La vittima e il carnefice

di Nadine_Rose
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Un giorno normale ***
Capitolo 3: *** La mancanza d’amore ***
Capitolo 4: *** La festa ***
Capitolo 5: *** False speranze ***
Capitolo 6: *** Orgoglio patriottico ***
Capitolo 7: *** Risveglio in un incubo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Premessa

 

“ La vittima e il carnefice ” è una storia scritta insieme al mio caro amico UgoCINQUE.

Essa racconta di un amore nato tra la peggiore delle violenze e maturato per il desiderio inconscio d’amare, un amore capace d’intenerire il duro cuore di un soldato e di confondere l’animo di una prigioniera.

In questa storia ogni riferimento a fatti, luoghi e persone è puramente casuale.

 

**********

Prologo

 

Un’altra fredda e dolorosa notte calò sulla Risiera di San Sabba. I soldati si ritirarono, chi negli uffici a contare freddamente il numero dei morti, chi nei loro confortevoli e caldi alloggi a festeggiare, bevendo e soddisfacendo i propri piaceri mentre i prigionieri nelle loro anguste e fredde celle a distendere le membra stanche. Solo una giovane, nel suo vestito a righe bianche e blu due volte più grande di lei, si aggirava ancora nel campo diretta verso l’edificio a tre piani. Al secondo piano, nell’ultima stanza a destra, la numero 132, l’aspettava il suo amante. A breve, avrebbe finalmente riassaporato il profumo della sua pelle e confuso il respiro con il suo; con abbandono, si sarebbe adagiata su quel letto e lo avrebbe accolto su di sé e in sé. Bussò alla porta ma nessuno le rispose. “ Karl, sono io! ” disse e bussò più forte. Ma di nuovo fu il silenzio a risponderle. Aprì quindi la porta e, lentamente, entrò nella stanza. Tutto era apparentemente normale. La finestra socchiusa che faceva trapelare un po’ di fioca luce, sulla scrivania una bottiglia quasi vuota della miglior vodka e un bicchiere sporco, tre cicche di sigaretta nel posacenere e, sul comodino, una lettera. Gelò. Sedette e, con le mani che tremavano, l’aprì:

 

“ Cara Rosa,
probabilmente quando leggerai questa lettera io sarò già in viaggio per Berlino. Mi hanno trasferito. Avrei voluto dirtelo di persona ma non ho avuto il coraggio. Perdonami. Com’è strana la vita. Prima che ti conoscessi non avrei mai pensato di potermi innamorare di una ragazza come te. Eppure sei riuscita a far breccia nel mio freddo cuore di tedesco. Sei stata l’unica ragione che mi spingeva a trascinarmi per un altro giorno, l’unica cosa bella che mi sia capitata in questi mesi che per me sono stati di prigionia, qui a San Sabba. Mi hai stravolto la vita. Ti porterò per sempre nel cuore.
Con tutto l’affetto che provo,

Tuo, Karl.
P.S.: ti ho lasciato una sorpresa nel cassetto. Perdonami, se puoi ”.

 

La giovane, sconvolta, si sdraiò lentamente sul letto e portò la lettera al cuore. Si girò poi sul fianco e aprì il cassetto del comodino. In fondo al cassetto la vide: Karl le aveva lasciato la sua benda nera, la prese avidamente e mettendosi in posizione fetale la strinse a sé insieme alla lettera. “ No! ” urlò nel freddo silenzio della stanza lasciando esplodere il suo dolore in un pianto disperato.

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Un giorno normale ***


Premessa

 

Il capitolo che segue è stato scritto interamente da UgoCINQUE.

 

**********

 

Capitolo 1

 

Karl Von Hennen

 

Gennaio 1943

 

Un giorno normale

La pioggia battente fece svegliare di soprassalto, un giovane con i capelli biondi. Aprì gli occhi, si mise a sedere e si calmò. Un attimo dopo, qualcuno bussò alla porta.
“Avanti” disse il giovane.
“Tesoro, ti ho sentito urlare, qualche problema?”.
“No, niente di che, ho fatto uno strano sogno, tutto qui, stai tranquilla, mamma” rispose il ragazzo.
La madre entrò e si avvicinò alla finestra che dava su un viale alberato. Nella poca luce che trapelava, nonostante i segni dell’età sul suo volto era sempre splendida, pensò. Era alta e slanciata, il suo volto un tempo aggraziato era ora pieno di rughe. I suoi occhi verdi erano come smeraldi. 
“Ho preparato la colazione, ti aspetto giù” disse la mamma baciando il figlio sulla fronte, ed uscì.
Il ragazzo stette ancora un po’ seduto nel letto. Quella era la parte del giorno che preferiva. Stare un po’ così, da solo, prima di iniziare la giornata. 
Si alzò e si avvicinò allo specchio. Si guardò … da tanto tempo non riusciva più a guardarsi. I capelli biondi erano spettinati e i suoi zigomi sembravano scolpiti nella roccia. Gli occhi azzurri erano la parte che gli piaceva di più. Si lavò la faccia, per riprendersi completamente dall’incubo. Sulla sedia c’era il solito pantalone grigio e la camicia bianca che aveva indossato la sera prima. Si vestì e scese al piano di sotto. 
Si fermò come ogni mattina nel salotto a vedere il magnifico quadro che rappresentava una battaglia navale. Gli piaceva moltissimo il mare. Entrò in salotto e, al tavolo c’era il padre, un uomo possente e dal viso squadrato che leggeva i giornali.
“Buongiorno padre” disse educatamente il giovane, ma di tutta risposta il padre non lo degnò neanche di uno sguardo. Si limitò solo a fare un grugnito.
Karl lanciò uno sguardo torvo all’uomo. Ormai c’era abituato. Non si ricordava da quanto tempo lui e suo padre non avevano una discussione. Era sempre preso dai sui affari, ed ora, da quando la Germania stava ritornando una potenza dopo la crisi i suoi impegni si erano moltiplicati. Non c’era mai a casa e quelle poche volte che c’era i loro discorsi si limitavano ad alcuni convenevoli. Il ragazzo prese qualche fetta di pane e salutando la madre uscì. 
La brezza leggera e fresca della mattina gli punse il viso.
Hey Karl!!”. Un ragazzo dai lineamenti paffuti chiamò a gran voce il giovane dall’altra parte del viale agitando le mani per farsi vedere. 
Hey Ludwig!” gli rispose il giovane di rimando avvicinandosi verso di lui.
Mentre stava attraversando la strada un cavallo nero con sopra una SS gli tagliò la strada. Karl si fermò bruscamente e lo stesso fece il cavaliere. I due si scambiarono un’occhiataccia. Poi il militare disse con voce superba:
“Stai attento a dove vai pivellino, ti puoi far male” e senza che Karl potesse ribattere girò e se ne andò.
“Brutta gente, meglio starci alla larga, non so chi siano più pericolosi loro o gli ebrei” Disse Ludwig strattonandolo per la camicia.
“Questa me la paghi” pensò fra se il ragazzo. Ora nei suoi occhi si poteva leggere rabbia e voglia di vendetta. Non era abituato a simili umiliazioni.
Ehy, ci sei? Pronto?” insisté l’amico.
“Si scusami, dicevamo?”
“ Andiamo a fare un giro nel parco, ho visto che ci sono tante ragazze carine” propose Ludwing ammiccando al giovane.
“Hai ragione, ci vuole proprio” e così dicendo i due amici si avviarono al parco.

Il parco era quasi deserto. Le uniche anime che c’erano erano un vecchio e un paio di cani randagi. Karl e Ludwing si sedettero alla solita panchina. Era il loro campo base. Quando non sapevano dove andare erano capaci di passarci anche tutta la serata, per poi andare al solito pub a bere. 
“Quante ragazze eh?” disse ironicamente Karl.
“E che vuoi, abbi fede, arriveranno” si scusò l’altro.
Erano proprio una bella coppia. Si conoscevano da quando avevano dodici anni. Karl conobbe Ludwig quando si trasferì a Dortumund da Monaco. Il padre aveva un ristorante e la madre era segretaria per il dottor Kubert, uno dei medici più in luce della Germania. 
“Vedi che ti dicevo, ecco le prime” fece ad un tratto Ludwing, tutto eccitato.
Karl, con aria distratta guardò nella direzione indicatagli dal ragazzo. Lungo un vialetto stavano venendo due ragazze sulla ventina. Erano entrambe molto carine. Avevano una gonna e portavano una camicetta turchese che sbucava dalla mantellina. Una aveva i capelli neri lunghi e occhi da cerbiatto, mentre l’altra era bionda.
“Io mi prendo la bionda” riprese a dire Ludwig.
“Ma dove vai, è troppo per te” rispose Karl.
“Senti, se riesci ad organizzare un’uscita stasera con quelle tipe, farò tutto quello che vuoi promesso” controbatté l’amico assumendo un’aria da cane bastonato.
“E va bene, vedrò cosa posso fare, seguimi, e soprattutto, assecondami, e smettila di sbavare come un cane” disse spazientito il giovane aggiustandosi la camicia.
I due si incamminarono in direzione delle ragazze. Karl urtò di proposito la ragazza dai capelli biondi.
“Oh scusa non ti avevo visto, tutto bene?” fece il ragazzo fingendosi dispiaciuto.
“Stavo meglio prima sinceramente” rispose la giovane alquanto disturbata.
“Mi dispiace, sono davvero mortificato, se c’è qualcosa che posso fare?” ribattè Karl sfoggiando il suo sorriso più accattivante.
“Comunque io sono Ludwig, molto piacere” intervenne all’improvviso il compare.
“Piacere Madlen, e questa è mia cugina Annah
“Che bel nome, lui è Karl” riprese il paffutello.
“Ma io mi vorrei sdebitare, stasera che fate?” Karl comprese che c’era qualche possibilità di conquista.
Questa volta fu Annah ha prendere la parola, dicendo che andavano ad una festa da ballo al Grand Hotel Mirage. Il ragazzo colse la palla al balzo e propose:
“Sicuramente vi serviranno dei cavalieri? Facciamo venti e trenta piazza Hansaplatz?”
Le ragazze assunsero un’aria dubbiosa, però poi acconsentirono.. Salutati i ragazzi le due si allontanarono parlottando fra di loro.
“Sei un genio. Ti amo” disse euforico Ludwig, saltandogli letteralmente addosso.
“Stai zitto altrimenti ti sentiranno. Comunque è stato più facile del previsto. Dopotutto chi mi resiste a me?” sogghignò l’altro.
Ludwig assunse un’aria cupa. L’amico capito il problema gli rivolse un sorriso e disse:
“Non ti preoccupare, il vestito te lo do io. Ti andrà un po’ stretto ma accontentati” e gli diede qualche buffetto sul gilet a righe.
“Grazie Karl, lo sai che non me lo posso permettere.” 
Dopo aver passato un’altra oretta a vagabondare per il parco, i due amici si salutarono e si divisero.

 

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Capitolo 3
*** La mancanza d’amore ***


Premessa

 

Questo capitolo è stato scritto da me, Nadine_Rose.

 

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Capitolo 2

 

Rosa De Santis

 

Primavera 1943

 

La mancanza d’amore

 

Chiesi un bicchiere d’acqua e, tremando come una foglia, lo accostai alle mie labbra. Che sciocca ero stata, pensando che un semplice sorso d’acqua avrebbe potuto reggermi dopo quell’ennesima batosta. Alzai poi le spalle e, trattenendo malamente le lacrime, dissi - più a me stessa che alla mia rattristata interlocutrice - : “ Mi ero illusa di aver trovato degli amici. ” Uscii dal caffè con un’espressione stravolta in viso, un nodo strettissimo alla gola e un misto di sentimenti nel cuore: tristezza e liberazione per aver capito come stavano realmente le cose, rabbia e delusione perché ancora una volta avevo donato il mio cuore e mi era stato restituito come uno straccio. Con estrema lentezza, mi avviai verso casa domandandomi come avevo potuto credere nei loro abbracci e nei loro “ Ti vogliamo bene, fidati di noi! ”.

Quella sera, Roma era particolarmente tranquilla nonostante la guerra e suggestiva nei suoi colori tra il giallo e l’arancione ma io non riuscii ad apprezzarne tale bellezza, anzi, avrei voluto che una bomba inglese la radesse al suolo, spazzando via anche e soprattutto me.

Il peso della tristezza divenne tanto opprimente da costringermi a fermarmi nel mio incedere, proprio davanti alla fermata dell’autobus. Decisi di aspettarlo e tornare a casa con tal veicolo. Dopo un po’, un brivido di freddo mi percorse lungo la schiena e mi strinsi nelle spalle, sospirando profondamente. Pensai che i ragazzi, che fino a pochi giorni prima credevo miei amici, erano stati davvero degli ottimi attori e che meritavano un riconoscimento per la miglior interpretazione. Ma forse ero stata io, tanto accecata dalla gioia per aver trovato dei “ veri ”amici, a non cogliere l’ipocrisia nei loro gesti e nelle loro parole, la cattiveria nei loro consigli e nelle loro esortazioni.

L’autobus arrivò dopo non molto ma, mentre mi apprestavo a salirci, il conducente urlò sprezzante: “ A’ scema d’una ebrea, non sai leggere?! Su quest’autobus tu non puoi salire! ” In un interminabile secondo, riuscii a scorgere tutti gli sguardi d’indignazione e ribrezzo dei passeggeri rivolti verso di me. Umiliata, abbassai lo sguardo mentre l’autobus riprese la sua corsa. Che vergogna, pensai. Poi, lentamente, portai la mano sulla stella gialla cucita sulla camicetta color bianco e, aggiustandomi il foulard, cercai di coprirla alla meglio per evitare ulteriori umiliazioni.

Ripresi il mio cammino verso casa, questa volta più velocemente: la tristezza aveva lasciato spazio alla rabbia la quale mi accelerava il passo. Rabbia per le parole del conducente e gli sguardi dei passeggeri dell’autobus che mi avevano ricordato il rifiuto del mondo, rabbia per aver creduto in un’amicizia in realtà a senso unico, rabbia perché se me l’avessero chiesto io li avrei anche perdonati, ingenuamente.

In poco tempo, tornai a casa con dentro un senso angosciante di vuoto: tutto ciò che avevo sperato e creduto sull’amicizia mi era stato strappato via, senza pietà. Dovevo dare il mio addio a quell’utopia diventata per poco realtà e il bentornato alla diffidenza di un tempo.

Per quanto mi sforzassi di nasconderlo, il dolore traspariva dai miei occhi e dal mio comportamento quasi assente e, inevitabilmente, anche la mia famiglia se ne accorse. Alle loro domande, risposi accennando soltanto qualcosa dell’accaduto poiché non potevo raccontare tutto e, d’altra parte, non ne avrei avuto neanche la forza. In quel momento, desideravo soltanto stendermi sul letto e dormire, dormire, dormire …

Aspettai che mio fratello si addormentasse e, nascondendomi sotto le coperte, nel silenzio della notte, scoppiai finalmente in lacrime.

Quella nuova sofferenza dentro di me aveva riaperto vecchie ferite e riportato alla luce insoddisfazioni e mancanze di sempre.

Due giorni dopo, seduta al mobile da toeletta e guardandomi allo specchio, mi resi conto di non piacermi poi così tanto come volevo far credere a me stessa. Fino a poco tempo prima, infatti, mi dicevo il contrario perché non volevo ammettere che io, all’età di vent’anni, non accettassi il mio corpo e le sue rotondità come una ragazza di dodici. Cominciai a pensare che se solo fossi stata fisicamente e caratterialmente diversa, magra e spigliata, forse avrei già trovato fidanzato e marito e forse sarei già stata in dolce attesa proprio come tante altre ragazze della mia età. Incominciai, quasi con rabbia, a spazzolarmi i capelli medi neri e a guardarmi negli occhi marroni arrossati dalle ore di pianto e insonnia. Mi domandavo il perché della mia solitudine e perché tutti rifiutassero la mia amicizia, il mio affetto, il mio amore. In quel momento, dettata dalla disperazione, arrivai a pensare che mi sarei anche accontentata di stare insieme a un uomo che non mi amasse, giusto per soddisfare il mio bisogno d’amare. Ma, dentro di me, era talmente forte il desiderio di essere amata che non avrei mai potuto reggere quest’eventuale situazione sentimentale, fatta di amore dato e non ricambiato. Pensavo a quanto fosse triste la mia vita nell’attesa inquieta di quella felicità che per altri era soltanto normalità. Vivevo ormai in un vortice di paure: la paura di mostrarmi per quella che ero perché troppo spesso la mia sensibilità era scambiata per debolezza, la paura di restare da sola per il resto della mia vita e la paura di essere arrestata da un momento all’altro perché ebrea. Il futuro mi faceva paura. Sentivo parlare di “ campi di concentramento ”, alcuni ipotizzavano che fossero campi di prigionia dove agli ebrei era riservato un buon trattamento e si aspettava senza far niente la fine della guerra, altri invece che fossero campi di lavoro forzato dove si soffriva la fame e il freddo. Ma tutti erano accomunati dalla certezza che noi, ebrei romani, non saremmo mai stati arrestati e deportati in questi campi e che nessuno ci avrebbe mai fatto del male perché da noi, a Roma, c’era il Papa. Tutti, eccetto la sottoscritta, credevano che la furia dei nazisti non sarebbe mai riuscita a oltrepassare le porte della città eterna e santa, per timore di una scomunica da parte della Chiesa e da Dio stesso. Il futuro era incerto. Non sapevo fino a che punto si fossero spinti contro noi ebrei, non riuscivo a trovare lavoro per assicurarmi così una certezza economica né tantomeno qualcuno che mi assicurasse quella affettiva. Stavo male e l’ultima delusione nel campo dell’amicizia non aveva fatto altro che aggravare tutta la mia situazione interiore. Pensavo ai miei coetanei che, a differenza di me, nonostante la drammaticità della guerra e le rinunce causate dall’antisemitismo, vivevano spensierati la loro età tranquilli sotto l’ala protettrice del Papa e felici con accanto una persona d’amare e degli amici con i quali uscire e soprattutto confrontarsi per crescere. La mia espressione, un tempo solare, era diventata corrucciata a causa delle delusioni, dei vuoti che sentivo dentro di me, della solitudine e della paura per il futuro; il mio sorriso, a volte ostentato, si era arreso alla tristezza; il tempo della speranza era ormai giunto al termine. Mi piegai lentamente sul mobile da toeletta ed esplosi di nuovo in un pianto disperato.

A distanza di un mese, però, le mie lacrime si fermarono e riuscii a trovare quel poco di serenità che mi serviva per andare avanti. I miei occhi si erano aperti e avevo capito che non ero sola; che accanto a me non mancavano persone speciali che mi apprezzavano e mi volevano bene per quella che ero, che mi ascoltavano e, con semplicità, riuscivano a tirarmi su di morale; che attorno a me non mancavano abbracci e sorrisi. Sì, non ero sola.

In quel periodo, mi unii all’ottimismo collettivo convincendomi che la Chiesa ci avrebbe davvero protetto dalle deportazioni naziste e che presto la guerra sarebbe finita. Mi convinsi anche delle parole delle persone che mi dicevano che, quando avrei trovato l’uomo giusto, con lui sarebbe stata una storia importante, per tutta la vita e che la mia attesa quindi non sarebbe stata vana.

Finalmente, la speranza si riaccese dentro di me e il sorriso riapparve sulle mie labbra.

 

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Capitolo 4
*** La festa ***


Capitolo 3

 

Karl Von Hennen

 

Gennaio 1943

( Seconda parte )

 

La festa

 


“Stringi forte il corsetto, mi raccomando, Annah” disse a gran voce Maddlen, mentre si aggiustava i capelli.
“Saremo le più belle della serata. Sono sicura che non appena i ragazzi ci vedranno rimarranno a bocca aperta” 
“A me interessa il biondino, ha un non so che di misterioso. Mi intriga” ribatté Annah che guardando l’orologio a pendolo quasi svenne. 
“Siamo in ritardo!” esclamò la ragazza tutta allarmata.. Stava già prendendo la borsa quando si accorse che la cugina non curante della sua preoccupazione, si stava ancora specchiando.
“Non hai capito cosa ho detto? Siamo in un ritardo mostruoso! I ragazzi ci uccideranno”
“Si vede che non hai esperienza … bisogna fare sempre aspettare i ragazzi, sennò si fanno una cattiva idea di noi” disse scocciata Maddlen alzandosi dalla toelette.
In effetti, la ragazza aveva molta più esperienza rispetto alla cugina che, nonostante aveva il fisico già di una donna aveva soli diciassette anni.
Le due uscirono dal portone. La serata era fresca ed il cielo era stellato. Era un’ottima serata. La strada come al solito era trafficata. I caffè stavano aprendo e i camerieri erano già sull’orlo di una crisi di nervi per colpa delle tante ordinazioni. C’erano un paio di carrozze in attesa dei clienti ed un gruppetto di adolescenti che faceva battute poco piacevoli sulle ragazze. 

“Ma dove si saranno cacciate” sbottò Ludwig in preda al nervosismo. Stavano infatti aspettando da più di mezz’ora sul luogo dell’appuntamento, e delle ragazze non c’era traccia.
“Stai tranquillo, mi stai facendo innervosire! Vedrai che arriveranno. Il ritardo e le donne è un binomio infallibile” replicò Karl, aggiustandosi la giacca nera. Stavano ancora parlottando, quando un ragazzino sulla quindicina inciampò nei piedi di Karl.
“Stai attento!! Ma dove guardi?” sbottò il tedesco.
“Mi scusi, non volevo disturbarla.” disse prontamente il ragazzino. I suoi occhi erano neri e si leggeva una nota di paura. Ludwig notò che teneva una mano sul cuore, quasi come a nascondere qualcosa.
“Cosa nascondi, ragazzo?” incalzò il giovane paffuto, e così dicendo fece per spostargli la mano. Sul golfino beige spuntò una stella gialla. Era il marchio. Il segno di riconoscimento. Subito Karl mutò il suo carattere e diede uno spintone al ragazzo che per poco non cadde.
“Vattene feccia! Finirete tutti nei camini!” inveì Ludwig.
Il ragazzo, impaurito non se lo fece ripetere due volte, girò sui tacchi e scappò.
I due ragazzi si scambiarono un cinque e si misero a parlare. Ormai era abitudine, anzi qualche volta Karl provava anche piacere a mettere in ridicolo gli ebrei. Per lui, che era abituato a guardare gli altri dall’alto gli ebrei erano paragonabili ai cani.
Dopo circa mezz’ora arrivarono le ragazze. Ludwig, come al solito, riempì di complimenti Maddlen e la ragazza faceva finta di nulla. Karl, invece si limitò solamente a fare qualche battuta spiritosa. I quattro salirono in macchina e partirono.
Arrivarono alla festa. Entrarono nella sala da ballo e per un attimo tutti si fermarono a guardarli. C’era tutta la Dortmund bene. Signore tutte preparate con strani cappelli che spettegolavano su ogni cosa, camerieri che sembravano tanti pinguini imbalsamati. Grassi signori con la faccia rossa ed i baffi attorcigliati, che parlavano di affari, qualche ufficiale dell’esercito nella classica divisa grigia, tempestata di medaglie ed onorificenze, e con la fascia con la svastica sul braccio. I quattro presero qualcosa da bere e si sedettero ad un tavolo. La serata era alquanto noiosa. Ogni tanto le ragazze facevano un cenno di saluto a qualche signore che ricambiava, il più delle volte arrossendo.
“Beh, che ve ne pare, bella festa vero?” fece Ludwig per rompere il silenzio.
Gli altri tre si scambiarono uno sguardo e a stento soppressero una risata.
“Ma dai finiscila Lud! Piuttosto vai a prendere qualcosa da bere” fece con un gesto di stizza Karl.
“Ragazzi, che ne dite di andare un po’ a ballare?” propose Maddlen. I ragazzi, quasi costretti dovettero accettare l’invito. Iniziarono a ballare in mezzo alla sala. Ludwig, con la scusa che non sapeva ballare, toccava i fianchi sinuosi di Maddlen. Di tutta risposta la ragazza faceva finta di niente. Karl, al contrario del suo amico, sapeva ballare e anche molto bene. Prese Annah sotto il braccio destro e iniziarono a ballare. Karl non s’era accorto prima di quanto fosse affascinante quella ragazzina, che fino a cinque minuti prima era solo una scocciatura, un favore fatto ad un amico. I suoi capelli neri si muovevano sinuosamente e il rossetto metteva in risalto la carnosità delle sue labbra. Poteva essere la ragazza giusta. Da tanto, troppo tempo, non provava una sensazione così per una ragazza. Non era solo attrazione fisica. C’era qualcosa in più. Annah, accortasi del cambiamento di carattere del giovane, appoggiò la testa sulle possenti spalle. In quel momento, Karl avvampò e quasi temette di essere scoperto. Passarono tutta la serata a ballare. Verso mezzanotte i giovani salutarono gli invitati e si avviarono fuori.
“Che serata, non mi divertivo così da un sacco di tempo” esordì Ludwig all’apice della felicità.
“Secondo me ti sei divertito a toccare i miei fianchi” rispose sarcasticamente Maddlen. I quattro scoppiarono a ridere.
“Hai freddo, stai tremando, prendi la mia giacca” notò Karl, e così dicendo posò la sua giacca nera sulle spalle rosa di Annah.
“Grazie, Karl” disse timidamente la giovane che diventò più rossa di un pomodoro.
Salirono in macchina, e subito partirono sgommando.
Arrivarono alla villa di Maddlen. Era una casa maestosa, in stile classico. Ludwig e Maddlen scesero e si avviarono al portone. Gli altri due rimasero in macchina.
“Grazie della serata, Karl” disse educatamente la giovane. In quel momento, Karl provò l’impulso irrefrenabile di baciarla ma avrebbe fatto uno sbaglio. Fu Annah che salutandolo, gli diede un bacio sulla guancia. Karl aveva toccato il cielo con un dito. Era l’uomo più felice del mondo. Mentre si lasciava andare a fantasticherie entrò Ludwig e scherzando disse :
Ehy, Romeo, andiamo dai si è fatto tardi.”
“Chi, Romeo?” fece distrattamente Karl, che era sceso dalle nuvole.
“Si hai ragione, andiamo. Si è fatto tardi …” replicò il biondino che si era svegliato da quel bellissimo sogno ad occhi aperti.
“Di un po’, bellino, non è che sotto sotto hai perso la testa per quella bambolina?” lo punzecchiò l’amico, con un ghigno beffardo.
“Quella bambolina ha un nome, si chiama Annah, e comunque no, ma ti pare, è troppo piccola”
Mmm, va bene se lo dici tu …”

Karl entrò nel salotto e stranamente vide che suo padre era vicino al camino acceso.
“Buonasera, padre” disse educatamente il ragazzo.
“Ah ciao Karl, ti stavo aspettando. Tutto bene?” disse quasi sorpreso il padre. Sul suo volto era dipinta un’espressione mista di stupore e paura.
Senza che Karl potesse rispondere il padre riprese: “Stamattina hai avuto uno scontro con una SS per caso?” .
Nella mente di Karl si iniziò a farsi strada una strana idea. Per la prima volta in vita sua provò cosa vuol dire avere paura.
“Sai la gravità del suo gesto? Se non fossi un Von Hennen già staresti in carcere …” era chiaro che il padre, grazie alle sue conoscenze aveva già predisposto tutto, come al solito. Era tipico del suo carattere, freddo e calcolatore. Quasi con aria di sfida Karl fece: “Immagino che ti dovrei anche ringraziare, per qualsiasi cosa tu abbia già fatto”
“Portami rispetto, insolente ragazzo!” sbraitò il padre, che evidentemente non si aspettava una reazione simile dal figlio.
“La settimana prossima ti arruolerai nell’esercito, che ti piaccia o no!” sentenziò l’uomo che riassunse la sua espressione seria e gelida.
“Ma io qui ho la mia vita, i miei amici, la mia ragazza …” provò a dire il ragazzo che trattenne a stento le lacrime.
“Ah si l’amore. Ma non ti rendi conto che non esiste l’amore? Esistono solo gli affari. Prima fanno tutte le dolci per farti cadere ai loro piedi e poi ti usano solamente per farsi una posizione. Gli amici sono peggio delle sanguisughe.” disse sicuro il padre.
“Ma lo vuoi capire che io non sono come te, mi fai schifo!” urlò Karl e così facendo se ne salì in camera sua lasciando il padre ancora che imprecava contro di lui. Salì di corsa le scale e quasi non cadde e sbattendo la porta si buttò sul letto. Finalmente, quasi come una liberazione le lacrime rigarono il suo giovane volto. In un minuto o poco più era crollato il suo mondo. Voleva urlare a quel mondo che gli faceva schifo, fatto solo di guerra ed interessi. Dopo un po’ sopraffatto dalla stanchezza si addormentò. 

 

**********

 

Scritto da UgoCINQUE

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Capitolo 5
*** False speranze ***


Capitolo 4

 

Rosa De Santis

 

Settembre 1943

 

False speranze

 

Il cielo cominciava a imbrunire, l’aria a raffreddarsi e Roma dava così il suo addio a una lunga, calda e austera estate di guerra. La mia estate era trascorsa – del resto come ogni estate – all’insegna della monotonia e della tristezza a causa delle solite aspettative deluse. Nell’autobus, uno dei pochi riservati a noi ebrei, eravamo stretti come tante sardine in una scatola ed io, aggrappata saldamente a una maniglia, mi sentivo in trappola. Dal fondo, proveniva un vociare continuo e fastidioso di ragazzi uno dei quali urlava in romanesco stretto ed io mi pentii di essere salita su quell’autobus. Giunta alla fermata, con un sospiro di liberazione, scesi dall’autobus nel mio vestito nero a campana e mi avviai verso la Fontana di Trevi. Lì, davanti ai miei occhi, si presentarono le scene di sempre: qualche turista di mezza età che scattava foto; ragazzi e ragazze seduti che parlavano e ridevano; un vigile che riprendeva severamente dei bambini intenti a rubare le monetine con un retino. Poggiai la giacchettina bianca sulle spalle mentre il vento mi spruzzò sul viso alcune gocce d’acqua. Chiusi per un istante gli occhi e sospirai, questa volta di sollievo. Poi, guardandomi attorno, mi resi conto che ero l’unica senza compagnia e di nuovo m’invase la tristezza. Mi avevano detto che per ogni persona sulla faccia della terra c’era un’anima gemella e la mia in quale parte del mondo si nascondeva? Mi domandavo chi fosse e cosa stesse provando in quel momento l’uomo che dall’alto mi era stato designato. Forse, come me, sentiva il disperato bisogno di essere amato e di colmare il vuoto della solitudine. Forse, come me, era stato deluso da persone a cui voleva bene e adesso il suo cuore stentava ad aprirsi agli altri. Forse, come me, si sentiva insoddisfatto di se stesso e della propria vita. Avvertii una sensazione di debolezza alle gambe e pensai di andarmi a sedere sul muretto. Ma poi non mi mossi, ricordando che agli ebrei era proibito sedersi lì. Decisi allora di farmi forza per non sprofondare di nuovo nell’angoscia e ci riuscii. Frugai nella borsa alla ricerca di qualche spicciolo e, trovato un centesimo di lira, mi avvicinai alla fontana. Mi voltai, chiusi gli occhi e, esprimendo il desiderio – quello di sempre – di trovare l’amore, lanciai la monetina. Quando riaprii gli occhi, come un oscuro presagio, vidi passare davanti a me un piccolo reparto di SS e, impaurita, scappai via.

La radio interruppe la sua trasmissione musicale proprio nel bel mezzo della mia canzone preferita, “ Ma l’amore no ”, e mi precipitai ad alzare il volume. Con l’orecchio quasi attaccato alla radio, ascoltai impaziente le parole di un uomo dalla voce atona: “ Il governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare l'impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza ”. Sentii un tuffo al cuore. Il maresciallo Badoglio aveva proclamato l’armistizio, la guerra era finita. Avvicinai una mano alla bocca e, con l’altra, mi ressi al mobile sul quale era poggiata la radio, prima di cadere per terra in ginocchio. “ La guerra è finita. ” sussurrai in lacrime e, in quello stesso momento, le campane delle chiese suonarono a festa. Le finestre delle case si riaprirono dopo tanto tempo e le voci delle persone, scese in strada per condividere la loro gioia, si unirono in un sol grido: “ Badoglio ha parlato, la guerra è finita! ” “ La guerra è finita. ” ripetei con più voce e, asciugandomi le lacrime, mi alzai di scatto dal pavimento. Come tutti gli altri, mi affrettai per le scale e, appena uscii dal palazzo, incontrai la mia amica Anita. Contenta, mi corse incontro, mi abbracciò e mi disse: “ Adesso le cose si aggiusteranno anche per noi. ” Ed io già ci credevo.

Ma la guerra non era finita, il momento che noi tutti attendavamo dalla caduta del fascismo era stato un’illusione. Il giorno dopo, infatti, Roma si svegliò nelle mani degli ex alleati tedeschi. Le finestre delle case si chiusero di nuovo, il suono festoso delle campane si trasformò nel rumore sordo degli spari e l’urlo di gioia in gemiti di paura e disperazione. Io, ormai a pezzi, mi chiusi nel silenzio della rassegnazione. Sdraiata sul letto, udivo le voci e le urla dei nazisti intenti a cercare e catturare i soldati italiani in fuga e pensavo che presto sarebbe toccata anche a noi ebrei la stessa tragica sorte. In me era morta ogni speranza sul futuro.

“ Rosa … ” cominciò a dire mia madre, sedendosi ai piedi del letto sul quale ero stesa da giorni. Non le rivolsi lo sguardo, continuando a fissare il soffitto ma immaginai che l’espressione del suo viso fosse triste proprio come la sua voce. “ … I tedeschi hanno chiesto cinquanta chili d’oro alla comunità ebraica, hanno detto che non ci faranno alcun male se ubbidiremo. ” affermò mia madre ma senza crederci. Anche lei aveva ormai perso la speranza. “ E se non ce la faremo a raggiungere quel peso? ” chiesi angosciata e lei mi rispose con lo stesso tono: “ Porteranno duecento di noi in Germania, nei campi di concentramento. ” Per un attimo, avvertii un senso di soffocamento alla gola poi, riprendendomi, dissi: “ Quando finirà tutto questo? ” “ è appena iniziato. ” rispose ed io fui quasi grata a mia madre perché, almeno lei, non aveva tentato d’illudermi con speranze che, alla fine, si rivelavano false.

Nel ventilato pomeriggio del giorno seguente, lunedì 27, io e la mia famiglia eravamo sul marciapiede del Lungotevere De’ Cenci, alla fine della lunga e silenziosa fila di persone, per consegnare agli uffici comunitari la nostra piccola parte d’oro. Stringevo fra le mani e guardavo il fazzoletto rosa con dentro i miei unici gioielli – che avrei indossato alcuni giorni dopo per il Capodanno ebraico –, una catenina con un piccolo ciondolo a forma di cuore e un anellino: un po’ mi dispiaceva separarmene. Con mio stupore, si accodò alla fila un sacerdote cattolico con tonaca e cappello nero. Lo guardai: non doveva avere più di trent’anni, il suo sguardo era sereno e stringeva fra le mani una scatola di cartone abbastanza grande. “ La Chiesa è venuta in nostro aiuto! ” esclamò contento un uomo rivolgendosi a mio padre. Il giovane sacerdote sorrise e sistemò meglio la scatola fra le braccia. Pochi minuti dopo, si avvicinarono di corsa un ragazzo e una ragazza, incinta di tre o quattro mesi. I due non portavano la stella gialla e, dunque, non erano ebrei. “ Padre … ” fece la ragazza, con voce affannata, rivolgendosi al sacerdote “ … Ci abbiamo ripensato. ” La ragazza si sfilò dal dito la fede nuziale e lo stesso fece il suo giovane marito. Davanti a questa scena, mi si strinse il cuore: i fratelli cristiani ci stavano aiutando a raggiungere il peso d’oro richiesto dai nazisti. “ Che il Signore ve ne renda merito, figlioli. ” disse il sacerdote e, presi gli anelli, li pose nella sua scatola. I due giovani sposi sorrisero all’unisono e, com’erano arrivati, correndo andarono via. Commossa, li guardai allontanarsi: quella coppia, con il suo gesto altruistico, aveva risvegliato in me la fiducia nel buon cuore delle persone e mi aveva ricordato il sogno della mia vita, sposarmi e avere una famiglia. In quel momento, desiderai credere, come una volta, che fosse possibile ma poi m’imposi di non farlo per non crearmi un’illusione. 

 

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Di  Nadine_Rose

 

 

 

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Capitolo 6
*** Orgoglio patriottico ***


Capitolo 5

 

Karl Von Hennen

 

Gennaio 1943

( Terza parte )

 

Orgoglio patriottico

 

“Muovete il vostro sedere, signorine, gli inglesi non aspetteranno che vi mettiate a riparo!” urlò il tenente Hofferman dal suo cavallo nero. L’esercito tedesco stava marciando verso la Somme, dove secondo molti la morte si sarebbe abbattuta sull’esercito nemico. 
“Dai forza Fredrick, cerca di camminare!” disse un ragazzotto non ancora diciottenne con i capelli neri al suo compagno che sbuffò pesantemente. Fredrick era un ragazzo alto e robusto e faceva parte della 5 divisione. 
“Stasera passeggeremo fra le cucine da campo dei galletti” riprese con far vivo l’amico, nel tentativo di spronarlo.
“Ma stai un po’ zitto, Adolf!” lo rimproverò il camerata. Il cielo era nuvoloso e da un momento all’altro sembrava che dovesse venire a piovere. La colonna dell’esercito tedesco era in marcia dalla mattina senza fermarsi. Aveva ricevuto l’ordine di raggiungere la Somme dove si stavano accalcando gli eserciti anglo-francesi. La notizia era stata accolta con entusiasmo dalle truppe. Erano infatti stati richiamati dalla battaglia di Verdun.
“Alt! Va bene signorine dieci minuti di pausa.” Gridò un ufficiale nel suo cappotto grigio. Vi fu qualcuno che urlò dalla gioia.
“Voi due, andate a perlustrare la zona e vedete se è pulita, non vorrei trovarmi con una pallottola inglese nella tempia!” fece il caporal Hutstong rivolto ai due compagni. Adolf lo voleva fulminare con lo sguardo. Il caporale era il classico figlio della borghesia prussiana altolocata, abituato a guardare gli altri dall’alto verso il basso. Era entrato nell’esercito convinto di fare una brillante carriera, ma molti erano convinti che se non era per le conoscenze e il nome che portava, non sarebbe neanche stato sguattero nella peggiore locanda di Berlino.
“Andiamo, prima che prendo a calci questo idiota” riprese Fredrick scrollando l’amico che era rimasto a fissare l’ufficiale.
Presero gli zaini e si misero in cammino verso la collinetta brulla. Intanto iniziò a piovere. 
“Ecco ci mancava solo la pioggia, sai cosa penso: al diavolo la Somme la guerra e perfino le ballerine di can can” sbuffò Adolf.
“Dici così solo perché odi quello stupido caporale, voglio vedere quando sarai fra le grazie di qualche premier dame di Parigi, se odierai la guerra” sentenziò Fredrick.
I due arrivarono sul crinale della collina e si stesero a terra per perlustrare la zona. Presero i binocoli. Le trincee francesi sembravano deserte. Ogni tanto si vedeva qualche luce di qualche lanterna all’interno di baracche costruite alla meno peggio. Ad un tratto mentre stavano guardando una fossa si sentì uno sparò e subito Adolf gridò. Il suo urlo fece gelare il sangue nelle vene al suo compagno. Adolf era l’unico amico che aveva nell’esercito. Subito gettò il binocolo e cercò di soccorrere il compagno. 
“Adolf! Adolf” gridò il giovane in preda al panico. Il compagno stava disteso sull’erba bagnata e quando Fredrick lo girò trattenne a stento un urlo di terrore. Il suo elmetto era forato e un rivolo di sangue ne scendeva. Gli occhi del ragazzo sbarrati fissavano il vuoto.
“No!” Fredrick si svegliò nella sua stanza da letto. La sua fronte era imperlata di sudore. Da quando era iniziata la guerra faceva spesso quell’incubo. Guardò la moglie che gli dormiva accanto e sembrava non essersi accorta di nulla. Scese dal letto, infilò la vestaglia e si avvicinò alla finestra. Vide che c’era qualcuno nel giardino. Scese. 

“Come può pensare che io sia come lui!” pensò Karl andando avanti e indietro nel giardino di fronte alla casa. Proprio non riusciva a capire come suo padre era sempre così testardo e razionale. A volte credeva che di lui non gli importava proprio nulla. Si sedette sulla panchina di granito e sprofondò la sua chioma bionda fra le mani. Non voleva andare in guerra, anzi la odiava. Non capiva perché per colpa di qualche politico migliaia di ragazzi dovessero morire. Però poi, come un lampo gli venne in mente un’idea. Se accettava di arruolarsi e riusciva a sopravvivere sul campo di battaglia avrebbe ottenuto fama e gloria e suo padre magari lo avrebbe visto sotto un’altra luce. In fondo, quanto poteva durare ancora la guerra? Non molto pensò. Il fronte francese era crollato come neve al sole, e ad est c’era solo la Russia che rappresentava la minaccia. Sì, aveva deciso. Si doveva arruolare. All’improvviso un rumore alle sue spalle lo fece sobbalzare. Era suo padre. I due stettero per un attimo a guardarsi fermi, immobili, senza dire nulla, poi, quasi come se fossero in simbiosi si sedettero sulla panchina. Vi furono alcuni attimi di tensione nei quali i due si guardarono negli occhi. 
“Ti ho mai raccontato della Somme?” iniziò il padre sforzandosi di avere un atteggiamento cortese.
“Circa una cinquantina di volte … dei tuoi gesti eroici del tuo infiltramento dietro le linee francesi.” Rispose seccato Karl. L’incontro non era iniziato nei migliori dei modi.
“Ti vorrei raccontare un episodio che non ti ho mai raccontato a tal proposito” continuò imperterrito il padre, e iniziò a raccontare il suo sogno.
“Mi dispiace, non lo sapevo che avevi perso il tuo migliore amico, deve essere stato terribile” concluse il ragazzo che aveva gli occhi lucidi. 
“Sai mi sogno ancora il suo volto, tutte le notti” rispose il padre e aggiunse “Se non ti vuoi arruolare non fa niente, mi darai una mano nelle acciaierie. Saresti un ottimo direttore” 
“Ecco, di questo ti volevo parlare: ho preso una decisione. Mi voglio arruolare, voglio portare la Germania, la nostra Germania alla vittoria. Fra qualche mese tutta l’Europa saprà chi sono gli Von Hennen.” Disse il giovane in preda a un fervore patriottico.
“Sono orgoglioso di te, mi riempi di gioia.” 
“Andiamo a berci un buon whisky, in tuo onore” riprese il padre dando una pacca sulla spalla a Karl e i due entrarono in casa.
Quella settimana passò in fretta per Karl. Passò molto tempo con Ludwig inseparabile amico, ma il suo cuore era tormentato. Dal ballo non aveva più visto Annah, la ragazzina dai capelli neri. Era possibile che già si era dimenticata di lui? Non lo voleva accettare. 

“Treno per Berlino in partenza dal binario 3” annunciò l’altoparlante della stazione di Dortmund. 
“Sarà meglio che mi sbrighi, altrimenti faccio tardi” disse Karl nella sua divisa grigia. Era molto elegante. 
“Stai attento e non fare l’eroe” disse la madre col viso rigato dalle lacrime. 
“Mi raccomando fatti valere” disse a sua volta il padre facendo il saluto militare. 
“Non ti preoccupare, mi farò valere e cercherò di non fare l’eroe” ribatté il ragazzo abbracciando i genitori e si avviò.
Mentre percorreva il sottopassaggio si sentì chiamare a gran voce. Era Ludwig.
“Ehi che ci fai qua, non avevi detto che gli addii non ti piacciono?” disse ridendo il soldato.
“Ma dai, non potevo permettere al mio migliore amico di partire senza salutarlo”
I due compagni si abbracciarono. 
“ Ora non fare che ti prendi tutte le ragazze della città mi raccomando, lasciamene qualcuna.” Fece Karl ammiccando all’amico.
“Tu pensa a restare in vita che poi di ragazze ne trovi quante ne vuoi” rispose Ludwig.
I due si lasciarono e quando Karl risalì sul marciapiede vide una ragazza con i capelli neri che lo fissava. Era Annah. Il giovane posò la valigia e corse immediatamente da lei. L’abbracciò travolto dalla passione.
“Pensavo che non saresti venuta. Ma che fine hai fatto?” chiese Karl quando la lasciò andare dalle sue braccia.
“Ho avuto da fare, scusami.” Disse timidamente la ragazza che non si aspettava quella reazione.
“ Non importa, l’importante è che sei qui adesso. Ti ho pensato in questi giorni.” Ribatté Karl.
“Anch’io.” E aggiustò i suoi capelli che uscivano fuori dal cappello.
Il treno fischiò e Karl si affrettò a salutarla. 
“Non mi dimenticare Karl” gridò Annah. 
Il ragazzo si girò e batté la mano sul petto. Salì sulla carrozza e si affacciò al finestrino e salutando il treno partì.

 

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Questo capitolo è stato scritto da UgoCINQUE

 

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Capitolo 7
*** Risveglio in un incubo ***


Capitolo 6

 

Rosa De Santis

 

Ottobre 1943

 

Risveglio in un incubo

 

“ Rosa, svegliati! ” fece mia madre concitata, scuotendomi il braccio. Mi svegliai di soprassalto: dalle persiane della finestra non entrava nemmeno un fioco raggio di sole. Fuori era ancora buio e il volto di mia madre pallido per la paura. “ Che c’è?! ” risposi nervosa e lanciai uno sguardo all’orologio sul comodino: erano le cinque del mattino. “ Alzati, mettiti qualcosa addosso, dobbiamo scappare! ” Di scatto, mi liberai dalle coperte e sollevai la schiena dal letto. “ Ma che succede?! ” ripetei più agitata. “ I tedeschi stanno arrestando gli ebrei del quartier Testaccio, presto arriveranno a Trastevere! ” Gelai. I nazisti non avevano mantenuto la loro promessa e, in quel maledetto sabato mattina[1], iniziava la grande razzia degli ebrei romani. Balzai dal letto e, afferrato il vestito blu dalla sedia, lo indossai in gran fretta sopra la camicia da notte. Per la prima volta nella mia vita, insieme alla paura, avvertii un senso di morte imminente. Sentivo, infatti, che i nazisti ci avrebbero inseguiti e ammazzati. “ Dobbiamo raggiungere Città del Vaticano! ” esclamò mio padre preoccupato dal corridoio e velocemente abbandonammo il tepore della nostra casa e i ricordi di una vita poco goduta e apprezzata. Fuori l’aria era umida e per strada c’erano alcune persone, di sicuro ebrei, che vagavano in cerca di un rifugio. Appena uscii dal portone di casa, una ventata di freddo mi sferzò le gambe nude: nella fuga avevo dimenticato d’indossare le calze. E così io, mia madre, mio padre e mio fratello di diciassette anni iniziammo a correre diretti verso Borgo per raggiungere Città del Vaticano e lì chiedere asilo. Improvvisamente, un urlo seguito da uno sparo ruppe il silenzio dell’alba e c’indusse a fermarci sgomenti. “ Cos’è stato? ” domandai con voce tremante e mio fratello, impietrito, mi rispose: “ Stanno arrivando. ” “ Dobbiamo dividerci, così daremo meno nell’occhio. ” Alla proposta quasi delirante di mia madre tutti esprimemmo il nostro disaccordo con un no corale e deciso. “ Ma è l’unico modo per salvarci! Ci ritroveremo davanti alla Chiesa di Sant’Anna dei Palafrenieri[2]. ” Ci convinse e subito ci dividemmo. Rimasi da sola io, una ragazza di soli vent’anni, in una città assediata dai tedeschi. Correvo, pregavo mentre grosse e calde lacrime mi rigavano il viso. Non volevo essere scoperta, non volevo essere arrestata, non volevo morire. Mi sembrava di vivere un incubo: a ogni minimo rumore, mi voltavo con aria terrificata senza però fermare la mia corsa per la sopravvivenza. La mia paura accresceva, il mio respiro diventava più affannoso, il mio cuore batteva all’impazzata e mi sentivo seguita. Col cuore in gola, arrivai finalmente al quartiere Borgo ma anche i tedeschi erano arrivati lì. Vidi da lontano un camion grigio fermo in mezzo alla strada con il motore acceso e vicino due soldati delle SS armati di fucili e prontamente mi nascosi in un vicoletto. Sbattei la schiena al muro e, rannicchiandomi a terra, tappai fortemente la bocca con entrambe le mani per trattenere le lacrime. La speranza e la forza di raggiungere il Vaticano e ritrovarmi con la mia famiglia si stavano affievolendo. Poco dopo, mi rialzai e ricominciai a correre lungo quel vicolo stretto e buio. Non potevo arrendermi. Udii urla di donna e l’inconfondibile voce dei tedeschi – alta e brusca – e il camion, che avevo visto pochi secondi prima, ripartire veloce. Di colpo, mi fermai: il vicoletto era terminato e dovevo scegliere da che parte andare, se a sinistra o a destra. Mi sentivo spaesata ma sapevo che non potevo tornare indietro, che per ricongiungermi con la mia famiglia (che forse mi stava già aspettando alla Porta Angelica) dovevo andare avanti e quindi scelsi la prima opzione. Prima di uscire dal vicoletto, guardai a destra poi a sinistra per assicurarmi che la via fosse libera ma non lo era. Un numeroso reparto di SS stava arrivando verso di me. L’incubo divenne orrore e mi resi conto che quel quartiere sarebbe stato la mia trappola. Vissi un momento di assoluto panico poi, di corsa, tornai indietro. Mi voltai temendo di essere seguita ma così facendo inciampai in un sampietrino e caddi violentemente a terra. Il mio viso si contorse in una smorfia di dolore e, sedendomi, portai le mani alla caviglia. Il rumore degli stivali dei soldati tedeschi in marcia era sempre più vicino e ogni loro tonfo sull’asfalto era per me un colpo al petto. Strinsi i denti e, con la caviglia sinistra dolorante, mi rialzai riprendendo la mia corsa. Sentii di nuovo il rumore di un camion, i nazisti erano dappertutto e pensai che la cosa migliore da fare fosse trovare un rifugio lì, a Borgo e aspettare che le acque si calmassero per poi proseguire verso il Vaticano. Correndo – a questo punto – senza una meta e guardandomi attorno, mi domandavo dove avrei potuto nascondermi. Pensai subito a una chiesa: i nazisti non avrebbero mai avuto il coraggio di profanare un luogo così sacro irrompendo con le armi. Entrai in un altro vicoletto e non appena ne uscii, come per miracolo, mi ritrovai davanti ad una piccola chiesa. Quasi non riuscivo a credere alla fortuna che avevo avuto. In lacrime, incominciai a bussare disperatamente alla porta della chiesa. “ Aiuto! Aiuto! Qualcuno mi aiuti, vi prego! ” dissi ma nessuno rispose alla mia disperata preghiera e quella porta rimase chiusa. Smisi di urlare e di battere i pugni e, ormai arresa, mi attaccai alla porta. Voltando la faccia a destra, notai a pochi metri di distanza una piccola porta che lentamente si apriva e da lì affacciarsi una figura vestita di nero. L’anziano sacerdote mi fece segno di entrare nella canonica. Non mi rivolse la parola e, poggiandomi la mano sulla spalla, mi guidò verso una stanza. Per un attimo mi sentii al sicuro. Entrammo nel soggiorno, una stanza dall’ambiente modesto ma accogliente, dove c’erano un armadio, due poltrone e un tavolo rotondo con due sedie. Sobbalzai: dall’armadio era uscito improvvisamente un giovane dall’espressione sconvolta. “ Padre! ” esclamò “ Sono andati via?! ” Il sacerdote disse di no con la testa che subito abbassò avvilito. Poi, aprendo un’altra porta, mi accompagnò in quella che doveva essere la sagrestia – una stanza con un mobile lungo tutte le pareti, un inginocchiatoio e al centro un tavolo sul quale erano poggiati alcuni paramenti sacri – e, infine, nella chiesa. Mi fece avvicinare a un confessionale e, aprendo la porticina, mi disse: “ Entra, qui sarai al sicuro. ” Entrai, ma dentro di me quel senso di sicurezza era già andato via e non sarebbe più tornato. Seduta, cominciai a tremare e a piangere sommessamente per la paura. Temevo, infatti, che i nazisti sarebbero entrati ugualmente in quella chiesa e a quel punto cosa ne sarebbe stato di me? Fissando la tendina viola del confessionale, mi misi ad aspettare rassegnata la fine della mia libertà che non tardò ad arrivare. All’improvviso, udii forti colpi alla porta e l’anziano sacerdote dirigersi velocemente verso l’entrata della chiesa. “ Andate via! Non potete entrare nella casa del Signore! ” disse con tono autorevole. “ Apri, prete o sfonderemo la porta! ” minacciò un tedesco dall’altra parte. Il mio cuore palpitava per la paura. I nazisti cominciarono a battere più violentemente alla porta ed io, a ogni colpo, sobbalzavo chiudendo gli occhi. Poi, a un tratto, si fermarono e nella chiesa piombò il silenzio. Mi meravigliai poiché non era dai tedeschi arrendersi così facilmente e, infatti, poco dopo quell’inquietante silenzio fu interrotto da un botto fortissimo: le SS avevano sfondato la porta. Portai le mani alle orecchie e ripresi a piangere. Sentivo in lontananza i passi veloci e pesanti dei tedeschi, il rumore delle panche buttate per aria, la voce del sacerdote supplicare invano pietà e le urla delle persone catturate dai loro nascondigli. Poi venne il mio turno. La tendina del confessionale fu strappata e mi ritrovai davanti la faccia di un nazista arrabbiato.

 

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Capitolo scritto da  Nadine_Rose

 

 



[1] Riferito al 16 ottobre 1943 giorno in cui, dalle ore 5:30 alle ore 14, i soldati tedeschi (300) arrestarono gli ebrei di Roma (1024).

 

[2] Chiesa situata in via Sant’Anna, nei pressi della Porta Angelica, il principale ingresso alla Città del Vaticano.

 

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