Nontiscordardimé di y3llowsoul (/viewuser.php?uid=89246)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'inizio della fine ***
Capitolo 2: *** Servizio al telefono ***
Capitolo 3: *** La speranza dei disperati ***
Capitolo 4: *** Il panico dei disperati ***
Capitolo 5: *** No. ***
Capitolo 6: *** Time to Say Goodbye ***
Capitolo 7: *** Polvere ***
Capitolo 8: *** La vita continua ***
Capitolo 9: *** Rinascita ***
Capitolo 10: *** Al bivio ***
Capitolo 11: *** C'era una volta... ***
Capitolo 12: *** Magic of Home ***
Capitolo 13: *** Amici estranei ***
Capitolo 14: *** Merce fragile ***
Capitolo 15: *** Cogito, ergo sum - ma che cosa? ***
Capitolo 16: *** Pronto soccorso ***
Capitolo 17: *** A casa da soli ***
Capitolo 18: *** Il silenzio è d'argento ***
Capitolo 19: *** Ambivalenza ***
Capitolo 20: *** A casa insieme ***
Capitolo 21: *** Solo cammini separati riuniscono ***
Capitolo 22: *** Osservazioni ***
Capitolo 23: *** Bentornato ***
Capitolo 24: *** Déjà vu ***
Capitolo 25: *** Déjà vu ***
Capitolo 26: *** Prime conoscenze ***
Capitolo 27: *** Giochi mentali ***
Capitolo 28: *** Speranza ***
Capitolo 29: *** Risultati ***
Capitolo 30: *** Dubbi e certezze ***
Capitolo 31: *** Senza speranza ***
Capitolo 32: *** Senza scelta ***
Capitolo 33: *** Punti deboli ***
Capitolo 34: *** Uomini e macchine ***
Capitolo 35: *** Battaglie della vita ***
Capitolo 36: *** Errare humanum est ***
Capitolo 37: *** La volontà per sperare ***
Capitolo 38: *** Costrizione e libertà ***
Capitolo 39: *** Battaglie esistenziali ***
Capitolo 1 *** L'inizio della fine ***
nonti1
Disclaimer:
Numb3rs e i suoi personaggi non appartengono a me. Purtroppo. E
neanche i pezzi di canzoni che introducono ciascun capitolo.
Timeline:
circa fra la seconda e la terza stagione [se vi interessa: la storia
comincia il 4 ottobre 2006]
Grazie
a Alchimista!
Perché senza di te non sarei riuscita a scrivere una storia
che un
italiano normale potrebbe capire :)
Nontiscordardimé
1.
L’inizio della fine
Wherever
you go, whatever you do,
I will be right here waiting for
you.
Whatever it takes or how my heart breaks,
I will be right
here waiting for you.
(Richard Marx, Right Here
Waiting)
Lo
sguardo di Don cercò l’orologio appeso al muro
– e non era la
prima volta quella sera – prima di voltarsi quasi
automaticamente
verso il cellulare sul tavolino del soggiorno, posto accanto al
telefono di casa. Erano le nove di sera – no, le nove e
quattro
– e per la prima volta dopo tanto tempo aveva finito di
lavorare
presto. Tuttavia, non aveva avuto voglia di andare in un bar con i
colleghi. Era stanco ed esausto; quella settimana l’ufficio
aveva
chiesto pesantemente il suo contributo e i suoi pensieri tesi non lo
avevano per niente aiutato.
Aveva guardato prima una partita in tv
e poi un vecchio film. Ma non era stato attento: del film non aveva
ascoltato una battuta, della partita non sapeva nemmeno il
risultato.
Di nuovo il suo sguardo scivolò sull’orologio. La
lancetta dei secondi aveva compiuto un po’ più di
mezzo giro da
quando aveva guardato l’ultima volta, ma il telefono era
rimasto in
silenzio. Don pensò di riaccendere la tv per riempire
l’attesa, ma
non sarebbe potuto passare più di qualche secondo che il
telefono
avrebbe nuovamente squillato.
Sarebbe
potuto andare da Charlie, ma comunque suo padre non era a casa. Dove
era andato poi? A giocare a golf? No, era già tardi in fin
dei
conti… Al suo incontro settimanale con i senza tetto? No,
quello lo
faceva giovedì, oggi era mercoledì…
che… Esatto, ecco che stava
facendo! Era uscito con Millie!
Un
altro sguardo verso l’orologio. Le nove, sette minuti e tre
secondi.
Avrebbe potuto passare una bella serata
con Robin, rifletté. Ma no, lei aveva una conferenza
stasera, di
nuovo. Era una vera maniaca del lavoro. Non
c’era da
sorprendersi che lei e Don stessero tanto bene insieme. Sì,
era
davvero una donna bravissima. E sembrava che stesse funzionando tra
di loro, anche per più di qualche mese. Sì, Don
poteva essere
davvero felice di averla...
Le nove, undici minuti e quarantuno
secondi.
«Sei in ritardo, Chucky» mormorò.
Il
suo sguardo fissò i due apparecchi telefonici a lungo. Forse
avrebbe
fatto meglio a chiamarlo e chiedergli cosa diavolo stesse…?
«Non
renderti ridicolo» si rimproverò. E
smettila di parlare con te
stesso, aggiunse nella sua testa. Aveva cose migliori da fare
che
complessarsi creando una personalità multipla. O almeno
avrebbe
avuto cose migliori da fare se Charlie si fosse finalmente degnato di
chiamare. In ogni caso lui non avrebbe interpretato il ruolo del
fratello paranoico del tipo
“visto-che-papà-non-si-preoccupa-lo-faccio-io”,
soprattutto
perché… Accidenti, lo aveva dimenticato:
soprattutto perché non
aveva un numero con il quale contattare Charlie.
Don levò un
altro sguardo all’orologio (le nove, quattordici minuti e
tredici
secondi), poi allungò la mano verso il telefono, incerto se
chiamare
o meno, ma si arrestò repentinamente. La chiamata di Charlie
era in
ritardo di quattordici minuti – ma cos’erano
quattordici minuti?
Conosceva suo fratello; se Charlie era immerso in un problema
matematico era possibile un ritardo di mezz’ora o
più. No, non
c’era motivo di preoccuparsi.
Eppure, nelle scorse settimane,
Charlie avesse chiamato sempre a quell’ora… E
inoltre Don non
aveva idea di dove si trovasse...
No. Non c’era nessun motivo
per preoccuparsi. Era tutto in ordine.
Don
gemette. Ma chi voleva prendere in giro?
Sapeva che Charlie si
occupava solo di numeri. Sapeva che suo fratello non aveva incarichi
al di fuori del suo ufficio. Sapeva che si faceva di tutto per
proteggere i civili, soprattutto in caso di una missione segreta.
Eppure si preoccupava.
Probabilmente non ce n’era alcun motivo,
era inutilmente, esagerato. Però sapeva che non sarebbe
stato in
grado di dormire in pace finché non avesse saputo che suo
fratello
si trovava al sicuro, a casa sua. E alla fine una notte calma gli
avrebbe anche fatto piacere.
Intanto, suo fratello lavorava da
ventotto giorni per un qualche gruppo investigativo come consulente
matematico ad un progetto che doveva durare circa un mese. Ecco tutto
quello che Don sapeva: non aveva idea di ciò che esattamente
suo
fratello dovesse fare o di che cosa trattasse il progetto, non aveva
idea di dove si trovasse e sì, non sapeva nemmeno per chi
lavorasse.
Non sapeva niente e probabilmente non avrebbe mai saputo nulla di
più
preciso.
Non
che non c’avesse provato. All’inizio di
quell’incarico era
stato una tortura non sapere nulla. Di solito conosceva almeno il
luogo o l’agenzia per cui Charlie lavorava, oppure non ne
sapeva
niente perché suo fratello poteva fare tutti i calcoli a
casa sua.
Questa volta, invece, era scomparso per un mese e Don non aveva idea
quanto pericolosa fosse questa missione.
Almeno
Charlie gli assicurava ogni volta che stava benissimo, che Don non
doveva preoccuparsi. Telefonavano spesso, anche se le conversazioni
di solito erano molto brevi. Chiamava più o meno verso sera,
ma in
generale sapeva sempre quando avrebbe chiamato la volta successiva e
manteneva sempre la parola. Era vero che non poteva raccontare a Don
della sua missione, ma sapeva che quell’impotenza e il fatto
di non
poter saper niente non erano facili da sopportare per il suo fratello
maggiore e cercava di facilitare la situazione con chiamate regolari.
Don
sorrise al pensiero di qualche frammento delle telefonate di suo
fratello. “Sì, posso immaginare che tu sia
snervato, ma sai
perfettamente che non posso dirti niente, Don… No, Don,
davvero non
posso, e adesso smettila di chiedermi queste cose… Non
preoccupatevi. Sto bene qui, davvero… Oggi ho fatto degli
ottimi
progressi e piano piano mi sto abituando a tutte le cose che ci sono
qui… Dovrei tornare per il fine settimana. Ho già
detto a papà di
comprare le bistecche di filetto: non hai idea di quanto mi manchino
stando qui. Sto seriamente pensando di far vedere loro
un’equazione
che mostra come l’efficienza di tutti i collaboratori aumenta
proporzionalmente al il numero di bistecche
mangiate…”
Dell’equazione
delle bistecche gli aveva parlato l’altro ieri, nella loro
ultima
conversazione. Charlie era di buon umore; la missione stava per
finire e tutto sembrava andare liscio.
Forse
sta già tornando a casa? venne in mente a Don
improvvisamente.
Forse è per questo che non chiama?
Però sapeva che non
aveva alcun senso. Charlie gliel’avrebbe detto. E se suo
fratello
era convinto che avrebbe finito il suo lavoro per il fine settimana,
allora l’avrebbe finito per il fine settimana, non prima,
almeno
non così tanto.
E quindi qual era la ragione per cui Charlie era
in ritardo?
Rilassati, tentò di dirsi Don. Te
lo dirà
fra poco.
Forse
avevano fatto un progresso inaspettato e per questo Charlie non
poteva o non voleva andarsene. Oppure era stato disturbato da
qualcuno che voleva parlargli. Oppure stava telefonando ad Amita o ad
Alan o a Larry e non voleva terminare la chiamata bruscamente.
C’era
sicuramente una spiegazione del tutto ragionevole. Charlie avrebbe
chiamato prima o poi. Gli avrebbe dato tempo fino alle dieci. Non
sapeva che cosa avrebbe fatto poi, ma aveva bisogno di quella
scadenza. In fondo, Charlie avrebbe chiamato entro quell’ora
sicuramente. Un’ora di ritardo era il massimo.
Del
fatto che si sbagliasse di molto in quella valutazione, che
l’attesa
per sapere qualcosa di nuovo su suo fratello sarebbe durata molto
più
a lungo e che fino a quel momento sarebbe stato come attraversare
l’Inferno – no, di queste cose Don, in quel
momento, non aveva
ancora alcun’idea.
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Capitolo 2 *** Servizio al telefono ***
nonti02
Mille,
mille grazie per le vostre recensioni! Spero che continuerete a
leggere la storia anche se devo avvertirvi. Perché:
Attenzione!
Scusate,
ma l'ultima volta mi sono dimenticata di avvertirvi che POTREBBE
essere che un personaggio morirà.
Questo sarà
una storia molto lunga. Non si sa mai che cosa potrebbe succedere...
Tuttavia,
buon
divertimento ;)
2.
Servizio al telefono
Your
faith was strong,
But
you needed proof.
(Leonard
Cohen, Hallelujah)
Furioso, Don sbatté
la cornetta sulla basa proprio mentre Megan entrava in ufficio e si
levava il cappotto.
«Buongiorno! Di
cattivo umore?» lo salutò e si poteva sentire che
lei, invece, era
di ottimo umore.
«Dai, lasciami in
pace» brontolò Don e voltandosi di nuovo verso lo
schermo del suo
computer per trovare altri numeri di telefono non vide il suo volto,
su cui aleggiava un misto di offesa, presentimento e
preoccupazione.
«Che
c’è?»
chiese la donna con un tutt’altro timbro.
Don
poteva quasi sentire dalla sua voce che aveva aggrottato la
fronte.
«Niente» rispose
il più calmo
possibile. Eppure la sua voce suonava sempre
inconfondibilmente amara. Megan
gemette. «Oh,
avanti: lo sai che posso aiutarti solo se so di cosa si
tratta».
«Ho
chiesto per caso il tuo aiuto?»
Megan
tacque e Don si accorse che non poteva continuare così.
Nascose il
viso tra le mani: il fatto che fosse tanto esausto già di
mattina
fece scivolare ancora più giù il suo umore.
Si
strofinò gli occhi e si voltò verso di lei prima
di scusarsi: «Mi
dispiace, Megan. E’ solo…»
Tacque
e provò a concludere la frase con un gesto agitato della
mano, ma
Megan lo incalzò caricando lo sguardo di molte aspettative.
«Sì…?»
Don
gemette gravemente e si passò di nuovo le mani sopra la
faccia
stanca.
«Si
tratta di Charlie» confessò finalmente, senza
sapere se stesse
facendo la cosa giusta.
“Ah
sì” volle
rispondere Megan, ma si trattenne dal farlo: nonostante fosse
sorpresa dalla franchezza di Don, voleva ascoltare la storia fino
alla fine e non era raccomandabile interromperlo con una qualsiasi
ipotesi su argomenti famigliari.
«Avrebbe
dovuto chiamare ieri, ma non l’ha fatto».
L’attenzione
di Megan si acuì: per un attimo aveva dimenticato che
Charlie in
questo momento era coinvolto in una missione segreta. A questo punto
la possibilità che i due avessero in qualche modo discusso
si
riduceva di molto – e in ogni caso le ultime parole di Don
non
facevano pensare a nulla del genere. Sembrava trattarsi di altro.
Megan era timorosa per quello che avrebbe sentito, ma il suo boss
pareva essersi ammutolito.
«E
allora?» chiese.
«Niente
“allora“!»
insorse Don. «Non ha chiamato da ieri e nessuno vuole darmi
informazioni! Nessuno pare saper nulla e se sanno qualcosa, mi dicono
subito che lo mio status di sicurezza non è
sufficiente!»
Megan
sorrise, comprendendo a pieno il suo boss. Sapeva troppo bene quanto
fossero importanti i fratelli l’uno per l’altro e
poteva
immaginare quanto dovesse essere frustrante per Don non saper dove
fosse Charlie. Però la sua ragione gli impedì di
imitare Don in
quello scoppio di panico: sapeva come funzionavano i cervelli dei
matematici – insomma, era fidanzata con uno di loro. Sapeva
esattamente quanto confusi e smemorati potessero essere quei geni.
«Don, il fatto che Charlie
non
abbia chiamato non vuole dire niente. Sai com’è
quando è
circondato dai suoi numeri. Probabilmente si è semplicemente
dimenticato di chiamarti».
Don
inspirò rumorosamente. Non voleva di nuovo perdere le
staffe, ma i
suoi nervi erano così tesi da potersi strappare e il livello
di
emozioni che riusciva a mostrare si era abbassato considerevolmente
per questo. E se Megan adesso non avesse distolto quello sguardo
stupido che aveva quando lui si comportava in modo esagerato e
irrazionale, allora non avrebbe più potuto garantire niente.
«Non.
Lo. Sopporto. Più! Lo capisci?» disse con
irritazione, già sapendo
che si sarebbe pentito della sua franchezza più tardi.
«Cosa
non sopporti più?» chiese Megan.
«Tutto».
Don aveva sempre più difficoltà a respirare
normalmente. «Non
voglio più restare seduto qui, all’oscuro di
tutto. Voglio sapere
che sta facendo Charlie. E voglio che torni.»
Megan
rifletté. «Hai già
chiesto informazioni ad altre squadre
dell’FBI? O dalla NSA? Charlie qualche volta lavora anche per
loro,
no?»
La respirazione di Don
accelerò e non
fu più sicuro di essere in grado di mantenere la sua calma.
«Certo
che ho chiesto informazioni, ma credi sul serio che qualcuno di loro
sia disposto a dirmi qualcosa? Non una parola, neanche una minima
parola! Non mi dicono nemmeno se Charlie sta lavorando per loro o
meno!»
«Nessuno ti deve un
vecchio
favore?»
«C’ho
già provato»
brontolò Don. «È stata la prima cosa
che ho fatto».
Malgrado
la sua furia per un attimo si sentì un po’
risoluto: sapeva che
gli altri qualche volta lo consideravano un mostro nel mantenere il
controllo. Megan forse condivideva
quest’opinione - Don non ne era sicuro; in ogni caso ce la
fece a
mantenere la sua voce libera di biasimi.
«Vabbeh…
allora devi semplicemente aspettare finché Charlie non ti
chiamerà.
Forse stasera».
Don la fissò. Megan
l’aveva detto sul serio? Gli consigliava di rimanere seduto
per il
resto della giornata e fare il suo lavoro come se niente fosse
successo?
Ma poi era successo
qualcosa?
Don scosse la testa. Tutto
questo lo rendeva pazzo. Avrebbe perso il senno, lo sapeva. Le sue
preoccupazioni erano esagerate? Charlie non l’aveva chiamato
ieri
sera… e allora? Normalmente non telefonavano ogni giorno. Ma
normalmente Don aveva almeno una vaga idea di dove suo fratello si
trovasse.
C’era stato un tempo in
cui non avevano mai saputo niente l’uno dell’altro.
Di solito
venivano a sapere per coincidenza dove si trovasse l’altro
fratello
e per sommi capi, anche cosa stesse facendo, ma all’epoca un
vero
interesse era raro, semplicemente perché avevano creduto di
non
poter superare le differenze dei mondi in cui vivevano.
Don
quasi rise pensando alla differenza di preoccupazione per suo
fratello che c’era fra prima e adesso. Si trattenne: in quel
momento, si rese conto, aveva tanta più voglia di piangere.
«Hai
già provato a chiamarlo sul suo cellulare?»
Don
le scoccò uno sguardo irritato.
«Non
l’ha portato con sé» rispose fra denti.
«Oh…
mi dispiace, l’avevo dimenticato».
Che
fortuna. Don invece non l’aveva dimenticato, almeno non per
molto
tempo, almeno non più da quando gli era venuto in mente, tre
settimane fa, di provar a localizzare dove fosse tramite il segnale
GPS del suo cellulare. Poi, però, si era ricordato che
qualcuno –
e chissà chi era questo “qualcuno”
– aveva proibito a Charlie
(Charlie, in realtà aveva usato il termine
“sconsigliato”) di
portare il suo cellulare in missione, per evitare tentativi di
localizzazione. E il numero da dove Charlie telefonava ogni tanto era
sempre protetto.
«E che ne dice tuo
padre? O Larry e Amita?»
Don guardò
Megan negli occhi, scuotendo la testa.
«Niente.
Non lo sanno ancora. Non voglio che si preoccupino».
Megan
aveva di nuovo quello sguardo di incredula indignazione. «Ma
hai già informato l’intero apparato amministrativo
della polizia
americana?!».
«Voglio semplicemente
sapere
dove si trova Charlie, va bene? Non farebbe male a nessuno se si
decidessero a dirmelo, finalmente».
«Non
prendertela con me, Don» cominciò Megan e il
timbro della sua voce
fece sospettare Don che lei stesse per dire qualcosa per cui se la
sarebbe presa sicuramente, «ma non pensi che
questa… necessità di
controllo sia un po’ esagerata? Su, chiama prima Larry, Amita
e tuo
padre, forse sanno qualcosa».
Don le
lanciò uno sguardo pieno di dubbio, ma lei rispose con un
sorriso
incoraggiante. Va bene, perché no. Poteva solo far scoppiare
il
panico generale; tranne questo non c’era un
problema.
«Eppes».
«Ciao,
papà».
«Donnie! Come
stai?»
Il
timbro della voce di Alan ebbe bisogno di solo mezzo secondo per
diventare preoccupato. «Perché chiami?
E’ successo
qualcosa?»
«No, papà, va
tutto bene. Mi
chiedevo semplicemente se Charlie avesse telefonato».
«Charlie?
No, non dall’altro ieri, no. Perché me lo
chiedi?»
«Così.
Non ne ero sicuro: credevo che mi avrebbe chiamato ieri, ma forse ho
capito male». Don sperava che suo padre avesse creduto a
quella
storia. Anche se la sua voce non era disinvolta come avrebbe
voluto.
«Sei sicuro?»
Ma
dai, un po’ di fiducia in tuo figlio! «Certo,
papà. Va
tutto bene. Ci vediamo. Ciao!»
«Sì, ciao,
Donnie…»
Ma Don aveva già
riattaccato.
Le due telefonate
successive non furono di maggiore aiuto e Don ricadde nel profondo
del suo malumore. Ma perché nessuno voleva aiutarlo?
Perché diavolo
quel progetto era tanto segreto? E perché nemmeno Charlie
gli aveva
detto niente? Certo, Don conosceva le prescrizioni di sicurezza e
sapeva che non esistevano inutilmente e che c’erano cose che
dovevano esser mantenute segrete per tutelare la sicurezza nazionale,
eppure… Perché nessuno voleva dirgli che stava
succedendo?
Verso
la sera, Don tornò nel suo appartamento. Mentre guidava il
SUV
badava meticolosamente che il suo cellulare stesse acceso e a portata
di mano. Era un miracolo se, con le occhiate di lato che lanciava sul
suo cellulare ogni sette secondi, non aveva ancora avuto un
incidente.
Arrivato nel suo appartamento,
Don ricordò in un modo sgradevole la serata precedente
mentre si
sedeva sul divano, una birra in mano, il cellulare sul tavolo. Il
cordless era posizionato sulla base, sul cassettone nel corridoio,
perché fosse sempre carico. La porta che dava sul corridoio
però
era aperta.
Alle nove meno dieci
controllò freneticamente se il suo telefonino avesse davvero
campo e
se il telefono fosse posizionato correttamente. Tutto era a posto,
sì
– eppure Charlie non aveva ancora chiamato.
Quella
sera Don non distolse il suo sguardo dall'orologio mentre la grande
lancetta dei secondi girava in tondo, la lancetta dei minuti la
seguiva lentamente e anche la lancetta delle ore avanzava sul suo
cammino circolare, una gara scorretta la cui fine era immediatamente
chiara per chiunque la osservasse. Le ore passarono e la scorta di
birra di Don volgeva alla fine.
Charlie
non chiamò.
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Capitolo 3 *** La speranza dei disperati ***
nonmi03
Mille,
mille grazie per il vostro interesse e i vostri recensioni! Sono
sconvolta di gioia!
3.
La speranza dei disperati
Heaven
can wait, we’re only watching the skies,
hoping for the best,
but expecting the worst.
(Alphaville, Forever
Young)
Ad un certo punto Don doveva essersi addormentato,
perché quando si svegliò la mattina dopo si
trovava in una
posizione tra il seduto e lo sdraiato sul suo divano. In una
posizione che, dopo alcune ore, era diventata molto scomoda, come
dovette constatare.
Deglutì duramente quando si rese conto della
situazione. Charlie non aveva telefonato. Non si era confuso circa il
giorno: Charlie avrebbe dovuto chiamarlo mercoledì; ora era
venerdì.
Non sentiva Charlie da quattro giorni – va bene, da tre e
mezzo. Da
quando suo fratello era impegnato con quell'incarico, nessun attesa
era durata tanto quanto questa, almeno non senza avviso. Charlie
aveva parlato con almeno uno di loro, anche se solo per qualche
minuto al giorno. E siccome anche suo padre, Amita e Larry non lo
avevano sentito...
Don non poté fare a meno di rabbrividire. Ma
che diavolo stava succedendo? Che c'era? Perché Charlie non
chiamava?
Sapeva che doveva esserci una spiegazione razionale. La
questione riguardava solo quanto questa spiegazione gli sarebbe
piaciuta.
Dai, non perdere di nuovo i nervi, si
ammonì
seriamente. Doveva affrontare quella faccenda nel modo più
logico e
scoprire dove si trovasse Charlie e perché non aveva ancora
chiamato.
Il problema era che c'aveva già provato. E senza alcun
risultato. Nessuno poteva aiutarlo. Nessuno gli diceva niente.
Nessuno sembrava saper qualcosa del suo fratellino. Charlie era
sparito. Da qualche parte. E non chiamava.
Era disperso.
Un
altro brivido assalì Don quando capì che cosa
stavano provando a
dirgli i suoi pensieri. Charlie era disperso. Introvabile. Come se
fosse stato vittima di un crimine.
Il cuore di Don per poco non si
arrestò. Forse era stato vittima di un crimine? Forse era
questa la
causa, forse l'aveva rapito, forse anche... qualcosa di più
brutto.
No, si ripeté in mente Don, no,
certamente no.
Ottusamente sentiva il tremolio del suo corpo. No. No, non
Charlie. C'è una spiegazione logica per tutto.
Spaventato,
Don si guardò attorno, ma naturalmente non c'era nessuno.
“C'è
una spiegazione logica per tutto” – quella frase
era talmente da
Charlie che Don era stato quasi sicuro che suo fratello
l’avesse
bisbigliata nel suo orecchio.
Però c'era solo il vuoto attorno a
lui.
Anche nel corso della giornata Charlie non chiamò e il
panico prese possesso di Don. Non poteva continuare a far finta di
nulla; lo sapeva: più era tempo che Charlie rimaneva
disperso,
maggiore era la possibilità che tutto fosse più
pericoloso di
quello che Don provava a credere.
Era perennemente teso e chiunque
tentasse di avere una conversazione ragionevole con lui, in breve
capiva quanto fosse disperato il proprio tentativo. Perché
non
importava dove si trovasse o cosa stesse facendo – nella
testa di
Don c'era sempre la stessa domanda, quella che non gli avrebbe dato
tregua finché non avesse avuto una risposta: cosa era
successo a
Charlie?
Tuttavia, col passare del tempo, Don cominciò a dubitare
che ci sarebbe mai stata una risposta. Il panico dentro di lui
aumentò. Charlie era semplicemente scomparso e non vedeva
nessuna
possibilità di ritrovarlo.
Almeno non da solo. In fin dei conti
aveva migliori possibilità, se avesse fatto diventare il
caso di
Charlie ufficiale. E voleva farlo. Più o meno.
Perché nonostante
volesse sapere dove si trovava suo fratello, aveva un brutto
presentimento riguardo all’intervento dell'FBI. Facendo
così,
infatti, non avrebbe solo dato alla faccenda il termine famigliare e
verbalizzato talmente tante volte senza rifletterci di
“caso”, ma
avrebbe anche definitivamente fatto di Charlie una persona dispersa.
Eppure, pensandoci
ragionevolmente, non c'era alcuna ragione per esitare.
Don fu
felice che l'A.D. avesse trovato tempo per lui tanto velocemente. Si
sentiva un po' spostato; di solito andava lì
perché chiamato, non
volontariamente. Forse per questo era un po' di più nervoso
del
solito. O forse il nervosismo derivava dalla paura che Jonathan D.
Stevens, il vice-direttore, avrebbe potuto rifiutare la sua
richiesta.
Don provò a capire dal viso del suo superiore quanto
la persona che gli era di fronte sapesse già, ma la faccia
di
Stevens era di pietra e senza espressione.
«Non so se lo sa…»
cominciò, allora, dopo il saluto e si odiò per la
sua insicurezza.
A quello avrebbe dovuto rimediare. «Comunque mio
–» Don si fermò
e si costrinse finalmente a comportarsi in un modo più
professionale. «Comunque un consulente dell'FBI risulta
disperso».
Don non era sicuro, ma per un attimo credette di
vedere gli angoli della bocca di Stevens tremare. «Mi
risulta»
rispose e sembrò un po' più umano del solito
quando aggiunse: «E
lei può smettere di girarci intorno, Eppes. So che lei non
si
interessa per il nostro consulente, ma per suo
fratello».
Don
temette che lo avrebbe messo di fronte a motivi personali, ma era
preparato a quell’evenienza. «Signore, in ogni caso
–»
Stevens
lo interruppe. «In ogni caso è uno dei nostri
consulenti e
probabilmente si trova attualmente fuori dello stato della
California, forse addirittura fuori dagli Stati Uniti. Siccome so
anche che era stato chiamato da un'altra agenzia, non sono a
conoscenza del modo in cui questa si sta occupando della faccenda, ma
generalmente il caso è di nostra competenza. Sbaglio, forse,
a
credere che lei sia venuto qui per chiedermi di sostituirci all'LAPD
e investigare sul caso?»
Don non poté far a meno di essere grato
per la comprensione del suo superiore. Quando poche ore prima, dopo
un discorso di poche parole con suo padre, Amita e Larry, aveva
dichiarato Charlie disperso, naturalmente era già
intenzionato a
conquistare il caso. Tuttavia non aveva voluto sprecare tempo o
correre il rischio che la sua richiesta di prendere il caso fosse
rifiutata da Stevens. Comunque era felice che il vicedirettore gli
avesse fatto intendere che si sarebbero occupati immediatamente del
caso, nonostante il periodo critico di 48 ore non sarebbe terminato
prima di quella sera, due giorni dopo la chiamata non fatta.
Adesso
Don taceva, guardando il suo superiore, e osava sperare. Stevens si
accorse di quello sguardo e non ebbe problemi a interpretarlo.
«Vedrò che cosa posso
fare. Fino a nuovo ordine lei e il suo team potete investigare il
caso». Sorrise leggermente. «Deve comunque
ritrovare il nostro
consulente».
Don si alzò quasi di scatto; si sentiva come se le
sue spalle fosse state alleggerite di un enorme peso. Finalmente
poteva fare qualcosa!
Si congedò dal vice-direttore e uscì
dall'ufficio con uno strano misto di sentimenti. Si era alleggerito
di un peso, ma un altro si era aggiunto. Adesso avrebbe informato il
suo team e avrebbero lavorato ufficialmente al caso della scomparsa
di Charlie.
Stevens lo seguì con lo sguardo. Gemette bassamente.
Non aveva voluto ammetterlo di fronte al suo agente di solito
abbastanza forte, ma non aveva alcun buon presentimento su questa
faccenda. Un consulente di numerose e in parte segrete istituzioni,
improvvisamente scomparso nel nulla? Non doveva essere nulla di
buono.
-
- -
Amita
rabbrividì dal
freddo. Si era accorta di soffrire il freddo già da qualche
giorno
come se il suo subconscio avesse voluto dirle qualcosa. E non aveva
difficoltà a indovinare cosa. Le chiamate giornaliere di
Charlie si
erano interrotte una settimana fa e d’allora nessuno aveva
saputo
più nulla. Nel frattempo era dato per disperso e le ricerche
continuavano; ma il polso di Amita da allora era permanentemente sui
180.
Non le sfuggiva neanche che Larry accanto a lei era nervoso
allo stesso modo. Nessuno dei due sapeva perché il direttore
della
CalSci aveva ordinato loro di andare nel suo ufficio, ma non avevano
un buon presentimento.
«Grazie per esser venuti qua» li salutò
il Dott. Marsh; i due rinunciarono a dirgli che non avevano avuto
scelta «Da quel che so, siete voi quelli più
vicini a Charles, non
è vero?»
I due annuirono.
Il direttore continuò. «Allora
forse potrete aiutarmi. Sapevamo che Charles avrebbe ripreso
l’insegnamento da lunedì, cioè da ieri;
tuttavia non si è fatto
vedere, né ci ha avvisato. Potreste spiegarmelo?»
Invece di
rispondere Amita pose una nuova domanda. «Allora lei non sa
niente?
Nessuno gliel'ha spiegato?»
Aveva tanto sperato che
l’importante dipartimento per cui Charlie stava lavorando
avesse
chiarito la faccenda in segreto e che almeno la direzione della
CalSci sapesse qualcosa, pur mantenendo il riserbo con gli altri;
aveva sperato che i contatti tra Charlie e
l’università non si
fosse ancora completamente interrotti...
«No, a noi non risulta
niente: ecco perché lo chiedo a voi».
Amita dovette respirare
profondamente per ritrovare la calma e così fu Larry a
rispondere.
«Purtroppo nemmeno noi sappiamo nulla. Charles è
scomparso. Nessuno
sa dove sta in questo momento».
-
- -
Al
primo sguardo,
potrebbe essere scambiata per una stoffa nera con alcuni punti
chiari. Eppure, era più di quello, tanto più
complesso. Era tutto e
niente. Il cielo notturno era la porta tra questo mondo e gli altri,
il luogo di tutte le risposte e tutte le domande.
Tuttavia, Larry
poteva guardare il cielo quanto voleva, senza trovare la risposta.
Sapeva che Charlie in quel momento doveva trovarsi sotto il suo
stesso cielo…
Larry interruppe il suo flusso di pensieri.
Pensandoci non era certo neanche di quello. Charlie poteva benissimo
aver realizzato il suo desiderio ed esser volato nello spazio.
In un attimo smentì
quell’assurda ipotesi: era impossibile. Eppure non riusciva a
non
pensare che la sua tesi dello spazio avrebbe per lo meno spiegato
perché Charlie sembrava svanito nel nulla.
Larry confidava ancora
in una spiegazione razionale per tutta quella storia, ma gradualmente
le spiegazioni che avrebbe voluto sentire si stavano esaurendo.
Quello che era certo era che Charlie fosse introvabile. E
quand'anche, per esempio, fosse stato portato in una casa sicura per
proteggerlo, chi di dovere avrebbe informato almeno la sua famiglia,
se non del posto, almeno del perché. Ma questo non era
successo.
E
se pure avessero dovuto fingere la morte di Charlie – Larry
rabbrividì al pensiero – se ne avrebbe data la
notizia, non il
semplice silenzio.
No, più tempo passava, tanto più in Larry
maturava il sospetto che la scomparsa di Charlie potesse essere
definitiva.
-
- -
E
sempre non
sappiamo niente su Charlie, ma ho una strana sensazione che questo
potrebbe cambiare nel corso del prossimo capitolo. Se dovreste
preoccuparvi per lui? Non lo so. Vedremo. Ma vi prego, abbiate
pazienza. E' una storia veramente lunga.
|
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Capitolo 4 *** Il panico dei disperati ***
nonti04
E
di nuovo grazie per il vostro interesse per la storia! Spero che
continuerate a leggerla!
PS: Sono felice che anzi le parole delle canzoni vi piacciano :)
4. Il panico dei
disperati
Follow
your dreams, but always remember me.
I am your brother, your
brother under the sun.
(Brian
Adams, Brothers under the Sun)
Il cellulare di Don squillò.
Accettò la chiamata giusto per informarsi del luogo
del reato, poi salì nel suo SUV e giudò fin lì nel buio. In poco
arrivò all'autosilo e vide David voltarsi verso di lui accanto ad un
membro del RIS.
«Un morto, maschio, bianco,
circa trent'anni, identità non ancora accertata. Foro di proiettile
nel basso ventre; la causa della morte è probabilmente il
dissanguamento».
Don annuì.
«E' lui?» si informò,
indicando con un breve movimento della testa alla figura indistinta
sul terreno davanti a un'utilitaria blu.
«Esatto. Noi qui abbiamo
finito, potete fare le vostre indagini».
Don non se lo fece
ripetere due volte. Si avvicinò al cadavere. Il suo sguardo era
fisso per terra dove tracce di sangue sporcavano il pavimento che lo
guidarono al morto, steso sul ventre davanti a lui. Don si
inginocchiò e voltò il corpo.
Avendo seguito le tracce
di sangue, i suoi occhi videro prima la ferita d'arma da fuoco e le
grande macchie rosse sul T-shirt della vittima. Solo un istante dopo
il suo sguardo cadde sul viso del morto.
Non furono solo i
riccioli scuri che gli fecero riconoscere in quel volto una persona
familiare, ma lo aiutarono anche le fattezze, un po' storte dalla
pena e dalla perdita di sangue, ma chiaramente riconoscibili, e gli
occhi che lo fissavano in modo inanimato e di accusa.
No, non c'era dubbio:
quel morto era suo fratello Charlie.
«No» bisbigliò Don appena
ebbe realizzato che cosa stesse succedendo. «No» disse a voce più
alta ed ogni volta che la ripeteva la sua voce diventava più alta,
ma non più forte.
«No... No! NO!
NOOOO!!!»
«Donnie».
Una mano l'aveva preso per il polso.
Don voleva difendersi, non voleva essere toccato in quel momento,
voleva liberarsi dal suo dolore, sbarazzarsene, urlarlo via.
«Donnie,
calmati».
Gli occhi di Don si aprirono e lo sguardo volò per
tutta la stanza finché non incrociò suo padre.
«Papà,
Charlie...»
«Sshh» tentò di calmarlo Alan, come se Don fosse
un bambino. «Calmo. Non dire niente adesso. Hai solo fatto un
incubo».
Don – troppo confuso per distinguere realtà da sogno
– guardò verso suo padre, supplicandolo. Doveva saperlo, doveva
sapere se –
«Cos’è successo a Charlie? Dov'è? » Alan
distolse lo sguardo, puntandolo sulla coperta e per Don fu
sufficiente. Il respiro era ancora frenetico. Non aveva immaginato
tutto del suo incubo. La cosa più importante, quella che per Don era
la più dolorosa ed orribile non l'aveva creata il suo subconscio, ma
la fantasia brutale e crudele della vita. Avrebbe dovuto essergli
chiaro, fin dall'inizio. Il suo subconscio non sarebbe mai stato
capace di creare da solo un tale scenario d'orrore. Aveva potuto
attingere tutto quello solo da dove già esisteva.
«Oddio...»
Don premette le palme delle sue mani sugli occhi, ma nemmeno così
poteva nascondere a suo padre le lacrime. Che cazzo significava tutto
quello? Perché la sua mente lo prendeva in giro in un modo così
crudele? Charlie non era morto, non era morto!
Intanto, erano
passate più di quattro settimane dall'ultima chiamata di Charlie e
non avevano fatto il più minimo progresso nel caso. Potevano solo
continuare fare congetture su quelli per cui Charlie lavorasse o
avesse lavorato. Nessuna agenzia pareva sapere alcunché. Avevano già
seguito tutte le tracce, anche le più piccole sospettando di
criminali che si erano fatti passare per investigatori federali per
fare chissà cosa grazie all’aiuto di Charlie. Però anche queste
ultime ricerche non avevano avuto il minimo successo.
Eppure, non doveva
arrendersi, doveva continuare, sempre di più, e non doveva in nessun
caso consentirsi quelle pessimistiche e dannate preoccupazioni!
Don
si sentiva come un traditore. Nei suoi pensieri aveva appena ucciso
Charlie, aveva ammazzato suo fratello. Perché? Non c'era una
ragione! Charlie era vivo e tutti i pensieri che non concordavano con
quello erano una bugia! Sarebbe tornato da loro. Per tutto questo
c'era certamente una spiegazione del tutto razionale – una che non
suscitava incubi. Certamente.
O almeno lo sperava.
La
mattina seguente l'orrore della notte passata non era ancora sparito
dagli occhi di Don. E il suo cattivo umore divenne più forte quando
fu interrogato dal suo superiore.
Jonathan D. Stevens, il
vice-direttore, spostò il suo sguardo dai documenti quando Don a
passo lento entrò nell'ufficio.
«Si sieda» lo salutò e
Don, senza parole, ubbidì all'invito. «Lei immagina perché è
qui…?»
Lentamente, Don scosse il capo. «No, signore».
Stevens
gemette. «Agente Eppes, lei e il suo team state lavorando da quattro
settimane a un caso di rapimento senza alcun risultato. So che lei è
coinvolto personalmente; però la sua competenza è richiesta anche
in altri casi. Mi dispiace davvero tanto di dover dirglielo, ma il
caso di suo fratello non avrà più la priorità finché non ci siano
nuovi risultati».
«Ma signor direttore…»
«Non si discute,
Eppes. La decisione è presa. La smetta di inseguire
fantasmi».
«Signore, non posso…»
«Ma dovrà. Anch'io non
posso più aiutarla; la decisione viene dall'alto. L'accetti, Eppes.
Non può fare altrimenti. E si goda il suo fine settimana
libero».
Si goda il suo fine settimana libero. Stevens
aveva voluto schernirlo con questo? Comunque quando congedò il suo
team, venerdì sera non poteva immaginare nemmeno con tutta la buona
volontà quanto quel fine settimana sarebbe stato sopportabile, altro
che godimento.
Siccome Robin era ancora ad una conferenza a
Memphis, avrebbe potuto probabilmente passato il fine settimana con
Charlie. Forse avrebbero fatto un giro in un parco... o avrebbero di
nuovo giocato a baseball... o avrebbero semplicemente passato una
bella serata con il padre...
Avevano avuto troppo pochi momenti
così. Ogni volta il lavoro li aveva interrotti come se fosse più
importante di tutto il resto. Ciò che valeva davvero erano le
persone importanti, no?
Don fece una smorfia vagamente
somigliante ad un sorriso. Le persone importanti... Con questo il suo
impiego del tempo libero sembrava chiaro. Se non poteva passare il
suo tempo con Charlie e nemmeno con Robin, allora almeno sarebbe
stato con suo padre. E non appena Charlie sarebbe tornato da loro,
avrebbero recuperato tutto il tempo che avevano perso fino ad
ora.
Don provava a non far attenzione ai segnali di panico che
erano apparsi al ricordo del suo incubo: la frequenza aumentata della
sua respirazione, quello strano dolore al petto, le lacrime che
premevano dal fondo contro i suoi occhi...
Non era ancora troppo
tardi. Avrebbero ancora potuto sistemare tutto. Dio, Charlie doveva
pur essere in un qualsiasi posto su questo mondo! Era solo una
questione di tempo prima di trovarlo! E poi sarebbero stati di nuovo
tutti insieme. Tutto sarebbe andato bene. E non c'era nessun dubbio
che Charlie stesse bene e che sarebbe ritornato da loro in breve.
No.
Nessun dubbio... nessun dubbio... al cento percento...
E se non
fosse stato così?
Con una determinazione rara in quei giorni, Don
respinse quella vocina. Sapeva che Charlie era ancora vivo. Lo sapeva
con certezza. Nessuno sarebbe stato in grado di fargli credere il
contrario. E dovunque si trovasse, Don l'avrebbe trovato. Non
importava che cosa dicessero Stevens e gli altri.
Non era una
serata allegra quella che Don stava passando con suo padre, ma per i
due era più facile stare insieme che ognuno a casa propria. Così
almeno non si sentivano completamente disorientati. Però Don si
sarebbe sentito meglio se quella novità schiacciante non lo stesse
opprimendo.
Fin'ora, non aveva parlato con suo padre della
conversazione del giorno prima con il suo superiore. Semplicemente
non ce l'aveva fatta a spiegargli che l'FBI abbandonava la ricerca di
suo figlio. E che differenza avrebbe fatto? Per Don era chiaro che
avrebbe continuato a cercare suo fratello finché non l'avesse
trovato. Con o senza il loro aiuto.
Per molto tempo stettero
semplicemente seduti nel soggiorno, in silenzio. La televisione era
accesa senza esser notata. Nessuno dei due riusciva a pensare a
qualcosa di tanto importante da essere argomento di conversazione.
E
in fine Don sentì quanto la stanchezza mentale delle tre settimane
passate lo indebolisse dentro. Si chiese stupidamente se dovesse per
forza alzarsi la mattina dopo. Non doveva andare a lavoro, allora che
ragione poteva esserci per alzarsi? In effetti, vista così, sarebbe
potuto perfettamente rimanere lì, su quella poltrona comoda,
lasciandosi trascinare, abbandonandosi alla speranza che tutto
sarebbe tornato a posto, sognando Charlie, nel suo garage, che faceva
giochi di destrezza matematici davanti alle sue lavagne...
«Buona
notte».
La voce di Alan lo fece svegliare dal suo torpore. Si
sedette e vide suo padre alzarsi pesantemente dalla seconda poltrona
e trascinarsi verso le scale.
«Buona notte, Papà»
rispose a mezza voce.
Non poteva fare a meno di
ammirare suo padre: dimostrava quasi normalità nonostante si
accorgesse, proprio come Don, di quello che stava succedendo, che
stavano per perdere Charlie.
Don deglutì. L'aveva appeno davvero
pensato? Aveva – No. No, non doveva pensare quelle cose. Gli
sarebbe parso un tradimento infame. No, se suo padre riusciva a
mantenere la speranza, allora lui non si sarebbe lasciato
abbattere.
Con uno sforzo non insignificante, anche lui si alzò
dalla poltrona, seguendo suo padre su per le scale per passare la
notte nella sua vecchia stanza. Non c'era ragione per perdere il
controllo. Doveva almeno salvare le apparenze. Se facevano finta che
tutto fosse in ordine, allora anche la realtà avrebbe creduto loro
prima o poi e avrebbe riportato loro Charlie.
Dovevano
semplicemente sperare.
Il sabato mattina svegliò Don con il
suo sole californiano. Aprì gli occhi e attraverso la finestra vide
il cielo azzurro senza nuvole. Don era certo che fuori facesse già
caldo e che sarebbe aumentato durante la giornata. Un giorno perfetto
per andare in spiaggia o semplicemente per rilassarsi. Un fine
settimana libero perfetto.
Purtroppo, però, non sarebbe mai
potuto diventare perfetto senza Charlie.
Don gemette e chiuse gli
occhi ancora una volta prima di alzarsi senza esitare dal suo letto.
Era il suo giorno libero, bene. Significava che c'era tempo per
occuparsi di suo fratello. Doveva pur essere da qualche parte.
Alan
era già in cucina che preparava il caffè.
«Buongiorno,
Papà».
«Buongiorno Donnie».
Di solito suo padre era sempre
di buon umore la mattina, anzi subito dopo essersi alzato. Però Don
non aveva nessuna difficoltà a capire perché il saluto mattutino di
suo padre era tanto malinconico da quattro settimane. L'entusiasmo
era scomparso e aveva fatto posto a una serietà quasi impossibile da
sopportare. E poi quegli occhi... Ogni volta che Alan lo guardava Don
poteva leggere nelle pupille spalancate, con paura, la domanda che
non gli dava più pace: “Sai dove sia?”
Era impossibile avere
una conversazione che non fosse forzata e Don uscì in fretta fuori.
Suo padre non aveva ancora portato la posta in casa e quello era un
ottimo pretesto.
Pochi istanti più tardi, Don si maledisse
silenziosamente. Sfogliando la posta, sentì suo cuore stringersi
dolorosamente ogni volta che leggeva il nome di suo fratello.
Devo trovarlo, devo
semplicemente...
Don si fermò. Una delle lettere era
indirizzata a suo padre. Per alcuni magnifici istanti Don fu
sollevato nel non dover leggere ancora il nome di suo fratello,
finché non si accorse dell'aspetto singolare della busta. Era una
lettera amministrativa, senza dubbio, ma non una fattura. Il timbro
sulla busta non lasciava nessun dubbio che la lettera veniva proprio
dal governo.
Di botto, fu come se Don si fosse elettrizzato. Non
poteva pensare che a una sola ragione per cui il governo avesse
scritto a suo padre e aveva il chiaro sospetto che la lettera non
avrebbe solamente spiegare l'assenza di Charlie, ma anzi avrebbe dato
loro una ragione che avrebbero preferito non sentire. Però si proibì
di riflettere su cosa avrebbe potuto significare la lettera.
Sentiva
il suo corpo intorpidito e camminò come un sonnambulo fino a suo
padre al tavolo nella sala di pranzo, già mezzo apparecchiato.
Quando Alan lo guardò, Don pensò di poter vedere la propria paura
nei suoi occhi, però per saperne di più avevano solo una
possibilità.
Una fragilità improvvisa prese possesso di Alan e
dovette lasciarsi cadere su una delle sedie del tavolo. Le sue mani
tremolavano mentre apriva la lettera e dava un rapido sguardo alle
righe. Don credette che avrebbe vomitato quando vide gli occhi di suo
padre spalancarsi e le mani trattenere la lettera come in preda ad un
dolore profondo. Infine, gli occhi spalancati fissarono il vuoto e
Don tirò il documento dalle dita di suo padre.
Don fissò il
foglio, fissò le lettere nere e il bianco dolorosamente abbagliante
fra loro. Non si mosse. Non era più capace di fare nulla. Il tremore
delle sue mani era l'unico movimento.
Sentiva caldo e freddo allo
stesso tempo. Anche se la mente, in preda all’ansia, sembrava aver
attutito qualsiasi percezione del suo corpo che ora gli pareva
lontano.
Credette di sentir salire in gola un nodo, mentre
un’incredibile sensazione di vuoto si diffondeva lentamente e
inarrestabilmente nel suo stomaco. Il cuore gli batteva forte nel
petto.
Il calore gli salì nella testa. Il suo sguardo volò sopra
le righe.
No, ti prego, no, no,
ti prego...
Le parole sembravano non volersi far capire. Non
comprendeva che cosa voleva dire la lettera. Non voleva
comprenderlo.
Un'unica frase attirò la sua attenzione. Un'unica
frase distrusse la sua vita.
“Per questo ci dispiace doverla
informare che suo figlio, il Professor Charles Edward Eppes,
lavorando per la sua nazione, è morto in seguito alle ferite
riportate”.
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Capitolo 5 *** No. ***
nonti05
Uffa... sono molto
sollevata che sembrereste disposti a continuare a leggere (e
recensire :D) benché io abbia fatto morire Charlie (due volte in un
capitolo, ve ne siete accorti, sì?^^)
5.
No.
There’s
a grief that can’t be spoken.
There’s a pain, goes on and
on.
(Les
Misérables, Empty Chairs at Empty Tables)
No.
No.
No.
No.
Non poteva essere vero. Doveva aver capito male. Charlie non poteva
essere morto. Charlie
doveva essere vivo. Doveva esserci ancora. Era uno
sbaglio.
Realizzava
appena che stava scuotendo il capo. Non riusciva a crederci. Non
poteva essere vero. Non doveva essere vero. Charlie doveva essere
vivo. Non poteva semplicemente…
Ma era scritto lì! Nero su
bianco! ...ci
dispiace doverla informare che...
Charles
Edward Eppes...
è morto
in seguito alle ferite riportate...
È
morto in seguito alle ferite riportate.
Non c'era spazio per altre
interpretazioni.
Il tremolio delle mani di Don si trasmise al
corpo intero. Un brivido gli corse giù per la schiena. Non era
possibile...
La disperazione affiorò dentro di lui: aumentando,
gonfiandosi, lo assaliva. Voleva andare via, da Charlie, voleva che
tutto ciò fosse solo un brutto sogno, voleva svegliarsi, voleva
urlare, voleva strapparsi l'anima dal corpo, voleva darne una parte a
Charlie...
Non poteva. Charlie era
morto.
Morto.
Charlie.
Morto.
Suo fratello.
Morto.
Non
più vivo.
Suo fratello.
Morto.
Charlie.
Don non lo
comprendeva. Non capiva che cosa volesse dire. Charlie
è morto.
Che significavano quelle parole? Don doveva sapere cosa
significassero, ma non riusciva a rifletterci: si sarebbe spezzato se
le avesse comprese davvero. Eppure tanto poco poteva sopportare di
rimanere ancora in quello stato di stallo; stallo che lo aveva tenuto
con sé già da tanto, da quando suo fratello era scomparso, stallo
che era durato anche troppo, fino ad ora, fino a quando aveva
ricevuto quel messaggio che aveva smosso tutto e lo aveva riportato a
terra.
Un atterraggio fallito. E se mai avrebbe potuto riprendere
a volare, questo non lo sapeva.
Atterraggio... Adesso conosceva la
risposta, la risposta che aveva atteso per tutte quelle settimane,
atteso con tremore. Charlie era morto.
«Oh Dio».
Le parole
non erano riuscite a lasciare la bocca di Don per pena; solo pochi
molecole d'aria erano riuscita ad aprirsi un varco dalla sue labbra
verso l’esterno. E benché Don non avesse alcuna concezione della
propria mano tremolante, sembrava poter percepire altro, perché ad
un tratto si sentì molto male.
Le sue ginocchia cedettero sotto
il suo peso e in qualche modo il suo subconscio ce la fece a far
cadere il corpo su una sedia.
Lo scuotere del capo divenne più
veemente. Non poteva essere. No, quello non stava accadendo davvero.
Era semplicemente impossibile che Charlie fosse morto. Doveva esserci
una spiegazione semplice per tutto ciò. E per il fatto che Charlie
non si era fatto vivo per un mese.
Don si sentiva mancare la terra
sotto i piedi. Stava capendo. Lentamente. La sua anima stava ancora
resistendo. Il suo spirito però aveva capito. Quella era la
spiegazione. La spiegazione per tutto ciò che era accaduto finora.
La spiegazione che rendeva tutte le cose logiche.
Logiche, sì. Ma
non comprensibili.
Disperato e angosciato, Don cercò lo sguardo
di suo padre. Non poteva essere vero, doveva aver capito male
qualcosa e finora suo padre era sempre stato lì a spiegargli il
mondo intero. Almeno ogni volta che Charlie per caso non c'era
stato.
Ma adesso... Sembrava era come se Don fosse abbandonato a
se stesso, senza alcun sostegno. Suo padre non sembrava essere in
grado di comprendere le cose successe, né di poter spiegare a Don
che cosa c'era da fare adesso. E Charlie...
Dio,
Charlie...
Le
lacrime scesero. Don non tentò neanche di fermarle. Charlie... Era
vero. Suo fratello non c'era più. E non sarebbe più tornato. Non
sarebbe mai più entrato dalla porta parlando di qualche equazione
matematica. Non avrebbe mai più fissato il laghetto dei Koi con
quello sguardo di concentrazione. Non avrebbe mai più calcolato
davanti alle sue lavagne. Non avrebbe più fatto niente. Era morto.
Morto e basta. Semplicemente non era più lì.
No...
no, ti prego, no...
Non
poteva ancora crederci. Eppure era vero. Charlie era morto. E lui non
avrebbe potuto cambiare nulla.
- - -
Alan
sentiva caldo. E freddo. Tremava e gli pareva di avere la febbre.
Respirava velocemente, ma l'ossigeno non voleva entrare nei suoi
polmoni. Proprio come nei polmoni di Charlie che adesso erano da
qualche parte in un corpo morto, solo, abbandonato...
Due liquidi
provavano allo stesso tempo a lasciare il suo corpo. Le lacrime
furono più veloci; l'altro liquido, invece, gli diede tempo per
barcollare fino in cucina e piegarsi sul lavandino.
Il sapore
schifoso nella sua bocca gli fece tornare in mente ancora di più
l'immagine della morte e dei cadaveri e rimase piegato sul lavandino.
Non aveva la forza di sollevarsi e delle lacrime scorrevano sul suo
viso. Non poteva essere, non poteva essere la realtà, non
poteva...
Alan tentava di capire cosa fosse successo e allo stesso
tempo di ignorare la verità. Voleva sapere perché, doveva
sapere, ma sapeva anche non l'avrebbe potuto sopportare.
Non può
essere...
Charlie era morto. Il più piccolo dei suoi figli
era morto. Non era più vivo e non sarebbe più tornato da lui. Non
l'avrebbe mai più visto e non gli avrebbe più parlato. Charlie era
morto.
Alan singhiozzava così forte che poteva appena respirare;
ma non gli importava. Sarebbe soffocato, e allora? La sua vita non
aveva più senso né valore. Suo figlio era morto e lui era ancora
vivo – questo era troppo crudele per continuare ad esistere.
Aveva
fallito, come padre. Non era stato in grado di proteggere suo figlio,
suo e di Margaret. Dopo la sua morte la responsabilità si era
trasferita completamente su di lui e lui aveva fallito. Per la
seconda volta.
Non aveva protetto sua
moglie. Non aveva potuto proteggere neanche lei dalla morte. Tuttavia
non era la stessa cosa. Era stato diverso con Margaret: avevano
potuto congedarsi da lei. Sapevano che non sarebbe tornata. Era
diverso con Charlie.
Alan si sentiva male. Miserabile. Non voleva
più vivere. Le lacrime continuavano a scivolare giù sulle sue
guance, ma lui non le voleva più. Voleva che si fermassero, che il
dolore si fermasse, che tutto si fermasse. Voleva essere di nuovo con
Charlie...
Delle mani si posero sulla parte superiore delle sue
braccia, facendolo delicatamente voltare. Un attimo dopo i due Eppes
rimasti si abbracciavano. Avevano bisogno di quel sostegno,
soprattutto perché, in quel momento, era l'unico.
Ora non solo
sul volto di Alan, ma anche su quello di Don le lacrime scivolavano
senza ritegno. Ed Alan in quel momento realizzò che non poteva darsi
per vinto. Non era da solo. C'era ancora Donnie. E non poteva
piantarlo in asso. Doveva lottare. Doveva superare il dolore. Ce
l'avrebbero certamente fatta.
In un modo o un altro.
O forse
no.
Il dolore non era sopportabile ed Alan non sapeva per quanto
ancora avrebbe tenuto duro. Era semplicemente così ingiusto...
Charlie non sarebbe dovuto morire, non così presto, non ora che
tutto stava andando tanto bene per lui. Sembrava aver superato la
morte di Margaret, si era riavvicinato molto a Don, aveva un lavoro
redditizio e anche divertente ed una relazione seria con una donna
meravigliosa.
«Amita deve saperlo».
Don fissò suo padre. La
voce rauca, tremolante, era insopportabile. Poi le parole entravano
pian piano nel suo cervello e qualche istante più tardi seppe che
suo padre aveva ragione. Amita doveva sapere che il suo ragazzo non
sarebbe più tornato da lei e non dovevano essere terzi a dirglielo.
Tremante, Don inspirò.
«Va bene. Andrò da lei».
Alan lo guardò con un'espressione che
lo fece rabbrividire. Suo padre sembrava talmente privo d'aiuto,
talmente privo di speranza, talmente privo di vita. Tanto
inadeguatamente grato del fatto che Don si fosse offerto di farlo.
Non ce la faceva nemmeno a chiedergli se fosse veramente sicuro di
volerlo fare, per paura che suo figlio avesse potuto cambiare idea.
- - -
Poche ore dopo, Don si
trovava davanti alla porta dell'appartamento di Amita. Non appena
aveva pensato di aver accumulato abbastanza forza, aveva letto ancora
una volta la lettera – e poi di nuovo e di nuovo ancora – e
malgrado fosse più difficile del solito capire, ora la conosceva a
memoria. Non poteva esserci dubbio, Charlie era morto, l'avrebbero
riportato nei prossimi giorni. L'avrebbero portato a casa.
Non gli
avevano detto la data esatta della sua morte, probabilmente perché
nessuno potesse svolgere un'inchiesta che mettesse in pericolo la
sicurezza nazionale. In ogni caso, per Don, la data era secondaria;
Charlie era morto, tutto il resto non importava. Eppure non gli
sfuggiva la crudele ironia di quella situazione: gli ultimi numeri
della sua vita, la sua data di morte, erano stati negati a un uomo
che aveva trascorso tutta la sua vita con numeri.
Non avrebbero
mai saputo la data esatta in cui una luce nel mondo si era spenta.
Però, con “inizio d’ottobre” lo spazio di tempo era abbastanza
chiaro da far capire loro che Charlie probabilmente era già morto
quando l’avevano dichiarato disperso. Don aveva tentato per
settimane di portarlo indietro, senza sapere, in realtà, che Charlie
non sarebbe mai ritornato nel mondo dei vivi.
La rabbia voleva
esplodere dentro di lui. La rabbia verso quell’agenzia, la rabbia
per non aver detto loro niente, la rabbia perché non si sapeva nulla
neanche adesso. Cos'era successo? Come era stato possibile che le
cose fossero arrivate fino a quel punto?
Tuttavia la rabbia non
esplose. Rimase a crogiolarsi lì, in fondo all’anima, un motore
che lo manteneva vivo, ma non riusciva a penetrare fino in
superficie. Veniva soffocato dal lutto.
Non avrebbe lasciato
andare suo fratello al primo posto. E nemmeno l'aveva voluto. Quando
Charlie li aveva messi di fronte alla sua decisione, due mesi fa –
due mesi, gli sembravano due anni – Don aveva già avuto un cattivo
presentimento. Tutto era successo così in fretta. E tutto in un modo
talmente oscuro... Aveva tentato di dissuaderlo. Aveva addirittura
creduto di vedere indecisione in Charlie; lui stesso doveva aver
avuto scrupoli. Apparentemente però li aveva superati.
Già tre
giorni dopo Charlie era partito, la mattina presto, senza che Don
fosse riuscito a vedere nemmeno un rappresentante di quell’ominoso
ufficio e senza che fosse riuscito a impedirlo. Charlie era andato
con loro. E non era più tornato.
Per qualche secondo Don
semplicemente restò immobile davanti alla porta di Amita, tentando
di respirare profondamente e di concentrarsi. Quando si accorse che
non sarebbe cambiato nulla, suonò il campanello. Mentre aspettava
gli venne in mente quante volte Charlie era già stato lì,
aspettando, esattamente come lui. E che non l'avrebbe fatto mai
più.
La porta si aprì e Don tentò di tornare alla realtà. Non
riuscì a proferire parola e anche Amita non disse niente. Lo guardò
solo negli occhi ombreggiati – erano arrossati? La luce del
tramonto nel corridoio non le permetteva di giudicarli – mentre i
suoi stessi occhi si spalancavano. Don rimase muto. Lei barcollò
qualche passo indietro. Scosse il capo leggermente.
«Che... che è
successo?»
«Amita...» Don si avvicinò lentamente, ma la
giovane donna retrocedeva sempre più. Come se fosse spaventata da
lui. Oppure dalla verità che portava.
«Mi dispiace».
Amita
scuoteva ancora leggermente, ma persistentemente il capo, anche se
non poteva più retrocedere. Il cassettone nel corridoio le era
d'impiccio.
«Amita... è morto».
Ancora lo scuotere del capo.
«No» bisbigliò poi a
voce bassa. «No».
I suoi occhi si
riempirono di lacrime e quando Don la prese in braccio lei crollò.
Singhiozzava senza ritegno. Si reggeva appena in piedi. Don, sentendo
che anche a lui stava per mancare la terra sotto i piedi, la guidò
sul divano nel soggiorno.
Amita non era l'unica a
piangere.
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Capitolo 6 *** Time to Say Goodbye ***
nonti06
Non posso esprimere
quanto felice mi rendete con le vostre recensioni...
Ecco un altro capitolo
abbastanza triste, ma la storia non continuerà in tale modo... solo per un
altro po' :)
6.
Time to Say Goodbye
The
skies begin to clear and I’m at rest,
A
breath away from where you are.
I’ve
come home from so far.
(Les
Misérables, The Rain)
Don
non poteva credere che lo stesse facendo davvero.
Era
davanti al grande specchio accanto alla porta del Craftsman. Guardò
verso lo sconosciuto dalla faccia pallida, con gli occhiali da sole,
uno sconosciuto che sembrava aver dieci anni più di lui. Lo
osservava, la linea amareggiata delle sue labbra, l’abito nero, il
portamento rigido. Lo sforzo per conservare la padronanza di sé. Si
accorse che il busto dello sconosciuto fremette leggermente quando
respirò profondamente, lasciando che l'aria riempisse i suoi
polmoni. Un'azione a cui suo fratello aveva rinunciato per
sempre.
Dietro
gli occhiali da sole, Don fermò gli occhi e si scostò dallo
specchio.
Vagabondò
per il soggiorno senza meta. Era tutto tanto strano... raramente
aveva dovuto aspettare in quella casa, almeno non durante gli ultimi
anni. E se anche aveva dovuto aspettare, c'era sempre stato qualcosa
da fare nel frattempo.
Ma
non ora.
Ora
non c'era niente da fare. Non c'era una distrazione. Niente al mondo
avrebbe potuto distogliere l'attenzione dai suoi pensieri neri.
Niente.
Gli
ultimi due giorni erano passati in un clima di completo lutto. Il
dipartimento coinvolto non si era ancoro fatto vivo e probabilmente
non l'avrebbe mai fatto, ma almeno aveva organizzato il funerale e lo
aveva finanziato. Come se questo avesse potuto riparare qualsiasi
cosa. Alan e Don avrebbero probabilmente potuto andare contro le loro
disposizioni, ma non c'avevano nemmeno provato: erano ancora così
depressi per quell’orribile verità e, poi, non potevano immaginare
che Charlie avesse potuto volere il suo funerale in un modo diverso
da come l'aveva organizzato il dipartimento.
No,
non in un modo diverso. Solo più tardi.
Don
guardò il vecchio tavolo di legno, illuminato della luce del
pomeriggio di tardo autunno. Ricordi della sua infanzia lo
sommersero. Ricordi di tanti, tanti anni prima, quando lui e Chiarlie
avevano giocato a rincorrersi attorno a quel tavolo. Quando lui aveva
fatto lì i suoi compiti mentre Charlie dipingeva. Quando lui aveva
fatto i suoi compiti mentre Charlie faceva i suoi calcoli. Quando lo
aveva sbirciato, geloso, mentre suo fratello era immerso nei suoi
numeri. Come, più tardi, erano stati seduti insieme a quel tavolo,
mangiando, parlando, con Margaret, senza Margaret. Anche ora poteva
vedere Charlie seduto lì, che conversava animatamente, e rimanere al
tavolo diventò quasi insopportabile per Don. Poteva sentire la
presenza di Charlie, e questo lo fece sentire indicibilmente solo.
Poteva sentire la sua risata e questo lo fece piangere.
«Sei
pronto?»
Don
sobbalzò. Si voltò a sinistra, dove c'era una mano grave sulla sua
spalla. Guardò lungo il braccio in alto e malgrado gli occhiali da
sole riuscì ad accorgersi degli occhi arrossiti ma asciutti di suo
padre.
Annuì
in risposta. Non credeva di esser in grado di parlare adesso.
Pesantemente si alzò dal tavolo e lasciò la casa dietro ad Alan.
Mentre camminavano verso macchina, Don guardò indietro verso il
Craftsman, un'ultima volta. Gli pareva come se avesse dimenticato
qualcosa, come se in quel momento di addio stessero dando questa cosa
per sempre al passato.
Non
proferirono parola finché non furono arrivati alla sinagoga. Non
erano i primi; la stanza era già abbastanza piena. Ma naturalmente i
loro posti erano liberi.
Sguardi
di compassione si soffermarono su di loro, inosservati, mentre
andavano avanti in direzione dell’Aron-Ha-Kodesh. Anche Amita e
Larry erano già lì. I quattro si abbracciarono fortemente.
Don
guardò il viso di Amita. Sapeva che tratteneva a stento le lacrime.
Anche Larry sembrava pallido, malaticcio. Sembrava che stesse per
vomitare. Don sapeva perfettamente come si sentiva.
Si
sedettero e aspettarono l'inizio della funzione. Non sentivano niente
di ciò che accadeva loro intorno; i loro pensieri erano vuoti; i
loro cuori erano neri e pesanti per il lutto. Non sentivano niente di
ciò che accadeva loro intorno, solo il dolore che andava oltre ciò
che potevano sopportare.
Il
rabbino entrò nella stanza e la fine cominciò. Dapprima dissero una
breve preghiera, poi ci furono i necrologi degli amici e dei
colleghi. Dissero che uomo impressionante era stato... che cosa aveva
compiuto... quale perdita fosse la sua morta per la CalSci, per la
sua famiglia, i suoi amici e il mondo intero...
Le
lacrime colarono giù dalle guance di Don. Perché nessuno faceva
qualcosa? Non poteva essere che Charlie fosse davvero morto, che non
sarebbe mai ritornato, doveva... in qualche modo...
Don
singhiozzò quasi impercettibilmente, l'unico segno era il sobbalzo
delle sue spalle. Voleva essere con Charlie. Non doveva essere via,
Don voleva di nuovo vederlo, sentirlo ridere, voleva abbracciarlo.
Il
suo sguardo scivolò verso l'urna. Lì dentro c'era suo fratello.
Ceneri. Tutto che era rimasto da lui. Polvere.
Don
singhiozzò di nuovo. Stava male.
Infine
la cerimonia era terminata e figure scure si alzarono in modo grave
dalle loro sedie. Don rimise gli occhiali da sole a proteggere gli
occhi che continuavano a lasciar andare lacrime.
Si
misero in cammino verso la tomba, con una piccola distanza dall'uomo
che portava l'urna. Eppure potevano sentire le parole della Chewra
Kadischa fin troppo bene: «...Tu sei il mio rifugio e la mia
fortezza, il mio Dio, in cui confido. Certo Egli ti libererà dal
laccio dell'uccellatore e dalla peste mortifera. Egli ti coprirà con
le Sue penne e sotto le Sue ali troverai rifugio; la Sua fedeltà ti
sarà scudo e corazza. Tu non temerai lo spavento notturno, né la
freccia che vola di giorno, né la peste che vaga nelle tenebre, né
lo sterminio che imperversa a mezzodì...»
Le
parole giungevano come scherno alle orecchie di Don. Ti
coprirà con le Sue penne...
E allora perché Charlie era morto? Perché suo fratello aveva dovuto
morire? Dov'era stato questo Dio, se davvero esisteva; perché non
l'aveva protetto? Perché questa giovane vita si era dovuta spegnere,
in piena fioritura, senza aver mai conosciuto il leggero alito di
vento della tarda estate, il silenzio dell'inverno? Perché Charlie
era stato strappato dalla vita con violenza senza che fosse giunto il
suo tempo?
Non
era giusto, semplicemente non doveva essere così, era tutto così
falso...
Per l'ennesima volta Don
desiderò di poter cambiare qualcosa così fortemente che il desidero
lo strappò quasi interamente. Non voleva che accadesse, doveva
esserci uno sbaglio da qualche parte...
Charlie
avrebbe sicuramente scoperto lo sbaglio. Si intendeva di logica. Lui
avrebbe riconosciuto l’errore, la cosa che non poteva essere
esatta, lui forse avrebbe potuto impedire che quel giorno per Don il
mondo crollasse...
Ma Charlie non
c'era. Ed era proprio quello lo sbaglio.
La
processione era arrivata alla piccola tomba e in modo solenne
lasciarono calare l'urna. Non solo a causa del singhiozzo di Amita
accanto a lui, Don sentiva le parole del rabbino in modo indistinto
mentre quello terminava la cerimonia: «... Che Dio misericordioso
copra la sua anima per sempre con le Sue penne e la leghi alla vita
eterna e che Charles riposi in pace. Amen».
«Amen»
le due sillabe vennero dalla gola gonfia di Don suonando quasi come
una. Coprire con le Sue penne...
E perché adesso dovresti farlo, se non l'hai ritenuto necessario
fin’ora?
Sempre sconvolto dall'ira,
Don afferrò la pala e lanciò terra sull'urna. Ecco, hai quello che
vuoi. Polvere a polvere. Sei contento adesso?
Non
appena la terra colpì l'urna Don sentì una fitta al cuore. Sentì
che non era un dio a soffrire per la sua ira, ma Charlie, il suo
fratellino morto, e – non ultimo – lui stesso. La mano attorno
alla pala si irrigidì.
Voglio
essere con te, Charlie...
Don
deglutì e prese un'altra pala di terra. Questa volta però lasciò
cadere la polvere con calma, giù su suo fratello, dolcemente, come
per accarezzarlo...
«Stammi bene,
Charlie» bisbigliò, le sue parole soffocate dalle lacrime e
impercettibili, prima di voltarsi altrove.
Megan,
David e Colby erano venuti. Don sapeva che erano lì, l'aveva saputo
da quando Colby aveva detto il necrologio. Senza parole espressero le
loro condoglianze. Capivano che in quel momento non c'erano parole
che avessero potuto offrire conforto. Lo capivano, perché anche loro
sentivano la perdita. Megan piangeva. Anche David e Colby erano più
solenni di come Don li aveva mai visti.
Dopo
che tutta la processione in lutto aveva preso congedo e aveva
espresso loro le condoglianze, Don sentì che anche per loro era
arrivato il tempo di dire addio. Solo suo padre, Amita e lui stesso
erano rimasti. Sentiva Amita singhiozzare, vedeva il viso pieno di
lacrime di suo padre e finalmente sentì che anche lui piangeva in
modo sfrenato.
Non sapeva cosa fare
adesso. Sapeva che doveva congedarsi, ma non sapeva come. Da qualche
parte nel fondo della sua anima aveva continuato a sperare di poter
ancora evitare tutto finché non era arrivato al momento di dire
addio al suo fratellino.
I suoi
pensieri vaghi diventarono un po' più chiari quando realizzò un
movimento accanto a sé. Un attimo dopo vide suo padre in ginocchio.
Alan stava in ginocchia sull'orlo della tomba del suo figlio
minore.
La cosa successiva che Don
ricordava era la sua mano sulla spalla di suo padre. La strinse,
forte. Non sapeva per quanto tempo rimasero così. Il tempo non
importava. Questo era l'ultimo momento con Charlie, e malgrado il
dolore appena sopportabile avrebbe desiderato che quest'ultimo
momento non passasse mai.
|
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Capitolo 7 *** Polvere ***
nonti07
Di nuovo mille grazie per il vostro interesse e le vostre parole
gentili! Però devo dirvi che ci sarà ancora un po' di
tristezza - solo un po'! - prima che la storia continuerà in un
modo un po' più allegra. Allora vi prego, tenete duro...
7.
Polvere
Nothing
lasts forever but the earth and sky.
It
slips away.
And
all your money won’t another minute buy.
Dust
in the wind.
All
we are is dust in the wind.
Dust
in the wind.
Everything
is dust in the wind.
(Kansas,
Dust in the Wind)
Durante
i giorni seguenti Don lavorò come una macchina. Parlava raramente e
poco e solo quando era strettamente necessario. Faceva tutto quello
che bisognava fare eppure era sempre freddo e indifferente. Quando un
giorno l'amministrazione della CalSci chiamò per comunicare alla
famiglia che bisognava svuotare l'ufficio di Charlie, Alan non
dovette pregarlo a lungo. Per essere più precisi non dovette nemmeno
chiederglielo, perché Don sapeva che non l'avrebbe fatto suo padre.
Era chiaro che non ci volesse molto perchè si spezzasse
definitivamente.
Quando
Don arrivò all'entrata principale dell'università, Amita e Larry lo
aspettavano già. Erano rigidi e senza movimento, come due figure di
pietra, quasi facessero parte della facciata. Il saluto fu senza
tante parole, ma affettuoso. Comunque dovevano prendere ogni conforto
che potevano ricevere.
Don tirò fuori la chiave dell'ufficio di
Charlie. Non avevano dovuto cercarla a lungo; Charlie l'aveva appesa
sul pannello portachiavi, prima della sua partenza. Don aprì la
porta e per un attimo furono come pietrificati davanti all'ufficio,
paralizzati dalla vista che si presentava loro.
Era
un caos totale. La scrivania era piena di documenti in un disordine
incredibile, sugli scaffali pile libri, altri documenti e oggetti di
ogni sorta.
La
stanza aveva l'aspetto di sempre.
Se
tutto non fosse stato coperto da uno strato sottile di polvere,
avrebbero potuto benissimo pensare che Charlie fosse appena uscito
dal suo ufficio, forse per prendere un caffè o andare a una lezione
o per portare qualche risultato all'FBI.
Sì...
se non ci fosse stato quello strato di polvere... la polvere e l'urna
al cimitero.
Con
uno sforzo immenso Don entrò nell'ufficio per primo, seguito
immediatamente da un Larry esitante, e da un'Amita non meno
intimidita. Per qualche secondo restarono semplicemente al centro
della stanza senza sapere cosa fare. Era talmente difficile... Tutto
lì dentro faceva pensare a Charlie. Come se non stesse già
abbastanza nei loro pensieri, ma questa volta... Charlie era così
vicino a loro in quell'ufficio – in ogni foglio di carta, in ogni
tratto di gesso sulla lavagna – che potevano quasi percepire il suo
spirito. E allo stesso tempo erano coscienti che Charlie non sarebbe
mai più tornato.
I
tre respirarono gravemente e vennero attirati verso tre diverse
reliquie di Charlie.
Lo
sguardo di Don cadde immediatamente
su un documento sulla scrivania, perché era uno dei pochi oggetti
nella stanza di cui si intendeva. Era la copia di un documento
inerente ad un caso a cui Don aveva lavorato poco prima della
partenza di Charlie. Spesso gli era parso come se i suoi casi fossero
l'unica legame con suo fratello e l'unica ragione per stare con lui.
Per un periodo troppo lungo non si era accorto che erano fratelli e
che non avevano bisogno di pretesti per stare insieme, e quando era
successo era stato troppo tardi.
La parte di Don che pensava in
modo razionale, quella che gli aveva sempre permesso di capire le
spiegazioni di Charlie sui loro casi, sapeva che suo fratello, con le
sue capacità, avrebbe lavorato a progetti segreti per agenzie
investigative e altri uffici anche senza di lui. Un'altra parte però
era presa dalla paura che la decisione di fare di Charlie un
consulente dell'FBI avesse, in modo indiretto, provocato la morte di
suo fratello. E probabilmente prevalse quella parte quando Don alla
vista di quel documento riuscì a malapena a respirare e un nodo
grande come un pugno si formò all’altezza della gola e nello
stomaco.
Larry
si voltò verso il tesseract, il modello semplificato di un cubo a
quattro dimensioni. Conosceva quel modello di Charlie già da tempo,
all’incirca da quando aveva conosciuto lo stesso Charlie. Per Larry
era sempre stato un simbolo dell'idea che c'erano ancora così tante
cose sul mondo che non potevano essere spiegate e nemmeno immaginate.
Anche Charlie, il suo protetto di un tempo, era stato uno di quei
miracoli del mondo. E adesso il mondo aveva perso quel miracolo.
Era
il tempo. Per varie connessioni era considerato la quarta dimensione,
la dimensione che quel modello del cubo non riusciva a mostrare. Era
il tempo che non capiva. Perché Charlie con la sua mente tanto
geniale aveva avuto così poco tempo a disposizione? E come avrebbe
fatto il mondo senza di lui? E in che modo il tempo poteva guarire le
ferite che ora quasi impedivano a Larry di respirare?
Amita
si era avvicinata alla lavagna. Il suo sguardo era troppo sfumato
perché distinguesse cosa c'era scritto, ma in un modo quasi magico
alcuni di quei segni si fecero strada nella sua mente. Era stato
Charlie a scriverli. Riconosceva la sua scrittura, la linea, e lo
poteva dolorosamente immaginare davanti alla lavagna, che si voltava
di tanto in tanto versi i documenti o il laptop sulla scrivania,
lanciando poi uno sguardo alla porta quando lei o qualcun altro erano
entrati... Le sembrava come se tutto fosse di nuovo come prima, lei
seduta nel suo ufficio e lui che scriveva pensieri rivoluzionari su
una semplice lavagna. Eppure non ci sarebbe stato più nessun
pensiero e nessuna lettera, nessun segno di Charlie.
Le
sue dita scivolarono dolcemente sopra il verde della lavagna. Anche
sui punti dove Charlie non aveva scritto erano rimasti segni del
gesso, pensieri precedenti. Era cauta, non voleva sfumare i segni di
Charlie; voleva lasciar tutto come se Charlie fosse appena uscito
dall'ufficio. Non voleva cancellare nessun ricordo. In quel momento
le sembrava come se quello fosse tutto ciò che rimaneva di lui –
polvere.
E i
ricordi dolorosi.
- -
-
Don
tentava di assimilare tutto a modo suo. Si rigettò nella vita e fece
finta di voler tornare alla normalità. Aveva assunto incarichi come
quello di svuotare l'ufficio di Charlie per aver qualcosa da fare,
sempre confortato dalla vaga speranza che qualcosa avrebbe potuto
distrarlo dalla morte di suo fratello. Però aveva dovuto constatare
con fitte dolorose che l'ufficio di Charlie traboccava di ricordi che
non potevano assolutamente distrarlo.
Anche
il suo lavoro non era il massimo per il suo intento. Già il giorno
dopo il funerale era tornato al lavoro, e lo stesso giorno era
inciampato su un caso in cui avrebbe avuto bisogno dell'aiuto di
Charlie. Don aveva deglutito e spinto i documenti con mani tremolanti
lontano, sulla sua scrivania. Ma Charlie era rimasto onnipresente nei
suoi pensieri.
Il
quarto giorno infine, un venerdì pomeriggio, era crollato. Per
fortuna non era successo durante un'operazione, ma durante una
riunione alla centrale dell'FBI.
In ospedale gli avevano
detto che era stata colpa del modo in cui si era trattato negli
ultimi giorni: il poco sonno e la poca nutrizione richiedevano una
condotta di vita più moderata. Nessuno di loro aveva dato la
diagnosi di un cuore spezzato e un'anima fracassata.
Non
aveva avuto né la voglia né la forza per le discussioni e così
aveva seguito le prescrizioni dei dottori. Aveva preso qualche giorno
di ferie – e non c'era nessuno in ufficio che non l'avesse capito –
ed era rimasto con suo padre nel Craftsman. A casa di Charlie.
All'inizio
avrebbe voluto correre fuori urlando. Ogni cosa gli ricordava il suo
fratellino morto. Ma mentre il tempo passava si accorgeva che i suoi
sensi diventavano più fiochi. Diventava sempre più intorpidito per
quelle sensazioni, anche se sapeva che il dolore era come prima
prevalente.
Naturalmente
aveva anche pensato a mettere semplicemente fine a tutto, rapidamente
e quasi senza dolore. Il tormento sarebbe sparito e lui sarebbe stato
di nuovo con Charlie. C'erano momenti in cui credeva di non vedere
altra via d’uscita, in cui il dolore diventava semplicemente
insopportabile. Ciò che lo manteneva in vita in quei momenti era suo
padre o Robin… lo stesso Charlie.
Lo
ricordava in ogni dettaglio. Quando la sua ex-collega Nikki Davis si
era, almeno apparentemente, suicidata, Charlie aveva fatto un’analisi
di suicidio anche per lui; suo padre gliel'aveva detto. E Charlie
aveva scoperto che il rischio di Don di suicidarsi era basso perché
aveva una famiglia, perché suo padre e Charlie sarebbero sempre
stati lì se avesse avuto bisogno di loro.
Ma
Charlie non era più lì.
Non
come persona. Il suo spirito tuttavia continuava a vegliare su di
lui. Un sorriso caldo e incredibilmente fioco era apparso sulle sue
labbra al pensiero di come l'analisi di Charlie gli impedisse anche
dopo la sua morte di suicidarsi. Certo, non era più lì per tirarlo
su dal mare di disperazione, con l'aiuto di Alan e Robin, questo era
vero, ma aveva dato a Don la prova che non poteva affondare. Era
ancora il suo salvagente.
E
comunque Don non aveva riflettuto sul suicidio in modo dettagliato.
Dopo la morte di Charlie aveva piuttosto temuto e sentito di essere
arrivato al punto da poter fare una cosa del genere. Anche prima
della morte di Charlie, di tanto in tanto aveva temuto che il suo
lavoro e le immagini scabrose che portava con sé avrebbero potuto
spingerlo al di là del baratro, in una depressione tanto profonda da
portarlo al suicidio. Soprattutto grazie a quell’analisi, però, si
era calmato un po'. Ma quando Charlie, una delle ragione per le quali
valeva vivere, se n'era andato, aveva inizialmente creduto che tutto
sarebbe finito.
E
tuttavia aveva superato quella fase. Avrebbe lottato. Non avrebbe
piantato in asso tutti quelli che avevano amato Charlie, così da
farli soffrire ancora di più. Conosceva quella sofferenza e non
l’avrebbe alimentata.
E
inoltre avrebbe lottato per Charlie.
Per
Charlie.
Don
non poteva spiegare questo pensiero, ma trovava importante continuare
a vivere per non deludere suo fratello. Sì, credeva che Charlie non
avrebbe voluto vederlo tanto giù. In fondo era strano. Per tanti
anni non erano riusciti a capirsi… ed ora che non potevano nemmeno
parlarsi, sembrava ci fosse un accordo così forte tra di loro che
Don veramente credeva di poterlo sentire nell'aria accanto a lui, che
Charlie, per qualche straordinaria ragione, fosse ancora tra loro.
Naturalmente non
dimenticava che in realtà era morto. Perché anche se qualche volta
pensava di poter sentire la sua presenza, Charlie era sempre talmente
lontano che la sua mancanza minacciava di rodere Don dall'interno. In
quei momenti provava a essere il più vicino possibile a suo
fratello. Andava al laghetto dei Koi oppure camminava a sua casa o
andava nel garage e inspirava la polvere del gesso...
Oppure
andava al cimitero.
Amita
ed Alan avevano deciso di andare al cimitero insieme. Don non ebbe
problemi a capire da dove venissero quei fiori freschi sulla tomba,
striati di blu, soprattutto considerando che Charlie aveva regalato
quella pianta anche a lei. Amita non avrebbe potuto scegliere fiore
migliore del nontiscordardimé, benché l'appello non fosse
necessario. Nessuno di loro avrebbe mai potuto dimenticare Charlie.
Don
si era anche accorto che ogni giorno c'era una rosa fresca sulla
terra scura. Charlie non era mai stato un grande amante dei fiori,
però quella cura gli sarebbe sicuramente piaciuta. E probabilmente
le rose avevano anche qualcosa a che fare con la matematica, proprio
come altri fuori. Don ricordava ancora abbastanza bene di quando
Charlie aveva spiegato a Terry e David della sezione aurea e di dove
poteva esser trovata in natura. La matematica era anche nelle
margherite, aveva detto, e l'aveva mostrato con uno dei fiori che,
soprattutto dopo la morte di Margaret, riempivano casa.
C'era un pezzo di
matematica anche nelle rose? Don non gli aveva mai chiesto.
Con
un movimento stanco della mano mise i suoi occhiali da sole nel
taschino sul petto della sua giacca. Incominciava a diventare buio e
il cimitero non sarebbe stato aperto ancora a lungo. Come se
importasse a Don.
I
primi giorni era andato lì sempre la mattina, prima del lavoro. Però
si era accorto presto che dopo non riusciva a concentrarsi su altra
cosa che Charlie. All'inizio non era stata una sorpresa per lui. Solo
quando, per il crollo, aveva dovuto spostare la sua visita alla sera,
aveva realizzato che era un po' più facile così. Se aveva il
proposito di andare al cimitero la sera, aveva almeno una ragione per
sopportare tutta la giornata. Ed era più facile parlare con suo
fratello quando aveva qualcosa da raccontare del giorno. Don aveva il
sospetto cocente che dalla morte di Charlie parlasse più spesso e
più lungo con lui che prima. Come se volesse recuperare tutto il
tempo perso benché sapesse che non era possibile.
No,
si doveva rassegnare. Tutto ciò che rimaneva di Charlie erano i
ricordi vividi e la polvere aridamente morta.
|
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Capitolo 8 *** La vita continua ***
nonti08
Grazie per le recensioni
e grazie per continuare a leggere!
8.
La vita continua
Another hero,
another mindless crime
Behind the curtain in
the pantomime.
Hold
the line. Does anybody want to take it anymore?
The show must go on.
(Queen, The Show Must Go
on)
Circa un mese dopo la
sepoltura di Charlie, tutti sembravano essere riusciti a tornare a
qualcosa di simile alla quotidianità, almeno dall’esterno. Forse
era stato servito erigere la pietra tombale per rendersi davvero
conto della morte di Charlie, benché avessero ancora difficoltà a
accettare la verità. E naturalmente la vita quotidiana era diversa.
La mattina, Alan non faceva più colazione con Charlie, ma con Don.
Don aveva abbandonato il suo appartamento definitivamente ed ora
passava giorno e notte o nella casa che una volta era stata di
Charlie o da Robin senza sapere a quale delle due realtà
appartenesse. Amita si faceva vedere da loro più raramente e passava
le sere e le notti da sola, nel suo appartamento. Larry non sapeva
più con chi parlare, né quando aveva bisogno aiuto né per offrire
il proprio. La squadra perdeva puntualmente il filo dei pensieri di
qualsiasi caso seguisse ogni volta che passava in una delle sale di
conferenza in cui Charlie era stato così tante volte.
Nello stesso tempo
arrivarono anche gli effetti personali di Charlie che l'agenzia –
ancora anonima – aveva finalmente mandato loro. Per due giorni il
pacco era rimasto accanto all’ingresso, come dimenticato, ma
naturalmente nessuno se n'era dimenticato; come avrebbero potuto?
Pendeva su di loro come una spada di Damocle, pieno di pensieri e
vividi ricordi di Charlie.
Avevano
chiesto a Larry ed Amita di venire per dare una un’occhiata
insieme. I due certamente sarebbero stati d’aiuto, non solo per
decidere cosa appartenesse al CalSci o a uno di loro, ma anche per un
sostegno emotivo.
Aprirono
la scatola di cartone e furono immediatamente di fronte ad oggetti
pieni di ricordi. Per qualche istante non si mossero, prima di
spostare tutti gli oggetti sul tavolo per avere una migliore visione
d'insieme.
Nessuno osava prendere
l’iniziativa. Finalmente Don si riscosse e aprì il portafoglio di
Charlie, sperando che avessero lasciato la sua carta d'identità con
la foto. C’era.
Anche
gli altri cominciarono a prendere oggetti diversi, con sentimenti
misti. Cercando di distrarsi con qualcosa, Larry cautamente prese uno
dei libri e lo sfogliò finché uno stelo dal fiore blu non ne cadde
fuori. Mentre scivolava a terra e il suo volo era osservato dai
presenti come in trance, Amita ricordò come fosse finito in quel
libro. Rivide come fosse stato solo il giorno prima Charlie che le
dava la piccola piantina prima di partire. All'inizio non ne era
stata certa, l’aveva solo sfiorata quel pensiero che lui aveva
quasi subito confermato. «E' un nontiscordardimé.»
Era arrossito un po',
quel rossore giovanile e affascinante che amava talmente tanto.
«Prendilo alla lettera».
Poteva quasi sentirne
ancora il profumo e i petali morbidi come velluto sotto le dita
quando aveva cautamente spezzato un ramo della piantina e lo aveva
messo con cura nel taschino della giacca di Charlie.
«Altrettanto»
aveva bisbigliato e il sorriso che si allargò sulle sue labbra ora
era solo un po' più
triste di quello con cui l'aveva congedato. Per
sempre.
Finalmente lo sguardo di
Amita raggiunse una collana. Era un semplice filo di cuoio con un
piccolo ciondolo cilindrico che terminava a punta.
Amita allungò una mano
tremolante che, non appena le dita toccarono il filo, si strinse
salda attorno al ciondolo. Sfregava il pendente mentre ripensava al
giorno in cui lo aveva regolato a Charlie, due giorni prima della
partenza, l’ultima volta in cui aveva parlato con lui.
«Tanti
auguri, Charlie!»
Charlie, davanti alla
lavagna nel suo ufficio, si voltò con un grande sorriso e
l'abbracciò. Quando si separarono, Amita fece comparire una piccola
scatolina, come per magia.
«Cos'è?» chiese
lui, con quel sorriso onnipresente.
«Aprilo» rispose con
viso raggiante e Charlie seguì il suo consiglio con curiosità.
Armeggiò con il nastro del regalo finché finalmente non riuscì a
aprire il coperchio dalla scatola e suo sguardo rimase fisso
sull'obelisco in miniatura intorno al filo di cuoio.
«E' molto bello»
disse, sempre di ottimo umore, ma un po' confuso, e la guardò negli
occhi, in attesa. «Che cos'è?»
«E' un talismano,
viene dell'India».
Con un sorriso Amita
allungò la mano verso la scatolina armeggiando con il pendente
finché le sue abili dita non ne svitarono un'estremità ed tirarono
fuori un piccolissimo foglio, circa tre centimetri per tre. Lo spiegò
e lo diede a Charlie.
Gli occhi del
matematico si allargarono quasi quando realizzò cosa avesse tra le
mani. «E'...» Verificò la sua teoria ancora una volta. Amita ne
era certa dai movimenti dei suoi occhi. Lungo le colonne... le
righe... le diagonali... e le diagonali rotte: facevano tutte la
stessa somma. «E' un quadrato panmagico!»
Il viso di Amita era
raggiante. Era stata certa che Charlie l'avrebbe riconosciuto così
velocemente.
«Esatto. I quadrati
magici vengono dall'India e secondo quel che si dice portano
fortuna». Esitò per un istante. «Ti proteggerà quando comincerai
la missione segreta».
Quando aveva detto
quell'ultima frase, il suo sorriso sembrò per la prima volta un po'
forzato, ma Charlie la calmò subito.
«Sono sicuro che lo
farà».
Sapevano tutti e due
di non credere nella forza protettiva di qualche numero scritto su un
foglio in un ciondolo attaccato a un filo di cuoio; erano
sciocchezze. Però questo non rese il regalo meno prezioso. E poi
sarebbe stato in grado di dare la forza a Charlie, malgrado tutto,
semplicemente perché sapeva che a casa c'era qualcuno che pensava a
lui.
Con un bacio tenero e
un abbraccio forte che avrebbero dovuto esprimere tutte le cose non
dette – e lo fecero – Charlie la ringraziò.
Si strinse contro lui,
forte. Non avrebbe mai dimenticato quei contatti, avrebbe sentito in
eterno la sensazione delle sue labbra sulle proprie, le sue mani che
accarezzavano la sua schiena...
Amita singhiozzò. Era
talmente ingiusto, talmente irreale. Perché il talismano non aveva
potuto proteggere Charlie?
I suoi singhiozzi
divennero più forti senza avere più quella mano calda sulla schiena
a consolarla. Certa che nessun talismano al mondo l'avrebbe potuto
proteggere. Erano tutte sciocchezze. Avrebbe dovuto dargli qualcosa
di veramente utile, forse in quel caso avrebbe funzionato, forse
Charlie sarebbe sopravvissuto se non gli avesse dato quella stupida
cosa. Forse in quel caso adesso sarebbe ancora con lei.
Con dita tremolanti
riuscì in qualche modo ad aprire il pendente: voleva tirare fuori il
pezzo di carta. Ma non poté: non c'era più.
Amita aggrottò la fronte
mentre le lacrime continuavano a scorrerle sul il viso. Perché il
foglietto non era più lì? Charlie l'aveva perso? E perché l'aveva
tirato fuori? O forse l'avevano tirato fuori dopo? E se era così,
chi l'aveva fatto? E perché?
C'erano talmente tante
domande... talmente tante domande e non avrebbe mai saputo le
risposte.
- - -
Qualche risposta, almeno,
era nella lettera che avevano mandato assieme agli effetti personali.
Come la prima, era indirizzata ad Alan e proveniva direttamente dal
governo. Questo perciò non specificava ancora l’agenzia che
l’aveva inviata.
Non avevano detto loro
molto, ma era stato abbastanza da calmare il desiderio di giustizia
di Don. "Loro" – chiunque fossero – erano molto
dispiaciuti per l'incidente e il lutto provocato ai parenti. Perciò
erano anche delusi di non poter dire di più alla famiglia circa ciò
che era realmente accaduto, ma la sicurezza nazionale chiedeva
estrema discrezione e loro chiedevano la comprensione dei congiunti.
Potevano solo informarli che Charlie era stato dislocato in un
focolaio di crisi, ben protetto e tutto sommato senza rischio. Però
il giorno in questione, un gruppo di radicali aveva commesso un
attentato proprio nell’alloggio che ritenevano sicuro. Charlie era
morto carbonizzato dal fuoco dell'esplosione, il suo corpo però era
stato trovato e identificato senza dubbi, date le circostanze si
erano presi la libertà di cremarlo. I terroristi che avevano
commesso l'attentato erano già stati trovati e consegnati alla
giurisdizione del posto; tuttavia non potevano comunicare i loro
nomi. Alan e Don però potevano star certi che la morte del loro
figlio e fratello era stata punita dalla giustizia.
Don aveva sperato di
sentirsi meglio appena saputo che i responsabili erano stati puniti,
ma dentro di sé non avvertì né trionfo né soddisfazione. Forse
perché non aveva ancora informazioni dettagliate sulla morte di
Charlie. O forse perché le spiegazioni della lettera non cambiavano
il fatto che Charlie fosse morto.
- - -
Don si aspettava che
avrebbe sofferto di meno. Ma non accadde. Sapeva che il dolore non
l’avrebbe mai completamente abbandonato, ma si diceva che si
sarebbe attutito col tempo, no? Era stato così con Margaret, quando
le settimane e i mesi erano passati.
Ma non stavolta.
Quando Don pensava a
Charlie – cioè quasi sempre – riusciva appena respirare. Sul suo
petto e sulla sua gola gravava una pressione che semplicemente non
voleva andarsene.
Erano passati giorni e
settimane e mesi. Sei mesi dalla catastrofe. E ancora Don non
riusciva a venire a capo della situazione. Non era l'unico che faceva
fatica. Suo padre, Amita e Larry sembravano colpiti altrettanto
duramente per tornare alla loro vita normale.
Solo la squadra sembrava
di essersi ripresa. E non solo questo. Si aspettavano anche da Don
che incassasse la morte di suo fratello così facilmente, che
dimenticasse Charlie e continuasse a vivere la sua vita come se
niente fosse successo. Non lo dicevano, ma Don sentiva i loro sguardi
come se gridavano “Dai, Don” oppure “Non essere troppo triste”
e ancora “Torna alla vita”. Ma non poteva. La morte di suo
fratello glielo rendeva impossibile perché senza di lui quella vita
non esisteva più.
«Don? Siamo riusciti a
trovare la sorella».
Don levò lo sguardo e si
destò lentamente dai suoi pensieri. Era in ufficio e aveva appena
tentato di concentrarsi sul loro caso. Un omicidio in una banda di
spacciatori di alto rango. Un tipo che aveva ucciso suo fratello. Don
non riusciva a comprendere quell'uomo.
«Sì...» La sua voce
era quasi inesistente e dovette schiarirsi la gola. «Vabbè Colby.
Tu e David, voi... potete andare da lei».
Colby guardò il suo capo
con compassione. Don era cambiato in quei sei mesi. Era diventato più
silenzioso, quasi depresso. Si lasciava distrarre più facilmente,
non era più così determinato e i suoi ordini erano senza
convinzione e sicurezza. Naturalmente Colby, David e Megan non si
erano mai aspettati che Don incassasse la morte di Charlie come se
niente fosse successo. Ma… poco a poco...
Colby si fece animo.
Prima o poi avrebbe dovuto smetterla di stare così.
«Don... noi tutti
sentiamo la mancanza di Charlie. Ma il modo in cui tu... Avanti, non
è normale, davvero. È terribile, lo so, ma la vita continua».
Don lo trapassò con uno
sguardo che Colby non poté descrivere, ma che gli faceva rizzare i
capelli. Le prime parole furono fredde e controllate, ma si persero
in una gola gonfiata e un timbro soffocato.
«No, non continua.
Almeno non per Charlie».
Don fu sollevato quando
Colby, il viso rosso, si allontanò verso la sua prossima testimone.
In quel modo almeno nessuno avrebbe potuto vedere l'umidità nei suoi
occhi.
Affondò di nuovo nelle
tortuosità dei suoi pensieri e non riemerse finché il suo cellulare
non squillò. Lentamente, con movimenti stanchi, lo tirò fuori.
Numero sconosciuto. Don sospirò, malinconico, e rispose alla
chiamata.
«Eppes».
«Buongiorno,
signore. Questo è la Clinica Alessio-di-Roma. Avremmo qualche
domanda per lei».
Don aggrottò la fronte.
Non aveva mai sentito nulla circa una clinica con quel nome. Era solo
uno stupido scherzo telefonico? O una chiamata di pubblicità? In
ogni caso avrebbe certamente aumentato il suo malumore.
«Non conosco questa
clinica» rispose perciò abbastanza bruscamente. «Che vuole?»
L'infermiera o quello che
era non si fece scoraggiare. «Lei conosce un uomo bianco, circa
trent’anni, capelli scuri e ricci, occhi scuri?»
Per un attimo Don fu
tentato di rispondere "No, ma lo conoscevo", però non ne
ebbe il cuore.
Disse semplicemente: «Sì.
Perché?»
«Chi è?»
La rabbia montò in Don.
Che cosa voleva quella donna? Perché gli chiedeva quelle cose?
«Charlie Eppes. Era mio
fratello». La risposta suonò sgarbata: la rabia era una protezione
efficace per soffocare il dolore. Almeno faceva effetto di solito.
Quando Don sentì le
parole che venivano dalla sua bocca, fermò gli occhi per un istante,
sentendo con riluttanza una lacrima sulla coda dell'occhio. Deglutì
velocemente e poi continuò con malagrazia: «Perché vuole saperlo?»
«Era suo
fratello?» chiese la donna.
O quella tizia era sorda
o voleva solo farlo imbestialire. E se era questo che voleva, ci
stava riuscendo.
Don respirò
profondamente. Per un attimo si chiese perché non aveva attaccato.
Ma quella donna gli stava parlando di Charlie... Faceva male, certo.
Ma Don non voleva smettere.
Con una voce più calma
continuò. «Era un matematico e ha lavorato per un'unità speciale
ad un progetto segreto. Durante questo è stato ferito gravemente ed
è morto».
All'altra estremità ci
fu silenzio per qualche secondo e Don ebbe tempo per socchiudere gli
occhi. Purtroppo non aiutò. Con impazienza si tolse le lacrime dal
viso.
«Quando è successo
l'incidente?»
«Sei mesi fa. Perché mi
fa queste domande?»
Se la donna non l’avesse
snervato tanto, forse le avrebbe potuto dare anche informazioni più
esatte. Il giorno preciso della morte di Charlie: cinque mesi e
cinque giorni fa. La scomparsa di Charlie: sei mesi e cinque giorni
fa. L'ultima chiamata di Charlie: sei mesi, cinque giorni e sedici
ore fa. Le sue ultime parole: "A presto".
La gola di Don si strinse
ancora più forte prima e si morse su un labbro. Tuttavia, il
singhiozzo sfuggì dalla bocca.
«Perché vuole sapere
tutto questo?» ripeté, più forte e adirato di prima. Non potevano
semplicemente lasciarlo in pace, non potevano semplicemente smettere
di chiedergli della morte di Charlie, non potevano semplicemente
smettere di fargli ricordare continuamente quei momenti orribili...?
«L'intera faccenda è un
po'... strana» finalmente la donna cominciò a sputar fuori «Abbiamo
qui nella nostra clinica un paziente che ha perso la memoria e che
concorda con la descrizione di suo fratello. La notte scorsa ha
sognato di una serie di numeri che è risultata essere questo numero
di telefono. Devo ammetterlo, il fatto che si ricordi i numeri che si
sogna… non ho mai sentito una cosa del genere! In ogni caso
crediamo che si tratti di suo fratello, signor… – qual è il suo
nome?»
Don non aveva ascoltato
attentamente la voce; insensibile, incredulo, come in sovraccarico.
Che – che cos'aveva detto? Aveva parlato di Charlie... cosa aveva
detto? Avevano un paziente in quella clinica che somigliava a
Charlie, che sognava numeri, che...
«Ehi? Signore?»
«Non è possibile».
Don rabbrividì quando il
suo cervello realizzò la freddezza e la lontananza delle sue parole.
Ma non era possibile, Charlie era morto, era morto, morto...
«Posso faxarle la
fotografia della sua cartella clinica. Ha un fax? Qual è il numero?»
Automaticamente, lo
sguardo di Don si trascinò sui numeri sull'apparecchio. Numeri.
Senza veramente sapere che cosa stesse facendo, li dettò. La sua
voce era rauca, la sua bocca e la gola ad un tratto secche come la
polvere.
«Va
bene. Dunque, le mando adesso il fax. Per favore ci chiami appena è
sicuro se conosce l'uomo o meno. Riceverà il nostro numero sul fax.
A risentirci!»
Don
fissò il ricevitore. Aveva ancora difficoltà a capire che cosa
aveva appena detto quella donna. O meglio, a comprendere dove fosse
l'errore. Perché era ovvio, non poteva essere, Charlie era morto,
era morto, morto...
Uno
strepito elettronico lo strappò dal suo stato di choc e lentamente
levò gli occhi sull'apparecchio per i fax. Il foglio si arrotolò e
cadde a terra. Con mani tremolanti Don lo raccolse e lo svolse.
Occhi grandi e pieni di
espressione lo guardavano dalla foto e immediatamente lo attirarono a
sé. Nonostante la copia fosse in bianco e nero, sembravano aver
mantenuto il loro timbro di un marrone caldo. Don conosceva quegli
occhi. Avevano una familiarità dolorosa con gli occhi che si erano
fermati troppo presto.
Mentre Don fissava gli
occhi, si mossero. Tremarono. Tutta la faccia fece movimenti tremanti
e inquieti, proprio come la mano che teneva il foglio, proprio come
l'intero corpo di Don il cui diaframma si contrasse
dolorosamente.
«Che cos'è?»
La testa di Don si girò
di scatto quando la proprietaria della voce gli mise una mano sulla
spalla.
«Oh» disse Megan quando
riconobbe che cosa stava fissando Don e trasalì, spostandosi un po'
indietro. Esitò.
«Dove hai preso questa
foto?»
Don fissò con occhi
spalancati – e arrossati, come constatò Megan – prima la sua
collega a lungo e poi di nuovo il foglio di fronte a lui. Senza
levarle lo sguardo dal viso le chiese: «Chi è?»
Megan era confusa, anzi
di più, era inquieta. Don non stava affatto bene in quel periodo, e
sul serio: chi lo avrebbe biasimato?
«E' Charlie, chi altro?»
Vide come Don deglutì
prima che la sua voce stridula suonasse di nuovo.
«Davvero?»
«Certo.
Che hai, Don? Cos'è –»
Però non finì la sua
domanda. Era troppo occupata a seguire i movimenti delle mani di Don
che tremolarono inquietamente verso il telefono. Una mano prese il
ricevitore, lo strinse forte, mentre l'altra tentò di digitare i
numeri del fax. Non ci riuscì; era troppo inquieta, troppo tremante.
La mano venne spinta da
parte da un'altra più piccola che sembrava sia aver realizzato che
cosa volesse fare la prima, sia aveva la forza e la calma per farlo.
«Qual è il numero? Chi
vuoi chiamare?» volle sapere Megan, ma Don non la sentì.
La sua concentrazione era
diretta sul segnale di libero che venne poco dopo sostituito da una
voce femminile.
«Clinica
Alessio-di-Roma, cosa posso fare per lei?»
«Eppes... Mi ha appena
chiamato. Si trattava di Charlie, mi ha mandato la sua foto».
«Ha riconosciuto la
persona?»
«Sì». La voce di Don
non tremava meno delle sue mani o il suo corpo.
«Sì... è... E' mio
fratello».
- - -
Beh', non avete veramente
creduto che potessi uccidere Charlie all'inizio di una storia così
lunga, vero?^^
|
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Capitolo 9 *** Rinascita ***
nonti09
Grazie per le ricensioni!
Spero che continuiate a
leggere e che la storia non diventerà troppo noiosa per voi...
9.
Rinascita
It
takes a thought to make a word,
And
it takes some words to make an action.
And
it takes some work to make it work,
It
takes some good to make it hurt,
It
takes some bad for satisfaction.
Life
is wonderful.
Life
goes full circles.
(Jason Mraz, Life Is
Wonderful)
Don aprì la porta
della Craftsman. Lentamente entrò in casa, levandosi con una calma
sforzata la giacca.
«Don?»
Suo padre uscì dalla
cucina. Sembrava un po' sorpreso, ma Don non ne era sicuro. Dalla
scomparsa di Charlie, le emozioni di Alan erano sempre più difficili
da interpretare. Ogni sentimento era offuscato da una nuvola scura
che non si decideva a sparire. Forse Don aveva solo immaginato la
sorpresa perché doveva semplicemente esser lì, perché era logica,
perché in realtà Don non avrebbe dovuto essere a casa. Il lutto,
però, non l’aveva immaginato.
Come avrebbe reagito
Alan?
«Ciao, Papà».
«Che è successo?»
Don avrebbe dovuto sapere
che non poteva ingannare Alan. Il suo orario di lavoro non era mai
stato regolare, ma generalmente tornava più tardi e non prima.
Tranne, naturalmente, se era successo qualcosa.
«Dobbiamo parlare».
Don notò che suo padre
divenne un po' più pallido e quasi si pentì delle sue parole. Non
avrebbe voluto spaventarlo. Non voleva farlo stare sulle spine. Era
solo che non sapeva come dare le notizie.
Eppure questa era una
buona notizia! E anche se Don era più esperto nel portare notizie di
morte che quelle contrarie, era tuttavia sorpreso dalla tanta
difficoltà che provava in quel momento.
Forse perché non era
qualcuno del tutto sconosciuto, ma suo padre.
Forse perché per sei
mesi aveva creduto che Charlie fosse morto.
Alan e il suo figlio
maggiore si sedettero al tavolo da pranzo.
«Ho ricevuto una
chiamata oggi» cominciò Don.
Non sapeva come
continuare e le parole vennero dalla sua bocca semplicemente così,
senza un piano. Forse, in ogni caso, avrebbe dovuto riflettere su
come dirglielo. Ma questo avrebbe richiesto pensieri quanto meno
sensati.
Suo padre lo guardò in
modo – sì, in che modo? Interessato, interrogativo,
curioso? No. No, una chiamata all'ufficio di Don non aveva la
priorità per Alan. Vuoto. Vuoto era l'espressione giusta.
Giusta e talmente falsa.
Don continuò, sempre
senza sapere come dare la notizia.
«Era una clinica da
qualche parte in Nebraska. Una clinica psichiatrica privata per
persone con disturbi di memoria o altro, fondato da un imprenditore
cattolico... ma non importa».
Don si era informato; non
aveva voluto informare suo padre senza avere indizi. Però tutto ciò
che aveva trovato sembrava così incredibilmente inappropriato in
confronto a quello che avrebbe voluto dire per primo. Deglutì. «In
ogni caso… mi hanno mandato una foto. Di Charlie».
Don armeggiò con la
copia piegata con precisione, tirandola dal taschino interno della
sua giacca e la mostrò a suo padre. Siccome conosceva già ogni
dettaglio della foto, la sua attenzione fu diretta all’uomo, così
che non poterono sfuggirgli le lacrime fresche che scivolarono lungo
le sue guance. Notò che gli angoli della bocca di suo padre
trasalirono brevemente come se avessero avuto quasi intenzione di
sorridere, e Don suppose che in quel momento Alan avesse guardato la
bocca di Charlie, quella bocca che aveva una certa somiglianza con
quel gesto: un angolo quasi impercettibilmente tirato su, come se non
fosse sicuro se dovesse o volesse o potesse sorridere. Però era
talmente impercettibile il gesto sulla foto, che tanto rapidamente
era scomparso anche dal viso di Alan. Nessun sorriso più, non
l'ombra più vaga di allegrezza, e Don sapeva che gli occhi di Alan
adesso fissavano quelli del suo figlio minore. E gli occhi di Charlie
in quella foto non erano fatti per provocare un sorriso. Avevano
perso troppo della loro intensità: lo sguardo era quasi apatico.
Però più di tutt'altro c'era una tristezza infinitamente profonda.
«Da dove viene questa
foto?» chiese Alan e la sua voce era instabile.
«La clinica dice che è
la foto di una cartella medica di uno dei loro pazienti».
Alan levò lo sguardo
brevemente con una domanda silenziosa scritta sul suo viso pieno di
speranza.
«Vuol dire…» continuò
Don, e anche la sua voce era soffocata, mentre tentava di scegliere
le sue parole deliberatamente, «che hanno un paziente che ha
l'aspetto di Charlie».
Alan levò la testa. Don
vide le lacrime scintillare nei suoi occhi e non seppe come
comportarsi finché non si accorse che anche nei propri c'erano
lacrime. Solo allora, dopo averle dette a suo padre, cominciò non
solo a capire quelle parole, ma anche a sentirle: Charlie –...
C'era la possibilità che Charlie fosse ancora vivo!
Ma come? Avevano ricevuto
la notizia della sua morte, l'avevano seppellito, avevano vissuto sei
mesi credendo che Charlie fosse morto... E finora non era tornato,
era rimasto morto...
No, no, no, tutto quello
era troppo. Non poteva essere, eppure sembrava così. La loro
speranza era rinata. Eppure non potevano lasciarlo accadere. Perché
se la speranza si fosse spezzata, c'era un grande pericolo che anche
loro si sarebbero spezzati.
- - -
Don si sentiva come un
prigioniero. I suoi pensieri continuavano circolare attorno a
Charlie, sempre con la stessa domanda “Può essere?” e non
lo lasciavano andare. Tentava di sfuggire, di calmarsi, ma era
nervoso e quasi non riusciva a sopportare il tempo d'attesa.
L'aeroplano aumentava
questo sentimento di prigionia e Don desiderava ardentemente che
andasse più veloce, portandolo alla risposta, ma la sua volontà
naturalmente non poteva influenzare le leggi della meccanica. L'aereo
andava veloce – ma non avrebbe mai potuto essere più veloce solo
per volontà di Don e di suo padre.
Comunque erano stati
fortunati. Due passeggeri avevano rinunciato al volo e due posti si
erano liberati all'ultimo momento, così che erano potuti andare in
Nebraska il giorno dopo la chiamata della clinica. Si erano dovuti
presentare all'aeroporto praticamente di notte e questo aveva dato
loro un pretesto per non provare nemmeno ad addormentarsi. Erano
talmente tesi che non riuscivano nemmeno a stare sdraiati senza
muoversi nervosamente.
La clinica aveva proposto
loro di andare lì, se potevano, per accertarsi di persona se il
paziente fosse davvero il membro della loro famiglia. Don avrebbe
preferito parlare prima con Charlie – o chiunque fosse – ma
l'infermiera non aveva dato il suo consenso. Il loro paziente non
doveva, inaspettatamente, sentire una voce distorta dal telefono,
senza poter collegare mentalmente ad essa un volto – era un
paziente che soffriva di amnesia: aveva dovuto sopportare molta
confusione nelle settimane e nei mesi passati. Don aveva dovuto
deglutire; avrebbe dovuto ancora aspettare prima di averne la
certezza.
Ma è
certo, disse una vocina disperata nella testa di Don. Charlie
è morto, l'abbiamo sepolto, abbiamo ricevuto la lettera. E' morto!
Ma allora chi era l'uomo che assomigliava tanto dolorosamente a
Charlie? Forse era proprio lui, nonostante tutto? E c'era stata
confusione quando li avevano informato della morte? E l'amnesia era
talmente ben adatta a questa teoria... Per favore, ti prego, fa
che sia Charlie, per favore, ti prego...
L'aereo atterrò
dolcemente e solo mezz'ora più tardi Alan e Don fermarono un taxi
davanti all'aeroporto. L'autista li guardò con sopracciglia inarcate
quando gli diedero l'indirizzo: la clinica era fuori città e
occorrevano due ore di macchina. Tuttavia non si fecero mettere in
imbarazzo, e quando gli assicurarono che avevano abbastanza soldi per
la corsa, l'autista del taxi alzò le spalle e mise in moto.
La corsa non sembrava
avere fine. Non c'era tanto da vedere in strada, ma comunque niente
li avrebbe potuto distrarre da Charlie. Forse, forse l'avrebbero di
nuovo visto fra poco...
La clinica si trovava a
quattro o cinque miglia da una cittadina, nel verde, oppure, come
sembrava a Don, nel nulla. Forse il posto lì era abbastanza bello,
però la clinica era immensamente isolata dal resto del mondo.
Pagarono l'autista, anche
per il ritorno. Si sentirono come traditori quando gli chiesero di
aspettare un'ora e di non tornare in città fino ad allora. Ma se lo
sconosciuto di quella clinica non fosse stato Charlie, non volevano
rimanere lì più del necessario.
- - -
Andarono alla reception
nella piccola sala principale della clinica e si presentarono.
Avevano un po' di difficoltà a spiegare la faccenda. Siamo venuti
a prendere Charlie? E cosa sarebbe successo se l'infermiera
avesse detto che non c'era, che quest'uomo le era sconosciuto, che
era tutto solo un malinteso...?
«Ci è stato detto di un
paziente nella vostra clinica che… che potremmo conoscere. A quanto
sembra ha perso la memoria e non si sa chi sia» tentò di spiegare
Alan nervosamente.
«Di chi si tratta?»
chiese l'infermiera in modo risoluto, ma non scortese.
«Charlie» intervenne
Don, prima di rendersi conto che all'infermiera probabilmente il nome
non sarebbe stato di aiuto «31 anni, i capelli neri e ricci, circa
un metro settantacinque...»
«Ah sì, certo» lo
interruppe l'infermiera.
Avevano nell'interna
clinica solo quattro pazienti la cui identità non era chiara, tre di
loro erano maschi e la descrizione era adatta solo ad uno. Fece
qualcosa al suo computer e finalmente girò lo schermo in modo che
Alan e Don potessero vederlo. Era la stessa foto di Charlie che
avevano mandato il giorno prima. Il giorno prima... sembrava esser
passata una vita intera.
La foto stringeva sempre
loro la gola e potettero solo annuire. Fu comunque sufficiente
all'infermiera: chiamò una dottoressa che, solo un minuto più
tardi, prese in consegna i due uomini che aspettavano
impazientemente.
«Sono la Dottoressa
Andrews. Seguitemi. Vi porterò da lui».
La semplicità delle sue
parole per poco non li sconcertò.
«Siamo contenti che
abbiate avuto tempo per venire così presto» cominciò mentre
guidava i due uomini silenziosi attraverso corridoi che non
sembravano avere fine. «Per un periodo abbastanza lungo non sapevamo
cosa fare con Michael. Era depresso e non ricordava –»
Benché Don avesse
creduto di essere troppo teso per una conversazione, non fu in grado
di trattenere la sua domanda. «Michael?» Il panico cominciò a
salire. Forse non era...?
«Sì, siccome non
ricordava il suo nome, abbiamo dovuto dargliene un altro – non solo
per ragioni amministrative. Sapete, il nome aiuta a sentirsi un
essere umano. E il giorno in cui il vostro figlio e fratello fu
portato da noi era l'onomastico di St. Michael, o per meglio dire
Miguel».
«E non si ricorda
niente?» chiese Alan.
«Ma sì, certo» lo
contraddisse la dottoressa. «Michael soffre di un'amnesia
retrograda. In un certo modo la sua malattia è un caso particolare
perché si ripercuote sia in modo globale sia in modo locale;
ciononostante, per quanto ne sappiamo attualmente dell'amnesia, non è
veramente possibile creare un quadro clinico ordinario. In ogni caso
Michael non ricorda né le circostanze che hanno provocato la perdita
della memoria, né informazioni o contatti personali. Le sue
cognizioni generali, tuttavia, non sembrano esser disturbate. È
riuscito a nominarci i nomi dei mesi, dei presidenti degli Stati
Uniti... ricorda tutte le cose che non hanno a che fare con la sua
vita personale. Inoltre, però, è anche in grado di descriverci
immagini che devono avere a che fare con la sua vita perché noi non
siamo ancora stati in grado di riconoscerle. Se si ricorderà di voi,
sono fiduciosa che recupererà man mano la memoria. Per quanto
riguarda le altre attività del cervello – beh, parlando di quelle,
vi prego di non dimenticare che l'amnesia nuoce solo la capacità
memoria. Naturalmente, causa anche confusione, e nel caso di Michael
ha anche causato depressione, però non sono sintomi primari della
malattia. Dunque, ciò che vorrei dirvi è questo: le capacità
cognitivi di Michael sono completamente illese, da quello che abbiamo
potuto vedere».
Alan era un po' confuso.
Non era sicuro di aver capito tutto, né se tutte quelle informazioni
gli interessassero. Perché non gli sarebbero interessate se quel
Michael non fosse stato Charlie. Era semplicemente così incredibile
che Charlie potesse davvero essere vivo che, per la propria
protezione, tentava ancora di rimanere un po' scettico. Eppure non ci
riusciva quanto avrebbe voluto. La sua speranza era rinata e adesso
stava aspettando con una tensione quasi insopportabile se la stessa
cosa sarebbe successa anche con suo figlio.
«Siamo arrivati» li
informò la Dott. Andrews ed aprì la porta di una sala di
ricreazione dove c'erano varie persone che parlavano, leggevano libri
o riviste, giocavano a scacchi o a carte. Tutti e tre lasciarono
scivolare i loro sguardi nella stanza inondata dal sole. Non
trovarono la loro meta. Il batto del cuore di Don smise per un
secondo. Non era lì, Charlie non era lì, si erano sbagliati...
Con passi risoluti la
dottoressa andò verso la porta che dava sulla terrazza. Alan e Don
si costrinsero a seguirla. Uscirono fuori al sole e dovettero
socchiudere gli occhi per un attimo prima di poter percepire ciò che
avevano davanti.
Solo una mezza dozzina di
pazienti erano seduti lì fuori, attorno ai piccoli tavoli sulla
terrazza per godere del sole. Nel parco attorno a loro Don poteva
vedere altre persone che andavano a passeggiare, lungo un piccolo
laghetto, attraverso aiuole piene di fiori, godendosi il bel tempo.
Però la sua attenzione
venne diretta subito ad una testa scura: il proprietario era
appoggiato su una sedia di plastica e stava leggendo un libro.
Voltava loro le spalle; eppure a Don e Alan non sfuggì la
somiglianza: i capelli, l'altezza, il portamento...
La Dott. Andrews gli mise
una mano sulla spalla e lui levò gli occhi dal libro; tuttavia, Don
e Alan non riuscivano ancora a vedergli il viso. Non osarono
muoversi. Sembravano pietrificati.
«Michael» disse la
Dott. Andrews gentilmente e con un sorriso sulle labbra, «qui c'è
qualcuno per te».
Con una lentezza immensa,
l'uomo si voltò verso di loro finché non mostrò finalmente il viso
e si alzò. Le sue fattezze mostrarono sorpresa e una curiosità
repressa.
«Ciao» disse infine.
Due secondi passarono
senza che successe nulla.
«Charlie!» chiamò poi
Don con una voce soffocata, e non riuscì a trattenere il singhiozzo
nella sua voce. Un istante dopo aveva già attraversato i due metri
che li separavano e aveva preso suo fratello tra le braccia. Lo
strinse forte a sé, sentendo le lacrime scivolare sulle sue guance e
nei capelli di Charlie.
Era incredibile!
Quell'uomo era Charlie, era Charlie, era reale; ed era vivo!
Alan non si era mosso di
un centimetro. Solo le calde lacrime che sentì sulle sue guance lo
sciolsero dalla sua rigidità. E lentamente, come se stesse sognando,
si avvicinò ai due. E pochi istanti dopo fece qualcosa che non
avrebbe più considerato possibile: abbracciò tutti e due i suoi
figli.
- - -
Don aveva chiuso gli
occhi. Godeva della sensazione di sentire suo fratello accanto di sé,
di sapere che il suo corpo caldo e vivo era tra le sue braccia.
Sentiva il sole primaverile sulla sua faccia, e il caldo sembrava
penetrare fin dentro il suo corpo. Però allo stesso tempo sentiva la
brama di spalancare i suoi occhi e bearsi della vista di Charlie, la
sua faccia, la sua figura, i suoi occhi vivi e non quelli inanimati
che lo guardavano puntualmente nei suoi incubi con sguardi pieni di
rimprovero.
Sentì come Alan trasalì.
Suo padre singhiozzò. Anche Don poteva sentire le lacrime di gioia
scivolare sulle sue guance.
Finalmente i due
lasciarono andare Charlie che – come constatarono solo allora –
aveva un aspetto abbastanza confuso.
«Charlie, stai bene?»
chiese Don con preoccupazione. Aveva tolto le lacrime dalla sua
faccia, ma la sua voce suonava sempre soffocata. E anche il suo
cervello non era in forma smagliante. Stai bene – Don aveva
appena pronunciato la domanda che avrebbe già voluto prendersi a
schiaffi. Era ovvio che non stava affatto bene.
Ma era solo Charlie che
non stava bene. Perché per Don quello era il miglior momento della
sua vita.
«Io –» La voce di
Charlie era gracchiante e dovette schiarirsi la gola. «Come... chi
siete?»
Istintivamente, Alan e
Don retrocessero di un mezzo passo. Il miglior momento divenne
polvere. Eppure avrebbero dovuto immaginarlo. Comunque, sentire
Charlie parlare come se fossero estranei fu un colpo all'anima.
«Charlie...» La voce di
Alan suonava rauca. «Siamo... siamo la tua famiglia».
Charlie non rispose. Solo
fissò i due, li squadrò come se cercasse qualcosa che lo aiutasse a
riconoscerli. Don quasi non lo sopportò. Quel silenzio... aveva
creato una tensione che minacciava di strapparlo dall'interno. Voleva
urlare, lanciarsi contro suo fratello, stringerlo nelle sue braccia,
ridere con lui, piangere con lui...
Ma Charlie non lo
riconosceva. Non li riconosceva. Erano estranei per lui.
Don scosse leggermente il
capo. La sua respirazione divenne più forzata. Faceva fatica a
comprenderlo. Avevano trovato Charlie. Charlie c'era di nuovo.
Però... qualcosa mancava, qualcosa non era giusta nel quadro.
«Io... io sono A-Alan»
sentì dire da suo padre, e non gli sfuggì che la sua voce
tremolava. «Sono tuo padre».
Don tentava ancora di
venire a capo di questa situazione assurda quando si accorse che due
paia di occhi si erano voltati verso di lui lentamente, in attesa.
«Io –» La sua voce
era scomparsa. Dovette schiarirsi la gola, e anche allora suonava
ancora talmente rauca che non l'avrebbe riconosciuta neanche lui
stesso. Charlie, ancora di meno. «Sono Don. Tuo fratello».
Erano solo quattro
parole, ma avevano chiesto a Don uno sforzo enorme. Non poteva
credere che tutto ciò stesse accadendo davvero. Gli sembrava
totalmente irreale, come sei mesi prima, a casa di Charlie, il giorno
del suo funerale. Però questo non era il funerale di Charlie. Era la
sua rinascita.
Lentamente, Charlie girò
la testa verso la dottoressa la cui presenza Don finora aveva tentato
d'ignorare con tutte le sue forze, proprio come la presenza degli
altri pazienti e visitatori.
«Io – non li
riconosco».
Don vide che suo padre
impallidì. Strinse la sua mano attorno all'avambraccio di suo padre,
ma non era sicuro di chi sostenesse chi. Perché era certo che le sue
ginocchia non lo avrebbero mantenuto ancora per molto.
La dottoressa non gli
offrì più di un'occhiata di lato compassionevole prima di dedicarsi
al suo paziente.
«Se vuoi, puoi
naturalmente rimanere qui, Michael. Nessuno potrà costringerti ad
andare con quei due. E' una decisione tua».
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Capitolo 10 *** Al bivio ***
nonti10
Grazie per leggere e
recensire :)
Spero che il seguito vi
piaccia...
10.
Al bivio
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your heart, little child of the west wind.
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the voice that’s calling you home.
(Brian
Adams, Brothers under the Sun)
Vedeva
la figura in modo indistinto. Era sdraiata a terra e non si muoveva.
La vedeva in modo sfumato e l’istante successivo era già sparita;
la sua immagine si era sciolta in uno scenario nuovo: una piccola
stanza, non dissimile da un cella, immersa in una luce fredda.
L'immagine
della figura immobile tornò ogni tanto, e benché ci riuscisse ogni
volta a spingerla via dai suoi pensieri, era sempre lì, da qualche
parte nel profondo della sua anima. E finché sarebbe stata lì, non
avrebbe trovato la serenità interna di cui aveva bisogno per
diventare di nuovo quello che era stato una volta. Poteva sentirlo
distintamente; quell'immagine l'aveva cambiato...
L'aveva
cambiato, ma il problema era che non sapeva chi era stato prima.
L'ultima cosa che poteva ricordare distintamente era la sua
rinascita. Almeno così gli sembrava, quando tornava indietro con la
mente al giorno in cui si era svegliato in quella camera. Era stato
accudito, ricostituito e riportato alla vita. Una vita nuova,
forzatamente. Perché non sapeva nulla di sé.
Gli
si avevano detto che era stato trovato su una strada principale
raramente percorsa, privo di sensi e senza oggetti personali. Era
stato raccolto e portato lì. Avevano detto che era molto denutrito e
deidrogenato, e che per qualche periodo era stato tra la vita e la
morte.
Non
poteva ricordare tutte queste cose, e soprattutto quello che aveva
preceduto quello stato mortale. E la sua amnesia. Tranne qualche
graffio ed ematoma non avevano trovato nessuna ferita sul suo corpo,
in ogni caso nessuna ferita alla sua testa, e così rimasero solo
ampie speculazioni per comprendere la causa della sua perdita di
memoria.
Quella
circostanza e la sua condizione l'avevano presto spinto al bordo di
ciò che era mentalmente sopportabile, e infine oltre esso,
nell'abisso della depressione. Era rimasto a sedere senza muoversi
per giorni interi, tentando disperatamente di ricordare la sua vita;
aveva fatto esercizi per aumentare la concentrazione, ma non era
servito a nulla. La sua memoria era rimasta incompleta: come prima
era privo della sua personalità. E senza la sua personalità aveva
infine smesso di vedere una ragione per farsi coraggio e vivere. In
quel periodo era sempre stato debole e le sue condizioni fisiche
erano state quasi rovinate come quelle mentali. Era diventato
letargico e aveva trattato il suo corpo in modo sempre più
negligente, non aveva più lasciato il suo letto e aveva solo
guardato il soffitto. Però il tempo e la gente lì lo avevano
aiutato e lo avevano portato ad una nuova vita. Aveva trovato
abbastanza forza per farsi coraggio e tentare di cominciare daccapo.
L'inizio
era stato difficile. In ogni caso non sapeva com'era stata la sua
vita precedente, ma era sicuro che era stata migliore di questa vita
qui, una vita nell'incertezza e senza una faccia famigliare. E le
tormentose domande non erano sparite: perché non poteva ricordare?
Perché nessuno si ricordava di lui? Nessuno lo stava cercando? Non
aveva alcun amico, né una famiglia che si preoccupava per lui? Forse
la sua vita reale non era stata migliore perché non aveva un'anima
al mondo che fosse accanto a lui? Forse era stato talmente disperato
per la solitudine che aveva tentato di uccidersi – era per questo
che era lì?
Le
domande l'avevano reso ancora di più da solo e disperato di quanto
non si sentisse già, come se fosse un solitario, un individuo
bizzarro che non aveva alcun legame con un qualsiasi altro essere
vivente, forse non era nemmeno capace di creare un legame personale.
Beh', aveva preso contatto con altri pazienti e anche col personale;
in certi casi, anzi, un contatto abbastanza stretto, ma non aveva un
vero rapporto stretto con nessuno di loro. Per fare una cosa del
genere gli mancava la sua storia.
Aveva
continuato a tentare di ricordare e a spezzare quel muro invisibile
per penetrare la nebbia. E sì, di qualche cosa poteva ricordarsi;
erano talmente chiare e distinte come se le vedesse davanti ai suoi
occhi: immagini di una grande casa con un giardino, immagini di
lavagne verdi, immagini di un grande edificio in mezzo ad una specie
di parco...
Aveva
descritto queste immagine al personale della clinica, e finalmente
erano giunti alla conclusione che era o almeno era stato uno
studente. Però dove, per quanto tempo, in che materia e come era
arrivato lì – quelle erano domande a cui ancora non riuscivano a
rispondere. Però era abbastanza ovvio che avesse qualcosa a che fare
con la matematica, perché dopo che aveva superato la sua
depressione, aveva letteralmente divorato i pochi libri matematici
nella biblioteca della clinica, e in parte aveva addirittura
scomposto le teorie, le aveva provate o continuate.
Aveva
anche cercato nel suo cervello immagini di persone. E le aveva
trovate. Però le immagini erano state quelle di facce di personalità
note, per esempio il presidente o altri uomini e donne politici
oppure attori. Naturalmente, c'erano anche altri immagini che finora
non avevano potuto riconoscere e che lui tentava disperatamente di
inserire in una vita che non era più la sua. C'erano quelle immagini
di piazze ed edifici che l'avrebbero sicuramente aiutato a ricordare
appena li avesse visti di nuovo.
Però
le facce dei due uomini non erano tranne quelle.
Eppure
la loro vista gli aveva riportato alla memoria quell'immagine della
figura immobile. Quei due estranei davanti a lui avevano toccato la
sua memoria così che i suoi pensieri erano arrivati, attraverso
sentieri tortuosi, a quell'immagine sempre presente, ma sempre
talmente inavvicinabile.
Doveva
c’entrare qualcosa con quei due uomini. Ma cosa? Era davvero
possibile che il suo subconscio ricordasse qualcosa nonostante la sua
coscienza non ci riuscisse? Esaminò le facce e le figure alla
ricerca di un qualsiasi segno di familiarità, ma non trovò niente.
Anche le loro voci non l'aiutarono. E le loro parole?
Il
più vecchio aveva detto che era suo padre. Beh', poteva essere vero.
Ma poteva anche essere falso. Charlie non riuscì a pensare a una
ragione per cui quell'uomo potesse dire una cosa del genere se non
era vero, però, in ogni caso, non capiva quasi niente in quel mondo.
E
l'altro aveva detto di essere suo fratello. Suo fratello. Provava
intensamente a trovare da qualche parte dentro di sé un'indicazione
che gli dicesse che era vero, ma lo sforzo fu di nuovo senza
successo. Aveva un fratello? Non lo sapeva. E non avrebbe dovuto
ricordarsene, se ne aveva uno?
Temeva
già di scivolare di nuovo nella depressione. Aveva aspettato quel
momento con una tale ansia, il momento in cui avrebbe di nuovo visto
qualcosa di familiare del suo passato; l'aveva sperato talmente tanto
che nella sua testa era diventato una certezza irrevocabile: avrebbe
di nuovo avuto un passato e con quello un futuro appena il passato
l'avesse finalmente raggiunto.
Purtroppo,
però, sembrava che si fosse sbagliato. Almeno se presupponeva che
questi uomini dicessero la verità.
Semplicemente
non sapeva cosa dovesse fare. Quei due uomini erano completi estranei
per lui. Eppure loro avevano detto di conoscerlo. E se Charlie aveva
capito bene, questi due venivano dalla California. E non aveva
dimenticato le sue nozioni di base di geografia: sapeva dove si
trovavano la California e il Nebraska e quale distanza c'era tra i
due stati. Perciò era abbastanza improbabile che fossero venuti fin
lì solo per farlo di nuovo cadere nella sua depressione. E lo
voleva, voleva aggrapparsi alla speranza di poter riconquistare la
sua vita...
Dall'altra
parte, però, non li conosceva. Non sapeva che cosa intendessero fare
con lui o che cosa si aspettassero. Avrebbe dovuto lasciarsi alle
spalle tutto ciò che conosceva, cioè la clinica che era diventata
il suo nuovo benché molto piccolo mondo. Sarebbe stato di nuovo
spinto nell'incertezza. E chi poteva sapere se questo non l'avrebbe
di nuovo spinto nell'abisso?
Semplicemente
non lo sapeva. Non sapeva che cosa fare. Rimanere o andare con loro?
Essere pigro o coraggioso? Crearsi una nuova vita o tentare di
ricuperare quella che aveva?
E'
una decisione tua, aveva detto la Dott. Andrews.
Le
sue parole erano ancora nell'aria. I tre stavano aspettando una
risposta di lui. Doveva decidersi. Era al bivio e doveva scegliere la
sua vita adesso, e nessuno dei due sentieri riusciva ad attirarlo con
qualcosa di familiare.
Vide
la tensione negli occhi dei due uomini. E ad un tratto sentì un'onda
di compassione. Aveva già pensato a rimanere lì, almeno fino a
nuovo ordine. Forse prima o poi sarebbe stato in grado di ricordarsi
di loro e di tutto? Forse non c'era bisogno di andare con loro in
luoghi che sarebbero dovuti essere familiari per lui, ma che forse
non lo erano?
In
quel momento, però, realizzò che il seguito della sua vita aveva
un'importanza non solo per lui, ma anche per i due uomini davanti a
lui. Non solo per lui, ma anche per loro il silenzio sembrava essersi
allungato fino all'infinito prima che finalmente cominciò a parlare.
«...
Posso... posso pensarci per un po'?»
La
coscienza sporca gli diede un colpo quando vide i due uomini
deglutire gravemente e i loro occhi spalancarsi un po'. Però le
parole della dottoressa gli fecero sentire subito un po' meglio.
«Ma
certo» disse dolcemente. «Prendi il tempo di cui hai bisogno. Se
hai qualche domanda – siamo nel mio ufficio. Puoi entrare quando
vuoi».
-
- -
Don
aveva problemi considerevoli a concentrarsi. Semplicemente non lo
poteva bandire dal suo cervello, e nemmeno lo voleva. Charlie era
vivo! Era vivo, era qui, stava bene, l'avevano visto, era sotto il
loro stesso tetto!
Don
quasi sprizzava felicità da tutti i pori. Eppure tentava di
conservare la calma, almeno per i minuti seguenti. Provava ad
ascoltare la dottoressa che stava raccontando loro ancora una volta
tutto ciò che sapeva di Charlie, e tentava di rispondere alle sue
domande in modo soddisfacente. E se Don poteva far affidamento sul
suo giudizio riguardo la sua reazione, le loro risposte non erano
così insufficienti come aveva creduto.
«Se
ho ben capito» cominciò la dott. Andrews appena seduti, e c'era un
sorriso leggero sulle sue labbra, «avete riconosciuto Michael come
un membro della vostra famiglia – come avete detto che si chiamava?
Charlie?»
I
due uomini annuirono. La dott. Andrews diede loro uno sguardo pieno
di interessamento che, però, non notarono, e decise che
probabilmente era meglio se a cominciare fosse lei.
«Soppongo
che vi interessi sapere che cosa è successo a Charlie. Purtroppo
devo ammettere che non so tanto di più che le cose che vi ho già
detto. Mich... Charlie è stato ricoverato qui il
novembre scorso. Un camionista l'ha trovato su una strada maestra in
una condizione rischiosa. È prima stato portato in un ospedale e
poi, quando hanno realizzato che non ricordava chi fosse, è stato
portato qui. Innanzitutto questo posto è adatto per soggiorni a
lungo termine e poi siamo più accomodanti qui in confronto ad un
ospedale normale per quanto riguarda il mantenimento finanziario dei
pazienti. E inoltre, naturalmente, siamo specializzati su lesioni e
disturbi mentali.
Quando
vostro figlio e fratello è arrivato qui, sinceramente non sapevamo
se sarebbe sopravvissuto. Era molto malnutrito e sembrava letargico.
Comunque avevano già risolto ciò che minacciava la sua vita, cioè
la deidrogenazione e la mancanza di nutrizione, però la depressione
era rimasta. È una conseguenza logica di una perdita di memoria
talmente ampia, eppure c'è la possibilità che sia stata la
depressione a precedere la mancanza di nutrizione e liquidi e perfino
forse anche la perdita della memoria. Potete dirmi se Charlie
soffriva di depressioni già prima della sua scomparsa?»
Alan
scosse la testa, un po' sbigottito. «No – voglio dire,
naturalmente possiamo dirglielo, ma no, Chalie non è mai stato
depresso». Qualche istante dopo gli venne in mente il periodo dopo
il funerale di Margaret. Charlie era stato completamente ritirato,
non aveva parlato con nessuno – ma depresso? Era veramente incapace
di considerarlo così. E in quel momento non poté nemmeno
rifletterci.
La
dottoressa guardò anche Don in modo inquisitorio e quello ce la fece
a scuotere la testa e far uscire un "mai".
La
Dott. Andrews scrisse la nuova informazione nell'atto davanti a lei.
«Questo
è per principio buono perché supporta l’idea che la depressione
sia veramente una conseguenza dell'amnesia. Però potrebbe sempre
esserne l'origine anche se non abbiamo indizi per questo.
Un
po' più di due settimane fa le sue condizioni cominciarono ad
migliorare. La depressione retrocedeva, anche se Charlie rimaneva
molto silenzioso e chiuso in sé stesso, ma questo non è raro con
questo quadro medico. In contemporanea con questo il nostro personale
riusciva sempre di più a prendere contatto con lui e trovare altri
pezzi di memoria del suo passato. Purtroppo però non era abbastanza
per trovare la sua identità. Una cosa di cui ci siamo accorti ben
presto però era il suo interesse per la matematica. Potete
confermarlo?»
«Oh
sì!» scappò a Don.
La
Dott. Andrews inarcò le sopracciglia in un miscuglio di sollazzo e
confusione, ed Alan spiegò, con un sorriso sulle labbra: «Charlie
ha amato da sempre la matematica. Ed è anche dotato. E' un
professore di matematica applicata a Los Angeles e noto ed apprezzato
come matematico nel mondo intero».
Alan
non era riuscito a nascondere il suo orgoglio di un padre. Lo faceva
sentire talmente ben poter dire queste cose su suo figlio vivo invece
che morto.
«Un
professore? Questo spiega le immagini che ha descritto al nostro
personale. Pensavamo che fosse uno studente. Però è un bene che
queste immagine sembrino venire veramente dal suo milieu
personale. Così c'è la speranza che Charlie ricorderà non
appena vedrà persone e cose familiari».
Don
non sapeva che cosa gli fece fare la domanda, perché non era affatto
sicuro di voler sapere la risposta, ma la fece comunque.
«E
allora perché non si ricorda di noi?»
Don
si sentiva come un bambino deluso al quale era stato promesso un
gelato e che adesso non poteva averne uno. Solo che a lui avevano
promesso un fratello e lui aveva ricevuto uno sconosciuto. O per
meglio dire lui aveva ricevuto suo fratello per il quale lui stesso
era un estraneo, e Don non sapeva quale punto di vista trovasse più
orribile.
La
Dott. Andrews era abbastanza esperta nel sapere che cosa stava
succedendo nella testa di Don. «Lei deve dar tempo a suo fratello,
Signor Eppes. Naturalmente devo avvertirla, c'è la possibilità che
Charlie non recupererà mai completamente la sua memoria. Comunque
non è nemmeno improbabile che si ricorderà di pezzi della sua vita
o forse addirittura di tutto. Però per questo ha bisogna di tempo
per accomodarsi a tutte le cose che si abbatteranno su di lui. E non
dimentichi che Michael – scusi, Charlie – è appena
guarito dalla depressione. Si trova ancora in una condizione psichica
molto labile. Nel suo interesse, dovrete avere cura di evitare ogni
tipo di pressione».
Don
annuì, sentendosi abbastanza ammonito benché le parole fossero
state verbalizzate in modo cortese. Nuocere a Charlie era l'ultima
cosa che voleva, eppure era rassicurante sapere che la sua dottoressa
aveva talmente cura di lui.
«Dunque,
due notti fa» continuò, «Charlie ha sognato il suo numero di
telefono. L'ha detto a uno dei nostri infermieri solo il pomeriggio
dopo e noi abbiamo subito provato a seguire la traccia. E direi che
ne è valsa la pena».
Ah
sì che è valsa la pena, pensò Don.
Con
questa telefonata Charlie era rientrato nella loro vita. E il cuore
di Don fece un salto indietro quando – come dopo la battuta
d'entrata – suo fratello entrò anche il suo campo visivo. Sopra la
testa della Dott. Andrews poteva vedere fuori, il parco. Ed era lì
che era appena apparso Charlie che, lo sguardo abbassato
pensierosamente, era andato lentamente al grande laghetto e si era
lasciato cadere nell'erba alla riva.
La
Dott. Andrews si accorse dello sguardo di Don e si voltò. Un sorriso
apparve sul suo viso. «Charlie sembra amare questo posto» raccontò
loro. «Mi sono accorta che si ci siede spesso e guarda l'acqua».
«Guarda
i pesci» spiegò Don a voce bassa. Non riuscì a distogliere lo
sguardo da Charlie. Era come se il suo fratellino stesse seduto nel
giardino di casa loro e guardasse il laghetto dei Koi per decifrare
lo schema di movimento dei pesci ornamentali. Era di nuovo come
allora. Solo non stava seduto a casa loro davanti al laghetto dei
Koi. Don aveva difficoltà a realizzarlo, ma sentiva che oramai
quello era il posto dove Charlie si sentiva a casa. Poteva ricordare
il suo laghetto dei Koi?
E,
ancora più importante: se non si ricordava di suo padre e di lui –
allora sarebbe venuto con loro, a casa?
E
che cosa sarebbe successo se non fosse andato con loro...?
Ti
prego, Charlie, ti prego, prendi la decisione giusta.
La
stessa sera si presentarono di nuovo nell'ufficio della Dott. Andrews
e quella volta anche Charlie era con loro. Non sfuggì a Don che suo
fratello manteneva una certa distanza da loro, una sorta di distanza
di sicurezza, e la paura che Charlie potesse decidere contro loro
aumentò in lui.
«Allora
hai preso la decisione?» chiese la Dott. Andrews. «Lo sai che, se
vuoi, puoi prenderti ancora più tempo».
Una
parte di Don avrebbe voluto uccidere la dottoressa. Non avrebbe
sopportato di aspettare ancora la decisione di Charlie. Un'altra
parte avrebbe anche voluto esortarlo assieme a lei. Charlie doveva
rifletterci bene, al meglio, magari fino a che si sarebbe di nuovo
ricordato di loro, perché Don non sapeva che cos'avrebbe fatto se
Charlie avesse deciso di cancellarli dalla sua vita.
«Non
ho più bisogno di tempo» disse Charlie. Sembrava un po' insicuro,
però tentò di non farlo notare. «Spero che vada bene per voi
tutti» cominciò e Don seppe che questo era la fine. «Vorrei...
vorrei venire con voi».
Don
per poco non saltò al soffitto. Charlie voleva venire con loro? Non
voleva rimanere lì, voleva accompagnarli a casa? Don non riusciva a
capacitarsi della sua fortuna! Charlie era di nuovo con loro, sarebbe
venuto a casa con loro, volontariamente!
Don
avrebbe voluto giubilare, però represse l'impulso. Gli unici gesti
che espressero la sua gioia erano quel sogghigno abbastanza stupido
sulla sua faccia e il salto che lo alzò dalla sua sedia. Però la
sua gioia ricevette già un colpo. Quando balzò in piedi per
precipitarsi verso suo fratello per abbracciarlo, vide perfettamente
che Charlie sobbalzò. Non si fidava ancora. Non si sentiva ancora a
proprio agio con lui. Aveva ancora paura.
Don
tentò, con successo moderato, di non essere né disperato né deluso
o arrabbiato. Tempo. Dovevano semplicemente dare un
po' di tempo a Charlie. Se avessero fatto questo tutto si sarebbe
sistemato e sarebbe di nuovo diventato normale. Appena Charlie si
fosse di nuovo accomodato nella sua vita di prima, tutto sarebbe
stato di nuovo com'era stato una volta, prima della morte di Charlie.
Don
poteva appena aspettare a tornare a casa.
|
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Capitolo 11 *** C'era una volta... ***
nonti11
Grazie a BlackCobra per
le tue recensioni continue!
Divertitevi :)
11. C'era una volta...
What do I know? I
know your name.
You
don’t know, you don’t know,
You
don’t know anything about me
Anymore.
I
gave up dreaming for a while.
(Milow, You Don’t Know)
Alan e Don avevano
affittato una camera nella piccola città vicina. Lì, passarono la
notte; dopo tutti quegli eventi travolgenti erano addirittura
riusciti a dormire un po', nonostante tutto. Il giorno però lo
passarono in clinica. Con Charlie.
A Don pareva come se il
sole brillasse più chiaro tutto ad un tratto. Ancora una volta
ricordò che Charlie era vivo, che era di nuovo con loro! Don
avrebbe voluto abbracciare il mondo intero.
Per ora, però, non
poteva nemmeno abbracciare Charlie. La Dott. Andrews aveva
consigliato loro di passare tanto tempo con lui e prepararlo al suo
ritorno a casa. Tuttavia gli aveva anche chiesto di lasciare a
Charlie tempo e spazio per sé stesso. Aveva ripetuto loro che per
Charlie erano estranei e che doveva prima accomodarsi alla situazione
nuova e alle facce nuove.
Don aveva accettato
volontariamente ogni punto. Avrebbe acconsentito a tutto adesso che
il suo fratellino era di nuovo con lui.
- - -
«Avanti» sentirono la
risposta al loro bussare ed entrarono nella camera di Charlie.
Ricordava la loro camera
al motel, solo che era un po' più piccola. L'anonimato, però, era
lo stesso. Un solo libro sul comodino sotto un blocco per appunti,
nessun libro sugli scaffali, nessun quadro alle mura o sul comodino.
Charlie si alzò dal suo
letto e mise le mani nelle tasche dei suoi calzoni.
«Ciao» disse con un
sorriso, ma non riuscì a nascondere il suo nervosismo.
«Buongiorno Charlie»
rispose Alan e si sentì perso. Voleva attraversare la stanza e
prendere Charlie nelle sue braccia. La formalità della situazione
era insopportabile.
«Come stai?» chiese
Don.
Alan sapeva che Don stava
solo tentando di cominciare una conversazione, però non gli sfuggì
l’approccio furbo di quella semplice domanda.
«Bene... bene... e voi?»
«Adesso stiamo bene»
rispose Alan e solo Don poteva comprendere l'intero significato delle
sue parole.
«Beh', allora...»
Charlie ovviamente stava cercando altre parole. Finalmente il piccolo
tavolo al muro entrò nel suo campo visivo. «Accomodatevi».
Per sua la fortuna, ma
con dispiacere di Alan e Don, c'erano solo due sedie al tavolo
cosicché Charlie potette sedersi sul suo letto. Ad una distanza di
sicurezza.
«Okay...» Esitò, ma
poi fece la domanda che al momento era la più importante: «Che cosa
succederà adesso?»
Don rispose subito.
«Abbiamo già prenotato un volo. Dopodomani. Se questo va bene per
te».
Era ovvio che non andasse
affatto bene per Charlie. Tutto succedeva troppo velocemente. Già
dopodomani? Dopodomani avrebbe dovuto lasciare tutto e partire verso
qualcosa di straniero che avrebbe dovuto essere familiare?
Deglutì. «Sì, certo.
Grande».
«Possiamo anche cambiare
il volo se preferisci. Non è un problema» si affrettò Alan a dire.
Charlie, però, sapeva di
aver già dato il suo consenso. Aveva già acconsentito ad andare con
quegli uomini e non importava quando tempo gli restasse, non sarebbe
stato facile per lui. Probabilmente era meglio compiere il primo
passo il più veloce possibile.
«No, no, va tutto bene».
Esitò di nuovo, sperando che gli altri continuassero la
conversazione, ma loro erano perplessi quanto lui. «E beh'... la
Dott. Andrews ha detto che voi potreste raccontarmi qualcosa... su di
me». La preghiera suonava grottesca e trascinava un senso
di perduto.
«Sì... Certo... Che
cosa vorresti sapere?»
Se solo l’avesse
saputo. «Tutto?» chiese cautamente.
«Ok. Bene».
Quella era con certezza
la cosa più assurda che avesse mai fatto, pensò Alan prima di
schiarirsi la gola nervosamente e cominciare a raccontare al figlio
dato per morto la sua vita.
«Dunque. Ti chiami
Charlie Eppes, sei nato il 5 settembre 1975 a Los Angeles e hai
passato lì la tua infanzia, insieme a Don, tua madre e me».
«E dov'è sua... nostra
madre?»
Charlie veramente non
aveva perso la sua inclinazione a fare domande rilevanti.
«E' morta» rispose Don.
«E' morta di cancro più di tre anni fa».
Charlie avrebbe voluto
sprofondare. «Oh. Mi dispiace».
«Non devi. Non... Beh,
non potevi saperlo. E inoltre era anche tua madre».
Sì. Con la differenza
che non la posso ricordare. Charlie decise di lasciar questo
soggetto il più velocemente possibile e cominciare a ricuperare
sfere meno pericolose.
«E poi? Che cosa faccio
come lavoro?» E nella vita privata? aveva voluto chiedere,
però si trattenne. Certo era anche perché non voleva fare troppe
domande in una volta, ma soprattutto non voleva aumentare ancor più
l’imbarazzo. Forse sua moglie era morta o l'aveva lasciato e perciò
aveva perduto la sua memoria oppure lui aveva lasciato lei e lei si
era suicidata.
La voce di Don gli impedì
di riflettere su altre teorie raccapriccianti e poco edificanti: «Sei
un professore universitario. Per matematica applicata».
Professore per matematica
applicata! Era musica per le orecchie di Charlie. Innanzitutto era la
cosa più razionale di tutta la sua vita finora e certamente lo era
di più delle sue teorie sulla sua vita privata, e poi questo aveva
un timbro veramente solido. E aveva qualcosa a che fare con la
matematica.
«Anche Amita è una
professoressa» Alan aggiunse.
«Amita?» Charlie ripeté
senza capire, ed era troppo tardi quando vide la scintilla di
speranza nell'occhio di Alan crollare. Alan – suo padre,
Charlie tentò di ricordare a se stesso – aveva provato a
stimolarlo. Purtroppo però non aveva reagito nel modo giusto. Non
ricordava quel nome.
«State insieme» gli
spiegò Don. «Da quando lei ha terminato il suo dottorato di
ricerca; almeno lo siete ufficialmente da quel momento. Prima era
stata la tua studentessa».
Tutto ciò non diceva
niente a Charlie. Qual è il suo aspetto? voleva chiedere ma
non ne aveva il coraggio. Con una probabilità molto alta nemmeno la
descrizione gli avrebbe detto niente, e Charlie non sapeva se avrebbe
potuto sopportare una tale delusione in quel momento.
«Perché non è qui?»
chiese invece e pensò che la domanda fosse innocua.
Si sbagliò. Nessuna
domanda era innocua.
«Non ne sa ancora
niente» rispose Don, e per uno strano motivo non poteva più
guardarlo negli occhi. «Quando abbiamo ricevuto la chiamata della
clinica che forse eri ancora vivo, non l'abbiamo detto a nessuno. Non
volevamo svegliare speranze perché avevamo semplicemente...
Semplicemente non potevamo credere che... che fosse davvero reale. A
parte noi, Megan è l'unica ad aver saputo qualcosa marginalmente, ma
anche lei non sa cose più dettagliate».
La voce di Don era
diventata più rauca e Charlie era felice che gli fosse venuta in
mente una nuova domanda, così che non dovettero ancora una volta
sopportare quel silenzio.
«Megan?»
«Lavora con me. Sta
insieme a Larry».
Charlie stava per fare la
domanda successiva, ma Don aveva già capito che non ricordava.
«Anche Larry lavora alla CalSci, all'università dove insegni. È
stato il tuo professore a Princeton e più tardi il tuo mentore ed è
il tuo miglior amico».
Don sembrava un po'
stanco, proprio come appariva Alan e si sentiva Charlie. Il fatto che
Charlie non si ricordasse nulla struggeva i nervi di tutti i tre. Per
quella ragione il silenzio conseguente non fu così inopportuno come
avevano temuto.
Charlie respirò
profondamente. Nella sua testa ripeté ancora una volta tutte le cose
che aveva saputo. Era Charlie, non Michael, questo era un fatto a cui
si doveva ancora abituare. Poi, professore per matematica applicata.
Nessun problema con questo. Aveva una ragazza (Amita, ripeté
il suo nome nei suoi pensieri), un miglior amico (Larry) che
stava insieme ad una collega di Don (Megan). Stava per
informarsi del lavoro di suo fratello quando si accorse dello sguardo
di quello e desistette dalla sua intenzione, ad un tratto insicuro.
Meglio ripetere tutte le informazioni ancora una volta; non voleva
dimenticare niente: Megan: la collega, Larry: miglior amico, Amita:
ragazza; poi, professore per matematica applicata e non Michael, ma
Charlie, Charlie – come? Il nome era strano, qualcosa con una
sillaba che cominciava con E... Etz? Elps? No, Eppes! Era Eppes!
Charlie Eppes…
«Aspettate!» Il nome
gli diceva qualcosa. «Mi chiamo Charlie, dunque Charles, Eppes?»
«Esatto» confermò
Alan. Era diventato attento. Charlie lo aveva ricordato?
«Dite sul serio?»
Assieme alla tensione di
Alan, anche la sua confusione adesso aumentò.
«Certo, perché lo
chiedi?»
«Ho letto qualcosa su di
lui. Nella biblioteca c'è un libro sulle nozioni più recenti nei
vari campi della matematica. Dentro ci sono anche tre o quattro
articoli suoi». Aggrottò la fronte. «Dunque miei».
Alan e Don provarono a
sorridere, però si sentirono come se stessero per piangere. Avevano
pensato che Charlie avesse ricordato. E poi questo. Tuttavia dovevano
tentare di non mostrargli la loro delusione. Charlie aveva bisogno di
tempo, questo era tutto.
Charlie sembrava pensare
la stessa cosa, ma relativa a quel momento. Si alzò dal letto e
cominciò a vagare nervosamente per la stanza. Ogni tanto dava uno
sguardo al blocco per appunti accanto al letto.
«Potrei forse – »
Era grato di non aver
dovuto pronunciare la domanda, ma che Don l'avesse interrotto.
«Certo. Torniamo più tardi».
Si alzarono e uscirono
con riluttanza dalla camera. Don aveva capito subito che Charlie
avrebbe voluto stare da solo, però gli faceva lo stesso male il
fatto che avesse veramente verbalizzato la preghiera.
Gli faceva male come
tante altre cose. Il giorno prima, quando Charlie aveva detto che non
ricordava nulla di loro, nemmeno se avesse un fratello, Don si era
sentito male. Se Charlie nemmeno sapeva che aveva un fratello, allora
quanto insignificante aveva dovuto essere il posto che Don aveva
occupato nella sua vita?
E il fatto che sembrava
essere la stessa cosa con le altre persone nella vita di Charlie...
Don non sapeva se essere sollevato oppure ancora di più confuso.
Sapeva solo che lo rendeva triste. Charlie sembrava ricordarsi meglio
della sua matematica che delle persone che avevano creduto essergli
vicino.
- - -
Appena che Don e Alan
uscirono dalla sua camera, Charlie prese il blocco per appunti in
mano. Vi aveva notato riflessioni, prevalentemente sui trattati
matematici che aveva letto. In fin dei conti si era dovuto impegnare
con qualcosa, e quando un infermiere gli aveva consigliato la
matematica, si era accorto, sorpreso e sollevato, che si sentiva a
casa nel mondo dei numeri.
Adesso, però, una nuova
componente era stata introdotta. Charles Eppes. Era incespicato in
quel nome in vari articoli e ogni volta lo aveva guardato con un
certo fascino. Charlie aveva preso appunti su tanti dissertazioni che
aveva letto del genere, su cosa lui avrebbe fatto in modo diverso o
cosa avrebbe potuto aggiungere alle teorie. Ma mai con le teorie di
Charles Eppes. Charlie aveva concordato con i suoi pensieri in un
modo quasi inquietante, e aveva sperato che un giorno avrebbe potuto
trovare una ragione per scrivere a quel dottore Eppes.
E adesso era proprio lui.
Charlie non sapeva cosa
pensare. Naturalmente era felice di conoscere finalmente la sua
identità. Ma era anche così... strano. Era una persona che aveva
conosciuto, anzi stimato, ma considerato un estraneo. Charlie lo
trovava abbastanza sconcertante.
Però gli faceva bene.
Era Charles Eppes. Era stato lui a scrivere quegli articoli nel
libro, erano i suoi pensieri. Era affascinante. E inoltre era una
prova che era veramente esistito prima di andare lì. Aveva un
passato, una storia.
Lui aveva scritto quegli
articoli. E li aveva compresi subito quando era ancora Michael. Era
come se parlasse a sé stesso tramite queste dissertazioni. Questi
articoli venivano dalla sua vita precedente, lui li capiva e loro gli
rivelavano i suoi pensieri. Niente era falsificato, tutto era chiaro
e aperto per lui.
Un po' più calmo,
Charlie guardò i calcoli e le annotazioni sul blocco. Sì, la
matematica era davvero la sua patria. Era l'ancora di cui aveva
bisogno per sopportare tutto quello e ricuperare la sua vita.
- - -
Alan e Don avevano deciso
di andare nella sala di ricreazione della biblioteca. Mentre
spulciava i libri matematici e sorrideva leggermente ogni volta che
vedeva il nome di Charlie, Don trovò un libro in cui c'era un
calendario con i santi cattolici. Comunque c'erano così tanti libri
religiosi lì. Era inconfutabile che il fondatore della clinica
privata fosse stato un uomo cattolico, già solo a causa del suo
nome. Don era solo felice che anche coloro che non condividevano
quelle scelte avessero accesso alla clinica. Dopo tutto ciò che
aveva imparato del cattolicesimo, questo rasentava il miracolo.
Don aveva appena trovato
ciò che stava cercando: Miguel Pro, un martire spagnolo, giustiziato
nel 1927. Doveva essere lui; tranne quello non c'era altro Michael o
Miguel da cui avrebbero potuto prendere il nome per Charlie. Don
guardò la data e per un attimo la sua respirazione si arrestò: il
23 novembre. Charlie era lì dal 23 novembre. Voleva dire che dalla
sua scomparsa e la presunta morte fino alla sua ricomparsa erano
passati un mese e mezzo durante cui Charlie era probabilmente stato
tenuto da qualche parte contro la sua volontà. E probabilmente
qualcosa era successo durante quel periodo, qualcosa che aveva
condotto alla sua perdita di memoria.
Che cosa gli avevano
fatto? E soprattutto, chi?
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Capitolo 12 *** Magic of Home ***
nonti13
Di nuovo mille grazie per
il vostro interesse per la storia! Spero che non lo perderete nel
seguito!
Ecco il prossimo capitolo
e per BlackCobra di nuovo una bella canzone (almeno lo penso io) con
un bellissimo testo :)
12.
Magic of Home
It
takes a night to make it dawn.
And
it takes a day to make you yawn, brother.
And
it takes some old to make you young.
It
takes some cold to know the sun.
It
takes the one to have the other.
(Jason
Mraz, Life Is Wonderful)
Charlie
si sentiva come un prigioniero. I suoi pensieri continuavano a
circolare attorno al suo futuro incerto, sempre con la stessa
domanda “Come sarà?” e non lo lasciavano
andare. Tentava di sfuggire, di calmarsi, ma era nervoso e quasi non
riusciva a sopportare il tempo d'attesa.
L'aereo
aumentava questo sentimento di prigionia e Charlie desiderava
ardentemente che andasse più veloce, portandolo alla risposta, ma la
sua volontà naturalmente non poteva influenzare le leggi della
meccanica. L'aereo era veloce, con o senza la sua volontà – e
quanto più vicino lo portava a casa e verso le risposte che lì lo
aspettavano, tanto meno sapeva se poi era ciò che davvero voleva.
Tentò
di rilassarsi. Gli riuscì difficile, perché anzi quel sentimento di
prigionia, fisico o mentale che fosse, scosse qualcosa nella sua
memoria e fece crescere il panico dentro di lui. La sensazione di non
poter uscire... la sensazione dell'impotenza... la sensazione di
dover soffocare...
«Tutto
bene, Charlie?»
Charlie
trasalì e scoprì, con occhi sbarrati, prima la mano sul suo
avambraccio e poi il viso di Don. Due occhi turbati e due preoccupati
si scambiarono sguardi angosciosi. Charlie annuì, e pian piano
realizzò che si era appena perso in un attacco di panico da cui solo
Don l'aveva salvato.
«Certo»
disse e sentì da lontano come le parole suonavano affrettate e
rauche mentre il battito del suo cuore pian piano diventava di nuovo
normale. «Certo, sto bene».
Don
respirò profondamente, però non distolse gli occhi dal suo
fratellino. Non poteva smettere di guardarlo, anche solo per essere
sicuro che fosse sempre lì, accanto a lui. Era incredibile,
semplicemente incredibile... Avevano riavuto indietro Charlie. Ora
dovevano solo avere cura che tornasse di nuovo quello che era
stato una volta.
«Ehi,
Charlie». Era assurdo. La sua voce suonava sempre rauca
appena parlava con Charlie. «Ehi, vuoi forse... vuoi forse parlare
con qualcuno?»
Charlie
scosse il capo. Don tentò di essere comprensivo – tempo,
pensò, ha semplicemente bisogno di tempo – e
stava già per ritirarsi e per appoggiarsi indietro sulla sua sedia,
lasciandolo in pace, quando Charlie rispose: «Non lo so».
Questo
era già meglio di un "no". «Sono, ah... Sono sempre a tua
disposizione».
Charlie
annuì. Tacquero.
Don
si schiarì la gola. «Charlie, volevo... volevo dirti che... che
sono davvero felice che tu sia di nuovo con noi».
Charlie
annuì ancora una volta. «Anch'io sono contento di essere con voi».
Ah
certo, pensò Don fra sé, Charlie sembrava proprio pronto per una
festa. «Non lo sembri».
Charlie
tacque.
«Charlie...
vorrei capire che cosa ti sta succedendo. Voglio aiutarti».
Di
nuovo Charlie tacque. Don non seppe più che cosa dire, ma finalmente
Charlie prese la parola. «Non lo capisco neanch’io che cosa mi sta
succedendo».
Per
qualche secondo Don tentò di capire almeno le parole di suo fratello
anche se non poteva capire lui, però non ci riuscì. «Che vuoi
dire?»
«Non
so più chi sono, Don. Non so neanche chi sei tu. Non conosco niente
e nessuno, nemmeno me stesso».
Don
deglutì. «Andrà meglio, Charlie. Appena saremo a casa comincerai a
ricordare, ne sono sicuro».
Charlie
annuì, però tutti e due sapevano di temere che la loro speranza
potesse risultare falsa.
-
- -
Quando
scesero dall'aereo, l'unica cosa che Charlie voleva era tornare a
casa. Poi si accorse che non c'era più un posto che fosse “casa”
per lui. Poi realizzò che non gli importava. Era talmente esausto
per tutti gli eventi del giorno che non desiderava altro che calma e
riposo. La partenza dalla clinica era stata difficile a lui, benché
avesse scambiato il suo indirizzo solo con tre altri pazienti. Anche
nell'aereo non aveva trovato la calma ed era stato troppo nervoso.
Era semplicemente così tanto, così tanto di nuovo, così tante
persone, così tanto tempo in compagnia di altri...
Nel
taxi, si era quasi addormentato e quando questo si fermò, non poteva
immaginare più bella cosa che rimanere seduto lì e andare avanti
senza fine per tutta la notte. Con sforzo scese dalla macchina e fu
contento che Alan e Don avessero le loro valigie e che lui non
dovesse portare bagaglio.
Evitò
di guardare la casa e anche, una volta entrati, l'arredamento. Alan
lo guidò, come disse, nella sua vecchia stanza. Charlie provava a
non vedere niente. In quel momento era troppo esausto per sopportare
il rendersi conto di vedere la casa e non ricordare proprio nulla.
Cadde
in un letto meravigliosamente morbido. Scivolò in un sonno riposante
e per un attimo desiderò non svegliarsi mai.
-
- -
Quasi
senza fare rumore, Don aprì la porta. La luce che veniva dal
corridoio disegnò un quadrilatero irregolare sul pavimento. Don
lasciò la porta abbastanza aperta per distinguere la sagoma del
fratello addormentato. Lentamente si avvicinò di soppiatto per
guardare la figura tranquilla.
Sorrise.
Era talmente bello vedere di nuovo Charlie, sapere che era vicino,
sentirlo respirare. Charlie era di nuovo con loro. Era tornato dal
regno dei morti e Don sarebbe stato sempre grato per questo.
Aveva
proprio voglia di abbracciare il suo fratellino, però non voleva
svegliarlo. Invece gli mise una mano sulla spalla magra e la strinse
leggermente. Si sarebbe aspettato che Charlie avesse continuato
tranquillamente a dormire, che tutt'al più avesse stretto di più la
sua coperta. Non sia aspettava che il suo contatto gli provocasse un
simile effetto.
Charlie
si svegliò di soprassalto e subito si mise a sedere sul suo letto.
La mano di Don era sparita dalla sua spalla, eppure Charlie menò
colpi all'impazzata.
«Chi
c'è?» ansimò e a Don rivoltò lo stomaco. Charlie aveva messo in
quelle due brevi sillabe talmente tanta paura, talmente tanto panico,
che quel timbro sgradevole si era rispecchiato negli occhi di Don.
«Charlie,
calmati, ti prego...»
Don
non avrebbe potuto fare una preghiera tanto più lontano dalla
realtà. Charlie non pensava minimamente a mettere fine al suo
attacco di panico. Era difficile sapere se in quel momento stesse
pensando a qualcosa.
«Per
favore, Charlie –»
Don
aveva alzato la voce un po' e tentò di rimettere la sua mano sulla
spalla di Charlie. La conseguenza fu che Charlie, invece di calmarsi,
diventò sempre di più agitato.
Gradualmente
Don si impaurì davvero, non solo perché Charlie si comportava da
maniaco. Se suo fratello non si fosse calmato, era solo una questione
di tempo prima di potersi far male.
«Charlie!»
Il
tono di Don era diventato tanto più severo e anche più alto e per
aumentare l'effetto osò il rischio: prese Charlie nelle sue braccia.
Tenne il busto e le spalle magre del suo fratellino stretti contro il
proprio petto. Sentì come Charlie fece resistenza, sentì che voleva
fuggire da lui, però non glielo permise. Non avrebbe perso Charlie
un'altra volta.
«Lasciami
andare!» Charlie non smise di lottare, spingeva tentando di liberare
le sue mani per dare colpi a qualsiasi cosa, ma Don lo tenne fermo.
«Tranquillo,
Charlie. Stai tranquillo. Sono io, Don».
Con
un secondo di ritardo la lotta di Charlie divenne ad un tratto più
debole.
«Stai
tranquillo» sussurrò Don ancora una volta nell'orecchio di Charlie.
«Sono qui».
Adesso,
la lotta si era completamente fermata. Charlie era seduto sul suo
letto senza movimento. Però questo non voleva dire che Don avrebbe
allentato il suo abbraccio.
«Don?»
La
voce di Charlie arrivò a lui attraverso l'oscurità, sottovoce,
sottile. Dolce, fragile.
«Sì,
sono qui, fratellino».
Don
sentì che suo fratello si rilassò un po' tra le sue braccia. Le
spalle si afflosciarono un po', divennero più rilassate. L'atmosfera
ostile si disperse nell'oscurità. Anche Don mollò un po' la sua
presa sulle spalle di Charlie, però non lo lasciò andare. Era
troppo bello il momento.
La
tensione di Charlie lo lasciava sempre di più e una stanchezza di
piombo precipitò su di lui. Appoggiò la sua testa contro la spalla
di Don e si sentì al sicuro e bene come non si era sentito da tanto
tempo. Sentiva il respiro calmo e costante di Don sulla sua nuca e
nei suoi ricci e fermò gli occhi.
«Ora
è tutto a posto?» mormorò Don nei capelli di Charlie.
Charlie
annuì leggermente, sempre tenendo gli occhi chiusi. «Mi hai solo
spaventato» farfugliò.
Un'onda
di senso di colpa riempì Don. Charlie si sarebbe dovuto riposare,
avrebbe continuato a dormire tranquillamente se Don non si
fosse lasciato andare ai suoi bisogni egoistici. «Mi dispiace»
bisbigliò. «Non lo volevo».
«Fa
niente».
Don
deglutì, chiuse gli occhi, strinse il dorso di Charlie ancora una
volta per sentire come i polmoni lavoravano e il cuore batteva, e poi
lo lasciò lentamente andare. Non credeva di farcela a controllare i
propri sentimenti rimanendo lì, e allora pensò di andare, mentre,
allo stesso tempo, non sapeva se avrebbe potuto sopportare di
lasciare Charlie.
«Tu
stai bene?» si assicurò e la sua voce soffocata gli disse cosa
doveva fare.
Sentì
che Charlie annuì, e si alzò su ginocchia insolitamente molle.
«Vabbeh', dunque... dormi bene».
Alle
sue orecchie, però, le parole suonarono maldestre e ne cercò
febbrilmente delle altre, più utili, che trovò con sollievo. «Se
hai bisogno di qualsiasi cosa – Papà e io ci siamo».
La
sua voce non aveva perso la sua raucedine e dopo un ultimo sguardo a
Charlie uscì frettolosamente dalla stanza. Chiuse la porta
silenziosamente, vi si appoggiò contro, con occhi chiusi, e respirò
profondamente.
«Tutto
bene?»
Don
sobbalzò. Il suo cuore non tornò a battere normale fino a che non
vide suo padre sul pianerottolo.
Annuì.
La sua voce era – ancora o di nuovo – un po' tremolante quando
rispose: «Si è solo spaventato quando sono entrato. Ma penso che
adesso sia tutto okay».
Sapevano
tutti e due che "okay" era insufficiente. Charlie era stato
morto, era resuscitato e adesso lottava per avere indietro una vita
di cui non si ricordava. Niente era "okay".
-
- -
Almeno
sembrava esser "okay" quando la mattina dopo erano
finalmente di nuovo tutti e tre seduti al tavolo per la prima
colazione. Poco dopo Don, anche Alan era entrato in camera di
Charlie. Suo figlio era ancora sveglio, ovviamente troppo agitato per
riposarsi durante la notte. Alan gli aveva portato un bicchiere
d'acqua e poi l'aveva lasciato con riluttanza. Però aveva
dovuto essere forte e lasciare che Charlie venisse a capo con
se stesso. Tutto ciò che poteva fare era procurargli la
calma necessaria. Comunque era contento che prima della
loro partenza per il Nebraska avesse deciso, malgrado tutto, di
preparare il letto di Charlie. Per ogni evenienza…
Don
e Alan avevano deciso di lasciar dormire Charlie, cosa che non voleva
dire che non avrebbero passato tutto il tempo a convincersi che
era davvero lì, che era nel suo letto e respirava in modo
regolare. Veramente meraviglioso cosa potessero provocare i sedativi.
Finora
non avevano parlato della notte passata, e nemmeno intendevano farlo.
Charlie sembrava tentare di reprimere il suo incubo e l'attacco di
panico seguente, oppure l'aveva davvero dimenticato. Comunque il suo
nervosismo poteva significare entrambe le cose.
In
ogni caso ora sembrava come sempre. Era seduto lì al tavolo da
pranzo con loro e mangiava la prima colazione come se niente non
fosse mai successo.
Ma
no. No, non era vero. Non era proprio come sempre. Charlie era
cambiato. Don guardò il suo fratellino attentamente. I suoi capelli
erano un po' più lunghi di come li ricordava, e il suo colorito
sembrava un po' più pallido, ma forse la luce gli giocava un brutto
scherzo, perché per il resto, Charlie sembrava in forma. Sveglio.
Allarmato. Teso.
Era
questo, teso. Lo sguardo di Don scivolò sulle spalle di Charlie.
Rigide. Sospirò mentre il suo sguardo tornò agli occhi. Qualcosa
non andava. Il colore era una cosa, ma quegli occhi...
«Che
c'è?»
Troppo
tardi Don realizzò che gli occhi lo stavano guardato.
«S-scusa,
Charlie. Non volevo... fissarti ».
Grandioso,
non era nemmeno capace di formare una frase completa. Suo fratello
l'aveva di nuovo completamente distratto.
Ma
diamine, era scomparso! No, non solo scomparso, morto! Charlie
era morto!
Chi
avrebbe potuto biasimarlo perché continuava a fissare il suo
fratellino?
Era
semplice... così incredibilmente travolgente. Charlie era lì, Don
lo vedeva, era lì con loro, seduto al tavolo come se niente fosse
accaduto!
«Che
cosa vorresti fare oggi, Charlie?» chiese Alan e in tal modo permise
a Don di dedicarsi un altro po' al suo fascino.
Charlie
non rispose subito. Non poteva proprio dire "ricordare",
vero?
«Non
lo so» cominciò cautamente, «credo che vorrei... guardarmi attorno
un po'. Se va bene per voi».
Alan
volle gridare. Suo figlio si comportava come un estraneo. «Charlie,
questa è casa tua. Puoi fare tutto quello che ti piace qui».
«Okay.
Ah... grazie».
Si
alzarono e Charlie stava per aiutare a riempire la lavapiatti quando
Alan provò a dissuaderlo. «Lascia stare, Charlie, lo faccio io».
Ma
Charlie gli lanciò solamente uno sguardo, e con una traccia di
sollievo Alan notò che quello aveva qualcosa simile alla burla, che
penetrava attraverso la tristezza, ricordandogli di prima che
crollasse ogni cosa. «Pensavo che questa fosse casa mia, allora non
dovrei esser trattato come un ospite, giusto?»
Alan
sorrise. «Va bene, te ne ricorderò a tempo opportuno. Ma lo stesso
riempirò io la lavapiatti da solo, non ho altra cosa da fare».
Charlie
si diede per vinto e cominciò a vagare un po' insicuro per
le stanze. Quella casa... Non l'aveva detto durante la colazione, ma
era stato sui carboni ardenti. Ovunque guardasse...
Alan
mandò un sospiro di sollievo. Era difficile. Poteva a malapena
guardare Charlie senza pensare al dolore degli ultimi sei mesi, e
allo stesso tempo era quasi impossibile per lui voltare il suo
sguardo via da suo figlio. Come sembrava, tutti loro avevano bisogno
di un po' di tempo e spazio.
Forse
sarebbe stato più facile non appena avessero finalmente informato
gli altri. Avevano deciso di non farlo in Nebraska. Ci sarebbero
state troppe domande incredule a cui rispondere era sembrato troppo
complicato e avrebbe richiesto troppa energia. E inoltre
non volevano rinunciare a vedere i loro sguardi increduli ma felici
appena sentita la notizia.
«E'
qui dove si scende per la cantina?»
Alan
si voltò, ma fu Don a rispondere. «Sì. Vuoi scendere?»
«Non
adesso, ma...» Charlie esitò, deglutì e poi si voltò verso i due
uomini. «Riconosco la casa».
Alan
e Don si guardarono negli occhi, capirono e avrebbero voluto fare
salti di gioia.
«Sul
serio?» chiese Don, e un sogghigno abbastanza stupido apparve sul
suo viso.
Charlie
annuì mentre il suo sguardo continuava ad assorbire la casa. «È
una delle cose che ho visto quando ero nella clinica... Manca un vaso
lì?»
Indicò
un comò accanto alla porta. Alan tentò di trattenere le lacrime.
Charlie ricordava!
«Sì,
hai ragione» rispose con voce appena tremolante. «Si è rotto da
due o tre mesi».
Charlie
annuì di nuovo e sembrava dirigere le sue prossime parole in parte
verso loro, in parte verso sé stesso. «E qui non si trova...»
Pochi secondi dopo il suo ultimo dubbio se n'era andato. Stette
davanti al ritratto di Margaret. «E' mia madre». Era una
dichiarazione, non una domanda.
«Te
ne ricordi?»
Charlie
annuì solo un'altra volta. «Ho visto anche lei. E... sapevo che era
mia madre».
«Charlie,
sai che cosa significa?» La voce di Alan fremette per la fortuna e
altri sentimenti appena repressi. «Cominci a ricordare!»
Charlie
non disse niente. Per i due poteva sembrare così. E anche lui,
naturalmente, era contento che avesse riconosciuto la casa. Però
quella era solo una conferma di ciò che si era già accorto di
sapere di sé stesso alla clinica. Non era qualcosa di nuovo. Invece
Don e Alan rimanevano estranei per lui.
Ad
un tratto aveva il bisogno di fuggire da lì.
«C'è
un laghetto di Koi qui, giusto?»
Alan
non gli aveva ancora dato la risposta che Charlie stava già
camminando fuori. Doveva restare da solo.
|
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Capitolo 13 *** Amici estranei ***
nonti13
Grazie
per le recensioni :)
Spero
che vi piaccia! Avendolo letto ripetutamente penso che sia un capitolo abbastanza divertente :)
13.
Amici estranei
It
takes no time to fall in love.
But
it takes you years to know what love is.
And
it takes some fears to make you trust,
It
takes those tears to make it rust.
It
takes the dust to have it polished.
(Jason
Mraz, Life Is Wonderful)
Amita
respirò profondamente, appoggiandosi contro la sua sedia girevole.
Aveva passato l'ultima ora e mezza a correggere i compiti dei suoi
studenti del secondo semestre e il suo intero corpo desiderava una
pausa. Certo, avrebbe anche potuto portare i compiti a casa con sé,
ma c’era solo un appartamento vuoto ad aspettarla. Almeno lì non
era del tutto sola anche se di domenica c'erano un po' meno studenti
e professori che durante i giorni di lezione.
Si
alzò e facendo così, il suo sguardo cadde sul foglietto con il
numero di telefono che il Dott. Baumgarten, un visiting professor,
le aveva lasciato il giorno precedente. Amita aveva reagito in
modo abbastanza freddo al suo flirt, però lui non aveva perso la
speranza. E sì, era gentile ed intelligente e nemmeno di brutto
aspetto. In fondo era l’uomo dei sogni. Ma in ogni caso l'uomo dei
sogni di Amita restava ancora Charlie.
Era
vero, non erano stati insieme per tanto tempo; all'inizio il suo
dottorato era stato d’impiccio e poi... Poi tutto era finito
comunque. E Amita non sapeva nemmeno se fosse stato meglio provare a
tornare alla sua vita. Non avrebbe mai smesso di amare Charlie e non
si sarebbe mai scordata di lui – ma lui avrebbe voluto che dopo la
sua morte anche lei smettesse di vivere?
Amita
sorrise. No. No, non l'avrebbe voluto.
E
di nuovo lui requisì i suoi pensieri completamente finché lo
squillo del suo telefonino la strappò via dai suoi sogni
malinconici.
«Sì?
Amita Ramanujan?»
«Ciao,
Amita. Ascolta, potresti venire da noi per favore? Dovremmo parlarti
di una cosa importante».
Era
sorpresa, ma sentire la voce di Don e la sua preghiera le diede anche
la sensazione di essere a casa.
«Certo.
Ho appena finito lavorare comunque».
«Bene.
E sai dov'è Larry? Puoi portarlo con te? ».
«Dovrebbe
essere da qualche parte qui al campus. In ogni caso l'ho già visto.
Cercherò di trovarlo, ma non ci dovrebbero essere problemi. Penso
che saremo da voi tra mezz'ora, al più tardi».
Si
congedarono e Amita riattaccò. La sua fronte si era corrugata in
pieghe sottili. Non aveva idea del perché Don le avesse chiesto di
venire. Era facile supporre che avesse qualcosa da fare con l'eredità
di Charlie. Perché se lui – cosa che non sarebbe stata meno
sorprendente – le avesse chiesto aiuto con un caso, l’avrebbe
probabilmente aspettata con Larry alla centrale dell'FBI e non a casa
sua.
Correzione:
a casa di Charlie.
-
- -
Esattamente
ventiquattro minuti più tardi, Amita parcheggiò la sua macchina nel
viale degli Eppes e scese con Larry. Alan e Don sembravano averli
aspettati; aprirono la porta mentre i due professori stavano ancora
camminando.
«Entrate,
entrate pure» li pregò Alan.
Ai
due non sfuggì che era abbastanza nervoso. Anche Don sembrava esser
cambiato da quando l'avevano visto l'ultima volta. Ma il suo
cambiamento era difficile da inquadrare. La sua eccitazione sembrava
essere piuttosto interna; all'esterno emanava come sempre
calma.
«Sedetevi,
sedetevi. Volete bere qualcosa?»
«Volentieri» rispose
Amita. «Allora di che cosa si tratta?»
Per
la prima volta, l'eccitazione di Alan sembrò crollare un po' e senza
capirne il motivo, i due notarono lo sguardo insicuro che
lanciò verso suo figlio.
Don
respirò profondamente e decise di cominciare all'inizio. Comunque
sarebbe stato abbastanza difficile. Sembrava essere chiaro anche a
suo padre perché a Don non sfuggì che Alan sparì con il pretesto
di andare a prendere le bibite.
«Si
tratta di Charlie» cominciò Don, sperando di poter raggiungere
l'informazione chiave il più veloce possibile. «Non so se l’avete
saputo, ma mio padre ed io non siamo stati in città negli ultimi
giorni. Siamo stati in Nebraska». Si accorse delle loro sopracciglia
inarcate e non seppe come spiegarlo loro. «Siamo stato lì perché...
quattro giorni fa ho ricevuto una chiamata da una clinica. Mi hanno
mandato una foto di Charlie. E hanno detto che era un loro paziente».
Con
questo, la confusione per i due era perfetta.
«Vuoi
dire» cominciò Larry con rughe profonde sulla fronte «che Charles
è stato loro paziente prima di morire? Ma era coinvolto in
quest'operazione segreta… non ha senso».
Don
scosse il capo. Vagamente si accorse che Alan ci stava mettendo molto
con le bibite. Odiò la fiducia che gli altri avevano in lui.
«No,
non è così. Il giorno in cui hanno chiamato, Charlie era ancora
loro paziente».
«Ma
hai appena detto che la chiamata era stata fatta solo quattro giorni
fa!» obiettò Amita. Anche lei non sembrava capire la meravigliosa
novità.
«E'
vero. Ma Charlie non è morto. E' vivo».
Don
si sentì riportato al giorno in cui Amita aveva saputo della morte
di Charlie. La sua gesticolazione di allora assomigliava in un modo
quasi inquietante a quella di adesso: lo sguardo incredulo, lo
scuotere del capo...
«Ma
non può essere...» Ad un tratto la sua voce suonava rauca e fioca.
«Ma
è vero» disse Don, e non poté evitare che, accanto al suo sorriso,
le lacrime entrassero nei suoi occhi. «Charlie è vivo. È su, in
camera sua».
«Intendi
qui, in questa casa?!»
Per
un attimo Don aveva creduto che Larry volesse balzare in piedi,
però i suoi piedi non sembravano riuscire a sopportarlo.
Don
annuì. Anche lui sentiva di nuovo il nodo alla gola, ma erano segni
di felicità e non più di lutto.
«Charlie?»
chiamò in alto e la sua voce diede un po' nel falsetto.
Amita
e Larry guardarono le scale, incantati. Poi sentirono aprirsi una
porta lassù e pochi secondi dopo apparve un Charlie perfettamente
vivo che scese le scale con un'ombra della leggera spensieratezza di
una volta.
Don
diede uno sguardo di sbiego ai due e pensò che Amita stesse per
svenire. Don era felice che fossero già seduti, perché così solo
un "Dio mio" uscì dalle labbra appena aperte della
professoressa. Larry non sembrava meno sconcertato. I due guardarono
Charlie come se fosse un fantasma. E forse lo consideravano tale.
«Ciao»
disse Charlie, e nella tensione suonò disinvolto in modo quasi
pazzo. Eppure Charlie era smodatamente nervoso. Non era stato
facile per lui aspettare lassù in camera sua, lasciato con oggetti
che in un modo strano gli erano molto famigliari, finché Don e Alan
non avessero messo a parte Amita e Larry di quegli eventi folli. Ma
naturalmente aveva capito la necessità del processo quando aveva
ricordato che tutte quelle persone lo consideravano – o avevano
considerato – morto. E sembrava che avessero davvero provato
qualcosa per lui, constatò Charlie. Comunque le lacrime nei loro
occhi spalancati con incredulità erano indicatori abbastanza chiari
di questo. Le lacrime e i loro movimenti. Perché non ce n’erano; e
proprio come pochi giorni prima era stato con Alan e Don, Charlie
vide le due persone sedute davanti a lui come pietrificate prima che
la donna riuscisse a liberarsi dalla sua rigidità per precipitarsi
verso lui.
Abbastanza
sovraccarico con la situazione, Charlie ricambiò l'abbraccio il
meglio possibile, tentando di ignorare il più possibile i singhiozzi
della donna. Deglutì. Rilassati, si disse. E la
tua ragazza. Dovresti essere gentile con lei.
Con
un sentimento sgradevole nello stomaco si accorse che quella don...
che Amita probabilmente si aspettasse più di una
reazione "gentile" da lui, però per il momento non
sembrava aspettarsi proprio niente. Non sembrava essere capace di più
che tenersi ferma contro di lui e bisbigliare in singhiozzi senza
pausa il suo nome e "Dio mio".
«Com'è
possibile?»
Charlie
era quasi felice che la sua attenzione fosse distratta, ma non era
tanto più facile guardare la faccia incredula dell'uomo che ancora
non si era mosso di un centimetro.
«Perché
non ci hai detto che...» L'uomo ammutolì e Charlie si chiese se la
sua voce suonasse sempre talmente rauca, mentre Don adesso – troppo
tardi – si accorse che aveva dimenticato di dire loro qualcosa.
Charlie
sapeva che doveva una spiegazione ai due, però non sapeva da dove
cominciare. Comunque non sapeva lui stesso che cosa fosse successo.
«Non
mi ricordavo di voi» confessò infine.
Con
uno scatto, la ragazza nelle sue braccia levò la testa,
indietreggiando un mezzo passo da lui. «Che cosa?!»
Charlie
non sapeva che cosa dovesse o potesse fare. Si sentiva come se avesse
fatto qualcosa di sbagliato e fu felice quando qualcuno gli venne in
aiuto.
«Non
ricordava nessuno. Ha un'amnesia».
Alan,
il salvatore nella sventura, era apparso sulla porta della cucina.
Amita
prima guardò brevemente lui, poi Charlie e poi di nuovo Alan.
«"Ha"? Aveva un'amnesia, vuoi dire.
Adesso ti ricordi chi siamo. Vero, Charlie?»
Charlie
si sentì osservato in modo sgradevole ed era ben possibile che
questo fosse per i quattro paia di occhi puntati su di lui.
«Io...
Ha ragione. Non mi ricordo di voi. Neanche ora».
-
- -
Amita
si liberò completamente dalle sue braccia. Semplicemente non poteva
crederlo. Che cosa stava succedendo? Charlie non era morto, era vivo,
ma li aveva dimenticati tutti?
Ma
che diavolo era?
Amita
era sicura che sarebbe ammattita da un momento all'altro e subito
dopo si chiese se non era già ammattita da tempo, perché quella
sembrava essere l'unica spiegazione per ciò che stava accadendo.
«Vuoi
dire che non sai chi siamo?» chiese appena ebbe ritrovato la sua
voce. Però suonava sempre rauca e adesso anche confusa; era tutto
così tanto...
Charlie
scosse il capo e lei credette di sentirsi mancare il terreno sotto i
piedi. All'indietro, fece un paio di passi verso il divano e si
lasciò cadere giù, e pian piano la stanza smise di girare.
«Beh',
voglio dire, adesso lo so» disse Charlie in un tentativo
insufficiente di minimizzare il fatto. «Don ed Al... mio padre mi
hanno raccontato tutto. Cioè le cose più importante».
Amita
scosse il capo. Era talmente incomprensibile! Charlie era morto ed
era vivo! Lo vedeva lì, davanti a lei, con i propri occhi, in quella
stanza, in carne e ossa! Era talmente inconcepibile; semplicemente
non sapeva come prendere la situazione. Charlie era di nuovo con
loro, ma non sapeva niente di lei, non sapeva niente di tutto; Don ed
Alan gli avevano raccontato le cose più importanti, ma non avrebbero
mai potuto raccontargli delle cose che erano accadute solo tra loro;
quelle erano cose per Charlie completamente sconosciute e che
creavano una distanza tra lui e lei insormontabile, una distanza che
forse era più grande della morte...
«Io...
non riesco ancora a capirlo...» Tutti si voltarono verso il pallido
Larry le cui fattezze confermarono perfettamente le sue parole.
«Com'è possibile?»
«Crediamo
che ci sia stato un errore» Don diede la risposta nel modo più
calmo possibile. «Devono aver scambiato un altro cadavere per... per
Charlie. Crediamo che sia stato catturato, forse da gruppi radicali.
Ad ogni modo, è tornato negli Stati Uniti prima che fosse raccolto
dalla strada da un camionista».
Amita
e Larry guardarono Charlie a bocca aperta. «Non so se tutto questo
sia vero». Si vide costretto a difendersi, e ripeté a voce più
basso: «Non lo so».
Il
silenzio scandì il tempo in cui Charlie si sentiva – giustamente –
osservato, no, fissato. Finalmente fu Alan a sciogliere
il silenzio andando alla credenza del soggiorno, tirando fuori due
bicchierini e una bottiglia di brandy. Larry ed Amita all'inizio lo
guardarono un po' confusi.
«Aiuta»
disse Alan poi.
Amita
si accorse che aveva ragione. Comunque non riusciva ancora a
crederci, ma adesso almeno non si sentiva più così confusa e
irrazionalmente pensò che tutto gli fosse più chiaro grazie
all'alcol.
«E
cosa succederà adesso?»
Di
nuovo, Don diede la risposta, e pian piano Charlie si sentì un po'
messo sotto tutela. «La dottoressa della clinica ha detto che forse
ricorderà appena vedrà tutte le cose e i posti famigliari. Noi
dovremmo aiutarlo ad accomodarsi di nuovo». Fiero, aggiunse: «Ha
già riconosciuto la casa».
Charlie
stava per correggerlo, per specificare che non era del
tutto corretto, che si ricordava di quella casa già da mesi, ma
all'ultimo momento desisté. Di nuovo si accorse parzialmente di
quello che stava succedendo, che stava succedendo dentro
ognuna di quelle persone. Quei quattro estranei si conoscevano
talmente bene e sembravano felicissimi di averlo di nuovo tra di
loro. E Charlie semplicemente non sapeva come trattare quella
situazione; non sapeva dove fosse il suo posto.
«Lo
vuoi anche tu?»
Quattro
teste si voltarono verso Larry e si accorsero dei suoi occhi ancora
puntati su Charlie. Proprio come lui, avevano fissato il figlio
considerato perso, ma diversamente da loro lui non aveva cercato
tratti famigliari, ma aveva tentato di decifrare quelli sconosciuti.
Il modo in cui Charles li stava trattando era cambiato – e adesso
che anche Larry sapeva della sua perdita di memoria, non ne era più
sorpreso –, però pensò di aver trovato una traccia di contrarietà
nella mimica facciale di Charles quando Don aveva spiegato la
situazione senza lasciargli la parola. Non poté fare a meno di
chiedersi se fosse stato così anche prima della catastrofe. Però
prima che trovasse una risposta, fu colto dalla domanda successiva:
Charlie voleva quello che gli altri decidevano senza chiedere nulla?
Voleva accomodarsi di nuovo?
Ricevette
sguardi privi di comprensione che non svanirono nemmeno quando
capirono la sua domanda grazie alla risposta di Charlie: «Io...
certo che voglio ricordare».
Larry
respirò profondamente. Charles voleva rientrare nella loro vita. Era
buono.
Era
incredibile.
Larry
semplicemente non ci riusciva ancora a togliere i suoi occhi da
Charles. Semplicemente non era possibile. Aveva le allucinazioni?
Oppure per qualche strano motivo stava guardando il passato? Forse
Charles ce l'aveva fatta a realizzare una macchina del tempo?
Non
sarebbe stato meno credibile del pensiero che Charlie fosse ancora
vivo.
«C'è
forse qualcuno che può confermarmi che questo sta veramente
succedendo?»
«Sta
succedendo, Larry».
Larry
guardò in alto e il suo sguardo confuso trovò il sogghigno di Don.
E se Don sogghignava, qualcosa doveva veramente essere cambiato alla
base...
Era
vero. Charlie era tornato. Era vivo.
«Scusatemi
un attimo» riuscì a dire Larry e prima che fuggisse nel
giardino, tutti videro distintamente lo scintillio che scivolava
giù dalle sue guance.
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Capitolo 14 *** Merce fragile ***
nonti14
Ciao
ciao, i miei cari lettori :)
Spero
che ci siate ancora...
Mille
grazie alle recensori! Devo confessare che ero un po' sorpresa che il
titolo dell'ultimo capitolo vi fosse piaciuto talmente tanto, perché
a me non piaceva veramente... beh, almeno non mi piaceva finché
Alchimista non l'aveva cambiato un po' :)
14.
Merce fragile
Do
you ever feel like breakin’ down?
Do
you ever feel out of place,
Like
somehow you just don’t belong,
And
no one understands you?
(Simple
Plan, Welcome to My Life)
Non
era passato molto tempo prima che anche Amita avesse preferito il
giardino alla casa soffocante. E lì, fuori, anche le sue vertigini
si erano pian piano smorzate.
Erano
rimasti fino a sera, ma alla fine, avevano capito di non poterlo più
sopportare. La verità non era cambiata: Charlie non poteva
ricordarli. E la loro forza bastava appena per seguire il consiglio
della ex-dottoressa di Charlie: dargli tempo. Dovevano semplicemente
tutti prendersi il tempo di cui avevano bisogno.
I
due, con emozioni miste, ma definitivamente confusi, erano appena
usciti dalla casa degli Eppes quando dentro il telefono squillò. Per
quanto sembrasse, non c'era in effetti mai calma in quella casa.
Don
osservò suo padre prendere il ricevitore, e la sua espressione e le
sue parole gli fecero capire che la chiamata era per Alan. Stava già
per voltarsi altrove, chiedendosi se Charlie forse si fosse ritirato
nel suo garage e se avesse potuto tenergli compagnia, quando una
parola di suo padre lo fece voltare di scatto: «Morto?»
Don
vide la propria confusione rispecchiata negli occhi di suo padre,
benché nel più vecchio fosse probabilmente più sorpresa che altro.
Tacque per qualche secondo e poi disse, con lo sguardo un po'
distratto: «Mi dispiace, Martha, davvero. Questa cosa... è sempre
molto difficile». Di nuovo il silenzio. Don osservò ancora suo
padre attentamente. «Sì. Sì, certo che posso venire. Naturalmente.
– Va bene. E... Martha?» Esitò. «...Rimani forte, ok? E se hai
bisogno di parlare con qualcuno, chiamami, in qualsiasi momento».
Riattaccò
e fissò il telefono per alcuni attimi prima che Don chiese: «Che è
successo?»
«Jerry
è morto. Infarto cardiaco» disse Alan. Sembrava ancora un po'
assente col pensiero. Don poteva capirlo. Suo zio Jerry, il marito
della sorella di suo padre, era – almeno due anni fa, quando
l'aveva visto l'ultima volta – abbastanza in forma. Abitava
a Chicago, ci lavorava come avvocato e guadagnava
abbastanza bene. Non era nemmeno in pensione, aveva poco di più di
60 anni. Di sicuro lui e Martha, sua moglie, stavano già pregustato
la sua pensione e il fatto di poter trascorrere più tempo insieme.
Probabilmente avevano sempre creduto che ci sarebbe stato un “più
tardi” e un futuro insieme per loro. Adesso quel sogno era
definitivamente andato a monte.
Don
poteva capire come doveva sentirsi adesso Martha.
«Oh»
fece, e si accorse perfettamente che era un commento molto
inespressivo. «E adesso?»
«Il
funerale sarà dopodomani. Ho già promesso di andare. Non posso
lasciare Martha da sola». In ogni caso anche lei era stata lì per
lui dopo la morte di Margaret. Solo con la differenza che Alan
riusciva a mala pena a sopportare l'idea di dover lasciare da soli i
suoi figli di lì a poco.
«Ma
se voi avete bisogno di me qui...»
Don
scosse il capo. «Siamo adulti, Papà».
«Non
è questo che intendo– »
«Lo
so. Ma Charlie sembra stare piuttosto bene, no? E forse è più
facile per lui se non ci siano due, ma un solo matto che lo soffoca
di attenzioni».
Le
parole furono dette con un sorriso leggero, benché forzato, ma a Don
non sfuggì che suo padre avesse difficoltà a lasciar solo il suo
figlio minore tanto presto.
«Potreste
semplicemente venire con me...»
Perfino
Alan sapeva che era un'idea assurda. Al funerale ci sarebbero stati
un sacco di parenti di cui la maggior parte considerava Charlie
ancora morto. Tanta gente che non conosceva e tanta gente che
conosceva e di cui, in tutta probabilità, non si sarebbe ricordato.
Dintorni sconosciuti. Stress puro e perciò veleno per i suoi nervi
attualmente così sensibili.
Di
nuovo Don scosse il capo.
«Non
preoccuparti, Papà. E in ogni caso sarai di nuovo con noi fra due,
tre giorni». Guardò l'orologio e cambiò argomento: «Charlie è
già a letto?»
Alan
annuì. «Così sembra. E' stato un giorno lungo per lui. E anche per
me, ad essere sincero. Penso che lo imiterò».
«Vabbeh'.
Notte, Papà».
Don
non andò ancora a letto. Prima osservò il ritratto di sua madre,
vagò un po' per la casa senza meta e finalmente si sedette sul
divano. La sua testa girava sempre talmente tanto intorno a tutti gli
eventi più recenti che anche lui avvertiva chiaramente la
stanchezza; però era troppo occupato con i suoi pensieri per poter
andare a letto. Rimase seduto sul divano, prendendo ogni tanto un
sorso di birra e meditando, con il più leggero di tutti i sorrisi
sulle labbra, sulle svolte della vita.
-
- -
La
casa era sempre un po' estranea per Charlie, soprattutto la mattina.
Durante le prime ore della giornata, tutto era talmente fresco e
freddo e ogni giorno di nuovo... nuovo. Naturalmente conosceva le
immagini già da prima, ma erano nella sua testa senza la sensazione
di essere a casa. Si sentiva come un intruso, come se facesse
qualcosa di vietato quando passava furtivamente per le stanze. Era
vero che Don e Alan – Charlie riuscì solo tiepidamente a
correggersi, sostituendolo con 'Papà' – avevano detto che quella
era casa sua, ma poteva veramente essere la propria casa se non
poteva nemmeno ricordarlo?
Le
scale scricchiolarono benché Charlie camminasse il più vicino
possibile al muro. E benché questo rumore lo facesse pensare ai
tempi passati, suonò inopportuno. Non voleva svegliare nessuno.
Rendeva le cose assai difficile ai due anche senza che li svegliasse
presto la mattina.
Sorrise
leggermente. I due si s'incomodavano talmente tanto. E adesso anche
Amita e Larry. Charlie quasi non riusciva a credere che si
adoperassero talmente tanto per lui, perché lui potesse ricordare.
Dovevano davvero tenere molto a lui.
Ma
purtroppo non è reciproco. Non vi conosco più.
Charlie
si arrestò. Non poté andare avanti, non ne aveva più la forza.
Perché non poteva ricordare? Perché semplicemente non funzionava?
Per lui non c'era nessun dubbio che ogni cosa sarebbe stata migliore
se solo avesse potuto finalmente di nuovo ricordare quella vita.
Perché non si era smarrita solo la sua memoria, ma anche le sue
emozioni. E in quel momento, quella perdita gli appariva ancora più
dolorosa.
Poteva...
semplicemente non poteva ricordare com’erano le sue relazioni con
tutta quella gente. L'aveva amata prima? Oppure i loro rapporti erano
stati abbastanza freddi? Avevano abitudini che lo potevano far
imbestialire? E se ne c'erano, quale erano? E queste abitudine
l'avrebbero snervato ancora oggi?
Charlie
sospirò. Per circa la centesima volta si chiese che cosa sarebbe
successo se non avesse potuto ricordare, mai più. Avrebbe dovuto
crearsi un’intera vita da capo, proprio come stava facendo adesso.
E non avrebbe solo dovuto crearsi di nuovo il suo lavoro e la sua
memoria, ma anche le sue relazioni. E dopo il lavoro sulle dinamiche
delle relazioni che aveva trovato nel garage e aveva apparentemente
scritto lui stesso, le sue nuove relazioni sarebbero probabilmente
state diverse da quelle vecchie. Almeno da parte sua, perché lui
aveva una base diversa, ricordi diversi, più recenti. Gli altri,
però, si sarebbero aspettati da lui lo stesso trattamento di prima –
pur non sapendo come fosse ogni cosa prima di tutto questo.
Il
problema era che non sapeva nemmeno che cosa gli
altri si aspettassero da lui. Poteva solo sentire che erano
scontenti, non direttamente con lui, ma con la situazione. Alan e Don
lo colmavano di attenzioni e... sì, realizzò
Charlie, di amore. E comunque lui non aveva
difficoltà a essere gentile con loro; li voleva bene, era già
abbastanza affezionato a loro, perfino Amita e Larry benché
li conoscesse solo da qualche ora. Amava essere insieme a tutti loro.
Però ancora non osava sbilanciarsi. Doveva sempre mantenere il
controllo, sempre mantenere un po' le distanze, rimanere cortese e
gentile. Non doveva perdere il controllo di se stesso. Chi poteva
sapere se Alan e Don l'avrebbero cacciato non appena si fosse
comportato in modo sbagliato?
Il
più piano possibile passò furtivamente nella cucina, badando a che
neanche la porta facesse rumore. Riempì un bicchiere d'acqua
dal rubinetto prima di tornare con passo felpato fuori, destinazione
soggiorno. Già aveva quasi vuotato il bicchiere quando, con la coda
dell’occhio, vide una figura sul divano, e si arrestò.
Lentamente,
il suo braccio si abbassò finché non pendette, come senza di vita,
accanto al suo fianco, il bicchiere rimasto tra sue dita solo per
caso. La figura sul divano era Don, però non era quel Don che
Charlie aveva conosciuto durante gli ultimi giorni, non solo quello,
era anche un altro Don...
Charlie
era troppo occupato con le immagini dalla sua memoria per
accorgersi che il bicchiere scivolò giù dalle sue dita e si
infranse sul pavimento.
-
- -
Lui
e Charlie erano bambini. Correvano su e giù nel giardino, giocando
ad “acchiapparello" e benché Don fosse il più
grande dei due, Charlie riusciva ogni tanto a sfuggirgli. Ecco, di
nuovo gli sfuggiva, inciampando all’indietro. Ad un tratto qualcosa
tintinnò e Don vide che la mano di Charlie batté contro il vaso
preferito della loro mamma, che traballò, traballò e infine
pendette da un lato, oltre il centro di gravità. Don era rigido.
Il
tintinnio si perse benché il vaso stesse ancora traballando. E poi,
che faceva quel vaso lì? Erano a giocare fuori! C'era un errore, da
qualche parte...
Don
aprì gli occhi e realizzò quasi subito che aveva sognato. Sognato
di tempi più felici. Sospirò e si sedette; indietreggiò spaventato
quando si accorse che non era l'unico nella stanza.
Charlie
stava in piedi a fissarlo, gli occhi spalancati e diretti in modo
molto strano verso qualcosa di lontano. E attorno ai suoi piedi
c'erano pezzi di vetro, a quanto pareva di uno dei bicchieri della
credenza. Ecco da dove era venuto il tintinnio.
Gli
occhi di Don vagabondarono di nuovo sulla faccia di Charlie, e venne
colpito da un sentimento spiacevole. Che cosa stava succedendo?
Charlie era sonnambulo? Che cosa significava quello sguardo, quegli
occhi rigidi che lo spaventavano in modo irrazionale?
«Ehi,
Charlie» disse Don a bassa voce, ma suo fratello non sembrava
poterlo sentire. In modo lento e cauto Don si alzò dal divano. Vide
che Charlie si irrigidì. «Tutto bene, fratellino» tentò di
rassicurarlo, e manteneva i suoi movimenti lenti. Però aveva appena
fatto il primo passo verso Charlie quando suo fratello indietreggiò,
mettendo i piedi in mezzo ai cocci.
Don
trasalì per il dolore al posto di Charlie. Perché suo fratello non
sembrava sentir nulla. Manteneva solo quegli occhi fissi ed
allarmanti su di Don.
«Charlie,
fermati, ti prego» lo ammonì Don. Fece un passo incredibilmente
lento verso suo fratello che indietreggiò di nuovo di altri due
passi e così camminò ancora tra altri cocci.
«Accidenti,
Charlie, fermati!»
Don
si pentì subito della sua violenza. Un altro passo, e Charlie si
indietreggiò da lui fino a che non fu stretto contro un angolo della
stanza e non si mosse più. Solo quegli occhi non sparivano, quegli
occhi rigidi, da folle...
Don
camminò attorno il tavolo da pranzo affrettatamente finché non fu
solo ad un metro da Charlie che lo guardava sempre fisso.
Don
non sapeva più che cosa fare. Vide che almeno uno dei piedi di
Charlie sanguinava, ma suo fratello ancora non sembrava essersene
accorto.
«Ehi,
Charlie... stai bene?» La domanda gli apparve talmente stupida che
subito dopo ne fece un'altra: «Puoi sentirmi?»
Charlie
annuì leggermente, però manteneva quello sguardo.
«Lasciami
vedere il tuo piede». Don aveva già allungato le mani, ma Charlie
si premette con più forza contro il muro.
Don
voleva urlare. Che cosa stava succedendo? Perché Charlie ad un
tratto aveva paura di lui? No, era peggio della paura; era panico
nudo e crudo.
«Charlie,
non ti farò niente, te lo giuro».
Però
era inutile. Don si accorse che Charlie stava continuando a respirare
a mala pena e a fissarlo come se vedesse un fantasma.
«Non
ti farò niente, Charlie. Ricordi? Sono Don, tuo fratello». Ancora
nessuna reazione. «Mi riconosci?» Anche la respirazione di Don era
diventata più sommessa, talmente temeva la risposta.
Charlie
rimase muto. Però annuì.
Don
avrebbe quasi riso per il sollievo. «Mi riconosci? Allora sai che
non ti farò niente?»
Questa
volta, Charlie ci mise più tempo per dare la risposta, ma anche
questa volta fu un annuire leggero.
«Vabbeh.
Vabbeh, Charlie. Va tutto bene. Allora lasciami vedere il tuo piede».
Il
sentimento inquieto rimase quando Charlie continuò a fissarlo con
occhi rigidi. Ma almeno non fece resistenza quando Don si avvicinò.
Si chinò sui piedi di Charlie e, involontariamente, si vide assalito
da uno strano sentimento, estremamente simile alla paura, quando
voltò via i suoi occhi dalla faccia di Charlie e gli presentò la
sua nuca indifesa. Come se suo fratello potesse da un momento
all'altro affondarci i suoi denti.
Scontroso,
Don scosse la testa. Charlie non gli avrebbe fatto niente. Nemmeno se
si stava comportando da pazzo.
«Sembra
esser abbastanza brutto, Chuck» disse Don tentando di mantenere il
timbro della sua voce abbastanza leggero. «Qualche coccio è ancora
dentro e il tuo piede destro è tagliuzzato in modo abbastanza
brutto, per quanto ne capisca. Forse faremmo meglio ad andare
all'ospedale per lasciarlo suturare».
Si
alzò e fece un passo via da Charlie, però quello ancora non reagì.
«Mi
metto solo qualche vestito. Non muoverti, va bene?»
Charlie
non si mosse affatto; non fece nient'altro che fissarlo. Don
rabbrividì e si affrettò a mettere i vestiti che, fortunatamente,
erano a portata di mano sopra la spalliera del divano cosicché
poteva continuare a osservare suo fratello.
Eccetto
i calzini e scarpe, Charlie era vestito; allora Don pensò fosse
meglio andare in ospedale subito, soprattutto perché Charlie
attualmente non era molto reattivo.
Le
cose che lui considerava migliori però non erano necessariamente
quelle che avevano l'approvazione di suo fratello. Charlie sembrava
sempre anestetizzato, come se qualcuno gli avesse somministrato delle
droghe. Don lo dovette letteralmente tirare con le proprie braccia
verso il SUV. Fece una smorfia quando vide la traccia di sangue che
Charlie perdeva. Gli aveva tolto i cocci grandi, però non aveva
considerato raccomandabile fasciare il piede, e sperava che suo
fratello avesse fatto attenzione poggiando il piede a terra perché i
cocci non penetrassero ancora più profondamente nella carne.
Però
immaginava già che la sua speranza fosse inutile. Charlie ancora non
sembrava sentire la sua ferita. Ma questo serviva solo a rendere Don
ancora di più preoccupato.
Guidando
verso l'ospedale si chiese se non fosse stato un errore di non
informare suo padre. Naturalmente, gli aveva scarabocchiato tutto in
fretta su un pezzetto di carta: Attenzione, cocci. Charlie ci
ha camminato sopra. Siamo in ospedale. Spero e penso che saremo a
casa in breve. Però sarebbe stato grato se non avesse
dovuto essere da solo con quel Charlie improvvisamente tanto strano e
se non si fosse dovuto assumere una simile responsabilità senza
nemmeno sapere che cosa stesse succedendo. Il giorno prima era stato
così normale – almeno considerando che non poteva ricordare la sua
vita. Che cosa poteva essergli successo da allora?
Don
parcheggiò il SUV il più vicino possibile all'entrata
dell'ospedale, corse attorno alla macchina e aprì la portiera del
passeggero. Charlie non sembrava essersene accorto. Don avrebbe
preferito scuoterlo, ma aveva troppa paura. Vide lo sguardo vuoto di
Charlie e la sua figura magra, accoccolata nel sedile, e fu come se
potesse vedere direttamente nell'anima di suo fratello. Charlie era
così incredibilmente fragile, così immensamente vulnerabile che Don
aveva timore anche solo a toccarlo.
Però
probabilmente non aveva altra scelta.
«Ehi,
fratellino…» disse a bassa voce, quasi bisbigliando come se le
onde acustiche potessero far crollare la figura instabile di Charlie.
Tutto
delicato, gli mise una mano sulla spalla, aspettando angosciosamente
la reazione di suo fratello.
Charlie
voltò la testa, guardandolo negli occhi scuri dalla fine di qualcosa
che sembrava un tunnel lungo decine di chilometri di vuoto. Tacque.
Don
deglutì. «Ehi... puoi camminare? Dobbiamo entrare». Cautamente,
tirò Charlie con la maglietta e lo trascinò fuori dalla macchina.
Charlie lo lasciava fare tutto senza mostrare una qualsiasi reazione.
In
seguito, Don non avrebbe saputo dire come ce l'avevano alla fine
fatta a raggiungere un dottore che tolse i cocci dal piede Charlie,
lo fornì di cerotti e suturò la pianta del piede destro con pochi
punti. Inizialmente il dottore avrebbe voluto tenerlo in ospedale
perché supponeva che Charlie avesse uno shock, ma infine Charlie era
riuscito a rispondere alle domande del dottore con sua soddisfazione
e dopo un controllo breve quello, con un po' di riluttanza, aveva
mandato i due a casa, però non senza aver ripetuto a Don a cosa
avrebbe dovuto fare attenzione se avesse constatato che Charlie aveva
realmente uno shock.
Quando
furono di nuovo seduti in macchina, Don non era sicuro di dover
essere contento che Charlie non fosse rimasto in ospedale o meno. Ma
in ogni caso era contento che fra poco avrebbe potuto parlare con
Alan.
Don
parcheggiò il veicolo davanti casa e quando la sua portiera si
chiuse, anche Charlie cominciò a scendere lentamente. Stava già per
muoversi quando Don glielo impedì tendendogli le stampelle. Charlie
le prese senza commento e si mise in moto, senza dirigersi, però,
verso la porta di casa.
«Ehi,
Charlie!» Cautamente, Don lo prese per la spalla, tentando di farlo
rivolgere verso sé. «Dove vuoi andare?»
Charlie
nemmeno si volse verso di lui prima di borbottare un “garage”
appena percettibile.
«Ti
accompagno?» Don aveva già preso mezzo passo nella direzione di
Charlie quando vide che suo fratello scosse la testa. La
preoccupazione e l'impotenza crescevano dentro di lui mentre fissava
la sua schiena, osservando come suo fratello scompariva nel garage.
-
- -
Charlie
era ancora nell'altro mondo, quello sfumato, meno reale. Eppure a lui
quel mondo in un modo strano sembrava tanto più verace che i propri
tentativi disperati di riavere indietro la sua vita.
L'immagine
di quel Don sdraiato lì, privo di vita, era rimasta e non si era
sciolta nella nebbia della dimenticanza. Benché Charlie stesse
davvero male mentre osservava quell'immagine della sua memoria, era
anche incredibilmente felice e sollevato che non scomparisse più,
che ci fosse ancora qualcosa dalla sua vita precedente, che ci fosse
una prova che prima di tutto questo aveva veramente avuto una vita.
Anche prima aveva già visto quell'immagine, però non se l’era mai
propriamente ricordata, e mai quell'immagine era stata tanto chiara
ed era rimasta nella sua memoria per tanto: ciò che puntualmente
restava era solo una sensazione…
Concentrandosi
il più profondamente possibile, Charlie finora aveva tentato di
classificare l'immagine con quello che sapeva già, di dargli una
storia. Che cosa era successo prima? Che cosa dopo? I suoi pensieri
erano stati talmente assidui e intensi che si era appena accorto di
cosa gli stava succedendo intorno. Qualche volta, la faccia sfocata
di Don gli era apparsa davanti, una volta quella di un uomo in camice
bianco... Charlie non aveva nemmeno capito se quelle fossero la
verità o solo immagini sognate, ma non se n'era importato affatto.
Non
era neanche al cento percento sicuro che quell'immagine del Don
immobile fosse stata davvero estratta dalla realtà, perché i suoi
sforzi per ricordare le circostanze concomitanti erano simili a
quelli che si fanno per ricordare un sogno quasi perduto. Però
Charlie si aggrappava alla speranza che forse adesso potesse
finalmente venire a sapere qualcosa di sé.
Quello
era almeno un posto silenzioso e nessuno lo avrebbe disturbato. Da
sempre il suo garage era stato il posto dove aveva potuto riflettere
al meglio.
Charlie
si arrestò. No, era vero. Sapeva che quello era il posto dove aveva
sempre preferito riflettere, lo sentiva istintivamente. Questo era un
tipo di ricordo: cominciava a ricordare!
Con
determinazione rivide l'immagine del Don dormente e nella sua testa
mischiò all'immagine del Don immobile e intriso di sangue della sua
memoria...
Don
aveva la sua giacca dell'FBI. Il suo viso era voltato, ma
i capelli scuri erano visibili. La sua arma di servizio era allentata
nella sua mano che non avrebbe mai più potuto afferrarla, né
l'arma, né alcun’altra cosa. La prova di questo era il
cambiamento scuro di colore sulla giacca, sulla “F” di “FBI”
scritto in giallo. Sul giallo era anche visibile che il liquido scuro
in realtà era rosso. E questo ed il fatto che Don non si muovesse,
né si sarebbe mai più mosso, significavano che la pallottola
l'aveva colpito esattamente al cuore.
Charlie
rabbrividì istintivamente. Sapeva che era la verità, che aveva
davvero visto quella scena. E sentì la voce che era infallibilmente
collegata a quell'immagine: «È colpa sua, Dott. Eppes. Lei
ha ucciso suo fratello».
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Capitolo 15 *** Cogito, ergo sum - ma che cosa? ***
nonti15
Beh, è passato un po' di tempo dall'ultima volta, ma spero che
vogliate ancora sapere come continua la storia. Ricordiamoci: Charlie
ha saputo che Don è morto... ma che diavolo?! Allora spero che
siate almeno un pochino curiosi :)
@ agrumi: adesso ho trovato il passaggio dove si dice che la casa
appartiene a Charlie... scommetto che lo troverai anche tu fra poco :)
15.
Cogito, ergo sum – ma che cosa?
I’m
all tied up on the inside.
No
one knows quite what I’ve got.
And
I now that, on the outside,
What
I used to be I’m not
Anymore.
(Don
McLean, Crossroads)
Repentinamente,
Charlie si liberò dai disordini della sua memoria e si alzò.
Trasalì subito e fece una smorfia di dolore. Il suo piede. Qualcosa
non andava col suo piede. Charlie guardò in basso, vide il bendaggio
e si ricordò vagamente dell'uomo col camice bianco. Un po' confusi,
i suoi occhi attraversarono il garage cercando altri accenni, finché
non trovarono le stampelle. Senza esitare Charlie le afferrò e provò
ad andare il più veloce possibile verso casa. Doveva andare da Don,
era importante, doveva andare da Don...
Alan
e suo figlio erano seduti al tavolo da pranzo. Avevano abbassato
leggermente le teste e ovviamente stavano parlando seriamente. Quando
Charlie entrò dalla porta, si voltarono verso lui.
«Charlie!
Eccoti qui! Come sta il tuo piede?»
Charlie
non rispose alla domanda di suo padre. Invece ne fece un'altra, però
diritta al terzo uomo nella stanza: «Chi sei?»
A
Don mancò la parola. Che cosa era successo a Charlie? Perché il suo
stato stava ad un tratto peggiorando?
«Sono
Don» rispose, facendo attenzione a parlare con parole lente e
chiare, e forse quello sforzo era l'origine del tremore nella sua
voce. «Sono tuo fratello. Mi hai –»
Ma
Charlie non lo lasciò finire. «Io so chi è Don! Ma voglio sapere
chi sei tu!»
Alan
e Don si scambiarono sguardi estremamente confusi. «Ma Charlie, che
significa? Non stai bene?» Alan squadrò suo figlio con
preoccupazione.
«Sì,
sto benissimo... Papà. Voglio solo sapere chi è l'uomo
che pretende di essere mio fratello!»
«Ma
Charlie... Che vuol dire “pretendere”? Lo sono, non
puoi –»
«Lo
puoi anche provare?» lo interruppe Charlie, e Don lo fissò come se
venisse da un altro pianeta.
Per
il colmo delle sventure, Don divenne anche impaziente. A poco a poco
si sentiva ormai stufo di camminare sulle uova, voleva finalmente
sapere che cosa significasse il comportamento strano di Charlie.
Voleva che tutto tornasse di nuovo com'era prima. «Come provarlo,
cavolo?! Vuoi vedere il mio atto di nascita o cosa?»
Charlie
respirò gravemente. Non ci aveva pensato. Non aveva prove. Non
sapeva come potesse mai provare a quest'uomo che era impossibile che
fosse Don. In una situazione normale avrebbe probabilmente tentato di
provare la sua colpevolezza facendogli domande sulla loro vita
insieme, alle quali solo loro due sarebbero stati in grado di
rispondere. Però il particolare che Charlie non era in grado di
controllare la veridicità delle risposte di Don o addirittura
trovare domande adeguate, distrusse il suo bel piano.
Il
panico rinacque dentro di lui. Aveva fatto un errore? Sì,
definitivamente. O quest'uomo, per qualche ragione incomprensibile,
era davvero Don, oppure aveva appena mostrato le sue carte. E in
ognuno dei due casi Alan e Don adesso erano sicuramente irritati. O
perché Charlie aveva attaccato suo fratello senza motivo
oppure perché Charlie aveva realizzato che, per qualche ragione,
facevano il doppio gioco con lui. E se davvero gli stavano
mentendo... No, no, non funzionava, doveva andare via da lì, doveva
sfuggire... Però dove? Era alla mercé di quei due, ma doveva
restare da solo, doveva riflettere...
Charlie
deglutì e guardò in giro con un po' panico prima di trovare una
vita d'uscita nelle scale.
«Sono
stanco, vado a dormire» affermò frettolosamente. Era solo il
pomeriggio e i due probabilmente non gli avrebbero creduto, ma in
quel momento non gliene fregava; doveva andare via da lì. Prese le
grucce e camminò zoppicando verso i gradini. Poi, però, si fermò,
lasciando scivolare il suo sguardo in alto, poi sulle sue grucce, poi
sul suo piede. Come diavolo doveva andare su?
«Hai...
hai forse bisogno di aiuto?»
Charlie
trasalì violentemente e la sua testa si girò di scatto quando sentì
la voce di Alan così vicina al suo orecchio. Stava tentando di
regolare la sua respirazione quando, dall'altra parte sentì la voce
di Don. Però non era la voce che aveva conosciuto durante gli ultimi
giorni. La voce di questo nuovo Don era neutra, fredda e stranamente
vuota. Sempre calma, ma non più affezionata.
«Dai»
disse la voce che non sembrava tollerare nessuna contraddizione. «Ti
aiutiamo».
«No!»
Charlie perdette il suo equilibrio quando tentò di schivare Don.
Sbatté rumorosamente contro il muro, e fu solo grazie ad Alan che
non cadde a terra. Charlie si lasciò abbassare sul penultimo
gradino, tentando per prima cosa di rifiatare. «No» ripeté poi.
«Ce la faccio da solo. Potete andare di nuovo in soggiorno o in
qualsiasi altro posto».
Basta
che mi lasciate da solo, aggiunse nei suoi pensieri.
Ma
i due erano ancora davanti a lui e non sembravano intenzionati a
lasciarlo. Per provare loro che ce l'avrebbe davvero fatta, Charlie,
in posizione seduta, si spostò sul gradino più in alto. E poi su un
altro. E un altro. I due non provarono a trattenerlo, né a seguirlo,
e Charlie ne fu immensamente sollevato. Infine, un po' esausto,
arrivò su e ce la fece addirittura a trascinarsi nella sua camera
saltellando su una gamba. Sarebbe solo andato in bagno e poi a letto,
finché non sarebbe stato sicuro che Alan e Don non erano più due
statue silenziose sul pianerottolo.
Charlie
aveva sudore freddo sulla fronte, ma la sua respirazione pian piano
divenne di nuovo più regolare. Era sdraiato sul suo letto e fissava
il soffitto. Tutto girava. Ancora non era sicuro di ciò a cui poteva
credere. Quel Don nel soggiorno era suo fratello o no? Ma l'aveva
visto, era sicuro, sapeva che non aveva immaginato quello
scenario, che era davvero successo.
Le
immagini diventarono di nuovo più vive, togliendogli il respiro: il
sangue, il corpo immobile di Don sul terreno freddo, le mura vuote
attorno a lui che non lo lasciavano libero, e la voce fredda: Lei
ha ucciso suo fratello, lei ha ucciso suo fratello, lei ha ucciso suo
fratello...
Sconvolto
dalla disperazione Charlie scosse il capo, violentemente. No, no, no,
questo non era possibile! Questo non doveva essere vero, Don non
poteva essere morto, non poteva aver ucciso suo fratello, no...
Ma...
Charlie trattenne il fiato, controllando il suo ragionamento. Ma era
vero. Aveva un fratello. Aveva avuto, almeno. Allora ricordò,
c'era stato un fratello nella sua vita: Don era davvero stato suo
fratello – quello era vero, Don non aveva mentito, era stato suo
fratello. E Charlie l'aveva ucciso. Ma questo non poteva essere,
semplicemente non poteva: non avrebbe potuto sopportarlo, non
poteva...
Ma veramente non
poteva essere perché Don era lì, era al piano di sotto, era vivo,
ma era incredibile, la colpa di Charlie era un fatto, una cosa
sicura, l'aveva ucciso...
Tutto
questo era talmente sconcertante... Aveva visto Don, aveva saputo che
era morto, che era colpa sua, che l'aveva ucciso, e ad un tratto Don
era stato di nuovo lì. Questo non era possibile, vero? Stava
perdendo la ragione, stava proprio perdendo la ragione... Don era
vivo, ma lui l'aveva ucciso...
E
se non fosse stato così?
La
sua testa restava il posto più insicuro per ricordi. Aveva
dimenticato talmente tanto, non riusciva a ricordare talmente tante
cose. Allora non poteva essere che ricordasse eventi che non erano
successi? Che il suo cervello inventasse da solo queste cose perché
gli mancavano altri ricordi, ricordi veri, così che semplicemente
avesse comunque una qualsiasi cosa a cui
aggrapparsi, che appartenesse a lui?
Non
lo sapeva.
Che
cosa era vero? Quello che diceva la gente o quello che ricordava lui?
Suo fratello era vivo o morto? Quello di sotto era Don o no? Lui era
Charlie oppure qualcuno altro?
Non
lo sapeva.
Semplicemente
non lo sapeva. Poteva essere così o tutto diverso, poteva essere nel
modo che gli diceva la gente oppure nel modo come gli diceva il suo
cervello, non lo sapeva, non lo poteva determinare. Da dove veniva?
Chi era? Che voleva?
E
chi avrebbe potuto dargli le risposte?
Non
lo sapeva, semplicemente non sapeva di chi poteva fidarsi di più. Un
attimo prima credeva che tutto si sarebbe aggiustato finalmente, e un
attimo dopo la sua concezione del mondo era di nuovo distrutta.
Don
era morto o no? Era colpa sua o no? Erano tutte bugie o no?
Stava
diventando pazzo?
Forse
lo era già. Forse era uno squilibrato, forse era per questo che il
suo cervello gli faceva quegli scherzi. E se era uno squilibrato,
allora non sarebbe mai più stato in grado di stare bene, giusto?
Forse la sua mente aveva semplicemente perso la capacità di
percepire le cose, forse non avrebbe mai saputo, fino alla fine della
sua vita, che cosa stava succedendo veramente e che cosa non stava
succedendo; forse dipendeva da lui, forse era diventato pazzo...
Ma
anche in questo caso non poteva sapere se quello che gli raccontavano
gli altri fosse la verità. Oppure sì? Poteva fidarsi di loro ed era
solo paranoico? Stava immaginando delle cose che non erano vere?
Sospettava di loro benché non ce ne fosse nessuna ragione? Stava
davvero perdendo la ragione?
Oppure
l'aveva già persa?
-
- -
Alan
e Don avevano deciso di lasciare Charlie in pace per il resto del
giorno. Sicuramente era semplicemente un po' troppo per lui: i luoghi
insoliti (col cavolo insoliti!, pensò Don fra di
sé. Abita qui!), tutta questa gente estranea (la sua
famiglia e i suoi amici, maledizione!) e una nuova vita
quotidiana che Don non sapeva se sarebbe mai diventata di nuovo
normale.
Ma
doveva. Almeno per lui, perché Don non poteva prendersi qualche
giorno libero per l'eternità. Aveva ancora quella settimana –
inaspettatamente le sue ferie chieste all'ultimo momento dopo
l'arrivo del fax erano state approvate –, ma con ogni
probabilità non avrebbe potuto prorogarle. E inoltre, come avrebbe
potuto lasciare la sua squadra da sola per così tanto tempo?
Come
se fossero spiriti affini che leggevano l’uno i pensieri
dell'altro, Don sentì bussare alla porta e dietro essa trovò i suo
colleghi. Sembravano eccitati, avevano gli occhi grandi, che spiavano
dietro Don, in casa, come se cercassero qualcosa.
«E'
davvero così?» volle sapere David, nemmeno pensando a salutarlo.
Don
ci pensò. «Ehi, voi tre» disse, sorridendo a David, Colby e Megan.
Poteva immaginare perché fossero lì, e ciò gli diede un sentimento
caldo nel petto. «Non volete entrare prima?»
«Ma
è vero?» Megan non si lasciò distrarre. Era semplicemente così
incredibile, così... «Charlie –?»
«E'
vivo» la interruppe Don, e il sentimento caldo si espanse ancora di
più.
«Come
diavolo...» cominciò Colby sconcertato, però non fu capace di
continuare.
«Una
lunga storia. Ma come lo sapete?»
«Larry.
Me l'ha appena raccontato» spiegò Megan. «Pensava che lo sapessimo
già; che tu ce l'avessi raccontato».
La
sua voce era diventata un po' accusatoria. Quando Don, dopo il fax,
aveva preso qualche giorno libero, lei aveva creduto che –
comprensibilmente – avesse bisogno di un time out. Non aveva
nemmeno saputo che lui ed Alan erano andati in quella clinica. E non
aveva saputo cosa pensare quando Larry gli aveva detto che Charlie
meravigliosamente era vivo.
«Abbiamo
pensato che Larry fosse pazzo» David verbalizzò ancora sconcertato
i pensieri di Megan.
«Cioè,
ancora di più del solito» continuò Colby
«Ehi!»
Megan ammonì Colby, quasi scherzando.
David
ignorò il breve battibecco dei suoi colleghi. «Quando... intendo,
come...»
«Dov'è?»
lo interruppe il suo collega, adesso un po' più serio. «Possiamo
vederlo?»
Il
sorriso scomparse dal viso di Don. «Non so, ragazzi... E' abbastanza
confuso oggi. E poi si è coricato poco fa». Vide le facce deluse,
però non avrebbero potuto fargli cambiare idea. Non avrebbe turbato
Charlie ancora di più.
«Ma
è qui? E' in casa vostra?» si assicurò David ancora una volta.
Sulla loro faccia si poteva leggere come ancora non riuscissero a
comprenderlo. Charlie era vivo e sotto quel tetto dopo che era stato
morto per sei mesi?
«Sì,
è qui. E sta bene fisicamente».
Solo
psicologicamente...
Megan
era un’ottima analista psicologica. E qualche volta sembrava che
non fosse solo il suo lavoro, ma la sua vocazione. Qualche volta,
solo qualche volta, sembrava davvero poter leggere i pensieri di chi
gli era di fronte. Quella era una delle volta. Non le sfuggì che Don
era raggiante di gioia interna benché rimanesse calmo, e non le
sfuggì neanche la preoccupazione.
«Sono
sicura che Charlie starà bene anche per quanto riguarda le altre
cose. E lo sai che vi aiuterò volentieri se avrete bisogno di me».
Un
sorriso scaltro sgattaiolò sul suo viso e un po’ d’umido nei
suoi occhi.
«Dio,
dopotutto è stato morto e si è ristabilito fisicamente. Dopo questo
si può raggiungere anche tutto il resto».
-
- -
La
mattina dopo, a letto, Charlie si sentiva ancora male. E ancora tutto
girava, ancora non sapeva che cos'era vero, chi era lui.
Allo
stesso tempo però, Charlie quella mattina cominciò anche a
riflettere veramente sui lati positivi di un'amnesia. Se non avesse
potuto ricordare il giorno precedente, non avrebbe avuto problemi a
scendere di sotto. Ma siccome ricordava...
Però
prima che uno di loro fosse salito per svegliarlo, Charlie infine si
alzò a fatica e scese le scale. Lì ebbe di nuovo le sue stampelle,
ma non andò lontano con esse. Le aveva appena prese in mano quando
indietreggiò spaventato, vedendo le figure sempre pietrificate di
Alan e Don sedute al tavolo che prendevano la colazione.
«Buongiorno,
Charlie» lo salutò Alan. Aveva un timbro serio. Non poteva
significare qualcosa di buono. «Siediti. Dobbiamo parlare».
Repentinamente,
Charlie trasalì per la paura. Lo sapeva. Si era comportato in modo
sbagliato. Adesso aveva rovinato tutto. Aveva avuto ragione, era
stato paranoico. Ed era chiaro che quei due uomini non volevano avere
uno squilibrato in casa, l'avrebbero cacciato e lui sarebbe stato
perso, non avrebbe avuto più alcuna possibilità di sfuggire alla
pazzia, sarebbe stato perso e avrebbe dovuto errare per il mondo, per
sempre solo, abbandonato...
«Mi...
mi dispiace, non intendevo...» Ma scuse erano insufficienti; lo
sapeva. Ma forse, forse avrebbe potuto raggiungere qualcosa
supplicando. «Per favore, lasciatemi abitare qui almeno finché non
avrò trovato un altro posto, per favore. Non vi dovrete
prendere cura di me, solo finché non avrò trovato qualcos'altro.
Non –»
«Charlie
–» lo interruppe Alan e Charlie limitò le sue pretese ancora un
po' di più.
«Solo
fino a stasera! Poi me ne sarò andato, promesso, solo –»
«Charlie,
smettila, non vogliamo buttarti fuori».
Dopo
quelle parole Charlie rimase in silenzio abbastanza perché anche Don
trovasse il coraggio di dire qualcosa: «Questa è casa tua, nel caso
l’avessi già dimenticato». Don fece una leggera smorfia quando la
parola “dimenticato” raggiunse il suo orecchio. «Se vuoi restare
da solo, papà ed io possiamo lasciare la casa, ma tu resti qui».
Lo
sguardo di Don voleva penetrare Charlie. I suoi occhi erano diretti
fissamente su suo fratello e sulla sua faccia non c’era ancora
movimento, da giorno prima, da quando suo fratello l'aveva scacciato,
ma Don ancora non riusciva a credere che gli altri non potessero
sentire a quale velocità il suo cuore stette battendo. Cosa sarebbe
successo se Charlie avesse accettato l'offerta? Cosa se veramente non
avesse voluto più vivere col loro?
Suo
padre sembrava aver le stesse preoccupazioni e quando Charlie non
rispose subito, tentò di cacciare via da lui la pressione, provando
a ridurre il pericolo che Charlie davvero non volesse lasciarli stare
in casa sua. «Non c'è bisogno di deciderlo subito. Comunque
volevamo parlare con te di qualcos'altro».
Charlie
sembrava ancora sospettoso. «Di cosa?»
Alan
sospirò gravemente. Un problema l’avevano rimandato per ora. Forse
addirittura fino a che non si sarebbe risolto da solo. Rimaneva
l’altro. «Ti ricordi del Dott. Bradford?»
Charlie
rovistò per un po' nelle sua memoria nebulosa, poi scosse la testa.
«Mi dispiace».
«Fa
niente» lo rassicurò subito Alan. «E' lo psicoterapeuta di Don.
Domani ha un appuntamento. E noi abbiamo pensato...» Esitò, un po'
sperando che Don potesse completare la sua proposta, ma non fu così.
«Abbiamo pensato che potreste andare insieme».
Le
parole caute di Alan non potevano nascondere il loro significato
oppure solo mascherarlo.
«Mi
credete pazzo?»
«Tu
credi me pazzo?»
La
testa di Charlie si girò di scatto verso Don. Aveva parlato in modo
basso e calmo e il suo comportamento e la sua voce mostrarono a
Charlie che qualcosa non andava con suo fratello. Per un attimo, i
paia di occhi scuri si fissarono l'uno l'altro, ambedue stimando,
ambedue insicuri malgrado la loro intensità, ambedue con una
tristezza inconscia.
Charlie
deglutì. «Vabbeh. Vabbeh, possiamo andarci». Solo quando ebbe
verbalizzato la sua decisione incominciò a capire a cosa aveva
appena dato il suo assenso, ma in quel momento era già troppo tardi.
Allora aveva davvero avvicinato l'ora della decisione, quell'ora in
cui sarebbe diventato chiaro se sarebbe mai più di nuovo stato
quello che era davvero, e che cosa ne sarebbe stato di lui in futuro.
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Capitolo 16 *** Pronto soccorso ***
nonti16
Uffa... ma questo è l'ultimo capitolo per quest'anno, va bene? ;)
Dunque, felice anno nuovo!
16.
Pronto soccorso
Why
am I so nervous?
Please
explain to me
why
I can't sleep.
I
close my eyes to shelter,
in
the dark I try to hide.
If
you leave me on my own
I'm
worried I could lose my way.
(Moody
Blues, Nervous)
Charlie
sapeva che era stato un errore. Però semplicemente non ce l'aveva
fatta a respingere la richiesta di Alan e Don. Ora desiderò che
l'avesse fatto. Si sentiva completamente fuori luogo. E si sentiva
osservato. Sguardi curiosi lo colpivano: la segretaria, una donna che
sembrava aspettare chi era a colloquio dal dottore in quel momento e
Don. I loro occhi sembravano volerlo penetrare per leggere i suoi
pensieri, per sapere chi fosse.
Come
lui.
Charlie
tentò di scacciare via i pensieri paranoici. Era certo che
s'immaginasse solo tante cose e che le esagerasse perché era nervoso
per la conversazione con lo psicoterapeuta. Quell'uomo avrebbe,
proprio come gli altri, tentato di penetrarlo, e sarebbe stato
probabilmente più bravo delle persone fuori dal suo ufficio. Se
fosse riuscito a penetrarlo, allora con ogni probabilità avrebbe
anche trovato le immagini che Charlie finora aveva tenuto segrete, le
immagini che nutrivano i suoi incubi e lo riempivano di una paura e
un sentimento stranamente indefinito di minaccia tanto che era
impossibile per lui di parlarne.
Un
giovane uscì, forse il compagno della donna nella sala d'aspetto.
Bisbigliarono brevemente, poi offrirono, sorridendo timidamente, un
cenno di capo alla segretaria e i due fratelli, e uscirono dallo
studio.
Circa
cinque minuti dopo un telefono squillò. La segretaria rispose e poi
disse ai due uomini di entrare nell'ufficio.
Charlie
deglutì. Quando si alzò, pensò che le sue ginocchia stessero per
cedere, erano talmente molli. Non voleva entrare, non voleva di nuovo
vedere tutte quelle immagini e soprattutto non voleva parlarne con
persone estranee. E attualmente, tutte le persone erano estranee per
lui, almeno tutte quelle della California.
«Oh
bene, il signor Eppes in duplice copia. Buongiorno, sedetevi e
servitevi pure». Indicò il divano e qualche poltrona attorno a un
tavolino su cui c'era una caraffa d'acqua e bicchieri.
Don,
che di solito si sedeva nella poltrona di fronte a quella di
Bradford, questa volta non esitò a preferire il divano; dopotutto
non era da solo, Charlie era con lui. Quello però sembrava aver
propri progetti, perché invece di sedersi accanto a lui, si accomodò
sulla poltrona che altrimenti avrebbe preso Don.
Don
guardò suo fratello. Non era solo sorpreso di questo comportamento,
ma anche offeso. Charlie non voleva più avere a che fare con lui?
Era per questo che si isolava? Oppure aveva solo bisogno di un po' di
distanza per qualche tempo? Oppure si era semplicemente seduto ad un
posto qualsiasi e tutto quello non aveva nessun significato? Provò
ad avviare un contatto visivo con Charlie, ma quello – Don non
riuscì a capire se inavvertitamente o meno – evitò i suoi occhi.
Lo
psicoterapeuta si accorse di questo sguardo e si fece già un’idea
riguardo la terapia di Don. Adesso, però, si trattava di Charlie.
«E'
veramente bello vederla di nuovo, Charlie». Bradford lo disse sul
serio e non solo perché i suoi tentativi di aiutare Don a venire a
capo della morte di suo fratello non avevano avuto alcun risultato.
Charlie
lanciò un'occhiata nervosa prima al dottore, poi a Don, poi di nuovo
al dottore. «Mi dispiace, ma non ricordo...»
«Non
si ricorda di me, certamente» lo aiutò Bradford. «Ma è anche per
questo che è qui. Come state voi due?»
«Bene»
risposero ambedue e tuttavia le loro risposte differivano enormemente
l'una dall'altra. Don aveva sorriso rispondendo, lanciando una breve
occhiata di lato a Charlie, mentre quello sembrava sempre teso come
se fosse a disagio con la situazione.
Anche
a Bradford non era sfuggito. «Va bene per lei, Charlie, se suo
fratello è presente durante la seduta? Oppure preferisce che aspetti
fuori?»
Ancora
una volta Charlie diede una breve occhiata a Don prima di voltarsi di
nuovo verso lo psicoterapeuta. «Io...» Dalla coda dell'occhio
potette vedere che Don aggrottò la fronte. Non sapeva che cosa
voleva. Attualmente avrebbe preferito andarsene. Ma se non voleva che
Don fosse presente, avrebbe potuto semplicemente dirlo? Comunque Don
era suo fratello. E dopo tutto ciò che era venuto a sapere finora
sembravano intendersi bene e avere un rapporto stretto. E se era
così, poteva mandarlo via? Dopotutto era stato Don a portarlo qui...
«No... Certo che può restare» rispose finalmente con più
convinzione di quella che sentiva.
Bradford
gli lanciò uno sguardo acuto e profondo, ma poi annuì. «Va bene.
Ma non dimentichi che può cambiare questa decisione in qualsiasi
momento. Don lo capisce».
Don
non sapeva se aveva sentito bene. Lo psicoterapeuta era stato davvero
tanto impertinente? “Don lo capisce” – che cavolo…?! Perché
Bradford incoraggiava Charlie a mandarlo fuori? Questo era
assolutamente impossibile! Don non avrebbe lasciato suo fratello da
solo, questo era certo. Adesso più certo di prima.
«Beh,
Charlie – le va bene che la chiamo Charlie?» Un cenno breve col
capo e subito Bradford continuò: «Va bene, come si sente? E per
favore non dica di nuovo “bene”».
Una
domanda così semplice può veramente complicare il mondo, pensò
Charlie fra sé. Si sentiva – no, non colto di sorpresa dalla
domanda, piuttosto caduto in una trappola. Che doveva dire? Il
semplice “bene” di prima non sarebbe stato più sufficiente per
il dottore. Era dunque necessario che ci riflettesse davvero per
venire a sapere come si sentiva.
Teso.
Per questo non dovette pensare a lungo. A disagio. Osservato.
Perduto. Imprigionato. Vuoto.
Ma
poteva veramente dirlo? Se Don lo avesse sentito –
«Coraggio,
Charlie, francamente, può dire tutto ciò che vuole. Suo fratello
non è in servizio. Niente di ciò che dirà sarà usato contro di
lei in un tribunale».
Bradford
sorrideva e Charlie sentì come se nello strato spiacevolmente freddo
che l'avvolgeva si formassero sottili crepe: un sorriso apparve sulla
sua faccia.
«Mi
sento... ancora... un po' estraneo» confessò Charlie finalmente.
Credeva che una tale risposta non avrebbe offeso Don.
«Dove
e in che modo?»
Charlie
lanciò di nuovo un'occhiata di lato verso Don, deglutì e rispose:
«Dappertutto. Mi... Mi sento semplicemente... Non so a cosa
appartengo. E non so da dove vengo e chi sono e... Dappertutto ci
sono talmente tante persone che mi conoscono ma che io non posso
ricordare».
La
prudenza e la diffidenza di Don si sciolsero ancora di più, facendo
posto ad un certo fascino quando ascoltò la voce calma di Bradford e
le risposte appena meno calme di Charlie. Lo psicoterapeuta infatti
riuscì non solo ad avere una conversazione ragionevole, ma
addirittura a fare domande davvero rilevanti e problematiche senza
che questo sembrasse essere più spiacevole per Charlie di quanto già
non fosse l’intera situazione.
«E
come si trovava, invece, in quella clinica dov'è stato?»
«Lì
era diverso. Comunque non conoscevo nessuno, ma nessuno conosceva me.
Nessuno sapeva niente su di me».
«Ed
era meglio?»
Don
trattenne il fiato. Charlie se ne accorse, ma anche così non seppe
cosa rispondere. Un “naturalmente no” era stato sulla punta della
sua lingua, ma improvvisamente le parole erano scomparse. Certo, era
felice di aver finalmente saputo chi fosse. Ma di certo non gli era
sfuggito che non era stato lui a trovare quell'identità, ma altri,
gente estranea per lui. Lo conoscevano ed avevano aspettative di cui
lui non sapeva nulla e riguardo le quali ancora meno sapeva se
sarebbe riuscito a soddisfarle.
Ma
questo naturalmente non poteva dirlo, come gli dimostrò un'altra
occhiata di lato verso un Don eccessivamente teso.
«Naturalmente
no».
Aveva
ritrovato le parolette benché si fossero nascoste per non uscire
fuori «Sono contento di sapere finalmente chi sono».
Se
già alle sue orecchie quella frase suonava tremendamente falsa,
allora era inutile sperare che la loro vera natura potesse sfuggire
allo psicoterapeuta.
Bradford
sospirò. «Charlie, deve essere onesto con me. Altrimenti la terapia
non la aiuterà. Possiamo mandare Don fuori di buongrado se questo la
fa sentire meglio. Ma in ogni caso deve confidarmi che cosa sta
davvero succedendo dentro di lei».
Charlie
non rispose, ma fissò la moquette grigia davanti a lui. Quel dott.
Bradford aveva probabilmente ragione; Charlie si sarebbe dovuto
confidare cun lui se voleva che qualcuno lo aiutasse. Probabilmente
non c'era altra possibilità. La questione era solo se voleva che Don
rimanesse con lui o meno. Da una parte era sgradevole per lui;
dall'altra parte... dall'altra parte Don, da quando lo conosceva (o
per meglio dire: da quando lo conosceva e poteva anche ricordarlo),
gli aveva mostrato il suo affetto. L'aveva aiutato, era stato lì per
lui ed era stato un intimo confidente. Don non solo meritava di poter
rimanere e venire a sapere tutto; inoltre gli trasmetteva anche un
sentimento di sicurezza e intimità che non avrebbe trovato da
nessun'altra parte. Allora probabilmente sarebbe stato ancora più
teso se Don non fosse stato presente durante le sedute. Almeno
Charlie riuscì a crederlo.
«Bene.
Ma Don rimane qui» disse perciò. Non guardò Don, ma lo sentì
mandare un sospiro di sollievo ed ebbe la sensazione liberatoria di
aver finalmente fatto la cosa giusta.
«Per
me va bene. Avendo messo in chiaro questo, possiamo ritornare alla
mia prima domanda per lei, Charlie: Come sta?»
Questa
volta Charlie rifletté davvero sulla domanda e non su come gli altri
avrebbero reagito alla sua risposta. «Non lo so» rispose infine ed
era la verità. Da una parte era felice di avere finalmente
un'identità, dall'altra parte desiderava la sua memoria. Tutto lo
rendeva molto confuso.
«Dorme
molto male» osservò Don come se volesse giustificare la sua
presenza.
Charlie
gli lanciò il più breve di tutti gli sguardi prima di voltarsi
altrove. Era vero, non era molto lieto di esser messo sotto tutela di
nuovo, ma dall'altra parte era anche grato che la conversazione si
fosse finalmente messa in moto. E Don aveva ragione. Le sue notte
erano davvero un incubo o meglio dire una schiera di incubi.
Il
Dott. Bradford fece una breve nota e poi guardò il suo paziente. «Fa
incubi?»
Charlie
arrossì. «Non so. Qualche volta».
«Li
aveva già in quella clinica?»
«Sì».
«Cosa
riguardano?»
«Niente
di specifico. Solo incubi. In fondo non è tanto grave. Dopotutto non
succede davvero».
Bradford
sospirò, ma in qualche modo ce la fece a mantenere la sua voce
libera dall’impazienza. «Charlie, ho pensato che ci fossimo
accordati sul fatto che volesse essere sincero. Nei nostri sogni
assimiliamo spesso avvenimenti che reprimiamo durante il giorno. E
siccome la sua amnesia sembra esser basata su una tale repressione, i
suoi sogni potrebbero darci chiarimenti sui vuoti nella sua memoria.
E devo contraddirla un'altra volta: gli avvenimenti nei suoi sogni
non sono per forza reali, ma gli incubi in sé sì. Allora dovrebbe
parlarne con me».
Charlie
esitò brevemente, però dovette riconoscere che Bradford aveva
ragione. «Sono incubi diversi» cominciò, sempre esitando. «Ce n'è
uno che continuo a fare...»
«Quale?»
Charlie
esitò a continuare. Non aveva intenzione di menzionare quell'incubo,
il più brutto di tutti, la figura sul terreno, il sangue, il
sentimento freddo nel suo petto e sempre questa voce: Lei ha
ucciso –
«Charlie?
Sta bene?» Bradford non aspettò una risposta, ma solo che Charlie
lo guardasse. «Quale incubo?»
«Mi
dispiace, sono...» mormorò Charlie, tentando febbrilmente di
scacciare la voce e le immagini dalla sua testa e di ricordare altri
immagini dai suoi incubi. «Sono – beh', nell'incubo – in un...
in una specie di grande ruota per criceti. Tutto è grigio e
metallico e munito d'inferriate... Ed io corro e corro, ma la ruota
gira in tondo e io non posso fare altro che rimanere al mio posto. E
non posso uscire».
«Perché
no? C'è qualcuno ad impedirglielo?»
«Non
– non lo so. No. Semplicemente non posso. Non... non posso nemmeno
tentare di farlo: so che non funzionerebbe».
Bradford
annuì, appuntò altre note, poi fermò l'atto sulle sue ginocchia,
voltandosi al suo paziente. «Questa è un'immagine classica
dell'imprigionamento, Charlie. Come appare a me, prima della sua
amnesia lei è stato imprigionato contro la sua volontà. Data la
prima impressione che ho avuto oggi, direi che si è sentito privo
d'aiuto e non aveva nessuna via d'uscita; che era disperato.
Naturalmente è possibile che io sbagli e mi accorgo anche che
probabilmente lei non considererà queste informazioni molto utili,
ma devo dirle, Charlie, che siamo sulla buona strada».
Charlie
annuì e i tre uomini si alzarono. Bradford, senza diventare
scortese, era riuscito a dire loro in modo chiaro che il tempo per
oggi era finito. «Si faccia dare un appuntamento dalla mia
segretaria, meglio domani se lei la può sistemare in qualche modo.
Spero che ci vedremo presto, signori Eppes».
Gli
strinsero la mano, lo ringraziarono e uscirono dalla sala di terapia.
Quando la porta si chiuse dietro di loro, Don vide un po' della
tensione staccarsi da suo fratello; le spalle si abbassarono un po'.
E
se non si fossero già abbassate, l'avrebbero fatto nel momento in
cui Don mise il suo braccio su queste spalle. Il gesto fraterno e
rilassato gli faceva immensamente bene. Non gli era sfuggito che dal
ritorno di Charlie cercava tanto di più un contatto fisico con suo
fratello di prima della sua scomparsa come se tentasse di recuperare
il tempo in cui lo aveva trascurato nel passato oppure come se
volesse finalmente essere sicuro che Charlie non era un fantasma.
«Ehi,
sei stato davvero bravo, lì» disse. La sua voce suonava un po'
troppo entusiasta. Era ancora preso dalle ultime parole di Bradford.
Certo, erano solo state una conferma di quello che Don già
sospettava, eppure... Con molta probabilità Charlie era stato
imprigionato contro la sua volontà. E tra quello che Don aveva già
supposto e quello che aveva appena saputo, gli avvenimenti durante la
sua prigionia e successivi ad essa dovevano essere il punto centrale
del comportamento attuale del fratello.
Don
sperava solo che Bradford riuscisse ad aiutarlo. Charlie doveva
tornare di nuovo normale, semplicemente doveva...
Con
la coda dell’occhio lo osservò il meglio possibile. Non riuscì a
stimare dall'espressione del viso che cosa pensasse lui della seduta,
ma almeno suo fratello sembrava un po' più tranquillo di prima
dell'appuntamento. Più calmo, più rilassato. Non era tanto, ma
almeno fece ricordare a Don il Charlie sprizzante di febbrile energia
nella sua memoria, il Charlie che voleva avere indietro. E non quello
confuso e squilibrato–
Il
ragionamento di Don si arrestò. Deglutì. Ma con questo non poté
rimangiarsi o cancellare le parole nella sua testa. Squilibrato. Nei
suoi pensieri aveva appena descritto suo fratello come uno
“squilibrato”.
Come
diavolo aveva potuto?
La
cosa più brutta era che, pensandoci obiettivamente, giungeva alla
stessa conclusione. Charlie non si comportava in modo normale. Il
giorno prima la faccenda col bicchiere. E quello sguardo... E poi
quello che aveva detto a Don...
Don
strinse le spalle di suo fratello con un po’ più di
fermezza. “Voglio solo sapere chi è l'uomo che
pretende di essere mio fratello”... Don non aveva potuto
credere di aver sentito bene, non aveva voluto crederci.
Era stato doloroso, immensamente doloroso, sentire Charlie dire
quelle parole come se fosse un estraneo. Ed era allo stesso modo
doloroso accorgersi che Charlie sembrava esser sulla buona strada per
perdere il senno.
-
- -
Charlie
si sentiva strano, ma dopotutto quella non era una nuova esperienza
per lui. Stavolta, però, era un altro tipo di strano, qualcosa di
meno preoccupante, di meno fastidioso. Contrariamente alle sue
supposizioni e ai timori, si sentiva meglio dopo la
conversazione con lo psicoterapeuta e non peggio. E anche parlare dei
suoi incubi non era stato tanto brutto quanto lo aveva pensato. No,
in fin dei conti era anzi stato davvero liberatorio. Il Dott.
Bradford l'aveva ascoltato e aveva parlato con lui, tutto
normalmente, e pian piano non era più stato fastidioso che Don fosse
presente. Adesso si accorse che si era sentito bene.
E
il fatto che lo fece sentirsi particolarmente sollevato fu che
Bradford non sembrava considerarlo matto. L'aveva trattato in modo
completamente normale e poi anche i sintomi di Charlie sembravano
essere perfettamente soliti. In ogni caso non sembravano aver
sorpreso lo psicoterapeuta per niente. E Bradford anzi gli aveva
fatto sperare che tutto sarebbe di nuovo diventato normale, come
fossero sulla buona strada...
Alla
sua prossima seduta, Charlie sarebbe stato ancora un po' più onesto.
Non avrebbe più fatto mistero di niente... o almeno della
maggior parte delle cose. Sì, aveva realizzato che Bradford poteva
aiutarlo ed era quasi avido di accettare quell'aiuto il più presto
possibile per andare a riprendersi la sua vita.
Charlie
poteva appena aspettare ad andare di nuovo da Bradford.
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Capitolo 17 *** A casa da soli ***
nonti17
Eccomi di nuovo! So che è passato un po' di tempo dall'ultimo capitolo, ma la storia non era ad un punto molto avvincente, allora spero che mi perdonerete :)
In ogni caso spero che il capitolo vi piacerà... :)
Ah sì, e grazie mille per le recensioni! :)
17.
A casa da soli
Hello,
darkness, my old friend.
I’ve
come to talk to you again
Because
a vision softly creepin’
Left
its seeds while I was sleeping.
And
the vision that was planted in my brain
Still
remains within the sound of silence.
(Simon
& Garfunkel, Sound of Silence)
Solo
un'ora dopo l'appuntamento col Dott. Bradford, era già arrivato il
momento per Alan di prendere il volo per andare da sua sorella a
Chicago. Aveva riflettuto ancora su se andare davvero o no,
soprattutto considerando lo stato attuale di Charlie. Naturalmente,
l'aveva promesso a sua sorella – ma se suo figlio, come sembrava,
stava perdendo la ragione, questo non era più importante?
Era
vero che Don gli aveva ricordato che c'era anche lui e gli aveva
assicurato che avrebbe avuto cura di Charlie e che sarebbe continuato
ad andare alle sedute con lo psicoterapeuta, ma Alan aveva un brutto
presentimento. E se fosse successo qualcosa, malgrado tutto? Se i
suoi figli avessero avuto bisogno di aiuto e lui fosse stato a
migliaia di chilometri di distanza, irraggiungibile e completamente
inutile?
Ma
allo stesso tempo aveva anche paura che Don potesse avere ragione.
Forse non avrebbero avuto affatto bisogno del suo aiuto. In fin dei
conti erano adulti, tutti e due. Cosa sarebbe successo se Charlie
avesse realizzato che poteva tranquillamente rinunciare a suo padre,
che non aveva affatto bisogno di lui? Siccome non lo ricordava, si
sarebbe separato da lui e avrebbe cominciato una vita nuova. Ed Alan
l'avrebbe perso un'altra volta.
No,
Alan non aveva per nulla un buon presentimento riguardo quella
faccenda. Ma l'aveva promesso a sua sorella e lei aveva bisogno di
lui. Ed era come Don aveva detto – fra qualche giorno sarebbe
ritornato.
Poteva
solo sperare che dopo quei pochi giorni tutto sarebbe ancora stato
come lo aveva lasciato.
-
- -
Don
chiuse la porta dell’ingresso e si tolse – un occhio sempre
diretto su Charlie – la giacca. Erano andati tutti e tre
all'aeroporto, ma avevano salutato Alan appena all’entrata, perché
non avevano voluto esporre Charlie così presto a tanta folla.
L'ultimo volo dal Nebraska era bastato.
«Vabbeh...
Allora che facciamo stasera?»
Don
lo trovava grottesco. Benché tentasse di mantenere un tono casuale,
gli sembrava come se parlasse ad un estraneo.
Charlie
scrollò le spalle. «Se tu vuoi puoi anche uscire o qualcosa del
genere. Non hai bisogno di farmi sempre compagnia. Hai sicuramente
migliori cose da fare».
Don
scosse il capo. «No, non ce ne ho» rispose laconicamente mentre
andava al frigorifero per prendersi una birra. «E inoltre papà
probabilmente mi ucciderebbe se ti lasciassi da solo».
Charlie
sorrise cautamente come se non fosse sicuro se Don scherzasse o se si
sentisse veramente sforzato a fargli compagnia per amore di suo
padre.
Don
prese un sorso della sua birra e rifletté se fosse una buona idea
proporre a suo fratello di vedere Larry o Amita. Lasciò perdere:
pensò che dopo tutto ciò che era successo avesse il diritto di un
po' di tempo con suo fratello da solo.
Il
problema era che non riusciva a trovare il modo di cominciare una
semplice conversazione e che non sapeva cosa fare in quel tempo, e
così qualche secondo passò in un silenzio spiacevole.
«Insomma,
che cos'è in quella scatola?» volle sapere Charlie alla fine,
indicando un box nell'angolo della stanza. A Don sembrò come se la
domanda fosse nella testa di Charlie già da un po’, ma non avesse
mai osato chiedere finora. Eppure non poteva sapere quale significato
quella scatola avesse.
«Aprilo»
rispose brevemente per non lasciarsi leggere in faccia i ricordi
pieni di dolore che ora si susseguivano come fotogrammi di un film
nella sua mente. «Sono le cose che avevi con te durante la tua
missione segreta. L'hanno rimandato a noi dopo che ci hanno informato
della tua... morte. Abbiamo cominciato a darci un'occhiata mesi fa,
ma a quanto pare non ce l'abbiamo ancora fatta a metterle in ordine.
Però ora non è più necessario, vero?»
Don
non poté reprimere il riflesso di deglutire benché sapesse bene che
quel gesto non sarebbe passato inosservato agli occhi di Charlie.
Infine lo sguardo del matematico camminò verso la scatola e dopo
qualche attimo andò verso quella e la aprì.
Don
lo osservò. E mentre Charlie esplorava pezzo per pezzo la sua
vecchia vita e la prendeva in mano, la confusione nacque di nuovo
dentro lui. Finora non ci aveva riflettuto per bene. Prima Charlie
era stato morto e nient’altro era stato importante. Poi Charlie era
ritornato nella loro vita, inizialmente spostando tutti gli altri
pensieri. Ora però i pensieri erano tornati e chiedevano risposte:
perché lo avevano dichiarato morto? Era vivo, si poteva vedere,
allora come era potuto succedere? Qualcosa era andato storto
nell'identificazione? Come avevano potuto sbagliare? E di chi era il
corpo? Perché un corpo doveva esserci… Qualcuno lì fuori doveva
passare per disperso benché fosse morto da sei mesi. Ma chi? E come
avevano potuto scambiarlo con Charlie?
Con
la confusione venne anche la rabbia. Che diavolo combinava
quell'agenzia che rimaneva ancora nell’ombra in un modo tanto
misterioso? Come avevano potuto affermare di aver identificato
Charlie senza nessun dubbio? Avevano semplicemente fatto un errore o
erano stati insicuri ed avevano semplicemente affermato una cosa
qualsiasi? E cosa avevano fatto con la famiglia di quello che era
morto davvero? Loro stavano ancora aspettando risposte senza che
quelli gliele dessero? Forse si stavano ancora aggrappando ad una
speranza che non si sarebbe mai avverata. Don sapeva come ci si
sentisse a non sapere nulla. Con che coraggio quell’agenzia poteva
comportarsi in questo modo? E in generale, come avevano potuto
lasciar succedere tutto quello? E poi, sapevano che
Charlie era vivo? Ed erano interessati a chiarire la faccenda? Oppure
avrebbero voluto lasciare la famiglia del morto all’oscuro di
tutto?
Con
la rabbia venne la determinazione. Se quell'agenzia non avrebbe fatto
niente, allora si sarebbe mosso lui. Non appena Charlie sarebbe stato
meglio, avrebbe chiarito la faccenda. Avrebbe finalmente identificato
l'agenzia e le avrebbe chiesto conto dei suoi sbagli. Avrebbe trovato
l'identità del morto e informato la sua famiglia. Era il minimo che
poteva fare ricambiare il miracolo di aver ricevuto indietro suo
fratello. Sì, avrebbe fatto quello che quella dannata agenzia che
non si curava di niente e nessuno aveva trascurato di fare. Avrebbe
fatto ricerche e non avrebbe lasciato nulla di intentato. Non appena
Charlie fosse stato meglio.
-
- -
La
prima cosa che catturò lo sguardo di Charlie fu il libro. Lo
conosceva. Erano riassunti di trattati matematici su campi specifici
della teoria dei giochi. Conosceva il contenuto e ricordava di averlo
messo in valigia prima della sua partenza, sperando che gli sarebbe
stato d’aiuto nella sua missione. Però non ebbe tempo di
verificare la sua memoria sfogliando il libro, perché lo suo sguardo
si spostò sull'oggetto che era su di esso. Una collana.
Lo
sguardo di Charlie cadde sul ciondolo. Lo conosceva. Lo conosceva
perfettamente. Sapeva che ci dovevano essere memorie di quel ciondolo
nella sua testa, ma non poteva distinguerle in modo chiaro, non erano
allo scoperto; un muro bloccava la vista.
Eppure
dovevano essere lì, quei ricordi, Charlie lo sapeva. Le mura
creparono. Pezzi piccoli si scrostarono. E attraverso le crepe,
Charlie venne tirato attraverso il muro, lentamente, poi sempre più
velocemente, una vertigine nell'uragano delle memorie... Amita gli
aveva offerto la collana, gliel'ha data per il suo viaggio, per così
dire come talismano... e poi...
Si
era accoccolato sul letto. Aveva freddo. C'era un'oscurità assoluta
attorno a lui eppure aveva chiuso gli occhi. Non voleva vedere
l'oscurità.
Tanto
più doveva confidare sul resto dei suoi sensi, e tanta più
importanza assumeva il ciondolo tra le sue dita. Sfregavano il legno
levigato. Quello e il filo di cuoio al quale era attaccato il
ciondolo dovevano già essersi colorati di scuro a causa delle sue
mani sudaticce, ma non lo vedeva comunque.
Ci
passò le dita sopra, controllò se la chiusura fosse veramente
ancora ferma, ma non osò aprirlo per la paura che il piccolo pezzo
di carta con il quadrato magico potesse andare perduto. Certamente
conosceva i numeri a memoria per poter ricostruirlo senza gran
fatica, ma non voleva perdere anche quel pezzo di carta, quasi fosse
una delle ultime testimonianze della sua vita di un tempo.
Si
proibì subito di avere quel tipo di pensieri. L'avrebbero trovato
alla fine. Don l'avrebbe cercato e non l'avrebbe abbandonato e tutte
queste porcherie sarebbero venute allo scoperto e tutto sarebbe
andato bene.
Amita
aveva detto che quell’insieme di numeri lo dovrebbe proteggere. E
lo faceva. Evitava che diventasse pazzo. Lo legava alle persone care
che avevano promesso di non dimenticarlo. Sapeva che non era da solo,
sapeva che c'era una vita fuori dalla sua prigione, sapeva che lo
stavano cercando. Aveva detto agli altri che sarebbe tornato per il
fine settimana. Ma non l'aveva fatto. Ed era martedì. Dovevano aver
realizzato che qualcosa non andava. Dopotutto non li aveva neanche
chiamati. La sua ultima conversazione con loro era stato una
settimana prima, con Amita e Alan. Aveva parlato con loro solo per
poco, come ogni giorno. Si era permesso dieci minuti al giorno per
telefonare a casa, niente di più. Il resto della giornata aveva
lavorato – dopotutto voleva terminare la sua missione il più
presto possibile per poter tornare a casa. Quando era stato troppo
stanco per continuare a lavorare, aveva dormito per poi svegliarsi e
ricominciare a lavorare. Non aveva smesso nemmeno per mangiare,
l'aveva fatto continuando i suoi compiti. Era stato veloce ed aveva
sperato di poter tornare a casa presto. Almeno fino allo scorso
mercoledì…
Il
muro crollò di nuovo su Charlie, portandolo repentinamente indietro,
nel presente. Disperato, provò a trovare di nuovo un varco oltre il
muro, ma era inutile, non poteva, non poteva passare attraverso.
L'aveva sepolto sotto e in questo momento non aveva la forza di
tornare in superficie. Ma sapeva che quel mercoledì in ottobre
qualcosa doveva esser successo, lo sapeva. Doveva esser scomparso
quel giorno. Ma cos'era successo?
«Charlie?»
Charlie
trasalì violentemente quando sentì la voce di Don direttamente
accanto al suo orecchio e nello stesso momento si accorse della mano
sulla sua spalla.
«Stai
bene?»
Charlie
deglutì e annuì. «Sì».
Non
era proprio vero, constatò Don. Suo fratello sembrava ancora...
sconcertato. Un po' distratto e in un altro posto con i suoi
pensieri. E benché Don sapesse dove Charlie era appena stato,
desiderò ardentemente che gliene parlasse.
Esitò
e dovette raschiarsi la gola prima che potesse chiedere: «A che cosa
hai pensato?»
Charlie
non rispose. Ma Don non si diede vinto. «Alla... tua
prigionia?»
Charlie
ancora non lo guardò: continuava a fissare, la collana sempre
stretta nelle sue mani, il vuoto. «Penso di sì. Non sono
sicuro» disse infine, dopo un po' di tempo.
Don
era fortemente tentato a continuare con altre domande, ma si
trattenne. Credette di poter vedere nello sguardo concentrato di
Charlie che suo fratello volesse dire ancora qualcosa. Non sbagliò.
«Mi...
Mi sento come se qualcuno avesse passato il mio cervello con un
setaccio».
Charlie
tacque per alcuni attimi prima di continuare in il tono non proprio
leggero di un docente amareggiato: «E considerando che circa il 90%
del nostro cervello è fatto di acqua, si può immaginare quello che
rimane alla fine».
Don
rise; non poté farne a meno. Quel commento suonava talmente tanto da
Charlie, di quel Charlie di una volta che aveva già creduto di aver
perso, che la situazione ebbe ad un tratto qualcosa immensamente
rasserenante, un sentimento intimo di casa. Però non gli sfuggì che
Charlie, dopo essersi aperto per un attimo, era ricaduto nei tumulti
della sua mente. La concentrazione c'era ancora – era anzi
aumentata? – e non poteva fare a meno di sospettare che Charlie con
la sua franchezza liberatoria forse avesse solo voluto impedirgli di
fare altre domande.
Inutilmente,
certo. «Ricordi qualcosa?»
Di
nuovo passò qualche secondo di silenzio prima che Charlie mostrasse
una reazione alle parole di Don. Liberò prima il suo sguardo dal
vuoto, poi le sue mani dalla collana e alla fine sé stesso da Don.
«Sono stanco adesso. Buona notte».
Don
lo guardò mentre era di spalle. Quando Charlie fu scomparso di
sopra, prese il ciondolo in mano, attorcigliandolo tra le dita. Non
sapeva che importanza avesse, ma ricordò vagamente la reazione di
Amita. Dio, aveva pianto per un'ora dopo aver visto quella
collana. Doveva esserci qualcosa. Ma Don nemmeno
conosceva quell'oggetto. Quando l'aveva visto per la prima volta mesi
fa, nelle mani di Amita, aveva inizialmente creduto che l'agenzia
avesse fatto un errore. La reazione di Amita aveva provato il
contrario. Quello che era rimasto era un sentimento di inquietitudine
come se che evidentemente non avesse conosciuto suo fratello così
bene. Perché avrebbe dovuto accorgersi di una collana, no? Ma non se
n'era accorto. E forse, se avesse avuto più attenzione, tutto quello
non sarebbe successo e tutto sarebbe ancora come prima...
Non
per la prima volta dalla scomparsa di Charlie, quei pensieri
accompagnarono Don durante la notte e non lo lasciarono nemmeno nei
suoi sogni.
-
- -
Alan
si era inginocchiato sul terreno. Il sole stava tramontando e le tre
sagome nere facevano ombre lunghe e scure sull'erba. C'era un
silenzio lugubre. Nemmeno gli uccelli cinguettavano. Alan aveva
nascosto il viso nelle mani. Don sapeva che la faccia di suo padre
era bagnata di lacrime e non voleva vederla, ma Alan non gli fece
quel favore. Tolse le mani dalla faccia e si voltò verso Don,
piegando il collo per poter guardarlo dalla sua posizione.
«Perché,
Don?» chiese pieno di rimprovero. «Perché non hai fatto niente per
impedirlo? Perché non l'hai protetto?»
Don
voleva rispondere, difendersi, ma non uscì nessuna parola dalla sua
bocca, nessuna giustificazione. La sua testa era vuota.
«Perché,
Donnie? Dimmi, perché?»
Ma
sia le parole sia l'immagine sfumarono, sciogliendosi in una nuova
scena. Vide la faccia di Charlie, gli occhi truci; Charlie era
arrabbiato.
«Chi
sei? So chi è Don, ma voglio sapere chi sei tu! Non
sei mio fratello! Mio fratello non mi avrebbe mai piantato in asso,
mi avrebbe protetto! Ho fatto affidamento su lui e lui non c'è
stato! Ed è colpa tua! E' colpa tua! Lasciami in pace e vattene! E'
colpa tua! Non voglio vederti mai più! Vattene! E' colpa tua...»
Respirando
violentemente, Don si svegliò di soprassalto. Non si orientò
subito. Fu solo dopo alcuni secondi che realizzò che era nella sua
camera, a casa di Charlie. La casa di Charlie. Era di nuovo la casa
di Charlie, Charlie non era morto, era di nuovo con loro
e finora non l'aveva neanche cacciato – almeno se Don ricordava
bene. Ad un tratto non era più sicuro che le parole nel suo sogno
non venissero dalla realtà...
La
sua respirazione accelerò ancora un po' prima che si forzasse a
riconquistare il controllo tentando di diventare calmo. No, Charlie
non aveva mai detto una cosa del genere. Don era sicuro adesso. E
neanche suo padre. Aveva solo sognato tutto; non l'avevano detto
davvero.
Cosa
che, però, non voleva dire che non l'avevano pensato.
Don
respirò profondamente. Doveva calmarsi. Non sarebbe stato d‘aiuto
per Charlie se lui stesso fosse stato tanto sconvolto. Se non aveva
potuto proteggerlo, era almeno suo dovere, adesso, farlo tornare
quello di una volta.
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Capitolo 18 *** Il silenzio è d'argento ***
nonti18
Grazie alle recensori talmente gentili :)
18.
Il silenzio è d'argento
That
was just a dream.
That’s
me in the corner,
That’s
me in the spotlight losing my religion,
Trying
to keep a view
And
I don’t know if I can do it.
Oh
no, I’ve said too much.
I
haven’t said enough.
(R.E.M.,
Losing My Religion)
Benché
stessero in silenzio, Don si stava godendo la prima colazione insieme
a suo fratello. Charlie non sembrava più tanto teso come nei giorni
passati e ogni tanto anzi lanciava un breve sguardo a Don. Forse
questo era un'inizio, sperò Don. Forse adesso tutto sarebbe di nuovo
andato per il verso giusto.
«Cosa
vuoi fare oggi?» chiese Don mentre riempivano la lavastoviglie.
Charlie
alzò le spalle, ma ci rifletté. Sapeva che Don aspettava una
risposta, un segno che certe cose gli importassero ancora, e non
voleva deluderlo. E infatti gli importava di cosa avrebbe fatto in
futuro! Solo non sapeva che cosa potesse fare.
Il
suono alla porta lo salvò dal continuare a cercare una risposta.
Amita e Larry erano appena arrivati e sembravano un po' nervosi.
«Ciao»
disse Amita quando Don aprì la porta. Il suo sguardo però era fisso
su Charlie che spiava sopra la spalla di suo fratello. «Speriamo di
non disturbare».
«Voi
mai» la calmò Don. «Entrate pure».
«Volevamo
solo fare una breve visita e speravamo che non fossimo troppo presto
perché – oddio, Charlie!»
Amita
aveva appena visto le grucce e non le era neanche sfuggita la
fasciatura attorno al piede di Charlie. Anche Larry la fissò con uno
sguardo confuso mentre Amita diresse i suoi occhi pieni di rimprovero
verso Don. «Perché non ci hai detto... Cos'è successo?»
Don
poteva ben comprendere la preoccupazione di Amita benché fosse
esagerata. Lui stesso probabilmente non avrebbe reagito in modo
diverso, soprattutto perché non aveva raccontato loro al telefono
niente dell'incidente con il bicchiere. Entrambi avevano chiamato più
di una volta durante i due giorni passati per informarsi sulle
condizioni di Charlie. Non erano certi che fossero i benvenuti oppure
se l'avrebbero turbato ancora di più. Ma la sera prima, Don aveva
detto loro che Charlie stava meglio. E gli era sembrato così. Dopo
la seduta con Bradford, si era davvero calmato e addirittura aperto
un po'. Ciononostante Don aveva pensato che lo stato psichico di
Charlie bastasse a preoccupare Amita e Larry. Non era stato affatto
necessario raccontare loro anche del suo piede. L'avrebbero solo
immaginato peggiore di com'era. Appunto quello che stavano facendo
adesso.
«Charlie
ha pestato dei cocci di vetro, lunedì. Hanno dovuto mettere dei
punti di sutura, ma guarirà completamente, non preoccupatevi».
«Sto
bene» confermò anche Charlie accorgendosi che Amita e Larry
continuavano a guardarlo dubbiosi.
Le
rughe sulla fronte di Larry persero un po' della loro profondità e
questo sorrise. «Non immagini quante volte nei mesi passati ho
desiderato sentirti dirlo ancora una volta, Charles».
Charlie
arrossì, ma gli rese il sorriso. Don lo intese come un segnale per
lui di ritirarsi. Quelli erano gli amici di Charlie e Charlie aveva
tutto il diritto di passare un po' di tempo con loro da solo.
«Sono
in cucina nel caso abbiate bisogno di qualcosa» informò i tre; poi
aggiunse con uno sguardo per Charlie: «Sono a portata di voce», e
scomparve con una discrezione che gli riusciva molto difficile.
Sentiva
le loro voci, ma non poteva capire le parole. Però riuscì a
classificare il timbro e anche le pause parlavano chiaro: la
conversazione di quei tre, che prima si erano intesi talmente bene
anche senza parole, incespicava avanti in modo maldestro. Don da un
lato desiderava gli fossero restituite la normalità e la facilità
in quelle semplici azioni, ma dall'altro lato era sollevato che anche
gli altri non riuscissero a trattare suo fratello in modo normale e
che non dipendesse da lui.
-
- -
Benché
Charlie fosse teso per l'intera visita, gli fece comunque bene
parlare con Amita e Larry. Fece bene sentire che lo volevano avere
con loro. Che fosse più di una memoria fastidiosa del loro passato.
Siccome
avevano ancora da dare alcune lezioni, purtroppo non potettero
rimanere per pranzo. Ma d’altro canto, Charlie era anche sollevato
di non vedere più talmente tanta gente attorno a lui. Qualche volta
diventava davvero troppo per lui e voleva semplicemente fuggire da
tutto quello. Voleva ritirarsi da qualche parte e non uscire finché
non avrebbe capito il mondo, finché non sarebbe diventato un posto
dove sentirsi a casa. Eppure sapeva che doveva stare fuori dalla
tana. Per capire il mondo doveva esplorarlo. E almeno adesso c'era
soltanto Don e la tensione diminuiva di nuovo un po'. E un po', una
minima parte di questa tensione, venne sostituita da un sentimento di
pace e familiarità.
Tuttavia
Charlie sapeva che al momento non avrebbe sopportato a lungo nessuna
compagnia, e perciò domandò subito dopo pranzo – avevano
riscaldato la lasagne che Alan (suo padre... probabilmente non
c'avrebbe mai fatto l’abitudine) – se poteva andare in garage.
Don aveva risposto come al solito: era casa sua, non c'era bisogno
di chiedere. Per semplificare le cose, Charlie decise di non
discutere con Don di quell'argomento.
Si
fermò alla porta, respirando profondamente il profumo della polvere
di gesso. Sentì quasi di dover tossire, ma trattenne il reflesso.
Per niente al mondo avrebbe distrutto quel momento. Un momento di
ricordo.
Conosceva
il profumo. E conosceva il garage. E conosceva le lavagne verdi. E si
sentiva un po' più vicino al posto perduto a cui era appartenuto.
Particolarmente
la teoria – la sua teoria – sulle analisi matematiche delle
amicizie lo affascinava. L’aveva trovate lì già il giorno dopo il
suo arrivo e come un'idea fissa aveva avuto l’impressione che
quell’analisi delle amicizie potesse risolvere almeno una parte del
suo problema. Una soluzione elegante per un'equazione matematica e –
voilà! – sarebbe stato meglio.
Finora
non era avanzato. Aveva il fermo proposito di non darsi vinto, ma la
sua speranza poco a poco era diminuita e gli riusciva difficile
mettersi di nuovo a lavoro. Aveva semplicemente troppi pochi dati per
riempire le variabili e questo lo deprimeva.
Eppure
amava venire qui a guardare i numeri e le lettere sulle lavagne. Il
verde e la polvere di gesso avevano un effetto attraente su di lui e
allo stesso tempo stimolavano la sua mente matematica. Quando era lì
che calcolava, il mondo reale non sembrava più tanto estraneo e
brutto e lui aveva un piccolo spazio per se stesso dove poter
lasciarsi trascinare e dove nessuno – nemmeno lui stesso – avesse
aspettative.
Prese
un pezzo di gesso in mano e continuò qualche calcolo che c'era sulla
lavagna. Era bello vedere che ciò che aggiungeva era simile a ciò
che era già scritto. Era vero che non sapeva se all'epoca, quando la
sua mano aveva scritto i simboli che c'erano già, avesse intenzione
di continuare nel modo in cui stava facendo adesso, ma almeno poteva
ricordare vagamente di esser stato lì a fare quei calcoli. Era stato
tempo fa, ma poteva ricordare.
Ma
questo non era tutto. Quei numeri non gli facevano ricordare solo il
loro passato, ma anche molti altri calcoli. Erano lì da qualche
parte, e Charlie sapeva che erano importanti, ma non riusciva a
catturarli, a guardarli...
Fermò
gli occhi e si appoggiò con il pugno contro la lavagna. Vide file di
numeri e variabili davanti ai suoi occhi, ma non erano le formule
della sua lavagna: venivano da tempi passati, da un'altra vita...
I
numeri davanti a lui non avevano senso. Gli davano un risultato che
non poteva essere vero. Era stato sospettoso già da un po' di tempo,
ma non si aspettava quello. Eppure sembrava essere vero. Le cellule
terroristiche di cui aveva dovuto calcolare i progetti, i membri e la
struttura, non erano omogenee. Una delle cellule era separata dalle
altre e distruggeva lo schema. Ed era questa “cellula singola” ad
avere tutta la diffidenza di Charlie.
Nel
frattempo si trovava lì da quasi quattro settimane ad occuparsi di
quel gruppo terroristico. Ai suoi committenti importava sventare
attacchi futuri di Al Qaida. Volevano fare dell'Arabia Saudita un
posto più sicuro e soprattutto più libero. La missione degli Stati
Uniti.
Almeno
così avevano detto. Era vero che Charlie aveva sospettato che ciò
che importasse a questa gente erano, come al solito, i soldi e il
potere, ma comunque non gli era importato se ne avrebbero tratto dei
vantaggi. Non ne sapeva tanto dell'Arabia Saudita, ma si era
informato e aveva scoperto che il paese era molto ricco di petrolio,
e poco interessato ai diritti dell'uomo. Adesso era suo compito
evitare attacchi terroristici in quel paese, e il fatto che facendo
questo poteva salvare vite umane non sarebbe cambiato per gli
interessi più o meno nascosti di quegli uomini.
Però
non aveva previsto le dimensioni che tutto quello aveva in realtà, e
queste circostanze distrussero i suoi scopi idealistici. La cosa che
quella dannata agenzia stava facendo qui era tutto tranne legale, e
lui certamente non vi avrebbe più partecipato.
Charlie
respirò profondamente. Non sapeva come i suoi capi attuali avrebbero
reagito se avesse detto loro che voleva uscirne, anzi di più, che
avrebbe rivelato il loro segreto (benché, Charlie pensò a disagio,
non ci fosse bisogno per lui di raccontare loro tutto). Ma non gli
importava tanto della prudenza in quel momento di furiosa agitazione.
«Signor
Rosenthal?»
Il
suo superiore – o almeno quello con cui Charlie doveva parlare in
ogni faccenda – levò lo sguardo dai suoi documenti. Come Charlie,
anche lui aveva solo un piccolissimo ufficio con una finestra
direttamente sotto il soffitto. «Dott. Eppes, in che cosa posso
esserle utile?»
Come
ogni volta, a Charlie venne la pelle d'oca quando vide quel sorriso
freddo. Eppure, in qualche modo, Daniel Rosenthal riusciva sempre a
rimanere cortese.
Charlie
deglutì, raccolse tutto il suo coraggio e poi disse molto
distintamente: «Smetterò, Signore. La prego di scusarmi, ma da
questo momento i miei servizi non sono più a sua disposizione».
Per
un attimo Charlie credette che l'altro stesse per attaccarlo, tanto
minacciosa e distorta dalla furia sembravano le sue fattezze. Un
attimo dopo, però, la sua faccia era di nuovo tranquilla e il
sorriso era diventato ancora più freddo. «Ma perché, mio caro
dottore?»
Di
nuovo Charlie deglutì.
«Non
posso più farlo, Signore».
«Non
può più farlo?»
«Ho...
ho scoperto che cosa fate».
Fu
in quello stesso istante che Charlie realizzò che aveva fatto un
errore. Il sorriso adesso sembrava venire direttamente dalle regioni
polari. Rosenthal si alzò, camminò lentamente attorno il tavolo e
verso lui. Charlie non osava muoversi. Come se fosse amichevole prese
il braccio di Charlie, ma la presa ferrea non aveva tanto a che fare
con l'amicizia e non era intesa per lasciarlo libero. Era un presagio
delle cose a venire.
«Venga
pure, Dott. Eppes. Dobbiamo parlare».
-
- -
Quando
Don aprì la porta che dava al garage, era, all'inizio,
inadeguatamente sollevato di vedere Charlie davanti alle sue lavagne,
prima di accorgersi che suo fratello non stava scrivendo. Si
appoggiava solo contro una di quelle con il pugno, la testa
leggermente abbassata. E tremava.
Don
deglutì e si avvicinò lentamente.
«Charlie?»
disse a bassa voce, ma non ricevette una risposta.
Si
avvicinò ancora un po'. Chiamò un'altra volta il suo nome con lo
stesso timbro angoscioso e lo toccò leggermente sul braccio. Vide
che la maglietta di Charlie aderiva alla schiena. Era madida di
sudore.
«Charlie!»
chiamò Don un'altra volta, rendendo più forte la sua presa. Adesso
stava direttamente accanto a suo fratello e poteva vedere che quello
teneva chiusi gli occhi e aggrottata la fronte. E non si sentì
meglio quando Charlie aprì gli occhi lentamente e girò la testa,
guardando Don con uno sguardo vuoto.
Don
deglutì un'altra volta.
«Stai
bene, Charlie?»
Don
non ricominciò a respirare finché non vide che lo sguardo di
Charlie ebbe ritrovato un fuoco e che suo fratello stava guardando
lui invece di qualcosa nelle profondità del suo cervello.
«Certo»
rispose Charlie adesso, calmo, e suonava ancora un po' assente. «Che
c'è?»
Buona
domanda, pensò Don fra sé prima di ricordare perché era venuto
lì. «I miei colleghi sono appena arrivati. Vorrebbero vederti».
«Megan?»
chiese Charlie. Ritornava solo pian piano nel mondo reale, ma il
ricordo delle informazione che Alan e Don gli avevano dato la
settimana scorsa era ancora lì.
Don
annuì. «Esatto. E David e Colby. Ma penso che non ti abbiamo ancora
raccontato di loro».
Don
stava ancora guardando suo fratello con occhi indagatori. Non sapeva
che cosa fosse appena successo a Charlie, ma aveva il sospetto
inquietante che stati del genere sarebbero potuti essere una
normalità per Charlie, almeno fino a nuovo ordine. Eppure rimanevano
delle domande: Charlie aveva ricordato qualcosa? E se sì, che cosa?
E la situazione sarebbe mai migliorata...?
«Sanno
che non li conosco?»
«Sì.
Ho raccontato loro tutto ciò che sappiamo».
«E
perché vogliono vedermi?» Charlie non intendeva essere scortese, ma
non aveva gran voglia di esser fissato come un animale del circo.
«Che
tu ci creda o no, hanno sentito la tua mancanza. Lavo – hai
lavorato con noi così spesso da diventare un membro della squadra».
«Beh'»
disse Charlie brevemente e si liberò dal gesso e dalla lavagna.
Camminò davanti cosicché non dovette mantenere le sue fattezze
sotto controllo davanti a Don. Era stato un membro della squadra?
Perché non lo sapeva? Finora aveva saputo che Don lavorava per l'FBI
e che lui l'aveva aiutato qualche volta con dei calcoli, ma il fatto
che conoscesse i colleghi di Don tanto o quasi tanto bene quanto i
propri e che la sua memoria fallisse anche lì, non lo faceva sentire
meglio. Pian piano era stufo di conoscere persone che lo conoscevano
già da tempo e che volevano vederlo di nuovo. Non sapeva quante
volte avrebbe ancora potuto sopportare di vedere la delusione nei
loro occhi e di sentirsi in colpa.
«Ehi,
piccolo genio» venne salutato dall'uomo di carnagione bianca quando
entrarono in soggiorno. Guardò tre facce raggianti di gioia, una
femminile e due maschili. La “Megan” nella sua mente adesso
ricevette un viso, che stranamente gli sembrava essere un po'
famigliare; per quel che invece riguardava Colby e David non era
proprio sicuro di chi fosse chi. Aveva una certa idea, non sapeva
perché, ma –
«Dunque
questi sono i miei colleghi: Megan, David e Colby» li presentò Don
come se non li avesse mai visto. E Charlie si sentì subito un po'
meglio, non solo perché i tre accettarono l'introduzione come se
fosse normale, ma anche perché la sua idea riguardando la
distribuzione dei nomi era risultata corretta.
«Ciao
Charlie» disse la donna con un ampio sorriso. «Probabilmente non
puoi immaginare quanto siamo felici di vederti di nuovo».
«E
soprattutto sano e salvo» aggiunse l'uomo moro, David.
«Penso
che dovremmo brindare» disse Don, già andando verso la cucina.
Charlie
seguì il fratello con lo sguardo, per ignorare che gli altri lo
stavano fissando. Per fortuna Don tornò poco dopo con cinque
bottiglie di birra. «Mi dispiace, ragazzi, ma a quanto pare non
abbiamo qualcosa a più alta gradazione alcolica in casa».
Colby
sospirò in modo esagerato e disse con falsa irritazione: «Appena
l’uomo di casa non c’è, tutto peggiora».
«Attenzione,
Granger, sono comunque il tuo capo».
Le
piccole rughe attorno agli occhi di Don rivelarono che anche lui non
faceva sul serio. E divennero più profonde quando Don vide che non
solo gli agenti federali si stanno divertendo, ma che anche sul viso
di Charlie era apparso un sorriso, ancora cauto, ma genuino e
disinvolto.
Brindarono
e si sedettero nel soggiorno, il divano per i colleghi di Don e le
due poltrone per ciascuno dei fratelli. Megan cominciò a mettere al
corrente Don dei casi che stavano seguendo al momento e Charlie le fu
grato. Godeva della possibilità finalmente di rilassarsi e di stare
per del tempo senza essere continuamente osservato. E qualche volta
sentì anche qualche nome che gli sembrava famigliare. Non poteva
negarlo: si sentiva bene con quella gente, abbastanza bene almeno,
perché naturalmente non gli sfuggivano gli sguardi che gli altri
ogni tanto lanciavano verso lui. Però sarebbe potuta andare peggio.
Mentre
Charlie realizzava che cosa stava vivendo – una normale
conversazione tra amici che al primo sguardo non veniva danneggiata
da niente – il desiderio di appartenere a loro aumentò con una
velocità ed intensità dolorose, Voleva riavere la sua memoria e
discutere con loro e parlare di quel caso, voleva partecipare a
quella vita normale. Voleva riavere la sua.
Domani,
si disse, fiducioso. Domani avrai di nuovo un appuntamento
con lo psicoterapeuta, quello ti aiuterà. Diventerai sicuramente di
nuovo normale prima o poi. Il dottor Bradford ha detto di essere
fiducioso. Tornerà tutto a posto. Diventerai di nuovo normale.
Quasi
ce la fece a convincersi senza riserve.
-
- -
Quando
la squadra si preparò per andarsene, Megan si alzò in piedi.
«Aspetta,
Don, ti aiuto a portare i bicchieri in cucina».
Don,
che non aveva nessuna intenzione di cominciare da subito a mettere
tutto in ordine, guardò la sua collega un po' stupito, borbottando
un “Ma davvero non è necessario, Megan”, mentre lei in qualche
modo riusciva a condurlo nell’altra stanza senza nessun contatto
fisico. Don poteva sentire dietro di sé le voci di David e Colby e
si chiese per un attimo se Charlie sarebbe stato bene con i due prima
che Megan attirasse l’attenzione su di lei.
«Allora?
Come stai?»
«Per
questo mi hai fatto venire qui?»
La
risposta di Megan fu solo uno sguardo fisso e severo.
«Ehi,
sto benissimo! Beh', lì c'è Charlie se non te ne sei accorta, e a
me sembra essere abbastanza vivo!»
«Esatto».
«Mi
dici dove vuoi arrivare?»
Megan
sospirò. «Perché voi ragazzi dimenticate puntualmente che ho
studiato psicologia? Don, posso vedere che fai fatica a venire a capo
di tutto questo. Probabilmente saresti l'uomo più insensibile nel
mondo se non fosse così. Certo, da fuori di comporti come il gentile
padrone di casa che è immensamente felice di riavere suo fratello
con sé…».
«Ma
lo sono!»
«E
nessuno lo nega. Ma non puoi farmi credere che sia tutto a posto.
Avevi perso tuo fratello, Don. Poi hai creduto di averlo riavuto
indietro e adesso non sai se è davvero quello che era o se lo
diventerà mai».
«Non
è –» cominciò Don ad alta voce, ma poi si regolò
repentinamente. “Non è pazzo”, avrebbe voluto dire. Però non ne
era più completamente sicuro. Considerando il modo in cui Charlie si
comportava ultimamente...
Don
respirò profondamente e dovette constatare con riluttanza che
facendo così tremava un po'. Megan aveva ragione. Aveva descritto la
sua situazione in modo talmente corretto, benché avesse usato così
poche parole, che Don era di nuovo disposto a credere che potesse
leggere i pensieri. Sì, aveva paura per la sanità mentale di
Charlie. E paura di non essere all’altezza della situazione. Perché
in questo caso non avrebbe mai potuto aiutare suo fratello.
«E'...
difficile» confessò infine.
«E'
semplicemente troppo, vero?»
Don
deglutì. Non aveva intenzione di parlarne con nessuno, ma non poteva
più tenerselo dentro. «E'... è talmente difficile. Io... non posso
più farlo. Era morto per noi, capisci? Era morto. E adesso è di
nuovo qui...»
Si
passò una mano sul viso, come a volerlo nascondere.
«Non
riesco ancora a crederci» ricominciò poi a parlare. Manteneva le
mani davanti alla bocca e non guardava Megan, così lei aveva qualche
difficoltà a udire le sue parole. «E' talmente... straordinario.
Spero solo...» Esitò. «Spero solo che non l'abbiamo perso in ogni
caso».
Megan
mise una mano sulla sua. «Lo sai Don, se vuoi parlare – sono qui
per te».
Don
annuì, grato. Megan sapeva fare davvero bene il suo lavoro. Aveva
realizzato quanto aveva avuto bisogno di quella conversazione –
benché fosse stata breve.
Con
successo sorprendentemente grande, Don provò a rifare la perfetta e
felice espressione che gli altri tre uomini si aspettavano da lui.
«Adesso
torniamo dagli altri. Prima che David e Colby buttino all'aria tutta
la casa».
La
squadra di Don era appena andata via, quando anche Charlie si
allontanò. A Don non era sfuggito che suo fratello ad un tratto era
diventato eccezionalmente silenzioso, e questa volta non era quel
silenzio nervoso come se non sapesse cosa dire, ma un tipo diverso,
più triste. Era strano: all'inizio della giornata c’era stato quel
silenzio nervoso che poi, però, aveva gradualmente perso. Era
sembrato quasi normale. Ma poi, da un certo punto, non aveva più
lasciato che niente e nessuno si avvicinasse a lui e si era rifugiato
in se stesso. Ed ora sembrava essere ancora lì.
Don
lo osservò dalla finestra. Suo fratello era seduto al bordo del
laghetto dei Koi e guardava l'acqua e i pesci, immerso nei suoi
pensieri. Don si chiese se Charlie sapesse quante volte era già
stato seduto lì in quel modo, completamente nel suo mondo. Era quel
genere di momenti in cui Don non voleva disturbarlo, in cui voleva
solo guardarlo con fascino e aspettare finché suo fratello non si
sarebbe confidato con lui di sua volontà.
Solo,
non credeva che questa volta Charlie sarebbe venuto da lui. Allora
dovette prendere l'iniziativa lui stesso.
Charlie
non si mosse quando Don gli si avvicinò da dietro. Eppure Don non
faceva piano. Non voleva spaventarlo.
«Charlie»
lo chiamò perciò quando era ancora a qualche metro di distanza.
Charlie sembrò trasalire un po', ma quando si voltò verso Don,
almeno non c'era paura o panico nel suo sguardo. Solo una domanda. E
Don realizzò che non aveva pensato ad un pretesto per distrarlo dai
suoi pensieri.
«Ehi...
che facciamo stasera? Pizza e vecchio film?»
Le
idee spontanee erano davvero le migliori. E le più oneste perché
rivelarono sia il desiderio di Don di passar tempo con suo fratello
sia il desiderio di normalità.
Tuttavia
Charlie sembrava avere altri piani. «No. Penso che andrò a letto
presto oggi».
Don
si sentì come preso in contropiede e quasi un po' stordito, ma non
si diede per vinto.
«Va
bene, nessun problema... E che cosa mangiamo?»
Charlie
scrollò le spalle. «Puoi mangiare qualsiasi cosa che vuoi. Io non
ho fame».
Ok,
qualcosa non andava. Questo non era né il Charlie che Don conosceva
da sempre né quello che aveva imparato a conoscere negli ultimi
giorni. Il nuovo Charlie non sarebbe stato tanto scortese e l'altro
probabilmente non avrebbe rifiutato l'offerta. Allora qualcosa non
andava e Don era pronto a scoprire cosa.
«Che
c'è, Charlie?» Esitò. «Hai un problema con me? Ho fatto un
errore?»
Charlie
rise a bassa voce, senza gioia. «Piuttosto il contrario, non pensi?»
Dopo
questa Don era completamente confuso. «Che intendi?»
«Dai,
non c'è bisogno di negarlo. Posso capire che vuoi sbarazzarsi di me,
davvero. Beh, forse non posso ricordare, ma non sono ritardato o cose
del genere. Capisco che non faccio altro che affliggervi».
A
Don non uscì un singolo suono. Eppure la sua bocca era mezza aperta.
«Vado
a letto adesso. Ma non devi avere alcun riguardo per me. Buona
notte».
Fu
solo quando Charlie si alzò che Don riprese i suoi sensi e lo
trattenne al suo braccio. «Che stai facendo, Charlie? Che intendi?»
«Penso
di averlo detto chiaramente, non credi?»
«Sì,
ma... Perché credi che vogliamo... “sbarazzarci” di te?» Don
era sconcertato ed estremamente confuso.
Charlie
era tanto calmo quanto Don era agitato.
«Primo,
è un cosa logica. Io vengo qui e disturbo tutta la vostra vita
quotidiana e voi dovete sempre aver riguardo per me e poi fate sempre
sforzi per me. Naturalmente è ovvio che non ne avete più voglia».
Esitò e abbassò la testa. Ad un tratto il terreno sembrava essere
molto interessante. Le sue prossime parole erano doppiamente
difficili da capire. «E inoltre ti ho sentito parlare con Megan».
«E
allora?» Don aveva aggrottato la fronte. Non ricordava di aver mai
detto qualcosa che avrebbe giustificato la sua teoria astrusa che
fosse indesiderato.
«Ma
dai, chi vuoi illudere? Lo capisco. Appena troverò qualcosa, andrò
via e voi non dovrete occuparvi di me mai più».
«Charlie,
non ti capisco! Non vogliamo che tu te ne vada! Di che diavolo stai
parlando? Che cosa pensi che abbia detto a Megan?»
«Beh,
proviamo con: “E' difficile, così difficile, non posso più
sopportarlo, era morto per noi, era morto e adesso è di nuovo qui”?
L'ho sentito, Don, non devi negarlo».
«Ma
Charlie!» Don era talmente sollevato che sarebbe quasi scoppiato a
ridere, ma la memoria delle parole e di tutte le sue emozioni tornò
viva, soffocando ogni tentativo di risata. «Certo che l'ho detto, ma
in un senso completamente diverso da quello che hai capito tu!»
«E
in quale altro senso, se posso chiedere?»
Charlie
non gli credeva. Il sollievo di Don diventò di nuovo grave e lo
buttò giù non appena lo realizzò. Charlie stava pensando che loro
fossero stati felici del fatto che fosse morto e che finalmente se ne
fossero liberati. Per Don era talmente assurdo che riusciva appena a
comprenderlo. Ma per Charlie era una verità irrevocabile. E non gli
credeva.
Doveva
pur esserci qualcosa che poteva fare, no? Una possibilità per
provare a Charlie come si erano sentiti davvero…?
E
sapeva già come l'avrebbe fatto.
«Vieni»
disse a bassa voce, ad un tratto molto serio.
Charlie
lo seguì, ma sembrava esser tutto tranne che convinto. Don lo guidò
in casa fino al vecchio comò nel soggiorno e aprì il cassetto in
alto. Non dovette cercare a lungo: i documenti che gli servivano
erano i primi.
Tese
verso suo fratello tre frammenti di giornale, accuratamente
ritagliati. Con uno sguardo ancora un po' diffidente, Charlie li
prese e lesse i necrologi che erano apparsi sul giornale dopo la
notizia della sua morte.
La
CalSci è in lutto per il suo collega e amico Charles Edward Eppes.
Non ci sono parole per descrivere la perdita che la sua
morte significa per noi in ogni aspetto.
Una
stella si è spenta, ma la sua luce continua a splendere.
Porgiamo
le nostre condoglianze alla famiglia.
Con gratitudine
e lutto, California Institute of Science
1
mondo – 1 genio = 0
Lei
è andato e non ritornerà più. Non capiamo, perché lei non è qui
per spiegarcelo. Ci manca. Che riposi in pace, professore. Non la
dimenticheremo mai.
In
memoria grata, la sua classe finale di matematica applicata, CalSci.
Non
possiamo ancora comprendere che sei andato e che non ritornerai più.
Ti hanno strappato via dalla nostra vita. Il dolore che lascia la tua
mancanza è appena sopportabile. Senza di te nulla sarà mai più
come prima. Benché ci sarai sempre nei nostri cuori, ci mancherai in
un modo che parole non riescono a esprimere.
Speriamo
che tu abbia trovato la pace. Ti rimpiangiamo.
Con
profondo amore e rammarico, Alan e Don Eppes, Amita Ramanujan.
Quando
arrivò a quest'ultimo necrologio, Charlie aveva già difficoltà a
leggere il testo attraverso le lacrime davanti ai suoi occhi. Era
davvero stato così importante per tutta quella gente? Certo, sapeva
che nei necrologi spesso si lodavano i defunti a tutto spiano anche
se erano state persone malviste e in parte odiate durante la loro
vita. Eppure... Queste parole sembravano venire dal cuore, sembravano
essere talmente sincere...
Allora
era quello che era significato per tutta quella gente. E non solo per
sé, Charlie temette che questa gente avesse perduto quel personaggio
tanto amato. Perché non sapeva chi era stato prima, ma dubitava
molto che attualmente fosse lo stesso.
«Adesso
capisci?» udì una voce fioca accanto a sé e si girò di scatto.
Gli occhi umidi di suo fratello lo colpirono, completamente inattesi.
«Questo... questo intendiamo. Sei stato morto per noi, Charlie».
Aveva
capito che intendeva suo fratello. Eppure ancora non sapeva se la sua
“resurrezione” avesse soffocato il lutto oppure se avesse
suscitato ancora più pena. Si vergognava, per tutto. Si vergognava
per aver suscitato un lutto talmente profondo, per non potersene
ricordare, per aver causato talmente tanti problemi. Non guardava
Don, non poteva, nemmeno quando cominciò a parlare.
«Non
sarebbe...» Gli mancò la voce. Non voleva dirlo e non voleva
immaginare la risposta, ma dovette. «Non sarebbe stato meglio se
davvero non fossi più qui? Non avreste talmente tanti problemi ora».
Le
parole avevano avuto difficoltà ad attraversare la sua gola e
finirono rauche; Don ebbe problemi a comprenderlo. Quando alla fine
ci riuscì, continuò a non coglierne il significato. Scosse
leggermente il capo. Suo fratello non poteva parlare sul serio, vero?
«Charlie
– abbiamo pensato per più di sei mesi che fossi morto. Credimi, è
decisamente meglio che sei di nuovo con noi».
Charlie
si sentì liberato da un gran peso, però questo peso sembrava
essersi trasferito direttamente sul suo stomaco e in qualche modo
inesplicabile allo stesso tempo all’altezza della gola. Deglutì e
proferì l'unica frase che gli venne in mente.
«Mi
dispiace, Don».
Aveva
sottovalutato il loro amore per lui. Aveva svalutato la loro
sollecitudine. Aveva diffidato di loro.
«Mi
dispiace».
Don
lo tirò in un abbraccio fermo che Charlie ricambiò con la stessa
intensità.
«Non
dispiacerti» sospirò Don. «Adesso va bene».
___
"Adesso va bene"... Bello scherzo di Don, non credete? Comunque questa
sarebbe stata una fine troppo semplice, allora continuiamo per un altro
po'...
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Capitolo 19 *** Ambivalenza ***
nonti19
Grazie per le vostre recensioni! Mi rendono felicissima ogni volta quando le leggo :)
19.
Ambivalenza
Time
after time I’ve tried to walk away,
But
it’s not that easy when your soul is torn in two.
So
I just resign myself to it every day.
Now
all I can do is to leave it up to you.
Oh,
you’d better stop before you tear me all apart.
(Sam
Brown, Stop)
Bradford
si alzò quando entrarono. «Ah, i fratelli Eppes. Come state oggi?»
Charlie
proferì solo un “bene”, ma l'alzata di spalle di Don fu ancora
meno espressiva.
Bradford
dovette soffocare un sogghigno. La comunicazione sembrava davvero
essere una rarità quasi esotica in quella famiglia. Ma fintantoché
c'era gente come loro, almeno lui non sarebbe mai diventato
disoccupato.
E
volle cominciare a lavorare subito. Gli era venuta un'idea e si
strofinò le mani per lo slancio.
«Ho
avuto una idea, Charlie» cominciò appena i due fratelli si
sedettero sul divano. Non continuò subito, ma aspettò una risposta.
Venne.
«E sarebbe?»
Bradford
fu contento di quel primo passo. Charlie aveva avuto l'iniziativa di
informarsi, senza un segno percettibile di diffidenza nella voce, e
questo significava che probabilmente avrebbe assentito all'idea dello
psicoterapeuta. Nonostante questo, l’uomo pensò fosse meglio
avvicinarsi alla cosa per gradi.
«Suppongo
che lei voglia ricordare».
Charlie
esitò. «Certo» disse poi.
Bradford
aggrottò la fronte. Perché il suo paziente aveva esitato? Non
voleva ricordare? Oppure... «Forse si è già ricordato alcuni
dettagli, Charlie?»
Charlie
fuggì il suo sguardo e alzò le spalle. «Qualche dettaglio forse.
Minuzie, niente di più».
Bradford
annuì leggermente e guardò Charlie in modo molto severo, ma siccome
quello guardava il terreno, la sua azione non ebbe effetto. Bradford
ne prese nota. Sembrava che il suo paziente gli facesse mistero di
qualcosa, ma Bradford era piuttosto sicuro che Charlie davvero non
potesse ancora ricordare la maggior parte della sua vita precedente.
Continuò.
«Ma vuole ricordare tutto?»
«Sì».
Di
nuovo Bradford annuì leggermente. «Va bene. Allora propongo di
provare il metodo delle ipnosi».
Durante
i successivi tre secondi, il silenzio fu tale che si sarebbe potuto
sentir cadere uno spillo.
«Ipnosi»
ripeté poi Don molto scettico.
Bradford
sorrise leggermente. Aveva già previsto che Don si sarebbe opposto
per principio.
«Sì,
ipnosi» confermò. «O per dire meglio l'ipnositerapia. Non ha
problemi psichici, Charlie. Almeno non assoluti. Tutto quello che la
opprime dipende dall’amnesia. Per questa ragione dovremmo
cominciare tentando di riacquistare la sua memoria. Certamente ci
sono vari metodi nel principio dell'ipnositerapia, ma siccome a
quanto pare il suo subconscio le nasconde delle cose che dovrebbe e,
se ho capito bene, vorrebbe sapere, probabilmente sarebbe
opportuno provare a farla andare trance. Poi le farò qualche
domanda. Non si preoccupi, non le succederà niente di male. La
trance eliminerà solo gradualmente la sua coscienza perché il
subconscio abbia la possibilità di svilupparsi liberamente».
«Vuole
eliminare la sua coscienza?» lo interruppe Don indignato.
Un
leggero sorriso si aprì sul volto di Bradford. Guardando la fronte
corrugata del suo paziente si accorse che anche quello era un po'
critico verso il paralizzare la sua coscienza, ma
probabilmente Don sarebbe stato il maggiore ostacolo.
«Naturalmente
la coscienza non viene paralizzata completamente» li placò.
«Tuttavia occorre agire e con essa paralizzare anche il suo
intelletto analitico per far parlare il suo subconscio. Sarà sempre
capace di udirmi, Charlie. Solo, penserà in un modo un po' meno
cosciente».
Charlie
ponderò brevemente le parole dello psicoterapeuta. «E lei crede che
funzionerà?» chiese poi. «Che ricorderò di nuovo tutto dopo
quelle ipnosi?»
«Non
lo posso garantire» confessò Bradford. «Le ipnosi possono avere
risultati piuttosto discutibili con pazienti traumatizzati o che
soffrono di amnesia, soprattutto quando gli avvenimenti sono successi
tanto tempo fa. Con lei, però, gli avvenimenti sono abbastanza
recenti e a giudicare da ciò che mi ha raccontato non penso che ci
siano memorie false nel suo subconscio, cosa che naturalmente avrebbe
reso il nostro procedimento molto difficile, o anzi impossibile. In
ogni caso penso che dovremmo provarci, Charlie».
Charlie
annuì, però ad un tratto divenne insicuro. Il Dott. Bradford aveva
detto che delle memorie false avrebbero potuto impedire il successo
della terapia – allora non era tutto inutile? Considerando che
poteva ricordare che Don era morto, ma che era ovviamente vivo?
«Non
è sicuro che funzionerà ma vuole provarci lo stesso?» chiese Don e
non si era ancora liberato della sua diffidenza; il corrugamento era
ancora sulla sua fronte. «Come può sapere –»
«Lascia
stare, Don» lo interruppe Charlie fermo, voltandosi poi direttamente
verso Bradford. «Voglio provarci». Charlie stesso era un po'
spaventato dalla sua decisione improvvisa. Non era ancora certo di
ciò che voleva. Le probabilità che avrebbe funzionato erano, dal
suo punto di vista, inferiori rispetto a quelle che sembrava vedere
Bradford. Eppure non voleva perdere questa possibilità. Benché
fosse talmente piccola – le coincidenze erano una realtà
matematica, allora perché non sarebbe potuta accadere una
coincidenza adesso? E quando Don aveva ripreso a fare il suo
curatore, Charlie aveva saputo istintivamente che doveva prendere
subito una decisione prima che avesse perso il coraggio.
Si
poteva vedere sul suo viso che Don si sentiva abbastanza colto in
contropiede. Questo non se lo aspettava. Non aveva visto un Charlie
così deciso da quando – sì, si accorse con un sentimento strano
nel suo stomaco, da quando Charlie, più di sei mesi prima, era
partito per la sua missione segreta.
«Così
va bene» trovò Bradford. «Adesso però dovremmo accordarci su come
procedere. Devo confessarle, Charlie, che le ipnosi non sono il mio
campo. E' vero che mi intendo del metodo, ma ci sono anche
psicoterapeuti che si sono specializzati delle ipnosi. Se desidera
posso mandarla da uno dei miei colleghi».
Charlie
scosse la testa. Andare da un nuovo psicoterapeuta, da un'altra
faccia estranea, e raccontare tutte le cose ancora una volta? «No,
grazie, vorrei rimanere con lei».
«Va
bene». Bradford era contento. Il comportamento di Charlie gli rivelò
che era riuscito a costruire una base di fiducia. Soprattutto con le
ipnosi sarebbe stato essenziale che non desse l'impressione di
comportarsi da psicoterapeuta, superiore al suo paziente, ma
piuttosto da amico. «E' d'accordo se l'iniziamo subito?»
Charlie
si sentì colto alla sprovvista, ma sapeva anche che non sarebbe
stato meglio se avesse evitato il problema. «Sì. Possiamo
cominciare subito».
«Va
bene. Prima la metterò in uno stato di riposo, Charlie».
Il
Dott. Bradford guardò il suo paziente. Rigido e completamente teso.
«Per
favore, si sdrai sul divano e fermi gli occhi. Lo so, questo suona
molto stereotipato, ma realizzerà che si sentirà subito meglio».
Sempre
non completamente convinto, Don fece posto sul divano, sedendosi
sulla poltrona.
Charlie
ubbidì alla richiesta ma con esitazione e tuttavia non fu d’accordo
con le parole pronunciate dal dottore.
«Lasci
perdere la sua tensione, Charlie. Non le succederà niente. Nessuno
vuole ferirla. Può lasciarsi andare».
Charlie
non poté farne a meno: aveva fiducia in Bradford. O per la presenza
di Don o magari per la voce mite – in ogni caso sentiva la tensione
che lo lascia lentamente. Però non si sarebbe lasciato andare del
tutto. Non poteva. Doveva mantenere il controllo su di sé stesso,
almeno un po'.
Bradford
poteva vedere che Charlie si era lasciato andare un po', ma non era
affatto soddisfatto del risultato. Poi cominciò ad andare meglio. Ci
vollero un po' di tempo e molte parole perché i muscoli si
rilassassero e la respirazione tornasse normale. Ma il risultato
rimase mediocre.
Infine,
Bradford prese una decisione. «Charlie, adesso manderò Don via
dalla stanza ».
La
testa di Don si girò verso lo psicoterapeuta con una tale velocità
che slogò quasi la sua nuca. Ma Bradford rimase fermo. «Don, lei se
ne andrà adesso. Capirà sicuramente».
Si
poteva vedere dallo sguardo di Don che non capiva affatto e che non
era neanche pronto a lasciare suo fratello da solo. Però Don
realizzò dallo sguardo dello psicoterapeuta che qualsiasi forma di
resistenza sarebbe stata inutile. Con riluttanza ed una sensazione
sgradevole nello stomaco uscì dalla sala di terapia.
Siccome
Charlie aveva osservato la partenza di Don in modo consapevole,
benché silenzioso, il Dott. Bradford cominciò di nuovo con
l'induzione alla trance. Pose un accento particolare sul fatto che
Don non poteva più ascoltarli e che Charlie non doveva più fare
attenzione a non ferire in un qualunque modo i suoi sentimenti.
«Tutto
rimarrà tra di noi, Charlie. Non racconterò niente di ciò che
verrò a sapere a nessuno, se lei non vuole».
Cominciarono
con qualche immagine innocua. Charlie doveva immaginare posti del suo
passato e dire al dottore cosa pensasse e sentisse a riguardo. Il
risultato fu soddisfacente e Bradford pensò che fosse tempo di fare
un passo avanti. «Adesso voglio che immagini suo padre. Ha un
immagine di lui in mente?»
«Sì».
La voce di Charlie aveva un suono stranamente cupo, ma tanto
tranquillo quanto non era stato da tempo.
«La
descriva. Che cosa può vedere?»
«Mio
padre. Alan Eppes. Sorride. E c'è quello scintillio nei suoi occhi.
Ha messo i suoi occhiali da lettura e è seduto sulla sua poltrona
preferita, mentre legge il giornale».
Bradford
fu soddisfatto. Anche il subconscio di Charlie riconosceva Alan come
suo padre.
«E
adesso un'immagine di suo fratello, Charlie».
Senza
che l'avesse potuto controllare, l'immagine apparve davanti agli
occhi di Charlie, quell'immagine che nel frattempo non si era
lasciata più cacciare via dai suoi pensieri. Il Don morto, il suo
corpo sul terreno, senza vita, sangue, e quella voce: Questo è
colpa sua, Dott. Eppes...
Si
era accoccolato sul letto. Aveva freddo. Teneva gli occhi aperti,
quasi sbarrati, ma non se ne accorgeva. Attorno a lui c'era un buio
assoluto, ma davanti ai suoi occhi c'era sempre quell'immagine
d'orrore nei suoi colori intensi, dolorosamente stridenti e
realistici. Don... Era colpa sua, aveva ucciso suo fratello, Don era
morto, era morto, morto...
«No...
Don... non lo volevo... Don!»
Oh-oh.
Sembrò che con questo avesse colpito nel segno. Lo stato del suo
paziente adesso era completamente diverso da “calmo” e Bradford
rifletté febbrilmente su come portarlo indietro. «Stia tranquillo,
Charlie. Va tutto bene. Mi descriva che cosa vede».
Charlie
non gli diede minimamente ascolto. E con riluttanza Bradford constatò
che la propria voce perdeva calma. «Niente può succederle qui,
Charlie. E' al sicuro. Tutto ciò che vede succede solo nella sua
testa. Voglio aiutarla, Charlie. Mi descriva che cosa vede».
Le
mura attorno a lui erano grigie, ma non c'era paragone con le mura
tra cui si sentiva imprigionato. Credeva di non poter più respirare,
c'era sempre quell'immagine, quell'immagine terribile... Aveva
creduto che Don sarebbe venuto per aiutarlo, per liberarlo dalla sua
prigionia, e adesso... Non voleva credere che fosse vero, non poteva
–
E
lui, Charlie, ne era il responsabile, l'aveva detto, ancora e ancora,
che suo fratello l'avrebbe liberato, sapeva che a casa c'era gente a
cui mancava. E aveva avuto ragione. Suo fratello era davvero venuto.
E aveva dovuto pagare quell'atto altruista.
Ed
era la colpa di Charlie, era colpa sua, e Don... Non poteva essere,
Don non poteva...
«Io...
voglio andarmene... Non voglio... Don...»
«Va
bene, Charlie, va bene.» Era vero che Bradford non sapeva che cosa
stesse succedendo nella testa del suo paziente, ma sapeva che lo
faceva agitare troppo perché potesse essere buono «Si calmi».
Ma
Charlie non gli diede retta. «Don!» Adesso quasi gridò. «No! Don!
Don...»
«Ritorni,
Charlie, non c'è bisogno per avere paura. E' nel mio studio medico.
Don sta aspettando fuori. Va tutto bene. Per favore apra i suoi occhi
adesso».
La
porta e gli occhi di Charlie vennero spalancati. Negli occhi di
Charlie c'era solo orrore silenzioso, però alla porta c'era
assolutamente più di rumore.
«Charlie!»
«Non
può entrare adesso! Se il dottore l'ha mandato via –»
«Charlie,
che succede?»
«Signore,
non può –»
«Che
gli ha fatto?»
«Basta».
La
voce di Bradford era ancora poco calma, ma ciò nonostante riuscì a
farsi valere, e le due persone alla porta tacquero.
«Lasci
entrare il Signor Eppes, Signora Hopkins» disse alla sua segretaria,
che non sembrò molto rallegrata quando chiuse la porta alle sue
spalle per tornare al suo posto di lavoro.
Don
non ebbe né una parola né uno sguardo per Bradford: si era già
inginocchiato al fianco di Charlie. «Che cosa è successo, Charlie?»
Solo
ora Bradford poté dedicarsi di nuovo completamente del suo paziente.
La respirazione di Charlie era ancora rapida e piana, ma lentamente
sembrava aver realizzato dove si trovava. Bradford sperò solo che la
presenza di suo fratello lo aiutasse e che non fosse soltanto un
fattore che lo confondeva ancora di più.
«Parla
con me, Charlie! Che c'è?»
Bradford
stava per pentirsi della sua decisione di lasciar entrare Don. Non
senza ragione aveva lasciato il suo paziente in pace, fino a quel
momento. Charlie aveva bisogno di un po' di tempo. Almeno quando
anche Don realizzò che Charlie non sembrava in grado di
rispondergli, ne capì il motivo e si voltò verso lo psicoterapeuta.
«Che
sta succedendo?» chiese di nuovo. «Che cosa gli ha fatto?»
«Si
calmi, Don. Va tutto bene».
«”Si
calmi”? Ma è impazzito? Ho sentito Charlie gridare! Ha gridato il
mio nome! Ha sbagliato a mandarmi via!»
«Per
favore, si calmi». Bradford si sentiva come un disco rotto.
«Che
cos'ha fatto a mio fratello?!»
«Don...
Lascia stare».
La
voce di Charlie era ancora un po' tremolante, eppure non ebbe meno
potenza su di Don. Il maggiore si dimenticò subito dello
psicoterapeuta e guardò Charlie con preoccupazione.
«Che
è successo? Come stai? Cos'ha fatto?»
Charlie
non rispose a nessuna delle domande, ma disse solo: «Voglio andare
adesso».
Il
Dott. Bradford dovette interromperlo. «Charlie – con permesso, non
penso che sia una buona idea».
«Ah
no?» Don non si era ancora liberato dalla sua rabbia. «Abbiamo
visto i risultati delle sue “ottime idee”!»
«Voglio
restare da solo adesso».
«Charlie,
penso davvero che non sia la cosa migliore per lei in questo momento.
Dovrebbe parlare di ciò –»
«Avrei
dovuto sapere che era un'idea stupida!»
E
senza ascoltare il consiglio di Bradford, un Eppes molto agitato e
uno chiuso in sé stesso uscirono dallo studio medico di Bradford.
-
- -
I
fratelli non erano da poco arrivati a casa quando Don realizzò che
Charlie non aveva detto niente durante il tragitto mentre lui stesso
si era irritato per Bradford con un'eloquenza che finora non aveva
mai visto. Ora la sua rabbia era ad un tratto andata in fumo e Don
lanciò a suo fratello sguardi di lato nervosi mentre allo stesso
tempo tentava di non perdere di vista il traffico di pomeriggio a
L.A.
«Stai
bene, Charlie? Vuoi parlare di qualcosa?»
«No»
rispose Charlie a bassa voce, guardando dalla finestra.
Don
lottò con sé stesso, però poi si decise a rinviare la
conversazione a più tardi.
Più
tardi, però, la situazione non era migliorata. Charlie si ritirò
nel suo garage. Doveva riflettere e no, Don non poteva aiutarlo. «Ho
solo bisogno di un po' di tempo».
Don
deglutì. Ecco l'aveva di nuovo, quel mezzo magico. Tempo. Aveva già
completamente dimenticato il consiglio della Dottora Andrews. Aveva
fatto troppa pressione su di lui senza che l'avesse voluto, senza che
se ne fosse nemmeno accorto? Sembrava così. E tutto ciò che poteva
fare adesso era lasciare Charlie in pace, per quanto gli riuscisse
difficile.
-
- -
Di
nuovo le lavagne verdi lo calmarono un po'. Esercitarono ancora una
certa magia su di lui: lo stimolavano quando stava cercando impulsi,
e lo rendevano calmo quando era troppo nervoso. Almeno ci riuscirono
quella volta. E la cosa che aveva temuto per tutto il tempo adesso
divenne una certezza: aveva fatto un errore. Non avrebbe dovuto
lasciare lo studio medico di Bradford così in fretta.
Quell'immagine... Era sempre dentro di lui e probabilmente non se ne
sarebbe andata da sola. E Bradford aveva ragione: doveva parlarne con
qualcuno. E in quel momento, per Charlie, lo psicoterapeuta era
l'unico uomo al mondo da prendere in considerazione.
Domani,
si disse. Aveva un appuntamento il giorno dopo. Fino a quel momento
avrebbe – sì, che cos'avrebbe fatto? Che cosa doveva fare fino ad
allora? Era tentato di scacciare l'immagine via dalla sua memoria,
ma… innanzitutto non sapeva che ci sarebbe riuscito, e secondo…
aveva paura proprio di riuscirci. Aveva già dimenticato talmente
tanto dal suo passato – era veramente consigliabile scacciare via i
pochi ricordi che aveva? Sicuramente no.
D’altro
canto, non poteva neanche sopportare la vista di quell'immagine nella
sua testa. Probabilmente sarebbe stato meglio distrarsi un po', in
compagnia. Ma in casa c'era solo Don e quello era l'unico che Charlie
non poteva vedere senza poter dimenticare ciò che non voleva vedere.
Ma
forse quell'immagine, che pure era tanto terribile, avrebbe potuto
essere anche un'opportunità? Forse poteva, partendo da essa,
rivelare altri segreti del suo passato? Sì... Era come una porta
aperta davanti a lui, e Charlie era determinato ad attraversarla.
Di
nuovo vide l'immagine. Come era potuta succedere una cosa del genere?
Cosa era successo? Che sapeva?
Bradford
aveva detto che probabilmente Charlie era stato imprigionato. Per
Charlie era un'idea plausibile. E non poteva cacciar via il pensiero
che quel Signor Rosenthal avesse qualcosa a che fare con la faccenda
– comunque la pelle d'oca che Charlie aveva ogni volta che pensava
a lui era un indizio. “Ho scoperto che cosa fate” gli aveva
detto. E poi...
Le
quattro mura grigie, il vuoto della stanza, l'umidità, il freddo –
tutto gli faceva, in modo inquietante, pensare a un carcere. Il fatto
che non sapesse che cosa intendevano di fare di lui non migliorava il
suo stato e non sapeva neanche che cosa dovesse pensare del fatto che
per quanto sembrasse non lo sapevano neanche loro. Sembrava che
l'avessero semplicemente spostato lì finché il problema non si
fosse risolto da solo. Per esempio tramite Charlie se si fosse deciso
a lavorare di nuovo per loro. Oppure se avessero concluso i loro
affari. Oppure se Charlie si fosse suicidato.
Charlie
deglutì. Aveva paura, paura di quello che gli avrebbe potuto fare
quel carcere o i suoi nemici. Voleva andare via...
E
allo stesso tempo voleva restare lì. Perché sapeva che lo
lasciavano uscire solo quando lo volevano interrogare, e tutto era
meglio di quello. Finora avevano evitato di infliggergli dolori
fisici, ma questo era tutto. Charlie sapeva che cosa volevano. Avere
di nuovo il suo aiuto. Volevano distruggerlo psicologicamente così
nel profondo che sarebbe diventato una marionetta senza volontà
nelle loro mani, continuando a eseguire giochi di prestigio
matematici per loro. Ma non ci sarebbero riusciti, non ora che sapeva
che cosa facevano.
Almeno
sperava che non ci sarebbero riusciti. Ma la sua convinzione
diminuiva ogni giorno un po' di più. E il desiderio di sfuggire a
tutto quello aumentava con proporzionalità inversa.
Avrebbe
fatto di tutto solo per informare una qualsiasi persona fuori dalla
sua prigione, se avesse potuto farsi notare in qualsiasi modo,
gridare aiuto. Ma lì era completamente separato dal resto del mondo;
la stanza non aveva nemmeno finestre. Quanto desiderava avere il suo
cellulare per chiamare aiuto –
Ecco
perché! Ecco la ragione dei numeri!
Charlie
era talmente eccitato che l'atmosfera del suo carcere svanì in un
istante. Aveva trovato un altro pezzo del puzzle che si inseriva
senza problemi nel quadro che aveva già e che finora non gli dava
tante informazioni: i numeri del suo sogno. Ora poteva spiegare il
sogno che aveva avuto alla clinica: aveva sognato il numero di
telefono di Don, naturalmente, e prima di questo aveva sognato la sua
prigione. Voleva chiamare Don per chiedergli aiuto, e infatti Don era
venuto, però in circostanze del tutto diverse!
Charlie
respirò profondamente e un sorriso si allargò sulla suo viso. Era
certo che queste ipnosi non erano state un'idea talmente brutta. Lo
avevano aiutato. Cominciava a ricordare.
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Capitolo 20 *** A casa insieme ***
nonti20
Mille grazie, BlackCobra! Spero che anche questa canzone ti piacerà! :)
Please enjoy :)
20.
A casa insieme
The
world is closing in.
Did
you ever think
That
we could be so close,
Like
brothers?
(Scorpions,
Wind of Change)
Il
rendersi conto che il passato si stava pian piano rivelando da sé,
senza che qualcuno intervenisse a spiegarglielo, era una buona
ragione per tenere Charlie di buon umore almeno per un po’. Si
sentiva anzi abbastanza tranquillo da cercare la compagnia di Don.
All'inizio
era un pochetto insicuro. Quando entrò in casa, Don era seduto sul
divano e faceva zapping tra i programmi senza meta, ma si alzò di
scatto non appena sentì il rumore dietro di lui.
«Charlie,
ehi! ...Come stai?».
Il
nervosismo di Don stava per influenzare anche Charlie, ma il suo
umore era abbastanza buono da permettergli di confrontarsi con suo
fratello ed evitare un'altra ritirata. «Sto bene». E adesso fu il
suo turno. «Hai già mangiato?»
«Io
– no. No... Hai fame?»
Charlie
sogghignò, tentando leggermente di nasconderlo. «Certo».
«Bene».
Il
nervosismo di Don pian piano se ne andò e anche sulla sua faccia
apparve un sogghigno che gradualmente aumentò in intensità. «Bene.
Riscaldiamo qualcosa di quello che ci ha lasciato papà?»
«Certo».
In
quel momento Charlie avrebbe dato il suo consenso a qualsiasi cosa.
Non poteva completamente bandire il ricordo di quell'immagine dalla
sua memoria, ma allo stesso tempo era determinato a non rifletterci
troppo. Che cosa significava in quel momento? Don era lì, sano e
salvo, e stavano insieme. Per ora avrebbe cacciato via i demoni.
-
- -
La
cena passò in una normalità quasi tremenda. Per la prima volta da
sei mesi, Don poteva avere una vera e propria conversazione con suo
fratello e non lo disturbò minimamente il fatto che Charlie cominciò
subito a presentare statistiche non appena presero a parlare di
baseball. Certo, l'amnesia di Charlie era ancora evidente, ma c'erano
momenti, solo istanti, in cui Don quasi dimenticava tutto quello.
Dopo
la cena guardarono un vecchio film e questa volta Don fu sicuro che
Charlie andasse al letto davvero a causa della stanchezza e che non
fosse solo un pretesto.
Anche
lui era stanco, ma felice come non lo era stato da tanto. Quando si
scoprì a canticchiare a bassa voce nel bagno, il suo sogghigno
diventò ancora più largo e il suo buon umore ancora migliore. Tutto
si stava sistemando, tutto stava andando bene...
La
bella atmosfera e la stanchezza profonda lo fecero rapidamente
passare in un sonno senza incubi. La notte era tranquilla e tutta
Pasadena sembrava entrata in un sopore pacifico. Non c'era nulla di
cattivo nel mondo. Le foglie degli alberi, fuori, stormivano
pianamente, qualche uccello lanciava il suo sprillo ogni tanto.
Tranne quello, silenzio. Una pace profonda e pura. Finalmente un po'
di calma.
E
poi, in piena notte, un grido assordante strappò il silenzio
serafico.
Don
fu subito seduto sul suo letto e un attimo dopo era già uscito di
corsa dalla sua stanza, correndo verso Charlie. Che cosa era
successo? Forse qualcuno era entrato in casa loro? Forse era solo un
incubo, ma Don non poteva esserne sicuro; forse in quel momento c'era
un uomo scuro e mascherato piegato sopra il letto di Charlie, in mano
un coltello che tremava sopra la sua figura spaventata, pronto ad
andare giù e colpirlo...
Don
spalancò la porta. La sua paura si placò. Non c'era quell'estraneo
terribile. C'era solo Charlie, sdraiato sul suo letto. No, non
proprio sdraiato. Si stava lanciando da un lato all'altro, lottando
con la sua coperta. Allora era davvero solo un incubo.
Eppure
Don sapeva che era troppo presto per lasciarsi scappare un sospiro di
sollievo. Certo, gli incubi erano innocui, ma dopo quello che aveva
detto Bradford – che Charlie tramite quegli incubi tentava di
venire a capo di cosa gli era successo... E inoltre Don trovò che
fosse estremamente inquietante che Charlie, malgrado il suo urlo, non
si fosse ancora svegliato.
«Charlie,
calmati, va tutto bene!»
Don
aveva attraversato la stanza in tre passi e adesso, senza sapere cosa
fare, stava piegato sopra suo fratello che ancora lottava con le
lenzuola.
Per
un secondo, le mani di Don esitarono sugli omeri di Charlie. Infine,
però, si riscosse. Era stufo. Prese gli omeri di Charlie in modo
fermo, tentando di bloccargli il busto.
«Sta
tranquillo, Charlie» disse ancora una volta, cercando di seguire
anche lui il consiglio e di calmare le sue preoccupazioni e la sua
ansia.
Charlie
non lo guardava ancora; al contrario, aveva chiuso gli occhi benché
fosse abbastanza buio attorno a lui come se volesse proteggersi da un
qualsiasi avvenimento. Ma almeno aveva, nel frattempo, smesso di
lottare. Era seduto quasi senza muoversi, benché stesse ancora
respirando rapidamente, con Don accanto a lui.
«Così,
Charlie, calmati, va tutto bene».
«Don?»
La
voce di Charlie ebbe un timbro sgradevolmente famigliare: panico. A
Don si strinse il petto, sia per l'inquietudine, sia per un'altra
sensazione. Charlie lo aveva chiamato per nome...
«Sono
qui, fratellino». Cautamente, mise una mano tremolante sulla guancia
di Charlie.
Sotto
l'influenza della voce dolce, le palpebre di Charlie si aprirono, e
le grandi iridi marroni saltarono per la stanza finché non trovarono
la sagoma calma di Don, lasciandovi correre sopra lo sguardo in
fretta e inquietamente. Don vide che Charlie si sedette
frettolosamente, scuotendo il capo come se tentasse di liberarsi da
un'immagine nella sua testa.
Aveva
tolto la sua mano dalla guancia di suo fratello. Non voleva turbarlo
ancora una volta. Ma di nuovo ebbe la certezza che Charlie non
avrebbe mai smesso di sorprenderlo. Suo fratello allungò una mano
tremolante che si avvicinò a Don finché, dopo un cammino lento come
in un sogno, non trovò la sua meta: il petto di Don. Le dita di
Charlie toccarono leggermente il punto a cui corrispondeva il cuore.
Don
non si era mosso. Però gradualmente, la tensione aumentò fino a un
grado che non poteva quasi più sopportare, e stette per prendere la
parola, quando – infine – Charlie parlò.
«
...Sto sognando?»
Don
fece fatica ad udirlo, perché le parole uscirono in modo soffocato.
Però fece ancora di più fatica a pensare ad una risposta.
«No,
sei sveglio» gli spiegò infine, con quanta più tranquillità gli
era possibile. Eppure la sua voce tremolava.
«Ma...»
Charlie non sembrava esser meno confuso di lui. Però la confusione
di Charlie minacciava di trasformarsi in panico. «Ma tu sei qui...»
Don
volle urlare. Per un momento, un momento meraviglioso come un sogno,
aveva davvero creduto che Charlie lo volesse con lui. E invece aveva
un paura tremenda di lui.
«Me
ne vado…?» chiese triste, cercando però di non darlo a vedere. Si
era già mezzo alzato quando sentì una presa sorprendentemente ferma
sul suo polso. Chi poteva essere?
Don
guardò riconoscendo la mano di Charlie, mentre suo fratello
bisbigliò, ancora inquieto e in modo soffocato: «No! No, ti prego!
Ti prego, resta!»
A
Don riuscì un sorriso, e un po' incredulo, ma con sollievo, scosse
il capo. La volubilità di Charlie lo confondeva.
Charlie
interpretò quel momento di esitazione in modo erroneo e rafforzò la
sua presa.
«Mi
dispiace» bisbigliò, cominciando a singhiozzare. «Mi dispiace, mi
'spiace... ma... ma ti prego... res-resta qui!»
Don
non aveva idea che cosa stesse succedendo, ma non aveva alcun dubbio
che – pur non capendo nulla – il suo orrore non fosse
inopportuno.
«Certo
che resto qui, Charlie» gli assicurò frettolosamente, piegandosi di
nuovo verso lui. Cautamente, mise un braccio attorno alle sue spalle
tremolanti. Il braccio non fu allontanato; eppure Don esitò prima di
continuare a parlare. « …Vuoi parlarmi del tuo incubo?»
Charlie
si liberò dalla presa leggera di Don, si sdraiò di nuovo, si girò
sul suo fianco e scosse il capo. Però continuò a tenere fermo il
polso di Don.
«Sei
sicuro?» chiese Don.
Ancora
una volta Charlie scosse il capo e Don fece fatica a sentire le
parole che mormorò nel cuscino. «Semplicemente resta con me».
E
sia incapace sia riluttante ad opporsi alla richiesta di Charlie, Don
si sdraiò sul letto accanto a suo fratello, mettendo il suo braccio
destro attorno a lui. Charlie, che finalmente aveva lasciato il
polso, mise il suo braccio sinistro sul quello destro di Don e infine
si sentì abbastanza rassicurato da chiudere gli occhi, dietro ai
quali cominciarono a sbucare lacrime. Mentre gli scivolavano giù per
le guance, fece un solo singhiozzo piano che finì in un respiro
tremolante.
Don
sentì che la tensione dei muscoli rigidi di suo fratello diminuì,
ma il miglioramento era terribilmente piccolo. Avrebbe fatto tutto
perché Charlie si fosse finalmente sentito meglio. Ma che cosa
poteva fare?
«Ehi...
shhh....» tentò di calmarlo. Gli si stava per spezzare il cuore.
«Va tutto bene».
Don
avrebbe voluto darsi uno schiaffo. Cosa aveva detto? Va tutto
bene? Era forse impazzito? Persino un cieco poteva vedere che
niente andava bene! Charlie era sfinito! Qualcuno lo aveva rovinato!
E Don avrebbe scoperto chi era stato. Avrebbe trovato quel tizio e lo
avrebbe arrestato, avrebbe –
Don
sentì che il diaframma di Charlie si restrinse quando singhiozzò
ancora una volta. Quando strinse il suo fratellino ancora più forte
contro sé, anche sul suo viso scivolò una lacrima, prima di
perdersi nel cuscino. Era vero. Qualcuno aveva rovinato Charlie. Ma
ora, in quel momento, quando poteva sentire Charlie vicino a lui, non
era importante. Non importava che cosa fosse successo a Charlie,
perché adesso era finito. Andava tutto bene. Charlie stava bene
fisicamente e Don era con lui. Il resto lo avrebbero potuto chiarire
col tempo.
Don
ci credeva fermamente.
-
- -
Alan
pagò il tassista, gli fece capire che era capace di portare la sua
borsa da viaggio e camminò verso la casa. Naturalmente non avrebbe
dovuto farlo lui stesso. Naturalmente non avrebbe dovuto prendere un
taxi. Naturalmente avrebbe potuto chiamare Don perché venisse a
prenderlo all'aeroporto. Però non voleva né che Don lasciasse
Charlie da solo né che Charlie dovesse sopportare troppa gente
attorno a lui.
Comunque
era felice di essere di nuovo a casa, non solo per poter stare con i
suoi figli, ma anche perché era completamente esausto. Realizzò che
durante l’ultima settimana e mezza era andato in aereo quattro
volte, e sia per amore della sua salute sia per amore dell'ambiente
preferiva che non diventasse un’abitudine.
Alan
posò prima la sua valigia al pianoterra. Voleva innanzitutto parlare
con Don e chiedergli come stesse Charlie. Salì le scale e in breve
ebbe lo sguardo sulla porta della camera di Don. Sulla porta aperta.
Alan
attraversò il corridoio velocemente finché si trovò in mezzo alla
stanza del figlio maggiore.
«Donnie?»
chiamò a mezza voce, facendo un giro completo. Ma Don non era lì.
Alan
guardò nel bagno.
«Donnie?»
Anche
lì non c'era nessuno. Mentre scendeva le scale, la sua confusione
aumentava. Dov’era Don? Di sicuro non aveva lasciato Charlie da
solo – dopo tutto che era successo…?
«Donnie!»
Anche
questa volta non ricevette risposta. In poco tempo Alan aveva cercato
in tutta la casa. Don non c’era. Aveva davvero lasciato Charlie da
solo. Alan non riusciva a capacitarsene.
E
se... Per un attimo, il cuore smise di battere. Se era successo
qualcosa? Forse i due erano dovuti di nuovo andare all'ospedale
oppure –
Prima
che Alan potesse concludere il pensiero, si trovò davanti alla porta
di Charlie e la aprì velocemente. Aveva già aperto bocca, quando
ciò che vedeva bloccò tutto con un nodo in gola.
Eccoli
lì, i suoi figli. Tutti e due, l'uno accanto all'altro, sul letto di
Charlie. Tenevano gli occhi chiusi: ovviamente stavano ancora
dormendo. Il braccio di Don era messo, come per proteggerlo, attorno
allo stomaco di Charlie, e il braccio di Charlie, come per
assicurarsi della sua presenza, su quello di Don. Era un'immagine
terribilmente tranquilla. Un'immagine di giorni passati.
Alan
sorrise e sentì le lacrime che spingevano da dietro i suoi occhi.
Perché si era preoccupato talmente tanto? Perché era stato talmente
sospettoso? Perché non aveva avuto fiducia in Don?
Il
mondo era talmente buono!
Li
vedi, Margaret?, pensò, e sentiva la
risposta: sì. Margaret li vedeva. Li osservava. Era con loro. In
quel momento, erano di nuovo tutti insieme.
Quando
la prima lacrima scivolò sulla guancia, Alan chiuse la porta il più
silenziosamente possibile e scese giù in punta di piedi. Lanciò un
sorriso al ritratto di sua moglie, guardò a lungo le piccole rughe
attorno alla sua bocca sorridente e poi si sdraiò sul divano. Si
addormentò con la stessa espressione tranquilla dei suoi figli.
-
- -
Ancora
ad occhi chiusi, Don si allungò. Almeno tentò di farlo. Ma qualcosa
lo trattenne, al suo polso. Una mano. Ma a chi apparteneva?
Aprì
i suoi occhi. Ah sì. Certo. Charlie.
La
fronte era corrugata e Don pensò di vedere movimento sotto le
palpebre. Ma quando finì il suo tentativo di liberare la sua mano da
quella di Charlie, le rughe scomparirono.
Don
sorrise. Era passato molto tempo da quando aveva visto suo fratello
così calmo e rilassato. E in fondo non voleva svegliarlo proprio
ora. Charlie aveva dovuto sopportare talmente tante cose in
quell'ultimo periodo che aveva più che meritato il suo sonno –
senza dimenticare che Don non sapeva nemmeno che cosa Charlie avesse
passato prima della sua amnesia. Ma teoricamente sarebbe anche voluto
andare a prendere suo padre all'aeroporto, almeno se Charlie non
aveva nulla da obiettare.
Charlie
fece prima di lui, svegliandosi. I suoi occhi vagavano un po' per la
stanza prima di fissare suo fratello.
«Don?»
chiese e sembrava essere abbastanza confuso.
«Sorpreso
di vedermi qui?» rispose Don con un sorriso.
Suo
fratello scosse il capo, ma Don non era sicuro se fosse una risposta
alla sua domanda.
«Ho...
ho pensato che... che l'avessi solo sognato...» mormorò Charlie,
ancora immensamente confuso.
«Beh',
come puoi vedere non è così».
Don
si prese un po' di tempo per esaminare con uno sguardo indagatore la
faccia di suo fratello: la pelle pallida, le occhiaia scure, le
labbra tremolanti, le ali nasali tremanti e quegli occhi... era
ancora il panico della notte passata?
«Stai
bene?» chiese, preoccupato, e potette subito darsi la risposta. Non
avrebbe avuto bisogno della parte psicologica del suo addestramento
per constatare che la paura era diventata una compagna fissa di
Charlie
«Sì,
certo, sto benone».
Bugiardo,
pensò Don con un sorriso triste.
Charlie
si mise a sedere e scivolò un po' via da Don prima di alzarsi
completamente. Non si fermò finché non ebbe raggiunto la porta.
«Vado
al bagno per un attimo» disse con una certa fretta, uscendo
pianamente sul corridoio.
Don
rimase seduto sul letto e fissò la porta chiusa: gli sembrò che
fosse la porta dell'anima di Charlie.
Ancora
la stessa mattina Don constatò che Charlie era cambiato. Manteneva
una certa distanza. E Don doveva realizzare che gli dispiaceva che
Alan avesse preso una taxi dall'aeroporto. Solo dopo aveva capito
quanto avesse pregustato il breve giro in macchina con suo fratello.
Adesso,
però, non aveva più nessun pretesto per stare con lui, mentre più
suo fratello minacciava di allontanarsi da lui e da suo padre, più
il suo desiderio di passare più tempo con Charlie diventava forte.
Naturalmente era ancora cortese e gentile – però quella situazione
dava loro un tale dolore. Charlie li trattava come estranei ed ogni
avvicinamento da quando erano ritornati dal Nebraska sembrava di
nuovo distrutto.
Ma
perché? Don aveva il sottile sospetto di dover cercare la ragione
nella notte appena passata. Charlie per la prima volta aveva perso il
controllo di sé stesso e non se n'era accorto fino alla mattina
dopo. E a quanto pareva non voleva perdere il controllo. Voleva
mantenere le distanze. Ma era ancora psicolabile e aveva bisogno di
ogni sostegno che poteva avere, però per Don non c'era dubbio: in
realtà Charlie voleva liberarsi di loro – e l'avrebbe fatto non
appena ne avesse avuto la possibilità.
Mentre
Don osservava suo fratello, realizzò che cosa significava: avrebbero
perso Charlie una seconda volta, però questa volta non nel regno dei
morti, ma in quello dei vivi, a causa di una nuova vita. E
naturalmente Don sapeva che quello era il meglio per Charlie, avrebbe
dovuto rallegrarsene, anche per suo fratello. E lo era, era
felicissimo che Charlie fosse vivo. Ma se l'avessero perso adesso,
malgrado tutto... Perché in questo caso non sarebbe stata una
calamità tragica, ma una decisione libera di Charlie, quella di
allontanarsi da loro. E anche se Don sapeva che Charlie sarebbe stato
bene pur non rimanendo con loro, gli era chiaro comunque che un addio
deliberato di Charlie gli avrebbe dato un dolore immenso,
probabilmente un dolore maggiore della sua presunta morte. E questo
Don, malgrado tutta la sua forza, non l'avrebbe sopportato.
La
disperazione crogiolava dentro di lui, tentando di raggiungere la
superficie, ma ad un tratto ci fu qualcos'altro, qualcosa di nuovo,
eppure conosciuto: lo spirito combattivo. Se non avesse sopportato
l’allontanamento di Charlie – pensò Don – allora avrebbe fatto
in modo che Charlie decidesse di restare con loro! Dopo tutto ciò
che era successo, non avrebbe rinunciato a suo fratello così
semplicemente. La serata passata gli aveva mostrato tutto ciò a cui
avrebbe rinunciato. Avrebbe lottato per lui. Certo, normalmente era
Charlie tra i due quello che sentiva di più il bisogno
dell'approvazione e dell'affetto dell'altro. Però a quanto pareva
avrebbero dovuto cambiare i ruoli. Perché Don non era pronto a
lasciar andare suo fratello con tanta semplicità. Avrebbe fatto
tutto ciò che poteva, il massimo possibile.
Non
avrebbe perso Charlie un'altra volta.
-
- -
Mike
Kirtland esitò. Aveva appena digitato i dati e visto al primo
sguardo che qualcosa non andava. Dopotutto faceva questa cosa ogni
due settimane da alcuni mesi – e all'inizio anche più spesso – e
sapeva cosa aspettarsi. Tuttavia l'immagine non apparve sul suo
schermo e non sapeva se dover dubitare della sua ragione o del
programma. Perché la sua ragione funzionava – almeno per quel che
ne sapeva – benissimo. Però aveva anche fiducia nel programma –
almeno nel caso in cui lo controllava lui. Perché era certo che lo
si potesse ingannare – in fondo era proprio quello che faceva per
vivere.
Allora
era molto improbabile che il risultato non fosse corretto. E questo
significava che qualcosa non andava in maniera intenzionale. Perché
non poteva che essere intenzionale il fatto che il professore non si
trovasse più nella clinica, né in Nebraska, ma nella California.
«Dan?»
chiamò senza voltarsi e realizzò che la sua voce suonava abbastanza
insicura.
«Che
c'è?».
L’altra
invece parve un po' irritata, come era spesso nelle ultime settime e
negli ultimi mesi, da quando niente stava più funzionando come
volevano.
Passi
si avvicinarono, ma Mike non si girò. Poteva ben immaginare che
Daniel Rosenthal fosse pericolosamente furioso. E Daniel non era
spesso furioso, ma quando la furia prorompeva al di fuori della sua
espressione rilassata aveva un'energia tremenda ed un'incredibile
mania di distruzione premeva su tutto ciò che era d'impiccio,
colpevole o meno.
E
Mike non aveva colpa. Aveva semplicemente fatto ciò che
Rosenthal gli aveva detto, qualche volta un po' di più, ma mai di
meno. E dopotutto, era Rosenthal il responsabile per tutto ciò che
succedeva lì, benché, in altre occasioni, Mike si fosse opposto con
forza alla definizione di “tirapiedi”. Era più di questo, tanto
di più: era un membro del gruppo a tutti gli effetti.
Eppure
la responsabilità era una faccenda altrui, e questo a lui stava
bene. Avrebbe avuto un pezzo della torta, ma sarebbe stato certo che
il rischio fosse il più minimo possibile.
Adesso
però, sembrava un po' difficile. Il loro rischio era aumentato
estremamente. Il professore era sfuggito alla loro osservazione in
teoria perfetta e adesso era perfino possibile che si trovasse nella
sua famiglia. E così era diventato una bomba a orologeria che li
avrebbe potuti distruggere in qualsiasi momento e senza preavviso.
Perché adesso chi poteva sapere se il professore avesse
improvvisamente ricordato, se avesse perfino dato informazioni a
qualcuno per quanto li riguardava? Era diventato un rischio
incontrollabile.
Mike
deglutì prima di interpretare per il suo collega il segnale GPS sul
suo schermo: «Dan, penso che abbiamo un problema».
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Capitolo 21 *** Solo cammini separati riuniscono ***
nonti21
Scusate,
è passato un po' di tempo dall'ultima volta... Spero che continuaste a leggere la storia lo stesso!
Grazie
a BlackCobra!
21.
Solo cammini separati riuniscono
I’m
walking down the line
That
divides me somewhere in my mind,
On
the border line
Of
the edge and where I walk alone.
Read
between the lines
What’s
fucked up, and everything’s alright.
(Green
Day, Boulevard of Broken Dreams)
Adesso
tutto succedeva con una velocità enorme. Speravano che non fossero
già stati scoperti, ma siccome il matematico si trovava in
California quella speranza poteva infrangersi ad ogni istante che
passava. Era dunque chiaro che dovevano sparire per un po'. E
dopotutto potevano perseguire i loro progetti quasi da qualunque
posto si trovassero.
Già
in quello stesso giorno abbandonarono il quartier generale che era
servito loro come base per quasi un anno, e il gruppo si sciolse.
Adesso non era consigliabile esser visti insieme. E dopotutto
sapevano come raggiungere l'uno l'altro senza dare nell'occhio. Non
appena uno di loro avesse avuto idea di come risolvere il loro
problema si sarebbero di nuovo riuniti, questo era sicuro. Ed era
tanto sicuro quanto quel fatto che nessuno di loro avrebbe detto
qualcosa dei loro affari ad estranei: c'era troppo in gioco per
ognuno di loro.
Restava
la domanda circa come tutto questo era potuto accadere. Dopotutto
avevano fatto sorvegliare il professore nella clinica. E si erano
sempre tenuti aggiornati circa le sue condizioni – che, tra
l'altro, non erano mai cambiate di molto. Il dottore era rimasto un
relitto per quanto riguardava i suoi nervi e alla fine era caduto in
una depressione tale che non avevano più potuto sperare di poter
utilizzare il suo aiuto per i loro progetti, almeno non in un
prossimo futuro.
Questo
era ciò che diceva la loro fonte. Ma a quanto pareva quelle
informazioni si erano rivelate insufficienti, o peggio, false. Era
difficile da credere, ma per il momento sembrava essere l'unica
possibilità. Potevano solo essere sollevati dal fatto che non
avevano contato solo sull'infermiera, ma avevano mantenuto un asso
nella manica. E l'osservazione del segnale GPS infine aveva
conseguito il suo scopo.
Insomma,
pensò Daniel Rosenthal fra di sé, ce
la siamo cavati con poche seccature. Il
danno era rimediabile. Certo, prima dovevano scoprire quanto sapeva
la costa occidentale. E faceva proprio al loro caso avere uno dei
loro da quelle parti. La situazione però era problematica. Il
fratello era coll'FBI – forse stavano già investigando? Ma questo
l'avrebbero sicuramente saputo; allora forse erano ancora in tempo
per soffocare tutto sul nascere. Una cosa però era certa: il
professore doveva sparire, e a seconda dello stato d'informazione dei
loro avversari avrebbero deciso come.
Intanto
dovevano attenersi al loro secondo piano per un po' di tempo e
muovere i fili da lì. Non importava in quale modo la faccenda col
professore sarebbe finita, sarebbe probabilmente scoppiato uno
scandalo di media grandezza, anche se con grande probabilità il
pubblico non ne sarebbe mai stato informato, almeno non da autorità
ufficiali. Ma fra qualche tempo, quando la situazione politica
sarebbe cambiata un po', quando ci sarebbe stato qualche cambio nei
posti alti, nessuno si sarebbe più interessato al passato. E se il
loro progetto si fosse svolto come immaginavano, avrebbero potuto
attendere il loro futuro non solo serenamente, ma anzi con tante
aspettative.
-
- -
Charlie
si era di nuovo ritirato in bagno e stava fissando la sua immagine
riflessa. Era primo pomeriggio e fra poco avrebbe avuto il suo
appuntamento col Dott. Bradford. In confronto alla sera passata, la
gioia dell'attesa di Charlie era molto limitata. Era vero, il
pensiero di un'altra seduta non aveva niente di spaventoso, anzi; ma
l'appuntamento significava anche che avrebbe dovuto dire a Don che
preferiva andarci da solo.
«Charlie,
sei pronto? Dovremmo andare se non vogliamo arrivare tardi».
Sentì
i passi di Don scendere le scale, respirò profondamente, si bagnò
leggermente il viso pallido e poi scese di sotto.
«Vorrei
andare da solo dal Dott. Bradford» disse a loro.
Alan
guardò prima lui, poi Don, e Charlie fu sollevato. Suo padre
sembrava guardare la faccenda delle sedute come qualcosa che non lo
riguardava direttamente; dunque almeno lui non era contrario alla sua
domanda.
In
grande contrasto con Don.
«Da
solo?» Sembrava esser offeso e incapace di capire. «Perché?»
«Beh,
Don può almeno accompagnarti, no?» convenne Alan con uno sguardo
all'orologio. Anche lui non aveva un buon presentimento riguardo
questa faccenda, ma ricordava le parole della Dott. Andrews. Tempo e
spazio. Queste erano le cose di cui Charlie attualmente aveva
bisogno, e Alan avrebbe fatto di tutto perché suo figlio si fosse
ristabilito e fosse tornato da loro. Anche se per questo avrebbero
dovuto agire contro il comune buonsenso.
-
- -
Erano
appena partiti quando Charlie si accorse che aveva parlato troppo
presto. Ora Don aveva tutto viaggio in macchina per tempestarlo di
domande sulle ragioni della sua decisione.
«Perché
non vuoi più che sia presente, Charlie?»
Esitò,
ma siccome non la smetteva di parlare, questo non rendeva la faccenda
più facile per Charlie.
«Non
ti fidi più in me?»
«Ma
certo che mi fido!».
Don
era così sorpreso, benché rallegrato della risposta, che per poco
non fece un incidente. Poté mangiarsi un “Sul serio?” e chiedere
invece: «Allora perché?»
«Così.
Adesso possiamo parlare di altra cosa per favore?»
«Ma
voglio semplicemente capirti, Charlie. Che cosa hai in contrario?»
Di nuovo esitò prima di continuare a voce più bassa. «Hai forse
fatto qualcosa di illegale?»
Charlie
tacque. Non ci aveva ancora pensato. Aveva
fatto
qualcosa di illegale?
«No»
disse infine. «No, non credo».
«Allora
perché? Intendo, se ti fidi in me» – e Don l'avrebbe lasciato in
pace dopo quella risposta e sicuramente non sarebbe tornato
sull'argomento, questo era certo – «allora perché non posso
essere presente? Intendo, dopo ciò che era successo l'ultima
volta...»
«Forse
ha proprio a che fare con ciò che era successo l'ultima volta! E
adesso forse potremmo lasciar perdere questo, per
favore?»
A
Charlie dispiaceva aver reagito in modo tanto irritato, ma la
situazione era semplicemente così difficile... E forse Don adesso
l'avrebbe finalmente lasciato in pace.
E
in effetti, non disse niente per qualche istante. E quando ricominciò
a parlare, ciò che disse era ampiamente lontano dall'imminente
seduta. Tuttavia a nessuno dei due poteva sfuggire quanto
terribilmente forzato fosse quel discorso in confronto alla loro
conversazione animata della sera precedente.
-
- -
Bradford
era sorpreso, ma contento quando capì che Don avrebbe aspettato
fuori. Charlie sembrava aver deciso così e quello non significava
solo che pian piano aveva di nuovo una vera identità, ma anche che
oggi avrebbero potuto passare una seduta in pace senza che Charlie
diventasse nervoso a causa della presenza di suo fratello.
«C'è
qualcosa di specifico di cui vorrebbe parlare?» incominciò
Bradford.
«No»
rispose Charlie, però non poteva guardare negli occhi lo
psicoterapeuta. Bradford si accorse che, ancora una volta, faceva
mistero di qualcosa e tacque.
Infine,
Charlie si riscosse. Poteva fare progressi solo dando al suo
psicoterapeuta la possibilità di aiutarlo.
«C'è
un... un'immagine, se si può chiamarla così, che mi... Penso che
sia responsabile degli incubi. Della maggior parte».
«Mi
descriva l'immagine».
«Non
posso».
«Dai,
Charlie. Può farlo».
Charlie
deglutì. «E' Don» cominciò e si chiese come avrebbe fatto a
spiegare allo psicoterapeuta l'immagine con tutto il suo orrore.
«E'... E' morto».
Charlie
tacque per talmente tanto tempo che Bradford si vide costretto a fare
altre domande.
«Come
sa che è morto?»
«Lui...
c'è del sangue. L'hanno sparato. Indossa la sua giacca dell'FBI e si
può vedere il sangue. E sta sul terreno e non si muove più».
Charlie realizzò che la sua respirazione era di nuovo accelerata.
Semplicemente non poteva sopportarlo, non poteva essere, Don era
morto, ma era vivo...
«Resta
tranquillo, Charlie. Ci sono spiegazioni completamente logiche per
quest'immagine. Ed è come ha detto lei stesso, è solo un'immagine
di un incubo che ci –»
«No!»
contraddisse Charlie, violente. «Non è un incubo! Era reale!
L'avevo visto davvero!»
Bradford
aggrottò la fronte. «Charlie... è sicuro?»
«Sì!
Intendo... non so...» Se non sapeva nemmeno se aveva perso la
ragione, allora come potrebbe sapere se aveva allucinazioni o meno?
«Va
bene, dall'inizio: quando ha visto quell'immagine per la prima
volta?»
«L'ho
visto solo una volta, cioè nella realtà. Quando ero imprigionato.
Le altre volte, l'ho solo sognato. Poi ho dimenticato l'immagine di
nuovo, cioè... Sapevo che c'era qualcosa, ma non sapevo cosa. E poi,
quando Don è venuto nella clinica con mio padre, ad un tratto c'era
di nuovo quest'immagine, ma poi era di nuovo scomparsa e in qualche
modo non potevo vedere una connessione tra l'immagine e Don».
«Allora,
da quando è stato in clinica ha sognato un'immagine che ha
visto durante la sua prigionia, ho capito bene?»
«Sì
– no... forse ho sognato l'immagine anche prima, non ricordo. Da
quando sono in clinica, con certezza. Qualche volta l'immagine era un
po' diversa ed è cambiata negli incubi, ma questa volta l'ho vista
per bene». E
non lo dimenticherò mai più,
aggiunse nei suoi pensieri, e di nuovo dovette deglutire.
«Dunque
si ricorda di esser stato imprigionato?»
«Sì.
Ma non so dove né da chi».
Data
la specificità di Charlie, Bradford avrebbe voluto chiedere se il
suo paziente ricordava il perché, ma non voleva allontanarsi
dalla questione principale.
«E
come mai ha visto il corpo di Don?»
Charlie
rifletté. Aveva anche chiuso gli occhi, benché così non avesse un
aspetto più tranquillo di se li avesse tenuti aperti.
«Me
l'avevano mostrato» disse infine; la sua voce era diventata più
bassa e tremolava un po'. «Mi hanno portato fuori dalla mia cella
perché potessi vederlo. E poi l'hanno... gli hanno dato calci e...
e... e gli hanno sparato ancora... Volevano... Volevano che fossi
certo che era morto. Volevano sfinirmi».
E
ce l'hanno fatta,
constatò Bradford tra sé, non considerando opportuno esprimerlo ad
alta voce davanti al suo paziente. Invece tentò di chiarire la
faccenda. «Come sa che il morto era Don?»
«L'ho
riconosciuto» rispose Charlie, un po' sorpreso. Non poteva esserci
nessun dubbio che il morto fosse Don. Inoltre... «Mi hanno detto che
era Don».
La
faccenda sta diventando interessante,
pensò Bradford tra sé. «Si sta contraddicendo, Charlie. Ha
riconosciuto Don da solo oppure gli hanno detto che era lui? A quale
distanza si trovava dal corpo?»
«Forse...
una ventina di metri, credo».
«E
da questa distanza ha riconosciuto suo fratello?» Bradford non
poteva far di meno di ricordare i suoi vecchi interrogatori da
poliziotto – solo che adesso aveva la speranza che con le sue
domande avrebbe potuto aiutare la persona di fronte a lui.
«Beh,
è mio fratello...»
«Ha
potuto vedergli la faccia?»
«Ma
no, mi voltava le spalle. Ma i capelli erano gli stessi. E inoltre
indossava i suoi vestiti dell'FBI».
«Solo
i vestiti? Non un giubbotto antiproiettile?»
«No!
Altrimenti avrebbe...» Charlie dovette deglutire. «Altrimenti non
l'avrebbero...» Si bloccò. Non poteva continuare.
Adesso
la faccenda era chiara per Bradford. C'era solo una cosa di cui
voleva avere certezza.
«Lei
dice che ha davvero visto quello scenario, Charlie? E' sicuro che non
fosse un incubo?»
«No!
Gliel'ho già detto! Questi incubi venivano solo da... dalla... da
quell'immagine.», Charlie si sentiva tradito. Avrebbe dovuto sapere
che Bradford non gli avrebbe creduto, ma aveva sperato...
«Va
bene, Charlie, penso di sapere come spiegarlo. Perché penso che
siamo d'accordo sul fatto che attualmente Don è fuori, nella sala
d'aspetto».
«Ma
gliel'ho detto, non è stato un incubo!»
«Non
è ciò che intendo dire. Ma se immagino in che stato i suoi nervi
erano quando ha visto quella cosa, non mi riesce difficile credere
che lei è stata vittima di un inganno».
«Un
inganno?», Charlie rimase diffidente; non sapeva se voleva veramente
ascoltare il resto della spiegazione. Un inganno – il dottore
intendeva come un tipo di allucinazione? Era davvero matto?
«Come
ha detto lei stesso, i suoi avversari volevano indebolirla
psichicamente. Ammetto che non so perché e neanche come hanno
acquistato le informazioni necessarie, però per me non c'è dubbio
che abbiano fatto indossare a qualcun altro i vestiti dell'FBI per
farle credere che si trattasse di suo fratello, per scoraggiarla. E
penso che la presenza di Don nel mio studio sia un indizio abbastanza
forte della mia ipotesi».
Charlie
fu solo in grado di fissare lo psicoterapeuta. Era veramente così
facile...? Don... era vivo, non era mai stato morto? Era
semplicemente qualcun altro?
«Ma
era Don...» La protesta di Charlie era debole, ma c'era.
«Questo
gliel'hanno fatto credere i suoi rapitori, Charlie. E considerate le
circostanze lei si è convinto e così quella è diventata una verità
irrevocabile nella sua testa. Nondimeno questa “verità” non è
vera, Charlie. Lo ripeto volentieri per lei: il morto che ha visto,
non era Don».
A
Charlie riusciva ancora difficile capirlo.
«Ma
se è così, allora... allora non è... non è colpa mia?»
«La
morte di suo fratello? Certo che no».
«Va
bene...» disse Charlie. Sembrava ancora piuttosto sconvolto. «Va
bene. Ah... grazie». Si alzò.
«Non
deve andarsene adesso, Charlie. Abbiamo ancora qualche minuto».
«No».
Charlie sembrava ancora un po' confuso. «No, penso che vorrei
restare un po' da solo adesso».
Bradford
annuì. Poteva capirlo e doveva accettarlo. E forse Charlie aveva
ragione. Lui adesso non avrebbe potuto aiutarlo, comunque non
abbastanza. Venire a capo con i suoi pensieri adesso era una cosa che
Charlie avrebbe dovuto fare da
solo.Perciò Bradford era sollevato del fatto che non aveva ancora
raccontato tutto a Don. Anche se il morto non era stato Don,
c'era, molto probabilmente, stato un corpo, e questo era una cosa che
un'amministrazione avrebbe dovuto sapere, ma Bradford riuscì a
convincersi che un altro fine settimana dopo sei mesi non avrebbe
cambiato molto.
«Beh...
Allora ci vediamo la settimana prossima», esitò Bradford.
Considerando
le circostanze, avrebbe preferito spostare le cose che aveva
progettato. «Avrei preferito fare un'altra seduta o due con lei
durante il fine settimana, ma sfortunatamente non mi troverò in
città... Le lascio il numero di uno dei miei colleghi nel caso ci
sia qualcosa di urgente?»
«No,
grazie. Penso che sia una buona idea avere un po' di tempo per...
riflettere su tutto».
Il
fatto che si trattasse di un intero fine settimana, non rassicurava
molto Bradford, ma era una decisione del suo paziente.
«Va
bene, Charlie. Stia bene fino ad allora. E per casi urgenti ha il mio
numero, no?»
Charlie
annuì e uscì dallo studio. Gli occhi pieni di preoccupazione di
Bradford accompagnarono la sua schiena.
-
- -
Don
si alzò di scatto quando Charlie entrò nella sala d'attesa, ma
riuscì a farsi dire solo poche e brevi frasi durante tutto il
tragitto verso casa. Poteva solo sperare che quello stato meditabondo
lo avrebbe abbandonato durante il fine settimana, perché da
lunedì sarebbe stato di nuovo in servizio e non avrebbe visto
Charlie così tanto come ora. Certo, c'era ancora suo padre, ma
benché la testa di Don gli dicesse di non preoccuparsi, non poteva
reprimere l'istintivo desiderio di stare lui stesso con Charlie.
Tutti
e due i giorni del fine settimana, sia Amita e Larry sia la squadra
fecero una visita a casa Eppes. E benché Charlie fosse ancora
insolitamente taciturno, sembrava aprirsi pian piano sempre più.
Sembrava un po' più socievole con tutti, anche se Don sentiva ancora
una certa prudenza nel modo in cui Charlie lo trattava. Voleva
convincersi che non fosse niente, che Charlie lo trattasse proprio
come trattava tutti gli altri – ma non funzionava. Aveva la
sensazione che Charlie lo evitasse – no, non era proprio quello.
Sembrava piuttosto che tentasse di prendere contatto con lui, ma che
poi indietreggiasse spaventato di tanto in tanto. E questi tentativi
falliti creavano un dolore immenso, almeno in lui.
Venerdì,
fu la prima volta che fece una passeggiata.
Don
ed Alan rimasero sorpresi quando Charlie disse loro di averne voglia
e sopratutto del fatto che era riuscito a staccarsi sia dal garage
sia dal laghetto dei Koi. Ma forse era anche una fuga da due posti
tanto stretti. In ogni caso capirono ben presto che era una fuga
dalla gente, precisamente quando Don gli chiese di accompagnarlo.
«No,
Don. E' una cosa che devo fare da solo».
Questo
fece ricordare a Don il monito di tempo e spazio, però non fece
sparire i suoi scrupoli.
«E
se non trovi la strada di ritorno?»
Charlie
gli lanciò uno sguardo scettico. «Primo, non sono stupido; secondo,
potrei chiedere a qualcuno di passaggio e terzo, sono cresciuto qui.
Conosco bene le strade, Don».
Don
non l'avrebbe considerato possibile, ma aveva davvero trovato una
situazione in cui avrebbe preferito che Charlie ricordasse di meno.
«E
il tuo piede? Il dottore ha detto di non sforzarlo troppo».
«I
graffi sono quasi guariti e dopo tutti questi giorni le suture non si
scuciranno per una passeggiata».
Come
sempre, fu Alan a trovare una soluzione che piaceva ad entrambi.
«Ecco»,
disse al minore, dandogli il suo vecchio cellulare. «Chiamaci se hai
problemi. Penso che tu sappia il numero di casa?»
Siccome
Alan sorrideva, anche Charlie riuscì ad arrivare con un po' di
sforzo ad un sorriso.
«Certo».
«Beh',
allora siamo d'accordo».
Lanciò
uno sguardo breve verso il maggiore, e la sua espressione gli
confermò che era d'accordo «E – Charlie? Rimani raggiungibile».
Per
Don non sarebbe stato necessario quella conversazione padre-figlio
per sapere che Charlie era un uomo adulto (beh, forse non era una
cattiva idea ricordarglielo ancora una volta). Comunque, per la prima
volta, capì quanto difficile doveva essere per un padre e di quanta
fiducia doveva aver bisogno per lasciar andare i propri figli.
-
- -
Le
strade e le case gli davano una sensazione famigliare che lo
rassicurava. Conosceva i dintorni, anzi di più, quello era il posto
dov'era cresciuto, il posto a cui apparteneva, e non importava che
cosa sarebbe successo, avrebbe sempre considerato questo luogo la sua
patria.
E
gradualmente... sì, gradualmente tutto sembrava mettersi in ordine.
Don non era morto. Allora non poteva essere responsabile
per la sua morte, perché Don non era stato ucciso mentre cercava di
salvarlo. Don era vivo, davvero, anche il Dott. Bradford lo
aveva detto. E gli aveva dato anche una spiegazione del tutto logica
per quella faccenda. Ad un tratto, tutto aveva senso. Era la realtà;
non aveva perso la ragione.
Cautamente,
una sensazione di euforia si allargò in lui. Sì, adesso aveva
esaminato la spiegazione di Bradford da tutti i lati e l'aveva
considerata giusta, ma ancora gli riusciva difficile comprenderla
davvero. Era talmente... talmente liberatorio che si sentiva quasi
perso. Un peso pesantissimo sembrava essere scomparso dalla sua anima
e non poteva credere che tutto fosse davvero così semplice. La
verità – no, la bugia,
perché
la storia come la conosceva lui era una bugia – era radicata così
profondamente in lui, si era fissata con così tanta violenza che
quasi non poteva esser strappata da lui. Ma prima o poi si sarebbe
decisa a lasciarlo andare, Charlie ne era certo. Doveva solo essere
pronto a crederlo, doveva solo continuare a ricordare che in realtà
andava tutto bene. Doveva solo crederci.
Arrivò
al piccolo parco con quei vecchi alberi enormi tra i quali lui e Don
avevano spesso giocato da bambini. Certo, poco dopo il tempo li aveva
separati, però nella testa di Charlie c'era ancora qualche immagine
di picnic con la famiglia, di giochi con gli amichetti d'infanzia.
Entrò
nel parco che era sempre stato un po' più naturale e selvaggio degli
altri. I percorsi erano parzialmente ombreggiati, e sopra sporgevano
alberi e cespugli. C'era sempre stato qualcosa d'incantato lì
dentro.
Quando
la panchina entrò nel campo visivo di Charlie, si sentì subito
attirato come da qualcosa di magico e si sedette. Non era in ottime
condizioni, ma dava una vista meravigliosa sul parco. E una vista
meravigliosa sul passato.
Su
quella panchina era stato seduto con Amita. Era ancora la sua
studentessa allora, e poiché avevano verniciato il suo ufficio,
avevano discusso della tesi di dottorato a casa di Charlie e poi
avevano fatto una pausa andando lì.
Amita
stava per finire il suo dottorato, ed entrambi avevano sperato che il
tutto andasse più veloce. Perché tutti e due si erano accorti già
da allora che cosa si stava sviluppando, e tutti e due avevano voluto
che la loro relazione diventasse più stretta. Era vero che il
dottorato aveva permesso loro di passare più di tempo insieme, ma
all'epoca non avevano ancora osato mostrare francamente i loro
sentimenti.
Charlie
sentiva la sua mancanza. Avrebbe voluto che lei fosse lì ora,
accanto a lui, la sua testa poggiata sulla propria spalla e il suo
braccio attorno al corpo di lei. L'amava.
Charlie
si alzò, ma l'emozione rimase dentro di lui, per sempre. C'era
sempre stato anche se non ne era accorto durante i mesi passati. Ma
quel tempo era passato. Amava Amita, adesso lo ricordava, e ad ogni
passo che faceva poteva ricordare nuove cose che avevano vissuto
insieme.
Charlie
sorrise leggermente quando
lasciò l'ombra dietro di lui, camminando sotto il sole primaverile.
Sì, sembrava che la memoria stesse finalmente tornando. Il
sole illuminava di nuovo la sua vita, e il buio stava sparendo alle
sue spalle.
|
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Capitolo 22 *** Osservazioni ***
nonti22
Mille grazie per le vostre carine recensioni! E scusate il ritardo...
Spero che vi piacerà!
22.
Osservazioni
Every
breath you take,
Every
move you make,
Every
bond you break,
Every
step you take,
I’ll
be watching you.
(The
Police, Every Breath You Take)
Juan
Juarez aspettò finché anche l'uomo più anziano non fosse uscito di
casa e partito in macchina. Ce n'era ancora una davanti casa,
un'utilitaria blu, ma Juan sapeva dalle sue fonti che con tutta
probabilità al momento abitavano lì solo tre persone e gli altri
due, gli uomini più giovani, erano usciti da più di un'ora. Perché
tre membri della stessa famiglia avevano bisogno di tre macchine?
Juan
sapeva solo il necessario: l'uomo anziano doveva essere il padre e i
due uomini più giovani i suoi figli. Il più giovane di quelli era
l'obiettivo delle persone per cui lavorava. Era lui che volevano
spiare. Il perché rimaneva segreto. E non gli interessava.
Le
informazioni che gli avevano dato erano insufficienti per sapere dove
i tre uomini fossero andati e quando sarebbero ritornati. Era
possibile che fossero usciti per lavoro, così come per fare la
spesa, o anche per una gita di un intero weekend.
Sospirò.
Al momento non poteva fare altro che rischiare. Si assicurò che non
ci fosse nessuno per strada o in giardino che curiosasse, e scese
dalla macchina che aveva parcheggiato in vista, ma non troppo vicino,
alla casa degli Eppes, dall'altro lato della strada.
La
sua divisa nera portava il logo di una ditta che non esisteva.
Fingeva di essere il dipendente di un'impresa privata di recapito di
pacchi ed era certo che fosse un camuffamento perfetto.
Suonò
il campanello. Nessuno aprì. Evitò di chiedere se qualcuno fosse in
casa – avrebbe solo attirato inutilmente l'attenzione – e
percorse il perimetro della casa come se stesse cercando qualcuno. In
realtà, però, stava solo cercando l'ingresso posteriore. Non solo
perché la porta sarebbe stata più facile da aprire rispetto a
quella principale, ma anche perché era protetta da eventuali
sguardi. Inoltre avrebbe probabilmente lasciato tracce della sua
presenza se fosse entrato dalla porta anteriore, anche se fossero
stati solo graffiature piccolissime. Dalla porta posteriore lo
avrebbe facilmente evitato.
La
serratura scattò e lentamente Juan entrò in casa. Si guardò
intorno e subito capì che era il soggiorno ad essere il centro della
casa. Dunque piazzò lì una cimice, dietro all'orologio a muro.
Un'altra la fissò dietro una delle gambe del tavolo da pranzo.
Un'altra sopra un mobiletto, in cucina. Le cucine erano il posto più
convenzionale per una conversazione, soprattutto quelle che non tutti
i membri della casa avrebbero dovuto ascoltare. Beh, così in ogni
caso sarebbe stata intercettata da gente fuori
dalla
casa.
Juan
esaminò il piano di sopra, ma qui c'erano solo camere singole,
nessun posto dove sarebbero state facili le conversazioni. Rimaneva
ancora il telefono. Abile ed esperto, Juan lo aprì e posizionò una
quarta microspia direttamente accanto al microfono
del telefono prima di rimettere tutto a posto.
Lanciò
uno sguardo indagatore intorno. Non c'erano tracce del suo passaggio,
come se fosse stato un fantasma a fare un simile lavoro. Soddisfatto,
uscì dalla casa e stava per ritornare in strada quando vide la
macchina dei fratelli fermarsi e trasalì, indietreggiando.
Si
appiattì contro il muro della casa e quasi non osò respirare. I due
uomini scesero e le portiere si chiusero di scatto. Sembrava che non
l'avessero visto.
«Perché
non hai voluto che fossi presente oggi, Charlie? Non c'erano stati
problemi durante le due scorse sedute, no? Allora perché non questa
volta?»
«Don...
Sono fiducioso che tutto si sistemerà, va bene? Ma al momento... è
semplicemente tutto un po' troppo. Vado in garage». Dei passi si
allontanavano, ma poi si fermarono e la voce risuonò di nuovo: «Ti
prego, non essere arrabbiato. Va bene?»
Juan
pensò che l'altro non intendesse rispondere più, ma poi potette
appena udire un calmo «Sì» prima che i passi si allontanassero
definitivamente, fortunatamente lontano da lui.
L'altro
invece si avvicinò alla porta della casa. Una chiave girò nella
serratura, la porta si aprì e si chiuse di nuovo.
Solo
in quel momento Juan osò espirare. Si inginocchiò e cautamente spiò
da dietro l'angolo. No, non c'era più nessuno. Ne era certo.
E
inosservato come era venuto, sparì di nuovo da Pasadena.
-
- -
Per
quanto riguardava le sue relazioni con
altre persone, le passeggiate durante il fine settimana lo aiutavano
molto. Per venire a sapere che cos'era successo durante la sua
detenzione, lo aiutava il garage e forse era quella la ragione per
cui ormai passava davvero poco tempo lì. Probabilmente non era molto
ragionevole, ma preferiva riflettere su tutte le persone che gli
erano vicine, piuttosto che sul tempo passato tutto da solo in chissà
quale posto buio.
E
pian piano ricordava. Era incredibile; ogni minuto che passava, gli
sembrava di ricordare un pezzettino di più della sua vita di una
volta. Ricordava di nuovo il tempo trascorso a Princeton, con Larry
come professore, quello successivo con Larry come mentore e tutto il
resto del tempo in cui era stato suo amico. Poteva di nuovo ricordare
conversazioni tra di loro e anche il silenzio non meno gradito quando
era stato seduto nell'ufficio di Larry, taciturno, pochi giorni dopo
la morte di sua madre.
Le
immagini di lei erano le sole che ricordava da sempre benché,
stranamente, quelle della sua malattia sembravano essersi spostate
indietro. Quello che era nuovo in queste immagini era l'uomo
sorridente al suo canto.
Charlie
non avrebbe potuto desiderare padre migliore di Alan. Aveva cura di
lui, però allo stesso tempo gli lasciava la libertà di cui aveva
bisogno. E Charlie ricordava. Ricordava il sentimento di famigliarità
e sicurezza collegato a suo padre e non solo ricordava quelle
sensazioni, ma le sentiva davvero. Erano di nuovo lì, quasi come
allora, solo che adesso Charlie sapeva apprezzarle ancora di più.
Poteva ricordare conversazioni con suo padre, conversazioni serie e
chiacchierate piacevolmente insignificanti, che proprio per questo
avevano tanta importanza. E ciò che Charlie aveva tentato di
imparare adesso veniva quasi da solo: Alan era suo padre. Non era una
persona qualsiasi, non un estraneo che voleva aiutarlo, non un
vecchio ospitante gentile, ma suo padre, un genitore, l'uomo che gli
aveva dato la vita, che lo aveva allevato e accompagnato sul suo
cammino nella vita offrendogli sempre il suo aiuto.
E
non pensava solo a suo padre. C'era anche Don...
Certo,
sul campo professionale i ricordi non erano un problema. Pensava alle
sale delle conferenze e alla squadra, alle loro facce a volte
concentrate, a volte piuttosto annoiate, spesso confuse. Poteva
ricordare casi che avevano risolto insieme. No, in sé, il lavoro di
Don non era un campo minato.
Solo
quando pensava alla giacca dell'FBI.
Charlie
sapeva che Don non era morto, lo sapeva, era una certezza nella quale
credeva fermamente. Le sue emozioni, però, non intendevano assentire
alla logica e continuavano a farlo impazzire quando si trattava di
suo fratello.
Perché
in fondo era Don che lo confondeva completamente. Perché se Charlie
giudicava in base a quello che poteva ricordare, la reazione di Don
non era affatto normale. Allora la sua memoria non funzionava bene
come aveva osato sperare? Perché poteva ricordare tante scene tra di
loro, innumerevoli... Come Don aveva reagito quando Charlie era
andato nella sua classe... il modo in cui roteava gli occhi quando
Charlie parlava di numeri o quando era al centro dell'attenzione o
cercava di entrare nella comitiva... all'epoca, nel garage, quando
Don l'aveva rimproverato, gridando, perché aveva dato più
importanza al problema di P contro NP che alla loro madre...
No,
dopo quello che Charlie sapeva, non poteva affatto capire
l'improvviso affetto di Don per lui. Certo, durante gli ultimi anni,
il contatto tra di loro era diventato più stretto, ma non in quel
modo e con quell'intensità ed era solo dovuto al lavoro comune, Don
si era solo rassegnato ad accettare la sua presenza perché aveva
capito che i trastulli matematici del suo fastidioso fratellino non
erano solo ciarpame inutile. Sì, qualche volta Charlie aveva creduto
che la loro relazione fosse diventata più stretta, ma questo era
stato solo un suo desiderio... vero?
Altre
scene apparivano nella sua mente e sapeva che erano vere:
l'improvvisa comprensione di Don per la preoccupazione di Charlie
quando l'avevano sparato in quella rapina a una banca, anni prima;
come, in seguito, avevano davvero lavorato insieme come fratelli...
il panico negli occhi di Don e la sua premura non esagerata quando
Charlie era stato quasi sparato da un cecchino... E sì, anche
durante il periodo proprio prima la sua scomparsa, quando tutto era
andato a catafascio, sembrava che fossero diventati più intimi,
quando l'ex-collega di Don si era apparentemente suicidata, quando
c'era stato la follia omicida alla centrale dell'FBI, quando la mafia
li aveva presi di mira, quando avevano sequestrato Megan...
Sì...
Se considerava anche questo periodo, il comportamento di Don era più
facile da comprendere. Sì... Riflettendo, il loro rapporto era
davvero diventato più stretto nelle settimane e nei mesi prima della
sua scomparsa. E questo significava che erano avvenimenti reali
quelli che ricordava, solo reali.
Ma
rimaneva tranquillo. Qualche volta si sentiva come se stesse seduto
su un vulcano, ma non aveva ancora detto che era riuscito a
ricordare, e continuava a tenersi molto nell'ombra. Preferiva
osservare un po'. Perché cosa ne sapeva lui se tutto era davvero
ancora come lo ricordava? Erano passati più di sei mesi ed avevano
creduto che non sarebbe mai più tornato. No, era troppo pericoloso
lasciare che vedessero le sue carte. Doveva prima essere certo che la
situazione non fosse cambiata.
Era
difficile, certo. Tenersi nell'ombra significava che non poteva né
avvicinarsi a loro, né aprirsi con loro. Certo, alle volte si
lasciava andare, era inevitabile, ma manteneva la distanza quanto più
gli era possibile.
Soprattutto
con Amita gli riusciva difficile. Desiderava ardentemente essere con
lei e mostrarle che provava le stesse cose di prima, ma non osava.
Solo la osservava accuratamente. Qualche volta i loro sguardi si
incontravano ed ambedue arrossivano fino alle punte dei capelli.
Eppure Charlie non era sicuro: anche Amita l'amava come prima? Oppure
aveva deciso che preferiva una vita senza di lui? Forse aveva già un
altro ragazzo? Sì, finora nessuno aveva detto una cosa del genere,
ma era possibile che finora non gli avevano detto niente per rispetto
o semplicemente per caso.
Se
era difficile con Amita, con Don era quasi impossibile. Charlie
semplicemente non sapeva cosa fare. Da un lato era così felice del
fatto che adesso tutto andasse bene e voleva essere vicino a suo
fratello, ma dall'altro lato non ce la faceva a guardare Don senza
che immediatamente quella terribile immagine apparisse di nuovo
davanti ai suoi occhi. Naturalmente, adesso sapeva che il cadavere
non era quello di Don, ma il fatto che avrebbe potuto esserlo e il
ricordo di quando l'aveva creduto suscitavano la nausea ancora oggi.
Però Charlie non abbandonava la speranza. Era fiducioso che gli
sarebbe di nuovo stato possibile trattare Don in modo normale, non
appena avrebbe interiorizzato la verità di quegli avvenimenti.
Qualche
volta, però, si chiedeva se ci sarebbe mai riuscito. Ed era giunto
alla conclusione che probabilmente non sarebbe mai successo se avesse
continuato a rifiutarsi di riconoscere una parte del suo passato.
Qualcosa dentro di lui insisteva ad esplorare tutto, a non
accontentarsi di ciò che sapeva già. Un'altra parte aveva ancora
bisogno di tempo per assimilare le parti già ricordate. Dunque
Charlie decise di aspettare la fine della settimana e di parlarne con
il Dottor Bradford per prima cosa lunedì.
-
- -
Domenica
pomeriggio, la conversazione era rimasta per la maggior parte del
tempo su argomenti di lavoro. Don, Larry ed Amita avevano parlato di
casi alla cui soluzione anche Charlie aveva partecipato. Alan aveva
cercato di osservare la reazione di suo figlio,
cosa che considerando le circostanze non gli era riuscito
facile, perché sembrano essere tutte cose di cui lui non aveva mai
sentito parlare prima. Certo, gli era stato raccontato di volte in
cui i suoi figli erano stati in pericolo, ma questo era avvenuto
subito dopo la risoluzione del caso. Qui, invece, si trattava di
storie vecchie di almeno sei mesi, delle quale nessuno aveva finora
ritenuto necessario informarlo.
Allo
stesso modo Alan era insicuro con le sue diagnosi. Credeva che
Charlie fosse più calmo, non più talmente teso, e che mostrasse più
disponibilità nel partecipare alla conversazione, ma allo stesso
tempo sembrava essere ancora così ritirato e chiuso in sé stesso,
così silenzioso e osservante come se tutto fosse ancora estraneo per
lui.
In
ogni caso arrivò il momento di confrontarsi con suo figlio.
Andarono
in cucina e lasciarono i tre scienziati da soli con la loro
conversazione. Alan osservò suo figlio, tentando di dedurre dalla
sua mimica facciale cosa ne pensasse lui della faccenda. Ma il modo
diretto era naturalmente il più efficace.
«Dunque,
tu che ne pensi?»
Don
sospirò. «Non lo so. Non posso... non riesco a
capirlo».
Aveva
esitato e Alan sapeva perché. Sapeva che per Don non era facile
ammetterlo, ammettere quest'alienazione. Per ambedue, Charlie finora
era stato come un libro aperto. Però ora ero chiuso con sette
sigilli.
«Credi
che ci tenga nascosto qualcosa? Che ricordi?»
«Davvero
non lo so, Papà. Penso... Noi siamo ancora degli estranei per lui,
quindi è possibile che non ci metta a parte di tutto ciò che sa. E
penso anche che Bradford lo abbia davvero aiutato».
«Sai
come sono andate le sedute?»
Don
sospirò ancora.
«Bene,
credo» disse infine ed Alan decise di lasciar perdere. Poteva
ricordare fin troppo bene che Don non aveva voluto capire perché
fosse così importante per Charlie continuare la terapia da solo. Non
che a loro avrebbe fatto male seguire una terapia, considerate le
circostanze.
Con
sorpresa, fu Don a tornare sull'argomento.
«Forse
scopriremo qualcosa domani. Comunque può stare tranquillo, non sarò
alla seduta. Forse così finalmente parlerà di nuovo con noi».
Ad
Alan non sfuggì la nuova amarezza nelle parole di Don, e un po' a
disagio si chiese come le cose si sarebbero sviluppate se Charlie
anche dopo la seduta di domani fosse rimasto nel suo silenzio.
-
- -
«C'è
qualcosa di nuovo?» volle sapere Daniel Rosenthal dopo che Cedric
Patter gli aveva fatto cenno di venire al computer. Patter annuì
mentre continuava ad ascoltare la conversazione dei due uomini, e gli
diede la seconda cuffia senza parlare.
Rosenthal
la indossò e sentì la voce di un uomo che aveva imparato a
conoscere bene negli ultmi due giorni: Don Eppes, il fratello
maggiore del professore.
«Bene,
credo». Seguì
una breve pausa che bastò per far crescere l'impazienza di
Rosenthal. Guai a Patter se non l'aveva chiamato per qualcosa
d'importante.
«Forse
scopriremo qualcosa domani. Comunque può stare tranquillo, non sarò
alla seduta. Forse così finalmente parlerà di nuovo con noi».
«Devi
lasciargli tempo, Donnie».Quello
era il padre, Alan. «Non
puoi prenderla sul personale se ha un po' di...»
Rosenthal
lo lasciò continuare e si tolse la cuffia.
«Questo
è tutto?» chiese a Patter. «E per questo mi hai chiamato?»
Questa
conversazione a lui sembrava definitivamente troppo sentimentale per
poter essere rilevante.
Anche
Patter tolse la cuffia. Forse avrebbe ascoltato la registrazione del
seguito più tardi.
«Sì»
rispose, tentando appena di reprimere il tono aggressivo della sua
voce. «Non l'hai sentito? Domani il dottore andrà di nuovo dallo
psicoterapeuta. A parte che c'era già stato venerdì quando il tuo
amico ha installato le mie microspie, e che questo non può
significare nulla di buono per noi–»
«Perché
non può significare nulla di buono?» lo interruppe Rosenthal. «Con
i nervi a fior di pelle non può esserci utile; forse lo
psicoterapeuta ci sarà d'aiuto».
«Ma
con i nervi a fior di pelle il dottore non è nemmeno pericoloso».
«Non
puoi saperlo. Allora perché mi hai chiamato?»
«Ma
non l'hai sentito? Eppes sembra ricordare – allora forse ricorda
anche ciò che gli abbiamo fatto. Finora non ha detto niente a
nessuno. Finora. Ma se lo psicoterapeuta domani continuerà il suo
lavoro, allora la situazione potrebbe cambiare».
Rosenthal
rifletté. A questo non c'aveva pensato. Fortunatamente aveva una
squadra i cui membri erano i migliori nei loro rispettivi campi.
Altrimenti la loro missione sarebbe andata in fumo sin dall'inizio.
Tuttavia Rosenthal non avrebbe mai ammesso quanto dipendesse dalle
facoltà dei singoli membri della squadra, anche se loro stessi ne
erano consapevoli già più del necessario. Ad ogni modo era lui
quello che aveva in mente l'idea generale del piano e che perciò
poteva meglio estimare che cosa fosse buono per i loro progetti e che
cosa dovevano, invece, evitare.
«Allora
che facciamo adesso?» volle sapere Patter e Rosenthal sentì
un'emozione di soddisfazione. Sì, Patter era insostituibile per
quanto riguardava problemi tecnici, ma era lui che guidava le loro
azioni.
«Dobbiamo
toglierlo dalla circolazione prima che vada di nuovo da quello
psicoterapeuta».
«Allora
lo uccidiamo?»
Rosenthal
scosse il capo.
«No.
Sarebbe uno spreco. E inoltre controproduttivo; attualmente non
possiamo permetterci che a causa di un omicidio qualcuno ficchi il
naso in una vecchia faccenda. Dobbiamo tentare di integrarlo di nuovo
nella nostra squadra. Altrimenti tutti questi guai che abbiamo avuto
con lui saranno stati inutili».
«Ma
non vorrà».
«Chi
ha detto che gli lasceremo scelta?» chiese Rosenthal malignamente.
«Dunque
vuoi rapirlo?»
Rosenthal
sogghigno. Aveva già un'idea. «Qualcosa del genere».
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Capitolo 23 *** Bentornato ***
nonti23
Grazie a BlackCobra per un'altra recensione molto dettagliata :)
23.
Bentornato!
I
couldn’t hide,
no
matter how hard I tried,
was
foolish to have begun,
to
believe I’d ever outrun.
(Dwight
Yoakam, Love Caught up to Me)
Anna
Silverstein chiuse la porta dietro di sé, respirando profondamente.
Quando espirò, un largo sorriso si distese sulla sua faccia.
Continuava ancora ad essere così entusiasta del suo nuovo
appartamento! Non perché fosse particolarmente bello o caro. No, era
un appartamento piuttosto piccolo, carinamente arredato, certo, ma
niente di speciale. Almeno non per altre persone, perché per lei era
un sogno. Era il suo appartamento; adesso era completamente
indipendente dai suoi genitori e dal suo nuovo ragazzo, ed era
libera. Aveva un nuovo lavoro che le piaceva e che non era pagato
tanto male. Si era lasciata dietro tutto ciò che l'aveva ostacolata
e adesso si manteneva ancora in contatto solo con alcuni amici molto
stretti. E tutto ciò che non le era più servito a nulla l'aveva
tolto dalla sua vita. Aveva una vita nuova ora.
Quella
parte di sé era finita. Non avrebbe sopportato di rimanere con quei
pazzi ancora a lungo. C'era stato un tempo in cui aveva sempre voluto
aiutare la gente e aveva pensato che anche persone malate di mente
avessero diritto all'assistenza e all'affetto. Però presto si era
accorta che quel lavoro non faceva per lei. Rischiava di impazzire
anche lei.
E
l'offerta del Signor Doe era arrivata a proposito. Non sapeva qual
era il suo vero nome, ma per i soldi che pagava era stata prontissima
ad assentire a quell'aria di mistero di John Doe. Non aveva nemmeno
saputo perché quell'uomo avesse cercato proprio lei, ma non le
interessava molto. Forse aveva semplicemente lanciato
uno sguardo al suo conto in banca – dopotutto lo riteneva capace di
farlo, quel misterioso uomo d'affari. Tutto ciò che le interessava
era il suo compito – e quello era stato, rispetto al pagamento,
ridicolo.
Aveva
semplicemente dovuto informarlo dei progressi di un paziente.
E questo l'aveva fatto. Aveva detto loro com'era diventato depresso,
che continuava a non ricordare. E ogni mese aveva ricevuto il suo
pagamento, in modo confortevole ed essente
da imposte, direttamente sul suo conto.
Per
Anna, l'offerta era venuta esattamente nel momento giusto della sua
vita. Aveva cominciato ad odiare il suo lavoro. Era stata spesso di
malumore e anche quando rincasava non riusciva a prendere iniziativa
per nulla. E dal momento che si considerava troppo giovane per una
crisi di mezza età, era arrivata ad una conclusione ed aveva deciso
di cambiare. E il pagamento di John Doe era un capitale iniziale di
prima classe.
Siccome
tutta la questione già dal primo contatto era andata avanti per
telefono, aveva continuato così anche una volta licenziatasi. Aveva
ancora un'amica nella clinica che le aveva passato le informazioni
richieste. Ma al di là di questo, aveva raccontato a John Doe
nient'altro che frottole. Dopotutto lui non poteva verificarle.
Sogghignò
quando pensò di nuovo alla messinscena che aveva fatto al telefono:
"No,
Signor Doe, mi dispiace. E' sempre depresso e a quanto pare la
situazione non cambierà così presto, è talmente chiuso in sé
stesso e non parla con nessuno... Sì, forse sarà necessario che
vada di nuovo in ospedale se continua così... No, non ricorda
niente... Certo che la informerò quando qualcosa cambierà."
Aveva
il suo numero, ma finora aveva sempre aspettato che fosse lui a
chiamare.
Dopotutto,
non è mai successo nulla,
pensò Anna sogghignando.
Un
po' le dispiaceva che fosse finito, ma almeno era completamente
libera ora e i soldi le erano bastati per costruirsi una nuova vita,
anche se semplice. Ma almeno senza pazzi.
La
settimana prima aveva deciso di tirarsene fuori. Aveva buttato via il
suo cellulare insieme al caricabatteria e trasferito tutti i soldi su
un altro conto. Adesso John Doe non poteva più trovarla, si era
liberata di lui e non doveva più contattarlo. Faceva un po' male
quando pensava alla fonte di guadagno a cui aveva rinunciato, ma era
stata la cosa più ragionevole da fare. La sua amica della clinica
l'aveva chiamata la settimana scorsa e le aveva raccontato che il
paziente era tornato a casa. Non aveva ricordato ancora tutto, ma
poteva essere solo una questione di tempo, ed Anna non voleva più
correre rischi. Chi sapeva che cosa intendeva fare quel John Doe e
che cosa c'era sotto tutta quella storia e che sarebbe successo se
Michael avesse finalmente ricordato? No, era stata la decisione
giusta quella di terminare la faccenda lì.
Anna
si accomodò sul suo nuovo divano, tirò fuori dalla tasca il suo
nuovo cellulare per chiamare un ragazzo che aveva da poco conosciuto
– sarebbe potuto nascere davvero qualcosa? – e si tirò fuori dai
suoi vecchi ricordi, di nuovo nella sua nuova vita.
-
- -
L'atmosfera
era calma e rilassata quando Larry ed Amita andarono a prendere
Charlie, lunedì mattina. Mentre andavano, si accorsero che non
l'avevano mai fatto prima, andare insieme alla CalSci. Ma tutti e tre
si resero conto che non avrebbero avuto niente in contrario se si
fosse ripetuto. E tutti speravano che questo avrebbe destato o
rafforzato qualche memoria nella mente di Charlie.
Dopo
una veloce visita dal dottore, che tolse finalmente a Charlie i punti
dal piede, il campus entrò nel loro campo visivo e questi si sentì
sollevato da un peso paragonabile a un Cray-1. Tutto era esattamente
come aveva ricordato, niente era cambiato, niente era stato solo
frutto della sua immaginazione.
Solo
quando erano già scesi dalla macchina Amita osò chiedergli: «Lo
riconosci?»
Charlie
prima inspirò la fresca aria della mattina, beandosi di poter
lasciar vagare lo sguardo per il campus famigliare e poi annuì.
I
volti di Larry ed Amita si rasserenarono entusiasti, ma non trovarono
parole e così fu Charlie ad interrompere il silenzio, di buon umore.
«E adesso che si fa? Ci sediamo qui fuori o andiamo dentro? Sono
quasi certo che dobbiate fare lezione...» disse, benché, con uno
sguardo all'orologio, avesse constatato che avevano ancora un po' più
di mezz'ora.
Il
foyer e i corridori dell'università si rivelarono ben presto una
sfida e il buonumore di Charlie fu ben presto smorzato. Sguardi e
bisbigli lo seguivano dappertutto, la gente lo additava e sussurrava a
bassa voce con espressioni di meraviglia. Charlie poteva immaginare
perché; in fin dei conti non era ufficiale che era ritornato al
mondo dei vivi. Eppure avrebbe preferito rinunciare agli sguardi
curiosi e invadenti, tanto più perché venivano anche da studenti
che non aveva mai visto prima. Era vero, qui e lì vedeva una faccia
famigliare, ma per la maggior parte degli studenti non era sicuro e
scorgendo tante facce sconosciute si chiese se invece avesse dovuto
conoscerle.
I
tre si fermarono davanti alla porta di un ufficio che Charlie
conosceva benissimo. Era la sua porta.
Amita
bussò e lui sentì addosso i loro sguardi curiosi, le occhiate
indagatrici per sapere se ricordava o meno.
«Entrate!»
udirono una voce smorzata e mentre entravano nell'ufficio, davanti
agli occhi di Charlie apparirono immagini delle innumerevoli volte che
era passato per questa porta, di solito in modo meccanico – era
sempre stata solo una procedura poco impegnativa che adesso, invece
significava talmente tanto per lui, adesso che era finalmente sicuro
di ricordare qualcosa...
Era
diverso.
Ciò
che aveva di fronte non era quello che aspettava. Per un momento fu
sicuro che il battito del suo cuore si sarebbe fermato. Tutto era
diverso... Beh', i mobili erano ancora come li ricordava e c'erano
qualche rassomiglianza generale, ma tutti gli oggetti personali...
Oggetti
personali. Ecco. Lì non c'erano le sue cose, certo che no, ma quelle
del possessore attuale dell'ufficio, questo era innegabile, logico e
non escludeva che la sua memoria gli avesse dato informazioni veri.
«Buongiorno,
Charles! Non sa quanto sia bello vederla vivo e vegeto».
Solo
in quel momento Charlie prestò attenzione all'uomo davanti a lui.
Era più anziano di lui, alla fine dei sessanta, ma sembrava alquanto
in forma. Certo, i capelli erano grigi, ma sia la parte calva della
testa sia le rughe stavano nei limiti e anche gli occhi non avevano
perso lo sguardo intelligente e sveglio. Anche i movimenti non erano
stanchi, ma risoluti e scorrevoli quando andò verso Charlie
porgendogli la sua mano.
«Probabilmente
non si ricorda di me» aggiunse, con un sorriso apologetico, al suo
saluto esuberante, «io –»
Ma
Charlie lo interruppe. «No, la ricordo». Tre persone trattenerono
il fiato. Era possibile...? «Walter Bell; insegna matematica qui. Ma
era andato in pensione da tre o quattro semestri. E' ritornato quando
la CalSci all'ultimo momento aveva bisogno di una sostituzione,
perché io sono dovuto... partire...»
Charlie
esitò. Sì, lo ricordava di nuovo. Ricordava che doveva partire per
una missione e che la CalSci aveva richiamato Walter Bell dato che
con un così breve preavviso non avevano trovato una sostituzione per
il mese in cui, probabilmente, Charlie sarebbe stato via. E poi lui
era partito, con uomini in completo formale, e poi...
Per
qualche momento ci fu silenzio e la paura cominciò ad insinuarsi di
nuovo in Charlie. Non era giusto? Quell'uomo non era il suo
ex-collega Walter? Aveva di nuovo sbagliato? Immaginava solo quelli
che credeva ricordi? Deglutì.
«Qualcosa...
non va?»
Il
silenzio svanì in sollievo.
«Ma
sì, Charlie, va tutto bene» disse Amita, suonando ancora incredula.
«Più
di “bene”» aggiunse Larry. «Tutto quello che hai detto è
giusto».
Il
sorriso di Bell divenne più largo. «Considerando le circostanze
posso dirle che mi sento molto onorato che si ricordi di me».
Anche
Charlie sorrise, ma più per cortesia che altro. Non sapeva perché,
tra tutta la gente, poteva ricordare proprio il professore Bell. Non
aveva una relazione stretta con quell'uomo; erano colleghi, niente di
più. Ma non voleva lamentarsi. A quanto dicevano gli altri, la sua
memoria ricordava; quella era già una buonissima ragione per
dubitare un po' di meno della sua sanità mentale.
«Mi
dispiace» disse Walter, dopo un breve sguardo al suo orologio.
«Purtroppo adesso devo andare alla mia lezione. Ma può
accompagnarmi se vuole; sono i suoi studenti del quarto semestre».
«No,
grazie» rispose Charlie cortesemente e prendendo ancora un po' le
sue distanze. Poteva rinunciare alla folla e gli sguardi curiosi.
«Beh',
può anche rimanere qui, naturalmente, e guardarsi un po' attorno, se
può aiutarla» gli consigliò Bell. Ad un tratto sembrava che si
sentisse un po' a disagio. «Mi dispiace però che non vedrà molte
cose che gli sembreranno famigliari. Come probabilmente sa, le sue
cose personali sono state rimosse da quest'ufficio dopo che... dopo
che sembrava non sarebbe tornato».
Sembrava
aspettare una risposta da Charlie e così ci fu un silenzio
sgradevole prima che cominciasse di nuovo a parlare.
«Ma
la prego, non pensi che l'avessimo semplicemente sostituito. Se sono
ben informato, la CalSci non ha ancora deciso chi sarebbe stato il
suo successore. Io sono solo una transizione, capisce. Dopo che lei
non è tornato, la CalSci mi ha chiesto di riempire il vuoto per uno
o due semestri finché non avessero trovato una sostituzione. Ma non
appena lo desidera può di nuovo occupare il suo posto, Charles». Il
suo sorriso era ritornato, benché sembrasse ancora un po' insicuro.
«Grazie»
disse Charlie cortesemente. Non sapeva se avrebbe mai voluto tornare
ad insegnare. Non ci aveva pensato finora. Solo adesso che ci pensava
e ricordava com'era stato una volta... studenti che lo ascoltavano
con attenzione... che cominciavano a sviluppare proprie idee... che
apprendevano ogni giorno un po' di più... Sì, rifletté Charlie,
gli era davvero piaciuto. E probabilmente gli sarebbe piaciuto
ancora. Ma non proprio adesso.
Di
nuovo si diedero la mano prima Bell svanisse e anche Larry ed Amita
annunciassero di dover andare alle loro lezioni.
«Sicuro
che starai bene da solo?» chiese Amita. Gradualmente sembrava
aprirsi e perdere il suo nervosismo, man mano che in quel Charlie
riconosceva il suo Charlie.
«Certo».
«Va
bene. Se hai bisogno di noi, io sarò nel locale D216 e Larry farà
una lezione nella vecchia sala al piano di sopra». Esitò,
riflettendo su come avrebbe meglio potuto descrivere il cammino per
le aule.
Larry
venne in suo aiuto. «Si trova...»
«So
dove si trovano. Grazie».
«Bene...
Bene. Allora... ci vediamo dopo».
Charlie
annuì, sorridendo loro brevemente. Amita gli diede un sorriso
raggiante, incoraggiante anche, mentre Larry svanì già, e in quel
momento Charlie vide la sua opportunità. Abbandonò la costrizione
che si era imposto durante i giorni passati e fece qualcosa che aveva
voluto fare da tanto: baciò Amita.
Fu
solo un bacio svelto, fugace, e solo sulla guancia, ma nondimeno sia
lui sia lei diventarono rossi come un peperone. Per un istante
Charlie temette di aver rovinato tutto. Si guardarono negli occhi,
per lungo tempo. E poi sulla faccia di Amita apparve di nuovo un
sorriso che cacciò via lo stupore.
«Devo
andare adesso» disse a bassa voce, esitò brevemente e poi ripetette
il gesto un po' maldestro di affetto. Il suo sorriso fu ancora più
raggiante quando si congedò definitivamente da Charlie. Lui
sogghignò un po' scioccamente mentre ancora la guardava, poi chiuse
la porta dietro a sé e si voltò verso la stanza.
Per
qualche istante restò ancora in quella dimensione sospesa in cui
l'aveva portato Amita. Era semplicemente troppo bello per essere
vero... Sembravano amarsi così tanto... come prima della sua
partenza, se non di più. E che male poteva succedergli se Amita era
al suo fianco?
Infine,
diede ad Amita un posto separato nella sua mente e fissò la sua
attenzione di nuovo sul tentativo di ricordare, esaminando l'ufficio
più attentamente.
Si
guardò intorno, prese alcuni
libri in mano, li sfogliò, andò alla finestra e guardò fuori. Lì
tutto era a posto. Però l'immagine dentro non concordava
perfettamente con la sua memoria. I mobili non erano cambiati, ma
sugli scaffali un tempo c'erano stati altri oggetti, definitivamente
di più di quanti invece cerano ora, la scrivania era stata più
sovraccaricata, con pile di documenti... Ma tutti quelli erano
cambiamenti possibili anche nella realtà, non solo nella sua testa.
Sì, ricordava, quello era stato il suo ufficio una volta, lo sapeva
di nuovo, poteva ricordare.
La
porta si aprì e per un istante non seppe se fosse davvero riuscito a
mettere a fuoco immagini vecchie che erano nella sua memoria, oppure
se stesse succedendo nella realtà. Perché erano parallele, ma le
immagini non concordavano.
Due
uomini in abito scuro entrarono nell'ufficio. Diedero un breve cenno
col capo a Charlie, si tolsero gli occhiali da sole, e uno dei due
chiese in un tono freddo con professionalità: «Professor
Eppes?»
Charlie
lasciò cadere la sua mano con il pezzettino di gesso, ma levò le
sopracciglia in compenso. «Sono io. Che posso fare per lei?»
«Per
parlare di questo ci vogliono una località più sicura e più
tempo». Il sorriso che durante la sua risposta apparve sulle labbra
del secondo uomo era talmente freddo che Charlie rabbrividì.
«Professor
Eppes?»
Charlie
deglutì. Era stato solo il pezzettino di un ricordo, ma sapeva che
era davvero accaduto, che poco prima della sua scomparsa erano
davvero venuti due uomini in abito scuro nel suo ufficio, proprio
come adesso, per quanto Charlie non credesse che fossero gli stessi
uomini.
«Sì...»
rispose e la sua voce era fioca.
«Dobbiamo
chiederla di venire con noi» disse l'uomo in abito – questa volta
uno senza occhiali da sole – e senza preamboli: «La prego di
voltarsi, faccia al muro, e di mettere le mani sopra la testa».
In
quel momento Charlie non era certo che non stesse immaginando tutto.
«Chiedo scusa, ma penso...»
«Ha
capito bene, mi creda» disse l'altro. «E adesso si volti e metta le
mani in alto. E' in arresto per la protezione della sicurezza
nazionale».
L'uomo
più alto mise gli occhiali da sole nella tasca della sua camicetta.
«Il governo ha bisogno del suo aiuto, Dottor Eppes. E' per la
protezione della sicurezza nazionale».
Charlie
era ancora troppo confuso per opporre resistenza e si voltò quasi
automaticamente verso la lavagna. Il verde sembrò stimolarlo
abbastanza da fargli ritrovare la voce.
«Ma
voi chi siete?»
«CIA»
fu la breve risposta mentre tirarono giù le sue mani e gli misero le
manette.
Le
tre lettere risuonarono nelle orecchie di Charlie mentre lo portarono
dal suo ufficio lungo il corridoio, passando tra studenti e
professori che avevano un aspetto curioso e confuso.
«Che
cosa sta succedendo? Che volete da me?»
«Vorremmo
farle qualche domanda» venne la risposta viscida mentre andarono
verso un veicolo scuro. Charlie non riusciva a credere che tutto
quello stesse davvero succedendo. Perché nessuno interveniva?
«Charlie?!»
Di
nuovo Charlie era insicuro se il grido fosse venuto solo dalla sua
mente, però quando si voltò, il meglio possibile considerando la
presa ferma del suo sorvegliante, poteva vedere distintamente il viso
di Amita che stava in cima alla scalinata, davanti all'entrata.
«Mi
hanno arrestato!» gridò verso lei, e adesso avevano raggiunto la
macchina e stavano piegando in giù la sua testa mentre lo spingevano
nel veicolo. Uno degli uomini si sedette accanto a lui sul sedile
posteriore. I suoi occhi vigili si accorsero dell'ombra di
disperazione che attraversò lo sguardo di Charlie quando questi si
voltò verso l'edificio e poi verso quel viso che era appena
diventato famigliare.
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Capitolo 24 *** Déjà vu ***
nonti24
Grazie per le recensioni :)
24.
Déjà vu
You’ll
get no answer,
No
use in calling
Because
I’m leaving on Monday morning.
(Melanie
Fiona, Monday Morning)
«Ma
ve l’ho detto! Era lungo almeno un metro! E pesava una trentina di
chili!»
«Certo,
Colby» disse David con un sogghigno condiscendente. «Se lo dici
tu».
Megan
tentava di soffocare una risata mentre Colby continuava a parlare,
senza, evidentemente, dare importanza al fatto che i suoi colleghi
stessero ridendo.
«In
ogni caso avevamo solo una piccola barca a remi» continuò Colby.
«Con un motoscafo non ci sarebbe stato nessun problema; non avrebbe
ballato così tanto nell'acqua. Ma io e mio padre erano in quella
barchetta e ad un tratto quel pesce gigantesco aveva abboccato. Io,
certo, punto i piedi immediatamente contro una delle pedane, ma il
pesce tira nell'altra direzione e sviluppa la forza di un leone.
Anch'io resisto, ma ciononostante mi avrebbe probabilmente tirato
fuori dalla barca se mio padre non mi avesse tenuto. A quel punto la
barca è già inclinata di molto verso l'acqua, ma noi manteniamo
l'equilibro. E ad un tratto sentiamo uno “zaff”, cadiamo
all'indietro e un attimo dopo la nostra barca galleggia sull'acqua
con la chiglia in alto».
David
e Megan risero; l'idea di un Colby con uno sguardo stupito in un
piccolo fiume con alghe nei capelli aveva qualcosa di molto buffo.
Anche il diretto interessato sogghignò, rallegrandosi del
successo che aveva avuto con la sua piccola recita, e lo stesso Don
dovette constatare di avere un sorrisetto sulle labbra. Sapeva che
tra un po’ avrebbe mandato via dalla cucina la sua squadra per
cominciate il lavoro, ma per il momento riusciva a tenere a bada per
un altro po' il suo senso del dovere fin troppo sviluppato. C'era
semplicemente troppa normalità nella situazione per farla finire
così presto.
Però
non era lui a deciderlo, e il suo cellulare lo chiamò nella vita
quotidiana del suo lavoro.
«Eppes».
«Don?
Qualcosa non va qui! Non so che cosa sta succedendo, ma c'è qualcosa
di sospetto e –»
«Amita,
calmati» disse Don in modo deciso mentre il nervosismo si stava di
nuovo svegliando. Amita era molto agitata e siccome era attualmente
alla CalSci insieme a Charlie, e considerando gli avvenimenti più
recenti, Don aveva un timore molto specifico e molto spiacevole per
la sua agitazione. «Cos'è successo?»
«Si
tratta di Charlie!» rispose Amita confermando immediatamente i suoi
presentimenti e il sentimento spiacevole nel suo stomaco. «L’hanno
preso!»
«Cosa?!»
La
squadra si voltò verso lui, le loro facce sorridenti ora gelate, ma
Don se ne accorse appena.
«L'hanno
preso, ma non so per portarlo dove e non posso – »
«Amita,
calmati, ti prego!» Perché se Amita non si calmava, come poteva
rimanere calmo lui? «Chi l'ha preso? Cos'è successo?»
«La
polizia».
«La
polizia?» ripeté Don incredulo. La sua preoccupazione era diminuita
un po', ma in cambio la sua confusione era cresciuta. Il suo
fratellino era stato condotto via dalla polizia? «Che diavolo è
successo da voi, Amita?»
«Niente!
Era tutto normale! Abbiamo mostrato a Charlie il suo vecchio ufficio
e l'ha riconosciuto e poi Larry, io e Walter siamo andati alle nostre
rispettive lezioni e quando sono tornata ho visto Charlie che veniva
condotto via da questi due tipi. Li ho visti solo di spalle, ma
potevo scorgere chiaramente che gli avevano messo delle manette,
tirando indietro le braccia; poi sono saliti in una macchina e sono
andati via».
Don
aveva già preso le chiavi e la giacca, ma poi si arrestò. Se
Charlie era stato preso in custodia dalla polizia, non avrebbe potuto
trovare più informazioni lì, ma forse ne avrebbe ottenute
dall'ufficio.
«Chi
erano questi due tipi, Amita? Erano dall'LAPD?»
La
sua squadra lo guardava teso, però con espressioni confuse – quasi
non diede loro attenzione.
«No,
erano vestiti in abito. Avevano l'aspetto di agenti, forse dalla NSA,
non lo so, Don!»
«Va
bene, Amita, va bene. Che mi dici della macchina? Aveva qualche
scritta particolare? Oppure hai visto la targa?»
«No,
non lo ricordo, mi dispiace! Semplicemente non ci ho pensato... Ma
non c'era scritto niente sulla macchina, era un KIA normalissima, un
SUV».
«Va
bene, Amita, va tutto bene. Ti chiamerò non appena avrò trovato
qualcosa e lo farai anche tu, va bene? Tutto questo sarà sicuramente
solo un malinteso».
Un
malinteso non sembrava essere l'espressione giusta; piuttosto non
c’era nulla che potesse essere inteso. Benché Amita avesse detto
che gli uomini erano vestiti in abito e non in divisa, Don tentò
prima l'LAPD. Nessuno lì sapeva nulla dell’arresto di un Dott.
Eppes, ma l'ufficiale al telefono conosceva Don e un po’ anche
Charlie e gli promise che avrebbe chiesto in giro, anche in altri
dipartimenti, ed eventualmente lo avrebbe avvisato.
Poi
fu il turno dell’FBI. Beh', non sapeva niente di un’inchiesta
contro Charlie, ma questo non voleva dire nulla. Tuttavia anche qui
le sue indagini non ebbero successo. Nessuno nell'ufficio sapeva
qualcosa dell'arresto di Charlie, ma tutti promisero di far
attenzione.
Don
raggiunse risultati simili chiedendo nelle altre agenzie
investigative. Questa volta ricevette una risposta anche dall'NSA,
benché fosse una negativa. Con la CIA ci aveva messo un po', ma alla
fine anche lì era arrivata una risposta: neanche loro sapevano nulla
e Don ebbe lo stesso risultato quando la sera ricevette infine una
risposta anche dal DOD, il ministero della difesa.
Dall’Interpol
– l'idea era venuta a Don durante la sua telefonata alla NSA –
non aveva ancora ottenuto niente, ma comunque dubitava che altri
continenti erano in gioco in questa faccenda, benché naturalmente
non volesse escluderne la possibilità. Però a differenza di tutti i
suoi tentativi, il cattivo sentimento nel suo stomaco, che era nato
durante la telefonata con Amita, era continuato a crescere, e Don non
riusciva più a far svanire il presentimento che stesse succedendo
qualcosa di molto meno innocuo di un arresto ufficiale. Charlie o
almeno il suo avvocato avrebbero dovuto chiamare nel frattempo, no?
Proprio
quando Don stava per dare libero sfogo al panico, il suo cellulare
suonò. L’assurda speranza che potesse essere Charlie venne
distrutta immediatamente quando sul display apparve "Amita".
«Charlie
è venuto da voi?» fu la sua prima domanda.
«No».
Il fatto che lui avesse atteso la risposta non la rese meno
costernante. «Ma mi è venuto in mente che quegli uomini hanno
parcheggiato nel campo visivo delle telecamere di sorveglianza».
Una
nuova speranza colse Don e con essa venne la determinazione. «Abbiamo
bisogno dei nastri immediatamente».
«Larry
ed io li abbiamo già guardati e corretti: non si poteva leggere la
targa, ma adesso, con qualche ottimizzazione, l'abbiamo resa
visibile. Tuttavia non possiamo ancora distinguere i volti degli
uomini».
Gli
diede il numero della targa e Don la ringraziò. Rifletté per un
attimo su se avesse dovuto incaricare Megan, David o Colby di
esaminare la traccia – lui stesso era desideroso di fare la
prossima chiamata – ma non voleva dar loro problemi. La scomparsa
di Charlie, arresto o meno che fosse, non era un loro caso e non
avevano una ragione giustificata per investigare. Dovevano attenersi
al loro caso, un vero caso. No, almeno per ora, Don avrebbe fatto le
sue indagini da solo. Infine, non era affatto sicuro che c'era
qualcosa di sospetto nella faccenda, vero?
La
macchina apparteneva a un'azienda che noleggiava automobili. Don le
telefonò, ma come aveva sospettato, non vollero dargli informazioni
al telefono.
Sbrigativamente
Don afferrò le chiavi del SUV. La faccenda sembrava far progressi,
anche se lentamente, ed era evidente che qualcosa non andava. Perché
un'autorità ufficiale avrebbe dovuto condurre Charlie via in un
automobile noleggiata?
«Vi
lascio per un po', va bene?» disse alla sua squadra ed era già
scomparso. Megan disse qualcosa, ma non ci fece attenzione. Qualcosa
non andava, già quella stupida missione di Charlie era stata
sospetta. All'epoca Don si era permesso di essere distratto dal lutto
e non aveva fatto altre indagini, ma questa volta non si sarebbe
lasciato distrarre da nessuno. Avrebbe scoperto che cosa stava
succedendo.
Come
si rivelò durante il pomeriggio, il noleggiatore della macchina
ricercata non esisteva. Era un fantasma. La carta d'identità era
stata falsificata e non si poteva riconoscere lo sconosciuto né dal
nastro del video di sorveglianza della CalSci né da quello
dell'azienda di noleggio di macchine. Le immagini erano troppo
sfocati e gli sconosciuti in qualche modo erano riusciti a mostrarsi
sempre e solo di fianco o di spalle. E al momento del noleggio, lo
sconosciuto non aveva solo, come quelli alla CalSci, indossato degli
occhiali da sole, ma anche un berretto di baseball che, malgrado una
risoluzione migliore, lo rendeva completamente irriconoscibile.
Amita
e Larry tentarono di migliorare in qualche modo la definizione delle
immagini per renderle utilizzabile, ma Don non voleva farci
affidamento. Voleva e doveva entrare in azione se non voleva piantare
suo fratello in asso. Perché adesso non poteva esserci nessun
dubbio: Charlie non era stato arrestato, ma sequestrato! Almeno sia
la macchina a noleggio sia tutte quelle circostanze misteriose erano
indicatori definitivi. E la circostanza che Charlie sembrava essere
come inghiottito dalla terra.
Don
si sentiva bloccato in un orribile déjà vu. Di nuovo veniva ammesso
da Jonathan D. Stevens sorprendentemente dopo poco tempo e trovava
nuovamente inquietante che fosse lui ad iniziare la loro
conversazione. E di nuovo si trattava di Charlie perché era
nuovamente scomparso in modo misterioso.
«Non
so se lei è già informato» cominciò Don dopo il saluto e raccontò
al suo superiore sia del ritorno di Charlie sia della sua nuova
scomparsa. Il panico e la paura, tremende, minacciavano di
sopraffarlo, ma li teneva a bada; doveva mantenere la calma. Il
contrario sarebbe potuto essere fatale sia per lui sia per Charlie.
Gli
avvenimenti sembravano essere delle novità per Jonathan D. Stevens;
o almeno così parve a Don, leggendo il suo viso.
«Effettivamente
la cosa non sembra tanto normale» ammise quando Don ebbe finito. «E
adesso, suppongo, mi sta chiedendo il permesso di investigare,
giusto?»
«Non
completamente» lo contraddisse Don, tentando di non mostrare tanto
la sua impazienza. Sentiva il forte bisogno di aiutare Charlie, di
fare qualcosa di utile. «Penso che siamo d'accordo sul fatto che
l’attuale scomparsa di Charlie abbia a che fare con quella di sei
mesi fa».
«Questo
non è detto».
Don
inarcò le sopracciglia. La furia stava per emergere, ma tentò di
rimanere calmo.
«Durante
la sua missione all'epoca, mio fratello è scomparso in circostanze
molto misteriose e dichiarato morto. E poco dopo che è riuscito a
tornare a casa viene di nuovo... rapito. E in tutti e due i casi c’è
di mezzo una qualche agenzia investigativa che però, guarda caso,
non si è mai presentata».
«Eppure
tutto potrebbe essere una coincidenza».
«Non
ci credo».
Stevens
sospirò. «Allora cosa vuole da me, agente Eppes?»
«All'epoca
non mi ha detto tutto quello che sapeva» rinfacciò al suo
superiore. Aveva sospettato già allora che Stevens sapesse qualcosa,
ma adesso ne era certo.
«Sta
fantasticando, Eppes».
«Non
credo. All'epoca era stato lei a dare l'ordine di terminare
l’indagine sulla scomparsa di mio fratello».
«Perché
lei non poteva presentare nuovi sviluppi».
«No.
Aveva detto che l'ordine di interrompere l’indagine veniva
dall'alto. Da quanto alto, signore? Chi c’è dietro questa
faccenda?»
Il
vice-direttore fece un sospiro, tacque per qualche istante e poi
guardò Don con un'espressione molto seria.
«Non
ne ho minima idea, Eppes. Le ho solo detto quello che mi ha detto il
mio superiore. Posso solo presumere che lei abbia avuto a che fare
con un avversario influente. E se è così, allora non verrà a
sapere niente anche da più in alto. Deve cercare di risolvere questo
caso in un altro modo».
Don
tacque. Ora era certo che il suo superiore non gli stesse nascondendo
nulla, ma purtroppo questo non lo aiutava. Perché Stevens aveva
ragione: se anche lui non sapeva nulla dei retroscena di questa
faccenda, anche Don avrebbe fatto un buco nell’acqua. Ma questo non
voleva dire che non ci avrebbe provato. Tuttavia per ora sarebbe
stato probabilmente più efficace trovare un “altro modo”, come
il vice-direttore aveva suggerito.
«Dunque
lei ci dà il permesso di investigare su... sulla scomparsa di
Charlie Eppes?» si assicurò.
Stevens
annuì. C'era un leggero sorriso sulle sue labbra. «Sì, lo faccio,
agente. Vada a riprendere il nostro consulente».
Don
non sapeva come si sentisse Stevens, ma lui provò una sgradevole
sensazione nel ricordare che l’ultima volta il suo superiore aveva
utilizzato quasi le stesse parole. E non poteva impedire che il
ricordo del suo fallimento e dell’esito della vicenda tornasse alla
mente.
-
- -
Anna
Silverstein aprì la porta di casa, entrò, mise le chiavi sul
piccolo comò, in corridoio e andò innanzitutto in bagno per
rinfrescarsi un po’ il viso. Lì in Mississippi faceva davvero più
caldo di quanto avesse immaginato. Il giorno prima si era anche
scottata lievemente stando sul balcone. Solo un segno che mostra
quanto il sole mi vizi, disse a sé, scacciando con un sorriso lo
stress del traffico delle ore di punta dalla faccia.
Si
osservò allo specchio e pensò che per una ragazza alla fine dei
venti avesse un aspetto abbastanza bello. Si chiese se dovesse
chiamare il suo nuovo
forse-sì-forse-no-ma-attualmente-piuttosto-sì-ragazzo, ma poi optò
per un no. Non c’era nulla di male a lasciarlo sulle spine per un
po’, non doveva pensare che fosse dipendente da lui. Non era più
dipendente da nessuno. Era libera. Libera, libera, libera...
La
cantilena l'accompagnò nella sua testa e, a bassa voce, sulle sue
labbra fino alla cucina. Cosa avrebbe cucinato quella sera? Aveva
voglia di qualcosa di un po' più stravagante. Forse cinese? Aveva
anche un wok nel suo buffet. Tailandese sarebbe stata un'altra ottima
idea. Oppure qualcosa di completamente diverso?
Stava
per guardare nel libro di cucina cercando altre proposte quando
credette di aver sentito un movimento dietro di lei, un basso fruscio
di stoffa. Sicuramente solo le tende, si rimproverò. In realtà non
avrebbe dovuto essere così paranoica, e non c'era nessuna ragione
per voltarsi, no, non avrebbe mostrato a sé stessa il suo lato
debole, non c'era niente... Ma non avrebbe visto nessuno se cedeva
alla sua mania di persecuzione.
Anna
Silverstein riuscì a voltarsi solo per metà. Dell'uomo che
l'afferrò poteva solo distinguere che era più alto che lei. Il suo
grido fu soffocato dalle mani di cuoio di lui e prima che potesse
cominciare a difendersi, il suo coltello da carne trapassò la gola
da parte a parte. Lei rantolò e cadde per terra.
Quella
sera, il suo coltello non avrebbe avuto nessun altro impiego, né
tailandese, né cinese.
Complimenti ad agrumi per le tue capacità divinatrici :)
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Capitolo 25 *** Déjà vu ***
nonti26
Grazie per le recensioni :)
25.
Déjà vu
Als
ein Spielball aller Winde
Come un giocattolo di tutti i venti,
Selbstkontrolle
nicht zu verliern,
non perdere
mai l’autocontrollo,
außer
Kopf und Kragen möglichst
e, se possibile,
doch
nicht allzuviel riskiern.
non rischiare troppo tranne la pelle.
(Pur,
Adler sollen fliegen ("Aquile devono volare"))
«Allora?
Di che cosa si tratta?»
Nella
luce chiara del sole e nei dintorni famigliari e sereni, le figure
nere avevano un’aria grottesca. Charlie non sapeva perché
credessero che fuori dal campus sarebbero stati meno disturbati o che
avrebbero corso un rischio minore di esser ascoltati, ma lui non
aveva niente in contrario. Perché lì, all'aria aperta, i due uomini
misteriosi perdevano gran parte della loro aura spaventosa.
«Si
tratta di lotta contro il terrorismo» rispose il più piccolo e, se
fino ad ora l’impressione di Charlie era giusta, anche il più
taciturno dei due. «Con questo, il governo la incarica di
contribuire alla lotta contro Al-Qa'ida analizzando i loro attentati
e tentando di costruire uno schema che ci dica quando, dove e come
l'organizzazione farà nuovi attentati».
Per
un attimo Charlie rimase di stucco. Terrorismo? Al-Qa'ida? Tutto
questo aveva un suono gigantesco. «Da quanto lavorate a questo
progetto? E con quanta gente?»
«Comprenderà
che possiamo darle informazioni più precise solo sul posto. Allora,
accetta l'incarico?»
Non
suonava proprio come una domanda.
Charlie
scosse la testa. Tutta quella storia era abbastanza pesante.
«E
dov’è esattamente “sul posto”? Quanto tempo durerà
l'incarico? Io ho un lavoro qui».
«Non
crede che il suo paese abbia la precedenza sul suo lavoro? Ma non si
preoccupi, ci occuperemo che la sua temporanea assenza non si
ripercuota su di esso. E' indispensabile che venga con noi, non solo
a causa della segretezza, ma anche per ragioni pratiche, come lo
scambio di informazioni. Non può sapere dove andremo».
«E
per quanto tempo?» ripeté Charlie e non fece il minimo tentativo di
nascondere la sua irritazione per quel trattamento.
«Dipende
da lei. Dalle informazioni che abbiamo sui suoi incarichi con le
altre agenzie, stimiamo che non durerà più di due o tre mesi».
Charlie
aggrottò la fronte. «Due o tre mesi per analizzare gli attentati di
un'organizzazione vasta come Al-Qa'ida?»
«La
nostra agenzia attualmente si interessa solo degli attentati in un
paese specifico e perciò dell’attività di poche cellule».
«Quale
paese? E quale agenzia? Voi, chi siete?»
«Le
sarà detto tutto non appena verrà con noi».
Charlie
scosse il capo. C'era qualcosa di molto sospetto in quella faccenda.
«Mi
dispiace, ma in queste circostanze temo che dovrò negarvi il mio
aiuto. O mi raccontate di che cosa si tratta o cercate qualcun
altro».
Con
un po' di soddisfazione Charlie osservò come i due agenti si
scambiarono uno sguardo. Era ovvio che non volessero rinunciare al
suo aiuto. E prima o poi avrebbero comunque dovuto dargli
informazioni più precise.
«Si
tratta dell'Arabia Saudita» gli rivelò il portavoce «Il governo
spera di poter combattere il terrorismo lì per poi insediare un
governo pro-americano, sia per dare alla gente di quel paese la
libertà che meritano, sia per ridurre il pericolo di un attentato ai
danni degli Stati Uniti ottenendo così un nuovo alleato».
Charlie
annuì. Questo suonava plausibile, anche se si chiedeva se la libertà
della gente dell'Arabia Saudita e la protezione degli Stati Uniti
fossero davvero le uniche ragioni per cui preferivano un governo
pro-americano. «E voi, chi siete?» ripeté.
«Siamo
della CIA».
Oh-oh.
Quello non gli piaceva. «CIA?» ripeté Charlie, accorgendosi un po'
irritato di dover deglutire. Ad un tratto si sentiva abbastanza a
disagio. Tutti sapevano – no, non sapevano – tutti
sospettavano che la CIA agisse spesso per vie non del tutto legali.
«Esatto.
Allora, Dottore? Aiuterà il suo governo?»
«Posso
rifletterci un po'?»
«Che
c'è da rifletterci? Il suo paese ha bisogno di lei, Dottor Eppes».
«E'
ciò che mi dite voi. Ma chi mi dice che posso fidarmi? Non se la
prenda con me, ma ormai anche i bambini sanno delle… cose» –
Charlie aveva evitato di chiamarle “crimini” – «di cui la CIA
si è resa colpevole». Tra cui varie provocazioni di colpi di stato,
interventi o suscitazioni dubbiose di operazioni belliche e
naturalmente i più recenti coinvolgimenti nella guerra al
terrorismo, incluso Guantánamo...
«Ma
dai, professore, queste cose sono il passato. Allora la CIA non era
ancora ciò che è oggi. Lei non vorrà dare a me e ai miei colleghi
la colpa per ciò che è successo durante gli anni sessanta o anche
prima!»
«No,
ma nondimeno –»
«Va
bene, non ha fiducia in noi. Ma pensi un po' in modo logico,
professore, come un matematico, dovrebbe esserne capace: è giusto
rifiutarci il suo aiuto anche se questo potrebbe contribuire a
portare ad un esito positivo la lotta al terrorismo nel Medio
Oriente? E questo solo perché un dipartimento, una volta su cento,
ha preso la decisione sbagliata? Anche se alcune delle nostre
attività sono discutibili, che cosa ha a che fare con la sua
collaborazione in quel caso specifico? Il terrorismo è e rimane
terrorismo e deve esser impedito, oppure è di un'opinione diversa?»
Charlie
non rispose. Anche se non gli piaceva doveva ammettere che c'era un
pezzo di verità nelle parole di quell'agente.
«Ci
rifletta» disse l'agente. «Torneremo fra un'ora. Speriamo che non
voglia deludere il suo paese».
Detto
ciò, lasciarono solo Charlie.
Lui
si lasciò cadere su una panchina, la testa tra le mani e lo sguardo
che vagava senza meta per il campus come se potesse trovare la
risposta lì da qualche parte. Invano, certo. Era vero, non aveva
fiducia in quei due agenti – aveva già sentito troppe storie di
crimini e sbagli della CIA – ma se anche la CIA aveva avuto scopi
poco onesti, questo non avrebbe cambiato il fatto che Charlie avrebbe
potuto, con la sua collaborazione, contribuire alla lotta contro il
terrorismo e così salvare innumerevoli vite umane, no? E in
confronto alle altre azioni della CIA di cui Charlie aveva già
sentito parlare, quella suonava abbastanza ragionevole: analizzare i
passi dell'avversario, poi prevedere i successivi... Queste erano
cose che di tanto in tanto faceva anche per Don. Allora forse avrebbe
causato più danno negando il suo aiuto che, invece, se si fosse
messo a disposizione alla CIA, dal momento che senza la sua
collaborazione sarebbero stati costretti di utilizzare mezzi meno
legali per raggiungere i loro scopi?
Charlie
avrebbe voluto tanto parlarne con qualcuno, ma un'ora non era tanto
tempo per riflettere sulla faccenda e poi avrebbe comunque dovuto
trovare qualcuno con uno stato di sicurezza abbastanza alto da
poterlo mettere a parte di segreti simili sulla lotta al terrorismo.
Tuttavia
tentò di immaginare cosa gli avrebbero consigliato. Amita
probabilmente si sarebbe preoccupata, ma avrebbe capito che doveva
farlo per il suo paese. Larry avrebbe fatto qualche allusione cifrata
che probabilmente avrebbe portato alla conclusione che Charlie doveva
sapere da solo che cosa fare e che nessuno poteva prendere quella
decisione al suo posto. Anche suo padre probabilmente sarebbe stato
preoccupato, ma anche molto fiero di lui, se Charlie avesse accettato
l’incarico per la salvaguardia della pace e della sicurezza nel suo
paese (o almeno Alan l’avrebbe pensata così se non avesse saputo
che il committente era la CIA). E Don...
Un
ricordo gli venne improvvisamente in mente. “Devi conoscere le tue
priorità, Charlie!” aveva detto Don. Era stato irritato e snervato
perché Charlie si era occupato solo allora di un caso che Don gli
aveva dato il giorno prima. No, nessuno dubbio, Don avrebbe preteso
che Charlie servisse il suo paese. E forse... forse Charlie avrebbe
potuto anche impressionarlo accettando quell’incarico?
Quando
gli agenti tornarono un'ora più tardi, Charlie ce l'aveva fatta a
farsi coraggio. Non era ancora davvero convinto di fare la cosa
giusta, ma trovava che c'erano in ogni caso più ragioni per
accettare l'incarico che per rifiutare. Sarebbe probabilmente stato
in grado di aiutare un sacco di persone. E nondimeno, l'incarico
aveva un suono promettente ed eccitante. Quasi un po' troppo
eccitante, considerando che in fondo non aveva nessun'idea di cosa
fosse ciò a cui stava per dare il suo consenso.
Stava
ancora riflettendo su come dirlo agli altri quando questi si
accorsero che aveva un peso sul cuore.
«Qualcosa
non va, Charlie?» chiese suo padre appena Charlie si era unito a lui
e Don nel soggiorno.
Siccome
avrebbe dovuto dirlo prima o poi, decise che poteva semplicemente
farlo subito. Anche Amita aveva reagito abbastanza bene quel
pomeriggio quando ne era stata messa al corrente. E dopotutto non era
pericoloso. Avrebbe fatto calcoli, come sempre, solo che questa volta
non li avrebbe fatti a casa, ma... beh, dovunque fosse.
«Non
sarò qui per qualche settimana» disse loro.
I
due lo fissarono. «Che stai dicendo?» chiese Alan confuso.
«Ho
accettato un incarico. Comincerò giovedì e ritornerò probabilmente
entro un mese». Almeno era ciò che Charlie sperava, ma dopo aver
accettato e in seguito ricevuto altre informazioni più precise,
trovò che l’incarico sarebbe stato più che finito in un mese.
«Da
dove tornerai? Dove andrai? E che tipo di incarico è?»
Charlie
deglutì. Sapeva che a Don non sarebbe piaciuta la risposta. «Non
posso dirvelo».
«Che
vuol dire, “non posso dirlo”? Per conto di chi lavorerai? E che
cosa dovrai fare?»
«Non
posso dirvelo, Don. Ti prego, lascia stare».
«Lascia
stare? Dai, Charlie, questa faccenda puzza! Non puoi accettare questo
dannato incarico!»
«Ma
ho già accettato, Don!» Anche Charlie adesso diventò più
irritato. «Semplicemente rassegnatici. E' la mia decisione e tu la
devi accettare, che ti piaccia o meno».
Charlie
sospirò. No, Don non aveva mai accettato la sua decisione. Anzi
quando era partito da solo per prendere il suo volo, nell'incertezza,
insieme agli agenti, Don aveva tentato di dissuaderlo. Charlie però
era rimasto fermo. Aveva preso la sua decisione e non avrebbe potuto
cambiare niente adesso. Aveva dato la sua parola, e mancare a una
parola data per lui era fuori questione. E il fatto che Don sembrava
volergli dire come condurre la propria vita aveva solo rafforzato la
sua ostinazione e l'aveva reso ancora meno collaborativo. Che diritto
aveva Don di immischiarsi nelle sue faccende?
Infine,
Charlie l'aveva evitato: ce l'aveva fatta a liberarsi di Don e ad
andare con gli agente della CIA. Si era sentito sollevato quando il
piccolo jet si era finalmente alzato in volo e in quel momento gli
interessava appena sapere dove stessero andando.
Solo
adesso si accorgeva che ovviamente aveva fatto un errore. La CIA era
ritornata e l'aveva di nuovo preso con sé – solo questa volta non
era stato volontario. Inizialmente aveva continuato a chiedere che
cosa volesse dire tutto quello, ma non gli avevano risposto, solo
detto di fare silenzio. Anche quando si erano spostati dalla macchina
in un elicottero, non gli avevano dato informazioni.
Charlie
si chiedeva che cosa volessero da lui. In ogni caso quello non era un
arresto normale; sia il comportamento taciturno sia la mancanza di
ogni tipo rispetto della legge facevano pensare il contrario. E nel
frattempo credeva che i suoi avversari fossero capaci di tutto, anche
se non ricordava da dove venisse la sua diffidenza. Ma loro sapevano
che lui poteva ricordare, se non tutto, sempre più cose man mano che
passava il tempo? E se lo avessero saputo sarebbe cambiato qualcosa
nei loro piani? Che cosa ne avrebbero fatto di lui?
E
che cosa gli avevano già fatto?
Charlie
chiuse di nuovo gli occhi – e lo fece benché fossero già coperti
– per immergersi di nuovo nelle profondità della sua memoria. Se
non poteva sfuggire a questi uomini voleva almeno provare a
ricordarli. Perché sicuramente non avrebbe detto loro che cosa
sapeva già, ma allo stesso tempo avrebbe tentato di trovare il più
presto possibile anche il resto di ciò che era successo all'epoca.
Doveva saperlo. Perché in ogni caso non avrebbe dovuto credere a ciò
che gli raccontavano gli agenti.
Però
non ottenne molto. Dopo gli sforzi della prima memoria, il suo
cervello sembrava essere una matassa contorta e non importava quanto
tentasse di tornare a momenti della sua prigionia non solo
fisicamente, ma anche mentalmente – semplicemente non riusciva a
concentrarsi.
Finalmente
– dovevano esser passate ore – l'elicottero atterrò. Charlie fu
spinto fuori e una o più mani tirarono con forza la sua giacca,
trascinandolo via dalle pale rumorose, ma già dopo pochi passi
quella libertà per i suoi piedi svanì ed fu di nuovo costretto a
sedersi. Quando sentì il motore e il posto in cui si trovava
mettersi in moto, Charlie distinse che doveva trovarsi in un qualche
veicolo da trasporto.
Il
viaggio durò molto. Charlie calcolò che dovevano essere passate due
o tre ore. Però era difficile mantenere l'orientamento, sia quello
locale, sia quella temporale. Quella benda stava per farlo impazzire.
Di
nuovo si fermarono, di nuovo fu tirato in piedi. Sentiva che doveva
esserci asfalto o calcestruzzo sotto le sue scarpe da tennis, ma già
dopo pochi passi il terreno diventò più molle. Terra,
pensò Charlie mentre ascoltava come il veicolo si allontanava da
loro. Sembrava come se si fossero semplicemente fermati in mezzo alla
strada o simile, li avessero fatti scendere e l’autista se ne fosse
andato.
Dalle
mani che rimanevano – dopo pochi minuti Charlie era quasi sicuro
che dovessero essere due uomini – veniva trascinato e colpito così
che andasse avanti; lui incespicava, barcollava avanti, cieco,
attraverso un paesaggio sconosciuto. Doveva essere da qualche parte
nella natura; poteva sentire il cinguettio di uccelli e lo stormire
del vento tra gli alberi. Però ciò era tutto quello che poteva
distinguere. Dopo un'eternità – di nuovo dovevano essere passate
tre o quattro ore – il rumore degli uccelli e degli alberi
scomparve. Venne guidato giù per delle scale e sentì che qui faceva
un po' più freddo. Venne spinto in avanti, in direzioni diverse
finché alla fine non perse completamente l’orientamento. Poi, si
sedette su una sedia e gli fu tolta la benda dagli occhi.
Respirando
in modo violento, Charlie socchiuse gli occhi. La stanza era immersa
in una luce crepuscolare eppure ci volle un po' di tempo perché i
suoi occhi, dopo l'oscurità delle ore passate, considerassero la
luce sopportabile e poi, finalmente, Charlie vide che era seduto
davanti a un tavolo, di fronte a un uomo in un abito scuro. Dietro di
sé poteva più sentire che vedere altri due uomini, ma non osava
girarsi intorno. Comunque la sua attenzione era quasi esclusivamente
diretta su quell'uomo davanti a lui che aveva un’aria così
familiare...
«Ecco,
dottore, questo sarà il suo studio per il mese seguente. Si rivolga
a Dexter Johnson nel caso abbia bisogno di qualsiasi cosa. Per il
resto le auguro un buon lavoro».
«Ecco,
dottore. Sembra che lei sia piuttosto nei guai, non pensa?»
«Di
che sta parlando? Che cosa volete da me? Non potete trattenermi qui!»
«Oh,
ma che tono aggressivo! Certo che possiamo trattenerla qui, Dottor
Eppes».
L'uomo
parlava con una certezza talmente naturale che ad un tratto Charlie
divenne insicuro. «No» contraddisse, ma più per convincere sé
stesso che l’altro. «Mi avete sequestrato, contro la mia volontà.
Non ne avete diritto».
«Sequestrato?
No, no, no, Dottore. Si sbaglia. L'abbiamo arrestata, da parte del
governo».
«Ma
io non ho fatto niente! Voglio parlare il mio avvocato».
«Lei
non ha fatto niente, ah sì».
«No,
niente!»
L'uomo
fece un sospiro. «Ma a chi vuole farlo credere, Dottore? Sappiamo
tutti che cos'ha fatto. Oppure vuole affermare di non ricordarlo?»
Charlie
scosse il capo. Era insicuro. «Non so di che cosa stia parlando. Non
ho commesso nessun crimine. Quando... quando l'avrei fatto, secondo
lei?»
«Circa
sei mesi fa, in ottobre. Avanti, negarlo non ha senso. Sappiamo che
cos'ha fatto, e adesso dovrà vedersela con le conseguenze».
Charlie
deglutì. Forse quest'uomo stava davvero dicendo la verità? Aveva
davvero commesso un crimine di cui non ricordava?
«Voglio
parlare col mio avvocato» ripeté Charlie. «Questo dovete
accordarmelo. Conosco i miei diritti».
«Potrà
parlare col suo avvocato a tempo debito, Dottore. Ma per ora noi
faremo due chiacchiere con lei».
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Capitolo 26 *** Prime conoscenze ***
nonti26
Grazie a BlackCobra :)
26.
Prime conoscenze
Another
head hangs lowly. Child is slowly taken.
And
the violence caused silence. Who are we mistaken?
But
you see, it’s not me. It’s not my family.
In
your head, in your head they are fighting
with
their tanks and their bombs and their bombs and their guns.
In
your head, in your head they are crying.
(The
Cranberries, Zombie)
«Che
volete da me?» chiese Charlie. Cercò di sembrare freddo e
controllato, ma non potè evitare del tutto che la sua voce
tremolasse un po'.
«Vogliamo
la sua collaborazione. Le diamo la possibilità di servire il suo
paese. E' vero, ha fatto un errore all'epoca, ma se assisterà il suo
governo adesso, forse potremmo trovare una soluzione piacevole per
tutti e due».
Charlie
aveva cominciato a scuotere il suo capo mentre l'uomo di fronte a lui
stava ancora parlando, più per una reazione del suo subconscio che
come risposta alla “domanda”. Aveva già un'idea abbastanza
specifica del tipo di aiuto che volevano da lui e non l’avrebbe
messo a loro disposizione. Non ricordava che cosa avevano fatto
all'epoca, ma sapeva che doveva esser stato qualcosa di cattivo,
molto cattivo. E avrebbe preferito andare in prigione per ciò che
aveva fatto allora – se poi aveva davvero commesso un crimine
all'epoca.
«Di
cosa mi accusate?»
Charlie
deglutì, e non solo perché si stava mostrando più coraggioso di
come si sentisse in realtà. Che cosa sarebbe successo se fosse stato
accusato di complicità in un qualche crimine, qualunque fosse?
Perché all'inizio li aveva aiutati e non aveva smesso finché non si
era reso conto di cosa stesse facendo. E la violazione della legge
non scusava nessuno. Aveva fatto un errore anche se non ne era stato
consapevole – e non ne era tuttora –, anche se non sapeva quanto
grande e di che tipo fosse il danno che aveva causato.
Charlie
aveva freddo. Non era stata sua intenzione! Lui aveva solo voluto
aiutare le persone, servire il suo governo! E adesso – Adesso...
adesso quel governo lo accusava di aver commesso un crimine. Ma se
aveva lavorato per loro, allora come era potuto essere un crimine che
loro potevano punire? Oppure aveva fatto qualcosa dopo, dopo essersi
staccato da loro? Ma di che l'accusavano?
«Terrorismo»
fu la risposta e Charlie credette che qualcuno lo avesse buttato in
dell’acqua gelido. Terrorismo? L'accusavano di terrorismo?
Come veniva loro in mente una simile assurdità?!
«L'autunno
scorso lei ha finto di lavorare ad un progetto del governo. Invece si
è servito di questa mimetizzazione per progettare ed eseguire, o per
meglio dire fare in modo che altri eseguissero, atti terroristici».
Tutto
quello era assurdo.
«Ma
io non ho –» Charlie ammutolì. Certo, ciò che stava dicendo
quell'uomo era assolutamente falso. Aveva lottato contro il
terrorismo, non l'aveva praticato... giusto? Eppure quello avrebbe
spiegato quel frammento di memoria – Lei ha ucciso suo
fratello... – Ma quella scena era solo stato una messa in
scena, vero? Dopotutto Don era vivo… e allora il terrorismo non
avrebbe spiegato quella situazione, e non poteva essere,
semplicemente non poteva essere...
Charlie
aveva una paura tremenda, ma la sua ragione gli disse che quella
gente stava sbagliando. Non poteva ricordare di aver fatto un
qualsiasi tipo di crimine, almeno non consapevolmente, e ciò che era
ancora più importante: non poteva nemmeno immaginare ragioni che
avrebbero potuto spingerlo a commettere atti terroristici.
Quell’agenzia stava sbagliando.
Cioè...
Stava davvero sbagliando? Era un'agenzia, innanzitutto? No.
No, era estremamente improbabile che quelle persone lavorassero per
conto del governo. Non l'avevano arrestato, ma rapito: erano venuti
di soppiatto e poi erano scomparsi dalla scena e non gli stavano
accordavano i suoi diritti. Queste persone non erano un qualche tipo
di polizia, erano criminali. Così la probabilità che avessero
imprigionato Charlie per conto della legge statunitense calava in
modo inquietante. Dovevano sapere che Charlie non era un terrorista.
La domanda che restava era cosa intendevano fare affermando una cosa
del genere. E questo portava Charlie ad interrogarsi su come avrebbe
dovuto comportarsi.
«Che
cosa c'è?»
La
testa di Charlie si mosse verso l’alto e guardò direttamente negli
occhi l'uomo di fronte a lui. «Vuole dirci qualcosa, Dottor Eppes?»
Charlie
deglutì e scosse il capo. «No» disse con determinazione. «Voglio
parlare col mio avvocato».
Charlie
sapeva molto bene che la sua richiesta era utopistica e non si
aspettava affatto che queste persone l’avrebbero esaudita o che ci
avrebbero anche solo riflettuto. Però aveva bisogno di tempo per
riflettere, e non aveva ancora abbandonato la speranza di ottenerlo.
«Potrà
parlare col suo avvocato più tardi, Dottore». Stai scherzando?,
pensò Charlie tra di sé. «Ma considerando che persiste nei fare
appello ai suoi diritti in questo modo, perché non ci racconta la
sua versione della storia?»
Ma
Charlie rimase fermo. «Non dico più niente».
L'altro
sospirò. «Va bene. Se è questo ciò che vuole...» Non finì la
frase, ovviamente sperando di poter far parlare Charlie di più, ma
fallì.
«Imparerà
ad apprezzare la nostra offerta col tempo» disse poi e Charlie
resistette all'impulso di mandare un sospiro di sollievo. Quella
frase aveva un suono finale. «Ci pensi, ma lo faccia in fretta.
Quando il governo non avrà più bisogno del suo aiuto, lei sarà
davvero nei guai. A quel punto nemmeno io potrò fare qualcosa per
lei».
Ipocrita!
Charlie voleva dirglielo in faccia, però rimase fermo nel suo
silenzio stoico benché al suo interno fosse molto più agitato di
quanto dimostrasse.
-
- -
Al
suo interno, Alan era molto più agitato di quanto dimostrasse. Aveva
cercato di contattare Don dopo che l’ufficio di Bradford aveva
chiamato per chiedere perché Charlie non si fosse presentato
all’appuntamento. Perché quella era una domanda la cui risposta
interessava tremendamente anche Alan. Fino a quel momento, però, Don
non aveva risposto alle sue chiamate o reagito in un altro modo.
Infine
aveva contattato Amita. Lei gli aveva detto che delle persone avevano
preso Charlie con sé, ma chi, dove e perché non era ancora chiaro.
E la fiducia di Alan nella giurisdizione statale delle agenzie non
era abbastanza ferma perché non fosse preoccupato.
Ma
tentava di rimanere razionale. Più di una volta tentò di rinnegare
ogni teoria che conteneva pericoli per Charlie, ma non ci riuscì.
Semplicemente tutto era di nuovo emerso: la disperazione, il periodo
senza di lui, il periodo del lutto...
Alan
si proibì di pensare in quel modo. Charlie era stato arrestato. Una
volta era successo anche a lui. Un arresto, niente di più. E Don
avrebbe potuto certamente rispondere alle sue domande, sempre che
Charlie non fosse stato più veloce di suo fratello e fosse rientrato
da un momento all’altro. Forse tutto quello era solo un malinteso.
Forse uno sbaglio di identità. Tutto si sarebbe sicuramente chiarito
in breve tempo. Forse era per questo che Don non rispondeva alle sue
chiamate: in quel momento stava spiegando qualcosa a qualcuno,
dicendo loro che non c'era nessuna ragione per arrestare Charlie.
Esatto, prima l'avrebbe spiegato a loro e poi ad Alan.
Supposto
che fosse davvero in grado di poter spiegare la scomparsa di Charlie.
-
- -
Nella
piccola cella, Charlie andava su e giù, tentando di non guardare in
ogni direzione. Supponeva che l'osservassero, ma preferiva che la CIA
o chiunque fossero quegli uomini non avessero idea del suo
presentimento. Era difficile fare finta di nulla, ma lo aiutava il
fatto che voleva chiudersi in sé stesso per cercare di farsi
finalmente un’idea di cosa stesse succedendo.
Però
non lo aiutava affatto l'immagine di suo fratello intriso di sangue
che semplicemente non poteva far sparire...
Dai,
si disse. Don è vivo, questo lo sai. Non l'hai ucciso. E
sicuramente ti sta già cercando, ma tu dovresti aiutarlo nel miglior
modo possibile, allora concentrati!
Spinse
l'immagine da parte, ma tornò indietro. La sua determinazione
aumentò insieme alla sua disperazione e ad un tratto non era più
lì.
La
cella era piccola e non aveva finestre. E benché Charlie avesse
ricordato da poco l'ufficio in cui aveva lavorato per quattro
settimane e avesse odiato quello che aveva ricordato, gli mancava la
finestra che aveva visto lì. Era vero, la finestra nel suo ufficio
di una volta – no, non meritava la denominazione “ufficio” –
era collocata direttamente sotto il soffitto e non poteva guardare
fuori, nemmeno se fosse salito su una sedia. Certo, aveva potuto
guardar fuori dalla finestra, ma non fuori o almeno non per una
distanza ragionevole perché la finestra dava visibilità solo di un
pozzetto sopra di cui c'erano griglie attraverso le quali durante il
giorno la luce penetrava nella stanza. Si trovava dunque in uno
scantinato. Da qualche parte nel mondo. E di quel mondo fuori dalla
sua prigionia non vedeva niente più di quel pezzo lungo quasi un
metro fino a quel muro di calcestruzzo che, a quanto pareva, si
estendeva tutto intorno alla casa, simile a un fossato.
Se
quei pozzetti desolanti erano il fossato, allora quella cella era il
suo carcere. Adesso Charlie sapeva che era stato un errore enorme
raccontare ciò che aveva capito a Rosenthal. Avrebbe dovuto
riconoscere subito il pericolo appostato in quei freddi occhi blu.
Adesso
era troppo tardi. Non poteva uscire da lì. Solo loro venivano
dentro. Non sembravano ancora stanchi di chiedergli collaborazione.
Ma non l’avrebbe più fatto. Mai più. Non da quando aveva capito
quale atroce crimine stava succedendo lì.
Rabbrividì.
Non li avrebbe aiutati, non importava che cosa ne sarebbe stato lui.
Aveva già fatto troppo aiutandoli in passato. Era sufficiente per
una coscienza sporca a vita che probabilmente gli avrebbe fatto
perdere il sonno per anni. Perché anche se non aveva realizzato che
cosa stava facendo, l'aveva fatto comunque. E le suoi azioni avevano
contribuito a svariati crimini e in un grado considerevole. Era stato
lui a calcolare le località migliori per eventuali atti
terroristici. Le zone che, dal punto di vista dei terroristi, erano
più proficue. I punti che avrebbero colpito il governo con maggiore
danno. I punti con più vittime civili possibile.
Charlie
nascose il viso fra le mani che sentiva già sporche del sangue di
quelle persone innocenti. Il suo stomaco si ribellò benché fosse
quasi vuoto. La gola gli comprimeva l'aria; i suoi polmoni non
volevano più riempirsi. Come se volessero aiutarlo a esaudire il suo
desiderio, come se volessero rendere possibile la fine di tutto, far
sparire il dolore e il senso di colpa per sempre...
Una
parte di sé cercava di dirsi che sarebbe successo comunque, che
l'avrebbero fatto lo stesso. Non in un modo così efficace e molto
più vistosamente, ma probabilmente l'avrebbero fatto lo stesso.
Non
serviva a nulla. Li aveva aiutati, non importava se consapevolmente o
meno. Non avrebbe mai potuto fingere che non fosse successo.
Charlie
respirava velocemente. Ricordava di nuovo il dolore, il senso di
colpa – no, non era proprio giusto, non li ricordava, li sentiva di
nuovo. Sapeva di nuovo che cosa aveva fatto. E ad un tratto ebbe il
la sensazione che il suo cervello non avesse avuto la peggiore delle
idee quando aveva seppellito quel ricordo in profondità.
Ma
ormai era troppo tardi. Non c'era modo di tornare indietro. Adesso
che ricordava la verità non poteva più reprimerla. Aveva aiutato la
CIA. Non proprio la CIA, no, ma alcune persone della CIA, se stavano
poi davvero lavorando per quell'agenzia. Oppure avevano semplicemente
falsificato i documenti. Perché le loro azioni erano state talmente
scandalose, talmente...
Charlie
non trovò parole adeguate. Comunque aveva difficoltà a comprendere
le cose successe, a trovarvi un ordine, anche se era solo un ordine
nella sua mente.
La
CIA – per semplificare decise di continuare a chiamarli così –
l'aveva assunto. Avevano detto che doveva analizzare una, forse anche
più cellule terroristiche e i loro attentati in un'area abbastanza
vasta, cioè in tutta l'Arabia Saudita e i paesi limitrofi, per
trovare un sistema che avesse potuto predire attentati in futuro,
creare un algoritmo per la predizione che avrebbero potuto adoperare
anche dopo la conclusione del suo lavoro. Ed i primi attentati che
Charlie aveva calcolato dopo circa tre settimane senza che fosse già
stato in grado di trovare un algoritmo completo e sicuro erano stati
giusti. Sempre. Esattamente.
Quel
dato lo aveva sorpreso, anzi insospettito. Normalmente, ci sarebbero
dovute essere delle irregolarità; gli attentati venivano eseguiti da
gruppi diversi che in tutta probabilità erano legati tra loro molto
alla lontana. Le sue prime predizioni erano state approssimative,
solo un avvicinamento per testare se le informazioni che gli avevano
dato e le deduzioni che aveva tratto da esse fossero giuste. Eppure
aveva colto esattamente nel segno.
Dopo
che la sua diffidenza era stata svegliata non ci era voluto molto per
rivelare tutto l’imbroglio. Però non aveva potuto crederci. Non
aveva voluto crederci. E non aveva nemmeno avuto delle prove
valide; le sue equazioni non potevano dargli una certezza obbiettiva.
Però lui ne era stato certo; dopotutto era abbastanza esperto di
matematica o per meglio dire di logica per fare due più due: la CIA
non gli aveva dato le informazioni relative agli attentati delle
cellule terroristiche su cui doveva concentrarsi, non solamente. Una
gran parte delle attentati non era stata eseguita da terroristici
ordinari. Ma dalla CIA.
-
- -
Non
stavano continuando a seguire la pista delle agenzie investigative.
Se fosse successo qualcosa e Charlie fosse, contro ogni aspettativa,
ricomparso da una delle agenzie, loro avrebbero informato Don. Era
vero, non l'avrebbero fatto se la loro missione e la ragione della
scomparsa di Charlie fossero state segrete (e date quelle circostanze
la faccenda con l’automobile a noleggio e la carta d'identità
falsificata sarebbero stati un po' più comprensibili), ma se il caso
fosse stato segreto, non avrebbero raccontato niente a Don anche se
avesse tentato di seguire quella teoria. Don aveva – soprattutto
recentemente – avuto troppa esperienza con agenzie investigative
segrete, per aver ancora una qualche speranza.
Dunque
avevano preso a concentrarsi sui video di sorveglianza e la macchina
a noleggio. Amita e Larry erano ancora occupati a rendere i video di
una qualità migliore usando i loro trucchi matematico-tecnici. Don
non era molto fiducioso. La telecamera sull'area della CalSci
inquadrava solo il parcheggio e i due “agenti” erano visibili
soltanto attraverso il parabrezza e per di più in modo molto
sfocato. Anche la mimetizzazione usata, nel video del officina di
noleggio, sembrava perfetta. Eppure avevano pubblicato l'identikit di
quell'uomo, malgrado il berretto da baseball e gli occhiali da sole,
e l'avevano distribuito a tutte le agenzie investigative.
Ora,
però, non c'era più niente da fare. Peggio: Don non riusciva a
togliersi l'idea che ci dovesse essere qualcosa da fare, qualcosa che
però non gli veniva in mente. Non potevano smettere di fare
progressi già adesso, giusto? Non era possibile che già adesso non
sapessero più cosa fare... vero? Doveva esserci qualcosa che
potevano fare...
Ma
a Don non veniva in mente nulla. Nella sua testa c'era solo vuoto.
Forse era a causa dell'insonnia. Siccome non c'era stato niente da
fare già la sera prima, era finalmente andato a casa e aveva infine
risposto di persona alle chiamate eccitate di Alan. Suo padre era già
stato ben informato, un po' troppo bene, e il fatto che Don non
avesse potuto dargli nessuna novità non era stato buono per il suo
umore. Infine aveva passato una notte estremamente breve ed
estremamente inquieta prima di tornare in ufficio. Anche lì non
aveva smesso di pensare: dov'era Charlie? Come stava? Chi l'aveva
rapito? E perché? Che cos'avrebbero fatto con lui?
E
Don l'avrebbe mai trovato?
-
- -
Gli
avevano tolto l'orologio e non c'erano finestre. Poteva solo supporre
che fosse notte quando spegnevano la luce, ma non poteva mai esserne
sicuro. Si era stretto sul materasso sottile e sotto le coperte
sottili, ascoltando attentamente nell'oscurità. Forse volevano solo
illuderlo di essere al sicuro spegnendo la luce? Forse sarebbero
entrati da un momento all’altro per interrogarlo ancora una volta?
Comunque sarebbe stato interessante sapere quando sarebbero tornati.
Lui finora non era uscito da questa cella.
Quando
sarebbero tornati?
Quella
domanda occupava i suoi pensieri in modo così opprimente che riuscì
appena ad eseguire il suo piano elaborando una strategia su come
trattare i suoi avversari nel futuro. Aveva già deciso che si
sarebbe comportato come uno stupido, facendo finta di non poter
ancora ricordare niente del suo incarico e dei loro crimini
all'epoca. Ma di quanto sarebbe stato al corrente se avesse avuto
l'amnesia, che cosa avrebbe potuto dedurre e come si sarebbe
comportato? Doveva fare massima attenzione se non voleva che si
accorgessero che li stava ingannando...
Charlie
sbuffò. "Ingannare". In confronto a ciò che la CIA aveva
fatto con lui, il suo "inganno" era talmente
insignificante... L'avevano sfruttato. Gli avevano detto che avrebbe
aiutato delle persone. Invece le aveva uccise.
Di
nuovo la nausea affiorò e per cacciarla via Charlie tentò di capire
quali potevano essere stati i motivi della CIA. Avevano commesso atti
terroristici, questo lo sapeva con una probabilità che rasentava la
certezza. Non tutti quelli che aveva analizzato, ma alcuni di questi.
Quelli con più vittime. Era così che aveva scoperto le loro
macchinazioni; era riuscito ad assegnare gli atti terroristici ad
alcune cellule, precisamente a due gruppi diversi, perché gli
avevano dato sia le informazioni degli atti terroristici veri sia
quelle dei loro atti. Dopo un'analisi accurata una cosa era stata
ovvia: uno dei gruppi commetteva tanti attacchi suicida quanti
normali, l'altro non commetteva mai attacchi suicida; uno era
costituito da cellule terroristiche piuttosto isolate da altri gruppi
di Al-Qa'ida, l'altro sembrava stranamente superiore alle altre
cellule, come se questo gruppo commettesse gli atti per completare la
grande opera...
Era
esattamente per questo che avevano avuto bisogno di lui – per
completare i loro atti. Aveva dovuto dare loro i calcoli dicendo dove
e come commettere attentati perché le cellule vere sembrassero
essere i colpevoli. I suoi pronostici non erano serviti per impedire
atti terroristici, ma per commetterli.
Ma
perché? Per protestare contro il governo Saudita-Arabo o i governi
occidentali? Non avrebbe senso. In fondo però nulla in quella storia
sembrava avere senso.
Non
avevano solo commesso attentati, avevano anche voluto far in modo che
sembrassero gli attentati dei veri terroristi. Era per questo che
avevano incluso Charlie nel loro gruppo. Avevano voluto fare mostra
dei terroristi commettendo molto di più crimini ed essendo molto più
pericolosi e potenti di quanto quello fossero mai stati. Ma perché...
perché...
Un
rumore lo fece trasalire, lo sbattere di una porta. Trattenne il
fiato. Molto teso ascoltò se c'era qualcos'altro. Aveva sbarrato gli
occhi, guardando nelle tenebre che non gli rivelavano nulla. Per
alcuni minuti restò immobile, sicuro che sarebbero venuti da un
momento all’altro per prenderlo di nuovo con loro.
Ma
non successe nulla. Questa volta lo risparmiarono.
Di
nuovo Charlie si chiese che cosa ne sarebbe stato di lui adesso.
Interrogarlo ancora una volta? A che scopo? Per sapere se era ancora
un pericolo per loro? E se lo era, questo come avrebbe influenzato le
loro scelte successive? L'avrebbero lasciato andare se fosse riuscito
a far credere loro che non ricordava?
Probabilmente
no. Charlie non sapeva ancora quali erano i motivi dietro i crimini
dei suoi avversari, ma anche senza quelli sapeva che loro erano
pericolosissimi. Senza scrupoli. Avevano sacrificato innumerevole
persone innocenti per i loro fini e probabilmente erano pronti a
continuare. Dunque ci doveva essere una ragione per cui non si erano
ancora liberati di lui. Avevano paura di una persecuzione da parte
dell’FBI? Oppure speravano ancora di raccogliere delle informazioni
che lui non sapeva di possedere? Allora forse non ricordava ancora
tutto? Che cosa volevano? Che cosa ne avrebbero fatto di lui?
E
Don l'avrebbe mai trovato?
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Capitolo 27 *** Giochi mentali ***
nonti27
Grazie a BlackCobra, celtics e (benvenuta!) redbullholic per le vostre recensioni gentili! :)
Ecco il nuovo capitolo, spero che vi piacerà.
27.
Giochi mentali
For
what is a man? What has he got?
If
not himself, then he has naught.
To
say the things he truly feels
And
not the words of one who kneels.
(Frank
Sinatra, My Way)
Mike
Kirtland sbadigliò e guardò l'orologio del suo computer. Le sette e
ventitré. Il sole doveva già esser sorto. Lì giù, però, scorreva
un tempo completamente diverso. Era giorno quando la luce era accesa
ed era notte quando la spegnevano. Il loro generatore era il loro
sole e il ritmo vitale lo determinavano loro stessi.
Non
erano di molto sotto terra, forse un metro. Bastava però a
nasconderli perfettamente. E in quello spazio isolato nessuno li
avrebbe comunque cercati. Né loro né il professore.
«Dan?»
chiamò Mike quando vide il suo collega passare davanti alla sua
porta. Non si aspettava una risposta che comunque non avrebbe
ricevuto, ma continuò a chiamarlo: «Che si fa col professore? Non è
di nuovo tempo d'interrogarlo?»
Daniel
Rosenthal comparve alla porta. «Perché? Non farà male tenerlo
sulle spine per un po'».
«Sei
sicuro?»
In
fondo avevano tutti deciso all'unisono che non volevano ripetere un
tale disastro come l'ultima volta. Lui non si intendeva tanto di
tattiche interrogative, ma ciò che aveva visto in autunno gli era
bastato. In fondo era “solamente” l’hacker del gruppo, ma
Rosenthal aveva probabilmente saputo che si intendeva molto di più
delle cose tecniche solo quando l'aveva, con promesse allettanti,
fatto unire a loro. Eppure, malgrado queste promesse, durante
quell’autunno Mike aveva temporaneamente avuto dei dubbi: ciò che
avevano fatto col professore non era stato altro che tortura, anche
se era stata più mentale che fisico. Non era durato abbastanza da
far scoprire a Mike come quella tortura avrebbe potuto cambiare un
uomo del tutto normale come il professore. Beh, il fine giustificava
i mezzi – ma Mike non voleva vedere quello spettacolo un'altra
volta.
«Certo
che sono sicuro» dichiarò Rosenthal nel suo modo lapidario. «Non
preoccuparti, ho tutto sotto controllo. Più lasciamo il professore
da solo, più insicuro diventerà e più probabilità avremo che
collabori con noi».
«E
se diventerà di nuovo completamente pazzo? Cosa faremo? Vuoi di
nuovo segregarlo in manicomio con tutti i rischi del caso?»
Rosenthal
alzò le spalle. «La nostra situazione è cambiata» disse in modo
vago. «Anche la sua. Non sappiamo ancora come reagirà. Prima
vedremo come si comporterà nella sua bella camera, poi vedremo che
cosa sa e se è pronto ad aiutarci. Finora sembra stare bene, non
pensi?»
Mike
inarcò le sopracciglia e cambiò le immagine sui suoi schermi
cosicché potesse guardare nella cella del professore. Era sdraiato
sul letto già da alcune ore, accucciato come un bambino. E quando
non era sdraiato sulla branda, andava avanti e indietro nei pochi
metri quadrati. A Mike non sembrava che lo stato psichico del
professore attualmente fosse molto stabile.
-
- -
«Oddio!
Non è possibile!»
I
tre membri della squadra si girarono sorpresi verso Megan. Era
martedì pomeriggio e da poco più di 24 ore Charlie era
ufficialmente scomparso. A loro sembrava essere trascorso molto più
tempo, benché non avessero quasi nessuna informazione nuova.
Probabilmente però le cose stavano per cambiare: l'espressione
vivace di Megan ne era un chiaro indizio.
Aveva
ancora le mani alla testa quando finalmente informò i tre uomini del
motivo della sua eccitazione: «Sapete quanto siamo stati stupidi?»
Don
avrebbe potuto darle varie risposte, ma i suoi sensi di colpa fecero
in modo che non parlasse. Forse fu un bene che Megan continuò
subito: «Questi uomini l'hanno sequestrato alla CalSci!»
Don,
David e Colby scambiarono sguardi confusi e un po' preoccupati –
Megan era certa di sentirsi bene, vero? Certo che Charlie era stato
sequestrato alla CalSci; lo sapevano già da tempo! E allora?
«Ma
non capite?» si infervorò. Si era alzata e i grandi movimenti delle
mani facevano capire quanto si sentisse agitata. «Avrebbero potuto
arrestare Charlie anche a casa sua o quando era qui, ma non erano
stati a casa sua oppure Alan ce l'avrebbe detto, no? Dunque devono
aver saputo che quel giorno a quell'ora Charlie sarebbe stato
all'università!»
I
tre uomini la guardarono fisso. Perché non ci avevano pensato prima?
Eppure non avevano ancora del tutto messo da parte il loro
scetticismo e esaminarono la tesi di Megan in dettaglio.
«Ma...»
obiettò David infine. «Anche quando noi cercavamo Charlie, abbiamo
sempre iniziato dalla CalSci e non a casa sua».
«Sì,
ma quando noi lo cercavamo, Charlie non era scomparso per sei mesi»
ricordò lei ai suoi colleghi. «Attualmente non dà più lezioni,
David».
«Ma
forse questi uomini non lo sanno» continuò Colby, sopportando il
suo partner.
«Se
partiamo dal presupposto che hanno a che fare con la scomparsa di
Charlie l'autunno scorso, lo sanno».
«Ma
questo è solo un presupposto; non abbiamo nessuna prova e solo pochi
indizi» ricordò David.
«Eppure
dovremmo provare a scoprire se hanno sorvegliato Charlie» decise
Don. «Interrogate i vicini, chiedete se hanno visto qualcosa di
strano».
Prima
che qualcuno di loro potesse aggiungere qualcosa, Don si era già
alzato per ritirarsi nella cucina.
Il
senso di colpa era tornato con tutta la sua forza e semplicemente non
poteva farlo svanire. Non era solo il fatto che si era dato per vinto
con Charlie sei mesi prima. Non era solo perché non era stato
particolarmente attento a lui. Non era solo perché le loro ricerche
procedevano in modo così lento e insignificante. Adesso c'era anche
la possibilità che Charlie fosse stato sorvegliato e Don non se
n’era accorto.
Avrebbe
dovuto accorgersene, no? In fondo, era un agente federale; conosceva
un sacco di tecniche di sorveglianza ed era anche esperto nel
riconoscerle. Perché non se n'era accorto questa volta, quando
sarebbe stato davvero necessario?
Ovviamente,
sapeva che nessuno lo avrebbe rimproverato per quello. Tutti
avrebbero detto di non essersene mai accorti. Nessuno aveva la colpa
di ciò che era successo, neanche Don. Non era compito di Don
proteggere il suo fratellino.
Ma
che cosa significavano tutte quelle parole quando Don non riusciva a
cancellare il pensiero che Charlie sarebbe potuto essere ancora con
loro se avesse agito diversamente?
-
- -
Un
battito. Battito. Battito. Battito.
Charlie
aveva una mano poggiata sul cuore e ne contava i battiti. Forse in
quel modo sarebbe riuscito a trovare nuovamente il senso del tempo.
Sapeva, però, che era troppo tardi: così facendo avrebbe potuto
ricostruire le ore, i giorni o le settimane che erano passati solo in
un modo molto impreciso.
Nella
sua testa, Charlie scacciò via le "settimane". Finora non
gli avevano dato né qualcosa da mangiare né da bere, quindi anche
solo da un punto di vista biologico era impossibile che fossero
passati più di tre o quattro giorni. E anche se Charlie aveva sete,
era ancora sopportabile. Stimò che si trovasse lì da circa un
giorno. Dunque avrebbe dovuto essere martedì sera.
Che
cosa ne avrebbero fatto di lui? Quali erano i loro progetti?
Sarebbero mai tornati da lui nella sua cella? Oppure l'avrebbero
lasciato da solo? In fondo, erano ancora lì? Qualche volta aveva
creduto di sentire un suono, ma forse veniva da fuori oppure l'aveva
semplicemente immaginato.
Come
quei passi. Si avvicinarono... ancora di più... sempre di più –
si fermarono. Dovevano essere proprio davanti alla porta della cella
di Charlie.
Charlie
si sedette. Era immobile. Ogni muscolo era teso. Tentò di prepararsi
a tutto. La porta si sarebbe potuta aprire in ogni momento –
sarebbero potuti entrare in ogni momento – ti
prego, falli entrare – e
poi... Ti prego, fa che non
mi facciano del male...
Una
chiave girò nella serratura, la porta si aprì, battendo contro il
muro. Charlie trasalì.
«Alzati,
voltati di schiena, mani sopra la testa!»
Con
il cuore all’impazzata, Charlie ubbidì, concentrandosi su
movimenti dei due uomini. Che cosa gli stavano facendo? Che cosa
avrebbero fatto?
Uno
gli abbasso le mani, mettendogli delle manette. Lo guidarono
attraverso alcuni brevi corridoi e Charlie era alquanto sicuro che
fossero gli stessi del pomeriggio o della sera prima. In ogni caso
era lo stesso l’uomo che lo stava aspettando, seduto al tavolo con
il suo abito scuro. Dunque Charlie si trovava di nuovo nella stanza
degli interrogatori.
«Beh',
Dottor Eppes? Come sta?»
Charlie
si chiese che cosa mai avrebbe dovuto rispondere a quella stupida
domanda.
«Bene»
disse infine, sia per non irritare i suoi rapitori, sia per mostrare
loro l'assurdità della domanda. «Solo… avrei sete. E fame».
«Sono
sicuro che potremo eliminare subito questo fastidio» replicò l'uomo
in abito con il suo sorriso falso.
Fece
un segno ai suoi colleghi, non più di un breve gesto con la mano, e
quelli misero davanti a Charlie una bottiglia d'acqua e un panino
dall’aspetto fresco.
Charlie
esitò. Aveva tanta voglia di servirsi, però non osava cedere
all'impulso. Adesso, a quella vista, la sete e il fame aumentarono
tremendamente, ma rimase fermo. Era una trappola? L’avrebbero
punito nell’istante stesso in cui avrebbe afferrato i viveri?
«Coraggio»
lo esortò lo sconosciuto, «prenda pure. Non siamo mostri noi, sa?»
Qualcosa
in quelle parole fece levare lo sguardo di Charlie e ciò che vide fu
più di quello che era realmente davanti a lui.
«Faccia
una pausa quando ne ha bisogno, non importa se per bere, mangiare o
dormire. Non siamo mostri noi, sa?»
Charlie
riuscì solo a fare un mezzo sorriso. Gli occhi freddi che
troneggiavano sopra un sogghigno quasi maligno erano ancora sospetti.
Un po' insicuro, si guardò intorno nella stanza piccolissima.
Dentro, c'erano tre computer, ma non tanto di più. Nemmeno una
finestra. E sarebbe dovuto essere il suo posto di lavoro per il mese
successivo? Che futuro roseo.
Ma
almeno aveva una certa libertà per quanto riguardava la sua
distribuzione del tempo libero – benché probabilmente non
l'avrebbe usato tanto.
«Come
ho detto, nel caso abbia un qualsiasi problema, vada dal Signor
Johnson. E adesso la auguro un buon lavoro».
«Grazie,
Signor Rosenthal».
«Dr.
Eppes, è ancora con noi?»
Charlie
ci mise un po' per riemergere dal suo stato quasi come se fosse in
trance.
«Mi
scusi. Che cos'ha detto?» Doveva semplicemente non dare a vedere
nulla, non dare a vedere che non aveva solo – finalmente! –
riconosciuto l'uomo davanti a lui, ma che era anche riuscito a dargli
un nome...
«Le
ho chiesto se era finalmente riuscito a ricordare qualcosa, Dottore».
Charlie
trasalì. Rosenthal non si era accorto che –? No... no, come
avrebbe potuto saperlo? No, Rosenthal e i suoi complici credevano
ancora che non potesse ricordare nulla... vero?
Charlie
osservò il suo contraente accuratamente. Il sogghigno presuntuoso
era ancora lì, come se l'agente non credesse tanto quanto prima alla
perdita di memoria. Però a Charlie non sfuggì la tensione nello
sguardo di Rosenthal. Era ovviamente nervoso, e Charlie era quasi
certo di sapere il perché. Per lui doveva essere fondamentale il
fatto che non ricordasse. Altrimenti sarebbe stato un pericolo enorme
per loro e il progetto terroristico, se veramente stavano ancora
progettando la stessa cosa.
Dunque,
data quella tensione, non sapevano ancora niente dei suoi flashback
che diventavano sempre più frequenti. Bene. Considerando questo,
Charlie decise di fingersi quanto più ignorante possibile. Tutto ciò
unito ad un po' di semplicità, come la scorsa sera.
«Non
mi avete ancora detto di che cosa state parlando. Lasciatemi andare».
Non
era necessario fingere la stanchezza. Gli eventi passati, incluse le
ventiquattro ore in prigionia completamente isolata, l'avevano
fiaccato molto.
«Su,
la smetta di fare l’innocente!» lo attaccò l'agente e benché
Charlie pensasse che credesse alla sua storia, trasalì. «Non ha
senso. Sappiamo che sta solo cercando scuse per sfuggire alla
responsabilità delle sue azioni. Ma non le servirà. E' e rimane un
terrorista, anche se non può ricordarlo. E le ripeto: sarebbe
davvero meglio per lei se potesse ricordare e confessare i suoi
crimini. Perché anche se lei ha dimenticato sia quelli che noi, noi
non ci siamo dimenticati di lei».
«Non
so ancora che cosa volete da me».
«Vogliamo
che confessi i suoi crimini, Dottore. Penso che l'abbiamo reso
abbastanza chiaro ormai».
«E
allora perché mi avete sequestrato? E dov'è il mio avvocato?»
«Dottor
Eppes, ne abbiamo già discusso ieri, qua sta girando in tondo. A che
cosa le servirebbe un avvocato? Di certo non potrebbe fare in modo
che quello che lei ha fatto non sia mai successo. Dunque non può
servirle. Anzi potrebbe essere un male. Finora, nessuno sa delle sue
attività terroristiche. Tutto sommato, è un cittadino pulito. Se fa
intervenire un avvocato, non lo sarà più: tutto verrà a galla. Ma
se collabora con noi, potremmo sistemare tutta questa faccenda in
modo amichevole».
Se
avesse ancora avuto anche solo una briciola di fiducia nell'onestà
dei suoi rapitori, era appena andata del tutto persa. Una soluzione
amichevole con dei terroristi? Se le cose funzionavano così, poteva
improvvisamente capire il passato hippy di suo padre.
Ma
aveva scelto di mostrarsi quanto più ingenuo possibile. «E che vuol
dire, “sistemare in modo amichevole”?»
«Ne
abbiamo parlato ieri: la sua memoria sembra essere un po' lacunosa di
tanto in tanto». Il sorriso diventò più largo, ma rimase gelido.
«Se accetta di mettere le sue facoltà matematiche al servizio del
governo per combattere, con noi, il terrorismo, potrà in un certo
senso fare ammenda per i suoi crimini».
«In
che misura?»
«Dipende
dal suo successo. Se adempe al suo incarico in modo impeccabile,
potremo anche dimenticare completamente questa faccenda e lei potrà
tornare alla sua vita di sempre».
Charlie
non credette a nessuna di quelle parole, ma si guardò bene dal
rivelare a Rosenthal i suoi pensieri. Non poteva esporre nessuna
delle sue domande, che sarebbero state possibilmente anche
pericolose, ed era per questo che esitò a riprendere parola. Eppure
era di una necessità enorme che non sembrasse solo semplice, ma
anche credibile.
«E
come sa che può fidarsi in me?»
«Non
lo sappiamo» quella risposta sembrò un pugno in pieno viso. «E'
per questo che dovremo sorvegliarla, no?»
Charlie
deglutì – quello scenario non gli piaceva affatto –, però tentò
di mantenere la sua credibilità. «E lei comprenderà ciò che
faccio e se ne accorgerà subito nel caso in cui tenterò di
tradirvi, come l'ultima volta?»
«Contrariamente
all'ultima volta, saranno i nostri matematici a tenerla d'occhio,
Dottor Eppes. Ne stia sicuro».
Di
quello Charlie era davvero certo, eppure quella rassicurazione non lo
fece sentire tanto meglio.
«Però
dalle sue parole deduco» continuò Rosenthal «che confessa le sue
azioni passate e che ammette di ricordare. Dunque posso presumere che
accetterà la generosa offerta del governo?»
Charlie
rimase silenzioso.
«Allora,
Dottor Eppes?»
«Preferirei
pensarci un altro po'».
«Mi
dispiace» la risposta venne con una semplicità brutale. «Ha avuto
tempo per pensarci. Vuole collaborare con noi o no?»
Charlie
deglutì. Questo non se l'aspettava. Aveva sperato di poter rinviare
la decisione per un altro po'. In fondo, che cosa avrebbe potuto
dire, senza farli arrabbiare? Niente, poteva solo accettare. E se
l'avesse fatto, sarebbe stato di nuovo costretto a fornire loro le
basi per l'attuazione dei loro attentati...
«No».
La
cortissima sillaba aveva appena lasciato la bocca di Charlie che una
paura indescrivibile lo invase. Come avrebbero reagito i suoi
rapitori? Che cosa ne avrebbero fatto di lui?
«Scusi,
come?» Sotto la gentilezza, c'era una nota sottile che non si poteva
ignorare e che suggeriva, senza lasciar dubbio, pericolo. «Che cosa
ha detto?»
Charlie
deglutì ancora una volta, quasi fosse un modo per darsi coraggio.
Vedeva di nuovo le immagini di Don, di suo padre, di Amita, di Larry
e si chiese come avrebbero reagito se lui avesse accettato. La
risposta che si diede confermò la sua decisione abbastanza da
respingere la paura e rendergli possibile metter in azione il suo
proposito.
«No»
disse con una voce più ferma di prima, «non vi aiuterò col
vostro... lavoro».
Malgrado
la sua convinzione, il suo coraggio crollò quando vide lo sguardo di
Rosenthal, e non riuscì a respingere la sensazione di avergli appena
dato la risposta sbagliata.
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Capitolo 28 *** Speranza ***
Grazie a BlackCobra per recensire e ad Alchimista per correggere regolarmente le mie storie :)
28. Speranza
I can smile at the old days.
Life was beautiful then.
I remember the time I knew what happiness was.
Let the memory live again.
(Cats, Memory)
«Oh, oh» fu tutto ciò che disse Mike non appena ebbero riportato il professore nella sua cella. Daniel Rosenthal finse di non averlo sentito, semplicemente perché Mike voleva che reagisse al suo stupido “oh-oh”.
Ma naturalmente questo non impedì a Mike di continuare ad infastidirlo. «Questo non mi piace» continuò col tono di qualcuno che voleva sostenere un'intelligente discussione sulla situazione con il suo superiore.
Rosenthal non poté più controllarsi. Come hacker, Kirtland era insostituibile, ma qualche volta riusciva davvero a farlo imbestialire. «E perché non ti piace?», lo attaccò adesso. «Eppes è sfinito. È solo una questione di tempo prima che si decida a lavorare con noi».
«Ma ha rifiutato».
«E allora? Sarebbe la prima volta che riusciamo a far cambiare idea a qualcuno?»
«Ma... se crolla di nuovo?»
«Ma dai, lascialo stare, Mike. Faremo anche attenzione che il nostro dottorino mantenga tutti i suoi venerdì. Resta con i tuoi computer e lascia fare i progetti a me».
L'aveva desiderato. Non aveva nemmeno osato sperare che fosse la volta buona che Mike stesse zitto, ma per un attimo l'aveva desiderato. Non ce l'aveva fatta a sperarlo, però: conosceva Mike troppo bene.
«Ma... l’hai visto anche tu. Come ad un tratto è sembrato stravolto: è assai inquietante, devo dirti. Come qualche volta sembra semplicemente smettere di sentirti».
«Forse è a causa della depressione, o ha semplicemente cercato a ricordare».
«E se ce la farà?»
«Se ricorderà mai? Macché. Se non è riuscito a ricordare nulla in sei mesi, non cambierà adesso».
- - -
«Non può tenermi imprigionato per sempre».
Fervidamente Charlie tentò di convincere anche sé stesso con quella frase. Ma il maligno sogghigno evidentemente onnipresente distrusse il suo progetto.
«Non immagina, professore, che cosa possiamo fare».
Charlie deglutì. Eppure era pronto a far tutto ciò che era in suo potere per far cambiare idea ai suoi avversari. «Sicuramente mio fratello mi sta già cercando». E Charlie sperava, sperava così ardentemente che fosse la verità.
L'agente Johnson rise con tono sarcastico. «È questo ciò in che ripone la sua speranza? Che lì fuori ci siano delle persone che la stanno cercando? Insomma, quanto è ingenuo? Nessuno – glielo dico io, nessuno! – la sta cercando. Le persone lì fuori non si interessano a lei». Fece una piccola pausa, voltandosi dall’altra parte, come se volesse lasciar Charlie da solo prima di riprendere a parlare. Ad un tratto aveva un tono un po' più umano. «A voler essere sincero, non so perché non è ancora pronto a guardare in faccia la verità. Le persone lì fuori non vogliono che lei ritorni. La sua famiglia vuole che lei serva al suo paese. Non l'ha ancora capito? Cosa crede che direbbe suo fratello se lei ritornasse senza aver adempiuto al suo incarico?»
Lo sguardo impaurito di Charlie era diventato instabile, proprio come la sua convinzione. Un sorriso disperato era apparso sulle sue labbra. “La sua famiglia vuole che lei serva il suo paese” – poteva esser la verità. Ma che Don non avrebbe mai voluto che suo fratello facesse il terrorista era sicuro come il fatto che due più due facesse quattro, benché all'epoca Johnson fosse riuscito a fargli dubitare di ciò e a farlo diventare insicuro. E Don non avrebbe nemmeno voluto che Charlie accettasse l'incarico in autunno, tanto meno che aiutasse la CIA dopo che loro lo avevano privato della sua libertà. Significava che questa volta aveva risposto nel modo giusto, come Don avrebbe voluto. Charlie non sarebbe mai più diventato criminale, non importava che cosa gli avrebbero fatto. Aveva rifiutato la loro “offerta” categoricamente e questa era stata la decisione giusta, definitivamente giusta...
E se sbagliava?
Improvvisamente pensò alle possibilità che avrebbe avuto accettando la loro offerta. Avrebbe avuto un'idea più precisa di ciò che intendevano fare i terroristi della CIA. Non sarebbe più stato sempre in quella cella, ma probabilmente di nuovo in una specie di ufficio, davanti a un computer. Magari davanti a un computer collegato a un qualche tipo di rete cosicché sarebbe stato in grado di far sapere a qualcuno fuori che cosa gli stava succedendo e dove si trovasse? E innanzitutto avrebbe avuto la possibilità di scoprire egli stesso dove si trovasse.
In ogni caso lui avrebbe avuto un'influenza su ciò che sarebbe successo. E forse sarebbe stato in grado di dare loro risultati tali che gli attentati non avrebbero fatto danni a persone. Oppure tali che gli attentati avrebbero potuto condurre altre agenzie investigative sulle tracce di questi criminali?
Ma ormai, aveva perso tutte queste possibilità. Quindi aveva comunque fatto un errore? Sarebbe stato meglio se avesse acconsentito ad aiutare i terroristi del CIA – anche se solo per finta?
Poi però gli era venuto in mente come erano state le cose sei mesi prima. E qualche minuti prima. Aveva saputo che cos'aveva fatto, e continuava a sentirsi insopportabilmente cattivo e sporco. Cosa sarebbe successo se anche stavolta non sarebbe stato in grado di proteggere la gente, se a causa dei suoi calcoli ci fossero stati nuovi morti?
Dunque forse il suo intuito aveva avuto ragione questa volta. Perché sarebbe stato troppo. Charlie non avrebbe sopportato di essere di nuovo la causa di molte morti. Una sola volta gli bastava definitivamente. Il pensiero della sua colpa non lo lasciava respirare, faceva girare i suoi pensieri come se fossero in fuga da lui benché sapesse che non sarebbe mai, mai potuto sfuggire loro, né ai suoi pensieri né a se stesso. Era condannato a vivere con le sue azione e non sarebbe mai stato in grado di annullarle né avrebbe mai potuto bandire questa verità orribile di nuovo della sua memoria. Aveva degli essere umani sulla coscienza!
Charlie rabbrividì, ma non servì a scuotersi di dosso la sensazione di freddo che provava.
- - -
David e Colby suonarono il campanello. Di nuovo. Colby, gli occhiali da sole davanti agli occhi, guardò a destra e a alle sue spalle mentre David lanciava uno sguardo di controllo prima al nome sul campanello, poi su una finestra e infine a sinistra (e a dietro). Di nuovo. Sentirono dei passi e la porta veniva aperta – di nuovo. David si chiese (di nuovo) quante volte ancora avrebbero dovuto fare quella procedura prima che avessero finalmente avuto un'informazione che li aiutasse. Come ogni volta quelle riflessioni venivano immediatamente seguite della fatidica domanda riguardo cosa avrebbe messo fine a tutto quello: un'informazione che finalmente li avrebbe aiutati oppure il semplice esaurirsi di case alle quali bussare, cosa che sarebbe significato essere di nuovo a mani vuote.
«Buongiorno?» la donna di mezza età li salutò con un tono definitivamente interrogativo.
«Buongiorno, Signora Jenkins. Mi chiamo David Sinclair e questo è Colby Granger. Siamo dell'FBI e vorremmo farle qualche domanda».
Le mostrarono i loro distintivi e la donna li guardò spalancando gli occhi. «FBI? E' successo qualcosa?»
Naturalmente è successo qualcosa, altrimenti non saremo qui, pensò Colby fra di sé. Aveva sentito questa domanda sia durante il suo corso professionale sia in quella giornata così spesso da snervarlo.
«Si tratta del Professore Charles Eppes» rispose David e poté vedere la donna lasciarsi scappare un sospiro di sollievo, probabilmente perché la faccenda non riguardava direttamente lei o la sua famiglia. «Abita sull'altro lato della strada, qualche casa dopo questa».
La Signora Jenkins annuì. Conosceva il giovane professore di vista e sapeva anche qualche cosa della famiglia Eppes, quel po’ che si diceva tra vicini. «Ho sentito cos'è successo. Terribile».
«Forse sa qualcosa che potrebbe aiutarci per trovarlo?» chiese David.
La donna aggrottò la fronte. «Trovarlo? Ma... ma è morto. È stato sepolto, già... settimane fa».
Per essere esatti, alcuni mesi, la corresse Colby mentalmente mentre capiva. «Ciò che è successo mesi fa si è rivelato un errore. Ma l'altro ieri, il professore Eppes è di nuovo scomparso» le diede le informazioni più necessarie, «e crediamo che sia stato rapito». Colby non le diede l'opportunità esprimere il proprio orrore se non con l’espressione del suo viso, ma continuò subito: «Forse lei si è accorta di qualcosa di strano durante i giorni passati? Forse un veicolo che solitamente non si trova da queste parti o qualcuno che non ha mai visto prima in questo quartiere?»
La Signora Jenkins, occupata ad assimilare le informazioni, scosse il capo. «No... cioè, una settimana fa la famiglia doveva partire; la casa era vuota. In ogni casa è ciò che ha detto la Signora Connally; abita nel numero 873, direttamente di fronte».
David trattenne un sospiro. Il fatto che Don ed Alan erano stati in Nebraska non era niente di nuovo. «Nient'altro?» chiese con un briciolo di speranza.
Di nuovo lo scuotere della testa. «No, mi dispiace».
I due agenti federali la ringraziarono, la salutarono e continuarono l'azione investigativa con un po’ di speranza in meno.
- - -
«Eppes».
«Ehi, Papà».
«Charlie! Come stai? Come va il tuo... lavoro?»
«Bene... Va tutto bene. Non preoccuparti. Sto bene qui, davvero». In realtà trovava tutto ancora un po' inquietante, ma pian piano si abituava davvero alla situazione e anche il suo lavoro cominciava a fare grandi progressi.
«Hai già parlato con Don?»
Per un attimo, Charlie stava per riattaccare il ricevitore. «No» replicò e ad un tratto fu asciutto. «Possiamo parlare di qualcos’altro?»
«Certo. Perché non mi racconti un po' cos'è che stai facendo esattamente? E con chi lavori? E a proposito: forse parlando vengo a sapere anche in quale continente mio figlio si trova al momento».
«Papà, dai...»
«Don si preoccupa di te proprio quanto faccio io, Charlie. Sei via già da quattro giorni e non hai pensato che fosse necessario chiamarlo?»
«Sono molto impegnato qui, Papà. E inoltre...» Charlie esitò, ma pian piano era stufo delle insistenze di suo padre. «Inoltre Don si lamenterebbe di nuovo del fatto che sto facendo tutto in segreto. E vorrebbe interrogarmi nonostante sappia bene che non posso dirgli nulla. E' semplicemente sempre incavolato perché ho accettato l'incarico e per una volta non ho seguito i suoi ordini».
«Non è vero e tu lo sai. Alla fine, chiamalo, Charlie. Oppure volete evitare di rivolgervi la parola per un mese intero?»
“Non sarebbe la prima volta”, voleva rispondere Charlie, ma qualcosa lo distolse. Era vero, in passato il contatto tra lui e Don si era ridotto alle cose le più necessarie. Ma Charlie non era mai stato davvero contento di quella situazione. E in qualche modo sentiva e sperava e credeva che quel tempo dell'alienazione fosse finito e che avesse fatto posto a una nuova fase, una che comprendeva un legame fraterno.
«Eppes».
«Ciao, Don». Il suo tono era un po' controllato.
«Charlie!» Quello non era un tono controllato. «Ehi... Come stai? Papà dice che... Che stai facendo?»
Bentornata, nervosità non amata. Ma in qualche modo faceva bene sapere che Don non si sentiva meglio di lui in quella conversazione.
«Io sto bene. E tu?» Oh Dio, sarebbero riusciti a mettere insieme almeno una frase sensata?
«Sì, anch'io, ascolta...»
Sì, lo faccio Don, ma se io devo ascoltarti, tu devi parlare.
«Io...» Sì...? «Io non ti assillerò più perché tu mi racconti qualcosa, va bene? Solo a patto che tu me lo dica se ti sembra che qualcosa non vada o che sia troppo pericoloso. Va bene?»
Wow. Per un attimo Charlie era senza parole. Erano arrivati al punto più velocemente di quello che avrebbe creduto.
«Va bene» acconsentì.
Ci fu silenzio per un po' prima che cominciasse di nuovo a parlare, con un sogghigno ancora un po' cauto sulle labbra: «Ehi, Papà dice che ti preoccupi. Ti stai intenerendo, Don».
Un'esitazione breve, poi Charlie poté sentire dal tono di suo fratello che anche lui stava sogghignando. «Io, intenerirmi? Aspetta, io… preoccuparmi? No, no, no, Chuck. Devi aver capito qualcosa male. Oppure papà sta diventando vecchio».
«Concordo con la seconda».
«Va bene. Ma dobbiamo tenerlo per noi. Perché per un uomo vecchio fa ancora delle lasagne ottime».
Nella sua memoria, Charlie sentiva il proprio sorriso, ma adesso quel pensiero causò solo un sorriso che non sarebbe potuto essere più triste. Sì, anche all'epoca era stato separato dalle persone che erano importanti per lui ed era stato quasi imprigionato, ma allora aveva almeno avuto la possibilità di contattare il mondo esterno. Aveva potuto parlare con la sua famiglia e i suoi amici, benché avesse concesso a sé stesso solo pochi minuti al giorno per pensare alla sua vita, di solito prima di coricarsi perché a quel punto non aveva più potuto riflettere a un livello sensato. E dopo si era sentito abbastanza bene da passare alcune ore tranquille e riposanti. Sì, le telefonate all'epoca gli avevano dato forza, e desiderava averle anche in quel momento talmente tanto che faceva male.
Nel frattempo si era chiesto perché la prima volta gli avessero concesso il contatto col mondo esterno. Avevano corso il rischio che lui rivelasse qualcosa sul progetto, no? E forse poi qualcuno di fuori, con altri dati a sua disposizione, avrebbe scoperto ciò che stava succedendo…
La prima risposta che si era dato non lo aveva soddisfatto del tutto: avevano semplicemente voluto tenerselo buono con simili “confort” perché non diventasse ricalcitrante e restasse accondiscendente a ciò che avevano intenzione di fare? L'altra possibilità gli dispiacque tanto di più – la possibilità che avessero intercettato le sue conversazioni. Dovevano aver sorvegliato sia lui sia i telefoni. Probabilmente avevano sentito ogni conversazione che aveva avuto con suo padre, con Don, con Larry e con Amita.
Ora come ora non gli sarebbe importato. Avrebbero anche potuto intercettarlo: se non altro avrebbe finalmente parlato con qualcuno di loro, finalmente avrebbe sentito di nuovo le loro voci, sarebbe stato contentissimo. Però non si illudeva. Il tempo della prigione relativa era passato. Questo non era più relativo, ma assoluto. E non gli avrebbero mai più lasciato neanche un pezzettino di libertà. Era il loro prigioniero e lo sarebbe rimasto per sempre se non fosse successo un miracolo.
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Capitolo 29 *** Risultati ***
Grazie mille a BlackCobra e celtics!
29. Risultati
And now my life has changed in, oh, so many ways.
My independence seems to vanish in the haze.
But ev’ry now and then I feel so insecure.
I know that I just need you like I’ve never done before.
Help me if you can, I’m feeling down.
And I do appreciate you being ‘round.
(The Beatles, Help)
«Avete trovato qualcosa?»
Quasi in modo doloroso, il viso di David si deformò in una brutta smorfia. Faceva male dover vedere Don in quello stato, così nel panico, così inopportunamente pieno di speranza, mentre allo stesso tempo si poteva quasi sentire la sua paura. E faceva anzi ancora più male, perché David sapeva che la sua risposta avrebbe tolto a Don ancora un po' di speranza.
«Niente» disse, non riuscendo a guardare negli occhi il suo amico.
Don non voleva crederci. Comprensibilmente. «Niente di niente? Non può essere! Se sorvegliavano Charlie, qualcuno deve aver visto qualcosa!»
«Forse ci è di nuovo sfuggito qualcosa»
I due uomini si girarono verso di lei. A differenza di Don, Megan era rimasta più o meno calma sulla sua sedia quando David si era avvicinato loro.
David scosse il capo.
«Abbiamo chiesto a tutte le persone del vicinato. Nessuno ha visto o sentito nulla».
Con un po' di riservatezza, Megan lanciò uno sguardo verso Don. «E neanche voi, giusto Don?»
«No, maledizione!» insorse, e lei trasalì. In qualche modo si aspettava una reazione del genere. «Non c'era nessuno! ...credo...»
Megan decise di lasciarlo in pace. Non si era accorto di un pericolo o anche solo di qualcosa di strano, e insistere sulla cosa non sarebbe stato d’aiuto nella ricerca di Charlie.
«Forse abbiamo cercato nel posto sbagliato» intervenne Colby da qualche metro di distanza. Con passi veloci e quattro caffè, che traboccarono un po' quando li pose sulla scrivania di Megan, venne di corsa verso di loro. Megan alzò le sopracciglia, non solo per il disastro alla sua postazione, ma soprattutto per lo stupore, data la cortesia; poi capì che andare a prendere il caffè aveva liberato Colby dell'incarico di dare Don le cattive notizie.
«E secondo te, dove dovremmo cercare invece, Colby?» chiese Don, con tono già distintamente snervato.
«E' ovvio: a casa vostra! Finora abbiamo supposto che questi tizi abbiano pedinato Charlie – ma sarebbe stato un grande rischio, per nulla necessario! Potevano semplicemente installare delle telecamere o delle microspie o qualsiasi altro tipo di equipaggiamento!»
Don lo fisso e finalmente cominciò ad annuire lentamente. «Va bene» disse. «Ci andiamo. E sarà meglio chiamare anche una squadra dei RIS».
Andarono con due macchine e Megan pensò che fosse un bene. Perché a lei, Don non aveva potuto dare a bere la sua calma. Lei si era accorta distintamente di quanto fosse eccitato, quanto nervoso per la possibilità di fare di nuovo uno sbaglio.
Tanto meglio allora avere qualche minuto da soli in cui Don non avrebbe avuto bisogno né di provare qualcosa a qualcuno né di illudere gli altri. Megan prese un respiro profondissimo preparandosi ad una reazione violente del suo capo.
«Non pensi che dovremmo affidare il caso ad un'altra squadra?»
Don girò la testa verso lei così velocemente che per un momento lei temette che avrebbero avuto un incidente. «Stai scherzando. E attualmente non sono nell'umore giusto per questo».
«No, Don, non sto scherzando». Megan rimase ferma. «Dai, non puoi contestare che facciamo uno sbaglio dopo l'altro. Non vediamo quello che abbiamo sotto il naso. La faccenda delle microspie – in un altro caso non sarebbe mai successo a noi».
«E solo per questo vuoi abbandonare il caso? Megan, si tratta di Charlie!»
«Esatto!» disse in modo insistente. «Per questo non possiamo più assumerci la responsabilità di questo caso. Charlie adesso è scomparso da quasi 60 ore, Don! Facciamo progressi troppo lenti, siamo troppo coinvolti. Pensiamo troppo a Charlie invece di concentrarci su come trovarlo!»
Erano arrivati davanti al Craftsman e Don frenò repentinamente. Si girò verso di lei e Megan, istintivamente, rabbrividì. Sul viso di Don c'era una tale fermezza che sembrava pericoloso contraddirlo. «Credi che io spenda anche solo un istante a pensare a qualcosa che non sia trovare Charlie?» La sua voce era bassa, ma articolò tanto bene ogni singola sillaba, data la sua furia repressa, che lei lo comprese molto bene. «Non daremo il caso a qualcun'altro. Noi cercheremo Charlie – e maledizione, lo troveremo!»
- - -
«Sei pronta?»
«Quasi» rispose Amita mentre fissava lo schermo del suo computer con concentrazione. Digitò ancora qualcosa, il computer emise un “bip”, poi le fece vedere che stava lavorando a pieno ritmo.
«Okay» disse. «Le informazioni sono state registrate e se ho regolato il programma in modo corretto, dovremmo ottenere un'immagine più distinta non appena i dati si saranno sistemati. Giusto?»
Larry fu colto un po’ di sorpresa dalla domanda che rivelava l'insicurezza di Amita. «Certo. Non posso immaginare dove potremmo aver fatto uno sbaglio. Comunque tutto questo ha già funzionato una volta».
Amita annuì. «Lo so. Ma all'epoca fu Charlie a fare l'analisi».
Larry sospirò. Sapeva quanto teneva a Charlie e lui provava lo stesso. Ma sapeva anche che non dovevano né lasciarsi andare all’autocommiserazione né perdere la stima di sé – e con essa la speranza – se volevano ritrovare Charlie.
«Amita, non intendo negare che Charlie sia un matematico geniale – ma lo sei anche tu».
«E allora perché non posso aiutarlo?!»
Larry trasalì. Le parole violente di Amita erano state accompagnate da un colpo non meno forte della sua mano sul tavolo che fece voltare Larry dalla lavagna verso lei. Non gli sfuggirono le lacrime nei suoi occhi.
La veemenza di Amita sparì così velocemente com'era venuta e ciò che rimase fu disperazione. «Perché non riusciamo ad aiutarlo, Larry?»
Larry deglutì. Si era fatto la stessa domanda, ancora e ancora: perché c'era così poco che potevano fare? Aveva quasi perso tutte le speranze; non ce l’aveva fatta a continuare a credere che potessero fare ancora qualcosa per Charlie. La paura aveva paralizzato la sua mente e l'aveva imprigionato in un pessimismo pericoloso dal quale solo Megan era riuscita a liberarlo. Lei gli aveva dato abbastanza forza per poter confortare, ora, anche Amita.
«Possiamo aiutarlo» le contraddisse quindi, e fu sollevato quando sentì che la sua voce aveva un tono abbastanza fermo. «Forse non possiamo fare tanto, ma ciò che possiamo fare, lo faremo, e questo aiuterà Don e gli altri a trovarlo. Vedrai».
Amita lo guardò negli occhi, mentre i suoi trasmettevano incomprensione ed un po’ di rinnovata speranza. «Come fai ad esserne così sicuro?»
«Logica. Dal momento che non termineremo la ricerca finché non l'avremo trovato, lo troveremo».
- - -
«Ce n’è un’altra qua!» chiamò Steve Marroway, un membro della squadra dei RIS, segnalando agli altri la quarta microspia del giorno. Scese dal piano di lavoro accanto al forno e la diede al suo superiore.
Con la coda dell'occhio, Don si accorse che Alan si voltò, uscendo dalla cucina e probabilmente anche dalla casa. E anche Don aveva emozioni contrastando mentre guardava il piccolo miracolo tecnologico. Da un lato, certo, aveva confermato le loro supposizioni e avrebbe potuto aiutarli nella ricerca di Charlie – ma dall'altro, quell'oggetto era un'altra prova che erano stati spiati in casa loro, un altro oggetto che aveva invaso la loro privacy e forse un oggetto senza il quale il rapimento di Charlie non sarebbe stato possibile.
La prima microspia l'avevano cercata e trovata nel telefono. Era un modello fatto a mano e benché l'avessero mandato subito al laboratorio, non erano molto ottimisti a riguardo. I pezzi che lo componevano avevano l'aspetto di articoli prodotti in serie, non osavano sperare che ci fossero delle impronte digitali e se non sbagliavano, la microscopia era stata fatta secondo istruzioni che si potevano scaricare gratuitamente (e soprattutto anonimamente) dalla rete. Oppure, con un po' di conoscenza tecnica, addirittura da sé. In ogni caso, il modello a prima vista non era così eccezionale da fargli pensare ad altri casi e altri nomi o qualunque altra cosa.
Dopo, avevano trovato una microspia sotto il tavolo e una nell'orologio a muro. E adesso quella nella cucina sopra la credenza.
Don sospirò. Quante microspie avrebbero trovato ancora? E come avrebbero potuto mai essere sicuri che la casa fosse davvero priva di microspie e simi dispositivi di sorveglianza? Oppure c'era qualcuno ad osservarli anche adesso, in questo momento, mentre stavano cercando gli altri pezzi?
L'unico modo per essere sicuro o almeno più sicuro nelle parete domestiche sembrava quello di trovare la persona che aveva installato le microspie. E se avessero trovato quella, avrebbero probabilmente trovato anche Charlie in un modo o un altro. Ma se non lo avessero trovato...
Di nuovo, Don sentì la stanchezza colpirlo e non esclusivamente perché era già l'una e mezza di mattina. Stava per fuggire dall’opprimente sensazione di essere fuori posto nella casa dove era cresciuto e fare compagnia a suo padre nel giardino notturno (oppure nel garage? In un posto o un altro l'avrebbe sicuramente trovato) per qualche minuto, solo una breve pausa per ritrovare un po’ di forza, quando venne fermato da Colby.
«Ehi, Don, il RIS dice che sembra essere tutto. E anche noi pensiamo di aver finito. Se questi tipi non hanno trovato dei posti ancora più nascosti per altre microspie, sembra che abbiamo recuperato tutto. Torneranno domani, ma per oggi la ricerca è finita».
Don annuì. Era un po' contro il suo senso del dovere, ma considerando l'ora tarda (no, fin troppo presta) era più razionale, e comunque preferiva avere la casa finalmente di nuovo vuota. Nondimeno era davvero grato ai suoi colleghi, alcuni dei quali avevano fatto addirittura gli straordinari per aiutarlo. In quei giorni, aveva bisogno di supporto più che mai.
«Smettiamo anche noi per oggi» disse e anche lui fu un po' sorpreso nel sentire quelle parole e riconoscerle come le proprie.
Colby inarcò le sopracciglia. Don doveva essere davvero esausto. Oppure non aveva idea di cos’altro fare. Certo, era più ragionevole riposare per un po' tornare sul caso la mattina successiva, con nuove forze – ma da quando Don si comportava in modo ragionevole se si trattava di Charlie?
- - -
«Voglio questo caso».
Il capo di un’altra sede dell'FBI, James H. Burbank, guardò in alto quando vide scivolare sulla sua scrivania un fascicolo. Edgerton, certo, chi altro?
Burbank non aveva nullo contro di lui, non direttamente comunque. Ian Edgerton faceva il suo lavoro e lo faceva bene – no, lo faceva in modo straordinario. Era il... che? Il quarto tiratore scelto del mondo? In ogni caso era abbastanza bravo da non volerselo fare nemico. Ed era uno scout eccellente. Ed era indipendente da altre persone. E qualche volta era un po' inquietante.
Ma godeva, nell'FBI, non solo a causa della sua attività come istruttore di tiratori scelti, di una reputazione assai eccellente, tanto da permettergli di scegliere da sé i casi da seguire. E usava questo diritto attivamente. Burbank non sapeva con quali criteri l'investigatore sceglieva i suoi casi, ma a condizione che li risolvesse – ed era rarissimo il caso in cui non ci riusciva – poteva fregarsene dei criteri e di alcuni dei metodi di Edgerton. Eppure non poteva liberarsi da una certa curiosità circa quale caso Edgerton avesse scelto questa volta.
Aprì il documento e riconobbe subito la faccia: la conosceva definitamente di più dalle foto che per trascorsi nella vita reale, ma lo aveva comunque incontrato qualche volta: Clifford Wellman, 36 anni, celibe e – agente dall'FBI.
Avevano tenuto la faccenda largamente sotto chiave. Solo la squadra che stava investigando e la ex-squadra di Wellman – questo era stato inevitabile – ne erano al corrente. E a quanto pareva anche le persone che avevano un certo NOS, perché un modo o un altro, Edgerton doveva aver avuto quel fascicolo e Burbank preferì credere che l'avesse ottenuto in modo legale.
«Perché questo caso?»
Edgerton scrollò le spalle. «Suona interessante. E non posso soffrire le persone che ingannano i propri ragazzi».
Burbank annuì. Anche lui non amava tanto gli agenti come quel Wellman che ad un tratto si era rivelato membro della parte opposta.
Quasi una settimana prima, il venerdì o il sabato prima, Clifford Wellman era scomparso. Lunedì, la sua squadra si era chiesta perché non si fosse presentato a lavoro – e soprattutto perché non avesse detto niente a nessuno. Non erano riusciti a contattarlo al cellulare, ma il giorno dopo erano andati al suo appartamento dopo che nessuno aveva avuto notizie di lui. L'appartamento era stato trovato vuoto, i vicini non sapevano niente e ancora non erano riusciti a contattare Wellman. Infine, la squadra aveva cominciato a considerare la sparizione del loro collega qualcosa di serio e aveva iniziato a esaminare attentamente la vita privata di Wellman. Non avevano saputo quasi nulla di lui, era un solitario e già dopo poco tempo avevano trovato una ragione abbastanza chiara sul perché si fosse isolato così tanto da loro: aveva un sacco di segreti. Sui suoi conti, c'erano transazioni strane con grandi importi di solito in arrivo, e controllando i suoi tabulati telefonici, constatarono che conosceva delle persone della CIA. Però, quando avevano tentato di contattare le suddette, si erano resi conto che risultavano scomparse tanto quanto Wellman.
A questo punto si erano definitivamente allarmati. Il vice-direttore aveva – naturalmente mantenendo le misure di sicurezza necessarie, dato che finché non sapevano che cosa stava succedendo e chi era collegato con questa faccenda, dovevano fare la massima attenzione – spostato il caso ai piani alti e lì avevano deciso che una squadra speciale di agenti – che si erano mostrati impeccabili in passato – avrebbe dovuto investigare sulla faccenda. E l'aveva fatto. Finché, però, le sue investigazioni erano finite in un vicolo cieco. Clifford Wellman era stato come inghiottito dalla terra. Siccome preferivano tenere la faccenda segreta fino a nuovo ordine, era difficile fare una caccia all'uomo e così dovevano tentare di ricostruire la sua via di scampo.
E facendo questo, Ian Edgerton sarebbe probabilmente stato un aiuto inestimabile.
«Va bene. Suppongo che lei abbia i dati per contattare la squadra investigativa?»
Edgerton annuì. «Certo».
«Sa già dove si trovano attualmente? Se vuole saperlo –»
Ma come Burbank ebbe quasi esitato, Edgerton fece cenno di no. «Non sarà necessario. Lavoro meglio da solo che in squadra».
Burbank annuì. Sì, questo lo sapeva. E a condizione che Edgerton non nascondesse informazioni alla squadra e al suo superiore, poteva fare come voleva. Comunque, questo caso doveva esser risolto. Con ogni mezzo.
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Capitolo 30 *** Dubbi e certezze ***
Sembro di aver fatto qualcosa di buono quando ho fatto entrare Edgerton nella storia... ;)
In ogni caso mille grazie per le recensioni e un altro ringraziamento alla mia beta Alchimista!
Divertitevi :)
30. Dubbi e certezze
Take me to a place so holy
that I can wash this from my mind,
the memory of choosing not to fight.
If it takes my whole life,
I won’t break, I won’t bend.
(Sarah McLachlan, Answer)
Mentre Ian parlava con il suo superiore, a centinaia di chilometri di distanza Colby entrò nella centrale dell'FBI. Credeva di essere arrivato presto, ma vide i suoi colleghi già seduti in un angolo dell’ufficio
«Ehì, non avete cominciato senza di me, no?» li salutò con un sorriso un po' cauto. Malgrado la serietà della situazione era certo che non avrebbe fatto bene a nessuno essere tanto abbattuti tutto il tempo. Li avrebbe solo fatti deprimere ancora di più e non li avrebbe aiutati.
«Non preoccuparti» disse David, ma Colby si accorse che il mezzo sorriso sulle labbra del collega non era del tutto sincero. Però, quantomeno, era migliore delle le fattezze rigide di Don. «Siamo appena arrivati anche noi».
«E perciò è tempo di cominciare. Dobbiamo riflettere sulla prossima mossa da fare. Qualche proposta?»
Lo guardo di Don si posò sui suoi colleghi, non così veloce da non permettere a Colby di notare quanto fosse accigliato, ma abbastanza da non riuscire a replicare qualcosa, prima che continuasse: «Penso che dovremmo continuare a concentrarci sulla clinica finché non sapremo qualcosa di più preciso dal laboratorio. E inoltre dovremmo controllare più nel dettaglio quello che sappiamo del camionista che ha portato Charlie alla clinica».
«Ma perché l'hanno sorvegliato?» chiese David. «E chi? Non sappiamo nemmeno se ha qualcosa a che fare con il suo incarico di allora…».
Benché Don avesse l'aspetto di chi non riesce neanche a tenere gli occhi aperti, questi luccicarono improvvisamente di furia.
«Senti, David, Charlie è scomparsa sei mesi fa durante un incarico per una qualche agenzia, non sappiamo né quale né dove sia stato. Sappiamo solo che non è ritornato e che questa dannata agenzia l'ha dichiarato morto benché sia ovviamente vivo, quindi non venire a dirmi che la sua attuale scomparsa non ha niente da fare con quel maledetto incarico!»
«Ma David ha ragione» obiettò Megan cautamente. «Potrebbe essere una coincidenza. Cosa dice il laboratorio delle microspie che abbiamo trovato da voi?»
Don le mostrò il rapporto che mezz'ora prima aveva preso personalmente dal laboratorio. «Niente» rispose. «Non possono rintracciare la fonte o attribuirle a qualcuno. E finché non sapremo che cos'è acceduto a Charlie nell'ottobre dello scorso anno e non avremo altre tracce, dobbiamo continuare a indagare su cos'è successo all'epoca. E troveremo Charlie!»
A Colby non sfuggì che il comportamento di Don e ciò che giustificava le sue azioni era pericoloso. Si rendeva conto che le conclusioni di Don al momento non seguivano la logica, benché fosse possibile che avesse ragione in questo caso particolare. Ma come potevano esserne sicuri? Forse la soluzione era in tutt'altro posto? E Don non aveva intenzione di allargare l’orizzonte, era troppo fissato, troppo impuntato, troppo disperato nel voler risolvere questo caso...
Caso, pensò Colby con un'ombra di una coscienza sporca. Questo era più di un caso. Era Charlie ad essere scomparso. Il loro collega. Il loro amico.
«Ma anche se ha qualcosa da fare con quell'incarico» la voce di David fece ritornare Colby, «non abbiamo ancora trovato una motivazione valida per cui quest'agenzia o chiunque altro abbia fatto sorvegliare Charlie. L'incarico era finito, no?»
«Lo era?» disse Don in tono provocatorio. «Chi lo dice?»
Non ricevette una risposta. Colby dovette dargli ragione: non avevano prove che Charlie avesse finito il suo incarico. Piuttosto il contrario: dal momento che Charlie non era ritornato prima della sua presunta morte, aveva probabilmente continuato a lavorare al progetto. Ma perché non li aveva contattati? E perché l'informazione della sua morte era arrivata così tardi, solo quasi un mese dopo la sua scomparsa e la sua presunta morte?
«In ogni caso dobbiamo scoprire da dove provengono le microspie» disse Megan, tentando di rivolgere la conversazione in una direzione che sarebbe stata loro effettivamente d’aiuto.
«Aspetta!» la interruppe Colby. «Se le microspie hanno davvero qualcosa a che fare con l'incarico di Charlie in autunno, perché non l'hanno sorvegliato fino da allora? Oppure le microspie sono state istallate per voi, per te e tuo padre?»
Don ci rifletté per un attimo, ma aveva troppi pensieri per la testa e la cosa non fu così facile.
«Chi ci dice che Charlie non sia stato sorvegliato già prima?»
Gli altri lo presero in considerazione. «Pensi» chiese David, «che forse era già sorvegliato nella clinica?»
Don annuì leggermente e sembrava essere sempre di più convinto della sua idea. «Sarebbe plausibile, no? Devono aver saputo in un modo o un altro che Charlie era ritornato in California. In ogni caso dovremmo controllare».
«Va bene. Mi metterò in contatto con la clinica» disse David.
«Ed io farò in modo che una squadra dell'RIS controlli ogni cosa, soprattutto la camera in cui stava Charlie» aggiunse Colby.
Don annuì e i due scomparvero. Megan rimase con lui. L'espressione preoccupata non aveva ancora lasciato le sue fattezze e Don non riusciva a togliersi di dosso la sensazione che quella preoccupazione riguardasse più lui che suo fratello.
E la sua impressione si rivelò esatta. «Don?» chiese Megan con voce bassa e cauta. Aveva di nuovo messo su il suo sguardo da psicologa. «Sei sicuro –»
Ma Don non le lasciò finire la frase. «Non sono stato chiaro?! Al lavoro, Megan!»
- - -
Charlie sobbalzò quando bussarono. Avrebbe dovuto abituarsi a quel suono in futuro, pensò vagamente, mentre si alzava sulle ginocchia che facevano giacomo-giacomo.
Con una presa ferma sul suo omero, lo portarono nella stessa stanza d’interrogatorio dell'ultima volta, però ora l'acqua e il sandwich erano già sul tavolo. Accanto a un'altra pagnotta, salume, formaggio e un grosso coltello. Per un folle istante, Charlie pensò semplicemente di afferrare il coltello e buttarsi allo sbaraglio, ma sapeva che non avrebbe avuto nessuna probabilità. Era da solo contro un numero sconosciuto di avversari. Sarebbe stata pura follia.
Allo stesso modo oppresse, con uno sforzo enorme della propria volontà, l'istinto di dare subito un morso alla pagnotta, sedendosi prima e aspettando che Rosenthal gli facesse un breve cenno del capo.
«Vada pure. Si serva».
Vorace come mai si sarebbe ritenuto capace, Charlie buttò giù il pane. Rosenthal aspettò finché non ebbe finito, prima di passare alla parte della riunione che a Charlie piaceva decisamente meno del cibo.
«Dunque, Dottore – è diventato più ragionevole nel frattempo? Che cosa ci può dire dei suoi complici?»
Con il cibo, Charlie sembrava aver preso anche rinnovata fiducia in sé; in ogni caso rimase sicuro e fermo. «Niente. Non ho dei complici».
«Ma non può dirmi che ha commesso questi attentati da solo! E se l'ha fatto, si sarà sicuramente accorto che ora avrà solo lei la colpa di tutto; non migliorerà le sue prospettive davanti a un tribunale».
Charlie poteva solo supporre che quei terroristi del CIA intendevano fargli fare una deposizione con la quale lo avrebbero tenuto in pugno. Ma non avrebbe fatto loro questo piacere.
«Non ho commesso attentati. Non sono un criminale, a differenza vostra».
Rosenthal doveva essere un bravo attore. In ogni caso incredulità e derisione erano cose che padroneggiava alla perfezione.
«Olà! Non mischi i fatti, professore. Non vorrà dire sul serio che il governo degli Stati Uniti commette crimini! Lei sa che noi operiamo solo per il governo. E' lei il criminale».
Pian piano, Charlie stava diventando stufo di quelle ripetizioni. Però si accorgeva anche che era quello lo scopo di Rosenthal e la sua banda: renderlo mansueto facendogli sempre le stesse domande, con la stessa tenacia, la stessa incredulità. Ma lui non l'avrebbe permesso.
«Sono innocente» ripeté con un tono fermo.
Il viso di Rosenthal diventò più freddo e Charlie non fu più sicuro del fatto che stesse fingendo. «Davvero?» Prese il primo di una piccola pila di fascicoli accanto a sé, lo aprì e sbatté le immagini davanti a Charlie. «Lo vede? Questo è opera sua! Questi sono i suoi attentati! Guardi! Guardi che cos'ha fatto!»
Charlie voleva distogliere lo sguardo, ma non poteva. Le immagini l'attiravano in un modo terribilmente tragico, benché preferisse molto di più chiudere semplicemente gli occhi. Ma doveva continuare a fissarle, quelle persone, i loro corpi morti in mezzo alla strada, indegno per un essere umano, come se fossero rifiuti la cui rimozione è uno scomodo dispiacere. Una delle donne teneva una bambina tra le braccia, probabilmente sua figlia. Entrambi i visi erano sfigurati, la parte bassa del suo corpo mancava. La bomba l'aveva tranciato.
Charlie deglutì e la sua voce fece posto a un bisbiglio instabile. «Non sono stato io. Sono innocente».
Sapeva che non era la verità. Non era innocente. Non ne era stato consapevole, ma aveva aiutato quella banda: trovare il posto giusto per la bomba era stato il suo incarico. Se non l'avesse accettato, tutte quelle tante persone in foto sarebbero ancora vive ora.
«Sta mentendo. È stato lei a fare questa bomba, o almeno ha avuto aiuti per questo. In ogni caso è coinvolto. Ci dica che cosa sa!»
La voce di Charlie diventò più disperata e aumentò in volume. «Niente! Non so niente!»
«Non menta!» Anche l'altro urlò. «Guardi le immagini! Guardi le persone! Lei le ha uccise! E insiste ancora nel dire che non è un terrorista?!»
Charlie non rispose. Sì, era sicuro, poteva ricordare, sapeva che cos'aveva fatto e che cosa non aveva fatto. Sapeva quanta colpa gravava su di lui e quanta sugli uomini che l'avevano in custodia. Ma questo quegli uomini non avrebbero mai dovuto saperlo. Perché se avessero capito che lui ricordava i suoi crimini di allora, avrebbero anche saputo che era un pericolo per loro. Avrebbe potuto identificarli, avrebbe potuto svelare i loro crimini, testimoniare contro loro. No, doveva tacere, non poteva lasciar capire loro che avrebbe potuto identifi-
Ma poteva identificarli anche così! L'avevano fatto prigioniero, contro la sua volontà: stavano commettendo un reato, l'avevano sequestrato! E non importava quante volte gli avrebbero ancora raccontato che era successo tutto nei limiti della legge, che facevano parte del governo, rimaneva una storia falsa e lo sapevano, proprio come lo sapeva lui. E se Charlie fosse stato liberato, non ci sarebbe stato – anche dal loro punto di vista – più nessun dubbio sul fatto che nulla in quella faccenda era regolare, che quegli uomini ne avevano fatte di cotte e di crude, enormemente. E ciò voleva dire... Charlie deglutì, ma non vedeva nessun'altra fine: poteva identificare i suoi rapitori e questo significava che non gli avrebbero dato la possibilità di venire in contatto con nessuno. Mai più.
- - -
Don tentava di rimanere calmo, ma era tutto tranne che semplice. Gli dispiaceva già per aver sgridato Megan in tale modo, ma non dovevano perdere di vista il loro obbiettivo, dovevano rimanere fissi su Charlie, non dovevano permettere che sparisse per sempre...
Appena prima di addormentarsi, quando il cervello era talmente pieno e vulnerabile che avrebbe semplicemente preferito scappare da se stesso, si era chiesto come stava Charlie. Probabilmente lo tenevano prigioniero. Ma come lo trattavano? Lo colpivano? Oppure lo lasciavano semplicemente da solo? Viveva nell’incertezza di come le cose sarebbero andate avanti? E che cosa volevano da lui? Gli facevano pressioni? In che modo? Mentale o fisico? Quale sarebbe stata la cosa peggiore? Oddio, che cosa ne avrebbero fatto di lui...
Alla fine, Don aveva dovuto prendere un sonnifero per concedere al suo cervello almeno alcune ore di riposo. Eppure non appena svegliato, quelle domande avevano continuato a tormentarlo. E Don non poteva semplicemente ignorarle; benché stesse sbattendo la testa contro il muro nella possibilità di trovare un modo per riavere Charlie indietro, c'erano sempre quelle scene orribili nella sua testa, in continuazione. Per questo era irritato e aveva problemi a stare in compagnia con altri.
E ancora una volta, sul fondo ma impossibile da ignorare e dimenticare, nascosta, c'era di nuovo quella domanda: “Che cosa succederà se non lo troveremo?”. Poi c'era anche la paura, la paura per nulla irrilevante, di far un errore che avrebbe portato a conseguenze fatali per il suo fratellino...
«Don?»
La voce era dolce e dolce era la mano sulla spalla di Don. Forse anche più dolce di quella di Megan. Don guardò in alto e fu sollevato che non fosse di nuovo la sua collega – benché l'apprezzasse e amasse –, ma Robin. Fermò gli occhi e sospirò, basso. Era un bene che Robin fosse lì.
«Ehi» disse lei a bassa voce. «Come stai?»
«Di merda» bisbigliò Don. Robin era la sola persona al mondo alla quale l'avrebbe mai ammesso in modo così franco.
Gli accarezzò un po' i capelli. «Avete trovato qualcosa?»
Don era certo che lei sapesse molto bene quanto incatenate fossero le due domande. Lo sapeva da un anno. La situazione era così orribilmente simile a quella di allora...
«Forse» disse, vago. Non voleva creare troppa speranza in altri e in se stesso solo per vederla distrutta l’attimo successivo, ma allo stesso tempo voleva aggrapparsi ad ogni filo che potevano trovare.
«Hai un'idea su dove possa essere Charlie?»
Don esitò. La sua idea era vaga e non ne aveva nessuna prova, e nessun indizio. Eppure sperava così ardentemente di esser sulla pista giusta che non poteva più tenerlo per sé.
«Sto pensando che sia in Nebraska. Siamo piuttosto sicuri che è stato sequestrato dalle stesse persone dell'altra volta. All'epoca lo abbiamo trovato in Nebraska, dunque perché non ora?»
Robin aggrottò la fronte in una smorfia di vaga compassione.
«Lo sai che è piuttosto tirato per i capelli? Se i sequestratori all’epoca avessero voluto liberarsi di Charlie, avrebbero potuto abbandonarlo in qualsiasi posto comodo per loro. Non hai detto che l'incarico di Charlie era all'estero?»
«L'abbiamo pensato allora. Ma non abbiamo mai avuto prove. E inoltre non sappiamo se i rapitori abbiano lasciato andar via Charlie liberamente. Siccome, a quanto pare, l'hanno sequestrato un'altra volta, a questo punto credo sia improbabile. E se Charlie è effettivamente scappato, è molto probabile che anche all'epoca sia stato tenuto prigioniero in Nebraska».
Robin non sembrava ancora convinta. Non intendeva demoralizzare Don, ma dovevano attenersi ai fatti. «Stai supponendo così tante cose…» disse perciò, sperando che Don avrebbe reagito in modo calmo alle sue parole.
Gli fece quel piacere. «Lo so. Ma è una possibilità. E esaminerò ogni possibilità finché non avremmo trovato Charlie».
- - -
Pian piano, Charlie sembrava riuscire a riconoscere un certo ritmo: una o due ore di interrogatorio, una mezza giornata o una intera in cella, poi l’interrogatorio, poi la cella... Da un lato, quella continuità gli dava sicurezza; dall'altro, la sua vita (Charlie decise di applicare questo termine grandiosamente) era monotona in modo appena sopportabile. E non aveva nessuno con cui parlare. O comunque, nessuno con cui poteva fare conversazioni che andassero oltre le sue affermazioni di innocenza.
Aveva una nostalgia ardente di tutte le persone da cui quegli uomini l'avevano separato, e il desiderio di rivederle gli diede una speranza tale da impedirgli di affondare nelle profondità della disperazione. Li avrebbe visti, prima o poi. L'avrebbero trovato, sicuramente. Prima o poi tutto questo sarebbe terminato. I terroristi non l'avrebbero tenuto prigioniero per sempre.
Per un attimo, il rispiro di Charlie si bloccò. Aveva ragione, non l'avrebbero tenuto prigioniero per sempre. Solo per quel tanto che bastava ad essere utile per loro. A seconda di ciò che avevano ancora in mente di fare, questo periodo sarebbe potuto arrivare fino ad anni, anni in prigionia, in una zona d'ombra scurissima concernente la morale, ma anni di vita e con un minimo di speranza di esser trovato e salvato prima o poi o forse anche di liberarsi da solo.
Tuttavia poteva anche essere probabile che avevano intenzione di usarlo solo per quella pseudo-caccia ai terroristi. E non importava che cosa intendessero ottenere – quel progetto non sarebbe durato un'eternità. E comunque lui era un rischio per loro; dovevano aver interesse perché tutto si svolgesse nel minor tempo possibile, per toglierselo di torno.
Soprattutto... soprattutto se faceva di tutto per non essere di alcun aiuto. Perché in quel modo rimaneva solo un potenziale rischio per i loro progetti e non più un mezzo per avvantaggiarli. Quando sarebbero arrivati alla conclusione che non avrebbero potuto usarlo e ottenere la sua adesione ai loro progetti, l'avrebbero, con ogni probabilità, ucciso.
Charlie rabbrividì. Non aveva alcun dubbio riguardo quello che aveva appena pensato. Ma che cosa doveva fare? Anche se il rifiuto di aiutarli faceva tutto tranne aumentare le sue possibilità di sopravvivenza, doveva resistere, giusto? E non avrebbe mai potuto confessare di essere un criminale; non avrebbe mai potuto collaborare con loro! Perché così, avrebbe perso anche quel po’ di speranza che ancora rimaneva in lui, da qualche parte.
Tremolante, fece un respiro. Doveva semplicemente continuare a sperare. Doveva sperare che Don l'avrebbe trovato. Il più presto possibile.
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Capitolo 31 *** Senza speranza ***
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31. Senza speranza
And I see no bravery,
No bravery in your eyes anymore,
Only sadness.
(James Blunt, No Bravery)
«Don, che ci fai qui?».
Alan era confuso, quasi sconvolto. Suo figlio maggiore era appena ritornato a casa e, dopo un breve "Ehi, Papà", era scomparso in camera sua. Non aveva detto nient’altro. Nessuna spiegazione, nessuna informazione. Per Alan quell’incertezza era peggiore di qualsiasi altra cosa.
«Che sta succedendo, Donnie? Avete trovato qualcosa? Sapete qualcosa?»
«No» la risposta arrivò brusca mentre Don andava freneticamente avanti e indietro per casa, evidentemente radunando un guazzabuglio di oggetti. «Non abbiamo trovato niente, proprio niente» aggiunse nello stesso tono che mostrava la sua amarezza fin troppo bene.
Tutto questo non dava ad Alan più informazioni, lo rendeva solo un po' più disperato. E allo stesso tempo poco rilassato. «Quindi che cosa ci fai qui?».
La voce di Don veniva dal bagno. «Sto facendo le valigie. Andrò in quella clinica, in Nebraska».
«In Nebraska?! Quando?».
Questa volta la voce venne dalla sua stanza. «Fra mezz'ora».
Okay, questo Alan non se l’aspettava. E il suo istinto paterno gli diceva che con simili eventi imprevisti bisognava usare il doppio della prudenza. Eppure recuperò un po' di speranza.
«Credete che Charlie sia lì?».
La risposta non venne subito. Dopo qualche istante, invece della risposta comparve Don nel soggiorno, con una sacca di ginnastica in spalla. Quando entrò, però, mise la sacca sul pavimento, come se fosse già così carico da essere stanco. Alan ce la faceva appena a sopportare la tensione. «Non lo so», rispose Don finalmente, ma stranamente Alan questa volta non sentì la sua speranza diminuire. Forse perché era certo di cosa suo figlio avrebbe aggiunto: «Ma lo spero».
Alan deglutì; non era ancora sicuro se poteva sentirsi sollevato o meno. Non sapeva come continuare a fare domande e così fu felice che suo figlio, per una volta, non si fece cavare le parole dalla bocca, ma rivelò le informazioni che voleva sapere da sé. «Supponiamo che Charlie sia stato sorvegliato in questa clinica in Nebraska. Abbiamo mandato lì una squadra del RIS locale, ma loro non hanno trovato niente. E adesso vogliamo controllarlo noi stessi».
Alan si sentì confuso. «Credi davvero che troverete qualcosa?»
La risposta di Don venne con una nota dolorosa: «E' la migliore pista che abbiamo».
- - -
Amita e Larry ce l'avevano fatta a compilare un identikit provvisorio, ma, come si aspettavano, a causa del risultato molto vago, la comparazione dei punti facciali con le banche-dati non era servito a niente. Certo, intendevano ottimizzare l'immagine e sperare che poi sarebbe servito a qualcosa nelle indagini, ma avrebbero potuto metterci del tempo e Don non aveva intenzione di aspettare senza far nulla.
Sapeva che la sua squadra non era completamente d'accordo con la sua decisione. Eppure non potevano negare che attualmente non avevano altra pista che quella clinica. E inoltre era il loro capo. Dovevano accettare alla sua decisione, che fossero d’accordo o meno.
Sapeva che c’era la possibilità che seguendo quella pista non avrebbe fatto altro che perdere tempo, tempo di cui Charlie probabilmente aveva un bisogno disperato. Ma si proibì di pensarci. Non voleva perdere la speranza, la speranza che avrebbero finalmente fatto un passo avanti, che si sarebbero avvicinati a Charlie almeno un po'... In ogni caso avrebbero avuto più possibilità di raccogliere i dati necessari nella clinica senza seguire la lunghissima procedura burocratica della direzione. E forse in quei documenti avrebbero trovato indicazioni che Charlie era stato davvero sorvegliato anche lì. E forse così avrebbero trovato qualche nome e le persone che l'avevano sequestrato...
Il cuore di Don batteva violentemente mentre manteneva la sua speranza con forza.
- - -
Charlie trasalì quando fu svegliato da un forte rumore alla porta della sua cella. Socchiuse gli occhi. Era già di nuovo tempo per l’interrogatorio? Poteva quasi immaginarlo. Si sentiva come se si fosse appena appisolato e la stanchezza ne era un chiaro sintomo. Però forse aveva già perso completamente il senso di tempo?
«Su, si alzi! Si volti, le mani dietro la schiena!»
Charlie riuscì appena a mettersi in piedi, per quanto era esausto. Ma la voce aspra dell'uomo alla porta era abbastanza intimidatoria perché si desse velocemente una mossa ed eseguisse i suoi ordini.
«Venga!».
Charlie incespicò quando lo tirarono con loro. Era talmente stanco... Aveva creduto che l’avrebbero lasciato un po' in pace, si era preparato ad alcune ore di relativo riposo.
Di nuovo veniva condotto in una sala d’interrogatorio, di nuovo c'era Rosenthal di fronte a lui, di nuovo pronto a valutarlo, di nuovo con quel sorriso freddo. Questa volta però Charlie pensò di poter scorgere una nuova sfumatura nelle sue fattezze, un nuovo attributo di malignità.
Lo fanno apposta!, gli passò per la testa, e ad un tratto era sveglio, allarmato. Non l'aveva immaginato: questa volta era passato molto meno tempo fra gli interrogatori. Era davvero così: i terroristi avevano cambiato ritmo.
Ma perché? Charlie aveva un sospetto distinto: dovevano sapere che un tale sbalzo nella routine spossava il loro prigioniero, lo confondeva, lo faceva sentire incerto, gli faceva perdere l'equilibrio. Dovevano sperare che in questo modo avrebbero potuto fargli cambiare idea.
Ma si sbagliano, pensò Charlie con caparbietà e allo stesso tempo tentò di reprimere la sensazione di aver pensato a qualcosa di troppo grande. Come poteva sapere che avrebbe potuto far resistenza ai loro giochi mentali? Come poteva sapere che cosa gli avrebbero fatto, come questa tortura l'avrebbe cambiato? Soprattutto perché l’avevano spezzato già una volta...
Charlie prese a correre. Era un reazione di panico, completamente irrazionale. Ma non aveva più potuto sopportarlo, per nemmeno un attimo. Semplicemente non ce l'aveva fatta.
L'immagine di suo fratello morto era sempre davanti a lui e faceva riempire i suoi occhi di lacrime che offuscavano pericolosamente la vista. Ma doveva andar via, doveva fuggire, via dalla sua prigione, via dai suoi persecutori, via dall'immagine...
Sentiva i passi dei suoi avversari dietro di sé. Sapeva che sarebbe stato vano, sapeva che non poteva fuggire da lì, eppure aveva dovuto provarci.
'Dai, corri. Non darti per vinto.'
La nausea aumentò a una misura appena sopportabile quando si chiese se le parole erano venute da sé stesso o dal suo fratellone. Don... Perché, perché era morto? Perché...
Charlie cadde sulle ginocchia. Non ce la faceva più. Semplicemente non poteva. Non aveva più forza. Aveva tentato di dirsi che Don avrebbe voluto che avesse fatto di tutto per liberarsi, che non si fosse dato per vinto. Ma Don non c'era più. E il tentativo di Charlie non aveva mai avuto altra possibilità che fallire. Dunque dov'era il senso?
I suoi persecutori quasi inciamparono su di lui. Non resistette. Poteva solo pensare a Don, a come l'avevano ucciso, che l'avevano...
Charlie piangeva, ma se ne accorgeva appena. Voleva semplicemente che tutto finisse, che tutto terminasse, che lo lasciassero in pace...
Le loro parole raggiungevano solo il suo subconscio. «Ti piacerebbe, eh? Ma non puoi fuggire, mio caro. E anche se riuscissi a scappare da questo posto, non potresti comunque fuggire da noi. Non ricordi la nostra piccola misura precauzionale?»
Con una presa ferma afferrò il polso sinistro di Charlie e lo tenne davanti agli occhi irrorati di lacrime del suo prigioniero. Charlie poteva distinguere una ferita quasi guarita, un taglio sulla pelle, eseguito con precisione chirurgica. Sì, gli avevano inciso il polso contro la sua volontà. L'avevano anestetizzato, ma quando si era svegliato, con le mani legate ai braccioli di una scomoda sedia, aveva potuto capire che cos'era successo, soprattutto perché l'avevano minacciato: un microchip. Gli avevano impiantato un microchip. Ed anche se ce l’avesse fatta a fuggire, avrebbero ancora potuto localizzarlo.
Gli avevano tolto tutto. L'avevano privato della sua libertà, la sua dignità, di suo fratello e infine della sua speranza. Gli avevano tolto tutto ciò a cui si era aggrappato e l'avevano lasciato a se stesso. E lui non aveva più di forza. Sì, i loro giochi mentali l'avevano spinto alla disperazione cosicché aveva sferrato quest'ultimo tentativo di fuggire, ma non aveva avuto speranza di riuscirci. Ce l'avevano fatta a demoralizzarlo completamente. E sebbene ci avesse pensato tanto – non riusciva a trovare nemmeno una ragione per mantenersi in vita.
Charlie aveva freddo. La sensazione veniva dal suo interno e per un attimo ebbe la sensazione assurda che il microchip nel suo polso fosse l'origine di quel freddo. E forse lo era. Ricordava: durante la sua prigionia in autunno gli avevano impiantato il microchip, cosa che in fondo era stata superflua perché nel periodo seguente l'avevano tenuto sotto un controllo talmente rigoroso che non aveva nemmeno potuto cercare di rimuovere il meccanismo di localizzazione. E infine non gli era più interessato, per niente. Nulla più gli importava. Don non c'era più e non vedeva alcuna possibilità di fuggire dai suoi rapitori. E collaborare non era neanche un'opzione. Così, la sua volontà di vivere, che comunque era stata quasi pari a zero, si era minimizzata sempre di più finché non era più rimasto niente. Aveva smesso di mangiare, di bere, e di vivere. Vegetava. E questo doveva esser stato il suo ticket per la libertà.
Erano diventati nervosi. Il loro prigioniero, che una volta aveva elaborato delle risorse promettenti, era andato vicino alla morte; avevano dovuto agire in fretta. Si erano liberati di lui, ma a giudicare dalle apparenze, avevano continuato a tenerlo d'occhio. Alle loro risorse. Al loro punto debole.
Adesso, avevano agirato il pericolo all’origine: lui. L'avevano catturato di nuovo. E Charlie ne era stufo. Era stufo di lottare, degli interrogatori, di essere da solo. Voleva che tutto avesse fine. Era talmente stanco...
«Chi sono i suoi complici?»
«Non ho dei complici» mormorò Charlie, ancora pensando più al suo ricordo che al presente ugualmente sgradevole.
«Dunque ha commesso gli attentati da solo?»
«Sì... No, non ho...» Charlie era confuso. Non riusciva più a concentrarsi. Aveva mal di testa. Voleva dormire, era talmente stanco... «Non ho commesso gli attentati. Sono innocente».
Quando avrebbero finito? Quando l'avrebbero finalmente lasciato in pace?
Charlie si sentì male quando si accorse che sapeva la risposta: mai.
- - -
Don aveva un peso sul petto e la sua bocca non era più di una linea sottile quando si alzò dal letto. Il RIS che era stato lì prima aveva ragione: non c'era più niente, nessuna microspia, nessuna telecamera nascosta, niente. Nemmeno un'indicazione che Charlie era mai stato lì. Avevano pulito la camera a fondo, anche se non era stata più usata dalla dimissione di Charlie.
Nel frattempo avevano perquisito la sua camera due volte (se contava anche il RIS esterno, tre) e il fatto che semplicemente non c'era niente da trovare non sarebbe cambiato. Prima del loro secondo tentativo, avevano anche lanciato uno sguardo al soggiorno, sulla terrazza e in altre stanze comuni della clinica. Niente.
«Voglio parlare con gli addetti alle pulizie» disse Don, ma la sua voce così abituata ad ordinare tremò. Cosa avrebbe fatto se anche quello fosse risultato un vicolo cieco? Se stavano solo perdendo tempo?
«Per questo devo guardare negli atti» rispose il capo della clinica. Era una cinquantenne risoluta, energica, ma non scortese. Aveva acconsentito a collaborare con le agenzie controllando il caso del suo ex-paziente scomparso benché non potesse immaginare che cosa mai l'FBI avrebbe potuto trovare.
La donna delle pulizie in questione era nella clinica, ma alle domande della squadra se si fosse accorta di qualcosa pulendo la camera di Charlie, poté solo rispondere con un "no". Un altro vicolo cieco.
Don però non era intenzionato a rinunciare. In un modo o un altro, i sequestratori di Charlie dovevano aver saputo che aveva lasciato la clinica ed era tornato a casa – almeno se, come credevano, il rapimento di Charlie aveva a che fare con il suo incarico in autunno. E in questo non dovevano sbagliarsi, semplicemente non dovevano...
«Abbiamo bisogno delle cartelle personali di tutti i suoi collaboratori, Signora Heydrich».
E con questa richiesta era giunto il momento in cui il capo della clinica non era più pronta a collaborare. «Con quale giustificazione?» chiese prontamente.
«Abbiamo il forte sospetto che la vittima di rapimento sia stata sorvegliata qui e se non è successo con mezzi tecnici, forse allora si sono serviti di uno dei suoi collaboratori».
«Lo credete voi».
«Per favore, Signora Heydrich» intervenne Megan. Sapeva che con i pochi indizi che avevano avrebbero fatto fatica ad ottenere un mandato di perquisizione, ma sapeva altrettanto bene che Don non si avrebbe dato per vinto. E benché fosse difficile ammetterlo, non avevano abbastanza tracce per continuare. «Tratteremo i documenti con discrezione. Se i suoi collaboratori non risulteranno implicati, non avranno nulla da temere».
La Signora Heydrich non sembrava ancora convinta. «Questo lo dite ora» obiettò. «E la settimana prossima tutti i fascicoli saranno accessibili ad ogni agenzia senza problemi». Esitò e poi sembrò prendere una decisione. «Datemi un ordine giudiziario e io vi darò tutto».
«Il problema, Signora Heydrich, è questo» prese parola Colby, «per quando lo otterremo potrebbe essere troppo tardi. Al momento, Charles Eppes è considerato scomparso da cinque giorni. Ogni minuto potrebbe salvargli la vita».
Si poteva vedere che la Signora Heydrich stava lottando con se stessa. Come capo, non aveva molto contatto con i pazienti, ma quelli che risiedevano lì, li conosceva almeno di nome. E anche se non c'erano casi di routine, il caso di Michael era stato particolarmente fuori dagli schemi. Prima le circostanze misteriose circa il modo in cui era arrivato da loro, poi le circostanze altrettanto misteriose su come li aveva lasciati... E adesso, era scomparso di nuovo. Era difficile da comprendere. E lei, come capo della clinica di cui era stato paziente poco prima di scomparire, non aveva una certa responsabilità? Soprattutto perché era possibile che uno dei suoi collaboratori sapesse qualcosa. Lei era ben lungi dal mettere la mano sul fuoco per ogni di loro; semplicemente aveva poco conoscenza del personale. E tra di loro c'erano anche quelli che lavoravano solo occasionalmente lì, aiutanti – come poteva essere certa che non avessero qualcosa a che fare con la scomparsa del giovane uomo?
Deglutì. «Va bene. Ma tratterete gli atti con discrezione!»
«Ovviamente».
- - -
Charlie si sentiva avvilito. Voleva solo dormire, preferibilmente nel suo letto, ma si sarebbe accontentato anche del materasso sottile nella sua cella. Gli bastava poter fuggire nel sonno e nella solitudine. Perché i suoi incubi in quel momento gli sembravano migliori di quella situazione. Almeno poteva svegliarsi dagli incubi.
Lì, invece, non poteva nemmeno addormentarsi. Non sapeva per quanto tempo lo stavano già tenendo sveglio, ma non potevano essere più di tre o quattro giorni, anche se gli sembrava un'eternità. Gli interrogatori cambiavano, ma gli interrogativi rimanevano sempre gli stessi, ancora e ancora... “Confessa che è un terrorista?”, “Quanti attentati ha già commesso?”, “Chi sono i suoi complici?”, “Ci dia i loro nomi!”, “Come si chiamano i suoi...”.
Charlie si era appena appisolato quando un colpo lo fece sussultare. Levò la testa per alcuni centimetri e sotto le palpebre gravi distinse vagamente una mano piatta sul tavolo, ma non poteva nemmeno vedere a quale terrorista della CIA toccava di interrogarlo in quel momento.
«Come si chiamano i suoi complici? Risponda!».
«Non lo so» mormorò Charlie, debole. Era stanco, incredibilmente stanco...
«Non menta!»
Charlie trasalì, ma le sue palpebre rimasero ferme, tranne che per una fessura piccolissima. Erano talmente pesanti e lui era semplicemente così stanco...
«Ci da i loro nomi!»
«Non so niente...»
Contro la sua volontà, gli salirono le lacrime: premevano sui suoi occhi e al di fuori, per scivolare lungo le sue guance. Non voleva piangere, davvero non voleva, ma era talmente stanco...
«I nomi!»
Le lacrime scesero più veloci. Perché avrebbe dovuto impedirlo? Non ce l'avrebbe fatta comunque. Era talmente stanco...
«Dobbiamo farle del male, professore? Lo vuole? Dobbiamo farle male?»
«Non so niente...»
Potevano colpirlo. Potevano fare di lui qualunque cosa volevano. Lui voleva solo dormire, dormire, voleva calma...
«Possiamo devastarla se non ci aiuterà!»
Potevano, potevano fare qualunque cosa volevano. Non era importante. Niente non era più importante. A Charlie sembrava tutto uguale.
Come da lontano, sentì la sua testa abbassarsi sul petto. Nello stesso momento sentì la paura di venir spaventato da un rumore forte o di venir trascinato in piedi o di venir sgridato con delle grida. Ma non successe niente e diventò un po' più calmo. Era stanco, talmente stanco...
Praticamente nel suo subconscio, sentì un click piano, ma non ci badò. E poi una voce, una voce che, in confronto alle altre, era talmente dolce che Charlie era quasi sicuro che fosse già scivolato nel regno dei sogni.
«Ecco, professore. Sembra esser stanco, molto stanco. E noi abbiamo ben voglia di lasciarla dormire. Ma anche noi vogliamo dormire in pace. E potremo farlo solo quando lei ci avrà assicurato il suo aiuto».
Charlie aveva appena ascoltato. Non gli importava comunque.
«Voglio che adesso lei risponda alla mia domanda obbligatoria: farà i calcoli che le sottoporremo? Dica "sì" se acconsente».
Charlie non sapeva molto bene che cosa stava facendo, non sapeva di che cosa si trattava, voleva semplicemente dormire, tentare di dare un colpo al cerchio e uno alla botte perché lo lasciassero semplicemente in pace.
«Sì».
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Capitolo 32 *** Senza scelta ***
Grazie per le recensioni e buon divertimento!
32. Senza scelta
You’re obsessed with all my secrets.
You always make me cry.
You seem to wanna hurt me,
No matter what I do.
I’m telling just a couple,
But somehow it gets to you.
(Lene Marlin, Sitting Down Here)
Charlie ci mise un po’ ad essere abbastanza sveglio da capire che erano di nuovo venuti nella sua cella e gli stavano gridando degli ordini. Si mise a sedere il più velocemente possibile, ma non abbastanza per i suoi avversari.
«Dai, sbrigati!»
Charlie si alzò, si lasciò tirare in piedi, trascinare fuori: si lasciava fare di tutto. Era stanco, poteva appena tenere gli occhi aperti. Non era peggio di… era stato ieri? Non lo sapeva, aveva perso ogni senso d’orientamento. A giudicare da come si sentiva poteva aver dormito per un'ora o per una settimana: tutto era possibile. Comunque il suo cervello era di nuovo moderatamente attivo, ma il suo corpo rimaneva completamente esausto.
Quando si sedette di nuovo sulla sedia, avrebbe potuto addormentarsi all’istante, se non ci fosse stato Rosenthal.
«Buongiorno, dottore. Suppongo che non abbia nulla in contrario se cominciamo subito col lavoro. Vogliamo solo chiarire brevemente le nostre condizioni contrattuali».
Pian piano, Charlie realizzò che non aveva idea di cosa Rosenthal stesse parlando, ma lo lasciò continuare.
«Saremo noi a stabilire quando sarà terminato il suo incarico. Fino ad allora, lei, sotto la nostra supervisione, lavorerà ai progetti che le daremo. Avrà contatto col mondo esterno solo quando noi glielo permetteremo. Non sarà retribuito, ma riceverà cibo e alloggio gratuito. In compenso, il governo accetterà di non muovere alcuna accusa contro lei riguardo le sue attività terroristiche».
Anche se Charlie fosse stato più sveglio probabilmente non avrebbe trovato parole da dire. I suoi rapitori potevano davvero essere così sfacciati? Potevano, dopo tutti i suoi rifiuti, veramente credere che sarebbero riusciti a farlo cooperare con una tattica simile, cercando di coglierlo di sorpresa?
«Scordatevelo».
Solo un istante più tardi gli venne in mente che sarebbe stato opportuno mantenere un tono più cortese con le persone nelle cui mani si trovava, ma le parole erano già fuori. Non dovette attendere a lungo la reazione: le sopracciglia di Rosenthal si restrinsero.
«Che cosa intende dire, Dottor Eppes?»
«Dico che non vi aiuterò. Ve l'ho già detto». Innumerabili volte, aggiunse nella sua testa con una traccia di disperazione.
Rosenthal scosse il capo. Le sue fattezze erano pietrificate e Charlie sentì di nuovo brividi lungo la schiena. «Ci ha dato la sua parola, Dottor Eppes. Si è impegnato a collaborare con il governo».
Charlie era convinto che fosse un'altra delle loro bugie per renderlo insicuro. E lui non avrebbe fatto loro un simile piacere... almeno non avrebbe voluto farlo. «Non è vero».
«Non menta, dottore» lo redarguì Rosenthal, e suonava talmente serio e credibile che Charlie non osò contraddirlo di nuovo.
L’uomo allungò la mano verso un registratore a nastro sul tavolo e premette un bottone. Fece clic; il suono svegliò qualcosa nella memoria di Charlie.
«Ecco, professore. Sembra esser stanco, molto stanco. E noi abbiamo ben voglia di lasciarla dormire. Ma anche noi vogliamo dormire in pace. E potremo farlo solo quando lei ci avrà assicurato il suo aiuto. Voglio che adesso lei risponda alla mia domanda obbligatoria: farà i calcoli che le sottoporremo? Dica "sì" se acconsente».
Passarono solo pochi istanti prima che Charlie udisse la sua voce: «Sì».
Charlie respirava rapidamente. Aveva avuto uno strano presentimento su cosa sarebbe arrivato, quale risposta avrebbe pronunciato, ma aveva pensato che l'avesse solo sognato o immaginato, come un déjà vu. Invece l'aveva detto. Lui, proprio lui l'aveva detto: in realtà, aveva accettato l'incarico. Ricordava appena la conversazione, era stato talmente stanco, ma sapeva che aveva avuto luogo, che non era uno dei loro trucchi.
«Questo è un contratto vincolante, Dottor Eppes. Lei ci ha promesso la sua collaborazione. Se rompe il contratto sarà passibile di pena. Un altro reato che si aggiungerà a quelli che già gravano su di lei».
Charlie cominciò ad accaldarsi. Doveva fuggire da lì. Doveva riflettere. Doveva recuperare la calma.
«Allora, Dottor Eppes? Con questo, la faccenda è chiara, giusto? Ha accettato l'incarico. A lavoro».
Con questo, Rosenthal si alzò. Charlie rimase seduto. Almeno finché degli uomini non lo trascinarono brutalmente per omeri fuori dalla stanza.
Charlie pensò prima che lo stessero portando di nuovo nella sua cella, ma i tre uomini si fermarono davanti ad un'altra porta e l'aprirono.
«Questo, dottore, sarà il suo nuovo posto di lavoro. Vi manderò subito uno dei nostri tecnici che l'aiuterà a familiarizzare con tutto. Non faccia scherzi, comunque non avrà alcuna chance».
Charlie credette che era giunto il momento di mostrare la sua reticenza con un po’ più di forza. «Non lavorerò per voi».
«Vuole violare il contratto?»
Charlie non rispose subito. Il suo cuore batteva veloce. Se avesse detto "sì" in quel momento, se avesse violato il contratto orale, avrebbe davvero commesso un crimine. E a quel punto i terroristi l'avrebbero davvero tenuto in pugno.
Dall'altro lato, però, lo tenevano in pungo già da tanto tempo. E se avesse eseguito i loro ordini, la sua illegalità non si sarebbe limitata alla violazione di un contratto.
«Sì, lo voglio» rispose quindi Charlie, però non poté evitare il tremolo della sua voce. Questo ruolo non gli si addiceva affatto. Stava agendo secondo il suo senso morale, ma completamente contro il suo istinto di sopravvivenza. «Non lavorerò per voi». L'aveva detto talmente tante volte fino ad allora che stava per aggiungere un "e adesso basta" prima di accorgersi che non avrebbe dovuto mostrare ai suoi rapitori una simile mancanza di prospettive per i loro progetti con tanta chiarezza.
- - -
Mentre David e Colby controllavano gli atti cercando delle irregolarità e tentando di trovare informazioni sui conti di alcuni di loro, Don e Megan si stavano occupando di interrogare il personale. Ha fatto caso a qualcuno sospetto negli ultimi sei mesi? Uno dei suoi colleghi ha mostrato un improvviso interesse per un paziente in particolare? Le risposte di solito non li aiutavano. Di tanto in tanto qualche infermiere sembrava dare loro un paio di informazioni rilevanti, ma nella verifica si rivelavano puntualmente un buco nell’acqua.
Per tutto il fine settimana furono occupati con il personale senza però trovare una qualsiasi informazione che fosse rilevante. Avevano cominciato ad interrogare quelli che erano in servizio in quel momento ed nel pomeriggio della domenica proseguirono andando ai domicili degli altri collaboratori della clinica.
Sabato sera, Colby aveva ipotizzato che qualcuno aveva potuto hackerare dall’esterno i computer della clinica e avere accesso a tutti i dati. Esaminarono questa traccia con diligenza, ma scoprirono che la clinica aveva un sistema interno e che nessuno computer era collegato ad internet o ad un’altra rete esterna; in ogni caso non c'era alcun indizio che qualcuno non autorizzato si fosse procurato i dati dei pazienti o altre informazioni dai computer.
Megan infine aveva proposto di dare un’occhiata più approfondita alle persone che avevano lavorato in clinica durante il soggiorno di Charlie. E fu a quel punto che trovarono qualcosa: c'era un infermiere, Jonathan Taylor, che aveva cominciato poco dopo il ricovero di Charlie e che si era licenziato all'inizio dello scorso mese, un tempo di lavoro davvero breve con date d'inizio e di fine sospette. Quando però approfondirono le ragioni di quella stranezza, la cosa fu ovvia: sua moglie aveva trovato un nuovo lavoro ben pagato nell'area e durante il mese di settembre dello scorso anno si erano trasferiti. Suo marito aveva trovato un nuovo lavoro solo ad aprile e fino ad allora era, per un periodo di transizione, stato impiegato nella clinica. Naturalmente lo avevano sottoposto ad un controllo accurato, ma non avevano trovato niente. Taylor sembrava avere la coscienza pulita e dunque essere un altro vicolo cieco.
Intanto, era lunedì e non avevano ancora fatto un singolo passo in avanti. La speranza era diminuita sempre più, ma non aveva ancora raggiunto il punto zero. Non avevano ancora controllato tutti, c'era ancora la possibilità di trovare qualcuno, c'erano ancora delle persone potenzialmente sospette.
Per esempio Doris Conrad. Prossima ai trent’anni, impiegata lì da già otto, sembrava poco appariscente e forse un po' nervosa mentre si trovava faccia a faccia con due agenti federali. Era poco dopo le cinque del pomeriggio; aveva appena terminato il suo turno di lavoro ed aveva acconsentito a rimanere per un altro po' per rispondere alle domande dei due agenti della California.
«Signora Conrad» cominciò Megan, «ricorda per caso un paziente che soffriva di amnesia di nome Michael che è stato curato qui fino a metà aprile?»
Olà, pensò Don fra di sé e per la prima volta dopo ore fu completamente concentrato. Perché era sicuro che Doris Conrad aveva spalancato appena un po' gli occhi. Cercò comunque di non mostrare il suo interesse. Se la donna sapeva o cercava di nascondere qualcosa, non voleva intimorirla.
Dopo un'esitazione molto rivelante rispose: «Sì».
Anche a Megan non era sfuggito il nervosismo anormale della donna, ma neanche lei lo mostrava. «Sa che questo paziente è scomparso una settimana fa?»
Gli occhi si allargarono ancora di più e i due agenti potevano vedere che la donna deglutire. «No».
«Ne sa qualcosa?» chiese Don energicamente.
Megan gli diede un breve sguardo. Poteva comprendere l'impazienza di Don, ma se metteva paura alla testimone, questa avrebbe probabilmente smesso di parlare del tutto.
«Io... no, non direttamente».
Non era difficile distinguere che la Signora Conrad avrebbe preferito essere in tutt'altro posto in quel momento. Megan continuò con un tono che – almeno sperava – potesse calmare la donna almeno un po'. «E indirettamente, Signora Conrad? Per favore, deve comprendere che la sua deposizione potrebbe aver un'importanza enorme per noi. Supponiamo che... Michael sia stato sequestrato. Se sa qualsiasi cosa, non importa quanto insignificante la trovi, per favore, ce la dica. Possiamo anche tacere il suo nome se lo preferisce, ma deve dirci che cosa sa. Forse uno dei suoi colleghi ha dimostrato un aumentato interesse per Michael?»
La Signora Conrad tacque. A lungo. Megan poteva vedere che Don stava per far nuova pressione sulla testimone da un momento all’altro e anche lei dovette contenersi per non intimidire la donna tramite altre domande. Tutti e due sapevano benissimo che adesso dovevano essere pazienti, per quanto difficile fosse.
«Sì» rispose l'infermiera infine. «Una mia amica. Anna Silverstein».
Don dovette controllarsi con forza per non alzarsi in piedi immediatamente ed andare a trovare quell'Anna Silverstein a chiederle che cosa ne avesse fatto di Charlie. Invece chiese: «Dove possiamo trovarla? E in che senso ha dimostrato interesse per lui?»
Di nuovo la donna esitò, ma di nuovo la sua compassione per la vittima di sequestro, il suo paziente di una volta, sembrò aver il sopravvento. «Mi ha chiesto d'informazioni su di lui» rispose. «Anna ha smesso lavorare qui già da due mesi e da allora mi ha chiamato ogni settimana per chiedere come stesse Michael. Voleva essere sempre al corrente su di lui. Un sabato, due mesi fa, l'ho chiamata per dirle che era ritornato a casa. Da allora non ho più saputo niente di lei».
Il cuore di Don batteva con una tale velocità che poteva appena sopportare. Quella era una pista, davvero una pista! «Sa perché la sua amica fosse talmente interessata?»
«Non direttamente. Certo, gliel'ho chiesto, ma ha sempre evitato di rispondermi. Ma credo che avesse qualcosa da fare con dei soldi. Voleva andarsene da qualche tempo e da quando Michael è stato ricoverato qui, ha cominciato raccontare di come si sarebbe trasferita a breve perché avrebbe finalmente i soldi per farlo. Ma da dove li avesse presi non l'ha mai detto».
«Ha il suo indirizzo?»
«Sì. Me l'ha dato, per il numero di telefono. Adesso abita a Jackson, Mississippi, ma dovrei consultare la mia agenda per l'indirizzo esatto».
Don annuì e riuscì appena a nascondere la sua agitazione. Quell'Anna Silverstein aveva qualcosa da fare con la scomparsa di Charlie, era così ovvio...
«Controlleremo le sue dichiarazioni, signora Conrad. Purtroppo dobbiamo prenderla in custodia fino ad allora».
Ad un tratto il nervosismo della Signora Conrad si trasformò in orrore. «Deve fare cosa?!»
«Dobbiamo essere sicuri che lei non possa avvertire la sua amica finché non le avremo parlato. La prego di comprenderlo. Naturalmente sarà rimborsata dell’eventuale perdita finanziale causata da questo provvedimento».
«Sì, ma...»
Megan provava quasi pena per lei, ma sapeva che non avrebbe potuto far cambiare idea a Don. Lui non avrebbe rischiato di perdere una pista talmente buona riguardo l’ubicazione di Charlie. «Sarebbe davvero meglio per lei, signora Conrad, se venisse con noi volontariamente. Domani a quest'ora sarà tutto finito».
Doris Conrad sembrava ancora adirata, ma nei suoi occhi Megan poteva vedere che si sarebbe adattata.
- - -
Rosenthal colse l'occasione non appena il suo tecnico passò davanti la porta aperta del suo "ufficio". «Aspetta, Cedric!»
Cedric Patter si voltò e guardò verso lui dall'infisso. «Che c'è?»
«Entra. Chiudi la porta». Patter ubbidì. «Siediti». Rosenthal aspettò finché Patter non fosse seduto prima di continuare: «Come vanno le cose con Wellman?»
Cedric storse la bocca. «Non mi rende di certo le cose facili» rivelò senza esitazione. «Dico, non ho tanto da fare data la situazione attuale, ma davvero non so cosa fare con lui. Era più utile come talpa».
Rosenthal annuì, la faccia truce. «Ha completamente esagerato, quell'idiota».
La squadra intera – non solo quegli cinque che si trovavano nel bunker – era stata, a dir poco, infastidita delle ultime azioni di Clifford Wellman. Il fatto che di fosse lasciato la sua vita alle spalle e fosse fuggito via solo perché avevano dovuto cercare un nuovo nascondiglio… – no, era davvero stato esagerato. Beh', lavorava dall'FBI, proprio come il fratello del professore – ma era un legame del quale gli agenti federali non sapevano niente. No, non ce n'era un dubbio, la reazione di Wellman era stata stupida. E a causa di questo, adesso mancava a loro un informatore interno all'FBI. E a prescindere da quanto la proceduta investigativa sarebbe potuto rimanere segreta – perché il fatto che il fratello di Eppes e l'FBI avrebbero investigato sul caso era, per Rosenthal, chiaro come il sole –, adesso sarebbe potuto essere un problema ottenere le informazioni di cui necessitavano. Faceva sempre comodo loro sapere che cosa sapeva l’avversario. Ma d’altro canto, il rischio che dalle investigazioni dell'FBI sarebbe potuto emergere qualcosa era infinitamente piccolo. Lì sotto, nessuno li avrebbe mai trovati.
«E allora che cosa facciamo col professore?» voleva sapere Patter. «Sta parlando?»
I lineamenti di Rosenthal si oscurarono. «Non ancora. Ma lo sapremo fra poco».
Le sue parole suonavano più ottimistiche di quanto potessero concedersi nella realtà. Era una settimana che il dottore non parlava. Rosenthal era sempre più tentato di passar alla forza fisica, ma in fondo la cosa lo ripugnava. Lui non era un uomo rozzo. E chi sapeva se sarebbero davvero riusciti nell’intento usando metodi più brutali? Perché in fondo, il dottore aveva l'apparenza di uno che si poteva ben distruggere psicologicamente.
Ma anche in questo caso dovevano fare attenzione: il dottore non doveva impazzire ancora una volta. Era davvero un'impresa azzardata; forse era per questo che facevano progressi così lenti.
«Ci deve essere un modo per far pressione su di lui» mormorò Rosenthal, più a sé stesso che al tecnico. «Dobbiamo trovare i suoi punti deboli...»
Cedric tacque per un po'. Ma non era ancora stato dimesso, ragion per cui Rosenthal aspettava ancora che cercasse una soluzione al problema. E in effetti ebbe successo: «L'abbiamo sorvegliato continuamente, no? Non dovrebbe essere difficile trovare una qualsiasi cosa che ci riveli i suoi punti deboli…»
Rosenthal annuì lentamente. «Mica male... Abbiamo ancora le registrazioni delle sue telefonate di allora?»
«Certo». Cedric Patter raramente buttava via qualcosa. E qualche volta questo si era rivelato essere anche un bene, per esempio in quel momento.
«Va bene. Allora cerca di trovare qualcosa. Relazioni con altre persone, il suo passato... Semplicemente fruga ovunque e dimmi quando hai trovato qualcosa».
Patter annuì e se ne andò.
Rosenthal si appoggiò indietro sulla sua sedia girevole, contemplando, pensieroso, il telefono, come se tramite esso potesse guardare il passato. Potevano davvero ritenersi felici del fatto che avevano registrato le telefonate del dottore durante il suo incarico regolare a settembre. Questa sorta di metodo molto spesso si rivelava utile in seguito. Certo, il fatto che non fosse riuscito da solo a fare in modo che il professore collaborare offendeva un po' il suo orgoglio (ma solo perché abbiamo dovuto trattarlo con i guanti, si giustificò con se stesso, ostinato), ma ora aveva il buon presentimento che Cedric gli avesse presentato la soluzione ai loro problemi: si sarebbe risolto tutto oggi o forse domani o dopodomani. E poi avrebbero avuto il dottore finalmente al posto in cui lo volevano: con le spalle al muro.
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Capitolo 33 *** Punti deboli ***
33. Punti deboli
Another mother’s breaking, heart just taking over.
And the violence caused silence. We must be mistaken.
It’s the same old team since 1916.
In your head, in your head they’re still fighting
With their tanks and their bombs and their bombs and their guns.
In your head, in your head they are dying.
(The Cranberries, Zombie)
«Ne hai bisogno urgentemente?»
Rosenthal guardò in alto. Alla sua porta c'era Cedric Patter e per qualche ragione era un bene vederlo. «Hai trovato qualcosa?»
«Credo di sì. Non ho potuto esaminare le conversazioni in ogni dettaglio per ora, ma penso che il suo migliore amico sia un obiettivo adeguato».
Esitò per un attimo aspettando una prima reazione. Venne: Rosenthal inarcò le sopracciglia. «Sto ascoltando…»
«Si chiama Lawrence Fleinhardt; il professore però lo chiama Larry. Sono colleghi e a quanto pare si conoscono da sempre, non ho ancora approfondito la cosa. Ma a quanto ho capito dalle conversazioni, questo Fleinhardt sembra essere una sorta di figura paterna per Eppes. E' possibile che sbagli, comunque si conoscono benissimo, sono amici da anni e sono molto stretti. Inoltre quel professore probabilmente sarebbe facile da assalire in qualche modo; in ogni caso più facile del fratello, per esempio. E con Fleinhardt colpiremmo il professore probabilmente dove meno se l'aspetta».
Rosenthal annuì. Sembrava un piano promettente. Poteva semplicemente aver fiducia in Patter, soprattutto considerando che gli aveva dato quell'incarico solo il giorno prima. Mancava solo un piano. Ma Rosenthal aveva già un'idea...
- - -
Mentre Don e Megan erano andati in aereo a Jackson per continuare le loro indagini lì e investigare su Anna Silverstein, David e Colby erano rimasti in Nebraska per continuare a controllare il personale. Avevano considerato più intelligente non puntare tutto su una sola carta, ma lasciare aperte altre piste.
Don e Megan erano atterrati circa da un'ora appena fuori Jackson e adesso si trovavano in una zona poco lontana del centro. Stavano davanti ad una palazzina un po' vecchia ma in buono stato e controllavano i nomi dei campanelli. Alla quarta riga in basso, infatti, c'era "A. Silverstein".
Quando una donna anziana con un sacchetto della spesa vuoto uscì dalla casa, loro entrarono e salirono le scale verso l'appartamento della loro sospetta.
Don e Megan non suonarono finché si furono assicurati che non ci fosse un'altra via d'uscita dall'appartamento eccetto la porta d'ingresso. E siccome l'appartamento si trovava al terzo piano, speravano che quell’Anna Silverstein non sarebbe mai stata così matta da saltare dalla finestra. Se aveva una buona spiegazione e poteva aiutarli alla ricerca per Charlie, non avrebbe avuto una ragione per un atto così disperato.
La porta venne aperta e Megan e Don tesero i loro distintivi verso una trentenne. Don fu un po' sorpreso di vedere due bambini dietro la donna, un ragazzo e una ragazza, di circa dieci anni – Doris Conrad non aveva detto niente che lasciasse pensare che Anna Silverstein avesse dei bambini –, ma fu ancora più sorpreso delle numerose scatole di cartone che si intravedevano, l’una sull’altra. La Signorina Silverstein si stava preparando per fuggire da loro?
«Signorina Silverstein? FBI. Avremmo qualche domanda per lei».
La donna spalancò gli occhi. «FBI?» Ci mise un po' prima che il suo cervello sembrasse di nuovo pronto a connettere. «Un attimo». Si girò verso i suoi bambini. «Piccoli, perché non andate a giocare in camera vostra? La mamma deve parlare da sola con i signori della polizia».
«Ma mamma–» protestò il ragazzo.
«Andate in camera vostra!» strillò la madre con una violenza vistosa. I suoi bambini si ritirarono mettendo il broncio, chiusero la porta dietro di loro con un botto inequivocabile e la donna si girò di nuovo verso gli agenti federali. «Che posso fare per voi?»
«Siamo qui a causa del periodo che ha passato nella Clinica Alessio-di-Roma, signorina Silverstein».
La donna deglutì e si voltò indietro verso la porta del dormitorio. «Non sono la signorina Silverstein» disse a bassa voce, fece un passo verso gli agenti e si tirò dietro la porta, stringendola fino ad una fessura alle sue spalle.
Don inarcò le sopracciglia. Lui e Megan si guardarono. «E allora chi è lei?»
«Judy Spark. Anna Silverstein abitava qui prima di me».
«Ma sul citofono c’è scritto Silverstein».
«Non l'ho ancora cambiato. Ci siamo trasferiti solo ieri».
«Possiamo vedere la sua carta d'identità?»
Senza dire altro si ritirò nel corridoio. Don e Megan le tennero d'occhio e fecero attenzione che la porta fra loro rimanesse aperta.
«Ecco» disse la donna infine tendendo loro una carta d'identità che recava, in modo inconfondibile, una sua foto. E il nome accanto era Judy Spark, non Anna Silverstein.
«Sa dove possiamo trovare la signorina Silverstein?» continuò a chiedere Don. Non aveva ancora perso parte della sua diffidenza. La carta d'identità poteva essere falsificata e comunque il comportamento sospettoso di questa donna gli dava da pensare.
Di nuovo lei lanciò uno sguardo sulla porta dietro di sé prima di rispondere bisbigliando: «E' morta. E' stata uccisa».
Don e Megan si guardarono. Megan aveva aggrottato la fronte. «Come lo sa?»
«La signora Marroway, dell’appartamento di fronte, me l'ha raccontato. Non lo sapevo, altrimenti non avrei mai preso questo posto! Ma abbiamo fatto tutto così in fretta, avevamo urgentemente bisogno di un appartamento e poi ho saputo per caso che qui ce n’era uno a buon mercato... non ho nemmeno pensato a fare altre domande! E adesso... è talmente... Sono così felice che i bambini non ne sappiano nulla; è già abbastanza difficile così. Posso dirvelo, sarò felice quando potrò abbandonare questo posto!»
«Quando è stata uccisa?» chiese Don senza far attenzione alle chiacchiere della donna.
«Lunedì scorso, il ventitré».
Don si allarmò immediatamente. Charlie era scomparso proprio quel giorno.
Non ebbe tempo però per collegare i due eventi logicamente, perché Judy Spark continuò: «I vicini hanno detto che è stata pugnalata, nella cucina. Riesco a malapena a mangiare lì. Non si vede più niente, ma quando immagino che giusto al nostro tavolo da cucina un tizio raccapricciante l'ha pugnalato semplicemente così...»
Ammutolì e così non poté sfuggire loro che dietro alla porta chiusa che dava nella camera dei bambini, qualcosa sembrava esser caduto a terra.
Solo in quel momento si accorsero di quanto insolitamente silenzioso fosse l’appartamento. Nella camera dietro la porta c’erano due bambini di dieci anni, ma finora nemmeno il suono più piccolo ne era emerso.
Judy Spark sbarrò gli occhi, si girò repentinamente e aprì la porta della stanza dei bambini. Guardò i due paia d'occhi che erano pieni d'orrore quanto i suoi. Sul pavimento rotolavano due bicchierini. Don poteva ben immaginare cos'era successo; era solito farlo qualche volta anche lui da bambino. I bambini dovevano aver origliato la conversazione mettendo i bicchieri come amplificatori contro la porta. Un metodo d'intercettazione semplice ma molto efficiente.
Don sentì lo sguardo di Megan su di sé e capì. Dovevano andarsene adesso. La signora Spark non sembrava poterli aiutare, tanto più che probabilmente era altrove con i suoi pensieri.
Non avevano fatto progressi. L'unica cosa che sembravano aver ottenuto erano gli incubi di due bambini su una donna senza faccia che nella loro cucina, sotto il loro tetto, al tavolo dove finora avevano solito mangiare, veniva pugnalata al petto.
- - -
Charlie ne era semplicemente stufo. Voleva andarsene da lì, voleva andare a casa, voleva vedere i suoi amici e la sua famiglia.
«Ha già progettato altri attentati?» Questa volta non era seduto di fronte a Rosenthal, ma ad altri due uomini che anche durante i giorni passati l'avevano interrogato qualche volta, un biondo sulla trentina e un bruno che aveva superato i quaranta.
«No, non ho progettato altri attentati» rispose, esausto. «Voi sapete che sono innocente. Lasciatemi andare, per favore».
«E' un terrorista» gli rammentò il bruno.
«Non lo sono e lei lo sa molto bene. Conosco i miei diritti. Non potete fare questo».
«Eppure lo facciamo».
Charlie deglutì. Non aveva neanche osato sperare di influenzare i terroristi della CIA con le sue parole, ma il fatto che adesso stessero cominciando a smettere di far mistero dell'illegalità dei loro atti a lui faceva correre brividi lungo la schiena. Perché lo facevano? Aveva già altri progetti per lui? Avevano finalmente deciso cosa fare di lui?
L'avrebbero ucciso?
La gola di Charlie fu immediatamente secca – una reazione tremendamente controproducente. Perché adesso doveva difendersi, più che mai: doveva impedire loro di andare fino in fondo.
«Sicuramente... mi staranno cercando».
Il biondo fece apparire un sogghigno derisorio sulle sue labbra. «Chi la sta cercando? Non penserà sul serio di avere qualche amico lì fuori!»
Charlie istintivamente pensò a Larry, ad Amita, suo padre, Don e la sua squadra. Sì, aveva degli amici fuori, ne era certo. E probabilmente lo stavano già cercando.
«Sì. Mi cercheranno».
«Ah sì, certo. Però si è accorto che la cosa potrebbe diventare piuttosto rischiosa per la salute dei suoi amici, no?» Il biondo si sporse un po' in avanti abbassando la sua voce e facendo rabbrividire Charlie. «Suo fratello l'ha già provato». Charlie deglutì. A quell’uomo di certo non era sfuggito quanto lui fosse problematico. «Vorrebbe che rivivesse quell’esperienza?»
La respirazione di Charlie diventò più veloce. No, non avrebbero osato farlo, non avrebbero... vero? Aveva già pensato, sperato una volta che non sarebbero arrivati fino a quel punto, che non avrebbero fatto niente a loro, e si era sbagliato.
Don...
No, Don non sarebbe dovuto venire a cercarlo. No, no, no. L'aveva già desiderato una volta e sperato e l'aveva detto ai suoi avversari. E Don era arrivato ed era morto ed era la colpa sua. E lo sapeva.
«Beh, Dottore? Allora che succederà? Chi altro la cercherà adesso? Uno è già morto, quanti amici fedeli ha ancora?»
Immagini dei loro visi emersero dentro Chralie, di suo padre, di Amita, di Larry, di Megan, Colby e David e di Don, sempre di nuovo di Don...
«Nessuno» rispose a voce aspra. Il suo campo visivo era sfocato, ma almeno quei volti rimanevano distinti. No, non aveva più nessuno che lo avrebbe cercato, non poteva più avere nessuno. Era già assai difficile con Don... No, non conosceva più nessuno lì fuori.
E neanche Don. Non conosceva Don. Non aveva un fratello. Non poteva averne uno, perché altrimenti tutto questo sarebbe stato insopportabile. No, non conosceva Don. La morte di suo fratello non era colpa sua perché non aveva nessun fratello.
Charlie si sentiva meschino, profondamente meschino. Ma si diceva che non stava tradendo le persone che per lui erano importanti fintantoché lui stesso sapeva la verità. Stava solo tentando di proteggerli. Doveva solo fingere con gli altri di non avere più nessuno lì fuori. E forse un pochettino anche con se stesso per non farsi spezzare dal pensiero della morte di Don...
No, nell'intimo del suo cuore Charlie avrebbe sempre saputo che non era da solo. Non si sarebbe mai scordato di loro.
Tremava. Quello... ecco com’era andata! Quella doveva essere stata la ragione per cui non aveva potuto ricordarli. Non aveva voluto qualcos'altro. Li aveva tolti dalla sua vita. Li aveva rinnegati, e questo in un modo talmente profondo che li aveva cancellati completamente dalla sua coscienza.
Era stato un mezzo di protezione, un tipo di protezione doppio, come si stava accorgendo ora, che avrebbe difeso loro e lui. Perché se taceva ai suoi avversari, loro non avrebbero più tentato di eliminare i suoi potenziali salvatori. Ed era stata una protezione per sé stesso perché non avrebbe potuto sopportare di metterli in pericolo. E non avrebbe potuto sopportare la colpa della morte di suo fratello.
Il problema era che voleva che Don lo cercasse. Era come se non avesse imparato niente da tutti gli incubi, sia veri sia immaginari. Perché che cosa sarebbe successo se Don fosse di nuovo venuto a liberarlo? L'avrebbero di nuovo aspettato, gli avrebbero teso una trappola, l'avrebbero ucciso, solo a causa sua, tutto solo a causa sua...
Ma non c’era un "di nuovo", non doveva dimenticarlo, doveva mantenerlo fisso nella testa! All'epoca, Don non era venuto, non l'avevano aspettato, non gli avevano teso una trappola, non l'avevano ucciso. Tutto questo era successo solo nella sua testa. Don era vivo. Don era lì fuori. Don poteva ancora trovarlo.
Ma chi gli diceva che non l'avrebbero ucciso questa volta...? Anche se l'ultima volta... E comunque l'ultima volta c'era stato un cadavere. Qualcuno era morto. Che fosse stato ucciso solo per farlo collaborare con loro oppure se l'estraneo, il finto Don, fosse morto da prima – Charlie non lo sapeva. Ma sapeva che – chiunque fosse il morto – lo avevano umiliato anche dopo la sua morte. Avevano disonorato il suo corpo, l'avevano privato della sua dignità. L'avevano maltrattato per assicurarsi l’aiuto di Charlie e infine ci erano riusciti. Erano senza scrupoli.
E Charlie era stato uno di loro.
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Capitolo 34 *** Uomini e macchine ***
Grazie a BlackCobra :)
34. Uomini e macchine
There’s a road I have to follow, a place I have to go.
Well, no one told me just how to get there,
but when I get there I’ll know
‘cause I’m taking it.
(Whitney Houston, Step by Step)
Juan Juarez fischiò quando vide la macchina. Una Ford Modello A del 1931. Che bella. Per ora.
Non era stato difficile scoprire quale macchina appartenesse al bersaglio. Aveva ricevuto una foto e le indicazioni sul suo posto di lavoro e una copia del conto d'acquisto della macchina dai suoi committenti. Non c'erano informazioni inaccessibili. Aveva solo dovuto aspettare finché la macchina interessata non fosse passata a velocità da lumaca e in modo guardingo nel parcheggio dell'università.
Juan osservò il bersaglio scendere dall'automobile ed entrare in università dopo alcune brevi conversazioni con gli studenti. Aspettò ancora un po' per essere certo che le lezioni fossero cominciate per la maggior parte della gente. Fortunatamente era mattina presto, quelle erano le prime lezioni a cominciare e così non c'era quasi nessuno tranne gli studenti e i professori che avevano i corsi. E se c’erano altri, si trovavano in biblioteca e non nel campus o in una zona da cui potessero vedere l'auto d'epoca. Fortunatamente la macchina era un po' distante dal centro del campus.
Juan aveva riflettuto su se fosse meglio colpire nel trambusto o quando non c'era nessuno. Perché nel secondo caso naturalmente avrebbe attirato l'attenzione delle poche persone in strada ancora di più. Però una Ford Modello A del 1931 attirava l'attenzione anche nel trambusto, soprattutto quando una persona armeggiava intorno a essa senza essere ovviamente autorizzata.
Dunque avrebbe eseguito la sua missione in quel momento, lì, dove nessuno lo avrebbe visto. Si guardò intorno casualmente per un'ultima volta e poi cominciò il suo lavoro.
- - -
«Okay, grazie, David». Megan attaccò e rivolse la sua attenzione ai fascicoli sul suo grembo.
Nonostante Don, accanto a lei sul sedile del conducente, si fosse concentrato molto poco sul traffico pur di comprendere ogni parola almeno della parte di dialogo che poteva sentire e perciò fosse certo di conoscere già la risposta, fece lo stesso la domanda. «Hanno trovato qualcosa?»
Megan scosse la testa che continuava a tenere abbassata sui fascicoli.
«No. O meglio, ci sono alcuni infermieri che si sono comportati in modo sospetto, ma tranne un piccolo spacciatore di droga non hanno trovato niente».
Don prese fiato, ma Megan non gli lasciò la parola: «E no, Don, lo spacciatore di droga non ha nulla a che fare con la scomparsa di Charlie».
Don tacque per qualche attimo. «E i fascicoli?» chiese poi. Lasciando l’appartamento che una volta era stato di Anna Silverstein erano andati direttamente alla questura competente e lì avevano, dopo una certa resistenza e più di una chiamata tra polizia e FBI, finalmente ricevuto qualche copia degli atti investigativi sull'omicidio della Silverstein. Il caso era ancora aperto per cui i due agenti dell’FBI erano rimasti alquanto sorpresi dal fatto che l'appartamento fosse stato sbloccato così velocemente. Ma forse avevano semplicemente abbandonato ogni speranza di trovare nuove tracce.
La sera tardi avevano preso una stanza in un motel di poco conto; era stata la soluzione più semplice e comunque sarebbe stata una cosa temporanea.
Avevano cercato di analizzare per bene il caso, ma alla fine tutti e due avevano capito di essere troppo stanchi per concentrarsi e così avevano deciso di rimandare tutto al giorno dopo.
Ora si stavano dirigendo verso l’abitazione del ragazzo della Silverstein. Non avevano ancora tentato di raggiungere i suoi genitori, ma speravano che non sarebbe stato necessario.
«Ecco», Megan cominciò a riassumere le loro informazioni dell'omicidio. «Anna Silverstein è stata pugnalata lunedì, il 23 aprile, tra le cinque e sei del pomeriggio nella cucina del suo appartamento. È stata trovata dal suo ragazzo che doveva prenderla per un appuntamento alle sette di sera. È stato lui a chiamare la polizia. L'autopsia ha confermato che l’arma del delitto è un coltello da cucina appartenente alla vittima, come sospettato. Non hanno trovato impronte digitali sul coltello e nessuna traccia del colpevole».
«I colleghi hanno qualche sospetto?»
Megan sfogliò i documenti. «No... Sembra che abbiano interrogato il ragazzo a lungo, ma aveva un alibi e non ha fornito indizi utili alle indagini. Oltre a questo brancolano completamente nel buio. Non conoscono neanche il movente. Per quanto il suo portafoglio sia stato rubato, gli estratti conto fanno pensare che non si sia trattato di più di cento dollari. Per il resto, niente. L'appartamento non è stato rovistato, non c'era segno di violenza sessuale e il suo ragazzo e i suoi genitori dicono che non aveva degli nemici. Il dipartimento di polizia non può sospettare di altri che di uno scassinatore non identificato».
«Deve aver qualcosa da fare con Charlie» disse Don a bassa voce.
Megan non disse niente. Aveva paura che Don si stesse lasciando trasportare troppo da quella faccenda, ma allo stesso tempo non poteva che dargli ragione: sembrava davvero che Anna Silverstein fosse stata uccisa a causa del suo presunto resoconto ai sequestratori di Charlie. Perché un omicidio per rapina era – malgrado il portafoglio rubato – estremamente improbabile: sembrava piuttosto essere una manovra diversiva. Naturalmente era possibile che la Silverstein avesse semplicemente sorpreso uno scassinatore che poi aveva perso il controllo, ma contro questa teoria parlavano sia l'area residenziale non molto cara e allo stesso tempo non molto accessibile della vittima sia il fatto che lo scassinatore sembrava non aver cercato niente nell'appartamento.
Eppure era molto sospetto che entrambi i crimini – l'omicidio di Anna Silverstein e il sequestro di Charlie – avessero avuto luogo proprio lo stesso giorno, sebbene a centinaia di chilometri di distanza. Questo diventava ancora più sospetto tenendo conto che, secondo la loro testimone, Anna aveva sorvegliato Charlie nella clinica. La domanda era: perché l'aveva fatto? Qual era il suo rapporto con i sequestratori di Charlie? Era solo una coincidenza? Era estremamente improbabile. Ma che altro c’era dietro? Anna Silverstein apparteneva alla cerchia dei sequestratori? Ma se era così, perché era stata uccisa? C'erano delle rivalità tra i sequestratori? Oppure lei non era stata un membro effettivo, ma solo una spia pagata? Oppure aveva trovato delle informazioni sui sequestratori di Charlie e li aveva ricattati?
E le risposte avrebbero aiutato loro a trovare Charlie?
Finalmente arrivarono all'appartamento del ragazzo di Anna, un certo Pete Thorpe. Un uomo assai attraente di 29 anni (almeno il fascicolo dell'omicidio della sua ragazza recava quest'età) aprì loro la porta. Era di altezza media, allenato, aveva i capelli un po' troppo lunghi e non del tutto alla moda, proprio come il suo appartamento. Dopo essersi identificati, l’uomo li guidò per l'appartamento nel quale – tenuto conto dell'ordine e l'arredamento – viveva da solo e offrì loro di sedersi sul suo divano nero, fin troppo adatto ad uno scapolo.
«Signor Thorpe, siamo qui perché speriamo possa aiutarci nel caso di sequestro di Charles Eppes» cominciò Don. Osservò l'uomo di fronte con concentrazione mentre diceva il nome di suo fratello. Thorpe mostrava un qualche tipo di reazione? Conosceva il nome? Anna Silverstein gli aveva raccontato qualcosa su di lui? Se l'aveva fatto, aveva usato il nome Charlie oppure quello che la clinica gli aveva dato? Perché finora, Don non aveva potuto trovare alcuna reazione sospetta, ma forse, forse avrebbe avuto più successo a breve.
«Charles – » ripeté Thorpe e sembrava davvero confuso. Ovviamente aveva supposto che la visita dei due agenti federali avesse qualcosa da fare con la morte della sua ragazza. «E come potrei aiutarvi io con questa faccenda?»
«Era uno dei pazienti della sua ragazza. Forse lo conosce anche col nome Michael».
Thorpe sembrava ancora non sapere di che cosa si trattasse. «Mi dispiace... non so di che cosa state parlando».
La cosa peggiore era che Don gli credeva. Thorpe sembrava sincero. A giudicare dall'espressione confusa, non doveva essere un genio, ma non poteva neanche dire che fosse un bugiardo. E questo significava che erano di nuovo arrivati ad un vicolo cieco.
Solo Megan non sembrò darsi per vinta. «Abbiamo scoperto che questo paziente è stato sorvegliato dalla sua ragazza. Le ha mai menzionato qualcosa del genere?»
Thorpe scosse il capo. «No. Non ha mai parlato del suo lavoro di una volta. E ci conoscevamo solo da un mese». A giudicare dall'espressione trasognata dei suoi occhi, quel mese doveva essere stato bellissimo.
«Va bene». Megan si massaggiò la fronte, ma sembrava decisa di non abbandonare la speranza troppo presto. «La sua ragazza ha mai menzionato una qualche... fonte di guadagno?»
Don poteva solo provare ammirazione verso la sua collega. Perché anche se lui non aveva avuto abbastanza sangue freddo per farselo venire in mente, sapeva a che cosa stava mirando Megan: se Anna non aveva detto niente di Charlie o di Michael al suo ragazzo e se lui non ne sapeva niente, era facile supporre che l'infermiera non l'avesse osservato per motivi personali. In questo caso era probabile che avesse ricevuto l'incarico dai sequestratori di Charlie e che in cambio fosse stata pagata. Naturalmente era anche possibile che fosse stata ricattata dai suoi sequestratori oppure che avessero usato un altro mezzo per farle pressione, ma il fatto che sembrava essersi creata una nuova vita in poco tempo faceva piuttosto pensare ai soldi.
Thorpe rifletteva con concentrazione sulla domanda; almeno la sua fronte aggrottatissima ne era un'indicazione distinta. «Beh'» disse, «ha menzionato qualcosa del genere. Qualcosa come il fatto che riceveva dei soldi senza far niente tranne telefonare una volta la settimana. Non l'ho davvero capito e allora le ho chiesto di spiegarsi, ma non so...» ci riflette ancora su. «Non mi ha dato una risposta precisa» notò poi. «Ha semplicemente cambiato il soggetto».
Don era di nuovo in allerta. «Con chi ha fatto queste telefonate? Ha il nome o il numero?»
«No, erano sul suo cellulare».
Se Don ricordava bene, non c'era stata menzione di un cellulare nel rapporto della polizia. «E dove si trova questo cellulare? Da lei? O dai suoi genitori?»
«No, l'ha buttato via; proprio per questo gliel'ho chiesto e poi mi ha raccontato di questa... questa "fonte di guadagno". Ha detto che non aveva più bisogno dei soldi».
«Ha buttato via il cellulare?»
«Ve l'ho appena detto, no?»
Don si morse il labbro inferiore. Riuscì appena a mantenere la sua frustrazione sotto controllo. Un secondo prima avevano una nuova pista, una molto promettente – quel numero avrebbe potuto guidarli direttamente da Charlie – e adesso l'avevano di nuovo persa.
Ma forse... forse la Silverstein era stata abbastanza imprudente da annotare il numero da qualche parte nel suo appartamento? In questo caso avrebbero solo dovuto frugare tra le sue cose. Ci avrebbero messo tempo, sì, ma se c'era solo una minima possibilità di trovare il numero–
«Qual'è il suo numero?» la domanda di Megan interruppe il treno di pensieri di Don.
«Di Anna?»
«Sì. Se ha buttato via il suo cellulare, forse qualcuno l'ha trovato e portato nell'ufficio degli oggetti smarriti o l'ha preso con sé. In ogni caso c'è la possibilità che il numero sia ancora memorizzato».
Don deglutì. Sì, c'era questa possibilità, ma c'era anche la possibilità che il cellulare si trovasse già in una qualche discarica, spento e con la batteria scarica, così da non riuscire più a trasmettere un segnale. Ma dovevano sperare, dovevano sperare...
Thorpe diede loro il numero e si congedarono velocemente. La contatteremo nel caso se ci saranno altre domande. Speravano che non sarebbe stato necessario, che avrebbero finalmente fatto un passo avanti.
Quando salirono in macchina, Megan aveva già digitato il numero del cellulare di Anna. I due aspettarono, tesi, nella macchina parcheggiata. Megan non aveva acceso l'altoparlante per non scoraggiare subito la persona all'altro capo della linea, ma Don si era appoggiato così vicino a lei che avrebbe potuto sentire perfettamente la conversazione. Per tutti e due era chiaro che Megan sarebbe stata più adatta a portare avanti la chiamata.
Se poi ci sarebbe stata una conversazione. Era già il quarto squillo. Nessuno risponde, nessuno...
«Sì?»
Il cuore di Don quasi smise di battere per il sollievo. Era la voce di un uomo, bassa e rauca.
«Buongiorno, mi chiamo Megan Reeves. Con chi sto parlando?» disse Megan con il suo tono più affascinante.
Questo però non sembrò aver alcun effetto dall'altra parte. «Harry». La risposta arrivò breve e nonostante tutto piena di diffidenza.
«Harry – e poi?»
«Niente "poi". Per te solo Harry. Che cosa vuoi?»
Megan cercò con grande successo di non lasciarsi confondere dalla sua scortesia. «Vorrei parlare un po' con lei, Harry. Dove si trova attualmente?»
«Che cosa vuoi?» ripeté Harry.
Megan rifletté febbrilmente. Non doveva dire niente che portasse il suo interlocutore a chiudere la chiamata. Finora però sembrava essere stata fortunata: malgrado la sua laconicità, l’uomo non sembrava voler terminare la conversazione. «Vorrei dare una breve occhiata al suo cellulare, Harry, questo è tutto».
La diffidenza divenne maggiore. «Perché? Chi sei?»
Megan si decise per la verità. Almeno parzialmente. «Ho urgente bisogno di un numero che probabilmente è salvato su questo cellulare. Suppongo che l'abbia trovato da qualche parte, giusto?»
«Vuoi riprendertelo?»
«No, Harry, voglio solo dargli un'occhiata. L'ha trovato di recente?»
Una piccola esitazione. Poi: «Sì».
Megan mandò un sospiro di sollievo. «Va bene. Allora potrei venire da lei adesso per guardarlo? Dove si trova attualmente?»
«Nel Parco di Livingston. All'entrata dello zoo».
«Va bene. Per favore, rimanga lì. Saremo da lei in un attimo».
Megan riattaccò. Per un attimo lei e Don si poggiarono contro gli schienali dei sedili prima che la risolutezza avesse di nuovo il sopravvento: in qualche minuto, con una probabilità quasi certa, avrebbero avuto il numero di telefono di uno dei sequestratori di Charlie.
- - -
L’aspetto di Larry era stanco più o meno quanto quello di Amita quando si congedarono davanti alla CalSci. La notte era già calata, ma comunque non vivevano secondo il ritmo di sole e luna da già una settimana. La notte non era neanche un periodo di riposo per loro.
Facevano progressi troppo lenti. L'analisi curvelet richiedeva una quantità enorme di tempo perché le due telecamere di video sorveglianza, quella davanti alla CalSci e quella nel negozio di automobili, mostravano loro dei piexel appena utilizzabili. Nel frattempo avevano dei visi, sì, ma era ancora troppo poco per fare un qualsiasi confronto con le banche-dati.
Malgrado la stanchezza, Larry non riusciva a liberarsi di quella sensazione nervosa che provava se la sua testa non era occupata con processi ed equazioni complicatissimi. E attualmente la sua testa era relativamente vuota e grazie all'aria notturna fresca anche abbastanza chiara da realizzare che non facevano progressi. E che questo non poteva significare nulla di buono per Charlie.
Fermò gli occhi per un attimo. Di nuovo si chiese che cosa sarebbe successo se avessero fallito, se non avessero trovato Charlie. Ma riuscì a bandire la domanda dalla sua coscienza abbastanza velocemente da non permettersi, fortunatamente, di darsi una risposta.
Si sedette nella sua macchina tentando di non lasciarsi sprofondare troppo nel cuscino molle. Era abbastanza stanco e doveva ancora fare la via per casa in sicurezza.
Di solito non guidava mai la macchina – o, come la chiamava lui, "l'opera d'arte" – a una velocità eccessiva; solo lungo la strada che scendeva la piccola collina dove si trovava la CalSci aveva osato andare a quasi quaranta chilometri all’ora – e anche questo solo per risparmiare sui freni. Li usava sempre solo un po', un pochino–
Ma ora sembrava che stesse esagerando con quel "un po'". "L’opera d’arte" accelerò, il tachimetro mostrò a Larry che andava già a cinquanta chilometri all’ora. Non era mai andato così veloce con la sua macchina.
Deve essere la stanchezza, pensò fra di sé, benché ora la stanchezza fosse del tutto svanita. Più risoluto di prima fece una frenata. La macchina non reagì. L'automobile andò avanti senza rallentare. Premette il pedale con tutta la forza.
Non successe nulla.
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Capitolo 35 *** Battaglie della vita ***
E di nuovo, mille grazie a BlackCobra e scusa per il ritardo. Ma adesso vedremo quanto male ho fatto a Larry ]:)
35. Battaglie della vita
Regrets? I’ve had a few,
But then again too few to mention.
I did what I had to do
And saw it through without exemption.
(Frank Sinatra, My Way)
La notte stava già per calare quando Megan e Don arrivarono al Parco di Livingston. "Harry" – se si chiamava davvero così – sembrava aver detto la verità: quantomeno c’era davvero lo zoo.
Quando Megan e Don si avvicinarono all'entrata dello zoo, la loro supposizione, finora latente, si rafforzò, perché a pochi metri di distanza dall'entrata, su una panchina, c'erano tre uomini di età diversa e aspetto simile: non sembravano essere molto puliti, abbastanza decaduti, e se i due agenti federali avessero avuto dei bambini con loro, probabilmente avrebbero badato a stare molto alla larga da loro. Data la situazione, però, andarono direttamente verso i tre uomini, ovviamente dei senza tetto.
«Uno di voi è Harry?» cominciò Megan. Don era un po' dietro di lei, ogni muscolo teso. Era pronto a reagire se una qualsiasi cosa non fosse andata come doveva.
«Potrebbe essere» rispose l'uomo in mezzo e Megan riconobbe nella sua voce quella di Harry. Era un cinquantenne e così si trovava ad occupare una posizione mediana anche riguardo l’età. L'uomo alla sua sinistra aveva sicuramente più di sessanta anni, l'altro probabilmente non ancora quaranta. Benché i loro vestiti fossero molto logori e Don non si sarebbe mai lasciato vedere in nessuna piazza pubblica conciato in quel modo, tutti i tre sembravano esser sobri e nel pieno possesso delle loro forze mentali.
«Abbiamo telefonato» disse Megan.
«Mi ricordo» rispose Harry. Non sembrava esser diventato più comunicativo dalla loro ultima conversazione.
La sua laconicità non rendeva Don più paziente. «Allora ricorda anche la sua promessa?»
Harry lanciò a Don uno sguardo provocatorio prima di voltarsi verso Megan. «E lui che vuole?» le chiese.
«E' il mio collega». Megan si costrinse a rimanere calma. «Le saremmo molto grati se ci lasciasse vedere il cellulare».
Harry tirò fuori l'apparecchio dalla sua tasca e lo mise sotto il naso dei due agenti. «Eccolo».
«Vorremmo guardare la rubrica» disse Megan, allungando la sua mano con un gesto di richiesta.
«Vorreste farlo, sì». Harry fece una pausa retorica. «E cosa riceveremmo noi tre in cambio?»
Don non riuscì più a contenersi. «Dovreste essere felici se non vi denunciamo per sottrazione di oggetti ritrovati. Inoltre non saprebbe che farsene di un cellulare». E poi, un oggetto come un cellulare era, nella compagnia di Harry, non solo una ragione per contrasti, ma con la giusta dose di alcool nelle vene, sarebbe potuto diventare motivo di un omicidio.
Harry sorrise con disprezzo. «La tua amica è un negoziatore migliore di te» disse in modo molto diretto. «Forse non ci crederai, ma tre anni fa avevo anch'io un cellulare, e inoltre una casa, una donna e un lavoro con cui ho guadagnato in un mese probabilmente più di quanto tu – ma lasciamo perdere. Potete averlo, per quel che mi riguarda. Può essere davvero difficoltoso trovare una presa di corrente in tempo. E non lo userei comunque. Sapete, noi non siamo abituati a farci chiamare col cellulare. Chissà perché».
Sogghignò con occhi scintillanti e Don e Megan si sentirono costretti a ricambiare un sorriso forzato. Comunque avevano già pensato a che senso avrebbe potuto aver un cellulare per un senza tetto.
«Dunque possiamo darvelo» continuò. «Ma i miei amici e io siamo sempre un po' al verde…»
Non era difficile indovinare cosa volesse Harry. A Don ripugnava un po' l’idea di dare soldi a quel tipo, ma considerate le circostanze non pensò sul serio alle alternative.
Tirò fuori il portafogli, sempre pronto a reagire ad un eventuale attacco dei tre uomini. Loro però rimasero calmi e pazienti finché Don non tese loro una banconota da 20 dollari.
Harry piegò la sua testa e inarcò le sopracciglia. «Stai scherzando? Ascolta, non siamo stupidi, va bene? E tutti e tre siamo stati uomini d'affari una volta. Capisco che non importa a gente come voi e che non riuscite ad andare oltre il pregiudizio secondo cui i clochard sono tutti beoni pigri, ma ehi, non potete liquidarci così facilmente. Voglio dire, non è difficile vedere che tenete molto a questo coso». Tenne il cellulare in alto. «Credo che un centinaio dovrebbe andare bene, no?»
Don strinse i denti. Cento dollari per qualcosa che questi tre avevano probabilmente trovato – e rubato! – senza pagare niente in una qualsiasi discarica pubblica! Però era chiaro che a Don non importava nulla il prezzo. Si trattava di Charlie e quella era l'unica pista promettente che avevano. Non doveva davvero rifletterci. Era solo felice che si fossero fermati a un bancomat prima di arrivare lì e che così aveva pronta la somma richiesta. Tentò di non pensare a quanto poco professionale fosse questo comportamento, ma piuttosto sperò che avrebbero davvero fatto progressi in quel modo.
Il cellulare – insieme con il caricabatteria che Harry tirò fuori dagli abissi delle tasche del suo cappotto – e i soldi cambiarono i rispettivi proprietari. I tre senza tetto sembrarono molto contenti di sé, ma Don non poteva ancora fidarsi della situazione. Solo quando trovò nella rubrica sia un "Pete" sia una "Doris Conrad", si ritenne soddisfatto: quello sembrava davvero essere il cellulare di Anna Silverstein. Posticiparono un’analisi più approfondita del cellulare ad un secondo momento, nel motel, perché la batteria era quasi scarica. Non volevano rallentare ancora di più la loro ricerca dei sequestratori incappando nel PIN del cellulare.
Quando Megan e Don voltarono le schiene ai loro "partner d'affari", Harry augurò loro una "Buona serata!". E anche se Don sperava che quella serata passasse in modo migliore rispetto alle precedenti, non poteva ancora sapere che cosa avrebbero portato le ore successive.
- - -
Larry fu preso dal panico. Ma fortunatamente anche in quello stato desolante i nervi nel suo cervello non avevano ancora dimenticato cos'era logico: voleva sopravvivere e il panico non l'aiutava, quindi doveva costringersi ad agire razionalmente. Fino a qui tutto bene.
C’era però un ostacolo all'esecuzione di quel piano: niente panico? Come, precisamente?! La sua macchina stava continuando ad accelerare, la strada era sempre più in discesa ed era ancora umida a causa del breve rovescio di pioggia di pochi minuti prima e –
Oh mio Dio.
Direttamente di fronte a lui, un albero era apparso dalla nulla.
In un solo movimento, Larry sbloccò la cintura e aprì la portiera. La strada volava sotto di lui, ma non aveva davvero la calma per osservarlo più attentamente. Dopo un grosso salto e un rotolamento di cui non si sarebbe mai ritenuto capace, Larry molto bruscamente cadde sull’asfalto duro. Continuò a rotolare fino a che si trovò a metà fra strada ed erba. Nello stesso momento sentì una botta forte, poi un fischio. Non osò voltarsi.
Larry rimase immobile sul terreno per qualche minuto, incapace di muoversi. Non era incosciente – almeno di questo era abbastanza sicuro – ma sentì che sarebbe andato al di là delle sue forze alzarsi in quel momento.
Sentì passi e grida. Persone che gridavano cose incomprensibili, sottosopra. Larry non capiva né che cosa dicessero né poteva distinguere quanti fossero. Tentava di indovinarlo, voleva aprire i suoi occhi, ma le palpebre erano troppo pesanti e tanto più tentava di avvicinarsi alle voce, tanto più questi si allontanavano da lui. E infine la notte per Larry divenne più oscura che mai.
- - -
Il cellulare era attaccato alla presa di corrente e adesso Don riteneva finalmente sicuro cercare l'investitore misterioso. Lui e Megan prima frugarono tra tutti i nomi notando quelli che non conoscevano: li avrebbero controllati più tardi. Almeno questo era il piano.
Fino a che non trovarono “John Doe”.
Ambedue fissarono lo schermo per qualche istante senza crederci. Don non osava sperare: l'avevano d'avvero trovato? Quello era uno dei sequestratori di Charlie? Era troppo bello per essere vero.
«Forse la Silverstein conosceva davvero una persona con questo nome?» fece Don considerare.
Megan lo guardò in modo scettico. Chi avrebbe dato al proprio figlio oppure a se stesso un nome che veniva generalmente usato per cadaveri non identificati?
«E allora come dovremmo procedere secondo te?» chiese lei.
«Potremmo chiamare il numero, per esempio» propose Don senza riflettere.
Questa nuova traccia caldissima sembrava aver attizzato un po' troppo il suo dinamismo; altrimenti Megan non avrebbe dovuto spiegargli che non era una buona idea: «Don, se chiamiamo quel John Doe adesso, lui potrebbe insospettirsi e scappare».
Don abbassò la testa, le fattezze contratte. Gli venne in mente – non per la prima volta! – che questo caso gli stava chiedendo troppo. Faceva errori che altrimenti non avrebbe mai fatto, era accanito, aveva i paraocchi, era diritto verso una sola meta e si lasciava sfuggire troppe cose. E sempre più spesso si chiedeva se non sarebbe stato meglio dare il caso a qualcun altro.
Grazie a Dio aveva la sua squadra, anche se questa nuova distribuzione dei ruoli non gli piaceva affatto. Non gli piaceva chiedere consiglio. Ma si trattava di Charlie... «E invece che cosa proponi tu?»
«Prima dovremmo scoprire a chi appartiene il numero e poi controllare tutto ciò che abbiamo su questa persona. Senza che essa se ne accorga».
Don annuì lentamente, ma non ce fece in tempo a rispondere perché in questo momento il suo cellulare squillò. «Eppes».
Per un po’ ascoltò senza dir niente. Megan lo osservava. Non le piaceva cosa vedeva, non le piaceva per niente. Credette di vedere il suo capo impallidire e gli occhi si allargarono. Le notizie che stava ricevendo non potevano essere buone. Dalle sue risposte però non riusciva a capire che cosa era successo.
«Sì, è accanto a me. Glielo dirò. Grazie, Amita. E salutalo da parte nostra. Ciao».
Riattaccò e benché sentisse lo sguardo di Megan sui lui, fissò il tavolo davanti a lui per qualche attimo prima di volgersi verso di lei. «Okay, Megan, non allarmarti ora».
Queste parole la misero ancora di più in uno stato d'allarme. «Cos'è successo?»
«Larry ha avuto un incidente».
Don non era stato completamente sicuro come la sua forte collega avrebbe reagito. Però non fu molto sorpreso delle sue fattezze sconvolte.
«Come sta?» chiese così veloce che Don poté solo indovinare le parole della sua domanda.
«Sta bene, considerate le circostanze. E' cosciente e trattabile. Ma è in ospedale». Don aveva considerato prudente placare Megan in anticipo, ma non era servito a molto.
«In ospedale?!»
«A quanto pare non è nulla di serio, solo varie contusioni e graffi. E forse una commozione cerebrale; non lo sanno ancora, perciò vogliono tenerlo in osservazione. Megan, sta bene; Amita ha già parlato con lui».
«Sta bene?!» ripeté Megan, sconcertata. Come poteva stare bene con tutte quelle ferite? E soprattutto: perché era ferito? «Cos'è successo?» pretese di sapere.
«Non lo so esattamente, un incidente con la macchina; Amita ha potuto parlare con lui solo per un attimo, anche lei non sa niente di specifico, ma... Okay Megan, ascolta». Don non era sicuro che sarebbe riuscito ad essere quello forte dei due, ma non aveva altra scelta. «C'è qualcos'altro. Sai, Amita ha potuto parlare con Larry dopo l'incidente».
«L'hai già detto».
Don non perse le staffe per i suoi modi impazienti. «E Larry ha detto... Megan, a quel che sembra non è stato un incidente».
- - -
«E davvero non sai chi potrebbe esser stato?»
Larry cautamente scosse la testa che stava sul cuscino morbido dell'ospedale. Poco a poco, sentiva di nuovo la stanchezza grave calare su di lui. Forse aveva anche qualcosa a che vedere con gli analgesici, benché Larry non fosse assolutamente sicuro se poi gli avevano dato davvero analgesici, dal momento che aveva comunque dolori ovunque.
Sospirò e fermò gli occhi, ma li aprì subito quando sentì la voce preoccupata di Amita: «Stai bene?»
La scrutò. Era tutta pallida, solo gli occhi avevano delle ombre scure. Doveva avere un aspetto esausto almeno quanto lui. Ma se non andava errato, una parte del suo pallore derivava anche dalla sua prima rivelazione dopo l'incidente: Penso che sia stato fatto apposta.
Amita aveva reagito in modo sconvolto alla sua presupposizione. E quello spavento non era diminuito quando lui le aveva spiegato la cosa: qualcuno doveva aver manomesso la macchina, probabilmente qualcuno aveva tagliato i fili dei freni. Certo, la macchina di Larry era vecchia – ma era in ottimo stato. E nessuno poteva fargli credere che i freni avessero semplicemente smesso di funzionare.
Tanto di meno considerate le recenti indagini.
Era l'unica spiegazione che gli veniva in mente, perché per quanto Larry pensasse che non c'era nessuno che avrebbe voluto vederlo morto – quella doveva essere stata l’intenzione del sabotatore, in ogni caso ne aveva accettato la possibilità. Se davvero i fili dei freni della sua auto d'epoca erano state tagliati, qualcuno aveva attentato alla sua vita.
«Penso che Don dovrebbe esserne informato».
«L'ho già informato» rispose Amita.
Larry fermò di nuovo gli occhi. Era felice che lei fosse qui. All’inizio l’aveva chiamata solo perché aveva temuto che anche lei fosse stata attaccata in modo simile, ma adesso si sentiva sollevato nel sapere che lei si stava cura di tutto. Perché da solo si sentiva troppo coinvolto nella faccenda.
Sentì la porta aprirsi e aprì gli occhi un po', giusto una fessura sufficiente però per vedere entrare l'infermiera. «Devo pregarla di andare adesso» disse ad Amita. «Il signor Fleinhardt ha bisogno di calma».
«Certo» disse Amita e si alzò, poi però si chinò di nuovo giù verso lui. «Tornerò domani».
Larry annuì, ma i suoi occhi si chiusero prima che potesse pronunciare il suo ultimo pensiero: Abbi cura di te!
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Capitolo 36 *** Errare humanum est ***
Come sempre, mille grazie sia a BlackCobra per recensire sia ad Alchimista per correggere :)
36. Errare humanum est
Now ain’t it good to know that you’ve got a friend
When people can be so cold?
They’ll hurt you, yes, and desert you
And take your soul if you let them.
But don’t you let them.
(Carole King, You’ve Got a Friend)
Megan sembrava essere molto nervosa dalla serata trascorsa esattamente fino al momento in cui suonò il suo cellulare, giovedì mattina. Larry. Don si allontanò (senza dire nulla) discretamente, sarebbe sembrato insensibile se le avesse ricordato che originalmente stavano cercando Charlie prima che lei non avesse almeno parlato con Larry e anche se Don si sentiva davvero sotto pressione per il caso, non poteva ignorare che l'incidente di Larry aveva con tutta probabilità qualcosa a che fare con la sparizione di Charlie, questo era più che inquietante.
Insomma, che cosa stava succedendo?
Don sprofondò nella poltrona vecchia e dall’odore di muffa – uno dei pochi mobili nella camera – e si immerse nei suoi pensieri. Questo caso gli sembrava talmente complicato... ma forse era semplicemente lui che stava impazzendo .
Ricordò le varie vicende e fatti ancora una volta. Anna Silverstein, una delle infermiera di Charlie, aveva ricevuto dei soldi per i controlli che aveva fatto, probabilmente da John Doe. Avevano tentato di rintracciare il trasferimento, ma la pista aveva condotto solo a un vecchio uomo che in un secondo momento avevano scoperto essere già morto, ma il suo conto era ancora attivo. L'uomo morto non aveva parenti e così non c'era un'indicazione circa chi poteva essere entrato in possesso del suo conto, soprattutto perché ora, non avvenivano più transazioni.
Dunque, Anna Silverstein aveva ricevuto dei soldi. Ma perché era stata uccisa? Sembrava essere coinvolta nella faccenda solo nel ruolo di informatrice, non di più, perciò Don credeva che molto probabilmente erano state proprio quelle informazioni ad esserle state fatali, era stata uccisa lunedì, una settimana prima, lo stesso giorno della scomparsa di Charlie. Perché? Da quello che sapevano non aveva ricattato i suoi committenti, perché altrimenti non avrebbe buttato via il suo cellulare. Don era quasi sicuro che i sequestratori di Charlie avevano voluto liquidarla perché era una complice. Probabilmente avevano temuto che Anna Silverstein – se avesse saputo che avevano sequestrato Charlie (l'avrebbe saputo durante l'investigazione di Don se non fosse stata già uccisa) – avrebbe detto la verità. L'avevano fatta fuori perché era un potenziale pericolo e un potenziale aiuto alle indagini.
Dunque i due casi dovevano essere in relazione, ma c'era anche un terzo caso: il sabotaggio della macchina di Larry. Non avevano ancora il rapporto dell’incidente, ma Don non aveva più alcun dubbio che anche per quel caso avrebbero indagato sugli stessi colpevoli e questo gruppo doveva essere potente o almeno avere grandi possibilità di spostamento – considerando che poteva agire sia in California, sia in Mississippi.
Come un fulmine, un ricordo attraversò la mente di Don: la conversazione del giorno della scomparsa di Charlie con il suo superiore. “Posso solo presumere che lei abbia avuto a che fare con un avversario influente”, aveva detto Stevens. Don si sentiva sempre di più costretto a crederci.
I loro indiziati però non sembravano solo essere influenti, ma anche senza scrupoli, avevano ucciso una donna nel suo appartamento in pieno giorno perché poteva diventare un rischio se fosse stata interrogata e avevano fatto un attentato ad un professore universitario, ad un – almeno ai loro occhi – consulente innocuo.
Era in mano a queste persone che si trovava Charlie.
Il problema era che Don semplicemente non riusciva a vedere il movente dietro le azioni del gruppo, era necessario vederlo, doveva trovarlo, perché lentamente tutto questo avrebbe raggiunto una portata che avrebbe superato tutti loro. Larry era stato vittima di un attentato, per tutta probabilità a causa del suo aiuto nell’indagine sul rapimento di Charlie. Fino a che punto i sequestratori di Charlie sarebbero arrivati per eliminare i loro obiettivi? Chi era prossimo? Don poteva continuare ad assumersi la responsabilità dell'intera squadra? Larry sarebbe potuto morire per quel sabotaggio alla sua macchina. Don aveva il diritto a continuare a coinvolgere civili nell’indagine?
Ma si trattava di Charlie...
Don si passò le mani sul viso. Il suo punto di vista era ancora oggettivo? Non doveva perdere la testa.
Tentò di avvicinarsi al dilemma da un altro lato: si trattava di Charlie, questo era vero – dunque Amita e Larry avrebbero acconsentito a lasciar perdere il caso, innanzitutto? No... no, probabilmente no. E loro non erano stupidi, potevano pensare quale rischio stavano correndo... Sì, probabilmente non spettava a Don prendere una decisione... Ma doveva essere sicuro.
«Megan?»
Megan girò la testa, un sorriso leggero sulle labbra che gradualmente diventava sovrapposto da un'espressione colpevole. «Aspetta un attimo» disse al cellulare e poi, verso Don: «Sì?»
«Se Larry e Amita sono pronti a continuare a lavorare alle videoregistrazioni, dovranno farlo alla centrale. Fino a che non avremo chiarito se possono essere messi sotto protezione».
Megan annuì lentamente. Deglutì. «Okay», disse e trasmise l'informazione all'altra estremità della linea.
Don sospirò ad un tratto, si sentì infinitamente stanco, però ovviamente non c'era modo per lui di riposarsi prima di sapere Charlie di nuovo al sicuro, con loro.
- - -
Questa volta, Rosenthal voleva di nuovo interrogarlo di persona e non l'avrebbe trattato con i guanti. Questa volta avrebbe funzionato. Vabbè, forse non sarebbe successo subito quella sera – dopo una settimana e mezza!, constatò amaramente –, ma magari solo nel corso del giorno seguente. Ma una cosa era certa: lo avrebbero sconfitto. Erano invincibili.
«Allora, Dottor Eppes, è finalmente pronto a collaborare con noi?»
«No, non sono pronto a fare niente. Lasciatemi andare. E' privazione della liberà personale ciò che state facendo».
Rosenthal osservò il suo prigioniero. Sembrava esausto ed era ovviamente stufo di avere sempre le stesse domande e risposte, ma poteva anche vedere la determinazione nei suoi occhi. Eppes era risoluto a non collaborare.
Vedremo per quanto durerà.
«Si sbaglia. Sarebbe privazione della libertà se non fosse qui volontariamente».
Aveva vinto. Era talmente presso alla destinazione... Il dottore alzò lo sguardo, lo fissò, e Rosenthal riusciva appena a tenersi per gioia dell'attesa. Negli occhi interrogativi c'era talmente tanta paura che Rosenthal non avrebbe potuto godere di più per come stava riuscendo a tenere a bada il suo prigioniero.
«E' ancora convinto che i suoi amici la stanno cercando?» chiese infine in un tono deliberatamente casuale.
Il professore esitò. «Non lo so» rispose finalmente.
Ecco. Rosenthal aveva vinto. Eppes aveva paura per i suoi amici, lo sentiva. Se ora fosse stato capace di fargli capire quanto giustificata fosse quella paura, Rosenthal avrebbe potuto fargli cambiare idea, ne era sicuro. Il loro complice a Los Angeles magari si era spinto un po’ troppo oltre, ma il risultato era migliore di quanto Rosenthal avrebbe potuto immaginare.
«Ma noi lo sappiamo» disse, tirando fuori dalla tasca della sua giacca la stampa di un ritaglio di giornale che Juarez gli aveva mandato pochi minuti prima. «Noi sappiamo benissimo chi lì fuori sta cercando di trovarla. Sappiamo tutto. E lei dovrebbe sapere che facciamo giustizia sommaria con le persone che si immischiano nei nostri affari».
Aprì il foglio e lo tese verso il suo prigioniero. Avevano ritagliato l'articolo – menzionava anche Fleinhardt era sopravvissuto – e aveva tenuto solo l'immagine. Mostrava l'auto d'epoca del professore che era contro un albero, il lato del conducente talmente distrutto che nessuno avrebbe mai potuto immaginare che qualcuno fosse sopravvissuto. Un'immagine bellissima.
Rosenthal si concentrò sulla reazione di Eppes. Vide il sollevamento del suo torace aumentare in frequenza e veemenza mentre guardava la fotografia. Un segnale di principio di panico. Bene.
«Cerca di fregarmi».
Sì! Rosenthal serrò il pugno nella sua tasca, questa volta non per la furia, ma per un sentimento di trionfo: la voce del professore era bassa, appena udibile e rauca. Abbiamo vinto, abbiamo vinto, abbiamo vinto...
«Non conosco la macchina».
Vabbeh', quello era davvero miserevole. «Avanti, Eppes, chi vuole illudere? Dalle uno sguardo più accurato, penso che dovrebbe addirittura poter vedere la targa. Ma non sarà necessario, lei sa quanto me a chi appartiene questa macchina. E sa anche perché abbiamo dovuto farlo. Il suo amico l'ha cercata. Ha pensato che lei non volesse stare con noi. E questo è il risultato di tale valutazione errata».
Il dottore continuava a respirare in quel modo così grave. Che cosa toccante.
«Come sta?»
Oh-oh. Rosenthal retrocesse un po' con il suo busto. Non aveva anticipato questa reazione. Aveva stimato Eppes in modo erroneo. Non aveva creduto che gli occhi del dottore fossero ancora in grado di attaccarlo con questo sguardo schizzante di furore. No, questo era inatteso.
Ma erano ancora loro ad avere tutti i vantaggi.
«Beh', non so come sta il suo amico. Ma non mi sembra che le cose gli vadano bene. Mah, mah, mah... la macchina è davvero un relitto adesso. Chi sedeva al posto di guida potrebbe esser sopravvissuto? Personalmente, ne dubito. Ma probabilmente bisognerebbe esser un matematico per saperlo».
Con divertimento Rosenthal vide la sua vittima serrare i pugni. E sicuramente non l’aveva fatto per un sentimento di trionfo.
«E' davvero peccato per il suo amico» continuò Rosenthal con quel cinismo che – almeno secondo lui – gli stava così bene. «Mi chiedo come i suoi conoscenti reagiranno alla notizia. Dicono che ha una collega bellissima, una certa Amita Ramanujan». Rosenthal non era sicuro, ma gli parve che i pugni si serrassero ancora di più quando menzionò quel nome. Eppes però continuò a scansare il contatto visivo, tenendo la sua testa bassa, testardo. «Come reagirà lei? Chissà, forse è talmente disperata a causa della morte del suo collega che magari si butterà dal tetto dell'edificio universitario? O forse prenderà inavvertitamente una dose eccessiva di sonniferi? Sono cose che succedono quando si è disperati... Chissà, forse domani ci sarà un articolo su di lei nel giornale. Però io penso che vivrebbe con molti meno pericoli se lei, Dottor Eppes, acconsentisse finalmente a lavorare con noi».
Rosenthal era sicuro di essersi espresso chiarissimo. E non dubitava per un momento che adesso Eppes avrebbe collaborato. Avevano – come sembrava – ucciso il suo miglior amico e adesso minacciavano di togliere dalla circolazione anche la sua ragazza. In realtà Eppes non aveva scelta.
Gli mise un contratto sotto il naso con cui il dottore, una volta firmato, sarebbe diventato in parole povere loro schiavo e avrebbe dichiarato il trattamento finora e futuro della sua persona completamente legale, e gli diede una penna. «Allora, dottore?»
«Io...» La sua voce ormai non era più di un gracchio. Avevano vinto, maledizione, ce l'avevano finalmente fatta!
«Sì?»
Infine, Eppes levò la testa. I pugni erano ancora serrati e negli occhi c'era ancora quell’ira, ma non c’era solo questo. A causa della sua sicurezza di vincere, Rosenthal era incapace di nominarlo, ma aveva un po' l'impressione di essere radiografato da quello sguardo.
Lo sguardo e il silenzio di Eppes prolungarono prima che, infine, rispose.
«No».
Si poteva quasi udire il dottore deglutire, così silenzioso era ad un tratto. «Non vi aiuterò».
- - -
La sua squadra era eccezionale, non c'era un dubbio. Lavorando sia dal Mississippi sia dal Nebraska, avevano controllato una montagna di documenti più o meno segreti, ma in grande parte virtuali, e non si erano dati per vinto finché non avevano trovato finalmente ciò che cercavano: il gruppo dei sequestratori.
Partendo dal numero di John Doe avevano prima identificato il suo offerente, e dopo alcuni telefonate e negoziazioni avevano infine ricevuto un accesso limitato ai dati dell'utente. Non conoscevano il suo nome, ma avevano alcuni dei numeri che aveva chiamato, nonostante dal giorno prima dell'omicidio di Anna Silverstein e della scomparsa di Charlie non era stata effettuata alcuna telefonata dal cellulare. I criminali avevano perso il coraggio per fare qualunque cosa stavano progettando? In ogni caso non erano stati certamente felici quando sulla scena dell'omicidio non avevano trovato il cellulare della loro vittima, l'unico legame con loro.
Non avevano potuto verificare la maggior parte dei proprietari dei numeri di cellulari trovati perché – proprio come il cellulare di John Doe – non si trattava di modelli con contratto e dunque non era stato necessario fornire dati privati. Tuttavia riuscirono a risalire a tre numeri fissi. Quando li controllarono scoprirono che tutti e tre lavoravano per agenzie investigative, due nell'amministrazione della CIA ed uno all'FBI. E quando fecero un controllo un po' più accurato, la bomba scoppiò: il loro terzo utente di telefonia fissa, un certo Clifford Wellman, lavorava nel FBI da più di dieci anni. E da meno di due settimane era scomparso.
C’era voluto più incoraggiamento che tempo per persuadere il capo della sede in questione, James Burbank, a dare loro le informazioni principali dell’indagine. Wellman era ancora introvabile, ma la squadra responsabile seguiva una pista promettente nel Parco nazionale di Yellowstone.
Don era diventato particolarmente impaziente quando lo aveva sentito, e aveva sentito come un campanello nelle orecchie. Erano così vicini, su una pista così promettente... Un parco nazionale, sarebbe perfetto, un nascondino perfetto per una vittima di sequestro. E Wellman era scomparso ed era legato a John Doe che aveva pagato Anna Silverstein per osservare Charlie... Tutto aveva senso, erano talmente vicini... Ad un tratto, tutto andava così veloce che Don doveva far attenzione a non perdere la visione d'insieme. Adesso non dovevano più fare errori, dovevano andare dritti al loro scopo...
In mattinata, un elicottero sarebbe stato pronto per portare lui e Megan in Idaho, al confine del parco, dove avrebbero incontrato la squadra investigativa. E speravano di incontrare anche David e Colby.
Intanto era la sera del giovedì e Don non aveva alcuna intenzione di andare a letto, benché Megan dormisse già. Non sapeva come ci riuscisse. Perché anche se la giornata era stata più che faticosa, lui sembrava ancora avere un sacco di energia, per quanto fosse energia nervosa, adrenalina pura, attinta dalla rediviva speranza di avvicinarsi a suo fratello sempre più ad ogni minuto che passava.
Don era più che contento dei risultati del giorno. Non solo avevano fatto grandi progressi con il caso, ma avevano anche potuto organizzare un servizio di protezione per Amita e Larry dopo che Don, senza dimenticare suo padre, li aveva sistemati a casa di Charlie. Inoltre facevano finalmente progressi nella ricerca di Charlie, era ora. Solo il giorno prima avevano trovato la pista di John Doe e oggi erano già alla caccia di un’intera banda di criminali. Era, però, un seguire le tracce piuttosto che una vera e propria caccia, perché a Don non sfuggiva che fossero ancora molto lontani dalla loro meta e non solo in termini di spazio. Giusto, avevano un'indicazione, il Parco nazionale dello Yellowstone, ma Don non poteva ignorare il fatto che l'altra squadra dell' FBI, quella che cercava Wellman e i suoi presunti complici, si muoveva già da due settimane senza successo. Come poteva sperare che loro invece avrebbero avuto più successo? Era completamente irrazionale, ma la speranza continuava a bruciare.
Con la meta davanti agli occhi e lo sguardo fisso sulla parete della camera scura del motel, era arrivato il momento in cui Don non poteva più eliminare quegli scenari orribili dalla sua testa. Doveva confrontarsi necessariamente con la domanda riguardo cosa i sequestratori avrebbero potuto fare a Charlie; la risposta era probabilmente necessaria per trovarlo.
Un gelido brivido attraversò la sua schiena quando per un attimo gli venne il pensiero che sarebbe potuto essere già troppo tardi. Forse era tutto inutile. Forse i sequestratori si erano già sbarazzati di suo fratello. Forse non avevano più saputo che farne di lui oppure lui era diventato un rischio o magari si erano semplicemente tirati indietro dalla loro impresa e l'avevano fatto fuori–
Il corpo morto di Charlie apparve davanti ai suoi occhi, pallido, le membra storte, sul terreno nudo in una stanza vuota, illuminata solo da un lampadina, gli occhi scuri verso lui, senza espressione, lo fissavano, senza che le palpebre li coprissero, fissando il vuoto di un altro mondo, morto...
Don riuscì appena a sopprimere un conato di vomito, e non tentò nemmeno di trattenere le lacrime che premevano nei suoi occhi. Charlie... Che cosa sarebbe successo se l’avesse davvero perso? Sarebbe stato davvero come alcuni mesi prima, quando l’avevano creduto morto...
Don deglutì e ad un tratto si sentì debole. Non l'avrebbe sopportato. Non avrebbe potuto sopportare quella cosa una seconda volta. Charlie doveva essere vivo; era l'unica possibilità. Perché la fine di suo fratello avrebbe significato la sua stessa fine.
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Capitolo 37 *** La volontà per sperare ***
Sì, sono ancora là :)
Grazie mille a BlackCobra ed ewan91 e grazie a tutti che seguono ancora la storia. Divertitevi!
37. La volontà per sperare
Claim your right to science.
Claim your right to see the truth.
Though my pangs of conscience
will drill a hole in you.
(Aqua, Turn Back Time)
Il cervello di Charlie era ancora una sigma-algebra di caos quando venne accompagnato nella sua cella. Lavorava ancora febbrilmente, sempre confrontando le possibilità, analizzando le conseguenze, per capire se non avesse fatto un errore dopotutto.
Si accorse appena che la porta si bloccò dietro di lui, e non fece neanche attenzione al come i suoi sequestratori avessero reagito al suo rifiuto. Ricordava vagamente il lungo silenzio che era seguito alla sua risposta e alla voce calma di Rosenthal. Deplorevole. Davvero, deplorevole, aveva detto, adesso Charlie ricordava, e solo allora le parole riuscirono a far correre brividi lungo la sua schiena. Aveva fatto un errore quindi...?
Non aveva veramente avuto una scelta. Certo, non aveva letto il contratto che Rosenthal gli aveva dato – non aveva avuto i nervi per farlo –, ma non aveva nessun dubbio che la sua firma sotto quel contratto avrebbe significato la sua totale distruzione. Si sarebbe consegnato nelle loro mani, sarebbe caduto una volta per tutte nelle loro grinfie senza speranza di esser liberato e nel farlo loro non avrebbero nemmeno commesso un crimine. No, no, no, era fuori questione; non doveva firmare questo contratto.
E inoltre... Se avesse acconsentito a collaborare con loro, prima o poi sarebbe probabilmente di nuovo stato costretto a fare calcoli che avrebbero significato la morte di numerose persone innocenti. E non poteva portare altri omicidi sulla coscienza. Non poteva. Perché questa volta l'avrebbe fatto consapevolmente... Stette male al pensiero.
Dunque la cooperazione con i terroristi non era un'alternativa. Eppure... Aveva riconosciuto la macchina di Larry, riconosciuto con certezza, e i numeri della targa che aveva potuto leggere erano davvero quelli della vecchia volpe di Larry. Ma non poteva essere, giusto? Larry.... non poteva –
Charlie credette di essere sul punto di vomitare, ma invece gli vennero solo le lacrime agli occhi. Tentò di trattenerle con il palmo della mano, ma questo rinforzò solo la nausea e il mal di testa. Gli sembrava come se il suo cranio stesse per scoppiare. Non poteva più sopportarlo, era talmente tanto...
Era proprio come tempo prima, con Don.
Charlie si costrinse a respirare profondamente. Anche durante l’interrogatorio, questo aveva funzionato molto bene. L'unica possibilità di spiegare le cose successe era che i suoi sequestratori gli avevano, di nuovo, mentito. Non ci doveva essere un'altra possibilità. Allora, avevano affermato che Don era morto, ma non era stata la verità, era stata una bugia, e anche questo doveva essere una bugia...
Forse era solo un fotomontaggio? Oppure avevano solo rubato la macchina di Larry e l'avevano lasciata andare contro un albero senza che Larry fosse stato dentro? Perché semplicemente non poteva credere, non voleva credere che quegli uomini sarebbero arrivato al punto da fare una cosa del genere, di avere Larry sulla coscienza... No, l'avevano già imbrogliato una volta ed erano pronti a farlo di nuovo in ogni momento, tutte le loro azioni erano un gioco crudele di menzogne e intrighi con cui volevano confonderlo fino al punto che non sarebbe più riuscito a distinguere il vero dal falso. Ma non si sarebbe dato per vinto, non avrebbe considerato ancora la partita persa, perché era talmente sicuro che tutto questo era solo show...
Ma poteva essere del tutto sicuro?
Avevano minacciato di fare qualcosa ad Amita. E con questo, non era più solo un gioco di menzogne e intrighi, ma un gioco tra la vita e la morte. Certo, era relativamente sicuro che tutto era solo una messinscena – ma cosa sarebbe successo se si sbagliava? Cosa se i terroristi avessero davvero realizzato la loro minaccia – cosa? Certo, con il suo rifiuto a collaborare, Charlie aveva usato un asso dalla manica che non si aspettavano; aveva ancora delle buone carte. Ma adesso capiva che aveva puntato troppo alto. La posta della vita di Amita era troppo alta, anche con una certezza di vincere del 99 per cento.
A Charlie cominciò a scorrere sudore freddo. Non importava se i terroristi della CIA l'avevano imbrogliato o meno – in ogni caso aveva fatto un errore, un errore gigantesco, e poteva solo sperare che non fosse ancora troppo tardi per revocarlo.
Saltò alla porta della sua cella e martellò contro il metallo duro come se la sua vita ne dipendesse – e in un certo senso era così, perché senza Amita, Charlie non avrebbe avuto più alcuna possibilità di riavere la vita che aveva avuto prima.
«Aspettate!» gridò. «Aprite! Aprite la porta! Acconsento! ACCONSENTO!»
Quando finalmente aprirono la porta, i rovesci dei pugni di Charlie erano già colorati in modo brutto, ma non sentiva nemmeno il dolore. Sentiva solo la paura, quella paura tremenda dentro.
Respirando forte, Charlie si trovò davanti un uomo biondo che era, almeno secondo il suo gusto del momento, un po' troppo allenato e un po' troppo duro nelle fattezze. Era relativamente sicuro che si chiamasse Cedric, ma siccome nelle loro "conversazioni" era stato la persona di fronte a lui a fare le domande, questo era tutto che sapeva di lui.
«Vuoi aiutarci?» La voce era fredda e asciutta, senza la più minima indicazione di sentimenti.
Il cuore di Charlie batté in gola. «Sì» la parola sembrò affannarsi all’altezza della laringe, e la voce che uscì non sembrò essere la sua. Stava facendo un errore?
«Ehì, Dan!» chiamò Cedric, e all'altra fine del corridoio apparve Rosenthal con un viso interrogativo. Cedric sogghignò. «Il professore ha cambiato idea».
Charlie vide un brillio quasi diabolico negli occhi di Rosenthal. E forse lo immaginò soltanto – attualmente non poteva far affidamento sui suoi sensi –, ma la voce di quell’uomo sembrò quella folle di un scienziato impazzito. «Guidalo nel suo ufficio».
- - -
Quasi un’ora dopo Don e Megan, insieme a David e Colby arrivarono alla centrale provvisoria della squadra investigativa. Si trattava di un rifugio di legno al confine nord-ovest del parco nazionale, in Montana. I due nuovi arrivati vennero, come Megan e Don prima di loro, aggiornati in poco tempo: non sapevano esattamente con quanti criminali avessero a che fare nel parco; la squadra investigativa sapeva solo che Wellman si era incontrato con altri due uomini lì, e che questi probabilmente erano anche membri del gruppo di sequestratori. In ogni caso si trattava di due agenti della CIA che – e questo era ciò che aveva trovato la squadra di Don, era perché si trovavano lì – erano in comunicazione con John Doe. Avevano tentato di contattare i due agenti, ma o la CIA non sapeva dove si trovassero o non voleva dirlo. I due agenti, un uomo di 38 anni di nome Daniel Rosenthal e uno di 36 anni di nome Wayne Taccone, erano irreperibili. Ciò che dava nell'occhio però era il fatto che – almeno questo l'altra squadra era stata in grado di trovarlo, in una specie di guerra burocratica – stavano lavorando insieme da nove mesi.
«Da nove mesi... vuol dire che potrebbe essere lo stesso gruppo che ha tenuto Charlie sei mesi fa» rifletté David.
«A che cosa stanno lavorando?» volle sapere Megan.
«Questo la CIA non ha voluto dircelo» rispose Jeffrey Blake, il capo della squadra incaricata della ricerca di Clifford Wellman. «E non ci hanno voluto dire neanche chi altro collabora al progetto. Hanno detto che non ha niente a che fare con il nostro caso».
«Forse adesso sì» osservò Colby. «Non so che ne pensate voi, ma io trovo che non sia improbabile che questi tizi – non importa a che cosa stanno lavorando – abbiano usato Charlie perché li aiutasse».
Megan scosse la testa. «Questo è più che improbabile, Colby. Non importa a quale progetto stanno lavorando, ma stanno lavorando per ordine della loro agenzia».
«Sì, e quest'agenzia è la CIA» disse David che ovviamente aveva deciso di difendere la teoria del suo partner.
«E allora? Per un momento tenete le vostre teorie cospiratorie per voi e pensate in modo un po' più ragionevole: la CIA non l'avrebbe mai rischiato di sequestrare un professore rispettabile».
«A meno che –»
«Questo non ci aiuta» interruppe Don Colby, conciso. Aveva ascoltato la conversazione dei suoi colleghi solo distrattamente e invece aveva diretto la sua attenzione sulla carta davanti ai suoi occhi. Questa mostrava una descrizione più o meno dettagliata del Parco Nazionale del Yellowstone. E se erano sulla pista giusta – e Don si rifiutava di dubitarne – Charlie si trovava da qualche parte in quell’area gigantesca. Dovevano solo trovarlo.
«Okay» disse David dopo un momento. «Cosa sappiamo?»
«Giusto» venne in mente a Megan, «Come avete saputo che Wellman e gli altri si trovano qui nel parco?»
«Non l'abbiamo saputo noi» osservò Mitchell O'Hara. Era un agente abbastanza giovane che insieme a due donne sul finire dei trenta, Karen Teeger e Juliet Disher, formava la squadra di Blake. «L'ha trovato lui».
Mitchell indicò un punto – oppure, come videro poi, una persona – dietro alla squadra di Don. I quattro si voltarono, e per un momento perplesso non furono sicuri di poter credere ai loro occhi.
Non si sarebbero mai aspettati di vedere Ian Edgerton lì.
- - -
Il sudore imperlava la fronte di Charlie. Non a causa di un lavoro molto faticoso. Piuttosto a causa della paura che a momenti avrebbero scoperto che non stava lavorando affatto.
Certo, stava dando l’impressione di essere intenzionato a dare davvero ai terroristi della CIA i dati che volevano. Gli avevano dato lo stesso incarico dell’ultima volta con le stesse menzogne, benché Charlie non sapesse perché si scomodassero ancora a fare tanto. Poi realizzò che loro non potevano sapere che cosa lui ricordasse malgrado la sua amnesia. Perché erano aumentati davvero di molto riguardo il numero e la chiarezza negli ultimi giorni. Se Charlie non sbagliava, la sua memoria era completamente - o almeno quasi completamente - ristabilita. Anche se avrebbe fatto a meno di alcuni ricordi. E anche se la cosa non l'aiutava nella sua attuale situazione.
Per esempio, ricordava piuttosto bene quali passi aveva seguito allora per giungere al risultato che gli era stato chiesto. Però sapeva che non poteva ripetere quelle azioni, non con la consapevolezza che tramite i suoi calcoli, persone innocenti sarebbero morte.
Dall'altro lato, non poteva neanche fare marcia indietro e esporre Amita e tutti gli altri al pericolo di un attentato. Il pensiero di quello che sarebbe potuto succedere a tutti loro – soprattutto a Larry – lo faceva quasi impazzire. Doveva sapere come stesse Larry, doveva, ma nessuno intendeva dargli una risposta, anche se lui adesso si era mostrato collaborativo.
O almeno quasi collaborativo. Perché naturalmente, non aveva ancora dato loro dei risultati; questo avrebbe avuto quasi sicuramente come conseguenza altri attentati e morti. Per questo, Charlie tentava di guadagnare tempo. Finora era andato bene. Ma sapeva che non avrebbe potuto continuare per sempre. Doveva succedere qualcosa, il più presto possibile, doveva uscire da quella situazione. Da solo sembrava impossibile, anche se i suoi sequestratori avevano a quanto pareva allentato le loro misure di sicurezza da quando aveva acconsentito a collaborare; almeno non credeva di essere sorvegliato lì, nel suo "ufficio". Eppure non riusciva ad immaginare una possibilità di uscire senza un aiuto esterno. Poteva solo sperare, e si aggrappò fortemente a quel pensiero, che Don lo trovasse, che tutto finisse finalmente e che avrebbe potuto sapere come stava Larry...
Charlie sapeva che era irrazionale. Nessuno sarebbe potuto sopravvivere ad un tale incidente. Eppure sperava talmente tanto che fosse tutto solo un trucco, che i suoi sequestratori avessero in qualche modo falsificato tutto, che Larry fosse ancora vivo. Si forzò di credere fermamente alla sua speranza. Non doveva di nuovo venir meno a causa del suo senso di colpa. Questa volta doveva essere forte, non importava quanto difficile gli sembrasse, doveva mantenere la calma.
Sperando che Don l'avrebbe trovato.
- - -
Disinvolto, come sempre, Ian si avviccinò al piccolo gruppo. «L'agente Eppes e seguito!» esclamò da lontano. «Dove avete lasciato il vostro piccolo genio questa volta?»
I quattro lo fissarono come se venisse da un altro pianeta. In effetti, anche Ian era un po' sorpreso di vederli lì (anche se, naturalmente, non l'avrebbe mai dato a vedere). Era andato a fare un altro giro esplorativo e sinceramente non aveva idea che cosa stesse facendo la squadra di Don nel parco. Beh', non avevano fatto grandi progressi nella ricerca di Clifford Wellman, ma anche se il loro capo avesse voluto mandare loro come rinforzi – cosa che probabilmente avrebbe prima comunicato – non sarebbero andati a chiamare i rinforzi da Los Angeles, giusto?
Dunque doveva esserci sotto qualcosa, e pian piano un sospetto cominciò a formarsi nella mente di Ian. Perché non gli era affatto sfuggita l’espressione di Don alla sua domanda, che voleva essere un modo come un altro di salutarli.
Oh oh, pensò e il suo sospetto si manifestò, sembra esser stata una domanda stupida. «Cos'è successo?» chiese allarmato, ma sempre controllato.
Don lo fissò ancora con uno sguardo vuoto. E quando rispose, Ian capì perché. «Charlie è scomparso. Supponiamo che è stato rapito dalle stesse persone che state cercando voi».
Non succedeva spesso, ma quello era uno dei momenti in cui Ian Edgerton non sapeva che cosa dire. Certo, all'inizio lui ed il matematico avevano avuto problemi sostanziali nel far andare d’accordo le loro opinioni contrastanti, ma alla fine ce l'avevano fatta a giungere ad un compromesso. Rispettavano l'uno l'altro, e Ian era anzi incline a considerare Charlie un amico. E non c’erano tante persone che rientrassero in quella categoria.
Rimaneva solo da sperare che durante i giorni passati la lista non si fosse ridotta di uno.
«Okay». Bene. Almeno riusciva sostenere una facciata calma all'esterno. «Dettagli?» domandò.
Colby cominciò a spiegare. Si accorse troppo tardi che non sapeva dove cominciare. «Okay... Hai saputo che lo scorso ottobre Charlie non era morto?».
Ian annuì. «Certo». Essere corrente faceva parte del suo lavoro, e i progressi nel caso del decesso di Eppes li aveva seguiti con interesse particolare. Quel particolare progresso, poi, lo aveva reso davvero molto contento.
«Però non sembri aver saputo» continuò Colby, «che il lunedì della settimana scorsa è stato di nuovo rapito, presumibilmente dalle stesse persone che l'hanno preso allora. Almeno è ciò che supponiamo. Crediamo che si tratti del stesso gruppo a cui appartengono anche i vostri tre sospetti, Wellman, Taccone e Rosenthal. Dal suo incarico in autunno, Charlie è stato sorvegliato da un'infermiera. E' stata uccisa, probabilmente dallo stesso gruppo e probabilmente perché sapeva troppo. Era in contatto con uno dei sequestratori, che a quanto pare le si era presentato solo come John Doe e che, d'altra parte, è in contatto con Wellman. Abbiamo saputo che voi lo state cercando insieme ad altri due, anche erano in contatto con John Doe, Rosenthal e Taccone. E se siamo fortunati, tengono Charlie prigioniero da qualche parte in questo parco».
Ian inarcò le sopracciglia guardando uno dopo l'altro i presenti. «Questo vi ritenete fortunati?» chiese nella sua maniera secca «Sapete che questo parco è gigantesco, sì?»
Colby davvero riuscì a fare qualcosa simile ad un sorriso. «Per questo abbiamo il migliore segugio del Nord America nella squadra».
«Solo del Nord America? Mi stai offendendo, Granger». Ian non poteva nemmeno convincere se stesso della genuinità della sua calma. Era profondamente inquietato. Ma il panico non li avrebbe aiutati.
«Allora hai trovato qualcosa o no?» L'impazienza di Don si manifestò attraverso l’irritazione.
«Non proprio, direi» disse Ian, lapidario, prima di vedere l'espressione di Don. «Scusa, Don». Si voltò di nuovo al gruppo intero. «Siamo qui da solo tre giorni. Ci abbiamo messo tempo per rintracciare tutte le loro mosse, e non abbiamo saputo di questo posto fino a lunedì. C'è anzi una bella prova video di uno dei supermercati della zona dove si può vedere Taccone. E sappiamo che Wellman voleva incontrare lui e Rosenthal qui nel parco. Da allora stiamo setacciando l'area il più vastamente possibile – niente, nessuna traccia. Sembra abbiano intenzione di starsene nel loro nascondiglio finché non si sentiranno sicuri di poter uscire».
«Okay...» disse Colby. «Ma hanno bisogno di rifornimenti, no? È per questo che vanno nei supermercati se ho capito bene, giusto? Allora non possiamo semplicemente sorvegliarlo?»
«Non funziona» interruppe Blake. «Abbiamo dato un'occhiata ai nastri dalle due settimane passate e abbiamo trovato Taccone solo una volta, nessun'altro. Supponiamo che cambino posto ogni volta».
«E se li sorvegliassimo tutti quanti?» chiese David.
«Scordatelo, Sinclair» disse Blake. «L'area è troppo vasta. Si tratta di un territorio di forse 1500 chilometri quadrati quello in possono essersi nascosti».
David corrugò la fronte. «E perché proprio 1500?»
«Un calcolo semplice, abbiamo preso numeri tendenzialmente abbastanza grande da essere sicuri: supponendo una velocità media di sei o sette chilometri orari, una persona in dieci ore può percorrere da sessanta a settanta chilometri, diciamo trenta da un lato, trenta dall’altro; questo è il raggio. Questo significa che, partendo dal supermercato, dobbiamo cercare la nostra talpa lungo un semicerchio di quasi 1500 chilometri quadrati».
Quando Ian vide le espressioni dolorose sulle fattezze dei suoi amici, non era sicuro che avessero quest'aspetto a causa della spiegazione di Blake oppure a causa del modo in cui l’aveva data e l'ovvio ricordo a Charlie. Eppure c'era una differenza notevole in confronto al vudù di Charlie: la spiegazione di Blake era comprensibile.
«Ma potremmo anche essere sfortunati» continuò Blake, «e sbagliarci: magari hanno il loro nascondiglio da qualche altra parte nel parco, perché tutto sommato, lo Yellowstone si estende per un'area di 9000 chilometri quadrati. Ma se partiamo dalla supposizione che possono andare dal nascondiglio a questo supermercato e indietro in un girono, dobbiamo essere comunque vicini».
«Ma non dovrete prendere la parola "vicini" troppo sul serio» li avvertì Ian. «A ciò si aggiunge che il territorio è per la maggior parte impervio. Questa non è la parte del parco che preferiscono i turisti pseudo-avventurieri; qui ci sono appena dei sentieri e i dintorni sono terribilmente confusionari».
«Okay» disse Don con tono di chi aveva avuto sufficienti notizie brutte per il momento, «e allora che cosa facciamo?»
Ian alzò le spalle. «Continuiamo a cercare».
- - -
Pian piano, una stanchezza di piombo calò su Charlie. L'orologio nel computer mostrava che era davanti allo schermo già da 18 ore facendo finta di essere attivo. E benché in realtà non stesse facendo alcun calcolo matematico complesso, comunque il suo corpo bramava il sonno...
Di nuovo si lasciò andare all'immaginazione: il computer doveva essere allacciato a una rete, una qualsiasi rete. Beh', non si aspettava che i suoi sequestratori fossero stati così stupidi da usare internet e così mettersi in pericolo tramite localizzazioni o hackeraggi, ma se solo avesse potuto hackerare un'altra rete da qui, qualsiasi... Ma il suo computer non era allacciato a niente, nemmeno ad un sistema interno. Sapeva perché. Quell’errore l'avevano già fatto lo scorso autunno. Anche allora erano stati isolati dal mondo esterno e Charlie non aveva nemmeno saputo dove si trovasse. Gli orologi segnalavano l'ora di Washington, ma Rosenthal gli aveva detto dall'inizio che non avrebbe dovuto farci attenzione; dopotutto non si trattava di orologi radiocontrollati e così potevano essere regolati in modo semplice. Però era riuscito ad entrare nel sistema interno allora, con qualche trucco da hacker che aveva copiato da Amita. E così aveva trovato la prova del suo terribile sospetto.
Adesso gli avevano chiuso anche quella strada. Davvero non aveva più altra speranza se non Don.
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Capitolo 38 *** Costrizione e libertà ***
Ciao! Mi dispiace tanto per il ritardo, ma ecco finalmente il nuovo capitolo!
Spero che vi piaccia :)
38. Costrizione e libertà
What's worth the prize is always worth the fight.
Every second counts 'cause there's no second try,
So live it like you'll never live it twice.
Don't take the free ride in your own life.
(Nickelback, If Today Was Your Last Day)
Per un attimo, Amita esitò, il dito appena sospeso sul tasto di chiamata. Avrebbe davvero dovuto avvisare Larry in quel momento? Era stato dimesso dall'ospedale solo quella mattina e su sua richiesta. Aveva aiutato a portarlo a casa di Charlie – Alan aveva insistito. E per Amita andava bene che Alan lo tenesse d'occhio. Larry aveva ancora un aspetto provato.
No, non l'avrebbe chiamato. C'era tempo. Per il momento ne sarebbe venuta a capo da sola – nonostante si sentisse sempre molto insicura.
Dopo il terzo trillo qualcuno rispose. «Sì? Eppes»
La comunicazione era disturbata; c'era un fruscio, poi migliorò, ma ad un tratto vi furono nuove interferenze. «Ehì, Don» disse Amita con tono di voce un po’ più alto del normale perché la sentisse.
«Amita? Sei tu? Hai trovato qualcosa?»
«Aspetta», la interruppe Don. C'era ancora un fruscio, ma quando parlò di nuovo, la comunicazione sembrava un po' più chiara. «Così dovrebbe funzionare. Scusami, ma stiamo cercando il nascondiglio dei sequestratori e la linea è terribile. Cosa avete trovato?»
«Penso che adesso abbiamo abbastanza punti per riconoscere il viso e possiamo tentare un confronto con la vostra banca-dati. A proposito, l'uomo dalla videoregistrazione della CalSci e quello dalla concessionaria di automobili sono identici».
«Bene... Aspetta, dici "noi"? Come sta Larry?»
«È a casa vostra, sta riposando. E' stato dimesso dall'ospedale oggi».
Ci fu una breve pausa all'altro capo della linea e Amita poté quasi sentire Don lasciarsi scappare un sospiro di sollievo. «Bene. Salutalo da parte mia. E prova il confronto di cui mi dicevi. Quanto più sappiamo dei sequestratori, tanto meglio sarà».
«Bene, lo farò. E... Don?»
Il suo cuore batteva ferocemente e non sapeva come dirlo. «Voi... voi troverete Charlie?»
Di nuovo, Don non rispose subito, ma quando parlò la sua voce suonava speranzosa ed era rilassata. «Sono fiducioso». Di nuovo esitò. Poi parve deciso ad esporsi. «Il problema è che è stato rapito quasi due settimane fa e... Dobbiamo trovarlo il più presto possibile».
Amita tacque. Ma il suo cuore continuava a battere ardentemente. Era come se volesse spingerla ad essere utile, a fare qualcosa. «Posso aiutare?»
Di nuovo la risposta venne con un secondo di ritardo. «Sì... intendo, non lo so. E' possibile delimitare l'area in qualche modo? Individuando magari dei luoghi con maggiore probabilità di trovarlo rispetto ad altri?»
«Beh, dovrebbe essere possibile con un po' di teoria dei giochi» rispose quella, riflettendo. «Ma non so quanto questo vi sarà d’aiuto».
«Ci andrà bene qualunque informazione. Ti manderemo i dati necessari, va bene?»
Don mandò un sospiro di sollievo. «Va bene. Grazie, Amita».
Amita si morse il labbro prima di decidersi ad aggiungere: «Don? Ti prego, trovatelo».
E di nuovo l'aveva fatto esitare. «Lo faremo» disse infine. «Ciao».
Amita riattaccò e deglutì. Più parlava con Don, tanto più le diventava ovvio che tutta la faccenda era più seria e disperata di quanto pensasse.
Le ricerche non erano servite a niente. Avevano camminato per chilometri, ma non avevano fatto un solo passo avanti. E se non volevano perdersi anche loro nel buio, dovevano interrompere le ricerche per quel giorno.
Gradualmente, mentre ritornava con Ian alla centrale nella capanna di legno, Don si accorse che cosa il suo collega intendesse quando aveva parlato di una "zona troppo grande". Certo, sapeva anche prima che il parco nazionale era grandissimo, gigantesco. Ma non avrebbe pensato che la loro impresa sarebbe stata a tal punto senza speranze.
Don stimò che quel giorno non avevano nemmeno spulciato l’un percento dell'area delimitata. Charlie probabilmente l'avrebbe chiamata "zona calda". E se avessero scoperto poi che per una qualche ragione i sequestratori si trovavano in una zona del parco diversa da quella supposta, avrebbero fatto prima a tornare a casa subito.
Però Don non sarebbe mai tornato senza suo fratello.
Di nuovo le sue viscere sembravano sciogliersi. Cosa sarebbe successo se non avesse trovato Charlie? Avevano fatto così tanti passi avanti fino a quel punto, erano talmente vicini alla soluzione – eppure si trovavano lì, in un parco gigantesco, senza la più piccola pista.
La più grande speranza di Don si attaccava in quel momento al pensiero che Amita – forse con l'aiuto di Larry – ce l'avrebbe davvero fatta a trovare un modo per ottimizzare la loro ricerca. Ma anche se qualche volta sembrava così, i due scienziati non potevano produrre un simile risultato semplicemente per magia. E anche se Don sapeva che ci avrebbero lavorato senza sosta, sarebbe resistito ancora per poco prima di ricevere quei risultati. E poi magari avrebbero avuto comunque una zona enorme da setacciare mentre Charlie faceva affidamento su di loro.
Don non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che non stessero più facendo passi avanti. Certo, stavano facendo tutto quello che potevano – ma era sufficiente? Don aveva già richiesto dei rinforzi, ma avevano troppo poche indicazioni che si trovavano sulla buona pista per giustificare l’impiego di più di due squadre.
Don deglutì. Si accorse che aveva preso a tremare. Cosa sarebbe successo se tutta questa ricerca si fosse rivelata completamente inutile, se Charlie non fosse stato lì? Che cosa avrebbero fatto? Se fosse stato davvero così, stavano sperperando del tempo, tempo che avrebbero potuto usare per trovare Charlie. Ma questa pista era talmente promettente...
Don voltò la testa. Ian si era avvicinato da dietro e l'aveva sorpreso con una pacca amichevole sulla spalla. Don non sapeva se dover essere grato a Ian dei suoi modi leggeri oppure infuriato. Certo, rimproverarsi non li aiutava. Ma come poteva Ian fingere che tutto andasse bene?
«Beh', un tempo eri più loquace» disse Ian nella sua maniera sobria.
Don tentò di mantenere la calma, ma per riuscirci doveva sopprimere la sua furia. «Forse non te ne sei accorto, ma l'uomo che stiamo cercando è mio fratello».
Ian si finse sorpreso. «Clifford Wellman è tuo fratello? Non lo sapevo».
Don tacque, amareggiato. Perché Ian non poteva semplicemente lasciarlo in pace? Ma le probabilità che Ian parlasse con qualcun altro erano pari a zero: si erano divisi in tre squadre da due mentre i tre che rimanevano mantenevano la posizione nella loro centrale provvisoria. Come se potessero raggiungere più punti così.
Ian fece una pausa ben misurata prima di continuare: «Sai che innanzitutto stiamo cercando i sequestratori di Charlie e non lui stesso, vero?»
Don si fermò repentinamente fissando Ian. «Non stai dicendo sul serio».
«Niente di personale, ma devi fare attenzione a non fissarti troppo. Lo sai, un agente deve rimanere neutro e tutto quanto».
C'era un fulmine negli occhi di Don. «Che cosa stai tentando di dirmi?»
E ad un tratto, Ian fu completamente serio. «Ascolta un buon consiglio: non lasciarti coinvolgere in questo caso, Don».
Don scosse la testa. Ian doveva esser impazzito. «Ian – si tratta di Charlie, questo è chiaro per te? Beh', probabilmente non ti interessa, ma è mio fratello. Non lo capisci?»
«Meglio di te, a quanto pare. Don, so che sei un buon agente. Ma Charlie è semplicemente il tuo punto debole. E per questo dovresti fare attenzione. Devi prendere in considerazione l'ipotesi che forse non lo troveremo».
Per qualche momento Don si sentì soffocare. La franchezza di Ian chiedeva troppo a volte. «E che cosa proponi tu?» chiese infine quando si era accorto di come Ian lo smascherasse.
«Smettila di rimproverarti» disse Ian in modo lapidario, come se fosse la cosa più semplice del mondo.
Di nuovo Don scosse la testa. «Veramente non lo capisci. Non vedi che tutto questo è colpa mia?»
Ian sgranò gli occhi. «E' ciò che sto dicendo, non–»
«No, adesso tu mi lasci finire di parlare» lo interruppe Don. Non era sicuro da dove venisse la sua irritazione, sapeva solo che non poteva fermarla. «Sembra che Charlie sia stato sequestrato dagli stessi tizi di sei mesi fa. Già allora tutta la faccenda mi puzzava, ma cosa ho fatto? Niente. Niente, Ian, ti è chiaro? Se all'epoca avessi investigato riguardo la presunta morte di Charlie più attentamente, forse avrei trovato cosa c'era dietro tutta la faccenda. Ma non l'ho fatto. Ho piantato Charlie in asso, capisci cosa significa? Se all'epoca non l'avessi abbandonato subito–»
A Don mancò la voce. Dovette fare alcuni respiri profondi prima di poter continuare. «Se all'epoca non l'avessi abbandonato subito, tutto questo probabilmente non sarebbe mai successo».
Don respirava fortemente. Non era stato facile esprimere questa accusa verso sé stesso ad alta voce, ma la rabbia verso Ian e sé stesso era stata un forte catalizzatore. E non dubitava per un momento della verità terribile delle sue parole. Aveva abbandonato Charlie all'epoca. Aveva accettato troppo velocemente la notizia della sua morte benché le contraddizioni e i contrasti fossero stati tanto ovvi. Aveva piantato suo fratello in asso.
Ian non sembrava ancora convinto. Anche lui sembrava preferire ignorare l'ovvio. «Beh'» disse, «dopotutto lo credevi morto».
Come se quella fosse una scusa. «Però non era morto» disse Don con una voce ancora tremante, e una voce molto più calma dentro di lui aggiunse: “Cosa che non significa che non potrebbe essere morto adesso”.
Don dovette deglutire, ma non sapeva ancora per quanto avrebbe potuto continuare a stare lì, tranquillo. Insomma, aveva finito da tempo di star tranquillo. Tremava in tutto il corpo di sentimenti repressi.
«Okay» disse Ian e suonò conclusivo. «Okay. Allora forse hai fatto uno sbaglio all'epoca. Che ne pensi se lasciamo perdere tutto questo e ne non appena avremo trovato Charlie insieme ai sequestratori?»
Charlie sobbalzò quando, come attraverso una nebbia, sentì rumori alla sua porta. Un attimo prima si sarebbe quasi potuto addormentare e ci mise un momento per rendersi conto che non si trovava nella sua cella, ma nel suo ufficio, ed avevano già aperto la porta. Il quarantenne con i capelli scuri era entrato, Dexter Johnson, se Charlie non sbagliava, e non aveva un aspetto entusiasta.
«Seguimi!» ordinò brevemente a Charlie.
Charlie sentì la nausea salirgli, e insieme alle sue ginocchia molli e al caldo che gli saliva alla testa si sentiva un po' come se avesse della febbre. Forse era la febbre della ribalta di ciò che l'attendeva. Perché se i suoi timori erano fondati, era il momento di illudere i suoi avversari.
Appena Charlie arrivò alla porta, venne afferrato nella parte superiore delle braccia dall'uomo con i capelli scuri; continuavano a stringerlo talmente forte e talmente spesso che era certo gli sarebbero rimasti i lividi per sempre.
Veniva di nuovo condotto nella sala dell'interrogatorio e poi lasciato da solo con Rosenthal. Non prima di vedere le solite gentilezze sul tavolo – una bottiglia di acqua, un bicchiere, un po’ di pane, del salume, formaggio, un coltello – si accorse subito di quanta fame avesse. Una bottiglia di acqua gliel'avevano data anche nel suo ufficio, però non aveva mangiato niente da più di un giorno. Il suo stomaco brontolava. Ma questo, pensò, poteva anche essere a causa della sua paura.
«Si sieda!» ordinò Rosenthal con la stessa concisione del sua collega pochi secondi prima. Non sembrava tanto contento.
Charlie ubbidì. Senza poterlo impedire, la sua mano sussultò già verso la cena, ma la voce di Rosenthal interruppe il movimento subito: «Fermo! Non mangerà finchè non ci avrà dato dei risultati».
Charlie deglutì. «Ci sto lavorando» mentì. La sua voce tremava un po' e non sembrò neanche tanto convincente quanto doveva essere.
«Non menta!» gridò Rosentha, battendo le sue mani sul tavolo. Charlie sobbalzò. In quel momento, per un attimo, un ricordo di Don sorse dentro lui, il modo in cui stava di fronte ad un sospettato qualunque, come batteva le mani sul tavolo, gridando con una voce autoritaria...
«Non può più prenderci in giro, Eppes». Rosenthal interruppe bruscamente il ricordo. «Oppure crede che non abbiamo capito che cosa intende fare? Vuole guadagnare tempo! Ma non funzionerà, Eppes. O ci consegnerà la prima località entro stasera o può dire addio alla sua ragazza. L'abbiamo avvertito, non stiamo scherzando».
Charlie tremava. Più acceso diventava il clamore di Rosenthal, più freddo aveva.
«Ho... ho bisogno di più di tempo» balbettò.
Lo sfogo era atteso eppure Charlie trasalì violentemente. «Però non abbiamo tempo! Cominci a lavorare, Eppes! Ha già cominciato quest'algoritmo lo scorso autunno, lo termini!»
«Non... non posso, non... non so di che cosa sta parlando». Un po' tardi Charlie si era ricordato che, badandosi sulle informazioni che avevano su di lui, non poteva ancora ricordare quasi niente. «Non posso darvi l'algoritmo così presto».
«Ah sì?! E perché, se posso chiedere?»
«Non...» E ad un tratto, Charlie non dovette più mentire. «Non posso più sopportarlo!» gridò. «Sono... sono esausto, devo dormire, ho fame...» Stava per ricordare a quel bastardo di Rosenthal ancora una volta che era il suo prigioniero già da giorni, ma non trovava le parole. Forse era anche il suo buon senso ad impedirglielo.
Rosenthal fissò Charlie con un sguardo fisso negli occhi e se Charlie non fosse stato altrettanto pervaso di una furia disperata, avrebbe sicuramente distolto lo sguardo. Gli occhi di Rosenthal erano diretti arguti e ostili su di lui, e Charlie fu sollevato del fatto che non si potesse ammazzare con uno sguardo.
Finalmente, Rosenthal si allontanò da Charlie camminando avanti ed indietro davanti al suo tavolo. «Okay» disse infine il terrorista quando sembrava essersi calmato un po'. «Okay. Puoi dormire». Charlie sentì il "ma" ancora prima che Rosenthal lo pronunciasse: «Ma devi darci risultati».
Charlie rifletté febbrilmente su come sfuggire da quel guaio quando fu salvato in modo inatteso: fuori, all'altro lato della porta di acciaio, poté sentire dei passi, passi veloci che si avvicinarono.
La porta si aprì di scatto e apparve l'uomo, il più giovane della squadra – o almeno il più giovane di quelli che Charlie aveva già visto. Sembrava eccitato. Charlie, i cui nervi erano comunque ipersensibili nella sua attuale situazione, tese le orecchie ancora di più. Qualcosa doveva essere successo. La domanda era solo: era bene o male per lui?
«Che c'è, Mike?» gridò Rosenthal al suo complice con irritazione.
Charlie prese nota nella sua mente. Dunque quello era Mike. L'hacker. Durante i giorni passati, soprattutto durante le investigazioni, aveva saputo abbastanza cose da farsi un'immagine approssimativa dai suoi sequestratori. Però non sembrava servirgli a tanto. Al contrario. Se si comportavano in modo talmente libera riguardo il lasciar trapelare quelle informazioni, era probabilmente solo perché non credevano che il loro prigioniero avrebbe mai potuto trasmetterle...
«Sono qui» sbottò Mike, e il treno dei pensieri non molto ottimistici di Charlie si fermò subito. «Ci stanno cercando, qui nel parco».
Per la prima volta, Charlie credette di poter distinguere qualcosa come paura negli occhi di Rosenthal. «Cosa?» chiamò. «Chi? Chi ci sta cercando?»
«Suo fratello». Mike fece un breve cenno col capo verso Charlie senza guardarlo. Altrimenti non gli sarebbe mai sfuggito il barlume impetuoso di speranza nei suoi occhi. «Dexter l’ha saputo da uno dei suoi contatti. Eppes e la sua squadra sono qui. Si sono uniti all'altra squadra e siccome Wayne e Dexter erano stati in California, il fratello e la sua squadra probabilmente sanno più degli altri cosa sta succedendo, hanno adesso prospettive migliori–»
«Zitto!» lo interroppe Rosenthal impaziente. «Devo riflettere».
Non solo Mike, ma anche Charlie aspettavano tesi che cosa sarebbe uscito da questa breve meditazione. «Dì agli altri di andare a prendere delle provviste per noi, ma ad alcuni chilometri di distanza dal parco così da non farsi notare. Dobbiamo essere ancora un po' più invisibili del solito. E devono dividersi» ordinò Rosenthal alla fine a Mike e quello sparì.
Charlie tentò di comportarsi in modo il più calmo possibile per non attirare l'attenzione di Rosenthal su di lui, mentre il suo cuore saltellava per nervosismo e gioia cauta. Erano arrivati! Don era lì! Poteva solo essere una questione di tempo finché non l'avrebbero finalmente trovato!
Eppure... Cosa sarebbe successo se non l'avrebbero trovato? Se Charlie aveva capito bene, c'era anche una squadra che cercava i sequestratori da più tempo. E finora non erano stati fortunati. Il nascondiglio dei suoi avversari doveva esser abbastanza buono. Cosa sarebbe successo se fosse troppo buono anche per Don...?
Il cuore di Charlie batteva ancora con una velocità dolorosa quando capì che doveva fare qualcosa. Non poteva semplicemente aspettare sperando che Don lo trovasse, non doveva correre il rischio di un insuccesso, non adesso che la salvezza era talmente vicina. Doveva in qualche modo attivarsi anche lui, contribuire alla propria liberazione...
Fu un lampo di genio. Charlie vide il coltello pericolosamente grande davanti a lui sul tavolo e gli sembrò come se il suo piano fosse sempre stato lì, finito, come se avesse semplicemente aspettato quell'occasione. Il nascondiglio era abbandonato. Solo Rosenthal e quel Mike si trovavano ancora lì. Due avversari con cui, se necessario, poteva competere non senza prospettive. Doveva osare.
Charlie cominciò a sentire caldo mentre controllava il piano nella sua testa. Si sentiva tremulo. Adrenalina, disse fra di sé, è solo l'adrenalina...
«Se ne sono andati» informò Rosenthal, e nello sguardo confuso di Charlie aveva un po' l'aspetto di un agitato punto interrogativo, di un fascio nervoso e confuso, che aspettava nuovi ordini.
«Bene» disse Rosenthal che sembrava tanto calmo quanto il suo complice agitato. «Portalo nella sua cella» lo incaricò poi con un cenno della testa in direzione di Charlie. «Ci occuperemo di lui più tardi».
Charlie non era sicuro che cosa significasse, ma non se ne importò tanto. Tutto ciò che aveva importanza il quel momento era il giusto tempismo. Charlie non era mai stato tanto teso in vita sua, eppure cercava di non darlo a vedere mentre osservava come Mike si avvicinava a lui. Adesso era accanto a lui, l'afferrava sotto la spalla sinistra e stava per tirarlo in alto. Era il momento. Prima che i terroristi sapessero che cosa stesse succedendo, Charlie aveva già preso il coltello, stretto il suo braccio sinistro attorno alla gola di Mike e puntato l’arma alla gola.
La respirazione di Charlie era rapida. Anche quella di Mike. Rosenthal non sembrava respirare affatto. Era ovvio che non s’aspettasse un tale cambiamento della distribuzione del potere. Ed era abituato che tutto succedesse secondo le sue regole.
Charlie era un po' spaventato da sé stesso. Non aveva creduto veramente di farcela. Adesso, però, vedendo e sentendo la reazione dei suoi avversari, si sentì più sicuro. Aveva il colpo di scena definitivamente dalla sua parte.
La sua respirazione era ancora accelerata e avrebbe voluto che il suo cuore smettesse di battere tanto dolorosamente mentre si accorgeva che non doveva perdere il vantaggio tratto dal colpo di scena.
«Al muro» comandò a Rosenthal perché era la prima cosa che gli venne in mente. Doveva far attenzione. Non aveva una buona posizione: stava un po' in bilico fra il tavolo, la sedia e il suo ostaggio, e se l’hacker avesse fatto un movimento repentino, sarebbero probabilmente tutti e due andati per terra. E questo non doveva succedere.
Un po' calmato, Charlie osservò come Rosenthal eseguiva il suo ordine ritirandosi verso il muro di fronte alla porta. Adesso era assai lontano e Mike era ancora spaventato cosicché Charlie poté osare dare un calcio alla sedia e toglierla da davanti – naturalmente senza levar gli occhi da nessuno dei due.
Adesso non c'erano più ostacoli e Charlie tirò Mike con sé verso la porta d'acciaio che andava nella sala degli interrogatori. Il suo ricordo fu confermato: aveva una serratura di sicurezza. E la chiave non c'era.
Nessuno rispose. Negli occhi di Rosenthal Charlie vedeva passare un odio che lo faceva inorridire. Ma doveva agire adesso. Ogni altra cosa sarebbe stata un suicidio.
«Dov'è la chiave?! Rispondi, oppure gli taglio la gola!»
Trascorsero momenti tesi. Charlie sperava ardentemente che Rosenthal rispondesse, perché non aveva idea che cosa avrebbe fatto altrimenti. Uccidere l'uomo in suo potere non era definitivamente un'opzione.
Finalmente, Rosenthal passò la mano nelle tasche del suo pantalone.
«Nessun movimento falso!» l'avvertì Charlie.
Ma Rosenthal gli diede solo uno sguardo pieno d'odio prima di tirare lentamente dalla sua tasca un mazzo di chiavi sottile, togliere una delle chiavi dall'anello con mani ammirabilmente tranquille e tenerla in alto dimostrativamente.
«Mettila sul tavolo!» ordinò Charlie. Rosenthal ubbidì.
Charlie aspettò finché l’uomo non tornasse nuovamente all'angolo prima di spingersi con Mike lentamente verso tavolo. «Prendila». Mike fece come ordinato. Lentamente si ritirarono verso la porta. Charlie rifletteva febbrilmente. Niente poteva andare male, doveva riuscire...
Erano accanto alla porta ma ancora nella stanza. «Controlla che funzioni e se la porta si chiude» ordinò Charlie al suo ostaggio. Quella era una parte problematica. Mentre Mike faceva girare la chiave nella serratura della porta aperta, Charlie doveva tenere d'occhio sia lui sia Rosenthal. Ma funzionava. E la chiave era giusta.
Charlie stava già per mandare un sospiro di sollievo, ma sapeva che era troppo presto. «Girala indietro e lasciala nella serratura» ordinò a Mike e quello ce la fece davvero – malgrado le sue mani tremolanti – a girare indietro il perno della serratura cosicché adesso si poteva di nuovo chiudere la porta.
Charlie si avvicinò di più con Mike finché finalmente si trovarono sulla soglia. Rosenthal era ad alcuni metri di distanza da loro, ma doveva bastare. Charlie fece un altro respiro profondo, costringendosi di non far attenzione sul suo tremolio, e poi tolse il più velocemente possibile il coltello dalla gola di Mike mentre, quasi nello stesso momento, lo spinse il più forte possibile via da sé. Mike barcollò avanti, ma Charlie non ci fece quasi più attenzione. Tirò la porta ferma e girò la chiave. I suoi sequestratori erano imprigionati.
Per un attimo si fermò respirando profondamente, ma sapeva che non doveva concedersi tempo. Certo, sapeva che gli altri terroristi della CIA erano andati via, ma non aveva idea quando sarebbero tornati.
Corse in fretta per i corridoi sotterranei aprendo ogni porta che passava. Il bagno, un ufficio, un altro ufficio, un specie di camera di tortura, un ufficio con schermi con un sistema GPS...
Charlie si fermò repentinamente. Credette che il suo cuore avrebbe smesso di battere. Segnali GPS. Da lì sorvegliavano segnali GPS. E anche lui trasmetteva uno di quei segnali, l'aveva quasi dimenticato! Quel dannato segnale gli era già stato fatale al suo primo tentativo di evasione, in autunno, e non ci doveva essere una seconda volta. Doveva impedire in qualche modo che lo seguissero di nuovo, doveva...
Ad un tratto Charlie si accorse che aveva ancora il coltello nelle mani. Il coltello tremava. Ma Charlie non doveva andare panico in quel momento. Doveva mantenere la calma. Vide solo una singola possibilità e non esitò più, ma fece un taglio lungo il braccio sinistro. Poteva ricordare come gli avevano messo dentro il chip, doveva trovarsi vicino al suo polso. Non lo trovò subito, ma dopo alcuni secondi, le sue dita palparono un qualcosa di duro e sintetico che sicuramente non apparteneva al suo corpo. E malgrado le dita tremassero ci mise solo alcuni attimi per toglierlo. Lo lasciò cadere a terra e lo schiacciò con i piedi.
Rifletté brevemente se c'erano altre possibilità per i suoi sequestratori di localizzarlo, ma siccome non portava niente con sé, pensò di essere al sicuro. Solo quando lasciò cadere il suo sguardo verso il basso, lungo il suo corpo e il braccio sanguinante entrò nel suo campo visivo, temette che forse potessero seguire le tracce sangue. Doveva trovare qualcosa per fasciarlo, qualsiasi cosa...
Un momento dopo era nel piccolo bagno sotterraneo ed avvolgeva alcuni strappi di carta igienica attorno al suo polso. Doveva bastare. Ora non aveva più alcuna ragione per esitare.
In pochi minuti aveva trovato l'uscita: una porta d'acciaio, come le altre, però quella non dava in un ufficio o una sala interrogatorio, ma nella notte fresca che gli ridava la vita.
Era libero.
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Capitolo 39 *** Battaglie esistenziali ***
39. Battaglie esistenziali
All the leaves are brown and the sky is grey.
I’ve been for a walk on a winter’s day.
I’d be save and warm if I was in L.A –
California dreaming on such a winter’s day.
(Mamas and Papas, California Dreaming)
Il tasso di adrenalina che scorreva nelle vene di Charlie era ad altezze vertiginose mentre era davanti al nascondiglio e tentava di acquistare una visione completa tanto della sua situazione quanto della sua posizione. Si trovava in un territorio scoperto, c'erano alberi intorno a lui, ma quel posto sembrava essere una piccola radura naturale. Soltanto il bunker dei terroristi era tutto tranne naturale. Sembrava esistere da qualche tempo, perché era coperto di fronde e rampicanti e in fondo invisibile. Almeno di notte.
Charlie si chiese dove potessero essere gli altri sequestratori. In ogni caso considerava consigliabile dirigersi nella direzione opposta. Ma non aveva idea di dove potesse essere la direzione opposta.
In ogni caso devo andare via da qui, si incitò finalmente. Perché più si allontanava dal nascondiglio, più si estendeva l'area e meno probabile diventava la possibilità di imbattersi in uno dei sequestratori.
Si mise dunque in cammino seguendo una direzione in cui la sterpaglia non era troppo fitta. Non aveva visto dei sentieri e se ce ne fossero stati, li avrebbe definitivamente evitati. Nella sterpaglia, però, la sua traiettoria sarebbe stata più facile da seguire.
Più camminava nel buio della notte, lontano dai sequestratori nel nascondiglio, più l’adrenalina svaniva, e presto, il suo avambraccio sinistro si fece sentire in modo spiacevole. Il taglio al suo polso bruciava e pulsava, ma in confronto al problema del vagare senza una precisa direzione Charlie lo considerava solo fastidioso. Comunque non era arrivato alle vene, il taglio era solo sgradevole, non pericoloso, almeno finché non fosse arrivata la setticemia.
Andava peggio con l'orientamento. Purtroppo, Charlie non aveva mai imparato ad orientarsi in base alle stelle, ma anche se avesse avuto questa facoltà, probabilmente non gli sarebbe stata d’aiuto nella sua situazione attuale. Perché forse avrebbe saputo esattamente dove si trovavano i punti cardinali – certo, poteva anche stabilirlo approssimativamente con l'aiuto della stella polare – ma non l'aiutava finché non aveva idea dove si trovasse.
Charlie ripensò alla conversazione che aveva sentito nel rifugio. “Sono qui. Ci stanno cercando, qui nel parco”. Nel parco... probabilmente Mike si stava riferendo ad un "parco nazionale", perché quell’area a Charlie non sembrava essere un parco urbano. Ed era perfetto. Lì, nessuno avrebbe mai trovato un nascondiglio sotterraneo.
Allora lo stavano cercando. Però, purtroppo, da due lati opposti. Da una parte c'erano i suoi salvatori che non sembravano aver altra indicazione tranne il parco gigantesco, dall'altra c'erano i suoi inseguitori che sapevano esattamente da dove cominciare la ricerca, cioè dal luogo in cui era evaso. Dunque era necessario far perdere le tracce ai secondi e sbarazzarsi di loro mentre allo stesso tempo doveva dirigere l'attenzione dell'FBI su di sé. Come?
Prima doveva mettersi ad un massimo di distanza dal suo carceriere. Poi avrebbe potuto preoccuparsi del resto. Perché una cosa era chiara: aveva bisogno dell'aiuto di Don e della squadra, perché se davvero si trovava in un parco nazionale, non poteva sperare di trovare la via d’uscita prima che gli altri avessero trovato lui. Ma come comunicare a Don e gli altri dove si trovava e quale direzione imboccava senza che queste informazioni fossero arrivate nelle mani sbagliate?
Rifletté intensamente. Probabilmente l'FBI avrebbe cercato sia via terra sia dall'alto con un elicottero dato che non avevano ancora nessuna indicazione. Almeno Charlie sperava ardentemente in una ricerca aerea. Perché se fosse stato così, aveva già un'idea.
Ad un tratto, il terreno esplose davanti a Charlie e il ragazzo saltò indietro spaventato. Qualcosa fischiò nelle sue orecchie. Sentiva qualcosa come punture d’ago dappertutto sulla pelle. Ma da dove potevano arrivare degli agi – lì? Acqua, il pensiero venne a Charlie come un fulmine, era acqua! E infine, non ebbe più dubbi: davanti a lui, solo ad una dozzina di passi di distanza, acqua schizzava dal terreno.
Per alcuni secondi, Charlie fu talmente perplesso da non distinguere che cosa aveva davanti: un geyser. Almeno i nervi tesi fino allo stremo sotto la sua pelle gli dicevano che l'acqua di questa fontana a getto naturale era calda. E se c'erano dei geyser lì, uno solo per quanto sapeva era il luogo dove poteva trovarsi: il Parco nazionale di Yellowstone. Almeno che non si trovasse in Islanda, e Charlie osava dubitarne.
Ma ovunque si trovasse sarebbe stato saggio lasciare la sua attuale posizione e girare estesamente intorno a quell’area. Non era granché intelligente, nel buio, camminare attraverso un campo minato di gargolle bollenti. Perché non se la sentiva proprio di stare alla prossima eruzione direttamente sopra di uno di quelli minuscoli vulcani.
- - -
Quando Amita si rese conto di aver rotto la sua tazza da caffè avrebbe voluto piangere. Non le importava della tazza. Le importava di tutto il resto e la pressione che gravava su lei era appena sopportabile. Era stanca, aveva i nervi a pezzi, niente voleva più funzionare, faceva un errore dopo l'altro, diventava sbadata, non ce la faceva più a fare niente – e non avevano ancora trovato Charlie.
Amita deglutì, cacciando indietro le lacrime, ma la furia e la disperazione rimanevano. Semplicemente non lo voleva più, era tutto senza senso...
«Non vuoi raccogliere quei cocci?»
Amita si voltò rapidamente ed fu un po' sorpresa che con quel gesto non avesse fatto cadere il laptop. Non si aspettava Larry a quell’ora della sera, tanto più perché pensava che fosse ancora a riposo. Ciò nondimeno era contenta che fosse lì perché malgrado la sua aura spesso confusa, a modo suo emanava una certa calma.
«Sì, certo» disse quando realizzò che cosa le aveva detto. Prese la paletta accanto alla porta e mentre raccoglieva i cocci si calmò di nuovo un po'. In fondo, era solo una tazza. Poteva succedere a chiunque.
Larry si avvicinò con cautela al suo laptop guardando il suo lavoro. Da terra, Amita gli diede uno sguardo. Larry sembrava ancora pallido e riusciva appena a stare dritto, talmente dolorose dovevano essere le sue ferite, ma era lì ed Amita si sentiva già un po' meglio solo grazie alla sua presenza. Aveva imparato durante i giorni passati quale peso incredibile fosse lavorare da sola ad un tale progetto. Soprattutto quando si trattava con l'uomo che amava.
«Ma questa non è più l'analisi per riconoscere i visi» constatò Larry con uno sguardo al programma corrente.
Amita scosse la testa. «Quella l'ho già finita questo pomeriggio» lo informò. «Comunque non ho potuto raggiungere Don, ma mi aveva dato i numeri degli agenti dell’altra squadra e loro mi hanno detto di mandare le informazioni. Penso che abbiano già cominciato le indagini sugli uomini».
«Vuoi dire che le nostre immagini hanno veramente ottenuto un risultato positivo?»
Amita annuì. «Sì. Gli uomini che hanno preso Charlie si chiamano Dexter Johnson e Wayne Taccone; lavorano veramente tutti e due per la CIA».
Larry aggrottò la fronte. «Ma quello non è stato un arresto...»
«No» affermò Amita. «E' stato un rapimento».
Si voltò di nuovo, lontano da lui. Non avrebbe pensato di essere capace di tali emozioni, ma da quando i sequestratori di Charlie avevano finalmente dei nomi e una storia, sentiva un tale odio verso di loro che le faceva quasi male. E il fatto che non potevano far niente contro loro perché erano scomparsi serviva solo ad alimentare questi sentimenti.
«Amita...» Levò gli occhi e si accorse che il suo collega doveva averla osservata. «Dovresti andare a casa adesso e riposarti».
Scosse il capo con forza. «Non posso» gli ricordò e poteva quasi credere che un tale proposto veniva da lui. Erano finalmente così vicini alla loro meta! Charlie doveva essere da qualche parte in quell'area, non c'era quasi un'altra possibilità! E dovevano trovarlo adesso; non poteva abbandonarlo così vicino a destinazione.
Larry sospirò e tacque. «E che cos'è questo?» chiese infine indicando il laptop di Amita.
«Ho tentato di ottimizzare la ricerca. Ma ho troppo poche indicazioni».
Larry guardò il programma. «Parti dai punti dove i sequestratori sono stati visti?»
«Esatto. Comunque non sono tanti. E anche se potessimo dire con sicurezza che tutti i punti sono corretti, non sappiamo ancora a quale distanza dal nascondiglio si trovino. Possono essere cinque miglia come cinquanta».
Larry annuì. «La conformazione del terreno l'hai considerata?»
«Sì, ma non ci aiuta molto. La maggior parte nell'area in considerazione è selva e i posti sembrano tutti ugualmente probabili».
Larry annuì gravemente. Anche lui non aveva alcuna idea.
«Cosa ne dici se ci dormissimo sopra?» propose infine. «Forse ci verrà qualcosa in mente domani».
Amita non sembrava molto convinta. «E se non succedesse?»
«Se non succedesse, saremmo allo stesso punto di stasera».
Amita scosse la testa. «Come puoi rimanere così calmo?» mormorò, e Larry ebbe qualche difficoltà a comprendere le parole.
Non rispose subito. Non che non avesse paura. Ma sapeva che il suo cervello non poteva funzionare sotto l'influsso del panico e così non avrebbe potuto aiutare Charlie. Dovevano mantenere il problema ad una certa distanza da loro, osservarlo da una soglia di sicurezza se volevano risolverlo e trovare Charlie. Certo, non gli riusciva facile. Ma era necessario e avrebbe fatto tutto quanto fosse in suo potere.
Sempre sperando che questo sarebbe bastato.
- - -
Charlie aveva freddo. Per essere aprile o maggio - dopo i giorni chiuso lì dentro non poteva più dirlo con certezza - la notte gli sembrava terribilmente fresca e piuttosto simile a quelle di dicembre o gennaio. E la sua giacca leggera non aiutava molto a proteggerlo dal freddo. Forse, almeno parzialmente, anche perché non era abituato alle notte primaverili lì a nord, diverse da quelle nella California australe. In ogni caso tremava quasi tanto forte quanto il fogliame degli alberi attorno a lui mentre si apriva, un po' troppo velocemente considerando le condizioni di luce, un cammino attraverso la notte.
Il desiderio di ritornare a casa diventava insopportabilmente forte dentro di lui, soprattutto perché aveva la sensazione di non essere tornato veramente a casa dall’incarico di ottobre. Perché i giorni prima del suo arresto erano stati talmente offuscati dalla sua amnesia e dalla sua insicurezza nei rapporti con le persone care che la sensazione di essere finalmente a casa e al sicuro non erano mai apparse. E benché fosse pressato molto dalla paura che i suoi sequestratori potessero raggiungerlo, la sua velocità era anche causata dal fatto che voleva finalmente vederli tutti di nuovo e sapere che erano vicini a lui. Tutti, compreso Larry...
Durante i successivi metri, la paura gli fece salire un nodo alla gola e dovette veramente fermarsi per un attimo per riprendere fiato. Cosa avrebbe fatto se era davvero successo qualcosa a Larry...? Se i suoi sequestratori non avevano mentito, se l'immagine del giornale era vera...
Con nuova determinazione continuò il suo cammino, un po' più velocemente di prima. Non doveva solo fuggire dai suoi sequestratori, ma anche dall'incertezza. Doveva finalmente sapere come stava Larry.
Ad un tratto sentì un gorgoglio. Si voltò un po' a destra. Sì, lì diventava più forte. Dopo alcuni metri Charlie era sicuro che da qualche parte lì intorno ci fosse un torrente, ma non poteva vedere niente. Era notte, e inoltre il bosco sopra di lui formava un tetto abbastanza fitto.
Charlie rallentò i suoi passi continuando ad ascoltare. Era più vicino, più vicino –
Non aveva potuto trattenere un piccolo grido spaventato quando il suo piede era scivolato giù nell’acqua gelida. Charlie tentò, con l'aiuto dell'altra gamba che stava ancora sulla riva, di tirarsi via, ma non riuscì al suo primo tentativo – il fiume era troppo profondo – e al secondo tentativo si fermò: l'acqua, che inizialmente aveva creduto venire direttamente dal mare polare, in verità era calda, quasi bollente, così calda che all'inizio aveva ingannato i suoi nervi.
Quando Charlie si fu abituato abbastanza da non sentire più il bisogno di uscire, si accorse di due cose: l'acqua non era tanto bollente quanto aveva temuto, una volta abituatosi, e il torrente gli dava una possibilità straordinaria di lasciare tracce false a possibili inseguitori.
Per un momento Charlie stette lì abituandosi all'acqua e riflettendo cosa fare. Finalmente si girò a monte, contro corrente, perché sarebbe stato più facile proseguire verso valle e sperava che i suoi inseguitori avrebbero pensato che aveva preso quella direzione arrivando così a conclusioni false.
Già dopo pochi passi sul sottosuolo sassoso Charlie si accorse che le sue scarpe lo disturbavano. Si trattava di scarpe da tennis più o meno logore che già dopo pochi metri si erano riempite completamente di acqua, pesando ai piedi come blocchi di piombo. Inoltre, doveva averle strappate in qualche punto durante la fuga perché la suola della scarpa sinistra era attaccata solo per metà alla stoffa.
Senza esitare se le tolse continuando il suo cammino a piedi nudi, ma già dopo pochi metri si fermò di nuovo. Non perché fosse troppo doloroso - non era molto più scomodo che con le scarpe bucherellate. Ma aveva avuto un'idea. Le sue scarpe potevano aiutarlo a velare la sua direzione agli inseguitori. Perché da una parte non avrebbe lasciato tracce nel suolo e le impronte del suo piede probabilmente sarebbero state più difficili da scoprire, e dall'altra poteva tentare d'ingannarli: siccome credevano che lui stesse andando verso valle, le avrebbe lasciate a monte, nella direzione in cui si voltava - e le lanciò invece di depositarle semplicemente sulla riva; comunque tutto doveva sembrare autentico. Gli agenti dalla CIA avrebbero concluso, così sperava, che si era voltato a valle.
Guadare il torrente sassoso non era una passeggiata e Charlie in poco tempo decise di continuare il suo cammino non presso la riva, dove l’acqua arrivava solo fino alle ginocchia, ma nel mezzo del torrente che presto risultò essere un fiumiciattolo, dove si trovava fino al torace nell'acqua. Certo, avanzava un po' più lentamente, ma così l'acqua avrebbe portato la maggior parte del peso del suo corpo e i suoi piedi non sarebbero più stati tanto sensibilmente ai ciottoli. Eppure Charlie era abbastanza sicuro che fossero già feriti; in ogni caso le piante dei suoi piedi bruciavano, ma non si fermò per verificare. Doveva andare avanti. Non dovevano trovarlo. Non doveva di nuovo capitare nelle loro mani. Doveva andare avanti...
Charlie rimase a lungo nell'acqua. Non voleva illudersi dal fatto che sembrava avesse percorso una grande distanza solo perché ci aveva messo tanto. Sapeva che i suoi inseguitori non ci avrebbero messo tanto se stavano a terra a cercare lungo la riva il posto dove si sarebbe arrampicato fuori dal torrente. Adesso si chiedeva se non sarebbe stato meglio andare a valle, perché avrebbe seguito la corrente invece di lottarci contro. Ma sperava che sarebbe stato proprio quello che i suoi sequestratori si aspettavano.
Dopo alcune ore uscì finalmente dal torrente, lungo un punto roccioso cosicché loro non avrebbero trovato le impronte dei suoi piedi nella terra molle. Dopo esser stato nell'acqua piacevolmente calda, l'aria notturna era pungentemente fresca, nonostante dovesse essere già maggio - la primavera lì al nord e in alto era davvero qualcos'altro rispetto a quella in California.
Per un secondo, si fermò. Il pensiero di casa gli aveva dato un pugno doloroso. Pensò a Los Angeles, a Pasadena, a casa sua, ai dintorni, il mare, le zone e gli edifici famigliari...
E alle persone famigliari.
Con nuova determinazione, Charlie continuò il suo cammino a piedi nudi attraverso il selvaggio del Parco nazionale di Yellowstone.
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