Mille mondi, mille vite, mille noi di fragolottina (/viewuser.php?uid=66427)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1.0 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1.1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 1.2 - prima parte ***
Capitolo 4: *** Capitolo 1.2 - seconda parte ***
Capitolo 5: *** Capitolo 1.3 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 1.4 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 2.0 - prima parte ***
Capitolo 8: *** Capitolo 2.0 - seconda parte ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1.0 ***
olivia
fragolottina's time
care lettrici o lettori eventualmente...
questa storia è un casino...però secondo me è un casino che può dare soddisfazioni...
sconsiglierei la lettura ad i facilmente impressionabili, la Morte
sarà un personaggio chiave (visto la 'm' grandissima),
sarà dark, sarà triste, velatamente horror e chi
più ne ha più ne metta...
ma ci sarà anche l'amore, tanto amore (se è tra i
romantici...), un amore che secondo me vale la pena di leggere...
sembro una televendita...
in realtà sto cercando di convincervi a dare un
possibilità ad Olivia ed a me...è il primo fantasy serio
che provo a pubblicare, ne ho scritti TANTI, ma...boh...li sento
molto miei e sono un po' protettiva nei loro confronti - si stiamo
parlando di racconti. si, sono matta da legare. no, non credo di essere
pericolosa.
maperchè io deliro sempre?!
beh, vi lascio al prologo che non si chiama 'prologo', non sapete che
fatica è stata organizzare al mia idea in modo decente! è
un po' cortino...ma beh, è solo il prologo!
12 anni
CAPITOLO 1.0
‘Lui le farà del male, sai che lo farà. Per questo ha ucciso suo padre.’
Hope guarda la
figlia dormire quasi in trance, abituata a fidarsi ciecamente della
voce che non l’ha mai lasciata, quella voce che sente da quando
la figlia è nata. Da quando ha visto lui
guardarla, la sua bambina nella culla, appena nata. Sa di potersi fidare
di quella voce, tutti dovrebbero fidarsi della Morte. La Morte è
una cosa certa.
‘Hai provato a tenerli lontani, ma non è servito, li hai visti insieme, ricordi?’
Ricorda. Ricorda
perché non se lo aspettava, stava sempre così attenta. Il
giorno prima quando era tornata da scuola, sua figlia era tremendamente
contenta, ancora persa nell’eccitazione le aveva raccontato che
un ragazzo la aveva accompagnata a casa, un ragazzo che le piaceva.
Hope aveva guardato fuori dalla finestra ed aveva visto lui.
«Povera, la mia Livy.» mormora con rammarico.
‘C’è un modo, io l’ho visto. Se
sarà tua sorella a prendersi cura di lei, sarà
salva.’
«Phoebe?» domanda cercando di capire. «Ma come…?»
‘La vita di tua figlia non vale più della tua?’
Hope torna nella
sua camera ed apre il secondo cassetto del comodino, ci sono tre
tubetti di pillole, prende cinque compresse di ognuna, le raccoglie e
va in cucina a prendere un bicchiere d’acqua. Prima di tornare
nella sua stanza si ferma in quella di Olivia e le da un bacio. Lo sta
facendo per lei, vuole che lo sappia. Lo vedrà, lei vede.
Vedrà che la sua mamma ha dato la vita per offrirle
un’ultima possibilità, può ancora salvarsi. Glielo
ha detto la Morte.
Si siede sul
proprio letto ed ingoia tutte le pillole aiutandosi con
quell’unico bicchiere d’acqua.
«Non permettergli di prenderti, Livy.»
Aprii gli occhi e mi diressi piano in salotto, il telefono più
vicino era in camera di mia madre, ma io non volevo assolutamente
entrare lì. Composi il numero di mia zia a memoria ed attesi,
attesi che rispondesse.
«Pronto?»
«Zia, sono Olivia.» la sentii frugare,
probabilmente alla ricerca dell’orologio, ma non era l’ora
quello su cui doveva concentrarsi. «Ho visto la mamma
morire.»
mm...iniziamo proprio bene...
mi rimetto umilmente al vostro giudizio...
baciotti
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Capitolo 2 *** Capitolo 1.1 ***
olivia
fragolottina's time
buongiorno care, continuiamo con questo dlirio...
dunque questo capitolo è di un lunghezza decente da chiamarlo tale, qualcosa vi spiego, ma molto poco in realtà...
purtroppo, ci muoveremo molto lentamente e le spiegazioni arriveranno
un pezzetto per volta...dai se vi dico tutto e subito poi che ci
diciamo?
va beh...ci vediamo più giù...
15 anni
CAPITOLO 1.1
Quando mi trasferii da zia Phoebe rimasi tappata dentro il sottoscale
per settimane, affascinata dal fatto che fosse l’unica stanzetta
di quella casa senza finestre e quindi – nella mia ingenua
visione di dodicenne – la più sicura. Uscii solo dopo un
sogno.
Sognai di essere davanti ad una finestra chiusa. Dall’altra parte del vetro c’era lui,
non aveva volto, non aveva forma, una macchia indistinta con le
sembianze umane che raccoglieva in sé ogni mia paura; nel mio
sogno sapevo che se avesse voluto sarebbe potuto entrare, che la
maniglia abbassata non era un vero ostacolo per lui.
Continuavo a fissarlo terrorizzata finché non mi rendevo conto
di avere una chiave in mano. Un oggetto antico e lucido. Mi alzavo e
quando l’avvicinavo alla finestra sentivo scattare qualcosa; lui
allungava la mano, allora, e cercava di aprire, ma non poteva, non ci
riusciva.
Quando avevo aperto gli occhi, sapevo che quella
chiave doveva essere lì intorno da qualche parte e mi ero messa
a cercare tra le cianfrusaglie che mia zia aveva accumulato durante la
vita. C’erano buste di vestiti smessi, scatoloni di libri di
quando era andata a scuola; se non avessi avuto tanto bisogno di quella
chiave per il mio equilibrio interiore, mi sarei resa conto che non era
poi tanto diverso dal cercare il profetico ago nel pagliaio. Ma non mi
arresi ed infine la trovai, dentro un porta gioie infondo ad una
scatola piena di decorazioni natalizie. Era appesa ad una catenina
argentata e me la feci passare intorno al collo.
Mi alzai cauta per non sbattere la testa contro il
soffitto troppo basso e mi avvicinai alla porta del sottoscale, come
nel sogno si sentì lo scatto della serratura; allungai la mano
ed abbassai la maniglia, io potevo uscire liberamente, ma lui non
poteva entrare.
Ero andata da mia zia rigirandomi la chiave tra le
dita – la prima volta di quello che sarebbe diventato un vizio.
Lei era in cucina a preparare la marmellata, non si mostrò
stupita nel vedermi, continuò quello che stava facendo.
«Posso tenerla?» le avevo domandato.
Aveva alzato gli occhi e mi aveva studiata.
«Solo se ricominci ad andare a scuola ed a stare nella tua
camera.» avevo annuito. «Aiutami.» aveva continuato
lei. «Sciacqua qui barattoli, tra poco dovrò
riempirli.» mi ordinò continuando a girare la frutta nella
pentola.
Quel giorno, però, avevo anche sentito per la prima volta la sua voce.
‘A diciassette anni, non ci sarà serratura in grado di tenermi lontano da te.’
L’avevo ignorata, ma le mie mani avevano iniziato a tremare.
‘Non lasciarti prendere, Livy.’
Mi sentivo un’estranea. Sempre. Ovunque. Quando parlavo era come
se non fossi io a farlo, quando sorridevo mi chiedevo perché,
quando un ragazzo mi invitava ad uscire non trovavo un motivo valido
per andare. Lo avrei lasciato a diciassette anni, avrei lasciato tutto
a diciassette anni. Niente aveva senso.
Le persone intorno a me si affaticavano, compiti,
interrogazioni, essere popolari, niente destava il mio interesse,
perché niente sarebbe durato. La zia continuava a ripetermi che
c’era ancora la possibilità che andasse tutto per il verso
giusto, ‘Infondo tua madre si è uccisa per questo,
no?’, ma io non ne ero così sicura. Lei non aveva sentito
quella voce, io si.
Quel giorno pioveva, uno deglii ultimi veri temporali prima
dell'estate, probabilmente, e tutti gli altri studenti erano in
fermento alla ricerca di impermeabili, cappucci da alzare, fortuiti
passaggi da chi più lungimirante di loro aveva pensato di
prendere un ombrello.
Io ero china alla ricerca del mio, non ero in
fermento, non avevo fretta, sapevo che l’ombrello c’era, mi
ero vista sotto il portico di casa mia chiuderlo ed infilarlo nel
portaombrelli circa mezz’ora dopo, le mie visioni non sbagliavano
mai. Ma a volte non arrivavano con sufficiente anticipo.
Un bullo in vena di fare dispetti
tira il cappuccio di una compagna, la ragazza si volta sorpresa,
travolgendone un’altra troppo occupata a cercare l’ombrello
sul fondo dello zaino per guardare il mondo che la circonda.
Ci scontrammo in uno sparpaglio di libri e carte con il dorso rigirato.
Si coprì la bocca con la mano sinistra
stupita, come se non avesse idea di cosa fosse successo; era una tipa
bizzarra, una specie di strega new-age simile a quelle che alle
bancarelle vendevano porta fortuna per pochi spiccioli. Era carina,
aveva i capelli scuri, intrecciati troppo mollemente che lasciavano
diverse ciocche ad incorniciargli il viso.
Si chinò a raccogliere le nostre cose ed io
la seguii aiutandola, feci per sollevare una carta, ma lei mi
fermò prima che la toccassi.
«Aspetta!» la guardai sorpresa, lei mi
regalò un sorriso abbagliante, per contrasto con il suo rossetto
scuro i denti sembravano bianchissimi. «Chiudi gli occhi e scegli
quella che ti sembra calda, fredda o ti resta attaccata alle
dita.»
Alyssa Masen, sedicente veggente, leggeva i tarocchi
nei bagni per un dollaro. La conoscevo di fama, non sapevo se fosse
davvero in grado di leggere il futuro, ma per essere sicura che non
leggesse il mio, le stavo alla larga, evitando il bagno dove praticava
la sua arte.
Ritirai le mani come se mi fossi scottata. «Ti
ringrazio, ma meglio di no.» dissi cercando di essere gentile e
chiudendo i pugni per non farle vedere che tremavo.
«Dai!» mi incitò. «È
stagione di balli, non vuoi sapere se ‘lui’ ti
inviterà?» cercò di tentarmi.
Per poco non le scoppiai amaramente a ridere in
faccia. Si, probabilmente qualcuno mi avrebbe invitata, ma io non ci
sarei andata, non guardavo i ragazzi come non avrei guardato un vestito
che non potevo permettermi.
«Non devi avere paura del tuo destino.»
Cento facce, cento Alyssa Masen che
sorridono, in cento versioni e vestiti differenti. «Non devi
avere paura del tuo destino.»
Io lo conoscevo il mio destino e si, mi faceva paura terribilmente.
Ma continuare a dirle di no significava soltanto rimandare quella tortura.
Alzai gli occhi al cielo sospirando, poi li chiusi e
le porsi la carta che avrei voluto raccogliere, quella che lei mi aveva
detto di non toccare; quando li riaprii lei stava sorridendo della mia
testardaggine, ma non appena abbassò lo sguardo il suo sorriso
si spense.
La morte.
Davvero divertente.
Mi fissò sorpresa, ma non spaventata o
mortificata come mi sarei aspettata, sembrava più cha altro
pensierosa. «Tu sei sua.» sussurrò. «Tu
sei…»
«Non importa.» la interruppi bruscamente
raccogliendo un paio di libri senza nemmeno guardarli, il corridoio
scolastico era appena diventato troppo stretto, troppo affollato,
soffocante. Volevo uscire di lì al più presto.
Mi rincorse. «N-non…aspetta!» mi
prese per un braccio trattenendomi, alcuni ragazzi intorno a noi si
fermarono a guardarci, qualcuno tossicchiò un
‘lesbiche’, credendo di essere divertente. «Io,
te…non capisci?» nei suoi occhi c’era una luce, un
qualcosa di febbrile e spaventoso.
Indietreggiai lentamente, poi scappai via sotto la pioggia.
Solo sulla metropolitana mi accorsi di aver preso il
suo libro invece del mio, sfogliai alcune pagine, imbattendomi in
scritte, disegnini, faccine tristi e felici, come i libri di tutte le
ragazze. Trovai anche un segnalibro fatto a mano, un ritaglio di
giornale incollato sul del cartoncino ed avvolto nello scotch,
profumava di cannella; me lo tenni premuto contro il naso per tutto il
tragitto fino a casa, per scacciare l’odore di chiuso e di troppe
persone stipate nello stesso spazio.
Mia zia era in veranda, ricamava qualcosa seduta su
una sedia di vimini; era un’infermiera e nel tempo libero che le
lasciavano il lavoro in ospedale e l’occuparsi di me, si dedicava
a tutti quei passatempi che prevedevano l’uso di ago e filo. Una
volta aveva cercato di insegnarmi, ma con scarsi risultati.
Lanciò un’occhiata speculativa ai miei vestiti zuppi, che
non mi sfuggì, ma non fece domande, questo significava
semplicemente che aveva già le risposte.
«Hai mai pensato ad un lavoretto
estivo?» mi chiese, mentre io mi sedevo su una sedia come la sua.
Sul tavolo davanti a noi mi aveva apparecchiato la merenda: un
bicchiere di limonata e due tramezzini con burro e salmone, i miei
preferiti.
Era una tradizione, lui
le aveva insegnato cosa mi piaceva e lei ne aveva approfittato credendo
di farmi contenta. Trovavo fuori luogo da parte sua che parlasse e
discutesse tranquillamente con qualcuno in realtà tanto
pericoloso per me, come poteva aiutarmi ad essere libera se
fraternizzava con lui?
«Sta arrivando l’estate, avrai tanto
tempo libero. Trovo meraviglioso che lo scorso anno tu abbia passato la
bella stagione a leggere, ma mi piacerebbe vederti fare anche
qualcos’altro.» non risposi, scelsi accuratamente il
tramezzino più bianco e lo addentai, masticando lentamente.
«Potresti anche divertirti, fare amicizia.»
«Claire è la mia migliore amica.»
o almeno così avevo imparato a considerarla, sedevamo insieme
alle lezioni ed a pranzo e parlavamo di cose futili. Il massimo a cui
credevo di poter aspirare.
Nonostante non alzasse gli occhi dal lavoro non mi
sfuggì il suo scetticismo. «Magari un’amica con cui
parlare di tutto…» azzardò uno sguardo mentre
prendevo un sorso di limonata. «tutto.» precisò.
Risi. «E credi che una persona del genere esista?» le domandai sarcastica.
«Credo, che ne avresti bisogno.»
Non fu quello che disse, fu come lo disse. Il tono
pacato e disinteressato, ma allo stesso tempo invitante, stava cercando
di persuadermi. «Non fai prima a dirmi quello che hai
visto?» sbottai secca, odiavo quando si metteva fare certi
giochetti con me. A volte avrei voluto che la smettessimo con la
pagliacciata della vita normale, famiglia normale, amicizie normali.
Vivevo con la certezza di avere poco tempo a disposizione, che la mia
vita non era normale, che mia madre aveva preferito mandare giù
una manciata di pillole piuttosto di vedere la mia ora suonare, che
l’amicizia si fondava sulla sincerità, sul condividere ed
io non avevo nessuna verità da condividere. Non sarebbe stato
molto meglio chiamare le cose con il loro vero nome? La mia vita era
breve e tragica.
«Sai, che non sono brava come te.» mi rispose paziente.
Era vero, per quanto le mie visioni potessero essere
ritardatarie erano precise e nitide. Erano qualcosa di mio e per me,
non avevo mai avuto bisogno di chiarire il loro significato, era come
se parlassero la mia lingua. Quelle di mia zia erano in cinese
mandarino e lei non era affatto una brava interprete, capiva il senso
generale, ma niente dettagli, niente spiegazioni.
«Ti ho vista sorridere. Per davvero, non come
fai con i figli dei vicini quando ti salutano.» si strinse nelle
spalle ed alzò gli occhi dal suo ricamo per fissarmi.
«Secondo me vale la pena tentare.»
Avrei anche potuto farlo, infondo, non avevo molti
impegni che mi occupassero la vita, ma avevo quindici anni. «A
nessuno serve qualcuno tanto giovane.» soprattutto perché
era potenzialmente illegale, dubitavo che la polizia esaminasse i
documenti negozio per negozio di tutti quelli che ci lavoravano, ma
nessuno si sarebbe mai preso un impegno del genere: se mi fossi fatta
male, se fossi anche soltanto inciampata, sarebbero stati problemi.
«Quella ragazza può aiutarti.»
disse con finta nonchalance, lanciandomi un’occhiata veloce per
vedere l’espressione sgomenta sul mio viso.
«Hai visto anche lei?!» domandai incredula ed infastidita che mi rivelasse le cose a rate.
Mi studiò critica per il mio tono.
«Prendi un sorso di limonata, Olivia.» sospirai, ma
obbedii. «Si, ho visto anche lei. Eravate insieme quando tu stavi
ridendo, dalle una possibilità. Ci sono cose che con lei puoi
condividere.»
La sua follia, per esempio.
Mi alzai diretta in camera mia. «Ci
penserò.» bugia. Ci avevo già pensato ed ero
arrivata alla conclusione che: primo, non sapevo dove trovarla fuori da
scuola; secondo, non avevo intenzione di avvicinarla a scuola, mai
più finché non mi fossi diplomata; terzo, confessare
quello che ero ad una persona tanto eccentrica poteva essere
decisamente pericoloso. Quindi, no, grazie.
Non appena varcai la soglia della mia stanza, la
serratura scattò, ma io sbiancai lo stesso. La finestra era
aperta.
Corsi a precipizio a chiuderla ed afferrai la chiave
che mi portavo sempre al collo per sigillarla, non guardai al di
là del vetro, dopo quella visione – che mi aveva aiutata,
ma anche terrorizzata – avevo sviluppato una paura cieca per
quello che poteva esserci dall’altra parte di un vetro; quindi,
non appena fui sicura che lui non potesse entrare, tirai bruscamente la
tenda. Deglutii con il cuore in gola e mi voltai a studiare la mia
camera con il terrore che fosse troppo tardi, che lui fosse già
entrato; un brivido caldo e freddo mi si addensò dietro la nuca,
ricoprendomi improvvisamente la schiena di una patina di sudore.
Ma la mia stanza era vuota.
Lasciai la borsa sul letto e scivolai a
sedere con la schiena contro la porta; lì ero nascosta dietro
l’armadio, io non potevo vedere la finestra, non avrei visto
nessuna ombra indistinta dalla forma umana, e se ci fosse stato
qualcuno non avrebbe potuto vedere me. È stata solo la zia, per cambiare aria. Quando ci sono io è sempre tutto chiuso. Ma il mio cuore martellava insistentemente nel petto, come un tamburo di morte.
‘Non lasciarti prendere, Livy.’
La mia borsa si aprì lasciando cadere i
libri, anche quello che avevo preso per sbaglio ad Alyssa Masen,
magari non volevo ascoltare il consiglio di mia zia, ma in ogni caso
quel testo andava restituito; lo recuperai chiedendomi se non potessi
essere tanto fortunata da trovare il suo indirizzo o numero di telefono
scritto all’interno della copertina. Non lo scrivevo mai nemmeno
io, anche se il primo giorno di scuola tutti i professori ci invitavano
a farlo, proprio in previsione di incidenti come quello.
Ma quando lo sollevai un cartoncino rotondo si
sfilò dalle pagine e rotolò sotto il mio letto. Gattonai
più vicina ed allungai una mano per recuperarlo. Era un sotto
bicchiere di quelli che usavano i pub per proteggere i tavoli, da un
lato c’era stampato il nome del locale: ‘Draw Cuts’.
Feci una smorfia, ‘tirare a sorte’, davvero simpatico.
Me lo rigirai tra le dita, dall’altra parte
scarabocchiato a penna c’era il messaggio che avrebbe cambiato
tutto la mia vita.
‘Cercasi perennemente personale, perché
ci piacerebbe barattare Sebastian con un cameriere vero.’
Un ragazzo alto e moro, i capelli
lunghi fino alle scapole ed intrecciati in lunghi dreadlocks; sorride
ad Olivia accanto a lui ed Olivia non riesce a staccargli gli occhi di
dosso perché ha un sorriso bellissimo. Dice qualcosa, qualcosa
che la fa arrossire, poi si sporge verso di lei e la bacia.
Mi scrollai da quella visione, metà imbarazzata e metà
eccitata e tornai a studiare il dischetto di cartone che avevo tra le
mani; la calligrafia veloce, ma chiara che aveva scritto il messaggio.
Il ‘Draw cuts’.
Il libro di Alyssa Masen avrebbe dovuto aspettare, ma zia Phoebe sarebbe stata contenta.
che vi dico?
vi posso dire che se le mie capacità di sintesi sono leggermente
accettabili nel prossimo capitolo dovrei riuscire a spiegarvi
qualcosa...no, non ci contate, ho una visione nel quale continuo a
scorrere pagine e pagine...e pagine e pagine di Word...
in ogni caso, anche dovessi dividere in due il capitolo 1.2 - che
diventerebbe il capitolo 1.2 prima parte...no, non chiedetemi
perchè chiamarli come tutte le persone normali mi faceva
così schifo...non lo so - ci sarebbe qualcosa di interessante da
leggere...
come cosa? il figo della situazione!
chiunque si sentirà così coraggioso da recensirmi verrà ricordato nelle mie preghiere!
baciconfusiquantovoi!
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Capitolo 3 *** Capitolo 1.2 - prima parte ***
olivia
fragolottina's time
mie care lettrici, come potete vedere sono stata profetica...quindi, no, niente spiegazioni...
ma nel prossimo si, ve lo prometto...
comunque per compensare la mancanza di una trama intellegibile, vi
presento un paio di personaggi fondamentalissimi! quindi ricordateveli
bene ed iniziate a volergli bene...
vi dico più giù...
CAPITOLO 1.2 – prima parte
Chiesi a mia zia se sapesse dov’era il locale ed anche se feci di
tutto per sembrare relativamente disinteressata, evidentemente non
riuscii ad essere abbastanza riservata da impedirle quel sorrisetto
alla ‘Te l’avevo detto’. Non ero del tutto sicura che
fosse una buona idea, se, come io ipotizzavo, era proprio lui
a far sì che sia io che mia zia vedessimo, probabilmente cercava
di guidarmi verso la strada che mi avrebbe più facilmente spinto
nella sua gabbia: naturale. Ma non potevano essere tutte sue
concessioni, altrimenti non mi avrebbe lasciato scoprire la chiave per
tenerlo lontano da me.
Mi massaggiai le tempie con le dita affranta, a
volte era così difficile capire quale fosse la cosa migliore da
fare. Mi guardai intorno, alcune persone mi osservavano curiose dai
sedili della metropolitana; cercando di darmi una ricomposta e sembrare
più normale, frugai nella mia borsa e ne estrassi il dischetto
di cartoncino prelevato dal libro di Alyssa Masen. Lo avvicinai al naso
con una sorte di incosciente intuizione: anche quello profumava di
cannella, doveva aver assorbito il profumo del segnalibro.
Zia Phoebe mi aveva spedito in periferia, in
confronto a dove abitavo io sembrava proprio un altro mondo; con lo
stipendio da infermiera e l’assicurazione sulla vita, che mamma
si era premurata a lasciarmi, potevamo permetterci una bella casetta
nella zona residenziale della città. Era come quelle dei
telefilm: bianca, con due piani e la mansarda, il giardino sul davanti
e la staccionata di tavole bianche. Uguale ad altre mille case in quel
quartiere.
Dove mi trovavo, quando sbucai fuori dal
sottopassaggio della metropolitana, non c’erano casette,
né giardini. C’erano palazzi. Altissimi ed austeri,
appartamenti ammassati uno sopra l’altro come tante scatole. Mi
guardai intorno non sapendo esattamente dove dirigermi, mi sentivo un
po’ persa; come Alice nel paese delle meraviglie, presi a
scrutare tutto alla ricerca di un Bianconiglio che mi guidasse, o di
una visione che mi desse un indizio.
Niente. Forse lui non voleva che ci andassi. Se era così dovevo assolutamente raggiungerlo.
Chiesi informazioni ad una signora che spingeva una
carrozzina e lei mi disse di continuare in quella direzione e che
presto avrei trovato un’insegna. Seguii il suo consiglio
superando una chiesa gotica, mi fermai per un secondo a guardare
l’enorme rosone colorato, all’interno era troppo buio
però perché riuscissi a distinguere il disegno; per un
secondo pensai di entrare e dare un’occhiata, ma guardandomi in
giro mi accorsi che il sole stava già tramontando ed io dovevo
essere a casa quando faceva buio.
L’insegna era al di là di un incrocio
che provvidi ad attraversare. Mi fermai a studiarla, era scolorita e
vecchia, ma si poteva ancora riconoscere il logo – due dadi
lanciati – il nome ed una freccia che indicava a
sinistra; alla mia sinistra c’era un vicolo deserto e
dall’aria non molto confortante. Osservai il sole sempre
più basso nel cielo, chiedendomi quante ore di luce avessi
ancora a disposizione e quanto ‘a sinistra’ fosse quel
locale; forse sarebbe stato meglio tornare il giorno dopo, feci per
rigirarmi e tornare alla metro, ma sospirando rimasi a guardare quel
vicolo.
Non mi sarebbe mica successo niente di male, no?
Infondo, era una strada come un’altra, solo un po’ meno
frequentata. Se per una volta avessi tardato un pochino a rientrare non
sarebbe stata di certo la fine del mondo, avrei chiamato la zia quando
fossi stata sulla metropolitana avvertendola che ero in arrivo e che
non doveva preoccuparsi.
Si, avrei fatto così.
All’inizio cercai di evitare le pozzanghere,
poi mi arresi, la strada era tutta dissestata e il temporale di poco
prima l’aveva fatta sembrare una specie di palude; sospirando mi
chiesi perché non poteva essere in centro, vicino al mio negozio
preferito di vestiti, o nel centro commerciale, niente acqua lì.
Guardai da entrambi i lati del vicolo con apprensione e sovrappensiero
cercai la mia chiave stringendola come la mia personale ancora, era
fredda, come sempre, per quanto stesse a contatto con la mia pelle non
si scaldava mai.
Una ragazza castana di spalle, con i
capelli legati in cima alla testa in un coda di cavallo. Una borsa le
pende dalla spalla sinistra fin sotto il sedere, indossa una giacca a
vento impermeabile ed un paio di jeans troppo lunghi resi più
scuri sul fondo dall’acqua.
Rallentai incerta e mi guardai, quella ragazza ero io.
Aguzzai le orecchie ed iniziai a sentire il tonfo di
passi alla mie spalle, qualcuno mi seguiva. Il battito del mio cuore
fece una capriola spaventata, iniziando a bussarmi nelle orecchie come
se volesse urlarmi la sua apprensione: grazie tante, ma sono anche io
preoccupata.
Deglutii, ma continuai a camminare, in ogni caso non
c’era molto altro che potessi fare; di persone, non ce
n’erano e se fossi tornata indietro gli sarei solamente andata
incontro. Avrei trovato il locale, una volta attraversata la soglia lui non sarebbe potuto entrare e se non fosse stato lui,
comunque ci sarebbe stato qualcuno a cui chiedere aiuto. Dovevo solo
raggiungere il ‘Draw Cuts’ prima che chiunque avessi alle
spalle, raggiungesse me.
Iniziò a fischiettare un motivo che
conoscevo, un pezzo che facevano sentire molto spesso alla radio;
saperlo così sicuro di prendermi da fischiettare e continuare a
camminarmi dietro tutto tranquillo non mi rendeva molto felice,
ma…
‘Draw Cuts’. Guardai l’insegna
sopra la porta incredula, l’avevo raggiunto, ce l’avevo
fatta. Mi avvicinai e provai ad abbassare la maniglia, per impallidire
subito dopo: era chiuso. Provai ancora, bussai sul vetro sbirciando
all’interno, ma era tutto buio ed a quel punto io ero…
Chiunque mi stesse seguendo si fermò dietro di me.
Continuai a fissare con un nodo in gola il cartello
con gli orari di apertura che sembrava deridermi, era un locale
notturno ed io ero in trappola.
Sentii uno scatto, qualcosa che avrei dovuto
riconoscere, ma che la mia mente troppo spaventata non riusciva a
collegare. «Stupidissimi cosi!» sbottò una voce
seccata.
Mi lanciai una cauta occhiata alle spalle e lo vidi.
Era il ragazzo della mia visione che inveiva contro un accendino, per
poi tirarlo lontano da lui indispettito. Indossava una giacca di pelle
nera, sportiva, sotto lasciava vedere una maglietta verde militare;
aveva un paio di pantaloni molto larghi e molto consumati, tanto da
farmi trovare sorprendente che non si fossero ancora strappati. Rimasi
a guardare all’altezza delle sue ginocchia, scoprendo che in
effetti erano strappati.
«D’ora in poi solo fiammiferi.» borbottò tra sé.
Non potevo sbagliarmi, quante persone avrei potuto
incontrare con tutti quei dread? E comunque…no, non potevo
sbagliarmi era senz’altro lui ed era…bello. Aveva gli
occhiali, questo non l’avevo visto, ma non rovinavano affatto la
sua immagine…no, per niente.
«Ciao.» mormorò studiandomi
pensieroso, con la sigaretta ancora spenta che gli pendeva dalle labbra.
«C-ciao.» balbettai in risposta.
«È chiuso.»
Deglutii, avevo ancora una mano sulla maniglia e la
stavo stringendo in modo spasmodico, ma la paura mi stava scorrendo
nelle vene al posto del sangue, densa e paralizzante, ed avere a che
fare con il lui che stavo cercando – e non quello che cercava me
– non era proprio la cosa che più mi avrebbe calmato.
Si avvicinò a me cauto e si tolse di bocca la sigaretta, continuando a fissarmi. «Ti senti bene?»
«Io…io c-c-credevo…» eddai, Olivia! Lo osservai affranta.
Lui si avvicinò ancora e strattonò la
mia mano. «Lascia.» alzai il viso per guardarlo, lui lo
stava già facendo. «Su, da brava, ragazzina.» mi
tolse un dito alla volta, poi mi sistemò il braccio lungo il
fianco. «Ecco, bravissima.» continuava a parlarmi con una
strana voce rassicurante come se si trovasse davanti qualcuno con
evidenti problemi mentali.
«Ehi!» sbottai infastidita.
Lui ridacchiò. «Ho una visione.»
annunciò, posandosi una mano sugli occhi e lasciando vagare
l’altra come davanti ad un sfera di cristallo, lo fissai attenta
e curiosa. «Tu sei senz’altro un’amica di mia
sorella.» sospirò. «Che avrete in quella
testa…» cercò nelle tasche e tirò fuori un
mazzo di chiavi tintinnante. «Cos’è sei arrivata in
ritardo per il ritrovo pomeridiano?»
«Non conosco tua sorella.» alla fine
c’ero riuscita a dire una frase completa e di senso compiuto,
avevo mormorato, ma non importava.
«Ah, no?» mi prese in giro. «Non
sei qui per chiederle se il bello della situazione ti inviterà
al ballo, quindi?» mi domandò ironico appoggiandosi allo
stipite, provocatorio ed in attesa di mie spiegazioni.
«Oddio!» e non ci voleva assolutamente
una visione per collegare tutto. «Alyssa Masen è tua
sorella.» sgranai gli occhi incredula.
«Già…» esclamò lui tornando a trafficare con la porta.
Oh, sicuramente stava pensando che ero una di quelle
disperate, pronte a dare un dollaro per farsi sfogliare un mazzo di
carte, che cosa patetica. «Ma io non sono qui per
lei…» mi sbrigai a giustificarmi. «io sono
qui…» mi lanciò un’occhiata curiosa, non
potevo mica dirgli che ero arrivata fin lì per cercare lui.
«Guarda che non devi vergognarti.»
scosse la testa sorridendo. «Non di me, almeno…» mi
fece un cenno con la testa invitandomi a precederlo e si strinse nelle
spalle. «sono il fratello della ‘sensitiva’.»
Risi passando sotto il suo braccio che mi teneva
aperta la porta. «Ma non sono qui per quello.» ripetei
ancora.
«No, no, certo.» acconsentì sarcastico, seguendomi e chiudendosi la porta alle spalle.
Il locale non era del tutto vuoto, infondo alla sala
principale, illuminato da una candela, c’era un tavolo e sedute a
quel tavolo due ragazze chine a sbirciare qualcosa; in piedi, a qualche
passo di distanza da loro, una terza persona aspettava con le mani
incrociate sul petto, fingendo di non ascoltare quello che dicevano.
«Aly, ce n’è un’altra.» la avvertì il fratello.
Lei sollevò il viso e fissò me
immediatamente. «Finalmente!» esclamò alzandosi in
fretta e venendo nella mia direzione, avevai capelli sciolti in quel
momento e le scivolavano come un'onda morbida e nera fino ai gomiti.
«Signore…» chiamò le sue due
‘clienti’ superandola. «le sedute sono
sciolte.» mi raggiunse prendendomi la mano calorosamente.
«Sono contenta che tu sia passata.» mi guardai intorno
perplessa, ma suo fratello era andato dietro un bancone da bar e
parlottava con un altro ragazzo indicandomi e…oh,
fantastico…ridendo.
«Non è giusto, Alyssa, ho aspettato mezz’ora!»
Lei alzò gli occhi al cielo sospirando, poi
si voltò e le lanciò un’occhiata. «Tu non
vuoi che Benjamin Stuart inviti Sally, giusto?» le domandò
partecipe. «Ma potrebbe succedere se mi fai innervosire.»
Per un po’ continuarono a guardarla, poi capirono che lei non aveva niente da perdere, mentre loro, si.
Aspettò che si chiudessero entrambe la porta
alle spalle, prima di tornare a prestarmi davvero attenzione, mi fece
l’occhiolino complice, mentre io continuava a studiarla a dir
poco…stupita? Decisamente un eufemismo. «Sistemiamo le
cose qui, poi andiamo a fare due chiacchiere più in solitario,
che dici?»
«Ecco, io veramente…» non impazzivo dalla voglia di rimanere troppo sola con lei.
«Sapevo che saresti stata
d’accordo!» annuì tirandomi verso il bancone, quando
fummo davanti si schiarì la voce ed entrambi i ragazzi smisero
di fare quello che facevano per ascoltarla. «Maxi, Sebastian, vi
presento Olivia Mulligan.»
Maxi alzò gli occhi al cielo sospirando.
«Perché ho il presentimento che quello che dirai non mi
piacerà?» le domandò il fratello.
«Benvenuta al ‘Draw Cuts’,
cara.» mi sorrise gentile l’altro porgendomi la mano, era
il tipico ragazzo dai capelli rossi: pelle pallidissima, occhi
verdissimi e tante, tante, tante lentiggini; non poteva definirsi
propriamente bello, quello che aveva in mezzo al viso era decisamente
un naso molto importante, ma aveva l’aria simpatica. «Io
sono Sebastian.»
«Ciao.» risposi intimidita stringendogliela, cos’altro avrei potuto fare a quel punto?
«Bene…» esordì Alyssa.
«fatte le presentazioni posso annunciarvi che da questo fine
settimana lei lavorerà qui.» tutti e due la fissarono
increduli, troppo stupiti per dire qualsiasi cosa. «Ora dovresti
proprio tirare fuori quel sotto bicchiere.» mi suggerì in
un bisbiglio.
«Oh…» mi chinai iniziando a
frugare nella mia tracolla, rimescolai il suo contenuto per un bel
po’ prima di tirare fuori quel cartoncino e posarlo sul piano del
bancone.
Maxi sbuffò. «Lo vedi, Seb, in un modo
o nell’altro è sempre colpa tua!» lo
rimproverò dandogli un colpetto dietro alla nuca. «Alyssa,
sorellina…» iniziò. «sii ragionevole, forse
un altro barista ci serve sul serio, ma lei…» mi
studiò sospirando. «non che abbia qualcosa contro di te,
insomma, come vedi le psicopatiche sono ben accolte, ma…»
«Ehi!» sbottai ancora, non ero
psicopatica…poco convenzionale diciamo, ma la mia psiche era
perfetta…beh, insomma.
«Maxi, fratellone…» sorrise
Alyssa tutto miele. «se non accetti tu, che gestisci,
chiederò a Diego, che è il proprietario.»
«Fregato!» lo prese in giro Sebastian ridendo.
Lui chinò la testa all’indietro
piagnucolando e si lasciò andare ad un momento di sconforto, poi
si risollevò risoluto. «Guarda, che è il locale di
tuo padre, dovresti essere molto più preoccupato di me.»
Il ragazzo si strinse nelle spalle senza staccare
gli occhi da Alyssa. «Sai, che a casa mia non dubitiamo mai delle
sue parole.» lanciò un’occhiata a Maxi. «Tanto
vale che le trovi qualcosa da fare, mio padre non la contraddirà
mai.»
«Ok, ok.» fece il giro del bancone e si
sedette su uno sgabello, facendomi cenno di accomodarmi in quello
vicino. «Sebastian e Alyssa, intanto iniziano ad apparecchiare i
tavoli, io faccio finta di farti un colloquio.»
Seguii con lo sguardo Alyssa avvicinarsi ad un
mobile e tirare fuori un pacco di tovagliette di carta e tovaglioli,
mentre Sebastian iniziava a tirare giù le sedie.
«Dunque, il tuo nome.»
«Olivia Mulligan.»
«Quanti anni hai?» si coprì gli occhi con la mano spaventato dalla mia risposta.
«Ehm…» deglutii. «Sedici.»
Mi lanciò un’occhiata scettica
sollevando la mano. «C’è scritto così sulla
tua carta d’identità?» feci per rispondere, ma lui
mi bloccò. «No, lascia stare. Non dirmelo.»
sospirò appoggiandosi con un gomito al bancone.
«C’è qualcosa che sai fare per la quale potresti
tornarmi utile qui?» mi chiese speranzoso, ma io scossi la testa.
Magari avevo anche qualche capacità nascosta, ma visto che fino
a quel momento era rimasta inutilizzata, non ne ero a conoscenza.
Si morse il labbro iniziando a giocherellare con il
sottobicchiere che avevo portato io, nonostante i dread, il suo profilo
appariva comunque dignitoso ed in qualche modo, nobile. Era nei suoi
occhi, nelle sue mani, negli occhiali dalla montatura pesante; qualcosa
che sapeva di sacrificio, forza di volontà e orgoglio.
Affascinante. Era un libro senza copertina e consumato, anche se non
potevi sapere di cosa trattasse, doveva essere interessante se qualcuno
l’aveva letto così tante volte da ridurlo in quel modo.
«Hai meno di sedici anni. Non puoi vendere
alcolici, figurarsi berli, in realtà non potresti nemmeno
lavorare.» sospirò. «Ma Diego ti dirà di
sì se glielo chiede Alyssa e chissà cosa ti farà
fare.» rifletté sconsolato e la guardò.
«Posso impegnarti con quello che fa lei: apparecchi e ripulisci.
Durante la settimana mi basta che vieni per un’oretta, in modo
che quando apriamo è tutto pronto, ma nel weekend
c’è più gente, devi stare qui e liberare i tavoli
man, mano che la clientela viene e va. Dovrai anche darci una mano a
servire ai tavoli se siamo con l'acqua alla gola.» alzò
gli occhi su di me. «Che ne pensi?»
Non c’avevo pensato, non davvero. Non ero
venuta per un lavoro, ero venuta per lui, perché l’avevo
visto baciarmi e perché io non avevo mai baciato nessuno.
No…però io conoscevo il sapore dei baci…non lo ricordavo, ma lo conoscevo…
«Oddio, ti fissi proprio come lei!» mi
schioccò le dita davanti agli occhi. «Sveglia,
ragazza!»
Scossi la testa tornando al punto della situazione. «Si…va bene…»
«Ottimo. Cominci tra due giorni, dopo fatti dare il modulo per il consenso dei tuoi genitori.»
«Non ha genitori.» ci raggiunse la voce
di Alyssa, tragicamente mi stavo abituando al fatto che in qualche modo
avesse un filo diretto per curiosare nella mia vita.
Maxi mi studiò per un lungo momento
pensieroso. «Mi dispiace.» si scusò. «Io non
potevo sapere a differenza di lei.»
Sorrisi. «Non è niente.» risposi ad occhi bassi.
«No.» lo guardai, ma la sua espressione
mi parve indecifrabile. «Non è vero.» disse
convinto. «Comunque, mi serve la firma del tuo tutore
legale.»
Annuii, mia zia non avrebbe fatto storie, era stata lei a mandarmi lì.
Alyssa ci raggiunse trotterellando contenta.
«Lei ha fatto, io finisco dopo.» mi prese la mano, era
più calda di me, ma presto mi ci sarei abituata. «Dobbiamo
andare a discutere di alcune cose, ma torno presto.»
«Fammi indovinare, a raccontarle cosa
c’è nel suo destino?» domandò ironico il
fratello.
Ma lei scosse la testa sorridendo. «Lei cosa c’è nel suo destino lo sa già.»
E stranamente la cosa non mi rendeva felice quanto lei.
è carino
Maxi...ed io iniziavo ad aver voglio di parlare di qualcuno di
diverso...e poi, dai, sono l'unica a pensare che gli outsider siano
affascinanti?
spero di no.
vogliate bene ad Alyssa, al suo essere vagamente logorroia e svampita, perchè io gliene voglio molto...
che altro vi posso dire?
mm...
ah, beh, naturalmente nel prossimo capitolo che parleranno loro due vi
racconto un po' di che bestia bizzarra è Olivia...prima o poi
doveva succedere...
prima che lo scopriate o che iniziate a chiedermelo...uff, si è
grande anche Maxi, non tantissimo, ma mi sa che siamo di nuovo sugli
otto anni più di Alyssa e Olivia...non c'è un motivo
preciso, ma nella trama - che non sembra, ma vi assicuro che esiste -
mi funziona così...sennò poi dopo non mi si incrociano le
cose...
va beh...
per eventuali domande fatemi sapere...
baciconirasta!
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Capitolo 4 *** Capitolo 1.2 - seconda parte ***
olivia
fragolottina's time
...ma non li potevo chiamare capitolo 1 2 3...etc... no, capitolo 1.2-seconda parte...bah!
tornando a noi...questo capitolo mi piace abbastanza...soprattutto la
parte finale...ve lo avevo già detto che sono un po' sadica,
vero?
comunque ci vediamo più giù, va!
CAPITOLO 1.2 – seconda parte
Alyssa Masen era pazza sul serio.
«Attenta!» le urlai mentre attraversava
la strada, ignorando del tutto quella buona regola che invitava a
controllare a destra e sinistra prima di farlo.
Si fermò nel centro esatto delle due corsie,
beccandosi schiamazzi ed urli da parte di tutti gli automobilisti.
«Cosa c’è?» mi domandò stringendosi
nelle spalle.
Sospirai, era tutta colpa di mia zia e sarei stata
ben lieta di sottolinearlo quando fossi tornata a casa…sempre
che riuscissi a sopravvivere, cosa tutt’altro che scontata.
Dopo aver controllato, la raggiunsi e la tirai per
un braccio, perché si togliesse da lì in mezzo.
«Non capisco perché ti preoccupi tanto, non mi avrebbero investita.»
Sbuffai. «Perché l’hai
visto?» chiesi sarcastica, da come si comportava sembrava che le
sue visioni fossero l’unica legge che seguisse.
Annuì tutta sorridente ed io la studiai
incredula, la follia era molto radicata in lei. Ok, le visioni, nemmeno
io le mettevo in dubbio, ma…non è che volessi verificare
la loro veridicità rischiando che un camion mi passasse sopra.
Tutti gli esperimenti, andavano eseguiti in sicurezza.
«Ci prendiamo una cioccolata calda?» mi offrì.
Piegai la testa osservandola. «Non è un
po’ troppo…primavera?» dissi guardandomi intorno.
Scrollò le spalle e mi prese la mano per
tirarmi verso un bar. «Aspettiamo che si freddi.» rispose
pratica.
Era pazza. Pazza, pazza.
Sedute su una panchina davanti ad un campetto di
pallacanestro, aspettavamo pazienti che le nostre cioccolate calde si
freddassero; osservai i giocatori, erano ragazzini più piccoli
di noi e dalle loro espressioni sembrava che ne andasse della loro
vita. Nemmeno fucilassero i perdenti.
«Raccontami.» mi invitò,
sistemandosi il fazzoletto nero che portava annodato al polso. Era la
cosa più normale che indossasse. Il suo abbigliamento consisteva
in una gonna di jeans appena sopra il ginocchio, con le gambe fasciate
in spesse calze a righe multicolori ed un paio di scarponcini viola
come il piumino.
«Cosa? Sai, già molto della mia
vita.» obbiettai fredda, mentre paragonavo il suo look al mio:
tutta colorata come si trovava, era di certo più interessante di
me, lei era in technicolor, io in bianco e nero.
Sorrise. «Sono curiosa di lui, cosa ha fatto per te?»
Le lanciai un’occhiata amaramente divertita.
«Ha ucciso mio padre ed ha fatto suicidare mia madre.» lei
rimase zitta e stupita, finalmente. «Non è una cosa bella.
Non so perché tu ne parli e ti comporti come se lo fosse.»
sospirai e la guardai apertamente, dispiaciuta per la sua espressione
sempre più terrea; non mi piaceva parlare della mia famiglia per
ovvi motivi, ma quello sfogo non era per lei, così cercai di
rendere il mio tono di voce meno aggressivo. «Lui vuole
incatenarmi da qualche parte e tenermi a sua disposizione.» mi
frugai sotto la giacca e tirai la catenina della mia chiave per
mostrargliela. «Posso tenerlo lontano da me finché non
avrò diciassette anni. Poi addio scuola, addio lavoro, addio tu,
tuo fratello e chiunque incontri.» addio Olivia.
Alyssa era sconcertata. «Perché
dovrebbe volere te come sua schiava?» domandò senza capire.
Scossi la testa. «Non lo so. Per come la vede
mia zia, mamma pensava che avrebbe fatto di me la sua
amante…» deglutii. «che io lo voglia o no.»
non era una bella prospettiva, non avevo mai baciato un ragazzo,
figurarsi farci l’amore e se mia madre si era suicidata con la
speranza di riscattarmi, dubito che la Morte le avesse detto che
sarebbe stato l’apice della mia felicità.
Si coprì la bocca con la mano. «Ma
è una cosa orribile.» mormorò con partecipazione.
«Già…» scoperchiai il
bicchiere della mia cioccolata e ne bevvi un sorso, non mi andava, ma
era un ottimo diversivo; la mano mi tremava mentre lo facevo, forse ero
un po’ meno stoica ed indifferente di quanto avrei voluto.
«Mi dispiace.» si scusò.
«Io non sapevo…non potevo sapere!» precisò
più decisa. «Tutte le visioni che ho avuto mi hanno
portato benefici: quando mia madre è andata in overdose,
l’ho visto ed ho potuto chiamare l’ospedale…»
si fermò per un secondo, mentre io assimilavo che sua madre era
una drogata. «era troppo tardi, ma se non l’avessi fatto,
Maxi non avrebbe saputo niente ed io non lo avrei conosciuto.»
Conosciuto? Non era suo fratello? Tuttavia ritenni
di cattivo gusto fare una domanda tanto personale a qualcuno che
conoscevo tanto poco; non che lei mi usasse la stessa premura, ma in
ogni caso io non ne ero capace. Odiavo così tanto che mi
chiedessero della mia vita, da cercare di risparmiare a chiunque lo
stesso impaccio.
«Ed anche quando mi sono vista a
l’ippodromo. Se non ci fossi andata, non avrei mai incontrato
Diego, non gli avrei suggerito il cavallo vincente, aiutandolo con i
suoi debiti e lui non avrebbe offerto la gestione del suo locale a mio
fratello per ringraziarmi. Sarei in una casa famiglia
ora.»
Evitai il suo sguardo per tornare a prestare
attenzione alla partita con qualcosa di fastidioso all’altezza
del petto: invidia. Perché con lei era stato carino e amorevole
e con me no?
«Credi che voglia la stessa cosa anche da me?» mi chiese.
La guardai e per un attimo fui sul punto di dirle di
no, perché avrei dovuto distruggere la sua felicità con
nefaste previsioni per il futuro? Perché avrei dovuto
spaventarla? La realtà era che io non lo sapevo, magari lei era
solo un suo capriccio, tipo un criceto del quale aveva voluto prendersi
cura.
Scossi la testa dispiaciuta e decisi di essere sincera. «Non lo so.»
Per alcuni secondi rimanemmo entrambe in silenzio,
troppe concentrate sulla partita per essere credibili; tutte due troppo
perse nel nostro destino in realtà.
«Qual è il tuo libro preferito?»
mi domandò, le lanciai un’occhiata interrogativa per
sapere se stesse dicendo sul serio. «Lui è uno specie di
dio, il figlio della Morte o qualcosa del genere, lo sai, vero?»
annuii e lei si strinse nelle spalle. «Se lui fra due anni
verrà a rapirci e portarci all’inferno, tipo Persefone o
roba così, non potremmo farci niente.» sembrava svampita,
ma forse non lo era tanto quanto appariva. «Ma se fra due anni
saremo insieme…» continuò con un sorriso.
«sarà più semplice, non credi?»
Era una proposta di amicizia, lei voleva che fossimo amiche.
Feci una smorfia, era una sfida molto dura, dovevo
averne almeno mille di libri preferiti. «’Orgoglio e
Pregiudizio’ è troppo banale?» le chiesi andando
incontro al suo impegno di alleggerire l’atmosfera, tutto quello
che aveva detto era vero.
«Jane Austen non è mai banale. Il mio è ‘I Demoni’.»
Aggrottai la fronte. «Di chi è? Non l’ho mai letto.»
«Dostoevskij, se vuoi te lo presto.» mi propose.
Per alcuni secondi rimasi troppo sbigottita per
pensare che lei leggeva Dostoevskij, il lungo, immenso, colossale,
Dostoevskij…coraggiosa. «Film preferito?» le chiesi
io.
«Il mistero di Sleepy Hollow.» rise.
«Prima che tu me lo chieda, si. Ho una cotta stratosferica per
Jhonny Deep.»
Risi anche io. «Beh, Jhonny Deep è
Jhonny Deep. A me piaceva Heat Ledger, sto ancora cercando un
sostituto.»
«Oh…» sospirò affranta.
«mi è così dispiaciuto quando è
morto.» il suo dispiacere per quel particolare evento,
però, durò appena un battito delle sue lunghe ciglia
indurite dal mascara. «Lo guardi ‘Teach me*’?» mi chiese elettrizzata, molto elettrizzata, cosa che mi fece capire che conosceva già una risposta.
Strizzai gli occhi ridendo imbarazzata. «Mi
sono scaricata puntata per puntata.» era banale e poco
realistico, insomma, quale professore era tanto sexy, tanto
affascinante, tanto divertente, tanto sagace, tanto intelligente e,
soprattutto, tanto innamorato di un’alunna? Avevo visto la prima
puntata perché ne parlavano tutti, fermamente convinta della
scemenza della serie e di chi la seguisse. Successivamente si era
scoperto che ero anche io una scema e che mi ero innamorata anche io
dell’eroe della situazione, nonché del telefilm,
ovviamente.
«Visto?» esclamò lei contenta. «Abbiamo trovato un punto di incontro.»
«Cameron Wilde.» era così che si chiamava il protagonista maschile.
Per un paio di secondi rimanemmo a fantasticare entrambe su di lui.
«Potremmo guardarlo insieme qualche volta.» mi invitò.
Annuii osservandola, era una cosa così
normale che quasi mi stupì, ma mi scaldò anche. Mi
sarebbe piaciuto sul serio.
Ci separammo davanti al sottopassaggio della metropolitana, ci
separammo da amiche, anche se non lo eravamo ancora, entrambe sapevamo
che lo saremmo diventate: la zia l’aveva visto, Alyssa
l’aveva visto e…beh, si anche io l’avevo visto. Mi
abbracciò calorosamente – Alyssa Masen era una grande fan
dei contatti fisici – e mi resi conto che anche lei profumava di
cannella.
«Allora, ci sentiamo.» mi disse con un
sorriso indicando il suo cellulare, sul quale poco prima avevo scritto
il mio numero.
Annuii facendole cenno con la mano prima di scendere.
Feci appena in tempo a saltare sul vagone, per
fortuna avevo l’abbonamento, altrimenti avrei dovuto aspettare il
prossimo ed io odiavo aspettare sulla banchina di notte, perfino quando
ero con la mamma; con tutta la gente che c’era stipata riuscire
ad infilarmi una mano in tasca, recuperare il cellulare e comporre il
numero di mia zia non fu affatto semplice, ma alla fine riuscii nella
mia missione e la avvisai del mio ritardo, fornendole anche una rapida
spiegazione del perché.
«Non preoccuparti, ma ora vieni a casa, non mi piace saperti in giro di buio.»
Nemmeno a me, quindi avevo tutta l’intenzione di rispettare il suo volere.
Mentre me ne stavo lì in piedi ad aspettare
che raggiungessimo la mia fermata, pensai ad Alyssa, al fatto che la
sua vita non era stata molto facile, né la sua infanzia allegra
se la madre era morta per overdose; trovavo incredibile che nonostante
quella serie di cose molto brutte, molto tristi e molto dure da
superare lei sembrasse così vitale. Mi chiesi se io non
esagerassi, confrontate alle sue tragedie le mie erano molto meno
drammatiche; mio padre era morto in un semplice incidente
automobilistico: un tizio non si era fermato al rosso. Certo, sia io
che mia madre avevamo sempre pensato allo zampino di lui,
ma era stato comunque un incidente. Ed anche il suicidio della mamma,
beh, non era stato molto peggio dell’overdose della madre di
Alyssa, anzi, visto che lei aveva inghiottito una manciata di pillole,
erano decisamente simili.
Era evidente che Alyssa fosse più forte di me e che io fossi una piagnucolona. Chissà forse lui mi aveva spedito lì per distruggere la mia autostima.
La vocina preregistrata della metropolitana mi avvisò che ero arrivata.
Scendere dalla metro fu complicato per colpa
dell’affollamento, qualcuno che stava entrando mi
strattonò la giacca ed i capelli, scusandosi un secondo dopo;
gli feci un mezzo sorriso, consapevole che in certe situazioni era
difficile rispettare l’altrui fisicità.
Henry Douborn fa tre passi nel vagone
e controlla cauto quello che è riuscito a strapparle. Dal collo
della sua giacca aperta aveva visto luccicare qualcosa ed aveva sperato
in una collana: la catenina non deve avere un grande valore, non
è nemmeno sicuro che sia argento, ma quello che c’è
appeso gli fa ben sperare. Una chiave. Sembra antica e sembra argento e
se la pietra che vi è incastonata è vera, potrebbe aver
trovato qualcosa per cui valga la pena di andare al banco dei pegni
perfino in taxi.
La mia chiave.
Mi voltai a guardare le spalle nascoste sotto un
giubbotto di jeans, mentre mi portavo una mano alla gola come in
trance, con l’assurda speranza di trovare la mia catenina,
speranza vana: aveva rubato la mia chiave.
Le porte scorrevoli si chiusero sotto i miei occhi
ed io mi riscossi con un momento di ritardo dalla mia personale ipnosi,
cercai lo stesso di saltare giù dalla banchina; potevo dargli
tutti i soldi che avevo con me, potevo mostrargli casa mia e fargli
dare denaro anche da mia zia, ma la mia chiave no, mi serviva, era
troppo importante.
Un braccio mi afferrò per la vita
trattenendomi dal finire sotto i binari, continuai a divincolarmi
per…non so nemmeno io per fare cosa, tutti i miei pensieri si
affollavano su un unico punto: non ero al sicuro senza la mia chiave.
«Smettila!» mi ordinò, tirandomi indietro.
Riconobbi la sua voce, la stessa che tre anni prima
mi aveva chiesto con un sorriso di potermi accompagnare a casa, la
stessa che mi era sembrata così gentile e piacevole da ascoltare.
‘Non lasciarti prendere, Livy!’
«No!» urlai dando una gomitata alla
cieca dietro di me, si poteva picchiare il Figlio della Morte? Si
faceva male? Beh, se era tipo infrangibile io ero fregata, quindi tanto
valeva tentare.
Il Figlio della Morte provava dolore perché
mi lasciò con un verso strozzato di sorpresa sofferenza.
«Ora mi picchi, anche?» chiese con tono indignato, come se
gli dovessi obbedienza, devozione o che ne so.
Non gli diedi retta, non appena fui libera iniziai a
scappare, più veloce che potevo tra la gente che andava e
veniva, nessuno mi prestò particolare attenzione, immaginavo che
mi vedessero solo come una ragazza in ritardo per la prossima corsa.
Ero consapevole che la mia fuga fosse una follia, se mi aveva presa
lì, proprio mentre mi buttavo, significava che in un modo o
nell’altro, poteva osservarmi in ogni momento e raggiungermi in
ogni momento. Ma semplicemente non potevo arrendermi
all’inevitabile e starmene ferma ad aspettare il mio destino.
Salii le scale per tornare in superficie, la strada
per casa mia era a destra – la prima cosa che mi aveva insegnato
mia zia era stato come usare la metropolitana e tornare a casa da ogni
parte della città – ma era prevedibile che cercassi
rifugio lì, così andai a sinistra, in direzione del parco.
Di notte, senza persone che correvano e
passeggiavano, senza cani al guinzaglio, senza bambini che giocavano
nella vasca di sabbia, era un posto da brividi; troppe scene da film
horror, in cui l’eroina della situazione veniva brutalmente
uccisa dal sanguinario assassino di turno, iniziarono a vorticarmi in
mente, costringendomi a guardarmi intorno con le mani strette alle
braccia. Il mio mostro personale, il mio incubo, mi stava cercando ed
avrei fatto bene a sperare che l’unica cosa che volesse da me in
quel parco fosse la mia vita.
Mi nascosi sotto lo scivolo di legno, dove le tre
pareti che lo sostenevano, formavano una sorta di casetta; cercai di
farmi piccola, piccola in un angolo con le ginocchia strette fortissimo
al petto per impedirmi di tremare. Faceva freddo, nonostante fosse
primavera le temperature erano troppo basse perché si stesse
bene di notte con una semplice giacca a vento.
Due figure sfocate si fermano davanti
ad Henry Douborn. La Morte e suo Figlio lo osservano rigirarsi tra le
dita la chiave che ha rubato ad Olivia.
«Hai progetti per quest’uomo, mia signora?» domanda serio.
La Morte scuote miseramente la testa nella sua condanna. «Fanne quello che vuoi.» e sparisce.
Il Figlio della
Morte lo osserva per alcuni secondi, poi allunga un braccio toccandolo
proprio al centro della fronte. Per alcuni istanti non succede niente,
poi improvvisamente si porta le mani alla testa gridando con il viso
contratto in un’espressione di dolore. Tossisce buttando fuori
fiotti di sangue e…c’è sangue dappertutto. Gli
scende dagli occhi arrossati come macabre lacrime, gli cola dalle
orecchie lungo il collo fino a venir assorbito dalla camicia.
Quelli seduti
accanto a lui sul vagone si scostano urlando, mentre altri si portano
il cellulare all’orecchio nella speranza di riuscire a cercare
aiuto.
L’unico a non muoversi ed a continuare a fissarlo è il Figlio della Morte.
Feci appena in tempo a sporgermi in avanti per impedirmi di vomitarmi
addosso, restai ferma a quattro zampe per un tempo che sembrò
lunghissimo, riuscivo solo a pensare – nonostante ne avessi di
cose a cui prestare attenzione – che era un fortuna avere i
capelli legati. Mi ritirai indietro appoggiandomi contro la parete di
legno e mi strinsi di nuovo le ginocchia al petto, appoggiandoci sopra
la testa; continuai a respirare piano per tenere buono il mio stomaco,
mentre desideravo con tutta me stessa di essere a casa.
Quando sentii dei passi mi bloccai, muovendo solo gli occhi per paura di fare rumore. Lui
era a pochi metri di distanza dallo scivolo, ma non guardava verso di
me; per un folle e luminosissimo attimo pensai di potercela fare, non
c’era logica nella mia speranza, solo la disperata voglia di
poter credere in un miracolo.
Superò il quadratino di mondo che io riuscivo
a vedere dal mio nascondiglio ed io mi morsi il labbro tesa,
continuando a non muovermi; decisi che anche se se ne fosse andato
sarei rimasta lì tutta la notte, non potevo sapere se mi stesse
ancora cercando, non potevo fare una mossa tanto stupida. Mi sarei
presa un raffreddore, ma, al diavolo, era sempre meglio di lui, la mamma sarebbe stata d’accordo con me.
Tornò indietro.
Mi coprii la bocca con le mani per impedirmi il più piccolo rumore.
Mi guardò.
Tirai su con il naso cedendo infine alla tentazione
di piangere, della mia stupidità e delle mie sciocche speranze.
Il secondo dopo era davanti all’unica entrata
della casetta sotto lo scivolo, niente di più di un ragazzo con
una camicia a quadri sul grigio ed un paio di pantaloni della stessa
tinta; scoppiai a ridere istericamente, il mio look era simile a quello
del Figlio della Morte, ero pronta a scomettere che anche Alyssa
avrebbe trovato la cosa piuttosto divertente. Ma la mia stridula risata
si trasformò in singhiozzi.
Lui si
accucciò davanti a me e lanciò un’occhiata
speculativa alla chiazza di vomito sulla terra. «Mi dispiace che
tu sia stata costretta a vedere.»
Rapitore e gentiluomo.
Deglutii fissandolo, non era altro che la versione
cresciuta del ragazzino di tre anni fa; un bel viso, bei capelli biondi
e mossi, begli occhi verdi, bella bocca, facile entusiasmarsi a dodici
anni se una ragazzo così si offre di accompagnarti a casa.
Indietreggiai spingendomi contro la parete.
Ridacchiò dei miei vani tentativi.
«Vuoi darmi un’altra botta e riprovare a scappare?»
mi domandò sarcastico. «Possiamo fare questo gioco per
tutto il tempo che vuoi, ma io ti troverò…» si
interruppe pronunciando la mia condanna e la pronunciò con il
sorriso sulle labbra. «sempre.»
C’era qualcosa di talmente definitivo in quella parola da gettarmi in un baratro di disperazione.
«Ora tu vieni con me.» annunciò allungando una mano per afferrarmi un braccio.
«No!» gridai evitandolo e dimenandomi
per impedirgli di toccarmi. «Urlerò, qualcuno mi
sentirà e…»
Sospirò, poi schioccò le dita. «Ti chiedo scusa anche per questo.»
E io mi fermai e non mi mossi più. Era come
se avesse tagliato i fili che mi permettevano di muovere il mio corpo,
sentii il mio viso distendersi, i miei muscoli tesi allentarsi e
diventare morbidi e malleabili; lui
mi prese la mano ed il mio corpo lo seguì docile fuori dalla
casetta, i miei urli, le mie proteste ed i miei disperati tentativi di
ribellarmi rimasero ben chiusi ed inascoltati nella mia mente.
secondo me...non c'avete
capito gran che...ma abbiate fede e gioite della vostra parziale
conoscenza perchè nel prossimo capitolo riuscirò a
confondervi ancora di più...impossibile?
ma no, datemi un po' di fiducia...
davvero, sono così pazza se mi piace questo capitolo?
non vi garba?
baci
ps. ...mi sono scordata...ah, no ecco! tutto quello che piace sia ad
Alyssa che ad Olivia piace anche a me...quindi, anche se magari si
criticano tra di loro o non condividono...io sono dalla loro parte...
pps. voi non avete letto 'I Demoni'?! vergogna! no, scherzo, è
da pazzi mettersi a leggere certe epopee interminabili...però io
lo trovo un libro straordinario...sono una grande fan di Dostoevskij!
*eddai passatemela! alla fine mi serviva un telefilm o una storia che
conoscessi bene, bene, bene...sono veramente poche le storie che
conosco più di quelle che ho scritto io!
stavolta è davvero tutto!
baciallaprossima
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Capitolo 5 *** Capitolo 1.3 ***
olivia
fragolottina's time
ehilà è un sacco che non ci si vede...
scusate, ma sono andata via un paio di giorni, poi ho iniziato a
studiare, poi sto scrivendo anche altro che probabilmente - se niente
non si mette in mezzo - presto vedrete in questa rete...insomma, sono
parecchio indaffarata!
anf...
ma cmq, è un po' cortino questo capitolo, ma è denso e...oh...a me piace da matti, soprattutto la prima parte...
vediamo quanto riesco a confondervi...
CAPITOLO 1.3
Non mi fece ripercorrere la strada dalla quale ero arrivata, ma
camminammo in direzione del parcheggio. Era quasi deserto tranne che
per una macchina con i vetri appannati – all’interno
dovevano esserci due ragazzi che si davano parecchio da fare – ed
un auto sportiva e tirata a lucido. Naturalmente quella era la macchina
del Figlio della Morte.
Mi accompagnò fin davanti allo sportello del
passeggero e me lo aprì nella sua migliore interpretazione di
gentleman, il mio corpo salì senza esitazioni, nonostante io
cercassi disperatamente di costringere i miei i piedi a cambiare
direzione. Rimasi sola mentre lui faceva il giro per sedersi dietro il
volante ed io continuai imperterrita ad obbligarmi a muovermi: sarebbe
stato il momento perfetto per scappare, dubitavo di poterne avere un
altro – a meno che la mia fuga non comprendesse il saltare da
un’auto in corsa – eppure non mi mossi di un millimetro.
Risalì in macchina e mi guardò con le
mani appoggiate al volante, sembrava rattristato dal frenetico lavoro
della mia mente per raggiungere il mio corpo, invano. «Non piace
nemmeno a me.» mi disse. «Sai, se avessi voluto una
ragazzina inanimata mi sarei comprato un bambola gonfiabile.»
borbottò contrariato, mentre apriva il cassettino davanti alle
mie ginocchia, compostamente unite, e ne tirava fuori un pacchetto di
fazzoletti.
Mi osservò per un secondo, poi iniziò
con calma ad asciugarmi il viso dalle lacrime, con attenzione, con
affettuosa abitudine, come se dovesse mantenermi pulita ed in buone
condizioni; un pezzo d’antiquariato, un fumetto che avrebbe perso
valore se rovinato. Lontana dal mio corpo presi coscienza, quella notte
per la prima volta, di una cosa agghiacciante, sconvolgente,
inaspettata: io avevo un valore per lui. Non sapevo quale, non sapevo
perché, ma lui mi voleva per il mio valore.
La sua mano strinse il fazzoletto ormai zuppo,
mentre le sue dita indugiavano un attimo sotto il mio occhio,
nell’angolo più pronunciato dello zigomo; avevo una
macchia lì, un’irregolarità della pelle quasi
perfettamente rotonda, forse la piccola cicatrice lasciata da un
brufoletto, in genere la coprivo con il correttore. Lui strofinò
piano fino a scoprirla. Sorrise premendola con il dito, quasi fosse
stato il pulsante per far aprire qualcosa.
«Mi piace.» mormorò con tenerezza.
Era vicino adesso, presa a trovare il modo di
liberarmi non aveva prestato poi così tanta attenzione ai suoi
movimenti – ero molto più interessata ai miei, assenti
– si sosteneva con un braccio al mio sedile, le sue dita mi
sfioravano la coscia, ma senza intenzione. Quando metabolizzai, tutto
il mio corpo avrebbe voluto tremare di paura e consapevolezza, mentre
interiormente mi davo della sciocca: come poteva essere arrivato
così vicino senza che io me ne accorgessi? Non che, in ogni
caso, avessi potuto agire in qualche modo al riguardo, certo, ma il
minimo che potessi fare era restare vigile.
Continuò a fissarmi immobile e la sua mano
scivolò dal mio viso, lungo il mio collo, fino a posarsi sulla
mia spalla, con il pollice che mi sfiorava piano la clavicola. Era
assurdamente inconcepibile come tutto il mio organismo non reagisse a
nessuno dei suoi movimenti: il mio cuore non batteva più forte,
la mia pelle non era più sensibile, i miei occhi non stavano
più piangendo.
«OK…» sussurrò con il viso
troppo vicino al mio, ero un bambola di porcellana in attesa, immobile,
del suo destino. «ma solo un pochino.»
Sbattei le palpebre come risvegliandomi da
un’ipnosi, tutti i miei muscoli erano fatti di piombo, non sarei
mai riuscita a scappare, ma tutti quelli involontari ricominciarono a
comportarsi bene: il mio cuore iniziò a bussare tanto forte da
scuotermi tutta – e finalmente mi scuoteva – mentre il mio
respiro iniziava ad essere più veloce ed ansante. Muovere le
braccia era faticoso quanto poteva esserlo trascinare un sacco di
calce, ma essere in grado di conficcare le unghie nella pelle dei
sedili, era già rassicurante.
«Meglio?» chiese, girai il viso verso il
suo con gli occhi enormi e spaventati, in cerca del modo di parlare.
Lui lesse la mia inquietudine, lasciò la mia spalla scendendo in
punta di dita lungo il mio braccio fino a stringermi la mano.
«Puoi farlo. Piano, piano.»
Deglutii e mi concentrai al massimo.
«La…» faticoso, era come se le mia labbra e le mie
corde vocali fossero rimaste inutilizzate per anni, la mia voce era
gracchiante ed incerta. E bassa, tremendamente bassa, lui era
l’unico che avrebbe potuto sentirmi. «Lasciami.» di
più era impossibile.
I suoi occhi abbandonarono i miei, bassi, si persero
nelle nostre mani e nei miei deboli tentativi di scrollarlo via.
«No.» mi sfuggì un lamento, un lento mugolio di
protesta, spietatamente il Figlio della Morte rise. «Ti aspettavi
che dicessi di sì?» domandò tornando a guardarmi.
«Tu ordini ed io obbedisco?» il suo sguardo si
indurì, tagliente e freddo. «Ma con chi credi di parlare,
Liv?»
Chiusi gli occhi, a strizzarli non ce la facevo,
nonostante desiderassi ardentemente sigillarli ermeticamente. Si
avvicinò, sentii il suo respiro sulle mie labbra e cercai di
indietreggiare con la testa, nascondendomi. Tentativo inutile, il
poggiatesta dietro di me era una barriera invalicabile. Poggiò
la fronte contro la mia, i suoi capelli mi facevano il solletico sopra
il naso e li sentivo smuovermi le ciglia; c’era qualcosa di
fastidiosamente intimo in quel contatto, in come i nostri nasi si
strusciavano, mi chiesi se in passato, se quando lo avevo conosciuto a
dodici anni fossimo stati così vicini. Perché sembrava di
si.
Si allungò su di me ed io riaprii gli occhi
prendendo fiato, mi resi conto che ad un certo punto dovevo essere
rimasta in apnea; afferrò la cintura di sicurezza e la
allacciò al mio fianco, prima di ritornare sul suo sedile. Mi
lanciò un’occhiata derisoria, carica di sarcasmo.
«Paura?» ne sembrava molto compiaciuto.
Lo guardai cauta ed annuii piano.
Scosse la testa ridendo ed accese il motore, che
rombò dolcemente. «Tu non sai cos’è la paura,
Liv.»
E qualcosa mi spinse a credere che lui avesse tutta l’intenzione di insegnarmelo.
Avrei voluto seguire il percorso, ma mi sentivo confusa, ubriaca, forse soltanto stanca.
Qualsiasi cosa mi avesse fatto, muovermi bruciava
molte più energie del solito ed a quel punto mi sentivo senza
forze, anche tenere gli occhi aperti non era uno scherzo. Lui
continuava a guidare ignorandomi con le mani strette al volante e lo
sguardo perso al di là del parabrezza, dentro di me cercavo di
figurarmi la dinamica del fare l’amore con lui: sarei stata nuda,
lui avrebbe voluto che io facessi cose e…avrebbe fatto male,
sapevo che avrebbe fatto male. Una lacrima solitaria, sopravvissuta
fino a quel momento, mi scivolò sulla guancia.
Si voltò e mi guardò come se ne
sentisse l’odore. «Basta, Liv.» mi supplicò.
«Io non voglio.» piagnucolai con voce fievole, tutta la voce che riuscii a trovare.
Lui sospirò ed accostò. «Perché, credi che io sì?»
Non mi diede il tempo di guardarlo, scese dalla
macchina e fece il giro per aprirmi lo sportello. Si chinò su di
me, spinse il pulsante per sganciare la cintura di sicurezza, poi mi
tirò per un braccio in piedi. Ora che non era più lui a
‘sostenermi’ in qualche modo, non mi sentivo molto stabile,
anzi, non lo ero per niente, tanto che, contro ogni mia volontà,
gli finii addosso; mi trattenne dal cadere a terra senza sforzo,
costringendomi con un braccio intorno alla vita ad appoggiarmi a lui.
Tirò indietro la testa per poter fissare il
mio viso. «Guarda, cosa mi fai inventare per un abbraccio.»
mi prese in giro.
Probabilmente era così che sembravamo alle
persone: due ragazzi innamorati ed abbracciati. Chiusi gli occhi,
umiliata dal mio stesso arrossire, non avevo mai abbracciato nessuno
così.
«Ok…» ci osservò
riflettendo. «occorre un rapido cambio, così non riusciamo
a muoverci.» mi sistemò meglio addosso a lui in modo da
non farmi cadere, poi mi allontanò. «Aspetta, eh?»
afferrò la mia mano e si fece passare il mio braccio intorno
alle spalle. «Dovresti guardare dove sei, Liv.»
Alzai gli occhi su una casa, non una casa qualsiasi.
Sotto quella veranda io ci facevo merenda e su quella sedia di vimini
mia zia ricamava. «Casa…»
Non rispose, non disse niente, si limitò a guidarmi piano attraverso il vialetto.
Mia zia stava aspettando dall’altra parte
della zanzariera, il fucile tra le sue mani creava un accostamento
bizzarro con la sua vestaglia beige. La studiai incerta e sorpresa,
davvero, mia zia aveva un fucile? Dove lo teneva nascosto?
Lui mi aiutò a salire gli scalini del
portico, ignorando lei e la minaccia che voleva rappresentare con
quell’arma. Si fermò proprio davanti alla porta,
fissò gli occhi di mia zia tranquillo, poi sospirò e si
strinse nelle spalle.
«Puoi spararmi. Io non muoio e lo sai.»
Ecco, perché non era preoccupato. Cercai con
tutte le forze di salvare quell’informazione da qualche parte
nella mia testa, nonostante la confusione: di certo non era una buona
notizia, ma era pur sempre qualcosa.
Non si lasciò intimidire. «Ma puoi essere ferito.»
Mi sarei procurata un’arma per il futuro ed
avrei seguito un corso di autodifesa, ad Alyssa la prospettiva sarebbe
piaciuta.
«Non sono stato io.» disse serio.
«Che le hai fatto?»
Mi guardò. «Niente, domani mattina
starà bene. Ho fatto solo in modo che collaborasse.»
Zia Phoebe sollevò il fucile e lo caricò, puntandoglielo in faccia.
Mi strinse di botto, mettendosi tra me e lei.
Volente o no, avevo il viso premuto contro il suo torace: il Figlio
della Morte aveva un cuore ed in quel momento stava galoppando
all’impazzata. Aveva paura.
«Collaborasse per venire a casa!» sbottò. «Non l’ho toccata!»
Rimase ad osservarlo per un po’, pensierosa,
poi aprì la zanzariera e si fece da parte per farci entrare.
«Ce la fai a portarla nella sua stanza?»
«Certo.»
Mi passo un braccio sotto le ginocchia e mi
sollevò, la mia unica protesta consisté in un mugolio
appena udibile. Mia zia non gli avrebbe permesso di farmi del male.
Aveva anche tirato fuori un fucile per me.
Per tutto il tragitto verso la mia camera zia Phoebe
lo fece camminare davanti a lei, in modo che non potesse fare niente
che lei non giudicasse opportuno. Solo quando fummo in
prossimità della porta, lo superò per aprirla e sollevare
le coperte del mio letto, dove mi adagiò dolcemente: il profumo
del mio cuscino sotto la testa rimase per mesi l’odore più
fantastico che potessi immaginare.
Il Figlio della Morte fece un passo indietro, mentre mia zia mi sfilava le scarpe e mi rimboccava le coperte.
«Non sono stato io.» ripeté.
La zia sospirò. «È stata lei?» domandò accarezzandomi i capelli.
«Non lo so.» si sedette sulla sedia a
dondolo della mia stanza. «Probabilmente sì.»
«Hai recuperato quello che le è stato preso?»
Si frugò nelle tasche, poi lanciò
qualcosa che atterrò con un tonfo ovattato sulle mie lenzuola,
la zia lo recuperò e mi sollevò poco la testa per farmelo
passare intorno al collo: la mia chiave era tornata al suo posto.
Lanciai un’occhiata verso la sedia a dondolo,
dove lui continuava a stare seduto; incontrò il mio sguardo e
sorrise paziente. «Non serve a niente, Liv. Se non ti ho presa
è perché non ho voluto.» mi spiegò calmo.
«Smettila!» intimò mia zia.
«L’hai strapazzata abbastanza per stasera. Lasciala
riposare.»
Si tirò in avanti appoggiando i gomiti sulle ginocchia. «Non posso restare, vero?»
«Lei non vuole, mi dispiace.»
Le dispiaceva?!
Lui si alzò e si diresse verso la finestra,
si voltò all’ultimo secondo prima di uscire e mi fece un
sorriso. «Che ne dici di Oliver?» fece una smorfia.
«’Lui’ è un po’ troppo vago per i miei
gusti.»
E se ne andò.
allora, allora, allora...
non posso dirvi niente...quindi non fate domande...
anzi, fatele che mi fate sentire realizzata. datemi la soddisfazione di sapere che ho turbato le vostre menti! ah...
ok, basta così...
ultimamente sono più su di giri del solito...bene!
cmq fatemi sapere che ne pensate, ok?
bacifatalosi
|
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Capitolo 6 *** Capitolo 1.4 ***
olivia
fragolottina's time
carissime buongiorno.
in questo capitolo ci sono tante, tantissime cose che vi dovreste
appuntare da qualche parte, perchè più in là
probabilmente serviranno.
c'è anche un momento discretamente simpatico..no, dai, è simpatico eccome! verso la fine...
siamo precoci per essere delle quindicenni...mi sa che non ci sono più abituata...
a più giù...
CAPITOLO 1.4
«NO!» mi svegliai urlando senza sapere nemmeno cosa stessi
sognando. Ero sudata e tremante. Volevano bruciarmi, quelle persone
volevano bruciarmi!
«Olivia.» mi girai di colpo verso la
sedia a dondolo, dove mia zia stava sferruzzando quella che aveva tutta
l’aria di essere una sciarpa, alzò gli occhi dal suo
lavoro e mi osservò calma. «Va tutto bene, guarda: sei nel
tuo letto.»
Deglutii, poi iniziai a fissare gli occhi sulle cose
intorno a me: la mia libreria, la mia cartella con accanto un i libri
di scuola impilati per terra, la scrivania con il computer e la mia
borsa, il mio letto, la mia lampada, il televisore, l’armadio.
Niente fuoco da nessuna parte.
«Ho sognato di essere una strega durante
l’Inquisizione spagnola.» dovevo scappare, dovevo
nascondermi, ero giovane, ma avevo un lunga ciocca di capelli bianchi,
era stato il diavolo. «Poi mi trovavano e…»
Mia zia lasciò il suo lavoro e si sedette sul
mio letto, prendendomi una mano dolcemente. «Era un sogno,
Olivia, solo un incubo.»
La mia borsa. Oliver.
Quello non era un sogno, anche se aveva tutte le caratteristiche per essere considerato un incubo.
La afferrai stringendola tra le mani, per accertarmi
che fosse vera. Ricordavo di averla con me sul vagone della
metropolitana, ma non mentre scappavo e tutto il resto era troppo
confuso per un dettaglio del genere.
«L’ho trovata questa mattina fuori della tua finestra.» mi spiegò con calma.
Era andato a recuperarla, poi era tornato a portarmela.
Deglutii spaventata di trovarlo sul mio balcone, ma
l’unica cosa che vidi fu il cielo azzurro che rimarcava la
vittoria della primavera sull’inverno.
La chiave.
Mi appoggiai la mano in mezzo al petto frettolosa,
ne riconobbi il profilo sotto la maglietta che avevo indossato il
giorno prima; stranamente la cosa non mi tranquillizzò, non
serviva a niente, se non mi aveva presa era perché non aveva
voluto.
Fissai gli occhi di mia zia senza
capire…quasi niente in realtà. «A cosa
serve?» domandai supplichevole, avevo bisogno di qualcosa di
certo a cui aggrapparmi. I sogni, la notte precedente, Alyssa, Maxi,
tutto si mescolava in un’enorme pappa senza darmi modo di
distinguere niente.
«È servita a farti uscire dal
sottoscale.» la zia mi accarezzò i capelli, cercando di
calmarmi. «A farti andare a scuola con tranquillità. A
stare in questa casa ed in mille altri luoghi chiusi senza
paura.» appoggiò la sua mano sopra la mia. «Ti ha
aiutata in più cose di quante immagini.»
«Ma perché?»
Scosse la testa. «Questo puoi saperlo solo tu.»
Per un po’ rimasi zitta, cercando di mettere
ordine nei miei pensieri, con scarsi risultati. Non trovavo un senso
nelle sue azioni, perché riportarmi la chiave? Perché
gonfiare una bugia del genere? Per farmi uscire dal sottoscale? Dopo
quello che avevo vissuto la notte prima, sapevo che aveva modi molto
più semplici per farmi fare quello che voleva. A meno che il suo
scopo non fosse solo quello di giocare con me: imbrogliarmi, darmi
qualcosa di sicuro, togliermelo, gustarsi le mie reazioni contrastanti.
Forse il suo essere carino si limitava al criceto-Alyssa.
Mia zia mi diede una leggera pacca sulla gamba.
«Dovresti farti una doccia, poi mangiare qualcosa.»
«La scuola?» dal sole che entrava dalla
finestra capii che ero già in ritardo, se non fossi stata
distratta da altro me ne sarei già accorta. «E il tuo
lavoro?»
Lei mi sorrise. «Niente scuola per te e niente
lavoro per me. Mi sono data malata, non volevo lasciarti sola.»
«Grazie.»
Continuò a sorridermi poi si alzò e
fece per uscire dalla porta. «La doccia.» mi
ricordò, prima di andarsene.
«Anche del fucile.» le dissi.
Zia Phoebe scosse la testa. «Quando sei nata
ho promesso ad Hope che se le fosse successo qualcosa mi sarei presa
cura di te.» mi fece l’occhiolino. «Ho tutta
l’intenzione di mantenere la mia parola.»
Rimasi ancora qualche minuto nel letto, studiando
tutto quello che sentivo: il peso delle coperte, il battito ancora
spaventato dal sogno del mio cuore, il tranquillizzante freddo della
chiave. Il ricordo di trovarmi lontana dal mio corpo e senza nessun
canale di comunicazione con esso, era probabilmente la cosa che
più mi terrorizzava della notte precedente. Avrebbe potuto
ridurmi all’impotenza e fare di me qualsiasi cosa, senza che io
avessi neanche la possibilità di protestare. Provai a muovere le
braccia, poi piegai le gambe per accertarmi che funzionasse tutto. Mi
alzai appoggiandomi cauta alla scrivania accanto al mio letto, non ci
furono cedimenti di sorta così lasciai il mio appiglio: tutto il
mio corpo rispondeva perfettamente agli stimoli e non sembrava
intenzionato a tradirmi.
Presi della biancheria pulita ed un pigiama dal
cassetto – visto che non avevo programmi per la giornata, non
aveva senso cambiarmi – poi mi diressi in bagno.
Non avevo realizzato quanto in realtà fossi
sporca; la notte prima avevo pensato a nascondermi, non a tenermi
pulita. Spogliandomi, studiai con pazienza i vestiti luridi: i
pantaloni avevano tutto il dietro sporco di fango – mi ero
nascosta nel parco dopo un temporale pomeridiano – mentre la mia
giacca a vento era schizzata di qualcosa che mi convinsi ad archiviare
come altra terra, anche se avevo il terribile sospetto che fosse,
beh…vomito. Senza ulteriori indugi, infilai tutto nella cesta
del bucato. In mutandine e reggiseno continuai a guardarlo
mordicchiandomi distratta le pellicine intorno alle unghie.
Recuperai tutto e lo chiusi in una busta. Non volevo
tenere quella roba, non sarei riuscita ad indossarla mai più
senza tremare di paura. Tanto valeva buttarla.
Io volevo buttarla.
La doccia fu d’aiuto, mi diede la confortante
sensazione di potermi lasciare scivolare via tutto lo
‘sporco’ della giornata precedente insieme alla schiuma
dello shampoo. Rimasi con il getto caldo puntato sulla schiena per
un’eternità, aspettando che il calore raggiungesse tutti i
miei muscoli ancora contratti e li allentasse della tensione.
Ero al sicuro?
La chiave non funzionava, ma effettivamente per
tutto quel tempo lui non mi aveva mai fatto del male. Il termine ultimo
della mia libertà, prima che venisse a riscuotere erano ancora i
miei diciassette anni? Perché proprio diciassette?
Sospirai girando la manopola della doccia, per tutto
quel nervosismo accumulato serviva molto più di un po’
d’acqua calda a distendermi. Sarei dovuta andare in un centro
massaggio e rimanerci per almeno due giorni.
Mia zia stava preparando l’arrosto di spalle,
io mi sedetti al tavolo della cucina, versandomi un ciotola di latte ed
aggiungendoci poi i miei cereali preferiti.
«Ma sono orribili!»
«A me piacciono.»
Mi voltai di botto, facendo involontariamente spostare la sedia sulla
quale ero seduta con un gran fracasso, mi aspettavo quasi di trovarmi
vicino due persone che parlavano.
Zia Phoebe interruppe quello che stava facendo per
lanciarmi un’occhiata perplessa. «Olivia?»
«Tu sei strana.»
«Non è vero.»
«Ma si che è vero.»
Scossi la testa come scacciando le voci che avevano iniziato ad abitarla.
«Perché sei qui, allora? Trovati una ragazza normale.»
Ricambiai lo sguardo di mia zia confusa. Non era stata una visione, in
realtà non avevo visto niente. La cucina, mia zia, la scatola
dei cereali, tutto era rimasto esattamente al suo posto. Solo che
c’erano altre due voci, due persone che discutevano in soggiorno;
ma io sapevo che in soggiorno non c’era nessuno, che era tutto
nella mia testa.
Sospirai osservando la mia tazza piena di latte ed
una decina di cereali che ci galleggiavano dentro, forse stavo
impazzendo sul serio: le voci nella testa sono sempre associate alle
malattie mentali. La mia psiche, già fragile, stava risentendo
dello stress degli ultimi giorni, avrei finito per fare a pezzi mia zia
proprio come in quel film horror che avevo visto. Sperai che tenesse il
fucile sotto il letto e che avesse il coraggio di spararmi se
l’avessi sorpresa nel sonno brandendo una mannaia.
Che cosa orribile.
«Non saprei che farmene.»
Sussultai. «Zia, voglio vedere uno psichiatra.» la supplicai.
Lei rise divertita, come se avessi fatto una battuta
particolarmente spiritosa. «Oh, Livy, la tua mente è
sanissima.»
«Ma sento le voci!» obiettai.
«E vedi le cose…» aprì lo
sportello sotto il lavandino ed iniziò a pelare le patate sopra
il secchio dell’immondizia. «come me e tua madre. Non
è un problema di sanità mentale.»
Sbuffai quasi offesa che non credesse alla mia follia. «Non ho mai sentito le voci.» borbottai.
«Forse era una visione in piena regola che tu
semplicemente non eri pronta per vedere.» rifletté
scostandosi una ciocca di capelli rossi da davanti agli occhi con il
dorso della mano. La donne della mia famiglia erano tutte rosse, tutte
tranne me. «Tieni presente che è il tuo inconscio a
filtrare qualsiasi cosa ti venga mostrato.» mi chiesi se non
avesse frequentato un corso di psicologia, di cui non sapessi niente.
Mi lanciò un’occhiata severa. «Mangia.»
Obbedii versando un altro po’ di cereali nella
mia ciotola e prendendone una cucchiaiata, masticai con cura,
assaporando ogni petalo di mais tostato e glassato: a me piacevano,
comunque.
Io e la zia pranzammo insieme, non capitava spesso che fossimo a casa,
così aveva preparato un pranzo degno del Giorno del
Ringraziamento. In realtà ne sbocconcellammo davvero una minima
parte ed una volta riordinato, mentre io facevo i compiti, lei
sigillò tutti gli avanzi in porzioni piccole dentro alcuni
contenitori di plastica: aveva appena risolto il problema pasti per la
settimana seguente.
Provai a stare nella mia stanza, ma la sedia a
dondolo mi rendeva inquieta; mi aspettavo da un momento all’altro
di rivederci lui – Oliver, mi corressi mentalmente – seduto
sopra, oppure sorprenderla in un ultimo dondolio, segno che se ne era
appena andato. Forse era ora di sostituirla con un’altra con i
piedi ben piantati a terra. Ma mi piaceva accoccolarmi lì sopra
a leggere, lasciandomi cullare.
Sospirando decisi che avrei visto come sarebbe
andata la nottata: se fossi riuscita ad addormentarmi tranquilla,
sarebbe rimasta; se fossi rimasta con gli occhi spalancati nel buio,
l’avrei eliminata. Potevo farmi aiutare dalla zia e spostarla in
soggiorno e quando ne avrei avuto voglia, sarei potuto stare lì
a leggere.
«Livy, hai una visita!» mi chiamò la zia dal piano di sotto.
Una visita? Io? C’era davvero qualcuno della
mia scuola che sapesse dove abitavo? Mentre scendevo le scale riflettei
che probabilmente Claire lo sapeva, era anche l’unica che mi
venisse in mente che potesse aver voglia di venirsi ad informare della
mia assenza scolastica.
Ma quella in soggiorno con indosso una salopette di
jeans corta, spesse calze di lana ed i suoi evidentemente soliti
scarponcini viola, non era di certo Claire.
«Alyssa?» domandai incredula. A lei di certo non avevo detto dove abitavo.
Sorrise ed io mi sorpresi di nuovo a pensare a quanto sorridesse, con tutte quelle che le erano successe, dove la trovava la forza di essere felice?
«Ciao.» mi salutò, aveva un sacco
di libri tra le mani, così corsi giù e ne presi alcuni
dalle sue mani per posarli sul tavolo. «Oh, grazie.»
«Sei la nuova amica di Olivia.» si mise
in mezzo la zia porgendole la mano. «Io sono sua zia
Phoebe.»
Lei gliela strinse contenta. «È un piacere conoscerla, signora Mulligan.»
«Il piacere è tutto mio, cara.»
poi mi guardò. «Falla accomodare, se vi serve qualcosa
sono in cucina.»
Aspettai che si allontanasse prima di invitarla a
sedersi sul divano, faceva strano vederla lì nel soggiorno di
mia zia color pastello: lei era decisamente una ragazza a tinte forti.
Come me si assicurò che mia zia non fosse a portata di orecchi,
prima di prendermi le mani accalorata.
«Oh, ho visto quello che è successo!» mi disse
partecipe. «Devi esserti così spaventata…stai
bene?»
Avrei dovuto prevederlo, come avevo potuto non pensarci?
«Si…» le risposi piano con un
piccolo sorriso. «solo che ero un po’ scossa questa mattina
e sono rimasta a riposarmi un po’.» deglutii. «Hai
visto tutto, tutto?» per qualche motivo pregai che mi dicesse di
no.
Scosse la testa dispiaciuta. «No, non so
quello che è successo sulla macchina. Spero che
non…» lasciò la frase in sospeso, studiandomi
timorosa.
Tirai un sospiro di sollievo continuando a
domandarmi perché non volessi condividere quei particolari con
lei, avremmo potuti analizzarli insieme, trovare un significato.
«No, stai tranquilla.»
Mi dissi che era lo shock. Un giorno quando sarei
stata pronta a parlare di quella notte, l’avrei fatto e le avrei
raccontato ogni minimo dettaglio, solo non ero ancora pronta.
Lasciò le mie mani e si strinse le ginocchia
al petto infelice. «È un peccato, volevo invitarti a casa
mia questa sera.» si strinse nelle spalle. «Maxi è
al Draw e noi avremmo potuto vedere la tv e prenderci una pizza.»
Non risposi, non che non mi piacesse l’idea,
anzi, era così carina da commuovermi, ma ero relativamente certa
che non sarei salita sul vagone di una metropolitana per i prossimi due
secoli. Soprattutto di notte.
«Vacci, Livy.» ci voltammo entrambe
verso mia zia vicina alla porta della cucina. «Posso
accompagnarti e rivenirti a prendere.»
Guardai Alyssa, tutta scintillante di
felicità, annuire freneticamente per cercare di convincermi, poi
tornai a fissare mia zia. Non era rimasta a casa dal lavoro soltanto
per farmi compagnia: lei sapeva che Alyssa sarebbe venuta, che mi
avrebbe invitata a casa sua, che io sarei stata troppo spaventata per
accettare, che avrei avuto bisogno di lei.
Appena Maximilian Masen appoggia le
labbra sulle sua Olivia resta troppo sorpresa per fare qualsiasi cosa.
È lui a prenderle le mani e portarsele intorno al collo,
è lui a stringersela addosso con insistenza. Ma è lei a
dischiudere la bocca sulla sua ed approfondire quel bacio, nato per
sbaglio e cresciuto per consapevolezza, mentre le mani di lui imprimono
sulla sua schiena la traccia delle sue carezze. Di secondo in secondo
più sicura, Olivia allunga la mano per passare le dita tra le
strette trecce dei suoi deadlocks, tirandoli piano; Maximilian non
protesta, le avvolge le braccia intorno alla vita e la porta sulle sue
gambe. Il divano è grande, quasi troppo grande per chi vuole un
contatto più intimo.
Deglutii ed espirai piano. «C-c’è un divano a casa tua?»
Alyssa sorrise annuendo. «Una divano
enorme!» esclamò, lasciandomi nel dubbio che avesse visto
anche lei.
«Ok.» mormorai mentre la mia nuova bizzarra amica mi si buttava addosso abbracciandomi.
«Ma alle undici spaccata ti vengo a prendere,
domani tornate a scuola tutte e due.» mi avvertì la zia e
sperai proprio che lei non avesse visto.
riusciremo a viverlo questo bacio? o continuiamo a vederlo di sfuggita e basta?
allora, vi annunico ufficialmente che questa fase della mia storia
(chiamata dai più intimi capitolo 1) finisce qui...salutate i
quindici anni, 'ciao quindici anni', dal prossimo capitolo (non siete
elettrizzate di entrare finalmente nel capitolo 2?!) sei ufficialmente
delle sedicenni...grazie al cielo!
ce la spasseremo discretamente.
Maxi sarà molto più presente (e per fortuna).
ci sarà un momento, che è di un
tormentosobarrafrustrantebarraroamnticobarraperchèleisieiono...che
ho scritto non si sa!
insomma, fin qui era tipo introduzione...il vivo della questione arriva al prossimo!
mm...vi ho detto tutto direi!
baci!
fatemi sapere che ne pensate!
ps. nel prossimo capitolo...o in quello dopo se le mie doti di sintesi
fanno di nuovo cilecca...andiamo non solo a casa di Alyssa, ma anche in
camera di Maxi...
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Capitolo 7 *** Capitolo 2.0 - prima parte ***
olivia
fragolottina's time
purtroppo un avvertimento è d'obbligo...
è un capitolo forte, decisamente forte...quindi vi avviso in anticipo.
anche se avevo detto di continuare con la trama, volevo perdere un po'
di tempo per raccontarvi la storia di come Diego, Sebastian, Maxi ed
Alyssa si siano incontrati e stretti forte. mi piaceva arvi capire
come, quando il destino ci mette lo zampino, le cose si intrecciano ed
incrociano...mi paiceva anche l'idea che aiutare una persona possa
giovare anche al primo...no, in genere non sono così fiduciosa
nell'umanità, ma in un mondo popolato da l Figlio della Morte
tutto è possibile, no?
ci vediamo più giù...
16 anni
CAPITOLO 2.0 - prima parte
Il ‘Draw cuts’ era l’oasi delle anime spezzate.
Tutti noi, che lavoravamo lì, avevamo bisogno
di un rifugio, un posto dove non si facessero domande, un posto dove le
persone avevano a che fare con la sofferenza già da parecchio
tempo, quindi rispettavano la sacralità del silenzio e del
dolore altrui.
Nessuno di noi quattro, cinque se contavamo anche Diego, era lì solo per i soldi.
Io vedevo tutto e spesso mi sembrava di violare un giuramento solenne.
Nel silenzio di Diego si celava il dolore del suo cuore, il ritratto di
una donna bellissima con i capelli rossi di suo figlio. Avevo visto il
loro matrimonio, Diego non era un uomo brutto, rientrava nella media,
ma lei, Courtney Dennis, lei era una dea. Immaginavo la felicità
di essere stato tanto fortunato, l’incredulità della prima
volta che le aveva chiesto di uscire e di essersi sentito rispondere di
sì.
Immaginavo l’amara consapevolezza e
rassegnazione, quando lei se ne era andata lasciandogli un bambino che
le somigliava in modo devastante; una vita da crescere ed accudire,
quando lui non aveva più alcuna voglia di vivere; il locale che
una volta era stato così felice di gestire, il locale dove lui e
Courtney avevano ballato per la prima volta insieme, in bancarotta,
quando Diego non aveva nessuna voglia di lottare per tenerlo insieme.
Le scommesse, intossicanti quasi quanto la droga che suo figlio si iniettava nelle vene.
Sebastian non aveva mai fatto niente per nascondere quello che si
faceva. All’inizio aveva un sacchetto di erba sul comodino, le
cartine erano dentro il cassetto per una questione di igiene: non
voleva certo fumarsi la polvere, la marijuana bastava.
Ma solo i primi tempi.
Ben presto si era reso conto che quella polverina
bianca somigliava tantissimo alla polvere di fata che aveva visto nel
cartone di Peter Pan. Certo, costava di più. Ma se suo padre non
si accorgeva di un sacchetto di Maria sul comodino, quando si sarebbe
accorto del furto di un paio di banconote dalla cassa?
Poi l’LSD. Lo trovava così
affascinante: un quadratino minuscolo sul fondo di un cocktail
colorato. Di tutte le droghe chimiche che aveva provato quella era la
sua preferita. A casa prendeva una bottiglia di birra dal frigo –
aveva diciotto anni, suo padre non poteva negargli una birra e comunque
non se ne sarebbe accorto – faceva scivolare nel collo quel
pezzettino di carta, poi diceva a suo padre che usciva. ‘Non
aspettarmi alzato’, lo tranquillizzava con un sorriso. Spesso
Diego si era già addormentato sulla poltrona, davanti ad una
partita in televisione, con il biglietto di una scommessa ancora in
mano.
Se l’eroina non fosse stata così
piacevole, non l’avrebbe mai provata. Era troppo crudo infilarsi
un ago nelle vene e poi bisognava andarla a comprare in un postaccio
pieno di prostitute. La prima volta era stata una ragazza ad essere
così gentile da iniettargliela; gli aveva chiesto se non
preferisse un posto nascosto, l’inguine, o un alluce, ma non
c’erano rischi che qualcuno vedesse qualcosa.
L’eroina era il paradiso. Ed in paradiso si stava in pace.
Però costava un sacco ed i soldi nella cassa
del suo vecchio ed assente papà erano sempre meno. ‘Giuro
che ti pago’, lo ripeteva tanto spesso che i suoi amici –
se poi si poteva parlare di amici – avevano preso a chiamarlo
‘Giuringiurello’.
Accartocciato in un angolo della strada, con la
cintura stretta al braccio ed il buco ancora fresco, si era chiesto,
mentre l’effetto scompariva, come trovare più soldi.
Guardandosi intorno si era domandato quanta grana avrebbe potuto tirare
su a prostituirsi. Ed aveva visto poco lontano da lui un ragazzo in
ginocchio davanti ad un uomo con i pantaloni slacciati, li osservava
con distaccato interesse: quel tizio doveva avere circa la sua
età e sembrava cavarsela, era eccitante anche solo guardarlo. Ma
forse erano gli strascichi dell’eroina, lui era eterosessuale,
anche se un servizietto ben fatto era sempre un servizietto ben fatto.
Aveva aspettato con pazienza che finissero, poi si
era alzato e gli si era avvicinato. Il ragazzo tremava tutto, tremava
tanto da non riuscire ad accendersi una sigaretta; non ci aveva
pensato, gli aveva preso l’accendino dalle mani e gliela aveva
accesa. Lui aveva biascicato un grazie e si era frugato nelle tasche
alla ricerca di un fazzoletto, con cui pulirsi le mani ed il viso.
Lo aveva studiato tutto con attenzione. «Cento
per una sega; duecento di bocca. Tutto il pacchetto, cinquecento.»
«Davvero?!» aveva chiesto Sebastian
stupito, contando le dosi che si sarebbe potuto comprare con quei
soldi. «Sono tanti…»
«È una buona tariffa.» aveva
risposto secco. «Me ne hanno dati mille per la prima
botta.» aveva trovato buffo che cercasse di giustificarsi.
«E comunque è la mia tariffa, se non ti va bene,
più giù c’è uno che vuole di meno, ma ha la
sifilide.»
«Quanto fai a sera?» gli aveva domandato.
«Quanto mi serve.» era stata la sua enigmatica risposta.
«Ti fai anche tu?» gli aveva chiesto di
getto, speranzoso, un altro fratello assuefatto alle stesse sostanze
deliziosamente lavorate. Potevano diventare amici.
Ma il tipo non era stato affatto contento, aveva
tirato indietro un pugno e l’aveva colpito fortissimo alla
mascella. «Sparisci, fottuto di un drogato!» Sebastian era
caduto per terra, si era morso la lingua ed il sapore ferroso e
rivoltante del sangue gli aveva riempito la bocca. «Io ci pago
l’affitto con i soldi, le bollette, i libri di mia sorella, le
colpe di quel figlio di puttana di mio padre.» gli aveva urlato
stravolto e lui l’aveva guardato senza capire cosa avesse detto
per farlo infuriare tanto. «Ed io da quelli come te non voglio un
centesimo.» si era allontanato a testa alta, andando incontro ad
un nuovo cliente.
Quella notte Sebastian aveva capito che una puttana
aveva più dignità di lui. Quella notte Sebastian aveva
frugato nel cassetto del suo comodino ed aveva trovato una bustina di
roba vecchia: un po’ d’erba, qualche pasticca
d’ecstasy. Quella notte Sebastian era andato in overdose.
Maxi non aveva mai capito come avesse fatto Alyssa ad avere il suo
numero, ma rispondere a quella chiamata era stato come scoperchiare il
vaso di Pandora. Gli aveva chiesto aiuto e lui avrebbe potuto dire di
no, ma quella era sua sorella. Solo per mezzo sangue e, se contava che
non l’aveva mai vista, non avrebbe dovuto provare niente per lei.
Ma quella era sua sorella. Era nell'ospedale dove era appena morta la
madre e tutta le sua roba era ammucchiata in una borsa.
I nonni di Maxi l’avevano iscritto proprio
quell’anno all’università, sua madre era di nuovo in
riabilitazione, a volte trovava incredibile essere nato sano ed
intelligente senza che tutta la merda che Dalila Stone continuava a
prendere intaccasse le sue cellule. I nonni non gli volevano bene, per
questo gli avevano lasciato il cognome di suo padre, ma si sentivano in
obbligo verso il bambino di una sedicenne drogata che non aveva chiesto
di venire al mondo. Avevano fatto in modo che avesse tutto quello di
cui avesse bisogno, ma si erano dimenticati di amarlo.
Lasciò tutto per lei: nonni che cercavano di
fingere di essergli affezionati, una madre che usava lui per avere
soldi dai suoi genitori, gli sguardi amari di tutte le persone che lo
indicavano con compassione e finta partecipazione. Lasciò tutto,
perché quando Alyssa lo vide, sorrise sollevata e lo
abbracciò forte piangendo. Lasciò tutto, perché
nessuno lo aveva mai abbracciato con tanto affetto quanto sua sorella:
lei era la sua famiglia.
I nonni non approvarono, ma gli lasciarono tenere i
soldi che gli ridiedero indietro quando ritirò
l’iscrizione all’università, in un certo senso
sembravano quasi sollevati di non averlo più tra i piedi. Il
caro vecchio papà Masen, spacciatore di professione, drogato per
piacere, non poteva di certo fare obiezioni sul destino di Alyssa. Non
poteva certo chiamare la polizia.
Trovò un monolocale, trovò lavoro in
un fast-food. I soldi non bastavano mai, anche se Alyssa era
meravigliosa nel fare economia: sapeva cucire, cucinare, si tagliava i
capelli da sola e prendeva i libri dalla biblioteca. Si prendeva cura
della casa e di lui diligentemente ed a dodici anni era già una
massaia eccellente, forgiata da anni di vita nella casa di due genitori
sconsiderati. Ma aveva bisogno di vestiti quando non si potevano
aggiustare, aveva bisogno di cibo da cucinare ed i libri di scuola
andavano comprati.
Più bollette ed affitto.
I soldi non bastavano mai.
Una sera, mentre tornava a casa dal turno di notte a
piedi – figurarsi se potevano permettersi una macchina –
un’auto elegante e sicuramente costosa, gli si era accostata
vicino ed aveva abbassato il finestrino. Un uomo distinto gli aveva
chiesto con strana cortesia quanto volesse, ma lo aveva ignorato
continuando a camminare. L’uomo non si era arreso seguendolo
lungo il ciglio, gli aveva domandato ancora se da quella parte era
vergine e Maxi ancora non aveva detto niente.
«Te ne do cinquecento subito.»
Maxi si era fermato ed aveva guardato il rotolo di
banconote che gli stava allungando. Lo aveva preso timoroso ed aveva
contato: erano cinquecento, era bravo a contare, voleva studiare
ingegneria.
«Se sei vergine dopo te ne do altri cinquecento.»
Che facevano mille.
Non erano gli stenti a spaventarlo, né
accontentarsi delle briciole di Alyssa, che comunque riusciva in un
modo o nell’altro a dividere tutto ed a farli stare bene
entrambi. Era perderla che lo terrorizzava. Se un giorno fosse andata a
scuola in disordine, se un giorno tagliandosi i capelli da sola fossero
venuti male – erano sempre perfetti, ma gli incidenti erano reali
– se una delle cuciture che aveva fatto non avesse retto,
un’insegnante avrebbe potuto insospettirsi. Fare ricerche sulla
loro situazione. Avvisare gli assistenti sociali. Portargliela via.
«Ti prometto che non ti farò male.»
Avrebbe fatto un male del diavolo.
Ma mille erano un sacco di soldi.
Ed anche se era una cosa orribile, sarebbe stata una cosa orribile ben retribuita.
Lo aveva osservato soppesando
l’affidabilità del tipo. «Sulla macchina.»
aveva recuperato il cellulare dalla tasca della sua giacca. «Se
mi porti da qualche parte chiamo la polizia.»
L’uomo aveva annuito e gli aveva fatto un
cenno del capo verso i sedili posteriori, i vetri erano oscurati.
«Anche qui se vuoi.» doveva avere sui quarant’anni,
Maxi ne aveva ventuno, aveva fatto l’amore con due ragazze in
tutto.
Mille. Ci rientravano un affitto, due bollette ed un
letto anche per lui, visto che fino a quel momento lui ed Alyssa
avevano diviso un lettino. Con lo stipendio del fast-food ci veniva
anche tutto il resto. Avrebbe potuto cambiare quella cavolo di lente
degli occhiali che si era rigata e lo faceva impazzire di fastidio.
«Ok.»
L’uomo era sceso e gli aveva aperto la portiera del sedile posteriore.
Salire su quell’auto era stata la cosa più difficile del mondo, ma l’aveva fatto.
Dopo l’uomo gli aveva chiesto se stava bene,
Maxi aveva risposto di sì, stanco e dolorante. Gli aveva dato i
soldi promessi, più altri cento perché gli aveva sporcato
i capelli ed ad un certo punto era sicuro di avergli fatto male. Il
ragazzo si era pulito il viso con le mani distaccato, noncurante,
dicendogli che non importava.
«Ce la fai ad andare a casa?»
No, ma ce l’avrebbe fatta lo stesso: non voleva che quell’uomo vedesse dove abitava.
A casa aveva trovato Alyssa rannicchiata in un
cucina in lacrime, il pigiama zuppo della sua disperazione e Maxi aveva
capito che quando diceva di vedere, diceva sul serio. Lo aveva fatto
sentire anche più sporco di quanto era; aveva pescato dalla
tasca i due rotoli di banconote che aveva guadagnato, ma lei non si era
consolata. Così alla fine si era seduto accanto e l’aveva
abbracciata.
«Solo…solo finché non ci
sistemiamo.» si era accorto di tremare e solo in quel momento
Alyssa aveva smesso di piangere e lo aveva stretto forte, consolandolo.
Non aveva avuto paura di sporcarsi, non si era lasciata intimidire per
quello che aveva fatto, l’aveva abbracciato e basta.
Il giorno dopo gli aveva intrecciato i capelli dopo
aver studiato dal computer della scuola come si facevano i dreadlocks.
«Così puoi tenerli indietro e non si sporcano.
E Maxi non li aveva mai più sciolti.
Aveva cercato un posto dove ci fossero più
donne che uomini. La tariffa era sempre la stessa sia per le poche
signore, che comunque a volte capitavano, sia per i maschi. Era un
po’ altina e lo sapeva, ma gli garantiva una clientela più
pulita, più istruita, che capiva l’importanza
dell’igiene e del preservativo. Solo quando era veramente agli
sgoccioli cercava di essere meno schizzinoso e si metteva in saldo.
Diego non scommetteva più. Frequentava un gruppo di sostegno e
due volte al mese andava a trovare Sebastian chiuso dentro ad una
clinica dove l’avevano disintossicato. Avrebbe voluto riportarlo
a casa, ma aveva il terrore che ricominciasse, che la prossima volta
non sarebbe stato tanto fortunato. E poi non aveva un soldo, forse
avrebbe potuto vendere il vecchio ‘Draw cuts’. Non andava,
continuava a succhiare grana alla sua anima nostalgica; magari un fesso
a cui spacciarlo per un affare sicuro, lo trovava.
«Non lo faccia, la prego.»
Aveva guardato sorpreso la ragazzina in piedi
davanti a lui, doveva avere dodici, forse tredici anni ed era bagnata
come un pulcino; quella mattina presto aveva piovuto a dirotto, da
quanto era lì? Sembrava disperata.
Si era voltata verso il centro dell’ippodromo
dove i cavalli si stavano preparando a correre. «Posso dirle chi
vincerà. Posso assicurarle che sarà l’unico a
puntare su di lui e vincerà tutto quanto.»
«Vuoi degli spiccioli, ragazzina?» si
era frugato nelle tasche, le avrebbe dato i soldi per prendersi
qualcosa di caldo.
«Non sono i soldi.» aveva detto a voce
più alta di quella che aveva usato fino a quel momento.
«La prego, si fidi di me.» i suoi occhi enormi avevano lo
sguardo più triste del mondo. Non sapeva cosa le fosse successo,
ma non doveva essere niente di piacevole.
Aveva scommesso talmente tante volte, che differenza poteva fare? Avrebbe fatto contenta quella poverina.
«Ok.» aveva acconsentito alzandosi e
tirando fuori il portafogli. «Andiamo a fare una puntatina.
Allora, a chi vuoi che dia la mia fiducia?» le aveva domandato,
mentre lei lo seguiva docile fino al gabbiotto delle scommesse.
Infondo, non aveva niente da perdere: Courtney l’aveva
abbandonato, Sebastian era quasi morto, il ‘Draw cuts’
finito. Difficilmente una scommessa per quella tipetta avrebbe potuto
peggiorare le cose.
Lei si era morsa il labbro. «Deve promettermi una cosa.»
«Ti ascolto.» l’aveva rassicurata, anche se si era fatto improvvisamente guardingo.
Nei suoi occhi c’era qualcosa di solenne, non
avrebbe potuto tirarsi indietro da quel patto. «Prometta di
tornare qui, domani mattina e di aiutarmi.»
«Sei nei guai?» le aveva chiesto
dispiaciuto. In che razza di mondo vivevano se una bambina finiva nei
guai?
Lei aveva abbassato gli occhi. «Lei è
nei guai, suo figlio è nei guai, mio fratello è nei guai.
Insieme possiamo mettere apposto tutto quanto.»
Una voce registrata gli aveva annunciato che le puntate si sarebbero chiuse tra pochi minuti.
«Ma come diavolo…?» Sebastian, la
clinica, erano cose di cui non parlava mai. Erano la sua colpa e
trovava da vigliacchi scaricarla su qualcuno per dividerla.
«Non c’è tempo.» l’aveva interrotto. «Hunter.»
«Sicura? È famoso per arrivare sempre secondo.»
«Il primo cadrà poco prima del traguardo.»
Aveva puntato tutto quello che gli rimaneva nel
portafogli, poi si era voltato a cercarla, ma della ragazzina non
c’era traccia.
Flash rimase in testa fino all’ultimo, seguito come al solito da
Hunter. Cadde poco prima del traguardo, consegnando all’eterno
secondo la vittoria ed a Diego abbastanza soldi per ricominciare.
vi chiedo scusa in
anticipo se qualcuno troverà che io non abbia affrontato questi
argomenti con la giusta profondità o delicatezza...non lo so.
non ho mai scritto qualcosa di così drammatico, quindi non so
bene come regolarmi...il vostro giudizio sarà un buon metodo di
valutazione...
ho cercato di rimanere piuttosto distaccata e delicata...queste cose mi impressionano tanto, non ce l'avrei fatta altrimenti.
ma volevo assolutamente raccontarvi le loro storie, io le conoscevo ed ho pensato che potesse interessare anche a voi...
beh, fatemi sapere!
baci
ps. spero davvero, di non aver scosso troppo qualcuno...nel caso mi dispiace!
pps. però vi avevo avvertite, eh!
ppps. nel prossimo Diego ed Alyssa metteranno apposto le cose, abbiate
fede...poi giuro solennemente che torniamo al succo del
discorso...consentite questa parentisina di un paio di capitoletti!
|
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Capitolo 8 *** Capitolo 2.0 - seconda parte ***
olivia
fragolottina's time
basta, proprio basta.
dopo questo mezzo capitolo la piantiamo con tutta questa
devastazione...ok, che è una storia drammatinca e di per
sè la trama è già bella triste...ma stiamo
toccando punti di deprssione inimmaginabili! e che cos'è?!
sbraitò quella che scrive...si, bene.
dunque, ce la passiamo un po' meglio qui...almeno siamo proiettati in
un futuro roseo, ma va beh, l'argomento è quello che è,
non posso farci niente!
ci vediamo giù
ps. non sono proprio sensata in quanto a citazioni, ma questa ci stava troppo per non mettercela!
CAPITOLO 2.0 - seconda parte
Remember all the sadness and frustration
And let it go.
Let it go.
Sebastian
era seduto ad un tavolo della sala comune della clinica. Era un bel
posto e, a differenza di quello che aveva pensato all’inizio, non
lo trattavano come un detenuto o un reietto. Poteva passeggiare, poteva
guardare la tv, poteva unirsi ad una delle mille sedute giornaliere e
parlare con psicologi o altre persone che erano stati dei
‘fottuti drogati’ come lui.
Ma quel
giorno era troppo freddo, quindi aveva scelto un tavolo davanti ad una
finestra ed aveva iniziato a disegnare. Aveva scoperto che gli piaceva
e che era anche abbastanza bravo; i medici incoraggiavano quelle
attività, le ritenevano terapeutiche, quindi avevano fatto in
modo di procurargli tutto quello che voleva. Era al sicuro lì
dentro e non gli mancava niente.
Era rimasto piuttosto sorpreso, quando suo padre si
era seduto davanti a lui insieme ad una ragazzina. Quel mese era
già venuto a trovarlo due volte, non si aspettava di vederlo
prima di novembre.
«Ciao.»
Lo aveva fissato sorpreso e timoroso come sempre,
suo padre lo faceva sentire in soggezione. Quanti soldi gli aveva
rubato dalla cassa del ‘Draw cuts’? Se il locale era in
declino, era anche colpa sua.
«Se tu sei d’accordo vorrei riportarti a casa.»
Aveva continuato a guardarlo di secondo in secondo
più stupito, non aveva mai avanzato certe ipotesi ed alla fine
Sebastian era giunto alla conclusione che non lo volesse più.
«Non lo so.» voleva tornare a casa? «Potrebbe essere pericoloso, potrei ricaderci.»
«I medici credono che tu possa farcela.»
«Non lo credo io!» aveva sbottato a voce
alta. C’erano persone lì che continuavano a raccontare
della loro terza riabilitazione, della loro quarta riabilitazione, lui
era soltanto alla prima: amaramente si aspettava di ricominciare a
drogarsi almeno una seconda volta. Fuori di lì il mondo era uno
schifo, ognuno dentro la propria bolla isolato dagli altri, suo padre
che non si accorgeva della sua presenza. Era meglio stare lì.
Non avrebbe rischiato di farsi sbattere in faccia da una puttana la sua
superiorità.
«Sono una veggente.» aveva lanciato
un’occhiata scettica alla ragazzina. «Non succederà.
L’ho visto, io so che funzionerà.»
A quel punto aveva guardato suo padre con un aperto
rimprovero, la prima espressione vera da quelli che gli sembravano
secoli. Davvero? Aveva portato lì una sedicente veggente per
convincerlo a tornare a casa?
Ma lui si era stretto nelle spalle. «Dovresti
crederle, sai? Mi ha fatto vincere tanti soldi da vivere di rendita per
un anno all’ippodromo.» lei aveva sorriso orgogliosa di
sé stessa, Sebastian aveva pensato che era una ragazzina, ma che
un sorriso così bello non l’aveva mai visto nemmeno nei
suoi migliori deliri da LSD. Il padre le aveva appoggiato una mano
sulla spalla. «Ma noi non vivremo di rendita. Ci rimboccheremo le
maniche. E visto che tu sei mio figlio, mi aiuterai.»
«Tu non mi hai aiutato.» non era sicuro
nemmeno di averlo detto, non ricordava di averlo pensato, ma era come
se quella frase fosse sempre stata là, solo in attesa del
momento migliore per scaricare la sua disperazione. Avrebbe potuto
notare l’erba sul comodino, avrebbe potuto controllare
cos’era quella polvere bianca sulla scrivania della cameretta,
avrebbe potuto notare il sacchettino di quadratini di carta al posto
dell’erba, avrebbe potuto vedere – perché erano
così dannatamente evidenti – i segni rossi sulle sue
braccia.
«Lo so.» disse piano suo padre.
«Mi dispiace. Ma ci sto provando ora, dammi una
possibilità.»
Quando Diego aveva visto Maxi era rimasto per un lungo momento senza
parole a guardarlo: era appoggiato ad un lampione e continuava a
sfregarsi le mani. Quella sera l’aria non era particolarmente
rigida per essere ottobre, ma sul tardo pomeriggio aveva piovuto di
nuovo e l’umidità che era rimasta si incollava ai vestiti
e penetrava nelle ossa.
Aveva controllato di nuovo la foto che gli aveva
dato Alyssa, non aveva dubbi che fosse il ragazzo giusto, ma il punto
era proprio quello: era solo un ragazzo. Quanti anni poteva avere?
Diciotto? Venti? Quale depravato pagava un ragazzotto per farsi fare
certe cose?
Sospirando aveva accostato la macchina davanti al
lampione ed aveva abbassato il finestrino. Con triste abitudine, lui si
era avvicinato ed aveva sbirciato all’interno. «Cento, una
sega; duecento di bocca. Tutto il pacchetto cinquecento.»
Diego era rabbrividito al solo pensiero, a volte non
sapeva se il mondo era diventato incomprensibile per lui o se lui non
riusciva più a capirlo. «Per venire a fare due chiacchiere
con me quanto vuoi?» aveva chiesto con rimprovero. Se ne era
pentito, insomma, il racconto di Alyssa era stato crudamente semplice e
non lasciava alito ad interpretazioni: disperazione, solitudine, un
ragazzo che si era ritrovato a fare l’uomo. Dio, non era colpa
sua. Ma lo offendeva pensare che ai suoi occhi lui era uno schifoso
porco, tale e quale ai suoi clienti abituali.
Maxi aveva fatto un passo indietro sospettoso.
«Tutto quello che vuoi, ma qui.» disse con decisione.
«Non vengo da nessuna parte.» aveva continuato palesemente
sulla difensiva. Si era guardato intorno con apprensione, aveva paura.
Quante volte aveva avuto paura? Diego non voleva pensarci.
«Non si parla di affari in mezzo alla strada.»
Il ragazzo gli aveva scoccato un’occhiata
velenosa e spavalda. «Sono un libero professionista, non ho
bisogno di un ‘protettore’.»
Diego aveva realizzato che di quel passo non sarebbe
arrivato da nessuna parte: quel posto era una merda e quel ragazzo era
abituato a trattare con tipi di merda. Non si sarebbe fidato di lui
nemmeno se fosse stato una suora. Non in mezzo ad una strada, dove
salire sulla macchina sbagliata avrebbe potuto significare farsi
stuprare e poi, magari, uccidere.
«Ho tua sorella.» aveva chiuso gli occhi
vergognandosi di ricattarlo, di fare la parte del rapitore di bambine.
«Non ho una sorella.» aveva risposto
tranquillo, ma i suoi occhi lo fissavano con attenzione morbosa.
Aveva sorriso spietato. «No? Carina, piccolina, mora…»
«Come altre mille?» l’aveva deriso.
«Come altre mille veggenti?»
Aveva visto il panico scendergli addosso e si era
sentito tremendamente in colpa, ma le aveva promesso che avrebbe fatto
tutto il possibile e lui non aveva davvero rapito una ragazzina, era
lì di sua spontanea volontà. Anzi, era stata proprio lei
a cercarlo.
Non aveva detto niente, aveva stretto i pugni ed era salito in macchina.
«Sta bene?» gli aveva chiesto serio, mentre guidava.
«Si, è con mio figlio.»
«Se tuo figlio la tocca gli strappo l’uccello a morsi.» aveva minacciato.
Diego aveva deglutito affranto, quante volte aveva
dovuto ingoiare? Quante volte aveva dovuto mordersi la bocca per non
urlare? Quante volte si era fatto schifo, guardandosi allo specchio?
Quante volte aveva fatto davvero l’amore?
«Nessuno la toccherà.» aveva promesso. «E nessuno toccherà te.»
Aveva abbassato il finestrino e si era acceso una
sigaretta, non gli erano sfuggite le mani che tremavano. «Soldi?
Ne ho quanti ne vuoi, ma solo dopo che la lasci.»
«Non toccherei quei soldi nemmeno con le pinze.»
Maxi aveva riso sarcaastico. «Perché?
Ti faccio schifo? Mi dispiace…se lo avessi detto prima avrei
trovato qualcosa di pulito da mettermi, invece di questi pantaloni
luridi della sbobba d’altri!» aveva commentato.
«Piantala, moccioso!» l’aveva
ripreso e di nuovo i sensi di colpa lo avevano morso: se avesse
sgridato Sebastian, se gli avesse dato delle regole, se si fosse
aspettato che le seguisse, non avrebbe mai rischiato di morire. Era
fortunato, poteva ancora rimediare. «Quello che sei costretto a
fare fa schifo!»
Si era zittito, un silenzio rabbioso dettato soltanto dal buonsenso: quell’uomo aveva sua sorella.
«Che tu non ne abbia colpa è
un’altra faccenda.» aveva aggiunto a voce più bassa.
«Magari mi piace…» aveva commentato debolmente.
«Se così fosse forse tua sorella non mi avrebbe supplicato di aiutarti.»
Alyssa e Sebastian erano seduti ad un tavolo del ‘Draw
cuts’, mangiavano patatine e bevevano Coca-cola. Tutto abbastanza
normale da sembrare sorprendente. Stava cercando di farle un ritratto e
lei ne era entusiasta, ma non stava ferma un secondo.
«Ma non mi somiglia!» si era lamentata.
Allora il ragazzo aveva aggiunto un paio di baffi
arricciolati sotto il naso del disegno. «Ecco, è
perfetta!»
Lei aveva assunto un’espressione oltraggiata
che era di un buffo indescrivibile, dandogli uno schiaffo scherzoso sul
braccio, che era riuscito soltanto a farlo scoppiare a ridere.
Quando però era entrato suo padre seguito
dalla puttana per la quale aveva passato sedute su sedute psichiatriche
a parlare, Sebastian aveva smesso di ridere e si era fatto pensieroso.
Si erano guardati entrambi sicuri di riconoscersi.
«Bene, ora che siete tutti qui, vi dico come andranno le cose d’ora in poi.»
Alyssa gli aveva preso la mano ed aveva sorriso.
«Andrà tutto bene.» lo aveva rassicurato. Poi si era
alzata e si era avvicinata al fratello, per dimostrargli che era sana e
salva, nessuno le aveva fatto niente.
«La prima cosa da fare è rimettere in sesto questa baracca.»
Maxi aveva riso. «Non ho così tanti
clienti da riempirti il locale, spiacente.» aveva spiegato
ironico. «Ma conto di fare molte conoscenze la notte di
Halloween.» Diego l’aveva guardato e gli era sembrato
infinitamente stanco. «Che ti aspetti? Se avessi invidiabili
capacità imprenditoriali non starei sul marciapiede.»
L’uomo gli si era avvicinato e Maxi aveva
fatto indietro, trascinandosi Alyssa con sé per un braccio.
«Ho promesso a tua sorella che avrei fatto tutto il possibile per
aiutarti. Grazie a lei abbiamo un sacco di soldi, abbastanza da
provvedere a tutti e tre per qualche mese…»
«Nessuno ha chiesto il vostro aiuto.» lo
aveva interrotto senza smettere di indietreggiare, né di
tenerela sorella.
«Maxi! Non ci farà niente!» aveva protestato lei.
«Sopra casa nostra c’è una specie
di appartamento indipendente. È un buco, ma voi due ci starete
fin troppo comodi. Domani mattina vai a fare tutte le analisi.»
«Tuo figlio è un eroinomane e fai fare
le analisi a me?» ma si era fermato: non cercava più di
scappare. Era già qualcosa.
Sebastian aveva sussultato, ma non aveva detto niente.
«Mio figlio viene da una clinica di
riabilitazione, ci si aspetta che sia pulito.» l’aveva
fissato. «Tu vieni dalla strada, ci si aspetta che sia sporco. Ai
virus sessualmente trasmissibili non importa che tu abbia il cuore
d’oro.» il ragazzo l’aveva guardato con tanto di
quell’odio da costruirci una casa, ma Diego non aveva mollato.
«Basta, droga. Basta, scommesse. Basta, prostituzione.»
«I soldi mi servono.»
«Hai ancora il lavoro al fast-food e non
voglio affitto. Se trovi il modo di recuperare questo posto avrai due
stipendi onesti.»
All’inizio Maxi era stato solo scontroso, diffidente come un
gatto randagio non abituato ad avere un padrone. Aveva fatto le
analisi, ma non aveva preso la macchina. Gli avevano diagnosticato
un’infezione di qualche genere, ma completamente curabile e che
non avrebbe lasciato strascichi permanenti. Gli era andata decisamente
bene.
Si erano sistemati nell’appartamento sopra il
loro. Alyssa aveva ripulito tutto in due pomeriggi e Sebastian
l’aveva accompagnata ad un negozio dell’usato per comprare
qualcosa che facesse arredamento; a Maxi non piaceva nemmeno un
po’ che la sorella passasse tutto quel tempo con un ex
tossicodipendente, ma ben presto era stato evidente che non si sarebbe
lasciata influenzare dai suoi pregiudizi. Piena di spirito di
iniziativa aveva cominciato a leggere le carte alle sue compagne di
scuola per soldi.
Diego li controllava da lontano, contento che la
situazione sembrasse completamente sotto controllo. Le bollette
arrivavano tutte a lui e finché i soldi della vincita bastavano
non avrebbe avuto problemi a pagarle. Tutte le sere apriva il
‘Draw cuts’, aveva dieci clienti abituali che bevevano un
bicchiere di birra e passavano ore a chiacchierare. Sebastian lo
seguiva sempre e si dava un sacco da fare, anche se non ce n’era
bisogno. Era silenzioso ed ancora poco abituato ad avere gente intorno,
ma vedeva i progressi e se passare la scopa o pulire il bancone tre
volte in una sera lo aiutava, chi era lui per opporsi?
Maxi li aveva raggiunti una sera, tutti lo avevano
guardato come se si trattasse di un alieno. Un faccia nuova in quel
posto non si vedeva da parecchio tempo.
«Questo posto è una topaia.» aveva detto senza cerimonie.
Diego non si era scomposto, certo che era una
topaia, ma tutto sommato fruttava qualcosa e lui aveva deciso di
fidarsi della ragazzina senza timori. «Vuoi da bere?»
«Birra.»
Diego gli aveva servito una lattina di coca-cola ignorandolo.
«Questo posto è una topaia ed è
introvabile. Ci ho messo un quarto d’ora io che la
cercavo!» si era seduto su uno sgabello ed aveva appoggiato sul
piano del bancone un blocchetto iniziando ad appuntare cose, gli
tremavano ancora le mani e la sua scrittura era tutta disordinata.
Sovrappensiero Diego si chiese se non avesse bisogno di uno psicologo.
«Bisogna comprare un’insegna più grande e bisogna
motivare le persone a venire. I talent vanno forte, si potrebbero
ospitare dei dilettanti con la promessa di dargli…boh, il venti
per cento della serata?» si era stretto nelle spalle.
«Saranno soprattutto ragazzini con sogni di gloria. I nuovi
Nirvana, i nuovi Sex Pistols, i nuovi Pink Floyd…orrendi! Ma
porteranno amici, parenti e li obbligheranno a spendere per ricavarne
qualcosa e noi ci intascheremo i frutti dei loro sforzi.»
Diego lo stava fissando da un po’, riflettendo
che quel ragazzo aveva talento imprenditoriale, eccome. Anche i suoi
abitué sembravano perplessi.
«Hai chiesto un’idea.» si era lamentato, davanti alla mancanza di entusiasmo.
«Alyssa lo appoggerebbe, papà.» gli aveva ricordato Sebastian.
«D’accordo. Domani pomeriggio vi do le
nuove regole.» aveva riempito di nuovo il boccale di un tizio.
«Va a casa ora, domani mattina devi andare a lavoro.»
Erano tutti e tre seduti sul divano, Alyssa al centro ed i due ragazzi uno per lato. Tutti e tre in attesa che parlasse.
«Dunque, la gestione, l’organizzazione e
tutto quanto, sono compiti di Maxi. Sei mai stato dietro ad un
bancone?»
Il ragazzo aveva scosso la testa.
«Bene, è ora che impari. Stasera vieni
al locale e fai pratica con i miei clienti abituali, le cerimonie a
loro non interessano.» aveva spostato lo sguardo sul figlio.
«Sebastian, aiutalo.» lui aveva annuito senza incertezze.
«Io provvederò a rendere la cucina praticabile.» un
tempo il ‘Draw cuts’ era stato molto più di un bar e
forse poteva tornare ad esserlo. Certo, erano qualcosa come dieci anni
che non usava la cucina, ma in qualche modo avrebbe fatto in modo che
potesse essere riutilizzata.
«Ed io?» aveva domandato Alyssa. «Anche io voglio fare qualcosa.»
«Tu, signorina, fai tutti i compiti e dopo
vieni a mettere a posto i tavoli.» lei aveva annuito eccitata.
«Ma poi torni di corsa a casa perché la mattina dopo hai
scuola.»
«E se non va?» Diego aveva guardato
Maxi, aveva i pugni stretti nelle tasche della felpa, si era accorto
che notava sempre quando gli tremavano le mani; l’uomo iniziava
ad essere seriamente preoccupato che non smettesse più.
«Che faccio torno sul marciapiede?»
Aveva sospirato. «Non pensiamoci adesso.»
«Voglio sapere se è un’eventualità.»
L’aveva fissato negli occhi. «Se non va
riproveremo. Non ci torni sul marciapiede.» gli aveva promesso.
«Alyssa, funzionerà?»
«Assolutamente si. Non ci possiamo aspettare
immediatamente grandi guadagni, ma nel giro di tre mesi il ‘Draw
cuts’ ci manterrà tutti e quattro.»
«Vedi, ragazzo? Io mi fido di tua sorella, dovresti farlo anche tu.»
Mi fermai con una tovaglietta di carta tra le mani.
Alyssa e Sebastian scherzavano poco distanti da me;
studiai il sorriso del ragazzo, cercando qualcosa che mi confermasse
tutto quello che avevo visto. Ma l’unica cosa che vidi confermata
fu la sua straordinaria passione per il sorriso di lei. C’era
stato dolore, aveva scavato fosse profonde, loro erano riusciti a
salire in cima ed ora sbirciavano giù con due pale in mano e
piano, piano stavano ricoprendo di nuovo quei buchi. Il passato andava
lasciato andare e dimenticato.
Guardai Maxi, stava riempiendo le scodelline di
patatine ed altri stuzzichini per gli aperitivi. Vidi distintamente la
sua mano tremare, lui scosse il pugno con decisione ed abitudine e
quando tornò ad arrotolare il sacchetto di chipster,
perché non si seccassero, era di nuovo fermo e tranquillo.
Alzò il viso e mi lanciò un’occhiata.
«Ti sei fissata ancora, Liv.» mi prese in giro.
Sarei voluta andare da lui ed abbracciarlo, dirgli che ora andava tutto bene, che era tutto finito.
Ma non lo feci.
Io violavo un giuramento solenne a sbirciare il loro
passato, anche se non ne ero del tutto colpevole. Ero migliorata, ma
non era ancora completamente in grado di controllare le mie visioni.
Alyssa diceva che a diciassette anni per me sarebbe stato come cambiare
canale alla tv: avrei visto il mio rapimento in alta definizione, bello.
Arrossii e distolsi lo sguardo, lui
ridacchiò, spietatamente divertito da una ragazzina che
arrossiva perché la beccava a guardarlo. Gli davo molte
soddisfazioni.
Alyssa mi si avvicinò sorridendo e mi strinse
la mano, mentre con l’altra recuperavo quattro bicchieri da
sistemare. Mi ero abituata alla sua passione per i contatti fisici, era
tutta un toccare ed abbracciare.
«È un pensiero carino da parte
tua.» le lanciai un’occhiata. «Ma non gli piace
parlarne.» lo immaginavo. «Tu gli piaci proprio
perché non ne dovresti sapere niente!» rise tornando al
tavolo che aveva interrotto per venirmi a parlare.
Lanciai un’occhiata a Maxi, cercando di stare
attentissima a non farmi vedere, ma lui stava guardando me, quindi, non
mi rimase altro da fare se non sbuffare alla sua seconda risata.
Ma restò un pensiero dolce a galleggiare nella mente: io gli piacevo.
fine...lasciamoci alle spalle questa cosa, per carità...
fatemi sapere che ne pensate, ça va?
bacichenonnepossonopiùdiscrivererobatantotragica!
ps. la canzone è Iridescient dei Linkin Park...bella, mi piace...
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