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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Orbite vuote - Remus/Severus ***
Capitolo 2: *** Cappuccetto Rosso - Remus/Tonks ***
Capitolo 3: *** Rimani la mia fame - Bellatrix/Tonks ***
Capitolo 4: *** Era la mia migliore amica - George/Katie ***
Capitolo 5: *** Quelle troppo belle - Severus/Tonks ***
Capitolo 6: *** Come si ama una farfalla - Moody/Tonks ***
Capitolo 7: *** Quello che voglio dire - James/Sirius ***
Capitolo 8: *** La nave è salpata - Sirius/Mary MacDonald ***
Capitolo 9: *** Sapore sulle labbra - Regulus/Remus ***
Capitolo 10: *** La prima ad impazzire - Sirius/Bellatrix ***
Capitolo 11: *** Remus/Tonks, Ron/Bellatrix, James/Dorcas, Luna/Lucius ***
Capitolo 12: *** Severus, Fleur, Tonks e Malocchio ***
Capitolo 13: *** Filius/Pomona, Remus/Tonks, Arthur/Molly ***
Capitolo 14: *** Molly, Scrimgeour/Tonks, Augusta e due crossover folli ***
Capitolo 15: *** Ted Tonks, Alastor, Tonks, Percy/Fleur, Alice/Rodolphus, Remus ***
Capitolo 16: *** Frank, Bill/Fleur, Percy, Tonks, Scrimgeour ***
Capitolo 17: *** Remus/Lily, MacNair, Oliver, Madama Bumb, Neville, James, Remus ***
Capitolo 18: *** Luna, Lucius, Remus/Sirius ***
Capitolo 19: *** Apri gli occhi - Percy ***
Capitolo 20: *** Arthur/Molly, Hannah, Percy, Lucius/Narcissa ***
Capitolo 21: *** Me lo devi - Remus Lupin, John Dawlish ***
Capitolo 22: *** Piove sempre sull'estate - Albus/Gellert ***
Capitolo 23: *** I want much more - Tonks ***
Capitolo 24: *** Remus, Andromeda, Hagrid, Neville, Remus/Tonks ***
Capitolo 25: *** Remus, Sirius, Hagrid, Andromeda, Remus/Tonks ***
Capitolo 26: *** Minerva, Ernie MacMillan, Kingsley ***
Capitolo 27: *** Tonks, Alastor, Regulus, Frank/Alice, Remus/Tonks, AU ***
Capitolo 28: *** Arthur, Fred, Alastor, Remus, Sirius, Remus/Tonks ***
Capitolo 29: *** Regulus, Tonks, Minerva, Amos Diggory ***
Capitolo 30: *** Qualche splendida speranza - Remus/Tonks ***
Capitolo 31: *** L'inverno del '76 - Remus, Sirius ***
Capitolo 32: *** La verità - Remus/Sirius ***
Capitolo 1 *** Orbite vuote - Remus/Severus ***
Partecipo
all'iniziativa Woodstock:
maratona dell'amore libero di Collection of Starlight.
Drabble random, niente di più.
*
Orbite vuote
RemusxSeverus
114 parole
Remus
ha l'impressione che le orbite vuote di quel teschio lo fissino in
continuazione. Sa perfettamente che è una sciocchezza, la
sua, e
Severus non lo riterrebbe nient'altro che uno sciocco se sapesse
l'effetto che il Marchio Nero ha su di lui.
Ma
il serpente continua a guardarlo, a studiarlo, a sibilare
avvertimenti che nessun altro può sentire –
nemmeno il padrone
dell'avambraccio che sta divorando da una vita, in effetti.
Morirete.
«Credi
che qualcuno lo sappia?».
Severus
si volta con immane lentezza sul cuscino, mentre una smorfia
irrisoria gli storce le labbra.
«Se
così fosse, dovremmo essere già morti».
Remus
abbassa inavvertitamente lo sguardo sull'avambraccio di Severus: il
sorriso scarnato del teschio pare ridere di lui.
Morirete
entrambi.
|
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Capitolo 2 *** Cappuccetto Rosso - Remus/Tonks ***
Partecipo
all'iniziativa Woodstock:
maratona dell'amore libero di Collection of Starlight.
Drabble random, niente di più.
*
Cappuccetto Rosso
RemusxTonks
105 parole
«Stai
diventando come lui».
Remus
alza gli occhi e a Tonks non sfugge l'ombra feroce che li attraversa. Ne
ha timore, ma lui rappresenta un'attrazione troppo inebriante
– più
inebriante della paura.
«Tu
non sei Cappuccetto Rosso, Ninfadora: non scamperesti mai alle
mie zanne».
Lei
si muove con passo lento e si accosta al suo volto con un impudente
sorriso divertito.
«Chi
ti dice che io sia proprio Cappuccetto Rosso?».
Remus
si avvicina alle sue labbra – è più
forte di lui, non può
resisterle.
Il
cacciatore aprì il petto del lupo e gli strappò
il cuore.
«Chi
ti dice che non sia io, il cacciatore?».
|
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Capitolo 3 *** Rimani la mia fame - Bellatrix/Tonks ***
Partecipo
all'iniziativa Femslash
Day di Collection of Starlight.
Drabble random, niente di più.
*
Rimani la mia fame
TonksxBellatrix
104 parole
Ucciderla
significava tanto: lei rappresentava quanto di più indecente
avesse
mai compromesso il suo nome. Era la dimostrazione che anche i Black,
i nobili Black, potevano sbagliare, e questo
Bellatrix non
poteva sopportarlo.
Al
solo pensiero di poter serrare le dita attorno alla sua gola delicata
– vedere il terrore in quei suoi dannati occhi neri
– una
forte ondata di piacere le ribolliva nelle vene.
Aspettava
di straziarla e la spiava baciare quell'animale
immondo, con i
sensi irretiti dal desiderio e le unghie conficcate nei palmi.
Quando fissò finalmente il suo cadavere, ebbe
l'impressione di avere ancora fin troppa fame.
|
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Capitolo 4 *** Era la mia migliore amica - George/Katie ***
In
risposta alla sfida di _Aras_
che
aveva richiesto una GeorgexKatie
in cui prompt doveva essere: «Un
semplice grazie sarebbe bastato». Non
credo di aver assolutamente centrato quello _Aras_ voleva, ma spero
che l'apprezzerà lo stesso. (:
Il
pairing GeorgexKatie
è one-sided.
*
Era
la mia migliore
amica
GeorgexKatie
926
parole
Katie
scrutò nuovamente l'amica: quei dieci anni non parevano
essere
trascorsi per Angelina con la stessa ferocia con cui erano trascorsi
per lei. La pelle scura era ancora liscia e lucente, il collo lungo e
affusolato, gli occhi vivi e spigliati senza nemmeno l'ombra di una
piccola ruga. Nonostante indossasse un comunissimo cardigan azzurro
piuttosto largo, Katie aveva notato immediatamente l'insolito
gonfiore del suo ventre.
«Vai
ancora a caccia di rovine magiche in Irlanda?»
domandò d'un tratto
Angelina, giocherellando pigramente con l'ombrellino infilato nel suo
Idromele.
«È
il mio lavoro» rispose brevemente.
«Te
la passi bene?».
«Direi
di sì».
«Bene».
«Sì».
Rimasero
in silenzio diversi minuti. Angelina continuò a sorseggiare
dal
proprio bicchiere, guardandosi attorno come se non avesse molta
importanza che lei fosse lì, seduta ad un tavolo del Paiolo
Magico
con quella che era stata probabilmente una delle sue più
care
amiche. Nemmeno Katie era certa che quello fosse il posto doveva
voleva essere, né che fosse proprio Angelina, in effetti, la
persona
con cui desiderasse parlare.
«Il
servizio è parecchio migliorato negli ultimi anni»
disse Katie con
tono leggero. «E anche il Paiolo Magico sembra più
allegro».
«Merito
di Hannah» spiegò Angelina, indicando con un breve
cenno del capo
la giovane strega dai ricciolini biondi che si stava affaccendando
dietro al bancone. «Ha rimodernato tutto, qui
dentro».
«Hannah
Abbott?» domandò, sporgendosi oltre la spalla di
Angelina per poter
osservare maglio la nuova titolare del Paiolo Magico.
«Accidenti. Se
non me lo avessi detto, non l'avrei mai riconosciuta».
«È
Hannah Paciock, in realtà».
Katie
dischiuse le labbra in un'espressione di muto stupore.
«Davvero
Neville è--?».
«Quasi
da quattro anni, ormai».
«E
quella bambina seduta vicino alle cucine è--».
«Sì.
L'hanno chiamata Alice».
Angelina
sollevò gli occhi scuri dal legno del tavolo e la
fissò con
espressione imperscrutabile. Katie cercò di restituire un
immagine
di sé che fosse altrettanto decisa, ma sapeva che ogni suo
tentativo
si sarebbe rivelato vano. Il ruolo da eroina imbattibile era sempre
toccato ad Angelina – la migliore sul campo di Quidditch, la
più
bella al Ballo del Ceppo, la più coraggiosa alla Battaglia
di
Hogwarts. Ed ora, quasi dieci anni dopo, signora Weasley.
«Lo
sapresti, se solo avessi avuto la creanza di tornare a Londra, ogni
tanto».
«Sai
perché non sono tornata».
«No,
Katie, non lo so» negò con durezza Angelina,
scuotendo il capo.
«Non so perché non sei più tornata.
Sinceramente, non so nemmeno
perché tu sia tornata adesso. Che cosa vuoi?».
«Non
lo so. Secondo te, io come dovrei comportarmi, ora? Nei miei panni,
Angelina, che avresti fatto?».
Angelina
assottigliò gli occhi come un felino.
«Di
cosa stai parlando?».
«Di
te che te ne fotti completamente di me e sposi George».
Angelina
si ritrasse come se Katie avesse appena tentato di scagliarle contro
una maledizione. I suoi occhi neri dardeggiavano verso di lei carichi
di furia e le mani che stringevano il bicchiere tremavano. Katie
assottigliò le labbra, cercando di mantenersi quanto
più
controllata e rigida possibile.
«Tu
che avresti fatto, Angelina?» ripeté.
«È
per questo che accettasti quella proposta di lavoro in
Irlanda?».
Katie
tentò di accusare il colpo al meglio delle sue
possibilità.
«No.
Era indiscutibilmente un'offerta vantaggiosa».
Angelina
annuì appena.
«Io
amo George, Katie».
«No»
sibilò fra i denti. «Tu amavi Fred».
L'effetto
delle sue parole fu micidiale: Angelina si alzò di scatto e
sbatté
entrambe le mani sul tavolo. Il bicchiere di Idromele si infranse a
terra con uno schianto e parecchi clienti si voltarono preoccupati
verso di loro.
«Non
osare...» la interruppe con voce glaciale. «Tu eri
la mia migliore
amica, ma io avevo bisogno di qualcuno che mi capisse.
C'era
solo George. C'eravamo solo noi. Solo noi, capisci? È
successo e
basta, poi tu sei sparita completamente senza darci una sola
spiegazione».
«Sapevi
che ero innamorata di George. Che diavolo volevi che facessi? La tua
damigella d'onore, forse?».
Angelina
rimase a fissarla senza muovere un muscolo, con le labbra strette fra
loro e gli occhi socchiusi.
«Credevo
che fosse soltanto una cotta adolescenziale».
«Hai
creduto male» disse Katie, alzandosi a sua volta in piedi.
«E ora,
se non ti dispiace, non credo ci sia più niente da dire. Non
so
nemmeno per quale motivo io ti abbia chiamato, oggi. È
evidente che
non c'è più niente che io e te possiamo dire o
non dire».
Afferrò
il mantello e aprì di scatto la borsetta alla ricerca del
portamonete: aveva una voglia matta di lasciarsi Angelina alle spalle
quanto più in fretta possibile.
«Lascia
stare, Katie» le disse. «Pago io».
«No»
ribatté duramente, lasciando cadere un paio di monete sul
tavolo.
«Sono io ad averti invitato».
Si
avviò di gran lena verso la porta senza aggiungere
nient'altro. Non
c'era niente da aggiungere.
«Un
semplice grazie sarebbe bastato!» le urlò
sprezzante Angelina.
Katie
si bloccò e le rivolse uno sguardo carico di accusa.
«No.
Non sarebbe bastato proprio niente».
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Capitolo 5 *** Quelle troppo belle - Severus/Tonks ***
In
risposta alla sfida di Lily_Snape
che
aveva richiesto una SeverusxTonks
ambientata nel quinto o nel sesto libro. Il prompt era: «Sei troppo bella per
morire» e so, chiedo venia, di averlo
raggirato come una narcotrafficante, ma tant'è. Lily, so che
mi avevi chiesto che perlomeno ci scappasse un bacio o qualcosa di
simili, ma Severus è Severus, e per quanto Severus/Tonks sia
uno dei miei pairing preferiti, se non sono in modalità OOC
proprio non ce la faccio a non shipparlo con Lily Evans. Che dramma
è la vita, eh?
Spero ti possa ugualmente piacere.
*
Quelle
troppo belle
SeverusxTonks
Luglio
1996
«La
professoressa McGranitt mi ha detto che Remus sarà di
ritorno a
Londra, questa notte».
Severus
tenne il capo chino sulle pergamene che stava correggendo; pareva non
essersi nemmeno accorto della rumorosa giovane che aveva fatto
irruzione nei propri sotterranei. Segnò con una grossa
cancellatura
di inchiostro nero un altro clamoroso errore di Terry Steeval sulle
proprietà dell'aconito e fece una smorfia scocciata al
pensiero di
quanto fossero incompetenti gli studenti del sesto anno.
«Lei
lo ha saputo da te»
riprese con veemenza Tonks,
avvicinandosi a grandi falcate verso la sua scrivania e poggiando
entrambe le mani sul legno di ebano. «Perché
diavolo non me l'hai
detto?».
Le
labbra di Severus si storsero in un sogghigno perfido.
«Non
ho tempo da dedicare alle tue sciocche infatuazioni da
adolescente».
«Stronzo»
soffiò lei, mentre si avvicinava ad una poltrona
lì accanto. Si
lasciò cadere malamente sui cuscini e incrociò
fra loro le gambe
come un ragazzina.
Lui
sollevò gli occhi: sebbene indossasse l'abito di foggia
maschile del
Quartier Generale degli Auror, era impossibile non scorgere l'orlo
della sgargiante T-shirt spuntarle dal bavero o non notare il paio
di sneakers verdi
al posto degli stivali d'ordinanza. Sforare dagli schemi era così
tipico
di lei,
d'altronde, che Severus si era quasi abituato alla sua mancanza di
disciplina. Era una caratteristica che le calzava a pennello ben
più
di quella divisa da giovane soldato di cui tanto era orgogliosa; non
sembrava pronta a quella guerra più di quanto non lo potesse
essere
una tredicenne.
«Avevo
il diritto di saperlo, professore» incalzò
nuovamente Tonks.
«A
quanto mi è stato riferito, la tua attuale occupazione
dovrebbe
essere preoccuparti per la sicurezza di Hogsmeade e della scuola.
Lupin se ne tiene ben alla larga ed è qui, Ninfadora, che
finiscono
i tuoi diritti».
Gli
occhi scuri di Tonks si assottigliarono minacciosi, ma Severus aveva
già riabbassato il capo sulle proprie pergamene.
«Sei
un bastardo» lo insultò con voce alterata.
«E sicuramente morirai
bastardo. Sei uno di quei bastardi talmente bastardi che rimangono
bastardi perfino da morti. Un bastardo in qualunque cosa, che sia da
vivo, da morto o da redivivo».
«È
appagante scoprire che dopo sette anni di istruzione hai imparato la
distinzioni fra un morto e un redivivo; peccato tu non sia riuscita a
cogliere la sottile sfumatura che separa un umano
da un
Vampiro» si fermò per rivolgerle un'occhiata
disgustata. «Ah...
dimenticavo: tu non cogli le sfumature che separano gli umani da...
beh, tutto il resto».
Tonks
si levò di scatto, lo fulminò con un'occhiata
furente e si lanciò
a grandi passi verso la porta, assicurandosi che lui potesse vedere
con chiarezza il dito medio che aveva alzato. Prima che la sua voce
svanisse del tutto, Severus la sentì imprecare lungo le
scale per
almeno una decina di secondi.
La
fragranza fruttata del suo profumo aleggiò nei suoi
sotterranei fin
quando Severus non si decise a mettere le mani fra i propri
alambicchi.
Dicembre
1996
Remus
Lupin era una di quelle tante persone che Severus sperava sempre di
incontrare il meno possibile. Era stato scioccante imbattersi in lui,
quando invece cercava Albus Silente – e la poltrona del
Preside,
purtroppo, era vuota.
A
differenza di tutta quella gente che continuava a farsi irretire da
quel maledetto licantropo come un cucciolo di Kneazle, Severus era
allergico a quella sua studiata affabilità; era falsa,
calcolata,
nauseante. Remus Lupin era fra quegli adulatori
d'alta classe
che dicono esattamente quello che ci si aspetta di sentirsi dire. Fin
dai tempi della scuola si era rivelato un incorreggibile debole,
sempre pronto a difendere Black e Potter per paura di inimicarseli, a
qualunque costo. Severus non poteva dimenticare le centinaia di
umiliazioni che aveva dovuto pagare, né di quella notte di
luna
piena in cui lo scherzo di quegli idioti gli costò quasi la
vita.
Non
poteva dimenticare troppe cose – l'immagine di Lupin che studiava
per i M.A.G.O. con Lily, Lily che si confida con Lupin di
ciò che un
tempo avrebbe preferito raccontare a lui, Lily che sfiora il braccio
di Lupin nel cortile di Hogwarts, Lily che accetta
Lupin, un
dannato lupo mannaro, quando non era stata capace di perdonare
lui.
“ Escono
di nascosto, di notte. Ha qualcosa di strano, quel Lupin.
Dov'è che
va sempre?”.
Mentre
fissava il volto magro e segnato di Lupin, sentì il mostro
dell'acredine agitarsi ancora una volta dentro di lui. Sebbene
sembrasse essersi fatto più pallido e lacero dall'ultima
volta in
cui era stato costretto ad incontrarlo, i suoi occhi erano brillanti
e attenti.
«Buonasera,
Severus» lo salutò con voce roca, chinando appena
il capo. «Cercavo
il professor Silente. Sai dove posso trovarlo?».
«Se
lo avessi saputo, non sarei venuto fin qui» lo
liquidò brevemente
lui, voltandosi per tornare ai propri passi.
«Severus».
Severus
si fermò di colpo e chiuse gli occhi in un moto di stizza.
Sentiva
il disgusto e il desiderio di far sparire quel lupo mannaro
accentuarsi rapidamente dentro di sé. Girò il
collo quel tanto che
bastava a rivolgere a Lupin un'occhiataccia particolarmente sdegnosa.
«So
quello che hai fatto».
Le
sopracciglia di Severus schizzarono in alto; le sue labbra sottili si
storsero in un mezzo sogghigno.
«Temo
di non capirti».
Lo
sguardo di Lupin fu attraversato d'un tratto da una luce minacciosa
–
quasi ferina. Si umettò con lentezza le
labbra, come se
stesse valutando con attenzione le parole da usare.
«Hai
detto a Fenrir Greyback che nel suo gruppo c'è un
infiltrato».
«Davvero
l'ho fatto?» chiese con innocente stupore.
Lupin
si mosse con una velocità tale che Severus ebbe a malapena
il tempo
di accorgersene; un istante dopo, aveva già le spalle
schiacciate
contro la parete dell'ufficio e il braccio sinistro di Lupin premuto
con barbara forza contro la sua gola. Invano Severus tentò
di
liberarsene: il tempo trascorso insieme a quelli come lui
sembravano aver avuto su Lupin un'influenza bestiale.
I suoi
occhi sembravano ardere di violenza e fu solo in quel momento che
Severus si accorse che erano gialli.
“ Buon
Dio” si ritrovò a pensare.
«Come
hai potuto?» riprese Lupin, serrando rudemente la propria
stretta.
«Come cazzo hai potuto
farlo?».
«Ho
mentito, forse?» sputò Severus fra i denti,
cercando di ritrovare
il fiato e piantando le unghie nell'avambraccio dell'altro.
«Non mi
sembri meno animale di quanto possa esserlo Greyback. Guardati».
A
quelle parole, la ferocia di Lupin parve scemare con la stessa
inaspettata rapidità con la quale era esplosa.
Sbatté un paio di
volte le palpebre e si allontanò da lui come se ne fosse
appena
stato scottato. Severus lo fissò con circospezione mentre si
massaggiava con cura la gola: quella missione lo avrebbe fatto
sicuramente impazzire.
«Sei
un maledetto stronzo» ringhiò Lupin, mentre
stringeva fra loro i
pugni con movimenti nervoso. «Un fottuto, maledettissimo
stronzo che
morirà stronzo».
Severus
si lasciò sfuggire uno sbuffo sarcastico.
«Me
l'hanno detto, sì. Me l'ha detto anche Ninfadora».
Lupin
ruotò la testa con uno scatto e quell'irruenza svanita poco
prima
sembrò riaffiorare nei suoi occhi.
«Cosa
le hai fatto?».
«Decisamente
meno di quanto tu non abbia fatto a lei, credo».
Il
colore rimasto sul viso di Lupin parve svanire in un secondo.
Distolse in fretta lo sguardo dall'altro mago e si diresse verso la
grande finestra che si affacciava sui cortili interni. Si
appoggiò
al vetro con il braccio e rimase immobile e silenzioso. Severus ebbe
l'impressione che Lupin stesse cercando di soffocare un altro scoppio
di nervi.
«Sai,
Lupin, in una circostanza diversa saresti l'ultimo a cui offrirei
spontaneamente un consiglio, ma... ti suggerisco di stare alla larga
da Ninfadora Tonks. La distruggeresti».
Fra
tutte le reazioni che Severus avrebbe potuto ipotizzare, di certo che
Lupin scoppiasse a ridere non sarebbe stata fra quelle. Invece,
eccolo lì, ancora appoggiato alla finestra e scosso da una
bassa e
roca risata priva di allegria.
«Sai,
Severus... saresti l'ultimo a cui rivolgerei un complimento, se solo
tu non fossi anche l'unico abbastanza bastardo da dirmi la
verità.
Perché è la verità, per
Godric...» aggiunse in un flebile
sussurro, appoggiando la fronte al vetro. «Non le causerei
che
dolore».
“ Tu
non vedi l'ora di unirti a Tu-Sai-Chi, vero?”.
Severus
fece una smorfia sprezzante.
«È
troppo giovane» riprese a parlare Lupin, sebbene Severus
avesse la
sensazione che si stesse rivolgendo a se stesso. «Troppo
innocente.
Non posso trascinarla insieme a me».
«No»
rispose Severus con voce bassa. «Non puoi».
Giugno
1997
«Va'
avanti, Draco» ordinò repentinamente al ragazzo
che lo seguiva.
«Raggiungi i cancelli passando per le serre. La strada
sarà
libera».
Draco
Malfoy aveva il volto pallido e sudato in una maschera di puro
terrore. A Severus non era mai sembrato tanto vulnerabile come in
quel momento: non era che un ragazzino, dopotutto, e non
poté
evitare di pensare a lui con un'ondata di indicibile pena.
«Vai»
gli ripeté seccato.
Con
le labbra tremanti e gli occhi che si guardavano febbrilmente a
destra e a sinistra, Draco annuì con un gesto meccanico
della testa
e iniziò a correre come un forsennato in direzione dei
cortili.
Severus sapeva che avrebbe dovuto seguirlo per accertarsi che non gli
accadesse nulla di male – sapeva cosa
rischiava – ma aveva
intravisto un Auror duellare con Rowle dall'altro capo del lungo
corridoio e in tutta la Gran Bretagna c'era solo un Auror che quella
notte avrebbe potuto essere a Hogwarts.
Tonks
era una duellante ben più micidiale di quanto non si potesse
immaginare. Sebbene fosse nota per la propria goffaggine, sferrava
ogni colpo con una precisione e una grinta tali da far pensare che
non avesse mai fatto altro in tutta la sua vita. Era evidente che
Rowle si trovava in posizione di netto svantaggio, ma Severus
sollevò
comunque la bacchetta e gli scagliò contro un potente
Schiantesimo.
Vide
Tonks trasalire mentre la scia rossa le sfrecciava accanto e voltarsi
con uno scatto. Quando ebbe riconosciuto la figura alta e scura di
Severus, le sue spalle parvero rilassarsi.
S'affrettò
a correre verso di lui. Aveva il viso sporco di polvere e un grosso
taglio che le correva lungo la tempia sinistra, ma il suo sguardo
brillava di feroce determinazione.
«È
proprio tipico di voi bastardi Serpeverde attaccare a
tradimento»
gli disse lei con voce dura, sebbene gli angoli della sua bocca
fossero lievemente piegati verso l'alto.
Severus
la guardò per un lungo istante e alzò cautamente
la mano per
sfiorarle la sanguinante ferita che le stava rigando il viso. Tonks
sobbalzò e rimase impietrita, con gli occhi sgranati dallo
stupore.
«P-professor
Piton?».
Lui
fece una smorfia infastidita, come se avesse appena ascoltato
qualcosa di particolarmente offensivo.
«Se
solo tu fossi un poco più elegante e un poco meno scurrile,
assomiglieresti a Lily Evans in una maniera nauseante».
Tonks
si allontanò di un passo da lui e rimase a fissarlo con la
fronte
aggrottata, scuotendo appena il capo.
«E
Lupin non ti merita» riprese sprezzante lui, facendo un
movimento
seccato con la mano con cui l'aveva accarezzata pochi secondi prima.
«Non ti meriterà mai. Quelli come noi non meritano
mai quelle
come voi».
«Professore,
non--».
«E
dovresti prestare attenzione, Ninfadora, perché sembra che
anche la
morte abbia un debole per quelle come te».
Quelle
troppo belle anche per lei.
|
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Capitolo 6 *** Come si ama una farfalla - Moody/Tonks ***
In
risposta alla sfida di
e
m m e che
aveva richiesto una AlastorxTonks, rating arancione o
rosso. Il prompt era Pozione
Ringiovanente e non è
stato rispettato per un cavolo ed è stato
magistralmente incastrato nella fan fiction. Non sono
granché per quanto riguarda i rating alti, lo ammetto,
quindi direi che facciamo finta che questa sia tipo rating amaranto e non se
ne parli più. Oh, sì, sono schifosamente in
ritardo, ma tanto lo sei pure tu, quindi se il mal è comune,
il cracker si spezza a metà.
*
Come
si ama una farfalla
AlastorxTonks
Diversi
anni più tardi, fronteggiando per l'ultima volta il volto
serpentino
di Lord Voldemort, Alastor Moody avrebbe maledetto ogni singola ora
del giorno in cui aveva incontrato la giovane signorina Tonks.
All'epoca
lei non aveva che diciotto anni ed era una studentessa troppo fresca
di scuola, con la pelle che ancora odorava di ciliegia e le labbra
rosa e lucenti come quelle di una tredicenne sulla soglia
dell'adolescenza.
Mentre
la fissava con entrambi gli occhi (quello magico, santo cielo, aveva
già notato che la giovane indossava una paio di mutandine
con decine
di coniglietti stampati sopra), si chiedeva come diavolo avessero
potuto gli standard del Quartier Generale degli Auror abbassarsi fino
a quel ridicolo livello e come diavolo avesse potuto lui,
il
più vigile fra tutti, non rendersi conto di quel vergognoso
declino.
Si
consolò nella certezza che quella sciocca ragazzina non
avrebbe mai
superato l'addestramento e non sarebbe mai diventata
un'Auror.
E quello, a conti fatti, fu il suo primo errore.
*
Moody
non le aveva insegnato tutto quello che sapeva. Aveva fatto in modo
che apprendesse tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno,
quello sì,
ma non tutto quello che lui sapeva.
Quello
che lui sapeva, in effetti, era una matassa di sapere troppo
ingarbugliata e malsana per una mente ancora tanto giovane e
frizzante come lo era quella di Tonks. Moody aveva conosciuto il
sapore ferroso della guerra e il rombo primitivo di ogni sua
battaglia; conosceva il significato dell'orologio, delle monotonia
con qui scorrono le lancette e del lento brusio di una mente che
attende qualcuno che, chissà, probabilmente non sarebbe
più
ritornato.
Di
tutte queste cose lei non sapeva proprio nulla.
Tonks
stava raccogliendo freneticamente una pila di inutili carte che le
erano scivolate a terra e il modo in cui sbuffava sembrava proprio
quello di una ragazzina capricciosa costretta a riordinare la propria
cameretta.
Moody
emise un verso sprezzante e lei alzò di colpo la testa verso
di lui.
Si scosto un ciuffo di capelli vermigli dalla fronte e inclinò il
capo con espressione scocciata.
«Oh,
finiscila di brontolare. Adesso metto a posto».
«Fra
un secondo sarà tutto di nuovo sul pavimento».
Lei
socchiuse gli occhi e rimase immobile qualche istante, fissandolo con
aria smarrita. Poi si alzò e tornò a sedere al
proprio posto, con
tutti i fogli e gli appunti ancora sparsi ai suoi piedi come
ragnatele.
«E
allora le lascio lì» sentenziò con una
linguaccia.
Dovette
accorgersi che Moody non aveva la minima intenzione di rispondere
alla sua provocazione, perché il suo viso si fece d'un
tratto più
guardingo.
«Che
cavolo hai, Malocchio? L'ultima volta mi hai colpito con il
bastone».
Moody
annuì, distante.
«Mi
è stato chiesto di andare in pensione».
Le
sopracciglia di Tonks schizzarono verso l'alto: se c'era qualcosa che
non si aspettava – qualcosa per cui non sarebbe mai stata
preparata –
ecco, era quella. Strabuzzò gli occhi diverse volte, scosse
la testa
e boccheggiò un poco, ma la notizia era arrivata con un
impeto tale
da spazzare via qualunque cosa ci fosse nel suo cervello.
«Che...
chi... che dici?».
«Pensionamento,
Ninfadora».
«Quando?».
«La
prossima settimana».
«La
prossima...? E quando accidenti avevi intenzione di dirmelo,
bastardo!?» urlò d'impeto lei, scattando di colpo
e rovesciando la
sedia a terra con un rumore secco. «No, fa' tranquillo. A
chi
importa, no? A me? Dovrebbe? Ah, fottiti, Malocchio, non--».
Il
bastone di Moody la colpì prima che lei avesse il tempo di
accorgersi del colpo che arrivava.
«Cazzo!»
imprecò, portando una mano sulla testa.
Moody
la colpì una seconda volta.
«Non
essere volgare e chiudi la bocca, Ninfadora».
«Non
chiamarmi Ninfadora!».
Rimasero
in silenzio per parecchio tempo. Tonks tendeva a prendere ogni cosa
di petto fin da quando lui l'aveva conosciuta; iniziava a strepitare
e imprecare, senza che si riuscisse bene a intendere cosa volesse
dire. Talvolta, dava proprio l'impressione di essere una leonessa
inferocita rinchiusa in una gabbia. Con il passare del tempo, Moody
aveva imparato a stroncare quelle rabbie frenetiche alla loro nascita
e le loro discussioni più feroci, ora, avvenivano con una
routine
straordinariamente regolare. Prima Tonks strillava, poi Moody la
interrompeva bruscamente e se ne restavano chiusi in un orgoglioso
silenzio per diversi minuti. Moody riprendeva il discorso, Tonks lo
mandava al diavolo, Moody la colpiva con il bastone, Tonks imprecava,
Moody grugniva e, alla fine, la questione si sbrogliava da
sé.
Erano
troppo simili per poter sperare di discutere senza generarne un
autentico massacro.
«Sul
serio, allora?» riprese Tonks con un voce flebile, evitando
stoicamente di incrociare gli occhi dell'altro Auror. «Hai
davvero
intenzione di andare in pensione?».
«Non
mi pare di aver detto di voler andar in pensione»
ribatté con
franchezza lui. «Ho detto che mi ci mandano. Amen».
«È
stata la Umbridge, vero?».
Moody
fece un gesto eloquente con l'unico sopracciglio rimastogli. Il suo
sorriso sghembo parve storcersi in una maschera beffarda.
«Quella
puttana» sputò con rabbia Tonks.
«Sei
un'Auror, ragazza, non uno strillone della Gazzetta del
Profeta».
«Non
possono mandarti via. Sei il più grande Auror del Ministero
e
non--».
«Ho
già firmato, Tonks» la interruppe con estrema
serietà lui.
Per
un attimo, sembrò che Tonks non avesse altro da aggiungere,
ma Moody
aveva imparato fin troppo bene che il giorno in cui quella ragazza
sarebbe stata zitta era ancora lontano. Quando lei parlò di
nuovo,
c'era un tono di mitigato dolore nella sua voce che gli
arrivò del
tutto sconosciuto.
«Perché?
Avresti potuto rifiutarti».
Moody
zoppicò attraverso il proprio ufficio fino alla finestra
incantata:
quella sera gli addetti della Manutenzione Magica dovevano essere di
cattivo umore, perché oltre il vetro non si intraveda oltre
una
spessa coltre di nebbia bluastra. Si appoggiò con entrambe
le mani
all'impugnatura del proprio bastone e fece un respiro profondo.
Avrebbe
davvero potuto rifiutare? Oh, sì. Sì, avrebbe
potuto eccome, ma non
lo aveva fatto. E sapeva – e questa sarebbe stata
probabilmente la
parte più difficile – che Tonks non avrebbe
capito. Anche lui era
stato un giovane Auror nel pieno delle forze, un tempo; se avesse
avuto in quel momento l'età che aveva lei, difficilmente
avrebbe
capito il perché di quella scelta così umiliante.
«Albus
Silente mi ha chiesto di prendere il posto come insegnante di Difesa
Contro le Arti Oscure a Hogwarts».
Tonks
fece una smorfia sconcertata.
«Tu
che insegni a qualche centinaio di ragazzini? Per le verruche di
Tosca Tassorosso, è la cosa più ridicola che
abbia mai sentito. Tu
detesti i bambini, Malocchio!».
«Ma
non vado mica per insegnare, Ninfadora!» latrò di
rimando lui.
«Albus ha un brutto presentimento. E con il Torneo Tremaghi
alle
porte, la delegazione di quel Mangiamorte figlio di una cagna di
Karkaroff e quel Piton che--».
«Piton
è a posto».
«Sì,
lo era pure la mia gamba, un tempo» continuò
imperterrito Moody.
«Sta di fatto, ragazza, che Harry Potter sarà a
Hogwarts, e puoi
scommetterci le chiappe che qualcuno cercherà di fargli la
festa».
Completamente
rovesciato all'interno della sua stessa scatola cranica, l'occhio
magico di Moody la scorse sorridere con quell'espressione un po'
dolce e un po' arrendevole che si concede ai bambini. Non disse
nulla, ma si allontanò dalla scrivania e appoggiò
i gomiti al
davanzale della finestra e il volto ai palmi della mani.
«Stronzate»
disse con un sorriso storto. «So benissimo che non vai in
pensione
per quello. E so pure che ci volevi andare, in un modo o nell'altro,
sennò col cavolo di Merlino che ti mandavano a casa, quegli
idioti.
Non fare il vecchio bastardo con me, Malocchio. So che non sono
coincidenze. Harry Potter, il Torneo Tremaghi, Silente che ti vuole
come insegnante... e Sirius Black è evaso da Azkaban solo
l'anno
scorso» si interruppe un secondo e scosse la testa come se
volesse
scacciare una mosca fastidiosa, ma a Moody non era sfuggito il tono
rabbioso con il quale aveva pronunciato il nome del cugino.
«Non
sono una cretina. So cosa sta succedendo...».
Moody
la invitò a continuare con uno sguardo e lei,
mordicchiandosi appena
il labbro inferiore, annuì con folle risolutezza un paio di
volte.
«Lui
sta tornando».
Negli
occhi scuri di Tonks si era accesa una luce pericolosamente decisa.
Moody aveva visto decine di sguardi come quello nel corso della sua
vita: i Potter, i Paciock, i Prewett... in ognuno di loro sembrava
ardere una fiamma di inumana determinazione. E alla fine, uno dopo
l'altro, ognuno di loro se ne era andato. La consapevolezza di non
poterle evitare qualunque cosa sarebbe accaduta lo rendeva
infinitamente triste; lei era giovane, esattamente come lo erano
stati i Potter quindici anni prima ed esattamente come lo era stato
lui nella guerra contro Grindelwald. Lord Voldemort e i suoi
Mangiamorte le avevano già trasformato l'infanzia in un
incubo fatto
di filastrocche con mantelli neri e lampi verdi ed ora tutto faceva
presagire il peggio.
«Combatterò
con te, Malocchio».
Moody
trattenne a stento una smorfia addolorata: sapeva che lei avrebbe
detto qualcosa del genere. Non si aspetta niente meno che una
risposta da stupida ed eroica Tassorosso. Niente di meno di una
risposta da Auror, a conti fatti, perché era stato lui ad
addestrarla e nessuno – nessuno
– addestrato da lui aveva
mai smesso di parlare da Auror.
Eppure,
sentiva qualcosa di stonato in quella sua decisione: Moody temette
fosse a causa della sua età, del suo sorriso scanzonato e
del suo
fare sboccato. Tonks era fuori posto in una guerra, ma quello, col
senno di poi, non si rivelò nient'altro che un altro dannato
errore.
*
«Sei
giovane per entrare nell'Ordine della Fenice, Ninfadora».
«Non
chiamarmi Ninfadora!» gridò irritata
lei, sbattendo con foga un
pugno sul pavimento del salotto di Moody. «E va' al
diavolo».
Moody
bevve un altro sorso di Whisky Incendiario dalla sua fiaschetta
personale. Tonks parve fremere di rabbia qualche istante ancora,
prima di decidere di sedere sulla poltrona davanti al lui.
Incrociò
le braccia al petto con la risolutezza cocciuta di una bambina e lo
scrutò duramente.
«Io
combatterò, Malocchio. Tu-Sai-Chi è tornato e io
combatterò. Non
me ne frega un accidenti che a te vada bene o meno. Io
combatterò.
Amen».
«Hai
idea di che diavolo significhi combattere Voldemort?».
«No,
non ne ho idea» confessò semplicemente lei e Moody
rimase un po'
spiazzato dalla sua risposta. Si aspettava qualunque genere di scusa,
qualunque tentativo di raggirare la domanda, ma non una risposta
così
ingenuamente candida. «Ma mi hai addestrato nella
possibilità che
avrei dovuto combattere, un giorno, no? È per questo che
sono qui.
Voglio la mia possibilità, Malocchio. L'hai data a
tutti».
Moody
socchiuse gli occhi, pensieroso, e fu solo dopo diversi minuti di
profondo silenzio che alzò una mano in segno di resa.
Sembrava
proprio che lei fosse destinata a rappresentare ogni suo errore.
*
«Cosa
c'è di sbagliato in quello che facciamo?» chiese
con innocente
casualità Tonks, abbottonandosi frettolosamente la camicia
d'ordinanza del Quartier Generale degli Auror. «Non
è mica niente
di cattivo. O sì?».
Alastor
continuava a tenere gli occhi inchiodati alle macchie di
umidità del
soffitto di Grimmauld Place. Si domandava incessantemente come
diavolo avesse potuto farsi scappare la situazione. Come diavolo
aveva potuto permetterle di arrivare fin dove lei l'aveva trascinato?
E tutte le volte, Tonks gli domandava dove stessero sbagliando, come
se l'errore non fosse evidente: si stava innamorando di lei,
maledizione, e Moody non avrebbe mai potuto cadere in un errore tanto
grande.
«C'è
tutto di sbagliato».
«Beh,
mica tutto» ribatté lei con un sorriso birichino.
Si
stendette di nuovo accanto a lui, con la camicia abbottonata solo a
metà che gli scivolava lungo un braccio magro e la spallina
verde
del reggiseno che le delineava la clavicola. Era bella, non si poteva
negare, ed era giovane, e per quello ci si sarebbe dovuti maledire.
Moody
non ne era più in grado. Si ritrovò ad
accarezzarle il fianco
liscio senza nemmeno rendersene conto.
«Non
andrà avanti» le disse in tono burbero.
«Non crederci troppo. Io
non posso cambiare il tempo. Men che meno potrei cambiare questa
guerra».
«E
chi se ne fotte» lo liquidò lei, sedendosi a
cavalcioni sopra di
lui e appoggiandosi con espressione irriverente al suo petto segnato.
«Se ti avessi voluto giovane, ti avrei intossicato di Pozione
Ringiovanente fin quando non ti saresti beccato l'acne. Ma ti voglio
così, vecchio e bastardo».
Moody
aveva sempre l'impressione che le labbra di Tonks avessero il sapore
di ciliegia, di fragola o di qualunque altra diavoleria da ragazzina.
Eppure, sapeva perfettamente che tutto ciò che lei aveva
conservato
di innocente non era ormai che una reminiscenza ormai lontana nel
tempo. L'aveva trascinata con sé in ogni battaglia; l'aveva
vista
abbattere i propri nemici senza che la più delicata luce
della pietà
le attraversasse gli occhi; l'aveva trasformata da una diciottenne
fremente e irrequieta in un soldato dall'aroma di frutta. E per
quanto baciarla gli desse lo stesso effetto di un sedativo, per
quanto la sua pelle nuda gli ardesse nei polpastrelli, per quanto i
suoi seni e i suoi fianchi lo facessero sentire dannatamente vivo,
Moody avvertiva la sensazione di stringere fra le mani qualcosa di
troppo fuggevole. Era come amare una farfalla – e le farfalle
muoiono sempre troppo presto.
*
Fronteggiando
per l'ultima volta il volto serpentino di Lord Voldemort, Alastor
Moody maledì ogni singola ora del giorno in cui aveva
incontrato la
giovane signorina Tonks, e di ogni giorno successivo trascorso in sua
compagnia. Ne maledì l'irruenza, ne maledì la
sfacciataggine, ne
maledì ogni momento fra le sue labbra e i suoi lombi.
Maledì la
stoltezza che lo aveva trascinato in quell'abisso di idee sbagliate,
maledettamente sbagliate, costruite su altre idee ancora più
sbagliate.
Non
maledisse mai lei, poiché sarebbe stato ben peggiore che
maledire se
stesso, ma maledisse a lungo la sua irraggiungibile giovinezza
– o
la propria inarrestabile vecchiaia, magari. Se solo lui avesse avuto
un mezzo secolo di meno o lei un mezzo secolo di più, ecco,
allora
forse ad entrambi sarebbe rimasto qualcosa di meno malaugurato di
quell'amore in declino.
Maledì
il tempo fino a quando ne conservò per maledirlo, e quando
alla fine
raggiunse terra, non gli rimase altro da pensare se non che non
avrebbe mai potuto diventare giovane per lei; sperava soltanto che
lei, con più fortuna di quanta lui non avesse dimostrato in
vita,
potesse diventare anziana per lui.
Ma
lei era come una farfalla e fu proprio questo che Moody, per triste
ironia, alla fine dimenticò di maledire.
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Capitolo 7 *** Quello che voglio dire - James/Sirius ***
In
risposta alla sfida di somochu
che aveva richiesto una James/Sirius dal prompt stessa
doccia.
Non ho mai scritto così tante slash come in questi giorni,
ma tanto lo sappiamo tutti che le mie non sono vere slash, ma cosine
che ci girano sempre e soltanto attorno.
*
Quello
che voglio
dire
JamesxSirius
1041
parole
Se
mi avessero predetto che questo sarebbe stato il
mio volto –
il mio presente – non gli avrei mai creduto. Non avrei potuto
credere a nulla del genere. Eppure, eccolo qui, il mio riflesso. Ho
la faccia pallida e tirata di un idiota dai capelli troppo lunghi e
gli occhi stanchi; e queste occhiaie... per Godric,
questa
guerra mi sta mangiando vivo.
Scuoto
la testa con un mezzo sorriso rassegnato. A volte ho la sensazione
che ogni giorno trascorso mi abbia strappato un pezzo di ciò
che
sono stato un tempo. Quando la guerra era ancora uno spettro lontano
e indefinito, a miglia e miglia di distanza dalle mura di Hogwarts:
ecco, ciò che era stata la mia vita. Le nottate insonni
passate a
mangiare Cioccorane e Api Frizzole sgraffignate a Mielanda; i
pleniluni con il vento sul muso e il selvaggio brivido della
libertà
nelle vene; la convinzione di poter essere per sempre invincibile.
Per
sempre Sirius Black.
Eravamo
più giovani, si potrebbe dire, eravamo più
coglioni. E invece no,
oggi non lo siamo meno di allora – né l'una
né l'altra cosa – e
c'è questa cosa dannata fuori dalla porta che non aspetta
che
mangiarci tutti – mangiarci proprio vivi, giuro.
È
un casino. È tutto un grande casino più grosso di
tutti noi. È più
grosso del povero Peter, sempre chiuso in casa, troppo buono per
combattere la guerra, troppo intimidito per vincerla, e per vincerla
ci dovremmo mettere un po' meno buone intenzioni e un po'
più fatti. È più grossa di
Remus, che ormai si è dimenticato di essere
stato quello calmo, quello paziente, quello gentile: Remus è
il più smarrito, fra di noi, è quello che ha
iniziato a farsi mangiare
per primo e adesso cammina davvero dentro il corpo del suo stesso
cadavere. La cazzata da rimpiangere per tutta la vita prima o poi
scappa a tutti – solo che lui non era pronto e se
l'è beccata in
pieno stomaco.
E
poi c'è l'altro, c'è James. E lui, davvero,
è proprio il più
coglione in assoluto.
*
«Ti
stavi facendo una doccia?».
«No,
mi piace gironzolare per casa nudo e con la testa piena di
sapone»
ribatto con piglio esasperato. «Idiota di un
Potter».
James
si raddrizza gli occhiali rotondi con la solita aria beffarda,
afferra una sedia della mia cucina, ci si siede al contrario e mi
rivolge un sorriso sghembo. C'è qualcosa di sinistro nei
suoi occhi
nocciola, c'è qualche cazzo di problema, stavolta. Conosco
James
come conosco la mia pelle, e so quando
c'è un problema.
Adesso c'è un problema.
«Che
succede?».
«Lily
aspetta un bambino».
Mi
sembra dispiaciuto, ma sono convinto che la mia faccia sia ancora
più
schifosa della sua. Non credo che i brividi che sto avvertendo lungo
la schiena siano dovuti alle gocce d'acqua che scivolano dai miei
capelli. James trova il coraggio di alzare gli occhi verso di me e io
mi volto in fretta e mi dirigo a lunghe falcate verso il bagno.
Non
ho proprio voglia di vederlo. Non mi va che riesca a capire quello
che mi passa per la testa – non adesso che sto pensando che
è un
coglione più di quanto non lo abbia mai pensato in tutta la
mia
vita.
*
Sento
James intrufolarsi nel bagno nonostante lo scrosciare dell'acqua
sulla mia testa. Magari me lo sono solo immaginato, magari sapevo
semplicemente che sarebbe arrivato. Fingo di non averlo aspettato da
quando l'ho piantato da solo in cucina e continuo a sciacquarmi le
braccia.
«Senti,
Padfoot, io e Lily siamo sposati...».
Se
solo la sua voce non fosse tanto addolorata, mi verrebbe da ridere, e
pure tanto.
«E
qualunque cosa... sai, questo.
Ecco, c'è qualcosa che... non...».
Che
idiota, adesso mi verrà sul serio da ridere e lui si
incazzerà
pensando che non lo prendo abbastanza sul serio. Io lo prendo molto
sul serio, l'ho sempre
preso
sul serio, perfino
quando non avrei dovuto, ma lui è un tale cretino che non
puoi
prenderlo sul serio senza ridere. E lo sto prendendo parecchio sul
serio, adesso, talmente tanto che vorrei spaccargli la faccia a
pugni.
«Padfoot,
quello che voglio dire è... ecco...».
Sbotta
in un'imprecazione scurrile e lo sento scattare in piedi da qualunque
posto si fosse seduto. Per un attimo vengo attraversato dal pensiero
che se ne stia andando, e non so se valga davvero la pena esserne
soddisfatti, ma poi spalanca di colpo la tenda del mia doccia e mi
strappa un mezzo strillo davvero poco virile. Poi caccia un piede
dentro la vasca, caccia dentro quell'altro e se ne resta lì,
impalato sotto il getto d'acqua tiepida e con gli occhiali storti sul
naso. Strabuzzò un po' gli occhi, incredulo.
«Coglione,
sei appena entrato nella mia doccia con i vestiti».
Storce
le labbra come una ragazzina capricciosa, si raddrizza gli occhiali e
poi appoggia la testa ormai fradicia al mio petto nudo. D'un tratto
non so più cosa fare – non so mai
cosa
fare.
«Prongs...».
«Sta'
zitto, Padfoot» borbotta scocciato. «Ci ho
già provato io, a
parlare, e fidati, non ci si riesce».
«Perché
sei un idiota. E non me ne frega proprio niente, il che è un
cazzo
di problema, se ci pensi bene» replicò schietto.
Poi mi viene
l'impulso di passargli una mano fra i capelli e nel vedere che non si
mettono in ordine nemmeno da fradici mi viene fuori un sorriso
davvero ebete. «Io resto comunque qui, Prongs»
aggiungo in un
mormorio basso.
James
non dice niente, ma ho come l'impressione che stia pensando a
tutt'altro. Sta pensando al contrario, sta pensando che non
è
giusto, sta pensando che è sbagliato, e sta pensando di non
dirmelo
perché è un cretino sentimentale e
chissà che scenata si immagina
io possa fare. Però c'è qualcosa che stride in
tutta questa
situazione, c'è davvero qualcosa che non è al
posto suo. Lily che
aspetta un bambino, il bambino di Prongs, lo stesso scemo che si
è
gettato vestito sotto la doccia insieme a me e adesso non sembra
più
voler dire nient'altro. C'è qualcosa che non dovrebbe
esserci, forse
c'è persino qualcosa che non ho capito.
O
forse quello che vuole dire l'ho capito e non mi piace per niente.
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Capitolo 8 *** La nave è salpata - Sirius/Mary MacDonald ***
In
risposta alla sfida di
June che aveva richiesto una Smiling
Star,
Sirius/Mary MacDonald, con prompt «Ogni
tanto mi chiedo cosa mai stiamo aspettando». «Che
sia troppo
tardi», (Baricco
– Oceano Mare) e come obblighi che fossero coetanei e niente
one-sided. Non ho citato alla lettera Baricco, spero faccia lo
stesso.
*
La
nave è salpata
Sirius
BlackxMary
MacDonald
2175
parole
Settembre
1970
Era
una ragazzina piena di ricciolini chiari, tutti corti e arruffati
attorno al viso rotondo, e la Sala Grande le prestò la
stessa
placida attenzione che avrebbe riservato a qualunque altra nuova
studentessa di Hogwarts. Quella sera, poi, durante lo Smistamento,
c'era già chi aveva provveduto ad attirare su di
sé gli sguardi di
tutti: Sirius Black sedeva al tavolo di Grifondoro già da
dieci
minuti e aveva l'impressione di essere terribilmente annoiato.
Non
lo era per niente, in realtà, ma quella era
la faccia che gli
era stata insegnata a mostrare, e quella avrebbe
mostrato.
Sotto sotto, se la stava facendo sotto. Aveva scherzato a lungo sul
treno con quel ragazzino smilzo e con gli occhiali buffi, quel
Potter, sulla possibilità di poter essere il primo a evadere
dalla
noiosa abitudine dei Black di essere Smistati a Serpeverde, ma non ci
aveva creduto nemmeno un pochino. Poi il Cappello aveva iniziato a
ciarlargli le cose più assurde nella testa, robe di
lealtà, onestà
e mancanza di buon senso che in parte lo avevano perfino offeso, e lo
aveva fatto, lo aveva fatto davvero.
E
adesso era un Grifondoro, il primo Grifondoro che fosse mai
appartenuto alla casata dei Black, e francamente Sirius aveva il
presentimento che non ne avrebbe fatto parte ancora per molto tempo.
I suoi genitori lo avrebbero ammazzato? Non se ne sarebbe affatto
stupito.
Mentre
Sirius Black continuava a fingere che la situazione non gli apparisse
per nulla problematica, la ricciolina Mary MacDonald prendeva posto
per la prima volta fra le panche della tavola dei Grifondoro,
accompagnata da un effervescente ma ordinario applauso da parte dei
nuovi compagni di Casa.
Maggio
1976
L'ossessione
che James continuava ad alimentare per il Prefetto Evans iniziava a
dare sui nervi tanto a Sirius quanto a Remus e Peter. Il primo, di
carattere notoriamente paziente, sopportava di buona lena i continui
sproloqui dell'amico con un sorriso rassegnato sulla faccia, mentre
il secondo non avrebbe avuto il coraggio di dire a James di darci un
taglio nemmeno se ne fosse dipesa la sua lingua.
A
Sirius non fregava proprio niente, e gli aveva ripetuto così
tante
volte quanto Lily Evans fosse un'arrogante pallone gonfiato da averne
perso il conto. E per ognuna di quelle occasioni James si era
gonfiato come una Manticora e aveva dato di matto, incapace di
credere che esistessero esseri umani in grado di scorgere difetti in
quell'incredibile e meravigliosa creatura che era Lily Evans.
Poi
arrivava quell'altro genio di Remus, quello che spegneva sempre il
cervello nei momenti meno opportuni e spezzava cento lance a favore
di quella cretina con i capelli rossi.
«È
una ragazza in gamba, Padfoot» gli faceva notare con calma
snervante. «A volte è un po' prepotente e
testarda, ma è in gamba,
in fin dei conti». Ed ecco che James, cretino quanto e
più di tutti
loro, si slanciava ancora in epici elogi al Prefetto Evans, e Sirius
era costretto a restarsene zitto e muto in un angolo del dormitorio,
fissando con aria truce Remus e addossandogli la colpa di aver
risvegliato l'animo da imperituro Romeo di James.
A
Sirius le ragazze piacevano, per carità, ma non gliene era
mai
fregato abbastanza per preferire qualcuna di loro ai suoi amici;
Peter sembrava interessarsene meno di lui (probabilmente
perché
erano proprio loro, le ragazze, le prime a non interessarsi a lui) e
poi c'era Remus, tutto timido e impacciato, che di tanto in tanto si
arrischiava a invitare qualche ragazza a Hogsmeade e per qualche
assurdo motivo ogni gita con quella o quell'altra era sempre tanto la
prima quanto l'ultima.
«Non
hai motivo di essere geloso di lei, Padfoot» lo
ripescò
improvvisamente la voce di Remus, mentre si dirigevano tutti e tre
verso il villaggio.
«Geloso
di chi?».
«Di
Lily».
«Io
non sono affatto geloso di quella lì!» lo
liquidò seccato Sirius,
cacciando entrambe le mani nelle tasche e accelerando il passo
d'istinto. «Non me ne frega proprio niente, guarda.
Può farsi
mangiare dalla Piovra Gigante, per quello che me ne frega».
Remus
fece un sospiro e scambiò un'occhiata penetrante con Peter,
che per
tutta risposta sollevò le mani in un cenno che sembrava
volersi
tirare fuori da qualsiasi questione.
«Fa'
come vuoi» concluse con tranquillità Remus.
«Ma ti consiglio di
accettare il fatto che questa non sarà né la
prima né l'ultima
gita a Hogsmeade alla quale Prongs non prenderà parte
insieme a noi.
Ora che Lily ha accettato di uscire con lui, non--».
«Da
quando la Evans è diventata Lily?»
sibilò arrabbiato
Sirius, assottigliando minaccioso i begli occhi grigi. «Che
razza di
malocchio vi ha lanciato addosso? Lily di qua, Lily di là,
guarda
com'è bella Lily... no, non lo è, non lo
è per niente.
Svegliatevi, ragazzi, quella è una palla al piede per tutti
noi».
Remus
alzò lo sguardo al cielo e fece un sospiro esasperato.
«Naturalmente,
Padfoot. E anche questo comparirà nel libro Cento
motivi per i
quali il mondo ce l'ha con Sirius Black».
Sirius
si fermò di colpo per fronteggiare l'amico con l'indice
alzato.
Remus inarcò un sopracciglio, per nulla intimorito dal suo
atteggiamento da prima donna. Alle sue spalle, Peter iniziò
a
mordicchiarsi nervoso il labbro inferiore.
«Tieni
a bada il tuo dannato sarcasmo, Moony, oggi sono particolarmente
incazzato».
Voltò
a entrambi le spalle e s'affrettò talmente tanto ad
allontanarsi da
loro che Remus non fece nemmeno il gesto di volerlo seguire. Emise
uno sbuffo stizzito e guardò Peter.
«Andiamo,
Wormtail. Ho voglia di Api Frizzole».
«Ma...
Padfoot?».
«Conoscendo
la sua straordinaria sopportazione alla solitudine, credo che
rivedremo la sua brutta faccia fra meno di quindici minuti».
*
Sirius
non riusciva ancora a capire come diavolo fosse finito sulla
staccionata che circondava i Tre Manici di Scopa a bere una
Burrobirra insieme a Mary MacDonald. Lei non era particolarmente
bella – sarebbe potuta diventare carina, al massimo, se si
fosse
riuscito a passe oltre l'acne e il colorito pallido – ma non
era
certo una compagnia paragonabile a quella dei Malandrini. Sapeva solo
che mentre attraversata a testa bassa Hogsmeade, ripetendosi quanto
cretino fosse Remus e quanto ancora più cretino fosse James,
gli era
finito addosso e le aveva fatto rovesciare la Burrobirra. A Sirius le
ragazze non interessavano davvero per niente, ma era comunque
dispiaciuto e si era rapidamente offerto di pagargliene un'altra.
Tuttavia, non era in grado di spiegarsi perché ne avesse
ordinata
una anche per sé, né per quale motivo ora fosse
seduto accanto a
lei a cianciare di James e quell'altra cretina del Prefetto Evans.
«Sono
contenta che tu mi sia finito addosso, Sirius. Ero da sola, oggi, e
Hogsmeade è sempre triste quando si è da
soli».
«Perché
eri da sola?».
Lei
fece le spallucce e bevve un altro sorso di Burrobirra.
«Per
lo stesso motivo per il quale lo sei tu, credo».
Avevano
iniziato a lamentarsi rispettivamente di James e Lily e mano a mano
che si sfogavano l'uno con l'altra, le loro risate si facevano
più
intense e genuine.
*
Febbraio
1979
Non
la vedeva dacché avevano preso i M.A.G.O. e se lei non
avesse avuto
la creanza di avvicinarsi al tavolo del Paiolo Magico al quale stava
aspettando Peter da almeno venti minuti non l'avrebbe riconosciuta.
Mary
si era fatto sul serio graziosa, alla fine. Aveva trovato il modo di
curare l'acne, le sue gote erano più rosee e i movimenti un
po'
goffi della ragazzina che era stata ora avevano tutta la sicurezza di
una giovane donna. Non era ancora bella e probabilmente non lo
sarebbe mai diventata, ma i suoi ricciolini corti e i suoi vivaci
occhi nocciola avevano qualcosa di sbarazzino che avrebbe rubato un
sorriso a qualunque uomo.
«Sai,
credo di essere in debito di una Burrobirra» gli aveva detto.
Lui
aveva ridacchiato per la prima volta da giorni e l'aveva invitata a
sedersi al tavolo.
*
Agosto
1979
«A
volte penso che basterebbe scappare via da qua, in qualche posto
remoto dove niente potrebbe inseguirci».
Sirius
si girò sul fianco, appoggiò la testa al braccio
e la scrutò
rivestirsi con un sorriso divertito sulle labbra. Era bella, Mary,
era bella come non lo era mai stata nessun'altra ragazza che Sirius
avesse mai conosciuto. Era bello il suo viso rotondo, il suo naso a
punta, gli occhi grandi e sinceri e i ricciolini corti; quando rideva
le si formavano due buffe fossette ai lati della bocca e in quel
momento Sirius si ritrovava sempre a pensare che non gli sarebbe
affatto dispiaciuto poter trascorrere il resto della vita accanto a
lei.
«Solo
che tu sei troppo Grifondoro per andartene adesso, no?»
continuò,
allacciando i gancetti del reggiseno bianco. «E io non sono
abbastanza convincente per trovare anche un solo motivo per il quale
dovresti seguirmi».
«Ti
seguirei un po' dappertutto, invece» ribatte d'istinto lui,
osservando la linea curva delle sue spalle. «Solo che adesso
non
è proprio il momento ideale. Lo sai».
Mary
si volta per rivolgergli un'occhiata affettuosa, ma a Sirius non
sfugge l'ombra angosciata che le oscura lo sguardo.
«Ogni
tanto mi chiedo cosa mai stiamo aspettando».
Novembre
1979
«So
che non verrai. Non saresti mai venuto, ma non importa. È
stato
comunque bello».
Sirius
alzò il bavero del mantello per ripararsi dal vento pungente
di
Portsmouth. L'odore aspro del mare aperto che gli penetrava nelle
narici era fastidioso – forse era proprio il mare a dargli
fastidio, in quel momento. Mary si rigirò fra le mani la
sciarpa
rossa che le aveva regalato un paio di settimane prima e si
umettò
nervosa le labbra.
«Sirius,
io devo andarmene. La situazione in Inghilterra ormai è
fuori
controllo... e io non sono che una Nata Babbana, non posso--».
«Ti
proteggerò io».
Mary
ebbe come l'impressione che a parlare con tutta quella sincera
franchezza fosse stato il ragazzino che un tempo era stato Sirius.
Quello spavaldo, quello pieno di parole dure, quello che avrebbe
tanto voluto essere ascoltato, essere d'aiuto a qualcuno. Quello a
cui non aveva mai confessato di avere avuto una cotta per lui se non
dopo sette anni, quello con cui alla fine era stata bene sul serio e
ancora stentava a credere che fosse accaduto, quello che ora stava
impalato di fronte a lei, con la luce disperata dei bambini negli
occhi. Mary sentiva la propria determinazione accartocciarsi secondo
dopo secondo e il pensiero che non avrebbe mai, mai dovuto
abbandonarlo lì, nel bel mezzo di una guerra che
probabilmente lo
avrebbe ammazzato – che già lo
stava ammazzando poco poco –
la stava facendo a pezzi.
«Hai
appena il tempo di proteggere te stesso».
Attorcigliò
un'ultima volta la sciarpa attorno alle dita e poi la tese verso di
lui un sorriso mite.
«No,
tienila» la fermò rapido. «Io sono
troppo bello per lei».
In
un altro momento avrebbe riso a quella battuta idiota. Avrebbe riso
come aveva sempre riso in sua compagnia, ma quello era quel
momento, quel posto, e ridere non
avrebbe avuto più senso
che tornare a casa di Sirius e fare l'amore con lui per dimenticare
il desiderio di fuggire.
Non
era così che funzionava.
«Magari
tornerò presto» si arrischiò a
balbettare lei, torcendosi entrambe
le mani. «Sono una tipa piuttosto nostalgica,
io...».
«Lascia
perdere, Mary. Con le scuse hai sempre fatto schifo».
Mary
chiuse gli occhi e trattenne appena uno sbuffo a metà fra il
divertito e l'esasperato.
«Si
è fatto tardi, forse dovresti salire a bordo. Sei certa che
sia il
modo più sicuro per abbandonare l'Inghilterra?».
A
lei non era affatto sfuggito quel tono strascicato con cui aveva
calcato la parola abbandonare e si
domandò se più che
all'intera nazione non si stesse riferendo a lui – a lei che
abbandonava lui.
«Non
mi fido dei mezzi del Ministero».
«D'accordo»
tagliò corto Sirius. «Allora devi salire.
È davvero tardi».
«Sì,
non dovrei aspettare oltre...».
C'erano
troppe cose non dette, fra loro. C'era la sensazione sfuggente di una
storia non ancora terminata, ancora colma di seconde
possibilità da
sfruttare. Sirius si sentiva soffocare dall'incapacità di
capire che
lei stava davvero per andarsene per sempre dalla sua vita, che non si
sarebbe svegliato l'indomani con i suoi ricciolini sul cuscino e lei
non avrebbe canticchiato preparandogli la colazione. Era troppo
presto, non era pronto. Sarebbe potuto andare con lei oltremare,
ovunque l'avesse voluto trascinare, e nient'altro sarebbe mai stato
più importante di lei.
«È
tardi, Sirius».
Non
rimase a guardarla svanire nel vano passeggeri. Non aveva nemmeno
voluto sapere dov'era diretta e una parte di lui già
rimpiangeva
quel capriccio da ragazzino. Si allontanò velocemente dalla
nave,
incapace di non pensare a quanto fosse tardi.
Era
dannatamente tardi, era tardi per qualunque cosa – e la nave
di
Mary era già salpata senza aspettarlo.
|
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Capitolo 9 *** Sapore sulle labbra - Regulus/Remus ***
In
risposta alla sfida di
Shnusschen
che aveva richiesto una Lupin/Regulus, oneside, massimo
2000 parole, angst. Forse non è abbastanza angst, anzi,
credo che non lo sia affatto, ma tant'è...
*
Sapore
sulle labbra
Regulus
BlackxRemus
Lupin
1267
parole
I
fumi delle fabbriche nel centro della East London erano talmente acri
e insopportabili che Remus dovette alzare la sciarpa logora per
ripararsi dal tanfo. Il maltempo non aveva mollato la città
dallo
scorso lunedì e in quella zona un po' dismessa le
pozzanghere ai
lati della strada erano davvero grandi. La luce dei lampioni si
scorgeva come attraverso una fitta nebbia, ma a Remus questo non
importava: lui vedeva perfettamente e tanto bastava.
Era
talmente impegnato a spingere il Mangiamorte lontano dal punto in cui
Moody e gli altri dell'Ordine avevano teso un'imboscata per tutti gli
altri che stavano con lui, che Remus cacciava i piedi nell'acqua
putrida senza curarsene,
sporcando i jeans stracciati fino alle ginocchia. Voltò la
testa
indietro, sperando di essere ancora seguito e trattenne un sorriso
flebile nel riconoscere la sua figura incappucciata accovacciarsi
dietro a un grosso bidone dell'immondizia.
Idiota,
pensò Remus, mentre un sorriso soddisfatto gli increspava le
labbra
sottili. Ha davvero
abbandonato la sua posizione di guardia per inseguire me.
*
Sfrecciava
lungo il Tamigi ad una velocità impressionante e non
riusciva a non
pensare a nient'altro che non fosse il motivo per il quale si erano
di nuovo incagliati in quella dannata situazione. Eppure erano
così
sicuri questa volta, sembravano aver perfezionato ogni dettaglio,
ogni possibilità e niente – niente
– sarebbe dovuto andare storto, nessuno di loro avrebbe
dovuto
rimetterci la pelle. E invece no, Caradoc Dearborn era rimasto
indietro e ora l'unica fuga di Remus era quella corsa folle lungo il
fiume, sotto la pioggia che non gli dava tregua.
Si
fermò di colpo e si guardò intorno, ignorando il
bisogno del suo
corpo di piegarsi in due per boccheggiare dallo sforzo e si strinse
affannato una mano sulla milza. Era troppo buio, c'era troppa pioggia
e non avrebbe riconosciuto un Troll nemmeno se glielo avessero
piantato davanti al naso. Eppure la situazione sembrava calma e
Remus iniziò a prendere dei profondi respiri. Concentrato,
chiuse gli
occhi e tentò di fare un girò su sé
stesso, ma la fattura
Anti-Smaterializzazione copriva anche quella zona. Si chiese per
quanto tempo ancora sarebbe durata.
Alle
sue spalle si ergeva un grande prefabbricato con un largo deposito di
autotreni attorno. Controllò ancora una volta che non ci
fosse
nessuno nelle vicinanze e scartò immediatamente l'ipotesi di
trovare
riparo all'interno: aveva già commesso quell'errore una
volta e ne
portava ancora ogni traccia sulla pelle. Si accucciò accanto
alle
grosse ruote di un camion e appoggiò la fronte alle
ginocchia,
stremato.
Regulus
Black continuò a fissarlo con un bagliore sinistro negli
occhi grigi
per diversi minuti. Poi il desiderio di agire si fece più
forte ed
estrasse la bacchetta dal mantello scuro.
«Incarceramus!».
Remus
non se ne accorse nemmeno.
*
Era
abituato al sapore amaro del sangue in bocca e all'odore metallico
che gli intorpidiva l'olfatto; eppure, dopo tanti anni, non era
ancora stato in grado di abituarsi all'idea che gli piacesse
così
tanto, che lo rendesse tanto agitato. Come se parte della bestia che
lo travolgeva una volta al mese non potesse mai svanire del tutto,
come se fosse sempre lì, pronta a sbranarlo ad ogni suo
accenno di
debolezza; come se non potesse essere libero in nessun momento della
sua vita, sempre succube, sempre più vulnerabile.
Cercò
di sputare un grumo di sangue per terra, ma le funi che gli stavano
segando i polsi e le caviglie erano troppo strette e finì
per
sporcarsi ancora di più la camicia logora. Quando Regulus
Black si
chinò di nuovo su di lui – e quegli occhiacci
grigi erano così
simili
a quelli del
fratello, dannazione – e gli pulì il rivolo che
scendeva dal suo mento, si
domandò ancora per quale dannato motivo fosse lì,
per quale dannato
motivo lui fosse ancora vivo.
Regulus
aveva un aspetto spettrale, con quella faccia pallida, lo sguardo
brillante di soddisfazione e brama e le sue mani erano così
piccole
e curate che Remus non riusciva a credere che le usasse davvero per
pulire il suo sangue. Non capiva: lo aveva preso a calci, gli
aveva rotto almeno un paio di costole, gli aveva inflitto la
maledizione Cruciatus fin quando a Remus non era rimasto più
fiato
per gridare – non pietà, quella non l'avrebbe mai
gridata – e
ora era lì, inginocchiato davanti a lui, sotto la pioggia
che
scivolava sulle loro facce e si infrangeva rumorosa sulle acque nere
del Tamigi a pochi metri da loro. Remus era lì ed era certo
di aver
conservato abbastanza senno per rendersi conto di quello che stava
accadendo, se solo ci fosse stato qualcosa
da
comprendere in
tutta quella situazione priva di logica alcuna.
«Che
stai facendo?» trovò la forza di ringhiargli
addosso.
Gli
angoli della bocca di Regulus si piegarono in un sogghigno perverso.
Remus cercò di richiamare alla memoria l'immagine di un
ragazzino
con la divisa da Cercatore di Serpeverde, piccolo e mingherlino, con
l'aria sempre un po' malaticcia e l'espressione triste e cupa. Uno di
quelli che avrebbe anche potuto capire, si era detto un sacco di
volte, e poco importavano i continui sproloqui di Sirius sulla
stupidità del fratello minore, perché una parte
di Remus era certa
che ci fosse qualcosa di fragile nell'animo di Regulus, qualcosa di
buono nascosto da qualche parte, sottomessa a tutto il resto della
sua vita e della sua famiglia di psicopatici.
E
invece adesso Regulus lo guardava come un alienato e più
tentava di
scrutare dentro i suoi occhi più Remus si ritrovava a
cercare quel
ragazzino a vuoto. Era pazzo, più pazzo di lui e di tutti
quelli
come lui.
Lo
guardò fissarsi il polpastrello come se non riuscisse a
rendersi
conto che quello fosse il sangue di Remus, quello legato davanti a
lui, con un male allucinante allo sterno e un ronzio tremendo nella
testa. Poi fu questione di un attimo prima che si avvicinasse al suo
volto e gli appoggiasse appena le labbra sulla tempia. Remus era
così
malconcio che non riuscì nemmeno a divincolarsi.
«I
miei genitori non mi hanno mai voluto comprare un animaletto»
disse
la voce flautata di Regulus al suo orecchio. «Avevo giurato
loro che
me ne sarei occupato io, che non avrebbe mai dato alcun disturbo, ma
non mi diedero mai ascolto».
Remus
deglutì stentatamente. In
qualunque cosa gli avesse fatto Lord Voldemort c'era qualcosa di folle, di malsano.
E poi lo disse, perché era da troppo che teneva per
sé quel
pensiero tanto ovvio.
«Tu
sei pazzo».
Lo
sentì ridacchiare, sentì la sua mano risalirgli
il petto, e
d'improvviso la sua stretta fu così energica da schiacciare
le
costole rotte di Remus e strappargli un urlo soffocato.
«Non è
vero».
Ci
vollero ore prima che Alastor Moody e Frank Paciock lo ritrovassero.
Remus aveva provato disperatamente ad evocare l'Incanto Patronus per
chiamare i soccorsi, ma le forze lo stavano abbandonando e le
palpebre si stavano facendo sempre più pesanti. Cercarono di
scuoterlo con estrema delicatezza per le spalle per sapere quanto
fosse cosciente – quando di lui potesse essere rimasto con
loro.
Sul momento, Remus non si era nemmeno accorto del loro arrivo.
Continuava a fissare il punto dove Regulus era sparito e a umettarsi
le labbra, sperando che il sapore del sangue potesse lavare in
fretta quello che il suo bacio gli aveva lasciato.
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Capitolo 10 *** La prima ad impazzire - Sirius/Bellatrix ***
In
risposta alla sfida di cartavelina
che aveva richiesto una Sirius/Bellatrix, rating arancione, dal
prompt rosso
e nero.
Ho schivato un po' il prompt nero,
riferendomi al fatto che Sirius e Bellatrix sono due Black.
*
La
prima ad
impazzire
SiriusxBellatrix
900
parole
All'inizio
aveva pensato di acconciarsi i capelli in una morbida treccia sulla
spalla, ma poi le era balzato alla mente il ricordo di Andromeda e
del suo portamento scialbo e modesto e aveva cambiato rapidamente
idea. Li aveva sciolti di nuovo, aveva scosso la testa, aveva
ravvivato la folta chioma nera con le mani e aveva sorriso al
riflesso dello specchio.
Era
bella, si era detta, era bella più di qualunque altra strega
in Gran
Bretagna, ed era potente e indistruttibile; era immortale, Bellatrix,
e i capelli che le circondavano il viso sembravano fatti di fumo nero
e la facevano sentire ancora più bella e forte.
Aggiustò
l'orlo di seta rossa dell'abito e piroettò qualche volta al
centro
della stanza. Era davvero bella, più di
quanto non lo
sarebbero mai state le sue sorelle. Sogghignò al pensiero
che Sirius
l'avrebbe trovata altrettanto meravigliosa e la sua risata
risuonò
folle fra le fredde mura di pietra di Azkaban.
La
prima ad impazzire era stata lei.
*
«Buonasera,
cugino».
Sirius
sollevò appena la testa e le sue labbra si storsero in una
smorfia
divertita nel vederla comparire nel viottolo che girava attorno al
Paiolo Magico. Aveva immaginato che non si sarebbe mai abbassata a
indossare il mantello nero di tutti quegli altri cretini che
gironzolavano dietro a Lord Voldemort; lei era sempre stata qualcosa
di più, qualcosa di meglio, e ne erano consapevoli tanto
Sirius
quanto Voldemort.
L'orlo
di seta rossa le scivolava attorno alle spalle come una serpentina di
sangue e faceva risaltare la carne bianca dei suoi seni. Aveva
lasciato i capelli sciolti, liberi e ferini attorno al bell'ovale del
volto, e Sirius scoppiò improvvisamente a ridere. Era
implacabile,
Bellatrix, era dannata, ed era sempre più convinto che il
solo altro
uomo che non nutrisse per lei un genuino terrore fosse proprio il
Signore Oscuro a cui era tanto devota; eppure era debole di una
vanità ben più forte e cruda di quella che
spingeva la fragile
Narcissa a farsi ricoprire di orpelli da Lucius Malfoy.
«Bella»
la salutò lui con un inchino sfrontato. «Non credi
sia ora di
andartene? Diagon Alley brulica di Auror, ormai».
«Auror?»
ripeté in un soffio impudente. «Non offendere la
mia dignità,
Sirius... ne servirebbero almeno altri cento per farmi un solo
graffio».
«Io
sono bastato».
Sul
momento Bellatrix inclinò appena il capo e
aggrottò confusa le
sopracciglia sottili, ma poi parve capire il senso delle parole di
Sirius e gli rivolse uno sguardo di provocazione.
«Quel
bel vestito è abbastanza lungo per coprirli
tutti?» continuò lui
con tono leggero.
«Dimmelo
tu, Sirius».
«No.
Non copre proprio un accidente».
«È
per questo che hai abbottonato la camicia fino all'ultima
asola?».
Rimase
a guardarla per qualche istante in profondo silenzio, poi
gettò la
testa indietro e rise ancora. La mano sinistra si alzò
d'istinto a
coprire il collo, laddove qualche notte prima si erano conficcate le
unghie rosse e le labbra di Bellatrix. Era un'amante spietata
esattamente quanto lo era in qualunque altro aspetto della sua
esistenza e Sirius si era sempre lasciato trascinare un po' troppo
dalle situazioni paradossali. In quella – qualunque cosa
fosse –
si era fatto trascinare così tanto a fondo che dubitava di
poterne
tornare a galla.
Bellatrix
avrebbe aleggiato attorno a lui per l'eternità, inebriante e
maledetta, e lui avrebbe continuato a ripetersi che sarebbe bastato
così poco per ammazzarla, quando la sentiva fremere sotto il
suo
peso, quando la vedeva passarsi la lingua sulla bocca e le sue ciglia
sbattevano ruffiane per farlo crollare in ginocchio davanti a lei
ancora un'altra volta... sarebbe bastato un niente, un respiro, un
istante, e lei sarebbe morta fra le lenzuola umide del suo letto e
tutta quella follia di Lord Voldemort avrebbe subito una drastica
frenata. E invece no, continuava a permetterle di tornare da lui e ne
era così esaltato che talvolta si domandava se non fosse
proprio
lui, quello addestrato a trotterellarle dietro.
E
in qualunque modo cercasse di vedere la cosa, sapeva che non sarebbe
mai stato in grado di cancellarla, né i segni rossi sulla
sua pelle
sarebbero svaniti tanto in fretta.
Erano
piantati lì, rossi e indelebili nella profondità
di
quell'insanabile malattia insita nei geni Black, trasmessa di padre
in figlio dacché era partita la loro dinastia. Qualcosa di
marcio,
qualcosa di incancellabile, qualcosa che li avrebbe portati entrambi
alla morte o alla follia – o ad entrambe, forse – e
per quanto ne
fossero entrambi consapevoli, nessuno dei due sembrava intenzionato a
salvarsi un briciolo d'anima.
Era
un po' come se fosse normale, come se i Black fossero scusati da
qualunque manifestazione di instabilità mentale, come se ci
fosse
perfino qualcosa di cui poter far vanto... e i segni rossi restavano
sui corpi di entrambi, e a volte pareva davvero che ne fossero
orgogliosi nello stesso modo malsano.
*
«Sono
bella, sono bella, sono bellissima...» ridacchiava nel gelo e
nell'oscurità Bellatrix, danzando sgraziatamente sui piedi
sporchi.
Qualche
cella più avanti, accucciato in un angolo e con la testa
appoggiata
alla parete umida, Sirius Black sogghignava con aria vittoriosa.
Era
stata davvero lei, alla fine, la prima ad impazzire.
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Capitolo 11 *** Remus/Tonks, Ron/Bellatrix, James/Dorcas, Luna/Lucius ***
Note:
In
occasione dei cinque anni di Ferao su EFP – non sapevo si
potesse
festeggiare il compleanno pure così, quindi vi informo che
ho un
sacco di anni di arretrati – ho finalmente avuto la fortuna
di
partecipare ad una delle folli Drabble's Night.
*
Little
Talks - Of
Monsters and Man
RemusxTonks
104 parole.
«Sei
tornato».
Gli
occhi di Remus erano stanchi, arrossati, vecchi di cent'anni e la
voce di Tonks fremeva di accuse masticate fra i denti come vetri
rotti. Non osava sollevare il capo, non osava guardarla,
non voleva vedere l'ombra sul suo viso pallido, e i capelli fradici
per aver corso sotto quel dannato temporale continuavano a gocciolare
sulle punte delle scarpe logore.
Plic.
«Sembra
che tu sia appena cascato in mare».
Plic.
Plic.
«Mi
dispiace».
Plic.
Plic. Plic.
Le
labbra di Tonks si piegarono in un sorriso tirato. Sbuffò
nervosa e
appoggiò il capo alla sua giacca bagnata.
«Sali
a bordo, razza di cretino».
*
RonxHermione!Bellatrix
117 parole.
«Come...
ti sembro?».
Lui
l'aveva guardata come se non avesse mai visto una donna in vita sua.
La feroce criniera nera le circondava il viso come i serpenti di
Medusa e per quanto la sua espressione fosse intimorita, titubante
–
per quanto fosse Hermione, miseria,
perché sotto quello
spettro c'era Hermione – i suoi occhi sembravano ardere di
follia.
La osservò piantare un dente nel labbro inferiore, rosso e
sottile
quanto il graffio di una gatta sulla pelle candida.
Che
diavolo era quel fremito incontrollabile lungo la spina dorsale?
«Sei...
terrificante».
Hermione
aveva arrangiato un lieve sorriso – o forse lo credette
soltanto,
perché ciò che Ron vide realmente non fu
nient'altro che un
sogghigno di scherno.
*
JamesxDorcas
120 parole.
Con
il trascorrere degli anni James si era convinto che la vita non fosse
nient'altro che una monotona serie di calci in culo. Ne rideva
sempre, sprovveduto e sfrontato come uno scarmigliato Peter Pan con i
Doc Martens, ma alla fine pure lui si faceva sempre un sacco di male.
Cascava
ogni volta, James, e per quanto continuasse a rialzarsi, le sue
ginocchia rimanevano sempre un po' sbucciate.
«Prongs».
Il
sussurro di Sirius aveva la voce di uno schiaffo – di un
altro
calcio in culo.
«Lei
non amava nessuno. Lo ha fatto un po' con tutti».
James
annuì con una smorfia indifferente, ma la tomba di Dorcas
sembrava
prenderlo a calci un po' più forte di tutte le altre.
*
"Il mondo si beffa di questo, e
qualche volta manda al patibolo per questo", Oscar
Wilde
LunaxLucius
What-If (Harry è
morto), 109 parole.
Nei
suoi occhi c'era l'innocenza di una guerra combattuta dal fronte
sbagliato – già perduta
– e a guardarla ergersi con tutto quell'ardito contegno quasi
si
aveva l'impressione di essere al cospetto di una regina.
Ma
Luna non aveva la
corona, non aveva lo scettro e non aveva nemmeno voluto sguainare la
spada; quando le sue mani si erano levate in segno di resa, il sangue
dei suoi compagni le era scivolato fra le dita.
Lucius
levò la
bacchetta.
La
folla trattenne il
fiato.
Fu
tutta questione di
un alito di vento.
Pregava
solo che Lord
Voldemort non avesse notato quella sciocca carezza concessa al
cadavere di una condannata.
*
"Le lacrime non sono
l'unica arma di una donna"
PercyxFerao
106 parole.
Ferao
era infuriata. Se solo lo avesse avuto fra le mani in quel dannato
momento, lo avrebbe ridotto in una manciata di coriandoli. Gli
avrebbe stritolato il collo, avrebbe affondato le unghie nella sua
carne, gli avrebbe rotto il naso, due costole, tutto.
Alzò
tremante le mani e cercò di contenere l'implacabile furia
che stava
inesorabilmente montando dentro di lei.
Lo
avrebbe ucciso – oh, se lo avrebbe ucciso!
Con
un respiro profondo, fece l'unica cosa che la sua mente razionale
ritenne logico fare.
Appoggiò
le dita sulla tastiera e scrisse:
«E
fu così che nella mia fan fiction Percy Weasley
trapassò
innumerevoli volte».
|
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Capitolo 12 *** Severus, Fleur, Tonks e Malocchio ***
Drabble
Night numero...
uhm, ho perso il conto.
Abbracciare
Lily è come abbracciare una bambola di stracci. Il capo
riverso sul
tuo petto, i lunghi capelli rossi scomposti, il volto pallido, i
meravigliosi occhi vuoti.
E
tu sei lì, Severus.
Sette
minuti dopo la morte di Lily.
Sette
giorni.
Dondolarsi
sulle ginocchia è come giocare su un'altalena di spine. Gli
occhi
stretti, il grido soffocato in gola, ma non gridi, non piangi, non
respiri, e la tua nuova casa è scavata nella terra quanto la
sua.
E
tu sei lì, Severus.
Sette
giorni dopo la morte di Lily.
Sette
anni.
Osservare
il sorriso di una zucca intagliata è come guardarsi allo
specchio.
La smorfia ghignante, gli occhi piegati, cattivi, derisori. La fiamma
di una candela che danza nell'ombra di Halloween.
E
tu sei lì, Severus.
Sette
anni dopo la morte di Lily.
Sette
vite.
Morire
è un po' come addormentarsi, eppure è la prima
volta che ti senti
sereno. Sette vite fa, ed eri solo un bambino che inseguiva una
farfalla; sei vite fa, ed eri un ragazzino con la mente vispa e il
cuore febbrile; cinque vite fa, ed eri tutto un errore, tutto uno
sbaglio; quattro vite fa, ed eri un uomo che piangeva con le unghie
conficcate nel volto; tre vite fa, e lui aveva i suoi occhi e Dio...
Dio, mordevano quanto il tuo odio; due vita fa ed era l'ultimo
sforzo, l'ultimo miglio, l'ultimo istante.
Una
vita fa, Severus.
E
tu eri lì.
*
«Per
chi vuole vederli ci sono fiori
dappertutto», Matisse.
Fleur Delacour
144 parole
I
giardini di Reims sembravano profumare di primavera anche al giungere
dell'autunno. Li ricorda, Fleur, li ricorda come se fosse ancora la
bambina che sfrecciava fra le ortensie delle madre, scivolava oltre
il cancellino e correva a piedi scalzi nell'erba fresca.
Li
ricorda, Fleur, anche se i fiori dell'Inghilterra non hanno mai
profumato di casa. In Inghilterra non ha mai sfilato le scarpette
lucide per sfrecciare sull'erba, non ha mai spettinato i capelli
biondi al vento del nord.
C'erano
altre cose da fare, in Inghilterra.
Siede
in un angolo, Fleur, e slaccia l'elegante cinturino: i bei sandali
cadono fra le pietre di Hogwarts, ma quando appoggia le dita per
terra avverte solo freddo e polvere.
Fleur
ricorda i fiori dei giardini di Reims... li ricorda davvero, ma li
immagina sui petti di tutti quei ragazzi morti e il loro profumo le
dà la nausea.
*
Tonks,
Malocchio, 294 parole, «In amore e in guerra tutto
è lecito».
Tonks, Malocchio (RemusxTonks)
294 parole
Toc.
Toc. Toc.
Non
serve essere un'Auror per riconoscere il suono della sua gamba di
legno sulle assi impolverate di Grimmauld Place. Gradino dopo
gradino, con il fiato affannato dell'età che avanza, eppure
è un
martellare impietoso, costante.
Toc.
Toc. Toc.
Il
silenzio fa male alla spalle, ma lei non distoglie lo sguardo umido
dalla porta.
«Stare
davanti alla sua stanza non lo riporterà indietro».
«E
se non sapessi dove altro stare?».
L'occhio
magico di Malocchio vede ciò che resta della camera da letto
di
Sirius Black, ma sentire il dolore roco nella gola del suo soldato fa
male. Fa troppo male – male quanto James e Lily Potter,
quanto
Frank e Alice Paciock, quanto i Prewett, i Bones, i McKinnon, Benjy
Fenwick, Dorcas Meadowes... fa male come ha sempre fatto.
Stringe
i denti.
«Sta'
in piedi e basta» ringhia in un soffio affranto.
«C'è una guerra
da vincere e poco tempo per farlo».
«Non
abbiamo nemmeno potuto seppellirlo».
Malocchio
fa una smorfia e se li ritrova di nuovo davanti – James e
Lily, e
Frank e Alice, e ognuno di loro è fiero, vivo e perduto.
«È
una regola che non conta in queste circostanze. Vivi e basta,
ragazza».
«Un
uomo come lui avrebbe meritato una degna sepoltura».
La
voce roca di Remus è a un centimetro dal suo orecchio, ma a
Tonks
arriva solo un soffio ovattato. Lei non risponde. Resta immobile nel
loro letto, acciambellata come una gatta e con lo sguardo fisso sulla
parete.
«Non
importa. È una regola che non conta».
Il
suo mormorio è affondato nel cuscino. Remus non riesca a
capire, ma
Tonks resta di nuovo muta.
"È
una regola per quando saremo tutti morti" si ritrova a pensare.
"E non ci sarà più nessuno a seppellirci".
|
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Capitolo 13 *** Filius/Pomona, Remus/Tonks, Arthur/Molly ***
Grazie
a Medusa per i bellissimi prompt e a tutte le follie delle Drabble
Night.
*
Chiude
sempre un occhio quando incrocia i suoi studenti appartati negli
angoli del castello. Finge di essere troppo vecchio per vederli,
tutti assuefatti e confusi dalla pazzia dei primi amori, ma lo fa
perché non è abbastanza vecchio per aver
dimenticato i propri.
«Ho
perso il controllo delle ragazze di Tassorosso...».
Pomona
sfila dal capo il buffo cappello e si lascia scivolare con aria
stremata al tavolo degli insegnanti. Nei suoi capelli non ci sono
rametti ed è tutto così magico e atipico che
Filius non riesce a
trattenersi. S'inchina galante, si fa ancora più piccolo di
quanto
già non sia, ma quando la invita a ballare si sente un
gigante.
Lei
ride imbarazzata e si copre la bocca con la mano. Ha le dita un po'
sporche di terriccio – e per qualche istante crede che la sua
risata possa suonare davvero per lui.
Non
ha mai visto magia più bella.
*
Le
piove fra i capelli grigi, sui brandelli del mantello, sulle punte
degli anfibi logori, ma resta lì, resta immobile, resta con
le mani
strette al petto e con il pianto mozzato in gola.
«Tonks?».
«Fottiti,
Remus».
Era
diventata un'Auror perché sognava un mondo migliore
– aveva
combattuto, aveva resistito, ma stava ancora imparando a sue spese
quanto cadere facesse male. Ed ogni cosa ora si scioglieva
all'orizzonte, il fallimento rodeva nello stomaco, il sangue
scivolava lento fra le mani.
Una
cartolina di nebbia.
Le
braccia di Remus le scivolano appena sui fianchi e la stringono in un
abbraccio disperato.
Silente
è morto. La guerra è morta. Siamo tutti morti.
Tonks
china la testa e intreccia le proprie dita con quelle di Remus.
Abbiamo
perso.
La
voce roca di Remus è come la luce evanescente dell'alba.
«Resta
con me».
Ma
è luce.
*
«Salvami
dalla mia stessa vita, dalle paure che
non
posso nascondere».
ArthurxMolly
134 parole
Risale
di corsa i gradini con la notizia che ancora gli rimbomba nelle
orecchie, nella testa, nel sangue... pulsa sotto la pelle e morde,
lacera – buon Dio, quanto lacera.
La
porta della loro camera da letto è chiusa; i bambini sono
seduti
contro la parete con un'espressione di confuso dispiacere sui piccoli
visi.
«La
mamma piange, papà».
Entra
nella stanza.
Le
mie condoglianze, signor Weasley.
Molly
è accovacciata ai piedi del loro letto, con le braccia
attorno al
pancione, i capelli rossi davanti al volto esangue, le unghie
conficcate nelle guance, e trema, trema, trema...
«Molly...».
«I
miei fratelli... erano i miei fratelli».
L'abbraccio
di Arthur è morboso, disperato, vitale, ma Molly continua a
tremare
per diverse ore – e Arthur non lo sa ancora, ma avrebbe
tremato per
sempre.
Le
mie condoglianze.
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Capitolo 14 *** Molly, Scrimgeour/Tonks, Augusta e due crossover folli ***
*
Gesto
scaramantico
Molly
Weasley
134
parole
Quando
era una bambina, sua madre le raccontava che niente teneva lontani
gli spiriti cattivi quanto la luce di una candela.
«Sembra
piccola» le diceva, «ma, mia cara, porta tanta
fortuna».
Molly
ne aveva accesa una nel 1980, ma Gideon e Fabian non l'avevano mai
vista; lo aveva rifatto anni dopo, e c'era mancato poco che perdesse
Arthur; non ha smesso di crederci e ha preso una nuova candela, ed
eccola vegliare sul corpo di Bill nell'infermeria di Hogwarts, con lo
spettro di Silente a pesare sullo stomaco di una guerra che non si
riusciva più a vincere.
Parte
per Hogwarts, parte per la battaglia del destino del mondo, e se ne
dimentica.
«Non
importa» si consola, «non ha mai portato fortuna.
Chissà... forse
avrei dovuto lasciarle spente fin dall'inizio».
Ma
poi c'è Fred.
*
Rufus
ScrimgeourxNinfadora
Tonks
199
parole
(one-sided)
Tonks
aveva gli occhi neri di una cerbiatta e lo sguardo rancoroso di
Alastor Moody – due elementi inconciliabili, un po' come quel
dannato visionario e i suoi capelli rosa, un po' come la guerra e i
suoi sorrisi sfrontati.
Sembrava
aver ignorato il più elementare degli insegnamenti del
proprio
mentore – vigilanza costante, ragazza, abbi paura con
criterio,
ragazza, sii di ferro, schiva la morte, resta viva, ragazza –
e
rideva, rideva, e i suoi capelli erano viola, gialli, blu e
Merlino... Merlino, Rufus non riusciva a toglierle
gli occhi
di dosso.
Era
tutto ciò che un'Auror non avrebbe mai dovuto essere. E lui
era un
esperto di Auror, era un esperto di norme e rigore, e quella dannata
cavalletta indossava jeans strappati e anfibi da maschiaccio di
strada.
Passa
davanti al suo cubicolo nel Quartier Generale degli Auror –
gli
abiti da Ministro si fanno di giorno in giorno sempre più
stretti –
e la cerca con lo sguardo. Lei abbassa piano la Gazzetta del Profeta
– e la prima pagina sembra pugnalare proprio lui.
Nuove
restrizioni per i Lupi Mannari.
Il
suo dito medio è
un'offesa che Rufus non riesce a ingoiare.
«Ti
renderò onore, mamma».
La
sua voce non smette di tormentarti. Ti afferra nel sonno, ti scuote
violentamente e ti svegli sudata, con le unghie conficcate negli
occhi per strapparti le lacrime prima che bagnino le lenzuola pulite.
«Fa'
attenzione, Frank».
Il
vento cambia, scuote le foglie, gli alberi si spogliano e il tempo
trascorre, ma tu resti lì, con la risata spudorata di un
figlio
perduto nelle orecchie e i pugni stretti, la mascella serrata. Sei
una donna dura, Augusta, sei una donna nata per resistere a cento
tempeste.
«Torno
a Hogwarts, nonna».
Socchiudi
le palpebre e ripeti al niente la vecchia preghiera di una vecchia
donna.
Non
prendere lui, non prendere anche lui...
«Quello
è il mio posto. Devo restare. Devo combattere».
Tremi,
ma gli sorridi con orgoglio.
«Fa'
attenzione, Neville».
Ride
nervoso, ride con rigida sicurezza, e tu senti ancora la risata
briosa di Frank infrangere il tempo e lo spazio.
«Ti
renderò onore, nonna».
«Torna
indietro. Mi
basta questo».
Questa
volta ti basta.
*
Cross-over
folle – Pastelli colorati
Neville
Longbottom e
Linus Van Pelt (Peanuts)
197 parole
Il
disegno di Linus è molto più bello del suo.
Neville gira il capo e
scruta critico i propri scarabocchi – perché non
sono davvero che
scarabocchi, i suoi – mentre Linus aggiunge il giallo, il
verde, il
blu, e c'è un arcobaleno in piena che sgorga dalle sue mani.
«È
bello».
Linus
alza la testolina dal foglio, sbatte un paio di volte le palpebre e
fa un largo sorriso.
«È
la libertà».
«La
libertà... di cosa?».
«Di
essere come un uccellino che vola con le piume dell'uccellino che
vorrebbe essere quando gli altri uccellini non vorrebbero che
l'uccellino avesse le piume. Siamo tutti uccellini, qui».
Neville
apre la bocca in una muta espressione di confusione e si sente per
l'ennesima volta tremendamente idiota. Ma Linus fa le spallucce e gli
passa la copertina.
«Prendi»
gli dice. «Vedrai che con questa capirai più
cose».
Non
ci capisce niente,
Neville, ma lo ringrazia lo stesso e inspira il tessuto celeste. Sa
di vecchio e di rovinato – è un aroma nauseante,
tutto sommato.
Continua a non capirci niente, ma dopotutto nemmeno Linus ha ancora
capito cosa ci faccia lui con un rospo in mano e un bastoncino di
legno nella tasca dei pantaloni.
*
Cross-over
folle -
«Devi gettare il passato dietro di te, prima di andare
avanti»
Severus
Piton e Petyr
Baelish (Game of Thrones)
141
parole
Parodia,
demenziale,
l'autrice chiede scusa...
Il
primo uomo fa uno sbuffo infastidito e sorseggia ancora dal
bicchiere.
«E
poi ha sposato un emerito idiota».
L'altro
sbuffa e alza le mani con eloquenza.
«Amico
mio, quanto ti capisco. La mia se ne è andata con un
imbecille che
si è fatto ammazzare come un...».
«Imbecille?».
Annuisce
e scuote sconcertato il capo.
«Di',
secondo te cosa ci trovano le donne rosse negli idioti?».
«Sindrome
della crocerossina».
Uno
sbuffo, il lesto rumore del vetro che cozza e un brindisi beffardo
all'amore che non dura.
«Che
farai, ora?».
Severus
alza le spalle.
«Hanno
deciso che morirò in maniera stupida ma plateale e
lascerò nugoli
di fan a disperarsi per la mia triste e grama esistenza...
tu?».
Petyr
si liscia divertito la barba e ridacchia fra sé con aria
baldanzosa.
«Vado
a letto con sua figlia».
Un
attimo di silenzio.
«Bel
colpo, Babbano».
|
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Capitolo 15 *** Ted Tonks, Alastor, Tonks, Percy/Fleur, Alice/Rodolphus, Remus ***
*
Auguri
Ted
Tonks, Bellatrix
Lestrange
137
parole
Una
volta, due volte, tre volte.
Era
dannatamente semplice premere il proprio stivale sul suo petto.
Gemeva fra i denti e serrava le dita attorno ai fili d'erba dal
dolore, ma i suoi occhi erano ancora fissi sul suo volto. Bellatrix
odiava il modo in cui quel Sanguesporco la stava guardando.
«Vinco
io, alla fine».
La
voce di Ted Tonks aveva il sapore della beffa di un bambino.
Un
altro calcio. Altri due. Altre tre.
Dalla
gola dell'uomo emerse un flebile verso strozzato.
«Tu
muori. Tu perdi».
Sul
suo viso insanguinato comparve un sorriso debole, tremulo, spavaldo.
«I
miei a-auguri di
b-buona fortuna alla nobile casata dei Black... possa c-conservare in
eterno la sua purezza» sputò sarcastico.
«A m-miglia da qui, mia
figlia dà alla luce il figlio di un Lupo Mannaro. Io muoio,
ma tu
perdi».
*
Immagine
Alastor
Moody,
Ninfadora Tonks
131
parole
Con
il trascorrere degli anni Alastor si era reso conto che lei non era
fatta che di vento. Era come la brezza di un giorno di maggio, come
il rumore delle onde infrante sugli scogli, era fatta un po' com'era
fatta l'aria, leggera e cristallina – intoccabile.
Ma
alla fine l'aveva toccata fino a perdere il fiato, e per ogni respiro
preso si era maledetto mille volte tanto. Era una donna fatta di
vento, Tonks, ed era destino che lui dovesse lasciarla volare.
«Che
faccia cupa» lo prende in giro con frizzante allegria. La
fede
nuziale che scintilla al suo dito è un rimpianto su cui
Alastor non
vuole concentrarsi. «A cosa stai pensando?».
«Questa
sera il vento
soffia troppo forte. Qualcuno di noi rischia di perdere il controllo
della scopa».
*
Tutto
è lecito in amore e in guerra
Percy/Fleur
146
parole
Nel
silenzio sporco del
suo appartamento la candida accusa di Fleur risuona come un
terremoto.
«Non
verrai a Oguòrts,
vero?».
Percy
afferra gli
occhiali dal comodino con stizza improvvisa, si alza e afferra la
camicia del pigiama celeste. Vorrebbe che il bellissimo sguardo di
Fleur si spostasse dalla sua schiena nuda – colpevole
– che la
piantasse di aggredirlo di ferirlo, di fissarlo... ma lei resta
lì,
nuda e immobile nel suo letto come un angelo di pietra.
«Non
hanno bisogno di
me».
«Oui,
forse. Ma
tu hai bisogno di loro».
Si
passa le mani fra i
capelli rossi e scuote agitato il capo. Gli sta venendo l'emicrania.
Poi caccia uno sbuffo che sa di fiele e rancore e sbotta:
«Beh,
mi auguro allora
che tu sia pronta a spiegare a mio fratello... questo».
Fleur
si ritrae come
davanti al suono secco di una frusta, ma il suo volto resta
impassibile.
«Questa
è guerra,
non amour».
Lui
ridacchia con boria
e si appoggia distrattamente al davanzale della finestra. Alla luce
della luna, Fleur è l'unica cosa che sembra poter ancora
brillare.
«Non
ha mai fatto differenza».
*
Alice
Longbottom/Rodolphus Lestrange
(one-sided)
128
parole
I
suoi riccioli biondi
ti ricordavano il grano e le brughiere del nord. Aveva il sorriso dei
ruscelli e gli occhi vivi e brillanti di risate e usignoli, e c'era
la primavera nel modo in cui danzava a pieni nudi nell'erba del parco
di Hogwarts.
Fianco
a fianco della
ragazza alla quale eri già stato promesso, la guardavi da
lontano,
di soppiatto, di nascosto... rubavi ognuno dei suoi sorrisi.
Le
rubavi l'estate con
gli occhi, ed ora che puoi farlo davvero,
Rodolphus, fallo e
basta.
«Crucio».
Guardala
gridare, guardare contorcersi ai tuoi piedi come un agnello con la
gola recisa, guarda i suoi occhi straziati, guarda il suo dolore,
guarda la nebbia farsi strada nella sua mente... guardala, Rodolphus,
e dimmi che non ti fa un male cane.
*
Invenzione
Alastor
Moody, Ninfadora Tonks
162
parole
«È
pericoloso».
Tonks
sbuffa come un'adolescente e alza gli occhi al soffitto. Moody
vorrebbe tanto poterla strangolare, afferrarla per la nuca e
sbatterle la fronte contro lo spigolo del tavolo della Tana fino a
farle entrare un poco di senno in testa. Ma non lo fa. Resta immobile
con le braccia incrociate e lo sguardo astioso.
«È
geniale. E tu lo sai».
Vorrebbe
prenderla a sberle – lei, i suoi capelli rosa e quella
dannata fede
che brilla al suo anulare.
«Troppi
rischi».
«E
poche alternative».
Digrigna
i denti, ma sa che lei ha ragione. Sa che sono tutti incastrati,
circondati, soffocati... a un passo dal cadere nel precipizio, uno
dopo l'altro, insieme a ognuna delle buone convinzioni che si portano
sulle spalle.
«Sette
diversi Potter...» ripete con una smorfia divertita.
«Buon Dio,
Tonks... è l'idea più stupida che tu abbia mai
avuto».
«Funzionerà.
Fidati di me».
È
davvero un'idea geniale – una di quelle
che ti fregano
proprio sul più bello.
È
così magro che potrebbe contare ognuna delle proprie
costole, ma non
sa dove siano finite. Suppone siano lì, da qualche parte fra
il
collo e la cintola, ma conserva il timore che possa arrivare un'alba
alla quale non tutte le propria ossa fanno ritorno.
L'alba
fatale non è quella, tuttavia, e Remus le ossa le ha ancora
tutte al
loro posto – ne è certo, perché fanno
un male infernale, e niente
di ciò che non esiste potrebbe fare tanto male.
Scalare
una montagna sarebbe più facile che rialzarsi in quel
momento.
Potrebbe restare semplicemente lì, nella polvere e nel
sangue,
affogando fra i brandelli della dignità che la luna si tiene
stretta
al petto a ogni plenilunio.
Eppure
si rialza, Remus. Ha tredici anni, le ossa sporgenti, il colorito
pallido... e si rialza.
Si
rialza ogni volta con il pensiero che lo stanno aspettando accucciati
nell'Infermeria, immobili e silenziosi sotto il Mantello
dell'Invisibilità. James gli scompiglierà i
capelli, Sirius lo
prenderà in giro, Peter rovescerà sul suo letto
una borsa piena di
dolciumi e schifezze già mangiucchiate... e lui
tornerà a essere
Remus, solo Remus, solo il ragazzino con le ossa sporgenti –
e la
Bestia rimarrà lontana per altri ventotto giorni.
Se
Remus ci credesse di più, potrebbe rialzarsi più
in fretta.
|
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Capitolo 16 *** Frank, Bill/Fleur, Percy, Tonks, Scrimgeour ***
Drabble
estratte a caso dai prompt di Ferao – alla quale in effetti
dedico
ognuna di esse (in particolare la flash fic su Percy e Tonks).
*
Ever
failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better. (Samuel
Beckett)
Frank
Longbottom
126
parole
Il
dolore è un mostro che non si è mai addestrati a
sconfiggere del
tutto. Lo sa bene Frank, che di mostri e orrori da sconfiggere
è un
grande esperto. Ci prova fino a consumare l'ultimo respiro, fino a
quando non gli si spezzano le tibie e non crolla sulle ginocchia in
una pozzanghera di melma, e poi lo sente, lo sente che ride, lo
spezza, lo morde, finché di lui non rimane che la corazza
vuota di
un soldato sconfitto.
È
l'umiliazione che lo deride e risale la sua gola ed esplode nelle sue
orecchie – proprio là, dannazione, là
dove sta già morendo
Alice.
Frank
prova a rialzarsi, ma il pavimento è troppo vicino.
Cade.
Ritenta,
Frank.
Cade.
Buon
Dio, Frank, ritenta.
Cade.
«Non».
Il
suo tono è secco come lo schiocco di una frusta. Ha una voce
flautata, Fleur, una di quelle voci melodiose che non dovrebbero
nemmeno esistere. Non è umana, lei, non fa parte del mondo
di Bill –
eppure a volte sembra davvero tutto il suo mondo.
«È
troppo pericoloso».
«Non
lascerò te partir solo. Non ho lasciato
te in questa guerre
prima e non lascerò te adesso».
Lui
tace, ma nel suo petto infuria una tempesta.
Le
dita delicate di Fleur sfiorano le cicatrici sul suo volto –
e c'è
una tempesta anche nei suoi occhi celesti, c'è davvero
tutto
il mondo di Bill lì dentro.
«Tu
sei la strada che ho scelto, mon amour».
*
A
man of genius makes no mistakes, his errors are volitional and are
the portals of discovery. (James Joyce)
Percy
Weasley, Ninfadora Tonks
375
parole
È
talmente attento a non farsi scivolare le pile di documenti dalle
braccia che quasi non si accorge di lei. Si sposta a destra per farle
spazio nell'ascensore del Ministero senza vederla sul serio, ma quel
giorno i suoi capelli sono blu elettrico – da qualche parte doveva
esistere una norma che li proibisse, santo cielo –
e perfino la
stoica concentrazione di Percy vacilla.
Si
ricorda bene di lei.
Charlie
non faceva che angosciarsi a causa della sua bravura come
Cacciatrice.
“ Per
le braghe di Merlino, odio giocare contro Tassorosso!”
sbraitava in
continuazione. Percy non lo ha dimenticato. «Quella dannata
di Tonks
è un demonio. Accidenti a lei, è una fortuna per
noi che il loro
Cercatore faccia schifo».
A
Percy non è mai interessato il Quidditch quanto ai suoi
fratelli. È
uno dei tanti dettagli che non ha dimenticato e che continua a
tormentarlo ogni notte. Il monolocale nel quale si è
trasferito è
silenzioso – un balsamo per le sue orecchie, ma sta
diventando più
insopportabile di giorno in giorno.
Tonks
indossa la divisa degli Auror. Il berretto è un po' troppo
storto
sul capo e le stringhe dei suoi scarponi sono slacciati. Gli rivolge
uno sguardo curioso e schiocca la lingua.
«Percy
Weasley, eh?».
La
sua voce trillante è fastidiosa – a Percy piace troppo
il
silenzio. Vorrebbe ignorarla, ma il suo collo si muove d'istinto e
annuisce sfuggente.
«La
tua famiglia sta bene».
«Non
è più la mia famiglia».
È
difficile scandirlo con forza quando la lingua trema così
tanto. Lei
sorride tristemente e scuote appena il capo.
«Quando
capirai di esserti sbagliato non aver paura di tornare a
casa».
“ Non
mi interessa” vorrebbe gridarle. “Chiudi la bocca,
tu non sai
nulla. Tu non sei nessuno”.
Eppure
tace.
«Non
smetteranno di aspettare il tuo ritorno».
Percy
continua a tacere. Quando le porte dell'ascensore si aprono sul piano
del Quartier Generale degli Auror, Tonks solleva distratta una mano
in segno di saluto e gli lancia un occhiolino di intesa. Lui inspira
profondamente e caccia tutte quelle idiozie in un angolo della sua
testa.
Quella
notte non riesce a dormire.
C'è
troppo silenzio.
*
A
thing is not necessarily true because a man dies for it.
(Oscar Wilde)
Rufus
Scrimgeous
166
parole
Che
rumore fa un castello di carte che crolla?
Rufus
non ne ha idea – sono anni che non gioca con le carte
– ma sa che
rumore fa una vita che si spezza. È secca, è
brutale, è
impietosa... la morte non ha eco. Ed ora è lì,
sulle soglie del suo
ufficio, strizzata in un corpetto nero mentre lo fissa con gli
occhiacci invasati di Bellatrix Lestrange.
Che
rumore fa il sistema nervoso di un uomo che cede?
Questo
lo sa eccome, invece. Suona un po' come suona la morte, ma ti lascia
addosso il puzzo della sconfitta. E tu lo lavi, lo lavi e lo rilavi,
ma quello resta sulla tua pelle fin quando non puzzi abbastanza da
poter finalmente morire in pace.
«Buonasera,
Signor Ministro».
Che
rumore fa la morte che si fa beffa di te?
Credevi
di saperlo, ma poi è arrivata anche da te e ti ha aperto gli
occhi –
ed eri fatto solo di sbagli, rimpianti, ricordi di tempi perduti e di
corse a piedi nudi per le brughiere scozzesi.
La
verità è già stesa davanti a te.
Non
fa alcun rumore.
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Capitolo 17 *** Remus/Lily, MacNair, Oliver, Madama Bumb, Neville, James, Remus ***
Prompt
fregati un po' a Ferao,
un po' a Charme
e un po' cascati a caso. (:
*
Niente
si sa, tutto si immagina
RemusxLily
149
parole
«Dimmelo
ora».
Remus
rivolge un'occhiata di vaga confusione alle sue spalle candide. Il
bustino candido dell'abito le fascia il corpo delicato come il
bocciolo di un giglio – e sì, forse è
una poesia stupida, forse è
un po' quell'aria fresca che finalmente può respirare in
quel tempo
di fango e guerra, ma a Remus lei sembra davvero un
fiore.
Lily
volta appena la testa, sposta la chioma rossa e assottiglia le
palpebre. C'è una malinconia nei suoi occhi verdi del tutto
inopportuna su quel volto da giovane sposa. Remus non riesce a
capire.
«Sei
innamorato di me, Moony?».
Resta
immobile e se ne stupisce, perché d'improvviso nel suo
stomaco
sembra essere deragliato un treno. Si schianta nella sua testa e lo
paralizza, lo tramortisce, gli fa male.
«Stai
per diventare la signora Potter».
Un
commento gentile, un sorriso affabile, eppure Lily sospira affranta e
scuote il capo.
«Già».
*
Circumnavigazione
MacNair,
Remus Lupin (Pre-saga)
170
parole
È
solo un dannato ragazzino, ed è una constatazione che
rimbomba nella
testa di MacNair come il rullo di mille tamburi a guerra.
Bum.
Bum. Bum.
Ed
è il suono del suo cuore, è il suo sangue,
è quella caccia
serrata che martella incessante nelle sue vene a spingere
ogni
suo passo nel fango – ed ogni passo è sempre
più vicino alla sua
preda, ogni passo è sempre un passo in meno dalla vittoria.
È
solo un dannato animale.
Uno
come tanti altri.
L'aria
è densa dell'odore della pioggia, di paura, di sudore
– la sua
paura, la sua fine. Si nasconde come un cane, il piccolo bastardo, ma
tu sei un cacciatore d'alto lignaggio, sei il boia dell'Oscuro.
Puoi
uccidere ogni cosa, MacNair.
Eppure
Remus Lupin – il ragazzino, il bastardo, l'animale, quello da
stanare – compare alle tue spalle troppo
in fretta, con
troppa forza, con troppa tenacia, e tu sei già
lì, con le ginocchia
nella melma e l'adrenalina che si dissolve in un istante.
Mai
dare la caccia a un cacciatore.
Bum.
*
Coperta
Oliver
Baston
211
parole
L'importante
è vincere, non partecipare.
Puoi
vincere il Campionato di Quidditch, ma per farlo devi sputare sangue
e fiele. Tu sei la scopa, tu sei la mano, tu sei l'aria e la terra e
il gioco – e lo sai, lo senti, è parte di te. Puoi
vincere il
Campionato di Quidditch, puoi invitare a Hogsmeade quella graziosa
Tassorosso di nome Johanna, ma poi dovrai ritagliare tempo al tempo,
spazio allo spazio; dovrai scegliere, dovrai capire, dovrai volare un
po' meno.
Non
si può avere tutto dalla vita – puoi provare a
tirare gli angoli
della coperta perché hai freddo alla testa, ma i piedi
spunteranno
comunque fuori.
C'era
una guerra da vincere stasera – ed era un po' come una
partita di
Quidditch fatta di gente che cade e non si rialza. C'era una guerra
da vincere che alla fine è stata vinta, e quasi quasi
torneresti
negli spogliatoi con il capo alto e fiero – tu sei un
campione,
d'altronde, sei nato per vincere.
Ma
il piccolo corpo di Colin Canon pesa fra le tue braccia come mille
partite perse, e c'è una dannata coperta che non riesce a
coprirti
né la testa né i piedi.
La
differenza fra vincere e partecipare non ti è mai sembrata
tanto
nulla.
«Rolanda?».
La
voce di Minerva fende l'aria come il tuono. Rolanda si stringe nelle
spalle e serra feroce le palpebre, conficca i denti nelle labbra
sottili e per un istante dimentica di essere stata una studentessa
Grifondoro – e di essere ancora lì, nonostante
tutto. Nonostante
il trascorrere degli inverni e delle estati, nonostante le tempeste
che si sono succedute, nonostante le nubi oscure che hanno avvolto i
torrioni più alti, Rolanda è rimasta al suo
posto.
«I
confini a ovest devono essere protetti».
Annuisce
debole e volta finalmente il capo verso la strega più
anziana.
Minerva sembra una statua di impietosa freddezza, ma è buio,
la
notte fa paura, e Rolanda non può vedere il terrore
soffocato nei
suoi occhi brillanti.
«Non
entreranno nel castello».
Il
suo sussurro è debole, ma lei resta lì, resta
ancora al suo posto.
Le dita di Minerva affondano nella sua spalla – una stretta
graffiante, disperata.
«Non
lo permetterò».
È
una notte in cui bisogna volare per davvero,
quella – forse è proprio una di quelle dalle quali
bisognerebbe
volare lontano.
Rolanda
rimane al suo
posto in attesa del fischio d'inizio.
Il più alto dei due
uomini porta la bottiglia di Budweiser alle labbra e ne scola
l'ultimo goccio in un'unica sorsata profonda.
«Merda.
Ho bisogno di
una vacanza» ringhia stizzito. «E di un'altra
dannata birra».
L'altro
storce il naso
in una smorfia disgustata, si passa una mano fra i capelli incrostati
e sputa un grumo di catarro.
«Odio
gli zombie.
Sanno di topo e fogne».
«Eh,
un po' come il
tuo fiato, amico».
Fenrir
emette un verso
a metà fra uno sbuffo e un ringhio gutturale. Wolverine
getta
nell'erba la bottiglia vuota e imbraccia la mitraglietta. Il roco
mormorio dei morti viventi che si avvicina a loro si fa sempre
più
chiaro e distinto. Il più audace di loro barcolla a pochi
passi dal
muricciolo sul quale si sono seduti.
«Mira
alla testa» lo
informa con un sogghigno. «È quella che sta in
alto».
«Ma
vaffanculo,
Logan».
BANG!
Il
cervello del primo
zombie si sparge in una poltiglia verdastra sull'asfalto. Si voltano
entrambi verso il punto dal quale è giunto lo sparo: Remus
Lupin sta
già ricaricando il fucile a pompa.
«Sei
sempre in
ritardo, ragazzo».
«Ma
vaffanculo,
Fenrir».
*
Leggenda
Neville
Longbottom
168
parole
«Ehi».
Neville
solleva la
testa di colpo e per un istante scruta la moglie come se non
riuscisse a vederla davvero. Poi alza distratto la mano, scuote il
capo con un sorriso leggero e appoggia il mento al palmo.
Hannah
lancia lo
strofinaccio umido sul bancone del pub e inarca appena un
sopracciglio.
«Che
è successo?».
Lui
sospira con una
smorfia tenera.
«C'è
un ragazzino di
Grifondoro di nome Robin...».
«Bene.
Vuoi che lo
adottiamo?».
Neville
ridacchia fra i
baffi e si rigira fra le mani il bicchiere di Whisky Incendiario.
«È
timido, inciampa,
non è sicuro di sé... ed è un disastro
praticamente in ogni
cosa cerchi di fare».
Sul
bel viso paffuto di
Hannah si dipinge un largo sorriso nostalgico.
«Oggi
mi ha detto che
sono sempre stato la sua “leggenda”»
riprende con aria
sconcertata. «Io, capisci? Io sono
la leggenda di
Robin Eckhart. Io sono la leggenda di qualcuno».
Hannah
riprende ad
asciugare i bicchieri, ma è difficile celare il sogghigno
affettuoso
sul suo volto.
*
Fine
James
Potter
104
parole
Corri.
Corri
con la gola
arida; corri, ma le tue gambe non si muovono e pesano, pesano e
restano inchiodate al pavimento; corri da una vita intera - eppure
corri solo da due secondi, da due battiti di ciglia. Corri da un
respiro e poco più, proprio quello che ti è
rimasto mozzato nel
petto.
Corri.
Non
ha suonato il
campanello.
È
arrivato e basta, e
tu ora dovresti davvero prendere in considerazione
l'idea di
correre.
«È
lui! È lui, Lily! Prendi Harry e scappa!».
Corri.
In
realtà sei già
fermo.
In
realtà non te ne
sei nemmeno accorto.
Dove
credevi di correre, James?
L'aria
gelida della
notte lo colpisce al volto come uno schiaffo, ma Remus continua a
sfrecciare lungo l'antico porticato di pietre, scavalca il muricciolo
con un agile salto, atterra nell'erba umida e non si ferma fino a
quando non lo vede di nuovo – ancora là,
impacciato e soffocato
nella veste da Mangiamorte.
Solleva
la bacchetta e
la sua mano tradisce un leggero tremolio.
«Avada...».
«NO!».
La
forza impietosa con
cui Tonks gli strattona il braccio lo fa barcollare. Si divincola
dalla sua stretta e le rivolge uno sguardo di fuoco –
crudele,
rabbioso, ferino. Quello che gli esce dalla gola
è davvero il
ringhio di una animale.
«Non
intrometterti».
«Lo
colpirai alle
spalle?» lo apostrofa con durezza lei. Le sua dita affondano
nella
manica della sua camicia. «Lo ucciderai così? E
quando lo avrai
fatto, che uomo diventerai? Uno come lui».
Remus
si irrigidisce e
serra le palpebre in una smorfia disperata. Tonks appoggia la mano
sul suo cuore, la fronte al petto, ma non abbandona la presa sul suo
polso tremante.
«Ti
prego. Tu sei
mille volte l'uomo che lui non potrebbe mai essere».
Lascia
cadere la
bacchetta e le accarezza appena i capelli scoloriti.
|
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Capitolo 18 *** Luna, Lucius, Remus/Sirius ***
Note
dell'autrice: Ho
scritto per la prima volta in tutta la mia vita qualcosa di vagamente
Wolfstar. Mi sento fiera di aver fatto il salto, ma ho come
l'impressione di essere entrata in un baratro di dolore.
Harry.
Hermione. Ron. Ginny. Neville.
Era
stato facile evocare il suo primo Patrono. Vedere la lepre argentea
saltare intorno a lei l'aveva fatta ridere e per un attimo non aveva
pensato che poteva avere dei Guazzabuchi annidati nelle lunghe
orecchie.
Aveva
riso e basta.
Harry.
Hermione. Ron. Ginny. Neville.
La
vernice che le scivolava fra le dita lasciava sempre una sensazione
piacevole. Era fredda, era calda, era un po' tutto e un po' niente, e
ad ogni pennellate Luna rideva sempre di più, sempre con
più cuore,
perché il naso di Ron era proprio lungo come quello che
stava
disegnando e gli occhi di Neville brillavano esattamente in quel
modo.
Aveva
riso a lungo.
Harry.
Hermione. Ron. Ginny. Neville.
L'umidità
della cella di Malfoy Manor entrava nelle ossa e te le spaccava una
ad una. A volte Luna credeva di essere a metri di profondità
sotto
il Lago Nero, con il gelo degli abissi insidiato nel petto e l'acqua
nei polmoni, senza più fiato, senza più respiro.
Ma
poi intrecciava fra loro le dita e li chiamava di nuovo. Dieci,
cento, mille volte ancora – non avrebbe smesso tanto in
fretta.
Harry.
Hermione. Ron. Ginny. Neville.
«Venitemi
a
prendere...».
*
Impeto
Lucius
Malfoy
196
parole
«Crucio!».
Lo
guarda contorcersi ai propri piedi senza battere ciglio, la bacchetta
levata, lo sguardo gelido e impietoso. È lì che
deve stare – se
lo ripete come un mantra, se lo cuce nella testa e nella pelle con un
impeto violento. Il Babbano strilla, strilla e si dimena, strilla e
piange, strilla e implora, e Lucius resta immobile.
Bellatrix
ride al suo fianco.
«Crucio!».
Ancora,
ancora e ancora. È una ballata senza fine di grida che
spezzano la
notte, ma nelle orecchie di Lucius rimane solo un vago ronzio.
È
lì che deve stare.
Lo
pensa ancora, lo pensa finché non ne ha il vomito, e
all'improvviso
ripensa a Narcissa che lo sta aspettando a Malfoy Manor con il cuore
in ansia e un bambino che piange fra le braccia.
È
lì che deve stare.
«Uccidilo,
Lucius».
È
lì che deve stare.
Solleva
la bacchetta con la maledizione che sfrigola sulla punta della
lingua, ma dalla sua gola risale solo un vago verso strozzato. E
Narcissa è ancora davanti a lui, tormentata, terrorizzata,
con
quella luce di accusa negli occhi che non riesce mai a nascondere.
«Avada
Kedavra!».
E
lui? Lui dov'è che dovrebbe stare?
*
«Non
temere le ombre», William Shakespeare
RemusxSirius
Tripla
drabble – 313 parole
Atto
primo – Avvicina le mani e vola.
«Non
ci riesco».
Remus
sospira, ma le sue labbra sottili sono piegate in un sorriso
paziente. L'espressione capricciosa sull'elegante viso di Sirius
è
quella di un bambino. Lo costringe a ruotare appena il polso e lo
avvicina alla fiamma ballerina della candela che illumina il
dormitorio di Grifondoro.
«Più
basso. Accosta i pollici e stringi le altre dita».
«Non
ci riesco».
«Non
hai nemmeno provato».
Sirius
sbuffa, inchina il capo e scruta con aria infastidita le ombre cinesi
che Remus sa ricreare sulla parete di pietra. Non può che
notare
quanto la sua farfalla appaia fragile e sottile.
Atto
secondo – Avvicina le mani e stringimi.
Nella
penombra della Stamberga il suo viso gli appare ancora più
scuro –
eppure è il suo viso, è davvero il suo viso, e
rivederlo come lo
vedeva prima che il mondo crollasse loro addosso è come
rivivere
mille albe dopo mille pleniluni.
Dodici
anni. Si illude siano trascorsi pochi secondi e gli getta le braccia
al collo.
Dodici
anni e per un attimo in quella bisarca distrutta non restano che loro
due, non resta che la sensazione di riavere fra le mani una candela
dalla fiamma che danza.
«R-Remus...».
La
sua voce trema e Remus tace – tremerebbe anche lui.
Le
loro ombre sul muro sono fuse l'una con l'altra.
Forse
è davvero passato solo un attimo.
Atto
terzo – Avvicina le mani e cadi.
Se
potessi conoscere il momento in cui morirai fin dal primo attimo in
cui vivi, lo vorresti sapere? Remus se lo è chiesto spesso.
Una
volta lo aveva chiesto a Sirius e lui era scoppiato in quella risata
canina denigratoria tutta sua.
«Col
cavolo. Voglio vivermela tutta, la vita».
Remus
sapeva che aveva
ragione, ma non poteva fare a meno di pensare che essere pronti
è
sempre un vantaggio. Anche quando si muore.
Anche
quando si cade.
Anche
se fai lo stesso
rumore di una candela che si spegne.
|
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Capitolo 19 *** Apri gli occhi - Percy ***
Scritta
per l'iniziativa 24hours-of-fun
organizzata
dalle fantastiche Geilie
ed
emme.
Il prompt era «Il vero viaggio di scoperta non
consiste nel
cercare nuovi orizzonti ma nell'avere occhi occhi nuovi».
(Marcel
Proust)
*
Apri
gli occhi
Percy
Weasley
1700
parole
Di
Percy Weasley si sarebbero potute dire tantissime cose. Si sarebbe
potuto dire che era un Weasley dai capelli rosso fuoco come tutti i
componenti della sua famiglia, si sarebbe potuto dire che era uscito
fuori alto e allampanato come suo padre e cocciuto come sua madre. Si
sarebbe potuto dire che era sempre stato un ragazzo dotato di vivido
acume, volenteroso e diligente – spesso pedante. Si sarebbe
potuto
dire che era diverso da tutti i suoi fratelli, ma la realtà
era che
nessuno dei suoi fratelli si assomigliava l'uno con l'altro.
C'era
Bill, il primogenito talentuoso e responsabile che era cresciuto in
fretta per correre dietro ai fratelli più piccoli; c'era
Charlie,
quello scanzonato e impetuoso nato per l'avventura; c'erano i gemelli
Fred e George, senza freni e senza paura, con la risata riflessa
negli occhi identici e la battuta tagliante pronta sulla lingua;
c'era Ron, quello timido e insicuro con la lealtà impressa
nel
cuore; e poi c'era Ginny, che era un po' Bill e un po' Charlie, un
po' Fred e George, e perfino un po' Ron.
Percy
era diverso da loro quanto ognuno era diverso a modo suo, ed erano
tutti Weasley, tutti a modo loro. Era quello ambizioso, lui –
ma lo
era anche Bill, lo erano anche Fred e George. Era quello sveglio
–
ma lo era anche Ginny. Era quello che non voleva mai salire sul
manico di scopo, l'unico al quale non fosse mai piaciuto
particolarmente il Quidditch – e alla fine era stato proprio
lui a
cadere.
Quello
che non aveva mai davvero volato.
«Non hai nulla da
dire?».
Percy osservò
sconcertato il volto inespressivo del padre, poi rivolse un'occhiata
perplessa alla madre. La donna era rimasta immobile accanto allo
stufato, con il mestolo stretto fra le mani grassocce e la labbra
appena dischiuse. Il ragazzo si passò le dita fra i
capelli.
«Sono
diventato assistente del Ministro» ripeté
con foga crescente. «Assistente del Ministro. E tutto ciò che
riuscite a fare è... tacere?».
Arthur socchiuse le palpebre
con un moto di dolore, si sfilò gli occhiali di corno e
iniziò a pulire distrattamente le lenti con deboli movimenti
del polso. Non disse nulla per diversi secondi, ma quando
parlò il suo tono parve fendere l'aria fra lui e il
figlio.
«Percy... hai pensato a cosa davvero potrebbe
significare?».
«Certo che l'ho
pensato. Significa che finalmente le mie capacità sono state
notate da persone importanti, gente che conta. Assistente del Ministro, papà... e lavoro
al Ministero soltanto da due anni. È un traguardo
incredibile per la mia carriera, non--». S'interruppe di
colpo e parve trattenere il fiato. Nei suoi occhi si accese una luce
inquisitoria. «Tu non credi mi abbiano promosso per le mie
capacità» concluse con un filo di voce.
«Non credi che io ne sia davvero
all'altezza».
«Al contrario, credo
che saresti ottimo per quel compito» replicò con
forza Arthur. «Ma non così, Percy. Non adesso. Non sei
stato assunto per i tuoi meriti. Sei stato assunto perché
sei mio figlio».
Percy emise uno sbuffo
sarcastico.
«Perché
sono tuo figlio? Dannazione,
papà, tu lavori all'Ufficio per l'Uso Improprio dei
Manufatti dei Babbani» sputò l'ultima parola come
se fosse un'onta tremenda. «Che raccomandazioni avresti mai
potuto offrirmi?».
Le orecchie di Arthur si
tinsero di un pericolosa sfumatura rubizza. Molly si portò
una mano al petto e si frappose fra loro.
«Percy, come puoi
parlare a tuo padre in questo modo?» pigolò con
voce tremante. «Darebbe l'anima per ognuno di
voi».
«Forse, ma non la sua
ammirazione» rispose pungente. «Non è
così, papà? Non sei pronto a vedermi fare la
carriera al Ministero che tu non sei mai riuscito a
fare?».
«Percy!».
Ma il ragazzo pareva irrefrenabile. Teneva i pugni chiusi e al di
là delle lenti degli occhiali il suo sguardo brillava di
delusione.
«È sempre
stato così» continuò con rabbia
crescente. «Quando Bill è diventato Caposcuola vi
siete accesi di orgoglio, avete festeggiato per intere settimane.
Quando io sono diventato
Caposcuola mi avete dato una pacca sulla spalla. Mi avete
detto: “Ben fatto, non ci aspettavamo niente di
diverso”. Ve lo aspettavate e basta, così come vi
aspettavate i risultati dei miei M.A.G.O. Ho ottenuto i voti migliori
del mio anno» sibilò astioso. «I migliori. Ma voi eravate troppo
impegnati a gonfiarvi per le prodezze avventurose di Ron, per i
successi che Charlie riscuoteva in Romania, per la bravura di Bill in
Egitto... perfino i ridicoli di scherzi di Fred e George vi hanno reso
più orgogliosi dei miei progressi scolastici. A nessuno è mai importato di
ciò che io guadagnavo, giorno dopo giorno,
fatica dopo fatica».
Molly osservava il volto del figlio come se non riuscisse nemmeno a
riconoscerlo. Sembrava che ogni sua parola le stesse dilaniando il
petto e le guance rotonde erano rigate da lacrime silenziose.
«Percy... non è
vero».
Percy non aveva occhi che per
il padre.
«E ora, proprio
quando vengo a dirti che sono il più giovane assistente al
Ministro che si sia mai visto, che davanti a me si apre una carriera
straordinaria come mai nessuno di questa famiglia ha
potuto vantare... tu mi dici che non lo merito».
Stremato, Arthur si
passò le mani sul volto. Le sue spalle erano incurvate in
una linea rassegnata e sconfitta.
«Ti sbagli. Non hai
la minima idea di quanto io e tua madre siamo orgogliosi di
te» mormorò piano. «Tu sei un ragazzo
straordinario, Percy, ma ti stai lasciando accecare dall'ambizione. Non
riesci a valutare con razionalità cosa davvero sta
accadendo. Il ritorno di Tu-Sai-Chi ha messo il professor Silente nella
condizione di--».
«Chi lo
dice?» lo interruppe il figlio. «Silente? Harry Potter? Nessuno lo ha visto
davvero tornare».
Arthur rimase impietrito e
sgranò gli occhi.
«Percy...»
lo chiamò di nuovo Molly, avvicinandosi a lui e cercando di
stringerli il braccio sinistro. Il ragazzo si levò in fretta
dal suo tocco e la donna trasalì come se avesse brandito una
frusta contro di lei. «Percy, per l'amore del cielo... come
puoi anche solo pensarlo? Conosci Harry. Come ti viene in mente
che--».
«Girano voci al
Ministero che--».
«Voci ridicole!» gridò
d'istinto Arthur, picchiando con forza il pugno sul tavolo.
«Sciocchezze! Cialtronate! Sussurri sciocchi di gente ancora
più sciocca! Sai cosa davvero mi deluderebbe di te, Percy?
Vederti chiudere gli occhi davanti alla realtà per la brama
di gloria. Vedere uno dei miei figli lasciarsi corrompere dalla
doppiezza e dall'ambizione... ecco, Percy. Questo mi deluderebbe».
Percy conficcò i
denti nel labbro inferiore e si raddrizzò gli occhiali con
un gesto di stizza.
«Appoggiare Silente ora getterebbe la nostra famiglia ancora
più nel ridicolo».
Un silenzio di ghiaccio piombò nella piccola cucina della
Tana. Molly trattenne il fiato e si coprì la bocca con
entrambe le mani, soffocando a stento un lungo gemito. Arthur si
alzò di scatto, rovesciò la sedia e
fissò il volto del figlio con sguardo di fuoco.
«Non osare ripeterlo».
Il ragazzo deglutì a
fatica. Agli angoli dei suoi occhi si stavano formando due piccole
lacrime.
«È colpa tua se siamo sempre stati poveri,
papà. Solo colpa tua».
Molly si lasciò
cadere su una sedia, affondò le mani fra i capelli e
scoppiò in un pianto disperato, mentre suo marito e suo
figlio iniziavano a gridare con furia l'uno contro l'altro.
«Io ho fatto di tutto per questa
famiglia!».
«Non hai mai
fatto abbastanza! Indossiamo abiti dismessi,
compriamo libri di seconda mano... e tutto perché tu sei
sempre stato più interessato a quegli stupidi Babbani che
alla tua carriera al Ministero!».
«Hai sempre avuto
lenzuola pulite, un piatto caldo in tavola e una famiglia che ti ha
sempre amato! Con quale coraggio ora vieni a recriminare tutto
ciò che abbiamo fatto per voi!?».
«P-papà? P-Percy?».
Arthur e Percy sobbalzarono
contemporaneamente. Ginny era acciambellata sui gradini delle scale a
chiocciola che portavano al piano di sopra con aria sconvolta. Alle sue
spalle, Ron fissava i propri genitori con le orecchie rosse e
un'espressione imbarazzata. Fred e George fissavano seri il fratello
più grande, con le labbra serrate in una rigida linea
severa. Percy rivolse a tutti e quattro un'occhiata distratta e
alzò le mani in segno di resa.
«Bene. Se questo è tutto...».
«Non
è tutto» tentò di
fermarlo Arthur.
«Sì,
papà. Fidati. È tutto» ribatté
in un sussurro penoso. «Io me ne vado».
Aveva temuto di aver commesso
un errore di cui si sarebbe pentito non appena si era Materializzato
lontano dalla Tana con le sue poche cose infilate alla rinfusa nel
vecchio baule, ma era stato bravo a convincersi di avere ragione. Se lo
era ripetuto per mesi, per anni, ma quando lo aveva
capito non aveva più trovato il coraggio di tornare
indietro.
Odiava il
Ministero.
«Weasley»
lo chiamò perentorio O'Tusoe, affacciandosi nel suo
minuscolo ufficio con una smorfia annoiata.
«Sì,
signore?».
Odiava essere costretto a
rivolgersi a loro con la parola “signore”. Non
c'era nessun signore al Ministero. C'erano rimasti solo i porci, i cani
e tutti quegli idioti come lui che continuavano a seguirli. Odiava ogni cosa, dal calamaio alla
seggiola scomoda. Odiava quella dannata fontana nuova, odiava il suo
lavoro, il suo monolocale, i suoi bei vestiti costosi. Odiava rincasare
a tarda notte in una camera vuota e silenziosa, dove il rimbombo di
ciò che aveva fatto quel giorno lo accusava fino
all'alba.
«È
arrivata una nuova lista di Nati Babbani per i quali occorre un mandato
di arresto immediato».
«Sì,
signore».
O'Tusoe gettò un
rotolo di pergamena sigillato fra le scartoffie che riempivano la
scrivania di Percy. Il ragazzo la
dispiegò senza battere ciglio.
«Ne ho bisogno entro
l'ora di pranzo».
«Sì,
signore».
Il Ministro della Magia si
fermò sull'uscio e gli rivolse un'occhiata inquisitoria. Poi
le sue labbra si storsero in un sogghigno fastidioso.
«Sei un bravo
ragazzo, Weasley. Farai carriera in fretta».
Percy annuì
brevemente. Le dita strinsero con più forza la pergamena
giallastra.
«È un onore, signore».
Quando O'Tusoe si fu richiuso
la porta alle spalle, Percy esalò un lungo sospiro affranto
e affondò il viso nelle mani. Poi rilesse nuovamente la
lista, e poi ancora e ancora, fin quando non ebbe memorizzato ognuno di
quei nomi.
Sarebbe stata una lunga
nottata: quella volta i Nati Babbani che avrebbe dovuto avvertire del
pericolo erano più del solito.
|
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Capitolo 20 *** Arthur/Molly, Hannah, Percy, Lucius/Narcissa ***
Altre
drabble scritte a caso in momenti a caso. Ehm... la maggior parte dei
prompt sono sicuramente di Ferao. Almeno un altro paio credo di
averli pescati a caso. Non ne sono sicura, ma tant'è... (:
*
«But
I, being poor, have only my dreams».
ArthurxMolly
114
parole
Stringe
le sue piccole mani paffute fra le proprie in una morsa disperata,
china il capo e lo ripete di nuovo:
«Non
ce la faremo mai. Non ce la possiamo fare».
Le
dita di Molly si intrecciano attorno alle sue e i suoi occhi gentili
cercano il suo sguardo, ma Arthur la ignora. Continua a guardare il
pavimento, prega che possa aprirsi una voragine in grado di
inghiottire la sua vergogna.
«Arthur...».
«Mi
dispiace, Molly».
«Arthur...».
«Non
meriti questa casa disastrata».
La
giovane donna arriccia le labbra in un sorriso triste, scuote con
decisione la testa e lo costringe ad appoggiare la mano destra sul
ventre sempre più rotondo.
«La
mia casa sei tu».
*
Affrontare
i propri amici
Hannah
Abbott
248
parole
«Non
posso farlo».
Hannah
conosce bene la sensazione di essere sola in mezzo a una folla,
eppure quella volta è tutto un po' più diverso e
annebbiato. Susan
le rivolge un'occhiata mesta. Ernie inclina deluso la testa. Justin
sospira affranto e mostra i palmi in segno di resa.
E
Hannah risponde ai loro sguardi – gli sguardi dei suoi
amici, dei suoi migliori amici – ma
nella testa non c'è
altro che il vuoto rimbombo delle campane che avevano suonato durante
il funerale di sua madre.
Cenere
alla cenere.
«Longbottom
è pazzo se pensa di poter resistere da solo ai
Mangiamorte».
«Non
sarà solo, se ci uniremo a lui».
Polvere
alla polvere.
Hannah
resta a torcersi le dita fino quando le fiamme del camino non si
spengono. La sala comune è ormai deserta, le luci deboli,
l'aria pesante.
Stringe le ginocchia al petto e soffoca un gemito di paura.
Non
può farlo.
Il
giorno successivo Vincent Tiger solleva la bacchetta su una ragazzina
di nome Hester. Ha undici anni, due buffe trecce castane e i denti
un po' sporgenti. Ha undici anni, è al suo primo anno a
Hogwarts – e quella è Hogwarts.
Le sue grida riempiono il
corridoio del terzo piano e fanno male.
Hannah
chiude gli occhi.
Cenere
alla cenere.
La
paura le ha inaridito la gola – ma Hester strilla ancora
nella sua
testa, e Vincent ride, e quella è Hogwarts, ed è
tutto un'eco di
urla e campane a lutto...
«Stupeficium!».
Non
può farlo.
Polvere
alla polvere.
Lo
fa lo stesso.
*
Scala
reale
Percy
Weasley
179
parole
Bill
era l'asso – era quello che vinceva sempre.
È
ancora al Ministero quando lo scopre. Lavora fino a tardi, lavora
perché spera di dimenticare un sacco di cose che in
realtà non
vuole dimenticare.
Charlie
era il re – era quello che comandava.
La
notizia è una bomba che gli esplode nel petto, nelle
viscere, nella
testa. La battaglia sta per iniziare – ed è a
Hogwarts, è là che
si deciderà il loro futuro.
Fred
e George erano fante e cavallo – erano quelli che non stavano
fermi.
Si
alza in piedi di scatto. Ha l'indice sporco di inchiostro e rotoli di
pergamena sparsi davanti agli occhi.
Ginny
era la regina – era quella decisiva.
«A
Hogwarts! A Hogwarts!» gridano fuori dal suo ufficio. Percy
serra le
palpebre – e c'è la Tana nella sua mente,
c'è l'odore di sua
madre e il sorriso di suo padre, c'è una fotografia scattata
ai
piedi di una piramide.
Ron
è il Jolly – Ron vale più di tutti
loro.
Percy
stringe la bacchetta.
La
scala non è ancora reale.
«Andrai
anche questa notte?».
Lucius
si ferma in mezzo al corridoio. La luce delle torce danza sugli
antichi arazzi di Malfoy Manor in decine di arabesche serpentine. Le
guarda, ma non le vede sul serio: riconosce solo le lingue di fuoco
che lambiscono i nobili stendardi della sua famiglia e sembrano
bruciare, mangiare, divorare.
E
Narcissa è lì nell'ombra alle sue spalle, dove
luce e fuoco non
possono arrivare – dove il Marchio Nero che dilania il suo
avambraccio non si potrebbe nemmeno scorgere.
«È
il mio dovere. Gli ho giurato fedeltà».
La
piccola mano candida della moglie si appoggia alla sua schiena. Le
sue unghie artigliano con disperazione la stoffa nera del suo
mantello.
«Non
andare... ti prego, resta qui».
Lucius
stringe gli occhi, trattiene il fiato e ogni cosa esplode nuovamente
davanti alle palpebre chiuse. Non c'è più luce:
ci sono solo alte
figure incappucciate, e grida, e strilla, e un ordine perentorio al
quale non può sfuggire.
«Qui
sei al sicuro».
Dalla
gola di Narcissa non risale che un gemito sommesso.
«Di'
agli elfi di spegnere le torce».
Nasconditi
nel buio.
|
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Capitolo 21 *** Me lo devi - Remus Lupin, John Dawlish ***
Scritta
in occasione del Prompts
Day indetto da Pseudopolis Yard.
*
Me
lo devi
Remus
Lupin, John
Dawlish (RemusxTonks)
1605
parole
Non
voleva farlo.
Se
lo era detto fin dal principio, fin da quando Silente gli aveva
rivolto quella folle richiesta – e forse perfino prima,
mentre
risaliva le scale a chiocciola che conducevano al suo ufficio e una
parte di lui aveva già amaramente intuito a cosa stesse
andando
incontro. Non voleva farlo,
eppure aveva acconsentito
per mettere a tacere quell'altra parte di sé, quella
più insistente
e febbrile, quella che continuava a ribadire: “È
il tuo compito. È il tuo dovere. Non può farlo
nessun altro”.
Aveva
realizzato ciò che davvero
aveva
acconsentito a
fare solo una volta che l'imponente profilo di Hogwarts fu svanito
nella nebbia del villaggio di Hogsmeade.
A
quell'ora tarda della
sera la strada principale era solitamente deserta, ma ora che il
ritorno di Lord Voldemort aveva gettato la comunità magica
nel
terrore Remus non si aspettava di imbattersi in qualche passante
nemmeno sotto la luce del sole.
Davanti
alla porta dei
Tre Manici di Scopa si ergeva tuttavia una figura ben piantata, con
le spalle larghe e il petto prominente. Attraverso le ampie finestre,
le fiaccole che illuminavano l'interno del pub facevano apparire la
sua lunga ombra sul ciottolato come un piccolo gigante. Remus
riconobbe immediatamente il cappello tipico degli Auror e
alzò
d'impulso il bavero del logoro mantello per nascondere il volto.
Nel
corso degli ultimi
sedici anni, la lista degli Auror che gli avevano dato delle noie si
era preoccupantemente allungata. Remus non gliene faceva una colpa:
era il loro mestiere, quello, e nonostante la protezione di Silente
lui restava comunque un licantropo, eppure sembravano tutti convinti
che lui non avesse il minimo diritto di difendersi. Eppure a Remus
bastava stare tranquillo. Era una caratteristica che Sirius non aveva
mai spesso di prendere in giro.
«Non
fate arrabbiare
il Lupo Mannaro!» informava con voce professionale.
«L'ho visto
mordere la gamba di un tavolo, signori, e vi assicuro che è
pericolosissimo».
Remus
inghiottì un
fastidioso groppo in gola in al ricordo della risata scanzonata di
Sirius – al pensiero di Sirius che voleva combattere, di
Sirius che
rideva ancora e ancora, e poi finiva oltre quel dannato Velo
– e
infilò entrambe le mani nelle tasche. Non voleva pensarci.
«Ehi,
tu!» lo chiamò
l'Auror fermo davanti ai Tre Manici di Scopa.
Remus
si bloccò e
soffiò un'imprecazione fra i denti. Non era decisamente il
momento
più adatto. Alzò appena la testa verso di lui e
gli rivolse
un'occhiata interrogativa.
Di
norma Remus evitava
sempre di lasciarsi influenzare dalle prime impressioni. L'esperienza
gli aveva insegnato che nessuna prima impressione è mai ben
stesa,
ma il suo cervello etichettò quello sconosciuto come
“idiota” in
pochi istanti. Quando l'uomo si mosse verso di lui, Remus
riuscì a
vederlo in viso e non si trattenne dal sospirare infastidito.
“Dawlish...” si lamentò fra
sé. “Buon Dio, perché metti
tutti gli idioti sulla mia strada?”.
Prima
di diventare
Auror, John Dawlish era stato Prefetto di Corvonero. Divenne
Caposcuola nello stesso anno in cui Silente fece l'errore di dare a
Remus l'onere di essere il Prefetto di Grifondoro. Coperti da lui,
gli scherzi di James e Sirius non fecero che raddoppiare di numero e
spettacolarità: un po' per quello e un po' per mancanza di
umorismo,
Dawlish non aveva mai tollerato nessuno dei Malandrini.
A
questo si aggiungeva
il fatto che Remus lo avesse preso a pugni solo cinque anni
più
tardi, quando sotto le direttive di Barty Crouch Dawlish aveva
bloccato tutte le uscite dal porto di Exeter per chiudere la fuga i
Mangiamorte. Nessuno aveva dato peso alla presenza di venticinque
marinai Babbani che scaricavano un mercantile arrivato da Copenaghen
e nessuno di loro era sopravvissuto.
“ Avevamo il dovere di
eliminare i Mangiamorte” si era scusato con irritante
pedanteria
Dawlish. “La sicurezza del mondo magico non è
sacrificabile quanto
qualche Babbano”.
E
Remus lo aveva preso
a pugni. Aveva provato una soddisfazione animalesca nel sentire il
setto nasale dell'Auror sbriciolarsi sotto le sue nocche. Aveva
scampato Azkaban solo per il pronto intervento di Moody, ma quello
era rimasto uno dei pochi scatti d'ira che non aveva mai rimpianto.
«Il
villaggio è
protetto dal Quartier Generale degli Auror» lo
informò Dawlish.
Remus
roteò gli occhi.
«Se
mai dovessi vedere
qualche losca figura intenta a torturare Mezzosangue, non
esiterò ad
avvertirla».
Dawlish
si avvicinò
fino a qualche metro da lui e la sua bocca si aprì in
un'esclamazione di ridicola sorpresa. Fu questione di un istante
prima che l'Auror si riscuotesse dallo stupore e riprendesse il suo
contegno professionale.
«Remus
Lupin».
Pronunciò il suo nome come se fosse un'offesa tremenda.
«Non hai il
permesso di girovagare per Hogsmeade».
«Non
ero stato
informato di questa ristrettezza nei miei spostamenti...»
replicò
blandamente Remus, fingendo di sistemare un filo dell'orlo sdrucito
del mantello.
«È
stato pubblicato
sulla Gazzetta del Profeta».
«Davvero?
Deve essermi
sfuggito l'articolo. Quello sulla famiglia di Birmingham che avete
rinchiuso ad Azkaban era prima o dopo?».
La
faccia lunga di
Dawlish divenne talmente rossa che Remus riuscì a vederla
nonostante
il sole fosse ormai tramontato. Inclinò appena il capo e
scrutò
l'uomo con palese disgusto attraverso un ciuffo ingrigito di capelli.
«Il
giornalista di
quell'articolo era stato erroneamente informato».
«Hai
ragione. Ora che
ci penso, credo fossero di Manchester».
«Stammi
a sentire,
Lupin...» ringhiò nervosamente Dawlish, sistemando
il distintivo
del Ministero con un gesto isterico. «Non hai alcun diritto
di
giudicare l'operato del Ministero. Se solo Silente non--».
«Sì,
sì, sì...» lo
liquidò annoiato Remus. «Io starei già
marcendo in una cella di
Azkaban, certo. Suvvia, un Auror del tuo calibro non riesce a dirmi
qualcosa che io già non sappia?».
Non
era certo del
motivo per il quale stesse continuando a stuzzicare quell'idiota.
Forse aveva solo bisogno di distrarsi, forse voleva lasciarsi alle
spalle l'amara consapevolezza di ciò che lo attendeva
l'indomani –
quel conto alla rovescia con Fenrir Greyback lo stava torturando
–
forse ero tediato, forse era solo arrabbiato un po' con tutti e un
po' con nessuno, e Dawlish gli era capitato semplicemente fra capo e
collo.
«Se
Silente...».
«Se
Silente
fosse stato ascoltato un anno fa» lo interruppe in
un soffio
furioso Remus, «ora avremmo un anno di vantaggio su Lord
Voldemort».
Si compiacque del tremito di paura che il nome del mago aveva causato
in Dawlish. “Che idiota. Tonks ha la metà dei suoi
anni e già lo
pronuncia senza battere ciglio”.
«Voi
altri dovreste
mettervi in testa che non è Silente a dettare le
regole».
«No,
ma sarebbe vostro
dovere far rispettare quelle che già
sono state dettate. Buon
Dio, Stan Picchetto non ha avuto nemmeno un processo. Nessuno si
è
accertato della possibilità che fosse sotto l'effetto della
Maledizione Imperio, che qualche Mangiamorte stesse minacciando la
sua famiglia... niente del genere, come sempre. Non fate niente
fino a quando non è troppo tardi. Talvolta mi
chiedo da quale
fronte stiate combattendo».
Visibilmente
innervosito, Dawlish si allungò verso di lui con aria
intimidatoria.
Era alto quasi quanto Remus e largo il doppio, ma non sortì
l'effetto sperato.
«Potrei
farti
arrestare per questo».
Le
labbra di Remus si
piegarono in un sorriso affabile, ma nei suoi occhi riluceva una luce
di sfida che lo fece apparire di poco differente dal sedicenne
Malandrino che era stato un tempo.
«Potresti»
sibilò
fra i denti. «Ma sai bene che non ce la faresti».
Fra
le sopracciglia di
Dawlish comparve una ruga sottile. “Lo sa
perfettamente” si disse
Remus. “Ho vinto più battaglie di qualunque Auror
del Ministero”.
L'uomo accusò il colpo e fece un profondo respiro. Poi
replicò con
più malignità:
«Tu
non sei un mago.
Non sei nemmeno umano».
Remus
scoppiò in una
risata priva di allegria.
«Eppure
mi devi la
vita, Dawlish: quel bel cappello da idiota che ti hanno messo in
testa te l'ha fatto scordare?».
A
giudicare dal tremito
della sua bocca, Dawlish non lo aveva affatto dimenticato. Era il
1976 e se non fosse stato per il repentino intervento dell'Ordine
della Fenice la sua squadra sarebbe stata decimata. E Remus gli aveva
parato le spalle: rapido e silenzioso, senza chiedere niente a
nessuno. Lo aveva fatto e basta. Forse era quello il motivo
dell'astio di Dawlish. O forse era un individuo infinitamente
più
semplice, come temeva Remus, è il solo motivo era il fatto
che a
salvarlo fosse stato un dannato Lupo Mannaro.
Dawlish
stava per
replicare, ma venne interrotto da una voce squillante che proveniva
da una delle finestre del secondo piano dei Tre Manici di Scopa.
«John,
va tutto...
Remus?».
Remus
sollevò lo
sguardo giusto in tempo per vedere il profilo stupefatto del volto di
Tonks affacciarsi al davanzale. Lei si passò una mano fra i
capelli
rosa cicca e si aprì in un largo sorriso. Non aggiunse altro
e svanì
all'interno – a Remus parve quasi di sentire i suoi passi
scendere
di corsa le scale per raggiungerlo in strada.
Dawlish
rimase a
contemplare per qualche istante la sua espressione improvvisamente
distratta. Sorrise beffardo e disse:
«Lei
è un'Auror. Non
ha niente che ti dovrebbe interessare».
Il
sottinteso era fin
troppo evidente perché Remus non lo cogliesse.
«E
tu sei un incapace»
replicò duramente. «Ma se le succede qualcosa e tu
non muori nel
tentativo di salvarla, giuro sul mio onore che sarò io ad
ammazzare
te».
«Non
permetterti
di--».
Remus
lo afferrò per
il colletto della camicia con uno scatto incredibilmente veloce. Nei
suoi occhi brillava una luce pericolosa – ferina, brutale.
«Me
lo devi» lo
minacciò in un mormorio roco. «Tienilo a
mente».
Svanì
in un vicolo
secondario prima ancora che Tonks varcasse la porta d'ingresso.
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Capitolo 22 *** Piove sempre sull'estate - Albus/Gellert ***
Scritta
in occasione del Summer
Writing Day indetto da 24hours-of-fun.
Il
prompt scelto era il #12, «Arriverà l'estate anche
per te, è solo
una questione di stagioni e di tempo. O di persone», Odissea.
Dedicata
a emme,
perché sotto sotto gliela regalerei sul serio, l'anima. (:
*Meine Güte dovrebbe
significare "vecchio mio" in tedesco, ma io sempre fatto talmente
schifo in lingue che non ci giurerei. Se qualcuno è
più ferrato di me in tedesco, ben venga qualunque consiglio.
*
Piove sempre sull'estate
AlbusxGellert
1875 parole
Fra
le milioni di cose delle quali Albus Silente non aveva mai fatto
parola con nessuno, c'era anche un vago senso di disagio in
prossimità dell'arrivo della stagione autunnale.
Ne
aveva sempre amato i colori, le prime concilianti brezze fredde che
giungevano dal nord, e non di meno traeva soddisfazione dal poter
finalmente rispolverare i suoi calzettoni di lana dopo l'afa estiva.
Eppure
si ritrovava spesso a scrutare il cielo di piombo che anticipava le
prime piogge, e quando scoppiavano i primi temporali restava per ore
intere in piedi davanti alle alte finestre del proprio ufficio,
osservando il lento scivolare delle gocce sul vetro e ascoltando il
loro ritmato ticchettio.
Lo
si sarebbe detto perso in complessi e geniali ragionamenti quali
erano solitamente i ragionamenti di un uomo complesso e geniale
quanto lui, ma non era vero: Silente ricordava solo autunni e piogge
di molti anni prima – di secoli prima, di
intere vite
prima – quando i suoi capelli non erano ancora bianchi e la
sua
barba era molto più corta e aveva il colore rossiccio delle
ultime
foglie.
Con
le lunghe dita intrecciate dietro le schiena, guardava la pioggia
infrangersi sulle acque grige del Lago Nero senza vederla realmente.
Nei suoi occhi c'era solo quella Germania dai colori di piombo
dell'autunno inglese, ma più freddi, così freddi
da far male fin
dentro le ossa. Fin sotto le vene, oltre al cuore, nella
profondità
del suo animo complesso e geniale, proprio dove aveva sepolto tanto
faticosamente il ricordo di Gellert.
Gellert
non aveva la barba del color delle foglie che muoiono... oh,
no.
Lui aveva i riccioli come il grano d'estate e gli occhi limpidi
quanto un cielo terso dalle nuvole. Aveva il sorriso di una giornata
di sole trascorsa sotto le fronde di una vecchia quercia di Godric's
Hollow, aveva la risata frizzante e vivace delle capinere che
cantavano fra i rami. In quel ricordo c'era il retrogusto di
un'estate che Silente aveva creduto interminabile, immortale,
incancellabile.
«Essere
giovani... quale dolce supplizio» si ripeteva spesso.
Poiché con la
leggerezza di poche decine di anni sulle spalle si è
più forti e
sciocchi, si è più liberi e più
infelici – o forse no, forse si
era solo un po' più prigionieri e un poco più
felici.
L'autunno
era grigio come la Germania del 1945, era rosso come un tempo lo era
stata la sua barba e pioveva, pioveva... buon Dio, quanto pioveva
quel giorno.
*
Germania,
1945
Albus
si rigirò la bacchetta fra le mani con un'espressione
imperscrutabile sul volto. La bacchetta di Sambuco,
si disse.
La più potente bacchetta mai creata. L'impugnatura
era ancora
tiepida per il lungo contatto con la mano salda di Gellert –
bianca
e liscia e delicata – ma fra le dita di Albus sembrava
scottare. Ne
sfiorò distratto la sagoma raffinata prima di sollevare gli
occhi
sull'altro uomo, ancora in ginocchio a pochi metri da lui, con le
braccia abbandonate lungo i fianchi, il capo chino e il volto pallido
nascosto dai capelli biondi che la pioggia aveva schiacciato sulla
fronte.
Biondi
come il grano d'estate.
«Dà
una bella sensazione, non è vero, meine
Güte*?»
mormorò fra i denti Gellert in un inglese dal suono
metallico,
sollevando il viso di pochissimi centimetri.
Aveva
perso e lo sapeva.
Di
fronte a qualsiasi altro nemico, Albus avrebbe atteso che tentasse di
fuggire, di attaccarlo disperatamente in un'ultima inutile difesa, ma
Gellert non era un nemico qualsiasi. Non lo era mai stato. Se ne
restava lì, in mezzo a ciò che restava del grigio
cortile interno
di Nurmengard, con la pioggia che scrosciava inesorabile fra le
macerie fumanti e le grate di ferro abbattute. Attendeva paziente che
gli Auror giunti dall'Inghilterra con Albus arrivassero a prenderlo.
Ha
perso,
ripeté Albus. E
lo sa. Sa che io avrei fatto lo stesso.
Ma non era Albus Silente, quello sconfitto. Non era lui, quello in
ginocchio. Lui era solo il possessore di una bacchetta demoniaca.
«È
pesante» constatò amaramente Albus mentre scostava
dal volto i
capelli fradici.
«È
straordinaria».
«Mi
chiedo come tu abbia potuto sopportarne lo straordinario
peso
per tutti questi anni».
Gellert
inclinò appena il capo. Sulle sulle labbra comparve un vago
sogghigno divertito.
«Meine
Güte...
io sono sempre stato un mago straordinario».
È
vero,
ammise a se stesso Albus. Ma
a quale prezzo?
«Che
ne farai, ora?» incalzò Gellert. «Ci si
aspetta che un uomo della
tua elevatezza di spirito la distrugga. La disintegri. Potresti
perfino convincere tutti i maghi e le streghe del pianeta che non
è
mai esistita alcuna bacchetta di Sambuco. Potresti davvero, Albus. Ho
visto uomini e donne credere a bugie ben più inverosimili e
tu...».
Rise beffardo e scosse appena la testa. «Oh, tu sei un
bugiardo
straordinario».
Anche
questo è vero.
«Ti
sei mai domando se sia valsa la pena di essere tanto straordinari?
Maghi o bugiardi, non importa, ma tu dimmi, Gellert... credi davvero
ne valga la pena?».
Lo
sguardo di Gellert brillò di beffarda malizia.
Schioccò la lingua e
rispose:
«Ne
vale completamente
la pena, ma non credo riuscirai mai a capirlo. Non sei mai stato un
mago straordinario come tutti credono. Guardati, meine
Güte...
cosa vedi?».
Albus
cercò di farsi scivolare addosso quella pesante accusa, ma
le parole
di Gellert si erano già insinuate in profondità e
stavano scavando
attraverso ognuna delle sue misere sicurezza. Oh, quanto aveva
ragione, quanto...
eppure non aveva intenzione di arretrare, non aveva intenzione di
lasciarlo vincere.
Non
quella volta.
«Vedo
che stringo fra le mani la bacchetta che tu hai inseguito per tutta
la vita. E la vedo pesante,
Gellert, non straordinaria. Poi vedo te. E non sei tu, quello che
vedo in piedi, perciò...». Sospirò
amaramente e aggiunse:
«Continuerò a credere che non ne valga davvero la
pena».
Per
diversi secondi, l'unico rumore fu quello della pioggia che cadeva su
di loro e attorno a loro, dell'acqua che sgorgava dalle tubature
esplose e si concentrava in fredde pozzanghere. Ed erano grige anche
loro, così com'era grigio il cielo e l'aria e Nurmengard, e
agli
occhi di Albus perfino loro due erano diventati grigi.
C'era
il sole, una volta. C'era il sole e guardavamo l'estate all'ombra di
una quercia troppo più grande di noi.
La
risata di Gellert parve l'imitazione di un centinaio di calici di
vetro che s'infrangono a terra. Limpida e cristallina, impietosa e
tagliente. Albus serrò d'istinto le palpebre mentre nella
sua mente
Gellert scoppiava in una risata ben diversa. Era il cinguettio delle
capinere, era il suono dell'estate che non avrebbe mai dovuto
terminare.
«Un
giorno, a molti giorni da questo
giorno,
ti volterai indietro, Albus, e sai cosa vedrai davvero? Non me in
ginocchio. Non te in piedi. Oh, no... se davvero vedessi solo questo,
meine
Güte,
sarebbe un affronto tremendo a entrambi. Sarebbe un affronto alla tua
stessa intelligenza, e tu non sei mai stato un uomo stupido.
Insensato, forse, ma mai
stupido.
Vuoi sapere cosa vedrai quel giorno?».
No,
si rispose d'istinto Albus.
«Vedrai
solo il tempo trascorso fra oggi e quel
giorno,
quel giorno in cui capirai di non essere mai diventato la persona
straordinaria che saresti potuto diventare. Vedrai interi mesi,
Albus, interi anni... centinaia di stagioni si susseguiranno una dopo
l'altra nello stesso modo, e ognuna peserà sulle tue spalle
un po'
più della precedente, fin quando non resterai curvo e
piegato al
malefico trascorrere della vita. E poi, meine
Güte,
dopo infiniti gelidi autunni e infinite sterili primavere... ecco che
arriverà il tuo inverno, secco e silenzioso, e ti chiederai
come un
uomo geniale quanto te abbia potuto commettere tutte quelle scelte
sbagliate senza nemmeno rendersene conto. E forse la
comunità magica
rimpiangerà la tua perdita – ma è certo
che lo farà, è suo
dovere – e chissà, con un po' di fortuna qualcuno
di quegli idioti
potrebbe perfino rimpiangerti con sincero affetto... ma tu, Albus,
rimpiangerai te stesso più di tutti loro».
Albus
abbassò lo sguardo e studiò per l'ennesima volta
la bacchetta di
Sambuco. Poi arrangiò un sorriso di vaga timidezza appena
percettibile – ma Gellert lo aveva visto: Gellert aveva sempre
visto
i suoi sorrisi.
«Hai
sicuramente ragione sulla prima parte» confessò in
tono affabile.
«E potresti aver ragione sulla seconda. La fine giunge per
tutti,
prima o poi, e l'inverno non è che uno dei tanti passaggi
che la
vita ci regala. E sì, potrei avere la fortuna di essere
rimpianto e
la sfortuna di rimpiangere... chi può dirlo? Per quanto
discutibilmente straordinari, né io né te
possiamo affermarlo con
sicurezza. Posso solo conoscere cosa rimpiango ora, in questo giorno
al quale ripenserò in un altro giorno fra molti anni, o
magari
domani... chi può essere certo anche di questo?»
aggiunse con un
punta di velata tristezza. «E se anche fosse domani, non
importa.
Fra oggi e domani o fra oggi e la mia morte, amico mio, a me
parrà
comunque di aver vissuto troppo poco e troppo in fretta, e il mio
ricordo di quest'oggi sarà come l'autunno che scaccia
l'estate.
Triste e malinconico... e, ahimè,
naturale. Ed è questo, alla fine, che
rimpiangerò, Gellert: che
nulla di quel tempo felice sia durato abbastanza. E tu svanirai con
il trascorrere delle stagioni, Gellert, anno dopo anno, inverno dopo
inverno... fino a quando di te non mi resterà che il dolce
ricordo
dell'estate che trascorremmo a Godric's Hollow». Sentiva gli
occhi
bruciare di lacrime che non desiderava mostrare, così fece
un
respiro profondo e finse di asciugarsi il volto dalla pioggia.
«È
stata una bella estate, quella».
Gellert
si morse il labbro inferiore e agitò la testa con un
improvviso moto
di stizza. Dall'esterno delle imponenti mura di Nurmengard si levava
già il caotico e distante gridare degli Auror.
«L'estate
è sempre bella, meine
Güte»
commentò amaramente. «Ma è una stagione
per i giovani e gli
stolti... e noi non lo siamo mai stati».
«Giovani
o stolti?».
«Forse
entrambi. Ti interessa davvero?».
Albus
sorrise e scrollò vagamente le spalle.
«Forse
un giorno avrò il coraggio di chiedermi cosa ne è
stato di
quell'estate e mi interesserà saperlo. Chi può
dirlo?».
Gellert
arrangiò un sogghigno stentato che ad Albus parve quasi un
perduto
gesto d'affetto e gli mostrò teatralmente i palmi delle
mani.
«Albus...
non prenderti gioco di me. È certo
che lo farai...» rispose lentamente. «Te lo
chiederai fin quando
non arriverà l'inverno, e un uomo intelligente come te
potrebbe
perfino sperare di trovare una risposta che forse non esiste nemmeno.
E se mai dovessi trovarla...». Sorrise con più
genuinità,
mostrandogli per un istante fulmineo lo spirito del bel giovane
ambizioso che era stato in un'estate di molto anni prima.
«Oh, meine
Güte...
promettimi che dirai anche a me cosa ne è stato».
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Capitolo 23 *** I want much more - Tonks ***
Scritta
per la Settimana
Tematica indetta dal forum di Pseudopolis Yard.
La
canzone è il reprise originale di «Little
town», la prima canzone
del cartone animato della Bella e la Bestia.
Eh,
oggi ero un po' nostalgica. (:
Nota:
So che nei
libri non viene mai
detto che Tonks fosse una studentessa particolarmente brillante
(sappiamo solo che non eccelleva in condotta), ma io sono dell'idea
che deve esserlo stato per forza. È diventata un'Auror e ha
preso un
G.U.F.O. Eccezionale
in
Pozioni con Piton come professoressa... insomma, non è roba
da poco.
*
I
want much more
Ninfadora
Tonks, Pomona
Sprite
1793
parole
I
want much more than this provincial life.
I
want adventure in the great wide somewhere.
I
want it more the life can tell.
And
for once it might be grand
To
have someone understand.
I
want so much more then they've got planned.
(Little
town, Beauty and the Beast)
Edward
uscì dall'ufficio della professoressa Sprite con
un'espressione
raggiante e un volantino violetto ben stretto fra le mani grassocce.
Tonks sollevò lo sguardo dal fumetto di The Hulk che
le aveva
recapitato il gufo del padre quella mattina e gli rivolse un'occhiata
curiosa.
«Com'è
andata, Eddie?».
«Fantastico!»
esclamò con entusiasmo il ragazzo. «Crede che io
abbia tutte le
qualità necessarie a un buon Guaritore!». Si
incupì
improvvisamente e aggiunse con più amarezza:
«Certo... ha anche
detto che devo migliorare i miei voti in Pozioni...».
«Possiamo
studiare insieme, se ti va» propose lei con una vaga
scrollata di
spalle. «Devo alzare anch'io la media».
Le
folte sopracciglia di Edward schizzarono verso l'alto.
«Tu?
Ma sei la più brava della nostra classe! Sei l'unica ad aver
preso
Oltre Ogni Previsione nella Pozione
Sonnolungo».
«Già...».
Si alzò in piedi, infilò il fumetto nella
tracolla e si ravvivò
distratta i capelli turchesi. «Ma non mi
basterà».
«Non
ti basterà... per cosa?».
«Ninfadora?»
la chiamò la professoressa dall'interno della stanza.
«Sei già lì
fuori o sei di nuovo in ritardo?».
Tonks
fece un occhiolino fugace all'amico e si intrufolò
nell'ufficio
della Direttrice di Tassorosso. Era stata in quell'ufficio
così
tante volte che le veniva ormai naturale accomodarsi mollemente
davanti alla scrivania della professoressa. Gettò la
tracolla ai
piedi della sedia, si sedette e si appoggiò entrambi i
gomiti sul
bordo con un espressione birichina.
«Auror».
La
paffuta professoressa parve non capire immediatamente. Rimase a
scrutarla con le labbra appena dischiuse. Poi iniziò a
scuotere il
capo e le mostrò entrambi i palmi.
«A-Auror?
Tu vuoi... Ninfadora, può ripetere?».
«Tonks,
signora» la corresse con leggerezza. «E voglio
diventare un'Auror».
«Un'Auror...».
Tonks
annuì raggiante.
«Deve
essere un lavoro stratosferico! Riesce a
immaginarlo? Duelli
all'ultimo sangue, temibili Maghi Oscuri, feroci creature assassine,
imprese eroiche in ogni angolo del paese... potrei perfino lavorare
al fianco di Alastor Moody!».
«Io
e Alastor eravamo a scuola insieme...» commentò
pensierosa la
Sprite. «Ed era folle già allora».
«È
il più grande Auror di tutti i tempi!»
protestò piccata la
ragazza. «Professoressa, io--».
«È
una carriera dura» la fermò con una punta di
velata preoccupazione.
«Dura e insidiosa. Senza contare il fatto che diventare un
Auror non
è facile: ammettono solo i migliori».
Sul
volto di Tonks calò un'improvvisa ombra scura, ma i suoi
occhi
continuarono a brillare risoluti.
«Non
mi ritiene all'altezza?».
«Oh,
non ho detto questo...». Estrasse un opuscolo grigio da una
piccola
pila in un angolo della scrivania e se lo rigirò per qualche
secondo
fra le mani. «Sei una studentessa in gamba... e lo saresti
molto di
più, se solo ti comportassi meglio»
aggiunse con un sorriso
sghembo. «I tuoi voti sono sicuramente fra i migliori della
tua
classe, ma... mi chiedo se sei davvero sicura di questa
scelta».
«Certo
che lo sono. Sono secoli che mi preparo. Ho letto
tutto ciò
che ho trovato in biblioteca sulla Difesa contro le Arti Oscure,
interi compendi sulle Creature Magiche più pericolose della
Gran
Bretagna... i miei voti in Trasfigurazione sono ottimi e sì,
è
vero, ha ragione, faccio un po' schifo a Incantesimi, ma solo
perché
il professor Vitious ultimamente sembra fissato con le magie
domestiche, ed ecco, insomma...». Alzò gli occhi
al cielo con aria
eloquente. «Io faccio proprio schifo, in
quelli. Dovrebbe
vedere ciò che sa fare mia madre. Agita appena la bacchetta
e puf!
Mai visto calzini piegati meglio dei suoi».
La
professoressa si lasciò andare a una blanda risatina
sinceramente
divertita. Fece un sospiro un po' rassegnato, guardò la
propria
studentessa con affetto e le porse l'opuscolo del Ministero della
Magia.
«Quando
ho detto che ammettono solo i migliori, intendevo davvero i
migliori. La professoressa McGranitt è molto soddisfatta dal
tuo
rendimento in Trasfigurazione, e certo le tue personalissime doti
come Metamorfomaga ti aiuterebbero molto... ma devi migliorare
Incantesimi, con o senza i calzini. E...».
«Difesa
contro le Arti Oscure?».
La
Sprite annuì con un sorriso gentile.
«Ovviamente».
«Non
avrò problemi. Sto studiando Difesa Applicata
contro gli Artifici
Oscuri, non--».
«Non
è una lettura un po' troppo avanzata per i
G.U.F.O.?».
Tonks
si fermò di colpo. Fece un profondo respiro e
intrecciò fra loro
lei dita. La professoressa si stupì nel vedere il suo viso
irrigidirsi in un'espressione insolitamente seria.
«Io
voglio diventare un'Auror».
«Perché?»
s'informò curiosamente. «Ho sempre saputo che
avresti scelto una
carriera d'azione, ecco, ma mai avrei immaginato
che volessi
diventare un'Auror».
«Io...».
Per un attimo la giovane parve non avere una risposta sicura.
«Voglio
qualcosa di più. Non voglio.. non voglio finire come i miei
genitori» Parve rendersi conto solo in quel momento di
ciò che
aveva detto, perché aggiunse rapidamente: «Oh, io
li adoro, dico
sul serio! Sono eccezionali, ma... viviamo in una bella villetta alla
periferia di Londra, abbiamo un giardino curato, le tende sono sempre
pulite... mia madre prepara i muffin a colazione e il pollo arrosto
per il pranzo della domenica, passiamo le vacanze a Bath, e mio padre
ha un rispettabile lavoro come tanti altri. Ed è tutto molto
tranquillo, molto abitudinario, molto... noioso».
Mise un
accento particolarmente depresso sull'ultima parola. «Io
voglio di
più. Non voglio passare il resto della mia vita pulendo
pavimenti o
riordinando scartoffie in un ufficio. Voglio... l'avventura.
Voglio esperienze nuove, voglio fare cose travolgenti, voglio fare
qualcosa che possa cambiare il mondo». Scosse la testa con un
improvviso sorriso imbarazzato. «Lei non ha mai pensato di
aver
fatto la scelta sbagliata?».
La
professoressa Sprite sgranò sorpresa gli occhi.
«Oh,
io... non credo. No» ripeté con più
convinzione e un sorriso
sereno. «Amo il mio lavoro, amo voi ragazzi... anche quelli
che mi
danno il tormento...». Tonks ridacchiò sotto i
baffi. «Certo, devo
ammettere che alla tua età non credevo sarei diventata un
professoressa. Che resti fra me e te, eccezion fatta per Erbologia
ero un disastro... ma sono felice di essere qui, oggi».
Tonks
le rivolse un grande sorriso.
«È
questo ciò che voglio. Poter arrivare un giorno a dire: “Sono
felice di averlo fatto. Sono felice di aver
rischiato”».
«Bisognerà
fare qualcosa per la tua condotta...».
La
ragazza fece una smorfia.
«Non
guardarmi così, Ninfadora».
«Tonks.
Il mio nome è Tonks».
La
Sprite la ignorò con un bonario sogghigno divertito che le
fece
comparire due buffe fossette agli angoli della bocca.
«La
condotta è molto importante al Quartier Generale degli
Auror».
«Credevo
fosse più importante arrestare i Maghi Oscuri».
«Sì.
Quello e la condotta. E la tua non è
delle migliori. Il
professor Piton--».
«Oh,
per la barba di Merlino!» esclamò con veemenza
Tonks, appoggiando
la fronte alla scrivania. «Quell'uomo mi odia».
«Non
ti odia» la contraddisse la Sprite. Non ne era tuttavia
sicura. «C'è
da dire che tu non tieni mai a freno la lingua. E se davvero intendi
diventare un'Auror... beh, il professor Piton accetta ai M.A.G.O.
solo studenti con G.U.F.O. non inferiori a Eccezionale».
«Lo
so...» mormorò triste la ragazza. «E io
ho solo Oltre Ogni
Previsione. E già per raggiungere quei voti ce la
metto tutta
ogni volta. Posso confessarle una cosa?».
«Certo».
«Io
credo faccia apposta a non darmi Eccezionale. La
mia Pozione
Sonnolungo era perfetta. Perfetta, professoressa
Sprite, dico
sul serio. Ci mancava solo che ci sputassi dentro l'anima, giuro. Lo
hanno detto tutti. Lo sapevano tutti, e lo sapeva
anche Piton,
e si è inventato dei difetti che non c'erano. Non mi ha mai
potuto
sopportare e non so perché. Io non gli
ho mai fatto niente di
male».
«Fargli
diventare i capelli arancioni per te è “niente
di male”?».
Al
ricordo di quell'episodio, Tonks parve soffocare a stento una risata.
«Beh...
lui aveva preso in giro i
miei capelli»
cercò di
scusarsi. Era davvero poco credibile. «Ma fa lo stesso. Non
mi sto
lamentando, era solo... era solo per dire che mi odia. Ma
prenderò
Eccezionale
ai
G.U.F.O., che a lui piaccia o meno. E mi dovrà tenere per
altri due
anni, fino a quando non prenderò Eccezionale
anche ai M.A.G.O.».
La
sua ferrea sicurezza stava quasi per convincere anche la
professoressa Sprite.
«E
va bene. D'altronde mi sembri già piuttosto
decisa».
«Non
lo sono mai stata così tanto».
«Eh,
ed è tutto un dire» ridacchiò
leggermente la donna. «Sei sempre
stata una tale testarda...».
Tonks
incrociò le braccia dietro alla nuca e rise vivacemente.
C'era
qualcosa di frizzante nella sua risata spontanea che avrebbe potuto
contagiare chiunque. Era una delle sue principali virtù.
La
Sprite se ne era accorta fin dai suoi primi giorni di scuola, quando
ancora portava le treccine, protestava un po' meno al suono del
proprio nome di battesimo e non si divertiva a scivolare lungo i
corrimani delle scale per poi cadere miseramente sul pavimento.
Era
turbolenta, scanzonata, iperattiva, eppure era una studentessa molto
brillante. Era anche una Cacciatrice piuttosto dotata: non fosse
stato per Charlie Weasley, l'anno prima Tassorosso avrebbe
sicuramente vinto la Coppa del Quidditch. Era una di quelle ragazze
che non si incontravano tutti i giorni, ricca di talenti e carica di
brio.
Non
c'era da stupirsi che il Cappello Parlante ci avesse messo
così
tanto prima di Smistarla: in lei convivevano l'audacia sfrontata di
Grifondoro, l'ambizione testarda di Serpeverde, l'acume brillante di
Corvonero ed era onesta e sincera, un'ottima Tassorosso.
Mentre
la guardava ridere, la professoressa fu tuttavia attraversata da un
pensiero ben più nefasto.
Agli
occhi dell'intera comunità magica, sua madre restava una
Black. Sebbene
Andromeda
Tonks avesse tagliato qualunque ponte con la sua infame famiglia,
Bellatrix Lestrange restava comunque sua sorella. E Sirius Black...
Sirius, che a sedici vantava molti dei talenti di Tonks ed era stato
uno dei suoi migliori studenti... proprio lui, che ora marciva ad
Azkaban per aver tradito il proprio migliore amico... come avrebbe
potuto Tonks diventare un'Auror? Il rigido Alastor Moody glielo
avrebbe davvero permesso?
«C'è
altro che vuoi chiedermi?» le domandò debolmente.
La
giovane scosse la testa. Si chinò per prendere la propria
tracolla,
ma nel rialzarsi la sua testa cozzò contro il bordo della
scrivania.
Si lasciò sfuggire un'imprecazione un po' troppo scurrile,
ma la
professoressa Sprite la ignorò con un blando movimento della
mano e
la lasciò andare.
Mentre
attendeva l'arrivo del successivo ragazzo pieno di sogni e speranze
per il futuro, continuò a pensare a quante
possibilità potesse
avere la signorina Tonks di diventare un'Auror. Si lasciò
andare a
un sospiro sconfortato e realizzò tristemente che c'erano
più
probabilità che a Hogwarts venisse assunto un Lupo Mannaro
come
insegnante.
|
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Capitolo 24 *** Remus, Andromeda, Hagrid, Neville, Remus/Tonks ***
*
Vipera
Remus
Lupin, Andromeda
Tonks
211
parole
C'era
una vecchia storiella di taverna che raccontava di una suocera morsa
da una vipera. Si concludeva con la morte della vipera e gli amici di
tuo padre ne ridevano sempre un sacco.
Da
bambino non la capivi mai davvero – e in realtà
non la capisci
nemmeno ora che sei adulto, nemmeno ora che sei sposato, nemmeno ora
che tua suocera affonda le lacrime nella tua camicia lisa.
«Non
è vero, non è vero, non è
vero...».
È
una litania che non puoi fermare, che non vuoi
fermare, eppure
ogni singhiozzo è un morso peggiore del precedente, e il
veleno non
cessa di scorrere nelle tue vene e di ribollire come lava
incandescente.
La
pagheranno. Ti
limiti a
pensarlo, lo annoti mentalmente perché non è il
momento per parole
di vendetta, ma la pagheranno cara.
«Riportamelo
indietro... ti prego, Remus, riportamelo indietro».
Stringi
Andromeda in un abbraccio più stretto, tremi all'idea che
tua moglie
ne è ancora allo scuro e riposa nel vostro letto con una
mano
appoggiata sul pancione.
Trattieni
un fremito: non vuoi farti sentire dalla donna che sta morendo fra le
tua braccia, e ti torna in mente quella storia, quella ridicola,
sciocca storia... e ti chiedi chi fra la vipera e Andromeda sia stata
più fortunata.
Tu
avresti preferito essere la vipera.
Le
Creature Magiche ti piacciono da così tanto tempo che non
sei mai
riuscito a capire per quale motivo non piacciano a tutte le altre
persone. Hai sempre amato i draghi – ricordi Norberto?
Ricordi il
tuo amico?
È
ancora lì, da qualche parte fra i tuoi ricordi.
E
Fufi, ricordi Fufi? Amavi ognuna della sue tre teste e non capivi
come il resto della comunità magica potesse trovarle tanto
spaventose.
Ricordi?
È ancora lì, aspetta che torni a suonare per lui.
Ricordi
la tua Acromantula?
La
ricordi? Lei ti sta aspettando davvero, si domanda perché
non torni
più a trovarla.
E
tutto il resto, Hagrid, ricordi tutto il resto?
Ricordi
Silente? Ti ha detto che sarebbe tornato a prenderti, ti ha detto di
non dimenticare niente, di non farlo mai.
Lui
sta arrivando e tu devi ricordarlo.
E
Harry? Ti ricordi di Harry? Ti ricordi di Ron e Hermione? Ricordi
Thor, ricordi la sensazione della sua lingua ruvida sul tuo faccione
barbuto?
Lui
si ricorda del suo padrone. Aspetta accucciato davanti alla vostra
capanna, alza il muso a ogni rumore e poi lo riabbassa. Non sei mai
tu, quello che va carezzarlo.
Ricordi
il fruscio del vento fra gli alberi? La luce del sole sulle acque del
Lago Nero? Ricordi Hogwarts, ricordi la tua vita?
Resisti,
Hagrid. Ricorda.
Ricorda,
perché le porte di Azkaban si riapriranno e potrai rivedere
l'oceano, e le nuvole, e il cielo sopra la tua testa.
Ricorda,
Hagrid, perché quel giorno sarà come volare via,
e niente –
niente - potrà mai farti dimenticare le mille cose che tanto
gelosamente hai ricordato per tutti quei mesi.
*
Fortunato
Neville
Longbottom
262
parole
«Sei
un bambino fortunato, Neville».
Neville
lo sa. Non replicherebbe comunque.
La
nonna lo ripete spesso in mezzo a favole che non terminano mai,
perché c'è sempre qualcosa di più
importante che Neville deve
imparare a tenere a mente.
«Il
mondo è pieno di bambini più sfortunati di
te».
Sono
bambini che Neville non conosce, ma tutti loro vivono e muoiono nelle
favole della nonna. Talvolta si perdono, talvolta non tornano a casa,
talvolta vengono abbandonati e rimangono soli – e Neville
è
fortunato, ripete la nonna, e se lo deve ricordare.
«Quando
c'era la guerra, i bambini morivano».
Ci
sono volte in cui Neville vorrebbe che le storie della nonna
finissero in modo diverso – o che finissero e basta, in
effetti,
perché non conoscere la fine era perfino peggiore di una
fine
infelice. Ci sono altre volte in cui Neville non vorrebbe nemmeno che
iniziassero, in cui non vorrebbe sentire storie di bambini
più
sfortunati di lui... alla nonna non lo direbbe mai, ma ci sono
perfino delle volte in cui si domanda se in un mondo diverso la sua
mamma gli avrebbe raccontato le stesse storie brutte.
Se
i bambini della mamma si sarebbero persi, sarebbero stati tristi,
sarebbero morti perché c'era la guerra... Neville non lo sa.
La
mamma continua a ballare da sola e a cantare fra i denti, e Neville
non capisce le sue parole, la guarda e pensa a tutti quei bambini
soli, tristi e morti.
Quelle
sono le volte in cui sente molto più sfortunato di tutti
quei
bambini infelici.
*
Non
vedersi per un mese
RemusxTonks
257
parole
Non
si era mai ritenuta
una di quelle donne pronte ad attendere l'amore per
l'eternità, ma
era stata costretta a ricredersi fin troppo in fretta.
Non
aveva mai fatto
attenzione a ciò che capitava in fretta – troppo
in fretta, sempre
troppo in fretta – e lei non era pronta. Dapprima c'era stata
un
morsa all'altezza dello stomaco, un rossore imbarazzato celato nella
sciarpa di lana, una nuova sensazione di calore nel petto... e poi
era esploso tutto e aveva capito di essere davvero una come tante
altre, una di quelle che sì, per lui avrebbe atteso
l'eternità.
Aveva
iniziato con
l'attesa di una notte – lui tardava a rientrare da quel
dannato
turno di guardia all'Ufficio Misteri e lei aveva avuto paura non
tornasse davvero. Aveva continuato con l'attesa di una settimana
–
lui evitava il mondo da quella maledetta battaglia, dal momento in
cui Sirius era svanito oltre il Velo e lei aveva avuto paura non
tornasse davvero. E poi eccola, l'attesa di un mese – lui
aveva gli
occhi vuoti, il volto scavato, il puzzo di quella vita dalla quale
era sempre sfuggito sugli abiti e lei aveva avuto paura se ne fosse
andato davvero.
Non
si era mai ritenuta
una donna come tante altre, una di quelle pronte ad attendere per
sempre. Un giorno, una settimana, magari un mese... ma sempre
era troppo tempo.
«Mi
dispiace».
Forse
fu per quello che
alla fine lo prese a pugni: lei non era una come tante altre.
*
Cose
che cambiano
Remus
Lupin
293
parole
«Ti
ho portato il giornale, papà».
L'uomo
resta immobile sulla sua poltrona davanti al camino spento. Una volta
era la sua poltrona preferita, e Remus si acciambellava ai piedi del
padre e lo ascoltava mentre gli raccontava delle buffe creature che
animavano i suoi uffici al Ministero della Magia.
Non
era la sua poltrona preferita da molto tempo.
Era
rimasta solo una poltrona.
«Lascialo
sul tavolino».
I
passi di Remus risuonano ovattati sul vecchio tappeto. Appoggia la
Gazzetta del Profeta sul treppiedi tarmato e rimane per un momento
accanto al padre. Sorregge il capo basso con una mano, si fissa le
punte delle vecchie pantofole e tace – tace sempre, tace da
quando
la sua poltrona è tornata a essere una semplice poltrona.
Quando
alza gli occhi sul figlio, pare guardarlo senza nemmeno vederlo
davvero.
«Hai
bisogno di altro, Remus?» gli domanda con vuota gentilezza.
“ Sì” vorrebbe
rispondere Remus, ma non trova il coraggio. “Sì,
ma non so di
cosa”. Resta fermo con le braccia sottili abbandonate ai
fianchi e
scuote appena il capo – e fa un po' male, proprio dove
durante il
plenilunio il lupo ha picchiato contro le grate di ferro della cella
stregata nella cantina.
«No,
papà».
“ È solo la poltrona
a non essere più la sua preferita” cerca di
convincersi Remus.
“Forse è il giornale. Forse il camino. Forse
è semplicemente il
salotto a non piacergli più come prima”.
Ma
mentre chiude la
porta fra lui e suo padre, nella sua testa rimbomba un'unica
verità
– quella che alla fine ha attecchito davvero, quella che non
è
lasciata corrompere dalle illusioni del bambino e lo fa piangere nel
cuscino ogni notte.
“ È colpa mia. Sono
io”.
|
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Capitolo 25 *** Remus, Sirius, Hagrid, Andromeda, Remus/Tonks ***
*
Sigaretta
Sirius
Black, Remus Lupin
193
parole
«Buon
Dio, hai ricominciato con quella roba».
Non
è una domanda, ma Sirius risponde ugualmente.
«Non
mi hanno mai dato tempo di smettere».
Remus
resta immobile sulla soglia dell'oscuro soggiorno di Grimmauld Place.
Scruta immobile il profilo dell'amico alla luce dei lampioni che si
insinuano attraverso le finestre opache. S'incanta a fissare le scie
di fumo che si alzano dalla sua sigaretta, la punta di fuoco che
brilla ad ogni nuova boccata.
Scatta
in un attimo.
Attraversa
la stanza a lunghe falcate, gliela strappa con violenza dalle labbra,
la getta sul tappetto e la spegne con un violento movimento del
piede.
«Fa
male. Piantala».
Sirius
resta fermo. Non si oppone, non si lamenta, non si arrabbia. Se lo
avesse fatto tredici anni prima, Sirius lo avrebbe colpito con uno
spintone e lo avrebbe mandato al diavolo – ma non lo avrebbe
mai
fatto, tredici anni prima, e questa consapevolezza gli sta rodendo
l'anima.
«Ci
sono centinaia di cose che fanno più male, Moony».
Lo
sa.
Lo
sanno entrambi.
Ma
dirlo – accettarlo, ricordarlo
– è ancora troppo difficile.
Fra
di loro non è
rimasto che l'acre odore di un mozzicone spento con rabbia.
*
Un
secondo e la porta è a un passo in meno da lui.
«Non
andrai solo».
Le
rivolge uno sguardo mesto e scuote appena il capo.
«Resta
con il bambino. Andrà tutto bene».
«Va'
al diavolo» lo liquida inviperita Tonks, afferrandolo per un
braccio. Lui si divincola dalla sua stretta con un gesto quasi
rassegnato. «Voglio venire con te».
Un
altro secondo e la porta è sempre più vicina.
«Ti
prego».
Il
tono di supplica nella sua voce riesce a ferirla molto più a
fondo
della consapevolezza che ancora una volta se ne sta andando senza di
lei.
«Remus...».
«Tornerò».
Un
secondo di più – un solo secondo – e
quella porta sarebbe
rimasta chiusa.
*
Camminare
sui
vetri
Andromeda
Black
310
parole
A
distanza di anni,
Andromeda avrebbe suo malgrado raccontato che era tutto era accaduto
troppo in fretta perché potesse rendersene conto.
Eppure
quella notte
aveva creduto di vivere a rallentatore ogni cosa, dal tremendo
scoppio di grida al piano di sotto, il rimbombo dei passi che
correvano lungo le strette scale che portavano alle camere da letto
–
e sua madre piangeva, suo padre batteva pugni contro la porta, Cissy
strillava di essersi sbagliata, sicuramente si era
sbagliata.
Andromeda
non frequenta nessun Nato Babbano,
ripeteva spaventata. Mi
sono sbagliata, mi sono sbagliata... padre, vi prego, mi sono
sbagliata.
La
porta si era
abbattuta con un fragoroso boato. Bella aveva la bacchetta salda nel
pugno, lo sguardo inferocito, i capelli attorno al volto come i
serpenti di Medusa – e l'odio, l'odio negli occhi, Andromeda
non lo
avrebbe mai dimenticato.
Il
secondo incantesimo
della sorella maggiore la sfiorò di pochi centimetri. Il
vetro della
finestra si frantumò alle spalle di Andromeda, che si
ritrasse
spaventata.
Se
lo era aspettato?
Forse. Ma era certa non avesse più importanza.
«Dimmi
che non è
vero».
La
voce di suo padre
era più tagliente dei vetri che si erano conficcati sotto le
piante
dei suoi piedi nudi. Il freddo della notte si insinuava nella sua
stanza e faceva rabbrividire la pelle coperta dalla leggere vestaglia
di raso.
A
distanza di anni,
Andromeda avrebbe suo malgrado raccontato che era accaduto molto in
fretta, con troppo rumore e ben poco contegno.
Ma
ciò che davvero
accadde fu terribilmente più semplice. Si era mossa a
disagio fra i
vetri, e mentre ispirava una profonda boccata d'aria gelida aveva
capito che era giunto il momento di prendere la decisione
più
importante della sua vita.
«È
vero».
Si
era Smaterializzata
lontano da loro senza aggiungere altro e a distanza di anni, suo
malgrado, Andromeda non avrebbe davvero aggiunto altro.
*
Albero
Remus,
Hagrid
522
parole
I
rami spogli del Platano Picchiatore ricordano le dita scheletriche di
un morto.
Remus
le fissa con sguardo distante, eppure nei suoi ricordi quelle fronde
sono fitte come un mantello di spessa lana. Ha di nuovo quattordici
anni, vi scivola attraverso e sa che i suoi amici sarebbero arrivati
di lì a poco – e in quei ricordi arrivavano
sempre, e nessuno si
dimenticava di lui.
«Oh,
Remus, non ti avevo mica visto qua di fuori».
Volta
appena la testa per rivolgere un vago sorriso al gigantesco omone che
lo ha raggiunto. Hagrid si pulisce le grosse mani sporche di
terriccio sulle braghe e alza lo sguardo al cielo.
«Eh,
mi sa che la neve ci sta arrivando a Hogwarts. Quest'anno ci
è
arrivata tardi».
«Forse
ha avuto freddo anche lei» risponde piano Remus.
«Con tutti questi
Dissennatori, intendo».
«Creature
orrende, se dai retta a me,
orrende». Hagrid scuote il capo con un sospiro affranto.
«Silente è
arrabbiatissimo con quelli là del Ministero, ma che ci vuoi
fare,
te, con quelli del Ministero?».
Remus
annuisce appena.
«Come
stai, Hagrid?».
Il
gigante gli rivolge un'occhiata interrogativa e Remus china la testa
con genuina tristezza.
«Ho
saputo... sai, di Azkaban».
«Oh».
Per
un attimo fra di loro non resta che il soffio del vento.
«È
stato bello venirci fuori».
«Mi
dispiace».
«Mica
è colpa tua, Remus. Mica è colpa di
qualcuno».
Il
grosso uomo gli batte la mano sulla spalla sinistra. Remus è
costretto ad aggrapparsi alla recinzione di legno per non cadere a
terra, ma sulle sue labbra affiora un sorriso nostalgico.
«Ti
domandi mai se abbiamo davvero fatto del nostro meglio?».
Hagrid
pare non capire, così Remus prende un profondo respiro e
mormora:
«Contro Voldemort. Contro la guerra. Contro tutto quello che
è
stato. A volte penso che avremmo dovuto fare di più. Essere
più
forti».
«Tu-Sai-Chi
è andato via e non è mica che adesso
torna».
Remus
osserva di nuovo il vecchio Platano. Quante volte da ragazzino aveva
giocato incauto fra quei rami incantati?
«Non
lo so, Hagrid. Ho sempre l'impressione che non sia mai finita. In
quella guerra c'è qualcosa che non è ancora
finito».
Hagrid
si muove a disagio sui pesanti piedi.
«Non
c'è più, la guerra... non le devi pensare queste
cose, Remus. Ci
fanno male a tutti».
Remus
resta per un poco in silenzio, poi arrangia un sorriso triste e
ricambia bonariamente la pacca del grosso amico.
«Hai
ragione. Non devo pensarci».
Ma
quando fissa il Platano i quattro coraggiosi ragazzini dei suoi
ricordi sono ancora lì, immobili nella sua memoria e ignari
dello
scorrere del tempo. E i rami si stagliano nel cielo come le crepe di
un muro, si intrecciano, si agitano nervose nel vento, e Remus
continua a fissare le sue foglie rosse. Torneranno gemme, torneranno
verdi e poi cadranno di nuovo.
Ci
prova da una vita a non pensarci, ma a ogni arrivo dell'inverno crede
faccia un poco più freddo dell'anno prima. Si sente un poco
più
solo ed è allora che tende le dita scheletriche verso il
cielo
grigio... nessuno le ha più afferrate.
E
le foglie continuano
a cadere, alla fine.
|
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Capitolo 26 *** Minerva, Ernie MacMillan, Kingsley ***
Non
ricordo né a chi
né quando io abbia fregato i prompt, mi spiace... (:
*
Armatura
Minerva
McGranitt
272
parole
«Una
fra le più promettenti studentesse».
Minerva
sfoggia il sorriso sfrontato di una diciassettenne convinta che la
propria gioventù non debba finire mai. È abile,
è decisa, è
sicura di sé – Prefetto, Caposcuola, Capitano.
Il
rancore negli occhi di sua madre resta chiuso in un diario che non ha
mai avuto il coraggio di scrivere per timore che fosse letto.
Minerva
non demorde. È nata per non fallire.
«Una
fra le più abili streghe».
Minerva
cammina fra i corridoi del Ministero della Magia con il mento alzato
e le spalle rigide. Muove i piedi l'uno avanti all'altro con ritmo
incalzante, i piccoli tacchi degli stivali ad accompagnarla in quella
passerella di noia e routine.
Il
dolore negli occhi di Dougal mentre gli voltava le spalle verso
l'alba nascente, la pena provata nel lasciarsi alle spalle il
tramonto di un amore mai iniziato resta fermo nel suo cuore.
Immobile, sigillato – mai dimenticato.
Minerva
non demorde. È nata per non fallire.
«Una
fra le più grandi professoresse».
Minerva
brandisce la propria bacchetta con la fierezza indomabile di una
leonessa – e nonostante gli anni trascorsi torna a essere il
Capitano di Grifondoro, la promessa della Trasfigurazione moderna, la
migliore in tutto, l'infallibile in nulla. Colpisce i Mangiamorte con
furia impetuosa, difende ognuno dei suoi ragazzi come se ne
dipendesse la sua stessa vita.
Minerva
non demorde.
«Signor
Canon, lei è ancora minorenne: non mi costringa a
ripeterglielo
un'altra volta».
«Professoressa,
io--».
«Non
le permetto di restare. È troppo pericoloso».
Minerva
non è nata per fallire.
Quando
riconosce fra i caduti il pallido profilo di Colin Canon, cade a
terra e grida.
*
Our
last summer – ABBA
Ernie
MacMillan, Hannah
Abbott
213
parole
Ricordi
i pomeriggi in cui i compiti e lo studio si fermavano un attimo per
lasciarci correre nei prati attorno a Hogwarts? Portavi due treccine
bionde ai lati del volto; ti inseguivo e sognavo di inseguire le code
delle stelle comete.
Non
te l'ho mai detto. Credevo fosse stupido pensare di poterti
paragonare al cielo. Avresti riso, mi dicevo, e ogni cosa fra noi
sarebbe cambiata.
È
ancora stupido, tremendamente stupido, eppure i tuoi occhi sono
ancora azzurri quanto le giornate d'estate; e ci sono le stelle, nei
tuoi occhi, e l'alba e il tramonto, e le nuvole e tutti i ricordi
più
belli della mia giovinezza sono tutti imprigionati nel tuo sorriso.
Sei
meravigliosa, Hannah, e non te l'ho mai detto perché pensavo
fosse
troppo stupido.
Immagino
sia questo il motivo per cui oggi sposi Longbottom – lui te
l'ha
detto, vero?
Lo
guardo sorridere al tuo fianco ebbro di gioia, applaudo piano fra la
folla in festa e rido quando la fede gli sfugge fra le mani nervose.
Le stelle non mollano i tuoi occhi un solo istante – ma
guardano
lui, guardano Longbottom, guardano quello stupido mentre si gratta
imbarazzato la nuca, e Merlino,
era me che avresti dovuto guardare così, oggi.
A
volte gli uomini sanno essere davvero stupidi.
*
Boulevard
of broken dreams – Green Day
Kingsley
Shacklebolt
185
parole
Non
c'era mai stato niente che li accomunasse a parte l'aver prestato lo
stesso giuramento. Proteggi gli indifesi, combatti la Magia Oscura e
non mollare, non mollare per nessun motivo – se cadi,
rialzati e
non mollare, non puoi mollare, non mollare.
Ci
credevano con la stessa forza.
Alastor
parlava fra i denti, ringhiava e sputava e brontolava perché
non
erano mai abbastanza attenti. A volte Kingsley credeva di risentire i
borbottii di Alastor riecheggiare perfino nella vastità dei
corridoi
del Ministero.
Si
voltava e lui non c'era.
Tonks
rideva come se la vita non avesse mai dovuto finire. Aveva paura? Oh,
sì, e non aveva alcuna vergogna nell'ammetterlo. Ma lei era
un'anima
libera, era scanzonata e sfacciata e giovane – troppo
giovane.
Combatteva come una donna – come una moglie, come una
madre
– ma prendeva in giro il destino avverso come una bambina. La
sentiva ancora ridere.
Si
voltava e lei non c'era.
Erano
gli Auror
dell'Ordine della Fenice.
Kingsley
pensa a loro
in continuazione. Si fissa immobile le mani, china il capo sconfitto
e tace.
Si
volta e loro non ci sono.
|
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Capitolo 27 *** Tonks, Alastor, Regulus, Frank/Alice, Remus/Tonks, AU ***
Il
mio primo ragazzo mi aveva chiesto se potevo diventare più
magra.
«Sei
un Metamorfomagus, perché non vuoi farlo?».
L'ingenuità
con cui me lo domandò mi fece andare fuori di testa. Un
pugno in
faccia, i denti conficcati nel labbro e il mio primo presunto amore
è
crollato come un castello di carte davanti ai gradini d'ingresso di
Mielanda.
Ho
perso la verginità con il secondo idiota che ho incontrato e
dieci
secondi più tardi mi ha chiesto se potevo diventare
più alta. Un
calcio nei reni, i jeans infilati in fretta, il pianto ingoiato con
vergogna.
Col
cavolo, mi ero ripromessa. Io non cambio per nessun uomo. Prendere o
lasciare, questa è la mia partita e queste sono le regole
che ho
deciso.
E
mi viene quasi da ridere, oggi, mentre guardo il pallore spettrale
del mio riflesso passarsi la spazzola fra i capelli grigi e penso
solo: «Vaffanculo, mi ero ripromessa di non cambiare per
nessuno di
loro».
Nessuno
– mai.
Mi
verrebbe quasi da
ridere, dico davvero, ma con tutte queste lacrime a riempirmi la
bocca sarebbe più facile vomitare.
*
Orecchie
a sventola
Frank/Alice
132
parole
Le
sue orecchie ti hanno sempre fatta sorridere.
Buffe
e larghe, così strane e fuori posto, lo hanno sempre reso
incapace
di apparire del tutto serio. E ci prova, Frank, ci prova sempre, ma
proprio non ce la fa a sembrare arrabbiato. Aggrotta la fronte e fra
le sopracciglia compare una ruga sottile, e tu ridi, ridi e basta,
perché ami ridere e Frank ti fa ridere e ami Frank e ridere
con lui
e lo ami con tutta te stessa...
Ora
non ridi – ora gridi, gridi forte, gridi fino a strapparti
l'anima
dal ventre, fuori dalla bocca, fino a vomitarla sul tappetto dove
Frank è già crollato.
Ti
faceva ridere, Frank.
Non
si rialza – non fa ridere.
Non
si muove – non fa ridere.
Non
fa ridere.
*
«La
gioventù non sa quel che può, la
maturità non può quel che sa».
Ninfadora
Tonks,
Alastor Moody
224
parole
«Leva
quella bacchetta dai jeans, ragazza!».
«Oh,
piantala, vecchio brontolone».
Malocchio
ringhia fra i denti. Il suo occhio magico vortica malsano nell'orbita
e si fissa sul volto sereno della sua giovane protetta.
«Quanto
ti salterà in aria il fondoschiena, allora--».
«Bum!».
Ti colpisce la spalla con un leggero pugno amichevole e strizza
l'occhio. I suoi capelli verdi si tingono di rosso. «Buon
anno».
Lui
sbuffa ancora una volta – la milionesima, probabilmente
– e ci
rinuncia.
«Se
non la pianti di rimirare quel dannato anello, te lo
incollerò al
naso».
«Sarebbe
un po' scomodo volare con una mano che mi sventola davanti alla
faccia».
Malocchio
fende l'aria con il suo bastone, ma la ragazza è
più svelta e lo
schiva con una risata argentina. Inciampa mentre indietreggia e cade
nel mezzo della cucina della Tana. Si passa una mano fra i capelli
rosa cicca e ride ancora di più.
Si
rilassano un po' tutti i presenti – Remus no, Remus resta
immobile
accanto alla finestra a scrutare torvo le nuvole del cielo. Ride
perfino Molly, che non riesce a smettere di tormentarsi le mani.
«Malocchio,
sei troppo allegro questa sera». La sua presa in giro
continua a
stonare in mezzo a quella guerra. «Quasi non ti
riconosco».
Lui
sbuffa ancora una
volta – l'ultima, ma ancora non lo sa – e ci
rinuncia.
*
L'urlo
– Munch
Remus
Lupin, Sirius
Black
(AU)
300
parole
Conosceva
bene il terrore.
Suo
padre si era premurato di insegnarglielo in modo che un giorno
potesse avere la forza di incuterne agli altri. Aveva imparato in
fretta, il giovane Lord Black – così tanto in
fretta che presto
l'anziano padre aveva iniziato a temerlo nel silenzio della notte
della gigantesca magione.
Il
giovane Black non temeva nulla – era un uomo del Re, lui, era
un
soldato di Dio. Era ebbro di fierezza, di ferocia impietosa –
immortale, inarrivabile.
Lo
stendardo del cane nero ululava sulla pettorina scalfita con la
stessa famelica grinta del lupo nelle brughiere. Ma lì non
c'è la
brughiera, lì c'è solo l'Irlanda, e il marcio e
la neve e il freddo
e il sangue inglese che gli inzuppa il mantello rosso – e ha
perso,
alla fine. Non ci crede, ma ha perso.
È
uno straccio d'uomo quello che ora troneggia su di lui –
pallido,
segaligno, con i capelli chiari e sporchi appiccicati alla fronte
sudata e un'espressione di insana follia negli occhi – e Lord
Black
continua a non capire come abbia potuto la sua spada lucente
sottomettersi ai colpi dell'altra, scheggiata e arrugginita.
L'irlandese
inizia ad affondare la spada nel suo petto. C'è fiele nel
suo
sguardo e sangue nella sua bocca, e presto anche la bocca di Lord
Black ne è piena.
«Che
Dio si riprenda il suo Re». Perfino nella morte il suo
accento
ribelle lo infastidisce. «L'Irlanda non ne ha
bisogno».
Preme
la lama, la schiaccia con forza, frantuma il dipinto del cane nero
che uggiola un'ultima volta e sputa e vomita e muore.
C'è
un lupo disperato
negli occhi di quel dannato irlandese, ma Lord Black è
già fin
troppo lontano per poterne sentire l'ululato.
*
Rating
alto
(Non
è vero, ho raggirato il prompt)
Remus/Tonks
253
parole
Fare
l'amore con l'uomo che ami dovrebbe essere come toccare il Paradiso e
tornare indietro. Pensa che dovrebbe, sì, perché
dopotutto lei non
è molto istruita su cosa sia l'amore o dove stia il Paradiso
– e
quando aveva conosciuto Remus aveva capito di non aver mai amato
davvero, di non averlo mai nemmeno sognato, il Paradiso.
Fare
l'amore con lui doveva essere come toccare il Paradiso – ma
ora la
sua schiena era graffiata, e le ossa dolevano e si contorcevano, o
forse era solo l'orgoglio ferito di entrambi, forse era solo l'amara
consapevolezza di aver mollato la strada per il Paradiso per
lanciarsi nelle bolge dell'Inferno.
Lui
era arrabbiato. Glielo aveva letto negli occhi.
Era
arrabbiato e c'erano stati solo graffi e morsi e spinte e dita
conficcate nella carne come artigli. Si era arrabbiata anche lei
–
lui aveva il potere di farla arrabbiare in continuazione.
E
allora aveva graffiato e morso e spinto e aveva piantato le unghie
nella sua carne come se avesse potuto strappargli via perfino la
pelle.
«Mi
dispiace».
Tonks
volta il capo sul cuscino. La luce della mezzaluna che filtra
attraverso le tende è troppo vaga per illuminare il suo
viso, ma lei
non ne ha bisogno. Le basta sentire il suo respiro affannato,
disperato, svuotato – è sempre così,
è sempre come gettarsi da
una rupe con un paio di ali di cera e sfracellarsi a terra sapendo di
non aver volato per un soffio.
Sono
solo atterraggi di
fortuna, i loro – e Tonks ha una paura dannata di
sfracellarsi sul
serio.
Ha
cinque anni e trotterella lungo la scia di Sirius –
è felice
perché il mondo in un bambino di cinque anni è
piccolo, e in un
mondo piccolo non c'è spazio per molto di più.
Va
giù, sempre più giù.
Ha
nove anni e il mondo si fa un po' più grande –
entrano cose
brutte, entra la rabbia e l'indignazione e la cieca consapevolezza
che Sirius lo odia quanto i loro genitori odiano lui.
Va
giù, sempre più giù.
Ha
quindici anni e il mondo fa schifo – fa schifo davvero, e
guardare
Sirius ridere con i suoi amici dall'altro capo di quel mondo troppo
grande è insopportabile.
Va
giù, sempre più giù.
Ha
diciassette anni e il mondo è ai suoi piedi – ed
è lui, quello
giusto, quello importante, quello destinato a incidere il nome nella
storia. L'ultimo Black, il più importante, quello che non ha
paura
di obbedire agli ordini più duri. È Sirius, il
vigliacco. È
Sirius, il codardo.
Va
giù, sempre più giù.
Ha
vent'anni e il mondo diventa buio – ma va bene, va bene lo
stesso,
va bene anche se ha ancora un sacco di cose da dire e da fare e da
vedere, va bene anche se vorrebbe solo ritornare il bambino che
inseguiva il fratello lungo i corridoi di Grimmauld Place, va bene,
va bene...
Va
giù.
|
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Capitolo 28 *** Arthur, Fred, Alastor, Remus, Sirius, Remus/Tonks ***
*
La
donna della sera, Angelo Branduardi
Arthur
Weasley
442
parole
Il
silenzio è strano.
Non
in sé, non proprio il silenzio, ma il silenzio
lì, nel giardino che
abbraccia la Tana... quello sì che è strano. Si
convince che tutta
quella stranezza abbia qualcosa di sinistro e si spinge sulla sedia a
dondolo sotto alla veranda costruita da Charlie l'estate prima con un
po' meno decisione.
Ah,
l'età... Arthur la conosce bene, l'età.
Ne
ha sentito ogni morso, dai più febbrili ai più
stentati, da quelli
che possono spingere un uomo a fare a pezzi il mondo fino a quelli
che ti fregano sul più bello, e allora il mondo te lo
ritrovi
addosso e non puoi proprio farci nulla.
È
sopravvissuto a un ammirevole numero di sventure e
difficoltà – e
anche quello è strano, perché Arthur non
è un eroe, non è nemmeno
mezz'eroe e viene proprio da chiedersi come abbia potuto sopravvivere
con tanta destrezza. Forse è per quello, si spiega: non era
un eroe,
lui, e quella guerra si era mangiata un eroe dopo l'altro.
Non
lui, non Arthur.
Ad
Arthur era stata concessa la possibilità di guardare i
propri figli
diventare padri – e piangere il figlio perduto, la
più ingrata
concessione. La vita era fatta di morsi buoni e morsi cattivi: quello
era stato il peggiore. Lo teneva ancora stretto fra i denti,
perché
il boccone era troppo amaro per essere spinto in gola.
E
Molly... Arthur dondola ancora e sorride al cielo sereno e ai ricordi
dei morsi che ha potuto dare alla moglie nel corso della vita.
Qualcuno
leggero dietro al collo, qualcuno per scherzo, qualcuno per passione.
Tutti con amore, non uno meno degli altri.
Molly
gli aveva confidato che se a sedici anni le avessero detto che
avrebbe trascorso tutta la sua vita a Ottery St.Catchpole fianco a
fianco con quel matto di Arthur Weasley, ne avrebbe riso per
settimane, per mesi, per anni, senza poter credere a una sola parola.
Ma poi, aveva aggiunto con infinito affetto, era diventata
semplicemente la più meravigliosa delle avventure che
avrebbe potuto
desiderare.
C'era
stata solo lei, solo Molly, anno dopo anno, figlio dopo figlio... lei
prendeva chili mentre lui perdeva i capelli.
Li
aveva persi tutti, ormai.
Non
gli restavano che un paio di spessi occhiali di corno, una casa
strana e silenziosa aggrappata alla più bella collina del
mondo e
una sedia a dondolo vuota accanto alla propria.
È
triste, ma Arthur
sorride lo stesso.
*
Camminare
tre passi avanti e uno indietro
Fred
Weasley
parole
Non
si è mai posto il problema di diventare adulto. Nemmeno una
volta,
anche sua madre non smetteva di parlare di doveri e
responsabilità e
serietà e di un sacco di altro cose che Fred ha ascoltato
mentre
pensava a tutt'altro.
Il
primo passo per diventare adulti si rileva estremamente semplice.
La
scuola non fa per noi – ne erano così convinti da
farla quasi
esplodere – e via, Fred se ne vola lontano e ride fianco al
fianco
con George, mentre i rimbrotti della madre si mescolano al frastuono
del loro negozio di scherzi.
Il
secondo passo per diventare adulti è un po' più
lungo, ma ce la fa
lo stesso.
E
che ci vuole, dopotutto? Ridi che ti passa: Fred ne ha fatto il suo
stile di vita. Sì, gestire il negozio nel bel mezzo di una
guerra è
un problema da adulti, perché hai sempre
il rischio di
vendere una Merendina Marinara a un Mangiamorte e poi ti tocca
sgombrare il corpo, e sì, è dura... ma Fred tiene
stretto. Scherza
anche se è dura davvero, anche se George ha paura quanto lui
e ride
quanto lui, e la paura resta nascosta dal botto dei fuochi
d'artificio. I rimbrotti di sua madre ora gli mancano.
Il
terzo passo per diventare adulti lo fa quasi cadere, ma se la cava
comunque.
L'eventualità
di restare senza George non era contemplabile. Non c'era, non
esisteva, era semplicemente qualcosa alla quale non riusciva a
pensare. La notte in cui rischia di perderlo gli fa esplodere il
cuore e i polmoni e i reni e tutto ciò che poteva esplodere,
ma non
vuole pensare che sì, ehi, si sente romano
ma
quell'idiota è quasi morto.
Non
esiste proprio. Non è che non vuole pensarlo: è
proprio che non ci
riesce.
È
quando si sbaglia e va indietro che diventare adulti diventa
impossibile.
*
«Se
stai andando all'Inferno, fallo a testa alta», Winston
Churchill
Alastor
Moody
241
parole
Era
poco più di un ragazzo sbarbato quando aveva combattuto per
la prima
volta. L'oscura magia di Gellert Grinderwald aveva incendiato ogni
angolo dell'Europa magica, straziato e messo in ginocchio decine di
migliaia di persone... c'erano solo fiamme, e grida, e gente morta.
Alastor
non era morto.
Alastor
era rimasto in piedi per chiedersi cosa avesse vinto.
La
guerra, si era risposto. Ho vinto la guerra a testa
alta.
Era
un uomo forte e vigoroso quando aveva combattuto per la seconda
volta. I nefasti seguaci di Lord Voldemort aveva messo a ferro e
fuoco ogni dimora magica della Gran Bretagna, torturato e ucciso
decine di migliaia di persone... e di nuovo le fiamme, le grida, la
gente morta.
Alastor
non era morto nemmeno in quell'occasione.
Alastor
era rimasto in piedi per chiedersi cosa avesse vinto –
di nuovo.
Forse
la guerra, si era risposto. Ma ho visto ognuno dei
miei
ragazzi morire a testa alta.
Era
anziano e logorato da mille battaglie quando aveva combattuto per
l'ultima volta. Lord Voldemort non sapeva perdere, non voleva
morire... e le fiamme continuavamo a divorare le persone, i sogni e i
buoni propositi e tutto ciò per il quale era rimasto in
prima linea
per tutta quell'eternità di vita.
Resta
a testa alta, ma cade verso il basso.
Non
ha il tempo di
chiedersi cosa possa aver perduto questa volta... spera e basta che
qualcuno, da qualche parte e in qualche tempo, vinca davvero.
*
Prompt
dimenticato (eh,
succede)
Remus
Lupin, Sirius
Black
187
parole
«Tu
credi nel Paradiso?».
Remus
solleva lo sguardo dalla Gazzetta del Profeta. Per un attimo Sirius
si illude di poter rivedere l'espressione sorpresa del ragazzino che
l'amico era stato un tempo.
Non
c'è sorpresa. C'è solo l'espressione grave
dell'ombra di un uomo
stanco.
«Mia
madre lo avrebbe di certo voluto».
«La
mia mi avrebbe voluto vedere dritto all'Inferno. Questo è
sicuro».
Il
silenzio pesa fra di loro quanto il tempo che è trascorso a
dividerli, a cambiarli, a scolorirli.
«In
tanti vorrebbero vederti all'Inferno, Padfoot».
Il
fantasma di un sorriso sarcastico che si scioglie nel nulla.
Sirius
sogghigna.
«Vorrei
assistere alla scena, sai? Sirius Black che va all'Inferno».
Solleva
il calice in un brindisi muto. «Oh, Remus, amico mio... lo
farei con
stile».
Remus
lo guarda senza aggiungere altro. Vorrebbe dirgli che per quella sera
ha già bevuto a sufficienza, che ha già sputato
abbastanza sentenze
velenose e sollevato fin troppi tetri ricordi... ma alla fine cambia
idea.
«Primadonna»
lo deride divertito. «Non sapresti morire in silenzio nemmeno
se ti
tagliassero la lingua...».
Era
solo un Velo, avrebbe ripensato Remus qualche settimana
più
tardi.
Silenzioso.
Ordinario.
Triste.
*
Kink:
scrivania, What-If ambientata dopo DH
Remus
Lupin, Minerva
McGranitt (Remus/Tonks)
356
parole
Aveva
trovato Rodney Smith di Corvonero e Cindy O'Donovan di Tassorosso
nascosti nello sgabuzzino delle scope del quarto piano e si era
sentito in dovere di rimproverare entrambi, ma non era stato affatto
facile evitare di far trapelare il mezzo sorriso divertito che gli
era affiorato sulle labbra.
I
suoi studenti tendevano a dimenticarlo con facilità, ma
anche Remus
Lupin, professore di Difesa Contro le Arti Oscure e Direttore della
Casa di Grifondoro, aveva avuto diciassette anni.
Diciassette
anni, gli ormoni impazziti e compagne di scuola con gonne
sinceramente troppo lunghe per poter soddisfare i primi morsi della
libido di un adolescente. Era stato Sirius a spiegargli dello
sgabuzzino del terzo piano per la prima volta e Remus, il Prefetto
che non avrebbe dovuto per nessunissima ragione dargli ascolto, ci
aveva condotto Livia Wood.
Essere
beccato dalla professoressa McGranitt era stato oltremodo
imbarazzante, ma a più di vent'anni di distanza tutto
ciò che era
rimasto di quell'esperienza era una sincera risata. Talvolta ne
avevano riso insieme.
Ha
un mezzo sorriso sulle labbra mentre risale le scale dell'Ufficio
della Preside.
«Buongiorno,
Minerva».
Lei
inarca appena un sopracciglio, ripiega con estrema cura il giornale
che sta leggendo e lo appoggia alla scrivania molto lentamente,
nota Remus con preoccupazione. Intreccia fra loro le lunghe dita
–
lentamente, e Remus ha un pessimo presentimento
– lo fissa
severa – molto severa, e Remus smette di
sentirsi un
professore e ripiomba nello sgabuzzino con Livia Wood.
«Ehm...
sì, lo so» inizia con tono
affabile. «Rodney e Cindy hanno
trasgredito almeno a una mezza dozzina di regole della scuola,
ma...». Scuote una mano a mezz'aria e scrolla le spalle.
«Andiamo,
Minerva, hanno diciassette anni. Ricordi quando io e Livia
Wood--?».
«Sì,
mi ricordo» lo interrompe perentoria.
Apre
il primo cassetto, ne estrae una piccola pallina di tessuto di un
accesissimo rosa e gliela lancia. Remus la afferra al volo, la
dispiega e si lascia scappare un gemito. Mentre si gratta imbarazzato
la nuca, Minerva sospira.
«L'hanno
trovata gli
elfi domestici sotto la tua scrivania... a giudicare dall'assurda
tonalità, credo che tua moglie abbia dimenticato la propria
biancheria nel tuo ufficio, Remus».
|
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Capitolo 29 *** Regulus, Tonks, Minerva, Amos Diggory ***
So
che Lavanda dovrebbe
essere sopravvissuta all'attacco di Greyback, ma ci tenevo a fare del
dramma con nomi conosciuti, chiedo perdono. (:
*
«Chiunque
salvi una vita, salva il mondo intero», Schindler's List
Regulus
Black,
Ninfadora Tonks (pre-saga)
280
parole
All'improvviso
nella
sua testa c'è solo silenzio.
Ed
è strano, pensa,
perché Diagon Alley è in fiamme, la gente grida,
i vetri esplodono,
e c'è chi cade e si rialza e chi cade e non si rialza... ma
all'improvviso – strano davvero – tutto tace.
Guarda
la bambina.
Cinque,
sei, quanti
anni potrebbe avere? Conta fra sé gli anni trascorsi dal
giorno in
cui sua cugina Andromeda è fuggita con il maledetto
Sanguesporco.
Sono
sei.
Sei
anni in cui il
mondo che conosceva ha avuto tutto il tempo di ribaltarsi.
Guarda
la bambina.
Sei
anni, smarrita nel
caos dell'attacco dei Mangiamorte, con il piccolo viso sporco, le
lacrime sulle guance. Piange mentre lo guarda, lo guarda e continua a
chiamare il suo papà – quel maledetto Sanguesporco.
Regulus
alza la
bacchetta.
«M-mamma...».
Guarda
la bambina.
Ha
gli occhi neri che
brillano e i capelli neri che spuntano da sotto il berretto colorato
e la carnagione chiara e delicata – è come
guardare i ritratti dei
suoi antenati.
All'improvviso
nella
sua testa c'è solo il rumore di qualcosa che si spezza, e
mentre
corre via da quel vicolo e le grida e le esplosioni tornano a
rimbombargli nella testa, la bambina gli piange ancora davanti agli
occhi.
E
sono neri, sono neri
come i suoi, e come quelli di sua madre e di sua zia.
Diagon
Alley sarebbe
stata diversa un giorno – un giorno che né Regulus
né la bambina
avrebbero mai potuto vedere. Qualcuno l'avrebbe chiamata giustizia,
qualcun altro disgrazia. Ma ci sarebbe stato un ragazzino, quel
giorno in cui Diagon Alley sarebbe stata diversa, e i suoi occhi
sarebbero stati neri e brillanti quanto quelli di sua madre.
*
Tazzina
di tè
Minerva
McGranitt
187
parole
Non
aveva mai pensato
che sarebbe diventata Preside.
Albus
era il Preside –
era sempre stato il Preside, e perfino quando non era che il suo
professore di Trasfigurazione era stato qualcosa di più
importante,
di più vitale.
Ma
oggi la Preside è
lei.
La
Preside Minerva
McGranitt, seduta sulla ricca poltrona che ha accolto maghi e
streghe probabilmente più valorosi di lei. Uomini e donne
d'onore
che non avrebbero mai permesso alla guerra di distruggere la scuola,
gli studenti, le loro vite.
Porta
alle labbra la
tazzina di tè, ma le mani tremano troppo, non si placano, la
fermano
e le ricordano quanto sia arduo invecchiare nei rimpianti. Silente
–
il Preside Silente – non avrebbe mai
permesso niente del
genere.
Minerva
non ha
dimenticato nessuno di loro.
Colin
Canon, Lavanda Brown, Kevin Smith, Rosemary Carroll...
Ci
sono sere in cui
ripete ognuno dei loro nomi fino a tre, cinque, mille volte. Ci sono
sere in cui fa meno male, in cui ricorda solo la nostalgia delle
fotografie del piccolo Canon o le risatine divertite della giovane
Brown, e sere più infelici in cui è semplicemente
troppo.
La
tazzina di tè le
scivola dalle mani e si infrange a terra.
«Minerva...»
mormora
il triste eco della voce di Albus dal suo ritratto. «Te ne
prego...».
Ma
lei ha già ripreso
a chiamarli per nome – di nuovo, di nuovo, di nuovo.
Colin
Canon, Lavanda Brown, Kevin Smith, Rosemary Carroll...
*
La
persistenza della memoria, Salvador Dalì
Amos
Diggory
185
parole
Cedric
sfreccia
nell'ingresso di casa Diggory e irrompe come un uragano nel salotto
dove Amos sta leggendo la Gazzetta del Profeta.
«Papà!»
lo chiama
entusiasta, «papà, vieni a giocare!».
Amos
inarca appena un
sopracciglio.
«Dove
hai lasciato le
scarpe? I tuoi piedi sono tutti sporchi di terra... la mamma si
arrabbierà».
«Vieni
a giocare,
papà!».
Insiste
con un largo
sorriso, si aggrappa alla manica della giacca del padre e la tira con
tutta la sua energia di bambino. Tira, tira, tira...
ma Amos
resta seduto e lo guarda.
Guardare
il viso di suo
figlio è sempre più difficile.
«Papà,
vieni a
giocare!».
Ripete
sempre la stessa
cosa.
«Vieni
a giocare!».
Non
cambia mai.
«Vieni,
papà!».
Attraverso
le lacrime che gli riempiono gli occhi, Amos vede solo il suo bambino
– il suo ragazzo, il suo ragazzo
morto...
«Papà,
vieni a
giocare».
Non
c'è – sa che non
c'è davvero e se tendesse la mano non abbraccerebbe che il
nulla
– ma in quella casa non riesce a vedere altro che
il suo
bambino – il suo ragazzo, il suo ragazzo morto.
È
ovunque.
|
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Capitolo 30 *** Qualche splendida speranza - Remus/Tonks ***
Scritta
per l'iniziativa Lá
Fhéile Pádraig indetta
da Pseudopolis
Yard. Il prompt che ho scelto è la meravigliosa
canzone dei Modena City Ramblers «Qualche
splendido giorno».
(:
*
Qualche
splendida speranza
Remus/Tonks
1925
parole
«Ci
troveremo ancora, sai,
in
qualche splendido giorno».
(Qualche
splendido giorno, Modena City Ramblers)
Aveva
chiuso la valigia con un colpo pigro della bacchetta. Non c'era
nient'altro da portare con sé: pochi abiti logori e sdruciti
di cui
vergognarsi, qualche vecchio libro dalle pagine ingiallite e un
vecchio acquario vuoto.
Era
solo un uomo di seconda mano, lui.
Guardò
la stanza umida che aveva occupato durante l'anno appena trascorso
con uno sguardo imperscrutabile. Osservò il comodino
traballante, il
letto su cui aveva dormito, le tende scure e sciupate che
ondeggiavano lievi. L'aria di Londra che si insinuava dalla finestra
appena dischiuse regalava la sensazione piacevole dell'estate ormai
alle porte. Eppure lui restava lì, immobile, con
l'espressione
appassita di chi si era perduto anche il passaggio della primavera.
Era
stato un anno impossibile.
Il
ritorno di Sirius, i tentativi di riesumare lo spettro di un'amicizia
lasciata a marcire per dodici anni, Grimmauld Place e l'Ordine, la
feroce convinzione di essere ancora utile a qualche scopo, di poter
valere qualcosa – essere più di un uomo con una
vecchia valigia.
«Remus?».
L'improvvisa
intromissione della voce di Tonks nel suo silenzio lo fece
sobbalzare. Strinse addolorato gli occhi, chiuse la finestra e si
preparò ad andarsene con l'intenzione di non voltarsi
più. Non
avrebbe funzionato, lo sapeva bene: aveva tentato di non voltarsi a
guardare ogni cosa che aveva dovuto abbandonarsi alle spalle, ma il
mondo era rotondo e prima o poi si ricongiungeva tutto. Le sue erano
solo fughe senza destinazioni.
La
voce titubante di Tonks lo richiamò al di là
della porta socchiusa.
«Remus,
dobbiamo andare. Mi dispiace».
Prese
la valigia e l'acquario e uscì dalla stanza senza dire
nulla. Tonks
era appoggiata alla parete del corridoio con le mani sprofondate
nelle tasche dei jeans: i segni del combattimento nell'Ufficio
Misteri non erano ancora del tutto svanite dal suo volto a forma di
cuore. C'erano ombre scure sotto ai suoi occhi brillanti, ogni
traccia della sua spavalda vitalità pareva svanita. La
guerra si
protraeva in silenzio da più di un anno, ma Remus sapeva che
Tonks
non aveva ancora avuto la sfortuna di comprenderla, di viverla, di
farsi annientare da essa.
Il
suo battesimo era appena terminato. Non riusciva a pensarlo senza
provare un moto di rabbia nel sapersi tanto incapace dinanzi
all'accaduto. Non c'era nulla da dire, nulla da fare... Tonks avrebbe
dovuto reagire da sé o non avrebbe più reagito.
«Posso
aiutarti?» gli chiese.
Remus
scosse appena il capo e iniziò a scendere le scale. Tonks lo
seguì
senza aggiungere altro.
«Credo
che lascerò quest'acquario in cucina» le disse
poi. «Non è di
alcuna utilità».
«Un
giorno tornerai a prenderlo».
Sulle
sue labbra si dipinse un sorriso mesto. Forse lo avrebbe fatto o
forse no. Al momento la fiducia sbiadita di Tonks non era in grado di
sfiorarlo. Entrò in cucina, appoggiò l'acquario
accanto al
caminetto spento e fece un sospiro stanco. Sentiva lo sguardo di
Tonks penetrargli la nuca.
«Non
aver paura di dire la cosa sbagliata» le suggerì
con voce gentile.
«In questi momenti non ci sono cose giuste da
dire».
«Una
volta un uomo saggio mi ha consigliato di tacere, se si crede di
poter dire una cosa sbagliata».
Remus
camuffò una risata sarcastica in un soffio stretto fra i
denti.
Gliel'aveva detto lui diversi mesi prima, quando lei era rimasta
sconcertata di scoprire la sua vera natura. Ricordava quella sera con
vivida intensità: Tonks era l'unico membro dell'Ordine a
ignorare
che fosse un Lupo Mannaro, e per qualche strana ragione la sola idea
di rivelarglielo gli aveva causato notevoli patimenti.
Eppure
la giovane non aveva mostrato alcun timore, né disgusto
– qualcosa
di cui gli sarebbe sempre stato grato – ma lo stupore le
aveva
impedito di parlare per diversi minuti. Le aveva assicurato che non
aveva bisogno di sentire alcuna risposta... e lei era scoppiata a
ridere. Sei il licantropo meno credibile che io abbia mai
visto,
lo aveva preso in giro. Come puoi dirmi una cosa del genere e
aspettarti che io non rida di te?
Le
era grato anche per quella risata, per le prese in giro e gli scherzi
che ne erano seguiti, per tutte quelle settimane trascorse a
minimizzare la sua maledizione. Non rideva dei pleniluni da quando
aveva terminato Hogwarts e i Malandrini avevano avuto il loro
battesimo, l'ultimo e definitivo addio all'adolescenza.
Si
voltò verso di lui con un sorriso storto.
«Forse
non era così saggio come hai creduto. Di' qualcosa, il
silenzio è
insopportabile».
«L'ultimo
album delle Sorelle Stravagarie è
orribile».
«Bene
a sapersi, eviterò di comprarlo».
«Tu
odi le Sorelle Stravagarie».
«Affatto»
replicò piano mentre si avvicinava a lei con passi lenti.
«Mi è
solo difficile comprendere la sottile differenza che corre fra la
musica e il rumore».
«Ho
preso a calci uomini per aver detto eresie meno imperdonabili,
Remus».
Lui
inarcò appena un sopracciglio.
«Sono
stato preso a calci da donne per aver detto eresie anche più
perdonabili, se puoi crederlo».
Tonks
si lasciò finalmente andare a una risata di sincera
allegria; per un
secondo Remus si illuse che l'ultima settimana non fosse mai
accaduta, che nulla fosse successo, che Sirius fosse ancora malamente
seduto nella poltrona di Orion Black a biascicare calunnie e
improperi a Piton, che lui e Tonks si stessero semplicemente
preparando per un altro turno di guardia all'Ufficio Misteri.
Si
unì a lei in quel vago tentativo di lasciare un po' di
amarezza al
passato, ma la loro risata si spense troppo in fretta e il silenzio
tornò a divorarlo. Tonks sollevò lo sguardo su di
lui e rimase
ferma per qualche istante, scrutandolo con una smorfia strana.
Fu
più lesta di quanto Remus non avrebbe mai potuto pensare: si
mosse
verso di lui, si sollevò sulle punte dei piedi e gli
lasciò un
bacio intoccabile a fior di labbra, rapido e innocente quanto quello
dei bambini. Riuscì a sconvolgerlo più di quanto
non avesse mai
fatto nessun altra donna. Era lui, ora, quello senza nulla da dire.
«L'uomo
saggio mi ha detto di tacere» ripeté in fretta
Tonks. Sulle sue
gote si stava diffondendo un timido rossore. «Ma non mi ha
detto di
non farmi capire».
Remus
aveva capito fin troppo bene. Lo aveva già capito
ben prima
che lei lo baciasse, ben prima che iniziassero ad attardarsi dopo i
turni di guardia solo per chiacchierare un po' di più... lo
aveva
capito, sì, ma aveva cercato di non farlo.
Una
volta, quasi per caso, Sirius gli aveva domando se si sentisse
attratto da lei. Aveva mentito, ma Sirius non l'aveva bevuta e aveva
riso di lui per dieci minuti.
L'attrazione
si era trasformata ben presto in un altro segreto da nascondere al
mondo. Si domandò se lei lo avesse capito. Magari no. Magari
era
solo una giovane con più avventatezza di quanta lui non
avesse
conservato.
Lo
aveva appena baciato. In quel momento avrebbe preferito che lo avesse
davvero preso a calci. Sospirò dolorosamente.
«Ninfadora,
io...».
«Non
dire niente, ti prego» lo interruppe lei con tono afflitto.
«Ho già
capito».
«No,
non puoi aver capito».
Si
sforzò di trovare le parole adatte con cui spiegarle
ciò che
dubitava potesse davvero capire. La maledizione, la guerra, lui e
lei... non c'era nulla di appropriato. La guardò con folle
intensità, desiderando per l'ennesima volta poter essere
qualcun
altro. La amava? Se lo era chiesto al punto tale da dimenticare
quando quel pensiero avesse iniziato a tormentarlo. Forse era
semplicemente così che iniziava l'amore, con infinite
domande alle
quali non si ha il coraggio di rispondere.
Non
le rispose.
Sollevò
una mano e le accarezzò delicato il volto pallido, la
fissò
chiudere gli occhi e inspirare come se in quella cucina fosse appena
passato l'aroma dei fiori sollevato dal vento. Si chinò
sulle sue
labbra e la baciò piano, intrecciando le dita fra i suoi
capelli
rosa senza pensare a nient'altro. Solo per quel momento, solo per
quella volta... un cervello finalmente libero e silenzioso. Sentire
le mani di Tonks appoggiarsi sulle sue spalle e intrecciarsi dietro
al suo collo era di certo la sensazione più dirompente che
avesse
mai provato.
Per
un attimo si sentì felice.
Quando
si scostò da lei, fu come precipitare in un abisso di
desolazione.
«Non
posso farlo».
Tonks
aggrottò la fronte senza capire.
«Non
posso» ripeté ancora lui, senza togliere la mano
dal suo viso.
«Meriti molto meglio di ciò che non potrei mai
offrirti».
Nei
suoi occhi balenò una luce risentita.
«Va'
al diavolo: stai ricominciando con le stupidaggini. Credevo le avessi
lasciate indietro».
Stupidaggini.
È così che le aveva sempre definite. Era lo
stesso modo con cui le
chiamavano James e Lily e Sirius. Stupidaggini e niente più
dell'insano desiderio di uno sciocco di restare da solo. Nessuno di
loro aveva mai capito. Non James, non Lily, non Sirius.
Non
Tonks.
«Silente
ha bisogno che qualcuno si infiltri nei bassifondi abitati dagli
uomini di Greyback» le comunicò con spietata
franchezza. «Sono
l'unico che può farlo».
Tonks
dischiuse appena le labbra, si scostò dal suo tocco e scosse
il capo
come se non credesse a quanto aveva udito.
«Ma
tornerai...».
«Non
lo so».
«Non
era una domanda».
«Meritavi
comunque una risposta». Deglutì a fatica e non fu
più capace di
sostenere il peso del suo sguardo accusatorio. Si affrettò a
voltarle le spalle per raggiungere la porta e aggiunse: «Ti
prego.
Lascia perdere».
Tonks
non si lasciò abbandonare. Gli corse dietro e lo
afferrò con
brutale decisione per un polso.
«La
guerra finirà e il mondo sarà un posto migliore.
Dimmi che ci
credi».
«Non
importa» mormorò, voltandosi con forza verso di
lei. «Il mio mondo
resterà un posto del quale non vorrei facessi parte. Sono un
Lupo
Mannaro. Alla gente non interesserà altro e non gli
interesserà
nulla di te... ti faranno ciò che mi hanno fatto. Non posso
permetterlo».
«Non
quando tutta questa storia sarà finita»
rimarcò ancora Tonks. La
stretta della sua dita si fece più serrata. «La
gente cambierà,
cambieranno le leggi e il mondo e... ti prego. Se
non ci
credi, ti distruggeranno».
«Tu
non sai nulla di guerra e distruzione, Ninfadora».
«No,
ma so che senza speranza potrai solo morire...». Si
conficcò i
denti nel labbro inferiore, tremando appena. «Voglio che tu
sappia
che hai un motivo per cui vale la pena tornare vivo.
Voglio
che torni da me».
Remus
tacque ancora.
«Io
ti amo» confessò semplicemente Tonks, scrollando
le spalle con un
vago sorriso. «Non ti basta?».
Aveva
ragione. Avevano bisogno di un motivo per il quale rimanere vivi. Ne
aveva bisogno lui e ne aveva bisogno lei – più di
quanto lei
stessa non credesse. Era giovane e abile, ma l'inesperienza aveva
già
rischiato di ucciderla. Menti, sussurrò
una voce lesta nella
sua mente. Menti e dalle una possibilità.
«Tornerò»
le rispose con un'ultima carezza. «Te lo prometto».
«Tornerai
da me... o tornerai e basta?».
Dalle
una possibilità.
«Tornerò
da te».
Tonks
sorrise con più serenità e intrecciò
le dita con le sue. Remus si
sentiva schiacciato dal rimpianto. No, non sarebbe tornato, ma lei
non doveva saperlo. Aveva davvero ragione: in quei tempi disillusi
avevano tutti bisogno di sperare.
E
lei... lei era una sua priorità – l'unica, grande
priorità. Era
ciò che più di ogni altra persona avrebbe
protetto.
Un
giorno, forse, in uno di quei splendidi giorni a venire in cui lei
tanto credeva, Tonks avrebbe capito.
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Capitolo 31 *** L'inverno del '76 - Remus, Sirius ***
One-shot
scritta per l’anniversario di Pseudopolis Yard.
Il prompt
che ho scelto era inverno,
perché
siamo a fine giugno e mi piace fare scelte logiche.
*
L’inverno
del ‘76
Remus
Lupin, Sirius Black
1554
parole
Lo
studio in cui Orion Black aveva trascorso la maggior parte
della sua vita era probabilmente il locale più confortante
di tutta Grimmauld
Place.
Non
lo era per Sirius, che fra quelle pareti non aveva incontrato
altro che disprezzo e difficoltà, ma per Remus, tristemente
avvezzo a squallidi
appartamenti fatiscenti e a mobilie logore e tarmate, la morbida
poltrona
davanti al caminetto di marmo nero rappresentava una tentazione
irresistibile.
Aveva preso l’abitudine di chiudersi al suo interno nelle ore
che separavano
una riunione con l’Ordine da una ronda all’Ufficio
Misteri – soprattutto quando
Sirius diventava intrattabile perfino per lui, quando ogni frase
più semplice
si trasformava in un’ennesima crisi di nervi e finivano per
mandarsi al diavolo
a vicenda.
Era
la terza volta in un mese che arrivavano ai ferri corti.
Quando erano ragazzi avevano diviso lo stesso dormitorio per sette
anni,
condividendo ogni aspetto delle rispettive esistenze senza esitare, e
nonostante gli ormoni impazziti e i caratteri così
diametralmente differenti,
non avevano mai davvero litigato. Avevano iniziato solo dopo, quando il
sipario
della guerra era calato sulla scena di Hogwarts e aveva messo fine agli
anni in
cui erano solo loro due, solo due ragazzini, solo Padfoot e Moony. Il
passo per
raggiungere il collasso era stato breve.
Remus
aveva sottovalutato la fragilità della loro amicizia. Due
anni prima, quando si era fiondato nella Stamberga Strillante e se lo
era
trovato davanti, lacero e irriconoscibile, l’istinto aveva
prevalso sul suo
controllo e si era gettato fra le sue braccia, con le dita che
artigliavano il
tessuto sciupato della tunica di Azkaban e un feroce pensiero di
speranza a
martellargli nella testa. Poi le cose fra loro avevano ripreso a
traballare e
quei dodici trascorsi ai margini della vita avevano preso la
consistenza di una
parete rocciosa.
La
forzata prigionia che Sirius stava vivendo a Grimmauld Place
non aiutava nessuno dei due. Era spesso nervoso, arrabbiato,
imprevedibile,
come il fantasma tirato al limite del ragazzo che era stato ai tempi di
Hogwarts.
Il
problema era Remus: lui sì che era cambiato.
Non
era più il diciassettenne un po’ timido e
arrendevole che si
rassegnava ai colpi di testa di Sirius, non riusciva più ad
annuire, a
sopportarlo, a dargli ragione nella speranza di calmarlo. Gli ultimi
dodici
anni passati a spostarsi in totale solitudine da un angolo
all’altro della Gran
Bretagna lo avevano reso ben più ruvido e drastico di quanto
non fosse stato
quando era solo Moony, il Prefetto che scendeva a compromessi con
Padfoot.
Quel
pomeriggio avevano perso la pazienza per un motivo talmente
sciocco e ridicolo che Remus ne avrebbe riso, se solo avesse conservato
un po’
di ironia: Sirius stava parlando dell’ultimo racconto di
Mundungus su una partita
di candelabri contraffatti andata male, ridacchiando con quel sogghigno
tutto
suo che Azkaban non era riuscita a strappargli del tutto. Ma quando
Remus gli
aveva fatto notare che non trovava spiritose le imprese truffaldine di
Mundungus, Sirius lo aveva accusato di essere diventato noioso, Remus
aveva
replicato di essere semplicemente onesto e il discorso era rapidamente
degenerato in una lunga serie di “non usare quel tono
superiore con me”, “scusa
se la mia vita qui dentro non è interessante quanto la
tua” e si era concluso
con un solenne “fanculo, Remus”.
Così
si era rifugiato nello studio di Orion Black con un libro che
non aveva nemmeno aperto e si era ritrovato a fissare le fiamme
crepitanti del
camino senza vederle realmente. Quando il massiccio pendolo di quercia
lo
ridestò dai suoi pensieri, si accorse di essere
lì dentro da più di un’ora. Si
alzò dalla poltrona con l’intenzione di salire al
piano di sopra per cercare
Sirius, uscì dalla stanza e iniziò a percorrere
il corridoio con passi grevi.
Sirius
aveva sistemato Fierobecco nel sottotetto di Grimmauld
Place, un ambiente basso ma sufficientemente ampio per accogliere una
creatura
di quella stazza. Tuttavia, nonostante il pagliericcio arrangiato sotto
il
grande lucernario e le continue attenzioni, Fierobecco mostrava a
quella
forzata prigionia la stessa irrequietezza del suo padrone.
Temendo
che Sirius fosse ancora scosso da una tempesta interiore
di sentimenti negativi, Remus bussò con blanda indolenza,
piuttosto sicuro che
l’amico non gli avrebbe nemmeno risposto. Fu sollevato di
sentire la sua voce.
«Entra,
Moony».
Remus
si infilò con lentezza nella stanza e si richiuse cauto la
porta alle spalle, ma l’Ippogrifo, acciambellato in un angolo
come una grossa
tigre piumata, sollevò la testa con uno scatto nervoso. Gli
parve quasi di
sentirlo ringhiare. Si inchinò piano, prestando attenzione a
non fissare
nient’altro che non fossero le assi lerce del pavimento, ma
fu necessario
l’intervento di Sirius per tranquillizzare Fierobecco.
«Sente
che non sei umano» commentò con spietata
franchezza Sirius.
Era seduto su una vecchia cassapanca con la schiena appoggiata al muro.
«Credo
ti veda come un nemico».
«O
forse ricorda che quando ci siamo conosciuti volevo
sbranarlo».
Le
labbra di Sirius si piegarono in una secca curva sarcastica.
«Probabile.
Gli Ippogrifi non perdonano facilmente».
“Non
solo loro” pensò Remus, restando immobile al
centro della
stanza e fissando l’amico con espressione placida.
«Sei
ancora arrabbiato?» chiese Sirius con un tono di vaga stizza.
«Non
lo ero nemmeno prima».
«Sì,
invece».
Sirius
spostò lo sguardo al cielo pallido che si intravedeva
attraverso i vetri sporchi del lucernario e per un attimo rimasero in
silenzio.
Remus individuò una sedia di ebano con la seduta imbottita e
si accomodò con
calma, incrociando le lunghe gambe fra di loro.
«Quando
eravamo a Hogwarts non ti arrabbiavi così spesso»
commentò
laconico Sirius.
Remus
lo fissò per un lungo istante, soppesando il peso di
quell’affermazione. Si massaggiò distratto le
tempie, camuffando una risatina
in un soffio fra i denti che a Sirius non sfuggì del tutto.
«Cos’ho
detto di divertente?».
«Quando
eravamo a Hogwarts tu eri decisamente meno irritante».
«E
tu eri meno noioso».
«Meno
immaturo».
«Meno
arrogante».
Tacquero
di nuovo, scrutandosi entrambi con un mezzo sorriso
divertito. Fu Remus il primo a parlare.
«Siamo
ridicoli».
«Già»
sbuffò Sirius. Parve scosso da un pensiero improvvisamente
vivace. «Ehi, ricordi la nevicata del
’75?».
«Dubito
che qualcuno l’abbia scordata. Quell’anno ne scese
così
tanta che la professoressa Sprout rimase bloccata per un giorno intero
nelle
serre».
Sirius
ridacchiò sfrontato. Per un attimo sul suo volto sciupato
riapparve lo spirito scanzonato dei suoi sedici anni.
«Costruimmo
una palla di neve così grande che la si poteva vedere
perfino dalla torre di Astronomia» aggiunse con un sorriso
storto. «Cindy,
ricordi?».
«Santo
cielo» mormorò Remus. «Avevo scordato
che le avevi dato un nome…
un nome molto stupido, fra l’altro».
«La
facemmo saltare in aria con tutti i Fuochi D’Artificio di
Filibuster che i Potter avevano regalato a me e a James per
Natale».
«Solo
i Potter potevano avere la scarsa lungimiranza di regalarvi
un’intera scatola di esplosivi».
Sirius
rise.
«Cinquantacinque
punti in meno a Grifondoro e due settimane di
punizione. Minerva era davvero furiosa».
«Mi
domando per quale motivo» scherzò Remus.
«Dopotutto Cindy era
solo esplosa in centinaia di
proiettili di neve che avevano rischiato di decimare metà
degli studenti di
Hogwarts».
«Che
diavolo è un proiettile?».
Remus
nascose un sorriso beffardo nel palmo della mano.
«È
il motivo per cui quell’anno Grifondoro non vinse la Coppa
della Case».
Risero
entrambi e occuparono i successivi minuti ricordandosi a
vicenda ogni momento di quel glorioso pomeriggio di dicembre di tanti
anni
prima. Per un caso fortuito, il professor Vitious aveva appena aperto
la
finestra dell’aula di Incantesimi ed era stato sommerso da
una palla di neve
vagante grande quanto la sua testa; un tizio del quinto anno di
Tassorosso di
cui non riuscivano a ricordare il nome aveva perfino perso un dente.
Alla fine
era stata Lily a togliere loro tutti quei punti, e aveva deciso di
aggiungerne
cinque in virtù del fatto che trovava il nome Cindy
particolarmente inadatto a una gigantesca palla di neve.
«È
stato il periodo più bello della mia vita».
Remus
lo guardò. Sirius aveva ripreso a fissare il lucernario con
espressione triste e una smorfia di vago rancore sul viso. Non
riuscì a dire
nulla.
«Io,
te e James…» continuò con voce roca.
Remus si chiese quanto
gli stesse costando lo sforzo di non nominare mai Peter. «I
Malandrini con la
loro Mappa. Eravamo in gamba, vero? Eravamo davvero
in gamba. Nessuno sapeva volare come James. Era
straordinario».
Le
parole parvero mozzarsi nella sua gola. Si avvicinò le gambe
al
petto e appoggiò le braccia alle ginocchia, tenendo il capo
chino sulle mani.
Nei suoi occhi brillavano dolore e risentimento. Era piuttosto sicuro
che in
quel momento la sua espressione era la stessa dell’amico.
«Padfoot…».
Tentò
di dire qualcosa – qualunque cosa – ma non fu in
grado di
liberarsi dal peso opprimente di quel silenzio gelido che era
nuovamente
piombato fra di loro.
«Nevica»
commentò infine Sirius, indicando il lucernario.
Alzò
lo sguardo. Nonostante la patina opaca, Remus vide i primi
fiocchi di neve posarsi lenti e placidi sul vetro. Uno,
due, tre. Tentò di distrarsi contandoli uno ad
uno, ma presto
la voce di Sirius lo artigliò di nuovo alla
realtà.
«Vorrei
poter fare esplodere ogni cosa ancora una volta».
Remus
continuò a tacere.
Era
d’accordo con lui.
|
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Capitolo 32 *** La verità - Remus/Sirius ***
Scritta
per la Battaglia Navale di
Pseudopolys Yard (cliccate sul link, cliccate sul link, cliccate,
cliccate…) dove
lo scopo del gioco e del dolore è quello di affondare
le ship. Perché non ci piace soffrire. :)
Il
prompt era “I bet my life” degli
Imagine Dragons.
*
La
verità
RemusxSirius
1100
parole
You
tell me to hold on
Oh
you tell me to hold on
«
Non dire niente ».
Remus
socchiuse le palpebre per un
istante, permettendo alla voce gracchiante di Sirius di artigliargli
ancora una
volta la mente, di entrare e fare a pezzi un altro angolo della
fotografia del
giovane che ricordava. Ormai ne conservava solo le briciole.
«
Non potrai ignorarmi per sempre » lo
ammonì con voce debole. Lasciò vagare lo sguardo
fra i mobili impolverati della
cucina di Grimmauld Place nel vano tentativo di trovare una
distrazione. « E
questo posto andrebbe pulito come si deve ».
Sirius
tacque. Continuò a giocherellare
con le linee del tavolo di legno, seguendone le curve con il
polpastrello in monotoni
cerchi concentrici per diversi secondi ancora, fino a quando Remus non
perse la
pazienza.
«
Ora devi ascoltarmi ».
«
Lo faccio ».
«
No, tu non ci provi nemmeno » replicò
con durezza, trovando finalmente il coraggio di varcare la soglia della
cucina
e di piazzarsi di fronte a lui. « Forse non ci sei mai
riuscito proprio per
questo motivo ».
Non
era del tutto sicuro che avrebbe
voluto trovarsi lì, né che quello forse il
momento o il luogo adatto per quella
conversazione, per quelle parole.
Avevano già aspettato
troppo – e Sirius lo sapeva quanto lui. Avevano aspettato
prima un giorno, poi
una settimane, poi mesi interi… e un anno dopo niente di
ciò che di loro era
cambiato era ritornato a posto.
Aveva
trascorso l’ultimo anno a
chiedersi se sarebbero mai riusciti a tornare indietro.
C’erano degli istanti
in cui ci credeva davvero, in cui non vedeva altra
possibilità, perché non era
semplicemente concepibile che Sirius non desiderasse cancellare ogni
sbaglio quanto
lo desiderava lui. E in quei momenti di folle positività
ogni strada sembrava
in discesa, ogni violenza del passato dimenticata.
Poi
lo vedeva.
Vedeva
il suo viso, i segni del tempo e
di Azkaban, la profondità dei suoi occhi grigi spenta per
sempre dall’avida
fame dei Dissennatori… e sapeva cosa vedeva Sirius. Vedeva
l’ombra di un uomo
che sorrideva con le labbra e non più con gli occhi, cercava
di scorgere il
ragazzino con i riccioli biondi e ne trovava solo lo spettro dai
capelli
ingrigiti.
Il
tempo in cui si erano amati di
nascosto sembrava perduto per sempre. Erano lucciole, erano fiocchi di
neve, erano
fili d’erba… all’epoca Sirius si
divertiva a trasformare ogni loro carezza in
una metafora stupida. Remus ne rideva fino ad avere il singhiozzo, ma
poi aveva
capito per quale motivo Sirius continuasse a trovare di volta in volta
sempre
più metafore con il mondo, sempre più meraviglie
a cui legarsi… erano
sbagliati, loro due.
Lo
sapevano tutti.
Sirius
era un ricco Purosangue
rinnegato da una famiglia di psicopatici, mentre lui era un disgraziato
Lupo
Mannaro con la divisa di seconda mano. Forse le cose non sarebbero
migliorate
nemmeno se non fossero stati due ragazzi. O forse sì
– una delle cugine di
Sirius non aveva forse sposato un Nato Babbano?
Storie
diverse. Ragazzi diversi.
«
Non mi devi niente, Sirius » iniziò
Remus. « E io non devo nulla a te. Cerchiamo di non
dimenticarlo ».
Sirius
sollevò appena il capo e gli
rivolse un’occhiata inquisitoria.
«
Lo credi davvero? ».
“Certo
che no”.
«
Credo non abbia più importanza,
giunti a questo punto. Sono passati dodici anni…
». Sirius distolse lo sguardo
con un lampo di stizza nello sguardo, ma Remus proseguì
ugualmente: « …siamo persone
diverse. Siamo cambiati. Saremo sempre il passato l’uno
dell’altro, ma io… ».
«
Dillo, Moony » lo incitò bruscamente Sirius.
« Dillo e basta ».
«
Credo di aver smesso di amarti da
molto tempo ». Si appoggiò al tavolo e
incrociò le braccia al petto con un timido
sorriso nostalgico. « Anche se probabilmente amerò
per sempre il ricordo del ragazzo
che sei stato… di ciò che eravamo, ciò
che avevamo. Ma non siamo più noi. Non
abbiamo più niente di noi ».
Sirius
emise uno sbuffo di maligno
sarcasmo.
«
Non ti ricordavo così lapidario ».
«
Lo so » sussurrò Remus a capo chino. «
E mi dispiace ».
«
Non è vero » ribatté Sirius. La sua
voce iniziava a tramutarsi nel sibilo d’odio che Remus aveva
iniziato a temere.
« A me hanno costretto a
dimenticarti, giorno dopo giorno, notte dopo notte. Mi hanno scavato
nelle
viscere e si sono aggrappati a tutto ciò che
trovavano… ti ho tenuto stretto nella
mia testa come nient’altro, gli ci sono voluti anni
perché io ti lasciassi a loro… e a me che dispiace ».
«
Sirius… ».
«
A te è stato sufficiente il tempo
» concluse rabbioso. Si alzò in
piedi di scatto e lo fissò con sguardo astioso. «
Hai ragione, Moony: non ti
devo niente. Cerca di non dimenticarlo ».
Remus
si frappose fra lui e la porta
prima che Sirius abbandonasse la cucina. Colpì lo stipite di
legno con un pugno
furioso e si conficcò le unghie nei palmi, incapace di
credere che quella fosse
realmente la strada che lui intendeva percorrere.
«
Non osare mai più insinuare che sia
stato facile, che sia stato naturale…
». Anche la sua voce iniziava a ricordare il basso ringhiare
di un animale
arrabbiato. « Tu non c’eri e tutto ciò
che conservavo di te era la maledetta
confusione per ciò che avevi fatto! Io ti amavo come non ho
mai amato nient’altro
e tu… ».
Scosse
il capo e abbandonò le braccia
ai fianchi, appoggiandosi con aria sconfitta alla parete. Chiuse gli
occhi e
fece un respiro profondo. Dopotutto lo aveva già accettato
da tempo, forse Sirius
non aveva torto. Aveva accettato da tempo
ciò che era accaduto, si era rassegnato e si era
abituato. Prima o poi
anche Sirius lo avrebbe capito.
«
Hai ragione » gli disse. Sentiva gli occhi
bruciare, ma per nessuna ragione al mondo si sarebbe mai lasciato
andare
davanti a lui – non più. « Mi
è bastato il tempo. E vuoi sapere la verità?
».
Si lasciò andare a una risatina nervosa. « La
verità, Padfoot, è che mi è
servito troppo tempo. La verità è che ho smesso
di amarti nel momento esatto in
cui ho scoperto che Peter era vivo e tu eri innocente…
perché l’unica
spiegazione era che tu non mi avevi
amato abbastanza per fidarti di me ».
Sirius
sferrò un calcio furioso a una
sedia, ma non aggiunse altro.
But
innocence is gone
And
what was right is wrong
I
bet my life –
Imagine Dragons
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