Un brindisi all'eroe e a chi lo canta di Blackvirgo (/viewuser.php?uid=42826)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una fiera, un bardo e una leggenda ***
Capitolo 2: *** Di spiriti, di uomini e della luna ***
Capitolo 3: *** Di corpo, di anima e di spirito ***
Capitolo 4: *** Di passioni, di inganni e di tradimenti ***
Capitolo 5: *** Di un lago, di una bambina e di uno spirito ***
Capitolo 6: *** Di anima, di ricordi e di speranza ***
Capitolo 7: *** Di risvegli, di incontri e di sopravvissuti ***
Capitolo 8: *** Di visite, di ricordi e di temporali ***
Capitolo 9: *** Di bambini, di testamenti e di terremoti ***
Capitolo 10: *** Di deduzioni, di desideri e di attese ***
Capitolo 11: *** Di passato, di potere e di libertà ***
Capitolo 12: *** Di un mezzo-umano, di un mezzo-spettro e di un risveglio ***
Capitolo 13: *** Di uno specchio, di una lotta e di un lago ***
Capitolo 14: *** Di angoscia, di miraggi e di fatica ***
Capitolo 15: *** Di terra, di acqua e di luce ***
Capitolo 16: *** Di vite, di morti e di ritorni ***
Capitolo 17: *** Di spiriti, di anime e di preghiere ***
Capitolo 1 *** Una fiera, un bardo e una leggenda ***
Nuova pagina 1
“Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto…”
Orlando Furioso, Ludovico Ariosto
“Un brindisi all’eroe e a chi lo canta!” Urlò qualcuno
alzando il boccale di birra nella taverna affollata.
Un bardo era seduto in un angolo e aveva appena finito di
narrare le gesta di eroi che mai si erano visti in un villaggio come quello, un
luogo sperduto sulle montagne, lontano da qualunque via maestra, ma abbastanza
vicino al cielo perché ogni tanto vi arrivasse qualche curioso avventuriero.
Erano i giorni della fiera annuale, che suscitava un grande fermento fra la
gente del luogo ed era anche una delle poche occasioni per avere notizie dal
resto del mondo.
Il bardo alzò a sua volta il boccale che gli era stato
offerto e iniziò a sorseggiare la birra scura amara e decisa che conteneva.
Raccolse il suo cappellaccio e iniziò a girare per la locanda, mentre le monete
fioccavano dalle tasche degli avventori e lui, cortese come sempre, ringraziava
ognuno con un piccolo inchino.
“E cosa si narra da queste parti, brava gente?” Chiese
infine, prendendo posto al bancone, col suo liuto alla tracolla e il cappello
con le offerte davanti a lui.
“Cosa volete che si dica,” rispose l’oste. “Questo è un posto
dimenticato da Dio e dagli uomini.”
“Dagli uomini no: voi ci vivete!” Rispose il bardo con una
risata. “E se viene così tanta gente a questa fiera vuol dire che tanto
dimenticato poi non è!”
“Diciamo che questo l’unico avvenimento interessante di tutto
l’anno,” riprese l’oste. “Per tutto il resto del tempo non capita niente di
eccezionale: il solito, discreto via vai di gente, ognuno coi suoi casi belli o
brutti…”
“E tutti che li affogano nel tuo vino!” Esclamò un beone
vuotando in un sol sorso il proprio bicchiere e scatenando qualche risata.
“Ogni luogo, come ogni persona, ha la sua storia,” rispose il
bardo, accattivato dal tono rassegnato dell’oste. “A differenza della maggior
parte delle persone però, molti luoghi hanno le loro leggende. ”
“Vi posso assicurare che da qui non sono mai passati
cavalieri dall’elmo piumato o principi che si invaghissero delle grazie di una
contadina, non abbiamo draghi e non abbiamo nessun santo uomo che dispensi cure
e miracoli. Se volete, però, abbiamo alberi in abbondanza, lupi che ululano
tutte le notti a dispetto delle fasi della luna e tanto lavoro per portare a
casa un boccone.” Commentò un uomo seduto lì accanto, mentre fissava trasognato
il proprio boccale oramai vuoto. “Versa qui dentro qualcosa, Aldo!”
“E come mai continuate a vivere in un luogo così poco
interessante?” Chiese di nuovo il bardo con un sorriso, ma senza scherno nella
sua voce, mentre l’oste riempiva i boccali.
L’uomo che poco prima aveva parlato si passò una mano
screpolata fra i folti capelli brizzolati, guardando il bardo come se quello che
si stava accingendo a dire fosse la cosa più ovvia: “perché questo è il luogo in
cui siamo nati e in cui sono nati i nostri i padri e in cui sono nati anche i
nostri figli. Dove altro potremmo andare?”
“Siete felici qui, allora?”
Di nuovo l’uomo lo guardò con diffidenza, come se non
afferrasse appieno il concetto. “Voi cantate tante belle cose,” cominciò a dire,
“e per una sera ci fate dimenticare la piccolezza delle nostre vite, con grandi
gesta e sentimenti che, forse, uno come me non sa neppure che esistono. Ma
quando la fiera sarà finita, tutto tornerà come prima: mi alzerò all’alba e
andrò a lavorare nei campi, pregando il Signore per la pioggia e bestemmiando ad
ogni zappata contro una terra dura come il cemento. Mio figlio porterà le due
mucche al pascolo mentre mia moglie accudirà le galline, i conigli e la bimba
piccola. La sera ceneremo insieme, reciteremo il rosario mentre intrecceremo la
paglia, poi andremo a dormire. Non so se questa è felicità, sicuramente è il mio
dovere.” Non c’era traccia di rammarico nella sua voce né di tristezza. C’era
accettazione. Di un destino che, prima di essere suo, era stato di suo padre e
che un giorno sarebbe stato di suo figlio. Sempre se non l’avesse dovuto
seppellire prima, constatò amaramente il bardo, cullandosi nella malinconia che
quell’uomo semplice e pratico gli stava ispirando. Si chiese se anche questa non
fosse una storia degna di essere narrata, di essere portata in giro per il mondo
assieme al suo liuto.
“Eppure qualcuno sarà stato il primo ad abitare questo luogo
e quindi lo ha scelto… perché era bello? O perché lontano da tutto il resto? O
perché vi aveva seppellito qualcuno da cui non poteva allontanarsi?”
L’uomo sorrise. “Ho capito che genere di storie vi
interessano. Seguitemi,” gli disse, vuotando in un sol gesto il suo boccale e
avviandosi verso l’uscita dell’osteria.
Era l’ora del crepuscolo e l’aria, ancora fresca per essere
l’inizio dell’estate, fece rabbrividire per un attimo il bardo che seguiva
l’uomo prima nella via principale dove i mercanti stavano riponendo le proprie
mercanzie, poi attraverso viottoli dai quali proveniva una dissonanza di odori –
il pane del forno, il liquame delle stalle, il fritto da alcune cucine, il
pollaio di fianco – che, in un primo momento, gli fecero arricciare il naso.
Cercò di rilassarsi, di smettere di trovare fastidioso ciò che questa gente
riteneva comune. Era la loro storia che voleva e per riviverla doveva pensare
come uno di loro, calarsi nel ruolo, commuoversi e spaventarsi per le stesse
cose. Poi avrebbe potuto tornare se stesso e capire. Osservò di nuovo l’uomo che
lo precedeva con passo elastico e sicuro. Quanti anni avrebbe potuto avere?
Quaranta? Sì, possibile. E quanti gliene sarebbero restati? Chissà… gli alberi
possono resistere per secoli alle intemperie, ma gli uomini?
Fu distolto da questi pensieri dal vociare di bambini che si
rincorrevano in un’aia, mentre alcune donne chiacchieravano su un paio di
panchine di legno.
“Zia,” chiamò l’uomo rivolto a una vecchina dal viso rugoso,
i capelli bianche tirati all’indietro e la bocca sdentata.. “Abbiamo qui uno
straniero che ama quelle storie che voi raccontate tanto bene.”
Tutti i presenti abbandonarono immediatamente le loro
chiacchiere per portare l’attenzione verso i nuovi arrivati.
“Ma è uno dei cantori della fiera!” Esclamò una delle donne
più giovani. “Perché non ci raccontate voi qualcosa?”
Il bardò eseguì un cordiale inchino: “Mi sono già esibito in
piazza e nell’osteria, gentile signora, e la mia gola ha bisogno di un po’ di
riposo. E poi,” continuò con un sorriso, “la mia professione non è solo di
raccontare storie, ma anche di ascoltarle.” E prese posto sotto un albero,
vicino alla vecchia che doveva essere la narratrice, osservando con sguardo
distratto prima i presenti poi il cielo indaco sopra di sé.
“Cosa volete sentire?” Chiese la vecchia con voce chioccia,
quasi risentita per l’imbarazzo di parlare di fronte a un pubblico che non
conosceva, di fronte a qualcuno che non la rispettava solo per la sua veneranda
età.
Il bardo tornò a posare il suo sguardo assorto sulla vecchia,
sorridendo. “Una storia. Una bella storia che racconti qualcosa di questo
villaggio e dei suoi abitanti.”
“La storia della streghe che ballavano col Diavolo!” Chiese
un bambino dall’aria sveglia e dagli occhi neri.
“Quella dei due innamorati?” Chiese invece una bambina, gli
occhi sognanti persi nei piccoli pensieri del grande amore che avrebbe potuto
attraversare la sua vita.
“La storia della scommessa e del cimitero?” Chiese un
ragazzino più grande, evidentemente preso dai racconti che davano un brivido di
terrore.
La vecchia chetò tutti con un gesto della mano. “No, nessuna
di questa. Vi racconterò quella da cui tutte le altre sono nate.”
I bambini si sedettero attorno alla narratrice in un silenzio
da messa, mentre anche gli altri presenti si trovavano una posizione consona
all’ascolto. L’uomo che lo aveva accompagnato prese posto accanto a una donna,
probabilmente la moglie, sedendosi su un ceppo.
Quando la vecchia cominciò a parlare il bardo cambiò
improvvisamente espressione: dal divertimento nell’osservare i bambini che
facevano le loro richieste e dei preparativi degli astanti, improvvisamente si
rese conto di partecipare a qualcosa di molto importante, di avere il permesso
di condividere con quelle persone una parte delle loro vite private, della loro
memoria. La parola “storia” assunse i contorni sfumati del passato e della
fantasia, dei volti e della voce di coloro che prima di quella donna avevano
narrato la stessa vicenda e l’avevano arricchita – o impoverita, ma comunque
resa viva perché anche lui potesse goderne e farla rivivere a sua volta…
l’ammirazione si fece posto nel suo cuore, assieme alla dolcezza… la stessa
lingua che l’anziana donna parlava, il dialetto, la lingua popolare per
eccellenza, aveva assunto i toni aulici dei grandi poeti senza giungere alla
stessa eleganza, alla stessa squisita forma, ma mantenendo quella rara capacità
di arrivare dritto al cuore.
Il crepuscolo si stava lentamente lasciando sopraffare dalla
notte, indugiando ancora a occidente con qualche sfumatura violacea, mentre le
numerose stelle facevano la loro apparizione nel cielo terso. Della luna neppure
l’ombra.
“Quando ero bambina, ogni calar delle tenebre, si vedevano
molte luci nei prati e nei boschi, lontano dalle case e perfino vicino. Erano
luci grandi quanto un pugno, fiammelle azzurrine fioche quanto una candela, che
camminavano nelle notti, compagne dei viandanti diceva qualcuno, mandate dal
Diavolo in persona, dicevano i più.” A questo punto la vecchia si interruppe,
per farsi il segno della croce, subito imitata dai presenti.
“Fuochi fatui,” mormorò il bardo, distrattamente.
“Così li chiamano gli sciocchi, perché quelle luci di fatuo
non avevano proprio niente.” Rispose la vecchia con voce dura e tagliente,
mentre il bardo era percorso da un brivido, sentendosi puntare addosso quegli
occhi scuri e vispi.
“E voi li avete mai visti, nonna?”
La vecchia di nuovo sghignazzò. “Certo, piccoletto. Certo che
li ho visti anche io. E potevano fare molta paura sai… erano permalosi e
terribilmente vendicativi… mai sfidarli! Perché avrebbero raccolto la sfida e
mostrato la loro furia. E inevitabilmente vinto.”
Paura, pensò il bardo. Difficile vincere quando il tuo nemico
è la paura stessa. Conosceva molte storie sui fuochi fatui e sui loro presunti
poteri…c’era anche chi diceva che fossero anime, chi il sospiro di una terra
gravida di cadaveri… un fuoco freddo, ghiacciato. “…che di fatuo non aveva
proprio niente,” commentò fra sé, mentre un brivido – paura? Eccitazione?
Entrambi? Come distinguerli? – gli correva lungo la schiena.
“Ma la nostra storia non è la storia di luci che danzano
nella notte. Forse sarebbe meglio dire che è la storia di come sono svanite.
Perdute.
Si narra che in tempi passati molti fossero gli spiriti che
camminavano su questa terra, spiriti buoni e spiriti cattivi. Si diceva che
alcuni di loro venissero da un altro mondo e che nulla avessero di umano… se non
le sembianze semmai decidessero di assumerle. Altri invece… bè, altri erano gli
spiriti dei morti, quelli che non trovano la strada per raggiungere l’aldilà. E
in essi si mescolava la potenza ultraterrena dei primi con la materialità degli
umani… erano rinnegati da entrambe le razze perché non avevano più il diritto di
appartenere a questo mondo, ma un desiderio frustrato o un dovere incompiuto
impediva loro di sciogliere i legami, di partire per la dimenticanza. E poi
c’erano i terzi, i più sfortunati: nati dall’unione tra gli spiriti veri e gli
umani, venivano trattati alla stregua degli spiriti morti.”
“E questi come venivano chiamati?” Chiese un ragazzino.
“Per loro non si coniò mai nessun nome che fosse diverso da
bastardi.
Ed è proprio la storia di uno di loro che vi racconterò
perché indissolubilmente legata a quelle luci, a questo villaggio e alle notti
senza luna come questa.”
Quasi a voler sottolineare la tragicità di quella storia, il
lontano ululato di un lupo fece rabbrividire tutti i presenti e ridere
sommessamente la vecchia narratrice.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Di spiriti, di uomini e della luna ***
Il bardo si lasciò percorrere da un brivido di soddisfazione quando sentì
i lupi ululare
Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense! ...
(Divina commedia, V canto dell’Inferno)
Il bardo si lasciò percorrere da
un brivido di soddisfazione quando sentì i lupi ululare. “A dispetto delle fasi
della luna”, aveva detto l’uomo che lo aveva accompagnato fino a lì. A dispetto
della civiltà e delle sue regole, pensò fra sé, mentre la vecchia cominciava il
suo racconto.
“Gli anziani rammentavano di una
festa alla quale si presentò uno straniero bello, elegante e dai modi raffinati.
Nessuno l’aveva mai visto prima, ma nessuno pensò di lasciarlo fuori in una
notte d’inverno come quella, gelida e chiara, con la luna in cielo e il ghiaccio
in terra. Stavano festeggiando un fidanzamento e c’era allegria e da mangiare e
da bere per tutti. Nessuno si stupì quando lo straniero invitò a ballare la
promessa sposa, raggiante quella sera di felicità e giovinezza. E nessuno si
avvide dei loro sguardi, ché non erano gli sguardi di un primo e fortuito
incontro, ma quelli di un lungo e temuto addio.”
“Allora si conoscevano già ed
erano innamorati!” Esclamò la bambina, contenta che il suo desiderio di una
bella storia di amore fosse stato esaudito.
“Sì, Corinna. I due si erano
conosciuti tempo addietro, prima che la ragazza venisse promessa a un altro
uomo.” Mormorò la vecchia con la sua voce cantilenante. “Nessuno seppe mai come
e dove si incontrarono la prima volta. Si sa solo come si lasciarono, al ritmo
di musica e senza proferire parola, sotto gli occhi di tutti i presenti.”
“Un amore infelice o un amore
proibito?” Chiese il bardo, quando le parole della narratrice avevano smesso già
da un po’ di vibrare nell’aria.
“Era uno spettro!” Commentò un
ragazzino, trafelato. Le cose si mettevano in maniera interessante anche per lui
che aveva chiesto una storia di scommesse e cimiteri.
“Esatto Mario, lo straniero era
proprio uno spettro.” Rispose la vecchia, sorridendo di fronte a tale
perspicacia… o fantasia, che poi tanto diverse non erano.
“E come fecero a capirlo?”
Chiese curioso, come pronto a cercare sui presenti eventuali indizi per scovare
possibili spiriti nei panni delle persone che aveva sempre conosciuto.
“Esistono molti segni per capire
se chi hai davanti è uno spettro oppure no.”
Piedi di capra, iniziò a
enumerare il bardo nella propria mente, odore di zolfo, occhi di brace…
“Non tutti sono segni che uno
spettro, anche se potente, possa mascherare: egli infatti potrà imparare a
confondersi fra gli umani, ma non sarà mai uno di loro. E quella volta se ne
accorsero perché lo spettro fece l’errore di avvicinarsi alla finestra e di
bagnarsi nella luce della pallida luna, alla quale – si sa – non è possibile
nascondere nulla. Fu così che, probabilmente, un osservatore distratto,
sorseggiando placidamente un bicchiere di vino, si avvide dell’improvviso
brillio emesso dal corpo dello straniero che sembrava riflettere la stessa luce
della luna, della trasparenza della sua figura, dei contorni sfumati, del
bagliore sinistro dei suoi occhi. Qualcuno urlò e molti gli si scagliarono
contro, così che lo spettro si vide costretto a lasciare quella casa, saltando
proprio dalla finestra a cui era appoggiato.”
Era stato scoperto, si chiese il
bardo, o si era fatto scoprire? Luna fatale… non sapevo che tu per gli spettri
fossi come il sole per gli uomini…
“E per gli anni a venire nessuno
riuscì più a chiudere quella finestra e si diceva che neppure murarla fosse
servito a qualcosa.”
La notte era ormai calata
completamente e l’uomo che aveva accompagnato il bardo si era alzato per
accendere una lampada a olio che, con la sua fioca luce, illuminava a malapena i
visi dei presenti, calandoli ancora di più in un’atmosfera in cui sembrava
possibile credere che quel racconto fosse storia e non mito.
“Molti quella sera gridarono dal
terrore, perché rari in quel tempo erano i contatti tra uomini e spettri. Alcuni
credevano di aver visto il Diavolo in persona, altri che fosse stato l’anima
buona del padre della fanciulla, scesa dai cieli per benedire il suo
fidanzamento. Solo alcuni mesi più tardi tutti compresero la verità, quando
nacque un bambino con sembianze mai viste: i ciuffi di capelli sulla sua testa
non erano biondi, ma bianchi come il latte di cui si nutriva avidamente, gli
occhi erano di un colore sconcertante, gialli come quelli di un gatto, e le
orecchie… mio Dio! Orecchie pelose che spuntavano sulla testa, come un animale.
Di che stirpe fosse, si seppe solo molto tempo dopo.
Ci misero poco a fare due conti
e a mettere insieme la fugace apparizione e la madre del piccino e solo una
parola anzi, una condanna, si levò unanime dalle labbra di tutti: sacrilegio.
E volevano giustiziare la donna
– Izayoi era il suo nome – e il frutto della sua passione proibita per placare
l’ira di Dio che quel gesto peccaminoso avrebbe sicuramente portato su di loro.
Li catturarono e iniziarono ad affastellare fascine attorno a loro, per
bruciarli – vivi! – , mentre la donna stringeva al petto il proprio bambino.
Ma il sacrificio non giunse mai
a compimento.
Lo straniero o, meglio, lo
spettro che molti chiamavano Generale, padre di un mezzosangue e amante di una
mortale, riapparve in tutta la sua potenza.
Quella notte si combatté una
terribile battaglia che non fece altro che aumentare l’odio e l’incomprensione
fra spiriti e uomini. Molti caddero sotto i colpi del padre del fanciullo e
molte frecce raggiunsero il suo corpo che, coperto di sangue, non appariva più
etereo e luminoso, ma opaco e spento. Qualcuno dice che addirittura morì
combattendo per difendere coloro che amava più della sua stessa vita…”
“Ma se era già uno spirito come
poteva morire?” La interruppe, curioso, il ragazzino amante del brivido.
La morte… quale grande
interrogativo per ogni essere senziente che calca questo mondo, pensò il bardo,
sorridendo. Un interrogativo ancora più grande della vita… perché più lunga o
perché nessuno ce la può raccontare?
“Ogni essere è composto di corpo
e anima e spirito. E tutte le creature di Dio sono fatte della stessi
ingredienti anche se mischiati in dosi e modi diversi.”
“Così gli spiriti, seppur
ritenuti eterni, possono morire. E gli uomini, da sempre noti per la loro
mortalità, potrebbero diventare eterni?” Chiese il bardo, con una punta di
ironia nella sua voce melodiosa.
Nessuno dei presenti rispose a
quella domanda, vuoi perché ritenuta troppo difficile, vuoi perché ritenuta
blasfema. O perché troppo ovvia: tutti sapevano che dopo questa vita un’altra li
avrebbe attesi, piena di tormenti o di felicità. Solo la Terra e il Purgatorio
sembravano avere i minuti contati.
La vecchia lo guardò per un
lungo istante, con quegli occhi scuri che sembravano vedere anche al buio e il
bardo – non per la prima volta quella sera – si chiese perché ogni tanto non
stesse semplicemente zitto.
“La storia dei due amanti
infelici finisce qui: nessuno ne ebbe più notizia. Il fuoco e l’acqua
cancellarono gli avvenimenti di quella notte fatale, i sopravvissuti fecero del
loro meglio per cancellarne il ricordo. Perché – si sa – quando nessuno ricorda
è come se niente fosse accaduto. Poco importa che poi, altri, ne pagheranno le
conseguenze.”
“Infelici davvero,” commentò il
bardo al quale, evidentemente, tacere i propri pensieri comportava notevole
difficoltà. “Perché alcuni possono anche dubitare che spiriti e uomini abbiano
un tempo vissuto assieme su questa terra, ma nessuno ignora che siano destinati
a paradisi diversi. Una separazione più lunga dell’eternità stessa…”
Un sorriso passò fugace sul viso
della vecchia e uno strano lampo attraversò i suoi occhi. Ma nessuna risposta
uscì dalle sue labbra.
“Finisce così la storia?” Chiese
Corinna, commossa e visibilmente delusa.
“No piccolina,” rispose la
vecchia. “Breve fu il tempo concesso a Izayoi e al Generale e nulla si sa del
loro destino, ma essi lasciarono su questa terra l’eredità del loro amore.”
“Un bambino,” mormorò dolcemente
la donna che era seduta vicino all’uomo che aveva accompagnato il bardo, la
testa mollemente appoggiata alla spalla del marito. “Un bambino indifeso…”
“A Inuyasha non sarebbe piaciuto
essere definito indifeso neppure quando, nelle notti di luna nuova, diventava
umano come tutti noi. Dal padre ereditò una spada, dalla madre l’anima; la sua
vita e la sua morte cambiarono il volto a questa terra.
Per ora abbiamo parlato di come
tutto ebbe inizio, ma la storia – quella vera – deve ancora cominciare.”
Grazie di cuore a
tutti quelli che hanno recensito sia questa fanfic che le precedenti!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Di corpo, di anima e di spirito ***
CAPITOLO 3
CAPITOLO 3
Di corpo, di anima e di spirito
Dar da mangiare agli affamati.
Dar da bere agli assetati.
Vestire gli ignudi.
Alloggiare i pellegrini.
Visitare gli infermi.
Visitare i carcerati.
Seppellire i morti.
Le sette opere di misericordia corporale - Vangelo
La notte era fresca e limpida e l’assenza della luna faceva
apprezzare la luce delle stelle, di milioni di stelle che creavano strani
disegni in quel cielo nero. Quante volte gli uomini hanno fantasticato – nel
corso dei secoli – sui possibili significati e influssi di stelle lontane sulle
loro vite… Al bardo piaceva pensare che fosse tutto vero, che le stelle fossero
il segno indelebile di grandi uomini e di grandi Dei vissuti secoli prima. O che
fossero semplicemente una guida, per ognuno, la luce da seguire quando intorno è
tutto buio. E in una notte come quella poteva anche credere che per ogni uomo
esistesse una stella.
Fu distratto dalla bambina che si mise a battere le mani:
“Forza nonna! La vera storia! Cominciamo!”
“Come vi ho già detto,” la vecchia riprese il suo racconto,
sistemandosi il fazzoletto che portava sulla testa, “di Izayoi e del Generale si
persero completamente le tracce. Il nostro racconto riprende con Inuyasha, che
noi abbiamo lasciato in fasce, diventato un giovane forte e determinato, seppure
inselvatichito dalla vita randagia che era stato costretto a condurre: aveva
presto imparato quanto crudeli potessero essere sia gli spettri che gli umani
con chi non era né l’uno né l’altro. O meglio: con chi era entrambi.
Poco si sa della sua infanzia, prima di un incontro che segnò
per sempre la sua vita… si dice solo che ogni tanto qualcuno lo vedesse girare
per i boschi e attorno ai villaggi, da solo, a volte in compagnia di uno strano
essere dalle sembianze animali, e pare che pochi di coloro che si avvicinassero
al mezzo spettro per fargli del male vivessero abbastanza a lungo per
raccontarlo.”
“Era uno spirito!” Sentenziò la bambina, sicura della propria
supposizione. Lei era cresciuta assieme a quelle storie e per lei gli spiriti
non erano frutto della fantasia popolare e della paura, ma entità tangibili,
potenti e nascoste. Il fatto di non averne mai incontrato uno dipendeva solo da
un malaugurato incidente del fato al quale, presto o tardi, – era sicura –
avrebbe posto rimedio.
“Sì piccola, era proprio uno spirito che, a suo modo, aiutò
Inuyasha a crescere e a imparare a cavarsela da solo. Uno spirito che un giorno
scomparve e che, in questa nostra storia, si fece rivedere nelle sue vere
sembianze solo una volta. Ma non corriamo troppo.
Perché questo spirito riappare soltanto alla fine, mentre il
nostro mezzo-spettro è ancora agli inizi.
Nel suo peregrinare Inuyasha giunse ad un paese, simile a
tutti gli altri che si trovavano a quel tempo su queste montagne. Ma, poco
lontano da questo villaggio, in una piccola borgata al limitare del bosco,
viveva una giovane donna.”
“Un’altra storia d’amore!” Esclamò Corinna con lo sguardo
illuminato.
“Uffa!” Sbuffò il bambino seduto accanto a lei. “Perché
sempre e solo amore? Che noia! Non ci sono anche le streghe in questa storia?”
La vecchia sorrise. “Fate i bravi, bambini, questa storia è
ancora lunga e, presto o tardi, sarete tutti accontentati.
Dunque… eravamo rimasti alla giovane donna che viveva in
disparte, con una sorella ancora bambina. Kikyo era il suo nome ed era una
guaritrice. Per questa sua arte alcuni la definivano strega, altri si
rivolgevano a lei chiamandola sacerdotessa, e nessuno poteva fare a meno del suo
consiglio e del suo aiuto ogni volta che qualcuno – uomo o animale che fosse –
si trovava alle prese con una salute cagionevole, con un osso rotto o con un
neonato da far nascere. O quando il problema aveva il volto di uno spirito.
Peccato che la stima non vada di pari passo con l’affetto.
Per quanto nessuno avesse mai avuto l’intenzione – o il coraggio – di farle
anche solo il minimo sgarbo, nessuno mai le si era dimostrato amico né,
tantomeno, innamorato. E così era arrivata a vent’anni ancora zitella.”
“Era brutta?” Chiese uno di bambini. “Di quelle streghe
brutte con il naso curvo e la gobba?”
Uno scoppio di ilarità colse tutti i presenti. “No
piccoletto,” rispose la vecchia, quando il suo petto smise di sussultare per la
risata. “Anzi. Si dice che fosse molto bella, di una bellezza che ispirava
reverenza, timore, che si manifestava come un istinto impellente – e mal
tollerato da chi lo provava – di chinare il capo davanti a lei che non era né la
Madonna né una nobildonna. Dicono anche che Kikyo non fosse consapevole del
turbamento che suscitava nelle persone col suo passo cadenzato e lo sguardo
assorto, fisso in un punto lontano. Altera l’avrebbe potuta definire un uomo
colto come il nostro ospite,” aggiunse, indicando il bardo con un cenno del
capo. “Ma i contadini come noi non amano le persone che camminano in mondi
sconosciuti e, così, la definirono superba.”
“Era anche lei uno spirito?” Chiese la bambina sgranando gli
occhi, dato che questa proprio non se l’aspettava.
“No Corinna, non era uno spettro. Ma anche ai mortali è dato
di vagare nel mondo degli spiriti. Per alcuni è facile come respirare, per altri
occorrerebbero decenni di studio, ma pochi sono sempre stati coloro che hanno
osato farlo. E Kikyo avrebbe potuto e, forse, l’ha anche fatto. Ma non sono
sicura che lo volesse davvero.”
“Suvvia zia!” La interruppe uno dei presenti. “State
difendendo questa donna come se essere strega non fosse un peccato! E dire che
ne hanno bruciate parecchie per liberarci dalle loro fosche…”
“Non strega,” lo interruppe il bardo. “Molti la chiamavano
sacerdotessa, narra la leggenda, un appellativo attribuito con parsimonia dopo
la caduta degli dei pagani. E voi vi chiedete quale sia la differenza quando si
tratta comunque di amministrare un potere a cui nessuno sa dare un nome… Eppure
esiste. Perché da sempre è noto che le streghe usano un potere che è nato con
loro e che per loro è naturale come respirare mentre i sacerdoti – o
sacerdotesse – amministrano un potere concesso da altri.”
“Buono o cattivo?” Volle sapere una delle donne.
“Il potere o chi lo usa?” Chiese a sua volta il bardo con un
sorriso sornione, prima di riprendere il suo discorso dato che nessuno azzardava
una risposta. “Cosa fosse esattamente Kikyo nessuno può saperlo. Forse lei
stessa lo ignorava. Eppure di qualsivoglia natura fosse quel potere, per il
resto del mondo, era comunque sacrilegio. Perché rappresentava una donna che
poteva tenere in scacco anche gli uomini. Una vergine, nel corpo e nello
spirito. Purezza e libertà. Una donna sola, senza padre e senza marito, libera
di decidere per se stessa. Come una vestale… Davvero credete che di quella donna
fosse il potere a essere temuto? Dagli sciocchi forse. Io so cosa temevano di
lei. Quello che a loro mancava. Quello che nessuno aveva mai insegnato loro che
esistesse. Si chiama libertà, amico mio. E fa sempre paura.” E probabilmente
faceva paura anche a lei, aggiunse fra sé.
La vecchia sorrise. Quello straniero non era poi così male.
“Non sta a noi giudicare se Kikyo fosse una strega o una
sacerdotessa, solo ricordare che a quei tempi la superstizione era forte quanto
la fede: tutti si rivolgevano a lei nel momento del bisogno, correndo poi in
chiesa ad accendere un cero per tacitare le proprie coscienze.
Per quanto il curato di quel villaggio non apprezzasse la
considerazione di cui godeva la sacerdotessa, considerando sospetta per
stregoneria ogni occupazione femminile diversa dalla preghiera e dai lavori
domestici, aveva sempre preferito chiudere un occhio, se non entrambi, sulle
attività di Kikyo.
E fu proprio così, in un momento di bisogno, che il destino
di quella fanciulla venne incrociato con quello di un uomo ferito.”
“Ma io credevo che si sarebbe innamorata di Inuyasha!”
Commentò Corinna, per nulla felice dell’entrata in scena di questo tizio che,
sicuramente, avrebbe messo i bastoni tra le ruote al figlio del Generale.
La vecchia sghignazzò. “Non è che due innamorati vivano solo
nel loro guscio: il resto del mondo rimane e, in un modo o nell’altro, bisogna
sempre farci i conti.
Dove eravamo rimasti? Al ferito, sì. Era costui un bandito,
tradito dai propri compagni, derubato e malmenato fino ad essere ridotto in fin
di vita.
Eppure, per quel giorno, la Provvidenza – o il Diavolo in
persona – non lo aveva abbandonato perché egli venne trovato ancora vivo in una
grotta nelle vicinanze del villaggio. Come vi sia giunto rimane un mistero. E
anche come fu trovato, in un pomeriggio di una stagione come questa, più morto
che vivo, coperto di sangue e sporcizia. Qualcuno andò a chiamare Kikyo, altri
andarono ad avvertire il prete e, quando si trovarono al cospetto del ferito,
ognuno fece il proprio dovere: la guaritrice lo esaminò per capire da dove
cominciare e il prete gli diede l’estrema unzione. Solo a scopo preventivo, in
quanto il giorno della sua morte era ancora molto lontano.
La caverna diventò la sua dimora: inizialmente era troppo
grave per essere trasportato, successivamente chissà? Forse fu semplicemente
dimenticato. O forse nessuno se la sentiva di accollarsi un tale fardello,
quando le proprie famiglie erano già sufficientemente gravose. E nessuno avrebbe
mai voluto attirare la collera dei banditi rimasti verso il villaggio.
Si salvò grazie alle cure della guaritrice e pian piano
cominciò a riprendere le forze, ma mai si sarebbe ripreso completamente: la sua
schiena era rotta e aveva perso un occhio. E il suo morale… come capire quello
che provava? Era stato un uomo ambizioso, di azione, avvezzo a comandare e a
essere obbedito e ora era costretto in una grotta, abbandonato da Dio e dagli
uomini, incapace di muoversi, dipendente dalla bella guaritrice che lo accudiva,
le cui mani ormai non dispensavano più solo cure e sollievo, ma risvegliavano in
lui pensieri inopportuni e, forse, con quel corpo martoriato, irrealizzabili.”
Hai detto uomo, vecchia, pensò il bardo. Gli uomini pensano e
pensare non è mai inopportuno. Scomodo forse, ma cosa ci rimarrebbe se dovessimo
negarci il pensiero? L’anima? Lo spirito? O solo il corpo?
“Quell’idea divenne ben presto un chiodo fisso, l’unica
compagnia in quelle lunghe e monotone giornate, passate a osservare il riverbero
del sole tra le fronde dei rami che intravedeva nel mondo di fuori dalla grotta,
il tempo scandito solo dall’alternarsi del giorno e della notte, le stagioni dal
colore delle foglie sugli alberi… giorni così identici l’uno all’altro da
sembrare immobili. E ogni giorno l’attesa per quell’unico diversivo, per quella
donna che non sarebbe mai stata sua, ma della quale vedeva il profilo disegnato
da ogni ombra, che amava e odiava proprio perché così necessaria e così
irraggiungibile. Perché già di un altro.
Infatti, ancora non ve l’avevo detto, ma un giorno Inuyasha
era stato avvicinato proprio da Kikyo. Un incontro inusuale, nel bosco, mentre
lei scacciava uno spirito divenuto troppo aggressivo nei confronti degli
abitanti del villaggio. E il nostro mezzo spettro fu turbato da lei come tutti
gli altri, anche se, forse, non per gli stessi motivi: ne avrà sicuramente
notato la bellezza, ma credo che a colpirlo sia stato il fatto che lei era stata
la prima persona che gli aveva parlato senza mostrare alcun fastidio per il suo
aspetto stravagante, la prima a dargli le spalle senza scappare a gambe levate.
Un atteggiamento sconcertante per il mezzo spettro, atteggiamento che si era
riproposto di osservare. Perché tutto, per uno come lui, poteva nascondere una
trappola. E questa, dopotutto, sarebbe stata solo l’ennesima.
Ma Kikyo non voleva tendere trappole a nessuno: lei era
umana, è vero, ma non per questo si trovava bene coi suoi simili. La gente, da
sempre, la teneva a debita distanza e lei non aveva mai amato imporre a nessuno
la propria presenza.”
Solitudine, pensò il bardo. Amica e nemica di tutte le genti…
che non ti spaventi ad accompagnare nessuno… né uomini né spiriti né, tantomeno,
chi sta nel mezzo. E, in questi incontri, sembri quasi cercare te stessa.
“All’inizio si erano tenuti a distanza, si erano studiati,
come due animali selvatici che ancora non sanno se sia il caso di azzuffarsi o
di scappare. Ma poi, pian piano, avevano iniziato a cercarsi, sempre da lontano,
sempre silenziosamente: avevano cominciato a godere della reciproca vicinanza,
dato che forse ancora non si poteva chiamare compagnia. Ogni mattina un
appuntamento silenzioso li faceva incontrare al Grande Albero e, da lì, vagavano
assieme finché i doveri di Kikyo la portavano troppo vicino agli umani.”
“Perché non andava con lei, nonna? Inuyasha era buono, no?”
Chiese la bambina.
“Era mezzo spettro ed era diverso da loro e per questo lo
temevano.” Rispose il bardo, con la sua voce musicale, la testa abbandonata
sulle braccia incrociate dietro al nuca. “La paura ancestrale del diverso è
molto radicata negli uomini… ciò che è diverso è potenzialmente pericoloso… e,
generalmente, viene visto e trattato come tale. La chiamano sopravvivenza.”
La vecchia di nuovo sorrise e il bardo non poté fare a meno
di notare come il suo atteggiamenti verso di lui si fosse ammorbidito. Almeno un
po’.
“Inuyasha, di certo, non ispirava fiducia alla prima
occhiata” continuò la vecchia. “In ogni suo movimento si vedeva l’impronta del
combattente e il suo carattere schivo e aggressivo non gli facilitava di certo i
rapporti umani. Al villaggio sapevano che Kikyo gradiva la sua compagnia, ma
questa non era certamente una buona presentazione: anche la sacerdotessa era
temuta. Così gli abitanti si limitarono a prendere atto della sua presenza e a
evitare di infastidirlo, ma lasciavano chiaramente capire come non fosse il
benvenuto in mezzo alle loro case.”
“Poverino…” mormorò Corinna. “Ma venne mai accettato da
qualcuno?”
La vecchia si lasciò andare a una risata chioccia. “Certo,
bambina mia. Ma passarono molti anni per quello. Molti anni… e noi non siamo
ancora andati così lontano.
Eppure, per la tua felicità – e anche per la loro – l’amore
sbocciò fra quelle due anime solitarie. Un sentimento timido a cui entrambi si
aggrapparono con forza inaudita, un sentimento che faceva loro paura, ma che
dava loro coraggio.”
Il bardo socchiuse gli occhi beandosi dell’apparente
controsenso.
“O forse solo speranza… di aver trovato qualcuno in cui
specchiarsi, qualcuno con cui condividere momenti, pensieri, baci. E sì,”
sospirò la vecchia. “Anche baci e carezze e tutte quelle cose che fanno due
innamorati quando fanno all’amore.”
“E cosa sono?” Chiese Mario, le cui parole furono seguite da
uno scappellotto da parte del padre e da un rimbrotto sull’inconvenienza che i
bambini sappiano certe cose.
“Erano felici, ma la sciagura incombeva su di loro. Nelle
sembianze di un uomo ferito e di un gioiello da un potere troppo grande per
essere usato da una sola persona.”
“Perché anche l’uomo ferito si era innamorato di Kikyo,
vero?” Chiese Corinna.
“Quale gioiello? E quale potere?” Chiese il ragazzino che
aveva coraggiosamente ricacciato indietro i lacrimoni e si stava sfregando con
noncuranza la nuca.
“Non so dare nome al sentimento di quell’uomo, Onigumo.
Poteva anche essere amore… o forse solo desiderio, lussuria… non lo so davvero.
Difficile immaginare che l’amore possa provocare le tragedie che ancora sono da
narrare. Forse l’amore per se stessi… nello stesso tempo non è possibile
banalizzarlo al solo desiderio carnale perché non si renderebbe giustizia né a
Onigumo né alle sue azioni.
E in quanto al gioiello… Kikyo ne era la custode. Ne era
venuta in possesso in circostanze misteriose e il suo compito era di
custodirlo.”
Sempre la solita solfa: custodirlo e non usarlo. Perché i
grandi poteri servono sempre solo da tentazioni? Si chiese il bardo. Perché non
finiscono mai nelle mani di qualcuno che sappia veramente usarli e ottenere il
massimo da loro? Anche quella sarebbe una storia degna di essere raccontata… di
storie con poteri che vanno sprecati di fronte a un bene maggiore ne circolavano
anche troppe.
“Ma anche lei, come la Pandora del mito,” riprese la vecchia,
con una note triste nella voce, “ad un certo punto non fu immune dal fascino di
un così grande potere per le mani: si era illusa di poter ottenere una vita
normale accanto ad un uomo normale. Ne aveva parlato con Inuyasha e lui aveva
accettato: da sempre aveva desiderato di poter essere uno spettro completo come
suo padre, come un fratello che aveva incontrato solo una volta tanto tempo
prima, ma per amore di quella donna sarebbe diventato umano. E finalmente
sarebbe stato trattato alla pari. Da qualcuno almeno. Ma non avevano considerato
che la felicità si può raggiungere solo al prezzo di grandi sacrifici e che
nessun potere sarà mai abbastanza grande da garantirla se non si è disposti a
lottare con le unghie e con i denti pur di conquistarla e di trattenerla.”
“E loro non erano disposta a farlo?” Chiese Corinna
pensierosa.
“Non lo so, piccola. Inuyasha dimostrò di saperlo fare, anche
se, forse, in quell’occasione non ne ebbe modo. E di Kikyo dicono che fosse una
donna dal temperamento forte e risoluto, ma in fondo si dimostrò fragile e forse
schiava di un destino che non sentiva suo. “
“Schiava, avete detto,” la interruppe il bardo. “Lo era o
credeva di esserlo? E di cosa? Del destino, di un gioiello che forse non ambiva
solo a essere custodito o delle consuetudini popolari?”
La vecchia ascoltò con attenzione quelle domande, ma non
dette segno di voler cambiare discorso. “Può darsi che sbagliarono a scegliere
le proprie armi. Oppure i propri nemici. O forse fu proprio un insieme di
fattori che decisero la sconfitta dei due amanti solitari: l’amore fra Kikyo e
Inuyasha era un giovane virgulto. Una meraviglia per gli occhi e per il cuore,
ma ancora troppo debole per resistere alle intemperie della vita.”
“Ma l’amore non può vincere tutto?” Chiese di nuovo la
bambina, speranzosa.
“È una domanda a cui nessuno potrebbe dare una risposta. Mi
verrebbe piuttosto da girare la frittata: anche quando perde, non significa che
non sia stato amore, di quello vero. I sentimenti sono delle grandi cose,
ricordatevelo, ma gli umani no… e gli uni senza gli altri non potrebbero andare
lontano: gli uomini hanno bisogno della grandezza dei sentimenti per poter
vivere e realizzarsi e i sentimenti hanno bisogno degli umani – con tutti i
limiti che ciò importa – per poter essere realizzati e diventare concreti.
Nella mia lunga vita ho capito che in genere gli eventi non
sono da imputare ai sentimenti, ma agli uomini che li provano… nel bene e nel
male.
E tutto questo per dire che non credo che l’amore di Kikyo e
Inuyasha non fosse vero e profondo e solido, uno di quei sentimenti che avrebbe
potuto dar loro la felicità. Solo che entrambi erano troppo abituati a contare
solo su loro stessi, a non fidarsi mai completamente degli altri per
sopravvivere, a considerare la solitudine una condanna della sorte contro cui
non avevano mai trovato una soluzione. Ma due solitudini non fanno una felicità,
disse un saggio. O un poeta. È questo che intendo quando parlo di limiti. È
questo che fece sì che un piano malefico potesse separarli e che essi stessi,
con le loro azioni, non fecero altro che aiutare gli eventi invece di
impedirli.”
“E gli spettri, nonna? Gli spettri non provano sentimenti?”
Chiese di nuovo Corinna.
“Chi lo può sapere, Corinna… è da talmente tanto tempo che
sono spariti che pochi potrebbero rispondere a questa domanda.” Di nuovo un
sospiro, profondo, seguito da qualche colpetto di tosse. “Eppure anche loro sono
fatti di anima… possono o potrebbero. Chi lo può sapere?”
I sentimenti stanno nell’anima, mormorò il bardo. Non gli era
nuova questa tripartizione della natura umana in anima, spirito e corpo, ma non
l’aveva mai presa veramente in considerazione. La gente capiva benissimo la
dicotomia anima-corpo, chiamando appunto anima tutto ciò che non era materiale…
E lo spirito allora cos’era? Una parte di quella che la maggioranza della gente
chiama anima? O qualcosa che nella semplice dicotomia anima-corpo mancava
all’appello?
“Onigumo, lungi dal rispettare le regole della santa Chiesa
che, quando novizio in un monastero aveva studiato con tanto ardore, creò il
proprio personale inferno nel suo cuore.”
“Un novizio diventato bandito?” Chiese il bardo alzando un
sopracciglio.
“Sì,” sospirò la vecchia. “Una punizione ingiusta secondo
lui, che era stato cacciato per troppa sete di conoscenza, proprio come Adamo ed
Eva nel Giardino dell’Eden. E fu proprio quel peccato che lui non aveva mai
ritenuto un peccato a dargli la possibilità di ordire le sue trame e di
stringere un patto col Demonio in persona.”
“E per quanto vendette la sua anima?” Chiese il bardo con una
nota di ironia, mentre tutti gli altri, dopo un primo momento in cui trattennero
il fiato, iniziarono a biascicare un Pater Ave e Gloria.
“Per il suo spirito.”
Grazie a chi legge e un grazie di cuore a Rosencrantz, Mel_nutella,
Miriel67 e Mikamey che hanno recensito il secondo capitolo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Di passioni, di inganni e di tradimenti ***
Nuova pagina 1
CAPITOLO 4
Di passioni, di inganni e di
tradimenti
Le gioie violente
hanno violenta fine, e muoiono nel loro trionfo, come il fuoco e la polvere da
sparo, che si distruggono al primo bacio.
Il più squisito diviene stucchevole per la sua stessa dolcezza, e basta assaggiarlo per
levarsene la voglia. Perciò ama moderatamente: l'amore che
dura fa così.
Romeo e Giulietta, William Shakespeare
Il bardo osservò la vecchia per
un lungo istante alla fioca luce della lampada a olio. Non capiva. Cosa
significava che Onigumo aveva venduto l’anima per il suo spirito? Lo chiese alla
narratrice che, come ormai d’abitudine, non gli rispose. Che non lo sapesse
neppure lei? No, non era questo. Quella vecchia aveva qualcosa di inquietante
che all’inizio non aveva notato, ma era una sensazione che stava crescendo in
lui. Solo in lui a quanto pareva, perché tutti gli altri erano perfettamente a
loro agio e la bambina, Corinna, si rivolgeva a lei chiamandola nonna,
interrompendola in ogni momento e ottenendo le risposte che cercava. Tornò a
guardare le stelle, quasi a scacciare nel cielo i pensieri fastidiosi. E riprese
ad ascoltare.
“Un patto col Maligno, stavamo
dicendo,” riprese la vecchia, abbassando la voce, quasi per paura di evocare
qualcosa di non voluto fra di loro. “Un patto che diede a Onigumo una nuova vita
– sempre se vita si può chiamare qualcosa che è vincolato alla morte. Aveva
venduto la propria anima per tornare ad essere quello di prima. Per perpetrare
una vendetta, ottenere una donna. E poi tornare di nuovo alla vita precedente.
Uccidere i banditi che lo avevano tradito, magari. Arricchirsi e godersi quel
che gli sarebbe rimasto alla faccia di tutti coloro che gli avevano messo i
bastoni fra le ruote.
Sì, forse pensava proprio questo
Onigumo prima di farsi chiamare Naraku.”
Inferno, si disse il bardo. In
un antica lingua Naraku significa Inferno. Un viaggio interessante da
intraprendere… sempre che si sia in grado di tornare e raccontarlo.
“Naraku,” sospirò la vecchia,
come se avesse udito i pensieri del bardo. “Un nome azzeccato, certamente. Un
nome che segnò la morte dell’uomo e la nascita di un mezzo spettro del Regno dei
Morti, un fantasma.” La vecchia sorrise. “Un fantasma che aveva dato in pegno la
propria anima in cambio di uno spirito diverso dal suo – che era nato umano – ,
uno spirito capace di invadere ogni angolo del suo corpo e mutarlo. Un’anima che
avrebbe cercato di eliminare in ogni maniera per non dover pagare nulla a
nessuno. Naraku… Inferno… mai mortale seguì altrettanto bene le orme di
Lucifero: volle diventare più di un uomo e più di uno spirito e finì per essere
meno di entrambi.”
“Perché nonna?” Chiese Corinna.
“Non ti capisco quando parli così difficile!”
“Tranquilla, piccola,” rise la
vecchia. “Capirai quando sarà il momento. Probabilmente entro la fine di questa
storia, ancora molto, molto lunga.
Un giorno Kikyo andò ad accudire
Onigumo, accompagnata dalla sorellina. Era preoccupata perché le prime piogge di
agosto si erano già fatte sentire e potevano significare una cosa sola:
l’autunno era alle porte. E quel bandito – che in lei suscitava al tempo stesso
pietà e ribrezzo – non poteva rimanere lì, pena morire di freddo prima che di
altre malattie… o di inedia. Ma quel giorno la sacerdotessa non trovò nessuno da
accudire: non solo Onigumo era scomparso, ma la caverna stessa sparita:
crollata, dissero molti, per il terremoto che si era sentito durante la notte.
Ma quando il prete venne a benedire le pietre che erano diventate la tomba del
bandito, gli stessi dissero che l’acqua santa aveva preso fuoco, rifiutandosi di
onorare quel luogo. E, ancora oggi, su quelle pietre non cresce neppure il
muschio.
La sacerdotessa percepì sin da
subito che forze molto più grandi di lei, forze che non sapeva riconoscere,
avevano avuto parte in quel prodigio. Controllando a stento la propria paura,
prese per mano la sorellina e la condusse via verso con passo veloce, verso
casa, chiedendosi cosa fosse avvenuto.
Non si rese conto di essere
spiata e seguita, troppo presa dalle proprie domande. E non si rese conto
neppure nei giorni successivi che qualcuno osservava ogni sua mossa. Neppure
l’innaturale numero di ragni che presero a girare per la sua capanna la
insospettì: li prendeva e li scacciava, mentre la sorellina tremava spaventata
in qualche angolino.”
“Le donne!” Esclamò Mario con
superiorità, beandosi della faccia schifata di Corinna all’immagine di una casa
invasa dai ragni.
“Oh bambino!” Esclamò la vecchia
sghignazzando, “avresti avuto paura anche tu se fossi stato al posto della
piccola Kaede: certo, c’erano anche dei ragnetti piccoli e innocui come quelli a
cui ti diverti a strappare le zampette, ma ce n’erano alcuni grossi quanto il
tuo pugno, pelosi e dall’aspetto ripugnante…”
Il bambino deglutì, cercando –
con poco successo – di mostrarsi coraggioso.
Animali affascinanti, pensò il
bardo. In grado di esistere dove altri non riuscirebbero. In grado di uccidere
anche il proprio compagno pur di mantenere la specie. O se stessi. Esseri
pazienti, meticolosi e letali. È meglio temere i ragni, soprattutto se non li si
conosce bene…
“Ma perché c’erano i ragni?”
Chiese Corinna, senza curarsi di celare il proprio disgusto.
“Perché il ragno era il simbolo
di Onigumo o, meglio, di Naraku. La sua vera forma, se vogliamo. I demoni hanno
molte nature: possono mostrarsi con sembianze umane o con sembianze animali. E
le leggende dicono che, una volta scelto l’aspetto che ritengono più congeniale,
poi non lo cambino più. Dicono che esista anche un altro aspetto, quello reale
forse, ma pare che a nessuno umano sia mai stato concesso di vederlo.
Ebbene, Naraku non perse tempo
nei suoi propositi di vendetta. Era stato costretto per mesi in una grotta, a
vedere il riflesso del sole e della luna, mentre il tempo – e la vita –
passavano senza curarsi di lui. Era ancora umano nell’anima, così umano da
lasciarsi guidare dalla fretta. Ancora non sapeva – non capiva! – quanto tempo
avrebbe avuto a disposizione. Era stato un uomo impulsivo, che si lasciava
guidare dalle proprie passioni, senza curarsi delle conseguenze prima e
pagandole col sangue e le bestemmie una volta avvenute…
Eppure già aveva imparato a
tessere ragnatele.”
“Vien da chiedersi se la natura
del ragno era già in lui anche quando era umano,” mormorò il bardo.
“Voi cosa ne dite?” Lo sfidò la
vecchia.
“Vi risponderò quando mi
spiegherete cosa intendevate dicendo che aveva venduto l’anima per il suo
spirito.” Rispose tosto il bardo. “Perché è lì che sta la soluzione, solo che
ancora mi sfugge.”
La vecchia sorrise sorniona.
“Come vi ho detto, Naraku aveva già imparato a tessere tele, anche in fretta. E
quello che escogitò fu un piano semplice ma efficace. La sua precedente
vocazione di studioso gli aveva insegnato quanto fosse importante la conoscenza
e i ragni servivano proprio nell’intento. Col tempo raffinò anche questa sua
arte, non limitandosi a creare spie, ma veri e propri servitori, a sua immagine
e somiglianza si potrebbe dire, tanto era grande in loro sia la predisposizione
all’inganno che il desiderio di libertà.
In quell’occasione solo i ragni
lo accompagnarono nel suo piano e gli servirono a spiare i nemici. E da loro
venne a sapere molte cose: la natura ibrida di Inuyasha, la Sfera dei Quattro
Spiriti e il suo enorme potere, il fatto che Kikyo ne fosse la custode e fosse
disposta a infrangere le regole che ciò comportava per trasformare il suo amante
in umano e vivere insieme a lui come una donna comune.”
“Quali regole?” Chiese il bardo.
“Cosa sapete voi di quel monile
che a quei tempi veniva chiamata Sfera dei Quattro Spiriti?” Domandò la vecchia
di rimando, mentre il bardo almeno poteva ritenersi soddisfatto di non essere
più palesemente ignorato.
“Nulla,” rispose, mentre i
presenti scuotevano il capo.
“Allora beatevi della vostra
ignoranza,” commentò la vecchia con voce stranamente tagliente. “Quel gioiello
ha sempre portato solo tragedie, sia a chi l’ha custodito sia a chi l’ha
bramato. Ignoratene l’esistenza e proseguite nelle vostre vite senza curarvi di
Lei. Forse questo non vi darà la felicità, ma non vi renderà neppure più
miserabili del dovuto.
Nella nostra storia le prime
vittime furono proprio Kikyo e Inuyasha,” continuò imperterrita la vecchia
narratrice, noncurante degli inutili tentativi del bardo di riprendere la
parola, “in quella che doveva essere l’alba dopo una notte di luna nuova, quando
– essi pensavano – la natura demoniaca di Inuyasha sarebbe stata più facilmente
scacciata.
Perché Inuyasha ogni notte di
luna nuova diventava completamente umano e solo allo spuntare del primo sole
riprendeva le proprie sembianze. Quella mattina – all’alba – loro avrebbero
voluto impedirlo. Quella mattina fu l’ultima che trascorsero su questa terra –
entrambi – da vivi.”
“Allora questa è un’altra storia
di due innamorati infelici,” interruppe la solita bambina, con una nota di
tristezza nella voce. “Perché devono sempre finire così male?”
Di nuovo la vecchia ridacchiò.
“Tutte le storie narrano di amori infelici, Corinna. Quando arriva la felicità
non c’è più nulla che sia degno di essere narrato. È il dolore che ci tiene con
il fiato sospeso, la felicità – quando raccontata – ha sempre il gusto del
banale. È per quello che bisogna conquistarla e viverla. Se non altro per
ricordarla qualora ci scivolasse via dalle mani.”
“Chi morì dei due? E a chi non
rimase altro che piangere e vendicarsi?” Era una tema comune nelle storie
popolari, il bardo lo sapeva bene: gli umili preferivano ascoltare grandi gesta
compiute in nome di ideali, di sentimenti o di onore, volevano riscatto per
quello che loro stessi non potevano fare, non invidia per quello che non
avrebbero mai potuto ottenere.
“Una su due, cantore! Credevo
meglio da un giramondo come voi,” lo prese in giro la vecchia. “Uno dei due
morì, ma l’altro non pianse né giurò vendetta… almeno per molto tempo. Volete
ancora tirare a indovinare? No? Allora ve lo dico io quello che successe: quella
notte – come fosse la vigilia di nozze che mai si festeggiarono – i due amanti
la trascorsero separatamente. Kikyo in casa, sveglia, guardando fuori dalla
finestra, attendendo trepidante il crepuscolo e una nuova vita. Inuyasha… chi lo
può…” Si interruppe un attimo, come colta da improvvisa illuminazione. “Chi lo
può sapere?” Continuò poi imperterrita, ma qualcosa era cambiato nel tono della
sua voce. Quella domanda suonò improvvisamente retorica – agli orecchi del bardo
almeno. “In giro per i boschi, come suo solito, lontano da occhi che avrebbero
potuto vederlo in quell’aspetto che aveva sempre aborrito e che, dall’alba
successiva sarebbe diventato per sempre suo.”
“Perché non sono stati insieme,
nonna? Perché facevano tutto da soli anche se si volevano bene?” Chiese Corinna
che, alla solitudine, avrebbe preferito la compagnia dei ragni che tanto
aborriva.
“Perché sennò il destino non si
sarebbe compiuto, piccola mia,” rispose la vecchia, sibillina. “O semplicemente
perché quella notte la fortuna giocò a favore di Naraku. Oppure fu semplicemente
un caso.”
“E la Sfera che parte ebbe in
tutto questo?” Chiese il bardo.
“Come vi ho già detto,
quell’oggetto non ha mai portato bene a nessuno… quindi possiamo affibbiarle
tutta la colpa con la coscienza in pace.” Commentò la vecchia con una certa
amarezza. “Fatto sta che al luogo dell’appuntamento, sotto il Grande Albero,
Kikyo non incontrò Inuyasha, ma uno col suo stesso aspetto: Naraku. Il giorno in
cui perse la prima sfida della sua nuova vita.” Un enigmatico sospiro
accompagnarono queste parole.
“Kikyo non si rese conto di non
aver davanti Inuyasha: grande è il potere di chi sa usare le illusioni facendole
apparire realtà agli occhi del nemico. Il sole non era ancora sorto e i capelli
del mezzo spettro erano ancora neri come la notte, così erano i suoi occhi che
lanciavano inquietanti bagliori rossastri. Eppure non sarebbero dovuti esserci
artigli al posto delle sue unghie, ma Kikyo se ne rese contò solo quando sentì
le sue carni lacerarsi ché, vedendo la mano alzata dell’amato, aveva creduto di
stare per ricevere una carezza di incoraggiamento per quel momento decisivo,
prima che loro vite cambiassero per sempre.”
“Perché Naraku la uccise? Aveva
fatto un patto col Diavolo solo per averla…” Mormorò il bardo, gli occhi
socchiusi come per non lasciare uscire i pensieri.
“Ve l’ho già detto, cantore.
Quella mattina perse la sua prima sfida.”
E il buon giorno si vede dal
mattino, commentò ironico il bardo tra sé e sé.
“Due entità di diversa natura
erano racchiuse in quel corpo rinato… Onigumo era diventato qualcosa che ancora
non sapeva controllare né gestire. Naraku stava lentamente prendendo vita, ma
era ancora lontano dall’avere il sopravvento su quell’anima così terribilmente
umana, mediocremente terrena.”
Quando Onigumo diventò realmente
Naraku? Si chiese il bardo. Quando fece il patto col Diavolo o quando il suo
nuovo spirito prese il sopravvento? Quando cominciò a percepire in maniera
diversa dai mortali, quando cominciò a preferire la pallida luna all’accecante
luce del sole, quando comprese questa strana affinità coi ragni.. Quando perse
la sua umanità, se mai la perse?
“Onigumo non avrebbe mai voluto
uccidere Kikyo: la bramava troppo. Ma Naraku non voleva un altro legame così
terreno, maggiori erano le sue ambizioni. Onigumo voleva ferirla, sì, voleva che
quella donna si sentisse tradita da Inuyasha, voleva che lei lo odiasse, voleva
che lei si vendicasse. Poi sarebbe stata sua. Ma quando le sue dita sentirono il
sangue, una brama omicida mai conosciuta prima si impadronì di lui e affondò gli
artigli lasciando la sacerdotessa a terra, rantolante, mentre il sangue scorreva
copioso sulla veste bianca.
Ma quando ritirò la mano fu
l’orrore a prendere il sopravvento: aveva venduto la propria anima al Diavolo ed
era solo riuscito a distruggere ciò per cui l’aveva fatto. Scappò, lontano, per
non vedere il frutto del suo gesto, per trovare acqua dove lavare quella mano
lorda di sangue assieme alla sua anima, che linda non era mai stata, ma che ora
gli appariva più nera del carbone stesso. Un’anima che non è più tua, gli
sussurrò una voce suadente. Rallentò la corsa, recependo la verità insita in
quelle poche parole, mentre le pupille dilatate riprendevano, pian piano,
dimensioni normali. E la sua mano non sembrava più così sporca. Solo in quel
momento ricordò il monile che Kikyo portava al collo. Ma era già troppo tardi.
Perché nel frattempo Inuyasha
aveva raggiunto il Grande Albero e si chiedeva dove fosse Kikyo, perché era
ormai l’alba e già le sue sembianze di mezzo spettro stavano riapparendo assieme
alle prime luci dell’aurora. Era preoccupato e non si era reso conto che la
sacerdotessa, che grazie a un immane sforzo di volontà e facendo appello a tutti
i suoi poteri era riuscita a rimettersi in piedi a lo stava spiando con occhi di
odio. Sei tornato a prendere quello che prima avevi lasciato?, gli chiese con
voce tagliente. Di che cosa stai parlando? Le chiese a sua volta Inuyasha, quasi
non riconoscendo la donna che gli stava davanti. Tieni e che tu sia maledetto!
Gridò lei, con il viso rigato dalle lacrime, lanciandogli la sfera che il mezzo
spettro prese al volo.
Un attimo. E le fronde del
Grande Albero lo avvolsero in una prigione di foglie e oblio.
Non vide Kikyo cadere a terra
chiedendo alla Sfera dei Quattro Spiriti di seguirla nel mondo della morte. Non
la vide esalare l’ultimo respiro, soffocata dalle lacrime e dal sangue, col nome
del suo amato sulle labbra.
Né sentì quel terribile ululato
che squarciò il cielo e che fece suonare le campane della chiesa.
Fu Kaede, l’unica a conoscenza
dell’appuntamento dei due, a trovare il corpo straziato della sorella. Ma
neppure i singhiozzi disperati di quella bambina convinsero il prete a
seppellire la donna in terra consacrata. Nessun funerale per lei. Solo la pietà
di qualche contadino che accettò di seppellirla vicino a quell’albero, dove
tutto era cominciato.
Di Inuyasha nessuno seppe nulla
per molti anni a venire.”
“Sarà stato soddisfatto Naraku,”
commentò il bardo. “Se la vita dei due amanti era stata all’insegna dell’amore,
nella loro morte non provarono altro che odio… Ma che fine fece la sfera?”
“Ma come nonna! È già finita
anche questa storia?” Domandò Corinna, delusa.
“No, bambina mia,” sghignazzò la
vecchia. “Solo Kikyo trovò la morte quel giorno. E la Sfera esaudì il suo
desiderio, seguendola nel Mondo dei Morti.”
“Quindi il mezzo spettro diventò
un albero?” Chiese un ragazzino.
“Ma no!” Rispose Corinna
indignata. “La sacerdotessa non lo odiava abbastanza da ucciderlo, vero nonna?
Così gli avrà lasciato la possibilità di salvarsi…”
Di nuovo la vecchia rise. “Avete
entrambi ragione, almeno in parte. Inuyasha non diventò albero, e sì,
quella fu una possibilità di salvezza anche se non credo che Kikyo volesse
questo quando formulò il suo ultimo desiderio.
Fatto sta che dopo molti anni
arrivò qualcuno in grado di rompere la maledizione e di far rivivere Inuyasha.
Nessuno seppe come accadde una
cosa simile, ma un giorno Inuyasha tornò a camminare tra i mortali e molti
ricordarono la leggenda della sacerdotessa che aveva amato un mezzo spettro. E
già… Inuyasha venne liberato dal vecchio albero e si risvegliò dal suo sonno,
come se per lui non fosse passata altro che una notte, adirato per il tradimento
della sua amante e poi sconvolto nell’apprenderne la prematura morte.”
“Fu una fanciulla a liberarlo,
vero? Che poi si innamora di Inuyasha e lui di lei?” Chiese di nuovo Corinna,
evidentemente presa da questo sentimento che ancora non conosceva, ma che tanto
bramava.
“I contrabbandieri e le ragazze
innamorate conoscono tutte le scorciatoie, dice un proverbio che sembra proprio
adatto a te, Corinna. Ma le strade dell’amore non sono mai diritte ed è facile
perdersi lungo sentieri intricati.
Personaggi vecchi e nuovi devono prendere ancora parte a
questa vicenda, per aiutare od ostacolare i nostri eroi. Ma l’ora è tarda e vi
invito qui domani al crepuscolo per sentire il resto della vicenda.”
Il bardo si staccò di malavoglia dall’albero a cui era appoggiato, mentre
tutti pian piano si avviavano alle proprie dimore. Lanciò un’ultima occhiata
al cielo stellato prima di dirigersi di malavoglia verso la locanda. “Anche i
lupi hanno smesso di ululare,” pensò nell’aria pungente della notte.
Un ringraziamento a tutti coloro che leggono.
Un ringraziamento particolare a Crilli, Mel_nutella,
Mikamey, Miriel67, Rosencrantz, e Sabinbam che hanno commentato: sono molto
contenta che la storia vi appassioni seppure – per ora – non abbia molto di
originale. I personaggi… lo scoprirete cammin facendo.
Un ringraziamento di cuore anche a quelli che hanno messo
la storia fra i preferiti.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Di un lago, di una bambina e di uno spirito ***
Nuova pagina 1
CAPITOLO 5
Di un lago, di una bambina e di uno spirito
Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno, né l’ora.
Dal Vangelo secondo Matteo
Il giorno successivo il sole splendeva nel cielo e il bardo
decise che la fiera avrebbe potuto fare a meno di lui: era l’ultima giornata,
molti mercanti avevano già ripreso la via di casa e lui aveva deciso di
dedicarsi all’esplorazione di quei luoghi selvatici e, a prima vista, inospitali
che circondavano quel villaggio che sembrava un tutt’uno col cielo e la terra.
Iniziò a fare un po’ di domande a giro per sapere se c’era
qualche luogo di particolare interesse nelle vicinanze, nella fattispecie
qualche casa o qualche cumulo di rocce che avessero avuto a che fare con spettri
o fantasmi o un albero particolarmente vecchio e imponente da essersi meritato
l’appellativo di Grande Albero. Rimase molto deluso quando seppe che, molti anni
prima, una frana aveva creato un lago dove sorgeva anticamente il villaggio che,
probabilmente, era stato teatro della storia che la vecchia stava raccontando.
“Quindi quei luoghi sono inaccessibili,” commentò deluso, più
parlando a se stesso che ai sui interlocutori.
“A meno che non possiate diventare un pesce e nuotare sul
fondo del lago,” lo aveva preso in giro un vecchietto che osservava
l’andirivieni della gente dagli scalini della sua umile dimora.
Sembra proprio che si sia messa di mezzo anche l’acqua per
cancellare quello che veramente avvenne in quel luogo e per nascondere ogni
traccia di verità che potrebbe racchiudere il racconto di quella vecchia, pensò
il bardo tra sé. Ma se ci fossero delle prove si tratterebbe di storia, non di
leggenda. Appoggiò una mano all’altezza del cuore per sincerarsi che la
pergamena fosse ancora nella sua tasca: la sentì fremere sotto le sue dita e,
per l’ennesima volta, si chiese cosa avessero portato nella sua vita quelle
poche righe in un’antica lingua scritte in una calligrafia sobria ed elegante. O
dove lo stesse portando la sua natura, mai paga di quello che già sapeva e
incapace di resistere ad una sfida. Accettale tutte fuorché quella che ti
costerà l’osso del collo, era stato il consiglio del suo mentore, le cui spoglie
ora riposavano in una fossa comune. In buona compagnia, si augurava il bardo,
temendo – in fondo – di fare la stessa fine.
Esiste un tempo in cui ogni mito è stato storia, citò
mentalmente, incamminandosi di malavoglia verso il lago. Mezza montagna si era
staccata e aveva portato via tutto quello che aveva incontrato per poi bloccarsi
a valle e chiudere in parte il corso del fiume. Così l’acqua si era accumulata e
gli alberi erano cresciuti creando un paesaggio di suggestiva quiete.
È la storia che continua a ripetersi, rifletteva il bardo,
mentre scendeva per il sentiero che lo avrebbe portato vicino alla riva. Quando
ci arrivo lo assaggio, non si sa mai che sia la replica di Sodoma e Gomorra.
Ma il lago era di acqua dolce e offriva un bellissimo
spettacolo: l’acqua cristallina era incuneata tra due pendici che declinavano
dolcemente e rifletteva le fronde degli alberi che la sfioravano, mentre gli
schiamazzi delle anatre e di altri uccelli rompevano un silenzio che,
altrimenti, sarebbe parso innaturale.
Si chiese come poteva essere stato quel luogo prima di quella
frana. Si guardò attorno, ma poté solo immaginare dove la montagna potesse
essersi spezzata: la vegetazione ricopriva fitta ogni cosa. Quell’evento doveva
essere successo molto tempo prima.
Si allontanò da quel luogo quasi con un senso di urgenza,
come se stesse violando un segreto di cui nessuno doveva essere reso partecipe.
Cercò di sorridere, per fugare questi sciocchi pensieri: riuscì nel primo
intento, fallì completamente nel secondo.
Devo essere pazzo se mi lascio suggestionare così dalle
favole di una vecchia… quante storie di fantasmi ho sentito e raccontato in giro
per il mondo? Di quanti fatti strani, a volte decisamente macabri, sono stato
testimone? Perché stavolta dovrebbe essere diverso?
Sulla via del ritorno incontrò Corinna che stava giocando fra
gli alberi, vicino al villaggio. Nonostante non ci fosse nessuno, sembrava molto
presa a raccontare ad alta voce, a qualche misterioso ascoltatore, la favola di
una bambina che doveva portare da mangiare a un lupo. Quando si accorse della
presenza del bardo si interruppe improvvisamente e arrossì, vergognandosi di
essere stata scoperta.
“Avanti,” le disse il bardo, avvicinandosi con un sorriso.
“Sono curioso del finale di questa storia.”
“Davvero?” Chiese la bambina, timidamente.
“Certo!” Rispose il bardo. “Sembra che la capacità di
raccontare storie sia una caratteristica della tua famiglia.”
Così la bambina riprese il suo racconto. Era buffa a
guardarla: piccola e minuta, coi capelli e gli occhi scuri, il visino illuminato
e sorridente. La voce squillante e l’ampio gesticolare catalizzavano
l’attenzione su di lei che sembrava non raccontare una storia quanto viverla, in
quello stesso momento, nella sua fantasia.
“E chi era il fortunato ascoltatore che è sparito al mio
arrivo?” Chiese il bardo.
“Nessuno,” rispose la bambina, col capo chino e visibilmente
imbarazzata.
“Non uno degli spettri che ti piacerebbe tanto incontrare?”
Le chiese, prendendola in giro dolcemente.
“Io un giorno incontrerò uno spettro,” rispose lei, seria e
sicura della propria affermazione.
“E non ne hai paura?” Chiese di nuovo il bardo.
“Chissà,” rispose la bambina, pensierosa. “Voi pensate che
siano cattivi?”
Il bardo si strinse nelle spalle. “Non saprei,” rispose. “Né
più né meno delle persone, credo. In fin dei conti tua nonna ha detto che siamo
fatti più meno della stessa pasta quindi non possiamo essere così diversi.”
“Voi credete?” Chiese la bambina. “Io non credo: non basta
mettere l’uva nell’acqua per fare il vino.”
Il bardo dovette riflettere sulla semplice veridicità di
quelle parole: partire dallo stesso punto non significa arrivare allo stesso
traguardo. Stava iniziando ad invidiare l’ingenuità di quella bambina che le
permetteva di credere negli spiriti come in esseri reali mentre per lui erano
solo frutto della mente umana, della troppa fantasia o della troppa fame. Gli
erano sempre piaciute le storie e gli era sempre piaciuto viaggiare, ma mai
aveva confuso la realtà con la fantasia: sapeva apprezzarle solo tenendole
separate, mischiarle assieme sarebbe stato un inutile assalto alla propria
salute mentale. E fisica: i preti erano bravissimi a raccontare storie dai
contenuti poco realistici spacciandole per vere, ma non avrebbero mai apprezzato
che qualcuno si prendesse la libertà di fare lo stesso. Eppure sapeva che non
era quello il vero problema. Se qualcuno aveva deciso di separare quei mondi
voleva dire che quel qualcuno aveva un potere che non andava sottovalutato.
Sempre se gli spiriti avevano davvero camminato su questa terra. Sempre se gli
spiriti erano davvero esistiti. E, insieme a loro, l’essere potente che un
giorno aveva deciso di segregarli.
Quando si riprese dalle sue elucubrazioni la bambina lo stava
fissando con aria interrogativa, il dito indice appoggiato sulle proprie labbra.
Il bardo sorrise: “Hai ragione, Corinna. Le cose sono sempre più complicate di
quello che sembrano e per quanto ne sappiamo gli spiriti potrebbero essere al di
sopra del bene e del male. E questo non significa che siano benevoli nei
confronti di noi umani.”
“Io so che prima o poi ne incontrerò almeno uno,” sentenziò
la bambina. “Non è giusto che se ne siano andati anche perché non è stata una
loro scelta: sono stati imprigionati. E la leggenda racconta di una prigionia
che dura da secoli, ma che in pochi minuti potrebbe finire.”
“Quale leggenda?” Volle sapere il bardo.
“Una di quelle che racconta ogni tanto la nonna. Non la
conosco per intero, ma forse lo scopriremo stasera quando ci racconterà il
seguito della storia. È un bel racconto, non trovate?”
“Sì, è davvero bello,” rispose lentamente il bardo. E vero,
balenò nella sua mente, un pensiero non richiesto che negava con due parole
tutto le riflessioni di un momento prima. “Perché vorresti tanto incontrare uno
spirito, bambina?”
Corinna lo guardò come se non avesse capito bene il senso
della domanda, inclinando la testa di lato. Ci pensò un po’ prima di rispondere,
con un’espressione triste su quel visino dai lineamenti delicati: “voi non
dovete conoscere tante storie sugli spiriti, vero?”
Il bardo fece un cenno di diniego. “Mi sono occupato più di
dame e cavalieri che di anime senza riposo,” rispose stringendosi nelle spalle
come per scusarsi. “Conosco varie storie sugli spiriti, ma non posso dire di
conoscere la loro natura. Prima d’ora la gente che ho conosciuto non ha mai
mostrato di amarli e anch’io me ne sono sempre tenuto alla larga.”
“Si vede,” commentò la bambina.
“E poi ci sono posti in cui è meglio non raccontare certe
storie,” riprese il bardo, colto da uno strano bisogno di giustificarsi di
fronte a quella creatura che non poteva avere più di dieci anni, ma i cui occhi
racchiudevano la stessa saggezza della vecchia narratrice. Forse non era
corretto chiamarla saggezza, pensò fra sé, perché non era qualcosa che nasceva
dall’esperienza e dalla conoscenza, ma dall’intuito. Pensò alla parola adatta a
descriverla, ma non la trovò. Probabilmente Adamo si era sentito allo stesso
modo la prima volta che si era trovato davanti a una rosa, ma a lui era stato
concesso il potere di creare un nome per ogni cosa. A me no, si rammaricò il
bardo, posso solo utilizzare parole che già esistono e stupirmi di fronte
all’ingenua saggezza di una bambina.
Corinna annuì, consapevole. “La nonna però a me le ha sempre
raccontate. A lei piacciono e anche a me.”
“Hai sempre vissuto sola con tua nonna?” Le chiese il bardo.
“Una volta c’erano anche i miei genitori e i miei fratelli.
Poi loro sono andati in cielo e la nonna mi ha preso con sé.”
“È per questo che vuoi vedere gli spiriti? Credi che fra loro
ci possano essere anche i tuoi genitori?” Chiese il bardo serio, preoccupato per
le idee eretiche che la vecchia avrebbe potuto insinuare in quella giovane
testolina. Non era amante della religione, ma neppure dei guai e sapeva bene –
per esperienza personale – quanti guai si potevano passare a causa della
religione.
“Voi continuate a confondere l’anima e lo spirito,” lo
riprese la bambina con aria da maestrina. “A dir la verità non so bene neanche
io la differenza,” continuò pensierosa e un po’ imbarazzata per essersi rivolta
a un “grande” con quel tono, “ma la nonna dice sempre che sono molto diversi e
che, in un certo senso, si completano. Sì, dice proprio così.”
“E sai cosa intende quando dice che si completano?” Chiese il
bardo, curioso.
La bambina scosse il capo, arresa di fronte a concetti che le
parevano tanto difficili. “No, ma di solito aggiunge che quando c’erano gli
spiriti tutto era diverso e che, adesso che non ci sono, la terra sta
invecchiando. La nonna dice che una volta il vento cantava mentre ora al massimo
può fischiare, che le stelle brillano ma non illuminano e anche la luce della
luna ha perso la sua magia. E a me piacerebbe tornare a vedere tutte queste cose
insieme agli spiriti perché se loro abitavano qui insieme agli uomini significa
che era anche casa loro. Chissà se sanno in che rovina ci hanno lasciato…”
Il bardo sorrise: quella bambina stava descrivendo il
Paradiso Terrestre, non la Terra, non un mondo in cui un volo nella fantasia era
tutto quello che ti potevi permettere. Di fronte alla morte, alle malattie e
alle calamità l’uomo poteva solo sentirsi impotente. Per ogni drago ci sarebbe
sempre stato un cavaliere senza macchia e senza paura, ma di fronte alla terra
che trema e si apre per ingoiarti ci sarebbe sempre stata solo la Divina
Provvidenza.
“Ora devo andare,” disse la bambina sorridendo e
interrompendo il cupo flusso di pensieri del cantore.
Il bardo la salutò con la mano aperta e si avviò verso la
locanda, per raccontare una delle sue storie, guadagnarsi un boccone e brindare
in compagnia. E aspettare il momento di trasformarsi in spettatore.
Un alito di brezza frusciò tra le fronde degli alberi,
scompigliando i capelli della bambina e del cantore e increspando la superficie
liscia del lago.
Aprì gli occhi e inspirò profondamente: una serie di profumi
vecchi e nuovi solleticarono le sue narici, i suoi ricordi e – suo malgrado – le
sue speranze.
Con un balzo fu a terra, abbandonando il ramo su cui era
solito distendersi per fissare un cielo fatto di stelle terribilmente luminose,
ma che non creavano quegli splendidi disegni che alcuni chiamavano costellazioni
e che gli sciocchi usavano per predire il futuro. Della luna neppure l’ombra,
solo una luce fredda e soffusa, così diversa da quel bagliore argenteo che
mostrava ogni cosa per quale era, una luce così piena di ombre che forse non
meritava neppure di chiamarsi luce.
Era un mondo, questo, molto diverso da quello che aveva
conosciuto nella sua giovinezza, un mondo che si consumava in un eterno
crepuscolo, sospeso nel tempo, sospeso tra la vita e la morte. Come sognare
sempre lo stesso sogno, sempre senza dormire.
Adesso, però, stava succedendo qualcosa di nuovo. Quasi
temeva di pensare a quella parola. Nuovo. Già il solo pensiero sembrava scuotere
l´integrità delle fondamenta di quell’universo pervaso da un’inquietante
immobilità. Eppure aveva sentito qualcosa di nuovo e di vecchio insieme. Non osò
formulare quel pensiero, dare voce a quella speranza che aveva preferito
soffocare tanto tempo fa, prima che fosse l´angoscia a soffocarlo.
Si allontanò a passo spedito, verso quel refolo d´aria che
gli era giunto fino al luogo, quel maledetto luogo.
E quando lo raggiunse si fermò ad aspettare. Perché non c´era
altro da fare.
Sentì dei passi che si avvicinavano veloci, ma non si voltò.
Sapeva già chi era: conosceva solo una persona che aveva quella mania di correre
anche per le cose più insignificanti. Un lieve sorriso increspò le sue labbra:
per una volta aveva ragione a correre.
“L´hai sentito anche tu?” Chiese il nuovo arrivato, quando
gli fu di fianco, con la conferma di non aver avuto solo un´illusione, un
miraggio, l´ennesima speranza frustrata.
Sesshomaru mosse appena la testa in un segno affermativo, i
sensi tesi a captare qualche altro segnale.
“Non può essere lei,” mormorò di nuovo Koga, più rivolto a se
stesso che al suo silenzioso interlocutore. “Quanto tempo sarà passato?”
“Non lo so, lupo,” rispose l´altro con voce vibrante. “Non ho
mai ritenuto utile contare il tempo.”
Fino a oggi almeno. Perché ora darebbe qualunque cosa pur di
apprezzare la differenza fra un minuto, un anno e un secolo. Per dare
significato a quelle parole indistinte, legate a quel refolo di aria fresca
proveniente da un mondo che non è solo ricordo, ma sogno, desiderio… e anche
incubo.
“Una prigionia che dura da secoli, ma che in pochi minuti
potrebbe finire.”
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Un ringraziamento a tutti coloro che leggono.
Un ringraziamento particolare a Crilli, KaDe, Mikamey,
Miriel67 e Rosencrantz che hanno commentato il capitolo 4: dai vostri commenti
sembra che stia riuscendo sia a creare l’atmosfera che speravo che a suscitare
le riflessioni che mi interessano. Per una dilettante allo sbaraglio come me non
è poco!
Un ringraziamento anche a quelli che hanno messo la storia
fra i preferiti.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Di anima, di ricordi e di speranza ***
Nuova pagina 1
CAPITOLO 6
Di anima, di ricordi e di speranza
Come è bella giovinezza
che sì fugge tuttavia.
Chi vuol essere lieto, sia!
Di doman non v’è certezza.
Lorenzo de’ Medici
Era di nuovo il tramonto ed era tempo di avvicinarsi all’aia
dove la vecchia avrebbe ripreso la narrazione. Più volte aveva ripetuto che la
vera storia avrebbe dovuto ancora cominciare, ma tutto quello che aveva già
detto non aveva il sapore del prologo. Dove avrebbe portato tutto questo? Di
nuovo il bardo palpò la propria tasca, cercando quel piccolo pezzo di pergamena
da cui non si separava mai: il testamento di uno sconosciuto che ormai era
divenuto lo scopo della sua vita. Se solo fosse riuscito a decifrare quelle
poche, criptiche parole.
L’aria si stava rinfrescando e nuvoloni scuri erano comparsi
all’orizzonte, creando l’impressione di una battaglia di armature nere e dorate
sullo sfondo di un tramonto vermiglio. Sullo sfondo del sangue che accompagna
ogni battaglia, pensò fra sé, incapace di vedere in altri termini nuvole cariche
di pioggia e il sole al tramonto.
Credeva di essere in anticipo, ma trovò sedute sugli stessi
tronchi e sedie della sera precedente alcuni degli ascoltatori. Stavano
chiacchierando fra di loro e una ragazza di forse sedici anni sussurrò qualcosa
all’orecchio dell’amica quando vide comparire il cantore e insieme si misero a
ridere sommessamente, chinando il viso. Il bardo salutò cerimoniosamente i
presenti e regalò un sorriso alle presunte ammiratrici, per poi sedersi di nuovo
con la schiena appoggiata al tronco di un albero – un ciliegio, riconobbe –
mentre ascoltava il loro chiacchiericcio.
La vecchia non era ancora arrivata e nemmeno la bambina.
Una delle ragazze – quella più coraggiosa – gli chiese di
suonare qualcosa per loro e lui non si fece pregare: raccolse il liuto che aveva
appoggiato accanto a sé e chiese se qualcuno avesse delle preferenze.
“Sentiamo cosa cantano nella vostra città,” propose la stessa
ragazza di prima, piegando il viso grazioso e impertinente di lato, un viso
abbronzato e incorniciato dai riccioli scuri che sfuggivano, dispettosi, dal
fazzoletto che portava in capo.
Il bardo sorrise a vederla: era giovane e bella di quella
bellezza che solo i giovani possono avere. E i vecchi invidiare. Aveva sogni nei
suoi occhi, di avventure e di avventurieri e per un attimo si concesse di vedere
se stesso attraverso quelle pupille nere, circondate da iridi dello stesso
colore: un giramondo, libero e felice, con il liuto a tracolla e il proprio
destino in tasca. Molto meglio che sentirsi un vagabondo che viaggiava di città
in città solo perché non c’era nessuno ad aspettarlo.
“E quale sarebbe il vostro nome, di grazia?” Chiese con
studiata cortesia.
“Rachele,” rispose la ragazza, sporgendo il viso nella sua
direzione, ma non osando fare altro in presenza della madre.
“E una canzone sia, Rachele, per voi e per queste belle
signore,” commentò il bardo, sfiorando delicatamente le corde con le dita e
iniziando a comporre le note di una ballata malinconica che parlava di un uomo
che partiva in cerca di fortuna lasciando dietro di sé quello che nessuna
ricchezza avrebbe mai potuto comprare.
“Anche questa sembra una storia vera,” mormorò la vecchia,
con la sua voce chioccia quando le ultime note svanirono nell’aria accompagnate
dagli ultimi raggi del sole.
Il bardo alzò gli occhi, ancora trasognati e di nuovo
sorrise, senza rispondere, senza negare.
“Si vede che questa storia deve proprio piacervi, cantore,”
disse l’uomo che la sera prima lo aveva accompagnato, appoggiando la lampada a
olio – ancora spenta – in mezzo alla gente. “La fiera è finita e tutti se ne
sono andati, tranne voi.”
“Non ho fretta di ripartire, messere,” rispose il bardo. “Non
quando ci sono cose più interessanti da fare che rimettersi per strada.”
Un attimo di silenzio calò su di loro, ma la voce squillante
di Corinna, seduta in mezzo agli altri bambini, spazzò via ogni imbarazzo: “E
adesso è ora di sentire il resto della storia?”
“Quante cose ci sono ancora da raccontare in questa storia!”
Esclamò la vecchia, più rivolta a se stessa che agli altri. “A volte mi chiedo
se non sia meglio cominciare dalla fine e poi tornare indietro per essere sicura
di non perdere il filo. Perché molte sono le situazioni che si sono intrecciate
e le persone che vi hanno preso parte. Solo una cosa hanno avuto in comune: la
fine.”
“Non si toglie mai la sorpresa agli ascoltatori,” commentò il
bardo con un sorriso. “ Tra di noi c’è a chi interessa come viene raccontata la
vicenda, cosa portò i personaggi a fare certe scelte e non altre, ma ci sono
alcuni ascoltatori che vogliono emozionarsi, non pensare: attendere trepidanti
un finale che – lieto o triste che sia – tolga loro il fiato. E un narratore
deve saper accontentare entrambi.”
“Ma io non sono un cantore come voi che racconta storie per
sopravvivere,” rispose la vecchia. “Io non ci guadagno nulla a raccontare a
chiunque queste vicende. E poi, voi tutti, sapete già cosa è successo dopo: gli
spiriti sono spariti da questa terra e il mondo ha iniziato a invecchiare
lentamente e inesorabilmente, come se il tempo che gli era stato concesso si
fosse improvvisamente accorciato. E i personaggi…”
“Ma nonna!” L’interruppe la bambina. “Perché non riprendete
dal punto in cui l’avete lasciata? Doveva arrivare qualcuno a liberare Inuyasha,
no? Perché non ripartiamo da lì?”
“E Naraku che fine aveva fatto?” Chiese Mario, che preferiva
i brividi del terrore a quelli dell’amore.
“Quante domande,” commentò la vecchia stizzita, chetando i
bambini con un gesto della mano. “Avrete tutti le risposte che cercate,”
continuò,” a tempo debito.
Naraku…” mormorò scuotendo il capo, un’espressione pensierosa
in quegli occhi contornati da una fitta ragnatela di rughe. “Naraku aveva preso
l’abitudine a vestirsi di rosso – il colore dei re e dei cardinali – e a farsi
passare per un monaco. Era il travestimento che aveva trovato per avvicinarsi
agli umani senza spaventarli, ma solo evocando in loro un rispetto e una
riverenza che mai avrebbe avuto se avessero conosciuto la sua vera natura. Era
un abile manipolatore delle menti: no! Non pensate a chissà che: la mente degli
uomini si manipola molto meglio con le parole e i silenzi piuttosto che con la
stregoneria. Un’illusione che fa il suo corso è molto più radicata di una
maledizione che potrebbe non trovare un terreno abbastanza fertile su cui
attecchire.
E Naraku viaggiava, sempre, costantemente. Come il nostro
ospite, si potrebbe dire,” commentò la vecchia indicando il bardo col mento,”e,
forse, per lo stesso motivo: conoscenza, sempre e solo conoscenza.”
Il bardo, sentendosi chiamato in causa, rispose: “La
conoscenza è potere. Ma è anche bellezza. Ed è come i sentimenti di cui
parlavate: non è a loro che si devono imputare atti meschini, quanto a chi li
usa.”
La vecchia annuì, soddisfatta come un insegnante che sta
testando i propri allievi. “Sembra che al nostro cantore non piaccia essere
paragonato a un uomo che vendette la propria anima al Diavolo. E forse è meglio
così: forse significa che voi un’anima ce l’avete ancora. Allora tenetevela
stretta: non si sa mai dove la brama di conoscenza possa condurla!”
“E come si fa a tenere stretta un’anima?” Chiese uno dei
ragazzini, stringendo il pugno come per raccogliere una folata di vento.
“Ricordandosi che è preziosa, come un fiore, e altrettanto
delicata. Appassisce se la trascuri.”
“Ma uno come fa ad accorgersene?” Chiese di nuovo lo stesso
ragazzino senza capire la necessità di dare acqua e concime a qualcosa di
impalpabile come l’aria che non riusciva a fermare fra le proprie dita.
La vecchia sghignazzò: “Domande più grandi di te, Gino.
Aspetta a portele, ma ricordati delle mie parole se un giorno, guardandoti allo
specchio non dovessi più riconoscere i tuoi stessi occhi.
Anche se non sempre è possibile trattenere la propria anima.
Kikyo non ci riuscì, ad esempio. O questo è almeno quello che dicono i vecchi,
parlando della ragazza che liberò Inuyasha, Kagome. Una fanciulla come tante,
cresciuta in un villaggio come questo, in una famiglia per bene, senza agi, ma
senza troppa miseria. Una fanciulla che ereditò un’anima che la portò per una
strada difficile… a terminare ciò che quell’anima non aveva fatto in un’altra
vita? Chi può sapere dove il destino smette di agire e ci si mette la propria
volontà…”
“Ma Kikyo era morta e quando si muore l’anima va in Paradiso
o all’Inferno! Kikyo la perse per forza;” sentenziò Gino, iniziando ad
innervosirsi per questi discorsi complicati che non portavano a nulla.
“Hai ragione, mio caro: le anime non rimangono in questo
mondo dopo la morte. Se ne staccano e se ne vanno per la loro strada. Tranne
alcune… Non sono fantasmi, non sono neppure anime in pena che hanno perso la
strada: sono solo troppo legate a questo mondo per separarsene definitivamente.
Tristi? Non saprei. Fiduciose di sicuro: aspettano il momento in cui si uniranno
nuovamente a un corpo e a uno spirito. Reincarnandosi, dicono alcuni.
Riprendendo un cammino bruscamente interrotto, dicono altri. Nessuno è mai
tornato indietro dalla morte per raccontarci che succede e noi possiamo solo
supporre. E sperare.”
La speranza è quindi la peculiarità dell’anima, si disse il
bardo. È quello che ti ricorda che hai ancora un’anima, che non ti è sfuggita,
che per quanto avvizzita è lì, pronta a vivere. Ma la speranza è anche una delle
tre virtù teologali, quindi non appartiene all’uomo, ma a Dio che la concede a
chi apre a lui il suo cuore. O che la concede e basta, lasciando all’uomo la
scelta di aggrapparvisi o meno. Sì, si disse il bardo sospirando, non importa
morire per andare all’Inferno: basta smettere di sperare.
“Quindi la ragazza che liberò Inuyasha è come se fosse Kikyo?”
Chiese la piccola Corinna.
“Sì,” rispose la vecchia, meditabonda. “E no. È molto
complicato, bambina mia e non sono sicura di sapertelo spiegare. Forse un giorno
lo comprenderai senza il mio aiuto.”
“E sono le stesse anime che infestano vecchi castelli e
catapecchie abbandonate?” Chiese il bardo, canzonatorio, come per scuotersi di
dosso pensieri troppo pesanti. “E non avevate lasciato sottindere che l’anima
senza lo spirito non può vivere?”
“E infatti non ho mai detto che queste anime vivano mentre
errano senza meta. Sopravvivono, ma vivere… no. Non esageriamo. Sentono, forse,
a loro modo. Ma nessuno può sapere cosa provano.”
Di nuovo ingarbugliati in questi discorsi senza fine su
anima, spirito e corpo, si disse il bardo, grattandosi la testa e
ripromettendosi di pensarci più tardi per trovare il bandolo della matassa di
quella complicata visione dell’uomo che la vecchia stava cercando di spiegare e
nello stesso tempo di nascondere. Perché lo fa? Si chiese una volta di più.
La vecchia ricominciò a narrare.
“Dove eravamo rimasti? Ah, sì, Kagome che libera Inuyasha.
Sì… si vede che al destino piace proprio scherzare con le vite degli uomini. Una
ragazzina era, una fanciulla abituata ad alzarsi all'alba e la cui giornata era
scandita dai tempi della preghiera e del lavoro, che trovava la notte con i suoi
misteri affascinante, ma proibita così come lo era credere in spiriti diversi
dai demoni che il Santo Padre aveva cacciato nelle fiamme dell'Inferno. E
sicuramente non aveva mai sentito parlare di un mezzo-spettro che solo
cinquant’anni prima aveva calcato quelle stesse terre e lì ancora viveva senza
neppure rendersene conto. Chissà se fu proprio la Divina Provvidenza a volere
quell’incontro... In fin dei conti sia uomini che spiriti sono una sua creazione
e suo Figlio ci ha insegnato a perdonare.
Ma Kagome non avrebbe potuto fare nulla se la Sfera dei
Quattro Spiriti non fosse riapparsa su questa terra e non avesse incrociato la
sua vita.”
“Ma non era morta insieme a Kikyo?”
“Un oggetto come quello non muore così facilmente. Aveva
esaudito il desiderio della sacerdotessa di seguirla nel Regno dei Morti, non di
perire assieme a lei. Ma quando la sacerdotessa tornò, la sfera la seguì.”
“Forte! Un fantasma!” Esclamò Mario. “Ma come ha fatto a
tornare se l’anima l’aveva già persa?” Chiese poi perplesso.
“Suvvia, zia!” Esclamò Ezechiele, l’uomo che aveva
accompagnato il bardo la sera prima. “Con tutti questi discorsi confondete i
bambini!”
“O confondo gli adulti?” Chiese la vecchia, sorniona. “E tu,
Mario, stai attento: fantasmi non sono da prendere da sottogamba. Sono spiriti
tristi e irrequieti che non appartengono a questo mondo, ma che ogni tanto
appaiono. Nel caso di Kikyo potremmo dire che qualcuno l’ha richiamata.”
“Sicuramente confondete me,” la interruppe nuovamente
Ezechiele. “Anime, spiriti, fantasmi: continuano a sembrare la stessa cosa a noi
altri. E facciamo confusione.”
“Forse è proprio per questo che gli uomini non hanno
inventato abbastanza parole per definirli,” rispose il bardo. “È come quando ci
si trova a corto di parole per descrivere la bellezza o la paura, quando
l’emozione prende il sopravvento e noi possiamo solo dire come ci sentiamo, mai
definire con esattezza cosa ci fa sentire così. E lo stesso per gli spiriti, i
fantasmi e le anime: cosa succederebbe se ne doveste incontrare uno? Vi
fermereste a chiedere il suo nome o scappereste, sopraffatto dalla paura e
ignaro dell’essere che ve l’ha causata?”
“Fu l’amore di Kikyo per Inuyasha a richiamarla?” Chiese
Corinna, più interessata al romanticismo che alla filosofia.
“No, bambina mia. Kikyo era morta maledicendo il nome di
Inuyasha e forse si era stupita nel non trovarselo davanti nell’Aldilà. Ella
venne strappata dall’abbraccio della morte molti anni dopo la sua dipartita, per
opera di Naraku. E di una strega che aveva il potere di vedere e camminare nel
mondo degli spiriti, potere che le permetteva di prevedere il futuro e di
parlare coi morti. I resti della sacerdotessa e la terra della sua tomba
bastarono a riportarla nel mondo dei vivi. Un’ombra dicono che fosse, un’ombra
fatta di solo spirito che vagava nella notte, piangendo coloro che aveva amato e
che mai avrebbe potuto riabbracciare.”
“Perché ‘aveva amato’? Il Mondo della Morte rende forse gli
uomini immuni ai sentimenti?” Chiese il bardo.
“Come vi ho già detto, nessuno è mai tornato per svelarci il
mistero. Non so cosa faccia l’Aldilà ai sentimenti: dicono che amore e odio
siano più duraturi dell’eternità e che non temano le distanze fra i mondi. No,
cantore, non credo sia stata la morte: Kikyo era resuscitata senza anima. E per
lei tutto era solo ricordo.”
Il problema non erano i ricordi, vecchia, si disse il bardo.
Era la speranza a mancare.
--------------------------------------------------------------------------------------
Un ringraziamento a tutti coloro che leggono.
Un ringraziamento particolare a Crilli, jekka, KaDe, mikamey, miriel67 e
Rosencrantz che hanno commentato il capitolo 5: sono molto contenta che
apprezziate sia i nuovi personaggi che le riflessioni che mi piace introdurre.
L’intenzione sarebbe di non risultare troppo lenta o prolissa e, soprattutto, di
non andare OOC. Chi vivrà vedrà!
Un ringraziamento anche a quelli che hanno messo la storia fra i preferiti.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Di risvegli, di incontri e di sopravvissuti ***
CAPITOLO 7
CAPITOLO 7
Di risvegli, di incontri e di sopravvissuti
“L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura;
ma è una canna pensante.
Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo:
un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo.
Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse,
l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di chi lo uccide,
dal momento che egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui;
l’universo non sa nulla.
Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero.
E’ in virtù di esso che dobbiamo elevarci,
e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire.
Lavoriamo dunque a ben pensare: ecco il principio della morale”.
Pensieri, Blaise Pascal
L’aria quella sera era più fredda della sera prima e i
nuvoloni che coprivano il cielo non promettevano nulla di buono.
“Pioverà stanotte,” commentò la vecchia tirandosi su lo
scialle nero per coprirsi il collo. “Domani al più tardi.”
“Speriamo non faccia troppi danni,” disse Ezechiele, vedendo
baluginare un lampo, in lontananza.
“Di acqua c’è sempre bisogno,” sorrise il bardo.
“Ma non di temporali. Non quando c’è il fieno da raccogliere
e il grano quasi maturo.”
Il bardo annuì, rendendosi conto di quanto fosse antico e
vitale il patto che quelle persone avevano stretto con la terra e il cielo. Per
un attimo si chiese se anche gli spiriti avessero mai stretto un patto del
genere, di cosa si nutrissero, di cosa si saziassero. Se fossero così umani da
cercare un qualche tipo di cibo o se la sola essenza della pioggia fosse in
grado di dissetarli. Per lui gli spiriti erano sempre stati come gli antichi
dei: trasposizioni dei pregi e dei difetti umani su esseri più potenti, più
vecchi e più longevi. Senza che fossero necessariamente migliori degli uomini.
Invece, ora, si domandava se non fossero completamente diversi. Di quella
diversità che si completa con la propria controparte. Solo che non riusciva a
definirle. Né l’una, né l’altra. Perché nel chiedersi cosa fossero gli spiriti
si imbatté nella spinosa domanda “che cos’è l’uomo?” E si stupì nel non saper
rispondere nemmeno a quella.
“Ma perché Naraku prima l’ha uccisa e poi l’ha resuscitata?”
Chiese Mario.
“Forse perché l’anima di Onigumo non era sparita
completamente, così come non lo era il suo desiderio per Kikyo. O forse perché
Naraku voleva vendicarsi di quell’umanità che non riusciva a staccarsi di dosso.
O forse ancora perché voleva la Sfera dei Quattro Spiriti. Certo che quando si
parla di uno come Naraku non bisogna mai aspettarsi cose semplici o scontate.”
“Ma perché avrebbe aspettato così tanto?” Chiese una delle
ragazze. “Avrebbe potuto farlo anche prima, no?”
“Chi lo può sapere?” Rispose la vecchia. “Come ho già detto
Naraku si fece aiutare da una strega: forse quella stessa strega cinquanta anni
prima non era ancora nata. Oppure Naraku impiegò parecchio tempo per trovarla.
Oppure la percezione del tempo per Naraku stava cambiando e diventando più
simile a quella di uno spettro che a quella degli uomini, per cui cinquanta anni
per lui poteva essere un istante per quelli come noi.”
“E come percepiscono il tempo gli spiriti?” Volle sapere il
bardo.
La vecchia lo guardò stizzita: “perché mi fate domande di cui
sapete bene che io non conosco la risposta?”
Il bardo non volle controbattere, seppure quella sensazione
che la vecchia stesse nascondendo qualcosa lo stava facendo innervosire. Perché
tutti questi misteri? È solo una vecchia storia… ma ormai non riusciva più a
convincersi nemmeno di quello.
“E cosa fece Kikyo quando tornò in questo mondo?” Chiese
Rachele, lentamente, come scossa dalle sue stesse parole, dalla blasfemia appena
pronunciata, dall’orrore di uno spirito senza anima.
“Cosa avresti fatto tu, ragazza mia?” Chiese la vecchia,
aggiustandosi nuovamente lo scialle scuro sulle spalle. “Si dice che per prima
cosa uccise la strega che l’aveva portata indietro, la vecchia megera che
credeva di poter resuscitare i morti regalando loro un corpo fatto di cenere e
terra. Stolta! Dicono che fu proprio Naraku a ritrovarla nella sua capanna,
stesa per terra con gli occhi sbarrati e un’espressione di terrore sul volto,
rigida e secca come un baccalà.”
“E come aveva fatto ad ucciderla?” Chiese Mario, che aveva un
debole per i dettagli macabri.
“Che volete che ne sappia io?” Proseguì la vecchia. “L’avrà
forse spaventata a morte? O avrà fatto ricorso ai poteri di cui disponeva quando
era in vita? O tutte e due le cose? Impossibile saperlo con certezza.”
Quindi era con lo spirito che Kikyo amministrava quei poteri,
si disse il bardo.
“E poi iniziò a vagare, tornando nei luoghi e dalle persone
che le erano cari. A una in particolare si mostrò: Kaede, la sorellina che
viveva con lei nella piccola capanna nel bosco. Che sorpresa quando, in quella
casupola, trovò invece una famiglia di povera gente che lavorava per un convento
costruito poco lontano! E fu proprio spiando quelle persone e seguendole che
poté ritrovare Kaede, non più bambina, ma vecchia e senza un occhio, suora ed
erborista. Che le raccontò di come una ragazzina avesse ritrovato la Sfera dei
Quattro Spiriti solo pochi giorni prima e che, nella stessa occasione, un
ragazzo dalle strane sembianze fosse improvvisamente comparso davanti al Grande
Albero, per poi fuggire dopo averla guardata a lungo. Kikyo capì immediatamente
e se ne andò, cominciando un lungo vagare durante il quale avrebbe spaventato
molti viandanti e avrebbe – in parte – ritrovato se stessa. Ma questa è un’altra
storia.”
“Ma come fece Kagome a impossessarsi della sfera?” Chiese il
bardo, curioso.
“La trovò. La sfera riapparve nello stesso luogo in cui
cinquanta anni prima era scomparsa: ai piedi del grande albero, sopra quella che
era stata la tomba di Kikyo. Così aveva mantenuto la sua promessa: la
sacerdotessa aveva chiesto che il gioiello la accompagnasse nel Mondo dei Morti,
ora che lei era tornata da questa parte la Sfera era libera da ogni vincolo.
Così Kagome, forse spintasi nel bosco a cercare legna per il
fuoco o forse fuggita per un attimo dalla propria realtà, la trovò. E agli occhi
di una ragazzina doveva apparire davvero bella: liscia e opalescente, quasi
ipnotica se troppo la si osservava. Kagome la raccolse e se la mise in tasca e
lì probabilmente sarebbe rimasta per molto tempo se quel monile, non avesse
attirato attenzioni indesiderate: uno spettro dalle sembianze mostruose che
attaccò la ragazza.
Ed è qui che entra in scena – di nuovo – Inuyasha. Era
rimasto addormentato nell’abbraccio del Grande Albero per molto tempo, solo, al
riparo dalle crudeltà che tanto lo avevano segnato nella sua vita precedente,
che avevano esasperato la sua natura schiva e aggressiva. Erano passati
cinquanta lunghi anni: pochi di coloro che lo avevano conosciuto in carne ed
ossa erano ancora vivi e ancora meno erano quelli che credevano che lo avrebbero
di nuovo incontrato. Era una leggenda ben nota a quei tempi e molti erano quelli
che temevano il mezzo-spettro imprigionato nel Grande Albero, anche se, data la
mancanza di conseguenze nefaste nell’avvicinarsi a quel luogo, la gente si
limitava a passare velocemente facendosi il segno della croce e pregando per sé
e per l’anima senza pace del prigioniero. Solo nelle notti di luna nuova nessuno
osava mai avvicinarvisi perché altri occhi osservavano quell’albero ed avevano
uno sguardo che, dicevano, facesse congelare il sangue nelle vene.”
“Era uno spirito, nonna?” Chiese Corinna. “Era lo stesso che
proteggeva Inuyasha quando diventava umano?”
“Sì, piccola mia,” rispose la vecchia. “Era uno spirito, ma
non sono sicura che fosse lo stesso che aveva vegliato su Inuyasha bambino e poi
ancora quando il mezzo spettro diventava umano. Di entrambi questi spettri si
dice solo che suscitassero grande paura, ma in fondo, quale spettro non
spaventerebbe un umano?”
“Ma come aveva fatto la Sfera a decidere cosa seguire di
Kikyo? Perché seguirla nel Mondo dei Morti se la sua anima non aveva mai
abbandonato quello dei Vivi?” Chiese il bardo. “Forse neppure la Sfera aveva mai
abbandonato questo mondo e si era nascosta, aspettando il momento opportuno.”
“E cosa ve lo farebbe pensare? Cosa vi fa pensare che la
Sfera volesse proprio Kagome e non qualcun altro?” Lo sfidò la vecchia.
Il bardo si strinse per un attimo nelle spalle. “Perché
allora si fece trovare proprio da Kagome in quel momento?”
“Non vi è mai capitato di trovarvi al posto giusto nel
momento giusto?” Gli chiese la vecchia. Il bardo annuì, sospirando e
appoggiandosi istintivamente una mano sul cuore, e la narratrice si sentì
abbastanza soddisfatta per andare avanti. “Dunque… ah, sì. Kagome aveva trovato
la Sfera e venne attaccata da uno spirito. Non so quale fosse il suo nome e se
la sua vita fino a quel momento era stata lunga, ma da quel momento in poi fu
molto breve: perché Kagome, nello scontro, finì proprio contro il Grande Albero
e, per qualche arcano motivo, la maledizione di Kikyo fu sciolta. E Inuyasha fu
libero.”
“Evviva!” Batté le mani la piccola Corinna.
“Eh sì, piccolina. Libero e ignaro di ciò che era successo, e
subito catapultato nel bel mezzo di un combattimento che risvegliò anche il suo
spirito di guerriero. Sconfitto lo spirito malevolo, rimase a contemplare
a lungo, con uno sguardo stranito, la ragazza raggomitolata contro il tronco,
incapace di capire se conoscesse o meno la fanciulla che aveva davanti. E
indeciso se rivolgerle o meno la parola mentre lei lo guardava, timorosa seppur
affascinata dallo strano essere che l’aveva salvata. Ma quella volta le voltò le
spalle e se ne andò per la propria strada.”
“Tale era la somiglianza fra Kikyo e Kagome?” Chiese il
bardo, incuriosito da quel primo gioco di sguardi.
“Dicono che si somigliassero, ma non così tanto: entrambe con
gli occhi scuri, neri e lunghi i capelli, giovani e graziose. Ma anche Rachele e
Silvana corrispondono alla stessa descrizione, “ aggiunse indicando le due
ragazze che avevano sorriso all’arrivo del bardo. “Piuttosto cantore, perché non
vi chiedete cosa vedono gli occhi di uno spettro quando guardano un umano?”
Il bardo la fissò per un lungo istante con uno sguardo
interrogativo, piegando la testa di lato e staccandosi dal tronco del ciliegio,
come per esigere una maggiore attenzione dalle proprie membra oltre che dalla
propria mente.
La vecchia sorrise, contenta di averlo messo in difficoltà,
lui e le sue domande indiscrete. “Cosa vediamo noi se ci troviamo davanti a uno
spirito? Una forma umana o animale, così si racconta, con tratti particolari è
vero, a volte di una bellezza suprema, altre volte di orribile ripugnanza. Ma
quello che noi vediamo è pur sempre un corpo. Perché è il nostro corpo che vede,
cantore. E il corpo vede solo corpo.”
“E allora gli spiriti dovrebbero vedere lo spirito, secondo
il vostro ragionamento,” continuò il cantore al posto della vecchia. “Ma Kagome
aveva l’anima di Kikyo, non il suo spirito… Quindi gli spiriti vedono l’anima?”
“Come siete propenso a rendere semplice ciò che non lo è
affatto,” rispose la vecchia, fissandolo con uno sguardo duro in quegli
occhietti piccoli e neri. “Cosa vi fa pensare che lo spirito veda con gli occhi?
Spirito e anima sentono, percepiscono, mio caro cantore. E a chi impara ad usare
queste percezioni viene offerta una nuova realtà da scoprire, che completa
quella che noi tutti conosciamo. O almeno queste erano le parole di un saggio
alchimista che prima istruì Naraku sula vera natura di anima, spirito e corpo e
che poi, da egli, venne ucciso. Era costui un uomo sapiente, interessato alla
filosofia, alla teologia e alla matematica e alla chimica. E, come molti suoi
contemporanei, il suo grande desiderio era di produrre – o trovare – la pietra
filosofale, in grado di tramutare tutti i metalli in oro e di creare l’elisir di
lunga vita. Qualche leggenda, una storia come questa forse, lo portò a
conoscenza della Sfera dei Quattro Spiriti e lui credette di aver finalmente
trovato la soluzione ultima di tutti i suoi studi. Quanta gente ha perso il
senno e la vita per idee come queste, sogni…”
“Non siete stata voi a dire che le anime sperano?” La
interloquì il bardo.
La vecchia sorrise. “E del senno di poi son piene le fosse,
ve ne devo dare atto” commentò. “Fatto sta che Naraku, sempre capace di
sfruttare ogni debolezza umana – vuoi per lo spirito ricevuto in dono, vuoi per
la sua precedente esperienza umana – si era avvicinato a costui, facendosi
passare per uno studioso interessato a quegli argomenti. Le sue vesti da monaco
erano in grado di aprirgli molte porte e le sue astute parole facevano il resto.
Fu così che imparò quali presunti poteri racchiudesse la Sfera e iniziò a
immaginare come avrebbe potuto usarla.
E non chiedetemi quale motivo lo spinse a uccidere quel
vecchio maestro: vi dirò subito la mie supposizioni o mi farete perdere il filo
per l’ennesima volta.
Io credo che gli omicidi sconsiderati che lasciarono una scia
di sangue sul cammino percorso da Naraku in quegli anni fossero opera di Onigumo.
Per quanto Naraku anelasse a diventare uno spirito completo, ci mise molto tempo
e molto studio per capire come sbarazzarsi della sua anima umana. Se mai ci
riuscì del tutto. Io penso che l’anima di Onigumo, già macchiata da numerose
efferatezze e poco propensa al pentimento, per puro istinto di sopravvivenza, in
alcuni momenti prendesse il sopravvento e cercasse di eliminare coloro che, in
qualche maniera, avrebbero potuto aiutare Naraku nella sua strada verso la
grandezza.”
“Quindi Onigumo non aveva dimenticato la propria esperienza
umana, con tanto di inganni e meschinità,” commentò il bardo. “Chissà se fu
quello a portarlo alla sconfitta, alla resa dei conti.”
“Cosa vi fa pensare che sia stato sconfitto?” Chiese la
vecchia, di nuovo trapassandolo con lo sguardo.
Il bardo rispose con un’alzata di spalle. “Perché nessuno ora
lo invoca come fosse un dio e lo prega, né il suo nome è conosciuto e neppure
sono conosciute le sue conquiste, se mai ne fece.”
“Ci sono battaglie in cui la vittoria e la sconfitta sono
termini alquanto soggettivi,” lo redarguì la vecchia. “Soprattutto quando i
diversi contendenti lottano tra loro ma per scopi diversi.
Ma in fondo non avete tutti i torti dicendo che, almeno in
parte, Onigumo fu responsabile della fine di Naraku. Sì, perché probabilmente fu
sempre lui a lasciare in vita qualcuno che, per amore o per forza, avrebbe
giurato di vendicare i morti. E di sconfiggere Naraku.”
“Cosa intendete quando dite per amore o per forza? Capisco
voler vendicare la morte dei propri cari, ma come si può essere obbligati a
farlo?” Volle sapere il bardo, un uomo per il quale la parola dovere aveva
sempre avuto un significato vago.
“Intendo dire che Onigumo fu il primo a creare i nemici che
poi portarono Naraku a quella che voi avete definito sconfitta e che io
chiamerei scomparsa. Come Inuyasha, risvegliatosi dopo cinquanta anni,
sentendosi tradito dalla donna che amava e di cui ora vedeva lo spirito in un
corpo morto e l’anima in un corpo vivo. Come una ragazza, unica sopravvissuta
della propria famiglia e del proprio clan, gente che viveva appartata perché
considerati eretici dalla Chiesa per i loro legami, nel bene e nel male, con gli
spiriti. Sango era il suo nome e la sua unica colpa fu quella di essere nata
nello stesso luogo dove si dice che anche la Sfera dei Quattro Spiriti vide la
luce dalla lotta fra una sacerdotessa e un demone drago. E Miroku, il giovane
apprendista di quell’alchimista che tanto aveva insegnato a Naraku, costretto a
cercarlo perché colpito da una maledizione nella forma di una malattia che si
credeva solo gli indemoniati potessero avere e che lo avrebbe ucciso senza pietà
se lui non fosse stato in grado di uccidere chi gliela aveva scagliata.”
Il bardo si mostrò palesemente ammirato. La bontà di un
guerriero si vede dalla qualità dei propri nemici, recitava un vecchio motto. E
da quella dei propri alleati. Ma come facevano anima e spirito a prendere il
sopravvento dell’uno sull’altra e a complottare per la reciproca distruzione
sapendo – perché a questo punto sapeva! – che da soli non avrebbero nemmeno
potuto vivere.
“So quello che state pensando,” riprese la vecchia. “E
infatti nessuno oserebbe affermare che Naraku, dietro il suo sguardo cattivo e
la sua risata sprezzante, abbia avuto vita facile. Ma si sa che chi anela alla
grandezza è disposto ai più grandi sacrifici. E forse fu proprio per tagliare
fuori Onigumo dai propri piani che iniziò a servirsi sempre più frequentemente
di servitori, creati dal suo spirito e dal corpo di ragni, animali che da sempre
gli erano fedeli.”
“Servitori senza anima?” Chiese il bardo.
“Questo è quanto credeva Naraku. E forse per alcuni ebbe
anche ragione.”
“Fu forse Onigumo a dare una parte della sua anima a tali
servitori per renderli, come dire… poco devoti al proprio dovere?”
“L’anima non si può separare, cantore! Pena la sua
dissoluzione. È diversa dallo spirito anche se voi continuate a confonderli. E
sottovalutate quanto uno spirito e un corpo desiderino avere anche un’anima. E
quanto sia grande il potere del desiderio.”
Un ringraziamento a tutti coloro che leggono.
Un ringraziamento particolare a KaDe, Jekka, Mikamey, Miriel67 e Rosencrantz
che hanno commentato il capitolo 6: sono contenta che continuiate ad apprezzare
questa storia... lentissima!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Di visite, di ricordi e di temporali ***
CAPITOLO 8
CAPITOLO 8
Di visite, di ricordi e di temporali
E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tragico tumulto
una casa apparì sparì d'un tratto;
come un occhio, che, largo esterefatto,
s'aprì si chiuse, nella notte nera.
Il lampo, Giovanni Pascoli
“Ma cosa è successo a Inuyasha e a Kikyo e a Kagome, nonna?
Dove sono andati?” Chiese Corinna, preoccupata.
“Una domanda per volta, bambina mia: ognuno percorre il
proprio cammino da solo anche se questi tre intrecciarono i loro
inestricabilmente.” La vecchia sospirò e fece una piccola pausa, come per
riordinare i troppi pensieri. “Kagome, ripresasi dallo stupore e dallo spavento,
corse a casa, dalla propria famiglia e raccontò quanto era successo quel giorno,
suscitando molti dubbi e paure nel cuore della madre e, soprattutto del nonno,
che ai tempi dell’imprigionamento di Inuyasha non era che un ragazzo. All’inizio
non osarono credere a quella storia, sperando che fosse solo il frutto di una
mente ingenua e portata ai voli della fantasia, ma quando la ragazza mostrò loro
la Sfera ogni dubbio venne fugato. Non che qualcuno di loro avesse mai visto
tale oggetto, ma da quelle parti – come vi ho già detto – era noto, almeno per
sentito dire. Ed era un gioiello di squisita fattura e inestimabile valore agli
occhi di chiunque. Sia il nonno che la madre di Kagome sapevano che la ragazza
non sarebbe mai stata capace di rubare qualcosa né di mentire spudoratamente
riguardo una faccenda di tale importanza. Così, il giorno dopo andarono a
cercare consiglio dalla vecchia Kaede, sicuri che la donna avrebbe saputo cosa
fare.
La suora li accolse affettuosamente, li fece accomodare nel
suo piccolo laboratorio e offrì loro una tisana. Poi ascoltò attentamente la
storia di Kagome e, quando ebbe finito, le chiese di mostrarle la Sfera. La
riconobbe immediatamente e si fece il segno della croce tre volte, impallidendo
come se avesse visto il Diavolo in persona.”
Forse non aveva visto il Diavolo, pensò il bardo, ma ricordi
troppo dolorosi per essere affrontati in solitudine. Ah, la fede! Si disse con
una punta di rammarico. E di ironia. Quale consolazione per coloro che accogli
nel tuo cieco abbraccio!
“La storia che torna a ripetersi, ecco cosa pensò.” Proseguì
la vecchia. “E, probabilmente, rivide la sorella in quella fanciulla che aveva
di fronte e, forse per la prima volta, la trovò simile a Kikyo. Un pensiero che,
sicuramente, la turbò e che forse, all’inizio, non riuscì a spiegarsene il
motivo. Non coscientemente, almeno. E forse fu proprio quella sensazione che
emergeva dalle ossa che la spinse a togliersi il rosario che portava al collo e
a regalarlo a Kagome.”
“Ma non sapeva che regalare un rosario porta sfortuna?”
Chiese accorata una delle donne.
La vecchia ridacchiò. “Evidentemente no, cara Carmela. E
sarebbe blasfemo per una religiosa considerare un rosario un oggetto del
malaugurio! No, quell’atto fu dettato dal buon cuore e dalla speranza che quel
simbolo benedetto proteggesse una fanciulla innocente dagli spiriti e dagli
uomini. Eppure è anche vero che ogni cosa cela in sé il suo contrario, così una
protezione potrebbe anche rivelarsi una maledizione. Questo non ci è dato di
saperlo, ma è sicuro che Kagome ebbe modo di versare molte lacrime nella sua
vita.”
“Sembra quasi che la stessa anima sia condannata a rivivere
le stesse cose,” commentò il bardo con un sorriso. “Dato che voi perseverate nel
non voler rispondere, io continuo a tirare a indovinare: l’anima è forse il
destino?”
Ma la narratrice, perseverante appunto, continuò imperterrita
a raccontare le vicende di un’altra vecchia, vissuta molti secoli prima. “La
notte successiva Kaede ricevette un’altra visita, sicuramente più terrificante,
ma non del tutto inaspettata. La vecchia suora conosceva del legame fra Kikyo e
la Sfera dei Quattro Spiriti mentre la sacerdotessa era in vita, anche se non
poteva conoscere il vincolo che aveva creato in punto di morte. Era come se le
due parti di Kikyo – l’anima e lo spirito – cercassero unità nel ricordo
dell’unica persona che da sempre l’aveva amata di quell’amore spontaneo e
viscerale che solo fra fratelli si può provare. Questo almeno fu quello che
pensò Kaede in seguito, ma probabilmente fu quello che percepì sin da subito:
non mi spiego altrimenti il suo interesse nelle vicende di Kagome e degli altri
protagonisti di questa storia. Pregava, quella sera, davanti a un quadretto
della Vergine, nella sua cella, quando Kikyo comparve davanti a lei: era uguale
ad allora, prima di morire, di una bellezza ancora più eterea e lontana, con la
sua lunga gonna rossa e la camicetta bianca, i capelli neri e la pelle pallida.
Solo gli occhi erano diversi, non nell’aspetto – badate bene! – ma in ciò che
racchiudevano: lontani, persi, vuoti.”
Gli occhi sono lo specchio dell’anima, pensò il bardo. E
Kikyo non aveva un’anima. Un brivido lo percorse e rammentò le parole con cui la
vecchia lo aveva apostrofato in precedenza: “allora vuol dire che voi un’anima
ce l’avete ancora.” Per la prima volta da quando lo portava in tasca, si trovò a
ringraziare quel pezzo di pergamena e lo sconosciuto che, a sua insaputa – dello
sconosciuto – e suo malgrado – del bardo – gli aveva ricordato di avere
un’anima.
“Quella notte le due sorelle ebbero modo di parlare a lungo,
alla luce di una candela che consumava il tempo a loro disposizione. Kikyo, per
la verità, non aveva molto da dire: sapeva solo di essere di nuovo fra i vivi,
ma senza essere viva, e di aver ucciso la strega che aveva disturbato il suo
eterno riposo – o dannazione, perché lei stessa non sapeva da quale luogo fosse
tornata. O forse è meglio dire che non lo ricordava, perché, comunque, ci era
stata. Kaede, dal canto suo, raccontò cosa fosse successo dopo la sua morte,
come il prete avesse negato la sua sepoltura in terra consacrata, come lei fosse
rimasta sola e come l’avessero voluta rinchiudere in un orfanotrofio dal quale
era però scappata. Così era stata affidata alle suore che avevano fondato quel
convento e lì era cresciuta e, successivamente, aveva deciso di prendere i voti.
Le raccontò poi di Kagome, della bizzarra somiglianza che aveva visto fra loro,
del ritrovamento apparentemente casuale della Sfera dei Quattro Spiriti e
dell’inaspettata liberazione di Inuyasha.
Kikyo sussultò a quest’ultima rivelazione: non le interessava
che la Sfera potesse dannare la vita di qualche altro sfortunato e imprudente
possessore, ma aveva ancora ben chiaro in mente il tradimento del suo amante e
non poteva tollerare che lui fosse ora vivo e libero, mentre lei era stata
condannata alla non-vita. Un sentimento la infiammò – la rabbia – e l’impulso di
vendicarsi prese il sopravvento. Gli occhi arsero come braci e una folata di
vento le scompigliò i lunghi capelli, conferendole un aspetto temibile. La
candela si spense e, quando al vecchia Kaede la riaccese, Kikyo se ne era già
andata, senza nemmeno un arrivederci.”
Il bardo sospirò: da quello che la vecchia aveva detto in
precedenza, era giunto alla conclusione che i sentimenti stessero nell’anima e
che lo spirito fosse una sorta di soffio vitale necessario per vivere, ma niente
più. E invece ora una donna fatta solo di corpo e spirito poteva arrabbiarsi e
cedere alla vendetta. E lui doveva ricominciare da capo il proprio ragionamento.
Un lampo li illuminò a giorno, presto seguito dal rombo del
tuono. Corinna corse a rifugiarsi fra le gonne della nonna, impaurita, mentre
Gino scuoteva la testa, come per dire “bambini!” e Mario, che avrebbe voluto
fare la stessa cosa della sua amica, si tratteneva solo perché voleva mostrarsi
coraggioso.
“E Kagome, nonna? E Inuyasha? Si innamorarono, l’avete detto
prima. Quindi devono essersi di nuovo incontrati, no?” Chiese la piccola
Corinna, impaziente di arrivare al punto della storia che più le stava a cuore e
di non pensare alla sua paura per i temporali.
“Kagome – degna figlia di Eva! – si riprese in fretta dallo
spavento iniziale per cedere alla curiosità: si mise in testa di voler
incontrare di nuovo Inuyasha, per ringraziarlo, diceva, ché l’aveva salvata
dallo spettro maligno.”
“Ma nonna! Non è forse giusto ringraziare chi ci fa del
bene?” Chiese di nuovo la bambina. “E poi anch’io avrei voluto incontrare di
Inuyasha un’altra volta fossi stata Kagome. Doveva essere interessante. E anche
bello!” Dichiarò, mentre attorno a lei gli adulti sorridevano per lo strano
effetto che faceva l’espressione seria e sicura su quel visetto tondo dai
lineamenti fanciulleschi.
“Sì, piccola mia,” rispose la vecchia. “È vero quello che
dici. E anche che Inuyasha fosse bello, anche se strano. Era giovane, ma i suoi
capelli erano bianchi come i miei e lunghi, lunghissimi. E le orecchie! Sulla
testa, come un animale. Ma dicono che avesse il suo fascino… chissà? Certo è che
avesse anche modi animaleschi oltre all’aspetto e se non avesse avuto anche un
cuore grande così non credo che avrebbe conquistato l’affetto di così tante
persone. E l’amore di Kagome, come già prima aveva meritato quello di Kikyo.”
Interessante questo mezzo spettro, pensò il bardo. Perché
solo le azioni possono averlo portato a questo, nonostante i pregiudizi contro
cui si era sempre scontrato. Eppure. Il bardo aveva sempre amato la compagnia e
solo raramente aveva cercato la solitudine. Per un attimo si chiese come dovesse
essere la compagnia per qualcuno abituato alla solitudine. Modi animaleschi, eh?
Pensò, sorridendo divertito, illuminato dalla luce dell’ennesimo lampo.
“Comunque stavamo parlando di Kagome, già,” mormorò la
vecchia per riprendere il filo del discorso. “Di natura era portata a credere a
una presunta bontà insita in ogni individuo, così, udita la storia del
mezzo-spettro sia dal nonno che da suor Kaede, era giunta alla conclusione che
Inuyasha non fosse mai stato cattivo, solo troppo solo. E lei aveva tutte le
intenzioni per impedire che tale stato di cose si mantenesse. Così ritornò al
Grande Albero, non tanto perché sospettasse di ritrovarlo lì, ma perché era pur
sempre l’unico luogo in cui lei l’avesse visto.
Non poteva sapere che anche Inuyasha desiderava nuovamente
vederla, per trovare una risposta ai suoi dubbi e capire se quella ragazza era
veramente la donna che aveva amato molti anni prima e che lo aveva imprigionato.
Forse fu per questo che in quel giorno lontano di mezza
estate si incontrarono, proprio come Kikyo e Inuyasha avevano fatto cinquanta
anni prima: lui appollaiato fra le fronde e lei a terra, che camminava
tranquilla, guardandosi attorno circospetta, ma determinata.
Inuyasha la osservò per un po’, senza farsi scoprire, fino a
quando lei alzò gli occhi e lo vide. E lui, capendo che nascondersi non era più
utile, saltò di fronte a lei, lo sguardo arrabbiato e l’atteggiamento
minaccioso.
“Sei venuta a scagliare un’altra delle tue maledizioni?” Le
chiese.
E Kagome, pronta a chiedergli di cosa lui stesse parlando,
improvvisamente si rammentò della storia che le avevano raccontato. E,
dolcemente, gli rispose: “Hai passato molto tempo fra le fronde, dormiente. Lo
stesso giorno in cui tu venisti imprigionato, la donna che ti maledisse morì e
da allora riposa ai piedi di quello stesso Albero.”
Inuyasha all’inizio non le credette. In lei continuava a
vedere Kikyo, simile seppur diversa, e non riusciva a capacitarsi che la donna
che tanto aveva amato e che ora dichiarava di odiare non fosse la stessa
fanciulla che aveva davanti… ”
“Eppure continuo a chiedermi se Kikyo e Kagome si
assomigliassero realmente oppure no,” la interruppe il bardo, assorto. “Perché,
se ho ben inteso, Inuyasha si innamorerà di Kagome, cammin facendo: sembra
proprio la classica damina tutta rosa e fiori in grado di lenire i dolori di un
cavaliere dall’oscuro passato, già tradito dall’amore e dal destino. Ma in
genere nel cuore del cavalier senza macchia e senza paura c’è spazio solo per
una persona mentre Inuyasha pare non aver dimenticato Kikyo. Anche perché il
tempo per lui si era fermato e cinquanta anni non furono altro che un battito di
ciglia, il tempo per chiudere e riaprire gli occhi. Un tempo troppo breve per
digerire un tradimento, dimenticare un amore e piangere una morte. E tutto per
la stessa persona. Certo, sono curioso della reazione che avrà quando incontrerà
la sacerdotessa rediviva, ma questo peculiare rapporto con Kagome, di amore e
odio ereditato – si potrebbe dire – lo trovo alquanto interessante. Anche
perché, forse, mi aiuterebbe finalmente a capire cosa sia l’anima e come due
persone possano essere diverse pur condividendone la stessa.”
La vecchia ascoltò attentamente questa riflessione ad alta
voce, soddisfatta, sempre con l’atteggiamento di una maestra che stia ascoltando
un allievo che non solo ha ben capito la lezione, ma che l’ha rielaborata
mettendoci del proprio. Solo l’ultima osservazione la contrariò e, come suo
solito, decise di confondere ancora di più le idee.
“Ci sono anime vecchie e anime giovani, mio caro cantore.
Quelle che nascono assieme a qualcuno e quelle che vagano, aspettando. Eppure
mai due persone sono state uguali. Perché? Perché é lo spirito a renderle
diverse: chiedetevi perché continuiate a non capire cosa faccia l’anima.
Ascoltate e solo alla fine chiedetevi – e comprendete! – perché Kikyo e Kagome
erano cosi profondamente diverse. Ebbero in comune solo una cosa: amarono la
stessa persona, ma quanto diversamente lo fecero! Quanto diversamente
interpretarono ciò che fu il loro dovere! Kikyo era sempre stata solitaria e non
solo perché incutesse timore: lei stessa non si lasciava avvicinare. Era stata
con Inuyasha ma mai aveva rinunciato alla propria completa individualità, anzi:
aveva chiesto al mezzo spettro di cambiare per lei, ma lei sarebbe davvero
cambiata? Non avrebbe più avuto la Sfera dei Quattro Spiriti da custodire, é
vero, ma quando un altro dovere si fosse messo in mezzo fra loro due cosa
sarebbe successo? E invece Kagome, che in confronto a Kikyo sembrava solo una
bambina che puntava i piedi e piangeva per ogni piccolezza, era da sempre così
restia a starsene da sola, lesta a legare con le persone, proiettata più sugli
altri che su se stessa. Non disposta a cambiare, è vero, ma sempre capace di
accettare le persone per quelle che erano e non per quello che sarebbero potute
essere.”
"Quindi Kagome era migliore di Kikyo?" Chiese Mario, come per
compilare una piccola classifica personale.
"Non ho mai detto questo. Erano molto diverse, molto. Due
modi lontanissimi di concepire la vita, l’amore e, forse, anche l’odio. Eppure
Inuyasha, a suo modo, si innamorò di entrambe." Constatò la vecchia, mentre
l’ennesimo lampo stavolta accompagnato da grosse gocce di pioggia assieme
all’immancabile tuono.
“È il Diavolo in carrozza!” Esclamò una delle donne
avviandosi di corsa verso casa e salutando frettolosamente i presenti, presto
imitata da tutta la compagnia.
Il bardo rise a quel detto popolare e si diresse comodamente
verso la locanda. A lui la pioggia era sempre piaciuta e non aveva alcuna
intenzione di affrettarsi. Tanto più che, sebbene l’aria fosse fresca, era
comunque estate e, cosa ben più importante, aveva un tetto sulla testa.
Percorse le strette viuzze del paesino, godendosi l’atmosfera
spettrale che la luce dei lampi gli regalava, quel paesaggio boscoso e selvaggio
che ora appariva tetro e ancor più affascinante. Si chiese se era questo che
vedevano gli spiriti, che percepivano. Un paesaggio rischiarato da una luce
fredda e improvvisa capace di penetrare i corpi, di delinearne i contorni come
se la sorgente luminosa provenisse dall’interno.
Anima, spirito, corpo… quella vecchia lo stava stregando con
quei concetti che per tanto tempo aveva rifuggito. E che aveva incrociato
“trovandosi nel posto giusto al momento giusto”. Proprio come Kagome, pensò.
Era intanto arrivato alla locanda e, salite le scale, entrò
nella sua stanza, si tolse gli abiti inzuppati e si sedette vicino alla
finestra, come se il temporale gli potesse portare chissà quale ispirazione. Era
troppo tardi per mettersi a suonare qualcosa con il liuto, per distrarsi nella
musica, così si lasciò cullare dal ticchettio insistente della pioggia che lo
portò dritto al ricordo di un altro piovasco.
La vita è strana, si ripeté per l’ennesima volta. Perché
trova sempre i modi più astrusi per portarti dentro a una storia che qualcun
altro aveva cominciato e che non aveva potuto finire.
Il bardo riconosceva che, in fondo, non era poi così strano,
anzi: dalla propria famiglia si eredita la propria storia, si ereditano il
carattere, il modo di pensare e il modo di agire. Anche quando non si vorrebbe,
ci sarà sempre qualcuno che riconoscerà nella tua risata quella di un cugino che
neppure conoscevi e nel tuo cipiglio lo stesso di tua nonna quando si
arrabbiava.
In un modo o nell’altro tutti siamo eredi del nostro sangue e
ce lo portiamo dietro fino alla morte. E forse anche oltre.
No, non era quello che stupiva il bardo in quel momento di
ricordo e riflessione.
Era come persone estranee e sconosciute potessero caricarti
della loro eredità, senza chiederti se avessi voglia di accettare o meno, senza
rendersi conto che in quel modo avrebbero sconvolto la vita di qualcun altro,
senza preoccuparsi se quella persona avesse già il proprio retaggio con cui fare
i conti e che due sarebbero stati troppi.
O forse no?
Anime vecchie, aveva detto la vecchia, che vagano per il
tempo che serve loro a riabbracciare un corpo e uno spirito e tornare a vivere.
Anime che nascondono una storia che non è fatta di immagini, suoni e odori, ma
di quelle percezioni che ogni tanto ci stupiamo di provare.
E chi possiede una di queste anime deve far fronte a due
retaggi diversi che si fondono nella stessa persona e con essi deve
confrontarsi.
Il bardo non sapeva quale tipo di anima potesse avere. Ogni
tanto si era chiesto se ancora ne aveva una oppure l’aveva persa strada,
regalata a qualcuno in una notte di ebbrezza o semplicemente invecchiata e
avvizzita in qualche recesso della sua bisaccia. No, si disse, ricordando con un
sorriso le parole della vecchia. Anche io ho ancora un’anima di cui prendermi
cura. Solo che non mi ricordo più come si fa.
La mano andò quasi automaticamente a cercare la pergamena che
teneva nel taschino. Già, quello era stato l’inizio di tutto. In una piccola
chiesa di campagna in cui aveva cercato rifugio. Non certo per la sua anima. E
nemmeno perché braccato dagli sbirri. No, la causa era stata la sua maledetta
passione per il vagabondaggio e complice un acquazzone degno di competere con il
diluvio universale.
Aveva aperto il pesante portone in legno ed era entrato in
quella chiesa, piccola e fiocamente illuminata da due ceri ormai consumati e da
qualche candela. Aveva mosso alcuni passi accompagnato dall’incessante rumore
della pioggia, levandosi di testa il solito cappellaccio e facendosi il segno
della croce, mentre la luce dei lampi che entrava da piccole vetrate poste nella
balconata rischiaravano l’ambiente dandogli la stessa atmosfera spettrale che
ancora ammirava dalla finestra.
Ma in quella chiesa era ancora più intensa, soprattutto
quando vide che, tra i due ceri semi-consumati, proprio davanti all’altare,
sotto lo sguardo dolce e preoccupato di una Madonna col Bambino, era posta una
bara. Un brivido di paura lo percorse da capo a piedi, assieme a un sentimento
di profonda riverenza. Un sentimento che poco aveva a che fare con le chiese e
il clero, ma che – come cercò di spiegarsi più avanti – era legato alla
sacralità stessa della morte, alla solitudine e all’abbandono che quella bara
gli aveva trasmesso.
Sempre avanzando lentamente si prese il tempo per guardarsi
attorno e quella chiesetta, a differenza di molte altre in cui era entrato, era
semplice, quasi spoglia, ma aveva la parvenza del focolare domestico: il
pavimento era di lastre di pietra, di legno le logore panche, mazzi e mazzolini
di fiori di campo adornavano un altare ricoperto da una tovaglia ricamata e
accuratamente rammendata in più punti. Sembrava che ogni fedele desse il proprio
contributo per rendere accogliente quelle che, a prima vista, sembravano solo
quattro mura grigie e spoglie.
L’unica nota stonata pareva proprio quella bara. Quasi come
fosse di troppo, come se non facesse parte di quella famiglia, ma si trovasse lì
per sbaglio. Come me, si disse il bardo.
E, come rispondendo a un richiamo, fece qualcosa che da molto
tempo non faceva: si inginocchiò davanti a quella bara – davanti a quel morto –
e pregò. E pianse, in quel modo silenzioso e ad occhi asciutti che confonde
sempre chiunque perché nessuno crede che si possa piangere così.
Non seppe quanto tempo passò inginocchiato, perso in un
discorso con Dio, la Madonna e loro Figlio, uno di quei discorsi senza capo né
coda, pieni di significato ma di cui non ci si ricorda nulla, se non quella
tenera consapevolezza di non essere stati da soli in quel momento.
Fu così che un frate lo sorprese. Vecchio, con una lunga
barba bianca, le mani deformate dall’artrosi e i piedi lividi e tumefatti nei
calzari. E gli aveva consegnato quel pezzetto di pergamena, avvolto in un foglio
di cuoio e legato con una cordicella.
“Ha chiesto di darlo al primo fedele che si fermasse a
pregare sulla sua bara,” aveva detto il francescano. “Non era di qui, sapete. E,
a quanto pare, è venuto a morire molto lontano da casa sua per affidare il suo
destino a uno sconosciuto caritatevole. Forse è proprio questo confidare nella
Divina Provvidenza.”
Il bardo aveva ascoltato il frate raccontargli di come
quell’uomo, né giovane né vecchio, era arrivato fin lì, stremato da una malattia
a cui non sapeva dare il nome, chiedendo solo di lasciarlo morire nella grazia
di Dio. Era stato accolto, lavato e nutrito, confessato e comunicato. Era
arrivato due giorni prima, verso mezzogiorno, ma poco prima del tramonto del
giorno successivo era spirato, subito dopo aver ricevuto l’estrema unzione. E
aveva lasciato a quei due frati che lo avevano accudito un gruzzoletto di monete
d’argento e di rame, chiedendo solo che accendessero due ceri ai lati della sua
bara e che la esponessero in chiesa finché non si fossero spenti.
“Evidentemente servivano a illuminare una via,” aveva
commentato il frate sereno. “Da questo villaggio non passano molti viandanti e
due stranieri in due giorni sono un evento. E sì, mio caro pellegrino,
ricordatevi sempre che l’uomo pone ma è Dio che dispone.”
E quel giorno qualcuno aveva davvero disposto della sua vita
senza chiedergli il permesso. Poche righe in una scrittura elegante su un foglio
di pergamena erano state il mezzo. Che il mandante fosse un defunto sconosciuto,
una preghiera o lo stesso Onnipotente ormai non faceva più molta differenza.
Un ringraziamento a tutti i lettori.
Stavolta ringrazio un po’ meglio i recensori (in rigoroso
ordine alfabetico!):
- Crilli: i tuoi commenti mi fanno morire dal ridere!
Sono felice che i miei nuovi personaggi ti appassionino tanto da amarli o
odiarli! E pensare che sono nati per caso…
- Damson: benvenuta! E grazie del bellissimo commento…
spero di essere all’altezza dei complimenti ricevuti…
- Giodan: benvenuto! Chino il capo per i complimenti…
- Jekka: grazie dei complimenti! Sono contenta che ti
piaccia questa rivisitazione. Che, in fondo, è una riflessione sul manga e
una trasposizione all’occidentale… sono troppo poco ferrata in Giappone e
dintorni per scriverne!
- Miriel67: anche io adoro il medioevo… anche se non sono
ferrata come te in fatto di storia! Grazie dei complimenti e della conferma
del fatto che, almeno in parte, riesco a rendere ciò che vorrei!
- Mikamey: chiedere scusa per il ritardo? Figurati! Sono
io che ringrazio per il commento a ogni singolo capitolo, per i complimenti…
e perché mi piace l’entusiasmo con cui li scrivi!
- Rosencrantz: grazie, grazie, grazie. I tuoi commenti, a
volte, mi hanno dato degli spunti che io stessa non avevo visto in ciò che
avevo scritto… quindi di nuovo: grazie!
- Sabinbam: considerando tutto il supporto che mi dai,
buona parte di questa opera è merito tuo… ma Shippo l’eroe del manga?!
Un ringraziamento anche a chi ha messo la storia fra i preferiti.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Di bambini, di testamenti e di terremoti ***
CAPITOLO 9
CAPITOLO 9
Di bambini, di testamenti e di terremoti
A WORD is
dead
When it is said,
Some say.
I say: it just
Begins to live
That day.
A word is dead, Emily Dickinson
Corinna si era rifugiata sotto le coperte, terrorizzata dai
lampi e dai tuoni. Era sempre stata convinta che durante i temporali potessero
succedere cose bruttissime, tipo che il cielo cadesse sulla terra, e questa
paura non le permetteva di dormire né di pensare ad altro. No, a lei i temporali
proprio non piacevano. Premeva le manine sulle orecchie per non sentire i tuoni
che continuavano a rimbombare nell’atmosfera cupa, ma era tutto inutile.
La vecchia le si avvicinò e le poggiò una mano sulla testa.
La bambina sussultò inizialmente a quel contatto per poi rilassarsi, contenta di
non essere da sola.
“Vieni fuori da lì sotto,” le disse la vecchia.
Il visino di Corinna sbucò da sotto le coperte, mentre le
lacrime minacciavano di uscire copiose quanto la pioggia da quegli occhi
spaventati.
“Da dove viene tanta paura, bambina mia?” Le chiese la
vecchia, come sempre, pronta ad ascoltare la stessa risposta per l’ennesima
volta.
Che però non venne.
“Anche quando c’erano gli spiriti c’erano temporali come
questi, nonna?” Chiese la piccola.
La vecchia sorrise, forse sentendosi un po’ in colpa per aver
contagiato la nipote con quella mania che da sempre l’aveva accompagnata. O
forse solo trovando conferma a un dubbio che la rodeva da tempo e al quale,
forse, non avrebbe mai dato una risposta.
“Certamente,” rispose, “ma non ne hai già avuto abbastanza di
storie stasera?”
La bambina scosse il capo in cenno di diniego, riemergendo
pian piano dalle coperte. “Vi siete interrotta proprio quando cominciava a
capitare qualcosa e poi ci mettete un sacco a raccontare con tutte le domande
che saltano fuori. E per ora il solo spirito di cui avete parlato è stato il
padre di Inuyasha che però è morto subito. E avete detto che ce n’era uno che
aveva protetto Inuyasha bambino e che gli faceva compagnia nelle notti di luna
nuova. Ma tutti gli altri? Perché ce ne erano anche degli altri, vero?”
“Oh sì che ce n’erano degli altri!” esclamò la vecchia
sorridendo, con gli occhi che brillavano di felicità, mentre la bambina le
saliva in braccio e si accoccolava, abbracciandola, con la testa sul suo seno.
“Erano molti, come gli umani. C’erano i piccoli fuochi fatui che si diceva
fossero la luce che accompagnava i morti nell’aldilà. Fiammelle allegre che ogni
tanto avevano il vizio di accompagnare anche i viandanti che giravano di notte
spaventandoli alla morte. In fondo non erano capaci di fare del male, ma la
paura è il peggior nemico dell’uomo.”
“Allora non dovrei avere paura dei temporali?” Chiese
Corinna, tremando per l’ennesimo tuono.
“No piccola mia, non dovresti. Non se la tua paura non è in
grado di far smettere di piovere,” mormorò la vecchia, alzando il viso della
fanciulla per guardarla negli occhi. “Eppure non sei sicuramente l’unica ad aver
paura dei piovaschi, dei lampi, dei tuoni, dei fulmini e delle saette. C’erano
anche spettri che li temevano, sai? Io sapevo di un cucciolo di volpe che coi
temporali aveva sempre avuto un pessimo rapporto.”
“E chi era?” chiese curiosa la bambina, pronta ad immergersi
in un nuovo racconto.
“Si chiamava Shippou e era un piccolo spettro volpe. Nulla si
sa della sua mamma, lui aveva sempre vissuto nella foresta con il papà. Gli
spettri volpe non avevano grandi poteri o capacità particolari: erano però
furbi, come l’animale di cui amavano prendere le sembianze. E dispettosi. E
purtroppo il papà di Shippou si creò due nemici che non fu in grado di
sconfiggere: Hiten e Manten erano i loro nomi e si presentavano come i signori
del lampo e del tuono.”
“Ma gli spettri non potevano trasformarsi solo nel loro
animale?” Chiese la bambina.
“No,” rispose dolcemente la vecchia. “Ogni spettro poteva
prendere le sembianze di una forma con spirito affine. La maggior parte di loro
trovavano questa somiglianza nel mondo animale, ma si potevano contare anche
numerosi spiriti in grado di diventare alberi o luce o vento. E questi due
fratelli che uccisero il papà del piccolo Shippou si trovavano a loro agio nelle
notti tempestose come questa. E quando la tempesta non c’era, loro erano in
grado di crearla.”
“Ed era per questo che anche Shippou aveva paura dei
temporali?” Chiese la piccola Corinna, alzando il faccino per guardare negli
occhi la nonna, mentre un lampo illuminava la piccola stanza, a breve
accompagnato dal fragore del tuono. Di nuovo la bambina rabbrividì e si strinse
alla nonna.
“E sì, bambina mia, proprio per questo,” riprese la vecchia,
abbracciando la nipotina. “Ma Shippou, benché fosse solo un piccoletto, aveva
grinta da vendere e aveva deciso di crescere in fretta e di diventare forte per
vendicare il suo papà e per smettere di nascondersi durante un temporale in una
tana qualsiasi, uggiolando di paura e dolore. Come la maggior parte degli
spettri, anche Shippou era molto orgoglioso e questa paura lo imbarazzava molto.
Si dà il caso che anche lui vivesse da queste parti, molto
tempo fa, e che la notizia del ritrovamento della Sfera dei Quattro Spiriti
giungesse anche a lui. Già,” sospirò la vecchia tristemente, “le cattive notizie
volano sempre troppo in fretta.”
“Ma allora anche Shippou fa parte della storia che state
raccontando!” Esclamò la bambina sorridendo.
“Te l’ho già detto, piccola mia,” rispose la nonna. “È da
quella storia che tutte le altre sono nate o forse è meglio dire che facciamo
tutti parte di unica grande storia di cui scriviamo un pezzetto, giorno dopo
giorno, ma che solo certi avvenimenti sono così grandi e importanti da diventare
leggenda.”
“Anche Shippou è diventato leggenda?” Chiese Corinna, curiosa
e anche orgogliosa che un bambino come lei – più o meno – potesse essere stato
così notevole.
“Diciamo che non fu il personaggio principale e che le sue
gesta non furono propriamente eroiche, ma rimase con gli altri sino alla fine,
fino al giorno in cui anche lui sparì e, come di tutti gli altri spettri, non se
ne ebbe più notizia.
Ma torniamo a Shippou, ai temporali e alla Sfera. Il piccolo
spettro credeva che avrebbe avuto vita facile a rubare la Sfera a Kagome: in
fondo era pur sempre un’umana! Provò a spaventare la ragazza con quei pochi
trucchi – che certo non mancavano di arguzia – che aveva imparato e forse
sarebbe anche riuscito nel suo intento se non si fosse messo in mezzo Inuyasha
che, una volta appurato che aveva a che fare solo con un bambino, lo prese a
sculacciate.”
“Poverino!” Fece Corinna, partecipe.
“In fondo si era comportato male, anche se gli intenti erano
buoni. E quindi meritava una piccola punizione, anche perché Kagome, da sempre
col cuore tenero, non avrebbe mai permesso a Inuyasha di far del male a un
bambino. Così Shippou non ottenne la Sfera, ma qualcosa di più: qualcosa di
molto simile a una famiglia.”
“Come io con voi, nonna?” Chiese Corinna, la voce impastata
per il sonno contro cui stava combattendo strenuamente per sentire un altro
pezzettino di storia. Lotta davvero terribile perché la bambina era già stremata
da quella che aveva combattuto contro la paura.
“Sì, Corinna,” rispose la vecchia. “E da allora Shippou fu
sempre accanto a Inuyasha e Kagome. Un fedele compagno di avventura.”
“E quindi Inuyasha e Kagome si erano sposati e poi lo avevano
adottato?” Volle sapere ancora la bambina, con gli occhi già chiusi.
“No, piccola, non si erano sposati. E non si erano neppure
fidanzati o dichiarati, se è per questo. Diciamo che presero a benvolere il
piccolo Shippou come un fratello più piccolo…”
“Ma poi gli è passata la paura dei temporali?” Interruppe
Corinna, prima di crollare completamente. Non poteva addormentarsi senza sapere
se quel cucciolo era riuscito nell’impresa.
“Sì bambina mia,” mormorò la vecchia, “fu Inuyasha a
vendicare il papà di Shippou in una strenua battaglia, combattuta proprio contro
i lampi e i tuoni. Una battaglia in cui tutti loro rischiarono di perdere la
vita. Ma tu, meglio di altri, dovresti sapere quanto sia grande l’amore di un
genitore. Fu proprio il papà della piccola volpe a comparire tra i lampi e a
difendere il suo bambino e Kagome che se ne stava prendendo cura, dando ad
Inuyasha la possibilità di lanciarsi nella lotta con più foga ed aver la meglio
su Hiten e Manten. Si dice che il temporale che aveva accompagnato tutta la
battaglia si dissipò in meno di un minuto e che da allora il piccolo Shippou
smise di aver paura dei temporali. Se questo successe perché dopo la pioggia
torna sempre il sereno o perché nel baluginare dei lampi aveva riconosciuto il
suo amato papà dovrai chiederlo a lui semmai dovessi incontrarlo.”
La bambina annuì sorridendo e la vecchia stese Corinna sotto
le coperte, finalmente serena e ormai dormiente.
Il bardo accese una candela che riempì di ombre la piccola
stanza. La sua mente andò da quella bara – no, da quel morto che non aveva
conosciuto – alla storia che la vecchia stava raccontando. E, per la prima
volta, si rese conto che quella storia gli stava fornendo degli indizi o,
addirittura, la chiave per interpretare quelle misteriose parole.
Andò a recuperare il piccolo pezzo di pergamena che giaceva
fra i suoi vestiti bagnati, lo tolse accuratamente dall’involucro di cuoio e si
sedette alla scrivania per esaminarlo, per l’ennesima volta.
La terra oscurò la luna quando il mondo perse il soffio vitale.
mentre uomini e spettri piangevano se stessi in chi moriva.
Si distrussero a vicenda coloro che non erano né l’uno né l’altro,
come un uomo che sopprime il suo spirito
o uno spirito che trucidi il proprio corpo.
Sono l’ultimo erede di una dinastia segnata
e la mia maledizione – infine – svanirà con me.
Ma tu, sconosciuto, che leggi queste righe,
abbi pietà di chi non compiuto il proprio destino.
Libera quelle anime che ancora combattono sotto l’occhio del Custode.
Riporta alla terra la vita che le fu rubata.
Lo lesse varie volte, iniziando finalmente a trovare un senso
in quelle parole. Un nodo gli si stava formando in gola assieme a uno strano
malessere nelle viscere.
Lo rilesse, ad alta voce, scandendo bene ogni parola, come
per imprimere nella propria mente ogni termine, ogni concetto derivante dai
singoli vocaboli, dalle frasi, dall’intero testamento.
La candela si spense improvvisamente, colpita da un refolo di
aria fredda che per un attimo invase la stanza.
Il bardo rabbrividì e il significato di quelle poche righe lo
colpì con la stessa intensità di un pugno nello stomaco. Senza far male, ma
lasciandolo senza fiato.
Tre figure erano sedute sull’erba, silenziose.
Uno di loro cambiava spesso posizione, incapace di stare
fermo e, nello stesso tempo, incapace di allontanarsi da quel luogo. Ogni tanto
annusava l’aria attorno a sé, staccava un po’ di erba da terra e la lasciava
cadere, auspicando che quel refolo che tutti avevano sentito la portasse in una
qualsiasi direzione. E, ogni volta più frustrato, la vedeva ricadere a terra,
ondeggiando graziosamente. Sperava solo di trovare un modo per ingannare
l’attesa, perché l’impazienza e la sensazione che a breve sarebbe successo
qualcosa lo stavano innervosendo. No, non era solo una questione di nervi: di
questo passo sarebbe potuto impazzire.
L’ultimo arrivato, visibilmente più giovane degli altri due,
ogni tanto sospirava, ora guardando il cielo, ora guardando i suoi compagni.
Aveva provato a instaurare una conversazione, ma in fondo pensava che nessuno
avesse veramente voglia di parlare. Di dare voce a dei pensieri che potevano
fare troppo male. Che potevano riaprire la mente a ricordi troppo belli per non
essere anche dolorosi. Eppure non poteva fare a meno di pensare a cosa sarebbe
successo se improvvisamente quel mondo si fosse aperto e lui fosse stato di
nuovo in grado di vedere quel mondo che aveva chiamato casa, correre per i
boschi che aveva conosciuto, godere del vento e della pioggia. Non pensava che
un giorno anche i temporali gli sarebbero mancati.
Il terzo era immobile. Nessuna emozione traspariva dal viso.
Se non fosse stato per il suo respiro regolare sarebbe potuto sembrare una
statua. Se non fosse stato per la sua semplice presenza, i suoi compagni
avrebbero potuto pensare che a lui non importasse nulla. Eppure era lì, con
loro. Non l’avrebbe mai ammesso, ma era contento di non essere da solo.
Improvvisamente, successe. Un refolo d’aria fredda, che fece
voltare il capo a tutti loro nella direzione da cui proveniva, portò un brivido
sulla loro pelle non più abituata ai cambiamenti di temperatura. E, come la
volta precedente, poche semplici parole nelle loro menti.
“Libera quelle anime che ancora combattono sotto l’occhio del Custode.
Riporta alla terra la vita che le fu rubata.”
Un rombo sordo, dalle viscere della terra stessa, e poi il
mondo si mise a tremare.
I tre scattarono in piedi, i muscoli tesi e i nervi a fior di
pelle. Erano stati dei guerrieri, predatori, poche volte si erano trasformati in
prede. Avevano affrontato pericoli e nemici durante le loro lunghe vite –
durante la precedente vita – ma questo era al di sopra anche delle loro
capacità.
Ma per ora quell’incubo – o era un sogno? – non si realizzò.
“Che cosa è stato?” Chiese Koga, non appena le gambe
ripresero stabilità.
“Un terremoto,” rispose Shippou, guardandosi i piedi, come
per essere sicuro che non si staccassero più da terra.
“E da quando capitano terremoti da queste parti?” Chiese Koga,
troppo scosso ancora per rendersi conto che ciò che stava aspettando era
arrivato.
“Da quando qualcuno, altrove, si è ricordato che esistiamo. O
ci hanno dimenticato del tutto.” Rispose Sesshomaru, sempre calmo e
imperturbabile, come se nulla fosse successo. Eppure i suoi occhi brillavano di
una fiamma nuova – o antica, non l’avrebbe saputo dire – che era difficile non
notare. Impossibile capire se fosse stato il terremoto, il refolo d’aria o
quelle poche parole a riaccenderla.
“Credi che si siano dimenticati di noi?” Chiese Shippou,
guardandosi attorno e notando come quel paesaggio piatto avesse subito segni
profondi: un lungo crepaccio si era aperto un centinaio di metri davanti a loro
e una specie di catena collinare era apparsa in lontananza, verso quello che una
volta avrebbe definito orizzonte. Eppure era stato solo un terremoto, pensò.
Forte, ma breve. Oppure no?
Sesshomaru non rispose, troppo preso dalle sue stesse
domande.
“Non credo,” rispose invece Koga al giovane spettro. “Se ci
avessero davvero dimenticati sarebbe difficile poi che qualcuno,
improvvisamente, ci ricordasse. Forse, piuttosto, i vari tasselli si stanno di
nuovo riunendo…” concluse pensieroso, lasciando sospese le ultime parole
nell’aria immobile che di nuovo li avvolgeva.
“Ma Kagome, Sango e Miroku non possono essersi scordati di
noi!” Insistette Shippou. “E nemmeno Inuyasha!”
Un fremito attraversò Sesshomaru come una scossa elettrica a
quell’ultimo nome, tanto palpabile che gli altri due si voltarono nella sua
direzione e lo osservarono per un lungo istante.
Quando distolse lo sguardo, Koga abbassò il capo e rispose:
“Credi che siano ancora vivi? Shippou, guardati: eri solo un cucciolo quando
arrivasti qui ed ora sei un giovane spettro. Per quanto noi tendiamo ad ignorare
il tempo gli umani non lo fanno e ne sono consumati. Davvero credi che siano
ancora vivi?”
Shippou, che pendeva dalle labbra di Koga durante quel
discorso, fu improvvisamente consapevole della portata delle sue parole. Chinò
il capo a sua volta e strinse i pugni, come per trovare il coraggio di negare
quell’evidenza, di trovare un’argomentazione più forte di quella di Koga.
Avrebbe voluto urlare che loro erano di là ad aspettarli, pronti a
riabbracciarli, ma non lo fece.
Koga si avvicinò e gli diede una pacca sulla spalla assieme a
un sorriso comprensivo. Shippou lo guardò, leggendo negli occhi dello spettro
lupo le sue stesse emozioni.
Solo Sesshomaru se ne stava in piedi, immobile, senza sfogare
i timori che condivideva con gli altri due, senza proferire parola. Solo
aspettando che le proprie emozioni si placassero e gli permettessero di
riprenderne il proprio controllo. Di ragionare a mente fredda. Di non lasciarsi
trasportare da una speranza che li avrebbe potuti portare in un mondo volubile e
rapido ai cambiamenti quanto gli umani che lo abitavano. O che li avrebbe potuti
liberare da quella prigionia nella maniera peggiore: distruggendoli.
Una nuova debole scossa acuì i loro sensi, ma non portò nulla
di nuovo.
Erano stati guerrieri in un altro tempo, in un altro mondo. E
avevano combattuto la più sanguinosa delle battaglie. Erano preparati ad
affrontare un nemico con la spada sguainata e lo sguardo fiero. Ma non erano
preparati ad affrontare quello che non conoscevano e che, soprattutto, non
dipendeva da loro.
La dissoluzione di un mondo non è mai cosa da poco.
Soprattutto quando non si ha la certezza che dall’altra parte
qualcuno sia disposto a riaprirti la porta.
Traduzione della poesia iniziale:
una parola è morta
quando viene pronunciata,
alcuni dicono.
Io dico: ella
comincia a vivere
proprio quel giorno.
Un ringraziamento a tutti i lettori.
Un ringraziamento particolare ai recensori:
- Crilli: hai il dono della preveggenza! In questo
capitolo è svelata la pergamena e sono apparsi i demoni…
- Giodan: Grazie! Il bardo è un personaggio di mia
invenzione… se ha legami con gli altri personaggi lo scoprirete nel tempo!
- Jekka: grazie, come al solito! Sei troppo buona… anche
io ho adorato il pezzo della chiesa. Mi è proprio piaciuto scriverlo oltre
che immaginarlo. Felice che questo AU, genere di cui tu sei maestra, sia di
tuo gradimento!
- Mel-Nutella: bentornata! Sono contentissima che tu
lasci una recensione, ma capisco quando il tempo è poco e si legge e basta.
Grazie di seguire questa fic e di tutti i complimenti che mi fai!
- Miriel67: magia? Addirittura? Stavolta sono io a
commuovermi…
- Mikamey: come vedi in questo capitolo almeno un mistero
è stato svelato. Sono contenta che questa storia susciti così tante domande…
andiamo avanti per trovare le risposte!
- Rosencrantz: grazie! Davvero, felice che ti piaccia e
anche che ti inquieti…
Un ringraziamento anche a chi ha messo la storia fra i
preferiti.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Di deduzioni, di desideri e di attese ***
CAPITOLO 10
CAPITOLO 10
Di deduzioni, di desideri e di attese
Il desiderio è metà della vita; l'indifferenza è già
metà della morte.
Aforismi, Gibran Kahalil
Il bardo riaccese la candela.
Fuori la pioggia continuava a cadere, instancabile, ma il
temporale sembrava aver sbollito la propria rabbia.
Il bardo si mise a frugare nella propria borsa da viaggio,
alla ricerca del suo prezioso taccuino ovvero un quaderno irrobustito da un
insieme di fogli volanti tenuti insieme da un laccio. Era lì che annotava gli
eventi degni di nota e le storie che non avrebbero dovuto essere dimenticate da
quando aveva ricevuto quella strana pergamena. Prima di quel momento si era
affidato sempre e solo alla memoria e all’orecchio.
Era riuscito a mettere insieme un buon numero di leggende
che, tuttavia, non gli avevano mai dato risposte soddisfacenti, troppo lontane
da qualsiasi realtà. A scoprire i fatti ci aveva rinunciato in partenza:
impossibile scoprire qualcosa quando i diretti interessati erano i primi a voler
nascondere il “misfatto”.
Non che lui avesse cognizione di causa su quale potesse
essere la maledizione in questione, poteva solo immaginare si trattasse di una
malattia, di una deformità o di una possessione demoniaca.
Quando aveva letto per la prima volta quella pergamena aveva
chiesto consiglio al vecchio frate. Ma questi si era limitato a farsi uno
scrupoloso segno della croce e a incitarlo alla preghiera per l’anima
dell’illustre sconosciuto che sicuramente stava scontando i peccati dei suoi avi
oltre che ai propri.
Come noi stiamo scontando lo stesso peccato di Adamo ed Eva,
si era detto ironicamente il bardo. Quello di essere uomini e donne.
Appoggiò delicatamente il suo diario di viaggio sul tavolino,
lo aprì e iniziò a sfogliarlo pagina per pagina, per trovare un indizio in una
delle tante storie che aveva raccolto nel suo vagabondare, indizio che mai prima
d’ora aveva trovato. E, come si aspettava, non ne uscì nulla di nuovo.
Arrivato a una pagina bianca lasciò il quaderno aperto, prese
penna, calamaio e carta assorbente dalla sua bisaccia, li dispose in ordine sul
tavolino e cominciò a vergare la pagina con la sua scrittura larga e fluente. Di
come gli spiriti lasciarono questo mondo, scrisse in alto a sinistra e la
sottolineò.
Si prese un attimo per rimettere ordine fra i suoi pensieri,
intinse la penna nell’inchiostro e iniziò a scrivere della storia di amore del
Generale e della mortale e delle vicende che portarono all’imprigionamento di
Inuyasha, il mezzo spettro. O il mezzo umano.
Preso dal ritmo della penna sulla carta si era dimenticato
della pergamena, assorbito in quella storia di cui si stava invaghendo, una
storia che avrebbe avuto l’onore di raccontare in altri tempi e in altri luoghi.
Una storia nel quale avrebbe potuto recitare una parte, pensò
folgorato, mentre il suo sguardo si appoggiava alla pergamena e i suoi occhi
leggevano la prima riga.
La terra oscurò la luna quando il mondo perse il soffio
vitale.
Tenebra e morte, si era detto innumerevoli volte. Un binomio
scontato e temuto. La terra oscura la luna durante un’eclissi, questo era
facile, fin qui c’era già arrivato. Come aveva dato per scontato che “perdere il
soffio vitale” significasse morire. “E da allora il mondo aveva cominciato
inesorabilmente ad invecchiare,” così aveva detto la vecchia.
Che avesse finalmente trovato la storia?
Soffio vitale, mormorò a bassa voce. Spirito forse? Che sia
questa la sua natura? Che sia lo spirito a rendere vive le creature? Ma il mondo
non è morto, vive ancora, si rispose il cantore. La vecchia a questo punto
direbbe che vive perché ha ancora anima e corpo, poco importa che io non
comprenda ciò che dice.
E così sembra che durante l’eclissi di luna di un tempo
imprecisato gli spiriti scomparvero. Non era quel che comunemente si dice
un’informazione precisa, ma era pur sempre un’informazione.
“Per loro non si coniò mai nessun nome che fosse
diverso da bastardi. Ed è proprio la storia di uno di loro che vi racconterò
perché indissolubilmente legata a quelle luci, a questo villaggio e alle notti
senza luna come questa.” Era così che la vecchia aveva cominciato il racconto.
Le notti senza luna, ripensò il bardo. Come quelle in cui
rinnova. O come quelle in cui la terra la oscura.
Una strana bramosia si impossessò di lui, come quel marinaio
che vede la terra all’orizzonte dopo lunghi mesi di navigazione e sogna di aver
già attraccato e di scrutare l’orizzonte per vedere solo il mare.
Ricominciò a leggere la pergamena, analizzandola riga per
riga, parola per parola, come aveva già fatto innumerevoli volte, ma con una
chiave – finalmente – per capirci qualcosa.
mentre uomini e spettri piangevano se stessi in chi moriva.
Perdite da ambo le parti, probabilmente, una battaglia o
anche solo un paio di omicidi. Così anche gli spettri sanno piangere, commentò
il bardo con un sorriso.
Si distrussero a vicenda coloro che non erano né l’uno né
l’altro,
Un’altra razza diversa da spiriti e umani? I mezzi spettri,
forse? Ma quanti ce ne erano a giro per potersi distruggere a vicenda? In fondo
ne sarebbero bastati solo due, si disse ancora il bardo, ricordando Inuyasha.
Poi c’erano state Kikyo e Kagome che erano umane. E Naraku che era… il bardo
alzò gli occhi come per trovare una risposta nella tremula fiamma della candela.
Naraku che era stato un uomo chiamato Onigumo. Era quindi diventato un mezzo
spettro quando aveva fatto il patto con il Diavolo? “Aveva venduto l’anima in
cambio del suo spirito.” Così aveva detto la vecchia. Suo di chi? Era forse
rimasto con un’anima umana e lo spirito di un Angelo Decaduto? Il bardo
socchiuse gli occhi e intrecciò le dita della mani su cui appoggiò il mento, per
concentrarsi meglio. La vecchia aveva detto qualcosa a questo proposito anche su
Inuyasha. Che dalla madre – umana – aveva ereditato l’anima.
In fin dei conti Naraku aveva ucciso Kikyo e Inuyasha poteva
aver reclamato vendetta. Ma avrebbe dovuto aspettare che il racconto della
vecchia continuasse, inutile perdersi in divagazioni campate in aria.
Con un moto di impazienza afferrò nuovamente la pergamena e
ricominciò a leggere.
come un uomo che sopprime il suo spirito
o uno spirito che trucidi il proprio corpo.
Questa frase per lui non voleva dire assolutamente nulla.
O si trattava di una metafora riempitiva o di nuovo qualcosa che non conosceva
gli stava giocando un brutto scherzo.
Sono l’ultimo erede di una dinastia segnata
e la mia maledizione – infine – svanirà con me.
Ecco che iniziava la parte autobiografica, se così si possono
definire due righe in cui l’autore non si preoccupa neppure di svelare il
proprio nome, mormorò il bardo fra sé e sé. Una famiglia con una maledizione… In
ogni luogo in cui si era passato aveva indagato discretamente su possibili
dinastie estinte portatrici di qualche malattia strana, fossero convulsioni,
morti inaspettate, follia, deformazioni fisiche… ma non era giunto a nulla. E
non se n’era neppure stupito.
Non era corretto stupirsene quando una donna in preda a una
crisi epilettica che non guariva immediatamente con l’acqua santa e la
benedizione era stata bruciata con l’accusa di essere una strega concubina di
Satana.
O quando i bambini venivano abbandonati alla ruota perché
deformi o, ancora peggio, rinchiusi in una cantina per nasconderli al mondo. Per
occultare la punizione che Dio aveva mandato in quella casa per i peccati
commessi.
Per non parlare poi dei folli, da sempre temuti ed
emarginati, invisi a Dio e agli uomini. Si diceva che una barca li raccogliesse
lungo le sponde dei fiumi, liberando i paesi e i loro abitanti dalla paura e dal
sospetto, e trasportasse quel cargo di rifiuti umani per i fiumi, fino al mare e
poi chissà dove.
No, non si era stupito di trovare poche informazioni battendo
quella via: nessuno era disposto a parlare di tragedie inspiegabili, men che
meno coloro che avrebbero voluto che fossero ricordate.
Ma tu, sconosciuto, che leggi queste righe,
Ecco che ora veniva chiamato in causa. Un sorriso arricciò le
sue labbra, come tutte le volte che passava dal quella riga.
abbi pietà di chi non compiuto il proprio destino.
E sii abbastanza caritatevole per compierlo al suo posto,
aggiunse il bardo mentalmente. Ma senza la nota di amara ironia che era solito
riservarsi.
Libera quelle anime che ancora combattono sotto l’occhio del Custode.
Riporta alla terra la vita che le fu rubata.
Se i presupposti erano corretti, il significato dell’ultima
frase diventava lampante: liberare gli spettri. Non era altrettanto chiaro come
farlo e, soprattutto, se fosse la cosa giusta da fare. Sorrise pensando a
Corinna e al suo sogno di incontrare uno spettro prima o poi.
Non aveva invece la minima idea su cosa volesse dire la frase
precedente. Anime in pena e un Custode. Gli unici che si auto-dichiaravano
custodi di anime, per quanto lui ne sapesse, erano preti e frati, ma non aveva
la benché minima intenzione di andare a disquisire con costoro dei significati
che secondo lui erano celati in quelle righe. L’aveva già letta al frate che
gliela aveva consegnata e questi non gli era stato di aiuto.
Pensò di rivolgersi alla vecchia narratrice: lei forse
avrebbe potuto aiutarlo. Lei conosceva bene la storia che gli aveva permesso di
decifrare il messaggio in parte e avrebbe potuto colmare i vuoti che rimanevano.
O era lui che, condizionato da quella stessa storia, stava imbevendo di
significati inesistenti l’ultimo delirio di un vagabondo?
Il bardo si passo una mano sul viso, come per cancellare i
vari pensieri che gli passavano davanti agli occhi.
Quanti significati nuovi potevano apparire da poche righe.
Mai come allora gli parevano così chiare eppure così criptiche.
“Devo farmi la barba domattina,” pensò e decise di andare a
dormire.
I tre spettri si erano nuovamente separati.
Koga era stato il primo ad andarsene: per quanto il passato
lo legasse indissolubilmente agli altri due, lui aveva un branco a cui pensare,
compagni di cui prendersi cura, da guidare anche senza una meta.
Correva, il giovane capo, beandosi dell’aria che gli sfiorava
il viso. Non tirava il vento in quel mondo e solo correndo poteva sentire l’aria
solleticargli la pelle, solo correndo poteva dimenticarsi che tutto attorno era
immobile, perché lui non lo era e i suoi occhi da corridore continuavano a
vedere un paesaggio in movimento, un paesaggio che assecondava il ritmo della
sua corsa, il turbinio dei suoi stessi pensieri.
Ripensò a quel mondo in cui la brezza lo accarezzava anche
quando stava disteso a contemplare le stelle, in cui il sole mostrava la forma e
la luna l’essenza. Ripensò a quanto era bello assumere la forma del lupo e
ululare all’astro d’argento, correre e rotolarsi sull’erba coi propri compagni,
sentire la libertà scorrerti dentro come fosse il tuo stesso sangue, necessaria
e inarrestabile. Adesso era solo una favola che, ogni tanto, qualcuno raccontava
ai cuccioli.
A essere sinceri non erano cambiate poi tante cose da quando
erano arrivati. Non c’era vento e lui correva anche quando non importava. Non
c’era la luna, vero, e a volte lui stesso si chiedeva cosa stesse effettivamente
vedendo in quella luce pallida e fredda. Ma il branco c’era ancora e aveva
bisogno di lui. Avevano immense praterie per correre e giocare e cacciare,
avevano rifugi sicuri in cui crescere i piccoli e venerare gli anziani. Il
branco lo aveva salvato, si diceva spesso. La sua essenza di lupo e di capo lo
avevano costretto a porre il branco prima di se stesso, prima dei suoi desideri.
Prima dei sogni e prima degli incubi.
Forse era per questo che un giorno, molto tempo dopo l’inizio
della prigionia, aveva smesso di pensare al passato con un ombra nel cuore, di
rimpiangere ciò che non era stato e che mai – credeva allora – sarebbe potuto
essere.
Quando aveva guardato negli occhi la sua compagna aveva
capito che l’impetuoso e arrogante spettro lupo era rimasto in un altro mondo,
trattenuto da coloro che lo avevano aiutato a svestirsi della sua sfrontata
gioventù. Un’umana che era stata il suo primo amore, fatto di sogni e illusioni,
un rivale che sarebbe potuto essere un amico e un avversario che non si era
premurato di conoscere abbastanza per poterlo affrontare.
Ora era rimasto solo il capo, per il quale il bene del branco
era anche il proprio. E per quanto desiderasse tornare in quel mondo colorato
temeva di ritrovare anche quello che non avrebbe dovuto.
Koga rallentò, fino a smettere di correre per riprendere il
passo. Il branco non era lontano e lui non aveva poi così fretta di arrivare:
aveva bisogno di riflettere con calma.
Shippou era stato il secondo ad andarsene. Il timore
reverenziale per Sesshomaru che lo aveva accompagnato durante tutta la sua
infanzia non accennava a passare e, sebbene da molto tempo avesse imparato a non
considerarlo un nemico, non era mai riuscito a instaurare con lui un rapporto al
di là della fredda cortesia.
Il giovane spettro si era allontanato con la scusa di andare
a cercare il consiglio di Totosai e Myoga, i due venerabili spettri con cui
aveva vissuto quando erano stati catapultati in questa realtà e che ormai aveva
adottato come nonni. Le parole di Koga ancora risuonavano nella sua mente e non
era più sicuro che avrebbe voluto rivedere quel mondo se non c’era nessuno di
coloro che aveva amato ad aspettarlo. Forse avrebbe potuto trovare i loro
discendenti, ma non sarebbe stata la stessa cosa. Forse avrebbe potuto trovare
altre persone, ma poi avrebbe perso anche loro.
“Sei troppo giovane per fare i conti con la tua immortalità,”
gli aveva spesso detto il vecchio Myoga. “Credo che sia giunto il momento,”
aggiunse fra sé il giovane Shippou, alzando lo sguardo con rinnovata fierezza e
stringendo nel pugno tutta la determinazione che riuscì a mettere insieme.
Sesshomaru non si era mosso. Si era nuovamente seduto, lo
sguardo perso verso un orizzonte troppo lontano per essere visto, mentre
accarezzava distrattamente la spada appoggiata di traverso sulle sue gambe.
Eppure tutto il suo essere era teso, pronto a scattare al minimo segnale, pronto
alla battaglia, pronto a ritornare a quel mondo, al suo mondo.
Anche se non si era mai preoccupato di misurare il tempo
sapeva che era da troppo che attendeva. Lui non aveva un branco e non se ne
preoccupava, nessuno lo attendeva dall’altra parte e non gli importava: la
solitudine per lui non era mai stata un peso.
Aveva fatto i conti con la morte quando suo padre non era
tornato, quando la guerra aveva falciato nemici e amici, spettri e umani che
fossero.
Aveva fatto i conti con l’immortalità quando aveva realizzato
che assieme a lui erano sopravvissuti i ricordi: di un guerriero che avrebbe
voluto eguagliare, di una bambina sorridente e ciarliera, di un mezzo spettro
dagli occhi gialli come i suoi.
Di un compito che solo lui poteva portare a termine. Perché
era l’unico a essere rimasto.
Con una mano si spostò una ciocca di capelli sul viso e alzò
lo sguardo verso quel cielo grigio e senza nuvole. Aspettando una folata di aria
fresca. Aspettando il momento per alzarsi e tornare.
Un ringraziamento a tutti i lettori.
Un ringraziamento particolare ai recensori:
- Crilli: ebbene sì, arrivano i demoni. Che in questa
storia ho chiamato spettri o spiriti per coerenza alla nostra cultura
occidentale che assimila la parola “demoni” a Lucifero e all’Inferno
cristiano. Le deduzioni del bardo sono un po’ diverse dalle tue, ma sono
frutto di ciò che lui conosce… vedremo quali saranno quelle corrette!
- Jekka: Tutti questi complimenti mi fanno arrossire,
davvero. Spero di esserne all’altezza!
- Mikamey: grazie dei complimenti… ecco un altro pezzetto
di riflessione… e la prossima volta continuiamo con la storia…
- Miriel67: e sì, adesso sono io che mi commuovo…
- Rosencrantz: e dopo la svolta, la notte porta
consiglio! Il tuo commento mi ha fatto notare quanto abbia attinto dalla
Storia Infinita… e non me n’ero neppure accorta! Grazie anche a te dei
complimenti!
- Sabinbam: “e allora virgola ce la vedremo…
Mi fate veramente felice!
Un ringraziamento anche a chi ha messo la storia fra i
preferiti.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** Di passato, di potere e di libertà ***
CAPITOLO 11
Di passato, di potere e di libertà
Peregrinatio notitiam dabit gentium,novas tibi montium formas
ostendet, invisitata spatia camporum et inriguasperennibus aquis valles […]:ceterum
neque meliorem faciet neque saniorem. Inter studia versandumest et inter
auctores sapientiae ut quaesita discamus, nondum inventa quaeramus;sic eximendus
animus ex miserrima servitute in libertatem adseritur. Quamdiuquidem nescieris
quid fugiendum, quid petendum, quid necessarium, quidsupervacuum, quid iustum,
quid iniustum, quid honestum, quid inhonestumsit, non erit hoc peregrinari sed
errare.*
Seneca, lettere a Lucilio
“E fu mattina e fu di nuovo sera,” citò il bardo a modo suo,
avvicinandosi con calma alla solita aia.
Aveva passato la giornata in ozio, passeggiando fra i
sentieri alla ricerca di un luogo tranquillo dove mettere un po’ di ordine fra i
suoi pensieri. Non era stato difficile: aveva trovato splendidi pascoli ed
ombrose radure, e l’unica premura era stata prendere mentalmente nota di qualche
riferimento per non perdersi.
Era da tempo che non si trastullava in quella bucolica
tranquillità fatta di tante sfumature di verde, che non si fermava semplicemente
a osservare, che non si isolava dagli uomini, che non ascoltava quell’insieme di
suoni che chiamiamo silenzio. Gli faceva uno strano effetto. La fiera era finita
e lui non si esibiva più quotidianamente in piazza o nella taverna. Magari
avrebbe cantato qualche ballata nella mattina di mercato, quando ci sarebbe
stata più gente in giro, giusto per raggranellare qualche spicciolo. Pur non
essendo ricco, aveva abbastanza denaro in tasca per vivere per un po’ senza
lavorare, ma avrebbe dovuto trovarsi qualcosa da fare se avesse prolungato
troppo la sua permanenza. Per ora preferiva non pensarci, ma non aveva neppure
voglia di fare i conti con la borsa e la pancia vuote.
Ripensò a quella prima chiacchierata con Ezechiele, il
contadino che non vedeva altra vita per sé che non quella dei propri padri e si
chiese quanto profonde possano essere le radici di una persona in un pezzo di
terra e, soprattutto, di cosa fossero fatte. Affetto? Fedeltà? Non sapeva
rispondere. Aveva preferito dimenticare il tempo in cui credeva di appartenere a
un luogo, a delle persone, perché aveva scelto altrimenti: se ne era andato e la
strada era diventata la sua casa. Ma di strade al mondo ce ne sono troppe e non
si può mettere una radice in ognuna di esse, pena disperdersi nel vento.
E ancora, sul calar della sera, quella sorta di richiamo
della natura che aveva ascoltato durante il giorno non accennava ad
abbandonarlo: camminava più lentamente del solito, senza guardare dove metteva i
piedi, attratto da particolari su cui prima non si era soffermato. Il temporale
della notte precedente aveva rinfrescato l’aria e sembrava aver lavato cielo e
terra: mai aveva visto un tramonto dai colori così brillanti, tanto che si
incantò a guardarlo, sognando ad occhi aperti.
Quella sera fu l’ultimo ad arrivare nella cerchia degli
ascoltatori.
“Benvenuto cantore,” disse la vecchia quando questi comparve.
“Aspettavamo solo voi per continuare la nostra vicenda.”
Il bardo rispose al saluto con un piccolo inchino e un largo
sorriso: “i vostri paesaggi hanno incantato i miei occhi e rallentato i miei
passi. Ma ora sono pronto ad ascoltare la vostra storia, signora.” E con questo
andò ad occupare il suo solito posto, sotto il ciliegio.
“Evviva!” Esclamò Corinna. “Finalmente si comincia! Eravamo
arrivati a quando Kagome e Inuyasha si incontrano per la seconda volta.”
“Sì, bambina,” cominciò la vecchia. “Ma Inuyasha non incontrò
solo Kagome in quei giorni: Kaede, la vecchia suora, andò a cercarlo. Testimone
di tutti quegli incontri fu il Grande Albero, che avrebbe potuto raccontare una
storia molto più bella di questa se solo sapesse parlare. E invece dobbiamo
accontentarci della mia.
Kaede, che aveva imparato la saggezza alla dura scuola della
vita e che non aveva mai compreso come due persone innamorate avessero un giorno
deciso di darsi la morte a vicenda, andò a cercare Inuyasha. Non aveva mai
provato particolare amicizia nei suoi confronti quando era bambina, ma ricordava
come la sorella fosse stata felice con lui, come – in quel breve periodo – il
suo viso fosse stato illuminato da una luce diversa. Quando poi era cresciuta si
era resa conto che, forse, solo nei giorni che aveva trascorso assieme ad
Inuyasha, Kikyo era stata una normale ragazza della sua età e non solo una
sacerdotessa.
Kagome, che già frequentava normalmente il convento per
imparare a cucire e a ricamare, era stata a trovarla più spesso del solito e le
aveva raccontato dei suoi incontri con il burbero mezzo spettro. Già Kaede aveva
intravisto un sentimento, in quella fanciulla, che andava al di là della
semplice carità cristiana e non voleva che le fosse riservata la stessa sorte
della sorella. Anche se ne intravedeva quella strana somiglianza che solo in
seguito le divenne chiara.
Un giorno, all’alba, dopo le prime preghiere, armata della
sua fede e di buone intenzioni, uscì dal convento e si diresse alla radura. Lì
stava Inuyasha, nascosto fra i rami, e si palesò solo quando riconobbe nella
suora la bambina che aveva conosciuto. Forse quella fu la prima volta in cui si
rese conto del tempo passato, dei cambiamenti che erano avvenuti in quegli anni
in cui la vita lo aveva accarezzato senza scorrergli dentro.
Kaede parlò e gli raccontò della morte di Kikyo, del corpo
straziato della sorella ai piedi di quello stesso albero che diventò la sua
tomba. E gli raccontò di averla vista, pochi giorni prima, un fantasma dal mondo
dei morti che chiedeva solo vendetta.
E questo regalò a Inuyasha sentimenti contrastanti: non aveva
dimenticato che era stata proprio Kikyo a imprigionarlo, ma l’idea di una
seconda possibilità con la donna che amava gli accese un barlume di antica
speranza, nonostante Kaede cercasse di distoglierlo da tale idea.
Nella vecchia suora i dubbi non fecero che aumentare: Kikyo
le aveva detto che era stato Inuyasha ad ucciderla, mentre Inuyasha negava tale
colpa con foga e con occhi sinceri. E terribilmente addolorati, perché mai
avrebbe creduto che la sua amata Kikyo lo potesse considerare capace di
ucciderla per arrivare alla Sfera. E Kaede gli credette, quando, rivivendo
attimo per attimo i tristi eventi di cinquanta anni prima, Inuyasha le fece
notare che nessun artiglio ornava le sue dita nelle notti di luna nuova, quando
il suo potere si assopiva e di lui rimaneva soltanto l’uomo.
Fu allora che entrambi sospettarono un inganno e alla saggia
suora non ci volle molto per mettere in relazione quel sospetto allo strano
crollo della grotta che era stato il rifugio del brigante Onigumo e che aveva
lasciato dietro di sé un’aura di grande potere.
Fu così che Inuyasha trovò una preziosa alleata.
Ma da quel momento il suo chiodo fisso divenne la ricerca di
Kikyo: voleva parlarle, voleva dirle che non l’avrebbe mai tradita, che se lei
lo avesse voluto sarebbe stata ancora al suo fianco. Era disposto anche a
seguirla nella morte, come lei aveva fatto con lui, preferendo morire piuttosto
che usare la Sfera dei Quattro Spiriti per guarire e vivere.”
“E Kagome?” Chiese Corinna che aveva preso in simpatia quella
ragazza che non aveva nulla di particolare se non il caso di essere stata
coinvolta in una storia più grande di lei.
La vecchia ridacchiò. “Questa non è ancora la storia di
Kagome, anche se lo diventerà a breve, colei che all’insaputa di tutti portava
la stessa anima di Kikyo. E che nonostante il palese interesse che provava per
Inuyasha si era appassionata proprio come te, Corinna, alla storia dei due
amanti infelici che Kaede le aveva raccontato. Tanto che forse sarebbe persino
giunta ad aiutarli se non fosse rimasta sconvolta da un episodio: ebbe modo di
testimoniare il primo incontro di Inuyasha e Kikyo e quello che vide non le
piacque per nulla.
Arrivò nell’ora che precede il tramonto, sotto il Grande
Albero e vide delle piccole luci vagare nell’aria, fiammelle di candele si
sarebbe potuto dire, ma non c’era nessuna mano a sorreggerle. Erano fuochi
fatui, gli spiritelli che devono mostrare ai morti la via per l’Aldilà, lunga o
breve che sia. E in mezzo a loro ecco Kikyo e Inuyasha, vicini,
abbracciati e circondati da un vento freddo che li isolava dal resto del mondo.
Kagome udì i loro sussurri: Kikyo che chiedeva ad Inuyasha di
seguirla nel Mondo dei Morti, per trascorrere insieme l’eternità e Inuyasha che
accettava, di buon grado, come ipnotizzato davanti alla sacerdotessa dagli occhi
vacui, che le dichiarava una volta di più il suo amore.”
“Ma non è giusto!” Esclamò Corinna. “Non può farlo morire
solo perché lei è già morta! È solo un’egoista.”
“Direi che è la stessa cosa che si mise a urlare Kagome,
parola più, parola meno,” commentò la narratrice. “Ma Inuyasha non diede segno
né di vederla né sentirla, mentre Kikyo la osservò a lungo e Kagome avrebbe
giurato di aver visto un sorriso su quel viso malizioso, prima che la
sacerdotessa chiudesse gli occhi e sfiorasse con le proprie labbra quelle del
mezzo spettro.”
“Questi particolari non sono adatti alle orecchie dei
bambini,” osservò severamente una delle donne presenti. “Dobbiamo mandarli tutti
a letto o evitiamo certe oscenità?”
La vecchia ridacchiò. “Scusatemi, mi sono lasciata prendere
la mano dalla narrazione.”
“Non ci manderete a letto, vero nonna?” Chiese Corinna,
preoccupata della minaccia, mentre gli altri bambini – al pari – rimanevano col
fiato sospeso.
“No, piccoli, state tranquilli,” li rassicurò la vecchia.
“Per ora non c’è nulla che non possiate sentire quindi rimettevi seduti e, da
bravi, continuate ad ascoltare.
Kagome era davvero disperata: forse ancora non sapeva dare il
nome alla gelosia, ma in quel momento una rabbia bruciante la stava pervadendo.
E forse fu proprio per quello che, senza sapere come, attivò il potere della
Sfera.”
“Kaede aveva lasciato un oggetto così potente nelle mani di
una ragazzina?” Chiese il bardo stupito.
“Sì, cantore,” rispose la vecchia. “E per una volta condivido
le vostre stesse perplessità. Forse Kaede ci vide lo zampino del fato nel
ritrovamento della Sfera da parte di Kagome e non volle metterci anche il
proprio. Fatto sta che quel monile rimase a Kagome e che quel giorno mostrò il
suo potere: liberò Inuyasha dalla gabbia di vento e fuochi fatui e lo svegliò
dall’illusione in cui stava cadendo. Che questa fosse poi stata creata da Kikyo
o dall’amore stesso credo che nessuno possa saperlo. Si dice solo che Kikyo,
prima di andarsene, terrorizzata e indebolita dal potere di cui era stata
custode, mormorò che il suo bacio era stato vero, lasciando Inuyasha ancora più
confuso di prima. E lui stesso se ne andò lasciando Kagome sola con un potere
che non sapeva di avere e che non sapeva come controllare.”
E così si sono lasciati sfuggire il momento buono per rubarle
la Sfera, pensò il bardo tra sé e sé. Certo che quando ci si trova a discutere
faccia a faccia con Amore e Morte è difficile mantenere la razionalità. I
fantasmi sono come i ricordi, aggiunse il bardo, portando i suoi pensieri su
Kikyo e Inuyasha. Come i rimpianti e i rimorsi. Te li puoi anche dimenticare, ma
quando hai davanti qualcosa che continua a rammentarteli, a renderli vivi, è
impossibile. Come pretendere che una ferita si cicatrizzi pur continuando a
riaprirla. Come dichiarare di non amare qualcuno e scappare pur di non vedere
più il suo il volto.
“Ma allora Kikyo era solo una strega brutta e cattiva!”
Esclamò Corinna indignata.
“Così potrebbe apparire,” rispose il bardo con un sorriso
malinconico e lo sguardo perso nell’orizzonte violaceo. “Ma voglio chiedervi di
sforzarvi e di pensare a lei come a una donna innamorata, tradita e assassinata.
Che aveva rinunciato a vivere nel momento in cui aveva sperimentato un dolore
insopportabile, quando col potere della Sfera – forse – avrebbe potuto vivere.
Un legame contro natura l’aveva poi riportata a questo mondo, un mondo in cui
lei non aveva nessun futuro, nessuna seconda possibilità. Davanti a sé solo la
vendetta e un tempo ignoto per ottenerla. Chiedendo a Inuyasha di seguirla in
eterno voleva scacciare la stessa solitudine che già in vita l’aveva afflitta e
nello stesso tempo voleva che lui seguisse il suo destino di rinuncia, un
destino senza speranza, senza nuovi incontri, senza nuovi amori. Può sembrare
crudele, ve ne do atto, ma il destino di Kikyo era stato crudele e lei non aveva
più possibilità di cambiarlo.”
La vecchia annuì soddisfatta alle parole del cantore e
riprese la sua storia: “Ma usando la Sfera Kagome attirò sul villaggio una
disgrazia molto più grande: Naraku ne sentì il potere e si mise sulle loro
tracce.
Era cambiato molto in quei cinquanta anni, lasciandosi sempre
più alle spalle il bandito Onigumo – o almeno questo credeva – per diventare un
raffinato conoscitore dell’uomo e delle sue scoperte. Era solito indossare vesti
da monaco, di un rosso scarlatto, e dicono che fosse diventato colto, istruito
nelle lettere nelle biblioteche dei monasteri, nelle arti nelle botteghe di
pittori e scultori, nella scienza nei laboratori degli alchimisti. Eppure era
sempre accompagnato da una strana irrequietezza che non gli permetteva di
fermarsi a lungo in un determinato luogo, che non gli permetteva di godere delle
conoscenze che si procurava perché sapeva che oltre quei limiti umani c’erano
altre cose più grandi, degne di essere raggiunte. Aveva ottenuto quello che ogni
uomo di scienza brama: la curiosità e la fantasia degli uomini e tutto il tempo
necessario per saziare entrambe.
Funesto fu il suo incontro con gli spiriti, esseri
incomprensibili per noi umani, proprio come noi lo siamo per loro. Esseri strani
gli spiriti, che si ritengono superiori agli uomini solo perché trovano ridicoli
i nostri limiti, la nostra mortalità, i nostri sentimenti. Esseri strani che
preferiscono ridere dei nostri limiti per non confrontarsi coi propri.”
“E quali sarebbero i limiti degli spiriti?” Chiese il bardo
ironico. “Che limiti ha una creatura che non muore e che non prova sentimenti?
Che limiti ha il vento?”
“Li avete appena elencati, cantore,” mormorò la vecchia
sorridendo. “Pensate forse che non siano limiti? Il vento, voi dite. E
probabilmente pensate che il vento sia libero come da sempre recitano i poeti.
Eppure per essere liberi bisogna essere affrancati da qualcosa, da un legame, da
un vincolo. Essere costretti alla libertà è la negazione stessa della libertà.
Senza radici un albero non è libero: è morto.”
“Quindi l’immortalità e il distacco sarebbero limiti? Eppure
conosco molte persone che sarebbero disposte a barattare i propri pur di
ottenere quelli,” rispose il bardo sorridendo.
“Chi lascia la strada vecchia per la nuova sa cosa perde ma
non sa cosa trova,” commentò Ezechiele per stemperare la tensione che si stava
accumulando. Lui non ne sapeva di filosofia e per lui il vento portava il freddo
o il caldo, l’umido o il secco e basta. Non erano gli spiriti ad essere strani
per lui: erano quei discorsi che non capiva e ancora meno riusciva a comprendere
coloro che si accapigliavano per aver ragione di cose senza senso come quelle.
“Ascoltate la storia di Naraku e raccontatela ai vostri
amici; poi venitemi a dire se ancora avrebbero voglia di cambiare la loro
condizione.” Sentenziò la vecchia, irritata.
Il bardo avrebbe voluto controbattere di nuovo, ma si
trattenne imponendosi di ascoltare prima di giudicare. Serrò le labbra e annuì
alla narratrice che riprese il suo racconto.
“Come stavo dicendo, l’incontro di Naraku con gli spettri
ebbe un esito fatale, anche se ad esso non si possono dare tutte le colpe: aveva
pur sempre fatto un patto col Demonio e aveva venduto la propria anima. Si era
precluso il cammino verso la felicità con le proprie mani, nel momento in cui
aprì quello verso la grandezza. Un fine a cui tendere che prese significato
quando si avvicinò agli spiriti maggiori – i più potenti – e vide in loro quello
che avrebbe voluto diventare. Fu così che iniziò a disprezzare gli umani e poi,
un giorno, iniziò a disprezzare anche gli spettri. Credeva che il superamento
della sua natura ibrida l’avrebbe portato a essere migliore di entrambi e invece
aveva trovato solo un altro nome per il disprezzo verso se stesso.
Certo è che Naraku sapeva usare bene le parole e il potere e
molti furono quelli che lo seguirono spontaneamente – sia uomini che spettri – ,
ignare pedine nelle mani di un abile giocatore.
Negli anni che aveva passato a studiare le opere umane si era
interessato molto della Sfera dei Quattro Spiriti: sapeva che era un oggetto
capace di grande potere, in grado di realizzare qualunque desiderio tranne
quello che l’avrebbe distrutta.”
“E quale sarebbe tale desiderio?” Volle sapere il bardo.
La vecchia sorrise, sorniona: “Dicono che debba ancora essere
espresso, mio caro cantore. E dicono anche che ci voglia molto coraggio per
esprimerlo. Voi ce l’avreste?”
Il bardo non rispose. Perché si vergognava della sua
risposta: no, sapeva che non avrebbe avuto il coraggio di distruggere quello che
avrebbe potuto dargli tutto. Anche se c’era sempre un trucco dietro queste
facili conquiste, un cambio che mai favoriva il sognatore. E sorrise rammentando
la storia di quei tre fratelli che avevano ottenuto una tovaglia che imbandiva
un banchetto, un ciuco che cacava zecchini d’oro e un mattarello che dava botte
da orbi. E il sorriso si allargò pensando che l’unico che aveva fatto fortuna
era stato proprio quello del mattarello, mentre i due fratelli maggiori si erano
fatti fregare dalla loro stessa fortuna.
Fu riscosso dai suoi pensieri proprio da Mario che chiedeva:
“Ma poteva esaudire proprio tutti i desideri? Senza dover pagare nulla?”
La vecchia si voltò verso il bambino: “C’è sempre un prezzo
da pagare. Solo che non sempre si paga in denaro e non sempre viene richiesto
all’istante. Ma questo non significa che non ci fosse. Ma se mi steste ad
ascoltare senza interrompermi ogni cinque minuti sareste molto più vicini a
trovare le risposte che cercate.”
“Quindi dovremo aspettare anche per sapere quale fosse tale
prezzo, immagino,” commentò il bardo.
La vecchia lo guardò per un momento, prima di riprendere il
racconto: “Fatemi riprendere il filo. Dunque, quando Kagome utilizzò la Sfera
senza neppure saperlo, un grande potere si sprigionò e Naraku, sempre all’erta,
lo percepì. E come lui anche molte altre creature lo sentirono. Questo potere
mise in fuga Kikyo, ancora disorientata e sicuramente spaventata dalla
possibilità di perdere quel barlume di vita che le permetteva di camminare tra i
vivi. È strano come lei, che era stata una sacerdotessa che dalle forze della
natura traeva i propri poteri, non si rendesse conto di quanto innaturale fosse
questo nuovo legame con la vita. Ma si sa che i paradossi fanno parte della
natura umana.
E tanto potere spaventò anche Kagome che non sapeva di
possederlo né sapeva come controllarlo. E si ritrovò ad essere un bersaglio
ambito. Inuyasha, che inizialmente aveva seguito Kikyo, quando percepì la
presenza di altri spiriti tornò lesto al Grande Albero dove Kagome, ancora si
trovava.
Perché lui fu il primo – vero – nemico di Kagome: mai il
mezzo spettro si era visto così vicino a realizzare il suo sogno di essere uno
spettro intero. Tentò di sottrarre alla fanciulla il gioiello, prima con le
minacce e poi con la forza, ma a nulla servirono: una protezione impalpabile
aleggiava su Kagome che Inuyasha non riuscì a penetrare in nessuna maniera.”
“Il rosario benedetto della suora!” Commentò Carmela, la
stessa che aveva sottolineato come regalare rosari portasse sfortuna.
“Pare che fosse anche una benedizione piuttosto potente, che
impedì a Inuyasha di rubare la sfera e di fare del male alla fanciulla, ma pur
di non lasciare che la Sfera cadesse in altre mani, vegliò su Kagome come un
Angelo Custode. E fu così che la difese da molti attacchi, compreso quello
dell’essere più innocuo che avrebbe potuto incontrare.”
“Shippou!” Esclamò Corinna felice.
“Esatto, proprio lui: un cucciolo di demone volpe che voleva
la Sfera per vendicare la morte del padre avvenuta per mano di altri due
spettri. Non ottenne il gioiello maledetto, ma ottenne la sua vendetta per mano
di Inuyasha. E da allora seguì Kagome e il mezzo spettro in tutte le loro
avventure.”
“E tu come facevi già a conoscerlo?” Chiese il bardo alla
bambina.
Corinna si strinse nelle spalle e sorrise, imbarazzata. “Se
volete vi racconterò la storia per intero uno di questi giorni,” propose.
“Lo prendo per una promessa,” rispose il bardo.
“È buffo come parliate diversamente di Naraku e di Inuyasha,”
commentò il bardo. “Erano entrambi mezzi spettri e entrambi volevano la sfera
eppure sembra che vogliate scusare Inuyasha per questo suo desiderio mentre è
palese il tono d’accusa quando parlate di Naraku. Perché? Possibile che sia solo
perché Inuyasha era nato mezzo spettro mentre Naraku lo era diventato?”
La vecchia sorrise, socchiudendo gli occhi, come per
prendersi un attimo per riflettere senza che gli altri se ne accorgessero. “E vi
sembra poco? Tutto quello che Naraku ha fatto, e prima di lui Onigumo, è stato
il frutto di libere scelte. Davanti a lui non c’erano strade tracciate dal
pregiudizio di uomini o spettri: quando Naraku ha scelto di essere mezzo spettro
sapeva a cosa sarebbe andato incontro e ha percorso quella via fino alla fine.”
“Dopo tutto quello che avete detto sulla stupidità di chi
invidia gli spettri, siete davvero convinta che Onigumo sapesse da principio in
che guaio si sarebbe cacciato?” Insistette il bardo che invece non riusciva a
non simpatizzare per chi aveva saputo usare il proprio ingegno e non solo i doni
della natura. “Vedete, quello che proprio non riesco a capire è come possiate
giustificare Inuyasha o accusare Naraku quando il loro desiderio era palesemente
lo stesso. Forse il fine sarebbe stato diverso, ma è quello ad avere
importanza?”
“Io non sono brava come voi con le parole,” rispose la
vecchia, piccata. “Chiamatela simpatia personale, se vi aggrada. Io riesco a
trovare molte più giustificazioni per qualcuno mosso dalla solitudine che per
qualcuno mosso dalla sete di potere, ma se per voi è il contrario benissimo, la
storia non cambia. Cambierà il modo di raccontarla forse, quando sarete voi a
farlo, ma la sostanza rimane sempre la stessa: la scelta che ogni persona a metà
è costretta a fare. Da che parte. E in questo caso si trattava di stare con gli
uomini o di stare con gli spettri. E mentre Naraku aveva già fatto da tempo la
sua scelta, Inuyasha era solo apparentemente sicuro perché alla fine scelse di
rimanere se stesso.”
“E Naraku?”
“Onigumo, volete dire. Che rinunciò alla propria natura per
diventare Naraku.”
Nota dell’autrice: il Monaco Rosso è in realtà il mitico
Villain della serie The Slayers. Dato che il travestimento con la pelliccia da
babbuino era troppo esotico per questa ambientazione, ho deciso di prendere in
prestito il vestito di Zeno. Ma si sa che l’abito non fa il monaco…
Traduzione dal latino:
*Viaggiare ti farà conoscere altre genti, ti mostrerà monti di forme mai viste,
pianure di straordinaria grandezza e valli irrigate da corsi d'acqua perenni
[…]: ma non ti renderà migliore né più assennato. Dobbiamo applicarci allo
studio e avere familiarità coi maestri di saggezza per imparare i frutti delle
loro ricerche e ricercare le verità non ancora scoperte. Così, sottraendo
l'animo alla più misera schiavitù, si rivendica la propria libertà. Ma fino a
quando ignorerai che cosa si debba fuggire,
cosa si debba cercare, cosa sia necessario, cosa sia superfluo, cosa sia giusto,
cosa sia onesto, non si tratterà di viaggiare ma di errare.
Un ringraziamento a tutti i lettori.
Un bacio e un abbraccio a tutti i miei fedeli recensori: vi
adoro!
Un grazie di cuore anche a quelli che hanno messo la storia
fra i preferiti.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** Di un mezzo-umano, di un mezzo-spettro e di un risveglio ***
Dopo
una lunghissima attesa, ecco il nuovo capitolo di questa long-fic…
grazie a voi tutti che mi avete commentato e messo fra i preferiti:
spero di continuare a divertirvi! Un bacio! BlackVirgo CAPITOLO 12
Di un mezzo-umano, di
un mezzo-spettro e di un risveglio
Verrà
la morte e avrà i tuoi occhi. Cesare Pavese
Iniziò
ad ascoltare la vecchia che ricominciava a raccontare con quella voce
gracchiante che in quel momento gli dava su i nervi. Così come il suo
tono severo che pareva redarguirlo ad ogni inclinazione della voce. Lui
non sopportava essere rimproverato: aveva tolto a chiunque il
diritto di farlo. E quella vocina nella mente che molti chiamano
coscienza era abbastanza intransigente di suo.
Di
malavoglia ascoltava di come Naraku raggiunse quel piccolo villaggio,
di come riuscì a ingannare tutti e a conquistare la fiducia degli
abitanti, del prete e delle suore. Di come la chiesa fosse piena la
domenica mattina, quando c'era il Monaco Rosso a fare la predica. Era
capace di ammaliare con le sue parole, di affascinare le persone. Tutti
gli portavano un presente per ingraziarselo, i più benestanti facevano
a gara per invitarlo a pranzo la domenica. E lui accettava, con un
sorriso compiacente su un viso enigmatico.
Ma al
bardo interessavano poco le parole della vecchia: era il suo tono ad
attrarlo maggiormente. Era amaro come il fiele. Non si limitava a
provare disprezzo per quel fantomatico personaggio: lo odiava davvero,
come se le avesse strappato qualcosa di importante quanto il suo cuore.
Raccontava solo perché doveva farlo, perché la storia
necessitava di quell'entrata in scena, di quel personaggio. Ma voleva
che tutti loro lo odiassero come lei lo odiava.
“Era
bello?” aveva chiesto una delle ragazze presenti, ma era stata
ammutolita dallo sguardo della vecchia.
“Come il
Diavolo in persona,” aveva detto. “E con un cuore altrettanto nero.”
Perché
odiava tanto Naraku? Si chiedeva il bardo nel suo ostinato silenzio
Si
teneva il petto, la vecchia narratrice, mentre raccontava, come se ogni
parola fosse una stilettata al cuore o fosse una salita troppo ripida
per un organo ormai logoro e arrancante.
“Anche la
vecchia Kaede non lo riconobbe. Era troppo cambiato da quando era stato
il bandito Onigumo. Naraku era arrivato in quel villaggio e pian piano
aveva conquistato la fiducia di tutti. E quando iniziò a spargersi la
voce del risveglio di Inuyasha, il Monaco Rosso ne fece la sua
crociata: nessuno poteva dirsi tranquillo se un mezzo-spettro vagava
per i boschi attorno al villaggio.”
“Ma come poteva
entrare in chiesa un uomo che aveva fatto un patto con il Maligno?”
chiese una della donne.
La vecchia ridacchiò e tossì
e al bardo sembrò impallidire lentamente, come se le parole facessero
sempre più fatica ad uscirle dalla bocca. “Non benediva mai con l'acqua
santa né partecipava all'Eucarestia assieme ai parrocchiani. E quando
qualcuno ebbe il coraggio di chiedergli il motivo, lui rispose che
aveva fatto un voto. E raccontò che aveva fatto un voto di cui non
poteva parlare, tanto segreto quanto importante. La sua vita
fra quella gente sembrava encomiabile, ma poco tempo dopo il prete – di
una certa età, vero, ma fino allora in ottima salute – morì. Successe
dopo una notte di luna nuova e, da quel momento, Naraku si ritrovò ad
abitare da solo nella canonica. Fu allora che alcune persone
iniziarono a dubitare di lui.”
“Come suor Kaede?”
chiese la piccola Corinna.
“Esatto, bambina mia.
Proprio come suor Kaede. Dapprima furono solo sensazioni, come brividi
sul collo, poi si trasformarono in sospetti bisbigliati da un orecchio
all'altro. Ma presto questi chiacchiericci finirono perché strane cose
accadevano se qualcuno osava entrare in contraddizione con il nuovo
parroco: una numerosa famiglia venne sbranata dai lupi e il loro
casolare venne occupato da un gruppo di uomini che di bello avevano
solo l'aspetto. Una delle case più belle, dimora estiva di un ricco
mercante, venne ben presto sequestrata dalla chiesa, dopo che il
proprietario venne trovato impiccato nel suo stesso giardino con la
moglie e i figli accoltellati attorno al suo cadavere. Fu
quella la dimora definitiva di Naraku, dove presto lo raggiunsero altre
strane figure: una giovane donna, una bambina e un neonato, nipoti del
Monaco Rosso, così si diceva. Uscivano di rado da quelle
mura e si vedevano solo alla messa la domenica. Per la gente erano
strani, ma nessuno osava dire nulla: il villaggio ora apparteneva a
Naraku e lui aveva mostrato di non aver bisogno di nessuno degli
abitanti. Aveva le sue due nipoti – che altro non erano che
spiriti che lui stesso aveva plasmato, fatti della sua stessa sostanza,
ma senza anima. Aveva i mercenari che si comportavano da sceriffi. E
aveva Kagome. Non si era mai avvicinato alla portatrice
della Sfera: aveva percepito un grande potere in lei, ma non aveva
ancora trovato il modo di impadronirsene. E la ragazza gli serviva
viva: voleva prendere Inuyasha e voleva prendere Kikyo.”
“Di
nuovo Onigumo che prende il sopravvento mettendo i bastoni fra le ruote
a Naraku e al suo desiderio di grandezza,” mormorò il bardo, incapace
di tacere più a lungo, incapace di ricordare il risentimento che poco
prima aveva provato. E dovendo ammettere con se stesso che, in questo
frangente, Naraku perdeva attrattiva ai suoi occhi: non arrivava a
odiarlo, vero, ma non sopportava il tiranno che era diventato.
La
vecchia sorrise, ma era un sorriso sempre più tirato su un volto bianco
come un lenzuolo. “Proprio così, cantore. Forse se Naraku non avesse
avuto ancora sentimenti di amore – o meglio: lussuria – verso quel
fantasma che spiava di nascosto nei boschi attorno al villaggio o di
odio e vendetta verso quel mezzo-spettro che già una volta aveva
mancato di uccidere, ora non saremmo qui a raccontare questa storia. Ma
Naraku, che aveva visto i veri spettri e gli aveva anche sfidati per
vedere i loro limiti, per poterli poi superare a sua volta, si lasciò
ingabbiare da quei sentimenti di cui non si considerava degno. Che non
considerava degni per uno spirito.” La vecchia tossì,
stringendo la mano sul petto.
“Ma gli spiriti non
hanno sentimenti?” chiese una delle ragazze presenti, non ricordando
che già qualcuno aveva posto quella domanda, ma non aveva avuto
risposta.
“Certo che li hanno, ma bisogna saperli
vedere, mia cara,” mormorò la vecchia. “Naraku negava persino i propri
credendo di poter controllare quelli altrui. Sciocco! Si era
dimenticato cosa volesse dire essere umani!” Di nuovo la vecchia tossì.
“Fu Inuyasha a salvare Kagome dalle sue grinfie,”
riprese a raccontare. “Di nascosto si era avvicinato al villaggio e
aveva spiato. Erano giorni che non vedeva Kagome e, suo malgrado, era
preoccupato. La sua vita era fatta di vagabondaggi nei boschi alla
ricerca di Kikyo che gli sfuggiva ogni volta, che gli aveva dato un
bacio con labbra di ghiaccio, che aveva detto che non aveva più un
cuore per amare, solo una vendetta da portare a termine. E
poi c'erano i brevi incontri con Kagome che, pian piano, gli erano
diventati necessari. Mai l'avrebbe ammesso, ma era l'unico legame che
ora aveva con il mondo degli uomini, proprio come cinquant'anni prima
lo era stata Kikyo.”
“Allora si innamorano?” chiese
Corinna con gli occhi luccicanti.
“No, bambina,”
rispose la vecchia dolcemente. “O forse sì. L'amore è una cosa
complicata: non basta guardarsi negli occhi e mormorare qualche
parolina melensa. Serve ben altro! E Inuyasha non era ancora pronto: il
fantasma di Kikyo era sempre nei suoi occhi e nella sua mente, del
disprezzo di uomini e spettri portavano i segni sia il suo corpo che la
sua anima. Eppure Kagome si era avvicinata e lui glielo aveva lasciato
fare. E ora lo pretendeva: se lei non appariva, lui andava a cercarla,
facendo attenzione perché le spie di Naraku erano dappertutto. Quando
lui non la vide comparire per tre giorni di seguito andò a cercare
Kaede. E la vecchia suora, triste e preoccupata,
gli raccontò che Kagome era stata rapita dal Monaco Rosso. Non ne aveva
la certezza, vero, ma una sera non era tornata a casa e il fratellino
Sota l'aveva vista andare verso la foresta con quella strana bambina
che era nipote di Naraku. Kaede percepiva strani poteri in quelle
persone e, anche se non poteva accusarli pubblicamente – pena la sua
vita – temeva si trattassero di spiriti. Anche con Naraku aveva avuto
la stessa sensazione di déjà vu, ma era troppo diverso dal bandito
Onigumo che lei aveva visto quando era una bambina. C'era stato il
crollo della grotta in cui era morto e il cadavere mai trovato, vero. E
il sospetto che era stato lui a causare la morte di sua sorella. Ma non
poteva sapere, non poteva arrivarci.”
“E Kagome?”
volle sapere Mario, sempre intrigato dai dettagli più terrificanti,
sperando in una descrizione di magia nera e spargimenti di sangue.
“Come era stata rapita?”
“Kanna era il nome della
bambina con cui Sota l'aveva vista allontanarsi. Era una bambina
strana: silenziosa e dai grandi occhi neri. Andava sempre in giro con
uno specchio e in seguito si scoprì che era uno spirito evanescente:
viveva solo della vita che il suo specchio riusciva a riflettere. In un
certo senso lei stessa era lo specchio.” La vecchia tossì ed Ezechiele
le allungò un bicchiere di acqua che era andato a procurarsi. “Grazie,”
rispose la vecchia dopo aver bevuto. “Ora va meglio.” “Dunque,
Kanna catturò l'anima di Kagome o, per lo meno, tentò di farlo. Kagome,
con la sua immagine riflessa nello specchio e la sua anima che vi stava
entrando, non poté fare altro che seguire la bambina, senza sapere dove
stava andando, senza vedere la via e neppure lo specchio. Solo seguiva,
come uno che pensi intensamente e che i passi vanno solo perché un
angolo della mente lo sproni a passeggiare. È così che arrivò alla
dimora di Naraku, con gli occhi spenti e una bambina vestita di bianco
accanto a lei. Il Monaco Rosso allungò un dito per sfiorarle il volto,
ma c'era qualcosa che proteggeva la ragazza e che gli impedì persino di
toccarla. A lui e ai suoi schiavi.”
“Di nuovo il
rosario della suora?” chiese Carmela stupefatta.
“Proprio
così,” rispose la narratrice. “Quel vecchio rosario che una volta era
stato di Kikyo. Ma se non poteva toccarla non poteva neppure
impossessarsi della Sfera. Non poteva ucciderla, non poteva torturare
Inuyasha. Era sicuro che sarebbe venuto a salvarla. E allora
aspettò, come era suo solito. Ci sarebbe stata la luna nuova quella
notte e grande sarebbe stata la sua potenza. Ma Inuyasha non venne e
neppure la sera successiva. Ma Naraku aveva tempo e si mise ad
aspettare, paziente, come un ragno che, intessuta la sua tela, aspetta
solo che la preda ci cada.”
Due anime si
fronteggiavano, si studiavano, si aggredivano e si difendevano. Occhi
di fiamma e mani d'acciaio, se solo avessero avuto occhi e mani. Non si
guardavano ma si conoscevano, non potevano menare fendenti, ma si
ferivano. Non sanguinavano, Perché il sangue faceva parte di un'altra
vita, lontana, più vera, ma sentivano ugualmente dolore. Lottavano,
adesso, con più vigore di prima perché una strana energia stava
pervadendo quel luogo stretto e buio e caldo. L'Inferno
dovrebbe essere più grande allora, si dicevano entrambi. Sapendo
benissimo che non si trovavano al cospetto degli Angeli Decaduti perché
lei non sarebbe mai finita all'Inferno. Colpo, parata,
colpo, ferita. E ritirata. Un attimo, come per prendere fiato,
per ricordarsi il motivo della loro lotta e di nuovo: colpo, parata,
colpo ferita. Lei aveva aperto gli occhi e li guardava. Ogni
colpo, ogni parata, ogni ferita. Incapace di fare altro che guardare
perché la sua energia e la sua vita erano finite nel momento in cui lei
aveva usato il suo potere e creato quel mondo. Aveva voluto
salvare tutti da quella stupida battaglia e invece aveva dato al loro
nemico la possibilità di vincere, di sfruttare il suo stesso potere. Poi
c'era stata la luce e il mondo di fuori era scomparso, assieme alle sue
forze. Ma ora stavano tornando. Lentamente vero, ma oggi aveva
aperto gli occhi. Forse domani avrebbe potuto muovere una mano. Forse
un giorno avrebbe rivisto il sole. Ora poteva solo guardare
due anime che lottavano. Vederle. Aveva dormito
abbastanza.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** Di uno specchio, di una lotta e di un lago ***
Ragazze e ragazzi: vi adoro!
Grazie! I vostri commenti mi danno la voglia di andare avanti con la
storia anche se il tempo è poco! Un bacio a tutti! E spero che
anche questo capitolo sia di vostro gradimento! Di uno specchio, di una lotta e
di un lagoE mentre te ne vai, stanco
d'essere stanco, la bambina per mano,
la tristezza di fianco… Fabrizio De Andrè
“E
Inuyasha cadde nella tela del ragno?” chiese Mario, sempre elettrizzato
dai particolari più sanguinosi. “Certo che sì,” rispose la
vecchia lentamente. “Inuyasha non era portato per le sottigliezze di
Naraku: per lui la lotta si decideva sul filo della spada, non col fine
ragionamento. Era istintivo, passionale ed era un guerriero. Ma
ad una cosa pensò: che non avrebbe mai potuto sconfiggere Naraku e i
suoi in una notte di luna nuova, nelle sue fattezze umane. Per questo
non corse subito da Kagome.” “Ma avete detto che non
ci andò neppure la sera successiva! Dov’era?” chiese Carmela, in ansia
per la giovine prigioniera. “Non tutto è stato
tramandato,” rispose la vecchia, di nuovo tossendo. “Sappiamo però che
Inuyasha andò a riprenderla con quelli che erano diventati fidati
compagni. Vi avevo già accennato a Sango e Miroku, no?” “Ma
non ci avete mai raccontato la loro storia,” replicò il bardo,
ricordando vagamente gli accenni a l’unica sopravvissuta di un
villaggio e all’apprendista di un saggio alchimista. I semi che Onigumo
aveva lasciato cadere per sconfiggere Naraku. Ma avrebbe voluto saperne
di più. “Non c’è tempo ora,” mormorò la vecchia.
“Non tutte le storie sono fatte per essere raccontate: dobbiamo
arrivare alla fine di questa, non possiamo perderci in ogni deviazione
che incontriamo o non arriveremo mai alla fine! Vi basti sapere che ci
furono momenti in cui il loro coraggio vacillò, in cui sbagliarono, in
cui si fecero trascinare dai loro sentimenti piuttosto che dalla
necessità, ma che mai esistettero amici più fidati di loro per Inuyasha
e Kagome e nemici più valorosi per Naraku. Perché se Inuyasha poteva
contare nella sua natura bastarda per contrastare i poteri degli
Spiriti e Kagome poteva contare sulla Sfera, Sango e Miroku
affrontavano gli spettri alla pari contando solo sulla loro natura
umana.” “Allora gli uomini non sono inferiori agli
spettri,” sorrise il bardo. “E chi avrebbe mai
detto il contrario?” rimbrottò la vecchia, guardandolo di traverso con
quegli occhietti acuti. Ma perché al bardo parevano ora leggermente
velati? “La forza degli spettri e degli uomini risiede nelle
differenti essenze… e lo capirete se mai perderete qualche minuto a
capire la differenza fra spirito e anima.” Di nuovo arrivò quella
tossettina secca e fastidiosa. Di nuovo la vecchia si portò la mano al
petto. “Agata,” l’apostrofò un’altra donna anziana
che mai, fino a quel momento, aveva aperto bocca. Si era sempre
limitata ad ascoltare e a intrecciare la paglia, attenta e silenziosa.
“Siete sicura di stare bene? La tosse in questa stagione non è un buon
segno.” “Non sono ancora pronta a morire,
Nina,” rispose sorridendo cauta la narratrice. “Se Dio vuole, questa
tosse è solo uno dei miei tanti acciacchi.” Nina si
rimise a intrecciare la paglia e la vecchia a raccontare, non prima di
aver accarezzato i capelli di Corinna, che aveva seguito con una certa
apprensione il dialogo fra le due donne. “Non vuoi
sapere cosa stava succedendo a Kagome, bambina mia?”. Corinna annuì e
la vecchia riprese a raccontare: “Kagome aspettava nella
dimora di Naraku. Aveva incontrato Kanna che l’aveva fermata, per
strada, per mostrarle il suo specchio. E Kagome, credendo che fosse
solo il gioco di una bambina troppo sola, l’aveva guardato e poi
l’aveva seguito con lo sguardo spento e il passo molle di uno che
cammina mentre dorme. Quando Naraku l’aveva vista era stato
molto soddisfatto della sua serva. Era stato troppo facile ottenerla,
ma questo se lo aspettava: non sarebbe stata una ragazzina a frantumare
i suoi piani di grandezza. Raccontami cosa porta nella sua
anima, ordinò a Kanna, con un bicchiere di vino tra le dita, che non si
degnava di bere ma che amava osservare, mentre lo rigirava, mentre
ascoltava la vita mediocre di una persona nella voce atona di uno
spettro che viveva solo del riflesso degli altri. Ma
ascoltare gli dava una sorta di brivido: perché lui aveva il potere di
scoprire tutto, anche quello che Kagome non aveva ancora compreso.
Passava tra i suoi pensieri come un pettine fra i capelli: scindendoli,
lisciandoli, strappandoli. E tutto mentre la ragazza sedeva a terra con
l’espressione istupidita, dondolando il busto avanti e indietro, come
una vecchia demente.” “Ma è terribile!” esclamò
inorridita Carmela, mentre un brivido la percorreva da capo a piedi. La
vecchia – sempre più pallida – annuì. E ricominciò con voce roca: “Sì,
perché terribile era Naraku. Ve l’ho detto che il suo cuore era nero
come quello del Diavolo! E come tale si comportava. Ma fece un errore,
perché assaporare il potere e trarre piacere dai suoi brividi lo
portava a credere di essere in grado di controllarlo. Chiese
a Kanna di guardare nello specchio: non gli bastava ascoltare, voleva
vedere, voleva il gusto di avere in mano la mente di una persona e
farne ciò che voleva. Voleva fare quello che non era riuscito a fare
neppure con le sue creature. Ma quello che vide lo sconvolse:
le sue pupille si allargarono e la sua bocca si storse in
un’espressione di stupore e orrore. Perché in quel momento Onigumo vide
l’anima di Kikyo e tornò a desiderare quella donna, un desiderio che
era solo lussuria e violenza. Ma non poté toccare Kagome
perché protetta dal rosario di Kaede. Allora si allontanò
velocemente, per rinnovarsi – come la luna – lasciando Kagome in balia
di Kanna il cui spirito si nutriva della forza di un’anima che non era
la sua.” “Ma il rosario non poteva proteggerla anche
da questo?” chiese Corinna. “Era un oggetto molto
potente, ma non miracoloso,” mormorò la vecchia e di nuovo tossì. “E fu
in quello stato che Inuyasha la trovò: Sango e Miroku erano rimasti a
combattere i mercenari di Naraku, mentre il mezzo spettro era andato a
cercare Kagome. E anche lui aveva visto l’immagine di Kikyo nella
ragazza, ma non guardando nello specchio. Erano stati i suoi occhi a
fargli tremare le ginocchia: perché erano spenti, proprio come quelli
di un fantasma. Fu così che Naraku lo sorprese, mettendo a segno il
primo colpo e iniziando un duello sanguinoso. Nulla doveva essere più
pauroso di quello spettacolo, perché si racconta che in quei momenti
ogni barlume di ragione lasciasse il mezzo demone. Era come se la sua
anima di uomo si perdesse nel tessuto del suo spirito e lottava come un
animale ferito a cui nulla restava se non la soddisfazione di portare
con sé il proprio nemico. E anche Naraku dovette
spaventarsi: non solo per la ferocia di Inuyasha, ma perché in quel
momento vide ciò che lui sarebbe potuto diventare. Aveva venduto la
propria anima al Diavolo e quello sarebbe stato il risultato. Perdere
se stessi, perdere il controllo delle proprie azioni. Perdere… no,
quello non faceva per lui.” Il bardo sorrise:
perdere non piaceva a nessuno. Ma essere messi di fronte al risultato
della propria potenziale sconfitta non doveva essere facile. Capiva lo
spavento. Una volta di più capì Naraku e, pur rabbrividendo per quello
che aveva fatto, non riuscì a non provare per lui una punta di empatia. “Ma
nonna: e Kagome?” chiese preoccupata Corinna. “Kagome…
Forse fu un barlume di coscienza a farsi strada in lei, forse Kanna era
troppo spaventata per mantenere il controllo sullo specchio o forse i
poteri che si scontravano in quel luogo attivarono i poteri della
Sfera: difficile dire quello che successe, ma pian piano la Custode si
impossessò di nuovo della sua anima. Quando vide Inuyasha in pericolo,
scatenò di nuovo i poteri della Sfera, ma non furono sufficienti a
dividere i due combattenti. Per quello servì la comparsa del
fantasma di Kikyo e di altri spiriti nemici di Naraku che lo
costrinsero alla fuga assieme ai suoi schiavi.” Di
nuovo la vecchia si interruppe. Ora sembrava che anche respirare le
costasse fatica. “Basta per questa sera,” mormorò sospirando.
“Sono stanca: andiamo, Corinna. Buona notte.” Il
bardo la guardò allontanarsi, lenta, con la bambina per mano e il passo
pesante di chi si porta il carico di troppi anni. O di troppe
esperienze. Era ancora presto per lui
per andare a letto. All’orizzonte stava sorgendo una diafana falce di
luna. Era incredibile che già la sua luce facesse la differenza in
quella notte buia e limpida. Anche una candela la fa, nel suo piccolo,
pensò. E forse anche questa falce di luna sorge per illuminare un
cammino, si disse, rammentando le parole del vecchio frate, una bara e
due ceri consumati. Iniziò a camminare a caso, ma
i suoi passi lo portarono alla riva del lago. Quello specchio d’acqua
esercitava uno strano potere su di lui e per un attimo si chiese se in
realtà non fosse lo specchio di Kanna che rubava l’anima a chi lo
guardava. Distolse lo sguardo per un attimo e poi rise di se stesso:
non poteva farsi influenzare così da quelle storie. Erano belle e
suggestive, ma erano solo storie. E tali dovevano rimanere. La
falce di luna era alta nel cielo e la sua luce si rifletteva sulla
superficie appena increspata dell’acqua. La luce della luna rivelava ogni
cosa per quello che è. Le parole della vecchia
continuavano a risuonargli in testa. E anche la sua tosse e l’odio per
Naraku. Poi c’era la bambina e il suo desiderio di incontrare uno
spirito. Beata ingenuità! Che bello credere alle
favole, ai sogni, credere che siano veri o che possano diventarlo… Credere
che il mondo era migliore una volta, credere nella certezza del
passato. Eppure lui aveva conosciuto qualcuno che
della speranza aveva fatto il proprio testamento. La sua mano arrivò al
taschino dove conservava quel pezzo di pergamena, rassicurato dalla sua
presenza. Rassicurato di avere uno scopo nella vita che non fosse solo
passare e svanire. E spaventato di non essere in grado di portarlo a
termine, di tradire la fiducia di un defunto. Perché, non si sa mai, ma
incontrare nell’Aldilà qualcuno che ti guarda e ti dice “mi hai deluso”
deve essere terribile: perché hai speso ogni possibilità. E in quel
momento non ne hai più. E quando pensava a questo
non era sicuro di sperare nell’esistenza di un Aldilà. Anche
la vecchia si stringeva il petto: era il suo vecchio cuore a farle male
o anche lei conservava un segreto? Il suo sguardo si
perse di nuovo sulla superficie del lago, sui riflessi d’argento che
sfioravano l’acqua nera: la sua mente era stranamente vuota, leggera. Solo
l’immaginazione – o quello che lui credeva tale – viaggiava e vedeva:
univa i riflessi di una falce di luna su uno specchio d’acqua e
un’immagine si formava: quello di una piana sterminata e di un essere
seduto in attesa con una spada in grembo. Era immobile: poteva sembrare
una statua, ma irradiava potenza e malinconia, rabbia e tristezza.
Sembrava osservare l’orizzonte, aspettare… quando alzò il capo verso di
lui. Il bardo batté velocemente le palpebre, per
uscire da quello stato onirico sforzandosi di imprimere nella propria
mente quella immagine e sforzandosi di non farsi spaventare. Si
alzò in piedi, si sgranchì le braccia e le gambe e diede un’ultima
occhiata di congedo al lago. Ma quando si rese conto che la
figura del suo sogno lo stava fissando con gli occhi gialli come quelli
di un animale, non poté fare a meno di voltarsi e di correre verso la
locanda con tutto il fiato che aveva in corpo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** Di angoscia, di miraggi e di fatica ***
CAPITOLO
14
Di angoscia, di miraggi e di fatica
Il destino avanza in
silenzio. Oreste
Aveva
visto. E prima ancora aveva sentito. Stava aspettando che
qualcosa succedesse, stava aspettando la salvezza da quel mondo che si
stava disgregando sotto i suoi occhi. Ma non poteva fare altro che
attendere di sguainare le sue spade, di combattere. E poi
c’era stata quella sensazione familiare che lo aveva attraversato.
Aveva spalancato gli occhi, incredulo, non osando muoversi, temendo che
fosse stato un sogno, un timore che spesso lo accompagnava in quel
periodo. Ma quella sensazione non passava, così come il cambiamento che
era iniziato da un refolo di aria fresca. Sesshomaru inspirò
profondamente e aprì gli occhi. E vide un mondo che non stava
cambiando, ma che stava cadendo a pezzi, respiro dopo respiro. Alzò
il capo verso l’alto e la vide: una falce di luna, lontana, in un altro
cielo, in un altro mondo. Il miraggio di un altro sogno. E poi
lo vide: un uomo. Che sembrava contemplare qualcosa, lontano,
un’immagine che, probabilmente, viveva solo nella sua mente. Si chiese
perché gli uomini non fossero in grado di fare una sola cosa alla
volta, non fossero capaci di stare fermi, di stare a
osservare la luce della luna, di vedere le cose per quelle che erano. Abbassò
lo sguardo, stupito: mai avrebbe creduto che un uomo potesse destare in
lui tanto interesse. Ma ora era diverso, quel luogo immutabile e
prossimo alla fine lo aveva cambiato. Gli era bastato un riflesso di
luna per capirlo… e gli era bastato vedere un uomo per capire che loro
no, loro non erano cambiati: sempre in movimento anche quando stavano
fermi. Sempre incomprensibili. Eppure quella notte di un
mondo lontano era troppo buia, e la luna non era abbastanza luminosa.
Forse gli uomini erano rimasti gli stessi, ma il loro mondo era
cambiato. Sesshomaru di nuovo alzò lo sguardo e i suoi occhi
incontrarono quelli dell’uomo: vide le sue pupille dilatarsi, in preda
alla paura, la mente che cedeva la ragione al panico, i sensi all’erta,
affinati dalla smania di sopravvivenza. Era abituato a
simili reazioni, in passato, quando nei suoi viaggi incontrava degli
umani. Pochi fra loro l’avevano visto con altri occhi: alcuni
aggiungevano un reverenziale rispetto, altri la rabbia, l’odio… solo
una tra gli umani non lo aveva mai guardato così. Lo spirito
sentì un brivido attraversare il proprio corpo, mentre le sue pupille
si dilatavano, la sua mente si arrendeva al caos nero del panico e le
sue viscere si aggrovigliavano, strette nella morsa della smania di
sopravvivenza. Si chiamava paura, ma lui preferiva chiamarlo freddo. Gli
occhi dell’uomo mostravano terrore. Ma non era quel timore a cui era
abituato, non era paura di un essere diverso e potente, paura della
morte, paura della vita. Quell’uomo aveva una smorfia di
stupore sul viso, aveva la consapevolezza di aver di fronte uno spirito
e la certezza che non avrebbe dovuto vederlo. Sesshomaru
aveva già visto quello sguardo incredulo: Inuyasha guardava così la
sacerdotessa accompagnata dai fuochi fatui e anche Naraku. Era lo
sguardo che solo le anime dei morti che vagano senza lo spirito, senza
la vita, meritavano. Per Sesshomaru, improvvisamente, perse
importanza quale nome avesse il freddo che lo mordeva dall’animo. Per
quell’uomo gli spiriti erano fantasmi, erano morti. O non erano mai
esistiti. La chiamò angoscia e si sentì perduto.
I
due combattenti si fermarono a guardarla: avevano dimenticato che colei
per la quale combattevano era ancora viva. Avevano
dimenticato – o forse non avevano mai saputo – cosa li avesse portati
lì. Avevano solo continuato a fare ciò che avevano sempre fatto:
combattere. Per vendetta o per invidia, per diletto, per far male. Per
affermare la propria natura di mezzo spettro, per affermare quella di
mezzo uomo. Per affermarsi e basta. Per sopravvivere. Per vivere. O per
morire in pace. Solo il suo risveglio poteva interrompere
una lotta che ormai alimentava se stessa senza dare nulla in cambio. La
osservarono per un lungo istante mentre lei posava lo sguardo prima su
uno e poi sull’altro. Entrambi si avvicinarono a lei un passo, tenendo
d’occhio l’avversario, senza smettere di guardarla. Desiderio
lampeggiava nei loro occhi, e timore. Lei aveva chiuso gli
occhi quando erano arrivati in quel luogo. Ora…
Correva.
Più veloce che poteva, scansando rami e radici con una prontezza di
riflessi che mai avrebbe creduto di possedere. Correva e non
si ricordava neppure perché. Solo sapeva che doveva allontanarsi perché
quello che aveva visto era pericoloso, perché quello che aveva visto
era potente, perché quello che aveva visto… cos’era? Si chiese quando
alla fine le sue gambe cedettero sotto il suo peso e cadde, bocconi, e
poi disteso, cercando di prendere aria, di farla arrivare nei polmoni e
nel cuore e nelle gambe perché la corsa non doveva fermarsi. Ma
quei pochi istanti gli permisero di ritrovare il lume della ragione,
gli permisero di ricordare da cosa fuggiva. Un’immagine della sua
fantasia rispecchiata su un lago. Ecco da cosa fuggiva. Si
mise a ridere, sguaiato, senza alcun ritegno, sforzandosi di trovare la
cosa divertente, cercando di nascondere l’imbarazzo di fronte a tanta
ingenuità, provando a dimenticare il terrore che aveva provato,
cercando di nuovo nella mente quell’immagine bianca e immobile e
effimera. E rivedendo due occhi gialli dallo sguardo duro e angosciato.
Avrebbe voluto tornare al lago per convincersi di aver visto
un miraggio, ma il timore di scoprire che era vero non gli permetteva
di muovere un passo in quella direzione. Si risolse a
tornare verso la locanda, zoppicando – doveva essersi storto una
caviglia nella fuga. Avrebbe parlato alla vecchia
l’indomani. L’avrebbe preso per pazzo, ma non gli importava: sempre
meglio che credersi pazzo. Le avrebbe raccontato della pergamena e le
avrebbe chiesto perché su quel lago, alla luce della luna, appariva un
guerriero vestito di bianco – aveva due spade, lo ricordava ora! – e
con gli occhi gialli come quelli di Inuyasha. Avrebbe preteso la fine
di quella folle storia che raccontava di spiriti e uomini e della loro
separazione. Perché, per quanto gli costasse ammetterlo,
sapeva che in quella storia c’era un posto anche per lui e, per una
volta, non era disposto ad abbandonare una certezza.
La
vecchia aprì gli occhi: doveva essersi addormentata su quella logora
poltrona di vimini, sfinita dai troppi pensieri che non le davano
tregua neppure durante il sonno. Visi familiari le si
affacciavano alla mente, di continuo: aveva di nuovo cominciato quella
storia che, da sola, aveva ripreso il suo ciclo, lunga quanto la vita
di coloro che l’avevano vissuta, mentre il suo tempo sembrava sempre
più corto. Ora faceva fatica a respirare, ora tossiva, ora
il suo cuore batteva troppo in fretta: non sapeva se il fiato le
sarebbe bastato. Dove era arrivata? Ah, sì: quando andarono
a liberare Kagome. Quando i nemici di Naraku si coalizzarono contro di
lui la prima volta, ancora troppo occupati a combattere fra loro che ad
unire le forze. C’era Koga, capo di un branco di lupi che il mezzo
spettro aveva massacrato, innamorato di Kagome, giovane e impulsivo
come ogni ragazzo che ancora coltiva l’illusione di avere il mondo in
tasca. C’era Sesshomaru, il fratellastro di Inuyasha, che sembrava aver
dichiarato una crociata contro i uomini e mezzi uomini, eppure
camminava tra i boschi con una bambina umana al seguito. La dimora di
Naraku era stata distrutta quella volta e tutti si erano messi in
salvo: Inuyasha e i suoi avevano trovato rifugio al convento, da Kaede.
Gli spiriti avevano ripreso le loro vie che, si sa, sono diverse da
quelle degli umani. E poi Naraku aveva trovato un nuovo rifugio, sul
monte che sovrastava il villaggio: i sette mercenari e le sue creature
lo difendevano mentre si riprendeva dallo smacco subito, mentre tesseva
nuove tele, ordiva nuove trame. Mentre muoveva i loro fili allentandoli
e poi tirandoli a sé, torturandoli e distruggendoli, giocando allo
stesso modo coi nemici e cogli amici. No, non amici. Naraku non aveva
amici. La vecchia si portò una mano al petto: il suo cuore
era pesante, gravido dell’odio per quell’essere che non era nato da
nessuna donna, ma che aveva creato se stesso, credendo di essere un
dio. Odiava tutto il male che aveva fatto, odiava i sacrifici a cui li
aveva portati. Tutti loro, giovani, vecchi e bambini, intrappolati in
un destino che non avevano scelto ma che, nello stesso avevano
perseguito fino in fondo. Anzi no: il fondo non era ancora arrivato. La
vecchia tirò un lungo sospiro, stringendo la mano che aveva sul petto
attorno alla Sfera: mai quell’oggetto le era parso tanto pesante. Le
premeva sul cuore, le impediva il respiro, le annebbiava la mente. E
quei segni potevano dire una sola cosa: quel maledetto gioiello si
stava risvegliando.
----------------------------------------
Capitolo
breve, ma denso… Un ringraziamento di cuore a tutti i lettori,
un abbraccio alle mie fedelissime: Miriel,
Jekka, Mikamey e Rosencrantz. Spero
di rimanere alle altezze dei vostri apprezzamenti!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 15 *** Di terra, di acqua e di luce ***
Nuova pagina 1
CAPITOLO 15
Di terra, di acqua e di luce
C’è un solo modo di dimenticare il tempo: impiegarlo.
Charles Baudelaire
Il buio le aveva sempre fatto paura. Sì, si vergognava ad
ammetterlo, ma era solo una mocciosa piagnona e paurosa. Però quella sera,
nonostante le sue mille angosce – sopra tutte il terrore dei lupi: quando li
sentiva ululare in lontananza le pareva già di sentire le loro zampe correre
leggere per circondarla, di vedere il biancore dei loro denti sulle sue tenere
carni – non si era limitata a guardare le stelle fuori dalla finestra. L’aveva
aperta ed era uscita.
Era tornata all’aia dove raccontavano la storia e, nascosta dalle tenebre, aveva
visto il bardo. Era sempre l’ultimo a lasciare quei piccoli raduni che per loro,
al paese, erano la normale conclusione della giornata, mentre per lui apparivano
come l’appuntamento che dava senso al suo giorno. L’aveva visto incamminarsi,
lentamente, ma non era andato nella direzione della locanda. Stava andando verso
il lago.
Il cuore di Corinna diede un balzo: il lago! Quella distesa d’acqua l’aveva
sempre affascinata – proprio come la notte – ma non aveva mai avuto il coraggio
di andarci da sola, al buio. Di giorno sì: andava spesso a giocare nelle
vicinanze della riva, anche se la nonna non voleva che toccasse quelle acque
tranquille. “Se ti bagni i piedi prenderai la tosse!” le diceva sempre. E
Corinna, obbediva, temendo di non poter più andare a vedere il lago se si fosse
ammalata.
Prese a seguire l’uomo solitario che camminava lentamente davanti a lei. Ma che
passi lunghi che faceva! Per fortuna la bambina conosceva perfettamente il
sentiero, sennò non sarebbe mai riuscita a tenergli dietro. Doveva solo stare
attenta a non inciampare: non sapeva neppure lei il motivo, ma non voleva farsi
scoprire. Non credeva che il cantore l’avrebbe sgridata se l’avesse scoperta, ma
non si sa mai coi grandi. E poi il pericolo dei lupi era sempre lì: se si fosse
fatta male non avrebbe mai fatto in tempo a fuggire e l’avrebbero mangiata.
Anche se la nonna diceva sempre che era troppo magra per essere un pasto
gustoso, anche per un lupo affamato. Però chi ha fame – lupi compresi – si
accontenta anche di poco, pensava lei.
Appena arrivata si fermò a rimirare lo specchio di acqua ai suoi piedi: era
bellissimo. Sembrava un secondo cielo o meglio: sembrava che il cielo gli desse
un volto con le stelle per occhi e la falce di luna per sorriso. Si sedette
sulla riva, a poca distanza dal bardo – non si deve andare in giro da soli dopo
il tramonto! – che appariva immerso nei suoi pensieri, e, proprio come lui,
contemplava la superficie dell’acqua.
Ma quando apparve l’immagine del guerriero, Corinna non distolse lo sguardo e,
men che meno fuggì, anzi: rimase a guardarlo, estasiata, dimenticando di avere
paura della notte e dei lupi. Sapeva perfettamente cosa fosse: finalmente
l’aveva trovato. O ritrovato?
“Signor Sesshomaru?” bisbigliò fra sé e sé.
E, come se l’acqua fosse diventata solo un sottile velo, come una tenda lisa dal
tempo, lo spirito si voltò verso di lei.
Aveva riconosciuto quello sguardo. L’avrebbe riconosciuto fra mille altri.
Grandi occhi neri che mai lo avevano temuto. Eppure il viso non era lo stesso,
neppure il modo di vestire. Però quegli occhi… non poteva sbagliarsi.
Sesshomaru chiuse i suoi per un attimo, per cancellare quell’immagine temendo
nell’ennesimo sogno, nell’ennesima illusoria speranza. Ma la bambina era ancora
lì quando li riaprì. Anzi era più vicina e gli tendeva una piccola mano, per
sfiorarlo, per toccarlo.
Corinna stava camminando con le caviglie lambite dalle acque del lago, dimentica
dei suoi buoni propositi e delle raccomandazioni della nonna. Voleva avvicinarsi
al guerriero bianco, voleva vederlo da vicino, voleva toccarlo. Voleva sapere
perché quella figura gli fosse tanto familiare nonostante fosse la prima volta
che lo vedeva, voleva sapere perché conosceva il suo nome se, fino a poco fa, la
sua esistenza, per lei, era stata solo una speranza a cui si era aggrappata
tante volte, con cui aveva giocato, con cui aveva parlato, ma senza ottenere una
risposta che le suggerisse che quel sogno potesse essere reale.
Sesshomaru allungò la mano verso il cielo, incontro a quella della bambina, ma
toccò solo aria.
Di nuovo il terreno tremò sotto i suoi piedi squarciando la terra, mutilandola e
in lontananza risuonarono grida e richiami.
Quanto ancora resisteremo?
La terra tremò anche sotto i piedi di Corinna. E il lago si riversò su di lei,
ingoiandola in un vortice fatto di acqua, schizzi e schiuma. Non seppe mai dire
se fosse stato un gioco della sua fantasia, un incubo o il frutto della paura,
ma lei fu sempre convinta che, in quel momento, le onde si condensassero nelle
sembianze di un grande lupo nero che l’azzannò alle caviglie per portarla con sé
in abissi molto più profondi del fondo del lago, abissi così lontani dove
neppure la luce della luna poteva giungere, dove non c’era aria per respirare,
dove sarebbe morta senza neppure salutare la nonna. E di nessuno di quei malanni
che l’acqua avrebbe potuto provocarle.
Aveva chiuso gli occhi, Corinna, per non vedere tanto orrore – per non vedere la
morte in faccia – , mentre col poco fiato che le restava, bisbigliava un nome
che era una preghiera: “signor Sesshomaru, aiutatemi, signor Sesshomaru…”
E Sesshomaru sentì le parole, vide il lupo e vide la bambina.
Fu investito da una corrente di aria fredda, e da schizzi d’acqua: il cielo
sopra di lui si era aperto.
In un balzo fu in piedi, la spada sguainata e quella bestia nera come la notte
avvolta in turbini di acqua gelida gli si mostrò in tutto il suo furore. Portava
la bambina fra le possenti zanne e lo guardava altezzosa, superba. Era una
sfida: Sesshomaru non aspettava altro. Un salto, un breve volo e la voragine nel
cielo diventò una porta e una guerra: entrambe portavano verso la libertà. O
verso la morte.
Fu una lotta serrata, fatta di artigli, di morsi e di spade. Lottavano fra case
diroccate che degli uomini portavano solo il ricordo, sentieri disfatti, coperti
di alghe e abitate da creature che, ignare di assistere a uno spettacolo che
avrebbe cambiato il loro mondo, si nascosero o fuggirono, per non soccombere a
loro volta a quelle due furie.
Due guerrieri che combattevano fieramente, perché entrambi sapevano che dal
risultato di quel duello sarebbero dipese molte cose.
Sesshomaru taceva mentre combatteva. Non aveva bisogno di sprecarsi in parole
che non avrebbero ferito il suo nemico abbastanza da indebolirlo o da farlo
soccombere. C’era gelo e fiamma nei suoi occhi, e c’era una volontà di vincere
che mai aveva provato prima. Non c’era solo il suo orgoglio in gioco: c’era la
sopravvivenza degli spiriti – tutti –, la loro libertà. E c’era anche la vita di
quella bambina che doveva avere già incontrato anche se in tempi e in luoghi che
ora sfuggivano dalla sua memoria.
La bestia nera ringhiava e nei suoi ululati c’era dolore e rabbia. Tanta rabbia.
Rabbia per un giuramento proferito di cui non era mai stato pagato lo scotto. E
ora i mondi si erano avvicinati, di nuovo. Abbastanza per riunirsi, vero, ma lui
non lo avrebbe permesso, non finché il mezzo demone non gli avesse dato quello
che era suo: voleva quell’anima. Voleva divorarla. Gli era stata concessa in
cambio di molto – troppo – potere. Era sua.
Nel frattempo si sarebbe accontentato anche di quella bambina. Se solo la sua
anima fosse stata un pochino più nera. Le anime dei bambini non erano molto
appetitose: non avevano ancora visto abbastanza vita.
“Lasciala e te lo porterò,” mormorò Sesshomaru, accorgendosi che quella lotta
non sarebbe mai finita. Non abbastanza velocemente perché la bambina
sopravvivesse, almeno. E probabilmente neppure i demoni nell’altro mondo.
Maledetto tempo! Ora si rendeva conto perché gli umani lo reputassero
dannatamente importante.
E lui che aveva sempre pensato di averne a disposizione senza limite…
La risposta della bestia nera fu l’ennesimo ringhio. Un ringhio che pareva una
risata e uno sberleffo e che tradiva la minaccia che stava dietro. Ma era anche
un’affermazione e un ultimatum: prima della prossima luna piena, gorgogliò,
dissolvendosi in acqua fra le nere acque del lago.
Sesshomaru raccolse la bambina – “è ancora viva!” pensò – e la riportò in
superficie.
E quando Rin si risvegliò bagnata come un pulcino, la prima cosa che vide fu uno
spirito bianco che contemplava una sottile falce di luna nel cielo.
***
Prima che il bardo potesse rimettere piede nel villaggio, la terra aveva tremato
sotto i suoi piedi. Era durato soltanto un istante, più la vertigine della
caduta che la sensazione di un crollo, ma era stato sufficiente perché tutta la
gente si riversasse nella piazzetta, chi piangendo, chi pregando, e chi trovando
conforto nella paura degli altri. Ovviamente non mancavano neppure i baldanzosi
che urlavano il loro coraggio, soprattutto ora che tutto era finito.
Il bardo si tenne in disparte: non aveva voglia di compagnia. E neppure era
tornato alla locanda: era troppo inquieto per rinchiudersi fra quattro mura, per
stendersi su un letto e mettersi a dormire.
Si era diretto svogliatamente nell’aia del racconto e, trovandola
miracolosamente vuota, si era seduto, la schiena appoggiata al solito ciliegio.
Aveva chiuso gli occhi, per cercare il sonno sotto il cielo che tante volte
l’aveva guardato dormire.
Un ticchettio ritmico lo fece sussultare: aprì gli occhi e si guardò attorno:
un’ombra si muoveva fra le altre. Un’ombra che con una mano si reggeva ad un
bastone e che, con l’altra, si reggeva il petto. Anzi no: reggeva qualcosa di
luminoso, che, a mala pena, riusciva a nascondere con la mano.
“Cosa fate qui, cantore?” gli chiese con una voce roca e stanca.
La vecchia!, pensò il bardo alzandosi lentamente in piedi.
Avrebbe voluto chiederle la stessa cosa, ma si trovò a aiutarla a sedersi su uno
dei ciocchi: essere arrivata fin lì doveva essere stato uno sforzo troppo grande
per lei. Eppure era sembrata così energica in quei giorni! Solo quella sera
aveva tossito, ma non poteva essere così grave…. O sì?
“Avete visto la mia bambina?” chiese in un bisbiglio.
Il bardo fece un cenno di diniego.
E quando la vecchia portò la mano che teneva al petto a coprirsi la bocca per un
attacco di tosse, il bardo la vide: una sfera grande quanto una noce che
emetteva una tenue luminescenza rosata. Una luce che, pian piano, sembrava
aumentare di intensità.
Ipnotizzato da quella visione – che diavoleria è mai questa? È forse? No… la
Sfera dei Quattro Spiriti? – accostò la mano per toccarla, per sentire se era
calda per sentire se era viva.
Ma una stretta ferrea sul polso da una mano ghiaccia lo distolse dal suo
intento. Alzò lo sguardo e brividi gli corsero lungo la schiena quando incrociò
gli occhi neri da rapace della vecchia.
Paura, di quella vera. Paura di essere nel posto sbagliato, nei panni sbagliati,
nella vita sbagliata.
E paura – tanta, davvero – alla fine di aver trovato una storia che non avrebbe
potuto raccontare.
***
Nota dell'autrice: ebbene sì, è tornato e si avvicina alla
conclusione. Mi scuso immensamente di aver impiegato più di un anno ad
aggiornare questa storia. Mi scuso con chi l'ha amata, con chi l'ha seguita e
anche con chi è solo passato di qui per caso.
Ringrazio infinitamente Miriel67 e Gweiddi at Ecate che mi hanno mostrato più
e più volte quanto tenessero a questi personaggi (in particolare al bardo) e a
questa storia.
Un abbraccio anche alle adorabili (e adorate) Jekka e Avalon9.
Come ho già detto, la conclusione è vicina. Pazientate: ultimamente sono
diventata lentissima a scrivere per un sacco di motivi, ma non lascerò passare
un altro anno per il prossimo aggiornamento!
Ringrazio tutti per la vostra attenzione.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 16 *** Di vite, di morti e di ritorni ***
Ecco l'òmero
acceso, la pepita
travolta al sole,
la cavolaia folle, il filo teso
del ragno su la spuma che ribolle -
e qualcosa che
va e tropp'altro che
non passerà la cruna...
Occorrono troppe
vite per farne una.
Da “Le
occasioni” di Eugenio Montale
… Ora
li stava osservando, spostando lo sguardo prima su uno e poi sull’altro, sulle
loro mani e sul loro sangue. Li osservava come non aveva fatto da molto tempo –
per quanto aveva dormito? – e mai li aveva trovati così simili, così disperati e
così determinati. Quando li aveva conosciuti erano soli, tutti e tre. Di tre
solitudini diverse, ma tutte foriere di dolore.
Uno
l’aveva incontrato tra le fronde del Grande Albero: un essere selvatico, nato
dall’amore proibito, egualmente simile e diverso alle due razze che lo avevano
generato, tanto da disprezzare entrambe e da ricercarne continuamente
l’approvazione.
L’altro l’aveva trovato in fin di vita, distrutto dalle stesse meschinità di cui
era vissuto. Lo aveva accudito finché era ancora vivo, per poi esserne uccisa –
e richiamata in vita e perseguitata ancora e ancora – quando egli aveva voluto
abbandonare la propria umanità per diventare altro, per sfidare uomini, spettri
e dei. Non sapeva come avesse fatto allora, ma aveva visto mutare la sua natura:
da uomo a spettro, senza essere né l’uno né l’altro. Disprezzando e volendo
entrambi.
Ma qui
e ora c’erano solo le loro anime.
Anime
simili, di uomini e di spettri. Anime che continuavano a combattere per
dimostrare di avere ragione. Anime che sempre avevano lottato per avere lei e
che mai l’avevano posseduta.
E lei?
Chi era lei? Cos’era lei?
Era
stata una sacerdotessa che camminava tra boschi e villaggi, temuta e rispettata.
Poi era stata una ragazzina tanto ingenua quanto coraggiosa.
E, in
ogni sua vita, quel gioiello l’aveva accompagnata, quel maledetto gioiello
pregno di un potere perverso, che alimentava sogni e speranze al prezzo dei loro
spiriti. Ma l’anima no: l’anima non la poteva rubare.
Ora
ricordava persino com’erano finiti lì dentro: era stato dopo che Naraku si era
di nuovo rigenerato sul Monte Sacro. Avevano lottato contro i suoi sette
mercenari, contro Kagura del vento e contro Kanna dello specchio. Ogni battaglia
avrebbe potuto essere l’ultima, ma non si erano mai arresi: non Inuyasha che
vedeva in Naraku il suo nemico di sempre, se stesso e il suo contrario. Non
Miroku che cercava la sola possibilità di sfuggire a una sorte impietosa. Non
Sango, stanca delle troppe avversità, ma mai rassegnata. Non il potente
Sesshomaru che non avrebbe mai permesso a nessuno – spettro, uomo o a mezzo fra
essi – di prendersi gioco di lui. Non la vecchia Kaede che non avrebbe più
voluto seppellire nessuno. Non Shippou e Rin che non volevano perdere un’altra
famiglia. Non lei stessa: né come Kikyo, che assetata di vendetta, bramava la
pace della morte, né come Kagome che, piena di speranza e di vita, voleva un
futuro da vivere.
Si
erano trovati tutti loro contro Naraku e contro la Sfera stessa: contesa,
spaccata e ancora più potente. Non aveva lasciato che disputassero la battaglia
finale: li aveva messi di fronte a loro stessi e li aveva combattuti. Divisi.
Uno per uno.
Lei
aveva vagato nelle tenebre, combattuta tra la sua vendetta, le sue paure e le
sue speranze. Aveva cercato Naraku per combatterlo e aveva chiamato Inuyasha
perché quel buio le faceva paura. Aveva incoccato una freccia per colpire il suo
nemico e altri ricordi le erano piombati addosso: ricordava un altro giorno,
un’altra freccia e un Grande Albero. Ricordava l’odio cocente del tradimento, il
calore del proprio sangue e l’amore che era promessa di felicità e di serenità…
allora non sapeva e l’oggetto di odio e amore era stato solo Inuyasha. Inuyasha
che l’aveva osservata da lontano tra le fronde, Inuyasha che combatteva gli
spettri malvagi assieme a lei, Inuyasha che la sorreggeva quando la fatica era
troppa, Inuyasha che la baciava e le prometteva una vita normale, una vita da
umani. Ma la mano non è ferma quando la mente è turbata e lei mancò il colpo
mortale: fu il sonno, e non la morte, ad accogliere fra le sue braccia il mezzo
spettro.
Poi la
sua anima rinacque e il suo spirito tornò.
E la
sua anima, una volta ancora, si innamorò del mezzo spettro, felice di ogni
attimo in sua compagnia, temendo per la sua vita in ogni battaglia, fremendo
ogni volta che la abbandonava per inseguire quello spirito che, una volta, era
stato parte di lei. Turbata, ogni volta, che incontrava se stessa in quel
pallido riflesso, accompagnata dai fuochi fatui, così fragile eppure così forte
e determinata. E ogni volta combatteva contro se stessa: con la gelosia, con un
amore che si era consumato quando lei non era neppure nata e che, inconsapevole,
avrebbe continuato ad alimentare nella sua vita. Nelle tenebre era stata sia
Kikyo che Kagome e aveva accettato di essere entrambe: di amare Inuyasha e di
vendicarsi di Naraku. Ma non aveva scoccato alcuna freccia: i due mezzi spettri
combattevano davanti a lei, in un turbine di spade, di braccia e di corpi
confusi, troppo confusi per discernere il bersaglio. Fu così che arco e freccia
svanirono dalle sue mani.
Non
sapeva che fine avessero fatto tutti gli altri.
Sapeva
solo che, da allora, erano stati prigionieri della Sfera: i guerrieri
combattevano e lei aspettava.
E
dormiva, cercando nei sogni ricordi ormai dimenticati.
***
La
bambina infreddolita era tornata al villaggio seguendo, coi suoi passi piccoli e
svelti, lo spettro bianco. Egli camminava piano e pareva non appoggiare i piedi
per terra, tanto era leggero il suo incedere. Teneva lo sguardo fisso davanti a
sé, a volte piegando la testa come per ascoltare meglio il vento, a volte
alzando lo sguardo come temesse che la pallida luna potesse sparire. Al limitare
del bosco si era fermato e si era concesso di appoggiare un lungo sguardo su
quel paesaggio ora estraneo: nessuna malinconia nei suoi occhi, nessuna
nostalgia per un villaggio che ora si trovava in fondo a un lago, per una
montagna che si era spaccata, per una valle che aveva mutato la sua forma.
Socchiuse gli occhi per un attimo e inspirò profondamente l’aria fresca della
notte. E, quando li riaprì, una scintilla di ammirazione li attraversò:
ammirazione per un mondo capace di mutare forma senza perdere in fascino, capace
di mutare e di rimanere uguale a se stesso, con le sue eterne stagioni,
l’insieme di rumori che gli uomini chiamavano silenzio e la luna… quella pallida
luce che mostrava senza abbagliare, che mostrava ogni cosa per quel che era. E
che ora gli mostrava un mondo cambiato, invecchiato, ma che nulla aveva da
invidiare ai miraggi che la sua mente aveva creato mentre era nell’altro dove.
Riprese a camminare, lentamente, lo sguardo fisso in avanti, i sensi all’erta
per godere di ogni silenzio e di ogni rumore, di ogni fragranza dolce o
pungente, di ogni refolo d’aria.
La
bambina continuava a seguirlo, felice della sua presenza e di quei preziosi
momenti , senza sentire il desiderio di parlare. Rallentava per annusare un
fiore e poi, con una corsetta, lo raggiungeva. Sorrideva, perfettamente a suo
agio accanto allo spirito bianco, come se lo avesse fatto un milione di altre
volte, in un altro passato, in un’altra vita.
Sesshomaru non poteva seguire i propri ricordi, ma seguì i suoi sensi. Percepiva
un villaggio di uomini lì vicino: erano eccitati da qualcosa, odorava la paura
nell’aria. E, in mezzo a loro, c’era un potere nascosto: un potere più forte del
suo, che si nutriva di spirito, che si nutriva di tutti gli sciocchi che, nel
tempo, avevano tentato di imporre la propria volontà su quella dell’oggetto. Una
Sfera nata da una battaglia tra un drago e una sacerdotessa, narrava la
leggenda, che volevano continuare a vita la loro lotta pur di stabilire un
vincitore. Ma per farlo dovevano nutrirsi e quello di cui avevano bisogno era
spirito. La Bestia Nera gli aveva detto che voleva un’anima che non aveva ancora
pagato un pegno: che Naraku fosse ancora vivo? E allora… poteva esserlo anche
Inuyasha?
Sesshomaru non sapeva come la Sfera fosse sopravvissuta alla distruzione di
tutto, ma lo sentiva, proprio come sentiva che fuori da quel mondo in cui erano
stati confinati esisteva ancora qualcosa. Una speranza o un sogno che erano
diventati reali.
Ricordava quel giorno in cui si erano schierati tutti assieme contro Naraku e si
erano trovati uno per uno a fronteggiare la Sfera. Aveva viaggiato nelle
tenebre, nei ricordi di una vita senza tempo: aveva visto suo padre, in una
notte di luna piena e di addii, aveva visto un fratello che non aveva potuto
abbandonare, ma a cui non aveva mai voluto mostrarsi per quello che era, che mai
aveva voluto riconoscere come tale. Aveva visto una bambina sbranata dai lupi
che il potere di una spada ereditata e disdegnata aveva riportato in vita. Aveva
visto se stesso disprezzare uomini e mezzi uomini e proseguire la propria vita
incapace di ignorarli. Aveva compreso l’inutilità di quel disprezzo e aveva
visto la bambina che allungava le manine verso di lui, correndo e scappando
dalla Bestia Nera. Aveva allungato i propri artigli avvelenati e, per la prima
volta nella sua incalcolabile vita, aveva temuto di farle male. La Bestia aveva
scoperto i denti mentre i suoi occhi baluginavano nella parodia di un riso.
E lui
si era ritrovato nell’altro mondo.
***
“Sto
per morire,” disse la vecchia, il respiro sempre più corto, la voce ridotta a un
rantolo. Stringeva spasmodicamente la Sfera tra le dita adunche, come per
strapparsela dal collo, come se quel gesto fosse troppo faticoso.
“Che
state dicendo?” chiese il bardo, impotente di fronte all’improvvisa spossatezza
della vecchia, di fronte a quei momenti in cui non importa cosa tu faccia, tanto
non puoi cambiare nulla.
“Sto
per morire, cantore,” rispose la vecchia con un ghigno tirato che avrebbe voluto
essere un sorriso. “Sto per morire come ho fatto molte volte in passato e come
farò molte altre in futuro. La mia bambina… anche lei morirà, tra poco. È il
nostro destino, cantore,” colpi di tosse, un rivolo di sangue, le occhiaie
sempre più nere e profonde, “è legato a questo maledetto gioiello,” riprese.
“Io, che ho cambiato molti volti e molti nomi, ne sono la Custode. Di nuovo
nascerò e vedrò morire mia sorella, di nuovo qualcuno mi affiderà una bambina la
cui famiglia è stata sbranata dai lupi, di nuovo troverò qualcuno a cui
raccontare questa storia perché tutti loro – i protagonisti – possano rinascere
assieme a me. Di nuovo avrò questo gioiello che mi impedirà di finire la storia,
lasciando che io rimanga sempre e solo una spettatrice, incapace di mutare la
storia, ancora una volta pronta a seppellire coloro che ho amato. E poi morirò
anch’io, senza riuscire a liberare né le anime né gli spiriti. E di nuovo
vagherò come un’anima in pena su questa terra vecchia e incolore e, quando
troverò un nuovo corpo e un nuovo spirito, tornerò a vivere. E tutto si ripeterà
di nuovo e di nuovo e in eterno.”
Il
bardo ascoltava quella storia con gli occhi troppo spalancati e la mente troppo
vuota.
“Non
potete morire ora,” furono le parole che uscirono dalla sua bocca, tanto fuori
luogo quanto sentite. “Non potete morire ora e lasciarmi con nuovi misteri, come
lo sconosciuto della pergamena!”
Gli
occhietti della vecchia, appannati per la sofferenza, erano interrogativi.
“Quale uomo?” chiese in un sussurro.
“Era
un uomo con una strana malattia, morto senza successori. Ha lasciato in eredità
una pergamena e una manciata di spiccioli al primo che avesse mormorato una
preghiera sulla sua salma. Io fui il primo e forse l’unico. E sulla pergamena
c’è scritto…” frugò il taschino con la mano tremante, e con voce ancor più
tremante lesse le parole che gli avevano provocato tante notti insonni alla
vecchia, che ascoltava come se la sua vita dipendesse da quei suoni cadenzati.
“E
così quella stirpe è finita,” mormorò alla fine.
“Quale
stirpe?” volle sapere il bardo.
“Quella di Sango e di Miroku. Se penso che Kaede fece nascere i loro bambini e
io, Agata, sono sopravvissuta all’ultimo della loro discendenza.”
“Parlate come se li aveste conosciuti,” osservò il bardo.
“Non
avete ancora capito? Io sono Kaede e sono Agata e sono tutti i volti che ci sono
stati fra l’inizio e la fine di questa storia. Ho visto Kikyo morire e poi
tornare, ho visto Onigumo diventare Naraku… e, alla fine, ho visto Inuyasha,
Kagome e Naraku sparire dentro la Sfera e gli spiriti sparire da questo mondo.”
La voce sempre più flebile divenne un sussurro confuso nell’aria della notte.
La
vecchia chiuse gli occhi stanchi: una sensazione aveva cominciato a impadronirsi
di lei, una sensazione sconosciuta per Agata, ma che Kaede avrebbe riconosciuto
immediatamente e si avvicinava con passo leggero, lenta e inesorabile.
“Sono
tornati,” mormorò la vecchia, la voce sempre roca ma non più un sussurro, come
se una nuova forza alimentasse le sue membra e il suo sguardo, ora lucido e
attento.
Il
bardo, seguendolo, vide una figura bianca incedere fra le ombre, e sul suo viso
senza età vi erano gli occhi gialli del lago.
Dietro
veniva Corinna, trotterellando, tanto intirizzita quanto sorridente.
***
Note dell'autrice: vi sembrerà
incredibile, ma è quasi finita! No, davvero, non dovrete aspettare un altro anno
per il prossimo capitolo: è già pronto per metà, solo da rileggere quelle 6 o 7
volte prima di pubblicarlo! Insomma, il periodo di mancanza di
tempo+testa+voglia+ispirazione per scrivere è finito... o almeno credo...
Vi ringrazio tutti, per i vostri commenti e per il vostro
sostegno! Un ringraziamento in particolare a Flavia, Lara, Roberto e
Mikamey che seguono questa storia da un sacco di tempo ormai e a Earandir, last
but not least!
Un abbraccio a tutti voi!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 17 *** Di spiriti, di anime e di preghiere ***
CAPITOLO 17
Di spiriti, di anime e di preghiere
È tutta colpa della Luna, quando si avvicina troppo alla Terra fa impazzire tutti.
Otello, William Shakespeare -
Il giovane spettro capì che qualcosa di irreversibile era accaduto. Qualcosa che aveva desiderato da sempre, da quando era arrivato in quel luogo.
Salutò in fretta e furia Myoga e Totosai da cui si era recato per accertarsi che stessero bene. Non erano mai diventati una nuova famiglia per lui, ma lo avevano tenuto con loro, offrendogli conforto e saggezza. Erano stati ottimi maestri di vita, ora Shippou avrebbe dovuto avvalersi di tutto quello che aveva imparato. Da loro e non solo. Si era avviato verso quel refolo d’aria ormai diventato un turbine di acqua e vento. Aveva lasciato Sesshomaru in quel posto, ma ora del guerriero bianco non c’era traccia. “Forse è già passato,” pensò Shippou. Dopotutto Sesshomaru non era mai stato socievole, ma sicuramente non si poteva tacciare di essere un vigliacco.
Shippou osservò quel passaggio fatto di acqua, vento e turbini: sembrava un temporale. Si avvicinò, lento, con una sensazione crescente di vuoto nello stomaco. L’antica paura non era passata, ma Shippou non aveva intenzione di ascoltarla: oltre quel passaggio avrebbe ritrovato quel mondo per cui aveva provato nostalgia ogni momento, ogni respiro. Fece per muovere un passo, ma si fermò: qualcuno gli aveva detto che avrebbe forse ritrovato quel mondo, ma non Kagome e Inuyasha, non Sango e Miroku. Avrebbe dovuto far i conti con il tempo degli uomini e con il proprio.
“Smettila di frignare,” gli avrebbe detto Inuyasha.
“Stai attento,” gli avrebbe raccomandato Kagome.
Gli pareva di sentirli, come se fossero stati a pochi passi da lui, come se lo chiamassero. Il giovane spettro inspirò profondamente l’aria fresca che veniva dall’altro mondo e mosse un passo e poi un altro, sempre più sicuro del proprio coraggio, sempre più determinato ad affrontare il tempo e i temporali.
Ma una forza tanto invisibile quanto potente lo respinse in quel mondo che pareva immobile anche mentre stava cadendo a pezzi.
***
Gli abitanti del villaggio erano troppo presi dal terremoto appena avvenuto per preoccuparsi del cantore. Si erano formati piccoli gruppi che parlottavano concitati e alcune vecchie stavano già sgranando il rosario al ritmo di pater, ave e gloria.
“Torniamo tutti a letto, ché domani dobbiamo lavorare,” dicevano taluni.
“Tanto non potrei mai dormire con terrore che la casa mi crolli addosso,” rispondevano altri.
“Ma perché dovere sempre pensar male?” chiedevano alcuni.
“Perché a pensar male è peccato, ma ci si prende,” rispondevano altri.
“Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum...” cantilenavano i restanti.
E, ad un tratto, calò il silenzio.
Un essere bianco passò fra di loro incurante della loro presenza. Camminava leggero con i piedi che pareva non sfiorassero neppure il terreno, il mento sollevato, il naso appena arricciato per l’odore della paura, lo sguardo puntato sulla luna.
Gli abitanti del villaggio seguirono il suo passaggio, gli occhi calamitati dal lucore che aleggiava attorno alla sua figura, dalla sua indifferenza. Per un momento il tempo parve fermarsi. Quando sparì dalla loro vista, nessuno seppe dire se avevano visto un uomo, un angelo o una bestia.
Chi iniziò a gridare, chi ricominciò a pregare cadendo in ginocchio, chi iniziò a piangere. Pochi rimasero in silenzio, molti corsero verso il vecchio parroco che fu trascinato di peso in canonica e fatto vestire in quattro e quattr’otto. Nonostante l’ora tarda, la statua della Madonna venne portata in piazza e fu celebrata una messa per ringraziare il buon Dio e per scongiurarlo di tener lontane altre sciagure del cielo, della terra e del Maligno.
In quell’atmosfera di follia collettiva, nessuno notò Corinna trotterellare dietro lo spirito bianco per nulla spaventata né notarono l’assenza della bambina e della vecchia alla tanto importante quanto improvvisata funzione.
***
Sesshomaru camminava osservando la luna, annusando la paura e lasciando guidare i suoi passi dalla percezione di un potere antico, contro cui aveva combattuto e contro cui aveva perso. Un ringhio salì dalla sua gola, mentre il brusio degli uomini alle sue spalle diventava sempre più forte e davanti a sé vide un’altra luce brillare, una luce che non era la luna e che non era in cielo.
Sesshomaru socchiuse gli occhi e osservò meglio la scena: una vecchia reggeva il monile tra le mani e un uomo – lo stesso che non aveva creduto alla sua esistenza – era lì con lei. Non sapeva ancora se erano nemici, ma lo avrebbe scoperto molto, molto presto.
Proseguì il suo cammino e si fermò di fronte ai due umani.
***
La donna alzò il viso sofferente e il suo sguardo incredulo seguì la sua figura e i suoi movimenti fino a che non si parò innanzi a lei. A quel punto ogni dubbio era scemato dal suo volto e i suoi occhi piccoli e scuri cercarono quelli dello spirito e li trovarono. Parevano chiedergli di ricordare e Sesshomaru lo fece: la esaminò alla luce della luna e vide un’anima antica che aveva vissuto il tempo che a lui era stato negato, un’anima che non era cambiata, uno spirito mutevole e un corpo consumato. Ecco di cosa erano fatti gli uomini, eppure erano stati capaci di sopravvivere anche senza gli spiriti. “Forse non siete così indispensabili,” mormorò una vocina nella mente di Sesshomaru. “Forse, in quel luogo, non ti è mancata solo la luna...”
E vide altri occhi sul volto di un’altra vecchia. Vide un’altra radura, altri occhi e altri volti determinati a sconfiggere la Sfera e, ancor di più, a sconfiggere Naraku. C’era la cacciatrice e il portatore della maledizione, c’era una bambina umana e un cucciolo di volpe, c’era la fanciulla e c’era Inuyasha. Ora erano rimasti solo loro due. Eppure il cane nero aveva detto che voleva l’anima di Naraku e la voleva prima della luna piena. Ma quando sarebbe arrivata la luna piena? Sesshomaru non lo sapeva: per lui la luna era sempre lì, tranne in quei giorni in cui Inuyasha tornava a essere uomo e un grande essere bianco lo seguiva da lontano. E in ogni caso perché aspettare altro tempo?
Sesshomaru tese la mano verso la Sfera, ma la vecchia lo fermò: “Non puoi farlo da solo, Sesshomaru. Da solo sei già stato sconfitto.”
Un ringhio salì dalla gola dello spirito, rabbia e umiliazione lampeggiarono nei suoi occhi: avevano combattuto in tanti, ma non insieme. La cacciatrice voleva vendetta, il maledetto redenzione, la fanciulla voleva difendere, Inuyasha voleva affermare. Ed egli voleva rispondere alla sfida di Naraku e vincere. Nessuno di loro aveva fatto i conti con quello che voleva la Sfera.
Il tossicchiare della vecchia lo riportò alla realtà e le sue parole risposero alla sua domanda inespressa: “Successe tutto nell’attimo in cui i vostri colpi si abbatterono sulla Sfera: un lampo accecante disegnò sulla terra la sagoma di un’enorme bestia nera. Da quel momento il mondo non fu più lo stesso: voi e tutti gli spiriti scompariste da questo mondo, le sembianze di Kagome, Inuyasha e Naraku sparirono dentro la Sfera stessa mentre i loro corpi privi di vita rimasero a terra. Sango e Miroku rimasero a osservare la fine della loro battaglia e delle loro speranze: sono morti e ora si è estinta anche la loro stirpe.” Un colpo di tosse poi la vecchia inspirò profondamente: “Tuttavia l’ultimo erede ha lasciato un testamento e qualcuno l’ha raccolto,” terminò indicando il bardo.
Sesshomaru girò appena il volto e il suo sguardo si poggiò sull’uomo, ma, sebbene fosse vicino alla vecchia, la luce della luna non lo lambiva, protetto dall’ombra del ciliegio. Aveva odorato la sua paura sin da quando aveva negato la sua esistenza attraverso il lago, ma ora, lo stava studiando, di questo Sesshomaru era sicuro. Una volta avrebbe strappato la testa a chiunque avesse osato molto di meno.
“Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum. Benedicta tu in mulieribus, et benedictus fructus ventris tui, Jesus. Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostrae.”
Le preghiere della gente giungevano dalla piazza come un lontano mormorio e il bardo, senza emettere alcun suono, formava con le labbra quelle parole, a scudo contro lo spirito che aveva davanti. Contro il destino che lo raggiungeva un’altra volta. Contro la paura che lo attanagliava.
“Mi era parso di capire che non andaste molto d’accordo con preti e orazioni,” commentò la vecchia, il suo sguardo acuto negli occhi dell’uomo. Il bardo si interruppe, rendendosi conto solo in quel momento che stava pregando con il cuore più che con le parole. Una risatina imbarazzata uscì dalle sue labbra.
“State bene?” chiese Corinna avvicinandosi. Solo allora il bardo smise di fissare lo spettro e spostò lo sguardo sulla bambina fradicia: si tolse la giacca leggera che portava e gliela mise sulle spalle, per ripararla dall’aria della notte. Quel gesto, un brivido sulla pelle e il suono della sua stessa risata lo riscosse: si alzò in piedi e fissò prima Sesshomaru, poi la Sfera e quindi la vecchia. Era convinto che la paura potesse salvare la pelle, ma che fosse la curiosità il vero motore delle umane gesta. Ma al punto in cui era arrivato neppure la paura avrebbe potuto salvarlo, tanto valeva finire la partita e farlo su gambe salde. “Sembra che quella vecchia storia fosse vera dopotutto,” commentò con un sorriso. “E sembra che siamo noi o dover scriverne la fine.” E forse anche a cantarla, un giorno, aggiunse mentalmente.
Come in risposta a quelle parole, la Sfera scivolò dalle dita della vecchia rotolando nel cerchio che il quartetto aveva formato. La sua luce aumentò, pallida e fredda, a sfidare persino la luna.
***
La dormiente si alzò in piedi e si avvicinò ai due guerrieri: fece un giro attorno a loro, osservando quanto fossero cambiati durante quella prigionia. Per quanto tempo avevano lacerato le proprie anime in quella battaglia che non voleva consacrare né un vinto né un vincitore? Per quanto tempo lei aveva dormito, dimentica – seppur consapevole – delle loro battaglie?
Naraku non le aveva tolto gli occhi di dosso: la figura della fanciulla risvegliava in lui il desiderio di una carne che ormai non gli apparteneva più. Allungò una mano per sfiorare la pelle bianca e liscia, per sentire il sangue scorrere sotto di essa, per assaporarne la vita. Desiderò poter accarezzare i suoi capelli, contare le vertebre della sua schiena, delineare il profilo delle sue coste, sentire i suoi seni caldi fra le mani. sfiorarle il petto e il ventre e farla fremere di piacere mentre l’accarezzava con le dita, mentre la penetrava con il suo sesso. Possedere il suo corpo per possedere la sua anima, la sua bellezza. Perché fosse sua. Non era importante se come Kikyo o come Kagome. Non era importante se subito dopo l’avesse uccisa e con lei la sua ossessione. Solo, doveva essere sua...
Fu lo sguardo nero e gelido della fanciulla a fermare la sua mano: trasudava disprezzo, stillava disgusto. Comprendeva il suo folle desiderio e, per l’ennesima volta, lo rifiutava. E lo dannava.
Inuyasha non le aveva tolto gli occhi di dosso: non voleva che si avvicinasse tanto al combattimento, non voleva che lei venisse ferita. Da sempre, le ferite della fanciulla gli avevano fatto più male delle proprie. Allungò una mano per portarla al sicuro, per farle scudo con il proprio corpo. Allungò una mano per una fugace carezza, per il desiderio si sentirla viva, per darle il coraggio di resistere e per trovare quello per combattere.
Fu il colpo di Naraku a fermare la sua mano.
La battaglia era ricominciata. Ma qualcosa era cambiato: la sua consapevolezza, la sua percezione, lo stesso potere che aveva usato per sopravvivere. Lo sentiva di nuovo scorrere nella sua anima, pulsare di nuova vita, aspettare di essere usato. Non doveva farsi tentare un’altra volta: quella prigione era durata fin troppo. Ma non avrebbe potuto abbatterla da sola. Né avrebbero potuto farlo i due contendenti. Ma era passato il tempo in cui loro tre erano soli, in un luogo buio, stretto e caldo, ma troppo piccolo per essere l’Inferno.
“Sono arrivati,” mormorò la fanciulla, lo sguardo perso in un punto lontano, in alto. I due combattenti si fermarono ad ascoltare le sue parole.
“Sono tornati a finire ciò che hanno lasciato in sospeso.”
La battaglia ricominciò ancora più serrata mentre un sorriso luminoso distendeva i dolci lineamenti della fanciulla.
***
Note dell’autrice: ebbene sì, c’è voluto molto più tempo del previsto... ma abbiate fede! Baci a tutti!
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=238625
|