Salviamoci la pelle.

di Schizophrenia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. -Bruises. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5. -Words. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6. -Open Wounds. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7. -Happy New Year, soldier. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8. -Who will take care of you? ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9. -War. ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10. -Liebe. ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11. -Katjuša. ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12. -Segreti. ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13. -Come noi vorremmo che fosse. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. ***


Ed ecco!
Giovini, non c'è voluto poco per scrivere ciò che vedete, anche se non è poi un granché xD
D'accordo, non sarebbe neanche il periodo adatto per pubblicare una storia del genere ma, in fondo, ne esiste davvero uno?
Esiste forse un momento per ricordare un periodo storico che ha sconvolto totalmente la storia?
Ah, io non lo so mica: lascio la risposta a voi.
Sentivo solo che dovevo scrivere questo perché... perché il nazismo e la Seconda Guerra Mondiale, a loro modo -modo assurdamente strano-, mi affascinano. Non ero presente all'epoca, quindi mi scuso ufficialmente con tutti i lettori. :3
Beh, non ho altre cazzate da sparare, per adesso.
Ah, una nota c'è ù.u
Il titolo di questa storia, “Salviamoci la pelle”, è ripreso da una canzone omonima assurdamente fantastica di Ligabue, vi consiglio di ascoltarla.
Schizophrenia.
 
 
Salviamoci la pelle


Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
14 Dicembre 1943
10:32
 
Il rumore del grilletto, il proiettile che centra perfettamente il punto in cui dovrebbe esserci il cuore, l'adrenalina che sale nel ragazzo che alza e abbassa le spalle, al ritmo del suo respiro...
Da quante ore quel ragazzo era chiuso al poligono di tiro?
Forse da quando aveva ricevuto la notizia di essere riuscito ad entrare nell'SS.
Oh, non che non ne fosse felice: Mark Schreiber aveva versato sudore e sangue per il ruolo di soldato semplice. La cosa che lo irritava da morire, così tanto da rinchiudersi tutto il giorno a sparare ad una sagoma scura, era il fatto di non poter andare in guerra.
Mark Schreiber doveva rimanere lì.
Un nazista prigioniero in un lager; qualcuno lassù aveva un delizioso senso dell'umorismo.
Mark era alto, biondissimo, dalle spalle larghe, il perfetto tedesco se non fosse stato per il suo difetto più grande. Ciò che lo faceva stare male ogni giorno, ciò che gli faceva dubitare di appartenere alla razza ariana, ciò che faceva fare una smorfia di puro disgusto a suo padre ogni volta che lo vedeva: i suoi occhi color cioccolato fuso.
Il biondo sospirò afflitto e ripose la mitragliatrice, uscendo a passo veloce dal quell'edificio, percorrendo velocemente il campo, sentendo l'odore di carne bruciata entrargli nelle narici senza riuscire più ad uscire, ipregnandogli le vesti. I nazisti armati all'ingresso lo conoscevano: insomma, era il figlio del grande capo. Sì, certo, che merda.
 
 
Weimar, Germania.
14 Dicembre 1943
13:20
 
<< Non dovresti essere felice? >>, Walter riusciva sempre a vedere il lato positivo in tutto.
Mark assottigliò lo sguardo, osservando il suo migliore amico, << Potrei mai, adesso? >>
Certo che no. Aveva fatto tutte quelle stronzate... anni di addestramento solo per rendere fiero suo padre... aveva poi, col tempo, imparato anche ad odiarlo ed ora era costretto a rimanere lì, a dirigere il campo di concentramento di Buchenwald con lui. No, non con lui: sotto di lui.
Walter era l'apoteosi del perfetto tedesco: biondo, occhi azzurri. Forse un po' troppo magrolino.
<< Sì, non è così difficile, Mark: stai lì, fai il tuo lavoro e ti diverti ad ammazzare qualcuno quando la giornata inizia a diventare fiacca >>
A volte Mark Schreiber non credeva che quello lì fosse davvero il suo migliore amico: quegli scatti di strafottenza non erano da lui. Era nervoso... o preoccupato. In entrambi i casi era strano.
Il biondo scosse la testa, << Walter, non ho fatto tutto questo per restare lì >> sbottò, irritato, sprofondando nel comodo divano di casa Hoffmann.
Il giovane Hoffmann gli lanciò un'occhiata perplessa: conosceva Mark da troppo tempo per credere a qualunque cosa uscisse da quella bocca, << Vuoi partire o vuoi semplicemente allontanarti da tuo padre? >>
Una scrollata di spalle accompagnò lo sguardo 'improvvisamente diventato nero di Mark, << Voglio solo combattere per la mia patria, va bene? >>
<< Beh, adesso non puoi >> rispose, risoluto, Walter, andandosi a versare della birra in cucina.
Mark alzò il capo, stranito: Walter non era mai freddo. Mai. Soprattutto non con lui: non era riuscito a tenergli il broncio neanche quando la sua ragazza lo aveva lasciato per Mark. Ovviamente, ragazza che Schreiber aveva rifiutato, certo.
Il giovane si passò una mano tra i capelli sospirando: sì, sapeva cos'aveva il suo migliore amico; in fondo si conoscevano fin da quando entrambi abitavano a Berlino, prima della morte di sua... no, era meglio non pensarci. Fatto stava che Walter era un pacifista e odiava il nazismo. Tutti gli Hoffmann aveva le stesse idee di Walter, ma contraddire il governo non è mica cosa facile.
Mark dal canto suo non gli sparava alla testa solo perché senza il suo migliore amico si sarebbe suicidato, sicuramente. Gli era stato insegnato che tutto quello era giusto e naturale come respirare.
Si alzò dal divano, raggiungendo il suo migliore amico, << Senti... okay: hai ragione, sto esagerando >> si stava scusando? Forse; in maniera molto vaga. Era troppo orgoglioso per scusarsi davvero. << Ti va di venire con me, questo pomeriggio? Ti faccio vedere l'uniforme e tutto quello che mi hanno assegnato >> sorrise speranzoso, Mark.
Walter si voltò verso il biondo, osservandolo per alcuni minuti, fino a stendere le labbra in un lieve sorriso, << Certo >>.
Nonostante fosse un pacifista Walter sapeva che il sogno del suo migliore amico era sempre stato diventare un soldato dell'SS, per rendere fiero suo padre, probabilmente -anche se non l'avrebbe mai ammesso-; Mark era riuscito a realizzare il suo sogno.
Quindi, se il giovane Schreiber era felice, anche Walter Hoffmann lo era.
 
 
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
14 Dicembre 1943
19:30
 
<< Però, carina la tutina mimetica, Mark, hai intenzione di far colpo su qualche ragazza?! >> lo punzecchiò Walter.
Il biondo di fronte a lui non riuscii a trattenersi da una sonora risata: il malumore del mattino era decisamente scivolato via, grazie al suo migliore amico.<< Sai che amo solo te... come potrei pensare di tradirti?! >> rispose, con palese ironia.
No, Mark era così solo con Walter: quello era il vero Mark, e di certo non poteva essere il vero Mark con tutte le altre persone che conosceva; tutte le persone che si aspettavano sempre qualcosa da lui. No, non poteva.
Le risa del novello soldato furono subito accompagnate da quelle del giovane Hoffmann: << Attento, Mark, se tuo padre ti sente parlare così ti butta direttamente nelle camera a gas >>
E ancora giù con le risate, Mark gli rivolse un'occhiata divertita, << Per te, affronterei anche la morte >> lo prese in giro.
Erano sempre stati così legati Mark e Walter? Sì, sempre. Da quando si erano conosciuti in una scuola elementare di Berlino.
E risero, risero fino a sentir male allo stomaco: Walter seduto sul letto del biondo ad esaminare le nuove divise del soldato semplice Schreiber e quest'ultimo in piedi, con indosso una delle divise dell'SS, appunto.
Risero ancora, consci che quello era l'unico modo per sfuggire alla realtà di ciò che succedeva intorno a loro.
Risero, con le finestre chiuse per non sentire l'odore di carne umana che veniva bruciata nei formi crematori.
Risero, perché forse gli era rimasta solo la loro amicizia, in tutta quella merda.
Risero, finché non si sentì un bussare assiduo alla porta della camera di Mark, che subito si ricompose: assumendo un'aria da soldatino per bene. Perfetto, in ciò che perfetto non poteva proprio essere.
La porta si aprì e sull'uscio fece capolino un nazista, vestito con la sua bella divisa perfettamente in ordine. Mark e l'uomo si scambiarono il saluto di Hitler. Mark lo aveva riconosciuto: era un caporale; solo un gradino su di lui, certo, ma poteva sempre dargli degli ordini.
<< E' arrivato un nuovo carico di merce, soldato. Suo padre si aspetta di vederla all'ingresso con gli altri >> furono le parole del caporale. Semplici, sbrigative, fredde; prima che quest'ultimo sparisse dalla visuale dei due.
Mark rivolse lo sguardo verso il suo amico, << E così papà vuole mostrarmi come funzionano le cose... che carino... >> commento, con sarcasmo, aggiustandosi la divisa.
Walter intanto teneva un sopracciglio inarcato, << Merce? >>
Il nazista si strinse nelle spalle, << Sì, merce. Ebrei, prigionieri politici, omosessuali >> spiegò, sbrigativo. << Dio, lo odio. Cerca solo di mettere in chiaro che sono un suo sottoposto e che devo obbedirgli. Non potrò fare nulla di testa mia; continuo a chiedermi perché non mi abbiano mandato sul confine a comba... >>
Le sue parole furono bloccate dall'occhiata del giovane Hoffmann, << Sono persone, non merce >> puntualizzò.
Mark Schreiber sembrava irritato dal fatto che il suo migliore amico ritenesse più importanti le cose di cui la sorte era già stata scritta, esseri inferiori, piuttosto che i continui tentativi di suoi padre di umiliarlo. << Ha importanza? >> chiese, irritato.
Ricevette in risposta una scrollata di spalle e si ritrovò a seguire il suo migliore amico che si affrettava verso l'ingresso del campo.
Sapeva di averlo fatto arrabbiare ma era ciò che gli era stato insegnato sulle persone che venivano portate in quei campi di lavoro. Almeno lì si rendevano utili alla società e, quando non potevano più lavorare, era ovvio che venissero uccisi. Certo, questo secondo ciò che gli aveva detto suo padre, quando Hitler era diventato Führer della Germania nel 1934 e lui aveva solo undici anni. Ormai ne aveva venti, ma non riusciva a pensare che le cose potessero essere diverse.
Walter Hoffmann sembrava proprio non pensarla così.
Camminarono insieme, Mark dietro Walter, fino a quando non videro uomini e donne scendere da un tremo, accerchiati da soldati semplici, caporali, sergenti e tenenti. Erano tutti armati: beh, era ovvio, avevano di fronte una razza inferiore, oltre che malviventi di ogni tipo.
Mark era perfetto in quel momento: era in posa, come un soldatino, teneva in mano il fucile, pronto per l'utilizzo. Se non fosse stato per quegli occhi nocciola che lo facevano sembrare così poco tedesco. Continuò a tenere sotto controllo la situazione, osservando ogni deportato con particolare attenzione.
<< Ho qualcuno da affidarti >> sobbalzò alle parole del maggiore Schreiber, suo padre.
<< Di chi si tratta? >> Mark non lo guardava: teneva lo sguardo fisso sulla folla.
<< Una deportata un po' speciale >> suo padre stava ghignando, era evidente.
Uno sbuffò sonoro provenne dalle labbra di Walter, << Non fanno tutti ugualmente schifo? >>. Il ragazzo omise un "per voi" che però pensava da troppo tempo.
Il maggiore sorrise, un sorriso alquanto viscido, << Oh, salve, Walter, sei venuto a trovarci? Non me n'ero accorto. Comunque sì; ma questa persona ci, come dire? Serve >>
Mark sembrava curioso, ma non si azzardava a guardare suo padre negli occhi, << Per cosa? >> trovò il coraggio di chiedere.
<< Verrai a saperlo a tempo debito >> le parole di suo padre, prima che si avvicinasse ad un tenente.
Poi lei fece il suo ingresso, ma per Mark fu uguale a tutti quanti; ma Walter, oh Walter capì subito che il maggiore Schreiber, il padre del suo migliore amico, stava parlando di lei: era effettivamente speciale. C'era qualcosa di elegante nel pallore niveo e malato che le avvolgeva il corpo. I boccoli corvini le ricadevano setosi e lucenti lungo la schiena: sembrava non aver risentito del lungo viaggio, tra pulci e malati di ogni genere. Il nasino all'insù le dava un'aria anche un po' altezzosa. Era bassa: bassissima e minuta. Walter iniziava a chiedersi se con un corpo così gracile avrebbe resistito lì dentro ma i suoi occhi verdi rilucevano di pura sicurezza. Sicurezza e decisione, qualità che annebbiavano l'alone -ahimè, pur sempre presente- di tristezza.


 
"Noi l'ameremo, finché cadrà
perciò , dio voglia, ci piacerà
Ci piacerà, ci piacerà, ci piacerà 
ci piacerà, ci piacerà, ci piacerà!
Cambiare stile, falciando teste,
Cambiare amore, cambiare veste,
Tradire tutti, per non star solo.
Qualunque cosa...
Se piacerà!"
[E' solo febbre, Afterhours]

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. ***


 

Ragazzi questo capitolo... è un capitolo. xD
Lo so, lo so: ci ho messo tempo ad aggiornare ma sono stata un pochino impegnata. Comunque adesso sono qui è cercherò di aggiornare in modo regolare. Diciamo intorno ai 5-6 giorni per capitolo.
Dovrei decisamente andare a studiare qualcosina, però un paio di minuti ve li dedico, ve li strameritate. *w*
Devo dire che mi ha veramente sorpresa ricevere tante visite per questa fanfic, non pensavo che ci fossero così tante persone, oltre me, a cui interessasse l'argomento di cui tratta.
Vorrei ringraziarvi tutti, davvero *-* Siete fantastici **
Ringrazio poi le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
- Bbw87
- Fairness
- Mareike Tiaycia
- OlandeseVolante
Coloro che la hanno inserita tra le preferite:
- chyo
- Giulss
- kikka23
E infine le due magnifiche ragazze che hanno trovato il tempo di recensire:
- Lizzy_96
- Norine
 
Bene, detto questo, buona lettura, gente. *-*
Schizophrenia.
 
 
 
 
Salviamoci la pelle.
 
 
 
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
15 Dicembre 1943
6:02
 
Mark Schreiber aveva già visto belle donne, era a conoscenza di quanto fosse effimera la loro bellezza. Il soldato semplice aveva già conosciuto l'ebrezza che si prova al momento del piacere; ma il giovane Schreiber non aveva mai provato affetto o compassione per una donna. Per lui, donna era solo sinonimo di "oggetto sessuale", nel migliore dei casi, ed "intralcio", in tutti gli altri.
Suo padre sapeva bene quanto quel compito fosse ingrato non solo per suo figlio, ma per tutti gli arruolati nell'SS. Forse era proprio l'inutilità di quell'incarico, l'umiliazione che può provare un giovane ragazzo armato di fucile e pronto a morire per il suo paese nel vedersi affidata una mocciosetta di non più di sedici anni, ad aver convinto suo padre a scegliere il suo unico figlio come "prescelto". Stava cercando ancora una volta di sottolineare, ma stavolta dinnanzi a tutti quanti, la sua inettitudine.
Odiava quell'uomo dal profondo del suo cuore, e non era assolutamente intenzionato a farsi dare ordini di quel tipo. Che bisogno c'era di badare ad una mocciosetta?! Non sapeva nemmeno il motivo per il quale era lì: probabilmente era ebrea... e allora perché non l'avevano mandata a lavorare come tutti gli altri?!
No, quella ragazzina aveva avuto un trattamento speciale. Era stata portata in casa loro, ai limiti del campo e lui doveva occuparsi del fatto che non scappasse. Non era nemmeno sicuro che le avessero fatto la doccia... magari aveva qualche strana infezione addosso e gliela avrebbe passata: forse suo padre voleva farlo ammalare per toglierlo di mezzo.
Probabilmente era l'odio che nutriva verso il padre a fargli partorire idee simili, ma era visibilmente irritato in quel periodo, persino durante l'allenamento, quella mattina.
L'aveva vista solo la sera prima, per poi farla chiudere a chiave nella stanza che suo padre aveva fatto preparare per lei. Già, la sera prima. Quella ragazzina aveva l'aria più insolente che il ragazzo avesse mai visto.
Il soldato rifletteva, mentre si avvicinava all'aria di addestramento dell'SS.
Forse avrebbe dovuto controllare quella ragazza. Il suo dovere di soldato glielo imponeva, ma la sua mente gli impediva di fare qualunque cosa fosse stato ordinato lui dal padre. Odiava quell'uomo per come lo trattava e per tutto quello che faceva. Prima, prima che lei morisse però, era tutto diverso. Quanto gli mancava; ma non doveva pensarci. Ricordava quel periodo e non era stato affatto bello.
Era ancora indeciso. Andare o non andar a controllare davvero la mocciosetta arrivata da solo-Dio-sa-dove e ubbidire agli ordini, oppure far scappare la suddetta mocciosetta in modo da far arrabbiare suo padre? Difficile, molto difficile.
Ci meditò tutto il giorno, mentre si allenava.
Aveva adorato l'addestramento da quando era ancora un semplice allievo milite, e non sapeva neanche se sarebbe diventato un allievo ufficiale. Lo aiutava a scaricarsi e a migliorare il suo corpo, senza dar peso a tutto quello che succedeva intorno a lui. Senza dar peso a quelle persone che venivano uccise solo perché non appartenenti alla sua razza. L'allenamento gli faceva dimenticare persino suo padre... quindi, era assolutamente la cosa migliore che fosse mai capitata a Mark Schreiber in tutta la sua vita. Il soldato, in quel momento, però, avrebbe dato la vita per essere mandato su un fronte.
Ci rimuginò parecchio, arrivano ad una conclusione: forse, se si fosse dimostrato abile, rispettoso dei suoi superiori e pronto ad eseguire gli ordini, lo avrebbero promosso e mandato di certo con qualche truppa a combattere. Lontano da Buchenwald.
Presa questa decisione, Mark passò il resto della mattina concentrandosi sul suo corpo e di come reagiva ai duri allenamenti ed esercizi ai quali si sottoponeva ogni giorno. Anche dopo il normale allenamento insieme a tutti gli altri soldati, infatti, il ragazzo restava sempre almeno un paio d'ore ad allenarsi in completa solitudine, lasciando che la sua mente si svuotasse.
 
 
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
15 Dicembre 1943
18:46
 
Bea Gurtsieva era seduta sul letto, uno dei pochi mobili che arredava la stanza nella quale si trovava. A parte quello c'era un tavolino con sopra una lanterna e un armadio davvero in pessime condizioni; contenente qualche vestito vecchio e troppo largo per il suo esile corpo.
La ragazza se ne stava lì, ferma e immobile: osservava la finestra, piccola e troppo in alto, sebbene non pesasse più di 43 kg, non ci sarebbe mai passata; di lì a stento ci passava l'ossigeno che riusciva a respirare. Certo, sempre che si potesse considerare ossigeno ciò che inalava. Odorava molto più di sporco, terreno, umido e... bruciato.
Non sapeva esattamente cosa succedesse in quel luogo. Suo padre gli aveva parlato molto dei lager, ma non si era mai preoccupata più di tanto: la sua famiglia era sempre stata protetta. Suo padre era un Colonnello Generale dell'Amata Rossa e poi, anche in quel momento; era lì e non sapeva, per giunta, il motivo per il quale ci era finita? Perché comunista? Forse, questo suo padre glielo aveva detto: "Sono posti orribili. Ci portano chiunque sia diverso da loro e da loro ritenuto sbagliato. Ebrei, comunisti, invalidi, omosessuali e via dicendo".
Eppure c'era ancora qualcosa che non quadrava, per Bea. La ragazza non brillava certo dell'intelligenza di cui era dotato Einstein, però aveva ricevuto anch'ella una certa cultura, nonostante la giovane età; e sapeva che se fosse stata una prigioniera comunque, come tutti gli altri, l'avrebbero portata in quelle camere e le avrebbero dato uno di quei completi con le sottili righe verticali, probabilmente le avrebbero anche tagliato tutti i capelli come aveva visto qualche persona nel campo.
Invece no. Della sera prima ricordava ben poco. Ricordava tutto in modo così confuso. Probabilmente era dovuto al fatto che aveva passato tanto tempo in un treno dove c'era pochissimo spazio. Senza mangiare, né tanto meno bere. Aveva sentito il tanfo delle feci altrui e delle sue. Aveva visto anche delle persone morire, visto i loro corpi rimanere lì, in quei vagoni-merci. Erano stati dei giorni orribili.
Appena scesa dal treno, invece, un uomo la aveva afferrata in malo modo, trascinandola via dalla massa di gente che veniva fatta spogliare, sotto la neve tedesca di Dicembre e portata in delle stanze. Bea non aveva idea di cosa sarebbe successo loro, aveva però visto com'erano le persone che già c'erano, prima del loro arrivo, e temeva che quello sarebbe stato anche il suo destino.
Subito dopo aveva sentito delle voci; ma non vedeva bene le sagome di quelle persone: aveva la vista offuscata; era stanchissima. Le era stato chiesto qualcosa in tedesco: lei il tedesco lo conosceva, lo aveva studiato, ma le girava la testa e non riusciva a dire niente. L'avevano picchiata, ricordava, ogni volta che non parlava o rispondeva in russo. A Bea mancava l'accento russo, forse perché suo padre era di origini italiane e non aveva quell'accetto, o forse perché nelle donne era sempre stato più dolce e lieve.
In fine, era stata chiusa a chiave in una stanza, in quella stanza. Aveva talmente tanto sonno, era talmente stanca e priva di forze che si era addormentata subito. Sì, si era addormentata subito, ma il suo non era stato un sonno benefico. Quel tempo passato a dormire, al suo risveglio, era riuscito soltanto a metterle ancora più ansia addosso.
Non aveva più visto nessuno, dalla sera prima e stava iniziando ad avere paura, ma non l'avrebbe dimostrata a quei bastardi dei nazisti. Non sapeva perché l'avevano portata lì, riservandole un destino diverso da quello di tutti gli altri deportati, ma sicuramente non era nulla di buono, e la paura avrebbe soltanto fatto alimentare il loro potere su di lei.
Bea si alzò dal letto, iniziando a camminare in tondo per la stanza: fare qualcosa... fare qualcosa... tentare di fuggire sarebbe stato sicuramente un suicido, altrimenti le sarebbero giunte notizie di comunisti che ce l'avevano fatta. Forse avrebbe tentato ma non in quel momento: era troppo debole e il sonno leggero di quella notte non l'aveva di certo aiutata a ritrovare le energie perse.
Doveva decidere cosa fare, non che fosse una cosa facile: non sembravano esserci possibilità di fuga; né tanto meno di scappare in altro modo da tutto quello.
Bea Gurtsieva non aveva assolutamente idea di ciò che doveva fare per sopravvivere, ma decise ugualmente di affrontare quell'inferno, anche se forse volevano ucciderla: non aveva ancora visto un po' di pane o un goccio d'acqua da quando i soldati dell'SS la avevano portata su quel treno.
Eppure, nonostante tutto, lei sapeva che non sarebbe morta lì.
 
 
 
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
17 Dicembre 1943
22:01
 
Mark aveva passato due interi giorni a chiedersi se la decisione da lui presa fosse quella giusta. Ancora non si era fatto vivo nella camera della ragazza: l'orgoglio era troppo grande, non voleva ubbidire a suo padre; ma forse era l'unico modo per riuscire ad allontanarsi da lui, quindi un tentativo doveva pur farlo.
Il ragazzo sentii bussare alla porta della sua camera e scattò in piedi: si illuminò quando si trovò davanti Walter, << Ehi, ciao. A cosa devo questa visita? >> chiese, in tono ironico; ma era felice di vederlo. Walter Hoffmann era in assoluto l'unica persona che avesse mai desiderato vedere da quando lei era morta; soprattutto in momenti difficili come quello, ma Mark non sapeva che, senza neanche saperlo, Walter stava per dargli una mano a prendere una delle decisioni più difficili della sua vita.
Il giovane Hoffmann aveva l'aria triste, << Ehilà >>, salutò a sua volta l'amico, entrando nella sua camera. Era sempre triste quando entrava a Buchenwald e vedeva tutti i deportati: nessuno si meritava un trattamento simile, nemmeno il peggiore dei criminali: come facevano Mark e suo padre a trovare giusto tutto quello che stava succedendo? Certo, Walter non voleva certo che si mettessero contro Hitler, ma trovava impossibile condividere le idee di quel dittatore.
Il soldato Schreiber tuttavia non smise di sorridere e richiuse la porta alle spalle del suo migliore amico, << Non ti sto cacciando, Walter, lo sai che non lo farei mai e tanto meno voglio essere scortese con te... ma che ci fai qui a quest'ora? >> chiese ancora, raggiungendo l'amico che era andato a sedersi sul letto e spostando la sedia da vicino alla scrivania, sedendocisi sopra.
<< Sai che papà è medico in questo campo, no? >> gli chiese l'amico.
Mark annuii, senza interromperlo: come avrebbe potuto dimenticarlo?! Il padre di Walter era un medico dell'SS, curava i soldati feriti di ritorno dalle battaglie e da poco era stato spostato dal fronte al loro campo di concentramento, anche se viveva ancora a Weimar con la sua famiglia. Nel campo il signor Hoffmann curava gli ebrei, ma non era come gli altri medici: lui li curva davvero, senza fare esperimenti su di loro e senza ucciderli con qualche intervento rischioso. A volte portava anche del materiale comprato da lui, per curarli; Mark non credeva fosse poi tanto legale e che il medico potesse farlo ma non aveva mai detto niente: sia perché era il padre del suo migliore amico, sia perché non capiva perché ci tenesse tanto a curare quegli uomini che, come sapevano tutti, sarebbero morti lo stesso. Quindi che senso aveva darsi tante pene per loro?
Inoltre Mark vedeva il signor Hoffmann un po' come il padre che non aveva mai avuto.
Il solato ricordava quando andava a scuola, alle elementari, con Walter, a Berlino e il suo migliore amico diceva al padre di aver preso u buon voto. Ricordava il sorriso caloroso che il padre rivolgeva al figlio, tutto contento, prima di abbracciarlo... e poi sorrideva anche a lui, chiedendogli: "Invece a te com'è andata la giornata a scuola, eh, Mark?"
Suo padre non gli aveva mai chiesto com'era andata a scuola.
<< Bene, oggi tuo padre gli ha dato un compito strano... ha dovuto visitare una ragazza. Occhi verdi, capelli scuri... non è sicuro sia una deportata, mio padre. Ce ne ha parlato oggi a cena >> continuò Walter.
Mark ormai aveva capito che si trattava nella ragazzina chiusa nella stanza alla fine del corridoio. Forse era bene ascoltare Walter in quel momento: quella mocciosetta poteva avere qualche malattia altamente contagiosa. Il soldato conosceva abbastanza bene il suo migliore amico però da sapere che il ragazzo era perfettamente a conoscenza della persona di cui stava parlando, ma non voleva dare l'impressione di sapere troppo.
<< Comunque sembra abbastanza in salute. In treno non ha contratto malattie, però non si nutre da giorni. E' sfinita >> concluse il suo migliore amico.
Il soldato lo guardò stupito: quindi nessuno le stava portando da mangiare? Già, in fondo perché avrebbero dovuto... era soltanto una deportata e lui l'aveva fatta chiudere a chiave nella sua stanza: non poteva neanche uscire per andare a fare la fila come tutti gli altri ebrei e quant'altro che lavoravano nel campo. D'accordo, alla fine non gli interessava per niente della ragazzina in sé, ma lei rappresentava l'opportunità che aveva di farsi promuovere e di andarsene il prima possibile da quel campo e da suo padre. Non poteva decidere di morire proprio quando gli serviva.
<< Beh, nessuno qui al campo è nutrito come si deve, Walter, comunque ne parlerò a mio padre >> rispose Mark,fingendo indifferenza.
Desiderava davvero molto andarsene da quel posto, tanto da mentire al suo migliore amico: non lo aveva mai fatto in vita sua e di certo non aveva in programma di iniziare quella sera, così, per una ragazzina che non mangiava -o, peggio, che decideva di non mangiare-, né tanto meno bere, andando così incontro a morte certa. Già, era altamente stupida, ma in quel momento al giovane Schreiber quella ragazzina altamente stupida serviva per scappare da quel campo.
 
 
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
18 Dicembre 1943
23:01
 
Al soldato era servito un altro giorno per prendere una decisione quantomeno ragionevole. Alla fine aveva deciso di obbedire a suo padre, sebbene il suo orgoglio se risentisse.
Passò a prendere un po' di zuppa dalle cucine. La sua visita era unicamente a scopo di tenerla in vita, non sana, ma quanto meno capace di testimoniare, con la sua presenza, quanto il ragazzo fosse un ottimo soldato e, quindi, pronto ad andare in battaglia come tutti gli altri. Forse sarebbe servito a poco, ma valeva la pena tentare.
Il giovane Schreiber percorse frettolosamente i corridoi: non aveva mai parlato con un deportato prima di quel momento. A volte lì vedeva, passando per il campo, ma non si era mai fermato a salutarne uno o a dirgli qualcosa: che senso avrebbe avuto?
A lui, tutti quei prigionieri, neanche interessavano. Lui voleva solo fare carriera, ovviamente. Non gli interessa di quell'inutile razza richiusa lì dentro; non era affar suo. Gli avevano insegnato che quello era l'unico metodo plausibile. Gli era stato insegnato che Soluzione Finale era l'unico modo nel quale la razza ariana poteva assicurarsi rispetto e sottomissione da tutte le altre.
Oltre Walter e il padre di quest'ultimo, non aveva mai parlato con qualcuno di opinione diversa, ne tanto meno ascoltato le lamentele di uno di loro. Non si era mai fermato ad osservare un bambino, sporco di fuliggine, costretto a lavorare: sapeva che quello stesso bambino entro un paio di giorni sarebbe morto.
Si fermò davanti alla porta della ragazzina, indeciso se bussare o meno: cos'era giusto fare?
Sbuffò, spazientito. Non credeva che l'incontro con una persona tanto inutile potesse far crescere in lui tanta ansia.
Aprì la porta velocemente: quella era casa sua, non aveva bisogno di bussare, soprattutto non per annunciare il suo arrivo a una... come lei. Richiuse altrettanto velocemente la porta: non voleva rischiare che la mocciosa tentasse uno stupido tentativo di fuga. Non gli andava di sprecare proiettili per una donna.
La ragazza alzò gli occhi verso di lui.
Mark Schreiber aveva avuto tante ragazze, più che ragazze amiche di letto; ma mai aveva visto degli occhi come quelli. Il ragazzo non era stupido: lei non aveva paura.
Gli occhi erano verdi accesi, canzonatori. Sembravano solo... stanchi. Erano gli occhi di chi ancora sperava; di chi non era stato ancora annientato psicologicamente, come il resto dei deportati nel campo.
Era una sua impressione o quegli stessi occhi stavano... ridendo di lui?
Gli occhi cioccolato del giovane soldato erano freddi, in quel momento. Lui doveva essere un buon soldato e il suo ordine era di essere il carceriere di quella ragazza. Un carceriere non trattava bene quella che era solo merce di scarto o, se andava bene, di convenienza.
La ragazza si scostò una ciocca di capelli corvini dietro l'orecchio, osservando il ragazzo in divisa da capo a piedi: era imponente, certo, e aveva l'aria cattiva.
Il soldato Schreiber non poteva restare lì, senza fare nulla. Ormai era entrato in quella stanza e doveva rompere quella specie di bolla che sembrava proteggerla. << Mangia >> disse, posando a terra, accanto ai suoi piedi, la ciotola con la zuppa.
Bea Gurtsieva guardò prima la zuppa e poi di nuovo lui. Stavolta il ragazzo non aveva dubbi: lo stava decisamente prendendo in giro. << E' un ordine? >> chiese, e nessuno gli aveva mai rivolto quel tono ironico, eccetto Walter.
Mark la fulminò con lo sguardo. << Sì >>, rispose telegrafico. Era ovvio che lo fosse. Non pensava avrebbe mai visto qualcuno disposto a deriderlo, o a mettere in dubbio un suo comando; quando era così chiaro, poi!
La russa scrollò le spalle. Stava sorridendo.
Il ragazzo si ritrovò a chiedersi a lungo, anche anni dopo quel giorno, come si potesse sorridere quando costretti in un lager, con occhiaie profonde, senza scelta e senza possibilità possibilità neanche di vedere la luce. Certo, per adesso era viva... ma come poteva essere allegra? Come poteva essere allegra lei, in un lager di cui era prigioniera, e lui era così... insoddisfatto?
Forse era semplicemente pazza.
<< Voi nazisti siete sempre così asociali? >> quella domanda gli era stata rivolta in modo così innocente che fu tentato dal desiderio di chiederle quanti anni avesse: cinque o sei? Sapeva che probabilmente aveva appena qualche anno in meno di lui... allora dov'era finita tutta la sua innocenza, quando nel viso della ragazza sembrava così... palese?
Invece si limitò a guardarla male, come era giusto che facesse. << Solo con chi non riteniamo degno di parlarci >> fu la sua risposta, fredda come una lama di ghiaccio puro.
Mark Schreiber ebbe la tentazione di prendere la pistola quando gli occhi verdi della ragazza si fissarono nei suoi. Stavano cercando qualcosa dentro di lui, perché nessuno lo aveva mai guardato in quel modo, come se non fosse poi così privo d'interesse; e al giovane Schreiber non piacevano quegli sguardi.
Poi la ragazza si alzò dal letto su cui sedeva. Era una bella ragazza, sicuramente, ma non aveva nulla di nemmeno lontanamente simile ad una ragazza tedesca.
Gli si avvicinò e gli porse la mano, << Bea Gurtsieva >> disse, facendo una cosa così strana nei confronti del suo nemico che Mark non poté non sfiorare quelle dita nivee e piccole, con le proprie.
<< Mark Schreiber >>
 
 
Con questa foto di pura gioia,
e di un bambino con la sua pistola
che spara dritto, davanti a sé.
A quello che non c'è.
[Quello che non c'è, Afterhours]

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Capitolo 3
*** Capitolo 3. -Bruises. ***


Buona sera, gente. Sono passati esattamente sette giorni dalla pubblicazione del secondo capitolo quindi, sono perfettamente in orario. u.u
E' possibile che a volte pubblichi un po' prima ma vi prometto che, salvo imprevisti, aggiornerò una volta ogni sette giorni, se non prima. =D
D'accordo, questo capitolo è abbastanza particolare: potrebbe aiutarvi a capire il passato di Mark, ma di certo lo odierete molto di più.
Detto questo, vorrei ringraziare gli Aftehours che mi aiutano a scrivere capitolo dopo capitolo. Sempre. A chi non li conoscesse, consiglierei seriamente di ascoltarli perché sono qualcosa di fantastico. <3
D'accordo, posto e scappo a fare una versione di greco, che sono assai indietro sulla tabella di marcia per i compiti estivi. è.é
Vi amo tutti, ricordatelo. u.u!!!!
 
Ringrazio poi le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
- Bbw87
- Fairness
- Mareike Tiaycia
- OlandeseVolante
- Nadine_Rose
- niacare07
- Norine
- Prusskj_Lazur
Coloro che la hanno inserita tra le preferite:
- chyo
- xxGiuls.
- kikka23
E infine la magnifica ragazza che ha trovato il tempo di recensire:
- Norine
 
Peace & Rock,
Schizophrenia.
 
 
 
 
Salviamoci la pelle.
 
-Bruises.
 
 
 
Weimar, Germania.
19 Dicembre 1943
11:54
 
Un'altra fredda domenica d'inverno si era abbattuta sulla Germania.
Le strade erano ricoperte di neve; e proprio su una di quelle strade innevate passeggiavano Mark Schreiber e Walter Hoffmann.
<< Quindi, alla fine hai deciso di dare ascolto a tuo padre? >>, era strano che Walter glielo chiedesse. Quando non era lui a introdurre il discorso, non parlavano mai di suoi padre: non era un argomento piacevole da affrontare e a Walter non era mai stato simpatico più di tanto; ma quando Mark e Walter avevano deciso di essere amici, non conoscevano le rispettive famiglie.
Il soldato scrollò le spalle, << Non lo so, Walter. Diciamo che per adesso sto eseguendo gli ordini, ma la cosa non mi va più di tanto a genio >> fu la sua risposta, ovvia. Odiava assecondare suo padre, ma sentiva il bisogno di andarsene, quindi lo avrebbe fatto, c'era poco da decidere, purtroppo.
Hoffmann annuì, continuando a camminare, osservando le impronte che lasciava: qualcuno avrebbe spazzato la neve dalle strade, presto o tardi. Forse.
<< Sei proprio sicuro di voler andare a sparare addosso ai nostri nemici? >> fu la domanda del ragazzo dagli occhi azzurri. Da buon amico, non voleva che Mark partisse, anche se non glielo aveva mai detto espressamente. Tutti i soldati partiti per la Russia difficilmente facevano ritorno. Certo, i tedeschi erano più forti, ma il suo amico su un campo di battaglia vero non c'era mai stato.
Il figlio del maggiore si strinse nelle spalle. << Ho forse altra scelta? >>, la verità era che da un po' se lo chiedeva lui.
<< Ricordo che hai iniziato l'addestramento e tutto il resto per rendere tuo padre fiero di te, adesso mi pare che lo scopo non sia più questo... allora, qual è? >> chiese ancora Walter. Il ragazzo sapeva di avere valide argomentazioni dalla sua parte tanto quanto sapeva in che modo il suo migliore amico fosse testardo. Forse prima o poi sarebbe riuscito a convincerlo, però.
Mark scrollò le spalle, << Diciamo che, se prima lo facevo per lui, adesso lo faccio per allontanarmi da lui >> adduceva sempre quella scusa, alla fine, ma ci teneva tanto a partire? Non lo sapeva: sapeva solo che era stanco di rimanere lì, impotente, di fronte a tutto ciò che succedeva. Si sentiva...male.
Il giovane Hoffmann annuì, << Ho capito che vuoi andartene, Mark; allora perché sei ancora qui? >> chiese, in fine, guardandolo negli occhi. Walter a Mark difficilmente si mentivano, ma quando succedeva l'altro lo notava sempre. Era impossibile che uno riuscisse a fregare l'altro: si conoscevano da troppo tempo e troppo bene per cadere in quei giochetti, ormai.
Il soldato semplice si limitò a scrollare le spalle, in risposta, prima di distogliere lo sguardo dal volto del suo amico. Non sapeva perché non inviava la domanda di trasferimento, stava cercando di fare il possibile perché fossero loro a mandarlo su un fronte, ma lui non faceva niente per metterli a conoscenza della sua vocazione nel "morire per la patria". Si sentiva molto Ettore, quando pensava quelle cose.
Walter decise di non insistere, si sarebbe sfogato lui appena ne avrebbe avuto voglia. Non si aspettava che questo succedesse presto: il suo amico era un tipo molto. Il figlio del medico sapeva che il ragazzo ancora oggi, dopo poco quasi quattordici anni, non voleva parlare della morte di sua madre. Infatti non ne avevano mai parlato. Il ragazzo pensava che il suo migliore amico avesse difficoltà a parlarne perché non l'aveva mai fatto, come difficilmente parlava di ciò che provava davvero. Il tutto aveva provocato in lui una specie d'intolleranza ai sentimenti; con il padre che aveva, poi, non c'era da stupirsi.
Entrarono in un piccolo caffè, che avevano iniziato a frequentare abitualmente da quando si erano trasferiti lì. Dopo che la guerra era scoppiata, si era venuto a conoscenza del forte calo di economia, ma l'economia di guerra della Germania funzionava. Certo, Mark non era mai stato a contatto con degli operai, mai le famiglie benestanti che conosceva e tutti gli altri militari con famiglie, se la cavavano benissimo, quindi non pensava ci fossero gravi problemi. In fondo era ancora solo un ragazzo di vent'anni, gli venivano dette solo le cose positive di quel regime come, ad esempio, l'annullamento della disoccupazione.
Walter decise di cambiare totalmente argomento, senza più menzionare i loro genitori, la ragazzina, il campo di concentramento in generale, né tanto meno il futuro che Mark Schreiber voleva per se stesso. No, non era il caso di far chiudere ancora di più il suo migliore amico.
<< Tra pochi giorni è Natale >> constatò il ragazzo dagli occhi azzurri, rivolgendo un caldo sorriso al suo migliore amico, mentre entrambi si dirigevano verso uno dei pochi tavoli liberi verso il fondo del locale, sedendosi al loro preferito: quello nell'angolino, tra il muro e la finestra. Lo avevano scelto così, per caso, una mattina. Avevano solo quattordici anni e di Hitler, del nazismo e di tutto il resto a loro non fregava minimamente.
Il ragazzo dai profondi occhi color cioccolato annuì, << Non sarà diverso dagli altri >> minimizzò. << Mio padre lavorerà tutta la mattina della vigilia, la sera ceneremo fingendo di essere una famiglia che si vuole bene e il giorno dopo saremo a pranzo a casa tua. Papà mi regalerà il solito maglione o la solita sciarpa e io fingerò di gradire intensamente >>. Sbuffò. Non gli piaceva il Natale, non da quando non era lei a scegliere i suoi regali e a dirgli di vestirsi bene in occasione delle festività.
Walter sospirò. Probabilmente stava per dire qualcosa, magari nel vano tentativo di far cambiare radicalmente idea all'amico, ma venne fermato dalla cameriera: una donna alta, bionda, dagli occhi azzurri e la vita sottile, probabilmente aveva dai ventisei ai ventotto anni. << Posso prendere le vostre ordinazioni? >>, la voce era melodiosa, un coro di campane a festa. Doveva essere nuova, non l'avevano mai vista lavorare lì.
<< Un cappuccino >> disse Walter, sbrigativo, ordine che la donna annotò quasi distrattamente sul suo taccuino, come se l'avesse sentito come un rumore di fondo, inutile ed insopportabile. Probabilmente l'aveva sentito così perché si stava mangiando con gli occhi il giovane Schreiber, attendendo la sua ordinazione, << Un caffè, senza zucchero. Bollente >> e Walter credette che il giovane avesse pronunciato di proposito quelle parole, in quel modo, guardando la ragazza fisso negli occhi.
Ragazza che arrossì subito, << Subito >> rispose, prima di sparire verso il bancone, più imbarazzata che mai.
<< Devi assolutamente dirmi come ci riesci >> lo prese in giro il suo migliore amico, osservandolo con un cipiglio divertito. Walter era un bellissimo ragazzo ma sembrava che tutte cadessero letteralmente ai piedi di Mark, dotato di quegli occhi così anti-ariani. Non che Hoffmann prestasse ascolto a sciocchezze sulla razza pura e roba simile, però proprio non riusciva a spiegarsi il motivo di quella situazione.
L'altro si strinse nelle spalle, << Sarà il fascino della divisa >> scherzò. Almeno il tutto era servito a sciogliere la tensione creatasi dopo aver parlottato di quegli argomenti poco felici riguardanti Mark, le sue decisioni e la sua famiglia.
<< Ma adesso non hai la divisa... >> gli fece notare Walter, con una pesante nota d'ironia nel tono di voce.
<< Appunto >> ribatté l'altro, provocando una sono risata in entrambi, proprio mentre la ragazza poggiava le loro ordinazioni sul tavolo.
 
 
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
19 Dicembre 1943
22:57
 
Dopo cena, il soldato semplice era tornato in camera sua, a leggere, placidamente steso sul suo letto. Non prestava grande attenzione alle parole che scorrevano sotto i suoi occhi, stava ripensando alla chiacchierata con Walter di quella mattina. Forse il suo migliore amico nemmeno se ne rendeva conto, ma ogni volta che diceva qualcosa che preoccupava entrambi -sebbene evitassero poi l'argomento- rimaneva impressa a fuoco nella mente di Mark Schreiber, richiamando la sua attenzione ora dopo ora.
Era vero, tra meno di dieci giorni sarebbe stato il giorno di Natale, e forse lui avrebbe dovuto andare a comprare dei regali, ma non ne era certo. Dopotutto era solito farne solo a Walter e a volte a suo padre: tutti gli Schreiber erano a Berlino o come soldati dell'SS in altri campi di concentramento, alcuni erano a combattere sui fronti e il giorno di Natale non sarebbe tornati a casa, forse avrebbero addirittura rischiare la morte.
In fondo, in quel momento, in soldato fu felice di non essere stato mandato sotto le armi proprio durante il periodo natalizio.
Ricordava che adorava il Natale, quando era molto piccolo. Sì, era la sua festa preferita: piena di regali e tradizioni.
 
 
Berlino, Germania.
22 Dicembre 1928
19:30
 
Un bambino che correva per tutta la casa, con un sorriso allegro che gli illuminava il volto. I capelli biondi scompigliati fino all'inverosimile, ma lui non se ne preoccupava. Doveva aver avuto un forte litigio con la spazzola, quella mattina. A colpo d'occhio, non poteva avere più di cinque o sei anni.
Corse in cucina, deliziandosi del profondo odore di biscotti che emanava il forno. Oh, avrebbe voluto assaggiarne uno, uno soltanto. Mark era un bambino goloso.
Si fermo accanto ad una gonna, tirando leggermente il tessuto della donna per attirare la sua attenzione, ma non ce n'era bisogno: Agathe Becker -o no, ormai lei era da sei anni la signora Agathe Schreiber- adorava quel bambino di cinque anni che le stava di fronte e riconosceva i suoi passi frettolosi anche a due o tre stanze di distanza, da quando iniziava a scendere le scale.
Agathe Becker-Schreiber era una bellissima donna: alta, dal fisico snello sebbene la donna fosse molto forte. Aveva un viso dolcissimo, a forma di cuore, con i capelli biondissimi erano morbidi e mossi, probabilmente non erano molto lunghi ma in quel momento erano stati raccolti dalla donna in un elegante chignon che faceva sembrare il suo viso ancora più bello. Le labbra, piegate in un sorriso, erano rosse e piene naturalmente, senza bisogno dell'ausilio di cosmetici. Poi c'erano gli della donna, un paio di bellissimi occhi grandi, color del cioccolato, esattamente uguali a quelli del figlio. Erano stati quegli occhi cioccolato a far innamorare l'allora sottotenente Schreiber di lei.
<< Tesoro >> disse la donna, con una nota terribilmente dolce nella voce, prima di abbassarsi e prendere il figlio tra le braccia, sorridendo. Mark era il regalo più bello, insieme a Hans -suo marito, che Agathe avesse mai ricevuto e, per Natale, le bastavano loro due.
<< Hai scritto la tua letterina? >> chiese poi, la donna. Il figlio aveva solo cinque anni e, nonostante il sottotenente Schreiber si lamentasse che ormai era grande, e un uomo aveva bisogno di cose serie in cui credere, ad Agathe piaceva vedere suo figlio entusiasta del Natale, non sapevo che quei regali che tanto amava erano opera dei suoi genitori e familiari.
Il bambino annuì, rivolgendo alla donna un sorriso radioso, uno di quei sorrisi innocenti che sono soliti regalare i bambini; questi sorrisi che incantano chi lo osserva. << Sì, mamma >> rispose Mark. Sembrava toccare il cielo con un dito dalla felicità: la scuola era chiusa per e feste e tra pochi giorni avrebbe potuto scartare regali stupendi.
<< Biscotti! >> trillò, subito dopo, il bambino, sporgendosi dalle braccia della bella donna. I braccini tesi verso il forno, quasi volesse aprirlo e sfilarne la teglia di biscotti caldi che attendevano solo di essere gustati dal dolce palato di un bambino affamato.
Agathe rise, tirando via il bambino e poggiandolo a terra. Scosse il capo, prima di sorridere a suo figlio, << Stasera, quando tornerà papà, avrai tutti i biscotti che vuoi >> concesse la madre, cercando di essere severa, in realtà sperava che il bimbo non la guardasse con quegli occhi cioccolato disarmanti, altrimenti la povera donna avrebbe ceduto alle sue richieste. Quello era il bambino più bello di tutta la Germania anzi, secondo sua madre, del mondo intero.
Il piccolo mise il broncio. Chiaramente non ci teneva ad aspettare che arrivasse il padre e che cenassero, per avere i suoi biscotti. Era un marmocchietto tremendamente goloso, probabilmente tutta la dolcezza di cui era capace scaturiva dalla quantità industriale di dolci che mangiava o, semplicemente, dall'affetto dei suoi genitori, soprattutto da quello della madre, sempre così presente per il figlio.
Agathe si chinò accanto a lui e gli accarezzò una guancia, << Su, non fare così, amore >> gli disse, con estrema dolcezza, stampandogli un bacio in fronte, prima di girarsi nuovamente: stava cucinando una cena con i fiocchi per tutta la famiglia. Lei era un eccellente cuoca e Mark spesso l'aiutava... quando non finiva per mangiare il cioccolato che serviva per i biscotti o altri ingredienti di vario tipo. << Sai una cosa? Per farmi perdonare, dopo cena andiamo tutti a casa degli Hoffmann >> propose la donna. Avrebbe dovuto parlarne con il marito, ma ella era sicura che avrebbe accettato. << Li inviteremo per il pranzo di Natale, quest'anno >> concluse, annuendo, mentre girava con un mestolo di legno qualcosa in una grande pentola.
Gli occhi di suo figlio si illuminarono, << Verrà anche Walter? >> chiese, speranzoso ed innocente. Il signor Hoffmann era il medico di famiglia dalla nascita di Mark e suo figlio era nella stessa classe del figlio degli Schreiber. In breve i due bambini avevano stretto un legame indissolubile, e con loro due anche le loro famiglie si erano avvicinate, creando un ottimo rapporto.
Agathe sorrise, rivolgendo un'altra occhiata al figlio, << Certo, tesoro >> confermò, donandogli un altro radioso sorriso che incantò il bambino, che corse nuovamente a giocare nella sua cameretta, ormai completamente dimentico dei dolci biscotti al cioccolato che avrebbe potuto mangiare quel giorno.
 
 
 
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
19 Dicembre 1943
23:20
 
Mark si desterò di scatto dai ricordi, scuotendo velocemente la testa per non far sì che quelle immagini dolessero più del dovuto. Sapeva che tutto ciò che era successo era ingiusto e che lui non era più quel bambino tanto allegro. No, era cambiato tantissimo e gli faceva strano ricordare che un tempo suo padre gli aveva voluto bene sul serio.
Si alzò nervosamente dal letto: doveva scaricare la rabbia in qualche modo. Avrebbe voluto raggiungere il poligono di tiro, ma probabilmente a quell'ora ci sarebbe stato poco da fare o comunque suo padre non sarebbe stato molto contento di quella sua improvvisata. No, per niente, era meglio evita. Oh, quanto avrebbe voluto possedere uno di quei sacchi da pugilato. Aveva visto qualcosa del genere in camera del suo migliore amico: Walter gli diceva sempre che era così che lui riusciva a scaricare la rabbia e a non essere teso. Forse avrebbe funzionato anche con lui, ma ne dubitava. a lui non bastava l'allenamento militare e il poligono di tiro, per sciogliere i nervi.
Uscii dalla sua camera, decidendo all'ultimo momento di andare a controllare lo stato della prigioniera. Non gli interessava più di tanto, stava iniziando persino a dimenticare il suo obbiettivo di avanzare di grado e di essere mandato al fronte; ma era nervoso, aveva bisogno di fare qualcosa e di tenersi occupato e al momento fare una visitina a quella ragazza sembrava l'unica occupazione possibile nel campo.
Passò dalle cucine, rimediando un po' di zuppa. Non aveva fatto mai caso agli anni che passavano, e di solito preferiva ignorare ciò che succedeva nel campo, eppure si ritrovò a chiedersi, mentre versava della zuppa in una gamella e prendeva un cucchiaio, se a Natale servissero comunque quella roba schifosa. Non capiva come facessero ad ingerirla. Certo, neanche il cibo che ingerivano loro durante le guerra era buono ma quella roba... non si poteva neanche annusare. Disgustosa.
Si fermò davanti alla porta della ragazza e, senza bussare, entrò, << Ti ho portato da mangiare >> commentò, freddamente, mantenendo sempre quel tono di distanza che adoperava con quasi tutte le persone, eccetto ovviamente Walter e la famiglia di quest'ultimo, mentre richiudeva a chiave la porta alle sue spalle. Non voleva certo rischiare che la ragazzina scappasse da un momento all'altro, anche se non sarebbe andata lontano.
Poggiò la gamella sul tavolino, sul quale era posizionata una lanterna, accesa: l'unica fonte di luce della camera. Si voltò, cercandola con lo sguardo, dato che non l'aveva sentita fiatare, finché la vide.
Bea Gurtsieva era seduta sul letto, rannicchiata su se stessa. Lo guardava, ma i suoi occhi non erano gli stessi della sera precedente: sembrava impaurita, stavolta. Sembrava quasi stesse tremando. Sì, la sicurezza, la speranza e l'innocenza che aveva potuto vedere la sera prima erano sparite dal suo volto, lasciando posto ad una maschera di terrore. Cosa le era successo, e perché se ne stava lì, appiattita contro il muro?
<< N-non portarmi ancora da loro >> lo pregò la ragazza, e Mark non lo avrebbe fatto: solo perché non aveva capito chi fossero "loro" esattamente, e poi non aveva ricevuto ordine di portarla proprio da nessuna parte.
Il soldato Schreiber era intollerante alle persone che si lamentavano, anche se quella ragazza sembrava messa proprio male. << Loro? >> chiese scettico e ricevendo solo un'altra occhiata impaurita in risposta. Si avvicinò con passi lenti alla ragazza, osservandola più da vicino.
I capelli neri erano più disordinati della sera precedente. Gli occhioni verdi erano gonfi, arrossati, eppure non stava piangendo. Non voleva piangere. Le labbra prima rosee, morbide e gonfie, erano rosse e tumefatte. Sulla guancia destra faceva bella mostra di se un graffietto, che scendeva quasi fino al collo. Era troppo lieve perché le rimanesse la cicatrice dopo, Mark notò anche questo. Gli abiti che gli aveva visto vagamente portare la sera prima, non erano composti dalla normale divisa dei deportati, ma adesso non sembravano più nemmeno quelli: la camicia femminile e bianca, aveva le maniche ridotte a brandelli, era sporca ed impressa di sangue raffermo: puzzava anche di sangue raffermo, dalle maniche che non c'erano più spuntavano le braccia sottili e bianchissime, dove risaltavano così tanto tutti quei lividi neri e scuri. La gonna era stata tagliata, fino alle cosce: sulla coscia destra era inciso un taglio, lungo e profondo, da cui sgorgavano ancora fiotti di sangue che scendevano fino al ginocchio e alla gamba. Anche le gambe erano piene di lividi e sangue raffermo.
Dovevano averla torturata, ma non gli interessava: in quel momento quella ragazzina alta un metro e uno sputo che non pesava più di quaranta kg erano la creatura più bella che Mark Schreiber avesse mai visto. Bella, impaurita, innocente, vittima e ferita fisicamente da un coltello tanto lungo che era arrivato tanto in fondo da strapparle anche l'orgoglio.
E il soldato nazista era il suo carnefice.
Forse fu perché Mark non aveva mai visto un corpo così bello; forse fu semplicemente perché lo attirarono i lividi di cui era ricoperta la ragazza... ma il giovane Schreiber venne scosso da brividi profondi al basso ventre, prima di avvertire l'impulso pressante di prenderla, lì, con violenza; pur sapendo chi fosse.
Nonostante tutto quello che le era capitato, Bea Gurtiseva non stava piangendo.
Mark Schreiber si promise che l'avrebbe fatta piangere.
E urlare.
Si sedette sul letto, artigliandola per i fianchi e portandola su di sé. Non badò al dimenarsi della ragazza: lui era il triplo di lei e molto più forte; non si curò delle sue urla, quando la privò dei vestiti, con velocità, sfilandosi a sua volta la divisa nazista.
Non notò neanche la sua verginità quando sfogò i suoi bassi istinti su di lei, violandola e scaricandosi nel suo corpo, come se non fosse altro che una stupida bambolina di porcellana dai morbidi boccoli scuri.
 
 
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
20 Dicembre 1943
10:12
 
Mark Schreiber aprì gli occhi, completamente rilassato. Sentiva che il letto non era suo, ma non aveva mai dormito così bene. Si districò dal groviglio di lenzuola, tirandosi a sedere e lanciando uno sguardo alla sua destra: la ragazza stava ancora dormendo. Lei, al contrario suo, non sembrava stare bene per niente, ma al giovane Schreiber non interessava. Certo, avrebbe dovuto controllarsi: quella ragazzina era lavoro, non poteva giocarci come voleva.
Sorrise, divertito, e le scostò una ciocca di capelli dal volto, lasciando che continuasse a riposare, anche se non se lo meritava dopo tutti i calci che aveva tentato di assestargli quella notte. Oh, beh, ci era passato sopra.
Fare del sesso con quella mocciosa era servito a farlo stare meglio: non era più nervoso o arrabbiato, come la sera precedente.
Sì alzò velocemente dal letto: qualcuno avrebbe notato la sua assenza durante l'allenamento -perché dalla luce che filtrava dalle finestre quella mattina, non sembrava proprio che lui si fosse svegliato in tempo- e sarebbe andato a cercarlo. Si rivestii e si avvicinò alla porta con tutta l'intenzione di andare a farsi una doccia.
Prima di uscire, rivolse un'ultima occhiata alla sua vittima: aveva qualche livido in più e diversi segni rossi. Sorrise, attribuendosene il merito e uscì dalla stanza, avviandosi verso la sua. Lungo il corridoio, si fermò, con un dubbio: perché l'avevano torturata? Quella ragazzina, dopo tutto, era ancora un mistero.
 
Forse non è proprio legale sai,
ma sei bella vestita di lividi.
Mi incoraggi ad annullare i miei limiti,
le tue lacrime in fondo ai miei brividi.
Lasciami leccare l'adrenalina!
Lasciami leccare l'adrenalina!
Lasciami leccare l'adrenalina!
Lasciami leccare l'adrenalina!
Voglio cercare la mia alternativa!
(la mia alternativa!)
E' la scossa più forte che ho.
[Lasciami leccare l'adrenalina, Afterhours]

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Capitolo 5
*** Capitolo 4. ***


Buona notte gente! E' tardissimo e quindi sarò alquanto breve:
Scusatemi, vi prego, per il ritardo di questi giorni, ma ho davvero avuto un sacco di cose per la testa e adesso non mi metterò qui a parlare dei miei problemi perché a voi, ovviamente non interessa proprio e fate decisamente bene. xD
Sto morendo di sonno, voglio solo andare a dormire quindi vi auguro buona lettura del capito, vi prometto che settimana prossima cercherò di essere più puntuale (compiti e vacanze permettendo, ovviamente) e passo subito ai ringraziamenti.

Ringrazio le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
- Bbw87
- Fairness
- Mareike Tiaycia
- OlandeseVolante
- Nadine_Rose
- niacara07
- Norine
- Prusskj_Lazur
- ChyoChan
- la_regina
Coloro che la hanno inserita tra le ricordate:
- fedecaccy
- Rayne
Coloro che la hanno inserita tra le preferite:
- chyo
- xxGiuls.
- kikka23
- elly04
- Karota
- Luna_LoveDark
E infine le due magnifiche ragazze che hanno trovato il tempo di recensire:
- Fairness
- Norine

Al prossimo aggiornamento,
Schizophrenia.


Salviamoci la pelle.

Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
20 Dicembre 1943
20:35

Il soldato con la divisa nazista si recò in sala da pranzo. Non si era ancora cambiato: quella mattina non era andato all'allenamento e aveva dovuto dare parecchie spiegazioni di vario genere; ovviamente tutte false, ma non c'è nemmeno bisogno di specificarlo. Insomma, non poteva certo dire in giro di essersi scopato una deportata; certo, sapeva anche che molti ufficiali approfittavano della loro posizione e delle ragazze giovani e belle che arrivavano al campo. All'interno dei lager c'erano dei veri e propri giri di prostituzione, ma a Mark non era mai interessato: aveva sempre potuto avere tutte le belle donne tedesche che voleva e non si era mai nemmeno impegnato sentimentalmente con una di loro, perché divertirsi con una sporca polacca o ebrea quando poteva avere la pura razza ariana tra le lenzuola?
Con quella ragazzina era stato diverso. Qualcosa negli occhi verde smeraldo e tra i lividi scuri che macchiavano la pelle nivea l'aveva convinto ad avvicinarsi e a marchiarla definitivamente. Non sapeva nemmeno quanti anni avesse, perché fosse lì e tra quanto si sarebbero decisi a farla fuori, in fondo avevano già iniziato a torturarla di brutto. Ad ogni modo, a lui non interessava, lui aveva ottenuto ciò che voleva.
Si sedette, di fronte a suo padre, << Buona sera >> salutò, servendosi da mangiare carne e patate. La cameriera aveva già portato tutto a tavola, quindi era in ritardo e non aveva avuto nemmeno il tempo di farsi una doccia. Perfetto. Non aveva nemmeno avuto la possibilità di raggiungere Walter e chissà come aveva passato lui la giornata.
<< Ciao. Mi hanno informato che stamattina non ti sei presentato agli allenamenti, potresti spiegarmene il motivo? >>, la voce del maggiore Schreiber era dura. Non sopportava che suo figlio facesse qualcosa di sbagliato, lo considerava già abbastanza sbagliato per il solo fatto di esistere e per quei dannati occhi marroni così poco tedeschi. Voleva proprio farlo impazzire, eh?!
Mark notò l'irritazione, trattenuta con parole fredde, nella voce del padre e si ritrovò ad abbassare il capo, iniziando a tagliare la carne, come se non avesse nemmeno sentito la sua domanda. Lo odiava dal profondo quando lo trattava così, come se fosse un semplicissimo soldato che gli era stato affidato ventiquattro ore su ventiquattro e non il figlio che aveva visto crescere e trascinato da Berlino a Weimar e in fine in quello stupido campo di concentramento.
<< Allora? >> il maggiore iniziava seriamente ad innervosirsi. Nervosismo dovuto al silenzio del figlio. Non sopportava il carattere di quel ragazzo e stava iniziando seriamente a pensare di mandarlo via, da qualche parte a fare qualcosa di utile alla società tedesca.
<< Avevo la febbre >> mentì il ragazzo, alzando gli occhi e guardando quelli azzurrissimi del padre. Sapeva di essere convincente: mentire era la cosa che gli riusciva meglio, subito dopo sparare a qualcuno centrando perfettamente il bersaglio. Si stava trattenendo dall'alzarsi in quel momento dal tavolo. Si stava trattenendo solo perché stava morendo di fame. << Ieri sera ho portato da mangiare alla deportata numero... >>, cambiò argomento e fece una breve pausa alla fine, non ricordando il numero di serie. Adesso che ci pensava, non ricordava nemmeno di averglielo visto un numero tatuato sul braccio, ma non ci aveva fatto neanche particolarmente attenzione.
<< Sì, ho capito >> lo interruppe il padre. Il figlio avrebbe potuto portare da mangiare solo ad una deportata poi, ovvero quella che alloggiava in una camera della loro residenza, tutti gli altri potevano andare, quando suonava la campana, a sfamarsi in mensa, e poi non credeva che suo figlio si interessasse a qualcosa che non fosse un ordine impartitogli. << Non ha un numero, te l'avevo detto che era una deportata speciale >> gli ricordò il maggiore Schreiber, come se fosse ovvio.
I due non avevano mai parlato di quella ragazza che forse in quel momento stava dormendo. Non ce n'era stato bisogno: tutto ciò che doveva fare Mark era portarle da mangiare ogni tanto e controllare che non vi fossero vie di fuga. Gli pareva di farlo anche abbastanza bene, ma molto probabilmente per il padre non era abbastanza. Pazienza, ormai ci era abituato.
<< L'avete torturata? >> buttò lì Mark, continuando a consumare la sua cena. Era molto curioso di sapere cosa fosse successo alla ragazza, anche se molto più probabilmente la sua curiosità scaturiva dalla domanda: perché quello che era successo alla ragazza le era successo? Non ricordava avessero mai riservato quel tipo di trattamenti a nessuna loro deportata, né tanto meno ad un deportato di sesso maschile. Non che facesse molta differenza il sesso dell'uno o dell'altra, a dire il vero.
Il maggiore Schreiber scrollò appena le spalle, << "Torturata" è una parola un po' grossa, non pensi, Mark? >> chiese il padre, in una ovvia domanda retorica. Non gli piaceva che il figlio s'impicciasse di affari strettamente legati ai deportati o a ciò che avveniva in quel campo. Lo aveva educato per bene all'odio, questo era certo, ma pensava che non avrebbe capito e, allora, probabilmente, avrebbe anche dovuto ucciderlo. Non era una cosa che gli andava particolarmente a genio. Sua moglie non sarebbe stata molto felice di sapere che avrebbe dovuto uccidere il loro unico figlio, ma sua moglie non c'era più da tempo.
Il ragazzo scrollò le spalle, << Allora cosa le avete fatto? >> chiese ancora. La curiosità di quel ragazzo era nota a tutti quelli che lo conoscevano bene, quasi quanto il suo orgoglio e la sua testardaggine. Il fatto che il padre sembrasse restio a parlargliene, poi, gli dava ulteriore voglia di scoprire il mistero della mocciosetta, Bea. La ragazza a cui aveva tolto la verginità.
<< Ci servivano delle informazioni, Mark >> sbottò il padre, scocciato. Stava capendo che, se non gliene avesse parlato lui in prima persona, il suo adorato primogenito sarebbe anche stato capace di andare a chiedere tutto a quel relitto della società che era quella ragazza. << Pensiamo sia in stretti contatti con le forze russe. La faremo parlare >> concluse alla fine, l'uomo, minimizzando la cosa il più possibile e cercando di alimentare l'odio del figlio dei confronti della ragazza.
Il giovane biondo lo guardò, confuso. Si era accorto dal nome che la ragazza era russa, ma non pensava che una, che era ancora praticamente una bambina, potesse avere delle informazioni sull'Armata Rossa, lo reputava praticamente impossibile, ma sapeva anche che suo padre non era solito sbagliarsi. Non su quelle cose, almeno, per tutto il resto... beh, "tutto il resto" non gli interessava e basta. Compreso suo figlio.


Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
20 Dicembre 1943
23:04

Mark non era ancora riuscito a decidere se la verità sul conto di quella ragazzina gli era piaciuta: l'importante in effetti era solo che il padre non venisse a conoscenza per nessun motivo di ciò che aveva fatto la notte prima con quella ragazza: era russa e rappresentava per molti versi tutto ciò che loro odiavano. Certo, era stata  una consolazione sapere di non essersi mischiato con sudicio sangue ebreo, ma comunque un disonore ammettere di essersi portato a letto una come lei. No, si sarebbe portato il segreto nella tomba. Forse, e solo forse, avrebbe potuto parlarne solo con Walter Hoffmann, ma perché ne sentiva il bisogno.
Non aveva neanche parlato al padre del Natale, sapeva che non gli interessava poi più di tanto e si chiese perché quell'anno sarebbe dovuto essere diverso.
Il biondo aprì la porta della camera dove alloggiava Bea Gurtsieva. La ragazza era distesa, a letto, raggomitolata su se stessa e con il leggero lenzuolo di cotone che la copriva fino al collo. Mark si ritrovò a pensare che dovesse morire di freddo: era risaputo che in Germania il freddo c'era, loro era addestrati a sopportarlo, certo, ma avvicinandosi non riuscì a decidere se una pelle tanto delicata come quella che aveva davanti avesse fatto altrettanto.
Il giovane soldato sapeva che non stava dormendo: il respiro non era regolare, né gli sembrava naturale la posizione in cui la ragazza si trovava. Aveva spento anche la piccola fonte di luce che teneva in camera, sì, ma non stava dormendo. Si perse ad osservare il piccolo corpo della ragazza tremare, scosso da brividi, e solo dio sa da cosa erano provocati quei brividi. Forse paura. Mark le si avvicinò: non sapeva come comportarsi. Non aveva mai socializzato con un deportato prima di allora, né aveva visto altri doverlo fare. Perché a lui toccava? Non era bravo nemmeno nelle relazioni interpersonali, figurarsi quelle costrette. Quando mai, oltre Walter, aveva avuto un amico, lui?!
<< Non stai dormendo >> non era una domanda, quindi non necessitava di alcuna risposta, eppure quando l'aveva pronunciata si era aspettato di vederla girarsi, o almeno di ricevere un cenno del capo come conferma delle sue teorie, anche se ovviamente non ne aveva bisogno. La ragazza, invece, non si mosse di un solo millimetro, rimanendo a tremare nel piccolo letto che le era stato destinato quando era stata condotta nel lager di Buchenwald.
Il ragazzo sbuffò, passandosi una mano tra i capelli, capendo finalmente dov'era il problema. Certo, come se non fosse già un grandissimo problema il fatto di essere lì, ma questo lui non poteva capirlo: se lì con lui non ci fosse stato il padre, sarebbe stato qualcosa di molto simile ad un paradiso, per lui. << Credi davvero che, se volessi ripetere l'esperienza di ieri sera, mi farei fermare da una ragazzina addormentata?! >> sbottò. Lo prendeva come un insulto alla sua intelligenza. D'accordo, farlo con una persona dormiente non doveva essere il massimo, ma avrebbe potuto benissimo svegliarla, sì!
Stranamente però non aveva intenzione di torturarla, quella sera. Era decisamente troppo stanco e anche abbastanza nervoso.
<< Lascio la tua cena sul tavolo. Quando ne avrai voglia, potrai alzarti. >>. Dover scendere a quegli stupidi ricatti per non farla morire di fame ed essere quindi ucciso a sua volta per aver permesso ad una deportata che nascondeva informazioni utili di non mangiare lo irritava a morte. Poggiò la gamella contenente la zuppa sul tavolino, accanto alla piccola luce spenta, prima di andarsi a sedere in terra, contro una parete, quella più distante dal letto della ragazza. La osservò per diversi minuti, attendendo che si alzasse dal giaciglio, spinta dalla fame che sicuramente in quel momento le attanagliava le viscere: le portava qualcosa da mangiare solo la sera, durante il resto della giornata era occupato e dubitava che il padre incaricasse qualcuno di fare altrettanto.
Quella fu la seconda notte che Mark Schreiber passò, a dormire, in camera di Bea Gurtsieva; solo che stavolta si era addormentato seduto sulle assi di legno del pavimento della stanza.


Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
21 Dicembre 1943
02:23

Mark Schreiber era solo un soldato semplice, lo sapeva bene, ma aveva un udito finissimo ed il sonno molto leggero: qualità utili per la carriera che andava ad intraprendere. Aprì gli occhi di scatto quando sentì il materasso cigolare sotto il peso di un corpo. Gli ci volle qualche secondo per partorire l'idea che la ragazza si fosse alzata, colta dai crampi allo stomaco provocati dalla fame.
Tentò di mettere a fuoco la scena, ma stava osservando la stanza buia da pochissimo, troppo poco perché i suoi occhi si fossero già abituati alla luce del sole. Davvero troppo poco. Però poteva sentire i suoi passi che percorrevano la distanza tra il letto e il tavolino, e intravedeva un'ombra scura muoversi per la stanza. Eppure non si mosse, non sapeva perché ma voleva solo rimanere ad osservarla un po', per poi strisciare a dormire in camera sua, sul suo comodissimo letto che poi di comodo non aveva così tanto. Doveva essere tardissimo e a lui stavano venendo i brividi di freddo. Chissà come doveva sentirsi lei con quella veste di un tessuto così leggero da far schifo,coperta da quel lenzuolo di cotone.
La vide -più che altro la sentì- mangiare il misero pasto che si era dato la pena di portarle, probabilmente la ragazza pensava che il soldato stesse dormendo e che quindi poteva continuare a non vederlo e ad evitarlo pur mangiando quello che le era concesso mangiare: poco. La pelle di Bea aveva assunto un insolito pallore quasi cadaverico, così diverso dal bel candore che gli illuminava la pelle diafana in Russia; no, quel bianco sapeva di malaticcio. Subito dopo aver poggiato la gamella, ormai vuota, a terra, la sentì singhiozzare: era quello che voleva ma nessun sorriso si dipinse sulle labbra di quel ragazzo. Realizzò solo in quel momento che alla fine vedere (o sentire come nel suo caso) una ragazza piangere non era bello come aveva immaginato.
Mark attese, seduto in quell'angolo, con la schiena poggiata contro la parete, a fingere di dormire. Ascoltò i singhiozzi, intravide le lacrime rigarle il volto e Mark non era mai stato un tipo a cui le lacrime piacevano molto. Sebbene fosse una stupida comunista, una mocciosetta ed una deportata, gli era stato insegnato che non si doveva mai portare una ragazza alle lacrime.
Non seppe quanto tempo passò, prima che l'esile figura di Bea Gurtsieva si adagiasse di nuovo tra le lenzuola e, poco dopo, il ragazzo poté sentire il suo respiro regolarizzarsi, avendo la certezza che fosse caduta tra le braccia di Morfeo, lasciandosi cullare da quest'ultimo nell'immenso oblio del sonno. Si alzò dal pavimento, riscoprendosi intorpidito in qualunque parte del corpo e raggiunse il letto della ragazza, osservandola. Non sapeva cosa gli era preso, quando l'aveva violentata, ma gli era piaciuto:; questo era innegabile e probabilmente anche la ragazza era riuscita a percepirlo. Allungò la mano destra in sua direzione e le sfiorò delicatamente una guancia: adesso che stava dormendo, che non lo osservava con quell'aria insopportabile e che non aveva paura di lui sembrava... tremendamente bella. Bella come Mark Schreiber non aveva mai visto una donna. Bella come non dovrebbe assolutamente essere una ragazza piena di lividi e con il corpicino malato.
Si riprese qualche istante dopo, ritraendo la mano: schifato dai suoi stessi comportamenti. Decise di tornarsene in camera sua, alla svelta.


Weimar, Germania.
23 Dicembre 1943
13:12

<< Tuo padre non torna per pranzo, vero? >> la domanda di Mark suonava tranquilla ed innocente e nascondeva l'urgenza che aveva di parlare con il suo migliore amico, in privato. Fortunatamente avevano casa Hoffmann tutta per loro, quel giorno: la signora era andata a trovare sua sorella, a Berlino e sarebbe rimasta da lei fino a tardo pomeriggio, mentre probabilmente il signor Hoffmann stava ancora lavorando. Era solo giovedì, ma il soldato semplice era riuscito a scompare ai suoi doveri alludendo alla scusa che era il 23 dicembre e lui doveva ancora comprare un regalo di Natale al maggiore Schreiber.
Walter appariva quasi divertente, agli occhi del suo migliore amico, mentre cercava di cucinare un pranzo decente per entrambi: Walter Hoffmann non era una mago in cucina, sapeva fare pochissime cose, ma quando si metteva in testa di imparare a fare qualcosa era un'impresa cercare di fargli cambiare idea e, purtroppo, Mark si ritrovava ad essere la cavia preferita per i suoi "manicaretti". << No, papà torna verso le quattro del pomeriggio, perché? >>
Il biondo seduto a tavola si limitò a scrollare le spalle, con disinvoltura, << Pensavo che non riuscirebbe a trovare nemmeno lontanamente commestibile quello che stai facendo con quei poveri spaghetti >> rispose, con ironia, anche se probabilmente era vero: assomigliavano di più ad una massa informe che giaceva nella padella che ad un pasto che un essere umano avrebbe mangiato senza rigettare pochi minuti dopo; ma Walter non si lasciava scoraggiare per così poco!
Walter rise, << Scommetto che li mangerebbe, e direbbe anche che sono buonissimi! >> ribatté il ragazzo, scherzando, anche se sapeva che quello non era il reale motivo della domanda del suo migliore amico: lo conosceva da troppo tempo per credere a qualsiasi minima balla raccontata da quest'ultimo. No, non poteva crederci e basta, gli leggeva negli occhi che non era così.
<< D'accordo, credo siano pronti... >> la voce del giovane Hoffmann era alquanto insicura, mentre portava due abbondanti porzioni di spaghetti/poltiglia in due piatti, piazzandone uno davanti al suo migliore amico e sedendosi a sua volta, << Bene, buon appetito! >> annunciò, fingendosi entusiasta della propria creazione, come se quell'effetto disgustoso e molliccio fosse voluto e non solo un esperimento venuto decisamente male perché non aveva la minima idea di come si cucinasse e sua madre non gli aveva lasciato nulla di già pronto da poter riscaldare in un pentolino.
Schreiber rigirò la sua forchetta nel piatto, << Domani è la viglia >> disse, sorridendo in direzione dell'amico, anche se gli risultava difficile, era ancora afflitto da ciò che era successo sere prima: non vedeva la ragazza da quella notte; passava a portargli la cena, apriva appena la porta, la poggiava per terra e richiudeva la porta di scatto, tornando in camera sua e facendo tutto quello che aveva sempre fatto a quell'ora prima dell'arrivo di quella mocciosetta.
<< Sì. A Natale siete a pranzo qui, no? >> chiese Hoffmann, sorridendo calorosamente. Adorava quando la famiglia di Mark veniva a pranzo dalla sua, il giorno di Natale, era una tradizione che si portava avanti da quando la mamma di Mark era ancora viva, sebbene il resto della storia non fosse esattamente felice. Beh, Walter ci provava a far star bene il suo migliore amico, almeno in quel giorno, senza che il ricordo della madre gli creasse troppi problemi.
Mark annuì, velocemente, portandosi un enorme forchettata di spaghetti alle labbra ed ingoiandoli senza protestare, quasi volesse auto-impedirsi di parlare e di dire qualunque cosa. Voleva parlare con il suo migliore amico di ciò che era successo, ma sapeva benissimo com'era fatto e, francamente temeva il suo giudizio più di quello di qualsiasi altra persona. << Cos'è successo, avanti? >>. Sì, lo conosceva troppo bene e il soldato ne aveva appena avuto la conferma.
Scrollò le spalle, senza riuscire in alcun modo a fissare i suoi occhi in quelli del migliore amico, << Hai presente quella ragazza? Vedi... tu, lo sai che è un periodo difficile per me, no? L'altro giorno era stata davvero una brutta giornata. Ero nervoso e sono andato a portarle da mangiare e lei era lì, quasi sul punto di piangere ed io... credo di averci fatto del sesso >> borbottò velocemente, dando la possibilità a Walter di capire solo poche delle parole che aveva appena finito di pronunciare ma, a giudicare dall'espressione che mostrava, non gli piacevano per niente.
<< Qualcosa mi dice che lei non era tanto d'accordo >> borbottò Walter, alzandosi e lasciando perdere il suo piatto di spaghetti, iniziando a lavare la padella utilizzata per cucinare: quella era l'ultima cosa che si sarebbe aspettato dal suo migliore amico e d'un tratto gli era passata tutta quella fame che aveva fino a tipo cinque o quattro minuti prima. Chissà perché poi.
Mark sbuffò, passandosi una mano tra i capelli biondi, << D'accordo, Walter, ho sbagliato, ma non prendertela così! In fondo è solo una come tutti gli altri e non le ho fatto poi così male. Era già piena di lividi, che differenza avranno fatto quelli che le ho procurato io? >> no, non lo pensava davvero, ma era troppo orgoglioso per ammetterlo e in più odiava sul serio litigare con Walter Hoffmann e non vedeva il motivo per il quale il suo migliore amico dovesse mettersi a difendere una ragazzina che nemmeno aveva mai visto. Sì, l'aveva vista, d'accordo, ma non era questo il punto.
<< Ti rendi conto di quello che hai fatto?! Forse non ci pensi, ma solo perché sono stati portati qui da gente come i nazisti, non vuol dire che non siano persone in carne ed ossa, che non soffrano, che non sentano il bisogno di stare bene >> Walter stava davvero per impazzire, per la notizia spiacevole datagli dal suo migliore amico: mai si sarebbe aspettato che facesse così con una povera ragazzina indifesa. << Non è giusto trattarli come bestie >> concluse, alla fine.
Mark scrollò le spalle, abbastanza offeso, anche se non voleva davvero litigare con Walter. << Beh, si dia il caso che io sia un nazista e che il nostro compito sia distruggerli completamente >> borbottò, mandando giù a forza un'altra enorme forchettata di quegli spaghetti indigesti.
Un lampo attraversò gli occhi di Walter << Chiedile scusa >> pretese, voltandosi a fissarlo con quegli occhi azzurri, così intensi e profondi; quegli occhi azzurri che a lui, purtroppo erano sempre mancati.
<< ... Cos...? Stai scherzando, vero? >> no, Mark non avrebbe potuto concepire il fatto che l'altro potesse fare sul serio, probabilmente. << Se non lo fai, dopodomani non scomodarti a venire >> sbottò ancora il suo migliore amico e Schreiber decise che sì, odiava decisamente Walter i suoi fottutissimi ultimatum del cazzo. << Lo farò >> concesse, solo per volere divino.
Un sorriso si dipinse sulle labbra di Walter, che tornò a sedersi di fronte al suo amico. << La sai una cosa, Walter? Questi così fanno davvero schifo >>.


So che lo sai
Gabbie di strategie
Fa quasi impazzire
Fa quasi impazzire
So cos'è

Puoi non assaggiare
Per veder se il gusto se ne va
O ti devasta, o ti devasta il prezzo
Che si ha
[Strategie, Afterhours]

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Capitolo 6
*** Capitolo 5. -Words. ***


Cazzo, ho tardato un po' D:
Mi spiace, vi chiedo umilmente scusa, cercherò di farmi perdonare con le new entry di questo capitolo *-*
Vi auguro buona lettura, ovviamente *-* Sono felicissima che delle persone stiano seguendo qu1esta storia, davvero, non le l'aspettavo *-*
Oggi sono dolciuosa *-* Strano, visto che tra appena 21 giorni dovrò fare l'esame di recupero di latino. lebvoultkebfhrbgsjaq
Sì,mi sto mooolto lentamente abituando all'idea, se non si fosse notato. xD

Dudedum... vado a fare la doccia *-*
Buon capitolo ... awààà

Ringrazio le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
- Bbw87
- Fairness
- Mareike Tiaycia
- OlandeseVolante
- Nadine_Rose
- niacara07
- Norine
- Prusskj_Lazur
- ChyoChan
- la_regina
- Luc
Coloro che la hanno inserita tra le ricordate:
- fedecaccy
- Rayne
Coloro che la hanno inserita tra le preferite:
- chyo
- xxGiuls.
- kikka23
- elly04
- Karota
- Luna_LoveDark
- liz89
- sarr
E infine le tre magnifiche ragazze che hanno trovato il tempo di recensire:
- Nadine_Rose
- Fairness
- Norine

Al prossimo aggiornamento,
Schizophrenia.



Salviamoci la pelle.

-Words.


Caserma, Leningrado, Unione Sovietica.
24 Dicembre 1943
08:26

Il colonnello generale Gurtsieva era in pensiero. I tedeschi stavano guadagnando terreno e l'Armata Rossa stava cercando di rinforzarsi come meglio poteva, anche se non era facile per nessuno di loro. Era seduto alla sua scrivania, sospirando. Lui sapeva molto sull'Armata Rossa; era per questo che sua figlia... era stata portata via da quei bastardi. Non riusciva a darsi pace. Si chiedeva ogni giorno se fosse ancora viva, ma non riusciva mai a darsi una risposta. Era troppo difficile anche solo pensarci.
Era la vigilia di Natale, ma non era riuscito a rimanere a casa. Avrebbe davvero voluto rimanere lì, con sua moglie e con il fratellino di Bea, ma non ci era riuscito. Boris Gurtsieva aveva trentotto anni e gli stessi capelli corvini della sua primogenita, e adesso erano scompigliati, sconvolti: voleva ritrovare la sua bambina, anche se ormai aveva paura che, dopo appena nove giorni, i tedeschi l'avessero già uccisa. Si sentiva sempre più colpevole di tutto quello che stava succedendo e non era più nemmeno in grado di lavorare in modo decente.
Sua moglie, Diana, era sconvolta e aveva paura, si occupava del figlio minore, Sergeij. Proprio Sergeij, dall'innocenza dei suoi cinque anni, quella mattina aveva chiesto a sua moglie, saltando giù dal letto, "Mamma, Bea aprirà i regali con noi, stanotte?". La voce innocente di quel bambino era bellissima e melodiosa; ma sia Boris che Diana non erano riusciti a trattenere una smorfia, sentendolo. Non gli avevano detto cos'era capitato a sua sorella, non avrebbe potuto capirlo. Era troppo piccolo per riuscirci.
Il colonnello era convinto che l'avessero portata in uno di quei posti orribili dove chiudevano gli ebrei, solo che quasi tutti erano camuffati come se fossero fabbriche, era impossibile trovarli, e per un colonnello dell'Armata Rossa entrare in Germania nel 1943 era un vero e proprio suicidio.
In quel momento entrò un giovane, sull'attenti, << Buon giorno, colonnello >> esclamò, osservandolo. Era alto, sul metro e ottantacinuqe. I capelli neri erano lisci, portati un po' lunghi, aveva una leggera barbetta e gli occhi erano dello stesso colore del petrolio. Aveva diciannove anni, anche se era in grado di dimostrarsi molto più maturo della sua giovane età. Era Dimitri Todorov, il migliore amico della figlia di Boris Gurtsieva. Era innamorato di Bea Gurtsieva da quando lei aveva appena dodici anni e lui quindici, ma non aveva mai avuto il coraggio di rivelarle i suoi sentimenti.
<< Riposo, tenente >> disse tranquillamente Boris, cercando di non mostrare al giovane quanto fosse in ansia. Quello doveva essere un felice Natale almeno per la famiglia Todorov, ma dubitava che sarebbe stato così. Conosceva il padre di Dimitri da quando erano piccoli, quindi il giovane che gli stava davanti era come se fosse figlio suo. Era capace di provare amore ed era sicuro che il Natale non sarebbe bastato a tenerlo allegro, dopo quello che era successo a sua figlia.
Dimitri fece come gli era stato ordinato, sospirando appena. Si passò una mano tra i lunghi capelli neri, << Ha avuto qualche notizia di Bea? >> mormorò, con la faccia più disperata che il colonnello generale avesse mai visto stampata in faccia ad un militare: gli avrebbe volentieri concesso la mano di sua figlia, l'aveva sempre pensata così. Si ripeteva ogni giorno "Non appena Todorov si deciderà a rivelare finalmente il suo amore a mia figlia, gli permetterò di sposarla", ma questo non avveniva e adesso Bea era stata rapita. Forse sarebbe morta presto, se non lo era già.
Boris Gurtsieva scosse il capo, << Ancora niente, Dimitri, mi dispiace >> disse, aveva assunto un tono più confidenziale. In fondo aveva visto quel ragazzo uscire dal grembo della madre e si stava parlando di sua figlia, Beatrisa Irina Borisovna Gurtsieva; che strano, adesso che ci pensava Dimitri Todorov era l'unico che a volte chiamava la ragazza con il suo secondo nome, trasformandolo nel vezzeggiativo Irishka.
Il tenente si lasciò ricadere nella sedia posta di fronte alla scrivania del colonnello. Aveva passato quei nove giorni nelle piene ricerche di Bea, aveva persino chiamato il consolato francese per essere certo che nessuno sapesse proprio niente; ormai era chiaro anche a lui che l'avevano portata in Germania; ma non si arrendeva così facilmente. Non era porprio il tipo, << Non c'è nulla che possiamo fare, colonnello? >>
Boris osservò il ragazzo, con un pizzico di compassione: lui aveva perso sua figlia, ma il moro sembrava aver perso la donna che amava. Lui non avrebbe saputo che fare se gli avessero tolto la sua Diana ai tempi della gioventù. Voleva davvero ritrovare sua figlia, ma non era così semplice: non poteva mettere a rischio tutta la santa Madre Russia. << Dobbiamo solo aspettare notizie dai tedeschi, Dimitri >> ma entrambi sapevano che non sarebbero mai arrivate: se non l'aveva messa a lavorare con gli ebrei non riuscivano a immaginare a cosa potesse servire loro una ragazzina di appena sedici anni; ma qualunque cosa fosse, una volta che l'avrebbero ottenuta lei sarebbe morta. << Purtroppo non passerà il Natale qui, pare... >> mormorò, osservando il volto contrariato del ragazzo, << Non guardarmi così, Dima: è la mia bambina, nessuno desidera trovarla quanto lo desidero io >>
Dimitri sospirò. << Perché hanno preso lei? Cosa vogliono? Non gli bastava un qualunque soldato semplice dell'Armata Rossa?! >> sbottò il ragazzo, alzandosi di scatto. Aveva sempre odiato i tedeschi e non si era fidato di Hitler nemmeno quando il compagno Stalin aveva stretto un patto con lui, ma da quando avevano portato via la sua Bea li sopportava ancora meno, se solo fosse stato umanaente possibile.
<< Dimitri, non parlare così dei soldati della santa Madre Russia, se ti sentissero finiresti male >> borbottò il colonnello generale Gurtsieva, anche se probabilmente la pensava proprio come il ragazzo, ma come si dice? I muri hanno le orecchie, no? << Hanno preso lei perché è una ragazzina di sedici anni, pensano che otterranno prima delle informazioni sul nostro conto: la credono debole >> spiegò. Era molto intelligente, per questo era stato promosso a colonnello generale: elaborava delle ottime strategie militari, anche se contro i tedeschi nemmeno lui poteva molto.
Il più giovane ghignò, al solo sentire la parola "debole" in riferimento alla sua Bea. << Allora non sanno con chi hanno a che fare >> disse. Bea era, sì, una ragazza ma non era affatto debole. Neanche un po'.
<< Hai ragione >> concordò Boris, lasciandosi sfuggire un piccolo sorriso: sì, su quello aveva proprio ragione.
<< Ho un piano per sapere dove la hanno portato! >> disse il più giovane, serio e conscio del fatto che era qualcosa di assolutamente folle, ma lui voleva farlo. Doveva tentare almeno di fare qualcosa, non aveva assolutamente intenzione di starsene con le mani in mano come avevano fatto tutti gli altri.
Il colonnello inarcò un sopracciglio: scettico, conosceva i piani partoriti dalla mente di quel ragazzo, era un soldato ma agiva un po' troppo col cuore, senza pensare. Quando voleva fare qualcosa i suoi piani assomigliavano molto più a missioni suicide. << Parla, Todorov >> gli concesse, facendogli dono del beneficio del dubbio, per una volta.
<< Se vogliono delle informazioni, potrei espormi. Catturare un solo soldato russo non dovrebbe essere troppo difficile per loro. Mi farete seguire dall'alto dagli aerei. Loro mi porteranno sicuramente dove hanno condotto Bea e poi l'Armata Rossa potrà liberarci tutti >> spiegò, brevemente, il ragazzo dai capelli scuri.
Boris Gurtsieva si rattristò. Sarebbe stato un buon piano per trovare sua figlia, ma non poteva: era troppo rischioso. << No, Dimitri, non possiamo mettere a rischio la santa Madre Russia. Dobbiamo aspettare >> mormorò il colonnello, alzandosi dalla sedia e dando le spalle al ragazzo. Sospirò, mentre esaminava un quadro appeso alla parete del suo ufficio, << Può andare, tenente >> disse, tornando formale.
Dimitri non si sforzò di rispondergli e lasciò l'ufficio, iniziando a camminare lungo il corridoio della caserma. Infilò una mano nella tasca dei pantaloni della divisa e accarezzò la carta ruvida, color marrone, di un pacchetto. Era il suo regalo di Natale per Bea, ma non avrebbe mai potuto darglielo.

Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
24 Dicembre 1943
23:42

Quel giorno Mark non aveva avuto troppe cose da fare, era la vigilia di Natale, ma in un campo di concentramento sembrava un giorno qualsiasi. Aveva visto i deportati lavorare tanto, come mai avevano lavorato prima. Lui si era allenato tutta la mattina e anche tutto il pomeriggio. Aveva cenato con suo padre, una cena veloce, nulla di speciale. Il Germania non c'era l'usanza del cenone della vigilia, ma di certo Mark non credeva che avrebbero mangiato ancora una volta pane e formaggio, quella sera, visto che la cameriera si era presa la libertà di partire per il Natale, quel mattino.
Subito dopo aveva preso una gamella dalle cucine e aveva percorso il corridoio che lo separava dalla camera della ragazzina. Per tutto il giorno aveva avuto in testa le parole di Walter. Quella ragazza apparteneva ad una razza inferiore e doveva odiarla sul serio, ma preferiva tenersi il suo migliore amico, piuttosto che seguire l'opinione di Hitler, una volta tanto. Purtroppo Hoffmann era duro di testa e niente gli avrebbe fatto cambiare idea, una volta presa una decisione, quindi doveva adattarsi e chiedere scusa a quella mocciosetta. Inoltre era davvero troppo stanco per fermarsi a riflettere più di due minuti su quello che era giusto fare.
Si fermò dinanzi alla porta. Avrebbe potuto non accettare le sue scuse, ma questo non era importante, per Walter doveva solo fargliele. Il problema più grosso era come fare queste scuse, lui non era certo un esperto nello scusarsi, l'aveva fatto poche volte in vita sua e dopo i suoi dieci anni, sempre meno spesso. Non era più un bambino dolce e tenero, era un ragazzo con un orgoglio spropositato. Si decise a bussare, qualche istante dopo, dicendosi che l'istinto avrebbe fatto il suo lavoro. C'è sempre una prima volta.
La ragazza non rispondeva e il biondo iniziava ad irritarsi, non sopportava che gli si chiudesse la porta in faccia. D'accordo, questa volta non gliel'avevano nemmeno aperta ma il punto non era di certo questo. Era casa sua e non avrebbe nemmeno dovuto bussare. Abbassò la maniglia entrando in camera. La ragazza stava ancora facendo finta di dormire, come la sera precedente, lo capiva, ma si era scocciato di fare quel gioco, quindi avrebbe parlato lo stesso, che la ragazza stesse dormendo o meno, in fondo Walter non aveva specificato che dovesse essere cosciente mentre le faceva le sue scuse... no?
Poggiò, come la sera prima, la gamella sul tavolino, accanto alla lampada ma stavolta andò a sedersi sul letto, accanto alle sue gambe stese, poteva quasi vederle e ammirarle attraverso la stoffa leggera del lenzuolo. Per la seconda volta il pensiero che la ragazza dovesse morire di freddo in quelle condizioni attraverso la sua mentre, anche se sapeva che non sarebbe dovuto interessargli. Non erano affari suoi di come trattavano una deportata.
<< Sappiamo entrambi che non stai dormendo, quindi rimani zitta e ascoltami >> iniziò il biondo, borbottando. Così non andava bene, sembrava palese che non avesse alcuna voglia di parlarle davvero ma doveva farlo. Le poggiò una mano sul fianco, da sopra il lenzuolo, quasi volesse trasmetterle con quel solo gesto che quella notte non aveva intenzione di farle del male.
Quanto a Bea, stava davvero fingendo di non dormire. Aveva paura: paura che la trattasse di nuovo come aveva fatto quella volta, paura delle ferite che ricoprivano ogni giorno di più il suo corpo, perché gli altri soldati continuavano a torturarla nella speranza di ottenere informazioni utili da lei. Tuttavia la curiosità la opprimeva: voleva ascoltare ciò che aveva da dire; si mordicchiava il labbro inferiore, ritenendosi fortunata a dargli le spalle, così lui non avrebbe potuto vederla. Si stupì notevolmente del tocco del soldato nazista: non era abituata a tanta gentilezza da parte loro.
Il nazista sospirò, cercando le parole adatte. Lui non era portato per certe cose! << Volevo che tu sapessi che non ti toccherò più >>, pensò che quello fosse un buon inizio, era una delle parti che sentiva davvero: in fondo a cosa gli serviva una deportata?! Lui poteva avere a letto tutte le donne che voleva. << e quindi chiederti scusa per l'altra volta, agisco troppo d'istinto, a volte >> aggiunse, poco dopo, riuscendo chissà come a pronunciare quelle parole. La cosa dell'istintività però era vera, lo pensava anche lui, pur non essendo solito ad ammettere i propri difetti.
Bea non rispondeva, ma non riusciva a credere che si stesse davvero scusando con lei. Rimase in silenzio, con il respiro diverso, quasi ansioso. D'altra parte, a Mark non era mai capitato di avere qualcuno che lo ascoltasse, rimanendo in silenzio. Anche Walter parlava troppo, per i suoi gusti.
<< E' dura stare qui, lo so meglio di quanto tu possa immaginare, ragazzina >> iniziò a parlare. Sapeva che non stava davvero dormendo, ma il suo ascoltarlo lo spronava a parlare e ad esprimersi, come non aveva mai fatto in vita sua, se non con il suo migliore amico. << Tu sei convinta che ciò che stai passando sia un inferno, vero? Beh, per ora ti hanno solo torturata e violentata, dovresti ritenerti fortunata >> era serio, mentre le accarezzava delicatamente il fianco con la punta delle dita, solo sfiorandolo. Disegnava cerchi sempre più piccoli sul corpo della ragazza, sempre attraverso le lenzuola.
La ragazza ancora non riusciva a crederci: lo stava dicendo davvero? Si stava rilassando, ad essere sfiorata in quel modo, senza che le mani del giovane la toccassero davvero, come aveva promesso qualche istante prima. << Esiste forse di peggio? >> le sfuggì dalle labbra, senza che lei volesse davvero.
Mark sorrise, tra sé e sé. << Sapevo che non stavi dormendo >> le disse, con una lievissima nota d'ironia, appena udibile nel tono di voce, evitando di proposito la domanda fatta dalla ragazza. La cosa peggiore era che voleva risponderle. Sì, voleva dirle che esisteva di peggio, e lui lo sapeva bene, ma non poteva. Non poteva perché lei era una delle persone che doveva odiare; e che odiava. Ritrasse la mano dal fianco della ragazza, poggiandosela sul ginocchio.
<< Cosa può esserci di peggio? >> chiese ancora la ragazza, sfiorandosi con l'indice la profonda ferita alla spalla che le avevano provocato proprio quella mattina: ormai il sangue aveva smesso di scorrere e si era incrostato tutto intorno, poi avvertì una fitta al bassoventre al ricordo delle notti precedenti, molto più psichica che fisica, a dire il vero.
Il biondo le rivolse uno sguardo, pur sapendo che la ragazza era girata. Era una sguardo vuoto. << Non vorresti mai averlo provato >> riuscì solo a mormorare, troppo impegnato a scacciare i ricordi che gli impregnavano la mente fino a farlo star male. La testa scoppiava, se sono si lasciava sopraffare dai pensieri che la offuscavano, come se una nebbiolina nera e densa si cospargesse mano a mano nella sua mente.
Beatrisa Irina Borisovna Gurtsieva si tirò lentamente a sedere, votandosi dal lato del nazista, incontrando uno sguardo che non gli era mai capitato di vedere in nessuna persona che conosceva. Gli occhi color cioccolato del ragazzo era freddi, quasi di ghiaccio, la ragazza avrebbe osato diro che avessero preso una sfumatura più chiara, passando dal marrone intenso con striature nocciola che aveva visto la prima volta ad un iride completamente nocciola, quasi grigia attorno alla pupilla. Era sofferenza? Forse, ma non era lo stesso tormento che stava provando lei. Non era il dolore della tortura, era qualcosa di più... malato; e, in quel momento, Bea seppe che aveva ragione: non avrebbe mai voluto provare quel tipo di dolore.
Mark fu lievemente sorpreso di non trovare compassione nei suoi occhi verdi. Era il motivo per cui evitava di parlarne anche a Walter: odiava essere compatito, a suo parere non esisteva cosa peggiore del fatto che qualcuno avesse pena di lui. Perché lui era forte, e si era dimostrato tale affrontando tutto quello da solo, senza mai chiedere aiuto né appoggiarsi a qualcuno che non fosse il figlio del signor. Hoffmann, che sapeva tutto, sebbene lui non gli avesse mai parlato di niente.
Una mano della ragazza si posò su quella del nazista, poggiata sul ginocchio di lui. << In santa Madre Russia diciamo "chi è scottato una volta, l'altra vi soffia su" >> citò la ragazza. L'aveva sentito spesso, a Mosca. Non voleva essere davvero gentile con quel ragazzo, né tanto meno provava compassione nei suoi confronti, semplicemente sentiva di doverlo rassicurare. Chi dice che sia sempre il fantomatico lui a proteggere la fantomatica lei fisicamente, in fondo...?
Il giovane Schreiber alzò lo sguardo verso di lei, osservandola perplesso. Avvertiva come inappropriato il calore che la mano della ragazza sprigionava poggiandosi sulla sua, però non gli dispiaceva neanche un po'. << Cosa significa? >> era confuso.
Un lieve sorriso si dipinse sul volto di Bea, << Niente. Niente di importante >> disse, sapendo che l'avrebbe capito, da solo. Non c'era bisogno che glielo spiegasse lei.
Il biondo si alzò, di scatto, confuso dal comportamento della ragazza e dal suo. Non era logico, non doveva essere. << Devo andare >>. No, non era vero, non doveva andarsene, voleva andarsene, ne sentiva la necessità. Aveva bisogno di aria pulita da respirare, perché non poteva rimanere lì a parlare con lei senza sentirsi scottato dalle sue parole, senza sentirsi umiliato dal come una persona che avesse soltanto usato fosse capace di perdonare e di capire. Mark Schreiber non conosceva quella ragazza, e lei non doveva conoscere lui, mai. Non aspettò che lei rispondesse, per sgusciare fuori, sbattendosi la porta alle spalle.

Weimar, Germania.
25 Dicembre 1943
14:00

Mark e suo padre erano stati puntuali, ad arrivare dagli Hoffmann. Si erano salutati e si erano scambiati i doni, fingendo di rimanere sorpresi da qualcosa che, come tutti gli anni, si era rivelato essere estremamente banale. Mark non aveva avuto nemmeno la forza di mentire per bene: si vedeva che in realtà cosa gli avessero regalato non gli interessava affatto, anche perché non era un gran patito dei regali, ma in quel momento aveva tutt'altra cosa in mente. Pensava alla sera prima, a quando aveva parlato con quella ragazza e ancora non riusciva a capacitarsene. In quel momento si odiava da solo: erano state poche frasi, certo, ma non avrebbe dovuto aprirsi così tanto con qualcuno, era uno sbaglio che non avrebbe ricommesso.
Walter si era accorto del malumore dell'amico, ma non poteva farglielo presente lì, davanti a tutti, davanti al padre di lui. Il signor Hoffmann e il maggiore Schreiber parlavano tra loro, di politica, di come andavano le cose nel lager di Buchenwald e di altre cose che hai due giovani non interessavano. Certo, stavano anche parlando della carriera militare di Mark, che da metà dicembre era diventato ufficialmente un soldato semplice. La madre era in cucina, preparava le ultime cose per il pranzo di Natale e si occupava di apparecchiare per bene la tavola in sala da pranzo.
<< Faccio vedere una cosa a Mark e siamo di nuovo da voi >> disse Walter ai due genitori, sfoderando il suo miglior sorriso. Ovviamente voleva rimanere da solo con il suo migliore amico per parlargli in privato, non aveva assolutamente nulla da mostrargli, quel giorno.
Il signor Hoffmann interruppe per un attimo la sua conversazione, mentre Hans Schreiber si trattenne dal constatare che interrompere due adulti che parlavano era da maleducati; ma non lo fece perché Walter Hoffmann in fondo era come un figlio per lui, l'aveva visto crescere e passava molto pomeriggi da loro già da quando Agathe era ancora viva. << Non metteteci troppo, il pranzo ormai sarà quasi pronto >> lì congedò il medico, rivolgendo un breve sorriso ad entrami, prima di buttarsi nuovamente nella conversazione con il signor Schreiber.
I due amici salirono le scale, lentamente, per non dare nell'occhio. C'era una strana atmosfera nell'aria e Mark credeva fosse limitata a lui e a quello che gli era successo e da cui ormai era impressionato, non capiva che anche Walter la sentiva. Arrivati nella stanza, il soldato si butò a sedere sul letto, forse un po' a peso morto, di certo mentre imparava a fare il militare non gli avevano insegnato ad essere elegante. La camera era ben arredata, secondo il gusto impeccabile della signora Hoffmann che comprendeva un gran numero di mobili in legno di noce.
Fu Walter il primo a parlare, << Si può sapere che hai? >> chiese, quasi sbuffando, sedendosi sulla sedia accanto alla scrivania. Era leggermente preoccupato, difficilmente il suo migliore amico dimostrava così apertamente il suo malumore, era strano e assolutamente non da lui. La cosa doveva essere abbastanza seria.
<< Niente Walter, niente. Ho chiesto scusa alla ragazzina comunista, come mi avevi imposto di fare >> rispose l'altro, senza guardare l'amico negli occhi. Tanto sapeva che l'amico avrebbe capito lo stesso. Era inutile mentire in quel modo. Il fatto era che non sapeva nemmeno lui cosa avesse esattamente. Sentiva il bisogno di parlargliene, ma era troppo orgoglioso per farlo.
L'altro annuì, tenendo gli occhi fissi sul volto di Mark: non stava bene, si capiva subito. << D'accordo, cos'hai fatto di tanto grave?! >> lo incitò a parlare Walter, sembrava quasi divertito dalla cosa. Forse perché il suo migliore amico combinava sempre danni, non era una gran novità, soprattutto se si trattava di ragazze, che queste ultime fossero tedesche o meno in effetti sembrava avere davvero poca importanza per il suo migliore amico.
<< Ci ho... parlato >> borbottò il ragazzo dagli occhi nocciola, a bassa voce. Voleva sfogarsi, ma non voleva parlarne, ma tanto sapeva che anche se non glielo avesse detto, Walter avrebbe insistito così tanto da farlo scocciare, sputando fuori tutta la verità, tanto valeva essere sincero con lui fin da subito.
Hoffmann capì, << Un momento... Tu... le hai detto tutto?! >> era visibilmente stupito. Quella ragazza era una sconosciuta e Mark odiava parlare di se stesso anche on le persone che conosceva da anni. Quel ragazzo era un vero rompicapo: eri sicuro che non avrebbe mai fatto una cosa in tutta a sua vita e tempo qualche ora e tu stupida, facendola; ma di certo nessuno avrebbe mai pensato che Mark Schreiber potesse parlare ad una deportata di sua madre o dei problemi con suo padre... era troppo orgoglioso!
L'amico scosse la testa, ancora senza guardarlo. Gli sembrava di essere dallo psicanalista; si ritrovò a pensare che quello sarebbe stato un lavoro niente male che il suo amico avrebbe potuto fare senza problema alcuno. << No, ma stavo per farlo >> ammise, sembrava che la cosa lo infastidisse parecchio.
Walter annuì, << Secondo me non la odi poi così tanto >> ipotizzò il biondo, prendendolo in giro. Ovviamente non sapeva fino a quanto la sua affermazione potesse aver colto nel segno, come al solito.
<< Io la odio tantissimo >> ribatté Mark, alzandosi di scatto dal letto e fulminando il suo migliore amico con lo sguardo.
<< Ah sì?! >>
<< Sì >>
<< E allora perché stavi per dirle tutto di te? >>
<< Avevo bisogno di sfogarmi con qualcuno >>
<< Potevi parlarne con me >>
<< Walter, senza offesa, non mi sono mai scopato te >>
<< Quindi è una questione di con chi fai sesso, Mark? Eppure non mi sembra che tu abbia mai parlato dei tuoi problemi con Ann o Elena... o Liesbeth >>
<< Fanculo, Walter >>
Il giovane Hoffmann sorrise, ironico, all'ultima offesa del suo migliore amico, confermava solo quanto in realtà avesse ragione, << Che ne dici di andare a pranzare? >> chiese, ormai che aveva ottenuto la sua vittoria.
<< E' una buona idea >> accettò Mark, anche perché il suo stomaco cominciava a brontolare. Le discussioni con Walter gli mettevano sempre appetito e, anche se quest'ultima cosa non l'avrebbe mai ammessa, allegria.
<< Ahn, Mark? >> lo chiamò ancora il biondo, voltandosi verso di lui, prima di iniziare a scendere le scale di legno, diretto di nuovo in sala da pranzo.
Schreiber alzò lo sguardo verso di lui, incontrando gli occhi azzurri del suo migliore amico, << Sì? >>
<< Voglio conoscerla >>


Luce del mattino,
luce di un giorno strano,
pensavi di esser perso
che cambia il tuo destino

Anche il paradiso
può essere un inferno,
era tutto scontato
finché non sei caduto
[Riprendere Berlino, Afterhours]

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Capitolo 7
*** Capitolo 6. -Open Wounds. ***


So di essere fottutamente in ritardo. ç__ç
Mi dispiace così tanto. Il mio ragazzo mi aveva fatto passare la voglia di scrivere, quel coglione, ma a voi non frega niente e io non parlerò a vanvera. xD
D'accordo, faccio un'introduzione breve così pubblico subito. u.ù
Capitolo più lungo del solito per farmi personare delle gravi assenze. u.ù
Prometto che cercherò di pubblicare il prossimo capitolo per il 2, perché le idee ci sono, ma la scuola è imminente. Devo trovar il tempo per metter tutto nero su bianco. Auguratemi buona fortuna, insomma. xD
Per oggi niente Dimitri e PapàDiBea, ma non dimenticatevi di loro, sono importanti al fine della trama. u.ù
Beeene, passiamo ai ringraziamenti, su. <3
Ringrazio le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
- Bbw87
- Fairness
- Mareike Tiaycia
- OlandeseVolante
- Nadine_Rose
- niacara07
- Norine
- Prusskj_Lazur
- ChyoChan
- la_regina
- Luc
- thegreenlady
Coloro che la hanno inserita tra le ricordate:
- fedecaccy
- Rayne
- ElleBi
Coloro che la hanno inserita tra le preferite:
- chyo
- xxGiuls.
- kikka23
- elly04
- Karota
- Luna_LoveDark
- liz89
- sarr
- elly04
- orsetta17
- Remedios la Bella
E infine la magnifica ragazza che ha trovato il tempo di recensire:
- Fairness


Ad AppenaTrovoUnAttimoSoloPerRespirare,
Schizophrenia.





Salviamoci la pelle.

-Open Wounds.




Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
27 Dicembre 1943
21:30

Mark non si era dato peso di portare ancora da mangiare alla deportata, scosso dagli avvenimenti della Vigilia. Aveva affidato il compito ad un allievo milite che aveva conosciuto per caso. Si chiamava Derek, credeva di ricordare, sì, Derek Keller, era decisamente un bravo soldato, ma Mark era convinto che non sarebbe mai diventato un buon nazista: impacciato, timido, gli occhi azzurri troppo grandi lo facevano sembrare un ragazzino di sedici anni, e tendeva a riporre troppa fiducia nelle persone. A Mark però stava decisamente simpatico, non era come uno dei manichini al servizio di Hitler, con la divisa in perfetto ordine e che era prono ad uccidersi per obbedire persino a suo padre. Non era come stava diventando lui stesso.
Il ragazzo aveva accettato il compito, di buon grado e Mark iniziava a sentire la sua vita come un qualcosa di tremendamente monotono, da quando aveva smesso di portare cibo alla ragazza e di rimanere a dormire sotto la finestra, con le spalle che premevano contro la parete. Quel giorno si sentiva talmente vuoto che aveva evitato anche di tornare in casa per cena: con un po' di fortuna il padre non si sarebbe nemmeno accorto della sua assenza. Era rimasto al poligono di tiro, tutto il giorno, dalle sei e mezzo di quella stessa mattina. Decise che sarebbe andato a trovarla, dopotutto non gli costava niente e non le doveva spiegazioni, se varcava quella soglia. Era sempre casa sua, no?
Rifece il percorso a grandi passi. Non aveva neanche fame, non aveva voglia di chiedere alla domestica se era avanzato del cibo per lui, non ce n'era motivo. Probabilmente anche Derek aveva portato del cibo alla ragazza e se n'era tornato a casa. Anche lui avrebbe voluto tornare a casa, a Berlino. Alla sua vera casa, ma probabilmente quell'abitazione nemmeno ci sarebbe stata più dopo otto anni. Avevano lasciato Berlino quando Mark aveva appena dodici anni: aveva vissuto a Dachau, nel campo di lavoro, da degli amici del padre che faceva i soldati lì, mentre Hans Schreiber era a combattere sui fronti. Nel luglio del '37, avevano mandato il padre di Mark a Buchenwald, come comandante e Mark lo aveva seguito, un anno prima di arruolarsi a sua volta.
Si fermò davanti alla porta, quando udì un piccolo gemito di dolore. Femminile: doveva per forza appartenere alla ragazza. Avvertì un moto di rabbia: la torturavano, sì, di giorno in giorno, ma mai in quella stanza. Mai sotto i suoi occhi. Gli diede inspiegabilmente fastidio e aprì di scatto la porta, indossava ancora la sua divisa nazista e reggeva l'arma tra le mani, come un qualunque soldato. Avrebbe anche potuto essere un caporale che si divertiva a giocare con le deportate, ne conosceva molti, ma c'erano i bordelli per quello. Di solito le detenute più belle erano mandate lì, ma fortunatamente a Bea Gurtsieva non era stato riservato lo stesso destino. Mentre la porta si apriva, si chiese come mai di tanta confusione mentale: non aveva forse abusato lui stesso del corpo della giovane, torturandola psicologicamente?
Sbatté le palpebre una, due e poi tre volte, per focalizzare bene la scena che gli si parò davanti: << Scusa, non volevo fare troppa pressione, ma sei messa davvero male >> commentò Walter, il suo migliore amico, mentre piano avvolgeva una benda attorno alla spalla della deportata che lo guardava. Mark stava esaminando attentamente gli occhi verdi della russa: non c'era timore, quando lì posava su Walter. Non sembrava avere paura di lui. Come aveva fatto a conquistarsi la sua fiducia così in fretta?!
Il ragazzo dagli occhi chiari si accorse della presenza del suo migliore amico e lo guardò, allargando le labbra in un sorriso, << Finalmente sei arrivato. Prima è passato un certo ragazzino, Keller, ha portare da mangiare. Pensavo lo facessi sempre tu, quando sono arrivato, alle quattro del pomeriggio, non eri nemmeno in camera tua. >> lo stava rimproverando con lo sguardo, era palese, ma c'era anche un'altra cosa ad illuminare quegli occhi azzurri, un barlume di... divertimento?
Mark sbuffò, richiudendosi frettolosamente la porta alle spalle e poggiando il fucile contro il muro, allontanandosi. Preferiva non averlo a portata di mano, altrimenti avrebbe sicuramente deciso di far fuori il suo migliore amico, e non era una buona idea, visto che sembrava averlo aspettato tanto. << Ero ad allenarmi, Walter, come un qualsiasi soldato >> borbottò, in risposta, prima di raggiungere i due. Potrei sempre ucciderlo a mani nude, pensò. Gli sembrava l'unica soluzione possibile a tutto quello. << E tu, se permetti, cosa ci fai qui? >> chiese ancora, palesemente scocciato. La presenza del suo migliore amico non lo infastidiva, no di certo, era il modo premuroso nel quale sfiorava la spalla della ragazza con le bende che lo irritava da morire.
Walter scrollò le spalle, sempre mostrando un gran sorriso, in risposta alla sguardo giusto un tantino infastidito del suo migliore amico, << Ti avevo detto che mi avrebbe fatto piacere conoscere Bea >> rispose, come se non ci trovasse nulla di strano. Come se fosse andato semplicemente a far visita ad una vecchia amica.
<< Devi andartene, Walter. Ti avevo detto che ti avrei fatto entrare, ma non adesso. Se mio padre ci vede ammazza prima me, poi te ed in fine lei >> disse, indicando con un cenno del capo la ragazza dai morbidi boccoli neri come la pece. Walter le aveva medicato solo le braccia, notò. Non sapeva se esserne felice o meno, forse sotto quegli abiti logoro c'erano ferite che necessitavano di essere disinfettate più di altre. Non era affar suo, non avrebbe dovuto preoccuparsene e, sicuramente, Walter Hoffmann non avrebbe dovuto preoccuparsene.
<< Non mandarlo via >> gli aveva chiesto lei. Mark Schreiber si stupì di sentirla parlare, a parte la sera della vigilia non avevano mai veramente parlato, e quel tono lo faceva sentire male. Era strano, caldo, dolce. Era un tono di parlare che nessuno gli aveva mai rivolto, nemmeno Walter; e quegli occhi verdi sembravano di nuovo pieni di speranza, quella sera, che il soldato biondo, in piedi, non riuscì ad evitare di osservarlo, lentamente, mentre cercava di lottare contro quella voglia di sfiorarla.
<< D'accordo, dieci minuti >> borbottò Mark, incrociando le braccia al petto ed andandosi a sedere in un angolo della stanza. Adorava Walter con tutto se stesso, ma era piombato lì senza nemmeno avvertirlo, e questo gli piaceva un po' meno.
Aveva promesso ai due dieci minuti, ma passarono due ore. Due ore durante le quali Mark si era beato delle risa di Walter e di Bea, finendo completamente disteso sulle assi di legno del pavimento. Il suo amico parlava di suo madre che faceva il medico lì, descrivendoglielo, e Bea ascoltava; Walter raccontava qualche sciocchezza che avevano fatto da piccoli, e Bea rideva; Walter guardava Mark e poi Bea, ma nessuno rideva, quando faceva scorrere il suo sguardo attento sui due giovani.
<< Forse adesso è il caso che vada >> disse il ragazzo dagli occhi azzurri, alzandosi e sorridendo alla ragazza dai capelli scuri, << Tornerò a trovarti, il prima possibile, te lo prometto >> le disse e Mark sapeva, conoscendo Walter da praticamente una vita, che lui manteneva sempre le sue promesse e quella fatta ad una ragazza non sarebbe stata diversa. Soprattutto perché Walter sembrava avere un debole per le persone in difficoltà, come quella povera ragazza. << Mi accompagni alla porta? >> chiese subito dopo a Schreiber, voltandosi verso quest'ultimo. Mark sapeva che voleva parlargli da solo, non perché il suo amico conoscesse la porta quasi meglio di lui, ma glielo leggeva negli occhi.
<< Certo >> rispose, quasi subito, seguendolo a passi lenti fuori dalla camera, senza dimenticarsi di chiudere la porta alle loro spalle. Pochi istanti di assoluto silenzio e furono entrambi fuori di casa. Davanti a loro si stagliava unicamente il campo di concentramento di Buchenwald di notte: le anime che arrancavano per sopravvivere, senza neanche un motivo reale per farlo. Non ce n'erano: ogni giorno della loro vita sarebbe stato insulsamente e orribilmente uguale all'altro, finché non sarebbero diventati troppi stanchi e quindi uccisi.
<< Di cosa volevi parlarmi? >> chiese Mark, dando per scontato che comunque il suo migliore amico non ci avrebbe girato attorno più di tanto. Walter di solito non si faceva troppi problemi a parlargli in faccia, con assoluta sincerità.
Walter sospirò, non sembrava aver tanta voglia di scherzare. << Quante volte viene torturata? >> gli chiese, come se ci tenesse davvero a saperlo, e forse era sul serio così.
Mark scrollò le spalle, << Non ne ho la minima idea, Walter >> rispose. Lui non la vedeva spesso, nemmeno voleva vederla spesso, dopo la Vigilia, ma anche prima, lui le portava solo da mangiare la sera, quando capitava, e spesso gli sembrava di notare tagli e lividi sempre nuovi, ma non si era mai messo a contarli. << Credo spesso, comunque. In un tempo compreso tra mattina e pomeriggio >> aggiunse, stringendosi nelle spalle. Non era troppo abituato a preoccuparsi per i deportati o a parlare di loro con il suo migliore amico.
<< Credo che potrebbe riportare gravi infezioni, se non viene curata adeguatamente >> sospirò l'altro, lanciando uno sguardo verso l'esterno. Alla neve che ricopriva interamente il campo di concentramento, sebbene ogni santo giorno i deportati fossero costretti a spalarla.
Il soldato semplice gli rivolse lo sguardo, inarcando un sopracciglio. Aveva forse intenzione di aiutarla? Lui non poteva. << Lo so, Walter, ma morirebbe comunque. Sai ciò che succede a quelle come lei, vero? >> "E' già una fortuna che non l'abbiano mandata in quei luridi bordelli che allestiscono per le ragazze più carine", aggiunse mentalmente. Non aveva mai sentito la necessità di frequentare quei posti. << Mi hai già messo abbastanza in difficoltà con mio padre. Se vede quelle ferite fasciate, mi caccerà di casa, ne sono convinto >> continuò a parlare, lo sguardo ancora rivolto fuori.
Walter guardò nella sua stessa direzione ed annuì, << Ma tu non vuoi che muoia, lei non è come "tutte quelle come lei", no? >> sembrava sicuro delle sue parole, ma non stava incolpando Mark,non stava dicendo niente. Il suo tono di voce era calma mista a preoccupazione, forse per le sorti del suo migliore amico o della ragazza stessa.
<< Non la conosco >> ammise l'altro, sospirando. Ed era strano. Era strano da parte sua. Era strano che la sua risposta non fosse stata "E' solo un altro paio di braccia per la fabbrica del campo". C'era qualcosa di strano anche nel suo tono di voce, sembrava stanco.
<< Potrebbe morire sul serio >> Walter rivolse nuovamente lo sguardo all'amico, che cercava di dimostrarsi ancora impegnato ad esaminare la neve centimetro per centimetro.
<< Sei un medico? >> non voleva sembrare scocciato o scettico, ma lo fu.
<< Mio padre lo è >> il tono della conversazione stava prendendo decisamente una piega ironica e questo non poteva che far bene ad entrambi.
<< Anche volendo aiutarla, dove le trovo le cose? >> non poteva cerco rubarle all'infermeria del campo: non avevano poi molto per curare i deportati, non rispettava le norme igieniche, dopotutto loro non erano importanti quanto un ariano che aveva bisogno di un medico, proprio no. Erano solo feccia, no? Lui però forse stava iniziando a rifletterci su davvero.
Hoffmann scrollò le spalle, << Se vieni a trovarmi in questi giorni, cerco di farti avere qualcosa >>. Poco dopo aver detto queste parole si avvicinò al suo migliore amico e gli sfiorò la spalla, prima di abbracciarlo. Mark non lo respinse, ma non ricambiò il gesto, considerandolo molto poco virile e da bravo militare nazista, abbracciare un altro uomo. << Puoi farcela >> cercò di rassicurarlo Walter e forse quelle parole lo colpirono davvero, perché il soldato dai capelli biondi sorrise, nel buio del campo di concentramento di Buchenwald.


Weimar, Germania
28 Dicembre 1943
7:20

Mark sospirò, davanti alla porta di casa Hoffmann, indeciso se bussare o meno. Stava davvero accettando di aiutare una sconosciuta, in cambio della sua vita, oltretutto? Forse no, non lo avrebbero ucciso, ma poteva scordarsi di rimanere un militare, se l'avessero scoperto. Perché aiutare una comunista quando tutto ciò che hai intorno ti spinge a sorreggere il partito nazionalsocialista? Era davvero giusto? Quale concezione avrebbe dovuto avere di giusto e sbagliato? Erano gli altri ad essere sbagliati, per quello che erano, oppure erano loro stessi quelli a sbagliare mettendo fine alla loro vita? Non capiva, e non voleva capire. Voleva solo che Bea non morisse.
Non pensava mai a lei con il suo vero nome, la cosa le dava una sorta d'identità, non ci aveva mai fatto caso, ennesima stranezza.
Dalle sue labbra fuoriuscì un altro sospiro, e si passò una mano tra i capelli biondi, prima di bussare. Ad aprire venne, poco dopo, la signora Hoffmann. La salutò con un sorriso, chiedendogli se Walter era in casa, e la donna gli disse che poteva raggiungerlo al piano superiore, nella sua camera: strano, Walter non era mai stato un ragazzo mattiniero, era sicuro che lo avrebbe trovato sì, nella sua camera, ma a dormire.
Quando fu dinanzi alla porta che lo separava dal suo migliore amico non esitò come aveva fatto prima, la aprì, trovandosi di fronte Walter vestito e preparato, disteso sul suo letto ed intento a leggere un libro. << Buon giorno >> lo salutò, divertito, andando a sedersi accanto a lui, sul letto. Stava sorridendo, di primo mattino: era decisamente una giornata strana.
<< Buon giorno, soldato, è martedì mattina... niente allenamenti? >> il suo tono di voce era stato alquanto ironico, ma aveva alzato gli occhi dal libro, ancoraprima di richiuderlo e poggiarlo sul comodino accanto a letto, catalizzando tutta la sua attenzione sull'amico che gli si era seduto accanto.
Mark scrollò le spalle, << Possono fare a meno di me, una volta ogni tanto, in fondo mi alleno molto più di tutti gli altri. Potrò anche prendermela una giornata di ferie >> rispose, con ironia, ritrovandosi a pensare che quel mese non era la prima volta che lo faceva. Forse avrebbe dovuto smettere, ma quella mattina, mentre osservava la sua divisa, prima di indossarla, si era affrettato senza nemmeno capire perché accanto all'armadio, alla ricerca di abiti civili.
<< Lo trovo giusto >> rispose l'altro, sorridendogli. Sembrava davvero felice di qualcosa che vedeva sul volto del suo migliore amico, ma non riusciva nemmeno lui a capire di cosa si trattasse. << Sul serio, sembravi davvero stanco in questi giorni, un po' di pausa non può che farti bene >> aggiunse, tirandosi a sua volta a sedere accanto all'amico.
Schreiber annuì, passandosi una mano tra i capelli, << Beh, non dovevi darmi qualcosa? >>, se era riuscito a procurarsi qualcosa. Forse non sarebbe dovuto arrivare così presto, quella mattina, c'era la possibilità che non avesse avuto modo di fare proprio nulla. Forse non avrebbe dovuto esserne preoccupato, ma gli era difficile da spiegare, e forse non voleva nemmeno capire.
<< Oh, sì, certo >>, Walter sorrise e si alzò dal letto, << Ne ho parlato con mio padre e ... >>
<< Sei pazzo?! >> lo interruppe il soldato semplice, sorpreso. Il suo migliore amico non gli era mai sembrato così stupido. << Tuo padre lavora nello stesso campo di concentramento dove lavora mio padre, sono inoltre molto amici, quando credi che ci metterà a farlo sapere a mio padre e l'SS a fucilarmi insieme ad un carico di ebrei? >> si stava arrabbiando, era evidente, e poi Mark era di per sé un tipo che si arrabbiava molto facilmente, non gli servivano troppi motivi per farlo, ma stavolta li aveva sul serio.
Il giovane Hoffmann inarcò un sopracciglio, << Conosci mio padre, è stato soltanto felice che almeno tu avessi iniziato a capire che l'avversione verso altri esseri umani è completamente inutile >> sbottò, dandogli le spalle ed iniziando a cercare ciò che gli aveva promesso.
Mark si passò una mano tra i capelli, lasciandosi ricadere steso sul letto. Ovviamente: conosceva il padre di Mark da quando aveva circa quattro anni, come aveva potuto, anche se solo per un momento, dubitare di lui? Stava diventando decisamente stupido, o era quella giornata ad essere fottutamente strana.
Sentì l'amico sedersi accanto a lui e alzò lo sguardo, notando che gli porgeva un sacchetto stracolmo di carta marrone, << Ci sono molte bende pulite, ovatta, disinfettante e qualche medicina che il mio caro papà a consigliato di somministrarle >> stava di nuovo sorridendo, non sembrava avercela con lui nemmeno un po'. Walter Hoffmann era così: si arrabbiava, metteva il broncio per due minuti e poi tornava a sorridere.
<< Grazie, Walter. Cercherò di stare attento >> rispose, prendendo il sacchetto con entrambe le mani ed alzandosi dal letto. Gli rivolse un sorriso, guardando ciò che reggeva tra le mani. Come avrebbe fatto ad evitare le domande impertinenti di tutti? Non gli interessava.
<< Wow... credo di non avertelo mai sentito dire durante .... beh, molti, troppi anni. Sicuro di stare bene?! >> gli chiese, con evidente sarcasmo. Si alzò a sua volta, afferrando una sciarpa che aveva poggiato sulla sedia, << Dai, usciamo, cerchiamo qualcosa da fare, ti va? >>
Mark sorrise ed annuì, non aveva voglia di tornare a Buchenwald così presto, quando gli altri soldati non avevano ancora finito di allenarsi.
Erano le nove di mattina passate, ormai, e Walter erano riuscito a farlo entrare in uno dei suoi luoghi preferiti: una libreria. Anche a Mark piaceva leggere, da ragazzo, ma da quando si era arruolato trovava sempre meno tempo. A volte lo faceva ancora, la sera, prima di andare a dormire. Lo faceva sentire bene, e lo aiutava ad estraniarsi da tutto quello che non sentiva più come suo. Non dalla Vigilia di Natale, almeno.
<< Hai visto qualcosa che ti interessa? >> chiese al ragazzo dagli occhi azzurri, che era imbambolato a fissare un romanzo rosa. Si era sempre chiesto perché a Walter quella roba piacesse così tanto; lui quando leggeva puntava su altri generi.
L'altro scrollò le spalle e gli sorrise, << Forse, niente di sicuro, e tu? >>
<< Ancora nulla. Vado a fare un giro negli altri reparti. Ci vediamo alla cassa tra mezz'ora >> propose, avviandosi già dalla parte opposta del negozio. Walter non passava mai meno di dieci minuti buoni davanti ad un libro, per decidere se acquistarlo o meno.
Mark Schreiber buttava un'occhiata su qualche copertina interessante, ma non c'era niente che lo colpisse in alcun modo. Forse era soltanto perché i suoi pensieri erano fissi sulla ragazzina, che forse stavano torturando proprio in quel momento. Era ormai un chiodo fisso da quattro giorni, per lui, il pensiero di lei. Iniziava ad averne seriamente abbastanza, ma sentiva il bisogno di parlarle, di vederla ancora. Forse avrebbe dovuto fare un salto da lei, tornato a casa. In quel momento, sentiva il bisogno di aiutarla, e si promise che avrebbe fatto di tutto per riuscirsi e, alla fine, ce l'avrebbe fatta, ne era sicuro. Dopotutto Walter era stato capace di farsela quasi amica, perché lui non avrebbe dovuto? D'accordo, lui era iscritto al partito nazista da quando aveva dieci anni.
Forse fu proprio il pensiero di Bea, che gli fece cadere gli occhi su di un frasario tedesco-russo. Lo prese e se lo rigirò tra le mani: era scritto quasi tutto in alfabeto cirillico, ma decise di comprarlo lo stesso. Avrebbe imparato. Sorrise: l'idea lo divertiva parecchio, non si era mai avventurato in una lingua diversa, e forse quello era proprio il momento giusto per farlo. Sapeva dire pochissime cose in russo, e non ci aveva parlato molto con la ragazza,che sembrava parlare bene il tedesco, solo che a volte sembrava non capire qualche parola.
Raggiunse Walter alla cassa e comprò il frasario, mentre l'amico aveva preso due libri di cui non era riuscito a leggere i titoli.



Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
28 Dicembre 1943
18:57

Mark era molto cauto. Era rientrato in casa e aveva portato frettolosamente tutto in camera sua. Non aveva idea di dove potesse essere finito il padre, quindi si limitava a guardarsi incontro, prima di girare ogni angolo. Probabilmente lo avevano anche avvertito che non si era presentato agli allenamenti, ma lo avrebbe affrontato quella sera, se fosse stato necessario. Sperava proprio di no, avrebbe preferito essere mandato a combattere sul fronte, anche se non ci pensava da un bel po'di tempo. Non aveva incontrato nessuno, eccetto Derek, che aveva dimesso dal compito, riprendendolo per sé.
Raggiunse frettolosamente la cucina, portando il frasario tedesco-russo con sé. Si trovò di fronte proprio chi cercava: una donna sulla quarantina, alta, con la veste a righe che contraddistingueva i deportati, e aveva un fazzoletto, a nascondere i capelli biondo chiaro. Era una serva, lavorava in casa Schreiber da molto tempo, e non aveva mai parlato troppo con lui, ma da quel poco, Mark aveva capito che era russa, forse poteva aiutarlo. In quel momento la donna stava preparando la cena. Mescolava qualcosa in una scodella, poggiandosi al tavolo. Sembrava molto più vecchia e stanca dei suoi anni, ma i suoi occhi scuri ispiravano fiducia e, forse un tempo, dolcezza.
Il ragazzo si sedette accanto al tavolo, osservandola, << Come ti chiami? >> chiese, guardandola, finché la donna non alzò, gli occhi, sembrava sorpresa dal fatto che uno dei due membri della famiglia gli rivolgesse la parola per una cosa così futile.
Sembrava essersi quasi dimenticata del suo nome, dopotutto lei era solo un numero. Un numero appuntato sulle vesti. << Yelena >> rispose, con un appena marcato accento russo nel tono. Pareva stanca, stanca sul serio, mentre preparava la cena, ma a Mark quella donna serviva, in quel momento, quindi avrebbe impedito che fosse uccisa, così come avrebbe impedito che fosse uccisa Bea.
<< Da dove vieni, Yelena? >> chiese ancora, aveva cercato di assumere un tono di voce gentile e calmo. Beh, calmo lo era quasi sempre; quanto alla gentilezza.. lasciava un po' a desiderare, ma avrebbe potuto lavorarci. Forse, con un po' d'impegno.
La donna corrugò la fronte, stava pensando. Forse si sforzava di capire da cosa venisse fuori tutto quell'interessamento. << Mosca >> rispose alla fine, << Posso chiederle perché le interessi tanto? >> sembrava aver imparato a portare rispetto alla famiglia tedesca. Forse perché quello era l'unico modo che avesse per sopravvivere.
Mark scrollò le spalle, << Puoi insegnarmi la tua lingua? >> le mostrò il frasario, sperando che ne avesse scelto uno con qualcosa di utile sopra. Dubitava però che ne avrebbe trovati altri. Di quei tempi, nessuno voleva andare di certo in Russia, non dalla Germania.
Yelena si voltò verso il soldato, osservandolo per qualche secondo e smettendo di fare ciò che stava facendo. Sembrava visibilmente sorpresa e forse anche confusa, e a Mark la cosa non sfuggì, << E' per una... amica >> si affrettò ad aggiungere, anche se non era una sua amica. Forse avrebbe dovuto trovare il modo di far sì che diventasse tale, era una situazione difficile.
La donna prese tra le mani il frasario, iniziando a sfogliarlo, curiosa, << Posso aiutarla, sì, ma ci vorrà del tempo. Quando vuole iniziare? >>
<< Stasera stessa >>, il tono del ragazzo era deciso.
Lei scosse appena il capo, << Cosa potrei insegnarle in poche ore, mentre preparo la cena? >>
<< Il mio nome e Mark e ne ho un bisogno urgente. Ho anche bisogno che prepari qualcosa di più per quest'amica, stasera. Puoi farlo? >>
Yelena lo osservò ancora e sembrò lasciarsi convincere. << Posso insegnarti qualcosa adesso - sospirò - ma devi dedicare alla lingua almeno due ore al giorno, e promettere che un giorno mi spiegherai perché hai bisogno del mio aiuto, Mark >> concesse, pur non sembrando troppo convinta. Chissà come era riuscito a strapparle quella concessione.
<< Perfetto >>, Schreiber si lasciò sfuggire un sorriso.
<< Come si chiama quest'amica, lo sai, vero? >> a Mark sembrava strano che non gli avesse ancora rivolto tutte quelle domande, ma una domanda del genere sembrava accettabile. Aveva chiesto il nome di lei, non aveva chiesto effettivamente chi fosse lei, sarebbe stata una domanda molto più difficile a cui dare una risposta.
<< Bea >>
<< E' il vezzeggiativo di Beatrisa. Davvero un bel nome, dovrebbe essere portato da una persona che rende felici gli altri >> Yelena sorrise. Sembrava molto affezionata alla sua cultura russa, sebbene non fosse in Russia da diversi anni.
Mark l'ascolto attentamente, << Vezzeggiativo? >> la interruppe per qualche minuto, senza capirne esattamente il significato.
<< Sono come dei diminutivi, alcuni di loro perdono il significato, perché vengono pronunciati da tutti, è come un'abitudine, ma ci sono dei modi in cui ti chiamano solo le persone care. Mio marito mi chiamava Yelenushka >>, gli occhi le si riempirono di lacrime, sembrava persa di ricordi, non triste.
Il soldato semplice annuì, ascoltandola attentamente. Chissà Bea quale funzione aveva assunto, per quella ragazza chiusa a poche stanza da loro. La osservò attentamente, quando parlò del marito, << Dov'è tuo marito, adesso? >> le chiese.
<< Faceva propaganda comunista. E' stato portato subito a fare delle docce, e non è più tornato. Questo non è un campo femminile, ma mi hanno tenuta a lavorare qui. Non so perché, ma nonostante tutto, credo che mi sia andata bene >>
Mark ascolta, sembrava interessato alla vita di quella donna. Non era mai stato ad ascoltare un deportato, ed effettivamente si era appena reso conto che nessuno di loro avrebbe avuto una storia felice da raccontare. Yelena aveva perso il marito, chissà tutti gli altri chi avevano perso. Sicuramente qualcuno di importante e di caro. Per un momento, un lungo momento, lo trovò ingiusto.
Mentre preparava la cena, la donna cercò di insegnargli qualche breve frase in russo e parte dell'alfabeto cirillico.


Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
28 Dicembre 1943
22:01

Mark aveva affrontato il padre. Non era stato difficile quanto aveva pensato, solo noioso come sempre. Dopo era tornato da Yelena, che aveva preparato qualcosa di più sostanzioso del solito brodino per Bea. Era andato a prendere anche il sacchetto che gli aveva dato Walter e si era diretto in camera della ragazza. Era entrato, senza farsi troppi problemi. Senza bussare. Vedeva la ragazza distesa, inerte, sul letto, stavolta le notava: nuove ferite sul suo corpo. Le si avvicinò, porgendole la ciotola. << Dobroy vecher* >> la salutò, cercando di sorridere, pur notando il cattivo stato della ragazza. Aveva un forte accento tedesco comunque.
Lei alzò lo sguardo verso di lui, palesemente sorpresa: non sembrava riuscire a credere che parlasse russo, ma ne sembrava anche sollevata, << Ciao >> mormorò, nella lingua del ragazzo, sicuramente più comprensibile per lui. Gli prese la ciotola, tirandosi lentamente a sedere.
<< Tutto bene? >>, aveva ripreso a parlare tedesco. Aveva imparato davvero poco, quella sera, ma ci provava. Per adesso stava tentando di fare conversazione con lei, ma sembrava un'impresa ardua, visto che nemmeno lo aveva guardato in faccia. Il ragazzo si disse che probabilmente lo odiava, ma avrebbe cercato di farle cambiare idea e ci sarebbe anche riuscito, ne era sicuro.
<< Sì. Walter non è venuto? >> la ragazza non sembrava molto in vena di parlare, ma appariva agli occhi di Mark come un cucciolo di gatto, tremante, bagnato e impaurito. Si ripeté che era normale: non era mai stato gentile con lei, probabilmente ne era sorpresa. La ragazza iniziò a mangiare, << Cos'è? >> chiese, poco dopo, perplessa, riferendosi a ciò che la sua gamella conteneva.
Mark scrollò le spalle, << Walter aveva un po' da fare... è qualcosa di meglio rispetto a ciò che mangi di solito >> rispose l'altro, rivolgendole un sorriso appena accennato.
<< Spasiba** >>, non capì la risposta di lei, ma non disse nulla, osservandola mangiare lentamente. << Da quando parli russo? >> gli chiese ancora, lei, quando ebbe terminato di mangiare, poggiando la ciotola vuota ad un lato del letto.
<< Sto imparando >> disse, osservandola. Sembrava davvero molto debole. Pensò che forse Walter aveva ragione: forse stava davvero troppo male. Qualcuno avrebbe dovuto aiutarla, beh, era andato lì per quello. Non riusciva più a vederla come una stupida mocciosa, sebbene la cosa sembrasse strana persino a lui. << Vieni, devi lavarti e cambiare le bende >> disse, tentando di mostrarsi gentile. Non era una cosa che gli riusciva bene, ma almeno si sforzava.
Lei gli rivolse lo sguardo: i grandi occhi verbi apparivano a Mark come deboli, stanchi e pieni di dubbio e scetticismo, << Sai farlo? >> gli aveva chiesto, quasi dubitasse delle sue capacità; e forse aveva le sue ragioni visto che il ragazzo passava tre quarti della sua vita a giocare alla guerra.
Nonostante tutto, il tedesco si lasciò sfuggire una sono risata, << Sei incredibile >> commentò, osservandola: gli occhi scuri pieni d'allegria, una volta tanto, in quel buco polveroso.
<< Perché? >>
<< Non mi stai chiedendo se vogliono in realtà ucciderti, mi stai chiedendo se sono in grado di cambiare una benda! Sei incredibile >> ripeté lui, scuotendo il capo, ancora più divertito, porgendole la mano per aiutarla ad alzarsi. Lo pensava sul serio. D'accordo, non aveva mai parlato con i deportati, ma dubitava seriamente che un altro qualsiasi essere umano si sarebbe comportato nel suo stesso modo.
Bea sembrava ancora perplessa, apparendo fin troppo ingenua agli occhi del soldato, << Beh, non so se nei sei in grado >> gli aveva risposto ancora, con una naturalezza disarmante anche per un tipo come Mark Schreiber.
Lui rise ancora, mentre la ragazza si alzava, appoggiandosi alla sua mano. Il ragazzo la portò nel bagno che fortunatamente era poco distante, o almeno ilsuo baglio lo era, senza dimenticare di trascinare con sé il pacco con le cose che gli aveva dato Walter. Si richiuse la porta alle spalle, << Prima laviamo le ferite, poi le disinfettiamo >> disse, alla russa, cercando un asciugamano pulito. Quando lo ebbe trovato, lo poggiò accanto al lavandino, prima di avvicinarsi a Bea, << Fammi vedere dove ti hanno fatto male >> disse, serio, osservandola.
Bea abbassò lo sguardo, senza rispondere.
<< Allora? >> stava iniziando a scocciarsi. Si arrabbiava in fretta e non gli piace che non gli si rispondesse.
Esitò, << ...Ovunque >>
<< Allora togliti i vestiti >>
Lei abbassò lo sguardo, e lui capì. << Ti cambio le bende alle spalle. A lavarti magari ci pensiamo domani >>, non lo avrebbe detto, con un'altra persona, ma non era riuscito a trattarla male. Non come avrebbe fatto in altre situazioni.
Quella giornata si era rotto qualcosa nel soldato semplice Mark Schreiber.
Era troppo confuso per capire cosa, ma era successo.


* Dobroy vecher: Buona sera. (russo)
** Spasiba: Grazie. (russo)


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Capitolo 8
*** Capitolo 7. -Happy New Year, soldier. ***


Salve, sembro essere meno in ritardo dell'ultima volta, comunque eccoci qui. xD
Spero che questo capitolo sia di vostro interesse, sebbene serva più come capitolo transitorio. è.é
Però succedono cose belle. *-*
Era da ... sempre che non succedevano cose belle. xD
Non ho molto da dirvi. Cercherò di essere puntuale con gli aggiornamenti, sì, ma purtroppo sabato inizio la scuola. ç__ç
Gnap. Mi sono presa però un impegno e porterò la storia avanti! Awà!
Ringrazio le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
- Bbw87
- Fairness
- Mareike Tiaycia
- OlandeseVolante
- Nadine_Rose
- niacara07
- Norine
- Prusskj_Lazur
- ChyoChan
- la_regina
- Luc
- thegreenlady
- mau07
- NemesiS_
Coloro che la hanno inserita tra le ricordate:
- fedecaccy
- Rayne
- ElleBi
Coloro che la hanno inserita tra le preferite:
- chyo
- xxGiuls.
- kikka23
- elly04
- Karota
- Luna_LoveDark
- liz89
- hilaryd
E infine la magnifica ragazza che ha trovato il tempo di recensire:
- Norine

A presto, spero,
Schizophrenia.




Salviamoci la pelle.



-Happy New Year, soldier.



Leningrado, Unione Sovietica
29 Dicembre, 1943
5:31

Ciao Bea,
E' la prima lettera che ti scrivo. Sono passati quindici giorni da quando ti hanno presa.
Vorrei poter sapere dove inviarla, ma non ne ho idea. Germania? Forse. Non sarebbe nemmeo sicuro inviarti una lettera, né per te, né per l'Unione Sovietica.
Non posso mentire, non a te, lo sai bene. Le cose non stanno andando come speravamo a Leningrado. C'eri quando a luglio ci hanno attaccato con i cannoni, no? Bene, le bombe continuano a distruggere fabbriche e soviet e non riusciamo ancora ad avere un contatto. I treni, a Leningrado, non partono e non arrivano. Dovunque tu sia, spero che tu stia meglio che la gente qui: niente bombardamenti, no? Spero che tu non finisca in un campo tedesco; non so come si chiamino ma si dice che siano molto simili ai GULag dove l'NKVD butta disertori e prigionieri politici.
Sai cosa sono i GULag, Beatrishka? Spero di no, e spero che tu non stia vivendo un inferno. Ad ogni modo, non chiedere a nessuno, dei GULag, non ti diranno niente, ho chiesto del loro utilizzo, qualche volta, a dei miei superiori. Non so molto nemmeno io, ma tu cerca di salvarti la pelle.
Una speranza ce l'abbiamo, lo sai? Ma non posso ancora parlartene. E' solo una speranza, per adesso dobbiamo lottare e cacciare i tedeschi. Tuo padre confida molto nella vittoria di Leningrado: siamo riusciti a tener loro testa per tanto tempo, dice, che sicuramente vinceremo. Tu ci credi, Bea, dopo quasi tre anni di assedio?
Quando è iniziata la guerra, tu avevi quattordici anni e io stavo per farne diciassette. Volevo arruolarmi da prima, e l'arrivo dei tedeschi non mi ha dato altra possibilità di scelta. Sai che sono stato mandato al fronte? Non adesso, cioè, ho avuto due giorni di congedo, riparto tra poche ore. So che non approveresti, ma sto combattendo in prima linea, per te. Ho l'assurda convinzione che se andrò avanti riuscirò a salvarti, forse non è così, ma almeno ci provo.
Hanno aumentato di nuovo le razioni di cibo, forse perché non c'è più tanta gente da sfamare, tu che ne dici? L'America ci manda scorte e medici, ma a me gli americani non sono mai piaciuti, lo sai bene. Nell'Armata Rossa non piacciono a molti, però ci facciamo curare; i nostri ospedali scarseggiano persino di infermiere, e non siamo solo noi militari a morire, giorno dopo giorno, ma sempre più civili contraggono la tubercolosi... muore sempre più gente di TBC, ma sono fiducioso, passerà tutto presto.
Spero che tu possa tornare presto, Bea. Mi manchi.
Avrei dovuto parlarti dei miei sentimenti prima, forse.
Ti amo,
Dimitri Todorov

Il ragazzo sbuffò, carezzando la carta macchiata d'inchiostro con la punta delle dita. Avrebbe voluto che lei fosse lì a leggerla, o comunque avere un indirizzo a cui inviarla. Non poteva e lo faceva solo arrabbiare e stare male. Non aveva troppo tempo, prima di rimettersi in cammino verso il fronte. Doveva difendere Leningrado, ma soprattutto doveva ritrovare Bea. Era assurdamente convinto del fatto che non fosse morta: non poteva esserlo, se lo sentiva.
Ripescò un pacchetto di sigarette e un accendino dalla tasca interna del cappotto. Estrasse una sigaretta, portandosela alle labbra, ma prima di accenderla bruciò quel pezzo di carta che avrebbe tanto voluto fosse consegnato all'unica ragazza per cui avesse mai provato qualcosa. Fumò, alzandosi e buttando qualcosa in uno zaino. Doveva uscire, ma non ne aveva voglia. La sera precedente era stato a cena dai Gurtsieva, il Colonnello Generale approfittava dei pochi giorni di congedo come lui, Sergeij giocava e lo riempiva di domande come al solito; ma Diana sembrava preoccupata almeno quanto lui. Preoccupata perché moriva davvero sempre più gente, e con se stesso non poteva far finta di nulla, come aveva cercato di sminuire la cosa nella lettera destinata a Bea. E poi, erano tutti preoccupati per Bea, tranne il suo fratellino



Leningrado, Unione Sovietica.
28 Dicembre 1943
19:57

<< Bea non passerà l'inizio del nuovo anno con noi. Vero, Boris? >>, era stata Diana a parlare. Non era una vera domanda: quella donna era sicura almeno quanto era sicura del fatto che in Unione Sovietica vi fosse il comunismo. Era preoccupata, ma Diana Gurtsieva era la donna più decisa e forte di tutta Leningrado: sua figlia sarebbe tornata, ma doveva crescere Sergeij, nel frattempo.
Diana non assomigliava molto alla figlia: i lunghi capelli erano biondi, ma da lei la ragazza aveva ereditato gli occhi verdi. Era una bella donna, poco più giovane del marito e nessuno dei due era ancora arrivato a quarant'anni. Amava la sua famiglia e teneva a loro più di qualsiasi altra cosa. Era indipendente, dopotutto doveva prepararsi ad esserlo, sempre: se un giorno il suo Boris fosse morto, al fronte, avrebbe dovuto occuparsi lei dei suoi figli. Ce l'avrebbe fatta, ma sarebbe stata dura. Solo in quel momento si rendeva però conto di quanto soffrisse per la mancanza di una figlia.
Il marito scosse il capo, << Non credo, Dianushka, ma sai quanto lo spero >>
<< Cosa vogliono esattamente, dalla nostra bambina? >>, era sempre stata brava, Diana, a nascondere le sue emozioni, persino al marito, quando voleva e quando si trattava di cose importanti. Come in quel momento.
Boris stava fumando. Come tutti i russi amava la vodka e il tabacco, ma mai si era lasciato corrodere dai vizi: sentiva solo il bisogno di lasciarsi andare, quel giorno. << Non lo so. Forse credono che sappia qualcosa dell'Armata Rossa >>
<< E lei sa qualcosa, Borja? >>, quel particolare era importante, dopotutto.
<< Sai com'è fatta tua figlia, donna, ti assomiglia più di quanto pensi: anche se sapesse qualcosa, non parlerebbe mai >>
Dimitri sospirò, spostando la sigaretta dalle labbra. Non aveva parlato fino a quel momento, seduto in un angolo della stanza, accanto alla finestra. La stanza era ampiamente riscaldata, e non si stava troppo male. I Gurtsieva aveva due stanze, sebbene il padre dormisse spesso in caserma. Il soviet locale questo non lo sapeva, e per il suo ruolo di Colonnello Generale si riteneva che avesse diritto a due stanze. In una dormivano lui e la moglie in un letto matrimoniale, in quella stanza c'era anche un tavolo, era la stanza più ampia e la usavano anche come sala da pranzo, c'era anche un'ampia libreria, si trovavano lì in quel momento; di giorno, e nelle notti solitarie di Diana Gurtsieva, il letto spariva nell'altra camera, Dimitri sospettava che una coppia sposata e relativamente giovane avesse bisogno d'intimità, quando il marito trovava occasione di rincasare. L'altra stanza era per i bambini, i Gurtsieva se la passavano bene economicamente, c'era un letto matrimoniale ed un lettino più piccolo, anche quella stanza era riscaldata, e vi era un grande armadio con gli abiti di tutta la famiglia, una cesta per i giochi di Sergeij e i libri preferiti di Bea ammassati in un angolo.
<< E cosa potrebbe succedere, se parlasse? Oppure se non parlasse per troppo tempo? >>, la donna conosceva già la risposta, ma forse voleva soltanto essere rincuorata dal marito.
Dimitri era l'ultimo che volesse sentire parole come "Verrebbe uccisa" oppure "La porteranno dove portano tutti". Non ce l'avrebbe fatta. Spense la sigaretta e si alzò dalla sedia. << Vado a vedere come sta Sergeij >> aveva detto ad entrambi i genitori, alzandosi e sparendo oltre la porta. Richiudendosela alle spalle. Sperava che il bambino non avesse sentito i discorsi dei due coniugi; sperava che lui non li avrebbe sentiti ancora. Adorava i Gurtsieva, ma Beatrisa sarebbe tornata. Presto.
Entrò, il bambino era seduto per terra e disegnare -o scarabocchiare- su un foglio di carta bianco. Gli si avvicino. Sergeij Borisovic vantava una somiglianza impressionante con la sorella: piccoletto, dai folti capelli nerissimi e gli occhioni verdi. << Che disegni ? >> chiese, ostentando allegria, prima di sedersi sul pavimento, accanto al bambino e gettando un'occhiata sul foglio. Sembrava una ragazza davvero brutta che Dimitri non ricordava di aver mai visto, disegnata come erano soliti a disegnare i bambini.
<< Bea. Mamma dice che tornerà presto, così capirà che non l'ho dimenticata >>, la voce infantile del bambino non era preoccupata.
Il ragazzo si morse il labbro inferiore. Sempre Bea. Affondò una mano tra i capelli scuri del fratellino minore della ragazza che amava. Avrebbe voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa per aiutarlo a credere sul serio che lei sarebbe tornata. Perché era quello che volevano tutti, era quello che voleva lui. Non ci riusciva: lui non era abituata a queste cose, però. << Lo vuoi un consiglio, piccolo? >> mormorò, allegramente, stendendosi completamente sul legno del pavimento.
<< Sì? >>
<< Non dipingere mai da grande, non fa per te >>, finse una risata, che gli riuscì bene.
Il bambino mise su un broncio adorabile e l'altro non poté fare a meno di ridere, stravolta sul serio, attirandosi il piccolo contro il petto. << Su, non fare così >> disse, ironico, iniziando a fargli il solletico. Dimitri Todorov adorava quel bambino, amava Bea, rispettava Diana e Boris e loro lo trattavano come un figlio, perché la guerra si era messa in mezzo?
<< Resti a dormire qui, stasera? >> il bambino era riuscito a liberarsi dalle mani del tenente.
Annuì, alzandosi. << Certo >>
Dimitri Todorov poteva vivere nel soviet dei suoi genitori, poteva alloggiare nella sua stanza, in caserma, con gli altri, ma preferiva rimanere a dormire a casa Gurtsieva, dov'era sempre ben accetto. Sergeij fino a tre anni dormiva nella culla, e lui poteva tenere Bea contro il petto e guardarla addormentarsi, da quando avevano comprato un lettino per il più piccolo, però, Bea dormiva lì, quando Dimitri si fermava, e il tenente e il fratellino nel letto grande. Ma c'era stato un periodo, quando Diana e Sergeij erano andati a passare una settimana a casa della nonna a Luga, in cui Boris era sul fronte e Dimitri e Bea avevano avuto la casa tutta per loro; era stato appena quattro mesi prima. Il tenente ricordava ancora il dolce odore di vaniglia della pelle di Bea contro il suo petto. Non aveva dormito, se non due ore a notte, per tutta la settimana. Aveva passato tutte le notti di quella settimana a guardarla respirare piano, addormentata. Era dura non poterla nemmeno sfiorare se non come il suo migliore amico, quando sapeva di amarla. Attualmente Sergeij aveva paura di dormire in quella camera da solo, e Dimitri si fermava lì, a fargli compagnia, dato che la madre non dormiva con lui quando Boris era in congedo.



Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
31 Dicembre 1943
18:40

<< Forse è il caso di lavarsi >> disse Mark, ironico, osservando la ragazza seduta in un angolo del bagno. Assomigliava ad una bambina, se n'era accorto solo il giorno precedente. Walter non era tornato a fare loro visita e Mark non lo vedeva da un po', ma alle nove sarebbe andato con suo padre dagli Hoffmann per capodanno; tuttavia il tedesco pensava che senza la sua visita, quattro giorni prima, non avrebbe mai ... accettato quella ragazza.
Lei non gli rispondeva, continuando a fissare come imbambolata la vasca da bagno. Mark non si arrabbiò, come probabilmente avrebbe fatto in altri momenti, ma si lasciò andare ad uno sbuffo divertito. Riusciva a farlo ridere, e anche lui era riuscito a vedere un sorriso di lei, rimanendone effettivamente incantato. << Allora? >> chiese, incrociando le braccia al petto. Gli occhi nocciola risplendevano, brillavano di curiosità. Aveva rimandato il bagno, per ciò che era accaduto un po' di tempo prima, ma sperava che quel giorno fossero entrati abbastanza in confidenza... e di aver meritato almeno un briciolo della sua fiducia.
La ragazza indicò il fulcro delle sue attenzioni con l'indice. << In Unione Sovietica non abbiamo questa cosa. >>, a Mark diede l'impressione di essere scettica sulla sua utilità.
Si lasciò sfuggire un mezzo sorriso, << Si chiama doccia >> le disse, prima di porgerle la mano, che la ragazza sembrava esitare ad afferrare: non aveva paura, ma più probabilmente provava un divertimento sadico nel far esasperare il povero tedesco.
Schreiber le si avvicinò, abbassandosi accanto a lei, << D'accordo, stiamo facendo troppo rumore, e tu ti stai comportando come una ragazzina capricciosa. Se entra qualcuno e ci scopre, sarai in pasto all'ira di mio padre >> disse, cercando di convincerla. Non aspettò molto: non era un tipo troppo paziente; la afferrò per i fianchi sollevandola e poggiandola nella vasca, in piedi.
<< Anche tu lo saresti >> lo corresse.
Mark sorrise, anche se effettivamente era vero. << Ma se uccidesse me, sarebbe accusato di omicidio >> le fece notare, allontanandosi di poco da lei e incrociando le braccia al petto, aspettando che si spogliasse.
<< E se uccidesse me? >>
Mark si bloccò, sentendo la sua voce infantile, aveva capito dove volesse arrivare e in quei giorni stava sfiorando l'idea che non avesse tutti i torti, ma preferiva non parlarne: suo padre non sarebbe stato troppo d'accordo con quelle idee. << E' davvero tardi, è il caso di lavarsi >> mormorò, avvicinandosi alla ragazza, anche se un po' più cupo di prima. L'aiuto a spogliarsi, lasciandole indosso l'intimo.
Non riusciva a spiegarsi come il corpo di una ragazza potesse attrarlo a tal punto, soprattutto se ridotto in quello stato, fatto sta che evitava accuratamente il contatto diretto con la sua pelle. Era meglio per lei, se non voleva essere violentata di nuovo. Dedicò parecchi minuti ad ogni ferita e ad ogni taglio, alcuni probabilmente anche di quella mattina, almeno era ancora viva, al ragazzo sembrava quasi strano.
Sentiva lo sguardo di lei, forse era preoccupata. << Walter ha detto che vorresti partire per il fronte, è vero? >> la domanda della russa gli parve molto simile ad una doccia gelida.
Non le rivolse lo sguardo, continuando lentamente le sue operazioni. << Non lo so più >>, era vero. Continuava ad odiare suo padre con ogni fibra del suo essere, ma non sentiva più il bisogno di allontanarsi divorargli le viscere. Stava bene, era felice come non lo era da tempo. Era felice come non lo era da quattordici anni. Si scostò, appena ebbe terminato di pulirle le ferite, << Continui da sola, no? Ti aspetto fuori >> disse, velocemente e, senza darle il tempo di rispondere, uscì dal bagno, sedendosi sul pavimento del corridoio, di fronte alla porta.
Due motivi principali lo aveva spinto a farlo: non aveva la minima intenzione di vederla ancora nuda, perché non aveva intenzione di violentarla, o almeno voleva provare a non violentarla; inoltre non gli andava di parlare del fronte, di suo padre e della donna che lo aveva messo al mondo, odiava quegli argomenti e almeno con lei voleva evitarli. Perché? Perché lei era così bianca. 
Bianca.
Pura.
E lui come si sentiva?
Colpevole. Sporco. Vuoto.
Avevano provato tante volte a dirgli che non era stata colpa sua. Ci avevano provato a scuola, gli insegnanti che lo credevano un bambino molto dotato, ci provavano tutti i giorni i signori Hoffmann, Walter non l'aveva mai detto ma cercava di farglielo capire. Suo padre... beh, forse quella era l'unica cosa su cui padre e figlio erano d'accordo: Mark Schreiber era stato la causa della morte di Agathe Becker-Schreiber.
Alcuni lo chiamano "incidente", ma se quella mattina sua madre non fosse uscita per andare a riprenderlo da scuola -che bisogno ce n'era, poi? Non era distante, tornava tutti i giorni a piedi, da solo -, non sarebbe stata uccisa da un malvivente.
Il soldato deglutì, passandosi una mano tra i capelli biondi, cercando di scacciare il senso di colpa e la tristezza che di colpo si erano presentati dentro di lui, a gelare le vene, partendo direttamente dal cuore.
La porta del bagno si aprì, alle sue spalle, rivelando una dolce ragazza russa, con la pelle che odorava di vaniglia e i capelli neri puliti. Mark doveva ammettere che non era abituato a vederla così bella. Si alzò, cercando di celare ai suoi occhi il malessere interiore che provava e le fece cenno di seguirlo. Velocemente, raggiunsero nuovamente la camera dove avrebbe dovuto trovarsi Bea. Non era facile mettere da parte tutto ciò che provava, ma Mark tentava, tentava perché non poteva stare sempre così male. Il dolore era insopportabile.
Entrati, il ragazzo richiuse velocemente la porta alle sue spalle. << Allora, come ti senti? >>, sapeva che in quelle condizioni avrebbe potuto ricevere un solo tipo di risposta, ma ci provava lo stesso. Stava cercando di aiutarla... e gli piaceva il sorriso di lei. Era carina sul serio. Dio, stava diventando così stupido che sicuramente la ragazza gli avrebbe risto in faccia.
<< Luchshe, spasiba* >>, e gli regalò un sorriso. Probabilmente quelle parole sapeva dirle anche in russo, ma ultimamente si divertiva a farlo esercitare con il russo. Mark non riusciva a pronunciare molto bene le parole e lei rideva, ascoltando il pesante accento tedesco che lui non riusciva a fare a meno di posare su ogni sillaba. Solo Mark pensava che il modo di parlare una lingua altrui di Bea fosse tremendamente adorabile?
Lui tentò di sorriderle, nonostante i brutti pensieri che non aiutavano affatto. << Vado a casa di Walter, stasera >> le disse, mentre le cambiava le bende. Era il motivo per il quale quella sera era andato a trovarla prima. << Abbiamo questa strana abitudine di andare sempre da loro, per le feste >>, sorrise.
<< Vive anche lui in una casa come questa? >>, aveva sgranato gli occhi verdi, accentuando l'impressione infantile che già riusciva a dare normalmente.
Schreiber le rivolse lo sguardo, scostandolo per qualche istante dalle ferite e dalle bende. << Beh, non proprio come questa. Diciamo che da lui non ci sono guardie dell'SS ovunque >> cercò di scherzarvi su, sebbene non riuscisse a capire la sorpresa della ragazza. Avevano parlato molto in quei giorni, ma non di tutto. << Tu dove vivi? >>, tentò.
Bea si portò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. << Oh, al secondo piano del terzo soviet. Purtroppo le nostre stanze sono al centro del corridoio. Noi abbiamo ottenuto due stanze perché mio padre fa parte dell'Arm.. >>, la ragazza non aveva intenzione di dire niente, riguardo suo padre o riguardo l'Unione Sovietica, ma le sembrava così facile parlare con quel ragazzo tedesco.
Non era ugualmente riuscita a finire di parlare: Mark le aveva poggiato con fermezza una mano sulle labbra, per farla stare zitta. << Non dirmi mai più cose del genere >> sibilò, dimenticando completamente il tono gentile e dolce usato fino a quel momento. Per certe cose, come quella, non riusciva a non essere duro, ma aveva le sue buone ragioni. Notò il volto di lei, sembrava spaventata; sospirò e scostò lentamente la mano. << Non sono contro di te, forse mi piacerebbe far fuori qualche comunista, ma non te. Sono fedele alla Germania e al Führer, se tu mi dici queste cose, io devo dirle a chi di autorità. >>, stavolta si era imposto un tono più gentile, anche se gli sembrava un po' difficile.
La russa annuì, osservandolo. << Se sei fedele alla tua arma, perché non vuoi che ti dica niente? >>
Mark si stupì di quella domanda così ingenua, come se realmente non capisse il pericolo che correva semplicemente parlando con lui. << Se lo fai, non avranno più motivo per tenerti in vita >>, non gli sembrava stupida, avrebbe capito cosa significava quella frase, ne era certo.
Non parlarono più. Lui le avvolgeva le bende attorno alle ferite e lei lo lasciava fare, immobile. Si scostò, poco dopo. << E' tardi, devo andare, ci vediamo domani. E' festa, forse riuscirò a venire prima >>, cercò ancora di sorriderle.
<< A domani >>, Bea sembrava sorridere con più facilità. <>, sembrò ricordarsi improvvisamente di una cosa.
Mark s'interruppe, con la mano ancora sul pomello della porta e si voltò ad osservarla. << Sì? >>
<< Buon anno, soldato >>


Weimar, Germania.
1 Gennaio 1944
00:01

<< Buon anno! >> fu un coro comunque, di cinque persone. Sembravano tutti così felici, mentre bevevano lo champagne con cui avevano brindato. Anche Mark era stranamente felice quella sera di gennaio, e solo Walter poteva vagamente immagine il motivo, ma non lo avrebbe di certo espresso ad alta voce, davanti al madre di Mark non era il caso, almeno. Non voleva mettere nei guai il suo migliore amico, no.
Il signor Hoffmann poggiò nuovamente il bicchiere sul tavolo, << Bene, Hans, cosa dobbiamo aspettarci dai nostri soldati - e qui poggiò una mano sulla spalla del giovane Schreiber- in questo nuovo anno? >>, Mark lo sapeva bene, non gli era mai interessato nulla di politica, ma di solito erano sua moglie ed Agathe Schreiber a reggere le conversazioni, da quando l'ultima non c'era più le due famiglie erano rimaste in contatto principalmente attraverso i figli.
Hans Schreiber scrollò le spalle, << Che riescano a contrastare i sovietici, Alphons >> rispose l'altro, scuotendo appena il capo. Il figlio vedeva che ci credeva sul serio, probabilmente sarebbe andato persino lui a combattere sul fronte, pur di non darla vinta ai russi, ma gli avevano affidato il comando del campo di Buchenwald. Non poteva allontanarsi da lì, se non per questioni ordinate da Hitler in persona.
<< Ci vedi buone possibilità? >> stavolta era stata la donna a parlare. Come il figlio e il marito, non era pro-nazismo, ma avendo buonsenso non lo contrastava in alcun modo. Tanto, secondo lei, una politica del genere non poteva durare, prima o poi la gente si sarebbe accorta di sbagliare.
L'altro annuì. << Certo. Abbiamo affrontato di peggio, inoltre sto cercando di avere informazioni sull'Armata Rossa dalla figlia di uno di loro >>
Mark rivolse lo sguardo al padre, improvvisamente più interessato all'argomento di conversazione. Non sapeva molto su ciò che accadeva a Bea durante quei colloqui. Lui non glielo aveva mai chiesto, né lei sembrava particolarmente intenzionata a parlargliene. Forse sarebbe stato meglio rimanere nell'ignoranza, ma preferì continuare ad ascoltare.
Alphons Hoffmann annuì, << Siete venuti a conoscenza di qualcosa? >>
<< Non troppo, ancora, ma forse siamo sulla buona strana >> il modo in cui lo disse diede fastidio al soldato, che incrociò le braccia al petto, prima di sedersi sul divano.
Walter cercò invece di fare buon viso a cattivo gioco, notando la reazione del suo migliore amico, << E come se la sta cavando Mark, signor Schreiber? >> chiese, con tono allegro, come se pensasse che il biondo seduto sul divano fosse un eroe. Beh, in parte lo era, stava aiutando una deportata, contro tutti e contro i suoi stessi ideali nazisti.
L'altro sorrise, << Oh, bene, bene. Devo dire che sembra mantenere in vita la ragazza senza lamentarsi troppo, anche se non la vedo da quattro giorni. L'hai uccisa, figliolo? >>, l'uomo sorrideva con sarcasmo, come se la morte non gli provocasse alcun fastidio.
<< No >> la risposta del figlio fu fredda, seria, distaccata. Perché? Perché stava cercando di allontanarsi dal burattino nazista che avrebbe dovuto essere. << Non è quello il mio compito >> aggiunse, poco dopo.
Hans Schreiber annuì, << Continua così, e verrai presto promosso a caporale >>


Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
1 Gennaio 1944
12:30

Mark Schreiber era tornato tardi quella notte, insieme a suo padre, ma aveva dovuto comunque svegliarsi presto. I militari non perdevano tempo, come diceva suo padre. Era appena tornato da un allenamento, ridotto ma pur sempre un allenamento. Iniziava davvero a scocciarsi di quella roba. Stavolta, al poligono di tiro, invece delle sagome, c'erano degli deportati ebrei.
Avevano sparato quasi tutti, obbedendo agli ordini dei loro superiori. Anche Mark Schreiber aveva sparato, non aveva paura di uccidere qualcosa, ma per la prima volta in tutta la sua vita si sentì in colpa per aver fatto del male a qualcuno che, nel suo paese, gli era stato insegnato valesse quando le feci di un cane. No, le feci di un cane ariano valevano di gran lunga di più.
Derek Keller aveva rifiutato di sparare.
Sentiva ancora le sue parole, mentre si lavava: "Perché dovrei farlo? I bersagli mi vanno benissimo e loro non mi hanno fatto niente. Credevo che la guerra fosse per questioni territoriali, non per un capriccio di Hitler". Doveva ammetterlo, quel ragazzo aveva fegato, probabilmente ne aveva di più di tutti i militari dell'SS riuniti quel giorno; e non era un burattino dello Stato, come praticamente tutti. Come Mark temeva di diventare.
Un sergente lo aveva preso a calci, come presto avevano fatto altri membri delle truppe. Si era buttato nella rissa, per difendere Derek. Erano due contro dieci, ovviamente non si era messa bene per Schreiber. Era un buon tiratore, ma in quello non se la cavava troppo bene.
Sospirò. Mentre usciva dalla doccia e si asciugava il corpo. Cercava di non pensarci, quel periodo era tutto così... strano, quasi surreale.
Si rivestì, conscio che dopo pranzo lo attendesse un'altra lezione di russo.




*Meglio, grazie. (russo)

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Capitolo 9
*** Capitolo 8. -Who will take care of you? ***


*Si presenta implorando perdono*
Scusatemi, vi prego, Zeus ha passato tutta la settimana ad abusare del mio corpo e non mi ha permesso di scrivere. ç__ç
Seriamente parlando, mi dispiace dell'abnorme ritardo nell'aggiornate, e anche se a voi non interessa proprio nulla, ho avuto una montagna da studiare tra greco, latino, italiano e tutte quelle altre materie che formano il mio orario (che mi hanno cambiato stamattina .-. tutto sballato).
Spero che questo capitolo possa piacervi. *-*
C'è una sorpresina finale che vi dimostra il mio sadismo. <3
Prometto che stavolta sarò sul serio puntuale nell'aggiornare! Anticiperò i compiti e farò di tutto, ma sarò puntuale!
Buona lettura, vi amo tutti. <3
Ringrazio le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
- Bbw87
- Fairness
- Mareike Tiaycia
- OlandeseVolante
- Nadine_Rose
- niacara07
- Norine
- Prusskj_Lazur
- ChyoChan
- la_regina
- Luc
- thegreenlady
- mau07
- NemesiS_
- Selena_
Coloro che la hanno inserita tra le ricordate:
- fedecaccy
- Rayne
- ElleBi
Coloro che la hanno inserita tra le preferite:
- chyo
- xxGiuls.
- kikka23
- elly04
- Karota
- Luna_LoveDark
- liz89
- hilaryd
- Fairness
- Selena
E infine alle magnifiche ragazze che hanno trovato il tempo di recensire:
- Fairness
- Nadine_Rose
- Norine

P.S. E ringrazio TE, Stratos, che non mi caghi minimamente ma so per certo che leggi ogni singola riga. <3

Si spera presto,
Schizophrenia.








Salviamoci la pelle.

-Who will take care of you?



Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
1 Gennaio 1944
16:43

Mark sbuffò, esasperato, cancellando per l'ennesima volta ciò che stava scrivendo. Yelena non gli aveva dato molti esercizi, ma erano abbastanza difficili. In quei cinque giorni aveva imparato non troppo, ma comunque molto più di quanto pensasse. Era interessante, a suo modo. << Avete una lingua troppo difficile >> si lamentò, ad alta voce, consegnandole il foglio esasperato. << Non ne posso più. Vivrò anche sapendo solo questo >> aggiunse.
Yelena scosse appena il capo, << Abbiamo iniziato solo da un'ora e mezza, e comunque il tedesco non è più facile della mia lingua >> borbottò la donna, leggendo velocemente gli esercizi svolti da un ragazzo. << Migliori in fretta, ma non credo che potrò insegnarti ancora per molto. Qualcuno potrebbe sapere, e non so se voglio morire subito >> aggiunse, mentre andava avanti e indietro per le camere. Yelena era veloce, pratica e non si lamentava mai, probabilmente aveva contratto qualche malattia non troppo grave, ma non andava di certo a farsi visitare, Mark intuiva il perché: tutti sapevano bene che chi entrava in buone condizioni lì dentro, spesso non ne usciva più, molti venivano usati come cavie umane. Eccetto quello, però, la donna sembrava ancora abbastanza in salute, nonostante le condizioni igieniche e il fatto che fosse costretta a mangiare poco e dormire ancora meno. Certo, dimostrava vent'anni in più di quanti ne avesse in realtà, ma era ancora viva.
<< Certo >> accettò il soldato, anche se a malincuore: non sapeva molto di russo e nonostante fosse faticoso aveva voglia di imparare. Era sempre stato curioso. Da piccolo amava la scuola. Non poteva di certo mettere a rischio quella donna, però, aveva già fatto tanto per lui che sarebbe stato poco... morale, da parte sua. Certo, era un nazista arruolato nell'SS, ma sentiva che la sua coscienza reclamare, da qualche parte poco identificabile nella sua testa. Forse stava tornando bambino. << Magari potremmo fare lezione meno spesso, invece di interromperle del tutto, una volta a settimana >>, propose invece. Non voleva metterla nei guai, ma un paio d'ore a settimana sarebbero passate inosservate.
La donna si portò una ciocca di capelli biondo chiaro dietro l'orecchio, era sfuggita all'accurato sistema che preparava ogni mattina per non farli sfuggire dal fazzoletto di stoffa. Lo guardava, stupito, ma alla fine distese le labbra sottili in un sorriso stanco, << Potrebbe andare, sì, ma dovremo fare molta attenzione >> accettò alla fine. Gli impegni del ragazzo, dopotutto, sembravano ripagarla di tutto quel lavoro in più che faceva. Non era vecchia, ma in quel momento si sentiva gli anni e i dolori tipici di una donna troppo anziana per svolgere un lavoro pesante o semplicemente per fare la domestica; aiutare Mark con il russo sembrava riuscirle invece molto più facile, dopotutto era il suo lavoro a Mosca: faceva l'insegnante, e non avrebbe potuto chiedere di meglio. Era una cosa che aveva sempre amato fare.
Mark le sorrise, felice, << Pensi davvero che potrebbe funzionare anche facendo lezione una sola volta a settimana? >> le chiese, sbalordito ma entusiasta, era decisamente la soluzione ai loro problemi, nonostante mettesse comunque la donna a rischio. Beh, nel caso li avessero scoperti, l'avrebbe difesa. Era una sua idea, alla fine.
L'altra annuì, << Certo, dovrò darti molti esercizi da fare durante la settimana, e dovrai esercitarti molto di più da solo con quei dizionari ed il frasario, ma sono certa che riusciremo a mettere insieme qualcosa di sufficientemente decente in russo in quella testa >> acconsentì, lasciando che un altro sorriso si facesse largo, senza illuminarle però gli occhi. Quel paio di occhi nocciola sembrava destinato a non brillare più; ma forse Mark sarebbe riuscito a trovare un rimedio anche a quello, dopotutto lo stava aiutando, voleva ricambiare il favore.
<< Oh, la cosa non mi spaventa >> scherzò Schreiber, che si stava improvvisamente rendendo conto di essere più felice, nell'ultimo periodo. Non sapeva bene perché, forse era stato riprendere a parlare dopo tanto tempo con qualcuno che non fosse solo Walter gli aveva fatto bene (che questo qualcuno fosse una comunista che veniva torturata ogni mattina e una deportata russa che faceva da serva in casa sua, non aveva molta importanza), forse era semplicemente "l'avere qualcosa da fare", visto che si teneva occupato sia aiutando Bea, sia con le lezioni di russo, forse era stato semplicemente il cambiamento in sé a portare allegria.
Yelena annuì, << Ne sono convinta >> disse, sparendo fuori dalla stanza, per poi tornare solo qualche minuto dopo. << Vuoi finalmente dirmi perché stai imparando il russo? >> era la seconda volta che glielo chiedeva. La prima era stata quando le aveva effettivamente chiesto di insegnargli la sua lingua. Ormai sembrava troppo curiosa per aspettare.
Il soldato sospirò, passandosi una mano tra i capelli. << E' ... complicato >> disse, facendo una piccola smorfia. Probabilmente di lei poteva fidarsi, riguardo Bea, anzi, sentiva che con quella donna avrebbe potuto seriamente parlare di tutto, ma non era così facile. Non sapeva nemmeno da dove iniziare, a dirla tutta.
<< Mi hai detto che era per un'amica >> gli ricordò lei. Ecco, forse avrebbe dovuto iniziare proprio da lì, ma Bea era davvero sua amica? No, ma era arrivato a concepire che fosse una persona nonostante il luogo di provenienza e l'orientamento politico.
Lui sospirò, << Non è esattamente un'amica. E' una ragazza, viene dall'Unione Sovietica. Dovrei tipo non farla morire, mentre la torturano per avere informazioni sull'Armata Rossa. >>. Forse però ultimamente potrei davvero chiamarla amica. Non aggiunse vocalmente quest'ultimo pensiero, cosa assai giusta da fare.
Vide Yelena annuire, << E' per lei che mi chiedi di preparare più cibo, la sera? >>, chiese ancora. Sembrava iniziare a capire qualcosa.
L'altro annuì, << Esattamente, ma non dirlo a mio padre >>, aggiunse poco dopo Mark, << anzi, non devi dirlo a nessuno. Sarebbe peggio di quello che succederebbe se scoprissero me e te. Credo che potrebbero persino considerarmi un traditore del paese >>, sospirò, rendendosi conto di quanto ciò che aveva appena detto probabilmente era vero.
Yelena sorrise. Un sorriso meno tirato dei precedenti, e passò maternamente la mano tra i capelli del soldato tedesco. << Sei un bravo ragazzo, in fondo >>
Mark pensò che sarebbe stata un'ottima madre, se non lo era già, << Hai figli, Yelena? >>
Lei annuì, << Una bambina, Anya, ma non è in Unione Sovietica. Sono riuscita a mettere in salvo almeno lei >>, sorrise, << Forse non la vedrò mai più, ma lei starà bene >>, sì, erano decisamente le parole di una madre.
<< Come l'hai messa in salvo? >>, sembrava stupido. Lui non era riuscito a mettersi in salvo, forse perché Agathe credeva che la Germania fosse il posto perfetto dove crescere un bel bambino, per due tedeschi. Forse all'epoca lo era sul serio.
<< Mio cognato, lavora in Canada, è andato via tanto tempo fa, prima di terminare gli studi. Ha insistito per venire a prendere la sua famiglia, poco dopo l'arresto di mio marito. Non sono andata con loro, pensavo che ci fosse ancora una possibilità per mio marito, ma suo fratello ha preso con sé Anya e l'ha portata in Canada >>
<< Ti mancano molto? >>
<< Oh, sì, ma vivo nella speranza >>


Weimar, Germania
1 Gennaio 1944
18:20

Subito dopo la chiacchierata con Yelena, Mark si era diretto a Weimar. Aveva bisogno di passare un po' di tempo con Walter, possibilmente da soli. Era arrivato senza problemi fino a casa del suo migliore amico e lo aveva letteralmente tirato fuori, senza neanche avergli dato il tempo di coprirsi adeguatamente per l'inverno gelido tedesco. Il povero Hoffmann era riuscito ad afferrare a stento un cappotto e una sciarpa che in quel momento stringeva ossessivamente, cercando di ripararsi dal freddo.
<< Avresti potuto aspettare che finisse di nevicare >> sbottò, infilando le mani nelle tasche del cappotto fino in fondo. Mark sapeva quando l'altro odiasse il freddo, era l'unica cosa in grado di irritarlo. Era decisamente nato nel posto sbagliato, per i suoi ideali. Decisamente nel posto sbagliato.
L'altro gli rivolse un'occhiata ironica. A Schreiber la neve piaceva tanto, invece; piaceva molto anche a sua madre, quando era piccolo e nevicava passavano tutto il pomeriggio fuori a far compre e a bere cioccolata calda. << Beh, allora sarei dovuto venire di domani, e domani devo riprendere in mano un fucile. Vuoi che venga a casa tua con un fucile? >>
Il broncio di Walter non mutò in un sorriso come aveva sperato il soldato, << Beh, non sarebbe stata una cattiva idea, almeno non mi avresti costretto ad uscire con tutto questo freddo. Non potevamo starcene a casa mia, davanti al camino?! >>, niente da fare. Di solito era il ragazzo dagli occhi azzurri quello più calmo tra i due, ma quando si trattava di basse temperature riusciva ad immedesimarsi alla perfezione nel ruolo di bambino capriccioso.
<< Volevo fare una passeggiata >>, gli sorrise l'altro, camminando tra le stradine poco affollate quel giorno. Era proprio una bella giornata, certo, stava nevicando, ma non violentemente come era successo l'anno precedente: i fiocchi scendevano candidi e con tutta la lentezza possibile, posandosi sul suolo per essere raggiunti poco dopo da altri fiocchi di neve.
Walter sbuffò, tirando fuori le mani dalle tasche e sfregandosele più forte che poté, cercando di riscaldarle, visto che neanche la stoffa del cappotto aveva avuto effetti troppo positivi sulla sua pelle. << Qual è il motivo di tanto euforia? >> borbottò, aggiustandosi la sciarpa, cercando di farle coprire una zona maggiore, ma senza ottenere troppi risultati.
<< Qual è il motivo di tanto nervosismo? >>
<< Quella roba umida e bianca sotto i nostri piedi. >>
<< Si chiama neve >>
<< Come fai a sopportarla? >>
<< E' bella >>
Il ragazzo dagli occhi azzurri scosse il capo, in segno di diniego, non sembrava pensarla nemmeno minimamente come il suo amico, ed aveva le sue ragioni: la neve sapeva di bagnato. << Come vanno le cose con Bea? >>
Mark sorrise alla domanda, un sorriso strano che Walter non ricordava di avergli mai visto. << Beh, sto cercando di imparare un po' di russo. So qualcosa, certo non riesco a parlarlo fluentemente ma me la cavo. >>
Walter si lasciò sfuggire una risata, << Sei davvero il mio migliore amico?! >> chiese, con ironia.
Il soldato inclinò appena il capo lateralmente, non sembrava avere capito cosa volesse dire.
L'altro gli diede una pacca sulla spalla, << Amico mio, quella ragazza ti ha conquistato. Ti brillano gli occhi. >>
<< Fanculo, Walter >>


Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
1 Gennaio 1944
22:07

<< Come sta Walter? >> Bea sorrideva, un sorriso innocente ma che Mark stava imparando ad adorare. Era strano che un deportato sorridesse, non gli era mai capitato di assistere ad una scena simile, ed il fatto che a sorridere fosse lei e non qualcun altro non faceva che amplificare la gioia che provava nel vedere la scena.
Le sorrise di rimando, << Bene >>, non aveva niente in particolare da dire sull'amico, che in effetti stava piuttosto bene o, almeno non poteva lamentarsi: non era nella sua stessa situazione un po'... complicata e rischiosa. << Tu, invece, come stai? >>, Mark la osservava: era seduto sul letto, con le gambe incrociate, muoveva ritmicamente la testa e sorrideva, come una bambina, bella come probabilmente l'aveva sempre vista. Non era mai rimasto incantato ad osservare una ragazza per tanto tempo: era lì da più di un'ora, seduto dalla parte opposta del letto.
Alla ragazza sfuggì una leggera smorfia, in effetti non era una domanda da fare ad una deportata, ma lei se la passava meglio degli altri. Mark s'impegnava e metteva a rischio la sua vita perché fosse così. Abbassò lo sguardo, smettendo di ciondolare con il capo e senza fornirgli una risposta.
Il soldato si pentì immediatamente della domanda: era stato un idiota. Le si avvicinò, sospirando appena. Non sapeva bene cosa fare, non gli era capitato spesso di dover consolare qualcuno e non gli era mai capitato di dover consolare una ragazza, soprattutto per argomenti del genere. << Vuoi parlarne? Con me? >> mormorò, non troppo convinto delle sue stesse parole: potevano essere state quelle sbagliate e non avrebbe saputo cosa fare, ancora di più.
Beatrisa alzò appena lo sguardo: gli occhi verdi erano pieni di lacrime; Mark l'aveva vista piangere solo una volta, ma in quel momento era diverso. In quel momento non sapeva se le voleva bene o cos'altro. Era troppo confuso, ma sapeva perfettamente che non voleva vederla piangere. Annuì leggermente, anche se sembrava stesse per scoppiare in lacrime.
Il biondo la osservò, facendosi ancora più vicino a lei ed allargò le braccia: meno di un minuto e lei si fiondò tra di esse, ma non pianse, riuscì a farcela e Mark ne fu tremendamente sollevato: non era sicuro che sarebbe riuscito a sopportare le lacrime di lei. Le sfiorò i capelli con la punta delle dita, accarezzandoli e stringendo appena la ragazza a sé. Non avrebbe saputo come consolarla con le parole, ma stava ugualmente cercando di farle capire a gesti che c'era, era presente, sebbene potesse sembrare così strano come in effetti era. Le accarezzò appena la schiena, sentendola respirare più velocemente, impegnata nel trattenere le lacrime, si chinò a baciarle delicatamente i capelli, rimanendo chinato su di lei. << Ti prometto che sistemerò tutto >> non avrebbe dovuto dirlo, ma lo fece. Forse era una promessa irrealizzabile -molto probabilmente- ma voleva crederci, e voleva che lei ci credesse.
<< Mi mancano tutti così tanto >> furono le prime parole che udì il ragazzo, ma non rispondeva: la lasciava sfogare; non voleva che piangesse a forse a lei sarebbe servito come sfogo. Le accarezzava i capelli, lentamente, aspettando che continuasse a parlare, cercando di trovare qualcosa da dire per non sembrare stupido ed inutile.
Sentì le dita sottili di Bea stringere con più forza di quanto si sarebbe mai immaginato la camicia che indossava, smise di accarezzarle i capelli e avvolse entrambe le braccia attorno alle sue spalle, stringendola più saldamente a sé. Poggiò delicatamente il viso sul suo capo, senza pesarle. << Mio padre, mia madre, Sergeij >> buttò fuori ancora la ragazza, e sembrava di nuovo sul punto di piangere.
Mark Schreiber sospirò, poggiando le mani sulle spalle della ragazza e scostandola lievemente, avendo così modo di poterle osserva il volto: gli occhi gonfi, rossi e lucidi e le labbra tremanti; le accarezzò una guancia con la punta delle dita, prima di parlare. << So come ci si sente -iniziò, guardandola negli occhi- so benissimo come ci si sente a perdere qualcuno di caro, ma tu non perderai nessuno, ti assicuro che non perderai nessuno e nessuno perderà te, Beatrisa. Qualunque cosa dovesse succedere, ti riporterò in Unione Sovietica >>, le promise, con stampata sul volto un'espressione talmente sincera che sarebbe stato impossibile, per la ragazza, non credergli.
La mora annuì, in risposta e si asciugò gli occhi appena un po' umidi con il dorso di una mano, << Chi hai perso? >> chiese, e all'altro sembrò un po' più calma: non tremava più.
Il soldato la guardò, allibito: non voleva rispondere a quella domanda. Non parlava mai di quello, nemmeno con Walter, non voleva ricordare quello che era successo, anche se sarebbe servito a distrarre un po' la russa. Sospirò, poggiando la schiena al muro e socchiudendo gli occhi. << Mia madre. E' morta quando avevo sei anni... >>, non era sicuro di riuscire a dirle tutto. Riusciva ancora a sentire le parole di suo padre, quel giorno. Doveva essere da poco iniziata la scuola.


Berlino, Germania
13 Settembre 1929
15:23

<< Grazie per avermi riaccompagnato a casa, signor Hoffmann >> disse, educatamente, il bambino di sei anni, sull'uscio della porta di casa sua. Aveva pranzato a casa di Walter, quel giorno e il padre di lui si era gentilmente offerto di riaccompagnarlo a casa, prima di ripassare a lavoro.
L'uomo scompigliò i capelli biondi del piccolo Mark e gli sorrise, << Di nulla, torna quando vuoi e salutami tuo padre >>, detto questo risalì sulla sua auto e ripartì, diretto all'ospedale dove lavorava all'epoca.
Mark riusciva a vedere le luci accese in casa: suo padre era tornato, e probabilmente anche la sua mamma, poteva significare solo questo. Se il suo papà era già in casa a quell'ora voleva dire che non era all'ospedale con la sua mamma -a cui era capitata una cosa molto brutta, gli avevano detto- e quindi erano entrambi a casa. Il bambino di sei anni si avvicinò, bussando alla porta di casa, felice: aveva dovuto passare un'intera settimana senza la sua mamma.
Quando Hans Schreiber aprì la porta, però, Mark capì che non doveva essere felice: c'era qualcosa nel viso del padre che lo preoccupava: angoscia, forse? Il biondo allora era ancora troppo piccolo per comprendere il sentimento che poteva vedere sul volto di quell'uomo che gli stava di fronte. Si aprì ugualmente in un sorriso e allargò le braccia per farsi abbracciare.
<< Vieni dentro, Mark, dobbiamo parlare >> furono invece le fredde parole del padre, che si scostò dall'uscio, per permettere al piccoletto di passare senza troppi problemi.
Il bambino fece una leggera smorfia: non era abituato ad essere trattato in quel modo. Lo amavano tutti in quella casa, e sua madre gli aveva promesso anche un cucciolo di cane con cui giocare, per il prossimo Natale. Obbedì agli ordini senza fiatare, ascoltando il rumore della porta che si chiudeva alle sue spalle, spinta dal padre. << Cosa c'è? >> chiese, con la tipica innocenza di un bambino, al quale le disgrazie della vita sono ancora estranee.
Hans Schreiber squadrò il figlio, << Tua madre è morta - iniziò,prendendo le distanze dal discorso, come se non lo toccasse - d'ora in poi dovrai cavartela da solo. E' ora di crescere, ragazzino >>


Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
1 Gennaio 1944
22:20

Mark non ricordava più niente, dopo quelle parole. Non ricordava se aveva pianto o urlato, non ricordava cosa aveva detto, neppure se era rimasto nell'ingresso con il padre oppure era fuggito in camera sua. All'epoca aveva solo sei anni, ma forse aveva iniziato a capire solo da ventenne che più della morte della madre, la persona più cara che avesse all'epoca, lo avessero annientato a livello psicologico ed emotivo l'anafettività del padre, la sua indifferenza, il suo buttarsi a capofitto nel lavoro che, dopotutto, era solo un modo per scappare dal proprio dolore, e dalla vista di un bambino che non serviva ad altro che a ricordargli la donna che aveva amato e perso.
Forse Mark lo capiva, ma non lo aveva mai perdonato.
Sentì la ragazza farglisi nuovamente più vicino, appoggiarsi completamente a lui, posare la testa sul suo petto, << Ti fa ancora male? >> lo aveva chiesto con tale calma e preoccupazione da meravigliare Mark: non c'era pietà, nel suo sguardo. Era una sensazione assurdamente strana sembrare che qualcuno capisse, senza fingere o altro.
Le cinse le spalle con un braccio, << Qualche volta, ma non tantissimo >> mentì: gli faceva male, sempre. Non era riuscito a superarlo, non andava bene e non era normale. Certo, c'erano alcuni momenti in cui riusciva ad isolare l'avvenimento in un angolo della sua mente: le ore che riusciva a passare di nascosto con Bea, le chiacchierate con Walter... e poi c'erano tutti i momenti in cui pur stando in una sala piena di gente si sentiva completamente solo. E ci pensava, e tutto tornava ad essere come quattordici anni prima.
L'occhiata che la ragazza gli rivolse gli fece capire che non gli aveva creduto, e aveva fatto bene, ma il ragazzo non lo avrebbe detto. << Beatrisa? >> la chiamò, giocando con alcune ciocche more.
<< Sì? >>
<< Scusami >>
Lei lo fissò, con quegli occhi verde acceso, d'un tratto perplessa. << Io... >>, non era così facile. << Walter mi ha detto che vuoi partire per il fronte >> cambiò strategicamente discorso.
Mark lo notò, ma non disse niente in proposito: capiva benissimo quanto fosse difficile e frustrante per lei: per la ragazza il soldato era al contempo l'unica persona con la quale potesse parlare, e allo stesso tempo una di quelle che le aveva inflitto una delle umiliazioni più grandi. << Walter dovrebbe imparare a non divulgare i miei desideri >>
<< Quindi è vero? >> sembrava ancora più meravigliata.
Il soldato sospirò, sfiorandole ancora i capelli, e lasciando che si allontanasse quando ne mostrò il desiderio. << Era >>, non riuscì a trattenersi dal correggerla.
<< Perché volevi andartene? >>
Mark sorrise, con sarcasmo: a lui la risposta sembrava tanto chiara. << Pur condividendo questa politica, non vuol dire che mi piaccia vedere gente che viene annientata a livello di persona, né voglio esserne la causa >>, era il primo motivo, ma forse meno importante per il ragazzo. << e non voglio stare qui, con mio padre >>, aggiunse. Forse si stava esponendo troppo, ma con lei sembrava così facile.
<< E cosa ti lega a questo posto, adesso? >>
Mark le poggiò una mano sulla guancia destra, fissandola dritto negli occhi: << Se io me ne vado, chi si prenderà cura di te? >>
Rimasero ad osservarsi a lungo, con quell'interrogativo nell'aria, che li rendeva irrequieti. A Mark parve di vederla tremare, dopo un po', << Hai freddo? >> chiese, a bassa voce, portandole lentamente una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
<< Un po' >> mormorò la ragazza, in risposta.
Mark annuì, stendendosi sul letto e poggiando il capo sul cuscino. << Vieni qui >> le disse, aprendo appena le braccia. << Avanti >> la incitò, aprendosi in un sorriso rassicurante, quano la vide esitare.
Bea alla fine gli si raggomitolò accanto e Mark la abbracciò, cercando di riscaldarla, senza troppa fretta e parve riuscirci, almeno in parte. Sorrise, dolcemente, quando la vida iniziare a riposare con tranquillità, con il capo poggiato sul suo petto ed il respiro più lento. << Buona notte, soldato >> mormorò nel dormiveglia. Le sfiorò i capelli e rimase ad osservarla dormire per più di un'ora, prima di essere colto a sua volta dal sonno.


Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
2 Gennaio 1944
13:30

Quello era stato il miglior risveglio e la miglior mattinata che Mark Schreiber avesse mai avuto. Gli era capitato già molte volte, di svegliarsi accanto ad una donna, ma nessuno di quei risvegli lo aveva sconvolto emotivamente come quello, e non c'era nemmeno stato un rapporto sessuale la notte precedente, era una cosa impressionante.
Si sentiva bene, come se ogni pensiero del giorno precedente fosse volato via, come se nessuno dei due si trovasse in una situazione spiacevole. Come se fosse appena nato qualcosa di cui non comprendeva a pieno l'entità e l'importanza. Raggiunse il padre, a tavola, sorridendo. Era una cosa strana: Mark Schreiber non sorrideva mai al padre. Beh, tecnicamente, nei suoi pensieri, non stava sorridendo al padre ma a se stesso e a Beatrisa Gurtsieva.
<< Come sono andati gli allenamenti? >>
Seconda cosa strana della giornata: suo padre non si interessava mai alla sua giornata. << Bene, come al solito >> rispose, scrollando appena le spalle, mentre Yelena serviva il pranzo. Non salutò la donna, non poteva ed era meglio che nessuno sapesse.
<< Beh, congratulazioni, sei stato promosso a caporale >> disse, serio.
Mark sorrise, << Ne sarei anche felice... ma cos'ho fatto? >> chiese, un po' stupito. Non aveva fatto niente altro oltre a badare a Bea e ad allenarsi.
<< Non è ciò che hai fatto, ma ciò che la Germania è sicura che farai >>
Una lieve smorfia si dipinse sul volto del ragazzo, << E cosa dovrei fare? >>
<< Partire per Leningrado, diretto al fronte >> spiegò il padre, come se fosse completamente normale.
Il soldat... capotale Schreiber scosse il capo, << Non posso... Se andrò a Leningrado, morirò sicuramente >>, la situazione in Unione Sovietica si stava mettendo male per i tedeschi, era noto a chi lavorava nell'SS.
Hans Schreiber scrollò le spalle, << Non l'ho deciso io. Parti domani sera, forse è il caso che tu inizi a preparare le tue cose >>


Io non lo so chi c'ha ragione e chi no
se è una questione di etnia, di economia,
oppure solo pazzia:
difficile saperlo.
Quello che so è che non è fantasia
e che nessuno c'ha ragione
e così sia,
[Il mio nome è Mai Più - Ligabue ft. Piero Pelù]

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Capitolo 10
*** Capitolo 9. -War. ***


Dio cane!
Credo che questo sia il ritardo più grande che io abbia mai fatto! Però almeno sono riuscita ad aggiornare entro oggi, avevo seri dubbi anche su questa data, purtroppo.
Ci stanno caricando di compiti a casa ed interrogazioni, e quindi sono un bel po' impegnata, figurarsi che non esco quasi più.
Mi dispiace davvero tantissimo e vi porgo le mie scuse, cercherò di essere più puntuale, per il prossimo capitolo, mi dispiace sul serio.
Ad ogni modo, vi lascio in fretta al nono capitolo -molto importante, a dire il vero- sperando possiate godervelo. :3
Come sorpresina per farmi perdonare, ho anche trovato un'immagine che sarebbe perfetta per Bea e Mark, ve la posto. <3
Passo ai ringraziamenti. u.u

Ringrazio le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
- Bbw87
- Fairness
- Mareike Tiaycia
- OlandeseVolante
- Nadine_Rose
- niacara07

- Norine
Prusskj_Lazur
- ChyoChan
- la_regina
- Luc
- thegreenlady
- mau07
- NemesiS_
- Selena_
- Ipazia
- LadyGiulia
Coloro che la hanno inserita tra le ricordate:
- fedecaccy
- Rayne
- ElleBi
Coloro che la hanno inserita tra le preferite
- xxGiuls.
- kikka23
- elly04
- Karota
- Luna_LoveDark
- liz89
- Fairness
- Selena_
- lorenzablu
- orsetta
E infine alle magnifiche persone che hanno trovato il tempo di recensire:
- Prusskij_Lazur
- Nadine_Rose
- Stratos
- Ipazia
- Norine
- lorenzablu







Salviamoci la pelle.

-War.



Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
3 Gennaio 1944
10:30

Camminava e sbuffava. Era una situazione assurda: non poteva partire per l'Unione Sovietica di punto in bianco, la sera dopo, per di più! Non lo avevano avvisato, non avevano fatto assolutamente nulla per fargli capire che avrebbe dovuto dirigersi al fronte. Non era ciò che voleva nemmeno un mese prima? D'accordo, le sue priorità erano cambiate, ma non gli sembrava una cosa sbagliata voler rimanere ancora lì.
Si fermò ad osservare il fucile: sapeva usarlo come pochi soldati della sua età, era senz'altro una nota di merito e ne era sempre andato fiero, perché quella qualità gli sembrava tutto d'un tratto così insignificante? Sì, era esattamente quello l'aggettivo giusto: cosa c'è di significativo nel fermare la vita di una persona? La risposta, per il ragazzo, in quel momento si fermava al: "dipende dalla persona a cui appartiene"; non era ancora la risposta esatta, ma comunque rappresentava un passo avanti.
Prese l'arma tra le mani: avrebbe dovuto usarla molto presto e forse anche su civili. Non gli era mai capitato di chiedersi perché fare tutto quello: conosceva già benissimo la risposta, per la sua patria e la sua razza, ma soprattutto perché era quello che gli era stato detto di fare; da quando aveva iniziato ad eseguire gli ordini di qualcuno? Forse dai suoi quattordici anni oppure, senza rendersene nemmeno conto, ancora prima, alla morte di sua madre.
Rimise il fucile al suo posto, dopotutto non avrebbe comunque potuto fare niente per rimanere a Buchenwald, tranne tagliarsi un arto, ma quello non rientrava esattamente nella sua lista di cose da fare prima di morire. Doveva solo partire, e prendere le cosa come venivano. Non sembrava per niente facile nemmeno a dirsi, figurarsi come sarebbe stato difficile partire realmente per l'Unione Sovietica. La cosa che gli faceva più male era la consapevolezza di aver finalmente trovato qualcosa per cui lottare, per cui pensare senza eseguire gli ordini, ma non poteva disertare.
Per prima cosa, avrebbe dovuto parlare con Walter. Doveva salutarlo, lui doveva essere il primo a sapere che se ne sarebbe stato andato; Hoffmann gli era sempre stato accanto durante il lungo viaggio che rappresentava la sua vita. Lo aveva incoraggiato quando aveva deciso di arruolarsi nell'SS, lo aveva sorretto quando era morta sua madre, e lo aveva esortato a conoscere Bea, a prendersi cura di lei. Forse era quello il motivo per Mark Schreiber era sempre stato così legato al suo migliore amico: il secondo aveva fatto in modo che il primo non fosse mai davvero solo.
Era anche necessario avvertire Yelena della sua partenza, era a lei che doveva chiedere di portare la cena a Bea, era l'unica che potesse farlo; stavolta non era il caso di affidare il compito ad un futuro nazista, nemmeno ad uno come Derek, non era nelle loro mansioni fare ciò che lui faceva abitualmente e non era certo che sarebbero stati all'altezza della cosa, senza farsi scoprire da qualche superiore.
Magari Walter avrebbe potuto tenere compagnia alla ragazza, qualche volta.
Sarebbe stato tutto così difficile, e lui non era nemmeno sicuro di riuscire a tornare in Germania, non vivo almeno. I russi erano dannatamente bravi a combattere, avevano subito perdite enormi, ma si arruolavano ancora tantissimo ragazzi -anche di giovanissimi-, Mark non c'era ancora stato, ma sapeva che l'intera popolazione lanciava pietre e qualunque cosa avesse a portata di mano contro i tedeschi. Il ragazzo era sicuro di morire molto presto, si consolava pensando che almeno avrebbe potuto rivedere sua madre.
Doveva fare tutto, e in fretta: uscì dalla sua camera, sbattendo la porta e dirigendosi verso la cucina. Aveva tante persone da avvertire ed effettivamente non troppo tempo; sarebbe partito quella sera stessa, alle diciotto, e mancavano appena sette ore e mezza alle diciotto.
Trovò Yelena intenta nelle solite faccende domestiche: quella donna si affaticava troppo, o almeno era ciò che il biondo aveva iniziato a pensare da un po' a quella parte, era strano in effetti, non era solito preoccuparsi per le persone, ma ormai non ci faceva nemmeno caso, tanto gli capitava frequentemente. << Ciao >> le disse, avvicinandosi con cautela. Ormai lei doveva aver imparato a riconoscere la sua voce, o almeno pensava che fosse così.
<< Ciao, Mark, se sei qui per imparare qualcosa di russo tempo che dovremo rimandare >> la donna aveva pronunciato quelle parole senza staccare gli occhi dal suo lavoro, mostrandosi tuttavia calma e disponibile, << in questo momento ho molto lavoro, potresti tornare tra un paio d'ore >> suggerì, quasi per non scoraggiarlo.
Mark scosse il capo, << Credo che non m'insegnerai più il russo, Yelena >>, c'era una nota amara nelle sue parole: la scoperta di una nuova ed interessante lingua lo aveva entusiasmato in quei giorni, e applicarsi su di essa lo distraeva dal pensare a suo padre o ad altre cose che potessero arrecargli dolore, almeno finché non arrivava l'orario in cui poteva vedere Beatrisa.
La donna rise. Una risata semplice e chiara, che fece sorridere spontaneamente anche il ragazzo, << Credi di essere già così bravo? >> chiese, voltandosi per osservarlo. Sembrò ricredersi sulle parole appena pronunciate appena ebbe visto l'espressione dipinta sul volto del ragazzo.
<< Mi mandano sul fronte, a Leningrado >>. Abbassò lo sguardo, non riusciva a reggere quello quasi materno della russa; non quando rischiava di perdere tutto ciò che aveva da poco scoperto di possedere.
<< Bàtjuski!* >> esclamò la donna, portandosi una mano alla bocca. Sembrava preoccupata, preoccupata come Mark non l'aveva mai vista. << Tuo padre è d'accordo? >>, era stata esitante nel chiederlo, lei stessa non aveva esattamente un rapporto felice con quell'uomo, ma doveva obbedirgli.
Lui si passò una mano tra i capelli, biondo, << Credo sia stata una sua idea, ma non posso saperlo, dopotutto >> riuscì a dire. Non capiva cos'avesse spaventato tanto Yelena, << Cosa c'è di tanto terrificante a Leningrado? Un drago?! >> tentò di scherzarvi su.
Yelena gli lanciò uno sguardo di rimprovero molto chiaro, chiaro come era il messaggio che gli stava mandando: non scherzare sulla guerra, ci sei dentro fino al collo. << Russi difendono Leningrado meglio di qualunque altro posto, so che lì sono morti molti dei vostri soldati >> spiegò, una volta riacquistata la calma.
<< Beh, pensarci serve a poco; posso solo andare lì e cercare di fare il mio meglio per salvarmi la pelle e tornare qui, anche se inizio a dubitarne parecchio >>, sospirò, tenendo gli occhi fissi in quelli della donna stavolta, immergendosi in quel mare di protezione.
La donna scosse appena il capo, << Sei un ragazzo coraggioso, ma immagino tu sia venuto qui per qualcosa, no? >>,: capiva benissimo le intenzioni altrui e dopo quei giorni quelle di Mark erano un mistero solo in parte, aveva imparato a conoscerlo e ad ascoltare i suoi silenzi.
Il caporale annuì, << Esattamente. Devo chiederti un favore enorme e pericoloso, Yelena >>
<< Come se non fosse stato pericoloso tutto quello uscito dalle tue labbra fino ad ora >>
<< Bada a lei, assicurati che non le manchi niente e fa' in modo che stia bene >> la pregò, fissandola con uno sguardo che la donna riconobbe subito, ma che il ragazzo ancora non riusciva a comprendere.
Lei annuì, << Farò tutto ciò che posso per mantenere questa promessa >>



Weimar, Germania.
3 Gennaio 1944
13:15

Aveva pranzato dagli Hoffmann: i genitori di Walter fortunatamente non c'erano, anche se stavolta il caporale non aveva la minima idea di dove si potessero essere cacciati. Tutto sommato, non gli interessava nemmeno, era molto meglio così, dopotutto doveva parlare a Walter di questioni private e sarebbe stato senz'altro svantaggiato a farlo davanti a loro. Anzi, probabilmente non avrebbe potuto e basta, trovandosi costretto a trascinare via l'amico.
La tristezza aveva completamente travolto Schreiber: aveva certo voglia di tornare vivo dall'Unione Sovietica, ma dubitava seriamente di farcela. Non avrebbe più visto Walter, né Bea, ne qualsiasi altra persona. Forse avrebbe ritrovato sua madre, ma non poteva essere sicuro nemmeno di questo. Non aveva certezze, in quel momento, e le poche che aveva erano andate distrutte la sera precedente. Non era pronto a lasciarsi tutto alle spalle. Non era pronto a morire per degli ideali in cui ormai stentava a credere.
Ma doveva.
Doveva partire per l'Unione Sovietica.
Doveva lasciare Bea.
Doveva dimenticare tutto ciò che aveva realizzato nell'ultimo mese.
E, se necessario, doveva morire.
Cerco di non pensarci, ma non era facile. Se da una parte c'era l'egoistica pretesa di rimanere in vita ad appena vent'anni, dall'altra c'era la consapevolezza che, vinta o persa la guerra contro i russi, Bea sarebbe stata uccisa, ormai diventata completamente inutile per fini militari. Non poteva sopportare nessuna delle sue preoccupazioni in quel momento, ma doveva dire a Walter che sarebbe partito presto; non poteva lasciarlo lì, ignaro di tutto.
<< Allora, come mai hai fatto tutta questa strada in un giorno lavorativo? Ti hanno concesso dei punti in più per aver ucciso più persone, oggi? >> scherzò, il suo migliore amico, mentre si alzava ed iniziava a sparecchiare tavola. Era sempre stato portato nelle cose domestiche.
Mark tentò di sorridere, ne uscì qualcosa di tirato ed incredibilmente falso. << Non proprio >> rispose, alzandosi a sua volta per aiutare l'amico, pur sapendo di essere un completo disastro in quelle cose. << Sono venuto per salutarti, in verità >> prese la cosa non troppo alla larga, non ce l'avrebbe fatta a reggere una conversazione tanto lunga con una persona che stava per lasciare lì.
L'altro non comprese a pieno la gravità della situazione, ma si voltò ugualmente a guardare il giovane Schreiber, inarcando un sopracciglio, << Visita di cortesia, quindi? Non credevo che me ne avresti mai fatte, di solito sei pieno di problemi >> tentò ancora con l'ironia, che stavolta riuscì a strappare al ragazzo dagli occhi nocciola un sorriso quasi vero. Quasi, eh.
<< Parto per il fronte, Walter, stasera >> rispose, quasi subito, fissandolo dritto negli occhi. Come avrebbe fatto a lasciare il suo migliore amico da solo? No, non poteva morire, doveva tornare lì, vivo. Per Walter, per Bea e per se stesso.
Il biondo spalancò gli occhi e per un paio di minuti non riuscì a dire assolutamente niente. Sembrava sconvolto, come Mark non lo aveva mai visto. Come se gli avessero appena ucciso la persona più cara che avesse, o come se avesse appena saputo di avere una malattia terminale. Talmente stupido che probabilmente non aveva mai davvero pensato -nemmeno per un momento- che il soldato potesse realmente decidere di andare al fronte.
I secondi, i minuti passavano, ma nella stanza non si udiva suono. Rimanevano immobili, nella sala da pranzo, a fissarsi, senza proferire parola. Walter con quell'espressione stupida, e Mark con una calmissima, che nascondeva in realtà un profondo tormento.
<< Dove vai di preciso? >>, Walter Hoffmann era ansioso, si percepiva chiaramente dal suo tono di voce.
L'altro cercava di continuare a mostrarsi calmo, sebbene stesse per scoppiare. << A Leningrado >>
<< Quando tornerai? >>, il migliore amico del soldato cercava dir raccogliere più informazioni possibili sull'imminente partenza del suo migliore amico, stava anche cercando di pensare che sarebbe andato tutto bene, da ottimista qual era sempre stato, ma quella volta non gli riusciva tanto facile.
<< Quando sarà finito tutto credo >> ma i suoi pensieri dicevano più: forse mai.
Walter annuì, non riusciva a pensare, né a dire molto. << Hai paura? >>, sarebbe sembrata a tutti una domanda lecita. Era noto che Mark prima sarebbe partito di corsa per il fronte, ma Walter era il suo migliore amico, ed era riuscito a scorgere un profondo cambiamento in lui negli ultimi tempi.
Il caporale esitò: non era sicuro della risposta. << ... No >>, ma, anche se ti ostini a negarla, la paura c'è sempre. E' lì, come un'ombra e non ti abbandona mai; qualunque sia la tua preoccupazione, stai tranquillo che non sarai mai completamente da solo nell'affrontarla, sarai sempre vestito della paura, indosserai quelle vesti come il più pregiato degli abiti, impregnato del suo odore.
Fu difficile credergli, per il giovane Hoffmann, ma ci provò ugualmente. Gli si avvicinò, poggiandogli una mano sulla spalla. << Sai che sarò sempre dalla tua parte, ma questa è una cosa stupida e sono certo che te ne rendi conto anche tu >> tentò di convincerlo a lasciar perdere tutto.
<< Non è una cosa stupida, era il mio sogno >> replicò l'altro, con una smorfia. Era tutto ciò che aveva voluto, per un periodo e anche se c'erano mille motivazioni, forse sarebbero sparite, forse Bea era solo un capriccio momentaneo. Sapeva che non era così, ma cercava d'illudersi.
Un paio di occhi azzurro intenso lo fulminarono. << Appunto: era il tuo sogno. Desideri ancora partire per il fronte? Per allontanarti da cosa? Mi pare che emotivamente tu ti sia già allontanato molto dai tuoi problemi >>, sbottò, con voce più dura del solito. Troppo dura per appartenere davvero a quelle labbra d'angelo.
Schreiber sospirò, allontanandosi. << Non ho idea di cosa voglio, Walter, ma sono comunque costretto a partire; sai cosa significa disertare? >> era una domanda retorica, tuttavia il figlio del signor Hoffmann fece cenno di sì con un breve e veloce cenno del capo.
<< In questo caso, buona fortuna. Sappi che sarò qui ad aspettarti >>
<< E se non tornassi? >>, c'era un filo d'ansia nella voce del militare.
<< Tornerai, ne sono sicuro >> tentò di rassicurare sia se stesso, sia il suo migliore amico.



Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
3 Gennaio 1944
16:58

Gli erano rimaste appena un paio d'ore prima della partenza. Doveva assolutamente salutare Bea. Aveva pensato a tutto: i bagagli, anche se miseri - dopotutto cosa si portava esattamente con sé quando non si sapeva nemmeno se ci sarebbe stato un ritorno? -, aveva avvertito e parlato con tutte le persone con cui sentiva il bisogno di farlo, e aveva preso dei soldi. Quelli gli sarebbero sicuramente serviti, quelli facevano girare il mondo, o almeno la parte di esso in cui si concentra il potere.
Bussò piano alla porta di Bea, ma non ricevette risposta; non si meravigliò, la ragazza parlava poco, quando non era sicura di essere sola con lui. Aprì lentamente la porta, trovandola seduta sul pavimento di legno, a gambe incrociate: osservava il soffitto come se fosse la cosa più interessante del mondo. Attorno a lei aleggiava un'aria quasi magica, o almeno fu l'impressione che ebbe Mar Schreiber osservandola.
<< Posso parlarti? >> chiese, con un tono di voce stranamente dolce e, per una volta dalla sera precedente, davvero calmo. Si avvicinò lentamente, osservandole il viso infantile eppure così puro. Le si sedette accanto, e solo in quel momento la ragazza abbassò i grandi occhi verdi verso di lui.
Si aprì in un sorriso, << Certo, dimmi >>, sembrava che ormai la ragazza vivesse solo per quei piccoli momenti con il soldato nazista.
E se per Bea era un dubbio, per Mark era una sicurezza: mangiava, beveva, sparava, respirava solo per quelle ore. Solo per vederla sorridere, per scrutare i suoi occhi così intensi e profondi, per percorrere con lo sguardo le linee del corpo, sulla pelle delicata e diafana. Schreiber era profondamente turbato dalle reazione che le provocava quella ragazza: non poteva essere semplice attrazione fisica, no, conosceva bene com'era fatta quella e non comportava quegli atteggiamenti di assoluta dipendenza. Si drogava di lei, ecco cosa faceva, tramutava il suo odore in ossigeno.
Il ragazzo si avvicinò cautamente a lei. La prima volta che si era avvicinato così tanto era stato per violarla. Si sentiva così stupido ad aver fatto una cosa tanto senza significato. La osservò negli occhi per quale istante, senza decidersi a parlare. Era stato facile dire a Yelena che se ne sarebbe andato, anche se si era affezionato a lei. Era stato difficile dire a Walter che stava partendo per l'Unione Sovietica e che forse sarebbe morto, ma non era minimamente paragonabile alla dolorosa e rumorosa lotta in atto nel suo petto e nel suo cervello.
Gli erano state insegnate tante cose: aveva imparato ad odiare i comunisti, e a considerare qualsiasi popolazione esistente come inferiore alla pura razza ariana. Gli era stato insegnato che un bravo soldato non pensa con la propria testa, perché rischierebbe di mandare in crisi le ottime strategie di un generale; gli era stato insegnato come idolatrare Hitler nel modo più assurdo, come con il saluto nazista; gli era stato insegnato che quella bandiera significava libertà e gloria per i tedeschi, ma nessuno gli aveva mai insegnato come dire ad una ragazza: mi dispiace, sono costretto ad abbandonarti.
Soprattutto quando non era ciò che voleva davvero fare. Voleva solo rimanere lì a fissarla ancora un po', fino al momento della morte.
Allungò una mano, sfiorandole i capelli corvini e riportandogliene una ciocca dietro l'orecchio. Li aveva lavati recentemente, ed erano ancora più belli del solito: tutto in quella ragazza quel pomeriggio e in quella camera sembrava urlargli di resta, che non ce l'avrebbe fatta da sola; ma lui non poteva dare ascolto a quelle urla.
Bea Gurtsieva posò una mano dalle dita lunghe e sottili su quella di Mark, che era scivolata su di una guancia di lei. << Cosa c'è, soldato? >> chiese e doveva esserci qualcosa nello sguardo di Mark che l'aveva allarmata perché in quel momento sembrava preoccupata a sua volta.
<< Sto per partire >>
Fu un mormorio, un rifiuto di credere alla realtà. Poche parole dette a mezza voce, nella speranza che siano solo un incubo. Ripensò a ciò che aveva detto a Walter: era il suo sogno partire per il fronte; il suo amico aveva ragione, era il suo sogno, ormai aveva altri sogni, altri obiettivi, altri motivi per andare avanti che non fossero uno stupido fucile. Non stava rinnegando i suoi ideali nazisti, no, non erano una cosa che si spazzava via così facilmente. Semplicemente stava cercando di aprirsi alla ragazza, completamente.
Il volto di lei mutò in un'espressione triste, << E dove andrai? >> chiese, come se fosse una cosa ovvia farsi quella domanda.
Mark continuò ad osservarla negli occhi, mentre parlava, << Non è un viaggio di piacere: vado sul fronte, a Leningrado >> tentò di spiegarle. La reazione di lei lo stupì: gli si era gettata letteralmente tra le braccia. Non piangeva, ma si stringeva contro il suo petto, raggomitolandosi e cercando calore, cercando protezione, cercando tutto ciò che lui non gli aveva ancora dato.
Mark Schreiber sospirò, senza sapere esattamente cosa fare. Non si era mai trovato a provare affetto per una ragazza, non seriamente almeno. Tutte le volte che stava con una ragazza era solo per il sesso, ma ad ogni modo ciò non capitava più spesso come un paio d'anni prima, aveva totalmente rinunciato al rapporto con l'altro sesso. L'unica fiamma era stata la violenza a Bea dopo così tanti anni.
Le poggiò una mano sul capo, iniziando a giocare con i capelli corvini di lei, attorcigliandoli tra le dita, carezzandoli, seguendo le linee morbide dei boccoli. Trovava i capelli di lei perfetti. Trovava gran parte delle cose in lei, perfette, ma non avrebbe mai avuto modo di dirglielo. Insomma, lui non era tipo da fare certe cose!
<< Non andartene >> le sentì mormorare.
Non capì subito il senso delle parole di lei: dopotutto non si era mai sentito indispensabile per nessuno, ma dopo qualche istante riuscì finalmente a rendersi conto di una cosa: lui era l'unica persona su cui Bea Gurtsieva potesse davvero fare affidamento lì dentro, nonostante tutto ciò che le aveva fatto e di cui si vergognava. Le cinse le spalle con un braccio, mentre l'altra mano continuava ad accarezzarle i capelli. Sospirò ancora, e ancora. Quando lei gli era vicino, voleva davvero restare. << Non penso sia possibile >> rispose, e purtroppo era vero. << se resto, mi uccideranno>>, aggiunse.
Beatrisa si scostò appena ed annuì, con sguardo forte, deciso. Con fermezza ritrovata, con gli occhi che le brillavano di un verde acceso diverso da quello che Mark le aveva sempre visto.  Poggiò nuovamente la schiena contro la parete e sorrise, un po' in modo finto ma lo fece lo stesso, e il ragazzo gliene fu grato. << Vai. Sono forte abbastanza, vai; ma torna indietro, soldato, il prima possibile >> gli intimò, fissandolo dritto negli occhi nocciola.
I loro sguardi si stavano fondendo. Si guardavano come se fosse la prima, come se non fosse in un lager e non ci fosse alcuna differenza tra di loro. Si guardavano come due ragazzi che si erano conosciuti normalmente, che avevano una vita normale e che non seguivano nessun preciso orientamento politico. Erano solo Mark e Bea, due ragazzi che trovano la forza l'uno nell'altra.
Il ragazzo si avvicinò a lei. Aveva il viso rilassato e calmo, di chi non ha assolutamente idea di ciò che sta facendo, ma avverte il bisogno impellente di farlo. Poggiò una mano contro il muro, appena sopra la spalla della ragazza. Era a pochi centimetri da lei e riusciva a sentire il suo respiro, il suo odore. Riusciva a sentire la pelle bruciare al contatto con il suo odore, una sostanza così pura: sapeva di vaniglia. Era frastornato, ma continuava ad osservarla, la osservò mentre chiudeva gli occhi, vide le labbra di lei tremare lievemente. Chiuse a sua volta gli occhi, avvicinandosi a lei, tanto da sfiorare il suo naso con il proprio. Riusciva a respirare del suo stesso fiato, ormai, le loro labbra erano ad un soffio, quando Mark capì effettivamente ciò che stava succedendo: si allontanò di poco, con il respiro veloce e poggiò la fronte contro la sua.
Non poteva baciarla, era contro qualsiasi legge in vigore in Germania in quel periodo; e non poteva perché non era il solito bacio, non era stato semplice uso sessuale della persona deportata. Era qualcosa di più, ma il ragazzo non poteva -o forse non voleva- accettarlo. Preferiva pensare che fosse tutto frutto della partenza imminente, e del fatto che non frequentasse davvero una ragazza da un sacco di tempo.
Rimase con la fronte contro la sua, finché lei non aprì gli occhi. << Tornerò il prima possibile, te lo prometto >> disse solo il ragazzo, prima di alzarsi e sparire via, preda del tumulto che si era formato dentro di lui.


Unione Sovietica.
4 Gennaio 1944
22:43

Caro Walter,
I bombardamenti sono appena cessati e ho l'occasione di scriverti due righe.
Non avevo assolutamente idea di cosa pensavo, quando desideravo ardentemente venire qui. Regna il caos, non ci sono regole al gioco: si attacca anche di notte, si fanno delle imboscate. Tutto ciò che può portare alla vittoria è lecito. Cosa vedo da cui?
Fumo. E' ovunque. C'è anche tantissima neve, sono convinto che odieresti l'Unione Sovietica, Walter! E' divertente prenderti in giro. Non so se riceverai mai questa lettera -sai, a causa della censura-, ti parlerò di quello che succede qui, senza preoccuparmi di farti sapere la verità, senza cercare di trasfigurarla, come ci arrivano ti arrivano le notizie a Weimar, come credo arrivino in tutta la Germania.
Non hai idea di cosa sia la guerra finché non vedi le persone che ti sono accanto morire. Finché non avverti il terrore percorrerti la spina dorsale quando una bomba viene sganciata verso di te. Non sono forti, in quanto ad aviazione, questi russi, ma resistono benissimo. Sembra che qualunque cosa succeda siano sempre pronti sul campo di battaglia. Ne hanno uccisi tantissimi solo oggi, eppure non sembrano diminuire.
Noi tedeschi siamo ormai ridotti male qui. Non so com'è la situazione nel resto dell'Unione Sovietica, dato che continuando a mentirci sul giornali di Hitler! Non hai mai letto che stiamo perdendo tutti i nostri uomini, vero? Certo, solo i potenti e chi muore per la Germania lo sa. Ci hanno sempre detto che la Russia sarebbe stata territorio facile, e invece quest'assedio va avanti da tantissimo tempo. Non so cosa pensare.
Ci sono tantissimi ragazzi della mia età, molti anche più giovani. Fa così male il pensiero che moriranno anche loro, molto presto. Morirò anche io, presto, Walter, lo so. Mi è bastato un giorno qui, per vedere i cumuli di cadaveri. Perché è scoppiata questa guerra, Walter?
Perché mi sono arruolato?
I tedeschi non si comportano nel migliore dei modi, inoltre. Gli aerei lasciano cadere volantini sul territorio, con la proposta ad unirsi al nostro esercito, poi ci sono l bombe, e alla fine vengono lanciati dei regolari moduli di adesione. E' una cosa davvero stupida; se lo facessero i russi, non mi unirei mai a loro, combatto per il mio paese, non per quello che vince. E la Germania riuscirà a vincere, Walter, te lo prometto. Tornerò a casa.
Pur ammettendo che la censura non bruci direttamente la mia lettera, devo capire come inviarla. Non dev'essere facile e sono nuovo qui. Non so, comunque, se scriverò di nuovo. Potrei sempre non avere più le mani, quando avrò un attimo di tempo per scriverti un'altra lettera, non credi? Lo so, odi il mio sarcasmo, conosco perfettamente la faccia che faresti leggendo quest'ultima affermazione, ma la cosa non fa che divertirmi e c'è davvero bisogno di sorridere quando punti un fucile contro militari e civili, tra cui anche ragazzini di nemmeno diciassette anni che giocano a lanciarci le pietre contro. Mi fa pena ucciderli, ma devo, e lo faccio.
Nella zona dove sono stato messo, e dove dovrei dormire tra poco, c'è un ragazzo, dell'aviazione, fuma. So che la cosa ti infastidirebbe, quindi ho evitato di accettare la sigaretta che mi ha offerto, sebbene tu sappia che il fumo mi rilassa tantissimo. Non fumo una sigaretta da un anno e mezzo, avrei anche potuto concedermela, non trovi? Ho evitato, amico mio, se la guerra vuole permettermi di vivere ancora qualche decennio, non vorrei che un tumore o qualsiasi altra cosa rovinasse i miei ultimi anni di vita.
Mi ha spiegato parecchie cose. Stanotte lui deve bombardare la Neva, un fiume che permette a Leningrado di ricevere cibo e all'esercito di avere rinforzi. E' completamente ghiacciato, ma con qualche bomba il ghiaccio verrà giù e i russi non potranno più attraversarlo. Mi ha lasciato tutte le sue munizioni: è sicuro di morire stanotte, mi ha detto che proprio per la sua importante funzione i russi ci tengono a quel fiume.
Effettivamente, se fossi in loro, anche io me lo terrei stretto.
E' proprio il caso che ti saluti, probabilmente stanotte dovrò riprendere in mano il fucile.
Tornerò vivo con in alto la bandiera nazista, 

Mark Schreiber



Unione Sovietica.
7 Gennaio 1944
5:02

C'è un attimo di calma in questo venerdì mattina, Bea,
Non sono riuscito a spedire la lettera che avevo scritto a Walter, di conseguenza credo che non spedirò nemmeno questa, ma far finta di parlarti mi fa sentire bene, come quando venivo a trovarsi lì, nel campo di lavoro, in Germania.
Spero che Yelena non si sia fatta scoprire. Mi fido di lei, ma ne va della tua vita. Sono convinto che mio padre starà provvedendo a te: torture e cose del genere. Credo che per questo dovrò odiarlo più di quanto già non faccio normalmente.
Volevo chiederti scusa per l'ultimo pomeriggio passato insieme, ma credo che da vicino non lo farò mai, e lo sai anche tu. Non avrei dovuto avvicinarmi così tanto a te, non so quale siano stati i tuoi pensieri, ad ogni modo scusami, non avrei mai dovuto. Sei sempre una di loro dopotutto, ed io non posso tradire il mio paese, per quanto avrei desiderato farlo quel pomeriggio.
No, non riesco a mentirti, nemmeno se in una finta lettera che non ti invierò mai. Diserterei adesso stesso, se potessi trovare un qualunque modo per salvarti.
Non riesco a scriverti molte cose. Sento le bombe cadere poco distanti, non ho paura. Pensarti mi mantiene attivo sul campo. Ho un motivo per tornare a casa, tu non credi?
Il ragazzo dell'aviazione che avevo conosciuto è morto sul serio, aveva ragione. Non sono nemmeno riusciti a rompere la lastra di ghiaccio che ormai è diventato il fiume Neva, e i rinforzi per i russi continuando ad arrivare. Oltretutto mi pare che dalla loro ci siano moltissimi medici americani.
Perdonami per la brevità di questa missiva. Non c'è mai tempo in guerra,
Con affetto,

Mark Schreiber



Unione Sovietica.
9 Gennaio 1944
00:21

Bea,
Le speranze tedesche stanno precipitando una ad una; ma io sto imparando da quest'esperienza.
A cosa serve in realtà la guerra? Ovunque mi giro sento solo puzza di bruciato,  cumoli di cadaveri, molti di più di quanti ne vedevo nel campo. I nazisti che lavorano nei campi di concentramento sono dei veri codardi: con quale coraggio si spara ad un deportato disarmato, morente di freddo e senza alcuna possibilità -credo che arrivati al punto in cui sono loro non ce ne sia nemmeno la volontà- di difendersi. Sparare contro chi ha un fucile più grosso del tuo è molto più difficile.
Inizio ad essere stanco, Bea, non è facile reggere questi ritmi. Non è facile uccidere ogni giorno e vedere il sangue scorrere come tanti piccoli fiumi. Non è facile stringere dei rapporti e vederli morire il giorno dopo.
Qui fa freddo, Walter ha ragione: inizio ad odiare la neve. Neve e sangue è un composto schifoso.
Non riesco a smettere di pensare a te,

Mark Schreiber



Unione Sovietica,
13 Gennaio 1944
17:46

Le cose si mettono sempre peggio per i tedeschi, Bea.
Ho paura. Siamo rimasti davvero in pochissimi, nemmeno i russi sembrano messi bene, ma se la cavano.
Scusa, non riesco a scrivere, ho le mani congelate.

Mark



* Bàtjuski! (russo) = esclamazione, non come traduzione letterale ma sarebbe qualcosa del tipo "Oddio!" o "Santo cielo!"




E voglio il nome di chi si impegna
a fare i conti con la propria vergogna.
Dormite pure voi che avete ancora sogni.

Eccomi qua, seguivo gli ordini che ricevevo
c'è stato un tempo in cui io credevo
che arruolandomi in aviazione
avrei girato il mondo
e fatto bene alla mia gente,
fatto qualcosa di importante.
In fondo a me, a me piaceva volare...

C'era una volta un aeroplano,
un militare americano,
c'era una volta il gioco di un bambino.
E voglio il nome di chi ha mentito:
di chi ha parlato di una guerra giusta;
io non le lancio più le vostre sante bombe.
[Il mio nome è Mai Più - Ligabue ft. Piero Pelù]

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Capitolo 11
*** Capitolo 10. -Liebe. ***


Eccomi! Stavolta ho fatto meno tardi del solito, non siete felici?! xD
Bene, scrivo giusto qualche parola e poi corro a studiare per il compito di latino, per il quale oltretutto sono fottutamente terrorizzata. xD
Ad ogni mooodo, questo capitolo riserva un sacco di belle sorprese. *-*
Mark è sempre un coglione ma cosa ci volete fare, la gente non cambia in soli dieci capitoli. xD Anche se è cambiato molto dall'inizio della storia, un personaggio davvero dinamico, oserei dire. u.u
Beeene, vi lascio al capitolo subito subito dopo i ringraziamenti. <3

Ringrazio le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
- Bbw87
- Fairness
- Mareike Tiaycia
- OlandeseVolante
- Nadine_Rose
- niacara07
- Norine
- Prusskj_Lazur
- ChyoChan
- la_regina
- Luc
- thegreenlady
- mau07
- NemesiS_
- Selena_
- Ipazia
- LadyGiulia
- sweetstar
Coloro che la hanno inserita tra le ricordate:
- fedecaccy
- Rayne
- ElleBi
Coloro che la hanno inserita tra le preferite
- xxGiuls.
- kikka23
- elly04
- Karota
- Luna_LoveDark
- liz89
- Fairness
- Selena_
- lorenzablu
- orsetta
- Prusskij_Lazur
- Selena Marie






Salviamoci la pelle.

-Liebe.




Leningrado, Unione Sovietica.
14 Gennaio 1944
6:01

<< Stai facendo un ottimo lavoro sul fronte, Dimitri, Leningrado dovrebbe avere molti più uomini come te a difenderla >>, il Colonnello Generale Gurtsieva era stanco, glielo si poteva leggere benissimo in faccia: chiaro a chiunque, ai suoi amici quanto ai suoi nemici, ma era tutto perfettamente comprensibile, quella guerra andava avanti da troppo tempo.
Il giovane scosse appena il capo. << La guerra sta andando bene, ma non è tutto ciò che voglio >> ammise, sebbene fosse una cosa ovvia. Era noto che tutto ciò che desiderava era solo ritrovare Bea, desiderio impossibile da realizzare, almeno per il momento; ma Todorov sentiva che qualcosa stava per cambiare: non poteva essere tutto perduto. Combatteva principalmente per se stesso, ma ogni volta che puntava il fucile contro un tedesco, i suoi pensieri erano diretti sempre e solo alla ragazza che era sparita dall'Unione Sovietica.
L'uomo annuì, conosceva benissimo i pensieri del giovane di fronte a lui, e non se ne stupida; aveva sempre notato il rapporto particolare che c'era tra sua figlia e il figlio dei Todorov, non gli dispiaceva: aveva sempre trattato Dimitri come un figlio. << Potreste sposarvi, quando sarà tornata >>, voleva dargli quella speranza, Bea sarebbe tornata. In quanto al matrimonio, il colonnello aveva sempre sospettato che sarebbe andata a finire così, tra i due.
<< Pensa davvero che tornerà? >>, aveva esitato prima di chiederlo, era la paura che lo tormentava da quasi un mese, come un incubo che gli impediva di dormire, costretto a girarsi sul giaciglio per tutta la notte, con la fronte imperlata da freddo sudore. Non dormiva decentemente da tempo, ma fortunatamente questo non significava che le sue abilità in battaglia calassero. Il ragazzo aveva sempre eseguito gli ordini senza sbagliare, senza fare di testa sua e questo era esattamente ciò che ci si aspettava da un soldato.
L'altro annuì, cercando di mostrarsi convinto, per quanto potesse risultare difficile. << Certo che tornerà, troveremo il modo per rivederla, tenente Todorov >> disse, mettendo in quelle parole tutta la convinzione che possedeva. Volendo guardare in faccia alla realtà non c'erano possibilità di rivedere Bea; ormai era sparita per sempre dalle loro vite e dall'Unione Sovietica, che l'avessero già uccisa o meno non era più di loro competenza, non avrebbero mai sentito parlare di lei ancora, ma Boris Gurtsieva stava rimproverando il ragazzo per la sua mancanza di fiducia, perché voleva davvero credere di poterla ritrovare, pur sapendo di quanto la cosa potesse essere impossibile da realizzare.
Il ragazzo annuì, << Manca tanto a tutti, vero? >> chiese, ma era una domanda retorica. Accese una sigaretta, portandosela alle labbra ed offrendone una anche al suo superiore. << Sergeij me ne parla sempre, non vede l'ora di rivederla. Anche voi, ne sono sicuro, lei e sua moglie; ma avete la minima idea di cosa possa passare io, adesso? Non voglio farmi illusioni, Colonnello >> replicò, non riuscendo nemmeno a guardarlo negli occhi. Non era intenzione di Dimitri mancargli di rispetto, ma non voleva credere che la ragazza che amava sarebbe tornata da lui, quando le probabilità erano così basse.
Il Colonnello sbuffò appena, accettando la sigaretta e accendendola. << Cosa provi per mia figlia, ragazzo? >>, lo sapeva già benissimo, ovviamente, ma aveva bisogno di conferme da parte di quel ragazzo, non per lo Stato, ma per sua figlia.
Dimitri Todorov esitò su quella domanda, non lo aveva mai detto ad alta voce, né ne aveva mai parlato con qualcuno: non era esattamente una cosa che era possibile confessare al padre della tua migliore amica, né tanto meno il ragazzo aveva mai avuto amici così fidati, troppo concentrato a guadagnarsi l'affetto dell'unica persona che aveva sempre considerato importante, per se stesso; non gli interessava essere elogiato per le abilità sul campo, e nemmeno stringere un legame così stretto con i suoi compagni, voleva solo l'amore di quella ragazza. Abbassò lo sguardo, incapace di reggere quello dell'altro militare, << L'amavo, signore >>
<< Ti trema la voce, soldato >>, gli fece notare, mantenendo un certo distacco professionale. Non poteva lasciarsi coinvolgere: si trattava di sua figlia e del ragazzo che aveva sempre considerato come un figlio. Sperava in una loro unione, certo, ma adesso gli sembrava quasi impossibile da ottenere, se non del tutto.
Il tenente alzò lo sguardo, << L'ho persa. Cosa pretende che faccia?! >>, non aveva mai posseduto un può temperamento, e la velocità con cui lasciava che la rabbia prendesse il sopravvento lo dimostrava chiaramente.
<< Preferirei che tu non parlassi dei tuoi sentimenti al passato, Todorov, e la mia bambina e sono certo che sia ancora viva, da qualche parte, in Germania >>. Non voleva chiudere il discorso, non poteva parlare troppo di Bea a casa, anche se sentiva il bisogno di farlo: non voleva che sua moglie e il figlio minore si preoccupassero ancora di più per la ragazza, e non poteva scaricare su di loro i suoi problemi; erano la sua famiglia, ed era suo dovere proteggerli.
Il più giovane si trattenne dallo sbuffare, << Mi ha fatto chiamare solo per parlare di Beatrisa? >> chiese, ansioso di riportare la ragazza nell'angolino più remoto della sua mente e chiudercela dentro, a chiave, in modo da potersi concentrare su altro, su cose più importanti che stavano avvenendo, sulla vittoria che finalmente riusciva a intravedere di Leningrado su quei dannati bastardi dei tedeschi. Gli stessi tedeschi che gli avevano portato via quella ragazza; no, non riusciva proprio a segregarla ai margini dei suoi pensieri.
Boris scosse il capo, << Ovviamente no, ma pensavo che avrebbe potuto togliere un peso ad entrambi >> rispose, leggermente infastidito dalla domanda del ragazzo, ovviamente portava fede ai suoi impegni militari, come sapeva che avrebbe dovuto fare quando si era arruolato, parecchi anni addietro. << Volevo informarti che oggi avrà inizio l'operazione Neva II, sai già ciò che bisogna fare, vero? >>, ne avevano parlato talmente tante volte che la risposta del ragazzo non poteva che essere positiva.
<< E' un attacco molto pericoloso, Colonnello, siamo sicuri di poter rischiare così tanto? >>, però era un buon piano, questo doveva ammetterlo.
<< I tedeschi sono stremati, non si aspettavano che avremmo resistito così a lungo. Stiamo combattendo contro i loro rinforzi! Dobbiamo darci una mossa, se non vogliamo che arrivino dalla Germania armi ancora più potenti di quelle di cui dispongono adesso >> lo rimproverò l'altro. Bisognava essere svelti e risoluti con quelle decisioni.
Dimitri annuì, << Crede davvero che possa funzionare? D'accordo, per adesso siamo in vantaggio, ma chi dice che non sia solo una loro trappola per farcelo credere? >>, tento di protestare il tenente. Voleva davvero credere che stessero davvero per vincere quella guerra, ma combatteva da troppo tempo per farlo sul serio.
<< Dimitri, dobbiamo pur rischiare qualcosa se vogliamo definitivamente salvare Leningrado e cacciare i tedeschi >> fu l'unica risposta del Colonnello Generale. L'operazione Neva II aveva buone possibilità di riuscita, ma non era sicura. Dipendeva dai loro soldati, ma si contava soprattutto su quanto i nazisti fossero stanchi; se Leningrado avesse fallito quella mossa, probabilmente l'Unione Sovietica sarebbe stata facile preda della Germania, che l'avrebbe considerata un bersaglio facile. Non si poteva però più aspettare per mettere in atto quelle manovre militari: i loro nemici avrebbero potuto riprendersi, se aspettavano troppo, e inoltre stavano pianificando tutto quello da parecchio.
L'altro scrollò appena le spalle, non era alla guerra che stava pensando, suo malgrado, in quel momento. << Ha detto che tengono Bea come ostaggio, secondo lei >> cercò di introdurre il discorso, sebbene fosse stato il primo a non voler parlare della ragazza, appena una manciata di minuti prima, << cosa pensa che le succederà, se riuscissimo effettivamente a mandar via i tedeschi? Insomma a loro lei -deglutì a vuoto, e si passò una mano tra i capelli corvini, cercando le parole adatte per esprimere verbalmente i suoi timori- non servirebbe più >> riuscì a buttar fuori alla fine, anche se aveva già in mente un sacco di risposte che non gli avrebbe fatto piacere sentire.
Il Colonnello distolse lo sguardo dal ragazzo, << Suppongo che in quel caso dovremmo abituarci all'idea di non vederla mai più; avremmo già dovuto farlo. Le speranze non vivono, in questo periodo della storia, tenente >>, gli fece presente, iniziando a percorrere il perimetro della stanza a grandi passi, fermandosi accanto alla finestra. Si trattava pur sempre di sua figlia, la sua primogenita. Non era un ragazzo, ma era forte come un ragazzo: sia emotivamente che fisicamente, ed era ciò che suo padre adorava.
Il tenente Todorov guardò la schiena del suo superiore con uno sguardo di fuoco. << Come può parlare di lei così? >>
<< Così come? >>, non si girò per porgli questa domanda.
<< ... come se fosse già morta >>
<< Guarda, Todorov, sta nevicando, ancora. La Neva si solidificherà ancora: l'inverno non è mai stato d'aiuto all'Unione Sovietica come in questo momento; dobbiamo attaccare. Prendi tutte le armi che ci restano e avvisa i tuoi uomini, io parlerò con tutti gli altri >>, era il modo che aveva Boris Gurtsieva di mettere fine alle discussioni che non gli piacevano: dava ordini o sviava in qualcos'altro. Diede l'ultima boccata alla sua sigaretta, prima di spegnerla.
Dimitri sbuffò, << Come crede, Colonnello, ma non le assicuro una vittoria, questa volta >>, sbottò, uscendo velocemente dall'ufficio del suo superiore.
Sapeva accettare gli ordini, di buon grado, anche, ormai ci si era abituato, e dopotutto si trovava bene in quei posti. Prese un'altra sigaretta, dopotutto aveva finito da poco, era vero, ma doveva assolutamente scaricare il nervoso di quella giornata insostenibile. Ed era solo mattina. Riusciva a sentire le bombe, poco lontano: provocavano un rumore assordante e avrebbe dovuto stare attento a non prenderne una in testa. Gli mancava Bea, più ti quanto fosse mai successo in quei giorni, lei avrebbe saputo capirlo, ascoltarlo, gli avrebbe chiesto come si sentiva. Da quanto qualcosa non gli chiedeva come si sentiva? Ma stava bene, Dimitri Todorov si sentiva un vero uomo che combatteva per la propria patria e, in un certo senso, per la propria donna; cercava di star bene e di consolarsi come poteva. Non aveva mai detto che fosse facile, ma dopotutto non aveva mai creduto che quella vita lo sarebbe stata.
Forse c'era stato un tempo in cui qualche illusione se la faceva, un tempo in cui immaginava una vita felice in un soviet, nella quale Bea era sua moglie e avevano tre o quattro splendidi marmocchi tra i piedi. Dimitri sapeva che sarebbe stato un padre fantastico, ed aveva la convinzione che anche Bea sarebbe stata un'ottima madre. Aveva bisogno di stringere la ragazza, ma, se gli fosse andata bene, si sarebbe ritrovato al massimo con un molto affascinante fucile tra le mani, ed ancora più affascinanti uomini-biondi-e-dagli-occhi-azzurri in divisa davanti.


Leningrado, Unione Sovietica.
14 Gennaio 1944
19:43

Non so come riesco a trovare la forza di scriverti queste poche righe, Bea, sono davvero distrutto. Dal gelo e da tutto quello che sta succedendo qui.
I russi sembrano di colpo più preparati, hanno attaccato, questa mattina, eravamo impreparati e abbiamo perso un sacco di uomini. Fuori sento tutte le armi da fuoco che ci siamo orgogliosamente portati dalla Germania, sento odore di polvere da sparo e di sangue. Dicono che il sangue sia inodore, ma io riesco a sentirne la puzza; forse è solo la puzza di quello secco, ormai incrostato attorno alle ferite di molti, che si staranno infettando.
Io non riesco a sparare con la mano sinistra, non è un problema, ovviamente non sono mancino, ma brucia. Sarei rimasto a farmi curare un altro po' in quelle infermerie, ma è impossibile. Un attacco così forte e improvviso davvero non ce l'aspettavamo. Ho giusto due ore per dormire, insieme al gruppo con cui sono venuto qui, ma non riesco a non scriverti, mi fa sentire così bene e libero. Sei l'unica a cui potrò mai raccontare tutto ciò che sta succedendo qui, sinceramente, senza mentire; potrebbe esserci anche Walter, entrambi meritate di sapere gli orrori della guerra, anche se credo che per vostra fortuna i vostri rispettivi padri abbiano evitato di mentirvi, come invece è toccato a me. Chissà, forse se mia madre non fosse morta mio padre non mi avrebbe creato l'illusione di una vita militare perfetta.
Magari quando tornerò potrò consegnarti queste lettere di persona, anche se sono orribili e scarabocchiate su un vecchio quaderno scolastico. La cosa strana è che vi ho trovato vecchi appunti, sopra. Avevo una grafia molto buffa e più disordinata, potrei fartene leggere qualcuno: sono nozioni che avevo completamente dimenticato! Non ho idea di cosa studiate in Unione Sovietica, ma mi sono appena reso conto che stai perdendo del tempo scolastico, non che nel tuo paese avresti potuto studiare per bene, con la guerra in corso. Mi dispiace, in parte credo sia colpa mia, o almeno è colpa di quelli come me che hanno sostenuto la guerra per tutto questo tempo: non avevo la minima idea di ciò che stavo facendo, probabilmente.
Non ho idea di come considerarmi politicamente, adesso. Sono nazista, credo. La razza ariana è sempre superiore alle altre, credo, ma ormai non tanto: se fossimo stati davvero tanto superiori a quest'ora avremmo previsto l'attacco a sorpresa dell'Armata Rossa, non credi? Non mi piacciono gli ebrei, anche se in fondo a me non hanno fatto mai niente. Forse la guerra aiuta le persone a ragionare, Beatrisa, dovrebbe andarci un po' mio padre sul fronte, in questo caso, magari potrebbe essere finalmente ciò che lo convince a liberarti.
Forse non ne sarei così felice. Se tu fossi libera e in grado di scegliere, te ne andresti. Forse è la febbre a farmi parlare, ma non voglio che tu vada via, sei l'unica ragazza per cui provi qualcosa di diverso dalla pura e volgare attrazione fisica, Milde*. Non so perché continuo a scriverti queste lettere, perché ti sogno tanto spesso, ma sono sicuro di una cosa: ho bisogno della tua presenza in modo costante, al mio fianco. Non posso accettare che un giorno tu possa sparire dalla mia vita per sempre, farò di tutto perché questo non accada, farò di tutto per difenderti, perché proteggere te è come proteggere me stesso, dal quando dipendo da te.
Ho una folle paura che sia già troppo tardi, che quando tornerò a casa -sempre che io riesca a tornare a casa dopo questa guerra, mi sembra ovvio- tu non possa esserci già più. E allora sarà niente la febbre, il gelo dell'inverno tedesco, la ferita al braccio sinistro. Credo che potrebbe definitivamente andarsene un pezzo di me. Tu non hai idea di quanto vali, Beatrishka, non hai idea di quanto vali per me; proprio per questi motivi ho appena deciso che se anche riuscissi a tornare non leggerai mai questa lettera. Sto rinunciando alle ore di sonno per una lettera alla persona credo più importante della mia vita che non la riceverà mai, sembra una cosa stupida, ma per me non lo è, serve a me: serve per chiarirmi con me stesso, perché dopo tutto quello che è successo non avrei assolutamente idea di cosa fare, se non fingere che tu sia qui, fingere di parlarti, quando alla fine sto parlando da solo, sono solo. Le persone che sono nella mia stessa tenda stanno dormendo beatamente, ma io non ci riesco.
Vuoi sapere la verità su una cosa, Bea? L'ultimo giorno che sono stato lì avrei voluto davvero baciarti, avrei fatto di tutto per portare a compimento quell'atto, ma avevo paura, una dannata paura di essere rifiutato, perché avresti avuto tutti i motivi per rifiutarmi, Beatrisa Gurtsieva. Sei la ragazza più bella che abbia mai visto, anche quando sei ricoperta di lividi e graffi, emani una luce ed una orza che credo di non aver mai visto in nessuna persona al mondo, nemmeno in mia madre. Vorrei tanto poter passare tutta la mia vita con te, Bea, ma non posso; magari in un'altra vita, se fossimo due persone diverse, sarebbe una cosa accettabile. Forse se fossimo semplicemente noi, ma in un'altra epoca, ti avrei addirittura chiesto di provare a frequentarci. Avverto il bisogno della tua presenza, ma mi trovo costretto a lasciarti andare, ad accettare che forse un giorno verrai uccisa per mano mia. Dammi la forza di scappare da questo incubo, perché non ne posso più.
Non ho scelte a disposizione, ho esaurito le mie possibilità.
Sebbene non capisca esattamente cosa in questo momento stia provando per te, sappi che è grandissimo,

Mark Schreiber



Leningrado, Unione Sovietica.
17 Gennaio 1944
9:48

Ho un po' di tempo per scriverti, mia dolce Bea,
Sono bloccato in una brandina, una ferita alla gamba. E' ufficiale: odio il paese che ti ha messa al mondo, ragazzina. Non riesco più a credere nella guerra, ma credo anche che nessun russo possa spararmi addosso e colpirmi senza venire ucciso subito dopo. Ovviamente, non sono riuscito a farlo fuori, ma avrei potuto farlo, e mi rifarò appena sarò nuovamente in grado di correre: le infermiere dicono che ci vorrà del tempo, è una bella ferita, ma aspetterò.
Ad ogni modo, credo che morirò molto prima di guarire: ogni tanto viene qualcuno a parlarmi, qualche soldato che riesce ancora a farcela; i soldati tedeschi sono davvero in grossa inferiorità numerica, e i russi sembrano sempre più carichi, quasi stessero per vincere, e i nostri sono stanchi: io sono qui da poco, ma loro da anni, Bea, vogliono tornare dalle loro famiglie, vedono compagni morire e cadere molto più velocemente di quanto facciano i nostri avversari; e davvero la fine, hanno vinto. Hitler è un illuso a voler ancora cercare di annientare Stalin, non adesso: credo che l'Unione Sovietica sia un paese molto patriottico, mi piacerebbe visitarlo qualche volta, magari in circostanze diverse. Scommetto che ci sono un sacco di cose interessanti da vedere, non mi hai mai raccontato dove passavi le giornate qui, beh, immagino che sia perché non ho mai avuto il tatto di chiedertelo.
Ho davvero voglia di dormire, adesso, ma non potrei nemmeno se non ti stessi scrivendo: mi danno poca morfina e il dolore alla gamba è lancinante, nemmeno il braccio è messo tanto meglio. Le infermiere tedesche che arrivano dalla Germania sono brave, ma non portano molto con loro, nemmeno l'esperienza, per lo più sono giovani ragazze che hanno lasciato l'amore della loro vita in divisa, che partiva per il fronte qui, a Leningrado; arrivano qui e sperano di rivederlo, di incontrarlo, ma ormai i ragazzi in cui lo avevano riconosciuto sono morti. I russi invece hanno gli infermieri americani a loro completa disposizione.
Non mi piace combattere qui, ma mi piace ancor meno dover rimanere fermo in condizioni pietose, quando farei di tutto per un'oretta di sonno tranquillo. Riesco a sentire le urla, un qualche brandina non troppo distante, starà morendo qualcuno, capita spesso, ultimamente. Le urla dei moribondi e di quelli che necessitano di un'operazione riempiono le mie orecchie. Morire in fretta non sarebbe una cattiva idea, in effetti.
Non ho più paura, ormai. Prima ne avevo, credo di avertelo già scritto, di recente è sempre più difficile tenere a mente queste cose. Come ti dicevo, non ho più paura, quando vedi accadere le cose peggiori, riesci a non averne più, riesci a credere che se deve capitare anche a te capiterà e non puoi farci assolutamente niente: per quanto tu combatta, per quanto tu possa tentare di mettere in salva la tua vita e quella dei tuoi compagni, non potevi lottare contro il destino, è un avversario troppo forte.
Ormai scriverti è l'unica cosa che mi fa andare avanti: mi illudo che un giorno riuscirò a rivederti, magari potremmo andarcene in Canada. Canada, sì. E' un bel posto, almeno così dicono: ho fatto qualche ricerca; si parla francese e inglese; pensavo al Québec: ho studiato francese e non avrei problemi a parlarlo adesso. Sai, mia madre adorava il francese, me lo ripeteva sempre, quando ero piccolo; forse perché sua nonna era francese, non me lo spiegò mai bene, ma ero troppo piccolo, probabilmente anche se ci avesse provato non avrei capito assolutamente nulla.
Ci troveremmo bene a Montréal, Milde*, sarebbe divertente. Il Canada non è minimamente toccato dalla nostra guerra: per me, è un qualcosa che ci stiamo inventando perché i potenti giocano a battaglia navale e ci usano come pedine. Beh, io non mi sto per niente divertendo. Montréal è sicura, Bea! Nessuno cercherebbe di tenerti chiusa da qualche parte, e nessuno cercherebbe di uccidere me per aver tradito l'esercito tedesco. A nessuno importerebbe da dove veniamo, Beatrishka, ti rendi conto di quanto potrebbe essere bello?! Dopotutto non ci rimarrebbero altre soluzioni: se restiamo in Germania, tu morirai, se abbandono l'esercito, sarò io a morire. Non ne posso più di questa vita, Bea, e sono sicuro che non vada bene nemmeno a te, o mi sbaglio?
Forse non vuoi restare con me, e lo capirei benissimo, credimi, non ci sarebbe scelta più ovvia da parte tua, ma non mi hai respinto quella sera, prima che me ne andassi. Vorrei che scegliessi di rimanere con me, per sempre, ma sai meglio di me che sarà la cosa più difficile da realizzare. Se non mi vuoi, Bea, cercherò di farti fuggire dalla Germania: potresti andare via con Walter e la sua famiglia, il signor Hoffmann e un bravissimo medico e troverebbe facilmente lavoro ovunque, e tutta la famiglia non condivide le idee naziste. Sono certo che ti troveresti benissimo con loro, meglio di quanto possa trovarti con me, ad ogni modo. Gli Hoffmann ti adorerebbero, ne sono certo, e potresti tornare in Unione Sovietica quando vorresti.
Montréal è davvero un bel posto, spero che deciderai di rimanere con me, se mai riuscirò a tornare lì, da te.
Cercherò di dormire, adesso, voglio essere pronto per la mia morte.
Spero di rivederti, nonostante tutto,

Mark Schreiber


Weimar, Germania.
27 Gennaio 1944
18:21

Mark tossì piano, cercando di rigirarsi nel letto, tra le coperte completamente bianche, aveva la gola secca e stava morendo di sete, ma non riusciva ad aprire gli occhi. Il suo cervello non connetteva molto, ma doveva aver dormito. Chissà quant'era stato lungo quel sogno da permettergli di sognare tutta una guerra. Gli era sembrato tutto così reale che, mentre cercava di aprire gli occhi e di articolare la voce, credeva di essere ancora sul fronte, a combattere contro i russi, eppure sotto di sé avvertiva un materasso, non troppo morbido, ma era pur sempre qualcosa di tremendamente confortevole paragonato ai ricordi di quel orrendo sogno sulla guerra che aveva fatto. Le sue narici erano invase da uno strano odore di disinfettante, era terribile ed insopportabile.
<< Ehi, finalmente ti stai svegliando >>, era un mormorio come se quella voce tremendamente familiare cercasse di non svegliarlo, pur volendo farlo. Non riusciva a capire a chi appartenesse, ma gli pareva di non sentirlo da troppo tempo. Non riusciva a collegare ad essa nessun volto. Cercò ancora di aprire gli occhi, ma le palpebre erano pesanti: avrebbe tanto voluto dormire un altro po'. Sorrise, anche se tirare gli angoli delle labbra verso l'alto era uno sforzo tremendo: era Walter, era lì di fronte a lui ed era in piedi.
Walter Hoffmann si aprì un un enorme sorriso, appena vide il suo migliore amico aprire gli occhi, << Potevi prendertela comoda un altro po', mi hai fatto aspettare solo tre giorni, non preoccuparti >> lo prese allegramente in giro, con quel tono che utilizzava troppo spesso, e che a Mark sembrava essere mancato così tanto, come se non avesse l'onore di ascoltarlo da giorni e giorni, ma questo non era possibile.
Il caporale tentò di tirarsi a sedere, ma non vi riuscì: la gamba destra gli tirava in una maniera spaventosa, ed non muoveva troppo bene il braccio sinistri, gli faceva male come se vi avesse dormito sopra tutta la notte. << Tre giorni? >> chiese confuso, trovandosi costretto a appoggiare nuovamente il capo al cuscino, osservano l'amico seduto su una sedia accanto al suo letto. Si guardò intorno per un momento: era tutto bianco, il soffitto, le pareti: era su un lettino strano, e c'era un'altra fila di lettini strani, lo conosceva, quello: l'ospedale di Weimar, ci era già stato una volta, quando Walter si era rotto il braccio, a lui incidenti del genere capitavano, ma suo padre non aveva mai tempo di portarlo in ospedale, ci pensava il signor Hoffmann a casa sua. << Perché sono qui? >> chiese ancora, senza dare tempo al suo migliore amico di rispondere.
Il giovane dagli occhi azzurri sorrise, sembrava divertito e probabilmente lo era sul serio: Walter trovava sempre un modo di divertirsi, in praticamente tutte le situazioni possibili ed immaginabili, soprattutto quelle meno opportune; questa era una delle tante cose che non capiva del suo migliore amico, come il fatto che riuscisse a dormire ovunque. << Davvero non ti ricordi niente? Beh, in questo caso, congratulazioni, sergente >>, rispose, con sarcasmo, prendendo una medaglia dalla spalliera in ferro del letto d'ospedale dove era finito Mark e lanciandola sul petto di quest'ultimo.
<< Sergente? >>
<< Il ventidue gennaio le nostre truppe hanno iniziato a ritirarsi dalla Germania; tu sei stato portato un veicolo mobile perché ancora ferito gravemente ad una gambe. Beh, congratulazioni, durante quel viaggio -uno dei più sicuri per la ritirata- ti sei preso un'altra bella pallottola nella stessa gamba ed hai battuto la testa. Ti hanno ricoverato qui appena tornato in Germania >> spiegò, osservando il suo migliore amico con quegli occhi così chiari, quasi fieri ed orgogliosi di lui, sebbene non fosse un sostenitore della guerra. Neanche un po'.
Mark ascoltò tutto ad occhi chiusi, con la testa sprofondata nel comodo cuscino, quasi senza respirare, tanto da dare l'impressione a Walter che si fosse riaddormentato. << Quindi non ho sognato tutto quello che è successo >>, sospirò, parlando più con se stesso che con il ragazzo seduto accanto al suo letto. La prima cosa che gli venne in mente fu Bea: non era una bella notizia, se era stato via così tanto tempo potevano essere accadute cose orribili a quella ragazza. Aprì lentamente gli occhi, << Quindi adesso sono un sergente? >> chiese, cercando di essere allegro della cosa, nonostante non vedesse l'ora di tornare al campo di concentramento, per vedere lei.
Walter Hoffmann rise, << Sembra proprio di sì. Wow, hai fatto carriera in così poco tempo: Hitler sarebbe fiero di avere nazisti così pronti a rischiare per la Germania nell'SS >>, lo prese ancora in giro, ma non gli sfuggì la smorfia di fastidio che si era appena dipinta sul volto del ragazzo disteso sul letto: era un acuto osservatore, lui. << Cosa c'è che non va? >> chiese, poco dopo.
Il sergente scosse il capo in risposta. << Nulla, è solo che la guerra non è un'esperienza che vorrei ripetere: ho sbagliato a desiderare così ardentemente di andare a combattere per delle idee non mie >> rispose, abbassando lo sguardo. Non era solo quello: era qualcosa di più importante e più serio; era il totale sconvolgimento delle sue idee, dei suoi ideali, delle sue opinioni, ma non era ancora pronto a dirlo a qualcuno. Voleva solo vedere Bea.
Hoffmann annuì, << Finalmente l'hai capito >> scherzò ancora, osservando il suo migliore amico. << Come ti senti, la gamba fa molto male? >>, si preoccupava per lui, lo aveva sempre fatto e aveva buoni motivi: non c'era mai stato nessuno oltre lui che si preoccupasse per quel ragazzo dai così teneri occhi nocciola. Non poteva non volergli bene.
L'altro scrollò appena le spalle, << Mi da un po' fastidio, ma non è una cosa seria >> disse: forse cercava semplicemente di auto illudersi: se stava bene con la gamba voleva dire che poteva tornare presto a casa e quindi rivedere Bea, gli mancava sul serio, e soprattutto voleva sapere se era ancora viva e cosa gli avevano fatto. Ricordava come la trovava quando ancora non si prendeva cura di lei. << Dov'è mio padre? >> chiese, qualche minuto dopo. Non l'aveva visto, quando si era svegliato, e pensava che forse, forse sarebbe stato fiero di lui, vedendo la medaglia.
Il suo migliore amico scrollò appena le spalle, cercando un soggetto che lo imbarazzasse di meno da ammirare, << Beh, credo che sia molto impegnato al campo, sai com'è fatto: ci tiene al suo lavoro >> disse, cercando di distogliere dalla realtà almeno il suo migliore amico: non era il caso che in quelle condizioni pensasse che sì, forse suo padre non ci teneva a vederlo nemmeno quando non si svegliava per due giorni consecutivi, appena tornato dal fronte in Unione Sovietica.
Ovviamente il ragazzo non si era preparato una buona scusa e Mark non gli aveva creduto nemmeno un po': beh, era ovvio; suo padre non si era mai presentato per qualcosa che lo riguardasse, perché avrebbe dovuto fare un'eccezione, quella volta? Perché aveva fatto tutto quello in modo che un giorno fosse fiero di lui? Beh, tanto non serviva a molto. << Certo, Walter, grazie >> cercò di essere abbastanza convincente, ma sorrise davvero in modo sincero al suo migliore amico. << Sei andato a trovare lei? Sai come sta? >>, chiese ancora, cercando di portare il discorso sull'argomento che gli interessava di più.
Il ragazzo dagli occhi azzurri lo osservò, << Non l'ho mai vista, non mi permettevano di entrare quando tu non c'eri, dopotutto non potevo presentare nessuna scusa >> iniziò a dire, passandosi una mano tra i capelli biondi e sedendosi meglio su quella sedia scomoda tipica degli ospedali. << Però ho chiesto notizie a mio padre, di tanto in tanto: è viva, non è messa troppo bene ma è viva, presenta ferite profonde, ma lui può curarla solo quel tanto da permetterle di sopravvivere >> aggiunse, per non farlo spaventare troppo: aveva capito fin troppo bene quanto l'amico tenesse a quella ragazza, purtroppo.
Mark strinse i denti, cercando di resistere, eppure non riusciva a non pensare che quei bastardi avevano osato toccarla: li avrebbe uccisi uno ad uno molto volentieri, ma ne andava della vita di entrambi; doveva trovare il modo di andarsene da quell'ospedale il più presto possibile: ormai Bea non serviva più ai tedeschi per i loro piani contro Leningrado e c'erano davvero poche possibilità che non la uccidessero perché ormai priva di alcuno scopo, lì dentro. << Come sta la mia gamba? E' il caso che torni presto, mio padre sarà felice di vedere la medaglia ed il mio grado passato a sergente >> disse, cercando di alzarsi, ma senza alcun risultato.
Walter fece una leggera smorfia ed ignorò completamente la sua domanda: sapeva che il vero scopo non era mostrare la medaglia al suo padre, ma correre dalla deportata, e lui avrebbe sicuramente aiutato il suo migliore amico a realizzare questo desiderio, se gliene avesse parlato per bene, una volta tanto. Di solito era così bravo a far deviare il discorso su un altro argomento, ma questa volta era sicuro di ciò che diceva. << Quando sei arrivato all'ospedale avevi uno zaino con te ...>>
Il sergente spalancò gli occhi, d'un tratto preoccupato: c'era tutto ciò che aveva con sé durante la guerra, in quello zaino, non ci aveva minimamente pensato per tutto il tempo. << Walter, ti prego, dimmi che gli infermieri l'hanno tenuto con loro in attesa che mi riprendessi >> riuscì a dire, guardandolo supplicante, ancora preda di quell'espressione impaurita: se qualcuno avesse saputo ciò che provava per Bea, sarebbe stata ancora una volta la fine per entrambi.
Hoffmann scosse appena il capo, << No, però l'ho ottenuto io prima che potesse chiedere di mandarlo a tuo padre >> cercò di tranquillizzarlo il ragazzo, che capiva benissimo le sue paure. << L'ho aperto, ci ho scavato un po' dentro e... senti, lasciamo perdere la versione lunga delle mie "scuse" per aver invaso i tuoi spazi, ho letto quelle lettere >>, buttò giù, tutto d'un fiato: il figlio del medico non era mai stato bravo a prepararsi dei discorsi, lui adorava improvvisare e non sempre era una buona idea, ma si trattava del suo migliore amico, quindi tanto valeva tentare.
Il sergente aprì la bocca, per urlare, per aggredirlo, per accusarlo di essere stato un idiota, perché quelle erano le sue cose e lui non aveva nessun diritto di spiare nei suoi pensieri e nel suo cuore, ma fortunatamente un'infermiera entrò nella sala, salvando un'amicizia che durava da tutta una vita, avvicinandosi al letto di Mark, << Oh, si è svegliato. Come si sente? Sono qui per un'altra dose di morfina >> si annunciò la donna, mentre velocemente adempiva al suo compito.
Mark strinse i denti, << Sto bene >> sillabò, anche se avvertiva la gamba andargli a fuoco. Non sentiva troppo dolore al braccio, fortunatamente, ma nel complesso si considerava fortunato: era sopravvissuto.
Appena la donna andò via, Walter lo osservò. << Scusa >>
L'altro scosse il capo, << Non è questione di scuse, lo sai >> rispose, senza aggiungere troppe cose. Era sempre stato un tipo permaloso, ed il suo migliore amico lo sapeva, se la prendeva quasi per tutto, ed era difficile convincerlo a fare pace, ma quella era una cosa troppo seria, ed entrambi non volevano rinunciare. Schreiber dal canto suo sapeva però che nn avrebbe avuto alcun senso tenere il muso a Walter: ormai aveva letto quelle lettere, non si poteva tornare indietro nel tempo per impedirglielo, non aveva alcun senso fare l'offeso, non avrebbe cambiato niente, in quel momento, quindi fece in modo di incontrare gli occhi azzurri dell'amico con i propri. << Scuse accettate. Per questa volta>>
Hoffmann sorrise, felice di averla scampata, per una volta. << Adesso però devi essere sincero, Mark: cosa provi per lei? >>, era serio come non si era mai visto, quella era una importante: il ragazzo che ora giaceva nel letto non aveva mai dato segni di provare quei sentimenti per nessuna ragazza, era una novità assurda per chiunque lo conoscesse almeno un po'.
Schreiber si passò una mano tra i capelli. << Non lo so, Walter. Mi manca, quando non c'è, sento il bisogno di vederla, di sfiorarla, di baciarla... ho paura che le facciano del male, ma non posso averla. Devo metterla al sicuro, non posso fare altro, e già facendo questo rischio tantissimo >> sospirò il ragazzo, abbassando lo sguardo. << Non ho la minima idea di come aiutarla ad andarsene da questo posto, e non voglio che se ne vada >> aggiunse, afflitto.
I pensieri del suo migliore amico erano qualcosa di molto vicino al "dev'essere stata la morfina a farlo parlare, non si è mai aperto così tanto". Annuì, mentre lo ascoltava. << Credo che tu ne sia innamorato, ma è un sentimento insano, lo sai anche tu che non porterà a nulla di buono >> lo mise in guardia.
<< Fammi il piacere; l'amore è una cosa stupida >> sbottò Mark, anche se gli si dipinse un sorriso sul volto, che sapeva di dolcezza e tenerezza, al solo pensare che potesse provare amore per la ragazza russa. Ovviamente tentò di reprimere, di uccidere quel sorriso, ma vi riuscì solo in parte. Non vedeva l'ora di guarire e quindi tornare a casa da lei; perché lei lo faceva stare bene.


* Milde = Dolcezza, figurativo. (tedesco)


Mi stancherei, non crederei più a niente;
Ma poi c'è lei inaspettatamente
e certe volte non ci credo che è vera
tanto che non vedo l'ora che arrivi la sera
quando mi toglie i guantoni e mi cuce le ferite,
sorride ai problemi e dice che finché stiamo insieme
lei è felice;
e io finisco anche al tappeto, altroché,
 ma questa vita un po' la cambio
se quando torno ad aspettarmi trovo te,
io la mia casa la difendo
e si può credere alle favole anche se
fai a pugni con il mondo...
[A pugni con il mondo -Articolo 31]

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Capitolo 12
*** Capitolo 11. -Katjuša. ***


Ancora un altro abnorme ritardo, spero che ci abbiate fatto l'abitudine, ormai. xD
Pubblico subito il capitolo e torno a studiare, che ho intenzione di offrirmi per l'interrogazione di greco, tra un paio di giorni.
Spero vi piaccia. :3
Ahn, ovviamente se vi va di lasciare una recensione non mi offendo, anzi, mi farebbe molto piacere. Io continuerò a pubblicare anche se non lo farete, mi sembra ovvio. xD

Ringrazio le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
- Bbw87
- Fairness
- Mareike Tiaycia
- OlandeseVolante
- Nadine_Rose
- niacara07
- Norine
- Prusskj_Lazur
- ChyoChan
- la_regina
- Luc
- thegreenlady
- mau07
- NemesiS_
- Selena_
- Ipazia
- LadyGiulia
- sweetstar
Coloro che la hanno inserita tra le ricordate:
- fedecaccy
- Rayne
- ElleBi
- Dance
Coloro che la hanno inserita tra le preferite
- xxGiuls.
- kikka23
- elly04
- Karota
- Luna_LoveDark
- liz89
- Fairness
- Selena_
- lorenzablu
- orsetta
- Prusskij_Lazur
- Selena Marie
- Medea91h



Salviamoci la pelle.
-Katjuša.


Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
1 Febbraio 1944
19:20

Finalmente poteva lasciare quell'ospedale. Ne aveva avuto davvero abbastanza: Walter era sempre lì, accanto a lui, ma non gli dava tregua, non faceva altro che parlare di Bea e di chiedergli dei suoi sentimenti; Mark cercava di convincerlo; cercava di fargli credere che quando aveva scritto quelle lettere era semplicemente disperato e non in grado di ragionare normalmente con la propria testa, ma non era del tutto inutile. Il miglior amico del ragazzo era convinto di vedere amore nei suoi occhi, e a volte il sergente temeva che avesse ragione. Era tutto un enorme sbaglio. Qualunque cosa provasse per quella ragazza -a meno che non fosse odio, ovviamente- era un enorme sbaglio e non poteva permettersene: ne dipendeva la vita di entrambi.
Suo padre era andato a prenderlo, quella fredda sera di febbraio, anche se non sembrava troppo felice di vederlo. << Il dottore ha detto che dovrai stare a riposo per un po' >> tentò di iniziare una conversazione, mentre tornavano a casa.
Il più giovane annuì, << e dovrò usare delle stampelle. Lo so, lo so. Mi ha già parlato >> aggiunse alle parole del padre, passandosi velocemente una mano tra i capelli. Odiava immensamente il fatto che non si fosse fatto vedere da quando era tornato in Germania, presentandosi solo per riportarlo a casa. Certo, non avevano avuto un bel rapporto, dopo la morte della madre, ma si aspettava che almeno sarebbe stato felice di sapere che suo figlio fosse tornato dall'Unione Sovietica sano e salvo, sebbene i nazisti avessero perso, quella volta. Al sergente questi particolari non interessavano più, non gli interessava più la politica estera o tedesca. Si era scocciato di tutto, voleva solo tornare a casa e conoscere le reali condizioni di Beatrisa.
Hans Schreiber annuì con poco interesse, come a confermare le parole del figlio, che in realtà non valevano poi così tanto. << Sei stato promosso a sergente, bravo >> disse soltanto, riguardo la promozione del figlio. Non si mostrò fiero di lui, né cerco di esternare qualsiasi altro sentimento; era semplicemente freddo, come era sempre stato dalla morte della moglie.
Mark annuì, << Lo so >> confermò, non aiutando molto il padre nel fare conversazione. Non si aspettava di certo una festa di bentornato, né che gli dicesse che era fiero di lui, o che era felice che fosse tornato a casa con tutti gli arti al posto giusto, né gli era mai passato per la testa che avrebbe potuto abbracciarlo; ma almeno pensava che avrebbe sorriso, nel vederlo con una nuova medaglia e un nuovo ruolo, su quel letto d'ospedale. Non era morto e si era procurato quelle ferite come eroe della padre, sebbene per lui adesso non significasse molto.
Il padre annuì, continuando ad osservare la strada davanti a sé, << Ovviamente il tuo ruolo è cambiato. Adesso hai responsabilità e compiti maggiori >>
Il biondino si voltò di scatto a guardare il padre, con un'espressione esterrefatta stampata sul volto: non era possibile. Gli stava per caso dicendo che non avrebbe più dovuto -e potuto- portare la cena a Bea e avere così una scusa per passare del tempo con lei? Cercò di dimostrarsi poco sorpreso e soprattutto non infelice della cosa: non doveva esporsi, soprattutto con suo padre. << E cosa dovrei fare adesso? >> chiese, moderando il tono di voce, ma osservandolo con sospetto. Non era sicuro di voler conoscere la risposta alla sua domanda, era sicuro che la fortuna non l'avrebbe aiutato, quel giorno.
Il maggiore scrollò le spalle. << Non ne sono ancora sicuro; finché non ti riprendi potrai rimanere con me al campo, Hitler non vuole uomini non sani tra le sue file >> tagliò corto, e sembrava volesse chiudere definitivamente quel tentativo di dialogo appena avuto con il figlio.
Mark sorrise in modo sarcastico, abbandonandosi completamente contro il sediolino dell'autovettura. << Certo; e scommetto che ha fatto anche uno dei suoi bei discorsi su quanto sia dispiaciuto delle perdite umane e di tutti i feriti >>, ovviamente quella del ragazzo era una presa in giro rivolta a tutto ciò verso cui si era sempre indirizzato, spinto; vero tutto ciò che aveva sempre venerato come un fedele religioso.
Hans evidentemente non condivideva le opinioni del figlio, dato che si voltò in direzione di quest'ultimo solo per fulminarlo con lo sguardo. << Cosa stai dicendo del Führer, ragazzo? >>, sbottò, frenando improvvisamente e assottigliando lo sguardo. Non riusciva a pensare che proprio suo figlio, che aveva cresciuto con sani ideali nazisti, parlasse a quel modo. Nessun ragazzo tedesco aveva il minimo diritto di parlare a quel modo.
Il più giovane scosse appena il capo, ancora leggermente divertito. << Nulla >>, rispose, sebbene non fosse vero. Stava semplicemente cercando di distrarsi. Avrebbe tanto voluto chiedere al padre qualche informazioni in più su Bea, ma sapeva che non sarebbe stato affatto facile, avrebbe dovuto rivolgere le domande come se non gli interessasse davvero, come se fosse solo uno dei tanti argomenti di conversazione per far passare il tempo. Socchiuse gli occhi, pensando, o comunque sperando di addormentarsi. << Chi ha fatto il mio lavoro, mentre ero sul fronte? >> chiese in fine, usando un tono freddo, distaccato.
Il padre continuò a guidare, e scrollò appena le spalle alla domanda del figlio. << Un soldato semplice, dopotutto non era una cosa importante >>, fu la semplice risposta che tuttavia tranquillizzò moltissimo Mark: voleva dire che non avevano ancora pensato di ucciderla; ma ormai l'Unione Sovietica aveva vinto, che se ne facevano di lei? << Ovviamente per adesso non saresti in grado nemmeno di fare quello >>, aggiunse poco dopo Hans Schreiber, fulminando il figlio con lo sguardo, come se lo stesse rimproverando di essere tornato ferito.
Mark scosse appena il capo: << Bene, ne approfitterò per riposarmi >> cercò di tagliare quel discorso assurdo. Ne aveva abbastanza di stare ad ascoltare suo padre e tutte le sue pretese, ne aveva abbastanza di non sentirsi mai alla sua altezza, ne aveva abbastanza di quella guerra e di Hitler. Voleva solo tornare a quindici anni prima, quando sua madre era ancora viva e tutto andava per il meglio sotto ogni aspetto.
Rimasero in silenzio per tutti il resto del viaggio. Non ci furono tentativi di conversazione da parte di nessun altro. Quando arrivarono al campo di concentramento, Hans Schreiber lasciò fuori l'auto e aiutò il figlio con le stampelle, prima di mostrare piastrine e documenti vari agli ufficiali nazisti incaricati di controllare l'accesso al campo: svolgevano bene il loro lavoro, questo era sicuro: mai nessuno, senza permesso scritto o senza documenti, era riuscito ad entrare; a meno che non si fosse trattato di Hitler in persona, ma quello era completamente un altro discorso ed un'occasione rarissima.
<< Puoi andare nella tua stanza, ti farò portare la cena >> furono le uniche parole che il maggiore Schreiber rivolse al figlio.
Il sergente non disse nulla, iniziando a camminare verso gli alloggi dell'SS, aiutandosi con le stampelle. Più camminava, più si guardava intorno, più non riusciva a credere a tutto quello che aveva intorno: i deportati sembravano essersi moltiplicati, dovevano esserne arrivati troppi prima che il carico precedente fosse mandato ai forni crematori. Continuava a camminare e vedeva donne e uomini spaccarsi la schiena, al freddo di una Germania che aveva perso il lume della ragione. Era da circa un mese che le donne venivano mischiate agli uomini nel campo di lavoro di Buchenwald, forse era un nuovo modo per togliere completamente loro ogni sorta di individualismo. Cos'ha più a farle affermare di essere donna, uno scheletro con un pigiama a righe e senza capelli, che lavora vedendo davanti a sé solo il buio della morte?
Vide anche devi bambini. Aveva ucciso tante persone in Unione Sovietica e un po' di violenza non avrebbe dovuto traumatizzarlo, ma fu peggio: lo spaventò. Lo spaventò il fatto fosse proprio la razza a definirsi pura l'artefice di quello scempio. Si passò una mano tra i capelli, biondi, mentre rifletteva: non doveva essere giusto accettare una situazione simile, ma cosa avrebbe mai potuto farci? Disertare era un suicidio. Avrebbe solo voluto salvare Bea e, in un modo o nell'altro, ci sarebbe riuscito.
Strinse i denti, avvertendo una fitta alla gamba: l'effetto della morfina doveva essere completamente svanito per ridurlo in quel modo, ma aveva sopportato di peggio nemmeno un mese prima, adesso era determinato a rivedere quella ragazza, quella ragazza a cui aveva scritto delle lettere, che adesso erano custodite con attenzione nel suo zaino, quella ragazza di cui -a detta di Walter- era innamorato.
Il sergente Schreiber non aveva mai creduto nell'amore, non era come il suo migliore amico e non pensava che quel sentimento avrebbe mai potuto risolvere qualche problema, ma si ritrovò a chiedersi cosa provasse realmente per Bea. Non era solo un'amica, questo era inutile negarlo, ma cosa sarebbe mai potuta diventare? Non poteva immischiarsi in qualche sentimento o relazione strana con lei: se non fosse riuscito a farla scappare, sarebbe sicuramente morta, e non avrebbe sopportato di assistere alla morte di una persona per la quale aveva ammesso di provare qualcosa di immenso. Per questo motivo, Mark Schreiber si rifiutava di essere coinvolto in qualsiasi modo in una relazione con Bea Gurtsieva.
Entrò in quella casa, quella che non era casa sua, ma che gli aveva riservato troppe sorprese per non esservici in qualche modo legato. Sospirò, guardandosi intorno: il legno caldo del pavimento era invitante quasi quanto lo scoppiettio del caminetto acceso: avrebbe tanto voluto sedersi sul tappeto e assaporare il torpore del fuoco a meno di un metro dalla pelle gelata, ma voleva riposare. Salì le scale, senza troppa fretta e facendo attenzione a dove mettere le stampelle. Raggiunto il bagno, si spogliò e prese un asciugamano: la bagno d'acqua calda e iniziò a bagnarsi e lavarsi via i segni della guerra, stando attento a non inumidire troppo le bende sul braccio e sulla gamba.
Avrebbe voluto correre da Bea, e si ripromise che lo avrebbe fatto, quella notte stessa, quando nessuno avrebbe potuto notarlo; almeno per quella sera, finché suo padre non si fosse addormentato, doveva mostrare indifferenza verso quella che era solo una ragazzina russa, anche comunista.
Ad occhi chiusi, riportò alla mente la figura di lei: il viso pallido che esprimeva dolcezza, dalla pelle morbida e delicata; gli occhi grandi, di quel verde intenso che riusciva soltanto a fargli venire in mente una vasta distesa d'erba, baciata dal sole, contornati dalle ciglia lunghe; i boccoli lunghi che all'epoca le arrivavano a metà spalle, dovevano esserle cresciuti, doveva essere ancora più bella con quella massa di capelli corvini, lucidi e lunghissimi. Ricordò la figura piccola e delicata.
Si morse il labbro inferiore, scuotendo il capo: non poteva perdersi in pensieri simili e pretendere di mantenere il controllo quella notte, con lei. Pensare che fosse così vicina lo scaldava, sia all'interno che all'esterno, ed il fatto che fosse inverno la diceva lunga.


Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
2 Febbraio 1944
2:48

Era buio quando Mark si rigirò nel suo letto, incapace di prendere sonno. Controllò l'orario ancora due volte, prima di decidersi a raggiungerla, ormai non sentiva provenire più rumori dall'interno della casa, suo padre doveva aver compilato anche gli ultimi affari da ufficio. Scostò le coperte pesanti dal letto e si mise a sedere, stringendo i denti per il dolore alla gamba: i dottori si erano raccomandati almeno tre volte perché stesse a riposo, ma quella era un'occasione importante, non poteva permettersi di ascoltarli, non quel giorno.
Infilò un paio di pantaloni ed una giacca prima di iniziare ad incamminarsi lentamente e riuscì ad attraversare tutto il corridoio senza fare troppo rumore; non aveva mai pensato che quella casa di notte, senza nessun rumore, potesse essere capace di metterlo così in soggezione, forse dipendeva dal fatto che lì non era mai sentito propriamente a casa, stava davvero meglio a casa di Walter, anche se erano un paio d'anni che non rimaneva a dormire dal suo migliore amico. Con il tempo aveva scoperto che era divertente passare la notte con una ragazza, ma aveva rinunciato anche a quello da tempo, trovandolo tremendamente insignificante e vuoto.
Come se mancasse qualcosa.
Aprì la porta, lentamente, con la sua chiave: l'aveva nascosta in un cassetto della sua camera prima di partire: era la sua copia delle chiavi della camera designata a Bea, era l'unico modo che avesse di vederla. La stanza era buia, e i riflessi della luna quasi assenti quella notte: riusciva soltanto a vedere delle ombre, e i suoi occhi si stavano abituando al buio. Andando a tentoni, con le stampelle, si avvicinò a dove ricordava fosse il letto di Bea. Sorrise, nel riconoscere la familiare figura stesa sul letto. Aveva avuto ragione: i capelli le erano cresciuto fino alla fine della schiena. Tremava, nel sonno, probabilmente per il freddo.
Sorrise, avvertendo qualcosa muoversi, dentro di sé. Sentiva il calore irradiarsi naturalmente dal proprio corpo e non riusciva più a togliersi quel sorriso stupido dal viso. Si sedette accanto a quella che in fondo era soltanto una ragazzina. Le sfiorò leggermente il braccio, voleva svegliarla, voleva parlarle. Sentì dei brevi mugolii provenire dalla bocca della ragazza, prima che questa si voltasse, infreddolita, dall'altra parte del letto.
<< Beatrishka >> mormorò, passandole una mano tra i capelli, dolcemente, usando un tono che non utilizzava da quando era partito. Non ricordava di essersi mai rivolto così a nessuno al mondo, tranne che a quella ragazza, così unica e allo stesso tempo perfetta. Non avrebbe mai creduto che sarebbe successo proprio quello, ad una persona come lui.
Vide la ragazza alzare piano le palpebre, per poi riabbassarle subito dopo. Sembrava però che si stesse svegliando, infatti le riaprì poco dopo, cercando di tirarsi su a sedere su quel letto malandato. Vi riuscì solo con l'aiuto di Mark, che la tenne delicatamente per le spalle, aiutandola a sedersi.
Gli occhi di Bea lo osservarono a lungo e lui si aprì nel più grande sorriso che avesse mai fatto: avvertiva di nuovo, più forte, quella strana sensazione di pienezza all'altezza del petto. Si sentiva bene, come se non avesse bisogno di nient'altro al mondo; persino i problemi relativi a tutta la Germania e a loro due soltanto erano spariti dalla mente del sergente; non esisteva più qualcosa che dovesse essere chiamato problema, nella sua mente.
<< Ah. Sei tu >>, le parole della ragazza lo sorpresero, e non in senso positivo. Lo sorpresero tanto da fargli sparire un po' di quel bel sorriso che aveva messo su.
Le sfiorò una guancia con la mano, stranamente calda. Non riusciva a spiegarsene il motivo, qualche ora prima quelle stesse mani erano freddissime; forse stare in casa aveva aiutato a renderle di una temperatura più accettabile, o forse era semplicemente la presenza della ragazza a donare calore al suo corpo. << Sono tornato un po' di tempo fa, ma mi hanno tenuto in ospedale >> rispose, accarezzandole lentamente la pelle candida. Yelena doveva averlo ascoltato: Bea era pulita e profumata.
La vide ritrarre improvvisamente il volto, come disgustata da quel contatto, << Saresti potuto rimanere a combattere sul fronte, per quanto mi riguarda >> la voce era acida, e stranamente sembrava essersi ripresa subito dal sonno in cui l'aveva trovata Mark.
Stavolta l'espressione del ragazzo s spense del tutto, trasformandosi in un immenso punto interrogativo, anche abbastanza deluso. Il pensiero di lei era stata l'unica cosa a riuscire a tenerlo in vita tanto a lungo da farlo tornare a casa, non si sarebbe mai aspettato una risposta simile. << Che dici? La battaglia a Leningrado è finita: i russi hanno vinto >>, le annunciò, credendo che la vittoria della sua patria sarebbe riuscita a rallegrarla almeno un po'.
<< Grazie per avermi avvertita, ma stavo dormendo >>, Mark non aveva mai visto il lato forte di Bea, ma era sicura che lo fosse, stava solo aspettando che quella parte di lei salisse a galla, ma adesso che era successo non sapeva se esserne felice o meno. Soprattutto se si comportava così con lui, che le era sempre stato vicino.
Il biondo la osservò per qualche istante, prima che lei voltasse il capo per non incontrare gli occhi di lui. << Vuoi che vada via? >> le chiese cautamente. Ovviamente non aveva alcuna intenzione di farlo, ma aveva bisogno di sentire una risposta a quella domanda. Aveva sopportato ferite e dolore per lei; aveva ucciso delle persone per tornare da lei, non aveva alcuna intenzione di andarsene, quando era finalmente riuscito a tornare a casa quasi completamente intero. Quella non era la sua casa, lo sapeva bene, ma ormai lei era diventata la sua casa. Era il suo rifugio, il suo posto sicuro, la sua fonte di calore e protezione; e una casa non era forse questo?
<< Sì >>, non si voltò a guardarlo, pronuncio solo quella risposta monosillabica.
Mark la guardò, parecchio stranito, prima di poggiarle una mano sul mento, costringendola a guardarlo, << E saresti anche così gentile da spiegarmene il motivo? >> quasi sbuffò, ma si trattenne. Non voleva mostrare la sua indole da ragazzino cocciuto proprio a lei, proprio in quel momento.
Bea abbassò lo sguardo, non reggendo quei occhi nocciola, così intensi, colmi di dolore e di qualcos'altro a cui non era ancora riuscita a dare un nome. << Perché sei esattamente come loro >>, disse la verità. Non era così forte come voleva far credere, ma per lei sarebbe stato importante dimostrare il contrario.
Il sergente Schreiber la osservò, e stavolta sbuffò davvero, arrabbiato. Si alzò dal letto, iniziando a camminare per la stanza, << E cosa ti spinge a credere che sia come loro, eh? Mi pare di aver imparato abbastanza, dopo quella volta >> non stava urlando, ma ci era molto vicino, si tratteneva solo perché era notte fonda e in quella casa dormivano tutti. Quell'incontro era segreto e doveva rimanere tale, se non voleva altri problemi, oltre a quelli già innumerevoli che erano improvvisamente tornati a fare bella mostra di sé nella sua mente. << ... mi pare di averti sempre rispettata e trattata come un essere umano; non ti ho mai obbligata a far nulla, né preteso da te niente. Non ti ho mai insultata, né picchiata, non ti ho mai detto che sei una sporca comunista come avrebbe fatto qualsiasi altro soldato in questo posto >>, buttava fuori tutto come se fosse necessario farlo, senza riuscire più a fermarsi, colmo di rabbia. Parlava velocemente e con gli occhi accesi da un sentimento che conosceva bene: il dolore, la sensazione di essere stato rifiutato, ancora una volta, da una persona in cui credeva, e soprattutto, tra tutte quelle emozioni, l'ira la faceva da sovrana. << Non ti ho mai trattata come se fossi quello che sei... >> continuò, ovviamente tralasciando la prima violenza sessuale, per cui credeva di essersi già scusato abbastanza in precedenza.
Si fermò solo quando la sentì singhiozzare, alle sue spalle. Sorpreso, si volto verso di lei e la osservò, tremante e in preda alle lacrime. << Mi hai abbandonata >>, la risposta lo scosse completamente, facendo sparire tutta la rabbia che lo aveva tormentato nei minuti precedenti.
Colpevole, Mark si avvicinò a Beatrisa, accucciandosi nuovamente sul letto, accanto a lei. Aveva provato talmente tante emozioni in così poco tempo che era arrivato a comprendere solo in quel momento il motivo per il quale non lo volesse attorno. Avvolse quel corpicino fragile e scosso dai singhiozzi tra le sue grandi braccia, sentendola poco dopo sistemarsi meglio, contro il suo petto. Lui non riusciva a dire niente, come se le sue corde vocali si fossero divertite ad annodarsi, creandogli anche un forte fastidio alla gola. La sentiva stringersi a lui, aggrapparsi alla camicia che usava per dormire e le lacrime di lei che la bagnavano. Era incapace di fare qualcosa oltre che darle piccoli baci sui capelli e stringerla ancora di più tra le braccia. << Non volevo abbandonarti >> disse, in fine.
Aveva capito perfettamente cosa era successo: quando lui se n'era andato, lei si era ritrovata completamente sola, senza nessuno su cui fare affidamento, senza nessuno da poter considerare vicino a lei come lui stesso era stato. Era una cosa complicata da spiegare, ma mentre lui si era fatto forza e aveva tirato avanti solo per tornare da lei, lei non ci era riuscita; si era sentita come se fosse già morto e l'avesse abbandonata al suo destino, un destino che non la voleva viva.
<< Ho aspettato tanto per rivederti, Beatrishka >> le sussurrò ancora all'orecchio, stringendola a sé. Non riusciva a credere di starsi finalmente aprendo alla ragazza, ma doveva farlo: non riusciva a vederla in quello stato, soprattutto se c'era anche solo un minimo di ragione di pensare che fosse stata colpa sua. << Non ho mai smesso di pensarti >>, il fiato caldo del ragazzo solleticava la pelle gelida di lei, che aveva iniziato a calmarsi, limitandosi a leggere e silenziose lacrime che scivolavano veloci dalla guance sino al lenzuolo leggero che era poggiato sul materasso in maniera disordinata.
Le baciò il capo, dolcemente, prima di scostarsi quel tanto che bastava da permettergli di vedere quegli occhi verdi, sebbene al buio della stanza, << Scusami >> mormorò, prendendole il volto tra le mani. << Ti prometto che non ti lascerò mai più da sola. Mi prenderò cura di te, sei l'unica cosa che m'interessi >> ammise, sincero come non lo era mai stato; i suoi occhi potevano testimoniarlo: non c'era ombra di dubbio, non erano menzogne, e non erano scuse campate in aria, lo sentiva sul serio.
Quando si fu calmata del tutto, Bea di scostò, guardandolo negli occhi, << Mi sei mancato >> ammise, sebbene avesse qualche difficoltà a parlare correttamente, dovuta al fatto di aver appena finito di piangere.
Mark le sorrise, con dolcezza estrema, prendendo una ciocca di capelli tra le dita ed indiziando a giocarvi. << Come ti senti, adesso?>> le chiese, prima di invitarla con un cenno del capo ad accomodarsi nuovamente tra le sue braccia.
Bea lo ascoltò, lasciando che si stendesse, prima di raggomitolarsi contro il petto di lui. << Meglio grazie >>, rispose, osservando il soffitto, mentre poteva bearsi del respiro regolare dl ragazzo, e del suo petto che si alzava ed abbassava seguendo un ritmo preciso. << Tu come stai? Com'è andata? >>, chiese a sua volta, allungando una mano sul materasso, cercando quella di lui.
La mano di lui raggiunse in fretta quella della mora, intrecciando le dita a quelle sottili e fredde di lei. << Sto bene, abbiamo dovuto combattere molto, anche se per un periodo non l'ho fatto: mi hanno ferito alla gamba ed al braccio, ma alla fine l'Armata Rossa ha vinto. Questa volta >> sintetizzò gli avvenimenti: non aveva voglia di parlare con le della guerra che aveva appena vissuto, non era importante. Una cosa importante sarebbero potute essere le lettere, ma non aveva voglia di parlarle nemmeno di quelle: stava già benissimo in quel momento, non c'era alcuna ragione di crearsi dei problemi che non volevano presentarsi.
La russa si voltò velocemente, lanciandogli uno sguardo preoccupato, << E adesso come sta? >>, chiese, subito, con un tono che fece sorridere Mark.
<< Cammino con le stampelle e dovrei rimanere un po' a riposo, ma sto comunque molto meglio >>, rispose, allungando la mano che non era intrecciata a quella di lei per accarezzare e giocare con alcune ciocche scure dei capelli della ragazza, che sembrò tranquillizzarsi alle sue parole.
Annuì, << Quindi Leningrado ha vinto? >> chiese ancora, curiosa.
<< Sì, esatto >>, Mark aveva forse intuito dove intendesse arrivare e sebbene non sperasse di affrontare quell'argomento subito, ne avrebbero dovuto parlare, prima o poi.
Bea annuì, << Quindi mi uccideranno? >>
L'altro sospirò, senza sapere esattamente cosa risponderle: anche lui aveva gli stessi dubbi, ma non sapeva con chi parlarne, tranne che con Walter, e non era che lui se ne intendesse molto di questioni politico-militari. << Non lo so, Milde, per ora vogliono che tu rimanga in vita >>, rispose soltanto, anche se non conosceva nemmeno lui il motivo. Continuò a giocare con i suoi capelli per alcuni minuti, stringendosela al petto di tanto in tanto.
Contemplavano entrambi il soffitto di legno della camera, che probabilmente era privo di alcun significato, ma erano troppo impegnati a tratte piacere dalla rispettiva vicinanza per rendersene conto. Passarono alcuni minuti, prima che il tedesco potesse nuovamente sentire la voce dolce e melodiosa della ragazza russa intonare una canzone: << Poplyli tumany nad rekoj / Vychodila na bereg Katjuša / Na vysokij bereg, na krutoj** >>
Mark non capì tutte le parole della canzone -a dire il vero non riuscì a tradurne nessuna- ma adorò sentire il suono della voce della ragazza, sebbene stesse canticchiando a bassa voce, essendo notte, << Cos'è? >> chiese, interessato, smettendo per un attimo di giocare con gli splendidi capelli di lei.
La ragazza sorrise, arrossendo appena, << Una canzone russa >>
<< Di cosa parla? >>
<< Una ragazza, Katjuša, che soffre per la lontananza del suo amato, via per il servizio militare >>, rispose lei, semplicemente.
Il sergente Schreiber la osservò, incantato, << Continua a cantare, dev'essere bellissima >> mormorò.
<< Vychodila, pesnju zavodila / Pro stepnogo, sizogo orla / Pro tovo, kotorogo ljubila / Pro tovo, c'i pis'ma beregla / Oj, ty pesnja, pesenka devic'ja / Ty leti za jasnym soncem vsled / I bojcu na dal'nem pogranic'e / Ot Katjuši peredaj privet / Pust' on vspomnit devušku prostuju / Pust' uslyšit, kak ona poët / Pust' on zemlju berežët rodnuju / A ljubov' Katjuša sberežët*** >>


Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
5 Febbraio 1944
17:35

<< Forse dovresti darle quelle lettere >>, gli suggerì Walter, rimanendo seduto sulla sedia, a sfogliare con poca attenzione un libro trovato sulla scrivania di Mark. In realtà non gli interessava nemmeno molto, ma odiava dover rimanere fermo senza far nulla.
Mark sbuffò, alzandosi le coperte fino a coprirsi anche il volto, << Si può sapere chi ti ha fatto entrare, eh, Walter?! >> sbottò, irritato. Non poteva alzarsi e andarsene solo perché la gama gli arrecava troppo dolore, ma l'avrebbe fatto molto volentieri. Sentire il suo migliore amico ripetersi le stesse cose almeno cinque volte di seguito non era esattamente il massimo, nemmeno per un soldato addestrato a morire per la propria patria.
Il ragazzo dagli occhi azzurri sorrise, divertito dalle reazioni dell'altro. << Mio padre >> rispose, con sarcasmo. << e comunque non è colpa mia: sei innamorato, sarebbe evidente anche ad un cieco >>, gli fece notare ancora; non avevano ancora capito se quel sentimento sarebbe stato un male o un bene: era felicissimo che l'amico l'avesse finalmente conosciuto, ma lo provava per una ragazza impossibile da avere, non perché Beatrisa Gurtsieva non volesse ipoteticamente appartenere a Mark Schreiber, ma perché era decisamente sbagliato da parte di entrambi.
L'altro sbuffò, cercando di coprirsi le orecchie con un cuscino, << Sembriamo due ragazze di dodici anni che si confidano una cotta >>, sbuffò, irritato. << Perché non mi racconti qualcosa di tuo, invece? Sono stanco di parlarne di me e Bea >>, aggiunse, subito dopo.
Walter Hoffmann abbassò il capo, senza più riuscire a guardare negli occhi l'amico. Nonostante il gesto, Mark riuscì a vedere le gote dell'altro tingersi di un rossore tenue. << Non ho niente da raccontarti >>, mentì. Era qualcosa di cui non poteva assolutamente parlare con lui, o con qualsiasi altro ragazzo o persona.
Mark abbassò appena le coperte per guardarlo, accigliato, << Cosa è successo? >>, era abbastanza infastidito che non gliene avesse parlato subito. Di solito tra migliori amici si parlava di tutto, anche delle cose che non si sopportavano, o almeno loro avevano sempre fatto così, sin da bambini.
Walter scrollò appena le spalle, << Davvero, non è importante, solo che non ho voglia di parlarne >>
Ma il sergente Schreiber lo conosceva da troppo tempo per farsi ingannare da quelle bugie; solo che Walter era sempre stato spontaneo, un po' timido, certo, ma non con lui, non aveva mai esitato a raccontargli niente, che fossero sogni o paura, come mai non voleva farlo quel pomeriggio? Doveva essere sul serio una cosa grossa. Il biondo si tirò lentamente a sedere, in modo da poterlo guardare bene, << Sei sicuro di non volerne parlare? >>, almeno aveva ammesso di avere qualcosa, era già un passo importante, e Mark era sicuro che quando l'altro fosse stato pronto a rivelargli cosa mai potesse essergli capitato, sarebbe venuto da solo.
L'altro annuì, convinto. << Ne sono sicuro, Mark, grazie >> disse, prima di alzarsi dalla sedia dov'era ed iniziare a fare avanti e indietro per la stanza. Adesso doveva solo trovare un modo per risolvere la situazione -alquanto disastrosa- per Mark e Beatrisa.
<< Mi fai venire il mal di testa, Walter >>


* Milde = Dolcezza, figurativo. (tedesco)
** La nebbia scivolava lungo il fiume / Sulla sponda camminava Katjusha / Sull'alta, ripida sponda (Katjuša - Matvei Blanter & Michail Isakovskij, 1938)
*** Camminava e cantava una canzone / Di un'aquila grigia della steppa / Di colui che lei amava / Di colui le cui lettere conservava con cura / O canzone, canzone di una ragazza / Vola seguendo il sole luminoso / E al soldato sulla frontiera lontana / Porta i saluti di Katjusha / Fagli ricordare una semplice giovane ragazza / Fagli sentirla cantare / Possa lui proteggere la terra natia / Come Katjusha protegge il loro amore (Katjuša - Matvei Blanter & Michail Isakovskij, 1938)

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Capitolo 13
*** Capitolo 12. -Segreti. ***


Buon capodanno!
Mi avrebbe fatto tanto piacere donarvi questo capitolo come regalo per le feste, ma non si può considerare proprio un regalo, dato che sono due mesi che non aggiorno. Lo so, sono tanto pentita, perdonatemi!
Purtroppo negli ultimi due mesi ho avuto un blocco totale che sono riuscita a superare solo negli ultimi giorno e quindi mi sono subito rimessa a scrivere. Ho in programma di scrivere adesso futuri capitoli, in modo da non annoiarvi più con inutili attese. Ancora non so con quante parole chiedervi infinitamente scusa, per farmi perdonare questo è il capitolo più lungo della storia e accadono molte cose belle!
Ringrazio tutti quelli che hanno inserito la storia tra le preferite, le seguite, le ricordate o che hanno avuto solo il tempo di leggerla. Spero di ricevere presto vostri pareri e consigli.
Se mi è consentito dedico questo capitolo alla mia Ecchan, che lo aspettava con ansia. <3
Schizophrenia.



Salviamoci la pelle



Salviamoci la pelle.


-Segreti.


Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
7 Febbraio 1944
18:30

<< Tra qualche giorno è il tuo compleanno >>, una settimana esatta, e Walter sembrava molto più eccitato del festeggiato stesso. Adorava la feste, e il Natale era la sua preferita, ma era sempre stato compito suo organizzare il compleanno del migliore amico, e non sarebbe stato differente per il giorno del suo ventunesimo compleanno, era comunque una data importante, no? Dopo tutto quello che era successo, poi, forse un giorno libero ci voleva.
Mark scosse il capo, << Non è vero, ti stai sbagliando >>, rispose, con ironica, tirandosi a sedere sul letto. Odiava le feste di compleanno, certo quelle organizzate da Walter erano più che accettabili, ma ne aveva davvero abbastanza. Voleva solo rimanere a casa a mangiare qualcosa con il suo migliore amico, senza regali o fidanzate momentanee. Voleva soltanto mollare tutto per un paio di giorni e dimenticare di dover compiere gli anni, di ricevere auguri da colleghi di suo padre e da parenti di cui nemmeno ricordava l'esistenza. Voleva stare da solo con Walter.
<< Devo ancora rivolgermi a tuo padre per la lista degli invitati? Hai quasi ventuno anni e sei un sergente >>, protestò, con un adorabile broncio stampato sul viso. Si poteva dire che ormai conoscesse molto più lui tutte le zie del suo migliore amico che il ragazzo stesso, ma capitava quando il festeggiato non si degnava di lasciargli una lista di invitati nemmeno per il giorno del suo compleanno.
Il biondo sbuffò, riservandogli un'occhiata poco convinta. << Potremmo non fare nulla, quest'anno. Se non glielo ricordassi ogni anno, anche per mio padre sarebbe soltanto un giorno come un altro. Non dovrebbe nemmeno lasciare il suo amato lavoro per correre a comprarmi un regalo inutile che finirà in un angolo della stanza >>; quei regali non riuscivano a riempire il vuoto creato dall'affetto mancato durante la sua infanzia. Inoltre erano molto più belli quando era sua madre a sceglierli, o forse era soltanto lui ad essere molto più piccolo e ad adorare anche il più piccolo pensiero quando c'erano i suoi genitori a casa?
Walter scosse il capo, per niente d'accordo con le intenzioni del suo amico, << Mi trattengo dal proclamare il 14 febbraio festa nazionale solo perché il giorno è già occupato dal San Valentino >> protestò, senza togliersi quel broncio dalla faccia.
<< Ah, già, San Valentino >> fu il mormorio di risposta di Schreiber. La festa degli innamorati, perché qualcuno aveva bisogno di festeggiare una stupida festa che celebrava l'amore di due persone? Non bastava dimostrarselo ogni giorno o cercare di essere dolci giorno dopo giorno l'uno con l'altro? Il sergente proprio non riusciva a capire a cosa servisse quel giorno. Eppure non se n'era mai fatto un problema: quella festa era solito ignorarla tutti gli anni, festeggiare il suo compleanno e spesso non se ne ricordava nemmeno.
Walter gli rivolse lo sguardo, << Cos'ha di strano San Valentino? >> chiese, esaminando per bene il suo migliore amico, al quale non era mai importato assolutamente nulla della festa.
<< Nulla, Hoffmann, è una festa senz... >> si bloccò nell'osservare l'espressione sbalordita del suo migliore amico. Aveva gli occhi spalancati e si era fermato, con le mani ancora nelle tasche dei pantaloni. Lo fissava come se avesse un polipo sulla testa, e la cosa non era da tutti i giorni visto che il ragazzo dagli occhi azzurri era solito prevedere quasi tutto ciò che lo riguardasse. Allora riusciva ancora a stupirlo, qualche volte. << Cosa c'è? >>
<< Porca puttana. >> furono le uniche parole che uscirò dalla bocca di Hoffmann. Walter non imprecava. Mai.
<< Walter, cos'hai? >>, stavolta era Mark quello sbalordito, ed anche un tantino preoccupato per la salute mentale del suo migliore amico. Non diceva sempre paroline dolci con l'aria di un bambino innocente, questo era più che ovvio, ma non ricordava di aver mai sentito quei termini provenire da quelle labbra piene.
La successiva risata di Hoffmann sconvolse ancora di più il sergente: era un comportamento da pazzi, e di certo il ragazzo non si era mai vantato di essere una persona normale, ma il comportamento del suo migliore amico in quelle poche ore lo stava davvero facendo uscire fuori di testa. << Non ci credo >> sillabò il ragazzo dagli occhi azzurri, non riuscendo apparentemente a smettere di ridere nemmeno per pochi secondi.
Schreiber sbuffò, inarcando un sopracciglio. Odiava che non lo si informasse di qualcosa, per quanto stupida potesse essere. << Ti dispiacerebbe smettere di ridere per due minuti e spiegare anche a me cosa c'è di divertente nel San Valentino? >>; niente. Era una stupida festa per persone stupide ed innamorate.
L'amico si calmò solo alcuni minuti dopo: aveva le guance arrossate e gli occhi lucidi. Era quasi arrivato sul punto di piangere per le troppe risa, ma fortunatamente si era trattenuto. << Mark Schreiber è innamorato >> sillabò, per spiegare la sua ilarità. << E' cosa più divertente che abbia mai capito essere vera >>, aggiunse poco dopo, ed era vero. Non che non fosse felice per il suo amico o pensasse che la relazione con Bea fosse d'un tratto diventata più semplice da sostenere, semplicemente non l'aveva mai visto darsi tante pene per un sentimento, un sentimento che non aveva ancora nemmeno concepito di provare, tra le altre cose.
<< Io non sono innamorato >> tentò, distogliendo però lo sguardo dall'amico. Era un riflesso involontario: non riusciva a guardarlo negli occhi quando mentiva, anche se non sapeva di star mentendo. Cioè che credeva gli stesse accadendo era già qualcosa di incredibilmente strano; nutrire un sentimento forte quasi -o più, ma cercava di non valutare nemmeno questa possibilità che avrebbe solo confermato quanto in realtà soffrisse di problemi mentali- quanto ciò che provava per Walter nei confronti di una ragazza che sì, era sua amica, ma da quanto? Da quando si era accorto che no, non era solo un'amica?
Hoffmann scosse energicamente la testa, più che convinto delle sue teorie. << Sì che lo sai, e non cercare di ingannarmi, ti conosco meglio di chiunque altro >> bloccò ogni suo tentativo di fuga. Dopotutto se avesse cercato ancora di rifilargli una bugia tanto banale e priva di significato l'avrebbe sicuramente capito.
<< Non ti sto mentendo, Walter, e poi non so nemmeno di chi dovrei essere innamorato >>, d'accordo, questa forse era una bugia, ma solo perché voleva allontanare maggiormente i sospetti, per quanto potesse essere difficile. Non voleva nemmeno pensare che un ragazzo come lui avrebbe potuto buttarsi in una missione suicida simile: sergente dell'SS e innamorarsi di una deportata russa -pure comunista!-. No, non riusciva neanche a concepire che una cosa simile fosse possibile; non per lui.
Walter scosse appena il capo, contrariato, << Dii una ragazzina alta un metro e uno spunto, con fluent capelli neri ed occhi verdi. Ti ricorda per caso qualcuno? >> lo prese amabilmente in giro, << Ah, inoltre è russa ed una comunista; sto sbagliando, forse? >>, aggiunse qualche istante dopo, convinto più che mai delle sue stesse teorie, doveva anche farlo capire all'altro, però.
Mark Schreiber sbuffò sonoramente a quelle precisazioni dell'amico, << Non sono innamorato di Bea Gurtsieva, è semplicemente una deportata che è mia amica >> tentò di ribattere, per l'ennesima volta. Non voleva discuterne, forse perché in quel momento sentir parlare di Bea riusciva a farlo sussultare, o a farlo sentire realmente in difetto per l'imminente festa di San Valentino. Loro non erano semplici amici, questo ormai per il sergente era chiaro e impossibile da smentire, ma cos'erano allora? Non erano fidanzati, lui non riusciva nemmeno a concepire il pensiero di essersi preso una stupida cotta, né avrebbero francamente avuto l'opportunità di passare del tempo insieme. No, non era innamorato. Anche se... no, non poteva nemmeno pensarci. Cercò di concentrare nuovamente l'attenzione sul ragazzo dai limpidi occhi azzurri che gli stava di fronte, << Dopotutto sei stato proprio tu a consigliarmi di non ascoltare sempre mio padre, di credere che potesse essere altro oltre che una sporca comunista >>, voleva ancora avere ragione su quella discussione così importante.
Il suo migliore amico aveva però letto i numerosi dubbi negli occhi di lui; era una chance per fargli capire quanto stesse sbagliando a rifiutare i propri sentimenti che Walter non poteva proprio lasciarsi scappare. << Allora cosa siete, eh? Rischi la vita per un'amica che non conosci da nemmeno così tanto tempo? Scrivi certe lettere ad un'amica come Bea Gurtsieva quando non ti ho mai visto fare la corte ad una ragazza?! >> lo provocò, cercando di insinuargli ancora maggiori dubbi in quella bella testolina semi-bacata per via degli anni trascorsi a seguire le idee del padre. << e no, non ti dirò mai che hai sbagliato ad aiutare una ragazza in difficoltà >>
Il sergente sbuffò, scuotendo il capo, << Non capisci proprio la situazione, vero, Walter? >> protestò, irritato, cercando di non alzare la voce. Non che non avessero mai litigato con toni un po' più alti del normale, ma non era il caso che si venisse a sapere di certe dicerie quando fuori da quella stanza almeno una ventina di soldati dell'SS camminavano tranquillamente per i corridoi, controllando la situazione in ogni dove.
<< Cosa c'è da capire? >> fu la semplice risposta del giovane Hoffmann,per lui era tutto così chiaro. Doveva esserlo anche per il suo migliore amico visto che si alterava tanto, probabilmente non l'avrebbe fatto se si fosse trattato di una cosa da nulla o se davvero non avesse provato niente per quella ragazzina russa; ma quelle erano solo sue supposizioni, non riusciva mai a strappare all'altro una confessione degna di questo nome.
Mark scosse il capo, << Nulla, per favore parliamo d'altro >>; nessuna situazione, eccetto il fatto che ormai non sapeva più cosa fare, se consegnare quelle lettere alla ragazza dai lunghi capelli corvini o lasciarla perdere del tutto, dimenticarla e convincersi che tutto fosse stato solo un errore, doversi abituare all'idea che prima o poi sarebbe stato anche il suo turno di entrare in una camera a gas e morire, come aveva visto già capitare a molti comunisti, ebrei e prigionieri politici prima di lei.
<< Lo so, sarebbe dura >> borbottò il suo migliore amico, come se gli avesse appena letto nel pensiero?
<< Prego? >>
<< Ehi, ormai viviamo in simbiosi. Sono nella tua testa >>
La battuta di Hoffmann portò delle risate nella stanza di un sergente non ancora guarito e con il cuore a pezzi.
Mark decise di cambiare argomento. Avrebbe voluto farlo da un po' a dire il vero, ma gli era venuto in mente un particolare. << Non hai nessuna con cui passare il San Valentino? >> gli chiese. Era un modo molto delicato per chiedergli se la sua testa fosse attualmente occupata da qualche ragazza. Non lo aveva mai visto con una ragazza in tutta la sua vita, eccetto una o due compagne di classe durante i primi anni delle superiori. Non gli sembrava tanto normale: Walter era il tipico bel ragazzo tedesco, di buona famiglia e con un futuro già programmato. Tutto ciò a cui si potesse aspirare.
Lui abbassò lo sguardo, << Ci sarebbe una persona, ma non sono sicuro dei suoi sentimenti nei miei confronti >> era una mezza verità, come ne aveva sempre dette su quell'argomento. Non poteva sbilanciarsi troppo. Non doveva, nemmeno con Mark: rischiava di perdere il suo migliore amico.
<< E cosa aspetti?! Invita questa ragazza al mio compleanno e chiedile di frequentarvi >> tentò d'insistere.
<< No, non è il caso >>
Il sergente si morse il labbro, << Come preferisci >>; c'era qualcosa che non andava: lo leggeva chiaramente negli occhi azzurri del suo migliore amico e la situazione non gli piaceva. Non c'erano mai stati segreti tra loro, cosa poteva essere così grande da allontanarli?


Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
14 Febbraio 1944
21:03

C'erano ufficiali con le loro mogli, c'era una musica lenta e sofisticata e qualcuno diceva che forse sarebbe venuto anche Hitler in persona. Le feste a casa Schreiber erano molto più eleganti di quella, prima della morte della moglie del Maggiore. Successivamente a quella, di solito Mark passava il suo compleanno a casa Hoffmann, oppure a bere una birra con Walter e qualche altro amico intimo, ma Hans Schreiber aveva pensato che il ventunesimo compleanno del figlio fosse l'occasione giusta per inserirlo maggiormente nell'esercito, renderlo simpatico a gente che contava e magari trovargli la moglie giusta.
Dopotutto non era stato difficile organizzare la cena: ci aveva pensato un'amica del padre, Libeth. La donna aveva capelli biondo platino corti, che sfioravano le spalle in morbide linee ondulate, stavano certamente bene con il viso piccolo e truccato di rosa, illuminando gli occhi azzurri. Indossava un vestito verde bottiglia per l'occasione, al quale il giovane Schreiber non si premurò di prestare nessun tipo di attenzione. Non aveva nemmeno mai visto quella donna, e lei si era presa tanto disturbo da fargli addirittura un regalo, che non aveva ancora scartato, tra l'altro.
Il festeggiato se ne stava semplicemente seduto in un angolo, a guardare il soffitto -ormai era guarito del tutto- a parlare con Walter e a pensare alla ragazza chiusa solo quale camera più in là. << Pensavo che il giorno di San Valentino nessuno accettasse di venire... nemmeno pensavo che mi padre si ricordasse che fosse il mio compleanno >> sbuffò. Le sue reali intenzioni non le avrebbe rivelate a Walter, per non finire in un'altra discussione senza fine, ma sperava di passare un po' di tempo con lui, per poi stare un po' più da Bea quella notte. Sarebbe stato sicuramente un degno modo di festeggiare il compleanno.
<< Sbaglio o tuo padre ti sta presentando tutti i marescialli presenti? >> lo prese in giro l'altro. Tra amici erano pur permessi certi atteggiamenti scherzosi, no? Seppur uno di loro due fosse scocciato come il sergente.
Mark spostò lo sguardo sul giovane Hoffmann, << Già, credo speri di farmi promuovere senza fare niente, o cose del genere >> stava tentando di scherzarci anche lui, ma la cosa non gli riusciva molto bene. Suo padre era un abile oratore e non si riusciva subito a capire quali fossero le sue reali intenzioni, quando lo elogiava, ma ormai lo conosceva da ventuno anni, sapeva bene come era fatto e come era solito comportarsi. << Va in giro ad elogiare ciò che è successo a Leningrado, come se uccidere delle persone mi portasse onore >> aggiunse, stavolta leggermente infastidito dalla cosa in sé. Non solo non gli andava di conoscere persone di quel tipo, ma non aveva nemmeno più voglia di avanzare di carriera, continuando a fare la marionetta.
<< La salverei, sergente Schreiber, ma pare lei sia molto richiesto questa sera e io non posso sottrarre alla sala la presenza del festeggiato >> lo prese ancora in giro Walter, facendo un cenno con la testa verso il maggiore, che si avvicinava a loro con uno strano sorriso. Hoffmann non ricordava di aver mai visto il padre del suo miglior amico sorridere se non in modo cattivo o in rarissimi momenti di pura gioia. C'era qualcosa che non andava in quel sorriso.
Il padre del festeggiato sorrise, una volta raggiunto il tavolo dove i tuoi amici si erano rifugiati. << Mark, ho una persona da presentarti >> annunciò, ma sembrava ci fosse qualcosa sotto stavolta, qualcosa ben più grande del semplice "spero che tu possa raccomandare mio figlio per un buon posto alla destra di Hitler". Il biondo non conosceva bene suo padre come qualsiasi figlio, ma lo conosceva come uomo e da quando il sopracitato uomo aveva perso l'unica donna che amasse era diventato un uomo pessimo.
Il sergente rise, << C'è qualche altro Capitano che non può fare a meno di conoscermi? >> canzonò il padre, palesemente poco interessato alla cosa. Non vedeva più l'arruolarsi come qualcosa di volontario, qualcosa di gratificante e per il quale avrebbe lottato. Non si trattava più di difendere la propria patria e far si che l'interno mondo accettasse la sua supremazia. Adesso l'SS significava non poter realizzare i propri sogni, non poter pensare con la propria testa, non poter decidere nemmeno per sé.
<< No, ma credo che questa persona sarà a te più grata >>, non si fece scalfire dal sarcasmo del più giovane, mentre rivolgeva un'occhiata al figlio degli Hoffmann, << Walter, se ci scusi un attimo >>; in fondo il Maggiore stimava Walter, aveva ciò che suo figlio non aveva: un paio di splendenti occhi azzurri che, sebbene il ragazzo non vi provasse mai, era convinto potessero diventare di ghiaccio. Un perfetto tedesco. Aveva accettato la mancanza del figlio solo dopo quell'inaspettato avanzamento di carriera.
<< Faccia con comodo >>
Il consenso divertito di Walter aveva fatto guadagnare al figlio del medico un'occhiataccia da parte del neo-ventunenne. << Spero sia una cosa importante, io e Walter stavamo affrontando un discorso serio >>, bofonchiò. Certo, discorso serio; probabilmente tra qualche minuto sarebbero finiti a discutere sull'importanza delle trappole per topi a causa della troppa noia. Il biondo non voleva trovarsi in quella sala, travolto dagli invitati in quel momento.
Mark venne condotto dal padre verso una donna elegante, sulla quarantina. << Lei è la moglie del capitano Von Hebel >> gliela presentò.
<< Molto lieto >>, il sergente finse un sorriso alquanto ben riuscito, mentre salutava la donna vestita a sua parere in modo poco elegante e molto volgare, eccessivo.
La donna gli rivolse un sorriso ancora più falso di quello del giovane, << Buon ventunesimo compleanno, caro, lei è mia figlia: Barbara Von Hebel >> la presentò, scostando la sua grasse persona per mostrare quella snella e alta della figlia.
Barbara Von Hebel era una splendida ragazza tedesca nel pieno dei suoi diciannove anni. Aveva raccolto i capelli biondo platino in una pettinatura che al festeggiato sapeva di troppo lavorato, ma molto elegante. << Piacere, sergente >> salutò, con dizione perfetta e con voce educata, rispettosa. Il corpo era fasciato da un abito rosa antico e la ragazza sembrava essere stata talmente preparata per la sera da apparire modellata senza imperfezioni in quel ruolo che le calzava a pennello.
<< Il piacere è tutto mio >>, ma l'espressione dura con cui Mark Schreiber aveva detto quelle parole, con cui si era portato la mano della ragazza alle labbra, per baciarne il dorso, la dicevano lunga sui suoi pensieri. Aveva capito le intenzioni del padre, purtroppo troppo tardi per fermarlo subito. Adesso che finalmente stava dando il meglio di sé come membro dell'SS, doveva solo prendere come moglie una donna, per andarsene e lasciarlo in pace; ma tanto non c'era bisogno di decidere nulla, era stato tutto organizzato, forse quando lui era a Leningrado: suo padre e la signora Von Hebel avevano già deciso che il sergente e Barbara si sarebbero sposati presto. << Scusatemi, signore, devo andare, adesso >> si congedò, con tono scortese e poco educato.
Il maggiore Schreiber si scusò per il comportamento del figlio, giustificandolo con una scusa poco credibile: nervosismo dovuto al dolore alla gamba, non ancora sparito del tutto. Subito dopo seguì il giovane, che si era rintanato nel suo ufficio, sbattendo la porta. Il maggiore Schreiber aprì la porta, richiudendosela alle spalle, << Non mi sembra di averti insegnato a comportarti in questo modo. Torna subito da quelle donne e scusati con loro >> ordinò, con voce tremendamente calma e fredda.
Mark si voltò verso di lui, fissandolo con rabbia, rancore e disgusto. << Tu non mi hai insegnato proprio nulla. Tutto ciò che so lo devo a mia madre, non a te >> lo accusò. Non aveva mai più parlato con suo padre di Agathe Schreiber da quando la donna era morta, ma si sentiva bruciare dentro; non poteva più sopportare di reprimere ogni cosa e di lasciare che il Maggiore decidesse per lui.
L'uomo fu colpito dalle parole del biondo e si arrestò un secondo, prima di fissarlo con ira. << Non hai il diritto di parlarmi così, ragazzo >> lo ammonì, alzando di pocola voce. Si sentiva anche dalla porta chiusa la musica nell'altra sala, ma non aveva assolutamente intenzione di rischiare che anche i loro invitati potessero udire i loro battibecchi.
Il sergente chiuse gli occhi, prendendo un profondo respiro, sentiva che qualcosa dentro di lui stava per scoppiare e se fosse successo non sarebbe stato un bello spettacolo. Diede le spalle all'uomo e si poggiò alla scrivania, cercando di non cascarvi sopra. << Io non conosco quella ragazza e non capisco perché tu me l'abbia presentata >> sibilò, cercando di ritrovare una calma persa. Ovviamente si era già fatto le sue idee, ma voleva che suo padre le confermasse, voleva la certezza della situazione di merda in cui era stato cacciato di peso senza nemmeno essere stato informato in anticipo.
Hans Schreiber non chiese al figlio di girarsi, non si aspettava nemmeno che se l'avesse fatto lui gli avrebbe ubbidito. Sembrava alquanto sconvolto. << Non capisco proprio cosa ti meravigli, figliolo, hai ventuno anni, ormai e non potrai vivere per sempre qui >> iniziò il discorso; contrariamente al ragazzo che gli dava le spalle lui non aveva mai perso la calma, era razionale e freddo davanti a qualunque cosa, che si trattasse di suo figlio o di una guerra mondiale. << E' ora che ti accasi e per farlo ti serve una buona moglie. Barbara e una donna di ottima famiglia e con poche pretese, oltretutto sua madre è d'accordo alla vostra unione >> concluse il suo discorso, e non sembrava intenzionato ad aggiungere altro.
<< E se io frequentassi un'altra? >> fu la lapidaria domanda del minore. Era un quesito legittimo, dopotutto qualunque soldato della sua età arruolato tra le forze dell'SS aveva già trovato l'amore della sua vita, ma lui non si era mai sentito particolarmente sfortunato a non aver mai visto una ragazza che si avvicinasse minimamente ai requisiti ideali per essere il suo. Forse era vero: la gente poteva pensar male di un soldato che non aveva una compagna, ma lui non voleva di certo la figlia dei Von Hebel. Gente dal cognome nobile, ma che di nobile aveva ben poco, per quanto quella giovane donna potesse essergli sembrava aggraziata ed elegante.
Il padre inarcò un sopracciglio, gli si leggeva in faccia che non credeva ad una minima parola di ciò che sentiva. << Se tu stessi vedendo una donna, io lo saprei benissimo. Passi le tue giornate diviso tra Walter e i tuoi impegni di soldato >> replicò, come se fosse ovvio.
Mark si voltò, lentamente, con la rabbia che gli ribolliva nel petto e si costrinse a guardare il padre dritto negli occhi, << Non voglio sposarla >>.
Perché la prima persona a cui aveva pensato quando aveva capito le intenzioni di suo padre e della signora Von Hebel era corso a Bea.
Perché non avrebbe mai lasciato quella casa quando la figura più bella e delicata che conoscesse era rinchiusa lì.
Perché doveva riuscire ad aiutarla, prima di pensare a qualsiasi altra cosa.
Perché non aveva scritto quelle lettere sollo l'effetto dei pochi milligrammi di morfina che riceveva a Leningrado.
Perché Bea era la terza persona, dopo sua madre e Walter, a cui avesse mai sorriso sinceramente.
Perché non riusciva a concepire l'idea di dover passare la vita con una donna che non fosse Beatrisa Irina Borisova Gurtsieva.
Il giovane abbassò lo sguardo, sentendo improvvisamente un vuoto al posto del petto, quando si rese conto di tutto ciò che gli stava passando per la testa, e che tutte quelle cose erano basate su una ragazza che era costretta a passare il resto dei suoi giorni tra quelle mura ed una camera a gas. Non riusciva, e non poteva nemmeno, accettera l'idea di provare qualcosa per lei, come se Walter avesse sempre avuto ragione. Non riusciva a pensare in quel momento, sentiva solo la prepotente voglia di vederla.
<< Cambierai idea, Mark, Barbara sarebbe la ragazza perfetta per te >> cercò ancora di convincerlo.
<< Adesso ho bisogno di un po' d'aria >> tagliò corto il più giovane dei due, uscendo dallo studio.


Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
14 Febbraio 1944
22:12

Mark non impiegò molto per arrivare in camera di Bea, era l'unico posto in cui volesse trovarsi in quel momento. Colmo d'ira e di tutta la confusione che ciò che era successo avrebbe mai potuto portare. Non aveva mai desiderato prendere in mano un fucile ed uccidere qualcuno -suo padre, ad esempio- come in quel momento. Proporgli un matrimonio, con una ragazza che non conosceva e di cui non conosceva nemmeno l'esistenza era semplicemente ridicolo ed inappropriato, come se si fosse mai interessato alla sua vita sentimentale oppure a come apparissero alla gente. Doveva essere quella sua nuova compagna, Libeth, a fargli un'influenza peggiore di quella che faceva lui.
<< E' successo qualcosa? >> si sentì scrutare dagli occhi della russa, che gli rivolgevano uno sguardo preoccupato. Si era alzata dal letto, andandogli incontro. Non capiva come quella ragazza riuscisse a preoccuparsi così per uno come lui, dopo tutto il male che le aveva procurato.
Non riusciva nemmeno a capire perché sotto quello sguardo così... dolce e preoccupato sentì qualcosa sciogliersi dentro. << Va tutto bene, ho solo bisogno di stare un po' con te >>, sorrise sincero,poggiandole le mani sulle spalle, quando lo ebbe raggiunto, come a tranquillizzala, ad assicurarle che andasse realmente tutto bene e che non ci fosse un reale motivo di essere preoccupata per lui. Cercò ancora di sorriderle, nonostante tutto quello che che era appena successo. << Tu come stai? >> le chiese dolcemente, osservandola.
Lei non rispose, ma in quel silenzio c'era tutto quello che non si erano mai detti, tutto quello che era chiuso a chiave in un cassetto in camera di Mark Schreiber, scritto frettolosamente su un paio di fogli indirizzati ad una ragazza russa tenuta prigioniera in un lager tedesco. Tutti avevano dei segreti nella Germania del 1944: Walter Hoffmann aveva il suo enorme e indicibile segreto che avrebbe potuto ucciderlo o confinarlo per sempre in un lager, se svelato; Beatrisa Gurtsieva sentiva qualcosa di caldo, all'altezza del petto, ogni volta che il biondo la sfiorava, o la guarda e avvertiva intorno a lei un senso di protezione che non ricordava di aver vissuto nemmeno con Dimitri Toforov, il suo migliore amico; Mark Schreiber portava però il peso di tutto quello, oltre al suo segreto innamoramento. Nessuno avrebbe mai dovuto conoscere dei segreti altrui, ma Mark e Bea, pur non sapendolo, condividevano lo stesso segreto e nessuno dei due era intenzionato a guardarsi ancora negli occhi senza poter rivelare nulla, senza poter fare nemmeno un cenno che facesse capire ad entrambi che sì, provavano la stessa cosa.
<< Buon compleanno >> esordì in fine, guardando il sergente di fronte a lei. << Io... io mi sono permessa di farti un regalo >> mormorò, arrossendo con enorme imbarazzo, mentre abbassava lo sguardo. In Unione Sovietica per i tempi che correvano era raro persino tra fratelli scambiarsi dei doni per un'occasione simile; ma quella sera Leningrado non esisteva, non esistevano le quattro pareti che dividevano Bea dal resto del mondo, non esistevano le limitazione di quel lager nazista. Non c'era più nulla, solo uno sfondo bianco dove galleggiavano insieme ai propri sentimenti.
Mark la osservò dubbioso, << Come avresti fatto a farmi un regalo?! >> chiese, ma gli si era dipinto un sorriso sul volto che andava da orecchio a orecchio. La risposta era ovvia, era stato stupido da parte sua anche solo chiederlo, ma l'idea che la ragazza avesse pensato di fargli un regalo per il giorno del suo compleanno lo aveva reso felice oltre l'immaginario, facendogli completamente dimenticare tutto ciò che era successo solo pochi minuti prima. << Ti ha aiutata Walter, non è così? >> chiese ancora, senza farle nemmeno il tempo di rispondere alla prima domanda, avvicinandosi a lei con cautela e sorridendole.
La russa scosse energicamente la testa, quasi indispettita che qualcuno pensasse avesse necessità dell'ausilio altrui anche per fare un regalo. Certo, doveva considerare che per un esterno era difficile da credere: come avrebbe potuto uscire da quel lager e andare a comprare un regalo al sergente senza che qualcuno venisse in suoi aiuto. << No, ho fatto tutto da sola >> e la sua voce risuonò fiera e pienamente consapevole delle proprie capacità mentre diceva queste parole. La ragazza non si era mai vantata in vita sua, ma doveva ammettere che il regalo che era riuscita a trovare per Mark era perfetto sotto ogni punto di vista e piaceva anche a lei; la metteva solo tremendamente in imbarazzo, ma questo era tutt'altro argomento.
Schreiber allora inarcò un sopracciglio, completamente colto di sorpresa anche dal tono usato dalla ragazza. Ormai aveva imparato a conoscerla e stava scoprendo un lato di lei così forte e adorabile che difficilmente credeva che sarebbe ancora riuscito a tenerle nascoste quelle lettere. Esprimevano tutto ciò che lui provava nei confronti di lei, tutti quei sentimenti senza un nome preciso che credeva di non doverle rivelare mai, per non commettere nessun guaio. << Beh, allora deve essere sicuramente qualcosa di molto speciale >>, non riusciva più ad essere freddo, non con lei. Ormai Beatrisa era diventata qualcosa di essenziale, qualcosa di talmente puro che non aveva alcun senso fingere anche con lei, nascondersi dietro la solita maschera. Con lei Mark sentiva di poter dire addio a tutti i suoi segreti ed essere ciò che sentiva di essere.
Lei annuì, << Allora chiudi gli occhi >> mormorò all'altro che obbedì subito ai suoi comandi, sperando di vedere presto il suo regalo così speciale.
Quello fu sicuramente il momento più coraggioso della vita della giovane sedicenne. Aveva affrontato l'inverno russo e non avevano sempre avuto il riscaldamento funzionante per bene a casa, aveva cucinato per tutta la famiglia e aveva resistito ai piatti di sua zia che non aveva mai saputo cucinare nemmeno della semplice pasta senza alcun tipo di condimento; ma le ci volle una forza disumana per combattere contro tutto quello in cui credeva, per far cadere tutti gli ideali con cui era stata cresciuta, per dimenticarsi di Stalin e del suo dannato Comunismo e per, rossa in volto, avvicinarsi al ragazzo biondo che in abito da festa se ne stava fermo in mezzo alla stanza. Bea prese un lungo respiro, forse per auto infondersi coraggio e colmò la distanza che li separava. Non seppe nemmeno come una sua mano trovò il suo posto naturale sul petto del ragazzo quando le labbra di lei sfiorarono quelle di lui, scostandosi un istante dopo.
Il suo primo bacio era il regalo più grande che Bea potesse donare a Mark, avvertendo a sua volta un gran bisogno di sentire le labbra del ragazzo.
Mark aprì di scatto gli occhi, poggiandole le mani sulle braccia per scostarla velocemente ed esaminarla con i suoi profondi occhi nocciola. Non riusciva a capire cos'avesse spinto la ragazza a baciarlo. Nella sua mente i fili si aggrovigliavano, tessendo una tela di confusone che difficilmente sarebbe riuscito a sfilare da solo. Poteva affermare con sicurezza che quello fosse il più bel regalo che avesse mai ricevuto in ventun'anni e che desiderava poggiare le labbra su quelle di lei da quella sera in cui ci aveva provato lui stesso o forse addirittura da prima; ma non potevano. Era la cosa più sbagliata che avesse mai sentito: una comunista e un soldato dell'SS... non doveva accadere. << Bea ... >> sussurrò, cercando di restare fermo mentre le parlava, anche con lo sguardo.
La ragazza scosse il capo, risoluta, << Non ho sbagliato, Mark, non tentare di farmelo credere >> quelle parole erano un marchio di fuoco sulla pelle chiara di lui. Quella dannata ragazzina era cocciuta oltre l'inverosimile non sarebbe mai riuscito ad infonderle un po' di buon senso. Non conosceva quella parte del carattere della figlia del colonnello dell'Armata Rossa; ma gli piaceva come gli piaceva tutto di lei. Eppure in quel momento odiava che avesse fottutamente ragione.
Il tocco delle dita sottili e fredde di lei lo fecero totalmente ribollire di rabbia. Le prese entrambi i polsi con violenza, una violenza che credeva di non essere più capace di nutrire nei confronti di lei. La portò contro il muro, lasciando che il suo corpicino piccolo e all'apparenza debole sbattesse contro di esso, provocando un tonfo sordo. << E' il peccato più grande che uno di noi due possa commettere >> la rimproverò, ritrovando quella freddezza, amica d'anni.
<< Peccato agli occhi di chi? >> gli chiese allora lei, assottigliando lo sguardo e puntando gli occhi dello stesso colore dello smeraldo in quelli di lui. Non riusciva a credere che stesse negando tutto quello che gli si leggeva perfettamente negli occhi. Stava ignorando la violenza che il ragazzo le aveva riservato, benché non se l'aspettasse più da lui, o almeno sperava ardentemente di non doverselo più aspettare.
Schreiber cercò di allontanarsi, di lasciarla lì e risolvere i suoi dubbi lontano da tutti, << Agli occhi del mio paese, del tuo, della tua famiglia, di Dio >> cercò di farla ragionare, mantenendo un tono di voce calmo. Mark desiderava solo scoppiare insieme a tutto quello che stava dicendo, voleva tornare a baciarla e sfiorarle i lunghi capelli corvini, ma non poteva infilarsi in una relazione senza via d'uscita, che non avrebbe mai potuto avere un futuro senza ferire entrambi, come ormai era già successo.
Come tutti nel suo paese Bea non si era mai affidata troppo a nessun dio, ma non disprezzava i tedeschi per il loro credere, come non disprezzava Mark dopo tutto il male che aveva fatto, avrebbe volentieri visto crepare qualche nazista ma per gli ideali che essi stessi rappresentavano, non per il colore della pelle. Forse anche per vendetta personale, certo. << Il tuo Dio non dovrebbe fare distinzioni tra ebrei e tedeschi, né dividere due persone come noi >>
Stava definitamente per esplodere. Il sergente tedesco non riusciva a continuare quella conversazione senza senso. La guardò ancora: gli occhi accesi non sarebbero mai passati in secondo piano, la linea sottile e morbida del collo in cui avrebbe voluto affondare i denti, i boccoli dello stesso colore di una notte senza luna che ricadevano quasi fino al fondo schiena; non sopportava la visione di tutto quello che desiderava e il peso dei suoi stessi sentimenti. << Un giorno io varcherò questa porta e tu non ci sarai più >> sputò quelle parole, come se fossero la più grande bestemmia mai pronunciata.
<< E che senso ha rifiutare ciò che proviamo oggi per quello che accadrà domani? >>, Bea sentiva chiaramente il suo tentativo di allontanarsi, ma non glielo avrebbe permesso. Stava lottando perché non fosse così. Si tratteneva dal gridare ma era esausta. Stanca di cercare di capirsi, perdonando solo tempo nel cercare di attribuire un nome ad un sentimento così contorto e masochista.
Mark sospirò allontanandosi totalmente da lei e sedendosi su quella brandina adibita al letto, reggendosi il capo con le mani, confuso. Quando riuscì a schiarirsi le idee... no, non riuscì a schiarirsele nemmeno un po', ma quando capì che forse un modo c'era, le fece un cenno con la mano, << Vieni >> disse, semplice, battendo appena con la mano sul resto del materasso, accanto a lui.
Bea lo raggiunse, titubante. Non credeva che Mark gli avrebbe fatto del male, né che l'avrebbe violentata, non quella notte, ma aveva semplicemente paura di quella conversazione che fino a quel momento era riuscita a portare avanti con coraggio ma che non avrebbe mai voluto realmente affrontare. << Cosa vuoi fare? >> gli chiese, sedendosi a debita distanza, sentendosi effettivamente rifiutata dal ragazzo, pur comprendendo perfettamente che, fosse stato per lui, sarebbero finiti su quel letto per fare ben altro in quel momento stesso.
Lui le si avvicino, sfiorandole il mento con delicatezza e sollevandole il volto, in modo che i loro occhi si incatenassero nuovamente. << Per quanto possa essere difficile, ti prometto che non ti lascerò morire e che se fosse necessario rinuncerò a tutto per portarti in salvo, ma non farmi venire mai più un colpo del genere >> sussurrò, una volta che il suo volto le fu talmente vicino da mormorare quelle calde parole direttamente all'interno dell'orecchio di lei.
La ragazza rabbrividì appena quando avvertì il respiro dolce e rassicurante di lui sulla pelle sensibile, << E tu non dire mai più che siamo una cosa sbagliata e impossibile >> stipulò quel patto, ammettendo senza riusce ad esprimersi meglio che quella sera erano diventati ai suoi occhi una sola entità indivisibile, quando finalmente era riuscita a darsi forza per parlargli, per fare quello su cui aveva riflettuto tanto mentre il biondo era a cercare di farsi uccidere a Leningrado con molti altri giovani soldati.
<< Te lo prometto >> furono le uniche parole di lui, che non le diede il tempo di aggiungere qualche altra condizione, firmando l'accordo baciando la ragazza. Un bacio semplice, quello in cui basta cercare le labbra dell'altro, sentire il loro sapore sulle proprie per stare in pace con il mondo, per sentirsi parte integrante di qualcosa di molto più grande di quanto ci si sarebbe mai aspettati. Loro erano questo e tutto quello che ancora c'era da scoprire. Il biondo si scostò qualche minuto dopo, senza azzardarsi ad approfondire il bacio; aveva notato il tremito di lei quando aveva iniziato a mordicchiarle dolcemente il labbro inferiore. Le sfiorò i capelli, riportando una ciocca dietro l'orecchio, << Adesso devo tornare in sala ... >> mormorò, con il cuore pesante, alzandosi. Si voltò un'altra volta, prima di uscire, richiamato dalle parole di lei:
<< Sarà un nostro segreto, vero? >>
<< Come sempre >>


Leningrado, Unione Sovietica.
20 Febbraio 1944
12:53

<< Grazie per essere venuto a pranzo da noi, Dima >>, Diana trattava quel ragazzo come un figlio, e come non avrebbe potuto? Era cresciuto accanto alla figlia e veva dormito con lei nelle notti più buie. Peccato che in quel momento non potesse starle accanto. La signora Gurtsieva era certa che se Dimitri e Beatrisa fossero stati insieme quella sera lei avrebbe avuto qualcuno su cui contare e si sarebbe sentita protetta.
Il marito della donna era seduto a tavola, mentre la moglie apparecchiava. << Passami la vodka, Dina >> ordinò, distaccato da tutto ciò che accadeva nella camera. Quell'atteggiamento era forse dovuto alla vittoria di Leningrado sui tedeschi? Ovviamente no. Lui sapeva qualcosa riguardante qualcuno, in quella tavola, che era meglio non svelare. << Qualcosa non va, Boris? >> chiese la donna, con grande apprensione, portando quanto richiesto al padre dei suoi bambini.
Regnava un'atmosfera di assoluta tensione e tutti, persino il piccolo Sergeij aveva notato che qualcosa non andava, ma ovviamente non aveva fatto parola, continuando a disegnare su un foglio, steso sul legno della pavimento del soviet.
<< Chiedilo al tenente Todorov >> rispose semplicemente il Colonnello, indicando con un cenno del capo Dimitri. Quando lo chiamava in quel modo o era successo qualcosa di molto bello o di molto brutto, ma a giudicare dall'espressione imbronciata di Boris Gurtsieva era sicuramente la seconda opzione quella giusta.
Diana Gurtsieva rivolse allora il proprio sguardo verso il ragazzo, inarcando un sopracciglio, come se i due stessero nascondendo lei quale enorme segreto di stato.
<< Leningrado ha vinto ed io sono stato trasferito al fronte in Germania >> spiegò, brevemente, guardando il suo piatto, ancora vuoto, non riuscendo a sopportare lo sguardo della donna che poteva considerare quasi come una madre dopo quell'affermazione.
La donna lo guardò, rassegnata. << Cerca di tornare a casa sano e salvo e con mia figlia >>



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Capitolo 14
*** Capitolo 13. -Come noi vorremmo che fosse. ***


Salve a tutti!
Ecco a voi il nuovo capitolo! Non volevo farmi aspettare troppo e mi dispiace di aver tardato di un giorno, ieri sera il capitolo era già pronto ma ero seriamente in ansia per il ritorno a scuola e stavo mettendo a posto le ultime versioni. :3
Ad ogni modo vorrei ringraziare come sempre chi legge la storia, la commenta, la inserisce tra preferiti/seguiti/ricordate. Siete tutti fantastici. *-*
Volevo anche avvisarvi che non ho intenzione di fare più molti ritardi, ma come per molti di voi anche io oggi ho iniziato di nuovo la scuola. Una bella botta di sicuro, non vedo l'ora di collassare sotto le coperte. Ad ogni modo, ho un sacco di lavoro da fare per recuperare latino. Quanto odio quella materia, mio dio; no, la cosa davvero irritante è che non è vero che la odio, mi piacerebbe anche se solo riuscissi a capirci una mazza. D'accordo, inizio a mettermi sotto.
No, non è vero: come faccio a studiare quando ho messo su il dvd di "Senza filtro"?! Gné.
Su, giuro che ci provo. Voglio passare l'anno.
Buon capitolo!
Schizophrenia.





Salviamoci la pelle.


-Come noi vorremmo che fosse.




Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
28 Febbraio 1944
23:56

I giorni passavano così in fretta quell'inverno in Germania.
Così in fretta da sembrare attimi, attimi in cui tutti riuscivano a prendersi una pausa dal mondo esterno e dedicarsi ai propri problemi personali e alle proprie gioie. Che di gioie in realtà ce ne fossero ben poche effettivamente per molti tedeschi e persone residenti nel posto era un'altra cosa; a Mark Schreiber sembrava che tutto girasse nel verso giusto in quei mesi e che niente sarebbe potuto capitare di abbastanza forte da rovinare quell'assurda perfezione che per la prima volta era venuta a crearsi all'interno della sua complicata vita.
D'accordo, forse quando si coricava sul letto oppure reggeva un fucile per i suoi quotidiani allenamenti gli venivano in mente giusto una cinquantina di situazione che se si fossero verificate avrebbero potuto spezzare quell'armonia, ma ultimamente si era convertito al pensiero che essere ottimista ogni tanto non faceva male a nessuno e quindi ci provava anche lui, pensava positivo ed effettivamente andava tutto bene: Bea era ancora in vita pur essendo stato perso definitivamente l'Assedio di Leningrado e inoltre poteva finalmente definirla la sua Bea, almeno tra sé e sé quando pensava a loro due insieme; non era stato richiamato per combattere ancora dopo una ferita così grave alla gamba e pur sapendo che quella lettera poteva arrivare da un momento all'altro preferiva godersi la meritata libertà; suo padre non gli stava ancora facendo pressioni riguardo Barbara Von Hebel e questo era certamente da considerarsi un bene.
C'era certo una macchia in tutto quello: Walter. Secondo il sergente il suo migliore amico aveva un enorme segreto che non rivelava a nessuno, ma più si scervellava più non riusciva a venirne a capo quindi aveva deciso di mettere da parte "la questione Walter" e chiuderla a chiave, considerandola uno pseudo-pericolo per quello strano periodo di serenità mentale.
Si avvicinò alla porta di Beatrishka, senza bussare. Infilò le chiavi nella serratura, ma non giro. Stesse semplicemente qualche minuto a fissare prima il legno scuro della porta e subito dopo la maniglia dorata; aveva sempre qualche minuto di esitazione prima delle sue visite notturne a Bea: moriva dalla paura di aprire quella soglia e di non trovarla oppure trovare semplicemente il suo cadavere ricoperto di sangue. Non credeva che sarebbe mai riuscito a sopportare una visione del genere e comunque tutti erano perfettamente in potere di eliminarla da un giorno all'altro, la spiegazione sarebbe stata ovvia "non ci occorreva più", tuttavia c'era una possibilità più grande che dava a Mark motivo di panico e angoscia.
Qualunque persona che non conosceva bene la gerarchia di un lager tedesco avrebbe pensato, non trovando più la ragazza all'interno della camera a lei designata, che ella sia stata uccisa, ma c'era un'altra triste realtà e usanza: le belle e giovani ragazze potevano avere una vita migliore socialmente in un lager, mantenere i loro bei capelli proprio come era stato concesso a Bea se accettavano di prostituirsi ai soldati. "Accettare", poi, è decisamente un bel termine quando ti obbligano a fare qualcosa. Purtroppo quest'eventualità terrorizzava Mark dato che Beatrisa Gurtsieva era bellissima non solo ai suoi occhi, quella di lei era una bellezza semplice e in fiore, di una ragazza che sta crescendo con la pelle liscia e profumata di vaniglia, dai tratti leggeri e sofisticati, l'unica cosa che scoraggiava l'ammissione di Bea in questi "bordelli" per nazisti era il seno non troppo grande, caratteristica che molti soldati che il sergente Schreiber aveva conosciuto trovavano fondamentale in una donna. Eppure il ragazzo era attratto anche da quel seno piccolo e per niente volgare. Si, stava sicuramente andando fuori di testa.
Mark Schreiber alla fine, come ogni sera, si era deciso ad aprire quella porta ed entrare nella piccola stanza. Sorrise, nell'osserva che Bea era lì, ad aspettarlo. Seduta in un angolino della stanza, quello più distante dalla candela. Beh, non che vi fosse comunque molto altro spazio in un buco di stanza poco pulito, per giunta. La vide sorridere, appena si fu richiuso la porta alle spalle silenziosamente. La schiena della ragazza era schiacciata contro la parete e le gambe, pressate contro il petto, erano come protette dalle braccia. Il ragazzo osservò i lunghi capelli corvini di lei, che in quella posizione quasi sfioravano le assi del pavimento. Le si avvicinò a passi veloci, salutandola con un lieve cenno della mano. Quel giorno era stanco, ogni muscolo del suo corpo sembrava urlarlo.
<< Com'è andata la giornata, soldato? >> chiese la ragazza, poggiando il capo sulle ginocchia, osservando e memorizzando ogni suo movimento come se fosse vitale: l'avanzare velocemente, il sedersi accanto a lei contro la parete, quello sfiorare una ciocca di capelli come se fosse naturale, come se fosse come respirare. Le sarebbero serviti quando non le sarebbe stato più permesso di rimanere in vita.
Lui scrollò le spalle, << Come tutti i giorni >>  le sorrise, un sorriso disarmante. Gli sembrava di aver sorriso di più in quei pochi mesi -trasferta a Leningrado sotto le armi compresa- che nel resto della sua vita dai sei anni in poi. Quella ragazza aveva uno strano ascendente su di lui, se ne rendeva conto perfettamente, ma sembrava non riuscire proprio a farne a meno. << Sono andato ad allenarmi, ho anche incontrato Derek Keller oggi. Non parla molto con nessuno, ma sono convinto sia una brava persona, non ragiona come tutti gli altri. Credo sia un punto a favore >> disse, con una velata notare di ironia. Da quando faceva ironia sul nazismo? No, quello decisamente non era il ragazzino che sognava di andare in guerra a sparare addosso a qualche russo.
Beatrisa annuì, alle parole del sergente, osservandolo incantata. Riusciva ad incantarsi ogni volta che apriva bocca. << Chi è Derek Keller? >> chiese, appena l'altro ebbe terminato la frase. Di solito non gli chiedeva mai spiegazioni, di solito non c'era bisogno di farlo, ma quel nome non le diceva assolutamente nulla.
L'altro si bloccò, cercando qualche riferito. Era una morsa dentro non poterle parlare come se fosse una comune ragazza tedesca, invitarla a bere una birra  una sera-seppure qualcosa nel suo sguardo gli comunicava che non avrebbe mai accettato di bere una birra- o presentarla ai suoi amici. Certo, stava diventato smielato fino all'inverosimile, ma non riusciva a sopportare di non poter comportarsi come una persona normale. << Ricordi la prima volta che Walter è venuto a trovarti? Ci fu qualcun altro, quella sera, che ti portò da mangiare. Quello è Derek Keller >> borbottò, lasciando ciondolare il capo contro il muro freddo.
Non gli andava più di continuare quello stupido gioco, ma che altro poteva fare? Stava cercando ad una soluzione per farla fuggire da quel postaccio, ma perché? In fondo la compagnia di lei lo faceva sentire così vivo e riusciva a farlo sorridere dopo anni in cui la sua povera testolina aveva iniziato a credere che l'unico rapporto umano decente che avrebbe mai potuto avere sarebbe stato sempre e solo Walter. Eppure sapeva che prima o poi l'avrebbero uccisa, che qualunque cosa avesse provato per lei il destino della ragazza era segnato da tempo: era solo questione di aspettare un po' e poi sarebbe morta in una di quelle camere a gas, con la scusa di una doccia; l sergente lo sapeva bene.
La mora annuì, poggiando il capo sulla spalla del suo soldato, << Adesso ho capito >> concesse, un po' ironica, socchiudendo gli occhi. Moriva dal sonno e non dormiva decentemente se lui era con lei. Aveva sempre troppa paura che qualcuno,qualcuno che non era Mark, entrasse nel cuore della notte per portarla ancora in quelle terribili sale di tortura che purtroppo aveva già conosciuto.
Schreiber le accarezzò i lunghi capelli scuri, arricciandoseli ancora attorno alle dita, mentre scrutava ogni suo movimento. Riusciva sempre a stupirsi di quanto la ragazza fosse bella ed estremamente fragila. Non era stata quella ragazza ad urlargli contro qualche giorno prima? Quella che si imponeva, che pretendeva di aver ragione sul loro rapporto, quando diceva che non c'era nulla di sbagliato? Era fragile, sì, ma estremamente coraggiosa.
<< C'è qualcosa che non va >> notò lei. Non era una domanda, non aveva bisogno di una risposta, ma aveva notato lo stato di inquietudine generale che aleggiava nell'aria e non poteva fare a meno di comunicarlo anche al ragazzo. Ovviamente nemmeno lei era tranquilla, ma cercava di illudersi che andava tutto bene, che sarebbe andato tutto bene finché uno dei due non avesse chiuso gli occhi per sempre, nel buio infinito dell'oblio che circonda una morte serena.
Lui rise. Una risata vuota, priva di divertimento o di qualsiasi emozione, nemmeno negativa. << C'è mai qualcosa che va come dovrebbe?! >>, nemmeno quella di lui era una domanda, troppo cinica e sarcastica per esserlo. Sapeva benissimo che no, non andava nulla per bene, non c'era motivo di fingere davanti a Bea che non fosse così. Voleva solo godersi gli ultimi giorni -o forse, volendo essere davvero molto positivi, mesi- di tutto quell'inferno con lei; magari rivelandole finalmente quali erano i suoi veri sentimenti, cosa che non aveva ancora fatto per mancanza di chiarezza propria.
Bea scivolò lentamente nello spazio vitale del biondo, accoccolandosi sulle sue gambe, poggiandosi contro il suo petto e raggomitolandosi come un micio su una qualsiasi fonte di calore in una giornata invernale. << Tu sei con me, adesso. Questo è come dovrebbe essere >> mormorò, mentre socchiudeva gli occhi, come se avesse detto la cosa più logica del mondo, pronunciando quelle parole; e sentiva davvero che lei e Mark fossero logici, ovvi, scontati. Nulla di più matematica che sommare due cifre per unirle in un unico risultato. Non le passava mai per la testa che fossero un'eccezione a qualche regola o che i suoi sentimenti fossero qualcosa di nuovo, fresco.
Le labbra di Mark si curvarono in un leggero sorriso. Era l'immagine più bella che avesse mai visto in vita sua, osservò quella dolce creatura addormentarsi tra le sue braccia e in quel momento lo sentì: doveva proteggerla, senza badare alle conseguenze. Doveva pensare prima alla salvezza di lei che alla propria, perché vivere un'esistenza senza lei nella sua completezza sarebbe stato molto peggio che subire l'ira di dio, ed essere condannato a marcire per sempre all'inferno, guardando la morte in faccia. Le sfiorò dolcemente il volto, non ricordava di aver toccato mai nessuna donna in quello stesso modo; aveva consumato ogni amplesso velocemente senza sprecarsi a coccolare mai nessuna di loro. Sospirò: ancora gli risuonavano le parole di lei in testa.
<< Questo non è come dovrebbe essere, Beatrishka, è come noi vorremmo che fosse. >> soffiò, dolcemente, ad un orecchio di lei quando fu sicuro che stesse dormendo.


Weimar, Germania.
12 Marzo 1944
10:27

<< Sto ancora cercando di capire perché hai preteso che mi alzassi così presto di domenica mattina >> borbottò Walter, davanti al suo cappuccino e al croissant caldo, seduto al tavolo più isolato nel bar dove facevano colazione prima di andare a scuola, un tempo. A volte quei piccoli momenti gli mancavano e non solo perché vedeva Mark tutti i giorni, ma perché non doveva pensare ad altro se non hai compiti e ad essere felice giocando i soldati. Adesso il soldatino ce l'aveva seduto di fronte, ma non era di plastica rosa.
Mark rise, scrollando le spalle, << Perché non ci vediamo da parecchio >> provò con la prima scusa che gli venisse in mente, prendendo la tazza di espresso e bevendone un lungo sorso. Forse non era proprio quello il motivo, ma non riusciva più a tenere nascosto al suo migliore amico un segreto tanto grande e importante per lui, era assolutamente qualcosa che non riusciva e forse non voleva nemmeno fare. Era sempre Walter: era anche merito suo se era riuscito a scavare dentro di sé e trovarci un po' di buon senso, in dose sufficiente per non uccidere o maltrattare una splendida ragazza russa per cui aveva completamente perso la testa.
Hoffmann addentò il suo croissant, senza distogliere i grandi occhi azzurri dal biondo. << e per "parecchio" intendi due giorni? >> chiese, scettico. C'era qualcosa che non lo convinceva del tutto nello sguardo di Mark Schreiber quel giorno: sembrava quasi felice. Vedere quel ragazzo biondo e dagli occhi nocciola felice era una novità assoluta che si stava verificando sempre più spesso ultimamente, ovviamente il figlio del medico sapeva perfettamente che ormai il suo migliore amico era perso in un plico di lettere scritte a Leningrado sotto le bombe, ma in quegli giorni sembrava addirittura più rapito del solito.
L'altro rise, scrollando appena le spalle mentre finiva il suo caffè. Con Walter le risate erano sempre state facili, figurasi quel giorno. << Non credo tu voglia davvero sapere cos'è successo >> lo stuzzicò. Sapeva che dette quelle parole la testolina bacata del suo migliore amico avrebbe formulato tutte le ipotesi possibili per venire a capo di quel quesito, dopotutto il ragazzo dagli occhi azzurri era un bambino troppo cresciuto incredibilmente testardo.
<< Dipende. Di cosa stiamo parlando? >>, Hoffmann iniziava ad avere dei dubbi. Ormai quasi tutte le loro conversazioni erano incentrare su una persona soltanto, ma le novità che Mark poteva portare su ella non erano esattamente tutte rassicuranti. C'era decisamente qualcosa che non quadrava.
Il sergente Schreiber scrollò le spalle con un ghigno divertito stampato sul volto, << Forse è meglio parlarne lontano da qui >> suggerì. Il fatto che non volesse essere udito da orecchie indiscrete confermata l'ipotesi che volesse parlare della ragazzina russa; non sapeva se questo avrebbe dovuto rassicurarlo o farlo spaventare ancora di più: conosceva i momenti bui della vita del migliore amico e sapeva che essi di solito si presentavano senza preavviso, poteva essere successo ancora.
Chiamarono una cameriera e Walter pagò il conto. Quella mattina toccava a lui, era un bel po' che facevano a turno ed anche se non si ritrovavano da soli al bar per una colazione Hoffmann ricordava benissimo che l'ultima volta era stato l'altro a pagare e ci teneva a rispettare la tradizione. Forse per conservare quelle piccole abitudini che si portavano dietro fin da bambini e che non avrebbero mai voluto lasciare per degli sciocchi motivi.
Una volta usciti dal locale, il figlio del medico rivolse lo sguardo al più alto, << Allora, cosa è successo? >> chiese ancora, curioso. Si stava rodendo dentro per conoscere i segreti che quella domenica mattina poteva nascondere per il suo amico e probabilmente per la ragazza dai lunghi capelli corvini. Quando si erano visti negli ultimi giorni non ne avevano parlato quasi per niente, come se Mark evitasse l'argomento più del solito, come se cercasse di preservare un segreto che non voleva condividere con nessuno; il suo migliore amico era curioso e ogni tanto si preoccupava anche per lui, ma aveva rispettato quell'assurda decisione di chiudersi tutto a chiave dentro e aveva cercato di portare l'attenzione su argomenti come le ultime notizie riguardanti la guerra e la situazione della Germania in essa.
<< Shh >> lo zittì il sergente. Si stava divertendo ed era decisamente troppo allegro per tutto quello che stava succedendo: le perdite degli eserciti tedeschi ammontavano ad un numero abnorme che i cittadini non avevano né la forza né la voglia di contare e un sergente come lui doveva temere di essere il prossimo ad essere spedito sul fronte per morire. << C'è un posto particolare dove voglio parlarne >> aggiunse, subito dopo, iniziando a camminare per le vie della città, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni. Fuori da Buchenwald poteva anche indossare abiti civili, anche se probabilmente il padre avrebbe preferito indossasse sempre la divisa per onorare l'SS, Hitler e la razza ariana.
Walter lo seguì e non parlarono per il resto della passeggiata. Nonostante fosse quasi primavera il tempo non era migliora di molto. Faceva ancora freddo e il vento fischiava violento, cosa testimoniata anche dalle sciarpe che indossavano i due ragazzi: lana semplice e blu per quella di Mark, uno sciarpone più pesante e degli stessi colori dell'arcobaleno per l'altro. Non pioveva più, almeno, e le nevicate erano molto più rare e leggere; la neve che si era depositata per le strade si era tutta sciolta.
Mark aprì un vecchio cancello di ferro battuto solo spingendolo, all'interno sembrava deserto nonostante fosse una bella mattinata. << Eccoci >> sorrise. Era certo che Walter si ricordasse di quel parco, era il primo che avevano visitato una volta ritrovatosi entrambi in quella città, dopo i primi anni d'infanzia a Berlino. Era tra l'erba di quell'area verde che Walter Hoffmann aveva osservato Mark Schreiber soffrire in silenzio per la perdita della madre, con il volto contratto in una smorfia orribile, ma senza versare nemmeno una lacrima. Era stato lì che, distesi su un lenzuolo, quello che allora desiderava ardentemente diventare un soldato dell'SS per far sì che suo padre fosse fiero di lui, aveva raccontato al suo migliore amico della sua prima esperienza sessuale, come se non fosse troppo importante: era il tempo in cui Mark cambiava giovani e bionde ragazze di buona famiglia almeno due volte al mese senza riuscire a trovare "entusiasmante" nessuna di loro. Non entravano lì dentro da almeno due anni, ma se Mark aveva deciso di portarlo lì si trattava sicuramente di una cosa seria.
<< E' rimasto lo stesso posto di sempre >> mormorò il più basso, iniziando a camminare seguendo Mark, lasciandosi guidare tra gli alberi che avevano ripreso da poco le loro foglie di un meraviglioso verde smeraldo e quelle staccate dalla corteccia dall'autunno dovevano essere state spazzate via da parecchio ormai. Il giovane Hoffmann si ritrovò a pensare che era davvero un secolo che non pensava di tornarci.
<< Anche noi siamo gli stessi di sempre >>, Mark sorrise all'occhiata scettica di Walter, << le persone non cambiano, Wal, tirano fuori il meglio o il peggio di loro con gli anni, ma non cambiano mai. Sono i loro ideali, i loro pensieri che cambiano ma sempre in base a ciò che sono e che hanno finalmente deciso di far emergere con un po' di barba o una camicia nuova >>, concluse come se fosse ovvio e addirittura scontato, quel discorso, da parte sua.
Hoffmann lo osservò, stupido, sedendosi di fronte all'altro che aveva scelto l'ombra di un albero come rifugio dai pochi raggi di sole donati da quella domenica mattina. << Beh, sicuramente qualche forza della natura è riuscita a tirar fuori il meglio di te >> mormorò, basito, stendendosi tra l'erba e, al contrario dell'amico, accettò di farsi baciare la pelle dalla luce che quasi scottava sul suo corpo congelato dal lungo inverno tedesco. La persona che gli stava parlando era sicuramente ancora il suo Mark, ma c'era una luce diversa negli occhi color cioccolato fuso, tale da renderli più luminosi.
<< Allora, vuoi sapere cos'è successo? >> lo stuzzicò il sergente, sapendo che l'altro stava morendo dalla curiosità. Poggiò il capo contro il contro d'albero, socchiudendo gli occhi e godendosi l'aria quasi sopportabile di quelle mattine di fine inverno. In fondo si divertiva a prendere un po' in giro Walter.
L'altro sbuffò, << Certo che voglio saperlo e se tu non fossi così perversamente crudele me l'avresti già detto >> borbottò, guardandolo male. Grazie alla lunga attesa era stato capace di farsi venire in mente almeno cinquecento possibili cose accadute negli ultimi due giorni che potessero aver sconvolto il suo migliore amico a tal punto da renderlo felice e da fargli fare il giro di mezza città per arrivare in quel parco a raccontargli tutto.
La risata del sergente risuono nel parco semi deserto. << Ci siamo baciati >> sussurrò, come se fosse il segreto più bello, dolce e naturale che fosse mai uscito da quelle labbra; come se fosse la conclusione di una fiaba che in realtà era appena iniziata, come se quell'evento rappresentasse lo sbocciare di un fiore che apre lentamente i suoi petali, uno dopo l'altro, trattandoli con estrema delicatezza.
Walter sussultò, con un misto di sorpresa. No, in realtà se lo aspettava dalla prima volta che aveva visto Beatrisa Gurtsieva, ma non riusciva a credere che fosse accaduto realmente, che si fosse finalmente realizzato l'impossibile; soprattutto perché non aveva mai visto il suo migliore amico in quelle condizioni, era un evento strano e allo stesso tempo affascinante. << Tu e...? >> conosceva benissimo la risposta, ma voleva essere sicuro, o forse si aspettava qualcos'altro. In fondo lui era sempre stato in grado di scavargli dentro e si era reso conto dei sentimenti dell'amico molto prima del sergente stesso.
Mark aprì gli occhi ed inarcò un sopracciglio, osservando il suo migliore amico in maniera indecifrabile << Bea >> rispose, con sarcasmo, pensando che forse era il caso di dargli la soddisfazione che si aspettava per non sentirlo fino al ritorno a casa: lo aveva portato lì proprio perché voleva che nessuno venisse a sapere di quello che si erano detti e della sua quasi relazione post-bacio con Beatrishka. << e avevi ragione tu, fin dall'inizio >> aggiunse, stavolta con ironia, osservando le foglie sopra di lui, appartenuti all'albero al quale era appoggiato, che occupavano quasi interamente la sua visuale.
Il povero Hoffmann scoppiava di gioia, ma cercava di trattenersi. Osservò l'amico con gli enormi occhi azzurri, quasi lucidi. << E... e... e... >> non riusciva a parlare. Quasi balbettava, cercando le parole giuste per commentare tutto ciò che aveva appena saputo, con risultati davvero scarsi. << Adesso? Tu la ami, no? >> riuscì solo a chiedere, di getto, tirandosi di scatto a sedere ed osservando il suo migliore amico come se fosse una fonte importante di notizie che avrebbero potuto cambiare il corso della sua esistenza. Beh, c'erano tantissimi problemi da considerare riguardo un'eventuale relazione tra lui e la giovane ragazza sovietica, ma era appena iniziato tutto: non era ancora arrivato il momento di pensarci, rovinandosi il momento.
<< Amare è una parola grossa, Walter >> rispose l'altro e lo era davvero, soprattutto quando il soggetto in questione non aveva mai pronunciato una frase come "Ti amo"; non ne aveva mai sentito la necessità. Era anche vero che non aveva mai sentito il bisogno quasi fisico e l'urgenza opprimente di vedere e sentire Bea accanto a sé, ma lui non aveva idea di cosa fosse l'amore, non l'aveva mai avuta e non era interessato a scoprirlo proprio quel giorno. Voleva godersi il tempo con Bea, senza scavare troppo dentro di sé. Cosa purtroppo inevitabile, si costrinse suo malgrado ad ammettere.
Walter lo osservava, sempre più meravigliato e per poco non si alzò in piedi. << Guardati. Ti sei mai visto così? E' ovvio che ne sei perdutamente innamorato, idiota! >> sbottò, e lui non insultava mai nessuno: era l'unico essere umano incapace di provare odio che il sergente Schreiber conoscesse.
<< Evitiamo di parlarne, Walter, sono venuto qui per informarti un avvenimento felice >>
Il più basso socchiuse gli occhi, prendendo un lungo respiro che l'aiutò un po' a tranquillizzarsi, << Quando vi siete baciati? >> chiese, sereno, aprendo gli occhi.
L'altro sorrise e alzò appena gli occhi al cielo: il suo migliore amico riusciva a sembrare una quattordicenne in piena crisi ormonale, quando voleva. << La sera del mio compleanno >> fu la sua risposta, mentre tornava con la mente agli avvenimenti trascorsi dal quattordici di febbraio a quel giorno. Forse erano stati davvero i più belli della sua vita.
<< E, di grazia, perché ti sei degnato di dirmelo solo adesso? >> Wal mise il broncio. Il suo adorabile broncio da bellissimo bambino di cinque anni e Mark scoppiò a ridere, in una domenica mattina di una quasi primavera.



Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
15 Marzo 1944
9:40

Il sergente Mark Schreiber era sgattaiolato dalla camera di una deportata russa poco prima delle sei, si era lavato in modo veloce e aveva indossato la sua nuova divisa per gli allenamenti: sebbene non lo avessero ancora richiamato alle armi, il ragazzo era convinto che sarebbe successo e se a Leningrado era stato fortunato non significava certo che sarebbe successo ancora. Sperava solo di rimanere al campo in quei giorni e mettere ordine tra i suoi pensieri e non pensava alla guerra, ma seguiva i suoi allenamenti quotidiani insieme a tutti gli altri arruolati nell'SS.
Venne poi chiamato all'ingresso del campo di lavoro di Buchenwald, con la certezza di un nuovo treno in arrivo. Lo sentiva già fischiare mentre camminava percorrendo il filo spinato, chissà perché da qualche mese a quella parte avvertiva l'arrivo di un treno così giusto e frequente gli metteva quasi ansia; vedere le persone scendere e venire spogliate e private di tutto ciò che avevano non era più un avvenimento gratificante, gli faceva solo desiderare di mandar via Beatrisa da lì il prima possibile e magari di scappare con lei, verso Montréal. Era sicuramente la scelta migliore.
Mentre osservava i deportarti scendere dal treno, era rimasto fermo accanto al filo spinato. Osservava i loro volti come se fossero state tutte persone importanti per lui che in quel momento stava perdendo per sempre.
Un uomo, stanco, sulla cinquantina quasi completamente calvo. Chissà che lavoro faceva, con quante donne era stato, se preferiva un sigaro o un bicchiere di alcool.
Una ragazzina di forse dodici anni. Dov'erano le sue bambole e i quaderni con le lezioni di matematica?
Un'anziana signora. Chissà se sarebbe riuscita a vivere ancora, fuori di lì, si e no quattro anni, sembrava già parecchio malaticcia di suo. I suoi figli erano riusciti a salvarsi?
Un bambino che forse aveva si e no quattro anni, capelli ed occhi chiari. E se l'avesse sottratto alle docce e spacciato per un tedesco? Dopotutto non era ancora stato segnato.
Una ragazza. Una bella, meravigliosa ragazza dagli occhi verdi e i capelli arruffati di uno splendido rosso chiaro. Probabilmente un uomo aveva chiesto la sua mano a suo padre e lui aveva accettato perché solo un uomo per bene può chiedere la mano di un tale fiore.
Quelli non erano gli occhi della sua Bea, ma si disse che sicuramente anche lei aveva un ragazzo a casa che la stava aspettando a braccia aperte. Non ebbe il tempo di formulare un pensiero coerente che non risultasse troppo ossessivo, che sentì una mano poggiarsi sulla sua spalla. Si voltò di scatto, sebbene sapesse che lì per lui non c'era alcun pericolo e vide il volto di Hans Schreiber.
<< Vieni, devo parlarti >>
"Ciao, papà. Sto bene, grazie", ma i pensieri ironici non servivano se non espressi ad alta voce. Lo seguì, allontanandosi dal gruppo di persone sporche, stanche e tristi che si era formato. << Ti ascolto >>
Il maggiore Schreiber gli rivolse un'occhiata, senza smettere di camminare, << Non stai facendo molto, ultimamente >>, gli fece notare.
Mark Schreiber si trattenne dallo sbuffare, << Sono appena guarito e comunque continuo ad allenarmi. Cosa c'è che non va? >>
<< L'allenamento è un tuo dovere e non sei più convalescente da un mese, pretendo che anche tu dia una mano, qui dentro >> fu la risposta del padre. Non ammetteva repliche, dopotutto non era colpa sua se il ragazzo era stato ferito sul fronte e adesso non lo richiamavano alle armi. Di certo non poteva sperare di venir pagato senza far nulla.
<< Dimmi cosa vuoi che faccia >> si arrese, senza nemmeno combattere troppo. Ultimamente non aveva davvero la forza di lottare per qualcosa, nemmeno se vi credeva fermamente.
L'uomo si strinse nelle spalle, << Il tenente Friedrich Heinrich è morto la settimana scorsa, non ricordo di cosa. >> Il ragazzo non se ne meravigliava: era un uomo anziano con i suoi problemi. << Si occupava dell'appello all'entrata dei forni e delle docce. Stilava lui stesso le liste e una volta compiuto il lavoro me le portava. Credi di esserne capace? >>
Il sergente trattenne una smorfia all'idea di un compito simile. Fortunatamente lui non era il tenente Heinrich e non trovava piacere nello stilare liste simili. Ma qualche mese prima avrebbe preso a calci negli stinchi qualsiasi essere appartenente ad una razza inferiore. Scacciò via quel pensiero: doveva accettare per forza, se non voleva che suo padre lo pressasse per Barbara.
<< D'accordo, devo iniziare domani? >>
<< Perfetto >>



Se questo è il tempo che si ha, mettiamo una distanza
dalla città, dai numeri, dal freddo della stanza.
Voglio la tua bocca, ma mi passerà
prima che si apra per me.

Per rimandare ancora tutto a domani, amore
ed essere sempre quello che vuoi,
e non finire mai.
Non finire mai.
Non finire mai.
[Tutto domani, Afterhours]


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