E.V.A. Project

di Ainely
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Qualcosa che non era previsto ***
Capitolo 2: *** Il primo Topolino Nero ***
Capitolo 3: *** Ricordi e incontri ***



Capitolo 1
*** Prologo - Qualcosa che non era previsto ***




Premessa: I personaggi descritti nella FF sono di nostra proprietà, frutto della nostra immaginazione quindi preghiamo di evitare plagi di alcun genere.
 

Ecco i co-autori! :D

Ylenia




Rirri



Andrea


Jasmin






EVA Project


- Prologo -
Qualcosa che non era previsto





KASSEL–Germania-
15 anni fa

 

Inverno, il solito rigido inverno tedesco. La città era coperta da un manto bianco di neve che la isolava dai rumori quotidiani, dal vociare e dai segreti. Segreti che erano ben radicati in quella città, su un’isola sul fiume Fulda, nei sotterranei della villa edificata nel 1953 per conto di ignoti, sicuramente facoltosi, i quali avevano fornito di generazione in generazione i macchinari più complessi e all’avanguardia per la creazione e la manipolazione dei geni.
Solamente poche persone conoscevano cosa si nascondeva al suo interno: complotti internazionali? Spionaggio? Ricerca biochimica? Nulla di tutto questo?
 
In ballo c’era il risultato più complesso della scienza moderna, con i folli sogni di riuscire a tenere il mondo in pugno attraverso entità capaci di governare i quattro elementi esistenti.
Eva, donna autoritaria, fredda, manipolatrice, bella e indicibilmente sadica nonché proprietaria della villa, stava per riuscire ad assistere al compiersi del loro primo tentativo dell’EVA project (Elementar vitro Antebios project). Erano riusciti a concentrare l’essenza del fuoco e condensarla in un individuo nato attraverso un complicato scambio di cellule staminali e di cellule create geneticamente in quello stesso laboratorio.
Il fuoco che nasce in una città coperta di neve. Che combinazione altisonante, che scelta macabra e sarcastica. Comunque il momento era arrivato: tutti nel laboratorio tedesco erano pronti per vedere il primo EVA aprire gli occhi.
La colonna di vetro era illuminata dai fasci di luce dei faretti, al suo interno, e lui era immerso in un liquido vischioso e dei cavi che monitoravano costantemente le sue attività primarie e le sue facoltà. Il corpo del primo EVA era perfetto sotto ogni punto di vista fisico, un bambino dalla pelle senza alcun segno, senza alcun neo, apparentemente addormentato, inquietante e non umano.
Era ormai tempo di procedere al risveglio. Alcuni cavi si staccarono dalle sue tempie, dal suo petto, numerosi scienziati si erano radunati lì attorno per assistere all’evento, che se fosse stato positivo li avrebbe visti entrare nella storia. Vi era un silenzio schiacciante, quasi religioso e superstizioso. In quel laboratorio non solo avevano rubato il segreto di Dio, ma ne avevano anche estratto i poteri.
Poteri che erano stati concentrati in un corpo non nato da umani, figlio di una diabolica scienza, volta a fini che potevano essere svariati e negativi, o distruttivi.
L’EVA aprì lentamente gli occhi rossi e li fissò dritto di fronte a sé. Pareva non vedere nulla, o meglio, pareva guardare tutto e niente. Successivamente mosse il capo, i lunghi capelli argentei fluttuarono nel denso liquido e passò in rassegna tutti i volti presenti nella stanza. Naturalmente vi era Eva, la finanziatrice non ché colei che voleva che si facesse tutto quello, accanto al capo della squadra di ricerca e sviluppo, il signor Masquer, un genio della biogenetica.
 
Non si scambiarono una parola da quanto era alta la tensione del momento. Sarebbe andato tutto per il verso giusto? Anni di duro lavoro e di numerosi tentativi, gli ultimi dieci anni di vita di suo padre, un ricco e famoso uomo di scienza, di biogenesi che prima di morire era riuscito finalmente a scoprire la formula per creare esseri non umani, ed eccolo lì quello era sopravvissuto: l’elemento più forte di una serie di patetici esperimenti e prototipi che lo avevano preceduto ma che erano finiti male per colpa di banali errori genetici.
 
Ma ora era vivo e intrappolato là dentro.
 
Ad un tratto cominciò ad agitarsi, il liquido di mantenimento gli stava colando lentamente nella gola e con una mano batté più volte contro il vetro, strappandosi di dosso i restanti cavi. La reazione degli scienziati fu davvero impressionante: dopo alcuni attimi di più totale smarrimento e di incredulità si riscossero esultando mentre provvedevano immediatamente a far defluire il fluido e aprire la colonna di vetro che aveva avuto la funzione di incubatrice per il loro EVA.
Bastò poco per liberare il bambino dalla sua “cella di vetro”, ma questi reagì non appena sentì su di sé le loro mani. Con un movimento veloce e improvviso appiccò fuoco ai primi che per l’appunto si trovavano al suo fianco, ad aggiungersi al marasma e all’improvvisa reazione del loro “prodotto” cominciò a suonare l’allarme antincendio.
 
Nessuno poteva aver previsto una cosa simile, nessuno nei loro piani e nei loro schemi scientifici aveva riscontrato qualche accidentale anomalia, o meglio nessuno pensava che fosse un essere ribelle, violento e autonomo. Forse troppo.
L’EVA si guardò attorno, con aria crudele, come una bestia selvaggia che era appena riuscita a evadere dalla gabbia dei bracconieri. Il ragazzino ed Eva si fissarono per un lungo istante, uno furente e indomabile, l’altra fredda e glaciale, quasi indignata e disgustata.
Durò solo una frazione di secondo quell’intenso contatto visivo e con un altro scatto l’EVA si precipitò verso la prima porta che trovò nel laboratorio, senza ragionare o ponderare altri fattori cominciò a correre lungo i labirintici e bui corridoi che sembravano riportare esattamente al punto di partenza.
 
Destra… altra porta, altre svolte… sinistra… buio, rumori di passi, voci umane, voci irate.
Ansante e furente si ritrovò di fronte ad una ripida rampa di scale e senza attendere oltre le scalò due scalini alla volta fino a trovarsi di fronte a una porta blindata, ovviamente chiusa. Ed ecco, la fatidica sirena d’allarme, insopportabile e acuta cominciò a riecheggiare per tutti i corridoi, tutte le sale insieme alla luce rossa pulsante, pulsante come il suo cuore giovane e forte e incontenibile come quello di un leone reso cieco dalla rabbia.
Ringhiò o emise un ansimo molto simile mentre faceva saltare in un’esplosione la porta blindata che gli impediva di sbucare nel primo piano della villa, e abbagliato dalla luce del giorno dovette difendersi dal riverbero incantato che produce la neve invernale, i suoi occhi da albino, appena schiusi erano fin troppo sensibili a tale luce ma in quel momento quello che doveva fare era uscire, impedire che lo raggiungessero e così con un altro scatto continuò a correre alla cieca sentendosi pian piano braccato da altri addetti alla sicurezza.
Si fermò e si voltò per sfidare quegli uomini ad avvicinarsi a lui, sapeva, benché non capisse come, di poter fare e rifare ciò che era successo nel laboratorio e poi davanti alla porta blindata, e questo, lo si leggeva nei loro sguardi titubanti, lo avevano sperimentato anche loro.
In quel preciso istante, in fondo al piccolo esercito di scienziati e di guardie, erano arrivati Eva e Masquer, affascinati da ciò che avevano dato vita. Un essere con un intelletto capace di comprendere la concezione dell’esistere. “Sa ma non come”, pensò fuggevolmente la donna. Sì, l’EVA capiva ciò che lo circondava ma non conosceva il perché o in che modo, come se fosse stato creato già con delle informazioni base che gli permettessero di conoscere già che cosa viveva.
 
Ghignò, un ghigno di sfida ovviamente, ma fissò solo lei. Sua… madre?
E fuggì ancora, lanciandosi contro i vetri di una finestra, finendo sul soffice manto nevoso. Freddo. Ghiacciato. Soffriva. Soffriva terribilmente sapendo e non sapendo perché.
Cercò di riprendersi in fretta da quella sensazione dolorosa e debilitante e riprese a correre, affondando sempre di più nella neve, avanzando di metro in metro verso il piccolo porticciolo, correndo attraverso al breve ma particolare viale costeggiato da vecchi alberi secolari importati, ovviamente spogli, addormentati, neri. Alla fine sentì praticamente dietro di sé le loro voci, i loro passi e la fredda neve, che gli è naturalmente nemica, lo fermò, facendolo rovinare a terra con un rumore quasi malinconico, ovattato.
 
Per lui poi vi furono il freddo, le loro mani e per qualche altro istante le labbra rosse ripiegate in un sorriso di Eva, poi il buio.

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Capitolo 2
*** Il primo Topolino Nero ***




- Capitolo uno -
Il primo "Topolino nero"

 

 





Perché? Perché non era stata prevista una reazione simile? Non sarebbe dovuto succedere, ora doveva rivedere daccapo ogni cosa, doveva provvedere affinché quel ragazzino fosse controllato costantemente. Il fuoco. Il loro primo elemento. Sì, forse lo avevano sopravvalutato mentre discutevano sulle varie procedure da adottare per il risveglio dell’EVA.
Che ironia, il padre aveva scelto davvero un acronimo uguale al suo nome, Eva, con la differenza che l’EVA Project vedeva come obiettivo la creazione di esseri perfetti, semidéi capaci di disseminare panico, terrore, ma anche fede negli antichi culti pagani, nelle forze della natura.
Forze che solamente il pianeta poteva conoscere e scatenare unite al segreto della vita di Dio.
Ecco che cosa voleva creare suo padre, voleva con ogni ambizione possibile e immaginabile creare la forza della Vita. Chi mai al mondo ha desiderato di poter controllare le forze del mare? Dell’aria? Della terra o del fuoco? Chiunque! Chi non si prostrerebbe ai piedi di déi incarnati? Suoi figli! Ah, ma non poteva certo prendere delle donne e degli uomini qualsiasi! Indegni per dare alla luce la sua progenie perfetta!
 
E così, lei, Eva, era cresciuta in mezzo a questi folli esperimenti, in mezzo a formule, laboratori, prototipi e a suo modo aveva imparato ad amare questo folle e inquietante progetto tanto quanto il padre. Voleva realizzare quegl’esseri, doveva farlo.
Ottenere tali creature significava tenere tra le mani il destino del mondo! Ma quanto tempo era passato dalla morte del padre? Cinque? Sei anni? E a vent’anni era riuscita a vedere i primi risultati. Era felice, certo, ma una felicità tutta sua, molto particolare, una felicità glaciale, come il suo cuore. Non era una donna capace di sentimenti travolgenti o passionali, ma era strenuamente ancorata alle sue scelte, determinata a raggiungere ogni tipo di obiettivo si prefissava. Di certo era stata anche colpa o merito della sua vita passata interamente in mezzo a posti come quelli: freddi e distaccati laboratori scientifici e forse lei stessa si era proibita di vivere emozioni che non rientrassero in quell’ambito, in quel progetto.
 
La sua infanzia era stata pressoché invisibile, da quando ha memoria ha sempre visto il padre immerso in quelle formule, in viaggi che prevedevano la raccolta di geni, di dettagli, di informazioni su quei quattro elementi, su caratteristiche fisiche delle diverse etnie e per lei, passare il tempo col padre, era uno dei massimi piaceri a cui poteva aspirare. La madre era morta quando lei era ancora molto piccola ma non avendola mai conosciuta per lei la sua esistenza fu sempre indifferente, ciò che le interessava, ciò da cui era veramente affascinata era dal modo in cui il padre le spiegava ciò che voleva realizzare, ciò che desiderava tanto farle vedere e poi donarle, in modo che mai nessuno si sarebbe scordato di lui e della sua famiglia, in modo che nessuno si sarebbe mai dimenticato che cosa c’era dietro gli EVA.
Era pazza? Forse, perché no? Sempre meglio che essere normale! Diceva sempre suo padre, ma no, non era per niente pazza. Sapeva fin troppo bene quello che faceva e nel suo animo freddo e calcolatore sapeva anche che cosa voleva raggiungere.
 
Dunque, una volta riportato all’interno della villa il ragazzino fuggito, si era chiusa nel proprio ufficio, insieme a Masquer e voleva discutere su ogni particolare e su ogni avvenimento a cui avevano assistito nel laboratorio sotterraneo solamente qualche ora prima.
Era impressionata dalla portata dei suoi poteri e dal suo modo di ragionare in piena autonomia. Senz’altro avevano fatto enormi progressi dall’ultimo ammasso di carne pulsante che quel laboratorio aveva partorito quattro anni prima. Quel ragazzo era vivo, sano e forte, molto forte e racchiudeva in sé l’essenza del fuoco. Indomabile, pensò, proprio come il suo elemento.
 
 

  • Stai dicendo che questo suo comportamento potrà verificarsi ancora?- chiese con voce moderata e autoritaria mentre incrociava al petto le mani, dopo essersi ravvivata i capelli corvini tagliati a caschetto –Non vorrei che mi distruggesse i macchinari, sai quanto sia difficile procurarseli senza passare sotto il naso del Governo. Ma continua, dicevi del fuoco, ha appiccato fuoco a quattro dei tuoi uomini senza il minimo bisogno di un agente combustibile. Questo per me non è una tragedia, ma un risultato, era quello che ci aspettavamo di vedere e a parer mio è solo l’inizio. Lo hai visto come mi ha osservata. Sapeva. Capiva. Voglio conoscere di più sulle sue potenzialità ora che non è più nella colonna vegetativa.-

 
 
L’uomo sospirò per poi mettersi le mani nelle tasche del camice. E dopo qualche secondo di riflessione sulla risposta da darle prese fiato e disse:
 
 

  • Sì, dico che lo rifarà tutte le volte che gli si presenterà l’occasione. Occorrerà trovare un modo per contenerlo, per plasmare la sua abilità e per tenerlo sotto il nostro controllo. Credo che sarà necessario usufruire delle pietre create da suo padre, Eva. Solo lui e Dio sanno con che materiale sono state fatte. Al limite della stregoneria, dell’alchimia… - sospirò ancora aggiustandosi gli occhiali sul naso – Per quanto riguarda i miei uomini… Be’, non sono gravi, ma ovviamente lo scompiglio e lo stupore sono stati molti. Sinceramente sono affascinato a mia volta sul voler capire come possa governare la sua capacità, il suo elemento, è per questo che le ripeto di darmi quelle pietre, dopodiché farò ogni prova e ogni esame vorrà, Eva. L’Antebios avrà uno sviluppo celebrale diverso dal nostro, naturalmente, e vedere come si è formato il suo sistema nervoso sarà una svolta per proseguire col progetto.-
     

 
Eva fece improvvisamente cenno di tacere, e Masquer, un po’ spazientito e stizzito, tacque.
 
 

  • Voglio dargli un nome. – sorrise in modo quasi macabro e sinistro mentre piegava le labbra tinte di rosso e fissava i suoi profondi occhi verdi in quelli dell’uomo – Sencha. Ti piace? Non ha un significato particolare. Ma è un nome… rude. Come il suo sguardo vermiglio. Il mio primo figlio, un albino con gli occhi color del fuoco.- continuò a sorridere avvicinandosi poi allo scienziato senza mai smettere di osservarlo – Ti darò le pietre, ma sarò io ad approvare ogni cosa deciderai di fare. E con questo, ora devo andare a provvedere per altri dettagli. Avrò molto da fare d’ora in poi, l’EVA Project è appena iniziato sul serio.

 
 
Masquer non poté far altro che scansarsi e veder uscire la donna dallo studio. Sì, ciò che aveva detto non era falso, il progetto aveva appena cominciato ad ottenere i primi strabilianti risultati e di lì in poi sarebbe stato tutto diverso. Avevano trovato la formula genetica giusta e potevano procedere con la creazione degli altri tre elementi mancanti, tuttavia si diresse nella sala in cui era stato portato l’EVA, o meglio Sencha.
Voleva accertarsi delle sue condizioni, aggiornare il fascicolo e riempire i moduli dei rapporti medici e chimici e mentre camminava lungo gli stessi interminabili corridoi ripensò a quando il padre di Eva, il dottor Malaspina, lo aveva rintracciato circa sette anni prima. A quei tempi era appena stato espulso dalla cattedra di scienze e biogenetica dell’università della città dove era sempre vissuto e gli si presentò come una sorta di santo benefattore. Gli aveva detto che lui credeva nei suoi progetti, nelle sue tesi, nei suoi calcoli in cui nessuno aveva mai creduto oppure appoggiato e che gli avrebbe dato tutto ciò che necessitava per riuscire a dimostrarglielo, aiutandolo nella realizzazione del suo “piccolo e modesto” progetto, così aveva detto! Non poteva certo immaginare all’epoca che ciò a cui avrebbe iniziato a lavorare avrebbe potuto cambiare l’intera storia dei geni! Come se rivivesse il successo di Mendel, il suo mito durante gli studi, entrando nella storia della genetica.
Sospirando e sorridendo si ritrovò infine davanti all’entrata della sala che stava cercando. La varcò pochi attimi dopo, vedendo il ragazzino disteso e coperto solamente da un semplice e classico pigiama ospedaliero. Gli si avvicinò tranquillo e sereno, sapeva che non poteva fargli niente –o per lo meno ci sperava- dal momento che era stato debitamente sedato affinché non creasse nuovamente lo stesso scompiglio di prima, e come ogni buon medico o scienziato che sia si preoccupò di fargli i primi esami semplici e tuttavia importanti: gli misurò la pressione, guardò la reazione delle pupille, esaminò la bocca, i riflessi del ginocchio, il battito cardiaco e infine la temperatura corporea.
Non si stupì più di tanto quando vide che era più alta del normale, quasi 38°C, come biasimarlo se lui era il Fuoco? Sorrise tra sé e sé con fare sarcastico e ironico seguendo con lo sguardo gli occhi rossi del bambino che all’incirca avrebbe dovuto dimostrare sei anni o poco più. Era sveglio, naturalmente ma non poteva reagire in alcun modo benché capisse ciò che gli succedeva attorno.
Aveva paura? Temeva per quello che gli stava facendo? Come poteva saperlo Masquer, ma continuava a chiederselo e trovandosi con un bambino gli venne spontaneo rassicurarlo dicendogli:
 

  • Non preoccuparti, non ti farò niente di strano o di pericoloso. Visto? Non ti ho fatto male, vero Sencha?- sorrise, accarezzandogli il capo e scostandogli dalla fronte una ciocca di capelli bianchi. – Presto non avrai più bisogno di essere tenuto qui, potrai uscire e se farai il bravo Eva ti porterà con sé. Ma non dovranno ripetersi altri episodi come quelli che hanno accompagnato il tuo risveglio.- finì con voce cupa e meditabonda mentre finiva di prendere appunti sulla cartella che aveva portato con sé.

 
Sencha non disse nulla, non reagì, si limitò a fissarlo in modo spento ma comunque minaccioso, come se stesse continuando a covare e a tramare per poterli uccidere e fuggire. Sì, un bambino degno di Eva, si disse lui mentre girava sui tacchi e usciva nuovamente nel corridoio, più sollevato di non dover più sostenere quello sguardo… così inumano.
 
 
Passarono tre giorni quando Eva decise di lasciarlo uscire dalla stanza di isolamento e lo fece chiamare a sé per parlargli in maniera franca e diretta.
Era pomeriggio e fuori la neve continuava a coprire l’intero paesaggio lasciando filtrare dalle ampie finestra la tipica luce ghiacciata che il sole produce quando è in procinto di tramontare rendendo surreale tutto ciò che colpisce col suo fascio.
 
Nella stanza vi erano solo Eva, Masquer e Sencha, questa volta vestito e lavato, come un bambino qualsiasi ma dall’espressione dura e ribelle.
 

  • Vedo che ti sei calmato, eccellente, Sencha e vedo anche che i risultati dei test che sono stati fatti negli ultimi tre giorni sono tutti positivi. E ora… provvederò subito a darti un… dono. – sorrise facendogli cenno di avvicinarsi mentre Masquer apriva una valigetta in alluminio rivelando quattro pietre fatte di diversi materiali e immediatamente gli occhi del ragazzino furono irrimediabilmente rapiti da quei quattro colori, ma la loro visione durò solamente per una frazione di secondo e la valigetta si richiuse quasi istantaneamente facendo scattare la complicata serratura con la combinazione. – Sì, sono bellissime e tu ne avrai una. Avrai la pietra del Fuoco, che ti permetterà di controllare i tuoi poteri per riuscire a vivere in mezzo alle persone comuni senza troppi problemi e sarà anche una sorta di segno di distinzione. Prendila e mettila al collo e non perderla o non toglierla mai.-

 

  • Vivere tra le persone comuni?- chiese Sencha prendendo dalle sue mani la pietra osservandola affascinato e rapito, come se fosse qualcosa di suo. Era rossa, ma non un rubino, bensì sembrava essere una sorta di pietra magmatica anche viva, magma racchiuso dentro un guscio pietrificato.

 

  • Sì, lo farai fino a quando non ti chiamerò, fino a quando non avrai un da svolgere un compito molto importante. – Eva continuò a sorridere, posando il mento sulle mani giunte e i gomiti puntati sul bordo della sua scrivania – Fino ad allora vivi come vuoi, fai quello che vuoi, ma confonditi tra loro, impara a padroneggiare ciò che sei e attendi. Non vorrai mica restare qui dentro come un piccolo topolino nero, vero?-

 
 
 
Presente.
 
 
 
Il telefono cominciò a squillare ad un’ora indecente, le 9.00 del mattino. Con un brontolio irritato una mano sbucò fuori dalle lenzuola afferrando il cordless al quarto o quinto squillo.
 
 

  • E’ tempo che tu svolga un lavoro, Sencha. – la voce fredda non era cambiata per niente, nemmeno nel corso di quei quindici anni e naturalmente la riconobbe subito, mettendosi a sedere praticamente sveglio.

 

  • Che cosa devo fare? O meglio, spero che sia una cosa davvero importate se mi hai chiamato ora, che stavo dormendo, io.- la voce di un giovane uomo arrogante e pieno di sé, dalla vita scapestrata, dedito a fare più cagnara che a restare in “incognito” come gli era stato detto di fare. Tuttavia non aveva la benché minima importanza, sapeva che se non voleva ritornare laggiù doveva quanto meno portare a termine ciò che gli avrebbe detto di fare.

 
 
Calò il silenzio per qualche istante. La donna doveva aver sorriso nel frattempo alla sfacciataggine di Sencha e poi proseguì:
 
 

  • Entro domani ti arriverà un pacco. Aprilo solamente quando sai di essere solo. Immagino che se ti dico che devi cominciare a trovare un altro, un altro come te, tu sappia già che cosa sia il contenuto.-

 
 
Sencha non seppe che cosa replicare. Un altro?
Significava che in giro, magari proprio a Shinjuku, dove viveva, c’era qualcun altro che aveva capacità come le sue?
La telefonata si interruppe all’improvviso ma lui continuò a restare con il cordless all’orecchio fino a quando un sorriso tra il sadico e l’ilare non sbocciò sul suo volto.



 



EXTRA≈



Nome: Eva Malaspina
Età: 35 (nel presente)
Data di nascita: 13 febbraio
Gruppo sanguigno: A+
Altezza: 1.70 m
Peso: 58 kg
Carattere: fredda, manipolatrice, determinata, bella e letale sotto un certo punto di vista. Ha ereditato senza alcun dubbio la mentalità paterna del voler sempre avere di più, cercare di ambire sempre a qualcosa di meglio o di superiore.
All'età di venti anni ha assistito alla "nascita" per primo EVA (Elementar Vitro Antebios) sentendosi così nuovamente motivata a continuare il complesso porgetto realizzato dal padre, mancato qualche anno prima di quello strabiliante risultato.
Non si conosce molto sulle sue origini, su sua madre o dove sia nata.
Nei suoi obiettivi c'è quello di far entrare nella storia il nome della sua famiglia e anche quello di poter controllare un potere più vasto di quello scientifico o economico, ovvero quello di poter riunire sotto di sé tutte le più grandi potenze mondiali dando vita a un nuovo stato-religione, per l'appunto "Eva".

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Capitolo 3
*** Ricordi e incontri ***



 

- Capitolo due -
Ricordi e incontri

 




SHINJUKU - Giappone

Presente


 
- Mamma, papà? Che sta succedendo? – Il bambino si sentiva sperduto e neanche i volti dei suoi genitori, che più che volti sembravano ombre pulsanti, indefinite e scure, come pulsante era la luce che rischiarava la stanza, riuscivano a confortarlo. Fuori pioveva. Ogni volta che sbatteva le palpebre poteva cogliere una lacrima di pioggia bagnar il terreno. Era primavera..Forse no… Autunno. La donna e l’uomo che lo affiancavano, i suoi unici parenti in vita, da quanto sapesse, continuavano a tenerselo vicino: quasi spaventati dal fatto che quel bel bambino di neanche cinque anni potesse essergli portato via.
 
Il ragazzino sorrise forzatamente ad entrambi,cercando di rassicurarli, nonostante il fatto che quello più intimorito ,lì, fosse sicuramente lui. La testolina si voltò prima a destra, poi a sinistra, finché una luce non attirò l’attenzione del bambino. Avevano continuato ad addentrarsi all’interno di quella che non poteva altro che essere un castello, come minimo una villa, ed erano arrivati ad un immensa scalinata. La luce proveniva da lì… C’era una porta…
I due lo lasciarono andare, poi con fare incoraggiante lo spinsero verso quei gradini che sembravano non finire più. Fece un paio d’incerti passi, si voltò a guardarli e poi riprese a camminare.
 
-Uno,due,uno,due- Contava ogni suo passo e ,essendo i gradini molto alti, alle volte s’aiutava con le mani per tirarsi su. Il cuore gli batteva forte, quasi potesse prender il volo. Non si era mai sentito così. Paura. Paura. Quel posto lo terrorizzava. Eppure continuava a procedere. Lentamente,inevitabilmente,dolcemente si ritrovò davanti a quella che non sembrava più una porta,ma solo una grande lampada, una lampada che emanava una luce calda e confortevole, da cui fu inghiottito un istante dopo.
 
La luce era calda. Così rilassante. E lo avvolgeva tutto. Quando improvvisamente un incessante ‘bip bip’ iniziò a sfondargli i timpani e ,di scatto, venne ridestato dal sonno. Spalancò gli occhi che bruciarono alla vista del sole, costringendolo a lanciare un gemito di risentimento mentre iniziava a guardarsi intorno. 
 
-Ma che diavolo?!- era nella sua stanza. Era tutto come al solito: le pareti che un tempo avevano ospitato carta da parati ,forse azzurra, erano spoglie e malandate, piene di piccole crepe che spesso aveva avuto paura di toccare (mai sfidar la sorte: non voleva ritrovarsi senza una parete e dover ripagare i danni). Il pavimento in parquet era liscio e ben levigato, sulla scrivania regnava il solito caos dovuto ad un intensa nottata di studio. Non c’era un computer. I soldi, quelli che guadagnava da solo, gli servivano per far le faccende. Per il cibo gli arrivavano ogni mese mille yen, alle volte meno, da provenienze piuttosto incerte.. Alle volte il pacchetto contenete il denaro era firmato con “dalla banca”. 
 
Dopo aver finito il minuzioso controllo dei suoi pochi averi, scese dal letto, lasciando così com’erano le coperte. Scrollò più volte il capo, passandosi una mano fra i corti capelli neri,dal taglio arruffato, cercando di scacciar via l’ennesimo incubo. Detestava fare quegli inquietanti sogni. Quei sogni così reali, così palpabili nella sua testa. La cosa che lo preoccupava maggiormente era che i particolari non cambiavano mai. Le immagini, le sue sensazioni: si ripetevano ogni volta che gli si ripresentava lo stesso sogno, come una pellicola che continuava a essere trasmessa . .  Una noiosa ed alquanto scialba telenovela spagnola.
Sospirò e si diresse in bagno, tirando su la serranda, facendo filtrare il quantitativo di luce necessaria per permettersi di specchiarsi all’interno dello specchio. Guardò prima la corporatura esile, magra, niente da ridire essendo anche piuttosto basso nonostante i sedici anni. Poi passò al volto: dai lineamenti dolci e delicati, le labbra carnose e rosate, il naso alla francese e gli occhi grandi, nonostante fosse per metà giapponese, e celesti. Un celeste particolare.. Così chiaro da sembrare bianco, alle volte. Si passò un dito sulle occhiaie viola che stonavano con il suo bell’aspetto. Sono ridotto male, pensò, prima che il secondo richiamo della sveglia lo facesse rinsavire. 
 
In pochi minuti fu fuori casa, una fetta di pane tostato in bocca; quasi gli cadde in terra mentre saliva sulla sua bicicletta (più che altro il rottame di una bicicletta). Indossava la divisa della scuola superiore che frequentava, primo anno, nessuna particolarità intellettuali od atletiche,anzi, era sempre stato considerato goffo da ogni suo insegnante. Sempre che stessero parlando di lui.
 
Mangiò cercando di non soffocarsi con il cibo, pedalando il più veloce possibile. Saranno state si e no le sei e mezza. La città dormiva e probabilmente il trambusto che aveva sentito sotto casa sua poco prima era uno dei camion che veniva a scaricare la merce per i negozi della via.  Poteva pedalare in pace per strada, lasciando che il vento gli scompigliasse i capelli e gli rinfrescasse il volto. Ah.. Che dolce sensazione esser baciato e sfiorato così da quelle folate. Tiepide, fredde o calde che fossero. A lui bastava sentirsi immerso in quel continuo movimento, per provare quel sentimento che comunemente era chiamato felicità. Quelle attenzioni che lui definiva dolci lo facevano sentire coccolato.. Coccolato come nessuno aveva mai fatto.
 
Già. Abbassò lo sguardo, si fermò ad una tabaccheria, scese velocemente da sella e dopo essere entrato uscì con un mucchio di fogli di giornali arrotolati. Riprese il possesso della sua bicicletta ed iniziò il primo giro-lavoro della giornata per il quartiere. Di nuovo i suoi pensieri si riversarono sulle cortesie del vento, e su quanto lui fosse stato gentile nei suoi confronti. Non aveva mai avuto una famiglia… Tutti i suoi ricordi erano racchiusi in quei sogni.. Squarci di parole o discorsi. Come quando suo padre, in seguito ad una notte passata insonne a causa di un incubo, gli aveva spiegato cosa fosse la paura.
 
-Vedi piccolo- Iniziò suo padre mettendoselo sulle ginocchia. –Quando una persona ha paura, quando ha veramente paura, sente il cuore battergli all’impazzata. Una persona spaventata non riesce a pensare e reagisce e si comporta d’impulso, seguendo il suo istinto primordiale, che è quello di mettersi in salvo. Ecco, tesoro, tu non devi mai farti vincere dalla paura. – Il bambino lo guardava attentamente, pendeva dalle sue labbra e ingurgitava ogni sua singola parola –Perché se qualcuno è in pericolo e tu sei spaventato per lui, non puoi lasciarti sopraffare dal terrore. Devi lottare. Devi lottare per te e chiunque altro ha paura. Tu ce la puoi fare,vero? – E lui aveva sorriso. Uno dei suoi ultimi sorrisi, probabilmente.
 
Passò più di un ora e mezza prima che finisse l’intero quartiere e iniziasse a dirigersi verso scuola. Scuola. Che posto inutile ed insignificante, almeno per lui. Si sarebbe potuto istruire meglio e più volentieri in una biblioteca pubblica. All’inizio di quello stesso anno gli era arrivata una lettera in cui veniva gentilmente informato del fatto che , non si sapeva bene chi, gli aveva pagato gli studi e iscritto ad una delle scuole più prestigiose del dipartimento, al patto che mantenesse i voti su una buona media. Detto fatto era stato catapultato in quel posto che più di altro, gli sembrava una prigione.
 
Il cancello fatto di possenti sbarre di metallo, la recinzione di alti muri bianchi, probabilmente cemento tinto. Entrò con espressione neutra, le mani in tasca e la cartella a penzoloni, sistemata unicamente sulla spalla destra. C’era qualche albero, ma il paesaggio era costituito principalmente dai ragazzi di tutte le età che giocavano o semplicemente chiacchieravano. Si diresse senza alcun problema fra la massa degli studenti ammassati senza il minimo sforzo. Si muoveva invisibile e silenzioso quanto un fantasma. Varcò il grande portone ed entrò in uno degli altrettanti corridoi della struttura. Bianco,Grigio,Nero,Grigio , un altro po’ di nero e poi.. Ah si, altro bianco.  Salì al terzo piano e si sistemò nella sua aula, ancora vuota, occupando l’ultimo banco vicino alla finestra da cui avrebbe guardato l’esterno per sei interminabili ore.
 
 
Al suono dell’ultima campana la classe si svuotò velocemente: gente che saltava entusiasta del fatto che la tortura di quella giornata fosse finita. Lui aspettò che tutti se ne andassero, poi si mise in piedi e,dopo aver tirato giù le serrande dell’intera aula si diresse verso l’uscita. Camminava tranquillamente per i corridoi, ancora la cartella che quasi toccava in terra, lo sguardo intenso a catturare tutti i particolari interessanti del luogo, benché ne avesse pochi. Salì sulla bicicletta, poi scese e la legò nuovamente all’albero a cui l’aveva adagiata durante l’intera giornata. –Non mi va di tornare a casa in bici…-  Si disse stringendosi nelle spalle. Non aveva nessun impegno lavorativo in serata… Quindi perché non farsi una bella passeggiata?
 
In men che non si dica fu fuori da quell’ammasso di mattoni e cemento, per le vie secondarie della città, che ormai conosceva come il palmo della sua mano. Fin da bambino s’era divertito ad esplorare il territorio che lo  circondava, e uno dei suoi primi ricordi senzienti era quello di un vicolo buio e stretto: anche se aveva sempre preferito i posti all’aria aperta. Svoltò un angolo, poi un altro, andò diritto, destra ,sinistra, un'altra volta destra. Ed infine si fermò.
 
Non si fermò perché era giunto alla sua meta, anzi, mancavano ancora parecchi isolati prima di casa sua. Si bloccò quando un uomo dai lunghi capelli bianchi gli si parò davanti sorridendo con fare divertito ed aria superiore. Il ragazzo serrò i pugni ed abbassò lo sguardo prima di cercare di superarlo.
 
Niente da fare, se lo ritrovò di nuovo davanti.
 
Si mosse di nuovo, e come uno specchio l’altro ripeté i suoi gesti.
Il bambino, se così si poteva definire, alzò gli occhi bianchi in cerca di quelli dell’altro: rossi come il sangue.

-Mi scusi- Disse con tono più cortese possibile mentre un silenzioso venticello si alzava alle spalle di entrambi. – vorrei passare.-
Il sorriso dell’albino si fece ancora più intenso mentre chiudeva gli occhi ed inspirava a pieni polmoni l’aria che li investiva, facendosi sempre più forte. Ebbe una sorta di spasmo alle dita che,notò l’altro, erano coperte da guanti termici. –Oh, guarda un po’, finalmente ho trovato un topolino nero… -
 
Spazientito lo spinse cercando di liberarsi della sua presenza alquanto inquietante. –Devo tornare a casa, mi lasci andare, ho da fare! – L’albino lo fermò prendendolo saldamente per le spalle.
 
-Come ti chiami,topolino?- Sussurrò l’altro mentre l’attenzione dell’adolescente venne catturata da una pietra rossa … Fuoco vivo. Voleva toccarla. Ignorandolo avvicinò le dita ad essa. Stava per afferrarla quando ,lasciando lui, l’altro la nascose sotto la sua maglietta. –Ah,ah, topolino! Non si tocca!- Addolcì per un secondo lo sguardo –Se vuoi ne ho un'altra… - . Detto fatto, tirò un'altra pietra, di un colore altrettanto intenso. Era viola, un viola così acceso e vivo che sembrava quasi che il colore all’interno del suo involucro duro e morto si potesse muovere.
 
Gli occhi del ragazzino vennero attratti come da una calamita verso quella pietra che, con movenze secche e svelte, l’altro gli mise in mano. La trovò calda, invitante, e si sentì al sicuro, sicuro come quando era colpito dal vento. Al tatto era liscia e levigata.. Poi, una folata d’aria gelida lo riportò alla realtà.
 
-Non la voglio!- Disse porgendo il palmo aperto della mancina ,dove era tutt’ora lo strano oggetto, all’uomo che storse le labbra irritato.
 
-Te la stai mangiando con gli occhi…- Mormorò con fare irritato inchinandosi verso l’altro, scrutandolo con fare maligno e sospettoso. –Inoltre non posso permetterti di gettarla via … Su quella pietra gira la mia esistenza – Socchiuse gli occhi. – E ci gira anche la tua, bel topolino dai capelli neri. Quindi, converrebbe che tu te la tenessi da conto..- Afferrò il polso che l’altro gli aveva offerto con fare sgarbato, chiudendogli le dita sulla pietra perché la tenesse stretta. Tanto stretta da farsi male. Il volto del ragazzo dai dolci lineamenti si distorse dal dolore, il vento si fece più intenso, più violento. Il fuoco, Sencha, scoppiò a ridere divertito lasciandolo andare. – Ah, ti amo!- urlò contro all’altro che s’era piegato su sé stesso, massaggiandosi la mano infortunata.
 
-Così piccolo, così adorabile, così grazioso e così potente… - Si tolse un guanto per passarsi la mano bollente vicino al volto. Più l’intensità del vento cresceva più l’altro si surriscaldava. –Dimmi come ti chiami.- Sorrise. 
 
- Devo andare.- Disse il topolino, un altro topolino da laboratorio, proprio come Sencha… Solo più piccolo, più indifeso, e più inesperto. Si stabilizzò velocemente, sistemando le mani in tasca, ignorando gli atteggiamenti sospetti dell’albino, superandolo velocemente. Nel muoversi al suo fianco venne sfiorato dalla mano libera dai guanti e.. Ne rimase esterrefatto. Camminò in avanti alibito, incredulo e sorpreso e ,dopo qualche metro si voltò per guardarlo. Continuava ad osservarlo divertito. Come si guarda un programma televisivo. E allora gli disse: -Rise.- e corse via.

 
-Rise… Che grazioso animaletto che ho appena trovato- Sencha chiuse gli occhi e ,senza la minima fretta, iniziò a seguirlo sotto il caldo sole delle due del pomeriggio.



EXTRA≈


 
Nome: Sencha Blackspell
 Età: 21 anni
 Data di nascita: 6 marzo
 Gruppo sanguigno: 0-
 Altezza: 1.82 m
 Peso: 71 kg
 Potere: Fuoco
 Carattere: Dal carattere ribelle e strafottente, in realtà è un tipo che tende a tenere molti segreti e a nascondere, oltre la sua vera natura, anche la sua personalità.
Controlla il fuoco e ciò lo rende una testa calda incontrollabile. Detesta irrimediabilmente la pioggia.
Indossa perennemente dei guanti termoisolanti perché non riesce a controllare appieno le sue capacità. È stato il primo ad essere creato.




















 Nome: Rise Loney
 Età: 16 anni
 Data di nascita: 4 aprile
 Gruppo sanguigno: 0 +
 Altezza: 1.69 m Peso: 60 kg
 Potere: Aria
 Carattere: Apparentemente freddo ed impassibile, un involucro, non un corpo con vita propria, per questo non ha alcun tipo di relazione all’interno della scuola che frequenta come non ne ha fuori. In realtà basta guadagnarsi la sua fiducia perché lui si mostri per ciò che è veramente: un ragazzino ingenuo, dolce e innocente, non essendo mai venuto in contatto ,per un motivo o per un altro, con la realtà. E’ Timido, sebbene non sappia cosa vuol dire veramente questa parola, ed introverso. Adora leggere e esplorare nuovi posti. Controlla il potere dell’aria sebbene prima dell’arrivo di Sencha non ne fosse a conoscenza.
Ha avuto sempre un forte attacco con i genitori, unici suoi parenti, misteriosamente scomparsi al compimento dei suoi quattro anni. Ricorda con molto affetto soprattutto il padre, che l’aveva sempre trattato come un tesoro.

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