Incastrato tra i tuoi capelli di l_s (/viewuser.php?uid=38085)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo | Ritorno ***
Capitolo 2: *** I | Il funerale ***
Capitolo 3: *** II | Mano ***
Capitolo 4: *** III | Cherubino ***
Capitolo 5: *** IV | Amore ***
Capitolo 1 *** Prologo | Ritorno ***
Prologo
Ho capito di essere inadeguato.
La prima volta è stato quando ho mosso gli occhi.
La seconda quando ho scoperto di volere ciò che non avrei dovuto.
Prologo | Ritorno
Armeggiai per un po' con le chiavi, prima di riuscire ad aprire quella porta, che non toccavo da così tanto.
La serratura non era cambiata. Quando fui sulla soglia, la trovai che mi guardava, accorsa per i miei rumori.
-Aurelio?- la voce di mia madre era flebile, incerta.
La guardai, e la sua magrezza incavata sfavillava. Come avrei dovuto sfavillare io.
Le sorrisi piano, e lei non si trattenne e si gettò tra le mie
braccia. Poi mi coccolò piano, come se fossi io quello che si
poteva spezzare.
Non parlava e non piangeva, mia madre, perché parole e lacrime
le offuscavano gli occhi verdissimi e il sorriso fioco che temeva di
vedermi sparire.
Quella vista mi fece dolere il petto.
Arrivare lì, dopo quasi due anni, e vedere quel piccolo essere
sensibile che non trovava lacrime da offrire. Questa volta fui io
ad abbracciarla, chinandomi sui suoi capelli scuri.
-Scusami- sussurrai pianissimo, -mamma.
Lei capì e mi accarezzò i capelli, a sua volta.
-Come sono lunghi. Se li pettinassi sarebbero lucenti, come il tuo sorriso.
Le sorrisi ancora, e lei mi prese per le mani, conducendomi verso la
cucina e facendomi sedere al tavolo logoro, dopo avermi sfilato la
giacca. Senza esitare, mi mise davanti un grosso piatto di pane e
pomodoro.
Mentre si affaccendava, la osservai: era ancora allegra di quella
gaiezza silenziosa, che talvolta volgeva in melanconia; come quando ero
piccolo, si fermava talvolta a guardare oltre i vetri, quasi a cercarvi
un sogno incastrato in qualche antenna lì fuori. Poi, non si
riscuoteva: era come se non si fosse mai distratta, ed ogni movimento
era armonioso in lei, e collegato al precedente,e non perdeva mai
quella poesia solerte. Anche allora, la sua presa sulla vita continuava
ad essere così salda, da spingerla ad indossare ancora quei
vestiti dai colori sgargianti ch'eran tipici di lei, pur con il figlio
lontano di cui non si hanno notizie.
Allora ricordai tutto il mio amore per lei, tutto il suo amore per me.
Non mi chiese come io stessi, lo leggeva nei miei occhi stanchi;
ma prese una spazzola, e cominciò a pettinarmi i capelli,
gentilmente.
-Sei sicuro di volerci andare?- chiese, all'improvviso.
-Sì- sussurrai.
-Sappi che non è necessario. Apelle non merita questo riconoscimento.
-Devo ricucire i pezzi della mia vita- risposi, dopo un silenzio, -e poi, forse, andare avanti.
Lei mi accarezzò i capelli, e poi mi prese le spalle.
-Sii forte, figlio mio.
Non sarebbe venuta con me. Avrebbe rispettato i miei spazi e il mio
dolore, e se io stesso non l'avessi affrontato, mi avrebbe obbligato
lei, come aveva fatto già una volta, perché il dolore
è sempre giusto, dal dolore si impara, sempre.
E forte è solo colui che ha imparato a coccolare il suo dolore.
-Sì, mamma.
Quando ebbe finito di sistemarmi i capelli, uscii e mi incamminai nell'aria fredda.
Note:
Sto scrivendo questa storia in occasione del Challenge dal nome alla storia indetto da NonnaPapera.
Mi sono stati forniti alcuni nomi con i relativi significati, che dunque adopero qui.
Il nome del protagonista è Aurelio, il cui significato è "Brillante, lucente".
Specificherò volta per volta i significati dei vari nomi.
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Capitolo 2 *** I | Il funerale ***
1
Ho capito di essere inadeguato.
La prima volta è stato quando ho mosso gli occhi.
La terza quando le tue mani mi hanno colpito.
Capitolo I | Il funerale
Il
pavimento lastricato della via era irregolare sotto i miei piedi. Oppure ero io
che avanzavo troppo indeciso lungo quel percorso un tempo familiare.
Tenevo lo sguardo basso, fingendo di osservarmi le scarpe. Avrei
dovute comprarne di nuove: dalla tela scritta e martoriata facevan
capolino le calze a righe
colorate, quasi volessero beffarla. Quella, infatti, per l'invidia
scolorava e s'imbufaliva tanto da non curarsi dei lembi che
strisciavano la strada.
La verità era che avevo paura.
Paura di alzare lo sguardo e scoprire quante cose fossero cambiate, che la libreria di Gennaro aveva chiuso e lui si era
trasferito al Nord; o paura di scoprire quante altre fossero rimaste
invariate, di trovare ancora l'impronta a tempera della mano di Alfio
sul paletto di recinzione del castello.
A quel pensiero, il mare di
ricordi mi sommerse di nuovo, ed io dovetti fermarmi. Mi tenni il
petto, con gli occhi spalancati, nel tentativo di arginare le lacrime,
che, temevo, mi avrebbero inebriato, come tante volte era già
successo. Ma dovevo rimanere lucido, avere il coraggio di vivere da
sveglio e di farmi colpire dalle cose, finalmente: non facevo che ripetermelo.
Mi sforzai lentamente di rendere regolare il mio respiro.
-Tutto bene?- era una voce maschile, forte.
La cosa che temevo di più, però, era che qualcuno mi riconoscesse.
-Sì- soffiai, senza sollevare lo sguardo dal suolo, -non si preoccupi.- e scappai via.
Il tragitto fino alla chiesa fu più lungo del necessario. Presi
tutte le stradine meno affollate che mi riuscì di rammentare, e,
quando la raggiunsi, il rito era già cominciato.
Mi fermai un momento all'esterno, per leggere il manifesto funebre, e il cuore mi si strinse per la pena.
Povero, stupido Apelle. L'uomo rozzo dalle mille finzioni, l'uomo del
"se-lo-dici-ti-pesto" di quando non eravamo già più bambini.
Suicida. Suicida, sentenziava il giornale.
La piccola chiesetta romanica era piena, anche se non satolla. Con
un'occhiata fugace, mi accorsi che, oltre alle classiche vecchiette,
abbondavano i ragazzi della mia generazione. Giunse spontaneo alle mie
labbra un mezzo sorriso ironico.
Mi sistemai dietro uno dei banchi in fondo, e guardai fisso verso la
bara. Mi sembrò piccola, troppo piccola per contenere l'omone che era
diventato, le cui mani erano grandi come padelle, e dure -ahimè-
altrettanto.
Quel pensiero di lui mi fece quasi tenerezza. Mi
ricomparvero davanti il suo sorriso buffo, i suoi atteggiamenti
effemminati e goffi quando la società non poteva spiarlo, le sue
minacce. Era stato violento e violentatore nell'amare, mi aveva
picchiato più volte, umiliato, in pubblico e in privato, quando
ero ancora così fragile, e adesso soffocava da un'ora in
quell'aria d'incenso.
Mi sedetti su uno degli ultimi banchi, vinto dal capogiro. Non riuscivo a sentire le parole
assurde del prete, non riuscivo a sopportare sua sorella che elogiava
la sua gentilezza dall'altare; mi presi la testa, e cominciai a sognare.
"Ti ho aspettato per tanto tempo. E tu non sei più venuto."
La sua voce dura e rude è addolcita da quella strana sincerità che non mi ha mai manifestato, prima.
Assomiglia di più alla sua voce nel momento più sincero,
quando si avvicina all'orgasmo e una volta ha detto il mio nome,
facendosi scappare che per lui non sono uno dei tanti. Ma nessuno
è stato per lui 'uno dei tanti', lo scopro solo ora, dalle voci di corridoio che non mi feriscono più. Tutti
con un nome, tutti abbracciati dalla sua inconsapevole capacità
di amare, che non ci ha mostrato mai, tranne che in quell'istante. "Ti
avevo detto che ci saremmo visti alle otto in punto. Ma tu non
c'eri. E non c'eri nemmeno alle nove. E neppure alle dieci sei venuto."
Quando me lo dice, vorrei quasi accarezzargli il viso e coccolarmelo
addosso, come ho fatto tante volte, consolandolo senza parole, senza
che lui ammettesse il suo disagio. Ma non voglio che mi picchi anche
oggi: oggi ho smesso. Ti prego, Apelle, lasciami andare.
Mi guarda con uno
sguardo strano, quasi incerto, che alimenta la mia paura. Mi porto una
mano all'occhio destro, nero.
"Perché non c'eri? Perché mi hai lasciato lì? Ti
avevo segnato il petto per ricordartelo, ma tu non sei venuto. Ha
cominciato a piovere, alle dieci, sai? E io sono dovuto tornare a casa
e ubriacarmi." Lo sai che non posso appartenerti, Apelle? Malgrado
le percosse, le minacce, nessuno di noi ti è appartenuto mai, me l'hanno detto.
D'altronde, come potevamo? Pensavamo d'essere solo oggetti, che tu
volevi a stento: non abbiamo mai preteso di appartenerti.
Mi resi conto che quell'immagine consolatoria creata
dalla mia mente parlava con la voce di quando avevo sedici anni e
lui diciotto, ma mi guardava con occhi troppo veri, ch'egli non mi
aveva mai mostrato, e la scena in sé era tanto vera, tanto sincera da
non poter mai aver luogo in una vita tanto pregna di insicurezze
mascherate, di usi e abusi.
E poi, cosa? Si era stancato di vivere in quel modo? Si era
stancato di non essere amato, si era stancato di nascondere la
propria omosessualità alla famiglia? alla sorella quasi-suora,
agli amorevoli genitori?
Perché il suicidio, Apelle? Perché?
L'Apelle immaginario non rispose, e si dissolse
lentamente, quando mi distrasse un altro rumore, assai insistente: un
ragazzo molto esile, più giovane di me, piangeva senza ritegno
dal primo banco. Aveva i capelli di un biondo pallidissimo rivolti in
tutte le direzioni, che sussultavano ai suoi singhiozzi disperati.
Sembrava non sapersi fermare. E non volerlo, neppure. Non se ne
vergognava, pareva convinto di avere tutto il diritto del dolore, e
il prete lo guardava infastidito, giacché ogni volta che quello
gemeva troppo forte era costretto ad interrompere la predica e
schiarirsi rumorosamente la gola.
Istintivamente, provai simpatia per quel ragazzo. Era stato il suo ultimo amante? L'aveva amato davvero?
Sperai di sì. Persino Apelle, prodotto stupido e ostile al
sentimento di una società tale, aveva meritato, in qualche modo,
di essere amato, almeno un po'. Se non altro, per quell'«Aurelio» che
aveva sussultato una volta, vittima del piacere.
Perché so che Apelle può essere
amato.
Con quei baci, profondi e turbolenti, che sfidano la tua anima
e la tentano all'abisso. E' l'abisso che talvolta ti guarda dai suoi occhi, che
ti chiede di fargli un po' di posto in te, perché lì dentro ci sta
troppo stretto, ormai, giacché ha divorato tutto ciò che poteva, ed ora
si sente solo. "Se solo tu
potessi amarlo, io ti avvolgerei tutto, fino a fonderti le meningi...",
così il baratro infinito ti parla. Ma le mani pesanti come padelle ti
distraggono dal richiamo, e tu ti trovi, freddo, a contemplare i lividi
e, nei lividi, il dramma di Apelle.
Sorrisi tra me, un po' amaramente, a quella idea di lui, e mi
sentii un
po' più forte; e mentre le mie paure sorde si affievolivano un poco, mi
ricordai di quel giorno inquieto, e scorsi nuovamente la sagoma di lui
diciottenne, che guardava triste quel me stesso adolescente che monologava
con una sicurezza che non gli apparteneva.
Perché
so che Apelle può essere amato, ma non sa dirlo, né col corpo, né con
l'anima, ed il suo silenzioso fraintendere se stesso è la sintesi della
sua tragedia.
Perché so che Apelle può essere amato. Ma non da me, non ora,
che sono le undici e fuori dalle finestre il tetto gocciola assente.
E quindi...
La
celebrazione era giunta a termine. Lasciavo che la folla lenta mi
oltrepassasse, continuando a fissare immobile il punto in cui giaceva
inerte il suo corpo. A fatica, mi feci strada lungo il corridoio
centrale, per avvicinarmici. La sua immagine, però, mi si fece incontro, e mi
bloccò a qualche metro dalla meta, guardandomi, come in attesa di
qualcosa.
E quindi, Apelle, io ti dico addio.
Quando egli disparve dalla mia immaginazione, guardava verso il ragazzo singhiozzante di poco prima con uno sguardo cupo. Mi
sentii a disagio, come se mi fossi introdotto forzatamente nel loro
intimo dramma, e mi affrettai ad immettermi nella folla che
defluiva verso l'uscita, tentando spasmodicamente di confondermi con
essa.
D'un tratto, una mano decisa mi afferrò il braccio. Mi irrigidii e mi
voltai lentamente, comprendendo con orrore di dover fare per la prima
volta i conti con l'essere riconosciuto.
I miei occhi incontrarono un paio di iridi blu scuro e ne furono totalmente disorientati.
Bello, vivo, possente, "l'uomo che aiuta" stava ritto dinanzi a me.
-Aurelio...- pronunciò con la sua voce fonda, -sono contento di vederti. Vivo.
Note:
Grazie a tutti coloro che hanno letto fin qui, e soprattutto a TuttaColpaDelCielo e ciuffolina.
Spero che questo capitolo sia all'altezza delle vostre preferenze,
giacché è fonte di molte mie insicurezze: forse il comportamento di
Aurelio è un po' ambiguo e poco logico; in ogni caso il rapporto tra
lui ed Apelle si chiarirà ulteriormente, in termini più "oggettivi" nel
prossimo capitolo.
Ci tengo a specificare, inoltre, che non è una mia idea, quella di
strutturare i personaggi in base al significato del loro nome, ma era
esplicitamente richiesto dal Challenge per cui scrivo questa storia.
Infine, specifico il significato del nome "Apelle": "colui che minaccia".
Alla prossima!
Lucretia
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Capitolo 3 *** II | Mano ***
2Ho capito di essere inadeguato.
La prima volta è stato quando ho mosso gli occhi.
La quarta quando ho avuto bisogno della tua guida.
Capitolo II | Mano
Dopo un momento di esitazione, mi lasciai condurre da Armando al
ritrovo di un tempo, ormai tacitamente noto come "il bar dei gay"
presso tutti i giovani della cittadina. Una volta ancora, mi
commosse la sua perspicacia: guardandomi, aveva capito al volo il mio
sentimento, il mio affogare nella confusione dei ricordi, e mi aveva
preso per mano, nascostamente, per non farsi scorgere, comprendendo che
questo mi avrebbe imbarazzato. Poi, non si era fatto scrupoli nel
trascinarmi via con la forza.
Un tempo dicevamo che Armando sembrava una donna. Non una donnetta; al
contrario, aveva alcune qualità proprie di quelle Donne con la "D"
maiuscola. Una di queste era senz'altro l'empatia: lui aveva sempre
capito tutto di tutti noi. Per questo, me l'ero tenuto sempre stretto,
col suo fare un po' rude e quella sensibilità spiccata e disarmante.
Pur correndo per le strade affollate, infatti, la sua presenza mi
rassicurava, ed ebbi finalmente il coraggio di lanciare sguardi fugaci
alla strada intorno a me. Ne fui disorientato: la via "dei negozi" era
costellata di pacchiane insegne luminose, che riconoscevo a prima
vista, e di insegne nuove di famose marche, che non conoscevo affatto.
A stupirmi di più e a spingermi a fermarmi fu, tuttavia, la mia sagoma
che incrociai in una vetrina. Da quanto tempo non mi guardavo allo
specchio? Mesi, forse?
Pensai che mia madre aveva ragione. I capelli erano diventati davvero
lunghi, e, se mi fossi lasciato curare da lei, sarebbero stati di nuovo
abbacinanti come fossero fili d'oro che si svegliavano pigramente alla
luce del sole, dopo un lungo letargo.
Per il resto, sembravo uno straccione: la barba ispida aveva
arbitrariamente occupato le mie guance, gli occhi -lo potevo supporre-
erano contornati da occhiaie profonde, e i miei vestiti erano vecchi e
logori. Da quanto tempo ero in quelle condizioni e non lo sapevo? Mi
guardai in quei buchi neri che dovevano essere i miei occhi: Aurelio, come ti sei ridotto!
Armando mi strattonò bruscamente, per farmi riprendere a camminare.
Ho sempre pensato che, nonostante tutto, l'apparenza, il corpo, siano
specchi dell'anima e del pensiero: specchi misteriosi, crittografati, è
vero, ma pur sempre contenitori di verità. In quel caso eravamo
esattamente ciò che apparivamo. Un uomo forte e affascinante che
soccorre un poveraccio, tenendolo per mano.
Ma forse non era realmente
così che apparivamo...
Armando spinse la porta del locale, entrammo e cominciai a guardarmi
intorno. Non era cambiato molto, con gli stessi tavoli tutti diversi e
colorati che ingombravano il piccolo ambiente, reso quasi
claustrofobico dai colori accesi delle pareti.
Il mio sguardo inciampò sulla nicchietta rossa, con il tavolino nero
dipinto a mano quattro anni prima, dov'ero solito sedere con...
Il respiro mi
si fece nuovamente affannoso, gli occhi mi si offuscarono, sentii una
fitta di dolore al petto. Perché, dopo tutto quel tempo, era ancora lì?
Compresi di non averlo mai affrontato davvero, di averlo lasciato lì a
dormire senza coccolarlo
come diceva mia madre. Ero fuggito, questo lo sapevo, ma, in quel
momento, non fui capace di muovermi, ipnotizzato dal ricordo di -mi costò fatica pronunciarlo, anche nella mia mente- Alfio che dipingeva sul fondo corvino le sottili spirali di fiori strani, una delle quali rappresentava, come disse allora, "il profilo della mia anima". Mi confusi, persi ogni cognizione del luogo e del tempo; il cuore prese
a battermi all'impazzata, e io mi sentii cieco e immateriale. Mi salvò nuovamente Armando, scuotendomi per distogliermi dai miei
pensieri, e mi condusse fino ad un altro tavolo, blu, ordinando, nel
passaggio, due
birre ad un cameriere, e salutando altri ragazzi che non conoscevo o
non ricordavo. Ci sedemmo, uno di fronte all'altro, senza parlare. Io
mi sforzai di sorridergli un po', ancora turbato, e di concentrarmi su
di lui. Era sempre il solito, alto e
smilzo, eppure così deciso, con quel naso autorevole che troneggiava
sul suo volto squadrato. I capelli, magari, erano un po' cambiati;
tagliati corti, tanto che quasi avevo nostalgia del suo vecchio
cespuglietto.
Lui ricambiò il mio con uno dei suoi sorrisi a metà, e compresi che
pensava un po' a me, un po' ad Apelle.
Avevano avuto un rapporto strano, conflittuale: alle medie erano nella
stessa banda, poi, credo, avevano litigato per il pacifismo palese di
Armando e non si erano guardati più per anni.
Il cameriere tornò con le nostre ordinazioni, e "l'uomo che aiuta"
(tale il suo soprannome dalla sua conversione all'associazionismo)
impugnò immediatamente il suo boccale, e si alzò in piedi, rivolgendosi
a tutti i presenti:
-Brindo a colui che si è scopato tutta la città. Apelle, scopati pure l'Inferno!
Mi resi conto solo allora dell'aria malinconica e pesante che si
respirava nel locale, e compresi che era dovuta alla scomparsa di
"quello di noi" che tutti di sicuro conoscevano. La battuta di Armando, seppure non molto fine,
allentò la tensione, e dette l'avvio ad un chiacchiericcio ed uno
scambio di racconti vari.
Il mio amico si risedette, e con tono leggero, si rivolse a me:
-Tu, quando ci sei stato?
Io bevvi un sorso di birra, assaporandolo sulla lingua, aspettando un dolore che arrivò solo in parte.
-Lui è stato il primo.
-Oh- disse lui, spalancando gli occhi, -mi dispiace- mi strinse la mano sul tavolo, poi, esitando, chiese: -Com'è stato?
Io sospirai, poi sorrisi tristemente, distogliendo lo sguardo da lui.
-Come con tutti. Mi ci è voluto del tempo per riconciliarmi con l'idea di lui.- lo guardai nuovamente, -Tu, quando...?
Lui mi lasciò la mano, e si sistemò più comodo sulla sedia: -E' stato
qualche tempo fa. Non lo vedevo da anni, ma fu un'esperienza
alquanto...piacevole: da un certo punto di vista, Apelle mi temeva. Era
anche arrabbiato, certo, perché si era sentito abbandonato da me, anni
prima, ma sapeva che io...
Il suo racconto fu interrotto dallo squillo del suo cellulare. Lo
afferrò e, guardando il display, sorrise, come non l'avevo mai visto
fare.
-Ehi- rispose, poi parve un po' deluso, -sì, certo, hai
ragione...d'accordo, ma passa solo un attimo da qui, è importante...va
bene, a tra poco.
Sarei stato incuriosito da quella telefonata, se non mi fossi accorto
di un ragazzo che mi fissava dall'altro lato del locale. Era il
ragazzino che piangeva per Apelle, quello che avevo trovato simpatico.
Aveva ancora il volto striato dalle lacrime, e mi accorsi che era di un
pallore quasi metafisico. Tutta la sua figura, in realtà, sembrava
fuori posto in quel locale: era fermo, in piedi, ostruiva ai camerieri
il passaggio tra i tavoli, e pareva indeciso su cosa fare, sembrava che
volesse parlare con me.
Poi, i suoi occhi si spostarono su Armando, e solo allora mi accorsi
che lui fissava lo sconosciuto con aria accigliata. Come reagendo a
quello sguardo, il ragazzino barcollò, e corse via dal locale.
Quando se ne fu andato, mi voltai verso Armando, confuso.
-Chi è quel ragazzo?
Lui, stranamente, mi parve in difficoltà, come se volesse nascondermi qualcosa.
Alla fine, sospirò e rispose: -Angelo. Apelle era innamorato di lui da
molto tempo, ma lui non l'ha mai ricambiato. Gli voleva bene, è un
ragazzo molto sensibile, ma è etero.- concluse, guardandomi.
Io ci pensai un po', vagamente. Allora, Apelle era veramente cambiato, aveva ammesso la sua identità, aveva amato un ragazzo. Angelo,
pensai con affetto. Non aveva importanza che non fosse stato
ricambiato, in fin dei conti; l'importante era che egli avesse potuto
amare, prima di...
Realizzai all'improvviso quello che era successo, e guardai turbato
il mio amico: -Mi stai dicendo che Angelo è il motivo per cui Apelle si
è suicidato?
-Beffardo, no?- rispose lui dopo un silenzio, -L'unica volta che ha
voluto innamorarsi è stato di un ragazzo che non poteva ricambiarlo.
Mi sentii triste, e la bocca mi si fece amara.
Appoggiai la guancia sulla mano, e rimasi per un po' a contemplare il ripiano blu.
Note dell'autrice:
Armando: "la mano che aiuta il povero".
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Capitolo 4 *** III | Cherubino ***
3Ho capito di essere inadeguato.
La prima volta è stato quando ho mosso gli occhi.
La quinta quando ho incrociato le tue iridi lucide.
Capitolo III | Cherubino
-Amore mio!- un richiamo
di quella voce maschile, dolce e melodiosa, scosse Armando, che sorrise
felice mentre una meteora gli si abbatteva contro. Mi domandai dove
avessi già udito quel tono di voce, quel timbro, quell'inflessione
golosa... mi suonavano familiari, come se appartenessero ad un mondo
segreto e dimenticato, come se, ricoperto di polvere, avessi trovato un
carillon in una soffitta, e avessi scoperto che funzionava ancora, per
quanto le forme della ballerina che vi danzava dentro fossero già
fragili un tempo, quando il ricordo era stato accantonato. Eppure me lo
trovavo lì, ad un palmo dal naso, il mio ricordo perfettamente intatto,
anzi fortificato dal tempo.
Provai tenerezza, per come quelle dita scorrevano sulle guance di
Armando, senza scorgere nulla del mondo esterno, una tenerezza così
familiare...
Fu quando sollevò il volto per baciarlo che lo riconobbi, e raggelai.
Il mio cherubino fascinoso, che col suo passo di danza orna il suo mondo di cristalli.
Un senso di nausea mi afferrò
lo stomaco con mano fredda, e lo scosse violentemente, tanto che mi
piegai in due, per quanto il tavolo me lo consentiva, pienamente
consapevole della mia colpa.
Era come se qualcuno mi scagliasse ripetutamente ciottoli tutti nello stesso punto, sulla schiena. Colpa. Colpa. Colpa.
Armando gentilmente gli sollevò il viso e lo condusse a voltarsi verso di me. Gli occhi di Amilcare si spalancarono di colpo, e il mio cuore cominciò a scontrarsi con forza con il petto.
Si alzò e mi venne lentamente incontro.
Io trattenevo il respiro, anche il pensiero si era atrofizzato, per la densità del suo incanto.
Poi, mi raggiunse e mi prese tra le sue braccia; io cominciai a
piangere silenziosamente, come se qualcosa si fosse sciolto in me in
quel momento. Mi asciugò le lacrime con le dita, mi sorrise dolce, e mi
osservò, con i suoi occhi tanto grandi che mi sentii affogare.
Vedendo che mi ero tranquillizzato, si sedette al posto che aveva
occupato Armando -lui si era dileguato chissà quando- e rise un poco,
dolcemente.
-Non ti sembra buffo? Anni fa, eri tu a fare questo per me.
Era vero. Ero sempre stato io a consolarlo, a rassicurarlo, quando era
goffo ed insicuro. Ma ora era cambiato: brillava, nei suoi ventuno
anni, e sembrava una persona diversa. Più virile, disinvolto... mi
sorpresi a cercare i segni del dolore che io gli avevo inflitto: forse
in quelle rughe leggiere, che gli arricciavano gli angoli della bocca? forse
nel fondo nascosto di quegli occhi che, indifesi, esploravano i miei?
forse nella fronte, nelle gote, nelle ciglia?
-Non lo troverai, Aurelio. -scosse la testa, con un sorriso tenero, -Non è il dolore, ciò che mi hai lasciato.
Quanto mi conosceva, quanto capiva del lato più profondo e immutabile di me, quanto mi ricordava...
-Cherubino, io... -tentai di
dire, interrompendomi per lo stupore: l'avevo chiamato come facevo una
volta; ma allora lui era soggiogato da me, non viceversa, -Come sei
cambiato...
-Non è vero. Sei tu che hai paura.
Accussai il colpo. Come poteva dire parole così dure con quel tono morbido, e quegli occhi da agnellino?
Era vero, non era cambiato. Aveva ancora quella sincerità disarmante,
quasi infantile, con la quale leggeva il mondo, come se fosse la cosa più semplice da
fare.
Avevo paura, era vero. Forse, volevo credere che lui fosse un altro,
che avesse dimenticato tutto il mio squallore, tutte le mie
scorrettezze di quell'anno ch'era stato tra i più importanti della sua
vita.
E allora lo guardai.
-Hai capito sempre tutto di me?- gli domandai, tristemente, -Saprai mai perdonarmi?
-Non hai niente di cui scusarti.- continuò, con quel suo fare angelico.
Aveva sempre avuto il potere di infastidirmi, quel suo modo di fare,
quel suo farsi calpestare con beata serenità; era contrario al mio
senso di verità e di giustizia. Per la prima volta dopo tanto tempo,
sentii che qualcosa mi ribolliva dentro.
-Amilcare,- sbottai, cercando tuttavia di contenere la voce, -questo non
è vero, né giusto. Io ti ho ferito. Ho un debito verso di te che non
so se riuscirò mai a colmare. Io li ricordo perfettamente i tuoi
occhi, quel pomeriggio, quando capisti che non ti avevo amato, che non
avrei potuto amarti mai. Erano lucidi e larghissimi, così larghi che era
troppo facile fare finta di niente e rituffarmi dentro di te.
-E allora te lo spiego di nuovo:- insisté lui, sereno, -ogni ragazzo
sogna che sia l'uomo che ama ad accompagnarlo nella scoperta della
propria omosessualità; e tu sei stato una guida ineccepibile, Aurelio.
Quando ero insicuro, quando avevo paura, non dovevo fare altro che
pensare a te o, nei casi più gravi, chiamarti per sentire la tua voce.
Mi davi i consigli più giusti, allontanavi i miei turbamenti con
semplici gesti. E' vero, c'era qualcosa nei tuoi occhi... a volte, ti
voltavi a guardare altrove, e allora sembrava che qualcosa ti rodesse
di dentro, che ci fosse un anelito lontano e sconosciuto in te... che
ti stessi...consumando, svuotando. E allora capivo che io- non un'ombra
di dolore passato attraverso i suoi occhi limpidi- io, non sarei mai
stato abbastanza per te.
Abbassai lo sguardo sulla superficie del
tavolo.
Lui continuò: -Perché quello sguardo, quello che sapeva di infinito, che
mostrava l'abisso dentro di te... quello sguardo, sì, che (me ne sono reso
conto dopo) assomigliava a quello che ha ucciso Apelle, -sollevai gli
occhi di scatto, fissandolo, -quello sguardo non sarebbe mai stato
rivolto a me.
Mi sorrise dolcemente, e io da quel sorriso mi sentii divorare, mi
girava la testa, la vista mi si fece confusa. Allora distolsi gli occhi
e li volsi altrove, oltre il mio passato, oltre Amilcare, oltre il
tavolino nero... guardai fuori.
-Dunque, -mi ritrovai a proferire, -sono stato una buona guida, ma non un buon amante?
-Beh, non sei stato affatto un amante: non mi amavi.
Un altro colpo basso, da parte sua. Strinsi gli occhi e mi tenni i fianchi con le mani.
Quella conversazione mi faceva soffrire più di quanto mi fossi
aspettato, anche se era chiaro che il dolore di Amilcare era svanito da
tempo. Come poteva parlare con tanta leggerezza? In quei momenti, mi
sentii perduto. Non potevo arginare i miei sensi di colpa scusandomi,
non era logico piangere, non avevo niente da dire. Mi sentii spossato,
devastato, e desiderai tornare a casa e dormire, per giorni, mesi,
anni, desideravo annullarmi e sparire, giacché se per quei due anni non
ero riuscito a trovare una spinta per sopravvivere, allora... allora
io... era come se fossi già morto da due anni.
-Grazie, Aurelio, per quello che hai fatto per me.
A volte ho l'impressione che sia solo
un'educazione meccanica, il nostro rapporto; mi illudo che istruendolo
al piacere io possa compensare l'amore di cui sono incapace. Perché le
sue labbra da cherubino sono troppo innocenti per afferrare i fili
della mia anima. Forse voglio solo sporcarle, per insegnare loro ad
intrappolare le anime, ad intrappolare me; forse voglio solo non
sentirmi così tanto in colpa...
Vorrei solo che lui fosse...abbastanza, per me.
È per questo che me ne sto qui, disteso nudo su questo divano,
lasciando che i miei gemiti diano istruzioni alle sue labbra fedeli; e
quando gli scorgo le lacrime addensarsi sotto i suoi occhi, gli faccio
cenno di smettere, lo tiro su e gli bacio la boccuccia affranta,
sorridendogli piano per rassicurarlo.
"S-scusa..."
"Cherubino, l'avidità è sacra e giusta. Ma se mai il tuo corpo si
piegherà per quello di un altr'uomo, sarà lui a dover spasimare."
Dico 'se mai' e parlo di me. Dico 'spasimare', e lo imploro 'lasciami,
perché io ti sfrutto e non sono abbastanza forte per allontanarti'.
E gli accarezzo i capelli. L'ho fatto così spesso, in questi mesi, che
saprei descrivere a memoria ogni singolo filo di quel soave capo. E
vorrei, vorrei davvero che questo bastasse.
Durante il silenzio che seguì, non riuscii a guardarlo. Lui si alzò, e, farfugliando qualcosa, andò via.
***
-Sai, a volte credo che si faccia trascinare dalle parole, e non riesca ad esprimere quello che in realtà vorrebbe...
La voce di Armando mi risvegliò dal vuoto in cui ero piombato.
-Mi ha detto che non sono mai stato il suo amante. Che il mio sguardo
nascondeva il vuoto- gli dissi- e che non era mai stato per lui.
-Sì, l'ha detto anche a me.-
rispose, riprendendo il suo posto, e sporgendosi sul tavolo verso di
me, -Ma, sai, lui non te lo rimprovera. Sa bene che, se mai tu glielo
avessi rivolto, quello sguardo lo avrebbe disintegrato, divorato,
annientato.
Sollevai il volto verso di lui, cominciando finalmente a capire qualcosa.
-Lo sai anche tu, Aurelio,- continuò, con un tono estremamente dolce,
-che solo una persona è riuscita a sostenere il tuo sguardo. E' per
questo che tu non sei riuscito ad amare nessuno, né prima, né tanto
meno dopo di lui.
Mi sentii male, di nuovo. Fu come se avessi ricevuto un colpo pesante
rumoroso, diretto contro il mio petto. Chiusi gli occhi, e credetti che
sarebbe stato facile abbandonare di nuovo la realtà, per cedere ai
ricatti del ricordo. Ma non potevo farlo ancora, lo sapevo e, grazie ad
una sconosciuta forza di volontà, mi alzai di scatto, facendo cadere la
sedia, e goffamente raggiunsi il tavolino nero con i fiori, che
afferrai forte, fino a farlo scricchiolare. Vi appoggiai la fronte,
annusando l'odore di vernice che mi era familiare e, poco a poco, potei
calmarmi. Tornai a respirare normalmente e, lento, mi raddrizzai.
-Andiamo via.- mi soccorse Armando.
E uscimmo nell'aria asciutta.
Note:
Mi scuso per l'assenza di questo periodo ma, come ho scritto nelle "Note dell'Autore" ho una motivazione abbastanza valida!
Oggi, per il mio compleanno, vi "regalo" questo capitolo. Ho esitato
così a lungo anche perché non mi convince del tutto; non ha rispettato
il progetto originale e, durante la fase di scrittura, ha cominciato a
fluire da solo, senza che io ci potessi far molto.
Ringrazio coloro che recensiscono e che seguono la storia, come sempre.
Vi confesso che, per i miei gusti, ci sono un po' troppi uomini in
questa storia, quindi sto già progettando una storia in cui compaiano
molte donne; e vi anticipo che, nel prossimo capitolo, tornerà il mio
personaggio preferito, la "madre di Aurelio" (che, stranamente, non ha
nome).
Il nome di oggi è Amilcare, che significa "docile come un agnello".
Alla prossima
Lucretia
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Capitolo 5 *** IV | Amore ***
Ho capito di essere inadeguato.
La prima volta è stato quando ho
mosso gli occhi.
La seconda quando tu mi hai rifiutato.
Capitolo IV | Amore
Mentre
camminavo verso casa, mi sentivo più piatto che mai. Mi sembrava che
nulla potesse avvicinarsi al mio corpo, che tutti mi girassero alla
larga, che la mia mente si fosse richiusa, e non cantasse più, nemmeno
tra sé, da sola, a se stessa.
Fu il buio denso di casa a risvegliarmi; la voce di mia madre che
canticchiava una canzone triste dal bagno giunse fino a me, tanto che
inspirai e qualcosa entrò nei miei polmoni, finalmente. Allora, tutto
ricominciò a funzionare più o meno normalmente, e mi accorsi della cosa
più banale: avevo fame.
Arrivai con facilità in cucina, accesi la luce e aprii uno sportello in
alto, sopra i fornelli: solo pentole. Dopo diversi tentativi, che
comprendevano l'apertura di una serie di cassettoni e ante misteriose,
aprii la dispensa verde (che aveva, per giunta, cambiato posto), e
trovai una serie di zuppe di legumi. Mi venne da sorridere. Mia madre
amava, di tanto in tanto, spostare e cambiare di posto pentole, cibi,
mobili; persino scambiare lo zucchero con il sale, in modo da non
cedere mai all'abitudine e non diventare mai passiva, neppure in cucina.
Scelsi una zuppa di farro e legumi e la misi a cuocere.
Poi mi sedetti su una sedia, e percorsi con lo sguardo l'ambiente.
Subito, notai una bella pianta imponente che avvizziva. Mi stupii: mia
madre era sempre stata molto attenta a quella in particolare.
Riempii una caraffa di acqua corrente e mi apprestavo ad innaffiarla,
quando sentii la porta del bagno aprirsi, e mi voltai verso mia madre
che entrava nella stanza.
Indossava un morbido vestito viola scuro, che accoglieva caldamente il
suo corpicino sottile. Mi sorrise piano.
-Mamma, Philippe sta appassendo!- strillai quasi, e in quella cucina mi
sembrò di tornare bambino.
Tante volte avevo reagito in modo analogo alla scoperta di qualcuna
delle tante stranezze di mia madre, e lei me le aveva sempre,
pazientemente spiegate subito, accarezzandomi il capo con una mano, e
chinandosi per sussurrarmi con voce dolce le sue parole sottilli.
Anche allora, mi si avvicinò con un sorriso mesto, e mi scompigliò
delicatamente i capelli, mentre io mi abbassavo
istintivamente affinché le sue labbra potessero raggiungere il mio
orecchio.
-Philippe è morto l'anno scorso.
Spalancai gli occhi, colpito dalla notizia, ma non mi mossi, grazie
all'ascendente che lei sapeva avere su di me.
Philippe. Il caro, vecchio Philippe, che quando ero piccolo mi era
sempre sembrato un po' Babbo Natale. Lo chiamavo "nonno", e il buon
professore di Filosofia si inalberava e si preoccupava troppo.
-Com'è successo?
Mia madre sorrise, nel ricordarlo.
-Era malato da tempo: lo sai, fumava troppo.
Già lo ricordavo. Chissà se nell'ultimo periodo aveva pensato a quel
ragazzino che gli ordinava sempre di smettere di fumare, o per lo meno
di
smettere di affumicare sua madre...
Lei, d'altra parte, era stata senza dubbio il suo più grande amore. Le
diceva spesso che era nata per la Filosofia, anche se lei si ostinava a
"far volare gli aquiloni", che lei era la strega della vita e la fata
della morte.
Forse lui l'aveva davvero compresa.
Mia madre, dal canto suo, l'aveva lasciato proprio perché lui "non
sapeva far
volare gli aquiloni", ma non si era mai del tutto distaccata da lui, e
gli aveva dedicato quella pianta che ora periva.
Da allora, aveva preso la strana abitudine di dare alle piante i nomi
dei suoi amanti: quando ne scoprivo una nuova in casa, sapevo che
c'era amore nell'aria, non ne comprava in nessun'altra circostanza.
Al ricordo delle piante, ne cercai con gli occhi una grassa,
relativamente giovane, che mia madre aveva avuto il coraggio di
comprare solo molto tempo dopo la relazione che essa commemorava. Mi
commosse il trovarla sul davanzale della cucina, polverosa, dove e come
era sempre stata. In quella casa, dove tutto cambiava e si muoveva,
quell'unico, miserrimo essere restava immutato e immobile, sembrava il
solo punto fermo in uno strabiliante vortice creativo.
Mia madre intercettò il mio sguardo e mi parlò con voce dolce:
-Dovresti chiamare tuo padre.
A quelle parole, mi irrigidii di colpo. Mio padre si rifiutava di avere
a
che fare con me da quando avevo dodici anni; da quando, cioè, avevo
scoperto e palesato la mia omosessualità. Era andato via di casa, s'era
costruito la sua bella famigliola e non avevamo avuto in seguito che
qualche incontro sporadico, volto ad una formale conservazione del
rapporto.
-Perché mai dovrei farlo?
-Vorrebbe sapere che sei tornato.- fece lei con tenera noncuranza.
A quelle parole scattai, alzando il tono della voce:
-L'hai incontrato?
Lei rise dolce e mi passò piano piano una mano tra i capelli.
-Tesoro mio, io non vedo Arnoldo da dodici anni; gli ho solo parlato
per telefono. E non giudicarlo così severamente, non lo merita.
Non
era da mia madre farsi maltrattare in quel modo, e questo mi fece
adirare, al punto tale che non riuscivo ad articolare bene le frasi.
-Lui non... merita... cosa?
Mia madre non rispose, e io continuai, alzando il tono della voce:
-Dopo tutte quelle cazzo di chiacchiere sul fatto che ci avrebbe
protetti e stronzate varie, alla prima occasione ci abbandona, vola via
come la fottuta aquila che pretendeva di essere?! Cosa stai dicendo?
Lei sospirò, guardandomi ansimare.
-Lascia che ti racconti la verità, su tuo padre...
-Non chiamarlo in quel modo.- la interruppi, brusco.
Mi osservò attentamente per un po', con aria critica, e alla fine parlò
con voce più chiara, misurando le parole.
-Siediti, figlio mio, e calmati. Sentirai per la prima volta la storia
triste di chi ti ha dato al mondo, e so che finirai col capire.
Scostai una sedia dal tavolo e obbedii confuso, ma senza obiettare,
all'autorità materna. Sapevo quanto fossero preziosi
quei momenti: mia madre non parlava molto, e le risultava
particolarmente penoso raccontare episodi del suo passato, a meno che
essi non riguardassero me. Assumeva quindi un tono sempre favolistico,
dolce, lo stesso con cui, nell'infanzia, soleva raccontarmi storie per
incantarmi o per farmi dormire.
-Era l'estate dei miei diciannove anni, quando decisi che non bastavo
più a me stessa, che avevo troppo amore da dare, troppe storie da
raccontare, troppi silenzi da spendere. Non mi sono mai fidata di
nessuno, lo sai, non al punto tale da potergli donare tutto questo, non
al punto tale da rivelargli il segreto della mia vita intera, il punto
intorno al quale si avvolgeva la mia anima. Allora capii che l'unico
modo per farlo era generare un essere che avrei amato
incondizionatamente; se questi si fosse dimostrato speciale, gli avrei
consegnato tutta me stessa. Come poi ho fatto. Sono ridicoli, tesoro
mio, i motivi per cui si sceglie di riprodursi: sembrano tutti
squallidi, tutti vani. Spesso mi chiedo se ci debba essere davvero un
motivo valido per generare un figlio; a volte credo che sia stato
crudele da parte mia crearti, così triste, così simile a me.
Si interruppe, e mi guardò con uno sguardo lungo, mesto.
-Per questa idea di bizzarra condivisione, non esitai ad immolare
tutto. Così scelsi quell'uomo grande e forte quasi per caso. Era stato
attratto da me, era rimasto incantato dai miei occhi, dai miei silenzi
e non so cos'altro, ma mi aveva detto "Ti amo" e io l'avevo accettato.
So che si aspettava qualcosa da me. Che gli rispondessi, sicuramente.
Ma io lo lasciavo avvicinare senza spiegargli niente (me lo ha
rinfacciato tempo dopo), e lui non capiva cosa io volessi. Quando
rimasi incinta, non mostrai stupore; lui si offrì di sposarmi, e io
acconsentii, per placare il turbine delle sue preoccupazioni. Era di
buona famiglia, Arnoldo, lo sai, voleva fare le cose per bene, diceva,
mi avrebbe mantenuta, se solo lo avessi lasciato fare. Chiedeva pochi
soldi ai suoi genitori e lavorava moltissimo, per dare a quella ragazza
misteriosa di cui era innamorato tutto ciò di cui ella
abbisognava. Io mi iscrissi all'Università e partecipai a quel concorso
che mi avrebbe poi garantito un impiego piuttosto remunerativo per
tutta la vita, per non pesare troppo su di lui: sapevo che non sarebbe
durata, che prima o poi sarei stata autonoma.
-Quando nascesti, io cominciai ad allontanarlo, ad allontanare tutti.
Tuttavia, non ero mai stata troppo socievole e Arnoldo pensò
erroneamente che un sopraggiunto istinto materno mi avesse
inaspettatamente spinta ad accettare i ruoli tradizionali: lui avrebbe
portato il pane a casa, e io ti avrei accudito. Andò avanti così per
diversi anni. Tu eri un bimbetto irrequieto che strillava "mamma" di
continuo, ed accoglieva allegramente il proprio padre quando tornava
dal lavoro. La sera, mentre cucinavo i miei piatti fantasiosi (lo
facevo per distrarmi, lo ammetto), spiavo tuo padre che ti faceva
giocare. Quasi non sopportavo di essere nella stessa stanza; venivo
colta da moti di disapprovazione e gelosia: tu eri mio. Tu sei
mio. Sei sempre stato il mio uomo, frutto per lui di un incidente,
per me di un desiderio potente e radicato. Chi era lui per te? Mi
confortava sempre vederti tornare trotterellando da me, quando l'odore
dei pasti ti sfiorava le narici, per implorarmi di raccontarti una
storia prima di cena. Io ne inventavo una diversa ogni volta, e tuo
padre ascoltava sempre inquieto, dritto sulla soglia della cucina. È
una di quelle immagini che non si dimenticano: dritto, immobile e
oscuro come una vecchia statua di marmo. Era del tutto succube delle
mie storie, che lo affascinavano e lo spaventavano allo stesso tempo;
si domandava, di certo, se il mio metodo di educazione non fosse
sbagliato, ma non osava discuterlo apertamente. Credo che si sentisse
in soggezione, quando io ero presente, credo che capisse bene (o almeno
che lo percepisse inconsciamente) che tra noi c'era un legame segreto,
privato, che lo estrometteva del tutto. Probabilmente, pensava che,
quando si sarebbe trattato di
farti diventare uomo, gli avrei lasciato
spazio. Non fu mai così, lo sai.
-Lui lo intuì quando avevi sei anni. Un giorno, mentre stavi giocando
nel corridoio, ti fermasti all'improvviso, come colto da un pensiero
languido e misterioso. Rimanesti per diversi minuti immobile, fissando
un punto indefinito della parete, del tutto assorto. Arnoldo si
spaventò, e corse a prenderti per le spalle, scuotendoti e chiamandoti
a gran voce, facendomi accorrere dalla cucina. Tu, lentamente, come
svegliandoti da un sogno dolce e melanconico, ti voltasti a fissarlo
con uno sguardo vasto e irrequieto. Con il tuo sguardo consueto,
Aurelio. Lui ti lasciò di scatto e balzò all'indietro, come scottato
dalla tua pelle, o forse dai tuoi occhi.
-Dopo quell'episodio, gli fu chiaro che saresti diventato come me. Che
dunque non sarebbe mai riuscito a capirti, per quanto ci avesse
provato. E tu
non hai idea di quanto duramente ci provasse, e di quanto ardentemente
ci amasse. Arnoldo è una creatura capace di un amore appassionato e
sconfinato, diverso da quello che posso provare io. Più ampio, più
positivo...
-Così, quando non potè più fare a meno di ammettere che eri troppo
diverso da lui perché potesse insegnarti i suoi valori, reinventò il
suo ruolo. Ricordi? Ripeteva spesso che sarebbe stato per noi un'aquila
protettrice, che avrebbe scrutato di lontano i nostri nemici, e con le
sue grandi ali ci avrebbe riparati dai pericoli. Seppure non potessi
amarlo, non potei fare a meno di ammirare l'ostinazione all'amore di
quell'uomo, e tentai di farvi avvicinare, con un po' di rimorso perché
non avevo concesso che lo faceste prima. Fu allora che gli consigliai
di insegnarti a giocare a calcio, a condizione che non ti rendesse un
tifoso o chissà cos'altro. Lui accettò con una gioia enorme... e il
resto lo sai. Immagina quanto fu triste, per lui, scoprire che l'ultima
e la "maggiore" delle tue stranezze fosse nata da ciò che lui stesso ti
aveva insegnato... Perdonalo, tesoro mio, e tenta di amarlo, così come
lui ha tentato di fare con te!
-Tira, Aurelio, calcia forte la
palla! Non ti preoccupare, il tuo papà non si fa male!
-Così?- chiedo, prendendo la rincorsa.
-Sì, bravissimo!
Guardo il pallone bianco e nero, che lui mi ha regalato. Mi fa un po'
paura, sembra duro e temo che le nuove scarpette blu che mi ha
comprato mamma si rompano. Però, papà è sorridente e io voglio farlo
sorridere ancora di più.
Osservo di nuovo la palla, poi lui, fermo tra due rami infilzati nel
terreno, stringo i pugni, corro e dò un calcio deciso al pallone.
Chiudo gli occhi, timoroso, ma subito cambio idea e ne apro uno, giusto
in tempo per vedere la palla passare in mezzo ai pali, accanto a lui.
-Goal!- urla mio padre, festoso, allungando di molto la 'o' della
parola.
Mi ha spiegato cosa vuol dire, quindi gli sorrido sdentato e felice
mentre mi guarda soddisfatto.
-Sai cosa si fa adesso?- mi chiede poi.
Io scuoto la testa.
-Si esulta.
Mi prende per mano e mi insegna a correre per il campo con le braccia
aperte, gridando di gioia, e io mi ritrovo a ridere per quel modo di
fare così buffo, che non ho ancora capito bene.
La mia testa era invasa da un turbine di ricordi che non
riuscivo a controllare, da moti frenetici e pressanti di sentimenti che
dovevo allora mettere in discussione. Non riuscivo a dare ai
pensieri un ordine, un filo logico, un senso, persino...
-Non è male il ragazzo, eh? Mi sa che
per la prossima stagione potrebbe esserci utile.
Mio padre guarda tutto fiero il suo amico, gonfia il petto e mi passa
la mano sulla testa. Io non posso fare a meno di sorridere.
-Sì, credo che potrebbe andare...- dice papà con finta indecisione, e i
suoi occhi si illuminano mentre mi guarda.
-Dì un po', Aurelio- l'allenatore si rivolge direttamente a me,
-quest'anno ti piacerebbe giocare a calcio con i ragazzi della tua età?
Sono felice della sua proposta, e rispondo seriamente, come mamma mi ha
insegnato: -Ne sarei onorato, signore.
I due cominciano a ridere e, anche se non capisco bene perché, ne sono
contento.
-Mamma, mamma! Papà!
Entro in casa correndo di gioia, dirigendomi verso lo studio dove lei
si trova di solito, a quell'ora della sera. Infatti, mi vede entrare e
solleva il suo sguardo rarefatto dalle pagine di un libro. La guardo,
raggiante, e i suoi occhi si concretizzano caldi sulla mia immagine.
Subito dopo, arriva anche mio padre, che mi abbraccia, distogliendomi
per un attimo da mamma.
-Deduco che sia andato bene l'allenamento- indovina con il suo vocione.
Faccio cenno di sì con la testa e, avvicinandomi a mia madre, prorompo:
-Mi sono innamorato!
Le sue labbra si inclinano in un lieve sorriso di approvazione, e apre
subito le braccia verso di me. Io colmo la distanza tra di noi e mi
lascio accarezzare dalle sue mani dolci.
Dopo un po', mi ricordo di papà e lo guardo, per ricevere anche i suoi
complimenti. Lui è imbarazzato e commosso dalla scena che gli si para
davanti, e non parla subito.
-C'erano degli spettatori alla partita di oggi?
Io capisco ciò che vuole dire, e rispondo: -No, è in squadra con me.
-Ci sono anche ragazze in squadra?- è stupito, -Gigi non me l'aveva
detto.
Contemporaneamente, le braccia che mi circondano rafforzano la loro
stretta; io mi volto di nuovo e continuo: -Mamma, devi vederlo! Ti
piacerebbe tanto perché è bellissimo! Ha i capelli neri neri e dei
piedi giganteschi!
Mia madre ridacchia come poche volte l'ho vista fare, mi incanto a
guardarla. Ad un certo punto, guarda dietro di me e smette di ridere. È
come se si mangiasse le labbra, non ce le ha più tanto è stretta la
bocca. Non l'ho mai vista fare così. Mi volto a guardare mio padre e lo
vedo fermo, rigido, con la bocca piegata all'ingiù e la faccia scura.
Mi fa quasi paura.
-A volte mi chiedo- soggiunse, a voce molto bassa, -se io non
abbia profondamente errato nell'allontanarlo da te. Come madre, ho
fallito nella cosa più importante, o quella che dicono sia la più
importante. Io nell'amore non ho mai confidato. L'ho sognato come
tutti, un'amore sconfinato e totale come i tuoi occhi, ma i sogni
dell'infanzia restano spesso confinati negli aquiloni. Sei l'unico
essere, infine, che io abbia saputo amare in tal modo. E, per il tuo
amore, ti ho lasciato odiare Arnoldo: come avrei potuto- la sua
voce si fece bassissima, -sottrarti la speranza dell'amore? Insegnarti
che i tuoi genitori non si erano mai amati, che tu eri figlio d'un moto
di egoismo?
Le sue spalle sono larghe e forti,
proprio come dovrebbero essere quelle di un papà. Mamma è seduta in
cucina, non lo saluta, mentre lui si avvicina tetro alla porta
d'ingresso.
-Papà- lo chiamo.
Lui sospira e si volta lentamente. Si abbassa un po' verso di me,
portando la testa alla mia altezza. Vedo che si sforza di sorridermi,
ma non ci riesce.
Non dice niente, si alza e se ne va.
Non era mai stato così alto.
-Sai, sono fiera che tu abbia imparato questo da tuo padre, era la cosa
migliore che potesse insegnarti: tu sai amare, difficilmente,
profondamente, col corpo e con l'anima, e non ne hai paura. Tu hai
avuto Alfio, e qualunque cosa succeda, tutta la tua vita può
considerarsi satolla.
L'ennesima fitta allo stomaco, pugno al cuore, stretta al cervello, che
spremette il succo dei ricordi: essi lottavano per riversarsi come
bufere in me, combattendo tra di loro. Per trattenerli, urlai, ruggii
forte come un animale ferito, e tutto passò in secondo piano, mentre
solo un'immagine occupava la mia mente.
...la tua pelle liscia come la neve
leccata dai bambini la domenica mattina...
Note dell'autrice:
Dopo così tanto tempo, questa storia è tornata da me.
È un capitolo piuttosto lungo, lento e pesante. E sì, lo amo.
Arnoldo: "aquila protettrice".
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