sono ritrovato in mano il cellulare, il suo numero in testa all'elenco -arrivato da chissà quale angolo del pianeta- e non ce l'ho fatta. Tutti sono curiosi di sapere cosa c'è scritto e se ho scritto questo benedetto SMS; ma fatevi un po' i fattacci vostri, che cavolo! Sono due mesi che non le parlo, ok? Sapete perché, stronzi voi e la speranza? Perché sono due mesi che NESSUNO le parla! A parte Federica, e solo ogni tanto.
Si chiama Esclusione, e non è divertente. Non l'abbiamo messo ai voti, non abbiamo mai detto 'da oggi non le parliamo più. Questo non l'avremmo mai fatto, per quanto siamo degli infimi e ne saremmo forse anche capaci; abbiamo troppa paura delle conseguenze e poi la cosa salterebbe fuori. Si sa come vanno, queste cose. E' una specie di tacito patto, piuttosto, visto che lei ha deciso di essere diversa da noi, di staccarsi. Di distinguersi.
Di indossare il giallo anziché il blu, di indossare i quadretti con le righe, di mettere stivali colorati a mano. La scelta è stata sua, o no? Questo ci ha fatto arrabbiare. Ecco, tendo sempre a dire Noi anziché Io. Non mi piace parlare di me. Io non ho fatto niente, sono solo stato coinvolto. Non ci sono capi. C'è solo il silenzio. Una volta l'ho vista addirittura con una specie di bastone in mano e un cartello che diceva qualcosa come "Parlami e ti gratto la schiena". Penoso. Inutile dire che sono corso via fingendo di non conoscerla.
Comunque, come dicevo, adesso sono due mesi che non ci parliamo. Lei, che prima ci provava a farsi accettare (jeans, trucco, queste robe qui) è tornata quella di sempre. Canta Imagine e i Pink Floyd a squarciagola la mattina e corre per i prati improvvisando danze maori all'intervallo. Io sto zitto, sospiro. Prima sembrava quasi normale, mi sentivo addirittura legittimato a parlare con lei. Magari fosse stato così facile... Mi rendo conto che avrei dovuto ballare con lei la danza maori, e fare il coro di Imagine ondeggiando al suo fianco. Ma ho sempre avuto ancora una volta paura del silenzio. Paura che mi avvolgessero, che prendessero anche me. Così, ho mollato, come ha fatto lei.
Ci ha rinunciato. A farsi benvolere, a fare la normale. Non posso farci niente, io.
Perché viviamo in un mondo di loro, giusto? Non è detto che essere te stesso sia un vantaggio in questo posto di schifo, e lo dico anche io che è un posto di schifo, perché tutti non aspettano altro che adeguarsi. Adeguarsi al grigio. A fare i compiti. A mettere i jeans. A mettere la matita. A giocare a pallone. Adeguamento continuo.
Ma se sono due mesi che non parlo con la ragazza che mi piace, almeno un sms me lo potete concedere? 
Sia mai.
In effetti c'è anche scritta una cosa stupida. C'è scritto "Come stai? Lo sai, mi spiace che in questi ultimi tempi non ci siamo parlati... Ma sai, gli impegni e la scuola.. ci sono finito in mezzo. Ma tu mi piaci davvero. Potrei essere innamorato di te. Forse" -Il forse è una cosa carina, penso. 
Opzioni->Invia->Rubrica->Ale.
A me piace di più Ale com'è adesso, con i colori e i fiori nei capelli e il resto. Ma così è un caos, non posso parlarle. Così getto nell'etere informatico l'sms, lo mando con un bel sorriso. E poi elimino le prove. E chi pensa mai che quella va a diffondere la notizia a macchia d'olio!? Ecco, adesso sono legato ad una persona impopolare. A una sfigata. Cosa devo fare?! Se la accetto, nessuno mi parla più. Se la rifiuto, la uccido. E allora mi crollano i nervi. Perché sembro un ragazzo tranquillo ma da quando tutti hanno saputo del mio sms quella mi ha fatto veramente girare le palle. E al ping pong le dico proprio così, che mi ha rotto e che non voglio che rovini oltre né la mia né la sua vita. Penso che se ci legassimo sarebbe tutto peggio, per entrambi. Io perderei loro, e lei perderebbe se stessa; e non voglio che nessuna delle due cose succeda, sinceramente.
Quindi vado avanti così, schiaccio la pallina e la guardo male, e spero che un giorno ci sarà un mondo in cui lei sarà più simile a loro e loro più simili a lei, e io potrò amarla come vorrò.
Nel frattempo, aspetto. Spero.
Un primo sentore, un campanello d'allarme. Sentore di delusione. Amaro sentore di tremenda illusione: la Speranza.
*

"Bastardo, l'hai illusa proprio così brutalmente!?"
"Non volevo. Insomma, doveva tenerlo segreto." -Ribatté Matteo. Scusa tanto, si disse, gli sms non sono mica pubblici. Loretta guardò entrare un verde possente nell'ampolla. Così potente creatore, e tanto potente distruttore il verde della speranza. Ancora poco tempo, alla fine. Forse un'ora o forse poco più. 
"L'ultima cosa che voglio domandarti prima di esaudire il tuo desiderio e scegliere come usare il tempo tornando indietro a salvarla..." -Disse con voce grave- "E' di pensare all'ultimo momento che l'ha caratterizzata; il momento in cui, credi, abbia deciso di suicidarsi. Un'emozione a piacere, allora"
Matteo alzò le sopracciglia e non gli venne niente in mente.
"Andiamo, lo saprai, no?" -Gli disse Loretta.
Allora lui si distese, mentre il ricordo prendeva forma.
"Sì, lo so" -Incredibile ma vero, era un ricordo positivo.


Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Undici - Il Perdono ***


Undici ~ Il Perdono


Strano come la vita si ripeta sotto i nostri occhi, vero? Stessi sbagli, stessi problemi, stessi rimpianti. Non sempre perdonare, comunque, è la cosa giusta. Forse tornando indietro qualcuno di voi perdonerebbe, e regalerebbe una carezza al posto di uno schiaffo... Ma quanti di voi vorrebbero tornare indietro proprio per evitare di perdonare alcuni errori e alcune persone? Per sostituire una carezza con un bel ceffone sonoro? Ci scommetto, tanti. Perché le persone, ci rendiamo conto dopo il perdono, non cambiano. Restano bastarde uguali, dentro, e chi ti tradisce una volta ti ha tradito per sempre. Chi è una schiappa a scuola non comincia a studiare di punto in bianco, e chi per natura è incline alla menzogna non confessa un reato spontaneamente. Almeno, a patto che non ci sia una causa scatenante a farlo riflettere e a tirare fuori la sua parte migliore, ma questo è molto raro e quasi assurdo. Quando qualcuno lo fa, intendo andare contro la propria natura e provare che è davvero cambiato, lo si chiama eroe e lo si perdona. Diventa famoso.
Sì, sono disilluso in questo periodo, e non solo perché vado malino a scuola, e mio padre è un po' in crisi con l'azienda: mia madre non sta bene e... Ad Alessandra ancora non riesco a parlare. L'sms è finito in un mare di pettegolezzi, e ultimamente la vedo girare per i corridoi completamente spenta. Non c'è più la luce che c'era un tempo né fra i suoi capelli, né nei suoi occhi. Adesso che so come sono andate le cose, penso che stia solo vagando alla ricerca di un pretesto. 
Lo so, è strano. Pare strano perfino a me che la persona che amo e da cui sono maggiormente ossessionato e che è pure in classe con me non possa nemmeno parlarmi, nonostante ricambi i miei sentimenti. Fa quasi ridere. Assurdo.
Il pretesto arriva alla quarta ora, quando Ilaria che oggi è su di giri, sta organizzando una uscita tutti insieme per andare al cinema. Alessandra ovviamente viene repentinamente esclusa, ma se ne sta nell'angolo, spenta. Guarda il banco. Io la guardo per un secondo, lei alza lo sguardo e accenna un sorriso, incurva le labbra ma ha la morte negli occhi. Non rispondo al cenno, mi giro. La sto spingendo giù dalla finestra, adesso lo so. Ilaria fa un commento acido su di lei, ma lei non risponde niente. Alessandra è così, non odia Ilaria solo perché lei la odia. Non le interessa, semplicemente. Ha scelto di essere se stessa, e lo rimarrà. Anche se questo la portasse alla morte. Ironico, eh?
Beh, Ilaria continua, sta organizzando questo cinema, vuole vedere un thriller che personalmente non mi interessa minimamente. E non credo nemmeno agli altri, perché sento sbuffare anche se nessuno dirà di no: sono le regole del branco. Anche io accetto, in effetti, alla fine, per non restare a casa. E appena dico di sì, e siamo tutti d'accordo, succede qualcosa di strano. La mia voce viene sovrastata da uno splendido e squillante cinguettio. E vorrei che cantasse, vorrei chiederle di cantare per me, adesso, qui, anche se siamo davanti a tutti. Vorrei urlarle di baciarmi, con tutta la passione che le viene fuori da quella bocca così bella. Invece non urlo niente, e lei non canta. Parla.
"Sentite, perché invece non andiamo al parco a fare un picnic? Domani sicuramente c'è il sole" -Lo dice con serenità, come se fosse parte di noi da sempre anche se, dio, quella camicia a quadri e fiori è orrida. Le accarezza le forme con dolcezza, ma non credo di aver mai visto niente di più brutto. Con quegli orecchini marroni, poi... Lo spettacolo è quasi circense. Ma voglio abbracciarla lo stesso, baciarla, dirle di mettersi cose ancora più brutte ma che le stiano così bene lo stesso. Dirle di continuare, così solo io le metterò gli occhi addosso e nessun altro. 
Annuisco lentamente alla sua domanda. Sì, sì, dico silenziosamente. Federica mi segue, fa di sì. Altri ci imitano. Funziona. Funziona, funziona! 
"Sì, perché no"
"Dai, è un'idea"
"Io posso fare l'insalata di riso"
Scoppia qualcosa, sotto il pavimento. Mi guardo in giro. Sono tutti diversi, tutti leggermente più colorati. Sembra un contagio. Federica ha un fiore dietro l'orecchio. Giovanni è sempre vestito di grigio o di nero, e oggi indossa un verde sgargiante. Gianna ha sempre il muso, e oggi sorride. Sara si è sempre truccata con il nero, oggi ha sfumature azzurre su tutto il viso. E' lei, è Alessandra, mi dico. Ce l'ha mandata qualcuno, l'hanno mandata per svegliare le nostre individualità, per farci scoprire diversi. Per regalarci il colore, la vitalità. L'abbiamo rifiutata, l'abbiamo esclusa, ma alla fine ha vinto! Ha vinto! Abbiamo vinto! Ha sopraffatto Ilaria con un cenno solo, con poche parole, con la sua voce cristallina che pare che canti. Forse ha deciso di suicidarsi perché non abbiamo più bisogno di lei, adesso.
Ilaria si alza.
"Senti, troietta, dei tuoi consigli non ha bisogno nessuno"
Io sorrido sotto i baffi. L'unico da cui Alessandra non sa difendersi, oramai, sono io. E solo perché è innamorata di me. Povera Ilaria, penso. Questa volta è proprio destinata male. So quanto Alessandra sia cambiata dai tempi dell'assemblea di classe, in cui fuggiva in lacrime. Qualcuno la difende, dice e che è, ha solo proposto un'idea. Stai tranquilla, Ila. Tutti lo fanno a bassa voce, però. Ribellione, ribellione. Si sveglia, il mostro si sveglia, penso. 
"Perfetto allora perché non la proponi tu come idea? Vengo anche io" -Le dice con naturalezza. Credo che Ilaria voglia mangiarsela.
"Non ti è ben chiaro che mi stai sulle palle e con me non ti ci voglio?" -Ed è allora che voglio alzarmi, e sto per farlo davvero, anzi, lo faccio, mi alzo. Mi alzo, sì. Mi alzo per la prima volta nella mia vita, mi alzo e mi piazzo dietro la trincea del banco. 
"Chiudi la bocca, Ila"
Il tempo si ferma. Altri due o tre si alzano. 
"Sì, chiudila"
"Stai esagerando"
"Adesso basta con queste idiozie"
"Non siamo più all'asilo"
Alessandra sfodera il suo sorriso più luminoso, mentre è Ilaria questa volta ad essere presa di mira. E' lei che si raggomitola su se stessa, è lei che sta per piangere. Nessuno si alza, nessuno la difende. Stiamo tutti in piedi, tutti a gettare sassi e cattiverie, ma l'obiettivo è cambiato. E io mi sento bene, mi sento vivo a insultare una che se lo merita, e non Alessandra che non l'ha mai meritato, che non ha fatto niente se non essere diversa. Ma adesso Alessandra sta attraversando la classe, e arriva al suo banco. Ci guarda tutti con cipiglio cattivo, come se stessimo facendo qualcosa di orribile. Ha le sopracciglia aggrottate e una smorfia sul viso
"Chiudetela voi, quella boccaccia. A me, Ilaria piace un sacco"
"Che cosa?" -Chiede lei, quasi in lacrime.
"Mi piaci un sacco. Perché non puoi essere solo mia amica?"
Nessuno dovrebbe mai essere vittima dell'esclusione. Nessuno. Mi siedo e boccheggio; se non è Alessandra, doveva essere Ilaria? No. Ha ragione, dovremmo finirla. Dovremmo accettarci, punto. 
Alessandra tende la mano a Ilaria. Lei non la prende. Anzi, fa un passo indietro, fa una smorfia, e le dice: "Hai rovinato tutto"  -Poi la schiaffeggia.
Di nuovo, la classe si immobilizza. Per un interminabile minuto, le ragazze restano una di fronte all'altra. Io sono abbastanza vicino per vedere le spalle e gli occhi di Ilaria fremere. Si aspetta di essere schiaffeggiata a sua volta, è ovvio. E infatti, quando Alessandra si muove, si irrigidisce e chiude gli occhi; ma sono morbide labbra a sfiorarle la guancia, non il freddo palmo di una mano. Un bacio di pace. Un bacio di perdono.
"D'accordo, non verrò al cinema con voi. Non amo i thriller" -Dice. Quando Ilaria apre gli occhi, è già uscita dalla classe.
*

Matteo respirò l'incenso ripensando a quel momento. Aveva gli occhi chiusi, la bocca aperta in un sorriso; la verità era che tutti gli studenti avevano apprezzato ciò che Alessandra aveva fatto. Perché con quel bacio, non solo aveva perdonato Ilaria. Aveva perdonato tutti, tutti loro. Soprattutto, aveva perdonato Matteo. E lo aveva fatto perché sapeva con precisione incontro a cosa stava andando. E voleva che sapessero precisamente che non ce l'aveva con nessuno. Che non odiava nessuno. Che alla fine, nonostante tutto il male, tutta la sofferenza, e tutto quello che aveva passato, andava con serenità incontro al suo destino. E nessuno doveva sentirsi in colpa, mai, per quello. Voleva che sapessero che li aveva amati tutti, uno per uno. Anche senza essere mai ricambiata. L'sms era stato l'ultimo passo, la sua negazione era stato il salto. 
"Fu l'ultimo giorno che rimase del tutto isolata" -Spiegò Matteo- "Da quella volta, lentamente, tutti hanno ricominciato a comunicare con lei, anche se un freddo distacco lasciava intuire una esclusione mai estinta"
"E Ilaria?" -Matteo sollevò le spalle.
"Credo siano uscite, qualche volta. Forse erano quasi amiche. Si parlavano, insomma!" -Rispose lui, ricordandosi che lei era comunque morta. Guardò l'orologio. Il tempo era finito. Era comunque morta, per il momento.


Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Dodici - Come il Tempo è tornato indietro ***


Dodici ~ Come il Tempo è tornato indietro

Matteo si aspettava che a quel punto Loretta gli dicesse che era tutta una farsa. Uno scherzo organizzato dai suoi compagni, ahah, e lui c'era cascato in pieno. Invece non lo fece. Agitò l'ampolla, notando che anche l'ultimo colore, il porpora, si era aggiunto per riempirla fino al collo. L'osservò incantato mentre i colori si miscelavano -Adesso mi dice che è un effetto speciale- si disse. Sicuramente lo è, non si può fare questa cosa, non si può tornare indietro nel tempo, no? 
"Ti senti pronto?" -No che non si sentiva pronto. Che razza di domanda era? Non era stato pronto tutta la vita, e ora doveva essere pronto di punto in bianco? Non era pronto, non lo era. Ma in fondo al cuore c'era qualcosa, una spinta segreta. Una felicità in sordina che non poteva fare a meno di considerare speciale. Una fitta d'amore. Si girò verso Loretta, non era pronto. Non lo era.
"Sì, sono pronto" -Loretta annuì mentre nei suoi occhi s'allargava una leggera sorpresa. Matteo s'alzò in piedi, e cominciò a passseggiare su e giù per la stanza. L'emozione non ne voleva sapere d'abbandonarlo, e mentre il momento si avvicinava... Lo schiacciava sempre di più.
"Ricordati le regole: non puoi cambiare radicalmente le cose fino alle due e trenta" -Spiegò Loretta, e lui si calmò per un attimo ascoltandola- "...Quando lei si ucciderà. Hai chiesto questo per lei, e quindi solo ciò che la riguarda può essere cambiato. Non puoi cambiare le tue interrogazioni, non puoi vedere la tua verifica in anticipo. Puoi interferire solo con la sua morte, poiché è per questo che hai pagato".
Poi sorrise, e anche Matteo si lasciò sorridere. 
"Non sei poi così male, ragazzo. Spero che in qualche modo, le cose andranno bene... per voi..." -Matteo la fissò con intensità.
"Vuoi dire che è possibile che accada?"
"Mi dispiace, no. Se paghi è per sempre. Rinunciare a Lei per sempre significa amarla ma non poterla avere. Lei non ti amerà, ma tu sarai costretto a farlo finché non passerà" -Ma non passerà!, si disse Matteo, non passerà mai. Queste cose non passano! Come fai a smettere di amare la persona per cui hai pagato così tanto? Alessandra non ci era riuscita... Allora come poteva sperare di farlo lui, che era così debole, così fragile, così pieno di rimpianto? L'avrebbe amata per sempre. Questa prospettiva lo terrorizzò. Amare per sempre chi non ti ama. Un disastro. 
"E non si può... Uhm.. Cambiare questa clausola?" -Ridacchiò, ma Loretta non lo fece.
"Voglio darti speranza, ma non voglio dartene una falsa. Se vuoi tornare indietro e salvarla, devi lasciarla andare; una vita per una vita... è equo, non ti ho chiesto di ucciderti ma solo di rinunciare"
"Forse il suicidio era meglio" -Borbottò lui ironico, ma Loretta non diede cenno di averlo sentito. Abbassò il capo; la vita di Alessandra era più importante. Se questo significava rinunciare a lei per farla vivere, per donarle una nuova felicità come lei aveva fatto con lui, allora avrebbe accettato tutto. Anche la rinuncia. Anche la morte interiore. Magari sarebbe partito, a cercare un altro grande amore, e l'avrebbe trovato in Australia, o in India. Speranza rinnovata. Dita incrociate. Forza.
Loretta si alzò a sua volta, e allora Matteo smise di tremare. Si mise di fronte a lei. Loretta allargò le braccia; l'ampolla restò a mezz'aria -adesso mi dicono che è uno scherzo- mentre chiudeva gli occhi e si concentrava su ciò che doveva fare.
"Ti dono tempo, ragazzo" -Gli disse. Lui annuì un po' spaesato- "Tu rinunci a tutto questo tempo in cambio?"
"Sì?" -Rispose lui, un po' interrogativo. Ancora non del tutto sicuro che non fosse una messa in scena.
"E ti dono la sua vita" -Riprese- "Tu rinunci a lei..." -Esitò- "Per sempre?"
"Sì" -Disse lui risoluto.
Paradossalmente, l'unica ad esitare in quel momento era stata proprio Loretta. 
"Allora vai da lei" -Gli disse con un gesto della mano- "Salvala" 
Lui non annuì. Ma non fece nemmeno di no. Alzò la mano destra e separò le quattro dita nel centro, indice e medio a sinistra e anulare e mignolo a destra, in un saluto di pace. Loretta ridacchiò, mentre l'ampolla cominciava a dare segni di irrequietezza.
"Vai. Quello che fai per amore è la cosa giusta" -Lo spero, pensò Matteo, ma non lo disse. Si limitò a fissare l'ampolla mentre quella si dilatava come se fosse stata di gelatina. Non riuscì più a guardarla mentre diventava di una luminosità immensa, e si costrinse a chiudere gli occhi. Era diventata troppo brillante, troppo, troppo.
La potenza della luce lo investì.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Epilogo - Cosa è successo ad Alessandra ***


Epilogo ~ Cosa è successo ad Alessandra

"Prendi nota: ammazzarlo alla fine dell'intervallo!"
"E su, calmati, in fondo è inutile fare così. Ti fai solo più male" -Federica prese la sua amica per un braccio e la tirò indietro. Alessandra però sembrava più che intenzionata a fare una di quelle cose stupide che solitamente la facevano piangere, alla fine. Si divincolò, e si diresse verso il tavolo da ping-pong posizionato al centro del corridoio della scuola, e puntò uno dei due ragazzi che stava giocando.
"Matteo!" -Gli stava puntando il dito contro, e poi si accorse che in effetti, non era più lì a giocare- "Ma ma... L'avevo visto un minuto fa!"
E un minuto fa, infatti, lui era lì. Ma non gli pareva vero di aver visto Alessandra. Di averla sentita gridare con rabbia contro di lui. Non aveva retto, aveva avuto paura di svenire, e perciò era scappato a gambe levate. Aveva attraversato tutto il cortile di corsa, intercettando una partita di calcetto e una di pallavolo, ma non si era fermato se non una volta arrivato al cancello. Lì si era aggrappato alle sbarre, cercando di non vomitare. Era al sicuro, era al sicuro da lei e dai suoi occhi blu. Non voleva vederli, non voleva doverli incrociare mai più. Respirò ma non gli riuscì molto bene; un singhiozzo strozzato fu tutto quello che esalò la sua bocca. Ingoiò la saliva. Aveva la gola completamente secca. Guardò l'orologio.
"Sono solo le 11!" -Esultò- "C'è intervallo"
Stava parlando da solo, e lo sapeva benissimo. Ma il suono della sua voce, l'idea di averla ancora gli dava sicurezza. Una gran bella sicurezza. Perciò continuò.
"Adesso prendo 8 in storia. Poi vado a mangiare, e lei mi urta, poi mi arrabbio, e poi..." -Poi torna piangendo in aula, e si butta. Non riuscì a pronunciarlo ad alta voce. Si aggrappò ancora alle sbarre azzurre del cancelletto. Prese altra aria, due o tre respiri profondi, e si passò una mano nei capelli sudati. Sentì la campana e si affrettò a rientrare a scuola. Non poteva cambiare le cose, si ripeté. Non poteva fare niente, niente di niente fino alle due e mezza, quando alessandra avrebbe... No, non doveva pensarci. Quel giorno le cose sarebbero andate diversamente da come le aveva conosciute. Da quel giorno avrebbe regalato felicità. Serrò gli occhi e i pugni, e si sedette al suo posto giusto in tempo per l'inizio della lezione. Gli occhi di Alessandra erano puntati su di lui, ma lui non li guardò nemmeno per un secondo.
*
4 in Storia. Ma tanto la stanchezza le impediva comunque di studiare. E i dolori al collo erano terribili. Poteva farlo solo da sdraiata. L'ultima volta, in effetti, la tempesta era arrivata di sorpresa. Alle sue spalle. Una spranga di ferro, si era detta. Invece no, era solo una borsa molto pesante.
Torniamo al 4 in Storia.
"Dai, non prendertela, ti rifarai presto. Poi la prof Giani ti stima, recupererai" -Tipico dei secchioni parlare così. 
"Facile parlare, per te che hai preso 9" -Alessandra si alzò e si allontanò da Giovanni per andare a guardare giù dalla finestra. Quella finestra. Sospirò. Quel bastone. Sospirò ancora. Quel tubo di metallo. Quel sangue rappreso. Per giorni. Non era potuta andare al pronto soccorso. Quanto tempo avrebbero impiegato i vermi a mangiarsi quella ferita sulla schiena...? Magari poteva evitare una morte così lenta. Si sporse dalla finestra. Forse poteva...
Matteo la tenne d'occhio scrupolosamente. Ecco, ecco, guarda sta cretina, ha già in mente il piano. Ma come si fa ad essere così drastici, che cavolo. Dannazione, perché non poteva solo parlarne e basta? Aveva perdonato Ilaria solo perché aveva già deciso da tempo?! O quello era solo il disperato tentativo di aggrapparsi alla vita? Oppure il desiderio che aveva espresso la tirava verso la finestra in modo irresistibile? Potevamo parlarne, almeno, pensò. Si sentì uno schifo. Non aveva mai accennato a una minima preoccupazione per lei, in quel periodo. Non si era mai alzato a difenderla. E ora? Faceva tutto l'innamorato? Bah. Forse Loretta aveva ragione, si disse, non la merito.
"Ale, andiamo a mangiare?" -Lei si scosse improvvisamente voltandosi verso Federica che agitava la mano. 
"Arrivo" -Ultimo sguardo. Quinto piano. Dovrebbe essere sufficiente. Uscì dalla classe soffocante.
Matteo si prese la testa fra le mani, non sapeva come fare! Non sapeva nulla! Tranne che non voleva rinunciare a lei, non voleva, no! A nessun costo.
*
La incontrò sulle scale, e si arrabbiò perché credeva che lei l'avesse urtato apposta anche se era casuale. La bocca aveva parlato da sola, aveva detto automaticamente quelle cattiverie anche se lui avrebbe voluto gridare ti amo. Ma fino alle due e trenta, niente modifiche. La vide scappare in lacrime, vide Federica alzare il medio nella sua direzione e poi inseguirla. Si toccò il cuore, giusto per assicurarsi che fosse ancora al suo posto; era tutto ok, batteva ancora per fortuna. Non sapeva per quanto avrebbe continuato. Guardò l'orologio: le 14 e 25. Ci siamo quasi. 
La sentì parlare sulle scale sotto di lui, incapace di muoversi oltre. Si sentiva un bamboccio di latta telecomandato, ed era così in quel momento. Se nessuno gli avesse dato un input, non sarebbe mai partito da solo. Non poteva cambiare niente, e non solo perché non voleva... Perché era impossibilitato. Doveva ripetere ogni gesto fino alle 14 e 30. Sospirò, gli girava la testa. Sentì qualche parola inframezzata da singhiozzi.
"Lo odio... Lo odio... Perché non posso essere come mi vorrebbe... Perché ho fatto quel... Quella... cosa... Perché non può accettarlo? Perché non posso dirglielo?" -Federica le accarezzò la testa dolcemente, cullandola. Matteo capì invece: dirgli del suo desiderio! Dirgli che doveva ammazzarsi per regalargli la vita perfetta. Capiva un bel po' di cose in più, in quel contesto. Restò fermo ancora, ogni muscolo teso all'ascolto di Alessandra. Arrivò la voce di Federica invece.
"Sii paziente. Si accorgerà prima o poi. L'amore che provi e quello che hai fatto non può non essere ripagato" -Le disse guardandole le lacrime. Era vero, pensò Matteo, non poteva non essere ripagato. Ma lei deve ancora pagare il suo desiderio. 
"Federica, sono ancora io ad essere in debito"
Matteo gelò.
*
La verità lo svegliò tre minuti dopo come una secchiata di acqua fredda. Erano le 14 e 28, e questo voleva dire che lei era in classe. E stava per. Tornò in classe salendo le scale quattro a quattro. 
Alessandra tornò in classe con le occhiaie del pianto e gli occhi arrossati. Rivide quella finestra. Questa volta, salì sul davanzale. Pensò che non poteva davvero tornare a casa con  un altro 4, né senza un conforto. Non poteva tornare da sua madre, l'avrebbe uccisa lei prima della finestra. Con una sbarra di ferro. Con una borsa. Con la scopa. Con il tubo dell'aspirapolvere. L'avrebbe inseguita. L'avrebbe presa. Si guardò i lividi. Pensò al sangue rappreso. Pensò a Matteo, poi li coprì con le maniche del maglione. Si mise in piedi sul davanzale, guardando la classe. Una lacrima silenziosa le solcò il viso. La ingoiò, era salata. Si era sempre convinta che le lacrime nascessero dolci, e diventassero salate solo sul viso.
"Basta..." -disse, e sospirò.
"Ale, no!"
"Non fare idiozie"
"Noi ti vogliamo bene" -Lei sorrise un pochino.
"Non basta più".
E in quel preciso istante, Matteo aprì la porta, con i suoi bellissimi occhi cerulei e l'aria un po' strafottente che tutti avevano sempre ammirato. Con una mano in tasca, usò l'altra per sistemarsi i capelli. Aveva il fiatone, e Alessandra non capì il perché; ma immaginò che avesse corso, e forse aveva corso per lei. Sorrise. Matteo la fissò.
"Ti butti?" -Chiese con una strana luce negli occhi.
"Sì..." -Rispose lei con coscienza. Con calma, e risolutezza. Con precisione. Con la precisione che l'aveva caratterizzata in ogni momento della sua vita.
Lui la guardò, in piedi sul davanzale. 
Il sole giocava con i suoi capelli, lasciando che l'oro li avvolgesse, e le accarezzasse il volto. Era bella come non aveva visto mai niente di così bello, e luminosa come non aveva mai visto niente di così luminoso. Dietro di lei il cielo era di un azzurro splendente, senza nemmeno una nuvola, e vista così sembrava un quadro. Uno di quelli tristi, perché occhi negli occhi si stavano fissando e lui vedeva il pianto di tutto quel tempo dentro i suoi. Uno di quelli tristi che però non ti stancheresti di guardare nemmeno in mille anni, perché ancora ti emoziona dopo una vita. Che fa parte di te. Era bella, e Matteo si rese conto in quei pochi secondi che lo separavano dalle due e ventinove che non aveva nessun potere reale su di Lei.
Che se lei avesse voluto volare giù, lo avrebbe fatto e lui non l'avrebbe salvata. Non ci sarebbe riuscito. Che in quella manciata di secondi che sembravano biglie lei stava rinunciando a lui, proprio perché lui aveva accettato le condizioni di Loretta. Ma lui non aveva rinunciato a lei. Sentiva i secondi battere il tempo, ancora poco. Ancora quaranta secondi o poco più per salvarle la vita, e poi rinunciare al suo amore per sempre. Aveva ancora gli occhi piantati nei suoi, iniettati di rosso, e un sorriso lieve gli incurvava le labbra. Perché bearsi della sua vista era più di quanto avesse potuto chiedere, vederla ancora una volta, almeno una, almeno toccarla l'ultima volta, almeno dirle che tutto sarebbe andato bene, da quel momento in poi, perché Lui l'avrebbe protetta, non importava da cosa. Si sarebbe alzato in classe a difenderla dalle angherie, l'avrebbe accompagnata alle feste, l'avrebbe invitata a casa sua e l'avrebbe fatta salire, avrebbe messo il suo corpo fra lei e sua madre. Non si sarebbe vergognato di gridare brava, e avrebbe portato folle di gente urlante ai suoi concerti. L'avrebbe baciata mille volte, se fosse potuto tornare indietro alla sera del concerto, le avrebbe schiuso le labbra e accarezzato i capelli, e l'avrebbe portata a casa con gentilezza, tenendole la mano. Era più di quanto avesse mai potuto desiderare, vederla ancora e immaginare di poterla vedere ancora. Vederla felice, vederla vivere in pace, vederla innamorarsi, e baciare un altro...
Ma con che coraggio? Con che coraggio lo stava facendo? Con che coraggio stava uccidendo quello per cui lei aveva vissuto così tanto da morire? Con che coraggio stava ammazzando l'amore che lei provava per lui? Lei viveva per amare Matteo, e lui viveva per amare Alessandra. Con che coraggio stava arrogandosi il diritto di ammazzare due vite, pur salvandole entrambe? Chi gliela dava, quell'autorizzazione?
Venti secondi.
Gli sembrò di sentire la voce di Loretta, nella sua testa, "Rinuncia a lei, rinuncia a quello che non potrai più avere" -nauseante- "Rinuncia al suo corpo, allo spirito, rinuncia al suo amore. Rinuncia, rinuncia all'amore. Rinuncia" -nauseante- "Se bruci di passione allora vivi, invece devi dare una vita per salvare una vita. Devi essere morto dentro. Se urli adesso il tuo dolore, il tuo urlo finirà nel vuoto. Per salvare una vita devi rinunciare ad una vita, e allora devi essere muto. Piegati, rinuncia. Scompari, sparisci! Devi essere un sussurro di vento, un'onda di mare, un vuoto contenitore. Ecco come si salva una vita"
La sentì, quella voce. L'ascoltò. Ecco come si salva una vita. Regalandone un'altra. Sorrise, aveva ancora gli occhi fissi in quelli di Alessandra, e non l'aveva mai amata tanto. Anche lei abbozzò un sorriso, e in quel momento esatto lui seppe come sarebbe andata a finire.
"Io voglio bruciare di passione. Non posso chiudere la bocca, non posso essere muto. Io voglio amare"
"Non puoi amare e salvare. Ama, oppure rinuncia, accetta il silenzio"
"Ma io voglio gridare che l'amo, voglio che il mondo lo sappia!"
"Fallo sapere al mondo, allora, che lei non t'amerà mai più"
"Ma io voglio essere felice!"
"Soffri. Forse soffrendo troverai la salvezza..."
Ma Matteo stava già soffrendo. Come faceva a non vederlo? Dov'era questo ingiusto Dio? Non era bastato, tutto quello? Ma va bene, anche se non sentiva la sua sorda preghiera, avrebbe sofferto. Se questo era quello che desiderava, l'avrebbe accontentato. Avrebbe sofferto. Avrebbe continuato a guardarla in eterno. Osservarla cadere, afferrarla. Sarebbe rimasto lì, nell'ombra, alle sue spalle. L'avrebbe guardata per tutta la vita, e non avrebbe desiderato mai niente d'altro. I desideri sono un inganno e niente di più. Per realizzarli, paghi prezzi che non avresti immaginato. Ogni rimpianto viveva nella sua mente marchiato come il fuoco. Ricordare lo aveva fatto soffrire, e rinunciare in quel momento lo stava uccidendo. Era vero che non sarebbe morto nel corpo, ma in quei dieci secondi stava morendo nel cuore. Ah, ma no! Sarebbe rimasto a guardarla per sempre e il suo cuore sarebbe guarito. Non guarirà mai. Non lo farà mai. Strinse i pugni e sollevò la testa. Sarebbe stato innamorato per sempre, ma non solo. Sarebbe rimasto a guardarla per sempre. Non avrebbe rinunciato. Mai.
Saltò sul davanzale e l'afferrò nel momento in cui scattavano le due e mezza precise. La tirò verso di sé con forza. Lei lo guardò con gli occhi arrossati. Tirò su con il naso. Aveva ancora il dolore di tutti quegli episodi nell'anima, e Matteo lo vedeva. Le accarezzò il viso con dolcezza, e precipitò nel mare. Non gli interessava, questa volta, se non riusciva a respirare. Sarebbe morto volentieri così. Le spostò una ciocca di capelli biondi che le erano finiti in bocca dietro l'orecchio, nel gesto che voleva fare da una vita. Sfilò dalla tasca un fazzoletto e le pulì il viso bagnato. Non stavano così vicini da un po'. Dal concerto. Il cuore gli esplodeva in petto, Dio solo sapeva quanto desiderava stringerla. Ma doveva fare piano. Era fragile, e poteva rompersi. Poteva volare giù da un momento all'altro, erano in bilico in due su quel davanzale.
"Io ti amo" -Le disse sottovoce, vicino all'orecchio. Lei percepì solo un soffio, ma in qualche modo capì. Fece uno sbuffo a metà fra pianto e risata- "Forse".
Alessandra si portò le mani alla bocca, le lacrime ricominciarono a scendere, ma Matteo le asciugò una per una, senza fretta, senza perdersene nessuna. La abbracciò e la cullò finché lei, che sussultava ogni secondo, si calmò e il suo respiro tornò regolare.
"A-anche io ti amo" -Gli disse allora- "Sei venuto a salvarmi, non è vero?" -Matteo annuì.
"Me l'aveva detto, che saresti venuto. Per un attimo ho creduto... Ho creduto..." -Fu presa da un altro accesso di pianto; Matteo sapeva che appena fossero scesi da quel davanzale, quel momento si sarebbe spento. Che il suo amore si sarebbe spento nel secondo esatto in cui avessero toccato il pavimento della stanza. E allora, avvicinò un poco il viso e la baciò lentamente. Lei stava ancora piangendo, ma schiuse leggermente le labbra e lui sentì che era la cosa più giusta che potesse capitare in quel momento. Che non c'era mai stato nient'altro, che i loro corpi aderivano perfettamente. Almeno quello, almeno l'ultimo bacio non gliel'avrebbero rubato. Almeno a quello non avrebbe rinunciato. 
Chissà come, anche lei capì che era l'ultimo. Capì che l'sms non era stato uno scherzo, anche se forse l'aveva sempre saputo, e capì che la verità era davvero che lui l'amava, ma non avrebbe più potuto stare con lei. Allora gli portò le mani sul volto, e l'approfondì. E, Dio, se questa è la felicità forse lo sapeva, perché tutti la rincorrono. Se è questo l'amore, allora capiva perché aveva popolato tutti i suoi sogni più segreti. Capiva perché ne voleva ancora, e ancora. Capiva perché avrebbe dovuto farlo molto prima. Le due e mezza erano passate da almeno cinque minuti, e anche se la classe di sotto il davanzale gridava ogni parola, ogni sospiro, e "che romantico", per loro non c'era niente. Solo la luce. Alla fine, si staccarono e lui le disse addio con gli occhi. L'abbracciò stretta, e anche lei lo strinse. Sì, si capirono in quell'istante esatto. Sorridevano tutti e due. Lui la prese per mano e fece un movimento, voltandosi verso la classe.
"Aspetta!" -Lui si girò e la guardò, interrogativo- "Io... Non ti ho detto una cosa" -Lui si fermò un secondo, tenendole la mano- "Beh, non ti ho detto di me... Sai così poco di me. Io avrei tanto voluto che fossi tu. Avrei tanto voluto aprirti il mio cuore..."
Allora lui l'abbracciò ancora, e la baciò di nuovo- "Non avere paura. Ci sarà tempo" -Ce ne sarebbe stato un sacco. Infinito, per amarla. Per ascoltarla. Per farsi aprire il cuore. Non voleva sapere altro. Sapeva che lei la pensava precisamente come lui, che aveva capito che quel bacio sarebbe stato l'ultimo e che non lo voleva. Non voleva scendere. Aveva la stessa paura di Matteo; allora la guidò lui. Tenendole la mano, si affiancò a lei. Guardarono verso la classe, tutti li guardavano. Mille facce anonime, duemila occhi vuoti. L'unica faccia che fosse mai valsa la pena di guardare, in quel posto, era alla sua destra. Federica le fece un segno di ok con il pollice, e le fece l'occhiolino. Alessandra la salutò con la mano, come si saluta un pubblico, sorridendo. Addio, sillabò.
E poi, Matteo e Alessandra si lasciarono andare all'indietro, e volarono dalla finestra del quinto piano della scuola, con le braccia aperte e le dita intrecciate. Nello schianto, qualcosa li unì in un abbraccio.


Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=657719