Un bacio sporco

di Atharaxis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** C’è qualcosa dentro di me, che è sbagliato e non ha limiti ***
Capitolo 2: *** C’è qualcosa dentro di te, che è sbagliato e ci rende simili ***
Capitolo 3: *** E' sbagliato perchè non ha limiti ***
Capitolo 4: *** E’ sbagliato ma ci rende simili ***



Capitolo 1
*** C’è qualcosa dentro di me, che è sbagliato e non ha limiti ***


Quando sentii squillare il cercapersone, stavo camminando distrattamente per il corridoio. Mi ero già allargato la cravatta, un paio di bottoni slacciati… Ero pronto per togliermi la divisa e finalmente non sentirmi più chiamare capo. Non lo sopportavo al di fuori dell’orario di lavoro, anche se ammetto di esserne sempre stato lusingato: difficilmente riuscivo a trattenere un leggero sorriso di soddisfazione. Del resto, ho sempre dato tutto me stesso per arrivare fin qui… Fedeltà all’azienda. Obbedienza. Responsabilità. E mai lasciarsi andare. Un Turk deve saper prendere le distanze da tutti quelli che vengono annoverati sotto il nome di sentimenti. Pietà, vendetta, tristezza, dolore… Amore. Ma quello per me non era mai stato un problema. Non fino a quella sera.

 

Un po’irritato mi frugai nella tasca: pensai che fosse Elena. Ultimamente stava diventando quasi insistente, con i suoi continui “casuali” cambi di turno, inviti a cena, piccoli favori… Non che non mi facesse piacere ricevere attenzioni ma avevo la vaga sensazione di aver guadagnato un certo ascendente su di lei solo da quando ero passato di grado. Sorrisi. Sapevo di essere un ottimo impiegato ma forse, se non ci fosse stato lui, avrei dovuto aspettare ancora chissà quanto. Dovrei ringraziarlo, pensai, ma mi sembrava di farlo abbastanza ricoprendo il mio ruolo in maniera impeccabile.

 

Ho bisogno di te”

Quella semplice frase già di per se mi lasciò stranito, ma fu niente rispetto a cosa mi provocò vedere chi l’aveva scritta. Smisi addirittura di camminare. Mi fermai e la rilessi paranoicamente. “Ho bisogno di te” risuonava nella mia mente, e ripetevo il suo nome sottovoce, chiedendomi come fosse possibile. Era lui.

Mi tranquillizzai rimanendo fermo e quasi mi diedi dello stupido per essermi agitato a quel punto per quelle quattro semplici parole: ero un suo sottoposto, senza dubbio aveva qualche affare urgente da commissionarmi. Aveva bisogno di me, certo. Ma c’era una cosa che non riuscivo a spiegarmi: quel “te” così terribilmente confidenziale ai miei occhi… Finché ero in servizio avevo sempre dato e preteso il lei, addirittura con lui usavo il voi. Improvvisamente ebbi l’impressione che non avesse bisogno del capo del dipartimento, ma di me, dell’uomo che c’era dentro quella divisa.

 

Scossi la testa.

 

Il turno è finito, non è necessaria tutta questa formalità da parte sua, continuavo a ripetermi. Mi risistemai giacca e cravatta, camminando deciso verso l’ascensore. Aveva bisogno di me, non potevo farlo aspettare, ma i pensieri si accavallavano talmente veloci e contraddittori nella mia testa che in qualche modo riuscivano a rallentarmi il passo.

E’ il presidente, non deve di certo chiedermi il permesso per darmi del tu. Eppure la cosa, se da una parte mi lusingava, dall’altra mi infastidiva come non mai: il mio turno era finito ma il suo no. Non poteva rivolgersi a me in questo modo, la sentivo come una mancanza di rispetto, quando in fondo comprendevo benissimo l’assurdità del mio astio: lui mi aveva nominato responsabile e lui avrebbe potuto degradarmi con altrettanta facilità. Ma in fondo era giovane, da pochi mesi soltanto a capo di un’azienda così importante, e se lui aveva aiutato me anch’io l’avevo sempre sostenuto, rispettato fin dal primo momento… Avevo fatto il mio dovere…

Erano solo scuse che stavo faticosamente accampando per dare una spiegazione razionale a ciò che sentivo, quando in realtà era tutto così chiaro, pensandoci adesso: ero irritato semplicemente perché quel tu mi aveva aperto la possibilità di essere considerato più di un semplice dipendente da lui, e avevo paura che la mia fosse soltanto un’illusione.

 

Paura. Qualcosa che non provavo da tempo. Non sapevo nemmeno più cosa fosse. Solo adesso mi rendo conto di quanto fossi riuscito a reprimere a tal punto le mie emozioni da dimenticarle. Non immaginavo che quella notte, dopo tanto tempo, sarebbero tornate prepotenti e violente a galla.

Anche questo mi infastidiva: come si permetteva, chi era lui per scatenare in me tutto questo?

 

Il presidente, il mio presidente.

 

Rufus.

 

 

   

 

 

Bussai, anche se con poca convinzione. Non senti risposta ma le porte si aprirono automaticamente. Quando entrai, sforzandomi con tutto me stesso di apparire impeccabile come al mio solito e di non lasciar trapelare in alcun modo quello che si era agitato in me fino a qualche secondo prima, era in piedi, le mani appoggiate sulla fredda vetrata del suo ufficio che dava sull’intera azienda. Reattori, macchinari, dipendenti… Un mondo intero ai suoi ordini, era questo ciò che vedevo, ma non avevo ancora capito che in realtà non era lui a possedere la Shinra ma l’azienda a possedere lui, ad occupare la sua mente, a cibarsi del suo tempo.

Sembrava non essersi accorto della mia presenza, così rimasi qualche istante in silenzio ad osservarlo: un ragazzo così giovane te lo immagineresti ovunque fuorché a capo della compagnia, pensavo. Ma nonostante l’inesperienza, aveva la stoffa del presidente: nessuno, compreso di cosa fosse capace, aveva osato mancargli di rispetto.

La sua mano scivolò sul vetro, quasi come se lo accarezzasse, e sentii chiaramente qualcosa che non era mai uscito dalle sue labbra, non in mia presenza.

 

Un profondo, languido sospiro.

 

In quel momento quasi mi vergognai di essere lì: era come se mi fossi intrufolato nel suo essere e lo avessi colto nella sua intimità, senza che avesse la possibilità di proteggersi dalla mia intrusione. Non avrei mai permesso che qualcuno mi cogliesse nei miei dubbi, nelle mie incertezze, nelle mie debolezze. Le nascondevo persino a me stesso e ad un tratto mi apparve chiaramente che dovesse averne anche lui, sebbene non le avessi mai seriamente considerate, sebbene a quanto pare fosse capace di nasconderle molto bene.

 

Sebbene fosse il presidente. Proprio perché era il presidente, in realtà.

 

Prima che potessi realizzare che lo stessi facendo, mi ero proteso verso di lui: avrei voluto poggiargli una mano sulla spalla, fargli sentire che non era solo in quella stanza… Ma forse non era questo ciò che voleva, e mi bloccai di nuovo.

Bastò il leggero rumore delle mie scarpe per rompere la muta atmosfera che ci avvolgeva: si voltò di scatto, col viso duro e contratto, così austero che quasi pensai che quel sospiro me lo fossi sognato. Non avrebbe potuto uscire da quelle labbra così serrate.

Mi vergognai ancora: cosa pensavo di fare? Consolarlo? Sono un suo dipendente, non ho il diritto di farlo. E soprattutto non me l’ha chiesto. Era così che la pensavo, era così che vivevo: non parlare se non sei stato interpellato, non agire di testa tua, non immischiarti negli affari altrui. Un ottimo impiegato, proprio perché quei precetti erano talmente miei da essere ormai gli stessi che regolavano la mia vita, oltre a rappresentare un semplice codice di comportamento.

 

Ma ero un uomo, oltre che un Turk. Soltanto che anche questo, l’avevo dimenticato.

 

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Capitolo 2
*** C’è qualcosa dentro di te, che è sbagliato e ci rende simili ***


Ci hai messo un po’, Tseng” fu l’unica cosa che seppi dirgli: rimproverare le persone è il modo migliore per distogliere i loro pensieri da chi gli sta di fronte, soprattutto se si è in qualche modo superiori a loro. Sono talmente prese dai loro sciocchi sensi di colpa che non si curano di pensare che ciò che gli è stato detto abbia davvero fondamento o se sia solo la mia arma di difesa. Com’è che diceva mio padre? “Se li riprendi non sbagli mai”. Ammetto che aveva ragione: ognuno qui dentro ha il suo vizietto, la sua debolezza, la sua tentazione che finirà prima o poi per fargli commettere qualche negligenza ed è quanto mai divertente alle volte osservare l’incertezza che guizza nei loro occhi quando sono io ad osservarli.

Ma in lui avevo sempre visto una sicurezza fuori dal comune, datagli oltre che da un operato impeccabile anche da una certa cieca autostima che spesso non tolleravo perché troppo simile alla mia. Eppure so per certo che era questo di lui che mi attraeva: la sua fermezza, i suoi occhi scuri che non avevano paura di perdersi nei miei… Come avrei voluto farlo vacillare davanti a me, in ginocchio, implorante ai miei piedi come un bambino sperduto… Sapevo che non avrebbe strisciato come tutti gli altri, sapevo che non sarebbe stato una preda facile ma soprattutto sapevo che il mio divertimento non si sarebbe concluso così in fretta: volevo soggiogarlo, e poi lasciarlo sfuggire volutamente, e di nuovo riprenderlo e farlo mio, ancora, e ancora, e ancora. All’infinito.

 

Ero in camera, credevo che il mio servizio fosse terminato, Sir”.

Lo è infatti, pensai, quello che voglio da te non rientra nelle tue mansioni professionali. O forse sì? Del resto, sono il tuo presidente: devi darmi ciò che esigo da te, mio caro Tseng. Solo ti prego, non troppo in fretta.

Diciamo che si è trattato di un emergenza e ho pensato che tu fossi il più qualificato per risolverla”. Avanzavo apparentemente senza un obiettivo ben preciso, girando per la stanza. Soppesavo le parole, facendo attenzione a non utilizzare alcun inflessione particolare, volutamente ambiguo. Attendevo il momento in cui avrei visto guizzare nei suoi occhi qualcosa che l’avrebbe tradito: curiosità, timore, disappunto… Una qualsiasi emozione era ciò che volevo, mi bastava che fossi io a provocargliela. Ma lui rimase immobile e compito nella sua uniforme ed era questo che mi faceva impazzire. Era questo che mi faceva desiderare di possederlo più di qualsiasi altra cosa.

 

Farò tutto ciò che è in mio potere per risolverla, Sir”. Mi voltai: cercava il mio sguardo, tentando di capire cos’avevo in mente. “Allora te lo dirò senza mezzi termini”.

 

Sorrisi: volevo essere il suo vizio.

 

Volevo essere la debolezza dell’impiegato modello della Shinra, la variabile che avrebbe potuto sconvolgere l’operato del migliore dei Turks. Volevo semplicemente essere voluto.

 

Io voglio te, Tseng”

 

Sebbene l’avessi posta così direttamente, si tratteneva ancora, bravo quasi quanto me a nascondere i moti dell’animo. Ero furioso: come osava essere così tranquillo? Ostentava una calma così trascendentale da farmi dubitare persino di me stesso. Impossibile, non poteva essere così, non volevo, e meno mostrava il suo interesse nei miei confronti più io lo bramavo solo per me.

 

Io… Non capisco, Sir”. Abbassò lo sguardo.

 

Mi morsi il labbro. Non aspettavo altro: fu da quel preciso istante che seppi che potevo, anzi, che dovevo. In fondo lo volevamo entrambi, anche se ancora non lo avevamo realizzato.

 

Voglio che tu sia mio stasera”.

Sfiorai con la mano la parete della stanza: non era un caso che fossi lì, catturare lui non era affare da principianti. Aspettavo il momento giusto, nient’altro. Ormai era irrequieto, stupito, smanioso mentre seguiva con lo sguardo i miei spostamenti. Era in trappola.

 

Sir, io non posso”

Risi sommessamente, sfiorando l’interruttore.

 

Non puoi… O non vuoi?”

Bastò un tocco, e la stanza divenne un’oscura e palpitante prigione dalla quale non l’avrei mai fatto fuggire.

 

 

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Capitolo 3
*** E' sbagliato perchè non ha limiti ***


La stanza, sebbene al buio, era rischiarata dalle fluorescenti luci dell’azienda che lavorava a pieno ritmo, ignara di ciò che il suo presidente stesse facendo. Il soffuso chiarore che illuminava i suoi occhi li rendeva ancora più terribili ed ammalianti, come quelli di un variopinto serpente, che striscia voglioso verso la sua preda, aspettando nient’altro che l’attimo giusto per avventarsi su di essa ed iniettarle il suo dolcissimo letale veleno.

Tremavo. Premetti le mani sul muro, d’istinto, indietreggiando, pur sapendo che ovunque mi fossi voltato sarei stato in un vicolo cieco. Era ormai troppo tardi quando mi resi conto che il mio sguardo era fisso su di lui che si avvicinava sempre di più... ancora... ancora, finché non fu davanti al mio viso, con gli occhi socchiusi, il suo respiro leggero sulle mie labbra.

Era questo che mi faceva rabbrividire, la consapevolezza di essere in trappola, ma allo stesso tempo fremevo, eccitato: ero la sua preda, impaurita, ma che non vedeva l’ora di essere divorata, di perdersi nel torpore causato da quel velenoso mortale desiderio.

 

Chiusi gli occhi, ed assaporai per la prima volta le sue labbra. Sapevo che quel bacio era sbagliato: aveva il sapore di qualcosa di sporco, di malsano, di impuro; qualcosa che non sarebbe stato tollerato alla luce del sole. Era sbagliato, eppure capii che da quel singolo istante in cui l’avevo assaggiato, non avrei potuto più farne a meno. Era qualcosa di proibito ed appetitoso, esattamente come lui, colui che solo poteva decidere effettivamente alla Shinra che cosa fosse lecito e cosa meno. Con lui mi stavo macchiando di uno sconcio peccato, di qualcosa di molto più grave che di una dimenticanza sul lavoro, di tutto ciò che io rimproveravo agli altri senza pietà: ma stavo facendo tutto questo col mio presidente, con colui al quale la mia coscienza doveva rendere di conto, oltre che a me stesso. E sapere che lui mi avrebbe condotto a macchiarmi di oscenità, non solo mi metteva l’anima in pace, ma aveva il potere di eccitarmi maledettamente.

Dischiusi le labbra e lasciai che la sua lingua esplorasse la mia bocca, che continuasse ad iniettarmi il suo veleno, perdendo lentamente il mio autocontrollo, sopraffatto.

Sentii le mie mani muoversi senza che io ne avessi veramente il controllo, percorrere la sua schiena e aiutarlo a liberarsi di quell'ingombrante cappotto, che nascondeva la bellezza del suo fisico, giovane e curato. Affondai le dita nei suoi capelli dorati, morbidi e lisci, mentre lasciavo che lui mi sbottonasse la giacca, senza che le nostre labbra si separassero soltanto un secondo: temevo che se per anche un solo attimo avessi perso il contatto con lui la razionalità mi avrebbe fatto vedere improvvisamente quella scena con freddezza, e la vergogna avrebbe cancellato ogni sicurezza dal mio viso per sempre.

 

E fu lui a staccarsi.

 

Lanciò via la mia cravatta, con un impeto di rabbia, e mi spostò con violenza, afferrandomi fra le braccia e costringendo le mie gambe nella direzione che lui desiderava, verso la finestra: avevo intuito che avesse un fisico prestante, ma non lo immaginavo capace di esercitare una simile forza. Nel suo sguardo brillava qualcosa e non capivo le sue intenzioni, ancora una volta. Non c'era niente di scontato in ciò che stavamo facendo: non c'era niente di ovvio, di definito, di dichiarato. Non c'erano parole: c'erano solo i nostri sguardi ed i nostri corpi che facevano ciò che sembrava loro più naturale senza che ci fosse veramente un significato che si potesse attribuire ai nostri gesti. Mi sentii piccolo, stretto fra le sue mani, le sue braccia che pretendevano di guidare i miei movimenti. Mi opposi a quella violenza ma lui continuò con maggior vigore, parendo eccitato dalla mia resistenza.

 

Lasciai che giocasse con me, e sfoderai un sorriso: non avrei ceduto alla sua violenza, ai suoi modi di fare bruschi, non mi sarei sottomesso. Del resto, forse era questo il motivo per cui mi aveva scelto? Chi altro avrebbe potuto convocare per quel gioco perverso? Ovviamente la persona che l'avrebbe fatto divertire maggiormente: non c'è gusto a giocare con i deboli, e nemmeno con gli adulatori servili. Io potevo soddisfarlo, io soltanto, superiore a tutti gli altri, incrollabile.

 

Quello che cercava era nient'altro che un avversario, qualcuno che gli tenesse testa.

 

Non avrebbe potuto chiamare nessun altro che me.

 

Perché è me che desidera, è me che vuole, è me che...

 

Perché?

 

 

Perso in me stesso, d'un tratto vidi solo il suo sguardo perverso irrequieto e spazientito. Fu un attimo e mi ritrovi sbattuto con forza davanti al finestrone del suo ufficio, che dava sull'intero stabilimento. Lui era dietro di me, con le gambe larghe ed i piedi che costringevano i miei per impedirmi di scappare. Il suo petto premeva con forza contro la mia schiena e le sue mani mi percorrevano il corpo, senza riguardo, slacciandomi i bottoni della camicia, velocemente, fino ad arrivare alla mia cintura, e poi...

 

E poi in quel momento, appiccicato com'ero a quel maledetto finestrone, con le luci della ShinRa e tutto quello che era il mio prezioso mondo davanti agli occhi, ebbi paura. Ancora adesso non so precisamente che cosa temevo così tanto: perdere il posto di lavoro? Senza dubbio se qualcuno avesse saputo... Ma chi? Anche se qualcuno ci avesse visto, a chi mi avrebbe denunciato? Al presidente? Ridicolo, vero?

No, non avevo paura di perdere il posto. Era l'orgoglio, quel maledetto orgoglio che mi impediva di prendere le cose così come venivano, di cogliere le occasioni e di agire senza farsi troppe domande che improvvisamente mi fece aver timore di essere solo l'ennesimo strumento nelle sue mani, che avrebbe buttato appena non gli fossi stato più utile. Non volevo essere un debole, un oggetto, un giocattolo. Non volevo che l'incertezza, il dubbio, il desiderio, mi dominassero, e mi scoprii incapace di gestire una situazione che non fosse sotto il mio totale controllo. Paura di soffrire, paura di subire. Paura di distruggere con le proprie mani l'immagine di sé stessi che si è così faticosamente creati. Immaginai la sua risata ed il suo sguardo gelido, la sua gioia nell'avermi sottomesso: era questo che voleva. Fu un attimo, e nel mio cuore non vi fu nient'altro che rabbia.

 

 

Non volevo illudermi. Non volevo nemmeno che iniziasse, per paura della fine.

Lo odiai ancor prima di rendermi conto che ero pazzo di lui.

 

 

Raccolsi tutte le mie forze e mi divincolai fino a liberarmi, spingendolo all'indietro talmente forte che riuscii a scaraventarlo a terra: di sicuro non se l'aspettava perché quando mi girai il suo sguardo era confuso, talmente stupito dalla mia azione da non essere ancora riuscito a sviluppare alcuna reazione. Per un immenso attimo ci guardammo, entrambi sconvolti da quello che avevo fatto.

 

Avevo usato la forza su di lui ma soprattutto l'avevo rifiutato.

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Capitolo 4
*** E’ sbagliato ma ci rende simili ***


In quel momento percepii per la prima volta nella mia vita il dolore e la frustrazione del rifiuto. La testa mi girava e non riuscivo a formulare un pensiero coerente nemmeno sforzandomi: come se d'improvviso quella spinta avesse fatto tornare a forza la coscienza nei nostri corpi ed insieme ad essa tutta l'ipocrisia, la falsità e lo schifo che sono i rapporti umani, con le loro convinzioni e tutte quelle parole così inutili che a nulla servono se non ad illuderci di avere un flebile contatto fra noi, a trarre un misero conforto da vane promesse quando in realtà le parole scivolano, scivolano senza nemmeno posarsi su di noi, e non significano mai niente. Rimasi lì sul pavimento, non so per quanto tempo, a guardarlo, incredulo, sperando che l'avesse fatto per sbaglio. Ma non era così.

 

Si mosse a passi sicuri per il mio ufficio ed accese la luce.

 

Fu come uno squarcio: d'improvviso l'accecante vista di noi, in quelle condizioni, con i bottoni slacciati, i capelli fuori posto, le giacche così ridicolmente formali in terra, fu così massacrante da farmi voltare lo sguardo. Ed io in tutto questo mi sentivo ridicolo, in terra, sconfitto. Per la prima volta mi sentii vulnerabile, come quando ero bambino; ma nessuno aveva mai osato punirmi per la mia arroganza. Strinsi i pugni e mi feci forza: mi alzai in piedi ed affrontai i suoi occhi neri e selvaggi.

 

Fu come se entrambi ci fossimo smarriti, incapaci di recitare la nostra parte.

Non c'era nessuna parola che potesse riempire quel silenzio assordante che ci avvolgeva.

E poi fu lui, così come aveva fatto con il buio, a distruggere quel nostro tacere e tutto quello che ci stava proteggendo da noi stessi, dalla nostra natura umana che ci aveva condotto fino a quel punto. Quelle maledette parole, con cui era così bravo, come una lama affilata diedero il colpo di grazia a quel coma in cui stavamo precipitando fino ad un momento prima, dimentichi dei nostri nomi, dei nostri ruoli, soltanto due corpi che si cercavano e si volevano...

Perchè abbiamo così bisogno delle parole? Perchè c'è bisogno di dar fiato alla bocca? Perchè c'è bisogno di dare un significato a tutto e non accettiamo che anche le cose più aberranti, più sbagliate o profondamente crudeli possono farci provare piacere? E non c'è frase o discorso che possa spiegarlo, o giustificarci.

 

 

Io... Non posso.”

 

 

Non posso. Non posso. Che cosa vuol dire non posso? Cos'è che non puoi Tseng? Non puoi lasciarmi fare quello che voglio con il tuo corpo? Se è per questo, avessi voluto qualcuno che obbediva ai miei ordini alla lettera avrei chiamato una qualsiasi di quelle puttane senza cervello che stanno alla reception. Cos'è che non puoi? E' perchè esci con Elena? Andiamo, lo so anche io che non te ne frega niente di lei. Lo sai anche tu, e probabilmente lo sa anche lei ma fa finta di non vedere: quando si è il burattino si fa sempre finta di non essere tirati dal burattinaio ma anzi che sia una scelta nostra, che siamo stati noi a desiderare la prigione. E' così che fanno i deboli: si accontentano di qualcosa che non vogliono per supplire alla mancanza di quello che non possono avere. Probabilmente nemmeno a lei interessa niente di te, Tseng, è solo il tuo ruolo che la eccita. Ma in fondo a te piace apparire così maledettamente irraggiungibile e superiore, no?

Ti senti un dio, in mezzo a tutta quella marmaglia, non è vero?

Lo sei, maledizione, lo sei, ed è per questo che ti voglio.

 

 

Perchè non puoi?”

 

 

... Non mi paga per fare questo, Sir.”

 

 

Risi, risi di gusto e con cattiveria. Era questo il problema? Voleva che gli pagassi gli straordinari? In fondo è sempre tutta una questione di soldi. Questo vuol dire che per denaro avrei potuto fare di lui ciò che desideravo? No, Tseng non era così, era incorruttibile. I soldi, per quanto gli piacessero, senza dubbio gli facevano schifo se guadagnati al di fuori del suo lavoro: nessuno era mai riuscito a comprarlo.

 

 

Io ti pago perché tu obbedisca ai miei ordini, Tseng”

 

 

Io non volevo comprarlo. Volevo corromperlo con me, non con il denaro. Volevo che alla fine si arrendesse ed accettasse il fatto che mi desiderava, che senza dubbio io ero la scelta migliore che avesse mai potuto fare. Doveva arrendersi a me, per poi rivoltarsi come un animale selvaggio e negare che quello che avevamo fatto gli era piaciuto, gli era piaciuto da impazzire fino al punto di tornare di nuovo da me ad implorare che lo sporcassi ancora di quel peccato.

 

 

Ho sempre ottenuto le cose con la forza.

Nessuno mi aveva mai insegnato che con le persone è diverso.

Nessuno mi aveva mai detto che i sentimenti non sono semplici cose.

 

 

Sir, lei mi paga perchè sono un Turk. E questo non fa parte della mia mansione.”

 

 

Si mosse, cercando di non mostrarsi intimidito, per andare a raccogliere le sue cose sul pavimento. Era tornato formale, la sua voce non tremava più: quel desiderio che avevo scatenato in lui sembrava essere sparito, inghiottito e metabolizzato dalla sua mente logica che non concedeva niente all'improvvisazione, ormai già dimenticato. Non potevo permetterlo, non quando tutto era così perfetto: lui mi voleva, ne ero sicuro. Forse stava cercando soltanto di provocarmi, o di tirare la corda per vedere fino a che punto fossi disposto a confrontarmi con lui. Sapevo che mi venerava: nonostante tutti i miei dipendenti facciano a gara per insultarmi in maniera altisonante, illudendosi che io non lo venga a sapere – poveri stolti, ancora con le loro parole inutili che li fanno sentire meglio quando sono perfettamente consapevoli che io sono il presidente, e non solo perchè mi chiamo Shinra – lui non aveva mai osato mancarmi di rispetto. Il mio operato ai suoi occhi era sempre perfetto, logico e giustificabile.

 

Ci rispettavamo entrambi, ma di certo non sarebbe stato sufficiente questo per far sì che io mi sentissi in diritto di mettergli le mani addosso e soprattutto perchè lui godesse di questo.

Era buio, ma il piacere non ha bisogno di luce per essere riconosciuto.

E' al buio che si consumano le verità.

 

 

E quando te ne sei reso conto che non faceva parte della tua mansione?”

 

 

Avevo ancora la camicia slacciata, mentre gli andavo incontro e raccoglievo la cravatta al posto suo: la presi e gliela misi al collo, restituendogli quell'immagine di impiegato modello che tanto amava quando sapevamo entrambi che non sarebbe bastato rivestirci per cancellare quello che era successo e soprattutto quello che sarebbe potuto succedere. Che doveva succedere. Non puoi nasconderti per sempre dietro quella divisa, Tseng.

 

 

Perchè mi sembrava che non ti dispiacesse poi così tanto... Questo nuovo aspetto del tuo lavoro...”

 

 

Tirai la sua cravatta, prendendolo di sorpresa: non dovetti usare molta forza e la sua bocca era di nuovo accanto alla mia, il mio naso sfiorava il suo e l'aria che respiravamo cominciava già ad avere un sapore diverso.

 

 

Tseng, cos'è che non vuoi?”... gli sussurrai accarezzando appena le sue labbra con le mie e mi stupii sentendo il mio cuore animarsi tumultuoso: eppure non era paura quella che provavo. Si morse le labbra: voleva resistermi ed io cercai il suo sguardo, implorando dentro di me che non lo facesse. Alzai gli occhi alla ricerca dei suoi e di colpo vidi la paura d' essere fragile come chiunque altro e l'enorme consapevolezza d' essere dei miseri uomini che vagano per la terra incompleti alla ricerca di quel misterioso qualcosa che possa dare significato a una vita di violenza e bugie.

 

All'improvviso vidi me stesso, nei suoi occhi.

Fu in quel momento che capii cosa volevo davvero, ma fu troppo tardi.

 

 

Non voglio essere il tuo giocattolo, Rufus”

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