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“ La vittima
e il carnefice ” è una storia scritta insieme al mio caro amico UgoCINQUE.
Essa
racconta di un amore nato tra la peggiore delle violenze e maturato per il
desiderio inconscio d’amare, un amore capace d’intenerire il duro cuore di un
soldato e di confondere l’animo di una prigioniera.
In questa
storia ogni riferimento a fatti, luoghi e persone è puramente casuale.
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Prologo
Un’altra
fredda e dolorosa notte calò sulla Risiera di San Sabba. I soldati si
ritirarono, chi negli uffici a contare freddamente il numero dei morti, chi nei
loro confortevoli e caldi alloggi a festeggiare, bevendo e soddisfacendo i
propri piaceri mentre i prigionieri nelle loro anguste e fredde celle a
distendere le membra stanche. Solo una giovane, nel suo vestito a righe bianche
e blu due volte più grande di lei, si aggirava ancora nel campo diretta verso
l’edificio a tre piani. Al secondo piano, nell’ultima stanza a destra, la
numero 132, l’aspettava il suo amante. A breve, avrebbe finalmente riassaporato
il profumo della sua pelle e confuso il respiro con il suo; con abbandono, si
sarebbe adagiata su quel letto e lo avrebbe accolto su di sé e in sé. Bussò
alla porta ma nessuno le rispose. “ Karl, sono io! ” disse e bussò più forte.
Ma di nuovo fu il silenzio a risponderle. Aprì quindi la porta e, lentamente,
entrò nella stanza. Tutto era apparentemente normale. La finestra socchiusa che
faceva trapelare un po’ di fioca luce, sulla scrivania una bottiglia quasi
vuota della miglior vodka e un bicchiere sporco, tre cicche di sigaretta nel
posacenere e, sul comodino, una lettera. Gelò. Sedette e, con le mani che
tremavano, l’aprì:
“
Cara Rosa, probabilmente quando leggerai questa lettera io
sarò già in viaggio per Berlino. Mi hanno trasferito. Avrei voluto dirtelo di
persona ma non ho avuto il coraggio. Perdonami. Com’è strana la vita. Prima che
ti conoscessi non avrei mai pensato di potermi innamorare di una ragazza come
te. Eppure sei riuscita a far breccia nel mio freddo cuore di tedesco. Sei
stata l’unica ragione che mi spingeva a trascinarmi per un altro giorno,
l’unica cosa bella che mi sia capitata in questi mesi che per me sono stati di
prigionia, qui a San Sabba. Mi hai stravolto la vita. Ti porterò per sempre nel
cuore. Con tutto l’affetto che provo,
Tuo,
Karl. P.S.: ti ho lasciato una sorpresa nel cassetto.
Perdonami, se puoi ”.
La
giovane, sconvolta, si sdraiò lentamente sul letto e portò la lettera al cuore.
Si girò poi sul fianco e aprì il cassetto del comodino. In fondo al cassetto la
vide: Karl le aveva lasciato la sua benda nera, la prese avidamente e
mettendosi in posizione fetale la strinse a sé insieme alla lettera. “ No! ”
urlò nel freddo silenzio della stanza lasciando esplodere il suo dolore in un
pianto disperato.
Il capitolo che segue è stato scritto interamente da UgoCINQUE.
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Capitolo 1
Karl Von Hennen
Gennaio 1943
Un giorno normale
La pioggia battente fece svegliare di soprassalto, un
giovane con i capelli biondi. Aprì gli occhi, si mise a sedere e si calmò. Un
attimo dopo, qualcuno bussò alla porta.
“Avanti” disse il giovane.
“Tesoro, ti ho sentito urlare, qualche problema?”.
“No, niente di che, ho fatto uno strano sogno, tutto qui, stai tranquilla,
mamma” rispose il ragazzo.
La madre entrò e si avvicinò alla finestra che dava su un viale alberato. Nella
poca luce che trapelava, nonostante i segni dell’età sul suo volto era sempre
splendida, pensò. Era alta e slanciata, il suo volto un tempo aggraziato era
ora pieno di rughe. I suoi occhi verdi erano come smeraldi.
“Ho preparato la colazione, ti aspetto giù” disse la mamma baciando il figlio
sulla fronte, ed uscì.
Il ragazzo stette ancora un po’ seduto nel letto. Quella era la parte del
giorno che preferiva. Stare un po’ così, da solo, prima di iniziare la
giornata.
Si alzò e si avvicinò allo specchio. Si guardò … da tanto tempo non riusciva
più a guardarsi. I capelli biondi erano spettinati e i suoi zigomi sembravano
scolpiti nella roccia. Gli occhi azzurri erano la parte che gli piaceva di più.
Si lavò la faccia, per riprendersi completamente dall’incubo. Sulla sedia c’era
il solito pantalone grigio e la camicia bianca che aveva indossato la sera
prima. Si vestì e scese al piano di sotto.
Si fermò come ogni mattina nel salotto a vedere il magnifico quadro che
rappresentava una battaglia navale. Gli piaceva moltissimo il mare. Entrò in
salotto e, al tavolo c’era il padre, un uomo possente e dal viso squadrato che
leggeva i giornali.
“Buongiorno padre” disse educatamente il giovane, ma di tutta risposta il padre
non lo degnò neanche di uno sguardo. Si limitò solo a fare un grugnito.
Karl lanciò uno sguardo torvo all’uomo. Ormai c’era abituato. Non si ricordava
da quanto tempo lui e suo padre non avevano una discussione. Era sempre preso
dai sui affari, ed ora, da quando la Germania stava ritornando una potenza dopo
la crisi i suoi impegni si erano moltiplicati. Non c’era mai a casa e quelle
poche volte che c’era i loro discorsi si limitavano ad alcuni convenevoli. Il
ragazzo prese qualche fetta di pane e salutando la madre uscì.
La brezza leggera e fresca della mattina gli punse il viso.
“Hey Karl!!”. Un ragazzo dai lineamenti paffuti
chiamò a gran voce il giovane dall’altra parte del viale agitando le mani per
farsi vedere.
“Hey Ludwig!” gli rispose il giovane di rimando
avvicinandosi verso di lui.
Mentre stava attraversando la strada un cavallo nero con sopra una SS gli
tagliò la strada. Karl si fermò bruscamente e lo stesso fece il cavaliere. I
due si scambiarono un’occhiataccia. Poi il militare disse con voce superba:
“Stai attento a dove vai pivellino, ti puoi far male” e senza che Karl potesse
ribattere girò e se ne andò.
“Brutta gente, meglio starci alla larga, non so chi siano più pericolosi loro o
gli ebrei” Disse Ludwig strattonandolo per la camicia.
“Questa me la paghi” pensò fra se il ragazzo. Ora nei suoi occhi si poteva
leggere rabbia e voglia di vendetta. Non era abituato a simili umiliazioni.
“Ehy, ci sei? Pronto?” insisté l’amico.
“Si scusami, dicevamo?”
“ Andiamo a fare un giro nel parco, ho visto che ci sono tante ragazze carine”
propose Ludwing ammiccando al giovane.
“Hai ragione, ci vuole proprio” e così dicendo i due amici si avviarono al
parco.
Il parco era quasi deserto. Le uniche anime che c’erano erano un vecchio e un
paio di cani randagi. Karl e Ludwing si
sedettero alla solita panchina. Era il loro campo base. Quando non sapevano
dove andare erano capaci di passarci anche tutta la serata, per poi andare al
solito pub a bere.
“Quante ragazze eh?” disse ironicamente Karl.
“E che vuoi, abbi fede, arriveranno” si scusò l’altro.
Erano proprio una bella coppia. Si conoscevano da quando avevano dodici anni.
Karl conobbe Ludwig quando si trasferì a Dortumund da
Monaco. Il padre aveva un ristorante e la madre era segretaria per il dottor Kubert, uno dei medici più in luce della Germania.
“Vedi che ti dicevo, ecco le prime” fece ad un tratto Ludwing,
tutto eccitato.
Karl, con aria distratta guardò nella direzione indicatagli dal ragazzo. Lungo
un vialetto stavano venendo due ragazze sulla ventina. Erano entrambe molto
carine. Avevano una gonna e portavano una camicetta turchese che sbucava dalla
mantellina. Una aveva i capelli neri lunghi e occhi da cerbiatto, mentre
l’altra era bionda.
“Io mi prendo la bionda” riprese a dire Ludwig.
“Ma dove vai, è troppo per te” rispose Karl.
“Senti, se riesci ad organizzare un’uscita stasera con quelle tipe, farò tutto
quello che vuoi promesso” controbatté l’amico assumendo un’aria da cane
bastonato.
“E va bene, vedrò cosa posso fare, seguimi, e
soprattutto, assecondami, e smettila di sbavare come un cane” disse spazientito
il giovane aggiustandosi la camicia.
I due si incamminarono in direzione delle ragazze. Karl urtò di proposito la
ragazza dai capelli biondi.
“Oh scusa non ti avevo visto, tutto bene?” fece il ragazzo fingendosi
dispiaciuto.
“Stavo meglio prima sinceramente” rispose la giovane alquanto disturbata.
“Mi dispiace, sono davvero mortificato, se c’è qualcosa che posso fare?” ribattè Karl sfoggiando il suo sorriso più
accattivante.
“Comunque io sono Ludwig, molto piacere” intervenne all’improvviso il compare.
“Piacere Madlen, e questa è mia cugina Annah”
“Che bel nome, lui è Karl” riprese il paffutello.
“Ma io mi vorrei sdebitare, stasera che fate?” Karl comprese che c’era qualche
possibilità di conquista.
Questa volta fu Annah ha prendere la
parola, dicendo che andavano ad una festa da ballo al Grand Hotel Mirage. Il ragazzo colse la palla al balzo e propose:
“Sicuramente vi serviranno dei cavalieri? Facciamo venti e trenta piazza Hansaplatz?”
Le ragazze assunsero un’aria dubbiosa, però poi acconsentirono.. Salutati i
ragazzi le due si allontanarono parlottando fra di loro.
“Sei un genio. Ti amo” disse euforico Ludwig, saltandogli letteralmente
addosso.
“Stai zitto altrimenti ti sentiranno. Comunque è stato più facile del previsto.
Dopotutto chi mi resiste a me?” sogghignò l’altro.
Ludwig assunse un’aria cupa. L’amico capito il problema gli rivolse un sorriso
e disse:
“Non ti preoccupare, il vestito te lo do io. Ti andrà un po’ stretto ma accontentati”
e gli diede qualche buffetto sul gilet a righe.
“Grazie Karl, lo sai che non me lo posso permettere.”
Dopo aver passato un’altra oretta a vagabondare per il parco, i due amici si
salutarono e si divisero.
Questo capitolo è stato scritto da me, Nadine_Rose.
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Capitolo
2
Rosa
De Santis
Primavera
1943
La
mancanza d’amore
Chiesi un
bicchiere d’acqua e, tremando come una foglia, lo accostai alle mie labbra. Che
sciocca ero stata, pensando che un semplice sorso d’acqua avrebbe potuto
reggermi dopo quell’ennesima batosta. Alzai poi le spalle e, trattenendo
malamente le lacrime, dissi - più a me stessa che alla mia rattristata
interlocutrice - : “ Mi ero illusa di aver trovato degli amici. ” Uscii dal
caffè con un’espressione stravolta in viso, un nodo strettissimo alla gola e un
misto di sentimenti nel cuore: tristezza e liberazione per aver capito come
stavano realmente le cose, rabbia e delusione perché ancora una volta avevo
donato il mio cuore e mi era stato restituito come uno straccio. Con estrema
lentezza, mi avviai verso casa domandandomi come avevo potuto credere nei loro
abbracci e nei loro “ Ti vogliamo bene, fidati di noi! ”.
Quella sera,
Roma era particolarmente tranquilla nonostante la guerra e suggestiva nei suoi
colori tra il giallo e l’arancione ma io non riuscii ad apprezzarne tale
bellezza, anzi, avrei voluto che una bomba inglese la radesse al suolo,
spazzando via anche e soprattutto me.
Il peso
della tristezza divenne tanto opprimente da costringermi a fermarmi nel mio
incedere, proprio davanti alla fermata dell’autobus. Decisi di aspettarlo e
tornare a casa con tal veicolo. Dopo un po’, un brivido di freddo mi percorse
lungo la schiena e mi strinsi nelle spalle, sospirando profondamente. Pensai
che i ragazzi, che fino a pochi giorni prima credevo miei amici, erano stati
davvero degli ottimi attori e che meritavano un riconoscimento per la miglior
interpretazione. Ma forse ero stata io, tanto accecata dalla gioia per aver
trovato dei “ veri ”amici, a non cogliere l’ipocrisia nei loro gesti e nelle
loro parole, la cattiveria nei loro consigli e nelle loro esortazioni.
L’autobus
arrivò dopo non molto ma, mentre mi apprestavo a salirci, il conducente urlò
sprezzante: “ A’ scema d’una ebrea, non sai leggere?! Su quest’autobus tu non puoi
salire! ” In un interminabile secondo, riuscii a scorgere tutti gli sguardi
d’indignazione e ribrezzo dei passeggeri rivolti verso di me. Umiliata,
abbassai lo sguardo mentre l’autobus riprese la sua corsa. Che vergogna,
pensai. Poi, lentamente, portai la mano sulla stella gialla cucita sulla
camicetta color bianco e, aggiustandomi il foulard, cercai di coprirla alla
meglio per evitare ulteriori umiliazioni.
Ripresi il
mio cammino verso casa, questa volta più velocemente: la tristezza aveva
lasciato spazio alla rabbia la quale mi accelerava il passo. Rabbia per le
parole del conducente e gli sguardi dei passeggeri dell’autobus che mi avevano
ricordato il rifiuto del mondo, rabbia per aver creduto in un’amicizia in
realtà a senso unico, rabbia perché se me l’avessero chiesto io li avrei anche
perdonati, ingenuamente.
In poco
tempo, tornai a casa con dentro un senso angosciante di vuoto: tutto ciò che
avevo sperato e creduto sull’amicizia mi era stato strappato via, senza pietà. Dovevo
dare il mio addio a quell’utopia diventata per poco realtà e il bentornato alla
diffidenza di un tempo.
Per quanto
mi sforzassi di nasconderlo, il dolore traspariva dai miei occhi e dal mio
comportamento quasi assente e, inevitabilmente, anche la mia famiglia se ne
accorse. Alle loro domande, risposi accennando soltanto qualcosa dell’accaduto
poiché non potevo raccontare tutto e, d’altra parte, non ne avrei avuto neanche
la forza. In quel momento, desideravo soltanto stendermi sul letto e dormire,
dormire, dormire …
Aspettai che
mio fratello si addormentasse e, nascondendomi sotto le coperte, nel silenzio
della notte, scoppiai finalmente in lacrime.
Quella nuova
sofferenza dentro di me aveva riaperto vecchie ferite e riportato alla luce
insoddisfazioni e mancanze di sempre.
Due giorni
dopo, seduta al mobile da toeletta e guardandomi allo specchio, mi resi conto di non
piacermi poi così tanto come volevo far credere a me stessa. Fino a poco tempo
prima, infatti, mi dicevo il contrario perché non volevo ammettere che io,
all’età di vent’anni, non accettassi il mio corpo e le sue rotondità come una
ragazza di dodici. Cominciai a pensare che se solo fossi
stata fisicamente e caratterialmente diversa, magra e spigliata, forse avrei
già trovato fidanzato e marito e forse sarei già stata in dolce attesa proprio
come tante altre ragazze della mia età. Incominciai, quasi con rabbia, a
spazzolarmi i capelli medi neri e a guardarmi negli occhi marroni arrossati
dalle ore di pianto e insonnia. Mi domandavo il perché della mia solitudine e
perché tutti rifiutassero la mia amicizia, il mio affetto, il mio amore. In
quel momento, dettata dalla disperazione, arrivai a pensare che mi sarei anche accontentata
di stare insieme a un uomo che non mi amasse, giusto per soddisfare il mio
bisogno d’amare. Ma, dentro
di me, era talmente forte il desiderio di essere amata che non avrei mai potuto
reggere quest’eventuale situazione sentimentale, fatta di amore dato e non
ricambiato. Pensavo a quanto fosse triste la mia vita nell’attesa inquieta di
quella felicità che per altri era soltanto normalità. Vivevo ormai in un
vortice di paure: la paura di mostrarmi per quella che ero perché troppo spesso
la mia sensibilità era scambiata per debolezza, la paura di restare da sola per
il resto della mia vita e la paura di essere arrestata da un momento all’altro
perché ebrea. Il futuro mi faceva paura. Sentivo parlare di “ campi di
concentramento ”, alcuni ipotizzavano che fossero campi di prigionia dove agli
ebrei era riservato un buon trattamento e si aspettava senza far niente la fine
della guerra, altri invece che fossero campi di lavoro forzato dove si soffriva
la fame e il freddo. Ma tutti erano accomunati dalla certezza che noi, ebrei
romani, non saremmo mai stati arrestati e deportati in questi campi e che
nessuno ci avrebbe mai fatto del male perché da noi, a Roma, c’era il Papa.
Tutti, eccetto la sottoscritta, credevano che la furia dei nazisti non sarebbe
mai riuscita a oltrepassare le porte della città eterna e santa, per timore di
una scomunica da parte della Chiesa e da Dio stesso. Il futuro era incerto. Non
sapevo fino a che punto si fossero spinti contro noi ebrei, non riuscivo a
trovare lavoro per assicurarmi così una certezza economica né tantomeno
qualcuno che mi assicurasse quella affettiva. Stavo male e l’ultima delusione
nel campo dell’amicizia non aveva fatto altro che aggravare tutta la mia
situazione interiore. Pensavo ai miei coetanei che, a differenza di me,
nonostante la drammaticità della guerra e le rinunce causate
dall’antisemitismo, vivevano spensierati la loro età tranquilli sotto l’ala
protettrice del Papa e felici con accanto una persona d’amare e degli amici con
i quali uscire e soprattutto confrontarsi per crescere. La mia espressione, un
tempo solare, era diventata corrucciata a causa delle delusioni, dei vuoti che
sentivo dentro di me, della solitudine e della paura per il futuro; il mio
sorriso, a volte ostentato, si era arreso alla tristezza; il tempo della
speranza era ormai giunto al termine. Mi piegai lentamente sul mobile da toeletta ed esplosi di nuovo in un pianto disperato.
A distanza
di un mese, però, le mie lacrime si fermarono e riuscii a trovare quel poco di
serenità che mi serviva per andare avanti. I miei occhi si erano aperti e avevo
capito che non ero sola; che accanto a me non mancavano persone speciali che mi
apprezzavano e mi volevano bene per quella che ero, che mi ascoltavano e, con
semplicità, riuscivano a tirarmi su di morale; che attorno a me non mancavano abbracci
e sorrisi. Sì, non ero sola.
In quel
periodo, mi unii all’ottimismo collettivo convincendomi che la Chiesa ci
avrebbe davvero protetto dalle deportazioni naziste e che presto la guerra
sarebbe finita. Mi convinsi anche delle parole delle persone che mi dicevano
che, quando avrei trovato l’uomo giusto, con lui sarebbe stata una storia
importante, per tutta la vita e che la mia attesa quindi non sarebbe stata
vana.
Finalmente,
la speranza si riaccese dentro di me e il sorriso riapparve sulle mie labbra.
“Stringi forte il corsetto, mi raccomando, Annah” disse a gran voce Maddlen,
mentre si aggiustava i capelli. “Saremo le più belle della serata. Sono sicura che
non appena i ragazzi ci vedranno rimarranno a bocca aperta” “A me interessa il biondino, ha un non so che di
misterioso. Mi intriga” ribatté Annah che guardando
l’orologio a pendolo quasi svenne. “Siamo in ritardo!” esclamò la ragazza tutta
allarmata.. Stava già prendendo la borsa quando si accorse che la cugina non
curante della sua preoccupazione, si stava ancora specchiando. “Non hai capito cosa ho detto? Siamo in un ritardo
mostruoso! I ragazzi ci uccideranno” “Si vede che non hai esperienza … bisogna fare
sempre aspettare i ragazzi, sennò si fanno una cattiva idea di noi” disse
scocciata Maddlen alzandosi dalla toelette. In effetti, la ragazza aveva molta più esperienza
rispetto alla cugina che, nonostante aveva il fisico già di una donna aveva
soli diciassette anni. Le due uscirono dal portone. La serata era fresca
ed il cielo era stellato. Era un’ottima serata. La strada come al solito era
trafficata. I caffè stavano aprendo e i camerieri erano già sull’orlo di una
crisi di nervi per colpa delle tante ordinazioni. C’erano un paio di carrozze
in attesa dei clienti ed un gruppetto di adolescenti che faceva battute poco
piacevoli sulle ragazze.
“Ma dove si saranno cacciate” sbottò Ludwig in
preda al nervosismo. Stavano infatti aspettando da più di mezz’ora sul luogo
dell’appuntamento, e delle ragazze non c’era traccia. “Stai tranquillo, mi stai facendo innervosire!
Vedrai che arriveranno. Il ritardo e le donne è un binomio infallibile” replicò
Karl, aggiustandosi la giacca nera. Stavano ancora parlottando, quando un
ragazzino sulla quindicina inciampò nei piedi di Karl. “Stai attento!! Ma dove guardi?” sbottò il
tedesco. “Mi scusi, non volevo disturbarla.” disse
prontamente il ragazzino. I suoi occhi erano neri e si leggeva una nota di
paura. Ludwig notò che teneva una mano sul cuore, quasi come a nascondere
qualcosa. “Cosa nascondi, ragazzo?” incalzò il giovane
paffuto, e così dicendo fece per spostargli la mano. Sul golfino beige spuntò
una stella gialla. Era il marchio. Il segno di riconoscimento. Subito Karl mutò
il suo carattere e diede uno spintone al ragazzo che per poco non cadde. “Vattene feccia! Finirete tutti nei camini!” inveì
Ludwig. Il ragazzo, impaurito non se lo fece ripetere due
volte, girò sui tacchi e scappò. I due ragazzi si scambiarono un cinque e si misero
a parlare. Ormai era abitudine, anzi qualche volta Karl provava anche piacere a
mettere in ridicolo gli ebrei. Per lui, che era abituato a guardare gli altri
dall’alto gli ebrei erano paragonabili ai cani. Dopo circa mezz’ora arrivarono le ragazze. Ludwig,
come al solito, riempì di complimenti Maddlen e la
ragazza faceva finta di nulla. Karl, invece si limitò solamente a fare qualche
battuta spiritosa. I quattro salirono in macchina e partirono. Arrivarono alla festa. Entrarono nella sala da
ballo e per un attimo tutti si fermarono a guardarli. C’era tutta la Dortmund
bene. Signore tutte preparate con strani cappelli che spettegolavano su ogni
cosa, camerieri che sembravano tanti pinguini imbalsamati. Grassi signori con
la faccia rossa ed i baffi attorcigliati, che parlavano di affari, qualche
ufficiale dell’esercito nella classica divisa grigia, tempestata di medaglie ed
onorificenze, e con la fascia con la svastica sul braccio. I quattro presero
qualcosa da bere e si sedettero ad un tavolo. La serata era alquanto noiosa.
Ogni tanto le ragazze facevano un cenno di saluto a qualche signore che
ricambiava, il più delle volte arrossendo. “Beh, che ve ne pare, bella festa vero?” fece
Ludwig per rompere il silenzio. Gli altri tre si scambiarono uno sguardo e a
stento soppressero una risata. “Ma dai finiscila Lud!
Piuttosto vai a prendere qualcosa da bere” fece con un gesto di stizza Karl. “Ragazzi, che ne dite di andare un po’ a ballare?”
propose Maddlen. I ragazzi, quasi costretti dovettero
accettare l’invito. Iniziarono a ballare in mezzo alla sala. Ludwig, con la
scusa che non sapeva ballare, toccava i fianchi sinuosi di Maddlen.
Di tutta risposta la ragazza faceva finta di niente. Karl, al contrario del suo
amico, sapeva ballare e anche molto bene. Prese Annah
sotto il braccio destro e iniziarono a ballare. Karl non s’era accorto prima di
quanto fosse affascinante quella ragazzina, che fino a cinque minuti prima era
solo una scocciatura, un favore fatto ad un amico. I suoi capelli neri si
muovevano sinuosamente e il rossetto metteva in risalto la carnosità delle sue
labbra. Poteva essere la ragazza giusta. Da tanto, troppo tempo, non provava
una sensazione così per una ragazza. Non era solo attrazione fisica. C’era
qualcosa in più. Annah, accortasi del cambiamento di
carattere del giovane, appoggiò la testa sulle possenti spalle. In quel
momento, Karl avvampò e quasi temette di essere scoperto. Passarono tutta la
serata a ballare. Verso mezzanotte i giovani salutarono gli invitati e si
avviarono fuori. “Che serata, non mi divertivo così da un sacco di
tempo” esordì Ludwig all’apice della felicità. “Secondo me ti sei divertito a toccare i miei
fianchi” rispose sarcasticamente Maddlen. I quattro
scoppiarono a ridere. “Hai freddo, stai tremando, prendi la mia giacca”
notò Karl, e così dicendo posò la sua giacca nera sulle spalle rosa di Annah. “Grazie, Karl” disse timidamente la giovane che
diventò più rossa di un pomodoro. Salirono in macchina, e subito partirono
sgommando. Arrivarono alla villa di Maddlen.
Era una casa maestosa, in stile classico. Ludwig e Maddlen
scesero e si avviarono al portone. Gli altri due rimasero in macchina. “Grazie della serata, Karl” disse educatamente la
giovane. In quel momento, Karl provò l’impulso irrefrenabile di baciarla ma avrebbe
fatto uno sbaglio. Fu Annah che salutandolo, gli
diede un bacio sulla guancia. Karl aveva toccato il cielo con un dito. Era
l’uomo più felice del mondo. Mentre si lasciava andare a fantasticherie entrò
Ludwig e scherzando disse : “Ehy, Romeo, andiamo dai
si è fatto tardi.” “Chi, Romeo?” fece distrattamente Karl, che era
sceso dalle nuvole. “Si hai ragione, andiamo. Si è fatto tardi …”
replicò il biondino che si era svegliato da quel bellissimo sogno ad occhi
aperti. “Di un po’, bellino, non è che sotto sotto hai perso la testa per quella bambolina?” lo
punzecchiò l’amico, con un ghigno beffardo. “Quella bambolina ha un nome, si chiama Annah, e comunque no, ma ti pare, è troppo piccola” “Mmm, va bene se lo dici
tu …”
Karl entrò nel salotto e stranamente vide che suo
padre era vicino al camino acceso. “Buonasera, padre” disse educatamente il ragazzo. “Ah ciao Karl, ti stavo aspettando. Tutto bene?”
disse quasi sorpreso il padre. Sul suo volto era dipinta un’espressione mista
di stupore e paura. Senza che Karl potesse rispondere il padre
riprese: “Stamattina hai avuto uno scontro con una SS per caso?” . Nella mente di Karl si iniziò a farsi strada una
strana idea. Per la prima volta in vita sua provò cosa vuol dire avere paura. “Sai la gravità del suo gesto? Se non fossi un Von
Hennen già staresti in carcere …” era chiaro che il
padre, grazie alle sue conoscenze aveva già predisposto tutto, come al solito.
Era tipico del suo carattere, freddo e calcolatore. Quasi con aria di sfida
Karl fece: “Immagino che ti dovrei anche ringraziare, per qualsiasi cosa tu
abbia già fatto” “Portami rispetto, insolente ragazzo!” sbraitò il
padre, che evidentemente non si aspettava una reazione simile dal figlio. “La settimana prossima ti arruolerai
nell’esercito, che ti piaccia o no!” sentenziò l’uomo che riassunse la sua
espressione seria e gelida. “Ma io qui ho la mia vita, i miei amici, la mia
ragazza …” provò a dire il ragazzo che trattenne a stento le lacrime. “Ah si l’amore. Ma non ti rendi conto che non
esiste l’amore? Esistono solo gli affari. Prima fanno tutte le dolci per farti
cadere ai loro piedi e poi ti usano solamente per farsi una posizione. Gli
amici sono peggio delle sanguisughe.” disse sicuro il padre. “Ma lo vuoi capire che io non sono come te, mi fai
schifo!” urlò Karl e così facendo se ne salì in camera sua lasciando il padre
ancora che imprecava contro di lui. Salì di corsa le scale e quasi non cadde e
sbattendo la porta si buttò sul letto. Finalmente, quasi come una liberazione
le lacrime rigarono il suo giovane volto. In un minuto o poco più era crollato
il suo mondo. Voleva urlare a quel mondo che gli faceva schifo, fatto solo di
guerra ed interessi. Dopo un po’ sopraffatto dalla stanchezza si addormentò.
Il cielo
cominciava a imbrunire, l’aria a raffreddarsi e Roma dava così il suo addio a
una lunga, calda e austera estate di guerra. La mia estate era trascorsa – del
resto come ogni estate – all’insegna della monotonia e della tristezza a causa
delle solite aspettative deluse. Nell’autobus, uno dei pochi riservati a noi
ebrei, eravamo stretti come tante sardine in una scatola ed io, aggrappata
saldamente a una maniglia, mi sentivo in trappola. Dal fondo, proveniva un
vociare continuo e fastidioso di ragazzi uno dei quali urlava in romanesco
stretto ed io mi pentii di essere salita su quell’autobus. Giunta alla fermata,
con un sospiro di liberazione, scesi dall’autobus nel mio vestito nero a
campana e mi avviai verso la Fontana di Trevi. Lì, davanti ai miei occhi, si
presentarono le scene di sempre: qualche turista di mezza età che scattava
foto; ragazzi e ragazze seduti che parlavano e ridevano; un vigile che
riprendeva severamente dei bambini intenti a rubare le monetine con un retino.
Poggiai la giacchettina bianca sulle spalle mentre il vento mi spruzzò sul viso
alcune gocce d’acqua. Chiusi per un istante gli occhi e sospirai, questa volta
di sollievo. Poi, guardandomi attorno, mi resi conto che ero l’unica senza
compagnia e di nuovo m’invase la tristezza. Mi avevano detto che per ogni
persona sulla faccia della terra c’era un’anima gemella e la mia in quale parte
del mondo si nascondeva? Mi domandavo chi fosse e cosa stesse provando in quel
momento l’uomo che dall’alto mi era stato designato. Forse, come me, sentiva il
disperato bisogno di essere amato e di colmare il vuoto della solitudine.
Forse, come me, era stato deluso da persone a cui voleva bene e adesso il suo
cuore stentava ad aprirsi agli altri. Forse, come me, si sentiva insoddisfatto
di se stesso e della propria vita. Avvertii una sensazione di debolezza alle
gambe e pensai di andarmi a sedere sul muretto. Ma poi non mi mossi, ricordando
che agli ebrei era proibito sedersi lì. Decisi allora di farmi forza per non
sprofondare di nuovo nell’angoscia e ci riuscii. Frugai nella borsa alla
ricerca di qualche spicciolo e, trovato un centesimo di lira, mi avvicinai alla
fontana. Mi voltai, chiusi gli occhi e, esprimendo il desiderio – quello di
sempre – di trovare l’amore, lanciai la monetina. Quando riaprii gli occhi,
come un oscuro presagio, vidi passare davanti a me un piccolo reparto di SS e,
impaurita, scappai via.
La radio interruppe
la sua trasmissione musicale proprio nel bel mezzo della mia canzone preferita,
“ Ma l’amore no ”, e mi precipitai ad alzare il volume. Con l’orecchio quasi
attaccato alla radio, ascoltai impaziente le parole di un uomo dalla voce
atona: “ Il governo
italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare l'impari lotta contro la
soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più
gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower,
comandante in capo delle forze alleate anglo-americane.La richiesta è
stata accolta.Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze
anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo.Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da
qualsiasi altra provenienza ”. Sentii
un tuffo al cuore. Il maresciallo Badoglio aveva proclamato l’armistizio, la
guerra era finita. Avvicinai una mano alla bocca e, con l’altra, mi ressi al
mobile sul quale era poggiata la radio, prima di cadere per terra in ginocchio.
“ La guerra è finita. ” sussurrai in lacrime e, in quello stesso momento, le
campane delle chiese suonarono a festa. Le finestre delle case si riaprirono
dopo tanto tempo e le voci delle persone, scese in strada per condividere la
loro gioia, si unirono in un sol grido: “ Badoglio ha parlato, la guerra è
finita! ” “ La guerra è finita. ” ripetei con più voce e, asciugandomi le
lacrime, mi alzai di scatto dal pavimento. Come tutti gli altri, mi affrettai
per le scale e, appena uscii dal palazzo, incontrai la mia amica Anita.
Contenta, mi corse incontro, mi abbracciò e mi disse: “ Adesso le cose si
aggiusteranno anche per noi. ” Ed io già ci credevo.
Ma la guerra non era finita, il
momento che noi tutti attendavamo dalla caduta del fascismo era stato un’illusione.
Il giorno dopo, infatti, Roma si svegliò nelle mani degli ex alleati tedeschi.
Le finestre delle case si chiusero di nuovo, il suono festoso delle campane si
trasformò nel rumore sordo degli spari e l’urlo di gioia in gemiti di paura e
disperazione. Io, ormai a pezzi, mi chiusi nel silenzio della rassegnazione. Sdraiata
sul letto, udivo le voci e le urla dei nazisti intenti a cercare e catturare i
soldati italiani in fuga e pensavo che presto sarebbe toccata anche a noi ebrei
la stessa tragica sorte. In me era morta ogni speranza sul futuro.
“ Rosa … ” cominciò a dire mia
madre, sedendosi ai piedi del letto sul quale ero stesa da giorni. Non le
rivolsi lo sguardo, continuando a fissare il soffitto ma immaginai che
l’espressione del suo viso fosse triste proprio come la sua voce. “ … I tedeschi hanno chiesto
cinquanta chili d’oro alla comunità ebraica, hanno detto che non ci faranno
alcun male se ubbidiremo. ” affermò mia madre ma senza crederci. Anche lei
aveva ormai perso la speranza. “ E se non ce la faremo a raggiungere quel peso?
” chiesi angosciata e lei mi rispose con lo stesso tono: “ Porteranno duecento
di noi in Germania, nei campi di concentramento. ” Per un attimo, avvertii un
senso di soffocamento alla gola poi, riprendendomi, dissi: “ Quando finirà
tutto questo? ” “ è appena
iniziato. ” rispose ed io fui quasi grata a mia madre perché, almeno lei, non
aveva tentato d’illudermi con speranze che, alla fine, si rivelavano false.
Nel
ventilato pomeriggio del giorno seguente, lunedì 27, io e la mia famiglia
eravamo sul marciapiede del Lungotevere De’ Cenci, alla fine della lunga e
silenziosa fila di persone, per consegnare agli uffici comunitari la nostra piccola
parte d’oro. Stringevo fra le mani e guardavo il fazzoletto rosa con dentro i
miei unici gioielli – che avrei indossato alcuni giorni dopo per il Capodanno
ebraico –, una catenina con un piccolo ciondolo a forma di cuore e un anellino:
un po’ mi dispiaceva separarmene. Con mio stupore, si accodò alla fila un
sacerdote cattolico con tonaca e cappello nero. Lo guardai: non doveva avere
più di trent’anni, il suo sguardo era sereno e stringeva fra le mani una
scatola di cartone abbastanza grande. “ La Chiesa è venuta in nostro aiuto! ”
esclamò contento un uomo rivolgendosi a mio padre. Il giovane sacerdote sorrise
e sistemò meglio la scatola fra le braccia. Pochi minuti dopo, si avvicinarono
di corsa un ragazzo e una ragazza, incinta di tre o quattro mesi. I due non
portavano la stella gialla e, dunque, non erano ebrei. “ Padre … ” fece la
ragazza, con voce affannata, rivolgendosi al sacerdote “ … Ci abbiamo
ripensato. ” La ragazza si sfilò dal dito la fede nuziale e lo stesso fece il
suo giovane marito. Davanti a questa scena, mi si strinse il cuore: i fratelli
cristiani ci stavano aiutando a raggiungere il peso d’oro richiesto dai
nazisti. “ Che il Signore ve ne renda merito, figlioli. ” disse il sacerdote e,
presi gli anelli, li pose nella sua scatola. I due giovani sposi sorrisero
all’unisono e, com’erano arrivati, correndo andarono via. Commossa, li guardai
allontanarsi: quella coppia, con il suo gesto altruistico, aveva risvegliato in
me la fiducia nel buon cuore delle persone e mi aveva ricordato il sogno della
mia vita, sposarmi e avere una famiglia. In quel momento, desiderai credere,
come una volta, che fosse possibile ma poi m’imposi di non farlo per non
crearmi un’illusione.
“Muovete il vostro sedere, signorine, gli inglesi non
aspetteranno che vi mettiate a riparo!” urlò il tenente Hofferman dal suo
cavallo nero. L’esercito tedesco stava marciando verso la Somme, dove secondo
molti la morte si sarebbe abbattuta sull’esercito nemico. “Dai forza Fredrick, cerca di camminare!” disse un
ragazzotto non ancora diciottenne con i capelli neri al suo compagno che sbuffò
pesantemente. Fredrick era un ragazzo alto e robusto e faceva parte della 5
divisione. “Stasera passeggeremo fra le cucine da campo dei
galletti” riprese con far vivo l’amico, nel tentativo di spronarlo. “Ma stai un po’ zitto, Adolf!” lo rimproverò il
camerata. Il cielo era nuvoloso e da un momento all’altro sembrava che dovesse
venire a piovere. La colonna dell’esercito tedesco era in marcia dalla mattina
senza fermarsi. Aveva ricevuto l’ordine di raggiungere la Somme dove si stavano
accalcando gli eserciti anglo-francesi. La notizia era stata accolta con
entusiasmo dalle truppe. Erano infatti stati richiamati dalla battaglia di
Verdun. “Alt! Va bene signorine dieci minuti di pausa.”
Gridò un ufficiale nel suo cappotto grigio. Vi fu qualcuno che urlò dalla
gioia. “Voi due, andate a perlustrare la zona e vedete se
è pulita, non vorrei trovarmi con una pallottola inglese nella tempia!” fece il
caporal Hutstong rivolto ai due compagni. Adolf lo voleva fulminare con lo
sguardo. Il caporale era il classico figlio della borghesia prussiana altolocata,
abituato a guardare gli altri dall’alto verso il basso. Era entrato
nell’esercito convinto di fare una brillante carriera, ma molti erano convinti
che se non era per le conoscenze e il nome che portava, non sarebbe neanche
stato sguattero nella peggiore locanda di Berlino. “Andiamo, prima che prendo a calci questo idiota”
riprese Fredrick scrollando l’amico che era rimasto a fissare l’ufficiale. Presero gli zaini e si misero in cammino verso la
collinetta brulla. Intanto iniziò a piovere. “Ecco ci mancava solo la pioggia, sai cosa penso:
al diavolo la Somme la guerra e perfino le ballerine di can can” sbuffò Adolf. “Dici così solo perché odi quello stupido
caporale, voglio vedere quando sarai fra le grazie di qualche premier dame di
Parigi, se odierai la guerra” sentenziò Fredrick. I due arrivarono sul crinale della collina e si
stesero a terra per perlustrare la zona. Presero i binocoli. Le trincee
francesi sembravano deserte. Ogni tanto si vedeva qualche luce di qualche
lanterna all’interno di baracche costruite alla meno peggio. Ad un tratto
mentre stavano guardando una fossa si sentì uno sparò e subito Adolf gridò. Il
suo urlo fece gelare il sangue nelle vene al suo compagno. Adolf era l’unico
amico che aveva nell’esercito. Subito gettò il binocolo e cercò di soccorrere
il compagno. “Adolf! Adolf” gridò il giovane in preda al
panico. Il compagno stava disteso sull’erba bagnata e quando Fredrick lo girò
trattenne a stento un urlo di terrore. Il suo elmetto era forato e un rivolo di
sangue ne scendeva. Gli occhi del ragazzo sbarrati fissavano il vuoto. “No!” Fredrick si
svegliò nella sua stanza da letto. La sua fronte era imperlata di sudore. Da
quando era iniziata la guerra faceva spesso quell’incubo. Guardò la moglie che
gli dormiva accanto e sembrava non essersi accorta di nulla. Scese dal letto,
infilò la vestaglia e si avvicinò alla finestra. Vide che c’era qualcuno nel
giardino. Scese.
“Come può pensare che io sia come lui!” pensò Karl
andando avanti e indietro nel giardino di fronte alla casa. Proprio non
riusciva a capire come suo padre era sempre così testardo e razionale. A volte
credeva che di lui non gli importava proprio nulla. Si sedette sulla panchina
di granito e sprofondò la sua chioma bionda fra le mani. Non voleva andare in
guerra, anzi la odiava. Non capiva perché per colpa di qualche politico
migliaia di ragazzi dovessero morire. Però poi, come un lampo gli venne in
mente un’idea. Se accettava di arruolarsi e riusciva a sopravvivere sul campo
di battaglia avrebbe ottenuto fama e gloria e suo padre magari lo avrebbe visto
sotto un’altra luce. In fondo, quanto poteva durare ancora la guerra? Non molto
pensò. Il fronte francese era crollato come neve al sole, e ad est c’era solo
la Russia che rappresentava la minaccia. Sì, aveva deciso. Si doveva arruolare.
All’improvviso un rumore alle sue spalle lo fece sobbalzare. Era suo padre. I
due stettero per un attimo a guardarsi fermi, immobili, senza dire nulla, poi,
quasi come se fossero in simbiosi si sedettero sulla panchina. Vi furono alcuni
attimi di tensione nei quali i due si guardarono negli occhi. “Ti ho mai raccontato della Somme?” iniziò il
padre sforzandosi di avere un atteggiamento cortese. “Circa una cinquantina di volte … dei tuoi gesti
eroici del tuo infiltramento dietro le linee francesi.” Rispose seccato Karl.
L’incontro non era iniziato nei migliori dei modi. “Ti vorrei raccontare un episodio che non ti ho
mai raccontato a tal proposito” continuò imperterrito il padre, e iniziò a
raccontare il suo sogno. “Mi dispiace, non lo sapevo che avevi perso il tuo
migliore amico, deve essere stato terribile” concluse il ragazzo che aveva gli
occhi lucidi. “Sai mi sogno ancora il suo volto, tutte le notti”
rispose il padre e aggiunse “Se non ti vuoi arruolare non fa niente, mi darai
una mano nelle acciaierie. Saresti un ottimo direttore” “Ecco, di questo ti volevo parlare: ho preso una
decisione. Mi voglio arruolare, voglio portare la Germania, la nostra Germania
alla vittoria. Fra qualche mese tutta l’Europa saprà chi sono gli Von Hennen.”
Disse il giovane in preda a un fervore patriottico. “Sono orgoglioso di te, mi riempi di gioia.” “Andiamo a berci un buon whisky, in tuo onore”
riprese il padre dando una pacca sulla spalla a Karl e i due entrarono in casa. Quella settimana passò in fretta per Karl. Passò
molto tempo con Ludwig inseparabile amico, ma il suo cuore era tormentato. Dal
ballo non aveva più visto Annah, la ragazzina dai capelli neri. Era possibile
che già si era dimenticata di lui? Non lo voleva accettare.
“Treno per Berlino in partenza dal binario 3”
annunciò l’altoparlante della stazione di Dortmund. “Sarà meglio che mi sbrighi, altrimenti faccio
tardi” disse Karl nella sua divisa grigia. Era molto elegante. “Stai attento e non fare l’eroe” disse la madre col
viso rigato dalle lacrime. “Mi raccomando fatti valere” disse a sua volta il
padre facendo il saluto militare. “Non ti preoccupare, mi farò valere e cercherò di
non fare l’eroe” ribatté il ragazzo abbracciando i genitori e si avviò. Mentre percorreva il sottopassaggio si sentì
chiamare a gran voce. Era Ludwig. “Ehi che ci fai qua, non avevi detto che gli addii
non ti piacciono?” disse ridendo il soldato. “Ma dai, non potevo permettere al mio migliore
amico di partire senza salutarlo” I due compagni si abbracciarono. “ Ora non fare che ti prendi tutte le ragazze
della città mi raccomando, lasciamene qualcuna.” Fece Karl ammiccando
all’amico. “Tu pensa a restare in vita che poi di ragazze ne
trovi quante ne vuoi” rispose Ludwig. I due si lasciarono e quando Karl risalì sul
marciapiede vide una ragazza con i capelli neri che lo fissava. Era Annah. Il
giovane posò la valigia e corse immediatamente da lei. L’abbracciò travolto
dalla passione. “Pensavo che non saresti venuta. Ma che fine hai
fatto?” chiese Karl quando la lasciò andare dalle sue braccia. “Ho avuto da fare, scusami.” Disse timidamente la
ragazza che non si aspettava quella reazione. “ Non importa, l’importante è che sei qui adesso.
Ti ho pensato in questi giorni.” Ribatté Karl. “Anch’io.” E aggiustò i suoi capelli che uscivano
fuori dal cappello. Il treno fischiò e Karl si affrettò a salutarla. “Non mi dimenticare Karl” gridò Annah. Il ragazzo si girò e batté la mano sul petto. Salì
sulla carrozza e si affacciò al finestrino e salutando il treno partì.
“ Rosa,
svegliati! ” fece mia madre concitata, scuotendomi il braccio. Mi svegliai di
soprassalto: dalle persiane della finestra non entrava nemmeno un fioco raggio
di sole. Fuori era ancora buio e il volto di mia madre pallido per la paura. “
Che c’è?! ” risposi nervosa e lanciai uno sguardo all’orologio sul comodino:
erano le cinque del mattino. “ Alzati, mettiti qualcosa addosso, dobbiamo
scappare! ” Di scatto, mi liberai dalle coperte e sollevai la schiena dal
letto. “ Ma che succede?! ” ripetei più agitata. “ I tedeschi stanno arrestando
gli ebrei del quartier Testaccio, presto arriveranno a Trastevere! ” Gelai. I
nazisti non avevano mantenuto la loro promessa e, in quel maledetto sabato
mattina[1],
iniziava la grande razzia degli ebrei romani. Balzai dal letto e, afferrato il
vestito blu dalla sedia, lo indossai in gran fretta sopra la camicia da notte. Per
la prima volta nella mia vita, insieme alla paura, avvertii un senso di morte imminente.
Sentivo, infatti, che i nazisti ci avrebbero inseguiti e ammazzati. “ Dobbiamo
raggiungere Città del Vaticano! ” esclamò mio padre preoccupato dal corridoio e
velocemente abbandonammo il tepore della nostra casa e i ricordi di una vita
poco goduta e apprezzata. Fuori l’aria era umida e per strada c’erano alcune
persone, di sicuro ebrei, che vagavano in cerca di un rifugio. Appena uscii dal
portone di casa, una ventata di freddo mi sferzò le gambe nude: nella fuga
avevo dimenticato d’indossare le calze. E così io, mia madre, mio padre e mio
fratello di diciassette anni iniziammo a correre diretti verso Borgo per
raggiungere Città del Vaticano e lì chiedere asilo. Improvvisamente, un urlo
seguito da uno sparo ruppe il silenzio dell’alba e c’indusse a fermarci
sgomenti. “ Cos’è stato? ” domandai con voce tremante e mio fratello,
impietrito, mi rispose: “ Stanno arrivando. ” “ Dobbiamo dividerci, così daremo
meno nell’occhio. ” Alla proposta quasi delirante di mia madre tutti esprimemmo
il nostro disaccordo con un no corale e deciso. “ Ma è l’unico modo per
salvarci! Ci ritroveremo davanti alla Chiesa di Sant’Anna dei Palafrenieri[2].
” Ci convinse e subito ci dividemmo. Rimasi da sola io, una ragazza di soli
vent’anni, in una città assediata dai tedeschi. Correvo, pregavo mentre grosse
e calde lacrime mi rigavano il viso. Non volevo essere scoperta, non volevo
essere arrestata, non volevo morire. Mi sembrava di vivere un incubo: a ogni
minimo rumore, mi voltavo con aria terrificata senza però fermare la mia corsa
per la sopravvivenza. La mia paura accresceva, il mio respiro diventava più
affannoso, il mio cuore batteva all’impazzata e mi sentivo seguita. Col cuore
in gola, arrivai finalmente al quartiere Borgo ma anche i tedeschi erano
arrivati lì. Vidi da lontano un camion grigio fermo in mezzo alla strada con il
motore acceso e vicino due soldati delle SS armati di fucili e prontamente mi
nascosi in un vicoletto. Sbattei la schiena al muro e, rannicchiandomi a terra,
tappai fortemente la bocca con entrambe le mani per trattenere le lacrime. La
speranza e la forza di raggiungere il Vaticano e ritrovarmi con la mia famiglia
si stavano affievolendo. Poco dopo, mi rialzai e ricominciai a correre lungo
quel vicolo stretto e buio. Non potevo arrendermi. Udii urla di donna e
l’inconfondibile voce dei tedeschi – alta e brusca – e il camion, che avevo
visto pochi secondi prima, ripartire veloce. Di colpo, mi fermai: il vicoletto
era terminato e dovevo scegliere da che parte andare, se a sinistra o a destra.
Mi sentivo spaesata ma sapevo che non potevo tornare indietro, che per
ricongiungermi con la mia famiglia (che forse mi stava già aspettando alla
Porta Angelica) dovevo andare avanti e quindi scelsi la prima opzione. Prima di
uscire dal vicoletto, guardai a destra poi a sinistra per assicurarmi che la
via fosse libera ma non lo era. Un numeroso reparto di SS stava arrivando verso
di me. L’incubo divenne orrore e mi resi conto che quel quartiere sarebbe stato
la mia trappola. Vissi un momento di assoluto panico poi, di corsa, tornai
indietro. Mi voltai temendo di essere seguita ma così facendo inciampai in un
sampietrino e caddi violentemente a terra. Il mio viso si contorse in una
smorfia di dolore e, sedendomi, portai le mani alla caviglia. Il rumore degli stivali
dei soldati tedeschi in marcia era sempre più vicino e ogni loro tonfo
sull’asfalto era per me un colpo al petto. Strinsi i denti e, con la caviglia
sinistra dolorante, mi rialzai riprendendo la mia corsa. Sentii di nuovo il
rumore di un camion, i nazisti erano dappertutto e pensai che la cosa migliore
da fare fosse trovare un rifugio lì, a Borgo e aspettare che le acque si
calmassero per poi proseguire verso il Vaticano. Correndo – a questo punto –
senza una meta e guardandomi attorno, mi domandavo dove avrei potuto
nascondermi. Pensai subito a una chiesa: i nazisti non avrebbero mai avuto il
coraggio di profanare un luogo così sacro irrompendo con le armi. Entrai in un
altro vicoletto e non appena ne uscii, come per miracolo, mi ritrovai davanti
ad una piccola chiesa. Quasi non riuscivo a credere alla fortuna che avevo
avuto. In lacrime, incominciai a bussare disperatamente alla porta della
chiesa. “ Aiuto! Aiuto! Qualcuno mi aiuti, vi prego! ” dissi ma nessuno rispose
alla mia disperata preghiera e quella porta rimase chiusa. Smisi di urlare e di
battere i pugni e, ormai arresa, mi attaccai alla porta. Voltando la faccia a
destra, notai a pochi metri di distanza una piccola porta che lentamente si
apriva e da lì affacciarsi una figura vestita di nero. L’anziano sacerdote mi
fece segno di entrare nella canonica. Non mi rivolse la parola e, poggiandomi
la mano sulla spalla, mi guidò verso una stanza. Per un attimo mi sentii al
sicuro. Entrammo nel soggiorno, una stanza dall’ambiente modesto ma
accogliente, dove c’erano un armadio, due poltrone e un tavolo rotondo con due
sedie. Sobbalzai: dall’armadio era uscito improvvisamente un giovane
dall’espressione sconvolta. “ Padre! ” esclamò “ Sono andati via?! ” Il
sacerdote disse di no con la testa che subito abbassò avvilito. Poi, aprendo
un’altra porta, mi accompagnò in quella che doveva essere la sagrestia – una
stanza con un mobile lungo tutte le pareti, un inginocchiatoio e al centro un
tavolo sul quale erano poggiati alcuni paramenti sacri – e, infine, nella
chiesa. Mi fece avvicinare a un confessionale e, aprendo la porticina, mi
disse: “ Entra, qui sarai al sicuro. ” Entrai, ma dentro di me quel senso di
sicurezza era già andato via e non sarebbe più tornato. Seduta, cominciai a
tremare e a piangere sommessamente per la paura. Temevo, infatti, che i nazisti
sarebbero entrati ugualmente in quella chiesa e a quel punto cosa ne sarebbe
stato di me? Fissando la tendina viola del confessionale, mi misi ad aspettare
rassegnata la fine della mia libertà che non tardò ad arrivare. All’improvviso,
udii forti colpi alla porta e l’anziano sacerdote dirigersi velocemente verso
l’entrata della chiesa. “ Andate via! Non potete entrare nella casa del
Signore! ” disse con tono autorevole. “ Apri, prete o sfonderemo la porta! ”
minacciò un tedesco dall’altra parte. Il mio cuore palpitava per la paura. I
nazisti cominciarono a battere più violentemente alla porta ed io, a ogni
colpo, sobbalzavo chiudendo gli occhi. Poi, a un tratto, si fermarono e nella
chiesa piombò il silenzio. Mi meravigliai poiché non era dai tedeschi
arrendersi così facilmente e, infatti, poco dopo quell’inquietante silenzio fu
interrotto da un botto fortissimo: le SS avevano sfondato la porta. Portai le
mani alle orecchie e ripresi a piangere. Sentivo in lontananza i passi veloci e
pesanti dei tedeschi, il rumore delle panche buttate per aria, la voce del
sacerdote supplicare invano pietà e le urla delle persone catturate dai loro
nascondigli. Poi venne il mio turno. La tendina del confessionale fu strappata
e mi ritrovai davanti la faccia di un nazista arrabbiato.
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Capitolo scritto daNadine_Rose
[1]Riferito al 16 ottobre 1943
giorno in cui, dalle ore 5:30 alle ore 14, i soldati tedeschi (300) arrestarono
gli ebrei di Roma (1024).
[2]Chiesa situata in via Sant’Anna,
nei pressi della Porta Angelica, il principale ingresso alla Città del
Vaticano.