Queen Victoria's College II : Comeback di adamantina (/viewuser.php?uid=99582)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** The Hospital ***
Capitolo 3: *** Nothing I can do ***
Capitolo 4: *** Right or Wrong ***
Capitolo 5: *** Telepathy ***
Capitolo 6: *** The Choice ***
Capitolo 7: *** Violence ***
Capitolo 8: *** Best Friends ***
Capitolo 9: *** Getting Worse ***
Capitolo 10: *** Kidnap ***
Capitolo 11: *** Back in action ***
Capitolo 12: *** Lost ***
Capitolo 13: *** Unexpected ***
Capitolo 14: *** Forgiveness ***
Capitolo 15: *** Losing the last hope ***
Capitolo 16: *** The greatest mistake ***
Capitolo 17: *** Apologize ***
Capitolo 18: *** Proposal ***
Capitolo 19: *** Egoistic ***
Capitolo 20: *** Bad feeling ***
Capitolo 21: *** Friends again ***
Capitolo 22: *** A rescue and a birth ***
Capitolo 23: *** Run ***
Capitolo 24: *** Even heroes ***
Capitolo 1 *** Prologue ***
QUEEN
VICTORIA’S COLLEGE II : COMEBACK
Bene,
rieccomi. Sono passati quattro mesi da quando ho pubblicato
l’ultimo capitolo
di Queen Victoria’s College. Avevo detto che mi sarei presa
una pausa dalla
storia … ebbene, non l’ho fatto. Perché
tre giorni dopo ero già intenta nella
stesura del primo capitolo di questa storia. Non l’ho
pubblicata subito –non
ero ancora certa di che piega avrebbe preso la storia e se avrei avuto
bisogno
di modificare l’inizio- ma adesso sono qui, un po’
in ansia per il giudizio che
potrà avere questo seguito.
Il
mio stile di scrittura è rimasto più o meno lo
stesso, ma i contenuti della
storia sono cambiati. Credo che ci sia un po’ meno azione e
un po’ più
introspezione, un focus sui personaggi per conoscerli meglio.
Lungi
da me scrivere un’introduzione più lunga del
prologo (ok, temo di averlo appena
fatto), vi lascio alla storia.
Ogni
commento sarà molto favorevolmente accolto e
riceverà una pronta risposta. L’aggiornamento
sarà frequente perché i primi 16 capitoli della
storia sono già pronti.
Buona
lettura!
adamantina
~PROLOGUE~
[Blake]
Wish
that I could cry
Fall
upon my knees
Find
a way to lie
'Bout
a home I'll never see¹
Vorrei
poter piangere.
Vorrei
poter cadere in ginocchio e
crollare.
Vorrei
averne il tempo.
Ma
l’orologio scandisce i secondi
inesorabilmente, e di tempo non ne abbiamo più.
E
allora sono io, ancora una volta, a
prendere il comando e a riscuotere gli altri.
Non
c’è più nulla che possiamo fare, qui,
ma poco lontano il nostro intervento potrebbe salvare
un’altra persona. Salvare
il nostro Paese.
So
che capiranno.
So
che lui
capisce, quando si alza e si asciuga le lacrime dal viso, e
annuisce
appena.
E
allora corriamo –veloci
come la luce, veloci come la morte, perché il
nostro futuro dipende da questo.
Anche
se adesso è difficile pensare che
possa esistere un futuro, una casa in cui tornare se mai tutto questo
potrà
finire.
Alla
fine, sono stanco anch’io.
It
might sound absurd
But
don't be naive
Even
heroes have the right to bleed
I
may be disturbed
But
won't you concede
Even
heroes have the right to dream
It's
not easy to be me²
N.D.A.
¹
e ² : citazioni da “Superman” dei Five for
Fighting.
“Vorrei
poter piangere
cadere
sulle ginocchia
trovare
un modo per mentire
su
una casa che non vedrò mai”
“Potrà
suonare assurdo
Ma
non essere ingenuo
Che
anche gli eroi hanno il diritto di sanguinare
Potrei
essere pazzo
Ma
ammetterai
Che
anche gli eroi hanno il diritto di sognare
Non
è facile essere me.”
|
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Capitolo 2 *** The Hospital ***
~THE
HOSPITAL~
[Damien]
«Damien?»
Apro
gli occhi di scatto, risvegliato da uno scossone improvviso
che mi distoglie da sogni luminosi e allucinati.
Tossisco
un paio di volte e mi metto a sedere, salvo poi ricadere
sui cuscini per un giramento di testa.
«Damien?»
Il
mio sguardo si opacizza per una visione improvvisa di cani neri
che abbaiano furiosi, forse partecipanti involontari di un
combattimento
clandestino.
«Damien?»
La
voce si alza di tono e vengo scosso di nuovo. Sbatto le
palpebre rapidamente e tento di schiarirmi i pensieri, provando a
ricordare
come escludere queste immagini dalla mia mente.
«Damien?
Per favore, rispondi, mi stai facendo preoccupare.»
Visualizzo
una porta e mi sforzo di liberare la mente per
richiudervi dietro tutte le visioni. Ci riesco abbastanza in fretta,
determinato a tornare lucido.
«Damien!»
Mi
volto, e finalmente rispondo.
«Sì.»
La
mia voce suona debole e incerta, ma sembra creare un certo
sollievo nel mio interlocutore.
«Oh,
grazie a Dio. Cosa ti succede? Stai male?»
Con
più cautela, mi siedo sul letto e poso gli occhi su Arthur,
seduto accanto a me con gli occhi colmi di ansia, facendo ancora fatica
a
metterlo a fuoco.
«Un
po’» ammetto.
«Ok.
Vestiti, andiamo all’ospedale.»
Scuoto
la testa con decisione, anche se questo mi fa quasi cadere
di nuovo –ma Arthur mi sorregge.
«Non
è il caso» mormoro.
«Non
me ne frega niente di cosa ne pensi tu,
Damien. Ti do cinque minuti.»
Sospiro.
Di norma, la testardaggine di Arthur non lascia spazio ad
obiezioni di nessun tipo, ma non è la prima volta che riesco
a fargli cambiare
idea su questo argomento in particolare.
«Lo
sai che non possiamo. Se mi facessero degli esami del sangue
…
» tossisco di nuovo prima di riuscire a proseguire la frase
«Potrebbero capire
che c’è qualcosa di strano.»
«Non
mi interessa.»
«Ci
siamo già andati, Art. Tre volte.»
«Eppure
non sei guarito.»
«Senti,
non … » Un ennesimo attacco di tosse mi impedisce
di
continuare. Mi porto d’istinto una mano davanti alla bocca.
Quando l’attacco si
placa, la ritiro e, come in un incubo, la vedo macchiata di rosso. Art
segue il
mio sguardo. Lo vedo impallidire prima di infilarmi a forza una
maglietta,
stringermi un braccio e teletrasportarci entrambi via.
Tre
ore e infiniti colpi di tosse dopo, sono ancora seduto su una
sedia di plastica bianca in uno squallido corridoio
dell’ospedale di Cape Coral.
Sentire
il mio nome chiamato con aria annoiata da un infermiere mi
riempie di sollievo, soprattutto perché, se avessimo dovuto
aspettare ancora,
credo che Arthur avrebbe ucciso qualcuno. Mi alzo e, traballando
appena, entro
nello studio del medico, il dottor Carver.
Questi,
un uomo sulla cinquantina, alto e possente, mi squadra da
sopra le lenti degli occhiali firmati. Ormai allenato, colgo
immediatamente la
scintilla di disgusto che lampeggia per un solo istante nei suoi occhi
quando
vede Arthur accanto a me. Lo catalogo come omofobo in meno di due
secondi e
sono già tentato di andarmene.
«Bene,
signor … » consulta la cartella sulla scrivania
«Signor
Knight. Mi pare che lei sia già stato qui, non è
vero?»
«Sì»
rispondo «Più di una volta.»
«E,
se non vado errato, le era stata diagnosticata una
mononucleosi piuttosto acuta.»
«Esatto.»
«Ha
seguito tutte le prescrizioni mediche? Ha preso i medicinali
con regolarità?»
«Sì,
e sono stato meglio per un paio di mesi, ma adesso è di
nuovo
tutto come prima.»
Carver
mi guarda con aria dubbiosa, evidentemente non ritenendo
che io sia stato fedele alle sue precise indicazioni.
«In
tal caso» borbotta «Le rinnoverò le
ricette e potrà cominciare
un nuovo periodo di … »
«No»
ringhia Arthur, deciso. «Per tre volte ha preso quelle
stupide medicine e non è mai servito a nulla. Voglio che lei
gli faccia fare
degli altri esami.»
Carver
guarda Art con sufficienza.
«Lei
è un medico?»
«No»
risponde a denti stretti Arthur.
«Allora
temo che non sia nella posizione di giudicare l’efficacia
delle terapie a cui sottopongo i miei pazienti.»
Vedo
Arthur stringere i pugni e prevedo quello che succederà
senza
bisogno di alcuna visione. Gli metto una mano sul braccio per
dissuaderlo dal
fare scenate inutili, e intercetto di nuovo il disprezzo negli occhi
del
medico.
«Va
bene» dico. «La ringrazio. Arrivederci.»
Strattono Art e lo
costringo ad andarsene subito.
Non
appena siamo fuori, esplode.
«Quel
brutto bastardo!» urla.
«Shh.
Zitto, Art, per favore.»
«Come
si permette? Lo sa benissimo di avere sbagliato, e …
»
«Art,
basta. Non è il caso di reagire così. Senti,
facciamo una
cosa. Adesso ce ne torniamo a casa e domani, con calma, avremo tempo ad
andare
in un altro ospedale, magari in un’altra città, e
consultare qualcun altro.
D’accordo?»
Mi
squadra, indeciso.
«Avanti»
insisto. «Non serve a niente pretendere di …
» Senza
preavviso, ricomincio a tossire, sempre più violentemente, e
all’improvviso i
miei occhi si scuriscono e mi sento cadere, senza nulla a cui
appigliarmi per
non precipitare nel vuoto.
Mi
risveglio in una stanza minuscola con le pareti bianche. Accanto
a me c’è Art, ancora, e vedo che ha lo sguardo
perso nel vuoto, soprappensiero.
«Ehi»
mormoro.
Lui
sussulta e mi guarda.
«Oh.
Sei sveglio. Devo avvisare il dottore.»
«Aspetta.
Cos’è successo?»
«Sei
svenuto e ti hanno ricoverato qui, ma non mi hanno detto
nulla. Volevano che li avvisassi quando ti fossi svegliato.»
Esce
un momento e rientra con il dottor Carver, seguito da
un’infermiera bionda che non esita a puntare gli occhi su Art
e fargli un
sorriso. Lui non ricambia, gli occhi fissi su me e Carver.
«Come
si sente, signor Knight?»
«Esausto»
dico con onestà.
«Beh,
credo che questo sia dovuto alla sua evidente mancanza nel
seguire la mia prescrizione. I sintomi sono quelli della mononucleosi,
non c’è
ombra di dubbio. Credo che lei possa andare a casa anche subito,
purché si
impegni a prendere i suoi medicinali.»
«Che
cosa?» È di nuovo Arthur a intervenire, furioso.
«Non fa
altro che tossire. È dimagrito, è sempre stanco,
e tutto questo non è cambiato
nonostante abbia preso tutte le medicine che lei gli ha dato! E adesso
lei
vuole mandarlo a casa senza aver risolto nulla?»
«Senta,
le ho già detto prima cosa ne penso. Se seguiterà
a
comportarsi in questo modo aggressivo, farò chiamare la
sicurezza.» Poi si
rivolge all’infermiera: «Compili i moduli di
dimissione e glieli faccia avere
il prima possibile.»
La
ragazza annuisce e se ne va con lui.
Art
mi guarda, ancora tremante di rabbia. Quindi si lascia cadere
sulla sedia accanto al letto.
Mi
stupisco ancora di quanto sia cambiato. Una volta,
all’inizio,
non avrebbe preso le mie difese davanti ad un individuo come Carver. I
primi
tempi non tollerava alcun tipo di effusione in pubblico, e non riusciva
neanche
a tenermi la mano. E, se lo faceva, era per qualche malsano senso di
colpa
causato dalle occhiatacce che gli lanciavo se rifiutava. Si imbarazzava
facilmente, ed ogni sguardo gli sembrava ostile.
Poi,
circa sei mesi dopo l’inizio della nostra storia, sono stato
male
per la prima volta. Mi ha accompagnato in ospedale, e mi è
rimasto accanto come
attirato da una calamita. E quando, prima di un esame particolarmente
fastidioso e invasivo, un’infermiera gli ha detto
“se vuole, può restare
insieme a suo fratello” –riferendosi a me-, lui ha
scosso la testa stupito,
dicendo con decisione “non è mio fratello,
è il mio ragazzo”.
Da
allora, non ha più dimostrato alcun imbarazzo.
«Dammi
il tuo cellulare» dice piano, la voce forzatamente calma,
riportandomi al presente.
Stupito,
obbedisco, tirandolo fuori dalla tasca dei jeans.
Lo
accende e vedo che entra nella rubrica.
«Cosa
vuoi fare?» chiedo, allarmato dalla sua espressione
rabbiosa.
«Sappi
che non c’è nessun’altra persona al
mondo per cui farei
questa telefonata, Dam.»
Questo
mi preoccupa ancora di più.
«Chi
vuoi chiamare, Art?» insisto.
Mentre
esita nel premere il tasto di chiamata, ricomincio
inevitabilmente a tossire. Questo sembra fargli prendere una decisione,
perché
schiaccia il pulsante, sebbene con un’espressione quasi
disgustata.
«Charlotte?
Sono Arthur.»
Non
ci credo. Spalanco gli occhi, incredulo. Ha davvero chiamato
Charlotte? Quella nella top ten delle persone che detesta di
più? Quella
–cito testualmente- secchiona
presuntuosa, arrogante e saccente?
«Senti»
vedo che si sforza per essere gentile, specialmente vista
l’occhiataccia preventiva che gli lancio «Scusa se
ti disturbo, ma … avrei
davvero bisogno di una mano. Sei al lavoro? C’è un
posto in cui posso
teletrasportarmi senza essere visto?»
Comincio
a intuire cosa vuole fare.
«Bene.
Grazie. Ci vediamo tra poco.»
Chiude
la telefonata e mi restituisce il cellulare.
«Cambio
di programma» annuncia. «Andiamo a
Baltimora.»
Charlotte
Miller, il più giovane medico primario che si ricordi
oltre che il migliore, non può che lavorare qui: al Johns
Hopkins Hospital di
Baltimora, da diciotto anni al primo posto della classifica dei
migliori
ospedali degli Stati Uniti.
Art
segue le sue indicazioni e ci teletrasporta entrambi in una
stanza vuota. Quando la terra torna sotto ai miei piedi, un nuovo
giramento di
testa rende necessario il suo sostegno.
La
porta si apre ed entra Charlotte.
Non
la vedo da più di tre anni e il suo cambiamento è
incredibile.
I capelli biondi sono legati in uno chignon sul capo. Indossa il camice
bianco
su un tailleur impeccabile con un paio di tacchi di altezza
considerevole. Sul
viso, un leggero strato di trucco.
«Ciao»
dice con un sorriso che non nasconde la sua preoccupazione.
Sa che, se Arthur l’ha chiamata, il motivo deve essere serio.
«Ciao»
replico, ancora cercando di riconoscere in lei la
diciottenne timida e geniale che ricordo.
I
suoi occhi si fermano su di me e vedo che mi studia con occhio
clinico. Non può non notare la mia magrezza e il pallore
cadaverico.
«Cosa
succede?» chiede.
«Damien
sta male da mesi» replica prontamente Art.
«Tossisce, è
dimagrito, è sempre stanco, spesso ha la febbre alta.
All’ospedale gli hanno
diagnosticato la mononucleosi, ma le medicine non fanno effetto. E non
può fare
gli esami del sangue per paura che scoprano … »
Charlotte
annuisce, seria. Apre la porta e chiama un’infermiera.
«Ho
bisogno di una camera per questo paziente. Voglio che prenoti
uno screening completo e procedi con esami del sangue e …
»
Delle
parole che seguono capisco soltanto le congiunzioni:
evidentemente Charlotte non è cambiata tanto come sembrava a
prima vista.
Concluso l’elenco di esami, congeda l’infermiera.
«Vi
accompagno in camera» dice, e ci fa strada lungo innumerevoli
corridoi.
Nel
frattempo, il suo cercapersone suona qualcosa come dodici
volte, e si allontana di fretta.
Mi
siedo sul letto e Arthur si mette accanto a me dopo aver chiuso
la porta.
«Come
stai?» indaga.
«Meglio.»
«Sul
serio?»
Mi
stringo nelle spalle e mi appoggio a lui, chiudendo gli occhi.
«Sono
contento che tu sia qui» sussurro.
«Non
potrei essere da nessun’altra parte, Dam.»
«Ti
amo.»
«Ti
amo anch'io.»
|
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Capitolo 3 *** Nothing I can do ***
~NOTHING
I CAN DO~
[Arthur]
Passano
tre giorni.
La
routine è più o meno sempre la stessa:
continuo ad andare al lavoro –abitudine acquisita solo dopo
aver ri-incontrato
Damien, che disapprovava fortemente il fatto che mi teletrasportassi
fuori dai
negozi senza pagare- ma, a fine giornata, invece di tornare a casa vado
a
Baltimora, in ospedale.
Damien
non sembra migliorare. La febbre va
e viene, la tosse non smette, mangia pochissimo e continua a perdere
peso.
L’unica
cosa che mi fa sentire sollevato è
saperlo nelle migliori mani possibili … anche se sono quelle
piccole, smaltate e
dotate di artigli di quella stronza
di Charlotte.
La
terza sera, dopo una doccia veloce,
chiudo casa e mi teletrasporto nella camera di Damien. Lui non si
scompone
troppo –all’inizio mi malediceva ogni volta che lo
coglievo di sorpresa, ma poi
ci si è abituato.
«Ciao.
Com’è andata al lavoro?» mi chiede
con naturalezza, come se fossimo a casa e dovessimo semplicemente
raccontarci
di un giorno qualunque.
«Tutto
bene» rispondo automaticamente,
chinandomi a baciarlo, anche se non è vero. Il mio capo,
infatti, ha notato
quanto ero assente e mi ha convocato nel suo ufficio, minacciandomi con
il
licenziamento. Ma questo non posso dirlo a Damien, visto che lui
è attualmente
in malattia e, se dovessi perdere il lavoro, resteremmo senza entrate.
«E tu?»
«Niente
di nuovo.»
Mi
siedo sulla solita sedia di plastica e
lo osservo con attenzione. Le occhiaie sul suo viso sono ancora
più profonde, e
se gli sollevassi la maglietta potrei contare le costole. Mi fa male il
cuore a
vederlo così, ma continuo a ripetermi che è solo
questione di giorni prima che
Charlotte trovi una cura.
«Hai
finito?» mi domanda, irritato.
«Di
fare cosa?»
«Di
fissarmi.»
«Perché
dovrei? Sei bellissimo.»
«Almeno
non prendermi in giro.»
Il
suo tono ferito mi fa sussultare.
«Sto
dicendo sul serio, Damien.»
Lui
borbotta qualcosa di indistinto che
suona un po’ come “cazzate”.
«Per
me sei bello sempre e comunque, Dam.
Smettila di fare il finto modesto, lo sai anche tu.»
Gli
strappo un mezzo sorriso insieme ad un
bacio, e in quel momento si apre la porta.
«Scusate»
dice Charlotte «Vi ho
interrotti?»
Ho
già la risposta sulle labbra: un freddo
“sì, vattene, per favore”, ma due cose
mi fermano. Primo: la gomitata di Damien
nelle costole. Secondo: l’espressione sul viso di quella
vipera … cioè, di
Charlotte.
«No»
rispondo. «Che succede?»
«Ho
esaminato i risultati dei test.»
Mi
drizzo subito sulla sedia,
istintivamente. Osservo Charlotte con più attenzione, e noto
le sue mani
tremanti che stringono con forza una cartellina, gli occhi sfuggenti,
le labbra
strette.
«Credo
… anzi, sono praticamente certa di
aver capito di cosa si tratta.»
«Cos’è?»
chiede Damien, e il suo tono è
talmente deciso che Charlotte non può fare a meno di
rispondere senza giri di
parole.
Si
morde il labbro, abbassa gli occhi.
«AIDS»
risponde.
Ecco.
Quattro lettere che hanno più potere
di una bomba atomica.
I
miei occhi saettano automaticamente verso
Damien, prima ancora che il mio cervello faccia qualunque deduzione o
elabori
un pensiero razionale.
Damien
fa un respiro profondo e improvviso,
come se l’avessero colpito con un proiettile. Non incrocia il
mio sguardo, ma
abbassa gli occhi sulle lenzuola.
E
io … io rimango lì immobile, guardando
tutto come se fossi all’interno di una bolla. Vedo Charlotte
muovere le labbra,
ma non sento cosa dice. Ho bisogno d’aria. Ho bisogno di
risposte. Ho bisogno
di Damien.
Non
riesco neanche a pensare. Tutto quello
che ricordo su quella malattia è qualche immagine vista alla
TV.
«Cosa
vuol dire?» domando, interrompendo
qualunque cosa stia dicendo Charlotte.
Lei
mi guarda per un momento prima di
rispondere, infilando nel discorso talmente tanti termini medici che
non riesco
a seguirla per più di venti secondi.
«C’è
una cura?» chiedo, interrompendola
ancora.
Quando
comincia a blaterare di medicinali e
cure sperimentali, capisco in fretta il nocciolo della questione.
La
verità è che non c’è.
Guardo
Damien come in trance. È ancora
nella stessa posizione di prima, lo sguardo fisso sulle lenzuola, perso
nel
nulla.
E,
del tutto inaspettatamente, sento un
bisogno urgente di restare da solo con lui.
«Charlotte,
vattene» le chiedo, ma suona
più come un ordine.
Lei
non obietta: annuisce e se ne va in
silenzio.
Non
appena la porta si chiude, mi volto
verso Damien. Vorrei dirgli qualcosa, qualsiasi cosa, ma ho un nodo in
gola e
la sensazione che, se parlassi, mi metterei a piangere.
Mi
siedo sul bordo del letto e lo guardo.
Quando finalmente riesco ad incrociare il suo sguardo, non vedo altro
che una
cupa rassegnazione. Ed è questo che mi fa crollare. Serro
gli occhi, ma non
sono abbastanza rapido da impedire alle lacrime di uscire.
Damien
spalanca gli occhi, incredulo.
«No»
mormora «Ti prego, Art, non piangere.»
Ma,
anche se accontentarlo è tutto ciò che
vorrei, non riesco ad impedirmelo.
Mi
mordo il labbro e mi volto, lottando con
furia per recuperare il controllo. So che non è di questo
che ha bisogno,
adesso. Ha solo bisogno che io sia forte e sorrida e gli dica che
andrà tutto
bene.
Anche
se non è così.
E
allora stringo i pugni, respingendo le
lacrime, ma è semplicemente troppo
e
non ce la faccio.
Sento
che Damien mi appoggia le mani sulle
spalle, ma ancora non riesco a girarmi per guardarlo negli occhi.
Restiamo così
a lungo, in silenzio, finché non riesco finalmente a
ricacciare tutte le
emozioni dentro di me e soffocarle.
Allora,
dopo essermi asciugato gli occhi
quasi con rabbia, mi volto verso Damien.
«Mi
dispiace» dico.
Lui
scuote la testa. Non riesco a capire
cosa prova, la sua espressione è impenetrabile.
«Andrà
tutto bene» sussurra.
«Dovrei
essere io a consolare te» gli
faccio notare.
«Non
è scritto da nessuna parte.»
«Probabilmente
in qualche rivista psicologica
che legge solo Charlotte.»
Sorride
e torna ad appoggiare la testa sul
cuscino, stanco.
«Sai
cosa significa questo, Art?» domanda
dopo qualche secondo di silenzio.
«Cosa?»
«Che
potrei davvero morire.»
Stringo
gli occhi.
«Non
dirlo» sibilo.
Lui
sospira.
«È
la verità» mormora, la voce bassa, gli
occhi chiusi.
«Puoi
combatterla» dico a denti stretti.
«Non lascerò che tu … non
succederà. Farò qualunque cosa …
qualunque, hai
capito? Non dire più una cosa del genere.»
Damien
non aggiunge altro e in breve tempo si
addormenta.
Lo
osservo a lungo, in silenzio, finché non
sento dischiudersi la porta. È Charlotte. Le faccio segno di
fare silenzio ed
esco con lei chiudendomi la porta alle spalle.
«Allora?»
chiedo, diretto. «Quanto gli
resta?»
La
domanda mi brucia la gola, lasciandomi
un desiderio di spaccare qualcosa. Guardo Charlotte, perfetta nella sua
tenuta
da medico-migliore-del-mondo, e sento tutto l’odio che provo
accrescersi e
invadermi.
«Il
fatto è» mi spiega lei «Che il nostro
corpo funziona in modo diverso da quello degli altri. Ne è
prova che, a quanto
pare, la malattia ha raggiunto lo stato conclamato in circa tre anni,
mentre di
solito non ne impiega meno di sei, e una media di dieci.»
«E
… normalmente, quanto ci impiega a … per
… »
«Dipende.»
La voce di Charlotte e così
dolce e comprensiva che mi viene voglia di tirarle un pugno.
«L’AIDS abbassa le
barriere del sistema immunitario e rende più soggetti ad
altri tipi di
malattie, come i tumori. Varia da caso a caso.»
«E
non possiamo fare niente?»
«Possiamo
provare con alcune medicine che
possono rallentare i sintomi, ma … onestamente, non so
quanto possano essere
efficaci. Sembra che il nostro corpo assorba e smaltisca più
in fretta i
medicinali, abituandosi subito ad essi e creando dipendenza. Quando
Damien
prendeva quelle pastiglie contro le visioni, ad esempio …
»
«Insomma»
la interrompo, furioso «Siamo
nell’ospedale migliore degli Stati Uniti, con la cosiddetta
dottoressa più
intelligente del mondo, e tutto quello che riesci a dirmi è probabilmente non possiamo fare nulla?!»
«Arthur,
ascolta … »
«Non
ho intenzione di farlo! Non se vuoi
continuare a parlare di medicine inutili e terapie che forse
potrebbero rallentare la malattia. Ho bisogno di sicurezze.
Damien ne ha bisogno!»
Ho
alzato la voce, tanto che un’infermiera
si avvicina a Charlotte per chiederle se ha bisogno d’aiuto
–ma lei scuote la
testa.
«Non
è vero che non c’è niente che puoi
fare» dice con voce più ferma e più
fredda di prima. «Puoi stare vicino a
Damien e rassicurarlo, tenergli compagnia e lasciare che io faccia il
mio
lavoro. Credi che lo lascerei morire senza aver fatto tutto
il possibile?»
Mi
rimette subito al mio posto, e taccio
per qualche momento, riflettendo sulle sue parole e sentendo la rabbia
che
sbollisce lentamente.
«Gliel’ho
trasmessa io?» chiedo
improvvisamente, trafitto da quest’ultimo pensiero doloroso.
«Beh»
comincia Charlotte, e non è mai un
buon inizio «Ho controllato anche i tuoi, di esami, e
… credo di sì, Arthur.
Forse l’hai ereditata dai tuoi genitori, o … non
lo so, potrebbero essere
diverse le cause.»
«Quindi
è tutta colpa mia» riassumo
cupamente.
«Non
dire così. Non è vero, non hai nessuna
colpa.»
«Non
siamo negli anni Sessanta, Miller.
Avrei dovuto informarmi! Internet è stato inventato per
questo.»
«Va
bene, ma questo non significa che tu
sia la causa della malattia di Damien. Dopotutto tu, per qualche ragione, non ti sei ammalato.»
«Certo
che no» sbuffo «Sono invulnerabile,
ricordi?»
E
per un
momento, per la prima volta nella mia vita, vorrei non
avere questo
potere. Certo, è piuttosto utile –non ricordo di
aver mai preso la febbre, o di
essermi tagliato, o qualunque altra cosa- ma vorrei poter cedere
l’invulnerabilità a Damien. Ne ha più
bisogno di me.
Peccato
che non possa farlo.
L’intuizione
arriva senza preavviso,
lasciandomi senza fiato.
«Oh,
Dio» mormoro, guardando Charlotte con
occhi sbarrati.
«Cosa
c’è?»
Scuoto
la testa, troppo sconcertato.
«Devo
andare, ma tornerò presto» prometto.
«Dì a Damien che non tarderò.»
E,
prima di lasciarle il tempo di dire
qualunque cosa, mi teletrasporto a casa, dove sono certo che nessuno
possa
sentirmi. Prendo il cellulare e compongo un numero che mai e poi mai
avrei
pensato di dover chiamare –meno ancora di quello di Charlotte.
«Sono
Arthur» dico sbrigativamente. «Dove
sei? Ti devo parlare.»
E,
ricevuta l’informazione, mi
teletrasporto subito al Queen Victoria’s College.
Piove.
Normalmente andrei a prendere un
ombrello, ma questo momento è davvero troppo importante.
Guardo
la sagoma familiare del vecchio
edificio in mattoni con il prato verde che lo circonda e le recinzioni,
apparentemente innocue. Mi sento immediatamente soffocare.
Ho
odiato questo posto più ancora di casa
mia. O forse … beh, diciamo che potrebbe essere un pari
merito. L’unica cosa
che rendeva sopportabile il tempo passato qui erano i ragazzi
–Damien,
naturalmente, ma anche Blake, Lily e Vanessa. Con Jonathan non ho mai
avuto un
grande feeling, e Charlotte … beh, non è neanche
necessario nominarla. Ma il
Queen Victoria’s mi è sempre sembrata
più una prigione che una scuola, fin da
quando i miei genitori mi ci hanno mandato dicendomi che era
“un posto per
persone speciali come te”, il che mi aveva subito fatto
pensare ad un manicomio
o ad un riformatorio.
Quando
hanno cominciato a fioccare i
divieti –vietato uscire, vietato correre, vietato fumare,
vietato spegnere la
luce dopo le undici e così via- è diventato
sempre più difficile resistere. Ho capito
in fretta che l’ultimo desiderio di Hermann era farci
sviluppare i nostri
poteri, come ufficialmente sosteneva: voleva solo reprimerli,
nasconderci per
tenerci lontani dalla società.
Me
ne sono andato quando avevo quindici
anni, tanti ideali e altrettanti stupidi sogni. Las Vegas è
stata una scelta
premeditata –con i trucchi nel gioco d’azzardo ho
imparato a far sorvolare gli
altri sulla mia minore età, e ho guadagnato abbastanza da
mantenermi
autonomamente.
E
il Queen Victoria’s … l’ho relegato in
un
angolo della mia mente, sepolto accanto ai ricordi, buoni e cattivi, di
quel
periodo.
Trovarmi
di nuovo qui, adesso, non è
affatto una bella sensazione.
Vedo
arrivare la persona che stavo
aspettando da lontano. Non appena i suoi tratti si fanno visibili
attraverso
l’acqua scrosciante, la avverto:
«Non
fare niente di stupido o me ne andrò
immediatamente.»
Lei
mi raggiunge, le mani sepolte nelle
tasche dello spolverino scuro, i capelli rossi un po’ gonfi
per l’umidità.
«Non
ho intenzione di correre il rischio,
dopo tre anni passati a cercarti» replica Lily, un mezzo
sorriso sul volto. «A
cosa devo il piacere, Arthur?»
«Ho
bisogno di te e di Vahel» dico a
malincuore.
«Oh,
meraviglioso. E per cosa, di grazia?»
Il
suo tono leggermente sarcastico non mi
tocca nemmeno.
«Voglio
che replichiate i miei poteri.»
«E
perché mai?»
«Ne
ho bisogno. Per … una persona. Non
importa.»
«E
noi cosa ne ricaviamo?»
«Non
è quello che volevate? I miei poteri?
Li potrete prendere anche voi, se la cosa è
possibile.»
«Molto
bene. Se ne sei convinto, vieni. Ti
accompagno da Vahel.»
«Aspetta.
Quanto … quanto tempo ci vorrà?»
«Difficile
dirlo, non sono io l’esperta.
Comunque, considerato che bisognerà fare tutto due volte
… non so, una
settimana? Due?»
«Così
tanto?» sbuffo, innervosito.
«Scusami,
ma hai avuto tre anni di tempo e
ti lamenti perché ci vuole una settimana?»
«Ho
solo avuto l’occasione di rivedere le
mie priorità, di recente.»
«Quello
che vuoi. Vieni?»
Esito,
quindi annuisco.
«D’accordo.»
E,
anche se solo ieri mi sarei messo a
ridere se mi avessero detto che l’avrei fatto, seguo Lily
all’interno del Queen
Victoria’s College.
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Capitolo 4 *** Right or Wrong ***
~RIGHT
or WRONG~
[Lily]
Non
posso ancora credere che le circostanze
siano così favorevoli. Insomma, ho passato tre anni a
cercare Arthur da un capo
all’altro del mondo, con il fiato di Vahel sul collo
… e all’improvviso eccolo
che si presenta qui spontaneamente e chiede che gli facciamo
esattamente quello
che vogliamo fargli.
Sono
appollaiata su uno sgabello nel
laboratorio di Vahel, nei sotterranei del Queen Victoria’s
College. Non amo
particolarmente questo posto –la prima volta che ci sono
stata, mi sono stati
tolti i poteri. Temporaneamente, certo, ma io non lo sapevo.
In
ogni caso, non sono io in esame adesso.
Osservo distaccata Vahel che prepara tutto il necessario.
Art
è seduto su una poltrona simile a
quella di un dentista e osserva con attenzione i movimenti di Vahel.
«Cosa
deve fare?» chiede.
«Prima
di tutto, dovrò prelevarti del
sangue» risponde tranquillamente Vahel. «Poi ti
somministrerò una dose
piuttosto massiccia di Pentothal, e dovrai restare sotto il suo effetto
per
qualche giorno prima che io possa ripetere l’esame del
sangue. Poi li potrò
confrontare, e, una volta svanita completamente l’azione del
Pentothal,
preleverò il materiale genetico necessario. Dovremo
aspettare qualche altro
giorno prima di ripetere il prelievo per la seconda volta.»
«Per
un totale di … ?»
«Un
paio di settimane, credo.»
Arthur
fa per dire qualcosa, ma poi scuote
la testa.
«D’accordo.»
Vahel
sorride –quel suo sorriso gelido e
inquietante.
«Non
vuoi sapere se sarà doloroso?»
Art
stringe gli occhi.
«L’unica
cosa che mi interessa è avere
quella roba.» Fa una pausa, riflettendo, mentre Vahel fruga
tra i suoi cassetti
e ne estrae una siringa. «Lo sarà?»
chiede comunque.
Vahel
ride –una risata meccanica e fredda
che ho imparato a temere.
«Oh,
io non mi preoccuperei troppo. Pensavo
che a voi femminucce il dolore piacesse.»
Prima
che Arthur possa replicare, Vahel gli
annoda intorno all’avambraccio un tubicino di gomma e gli
ordina di stringere
il pugno, per poi pungergli senza troppi scrupoli l’incavo
del gomito.
Preleva
due fiale di sangue e le ritira
scrupolosamente.
«Bene»
dice, soddisfatto «Adesso il
Pentothal. Ma andiamo su, non voglio che vomiti sul pavimento del
laboratorio.»
Art
fa una smorfia e in quel momento il
cellulare di Vahel squilla.
«Sì?»
risponde bruscamente. «Cosa? Davvero?
Non è possibile … sì, sì,
maledizione, arrivo subito.»
Chiude
di scatto il telefono e si volta
verso di me.
«Fallo
tu, Lily. Quattro fiale subito, più
una ogni sei ore. Io tornerò più tardi.»
«Quattro?
Ma pensavo che … »
«Fai
quello che ti dico e basta.»
Leggermente
irritata, annuisco. Insomma, la
dose standard di Pentothal è di mezza fiala,
perciò mi sembra eccessivo … ma
non voglio contrariarlo ancora. Sa quello che fa, immagino.
Faccio
cenno ad Arthur di seguirmi su per
le scale e ci dirigiamo verso la vecchia camera dei ragazzi, con i tre
letti
vicini e qualche poster ingiallito alle pareti.
Lui
si siede su uno dei letti e mi lancia
un’occhiata di sfuggita.
«Mi
hanno detto che sei stata tu a rivelare
a quelli dell’Area 51 che ero a Las Vegas» dice con
calma.
«È
così» confermo altrettanto
tranquillamente.
«Perché?»
«Perché
ti odiavo. Perché mi avevi tradita
con Vanessa. Perché non avevo nessuna ragione logica per cui
tacere» rispondo
senza scompormi.
Sono
ancora fermamente convinta di aver
fatto la cosa giusta … o, perlomeno, di non aver fatto una
cosa poi così
sbagliata. Come ho detto, avevo le mie ragioni.
Mi
tiro su le maniche e preparo la siringa
con la prima fiala di Pentothal.
«Dammi
il braccio.»
Lui
obbedisce.
Cerco
la vena e gli inietto il liquido
trasparente. Pochi secondi dopo, è già piegato in
due per i conati.
Prendo
la seconda fiala e ripeto la
medesima operazione.
Art
ansima e si porta le mani allo stomaco,
tentando di riprendere fiato.
Ancora
la terza fiala raggiunge le prime
due, e Art comincia a gemere dal dolore, tossendo e ansimando, scosso
da fitte
lancinanti allo stomaco.
Gli
tengo il braccio, ma le mie mani
tremano e rischio di perdere la presa.
«Stai
fermo» mormoro «Solo più una, Art.
Coraggio,
è quasi finita.»
Lui
stringe i denti e rilassa ancora il
braccio in modo che io possa concludere il lavoro iniettandogli
l’ultima fiala
di Pentothal in vena.
A
quel punto lo lascio andare, e lui
scivola sul pavimento, contorcendosi per il dolore, le mani strette
sullo
stomaco, le urla soffocate dai denti stretti.
Mi
inginocchio accanto a lui, preoccupata.
Forse non avrei dovuto ascoltare Vahel. Insomma, conosco fin troppo
bene gli
effetti collaterali di una dose normale di Pentothal, e questa era otto
volte
più grande.
«Arthur?
Stai bene?»
Ma
lui non replica, mordendosi le labbra
per non gridare.
Nervosa,
afferro un libro dal piccolo
scaffale lì accanto, mi allungo sul letto e comincio a
sfogliarlo. Non che mi
interessi davvero –è uno dei libri di Jonathan
sugli animali- ma almeno mi dà
qualcosa da fare che non sia guardare Art contorcersi sul pavimento.
Passano
diversi minuti nel silenzio, quindi
Art smette di muoversi e rimane sdraiato sul pavimento, immobile,
tremante, le
mani chiuse a pugno. Impiega qualche altro minuto per alzarsi in piedi
e
dirigersi a fatica verso il bagno. Sento lo scroscio
dell’acqua protrarsi a
lungo.
Quando
Art ricompare, i capelli bagnati e
l’espressione un po’ meno sconvolta, chiudo il
libro.
«La
tua soglia del dolore è piuttosto
bassa» gli faccio notare.
«Lo
sarebbe anche la tua, se fossi stata
invulnerabile per tutta la vita» mi fa notare, piccato.
Mi
limito a sogghignare.
«Cosa
devo fare, adesso?» mi chiede.
«Voglio dire, ho qualche giorno di attesa e …
»
«Devi
solo startene qua buono» taglio
corto. «Devo iniettarti una fiala di Pentothal ogni sei ore
per i prossimi
quattro giorni, perciò niente viaggi di piacere.»
«D’accordo.
Posso usare il telefono o devo
considerarmi in prigione?»
«Puoi
farlo, immagino.»
Tira
fuori il cellulare e compone un numero
rapidamente.
«Charlotte?
Sono Arthur.»
Spalanco
gli occhi, incredula. C’è un
motivo per cui sta chiamando una delle persone che detesta di
più al mondo? Ci
penso per un momento, ricordandomi che probabilmente ci sono
anch’io in quella
cerchia di persone, eppure è qui con me.
«Come
sta?»
Segue
un lungo silenzio durante il quale
Arthur ascolta corrucciato le parole di Charlotte.
«Posso
parlargli?» Una nuova pausa.
«Damien? Sono io. Come stai? … Sì,
immagino. Sul serio? Perché? … Ah.»
Distolgo
l’attenzione per un po’, tornando
su di lui solo nel momento critico.
«Beh,
sono … ecco, Dam, non posso
spiegartelo. Sul serio, te la prenderesti e … no, non
è niente di tremendo, ma
… Senti, ti fidi di me? Allora credimi: tornerò a
breve, e con una cura. … No,
credo due settimane.»
Anche
io riesco a sentire la replica
indignata di Damien all’altro capo:
«Due
settimane?!»
«Sì,
lo so, è tanto, ma … no, non posso
teletrasportarmi adesso, Dam. Magari tra qualche giorno. …
No, intendo dire che
davvero non posso. Anche se volessi
non … »
Un’altra
pausa prima della conclusione:
«Come
vuoi. Prenditi cura di te, ok? Ti
chiamerò il più spesso possibile.»
Sento il suono del telefono libero: Damien
deve aver attaccato. «Ti amo» finisce Arthur
sottovoce, ma ormai la linea è
caduta.
«Perché
non gliel’hai detto?» gli domando.
Lui
sembra ricordarsi solo ora della mia
presenza.
«Perché
lo conosco, e mi avrebbe
sicuramente impedito di restarci. Credo che avrebbe potuto mandare
Jonathan e
Charlotte a prendermi.»
«E
lui non sarebbe venuto?»
Si
rabbuia istantaneamente.
«Non
può.»
«Come
mai?»
«È
in ospedale.»
«Perché?»
«Non
sono affari tuoi, Lily.»
«È
mio amico.»
Art
si siede sul bordo del letto, ben
distante da me, e non risponde, rimettendo in tasca il cellulare.
«Avanti,
dico sul serio» insisto. «Damien è
mio amico. Tu mi odi, ma non ho fatto niente a lui.»
«È
malato» risponde bruscamente. «Di AIDS.
È in cura da Charlotte.»
Questo
riesce a farmi tacere. Lo fisso,
sbigottita.
«Oh,
mio Dio. Mi dispiace.»
Art
si stringe nelle spalle e si alza,
infastidito.
«Beh,
io vado» dico, in imbarazzo. «Fai
come se fossi a casa tua.»
Esco,
ancora scioccata, e mi dirigo in
automatico verso le scale per tornare in laboratorio.
Damien
malato? La sola idea mi sembra
profondamente sbagliata. Il
pensiero
che possa morire mi lascia senza fiato … ma poi mi ricordo
dove sto andando, e
i sensi di colpa si fanno sentire di nuovo. Perché Damien
non è l’unico in
pericolo di vita, ma almeno nel suo caso io non ho nessuna colpa.
Ma
scaccio in fretta quel rimasuglio di
coscienza che mi rimane, seppellendola in fondo a emozioni violente di
odio,
nate dall’abbandono e dalla solitudine di questi anni.
Sto
facendo la cosa giusta.
Deve
avermi sentita arrivare, perché sento
il tintinnio grave delle catene che si spostano. Nervosa, afferro le
chiavi dal
gancio sul muro e le infilo nella serratura, aprendo la porta a sbarre.
«Allora?»
dico bruscamente, fissando la
figura incatenata. «Hai pensato a quello che ti ho
detto?»
Mi
guarda con gli occhi socchiusi.
«Siamo
nervose quest’oggi?»
Faccio
un passo avanti, minacciosa.
«Non
ti conviene fare lo spiritoso»
ringhio, e sollevo la mano.
Un
forte lampo di energia lo colpisce,
facendolo saltare indietro fino a sbattere contro il muro retrostante,
con più
violenza di quanto volessi.
Scivola
a terra e si porta lentamente una
mano alla testa, da cui cola un sottile rivolo di sangue.
«Ironico»
commenta solo, pacatamente,
osservando le dita macchiate di rosso. «Ora so cosa si prova,
almeno.»
«Hai
fame?» replico, acida, tirando fuori
dalla tasca una pagnotta di pane.
«Affatto»
dice, ma la sua espressione lo
tradisce.
Sorrido.
«Da
quant’è che non mangi? Tre giorni?
Quattro? Quanto pensi di poter resistere ancora?»
«Abbastanza»
risponde, distogliendo a
fatica gli occhi dal pane.
«Puoi
averla, sai? Basta che rispondi alle
mie domande. Come hai ottenuto i codici di accesso?»
Resta
zitto, gli occhi a terra.
«Dov’è
la tua base?»
Ancora
silenzio. Mi innervosisco e stringo
in mano la pagnotta fino a farla quasi sbriciolare completamente.
«Chi
sono i tuoi alleati? Avanti, dimmelo.
Charlotte? Vanessa? Jonathan?»
Ancora
non risponde.
«E
Arthur? C’entra qualcosa in tutto
questo?»
«Ero
solo» dice con calma forzata. «Te l’ho
già detto mille volte.»
Senza
riuscire a controllarmi, gli scaglio
contro un’altra scarica di energia, facendogli ancora
sbattere la testa contro
il muro. Stavolta non si rialza.
Non
sono neanche certa se sia svenuto o
meno, ma non mi interessa. Richiudo a chiave la cella, riappendo le
chiavi e lo
guardo per un attimo, cercando in tutti i modi di non
pensare.
Come
se fosse possibile.
«Tornerò
domani, così avrai tempo per
cambiare idea, Blake.»
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Capitolo 5 *** Telepathy ***
~TELEPAThY~
[Jonathan]
Stanco,
irritato e nervoso.
Sono
piuttosto sicuro che non è così che
dovrei sentirmi dopo il nostro consueto pranzo domenicale, ma
tant’è.
Ormai
è da un pezzo che non abito più qui,
per fortuna. Ho trovato un appartamento carino in città e un
lavoro temporaneo
nell’officina di un meccanico, mentre di sera studio: da due
anni sono iscritto
a veterinaria –sì, scelta ironica, lo so.
In
ogni caso, da qui non si scappa: il
pranzo a casa di domenica è un obbligo e non posso
rifiutarmi. Purtroppo
martedì sarà festa nazionale, perciò
mia madre mi ha costretto a passare da
loro tutto il ponte. Impresa non da poco.
Ovviamente
abbiamo passato l’intero pranzo
a discutere. Secondo i miei genitori il mio lavoro è “vergognoso” e la
scelta di studiare veterinaria è “ridicola”.
So che la cosa non dovrebbe
toccarmi più di tanto, ma sentire le loro critiche serrate
è insopportabile.
Perciò
esco di casa e mi dirigo nel bosco.
Ho bisogno di una calma che non posso recuperare all’interno.
Mi trasformo in
lupo –semplicemente per non essere disturbato da nessuno e
poter correre in
libertà.
Raggiungo
la radura dove andavo sempre da
ragazzino, prima di trasferirmi al Queen Victoria’s, e mi
siedo con il muso a
terra.
Chiudo
gli occhi.
Questi
ultimi anni non sono stati un
eccitante mix di libertà e tranquillità come
pensavo. Anzi. Ho scoperto che la
vita reale mi sembrava più strana e falsa di quella di
prima. E l’idilliaca
vita di famiglia che mi ricordavo da quando avevo dieci anni
… beh, diciamo
solo che idilliaca non era
l’aggettivo più calzante.
Un
suono improvviso mi fa sussultare –lo
scricchiolio di un ramo spezzato. Mi volto di scatto, i denti scoperti,
istintivamente in posizione d’attacco. Ma mi rilasso subito,
anche se il mio
momento di pace è già finito.
Un
ragazzo bruno si è fermato a guardarmi,
tra il timoroso e il divertito.
«Jon?»
si premura di chiedere, casomai
potessi essere un lupo vero –in tal caso mi chiedo quanto in
fretta riuscirebbe
ad andarsene. Sono tentato di fargli uno scherzetto, ma poi decido che
non ne
ho voglia. Annuisco e lui mi raggiunge.
Jack,
mio fratello minore, ha da poco
compiuto diciotto anni. Questo è l’ultimo anno di
liceo per lui.
Dai
ricordi che ho di lui prima di partire
per il Queen Victoria’s, era un bambino allegro e iperattivo.
Poi, quando sono
tornato, l’ho visto nei panni di un quindicenne alle prese
con problemi
esistenziali come brufoli, ragazze e interrogazioni di matematica. Alla
fine ha
scoperto il football. È entrato nella squadra come kicker al
suo secondo anno
di liceo e si è adattato alla vita quotidiana da liceale
piuttosto popolare. Ha
anche parecchie ragazze che gli ronzano intorno, compresa la sua
attuale
fidanzata, una cheerleader bionda chiamata Susie.
Tra
poco finirà l’ultimo anno –sta
cominciando a ricevere le lettere di ammissione ai vari college.
Tutto
ciò che io non ho mai potuto fare. Una vita normale.
Mi
si avvicina e si siede accanto a me,
grattandomi la testa dietro alle orecchie. Me la godo per qualche
secondo prima
di trasformarmi.
«Allora»
esordisco «Stai cercando anche tu
di scappare?»
«È
stato il pranzo della domenica più
imbarazzante della mia vita.»
«Non
sei l’unico a pensarla così.»
Jack
sorride, ma vedo che c’è qualcosa che
non va. È teso e continua a tormentarsi le mani.
«Cosa
succede, Jack? Hai qualche problema a
scuola? Con Susie?»
Scuote
la testa. Rimane in silenzio per un
po’, prima di chiedere:
«Non
mi hai mai raccontato come mai te ne
sei andato da quella scuola.»
Lo
guardo, sorpreso.
«Beh,
per fartela breve, il preside era un
pazzo psicopatico che voleva addestrarci per uccidere il presidente
degli Stati
Uniti.»
Jack
sgrana gli occhi.
«Ti
ho mai detto» aggiungo, pensieroso «Che
quando siamo scappati, io e i miei compagni, il preside, Vahel, mi ha
sparato?»
«Che
cosa?»
«Dico
sul serio. Due colpi. Ho rischiato
grosso, ma Charlotte mi ha salvato la vita.»
«Charlotte
… il genio, giusto?»
«Proprio
lei.»
E,
come sempre quando ci penso, mi coglie
un’ondata di malinconia che devo scacciare con forza.
«E
… Jon? Quando sei partito per quella
scuola … lo hai deciso tu o ti ci hanno mandato mamma e
papà?»
«In
realtà, è venuto Hermann –il vecchio
preside- a casa nostra. Non so esattamente come lo sapesse, ma mi ha
spiegato
che esisteva questo posto speciale … avevo dieci anni, mi
sembrava una cosa
estremamente eccitante, e mamma e papà non vedevano
l’ora di sbarazzarsi del
figlio strano, immagino, anche se non l’ho capito fino a
pochi mesi fa.»
Sorrido cupamente. «Perché lo vuoi sapere,
comunque?»
Jack
abbassa gli occhi. Respira
profondamente, esita, quindi mormora:
«Credo
di avere anch’io una specie di …
potere, Jon.»
Sussulto,
preso alla sprovvista.
«Che
cosa?»
«È
cominciato solo da qualche mese. Io …
credo di sentire i pensieri delle persone.»
Sono
troppo sbalordito per replicare. Mi
aspettavo una chiacchierata tra fratelli sulle ragazze, o sul football,
e sento
Jack che dice di essere telepatico.
«Credevo
di star impazzendo. Sentivo queste
… voci nella mia testa,
all’inizio
solo ogni tanto, poi sempre più spesso, e … non
capisco se … » si blocca per un
momento e poi aggiunge «Non faccio che venire qui,
perché almeno non c’è
nessuno … di solito, e c’è silenzio.
Ma è una cosa orribile,
Jon! Non so
se sono veramente pazzo oppure … »
La
sua voce si spezza e io intervengo.
«Ehi,
ehi, calma» dico, mettendogli una
mano su una spalla. «Perché non me l’hai
detto prima? Avrei potuto aiutarti.»
«Temevo
che non mi credessi, e … avevo
paura che mamma e papà mandassero via anche me»
rivela sottovoce.
Chiudo
gli occhi per un secondo.
«Ok»
dico, cercando di sembrare calmo e
rilassato «Non devi preoccuparti. Non è una cosa
terribile come può sembrare.
Puoi conviverci tranquillamente.»
«Ma
non riesco più a pensare!
Mi sembra di avere una radio accesa in testa
ventiquattr’ore al giorno!»
Mi
ricorda incredibilmente Damien, e per un
secondo penso a quelle pastiglie che prendeva e provo un brivido di
terrore,
ricordando le urla che arrivavano attutite dalla stanza della
disintossicazione.
«Che
pastiglie?» chiede Jack, aggrottando
le sopracciglia.
Io
lo guardo per un istante, chiedendomi se
ho parlato ad alta voce –ma poi mi rendo conto che no, non
l’ho fatto, ma lui
mi ha letto nel pensiero.
E
la cosa è piuttosto inquietante.
«Cos’hai
sentito, di preciso?» gli chiedo,
distraendomi per un attimo dal suo problema.
«Da
te? Beh, qualcosa riguardo a Charlotte
… qualche pensiero non proprio casto, ecco.»
Ride
e io arrossisco, tirandogli un pugno
sul braccio.
«Sei
un piccolo spione impertinente»
sbotto.
«Il
problema è questo» replica, tornando
serio e cupo.
«Cosa?»
«Io
non ti ho spiato, Jon. Non riesco a
fare a meno di sentire tutto»
mi
spiega. «E comunque, a quali pastiglie stavi
pensando?»
«Non
è una soluzione applicabile» taglio
corto. «È una droga vera e
propria. Damien –quello che
vede nel futuro- le ha prese per un
po’, prima di rendersi conto di esserne diventato
completamente dipendente.
Aveva un problema simile al tuo. Le visioni lo tormentavano giorno e
notte.»
«E
poi?»
«Poi,
dopo una disintossicazione per nulla
piacevole, Charlotte lo ha aiutato ad imparare un metodo del tutto
naturale per
controllare le visioni.»
«Pensi
che potrei impararlo anch’io?»
chiede, gli occhi che si illuminano improvvisamente per la speranza.
«Immagino
di sì» rifletto. «Forse potremmo
andare a trovare Damien. È da un po’ che pensavo
di farlo, comunque.»
«Dove
abita?»
«A
Cape Coral, in Florida.»
«Mi
risulta che la Florida sia piuttosto
lontana dal Colorado.»
«Credo
che sia una buona occasione per
prendersi una vacanza da mamma e papà e lasciare Meredith a
goderseli da sola,
che ne pensi?»
Jack
sorride.
«Penso
che sia un’ottima idea.»
A
casa di Damien non risponde nessuno,
quindi provo sul cellulare.
«Pronto?»
«Damien?
Ciao, sono Jon.»
«Jon!
Che bello sentirti. Cosa succede?»
«Niente
di particolare.» Lancio un’occhiata
a Jack, seduto in cucina a pochi passi da me, che mi guarda di
sottecchi.
«Pensavo di fare un salto a trovarti, la prossima settimana.
Che ne dici?»
Un
silenzio abbastanza lungo mi induce a
pensare che sia caduta la linea.
«Dam?»
«Sì,
ci sono. Ehm … ci sarebbe solo un
problema. Non sono a Cape Coral, ora. Sono a Baltimora.»
«A
Baltimora?» Penso subito a Charlotte,
che lavora lì. «Come mai?»
«È
una storia … piuttosto lunga.»
«Oh
… d’accordo. Ma ascolta, avrei veramente
bisogno di parlarti faccia a
faccia. Per quanto resterai lì?»
«Per
il momento è a tempo indeterminato,
diciamo così.»
Sono
piuttosto confuso, ma non insisto.
«Ok.
Sarebbe un problema se venissi lì,
allora?»
Un
nuovo silenzio.
«Immagino
di no. Vieni pure, se vuoi.»
«Perfetto.
Credo che potrei arrivare
mercoledì, se trovo un volo.»
«D’accordo.
Ci vediamo, Jon.»
«Ciao.»
Riattacco
e mi volto verso Jack.
«Accendi
il computer. Dobbiamo trovare un
volo per Baltimora.»
Tre
giorni dopo, sono all’aeroporto di
Baltimora con Jack. Compongo rapidamente il numero di Damien.
«Ehi,
ciao. Sono appena arrivato.»
«Ciao.»
«Dove
posso raggiungerti?»
Una
lunga esitazione, quindi risponde
brevemente, conciso:
«All’ospedale.»
«Cosa?»
«Senti
… ti spiegherò tutto quando sarai
qui, ok?»
«Io
… va bene, immagino.»
Chiudo
la telefonata.
«Che
succede?» mi chiede Jack.
«Vorrei
proprio saperlo» borbotto.
Prendiamo
un taxi e in dieci minuti siamo
in ospedale. La prima persona che vedo quando entro è
l’ultima che volevo
incontrare.
«Ciao,
Jonathan.»
Charlotte
è diventata splendida. Non so se
sono io, ma mi sembra più alta, più bella,
più adulta, più tutto. E vorrei solo
salutarla nello stesso modo in cui le ho detto addio tre anni fa.
Sento
Jack soffocare una risatina dietro di
me e lo congelo con un’occhiataccia. Torna subito serio.
Non
dev’essere facile per lui. Ha detto che
i posti affollati sono sempre i peggiori, perché sente
migliaia di voci
contemporaneamente.
«Ciao,
Charlotte. È bello rivederti.»
Mi
dà un bacio sulla guancia.
«Sei
qui per vedere Damien, giusto?»
«Già.
Ma non sono riuscito a capire … »
«Ti
spiegherà lui stesso, immagino. Vieni.»
Guarda
Jack incuriosita.
«Oh,
già. Charlotte, ti presento mio
fratello Jack. Jack, Charlotte.»
«Ho
sentito parlare molto di te» dice Jack
stringendole la mano. «Ecco, in effetti ho sentito parlare solo di te per svariate settimane
… »
«Oh,
sta’ zitto» sbotto, e Charlie ride.
Ci
accompagna fino al quarto piano, per poi
indicarci la stanza di Damien.
«Suppongo
che vorrai parlargli per conto
tuo.»
«Credo
che sia meglio.»
«Non
preoccuparti, me la caverò» replica
tranquillamente Jack, e annuisco mentre busso alla porta.
«Avanti.»
Entro
nella stanza e il mio cuore perde un
battito nel vederlo.
Damien
è seduto sul letto. È pallido e più
magro che mai. Diversi tubicini corrono dalle sue braccia a varie
macchine
intorno al letto.
Mi
blocco davanti alla porta, incapace di
reagire.
«Cosa
… ?» mormoro.
«Ciao,
Jon.»
«Ciao.»
Mi
faccio forza e mi avvicino a lui, fino a
sedermi cautamente su una sedia di plastica accanto al letto.
«Cosa
ti è successo?» non posso fare a meno
di domandare, sconvolto.
Damien
si passa una mano tra i capelli,
teso.
«È
… beh, Charlotte dice che … » si
interrompe, guardandomi quasi con timore «È
AIDS.»
Mi
manca improvvisamente l’aria. Lo guardo
con sguardo perso, cercando di dare un senso alle sue parole.
«Ma
… »
«Senti,
Jon» mi ferma subito «Lascia
perdere. Non ne voglio parlare, ok? Sei venuto qua per un motivo,
giusto?
Avanti, dimmi.»
Cerco
di restare calmo e lucido e annuisco.
Mi
alzo e chiamo Jack e Charlotte.
«Damien,
questo è mio fratello Jack.»
«Ciao.»
Jack
ricambia il saluto, e rivedo nel suo
comportamento teso il mio stesso disagio. Immagino come debba sembrare
orribile
la situazione a Damien e mi rimprovero per essere stato così
stupido.
«Beh,
per quanto la cosa possa sembrarti
assurda, abbiamo un problema» dico, ricordandomi
all’improvviso che quello che
ho davanti è ancora il mio migliore amico.
Damien
ridacchia.
«Oh,
avrei scommesso che avresti
pronunciato queste parole.»
«Da
qualche mese Jack ha scoperto di essere
telepatico» spiego.
Charlotte
drizza le orecchie.
«Sul
serio?» domanda, fissando mio
fratello. «Quindi non è venuta con la nascita?
Questa sì che è una novità. Mi
piacerebbe poter fare un confronto genetico … »
«Sì,
d’accordo» la blocco, nascondendo un
sorriso «Ma il motivo per cui siamo qua è che le
voci … i pensieri, insomma …
gli danno il tormento.»
Guardo
Jack per incoraggiarlo a continuare
da solo.
«È
così» conferma lui «Li sento sempre
più
forti, non riesco a concentrarmi su nessuno in particolare.
È come un ronzio
continuo e incontrollabile che non smette mai, neanche di
notte.»
«Ho
pensato che avresti potuto spiegargli
come funziona quel metodo che ti aveva insegnato Charlie.»
«Certo»
dice Damien. «Ti capisco benissimo,
Jack. Dici che funzionerebbe, Charlie?»
«Non
vedo perché no. Il principio è lo
stesso» replica lei.
«Bene,
allora lo farò io» decide Damien.
«L’ho perfezionato parecchio nel corso degli anni,
potrebbe essergli utile.»
«Grazie»
replica Jack, sollevato.
«Figurati.
Non ho molto altro da fare per
impiegare il tempo, dopotutto.»
Guardo
Damien e sento il bisogno di dire
qualcosa –qualunque cosa- ma non ci riesco. Nonostante sia il
mio migliore
amico, o forse proprio per questo.
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Capitolo 6 *** The Choice ***
~THE
CHOICE~
[Arthur]
Aspetto
che Lily se ne vada per cercare di
schiarirmi la mente, ma serve a poco, nonostante la ventata di aria
fredda che
faccio entrare spalancando la finestra.
Il
Pentothal, preso in una dose così
eccessiva, rende i miei pensieri lenti e faticosi. I contorni degli
oggetti
sono sfocati, mi sembra di muovermi al rallentatore, e ovviamente non
riesco ad
usare i miei poteri.
È
in momenti come questo che capisco quanto
ne sono dipendente. Non c’è altro che vorrei,
adesso, che teletrasportarmi in
un istante da Damien e tenergli compagnia. Invece devo aspettare per
due
settimane i comodi di Vahel in questo edificio soffocante.
Non
appena la mia mente si riprende quel tanto
che basta per farmi ricordare con esattezza dove sono e come mai sono
qui,
decido di fare un giro esplorativo.
Scendo
nelle aule, rivedo la mensa e la
sala comune, e poi vado giù nei sotterranei. Oltrepasso il
laboratorio di Vahel
e percorro il lungo corridoio, ricordando con divertimento quella volta
in cui
io e Damien –dovevamo avere tredici o quattordici anni- siamo
scesi qui sotto
per fumare e siamo stati beccati dal preside in persona. È
stato in
quell’occasione che ho scoperto di poter teletrasportare
qualcuno insieme a me:
ho istintivamente afferrato Damien e ci siamo ritrovati in camera con
ancora la
sigaretta accesa. Ovviamente Hermann ci ha visti e puniti comunque, ma
questa è
un’altra storia.
Proseguo
fino al fondo e poi mi volto,
decidendo di tornare su e magari vedere se la televisione al primo
piano
trasmette qualcosa di interessante, ma una porta chiusa attrae la mia
attenzione. Esito, quindi la spingo. È aperta.
Non
sono mai stato in questo corridoio. È
buio e umido, in discesa, e immagino che porti giù alle
cantine. Dopo pochi
passi, sento un suono che mi fa raggelare.
Un
tintinnio metallico.
Mi
immobilizzo e il suono si ripete.
Allora
mi faccio coraggio e proseguo. Poco
più in là, fiocamente illuminata
dall’unico, incerto neon del corridoio, una
porta a sbarre interrompe il muro di mattoni.
Mi
blocco lì davanti, sbirciando
all’interno con timore. C’è una figura
per terra, lontano dalla porta, al fondo
della cella. È stesa su un fianco, polsi e caviglie bloccati
da pesanti anelli
di ferro collegati a lunghe catene che si incastrano nel muro.
Oh,
Dio.
«Chi
sei?» mormoro, senza riuscire a
impedirmelo.
Per
un momento la figura non si muove,
tanto che penso che sia svenuta o addirittura morta. Poi, lentamente,
si mette
a sedere e mi guarda con occhi vacui.
«Chi
sei tu?» mi fa eco, la
voce impastata.
Assottiglio
gli occhi per vederlo meglio
nella luce scarsa. Riconosco una massa disordinata di capelli biondi.
«Blake?»
ansimo, sconcertato.
Lui
spalanca gli occhi, forse più scioccato
di me.
«Arthur?»
Indietreggio
di un passo, senza parole.
«Oh,
Dio, sei ferito» mi rendo conto. Provo
a scuotere le sbarre, ma è inutile.
«Le
chiavi» mormora Blake «Sono lì accanto.
Sul gancio.»
Mi
guardo intorno e le vedo, effettivamente
appese ad un gancio di ferro arrugginito a lato della cella. Le afferro
e apro
la porta senza esitare.
Mi
avvicino a lui, inginocchiandomi al suo
fianco.
«Ti
prego» sussurra «portami via da qui.»
Mi
mordo il labbro.
«Non
posso, Blake. Sono sotto Pentothal.»
E
realizzo che deve esserlo anche lui,
perché altrimenti avrebbe potuto spezzare le catene.
Lo
osservo con attenzione e vedo che il
sangue che gli è colato sul viso proviene da una ferita
recente alla testa
–anzi, da più di una. Provo a scostare i capelli
impiastrati di sangue, ma lui
sussulta per il dolore e lascio perdere. Il viso è sporco,
la barba lunga, la
camicia, un tempo bianca, è lacera. Tutto il corpo, per
quanto posso vedere, è
coperto da escoriazioni.
«Cosa
ti è successo?» gli chiedo,
spaventato.
Blake
non risponde, sembra essere tornato
in uno stato di semi-incoscienza.
In
questo momento, per quanto la detesti,
vorrei avere Charlotte a portata di mano, con la sua laurea in medicina
e la
sua capacità di tirare fuori dal nulla una cura per ogni
cosa. Beh, quasi per ogni cosa
–altrimenti non
sarei qua, ma accanto a un Damien già guarito.
Invece,
non posso fare altro che scuoterlo
delicatamente per provare a svegliarlo.
«Blake
… avanti … coraggio, Blake.»
Lui
si riscuote e apre gli occhi vacui.
«Ho
fame» mormora.
«Oh
… ok. Va bene. Vado a prendere
qualcosa.»
Esito
prima di uscire, ma poi corro per
tutta la strada fino alla cucina. Recupero tutto ciò che
riesco a trovare –due
pagnotte di pane, del formaggio un po’ ammuffito, una
merendina al cioccolato,
una mela e due bottiglie d’acqua- e lo porto giù
nei sotterranei.
Trovo
Blake più lucido di prima, seduto con
la schiena appoggiata al muro di pietra. Senza dire nulla, gli porgo il
cibo e
lui lo divora in silenzio, famelico.
Poi,
dopo aver mangiato tutto, sospira e mi
guarda riconoscente.
«Grazie.»
«Di
nulla. Come stai?»
Lui
si stringe nelle spalle.
«Lily
usa il mio potere meglio di me»
risponde.
«Immagino.
Perché sei qui?»
Blake
mi guarda stranito.
«Vogliono
sapere tutto. Sui dati che ho
raccolto, sui miei rapporti col presidente, sui miei alleati
… »
Tocca
a me, stavolta, essere confuso.
«Di
cosa stai parlando?»
«Di
cosa … ? Beh, di tutto ciò che ho fatto
in questi anni, no? Insomma, ho impedito a Lily e a Vahel di
… » ma si
interrompe, guardando con sconcerto la mia espressione smarrita.
«Non ne sai
nulla? Scusa, ma cosa ci fai qui tu?»
«È
una lunga storia, e riguarda i miei
poteri e Damien, e … ma non importa.»
«Quindi»
sussurra Blake, fissandomi con gli
occhi sgranati «Non sei venuto qui a cercarmi?»
«No,
io … »
«Non
sapevate che ero qui?»
«No,
ma … »
«Non
vi siete neanche accorti che ero
scomparso?»
Faccio
per rispondere ma rimango senza
parole e mi limito a mordermi un labbro.
Lo
sguardo sconcertato di Blake è una
pugnalata nello stomaco. Pensava che noi ci fossimo accorti della sua
sparizione e avessimo fatto due più due, e che quindi
avessimo deciso di
mandare me a recuperarlo al Queen Victoria’s …
mentre noi non sapevamo nemmeno
che lui avesse continuato la sua battaglia contro Lily e Vahel.
«Blake,
io … »
«Cosa
diavolo sta succedendo qui?» urla una
voce familiare che mi fa gelare il sangue nelle vene.
Il
mio istinto è di teletrasportarmi
altrove, ma quando non ci riesco mi ricordo del Pentothal.
Ivan
Vahel entra furioso nella cella di
Blake. Il suo sguardo passa da lui, a me, ai resti del cibo sul
pavimento.
«Lily!»
ringhia.
Lei
lo raggiunge di corsa. Mi vede,
impallidisce e si passa una mano tra i capelli rossi.
«Io
… non c’entro niente, lo giuro.»
«Pensavo
di averti chiesto di tenerli
d’occhio!»
«L’ho
fatto!»
«Non
con successo, a quanto pare.»
Vahel
mi prende per un braccio e cerca di
trascinarmi fuori dalla cella, ma mi oppongo con forza.
«No!»
«Ascoltami
bene, Mackenzie» sibila Vahel
«Vuoi o no quel campione per poter salvare l’amore
della tua vita? Se è così, allora devi
stare alle mie regole, hai
capito?»
Faccio
per rispondere con rabbia, ma mi
interrompo in tempo. Ha maledettamente ragione, purtroppo. La vita di
Damien è
nelle sue mani e io non posso fare altro che assecondarlo.
Esco
dalla cella senza aggiungere altro né
fermarmi per guardare in faccia Blake.
I
giorni passano lentamente, uno
stillicidio infinito scandito da noiose letture, programmi stupidi in
televisione e numerose fiale di Pentothal che mi lasciano sempre
più spesso
intontito e incapace di ragionare con lucidità. Vahel mi
toglie il cellulare,
impedendomi di contattare Damien.
Poi
la parte peggiore finisce, e per alcuni
altri giorni Vahel aspetta che l’effetto del Pentothal
svanisca. Ci vuole più
tempo del previsto, ma alla fine effettua tutti e due i prelievi. Non
è affatto
piacevole –rimango sotto anestesia per qualche ora e impiego
un paio di giorni
per potermi rimettere in piedi.
Vahel
adesso ha due campioni dei miei
poteri. Non sono ancora al massimo delle forze, ma sono fermamente
deciso ad
andarmene con entrambi.
Aspetto
che scenda la notte per agire. Mi
teletrasporto nel laboratorio e cerco il campione. È buio,
ma non mi fido ad
accendere la luce: perciò prendo una piccola torcia a led
che trovo su una
scrivania e inizio ad esplorare l’ambiente.
Non
è difficile individuarli. Si trovano su
un tavolino d’acciaio, in mezzo a una quantità
industriale di provette,
siringhe e botticini vuoti. Mi sembra troppo strano, troppo facile,
trovarle
così, ma non ci penso più di tanto.
Faccio
per andarmene, quando mi ricordo di
qualcosa.
Blake.
Non
posso lasciarlo qui. Non oso immaginare
cosa gli abbiano fatto Lily e Vahel per costringerlo a parlare, in
questi
ultimi giorni: non posso permettere che resti qui neanche un giorno in
più.
Mi
teletrasporto direttamente nella sua
cella, ed è la cosa più stupida
che
potessi fare.
Lily
e Vahel sono lì. Blake è piegato in
due, probabilmente –deduco dalla siringa che Lily ha in mano-
a causa del
Pentothal. Vahel giocherella con quella che sembra decisamente una
pistola.
Mi
osserva con un mezzo sorriso.
«Ma
che sorpresa» dice. «Vedo che hai
deciso di servirti da solo.»
E
poi spara. Non mi prendo neanche la briga
di teletrasportarmi: sono di nuovo invulnerabile, dopotutto. Eppure lo sento.
Non
è un proiettile, ma un ago, e l’effetto
è subito chiaro. Pentothal.
Oh,
merda.
Una
delle due fiale cade a terra e si
rompe.
Vahel
ride e apre la pistola, estraendo il
meccanismo che spara gli aghi e sostituendolo con dei proiettili
normali prima
ancora che io riesca ad alzarmi.
«Vediamo
quanto sei invulnerabile adesso»
dice con un sorriso.
Stavolta
mi do una mossa. Raggiungo Blake,
rapido, e faccio del mio meglio per scacciare la nausea da Pentothal.
Ho
ricevuto quattro fiale di Pentothal al
giorno per una settimana, senza contare le prime. La dose
nell’ago non poteva essere
superiore a mezza fiala. Se il mio corpo si è abituato a
quella droga –e
ricordo vagamente Charlotte dire che per noi accade più in
fretta che per gli
altri- forse i miei poteri reggeranno quel tanto che basta per
teletrasportarmi
altrove.
Afferro
il braccio di Blake e mi concentro.
Baltimora.
Nel
momento in cui sento che stiamo per
scomparire, sento gli spari. Mi rimbombano nelle orecchie e precedono
di poco
il dolore accecante alla spalla.
Riapro
gli occhi pochi secondi dopo –almeno
credo.
La
mia spalla destra brucia dannatamente,
tanto che impiego parecchio tempo a rendermi conto di cosa
c’è che non va.
Non
sono affatto a Baltimora.
La
distrazione causata dallo sparo deve
aver modificato la destinazione che ho pensato. Sono
–accidenti- in quello che
sembra un deserto. Vedo solo sabbia ovunque, e dune, e una lucertola.
Neanche
l’ombra di edifici, città o anche solo di una di
quelle oasi da film.
Mi
volto a fatica verso Blake, faticando a
ragionare a causa del dolore sferzante. Resto senza fiato.
È
immobile, privo di sensi. È coperto di
sangue, e vedo alla perfezione da dove proviene. Un proiettile lo ha
colpito al
collo. Non so molto di medicina, ma sono piuttosto certo che debba aver
reciso
un’arteria. Perde tanto, troppo sangue. Mi muovo goffamente
con la mano
sinistra, essendo l’altro braccio inutilizzabile, e gli premo
due dita sul
polso. Non sento null’altro che un flebile, debolissimo
battito irregolare.
«Blake»
lo chiamo, ansioso. «Blake!»
Non
reagisce.
Allora
mi concentro e provo a teletrasportarmi
altrove, ma non c’è verso di riuscirci. Il
Pentothal ha effetto come dovrebbe,
e prima di qualche ora non potrò spostarmi di nuovo. Ma
Blake non ha qualche ora.
Apro
lentamente la mano destra,
ricordandomi di cosa stringe.
La
fiala dei miei poteri.
Oh,
no.
La
osservo, e poi guardo Blake,
maledicendomi per non essere stato più intelligente.
Mi
prendo la testa fra le mani, e la spalla
mi lancia una fitta tremenda che rischia di farmi scivolare di nuovo
nel buio.
Senza più ragionare lucidamente, mi allungo, sforzando il
braccio ferito, e
stappo la fiala. Non ho siringhe a disposizione, perciò mi
limito ad aprire la
bocca a Blake e versargli il liquido dentro. Lo costringo a deglutire e
poi
osservo la fiala vuota.
Il
dolore fisico e morale hanno la meglio,
e scivolo in un sonno senza sogni.
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Capitolo 7 *** Violence ***
~VIOLENCE~
[Charlotte]
Guardo attraverso il vetro senza trovare il
coraggio di entrare.
Damien
è sveglio, vedo che tamburella con
le dita sul suo cellulare, distrattamente. Poi alza lo sguardo e
incrocia il
mio.
Allora
mi trovo costretta ad aprire la porta.
«Ehi.»
«Ehi.
Come va?»
«Un
po’ meglio, grazie.» Intercetta il mio
sguardo sfuggente e nota la cartella che tengo in mano. Si incupisce.
«Brutte
notizie?»
Mi
mordo un labbro, indecisa, poi mi
ricordo di essere un medico.
«Il
farmaco sperimentale che hai preso in
questi giorni non ha avuto effetto» dico tutto d’un
fiato. «I globuli bianchi
sono scesi ancora e … le difese immunitarie sono
praticamente ai livelli
minimi.»
«E
la risonanza magnetica?»
Ha
trovato subito il punto dolente. Abbasso
gli occhi.
«C’è
una macchia su un polmone» rispondo.
«Non sappiamo ancora di preciso cosa sia, ma …
»
Damien
chiude gli occhi e respira
profondamente. Non so cosa dire, mi sembra che tutte le parole del
mondo
sarebbero inutili in questo momento.
«Vorrei
che Arthur fosse qui» mormora
inaspettatamente. Mi faccio forza e mi avvicino, sedendomi cautamente
sul bordo
del letto. «Ha detto che sta cercando una cura»
prosegue. «Ma ho paura di
sperarci troppo. Credi che sia possibile?»
«Non
lo so» replico, cercando di zittire la
voce nella mia testa che mi impone di essere sincera.
No,
non credo che sia possibile. Non penso
ci sia una cura miracolosa che potrebbe salvare la vita a Damien
–non che non
lo vorrei, Dio, ma sono al corrente di tutte le scoperte mediche in
tempo reale,
e nessuna di esse riguarda un farmaco che cura l’AIDS.
«È
un no, ho capito.»
«Dam
… »
«No,
va bene. Mi fido di Arthur. Qualunque
cosa sia, deve crederci davvero per stare via due settimane.»
Annuisco.
«Senti,
Charlotte, ci sono delle cose che
vorrei sapere.»
«Sono
qui per questo.»
Esita.
«Quanto
tempo mi resta?» chiede poi
rapidamente, senza guardarmi.
«Non
lo so, Dam. Dipende da … da tantissimi
fattori. Il nostro corpo reagisce in modo diverso da quello degli
altri.»
«Ma
… in linea di massima?»
Deglutisco
a vuoto.
«Due
mesi, forse tre. Ma potrebbe essere
anche di più , o… o di meno. O magari Art
potrebbe veramente trovare una cura.»
Vedo
subito che si è fermato alle prime due
parole.
Sempre
con gli occhi rivolti verso il
basso, continua:
«Sarà
doloroso?»
In
occasioni normali, dovrei rispondere con
calma e professionalità. Ci provo seriamente, spiegandogli
in breve tutto ciò
che vuole sapere, e la mia voce regge per un tempo sorprendentemente
lungo. Gli
illustro la terapia del dolore e la possibilità di indurlo
in coma
farmacologico come se stessi leggendo la lista della spesa.
«E
… c’è un’altra cosa che mi
preoccupa,
Charlie. Controllare le visioni sta diventando sempre più
difficile. Se non
dovessi più riuscirci … e ho paura che
succederà … »
«Se
lo vorrai, ti darò qualcuna di quelle
pastiglie che ti dava Vahel.» Mi guarda con gli occhi
spalancati, quasi
inorridito. «O … o del Pentothal, se
preferisci.»
Annuisce,
più sereno.
«Volevo
ringraziarti per tutto quello che
fai, Charlie. Non so cosa avrei fatto senza di te.»
Riesco
a fare un piccolo sorriso teso.
«Mi
ricordo di un tempo in cui non la
pensavi così.»
«Ti
riferisci a quella volta in cui sono
riuscito a farti imprecare? Ne faccio un vanto, sai.»
«E
fai bene. Non è capitato molte altre
volte.»
Sorride
e tace per un po’.
«Charlotte?»
dice poi dopo un paio di
minuti.
«Dimmi.»
«È
stato Art a trasmettermela, vero?»
Lo
guardo.
«Sì.»
«Lui
lo sa?»
«Sì,
me l’ha chiesto e gli ho detto la
verità.»
Abbassa
gli occhi e rimane a lungo in
silenzio.
«È
normale, sai, se sei arrabbiato con lui»
dico dopo qualche minuto, incerta. «Insomma, è del
tutto naturale.»
«Perché
dovrei esserlo? Non è colpa sua»
ribatte con stupore genuino.
«Io
… pensavo solo … »
«Non
potrei mai avercela con lui per una
cosa del genere» mi interrompe, categorico. «Stavo
solo pensando che si sentirà
in colpa, lo conosco. Perciò … Charlie?»
«Sì.»
«Ascoltami,
sul serio. Promettimi che gli
impedirai di fare cose stupide … dopo.
Tu sei l’unica a cui darebbe retta.»
Faccio
una smorfia per nascondere i miei
occhi lucidi.
«Ma
se mi odia.»
«Non
ti odia. Non gli piaci … perché sei
l’unica persona che conosce che è più
intelligente di lui. Ma ti stima,
Charlotte, e non lo fa con nessun altro, a parte che con me.»
«Io
… non so se posso … »
«Promettimelo.»
Mi
guarda con occhi di fuoco che non
lasciano spazio ad obiezioni. Cedo subito.
«Te
lo prometto.»
Mi
ero ripromessa di restare fredda e
professionale, e ci riesco. Almeno fino a quando non saluto Damien ed
esco
dalla sua stanza. Torno nel corridoio semideserto, raggiungo il mio
ufficio,
tolgo il camice e metto il cappotto, per poi uscire
dall’ospedale.
È
tardi, devono essere passate le undici.
Non
appena sono libera da occhi indiscreti,
perdo il controllo. Una lacrima scivola dalle mie ciglia e inizio a
piangere in
silenzio, camminando rapida. La pioggia leggera mi nasconde, ma non
serve a
placare i miei singhiozzi senza suono.
Perché
proprio a Damien? Perché ora?
E
perché, mi chiedo con un egoismo che non
dovrei avere, proprio a me? Non ho
chiesto io tutte queste responsabilità. Certo, scelto di
fare il medico, ma nel
pacchetto non era compresa l’assistenza agli amici
più cari e in pericolo di
vita.
Proseguo
con gli occhi bassi in un vicolo
buio, diretta a casa, il volto sferzato da pioggia e lacrime,
finché non sento
qualcosa di freddo e deciso afferrarmi il polso destro.
Sollevo
la testa di scatto e una mano viene
premuta contro la mia bocca per impedirmi di urlare. Sbarro gli occhi e
vedo
una figura sconosciuta. Un uomo sulla trentina, calvo e vestito di
nero, forse
ubriaco.
«Ciao,
dolcezza» dice con voce rauca e
lussuriosa.
Rabbrividisco
e mi dibatto con violenza,
tentando di liberarmi, ma l’uomo prende l’altro
polso e li stringe entrambi in
una mano sola. Riesco a vedere ogni goccia di sudore, ogni ruga causata
dal
ghigno stampato sulla sua faccia, ma soprattutto posso vedere, come in
una
radiografia, il punto esatto del collo che dovrei premere per metterlo
fuori
gioco. O anche quello sulla schiena, e persino l’angolazione
da esercitare
sull’arteria che passa nel polso per fargli perdere i sensi.
Ma
tutte queste conoscenze sono
assolutamente inutili, per il semplice fatto che è
più forte di me. Non riesco a muovere le mani,
neanche con sforzandomi
al massimo.
«Ehi,
Al. Vieni a vedere che bellezza»
ride, in direzione della fine del vicolo.
Oddio,
no, ce n’è un altro.
Un
uomo più basso e vecchio, con una barba
grigia, raggiunge il primo. Sogghigna a sua volta.
«Cosa
ci fa una ragazza bella come te tutta
sola a quest’ora della notte?» domanda con voce
melliflua.
Mugolo
e scalcio, tentando di colpire
l’uomo che mi tiene ferma con un calcio ben piazzato
–ma l’altro interviene e
me lo impedisce.
«Muoviamoci»
ringhia, perdendo la sua vena
ironica.
Allunga
la mano e apre il cappotto, per poi
strappare la camicetta. Sento il tintinnio di ogni bottone in
madreperla che
cade sull’asfalto.
Mi
divincolo, in lacrime, ma ogni sforzo è
inutile.
La
mano che mi preme sulla bocca è viscida
e sudata ma ferma. Non riesco neanche a respirare, figuriamoci ad
urlare.
Ripenso inutilmente allo spray al peperoncino che è rimasto
a casa, in un’altra
borsa.
La
presa sulla mia bocca si allenta per un
solo istante, quanto basta al primo uomo per abbassare la mano e
slacciare
brutalmente il mio reggiseno.
Ne
approfitto per urlare, più forte che
posso, a pieni polmoni. Dura solo un secondo: mi tappa di nuovo la
bocca.
Cerco
di scappare, di coprirmi, di
scalciare, ma non posso muovere un muscolo. I due allungano le mani su
di me e ridono, ridono,
ridono.
Li
sento sganciare il bottone dei pantaloni
e cercare di abbassarli.
Sono
oltre ogni possibile stato di shock. I
miei muscoli sembrano diventati di pietra, i miei polmoni non riescono
ad
incamerare abbastanza aria, i miei occhi sono offuscati dal velo di
lacrime che
mi scivolano sul viso.
La
mia mente è assalita da milioni di
immagini orribili di quello che sta per succedere.
L’aria
fredda mi colpisce le gambe mentre i
pantaloni vengono gettati via insieme alle scarpe, ma quasi non me ne
rendo
conto, perché i miei sensi vengono convogliati tutti in un
solo compito: sentire.
Perché
un suono basso, cupo e tremendamente
spaventoso squarcia improvvisamente il silenzio del vicolo.
Le
mani che mi stanno toccando si arrestano,
e i due uomini si voltano. All’imbocco del vicolo, silenziosa
e letale, una
pantera nera li fissa con le zanne scoperte, inequivocabilmente in
posizione di
attacco.
Il
secondo uomo mi lascia andare e fa un
passo indietro. Il primo è indeciso: continua a tenermi la
bocca chiusa e i
polsi bloccati.
È
un attimo.
La
pantera scatta, i muscoli tesi nel
movimento felino e improvviso. Sento la presa salda su di me cessare e
incespico, scivolando a terra, nelle pozzanghere.
La
pantera getta a terra il secondo uomo
con tanto impeto che batte violentemente la testa contro
l’asfalto e giace
immobile.
Poi
si volta verso il primo, che ha
un’illuminazione. Sfodera un coltello e si inginocchia al mio
fianco,
afferrandomi i capelli e puntandomi la lama contro la gola scoperta.
«La
ammazzo!» ansima. «Giuro che la
ammazzo.»
Come
ha capito che l’animale stava
difendendo me? È questo dettaglio che mi fa intuire che deve
esserci qualcosa
–o forse qualcuno- dietro a questi uomini. In ogni caso, la
pantera ringhia ma
non si avvicina oltre.
L’uomo,
però, ha commesso un errore. Mi ha
lasciato le mani libere, ed è tutto ciò che mi
serve. La lama gelida sul collo
mi ricorda il prezzo da pagare in caso di fallimento: non posso
sbagliare.
Rapida, silenziosa, alzo una mano e colpisco il mio assalitore di
piatto sul collo.
I miei occhi sono umidi, la mano tremante, e non ottengo
l’effetto sperato -non
del tutto. Emette un gemito di dolore, ma non perde i sensi come
dovrebbe, e
scaglia con ferocia il coltello verso la fiera.
A
questo punto, però, la pantera scatta
verso di lui. Vedo un lampo di artigli e di zanne perlacee.
L’uomo cade a
terra, il torace graffiato dagli artigli affilati come rasoi. La
pantera,
furente, lo azzanna al collo.
Il
sangue è ovunque e vengo percossa da
un’ondata di nausea.
«Basta»
mugolo con voce debole.
L’animale
mi ascolta e lascia l’uomo
svenuto in una pozza di sangue.
Quindi
si guarda intorno, ancora teso e
vigile, in caso arrivassero altri pericoli, ma non
c’è più nessuno.
Allora
si trasforma.
«Charlotte»
mormora Jonathan, guardandomi
spaventato.
Io
sono ancora inginocchiata a terra, con
addosso solo le mutandine e le calze, bagnata dalla testa ai piedi, le
braccia
strette attorno al corpo per coprirmi. Tremo visibilmente.
Lui
prende il cellulare dalla tasca e lo
vedo comporre un numero di telefono. Chiama la polizia e racconta
brevemente
l’accaduto, quindi chiude la chiamata e mi si avvicina.
«Charlotte»
ripete «Riesci ad alzarti?»
Mi
porge la mano, ma il solo pensiero di
essere toccata mi fa venire voglia
di
vomitare. Lo faccio, mi piego in due e vengo scossa dai conati.
Ma
non piango. Ho speso tutte le mie
lacrime.
Poi,
incerta, mi alzo. Guardo i miei
vestiti a terra con disgusto e paura. Jonathan sembra capirlo e si
toglie il
lungo cappotto, porgendolo a me. Lo indosso e lo sento caldo a contatto
con la
pelle.
«Vieni»
sussurra. «Ti accompagno a casa.»
Dopo
ore di interrogatori e ininterrotte
ripetizioni della storia, i poliziotti mi permettono finalmente di
tornare a
casa.
Jonathan
non mi lascia neanche per un
secondo, ma senza mai sfiorarmi.
Quando
finalmente mi richiudo la porta alle
spalle, mi dirigo senza esitare in bagno. Apro il rubinetto della
doccia,
facendo scendere l’acqua bollente, e mi tolgo il cappotto di
Jonathan. Con
rabbia e ossessione quasi maniacale, afferro la spugna e me la strofino
sul
corpo così violentemente che, anche grazie alla temperatura
eccessiva
dell’acqua, quando finalmente esco la mia pelle è
arrossata ovunque.
Indosso
il mio pigiama e una vestaglia,
coprendomi d’istinto il più possibile, prima di
scendere le scale.
Jon
è seduto sul divano e guarda la
televisione, ma non appena si accorge di me la spegne.
«Charlie
… come stai?»
Lo
raggiungo e mi siedo a debita distanza
da lui.
«Bene.
Grazie per avermi aiutata» rispondo
in tono formale.
«Dovere.
Ti ho sentita urlare.»
Annuisco
meccanicamente e afferro una
coperta dal divano, coprendomi ancora nonostante il caldo. Ho un
bisogno fisico
e insopprimibile di sentirmi al caldo, asciutta e coperta, nascosta
alla vista
di tutti.
«Mi
dispiace» aggiunge, abbassando gli
occhi «Sono stato uno stupido. Avrei dovuto offrirmi di
accompagnarti.»
Scuoto
la testa stancamente.
«Volevo
stare un po’ da sola, ti avrei
detto di no. Ma se non ci fossi stato tu … se fosse stato un
qualunque altro
giorno … » la mia voce si spezza e Jon, cauto, mi
si avvicina.
«Ascolta»
mormora «Non devi pensarci. È
stato il destino. C’ero io a proteggerti, ed è
andata bene così.»
«Non
è vero» replico, stringendo i pugni
«Perché, se fosse successo a Lily, avrebbe dato
fuoco a quei … quei … »
«Bastardi»
completa lui al posto mio, gli occhi fiammeggianti.
«E
Vanessa sarebbe semplicemente scomparsa,
e non l’avrebbero più trovata. Blake li avrebbe
messi fuori gioco in un
secondo, e Arthur si sarebbe teletrasportato da qualche parte. Ma io
… non ho
potuto fare niente. Nonostante il mio cervello, ero del tutto impotente.»
Jonathan
non sa cosa replicare e tace.
«Credo
che ci fosse qualcosa dietro»
aggiungo a voce bassa, tentando di ritrovare i nervi saldi e la logica
fredda
che ho sempre posseduto. «Non avrebbero potuto sapere che mi
stavi difendendo …
sembrava quasi che sapessero che non eri davvero una pantera.»
«Dovremo
indagare.»
Annuisco.
Osservo Jonathan e noto un
dettaglio che prima mi era sfuggito: una chiazza rossa sulla maglietta
bianca,
all’altezza dello sterno.
«Sei
ferito» realizzo.
«Non
è niente» minimizza Jon.
«Non
ci provare. Fammi vedere.»
Sospira
e si sfila la maglietta. Per un
momento vengo distratta dalla cicatrice sull’addome, ricordo
della
cauterizzazione che gli avevo praticato quando Vahel gli aveva sparato.
Poi però
torno professionale e recupero disinfettante e bende. La ferita,
causata dal
coltello del mio aggressore, per fortuna è solo
superficiale. Vi applico una
garza e mi ritraggo.
«Grazie,
sei un angelo» dice Jonathan.
Sorrido
debolmente
«Forse
… è il caso che io vada a dormire»
dico dopo un po’, incerta.
«Non
voglio che tu rimanga da sola,
Charlie.»
«Puoi
dormire nella stanza degli ospiti, se
ti va.»
Annuisce
e mi segue.
Raggiunta
la mia camera, mi stendo sul
letto.
Tremo
ancora.
La
mia mente è affollata, piena di immagini
orribili di quegli uomini, delle loro mani, dei loro occhi famelici. Mi
aggrappo alle lenzuola e mi sfugge un gemito.
Sento
la porta socchiudersi improvvisamente
e sussulto.
Un
piccolo gatto nero, come una versione
minuscola della pantera, si fa strada nella mia camera e balza sul
letto. Mi
guarda, come a chiedermi il permesso di poter restare, e io annuisco.
Mi
addormento con una mano sulla sua
pelliccia morbida, e, almeno per stanotte, evito gli incubi.
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Capitolo 8 *** Best Friends ***
Per
Sciprilla, perché no,
non
ho fatto diventare Vanessa
una
pazza psicotica come ti aspettavi.
Ho
fatto di peggio.
Ti
voglio bene <3
~BEST
FRIENDS~
[Vanessa]
Percorro
il vialetto d’ingresso a piedi,
tanto lentamente che potrei venire superata da una lumaca sfaccendata,
e dopo
qualche minuto mi trovo di fronte alla porta.
Allungo
la mano e resta lì, sospesa, a
pochi millimetri dal campanello. Non riesco a trovare il coraggio di
fare tutto
questo.
Ma
poi mi ripeto che, dopotutto -dopo
essere passata alle urne delle elezioni per svolgere il mio dovere di
buona
cittadina americana e avere crocettato quel benedetto nome, sperando
nell’eliminazione del presidente attuale, con il quale ho
qualche conto in
sospeso- ho appena percorso quattromila e cinquecento chilometri in
auto. Quasi
tre giorni di viaggio, dormendo sul sedile posteriore della mia
macchina e
mangiando solo hamburger e ciambelle: non mi tirerò indietro
adesso.
Perciò
premo il dito sul campanello.
Aspetto
qualche secondo, combattendo contro
l’impulso di scappare e quello di diventare invisibile.
La
porta si socchiude e appare una faccia
assonnata.
«Sì?»
chiede, guardandomi con la testa
inclinata.
I
capelli biondi sono arruffati, indossa
una vestaglia rosa e pantofole dello stesso colore e, ai suoi piedi,
c’è un
piccolo gatto nero.
«Ciao,
Charlotte» esordisco con un leggero
sorriso che tradisce il mio nervosismo.
Lei
spalanca gli occhi.
«Vanessa?»
«In
persona. Ah, ciao, Jonathan»
aggiungo, rivolta al
gatto, che diventa immediatamente un essere umano.
Il
silenzio attonito che segue mi fa
desiderare di essermene rimasta in California. Ma poi ricordo
perché sono qui.
«Beh?
Non mi invitate ad entrare,
piccioncini?»
«Certo»
annuisce Charlotte rapidamente.
«Vieni dentro.»
I
suoi occhi non riescono a staccarsi da me
–o meglio, dall’ormai evidente rigonfiamento sulla
mia pancia.
Mi
siedo sul divano accanto a Charlotte.
«Allora»
esordisce, e mi guarda,
esortandomi a continuare.
«Beh»
comincio, osservandomi le unghie
«Casomai non lo avessi notato, ho un problema.»
«Me
ne sono accorta» replica debolmente
Charlotte.
«Sono
qui perché ho avuto qualche …
difficoltà in relazione ai miei poteri, di
recente.» Mi mordo il labbro
inferiore. «Sono aumentati in maniera spropositata. Non solo
riesco a diventare
invisibile, ma ogni persona che tocco scompare. E in più, ne
sono comparsi di
nuovi, ma vanno a ondate. Ogni tanto riesco a leggere nei pensieri, o a
correre
velocissima, o a creare oggetti dal nulla –ma succede tutto
senza che io possa
controllarlo. Anche al lavoro … » vedo lo sguardo
attonito di Charlie e mi
fermo.
«È
assurdo» mormora. «Insomma, non conosco
nessuna come noi che sia rimasta incinta, ovviamente, ma secondo le
più banali
leggi della genetica, se anche il feto ereditasse la nostra mutazione
–sempre
che la cosa sia possibile, e non ne sono convinta- il potere dovrebbe
risultare
diluito, contaminato da geni umani.»
Cerco
di dare un senso logico al discorso.
«Quindi,
se un genitore è umano, il potere
dovrebbe scomparire» traduce Charlotte per me. «O
almeno diminuire, nel
bambino. E in te … non vedo perché dovrebbe
cambiare.»
«Ah,
ecco, per il fatto del genitore umano»
tossicchio, imbarazzata. «Insomma, circa sei mesi fa ho
ricevuto una visita un
po’ … inaspettata,
diciamo. Blake è
venuto a trovarmi e … »
«Oh,
mio Dio» geme Charlotte. «Vanessa!»
«Io
non me l’aspettavo» tento debolmente di
difendermi. «Mi ha colto alla sprovvista e … ho
abbassato la guardia.»
«Questo
cambia tutto. Non ho idea di come
potrebbe evolversi la situazione … se il bambino ereditasse
entrambe le
mutazioni ed essere si mescolassero … » si
interrompe e sospira. «Ho bisogno di
fare dei test.»
Lo
dice in tono lievemente drammatico e
definitivo, come se fosse un bisogno fisiologico che deve assolutamente
soddisfare. Beh, probabilmente, conoscendola, questo non è
troppo distante
dalla realtà.
«Sono
le otto» prosegue guardando
brevemente l’orologio da polso «Tra
mezz’ora devo essere in ospedale. Vieni con
me, non appena riesco a trovare dieci minuti liberi ti faccio fare
qualche
esame.»
«D’accordo.»
Charlotte
va a cambiarsi e mi lascia un
bagno libero e dei vestiti di ricambio. Riconoscente, mi faccio una
lunga
doccia. Una volta asciutta, però, trovo qualche problema con
gli abiti.
«Ehm,
Charlie?»
«Dimmi»
risponde comparendo in cima alle
scale.
«Temo
che mi serva qualcosa di più grande.»
Lei
osserva la camicetta tesa sulla pancia,
con i bottoni che sembrano sul punto di saltare via, e ridacchia.
«Non
ci avevo pensato. Arrivo subito.»
Con
indosso una tremenda felpa lilla e un
paio di pantaloni della tuta, esco insieme a Charlotte, ovviamente
impeccabile
nel suo completo pantaloni neri-camicia bianca e tacchi.
Comunque
sia, io, lei e Jon raggiungiamo in
pochi minuti il Johns Hopkins.
«Bene,
Ness, io ho tre visite prima delle
dieci, ma poi dovrei riuscire a ritagliarmi un’ora libera.
Resta con Jon, ti
va?»
«Andiamo
a trovare Damien» annuisce lui.
«Damien?
Cosa ci fa qui?» mi metto subito
in allarme.
Non
sento Damien da qualche mese ormai, ma
resta sempre il mio amico più caro in assoluto.
Charlotte
si è già allontanata, mentre
Jonathan si passa una mano tra i capelli, a disagio.
«Giusto
… beh … ecco, è malato,
Ness.»
«Che
cosa? Perché non ne sapevo nulla?»
«Perché
non voleva che lo sapessi,
suppongo.»
«È
il mio migliore amico.»
«Anche
il mio, ma non ha detto nulla
neanche a me.»
Vorrei
saperne di più, ma non oso chiedere
altro.
Aspetto
che Jonathan mi conduca fino alla
camera di Damien, quindi busso.
«Avanti.»
Damien
sta leggendo un fumetto, seduto sul
letto. Alza lo sguardo e ci scambiamo un’occhiata attonita.
Lui
fissa con aria allucinata prima me,
quindi il mio pancione. Io guardo sconcertata i mille tubicini che
corrono
lungo il suo corpo, le occhiaie profonde, la magrezza.
«Cosa
… ?» mormoriamo in coro, quasi
comicamente.
«Non
fare quella faccia» borbotta Damien.
«Ho l’AIDS. Qual è la tua
scusa?»
Ascolto
quelle parole come da lontano,
distaccata, e ci vuole qualche secondo prima che riesca ad accettarle.
«Cos’hai
detto?»
«Hai
sentito. Hai intenzione di reagire con
lacrime e compatimenti vari, come tutti gli altri?»
Il
suo tono freddo e brusco mi da una
scrollata.
«Sei
un coglione,
Damien» ringhio.
Lui
sussulta.
«Scusa?»
«Pensavo
che avessi un minimo di buonsenso.
Mai sentito parlare di prevenzione?»
Damien
mi guarda scioccato.
«Mi
stai rimproverando?»
«È
esattamente
quello che sto facendo. Anche se le parole farti
il culo rendono meglio l’idea, secondo
me.»
Ci
scambiamo un’altra serie di sguardi
truci, quindi lui sorride.
«Mi
sei mancata, Ness.»
«Questa
non è una giustificazione.»
«Certo
che no. E la tua qual è? Immacolata
concezione?»
Lo
fulmino con lo sguardo.
«Per
Natale ti regalerò dei preservativi,
Dam.»
«E
io ricambierò il favore, ma arriveremo
entrambi troppo tardi.»
Dopo
qualche istante scoppiamo a ridere.
«Oh,
ti prego, basta» mugola
lui dopo diversi minuti di risate convulse. «Già
solo
respirare è
difficile … mi stai complicando la vita.»
«Hai
intenzione di dirmi cos’è successo?»
«Non
c’è molto da dire. Mi sono affidato
alle cure della migliore dottoressa degli Stati Uniti, anche se non
è molto
ottimista.»
«E
Arthur dov’è?»
«Ecco,
questa è un’ottima domanda. Sta
cercando una cura, ma non so esattamente dove sia. Ma basta parlare di
me.
Cos’hai fatto tu?»
«Essenzialmente
… sesso.»
«L’avevo
intuito.»
«Con
Blake.»
«Che
cosa?!»
«Beh,
lui ancora non lo sa, ma … »
«Oh,
mio Dio. Almeno io e Arthur non
dobbiamo preoccuparci di questo.»
E
riprendiamo a ridere come due idioti
finché la porta non si apre e Jonathan e suo fratello ci
raggiungono.
«Va
tutto bene?» chiede Jon, vagamente
stranito.
«Sì»
sospiro, asciugandomi teatralmente le
lacrime.
«Charlotte
mi ha detto di chiederti di
raggiungerla al primo piano, vuole farti gli esami del
sangue.»
«Agli
ordini. A dopo, Dam.»
«A
dopo.»
Torno
solo dopo un paio d’ore e un pranzo
abbondante a base di torta alla crema e meringhe –queste
storie sulle voglie
delle donne incinte sono incredibilmente vere.
Non
mi viene in mente di bussare, e trovo
Damien e Jack impegnati nella loro prima seduta.
«Sei
pronto? Bene. Chiudi gli occhi e
inizia a respirare profondamente.»
Jack
obbedisce e io lo osservo. È seduto su
una sedia di plastica accanto al letto di Damien. Mi appoggio al muro e
rimango
in silenzio a guardare.
«Sì,
così, continua. Inspira … espira …
inspira … espira … Ora, senza smettere di
respirare, lascia scorrere i
pensieri. Sentili tutti, ma non ascoltarli. Non concentrarti su nessuno
in
particolare, lasciali scorrere.»
Fa
una lunga pausa.
«Adesso
visualizza una porta. Immaginala
bene, come se potessi davvero vederla … »
Continua
a parlare in tono monocorde,
descrivendo dettagliatamente il metodo.
«Adesso
apri gli occhi. Come va?»
«Io
… non so. È difficile, se solo ci penso
devo rifare tutto daccapo.»
«È
normale, vedrai che con il tempo
diventerà facile.»
«Ok.
Grazie, Damien.»
«Figurati.
Dì a tuo fratello di farsi
vedere, ogni tanto, invece di stare sempre imboscato con
Charlotte.»
«Lo
farò, stanne certo. A più tardi. Ciao,
Vanessa.»
«Ciao.»
Mi
siedo accanto a Damien.
«Allora?
Come sta andando?»
«Insomma.
Ti ricordi quando Charlotte l’ha
insegnata a me?»
«Certo»
replico, e ci scambiamo
un’occhiata, ricordando i terribili momenti della
disintossicazione.
«Ho
imparato a padroneggiarla davvero dopo
qualche settimana, e nel giro di un paio di mesi era diventata
automatica come
respirare –le visioni arrivavano solo se richieste, anche
mentre dormivo. Ma
adesso mi sembra di essere di nuovo punto e a capo. Fatico a
concentrarmi,
tanto che mantenermi lucido è sempre più
difficile, e le visioni hanno
ricominciato a tormentarmi, specialmente quando sto male o quando
dormo. Spero
solo che per Jack vada meglio.»
«Vedrai
che andrà tutto per il verso
giusto. Charlotte sa quello che fa, e anche Arthur.»
Annuisce,
non sembrando troppo convinto.
«Non
ti pare strano che io sia stata
fidanzata con il tuo ragazzo, anni fa?» chiedo in tono
leggero.
Lui
mi lancia un’occhiata sorpresa.
Nel
giro di un secondo stiamo ridendo di
nuovo.
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Capitolo 9 *** Getting Worse ***
~GETTING
WORSE~
[Damien]
Mi
risveglio con un
dolore atroce al petto. Boccheggio e cerco di alzarmi, ma è
tutto così confuso.
Cerco di respirare
profondamente, ma l’aria si rifiuta di entrarmi nei polmoni.
Sbarro
gli occhi, e
vedo facce pallide che urlano nomi senza senso.
Riconosco
Charlotte
un momento prima di precipitare di nuovo nell’incoscienza.
Mi
risveglio nello
stesso posto, la stessa stanza bianca d’ospedale.
Mi
sento malissimo.
Ogni muscolo del mio corpo fa male, respirare è difficile, e
la nausea mi
scuote.
Credevo
che
Charlotte avesse parlato di terapia del dolore, anestesia e coma
farmacologico,
ma per ora c’è solo un male tremendo e un
desiderio intenso di tornare nel
buio.
«Damien?»
Apro
gli occhi a
fatica e inquadro il volto preoccupato del mio dottore.
«Come
stai?»
Se
potessi farlo,
riderei sarcasticamente. Purtroppo non ci riesco, ma posso solo
rispondere:
«Di
merda.»
La
voce mi esce
bassa e faticosa.
«Immagino.»
«Cos’è
successo?»
«Hai
avuto un
collasso. I tuoi polmoni hanno smesso di incamerare ossigeno.»
«Meraviglioso.
Questo vuol dire che … » tossisco più
volte prima di proseguire «Che manca
poco?»
Il
pensiero è
talmente irreale che non mi fa poi così paura. Sembra solo strano, come se la sola idea fosse
assurda. Eppure non lo è affatto.
«No»
dice lei,
decisa. «Non deve essere necessariamente così.
È uscito da poco un nuovo
medicinale che potremmo provare. È davvero innovativo, e
… »
La
lascio blaterare
ancora per un po’ prima di interromperla.
«No.»
«Cosa?»
«No,
Charlie. Non
voglio.»
«Ma
… »
«L’ultimo
che mi
hai dato mi ha fatto venire un collasso, quello prima ha quasi causato
un
arresto cardiaco e quello prima ancora è stato
inutile.»
«Ma
questo potrebbe
… »
«Non
voglio,
Charlotte. Basta così.»
Lei
chiude gli
occhi per un secondo.
«Se
pensassi a …»
Ma
non riesco a
scoprire a cosa dovrei pensare, perché qualcosa distrae la
mia attenzione. In
particolare, l’improvvisa apparizione nella mia camera di due
ragazzi
insanguinati.
«Oh,
mio Dio»
mormoro.
Vorrei
mettermi
seduto, ma il dolore è troppo intenso e i tubicini che mi
collegano a grandi
macchinari mi impediscono di farlo.
Charlotte
si volta
ed entra subito in modalità medico.
«Arthur!
Blake!
Siete feriti?»
Si
china accanto a
loro, che sono scivolati, esausti, sul pavimento.
«No»
risponde
Blake. «Siamo tutti e due sani e salvi.»
«Ma
tutto questo
sangue … »
«È
una lunga
storia» replica.
Art
ignora
Charlotte (piuttosto prevedibilmente), si alza e si avvicina a me.
«Oh,
Dio, Damien.
Come stai?»
«Insomma.»
Lo
guardo con
quella che spero risulti un’espressione furiosa, ma temo che
sia solo
sollevata.
Lui
si china su di
me e mi passa una mano tra i capelli.
«Mi
dispiace»
mormora. «Mi dispiace tanto.»
«Cosa
… perché?»
«Perché
avevo la
cura e … » si volta per un istante verso Blake
«L’ho persa.»
«Di
cosa si
trattava?» chiede Charlie, impaziente.
Lui
esita.
«Sono
andato al
Queen Victoria’s da Vahel e Lily» replica.
Spalanco
gli occhi,
incredulo.
«Tu
che cosa?!»
«Volevo
che Vahel
prendesse un campione dei miei poteri per poter dare
l’invulnerabilità a
Damien.»
Charlotte
lo guarda
scioccata, ma io lo sono di più.
«Sei
impazzito? Da Vahel? Avrebbe potuto
ucciderti!»
«Ci
ha provato»
replica Art, accennando alla spalla insanguinata ma, grazie
all’invulnerabilità, già completamente
guarita. «Ma dovevo farlo,
Dam. Avrei potuto salvarti la vita. Poi, però …
eravamo nel deserto, io ero sotto Pentothal e Blake stava morendo. Ho
… »
Si
interrompe con
un sospiro, guardandomi corrucciato.
«Forse
è meglio che
vi lasciamo soli» dice Charlotte, e lei e Blake escono
velocemente.
«Hai
fatto la cosa
giusta» dico sottovoce.
«L’altra
fiala mi è
caduta. Se solo avessi … »
«Hai
fatto tutto il
possibile, e anche di più. Hai rischiato così
tanto … »
Lui
sospira e si
siede sul bordo del letto, prendendomi una mano.
«Sul
serio, Damien,
come stai?»
«Non
molto bene. Un
medicinale che ho preso mi ha causato un collasso polmonare.»
Lui
chiude gli occhi
per un momento.
«Questo
cosa
significa?»
«Che
non resta più
molto tempo.»
Mi
guarda
disperato, ma non stupito.
«Vorrei
poter fare
qualcosa.»
«Non
andartene più.
È la cosa che mi farebbe più piacere.»
«Se
mi vorrai,
resterò qui finché … » si
interrompe con un gesto stizzito «Fin quando ce ne
sarà bisogno.»
«Non
ti chiedo
altro.»
Restiamo
fermi e in
silenzio a lungo. Il dolore al petto ricomincia a farsi sentire, e
lentamente
scivolo di nuovo nel sonno.
Vedo
una città in fiamme.
Vedo
un uomo anziano che piange sulla tomba della moglie.
Vedo
un libro con una croce sulla copertina che brucia tra le grida.
Vedo
pavimenti sporchi di case popolari.
Vedo
bambini soldato, uomini morenti, donne a cui vengono strappati i figli
dalle
braccia.
Vedo
morte, odio e distruzione.
«Basta»
urla
qualcuno. Forse sono io.
E
poi tutto si
placa, e torna il buio confortante.
«Ho
dovuto dargli
il Pentothal. Me l’aveva chiesto lui.»
«Hai
fatto bene.»
Un
momento di
silenzio.
«Stai
bene,
Arthur?»
«Non
proprio. Credi
che la mia idea fosse tanto stupida?»
«Niente
affatto. Ha
salvato Blake, dopotutto.»
«Ma
non Damien.»
«Avrebbe
potuto.»
«Charlotte
… tu
riusciresti a fare un altro prelievo?»
«Come
quelli di
Vahel, intendi? Può darsi. Non ci ho mai pensato, ma se mi
raccontassi cosa ha
fatto, probabilmente … ma il problema è un
altro.»
«Sarebbe
a dire?»
«Non
credo che il
tuo corpo reggerebbe un terzo prelievo di materiale genetico.»
«Ma
sono
invulnerabile.»
«Non
c’entra nulla.
Conosco abbastanza bene il nostro patrimonio genetico da sapere che un
ulteriore prelievo potrebbe essere pericoloso.»
«Cosa
intendi
dire?»
«Non
si tratta solo
di prelevare sangue, Arthur. Mi hai detto che Vahel ha anche fatto un
intervento … credo che si trattasse di midollo osseo. Se ti
è già stato
prelevato due volte, farlo una terza potrebbe significare la scomparsa
dei
poteri, per non parlare di eventuali problemi di salute, anche gravi,
connessi
alla scomparsa dell’invulnerabilità.»
Arthur
tace per un
po’.
«Sono
disposto a
farlo, Charlotte. Per Damien.»
È
allora che,
sforzandomi in modo inimmaginabile, apro gli occhi e mormoro:
«No.»
Si
voltano
immediatamente entrambi.
«Cosa?»
«Non
voglio, Art.»
«Non
me ne frega
niente di cosa vuoi tu» reagisce bruscamente lui.
«Se questo può servire a
salvarti la vita, non mi interessa perdere i poteri.»
«Non
voglio che tu
lo faccia. I tuoi poteri sono tutto, per te.»
«Tu sei tutto per me, Damien.»
«Anche
tu lo sei, e
proprio per questo non voglio che tu metta a rischio la tua vita. Non
si tratta
solo dei poteri» dico con fermezza.
«Non
puoi impedirmi
di farlo» ringhia lui.
«Posso
rifiutarmi
di accettare. Ho ancora la facoltà di intendere e volere, mi
pare.»
«Io
lo farò
comunque. Se poi non vorrai accettare .. beh, sarà comunque
troppo tardi per
impedirmi qualunque cosa.»
Non
capisco
esattamente cosa voglia dire, ma lo guardo andarsene con gli occhi
lucidi.
«È
uno stupido»
dico a denti stretti, rivolto a Charlotte.
Lei
mi guarda di
sottecchi.
«In
realtà, credo
che abbia ragione.»
Stringo
gli occhi,
sentendomi oltraggiato. Ero certo che Charlotte non gli avrebbe dato
ragione.
«L’hai
detto tu
stessa che è pericoloso!»
«Ma
ci sono
discrete possibilità che stiate bene entrambi. Invece, se
lasciamo le cose come
stanno, e se rifiuti di prendere i medicinali … diciamo la
verità, Dam: tu
morirai nel giro di qualche giorno.»
La
guardo
sconcertato.
«Vattene»
borbotto.
Charlotte
non
obietta e si allontana, lasciandomi solo a riflettere.
Quando
la porta si
riapre, qualche ora dopo, sospiro di sollievo nel vedere Arthur.
Sollievo che, però,
sparisce in fretta quando noto la sua espressione tesa.
«Che
succede?»
chiedo, nervoso.
«Due
brutte
notizie» replica, e sembra che abbiano surclassato i motivi
del nostro
diverbio. «La fiala che ho somministrato a Blake era
avvelenata. Vahel deve averla
messa lì come esca.»
«Oh,
mio Dio. Sta
bene?»
«Per
ora non molto,
ma presto andrà meglio. Charlotte dice che la crisi
passerà in poche ore, e che
in ogni caso Blake non è in pericolo di vita.» Fa
una pausa. «Ma se l’avessi
data a te … con il sistema immunitario così
danneggiato, probabilmente saresti
morto.»
Assimilo
l’informazione del rischio che abbiamo corso in silenzio.
«E
… la seconda
brutta notizia?» chiedo dopo un po’.
«C’è
qualcuno che
vuole vederti. Non sono riuscito a … »
Ma
non riesce a
concludere la frase. La porta si spalanca.
«Damien!»
Prima
che io possa
anche solo pensare di tentare una fuga in extremis, la proprietaria
della voce
si fa strada nella stanza, tallonata da una seconda persona.
Coralie
Llewellyn e
George Knight.
I
miei genitori.
Mia
madre, i
capelli biondi tinti di recente, è ovviamente impeccabile
nel suo abito rosa,
sicuramente firmato, con tanto di tacchi bassi coordinati e borsetta in
tinta.
Mio padre, ancora più imponente di quanto me lo ricordassi
nel suo completo
giacca e cravatta, con un taglio corto dei capelli che cominciano ad
ingrigire
e occhi scuri che mi fissano al di là di un paio di occhiali
che non portava
l’ultima volta che l’ho visto. Che, se non mi
sbaglio, risale si è no a tre
anni fa.
Non
che non abbiano
tentato qualche contatto –ho ricevuto gli auguri di
compleanno e di Natale, e
qualche casuale messaggio ogni tanto per informarsi su come andavano le
cose,
o, in altre parole, probabilmente più consone, se avevo messo la testa a posto.
I
miei genitori sono
stati tra i primi a sapere di me e Arthur. In realtà era
stato casuale
–l’argomento era capitato e io non avevo trovato
una ragione per mentire. La
loro reazione era stata prevedibile –shock, diagnosi di
pazzia, ipotesi su una fase tardo-adolescenziale
che sarebbe
passata col tempo. Da allora i nostri rapporti si sono raffreddati e
sono quasi
cessati.
Il
che significa,
ovviamente, che non ho detto loro di essere a Baltimora.
«Damien»
ripete mia
madre, le guance pallide sotto il trucco. «Cosa è
successo?»
«Di
recente? Niente
di particolare. Ho avuto un collasso polmonare» dico con voce
leggera per
nascondere la tensione dovuta alla loro presenza.
Prima
che mia madre
svenga, dalla porta rimasta aperta entra Charlotte.
«Oh.
Il signore e
la signora Knight, suppongo?» si informa con un sopracciglio
lievemente
inarcato.
È
stupita? O sta
fingendo? Potrebbe essere stata lei a chiamarli … oppure
Arthur, anche se mi
sembra improbabile.
«Esatto.»
«Io
sono la
dottoressa Charlotte Miller, il medico di vostro figlio» si
presenta,
stringendo le loro mani.
«Ancora
non siamo
riusciti a capire quale sia il problema» dice mia madre
ansiosamente.
Charlotte
mi lancia
un’occhiata, come a chiedermi il permesso di parlare. Glielo
accordo,
lasciandole senza troppe remore l’incombenza di pronunciare
quelle quattro
lettere che ho imparato ad odiare.
«Temo
che a Damien
sia stata diagnosticata una forma di AIDS.»
«AIDS?»
Mio padre
finalmente reagisce, sconcertato. «Ma è una
malattia da … »
Non
completa la
frase, per fortuna.
«Io
lo sapevo!» geme poi mia
madre. «Lo
sapevo che quella cosa non avrebbe
portato altro che guai!»
«Mamma,
quella cosa non è altro
che la mia vita.»
Ma
lei mi ignora
completamente e si volta verso Arthur, che è rimasto in
silenzio, in disparte.
«È
tutta colpa
tua!» ringhia. «Sei tu che gli hai fatto questo!
Per colpa tua il mio bambino
potrebbe morire!»
«Non
osare» sibilo.
«Non permetterti di dire queste cose …
perché lui è stato l’unico
che non se n’è andato. Come avete fatto
voi, ricordate?»
«Noi
non ce ne
siamo andati» ribatte mia madre. «Sei tu che ti sei
trasferito. E ti abbiamo
sempre … »
«Mandato
una
cartolina per Natale?» la interrompo, furioso.
«Beh, meno male, sono state
quelle il mio supporto in questi tre anni!»
«Tu
ti sei rifiutato di essere
ragionevole!
Continuavi ad insistere per vivere con
lui, mentre … »
«Basta
così,
Coralie» taglia corto mio padre, e per un attimo credo che
stia per intervenire
a mio favore. «È evidente che
dev’esserci stato uno sbaglio. Dottoressa,
prepari tutti i moduli. Voglio trasferire mio figlio in una clinica
privata a
New York. Conosco molti medici che potrebbero confutare questa
diagnosi.»
«Signor
Knight,
temo che questo non sia possibile. Damien ha appena subito un
… » comincia
ragionevolmente Charlotte.
«Non
mi interessa.
Mi sembra ovvio che questa diagnosi è errata. Mio figlio non
ha l’AIDS. E
questo ragazzo» guarda Arthur con malcelato disprezzo
«Non avrà più nulla a che
fare con lui. Ed è l’ultima parola che ho da dire
in proposito.»
«Basta
così» mormoro.
«Non avete il diritto di … »
«Abbiamo
tutti i
diritti, Damien» ribatte prontamente mio padre.
«Siamo ancora tuoi tutori
legali nel caso tu non avessi la facoltà di intendere e
volere.»
«Che
cosa? Io sono
in piena facoltà di … »
«Certo
che no! La
malattia ti rende vulnerabile, e in quanto tuo padre voglio che
… »
«Sono
io il suo
tutore legale» interviene per la prima volta Arthur, con
fermezza e calma,
senza alzare la voce né spostarsi dal muro al quale
è appoggiato con la schiena.
«Che
cosa?»
«Volete
controllare
i documenti? Ci siamo nominati tutori l’uno
dell’altro in previsione di
situazioni del genere. Anche ammettendo che Damien non fosse in
capacità di
decidere da solo –mentre, senza dubbio, lo è-
sarei io a decidere per lui. E
Damien resta qui, a meno che non sia lui a volere altrimenti.»
In
un lampo ricordo
quei noiosi documenti che avevo firmato anni fa, sapendo solo vagamente
di cosa
si trattava –e capisco anche cosa intendeva Arthur con
quell’ultima, gelida
frase in risposta al mio tentativo di ribadire la mia
capacità di scegliere per
me stesso, poche ore fa.
«Chiamerò
i miei
avvocati» ruggisce mio padre, e se ne va a grandi passi.
Mia
madre mi lancia
un’ultima occhiata dispiaciuta prima di seguirlo.
Charlotte
esce
chiudendo la porta e lascia soli me e Art.
«Mi
dispiace» dice
lui immediatamente. «Non avrei dovuto permettere loro di
entrare.»
«No,
hai fatto
bene. Mi aspettavo che reagissero così. Li hai chiamati
tu?»
«No.
Non so chi sia
stato.»
«Dicevi
sul serio,
prima? Sei il mio tutore legale?»
«Pensavo
lo
sapessi. Sì, e tu sei il mio.»
«Quindi,
legalmente, potresti farmi
quell’impianto.»
«Potrei»
ammette.
«E fino a poco fa ero certo che l’avrei fatto, in
caso se ne fosse presentata
l’occasione. Ma ora … » sospira.
«Credo di aver capito che tu puoi fare quello
che vuoi. Non ti imporrò nulla.»
«Grazie.
È
importante per me.»
«Mi
dispiace anche
per … prima. Ti avevo promesso che non sarei più
andato via e l’ho fatto dopo
meno di due ore.»
«Non
preoccuparti.
È stata solo … una divergenza di
opinioni.»
Mi
metto seduto a
fatica, sforzando i muscoli doloranti e combattendo la profonda
stanchezza che
mi invade da giorni.
Ci
stringiamo in un
abbraccio.
«Ti
prego» mormora
Art al mio orecchio, quasi tremando «Ti prego, Dam, lascia
che io ti aiuti.»
Esito
a lungo.
«Non
voglio che
rischi la vita per me.»
«Non
lo farò.
Charlotte è un ottimo medico, lo sai.»
«Pensavo
che la
odiassi.»
«Prima
che mi
aiutasse a salvarti la vita. Non cambiare argomento.»
Sono
sopraffatto
dalla sensazione meravigliosa che è restare qui al sicuro
tra le braccia di
Art.
«Va
bene» cedo.
«Cosa?»
«Va
bene. Fai
quello che vuoi.»
«Dici
davvero?»
Annuisco.
«Voglio
restare
insieme a te ancora a lungo» mormoro. «Quanto ci
vorrà?»
«Charlotte
dice che
impiegherà almeno una decina di giorni.»
«…
Ah.»
«Vedrai
che starai
bene. O perlomeno» rettifica guardando la mia espressione
dubbiosa
«Sopravvivrai. Sono solo dieci giorni, Dam, e io non ti
lascerò un attimo. Te
lo giuro.»
Non
replico,
limitandomi a chiudere gli occhi.
Sento
le mani di
Art tra i miei capelli, sul viso pallido, lungo il collo.
«Ti
amo.»
E
non sono neanche
certo se l’ho detto io, lui o entrambi.
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Capitolo 10 *** Kidnap ***
~KIDNAP~
[Charlotte]
La
giornata di oggi
è estremamente pesante e non credo che
migliorerà. Ho visitato quelli che
sembravano duecento pazienti senza una pausa, e adesso in teoria
sarebbe ora di
pranzo.
Mangio
un panino in
cinque minuti, butto giù mezzo litro d’acqua
naturale e poi torno ad alzarmi,
dopo aver temporaneamente sostituito i tacchi con dei sandali bassi per
il bene
dei miei piedi doloranti. Non riuscendo a incastrarla nella mia agenda,
sono
costretta a fare l’ecografia di Vanessa in pausa pranzo.
Lei
mi sta già
aspettando. La precedo dentro l’ufficio e preparo il
necessario.
«Sdraiati,
Ness.
Allora, come stai?»
«Abbastanza
bene, a
parte i chili che sto prendendo.»
«Temo
di non poter
fare nulla per quello. Piuttosto … hai sentito di
cos’è successo ad Arthur,
vero?»
«No,
non credo.»
La
guardo per un
momento, sorpresa, quindi le sollevo la maglietta e spalmo un
po’ di gel sulla
pancia.
«Quindi
non sai che
è andato al Queen Victoria’s?»
«Oh,
cielo, no.
Perché mai?»
«Perché
voleva che
Vahel prelevasse un campione dei suoi poteri per poter dare a Damien
l’invulnerabilità e guarirlo.»
Lei
tace per un
secondo.
«Beh,
devi
ammettere che è un’idea geniale.»
«A
parte che, se
l’avesse chiesto a me, avrei potuto farlo io, evitando lo
spargimento di sangue
successivo.»
Con
forse un po’
troppa foga, appoggio il sensore sulla sua pancia e poso lo sguardo sul
monitor, dove compare un’immagine bluastra un po’
sfocata.
«Che
spargimento di
sangue?»
«Vahel
ha tentato
di uccidere lui e … beh, e Blake.»
«Blake?!»
Vanessa
sussulta e
si alza, facendomi scivolare il sensore.
«Ness!
Stai ferma!»
«Scusa»
borbotta,
tornando distesa. «Ma cosa c’entra adesso
Blake?»
«Era
prigioniero di
Vahel. L’ha interrogato per saperne di più sulla
sua lotta per salvare il
presidente. Tu ne sapevi qualcosa?»
«Poco.»
«In
ogni caso,
Blake è rimasto ferito e Arthur, per guarirlo, ha usato il
campione di poteri
che aveva preso da Vahel.»
«Quindi
lui sta
bene?»
«Insomma,
il
campione era avvelenato … » Osservo lo sguardo
scioccato di Ness e mi affretto
ad aggiungere «Però ora sta benissimo.»
«Ed
è … qui?»
«Già.
Oh, Ness,
guarda.» Lei alza gli occhi e osserva lo schermo.
«Questo è il tuo bambino»
mormoro. «È già quasi del tutto
formato. Qui c’è la testa, vedi? E le manine
…
»
Sposto
gli occhi su
Vanessa, che ammira incantata la figurina accoccolata.
«Vuoi
sapere il
sesso o preferisci lasciarti la sorpresa?»
«Certo
che no»
sussurra, senza distogliere gli occhi dall’immagine
«Dimmelo immediatamente!»
Sorrido
e continuo
l’esame.
«È
una femminuccia,
non c’è dubbio» affermo.
«Oh,
Charlie … è
meravigliosa, non è vero?»
«Certo
che lo è.
Ascolta, Vanessa … »
«Sì.»
«Non
credi che
dovresti parlare con Blake?»
Lei
evita il mio
sguardo.
«Dovrei»
concorda
«Ma non so come fare. Ho paura che … oh, al
diavolo, non so neanche io di cosa
ho paura.»
«Blake
è un bravo
ragazzo, Ness, lo sai. Accetterà quello che gli dirai e ne
sarà felice.»
«Credi?»
«Ne
sono sicura.»
Vanessa
sospira e
si ripulisce dal gel, per poi scendere dal lettino.
«Ci
penserò»
promette prima di uscire.
La
mia giornata
continua com’era iniziata –frenetica e dura.
Nel
tardo
pomeriggio passo da Damien. Sono quasi le sette, è la mia
penultima visita
prima di poter finalmente staccare.
Apro
la porta e
trovo Damien intento a guardare un vecchio film alla TV insieme ad
Arthur.
«Ciao.
Come stai?»
domando.
Damien
abbassa il
volume e si volta verso di me.
«Bene.
Meglio di
ieri di sicuro. Senti, Charlie, posso chiederti una cosa?»
«Dimmi.»
«Pensi
che potrei …
insomma … tornare a casa? Almeno per un
po’?»
Lo
osservo
inclinando appena la testa.
«Credo
che non ci
sia niente di male, se ti senti meglio. E poi potete arrivare qua in
meno di
dieci secondi, qualunque cosa succeda, perciò …
sì, d’accordo. Ti firmerò i
documenti necessari.»
«Certo.
Grazie.»
Esco
e mi dirigo verso l’ultima camera, quella di Blake.
Sta
bene, ormai: la
crisi di ieri è passata senza lasciare strascichi, anche se
sono certa che non
dimenticherà che Vahel ha tentato di avvelenarlo. O forse il
veleno era
destinato a Damien? Dubito che lo sapremo mai.
«Allora?
Sei pronto
a tornare a casa?» gli chiedo allegramente.
«Sì.»
Sta
chiudendo la
sua borsa. Poi si siede sul letto ed evita il mio sguardo.
«Che
cosa succede,
Blake?»
«Non
ve ne siete
accorti» mormora.
Capisco
subito di
cosa sta parlando.
«Blake,
sii
ragionevole. Come avremmo potuto? Non abbiamo tue notizie da mesi.
Eravamo
tutti convinti che ti fossi trovato un lavoro, una vita normale
… »
«Non
mi piace
fingere, Charlie» scatta lui. «Non ne sono capace.
Voi siete dei maestri
–fingete di essere normali,
trovate
dei lavori normali. Fingete che
nessuno stia cercando di compiere un omicidio, mentre sapete benissimo
che ci
sono molte probabilità che questo avvenga.»
«Ma
non è
successo.»
«Certo
che no.
Perché ho fatto tutto quello che potevo per impedirglielo. Da solo.»
«Se
Vahel avesse
veramente avuto i mezzi per uccidere il presidente, pensi che saresti
riuscito
a fermarlo?» commento acida.
«Almeno
ci ho
provato. E, per ora, ho avuto successo.»
«Non
puoi
biasimarci per averne voluto restare fuori, Blake. Quello che tu stai facendo è fingere di
essere
ancora al Queen Victoria’s, e ti rifiuti di andare
avanti con la tua vita. Te la sei andato a cercare, da Vahel.
Hai cercato
di entrare al Queen Victoria’s senza motivo …
»
«Stavo
cercando di
impedire un omicidio!»
«Sei
un idealista»
taglio corto, incrociando le braccia. «Lo sei sempre stato. E
credo che il tuo
vero scopo sia riportare Lily sulla retta via. Ammettilo, ancora ci
speri, e ti
senti in colpa per averla abbandonata.»
Capisco
di aver
fatto centro dalla sua espressione. Annuisco.
«Non
importa»
concludo. «Puoi continuare così, se vuoi
–non sono affari miei- ma se fossi in
te io metterei una pietra sopra Lily e comincerei a pensare a qualcun
altro.»
Non
nomino Vanessa
specificatamente, perché so che lei non gli ha ancora
parlato, ma credo che
Blake abbia capito.
Dopo
i soliti
controlli di routine, esco finalmente dall’ospedale. Sono
appena le sette e
venti, è ancora chiaro, ma decido comunque di allungare la
strada per evitare
la zona dove sono stata aggredita pochi giorni fa. Solo a pensarci mi
vengono i
brividi, perciò cancello i pensieri negativi e mi concentro
sul bagno caldo che
mi concederò non appena arrivata.
In
quel momento mi
squilla il cellulare.
«Pronto»
rispondo
distrattamente, senza neanche controllare chi mi sta chiamando.
«Charlotte?
Sono
Jack. Devi venire subito, è successa una cosa e …
non so cosa fare.»
Torno
subito attiva
e presente nel sentire il suo tono spaventato e urgente.
«Cos’è
successo?
Dove sei?»
«Sono
in albergo.
Io e Jon stavamo tornando a casa quando due uomini ci hanno sparato
qualcosa …
eravamo vicini al parco. Non so cos’era, ma
all’improvviso non riuscivo più a
sentire i pensieri, e poi … hanno preso Jonathan,
l’hanno caricato su un
furgone e l’hanno portato via.»
E
io che pensavo
che la giornata di oggi non potesse peggiorare.
La
riunione è
fissata per le nove nel mio soggiorno. Vanessa, Jack ed io siamo
già seduti
quando Arthur e Damien compaiono all’improvviso, il secondo
provato ma tutto
sommato in uno stato accettabile.
L’ultimo
ad arrivare
è Blake. Gli apro la porta e gli faccio strada, ricordandomi
della presenza di
Vanessa solo quando ormai è troppo tardi per fare qualunque
cosa.
Lei
sbarra gli
occhi e lui fissa il pancione con aria scioccata.
«Ehm
… bene» taglio
corto prima che possano anche solo cominciare una discussione che
potrebbe
finire male. «Sapete tutti cos’è
successo. Jon è stato rapito. Dalla
descrizione che mi ha fornito Jack, sembra che i rapitori siano i due
uomini
che … con cui io e Jon abbiamo avuto uno scontro
l’altra sera.»
«Di
cosa stai
parlando?» chiede Arthur, le sopracciglia aggrottate.
«Sono
stata
aggredita, pochi giorni fa, mentre stavo tornando a casa. Jon
è venuto in mio
soccorso. Ora, è evidente a questo punto che il loro
obiettivo non era una
violenza in senso stretto» istintivamente rabbrividisco al
ricordo di quei
momenti orribili «Ma un attacco mirato a uno di noi. Sapevano
che la pantera
era Jon, e con ogni probabilità sapevano anche di
me.»
«Dev’esserci
Vahel
dietro» dice Arthur. «Aveva catturato Blake, e
cercava me da anni. Per qualche
motivo ci vuole tutti.»
«Per qualche motivo?» commenta
Vanessa,
critica. «Per ucciderci, direi.»
«Ma
perché? Cosa ne
ricaverebbe? I nostri poteri –a parte i miei- li ha
già tutti.»
«Vendetta.»
«Non
mi convince.»
«Potrebbe
anche
essere qualcun altro, ma le motivazioni … »
comincio, pensierosa.
«In
ogni caso, non
dobbiamo chiederci perché.
Dobbiamo
trovare Jon e liberarlo» taglia corto Damien, interrompendomi.
«Jack
mi ha
riferito la targa del furgone. Ho fatto qualche ricerca e ho ottenuto
un nome,
e dal nome un indirizzo.»
«Dove?»
«A
New York.»
«Quando
partiamo?»
domanda Damien.
«Tu non vieni» dice Arthur.
«Come
sarebbe a
dire?»
«Damien,
sei malato. Dovresti restare in
ospedale.»
«Neanche
per idea.
Jonathan è il mio migliore amico.»
«E
tu sei il mio
ragazzo.»
«Starò
bene.»
«Ma
se a stento
riesci a stare in piedi.»
«Io
… riprenderò a
usare i farmaci.»
«Hai
detto tu
stesso che non servono a nulla su di noi.»
Intervengo
per
sedare il dibattito, decisa, colpita da un’idea causata dalle
parole su di noi. Idea che, forse,
sarebbe
stata ancora più utile qualche settimana fa.
«Questo
è vero, ma
se Damien non fosse come noi, forse
potremmo cambiare le cose.»
«Cosa
vuoi dire?»
«Credo
che i
farmaci funzionerebbero se prendessi regolarmente del
Pentothal.»
Arthur
scuote la
testa.
«No.
Potrebbe avere
una qualche strana reazione allergica, o … non so, ma
comunque non voglio.»
«Non
spetta a te
decidere» gli ricorda Damien. «E io sono
d’accordo con Charlotte.»
Arthur
stringe i
pugni.
«Non
voglio che tu
metta a rischio la tua vita! Non abbiamo bisogno di te con noi! E vaffanculo cosa ne pensa Charlotte!»
Si
alza e si
allontana, furioso.
Restiamo
in
silenzio per un po’, imbarazzati, quindi Damien sospira.
«Vado
a parlargli.»
«No.
Lascia andare
me.»
Lui
mi guarda
stupito, ma acconsente.
Esco
dal soggiorno,
osservando con la coda dell’occhio Blake e Vanessa che si
appartano per
parlare.
Arthur
è sul
portico, le dita strette sul legno, e mi da le spalle.
«Arthur»
comincio,
ma mi interrompe subito.
«Tu
non hai idea» sussurra, la
voce carica
di rabbia e dolore, senza voltarsi. «Non hai idea di come ci
si sente. Io lo vedo
soffrire, stare sempre peggio, e non posso fare nulla per aiutarlo.
Sono
totalmente impotente, devo affidarmi a una persona che detesto
perché lo tenga
in vita.» Si gira e mi guarda, tremando per le emozioni
violente. «Io l’ho
visto peggiorare in questi anni.
Io ho visto che a poco a poco
smetteva di mangiare, dimagriva, si stancava più facilmente,
si sentiva male
sempre più spesso. Io l’ho
portato in
ospedale più e più volte, sentendomi dire che era
colpa sua se non migliorava,
perché non prendeva le medicine. Io
gli ho tenuto la mano mentre
continuava a vomitare. Io sono
andato
da Vahel perché mi desse una cura, sperando fino
all’ultimo di poter fare
qualcosa. Io ho dovuto scegliere
se
salvare la vita a Blake rinunciando alla possibilità di
guarirlo.» Fa una pausa,
respirando pesantemente, quindi riprende, a voce più bassa.
«Io l’ho
ascoltato mentre mi spiegava che
non voleva più prendere i farmaci. Io
l’ho
capito quando mi diceva che voleva solo smettere di soffrire, e
l’ho accettato
–ed è la persona che amo di più al
mondo. E adesso che forse intravedo una
possibilità all’orizzonte, ancora debole, di
salvargli la vita, arrivi tu
-dall’alto delle tue dieci lauree- e
lo incoraggi a provare qualche mix di farmaci che potrebbe
ucciderlo.» Mi
guarda fisso e conclude: «Dimmi, Charlotte, chi
sei tu per fare una cosa del genere?»
Resto
in silenzio
per qualche secondo, assimilando tutte queste parole rabbiose e
sentite. Per un
istante prendo in considerazione la possibilità di mormorare
“nessuno” e
tornare in casa, ma poi
cambio idea e replico, cercando di sembrare più calma di
come mi sento in
realtà.
«Un’amica.
Un
medico. Qualcuno che capisce quello che lui vuole e che vede oltre la
sua
malattia.» Sollevo una mano per impedirgli di interrompermi.
«Jonathan è il suo
migliore amico. Pensa a come potrebbe sentirsi Damien, nel suo letto di
ospedale, sapendo che non sta facendo nulla per aiutarlo. Come ti
sentiresti tu, in quella
situazione? In colpa,
probabilmente, e inutile, e impotente.» Lo guardo con
fermezza. «Damien può
decidere per se stesso, Arthur: di fronte ai suoi genitori
l’hai ammesso anche
tu. Devi lasciarglielo fare. So quanto lo ami, e proprio per questo
è
importante che tu gli stia accanto e lo supporti, qualunque cosa lui
decida di
fare. Pensa a quanto ti odierebbe se gli impedissi di salvare
Jonathan.»
Arthur
tace per un
momento.
«Comunque,
probabilmente troverebbe il modo di seguirci lo stesso»
borbotta.
«Ne
sono certa»
sorrido, e torno in casa, quasi aspettandomi un grazie
che però non arriva.
|
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Capitolo 11 *** Back in action ***
~BACK
IN ACTION~
[Blake]
«Allora?»
È
questa l’unica
parola che riesco a pronunciare, gli occhi fissi su Vanessa, in piedi
di fronte
a me con le braccia incrociate.
«Allora
cosa?»
replica lei, e se non fosse una ragazza le darei uno schiaffo.
«Allora cosa? Stai scherzando? Sei incinta!»
«Sì,
lo so.»
«E
… insomma, com’è
potuto succedere? Pensavo che avessi la testa sulla spalle!»
Le
mie parole
suonano stupide anche alle mie orecchie.
Lei
ghigna.
«Com’è
successo, mi
chiedi? Perché, eri ubriaco? Non ricordi?»
La
guardo senza
capire.
«Oh,
Dio, sul serio
non hai capito? Blake! Ricordi cos’è successo sei
mesi fa, a casa mia, nel mio
letto … e sul pavimento
… e in ascensore
… e …
?»
La
mia mente
procede più lenta del solito, ma alla fine capisco.
«Ma
… io pensavo …
oh, Dio, quindi sono io che … perché non me
l’hai detto prima?!»
Sono
semplicemente
sotto shock. Non avevo affatto realizzato, né fatto i dovuti
calcoli.
Sono
io il padre.
«Avevo
paura di
come avresti reagito.»
«Quando
avevi
intenzione di farmelo sapere, di grazia?»
«Io
… non lo so,
Blake. Ero così … »
«Non
pensi che sia
il genere di cosa che avrei dovuto sapere prima di chiunque altro? O
pensavi di
tenermelo nascosto per sempre? E se … e se io non avessi
voluto che tu tenessi
il bambino?»
Vanessa
sembra
inizialmente rimpiccolire a queste parole, tanto che quasi mi pento di
questo
attacco d’ira –ma quando concludo con
quest’ultima domanda, stringe gli occhi e
mi guarda fisso.
«In
tal caso»
replica con fermezza «Ti avrei detto di
andare a farti fottere.
E l’invito è ancora valido.»
«Non
credi che io
abbia voce in capitolo?»
«Credo
che tu sia
un idiota, Blake! Sul serio pensi che io avessi intenzione di tenertelo
nascosto? Pensi che io non abbia paura? Sono dannatamente spaventata
per questa
cosa che è
più grande di me e vorrei
solo cancellare tutto, ma non si
può,
e ormai siamo adulti, e credo che dobbiamo prenderci la
responsabilità delle
nostre azioni. E se tu ti rifiuti di farlo, beh, vorrà dire
che me la caverò da
sola.»
Cala
il silenzio.
La osservo, ferma e decisa, le mani incrociate sul petto e
l’espressione
mortalmente seria.
Respiro
profondamente.
«Ok»
mormoro.
«Vieni qua.»
La
stringo in un
abbraccio e chiudo gli occhi, inspirando il profumo dei suoi capelli
scuri.
«Andrà
tutto bene»
le sussurro piano. «Ti resterò vicino, te lo
giuro, Ness.»
Quando
rientriamo,
la decisione è ormai stata presa. Partiremo per cercare
Jonathan.
In
macchina non
parliamo molto. Guido per un po’, e ogni tanto guardo nello
specchietto
retrovisore. Charlotte è seduta accanto a me con una cartina
stradale in mano,
mentre Jack, Vanessa, Arthur e Damien sono pressati dietro.
Dopo
un
considerevole numero di ore e diverse soste e cambi di guidatore,
finalmente
arriviamo a New York.
Non
è difficile
trovare l’indirizzo che Charlotte ha recuperato.
«Proprio
quello che
ci vuole» borbotta Vanessa. «Un edificio
abbandonato nel Bronx, alle due di
notte, un rapimento ... davvero delizioso.»
Scendiamo
dall’auto, parcheggiandola il più vicino
possibile.
«Bene.
Andiamo.» Mi
guardo intorno. «Ehi, no, aspetta, Jack. Tu resti
qui.»
«Cosa?»
«Tieniti
pronto a
partire, appena torniamo dobbiamo correre.»
«Io
non rimango in
macchina. È mio fratello che state andando a
prendere.»
«Tu
ci servi qui.»
«Voi
potete sapere
se c’è qualcuno in giro? Io sì, mi
basta sentire i loro pensieri.»
Esito,
e lancio
un’occhiata agli altri.
«D’accordo»
cedo.
«Vieni, ma fai solo e soltanto quello che ti diciamo noi,
è chiaro?»
Jack
annuisce.
In
silenzio ci
avviciniamo all’inferriata arrugginita. Charlotte prova a
spingere il cancello
e questo si apre con un cigolio non molto promettente.
So
cosa passa nella
mente di tutti. Deve essere una trappola.
«Magari
non si
aspettavano che riuscissimo a trovarli» propone Damien, non
molto convinto.
«Se
ci cercano,
sanno dei nostri poteri. Penso che abbiano dato per scontato che
avremmo
trovato l’indirizzo» replica Charlotte.
Proseguiamo
fino
alla porta d’ingresso, attraversando un cortile sporco e
pieno di erbacce. È
aperta anche quella. Facciamo un paio di passi all’interno,
trovandoci in una
stanza con le pareti scrostate, silenziosa e buia.
«Non
mi piace»
mormora Damien.
«Ness,
Art» dico
con decisione, mantenendo la voce bassa. «Andate in
ricognizione, uno qui e
l’altra al piano di sopra. Dam, Jack, vedete se riuscite a
scoprire qualcosa.
Charlie, prova a infiltrarti nel circuito delle telecamere.»
In
silenzio, senza
pensarci due volte, tutti obbediscono. Proprio come ai vecchi tempi.
Scaccio
l’istintivo brivido di piacevole eccitazione –non
è il momento di godersi
questi deja-vu. Mi mordo il labbro
inferiore, cercando di scorgere qualcosa nel buio che mi circonda,
l’elettricità che crepita già nei miei
palmi, illuminando tenue le mie mani
come due piccole torce.
Arthur
mi ricompare
a fianco all’improvviso, facendomi sussultare.
«Qui
non c’è
nessuno. Raggiungo Vanessa di sopra.»
E
sparisce di
nuovo.
«Sento
Jonathan»
mormora Jack. «Dev’essere da qualche parte qui,
forse al piano di sopra.»
«C’è
qualcun
altro?»
«Sì.
Sento degli
altri pensieri … sono altre persone, non riesco a capire
quante … di sicuro più
di due.»
«L’abbiamo
trovato.» È Vanessa che parla.
«È di sopra, in una stanza sulla sinistra al
fondo del corridoio. Chiuso in gabbia.»
«Quanti?»
«Almeno
quattro,
solo in quella stanza.»
Arthur
ricompare a
sua volta.
«E
altri dieci in
tutto nelle stanze attigue.»
«Ok»
dico, fingendo
di non aver notato la loro schiacciante superiorità numerica
–qualcosa come due
a uno. «Credo che la cosa più semplice sia che
Arthur si teletrasporti là e
porti Jonathan con sé.»
«Io
posso farlo
diventare invisibile, se vado con lui» interviene Vanessa.
Non
ricordavo
questo particolare, dev’essere una novità.
Comunque annuisco.
Osservo
Vanessa
prendere la mano di Arthur. Scompaiono entrambi.
Rimango
in
silenziosa attesa, mentre Charlotte esulta sottovoce.
«Fatto»
dice, e mi
fa cenno di chinarmi. Sullo schermo del piccolo notebook sono comparse
diverse
immagini. Lei le scorre fino a trovare quello che ci interessa
–la stanza dove
è rinchiuso Jonathan.
Gli
occhi
socchiusi, osservo la figura distesa sul pavimento, apparentemente
sveglia e
vigile. Non vedo altro –Art e Vanessa sono invisibili- e
aspetto in silenzio.
Finché
Damien
sussulta e mi strattona un braccio.
«Blake»
mormora
«Arriva qualcuno.»
Mi
alzo di scatto.
«Quando?»
«Non
lo so.
Presto.»
«Adesso»
rettifica
Jack. «Sono sulle scale per un giro di
ricognizione.»
«Maledizione»
ringhio.
Charlotte
ha già
chiuso il computer e ci sta spingendo verso una porta laterale. Ci
precipitiamo
tutti lì dentro, chiudendoci la porta alle spalle.
«Lo
sai, vero»
dico, ansimando «Che se entrano qui siamo in
trappola?»
«Se
hai idee
migliori, sono tutta orecchie» ribatte acida Charlotte.
Non
replico. Lei
riapre il portatile. La situazione sembra ancora la stessa
–Jonathan è steso a
terra, le guardie parlano tra loro. Dove diavolo sono finiti Vanessa e
Arthur?
Vorrei che fossimo dotati di quelle ricetrasmittenti che fanno vedere
nei
telefilm polizieschi. Oppure …
«Jack.
Dove sono
quei due?»
Lui
stringe gli
occhi, concentrandosi.
«Non
li sento»
mormora dopo un po’.
«Cosa
significa che
non li senti?» sibilo.
«Potrebbero
essere
fuori dall’edificio.»
«Non
senza
Jonathan.»
«O
privi di sensi.»
Oh,
no.
«Charlotte.»
«Eccoli.»
Con
le labbra
strette, gira il computer verso di me. Vanessa e Arthur sono coricati a
fianco
di Jonathan nella gabbia, immobili, apparentemente privi di sensi.
«Maledizione!»
ringhio. «Cos’è successo?»
«Non
lo so. Per
accedere ai filmati registrati occorrerebbe troppo tempo. Se vuoi posso
farlo,
ma … »
«No,
è inutile.
Concentriamoci su come liberarli.»
In
quel momento, la
porta si spalanca.
«Forse
dovreste
prima concentrarvi su come liberare voi stessi» commenta una
guardia.
Sono
almeno otto, e
noi solo quattro, tre dei quali –Damien, Charlotte e Jack-
non hanno poteri
utili in combattimento.
Senza
perdere altro
tempo, sollevo una mano e lancio una scarica di energia a una delle
guardie,
che viene scaraventata contro la parete del corridoio.
«A
destra» dice
Damien, prevedendo la mossa un secondo prima e dandomi il tempo di
neutralizzare anche una seconda guardia.
Ma
poi la cosa si
fa troppo confusa per poter utilizzare efficacemente questo metodo.
«Ehi,
bocconcino» biascica una
delle guardie,
rivolto a Charlotte. Lei lo individua e sbarra gli occhi, spaventata.
«Che ne
dici se riprendiamo da dove ci eravamo interrotti la volta
scorsa?»
Deve
essere uno dei
suoi aggressori. Furioso, faccio per colpirlo, ma Charlotte mi precede.
Con
eleganza, lo raggiunge e ignora il suo sguardo divertito. Solleva una
mano e,
senza preavviso, lo colpisce duramente sul collo, di piatto. Lui
stramazza
immediatamente al suolo.
«Stronzo»
mormora
Charlie prima di rivolgersi ad un’altra delle guardie.
Ma
la nostra
escalation non dura a lungo. Damien e Jack, praticamente impotenti,
vengono
messi fuori gioco in pochi secondi. Charlotte li segue a breve. Io
resisto
qualche minuto di più, difendendomi con tutte le mie forze,
ma la leggera e
quasi impercettibile puntura che sento sul braccio fa crollare le mie
difese
–Pentothal, ovviamente.
Vedo
una guardia
avvicinarsi spaventosamente e tutto si fa buio.
Quando
riapro gli
occhi è a causa della luce che filtra da una finestra. Il
sole è alto e
bollente. Mi guardo intorno, i pensieri ancora confusi e ingarbugliati.
La
situazione è più o meno quella che ho visto dalle
telecamere –una gabbia,
delizioso riferimento al fatto che siamo considerati alla stregua di
animali,
tanto grande da occupare quasi l’intera stanza, e noi sette
al suo interno. Ci
sono due elementi differenti, però: il primo sono gli anelli
d’acciaio legati
ai nostri polsi destri e, all’altra estremità, a
catene metalliche che partono
da diversi punti della gabbia. Il secondo elemento è il
luogo dove ci troviamo.
Non sembra affatto di trovarsi nell’edificio malandato della
scorsa notte:
dalla finestra intravedo grattacieli e alti palazzi, tutti in vetro e
acciaio,
moderni –troppo per il Bronx. Valuto l’altezza
della gabbia e provo ad alzarmi
–ci riesco, sebbene la posizione sia scomoda.
Un’esclamazione
soffocata mi esce dalla bocca senza che io lo voglia. Ho riconosciuto
il luogo,
e come potrebbe essere il contrario? Siamo a Manhattan, il cuore
pulsante di
New York.
«Bella
vista, eh?»
commenta Charlotte pacatamente.
Mi
volto e torno a
sedermi.
«Cosa
ci facciamo
qua?» le chiedo.
«Mi
piacerebbe
saperlo.»
Osservo
gli altri.
Sono ancora privi di sensi.
Provo,
senza
convinzione, a usare i miei poteri.
«Niente
da fare»
commenta Charlie. «C’è un ago
all’interno delle manette che rilascia lentamente
del Pentothal.»
«Nessuna
idea su
chi ci abbia portato qui, o … ?»
Charlotte
scuote
appena la testa. Il Pentothal sta facendo effetto anche su di lei.
«Cosa
… ?» borbotta
qualcuno.
Mi
volto in tempo
per vedere Jonathan svegliarsi.
«Jon»
sospira
Charlotte, sollevata. «Come stai?»
Lui
tenta di
mettersi seduto e fa una smorfia.
«La
mia gamba … fa
male.»
Mentre
Charlotte si
avvicina per controllare, lentamente gli altri si svegliano a loro
volta.
«Ness,
tutto bene?»
domando, preoccupato, mentre Vanessa porta le mani alla pancia.
«Credo
di sì»
risponde debolmente.
Mentre
anche Jack,
Damien e Arthur riaprono gli occhi, la porta si apre.
Decisamente
non
entra chi mi sarei aspettato. Al primo posto della lista
c’era Vahel,
ovviamente; al secondo Lily; al terzo qualche sconosciuto
dall’aria spaventosa.
Invece
entrano un
uomo e una donna. Lui deve essere sulla quarantina, piuttosto
massiccio,
impeccabile in un completo gessato dall’aria molto costosa,
con un principio di
calvizie e un’abbronzatura eccessiva.
La
donna sembra
giovane –all’inizio le do venticinque anni, ma
quando si avvicina di più noto
qualche dettaglio che non mi convince. Probabilmente ha fatto diverse
visite ad
un chirurgo plastico. È esile, non molto alta, con capelli
biondi tinti e un
tailleur rosa scuro.
Lei
è una faccia
nota. Non posso fare a meno di riconoscerla: è Candy
Constantine, famosa
presentatrice televisiva. Anche l’uomo ha un’aria
familiare, ma non riesco a
identificarlo finché non si presenta.
«Sono
Noah Brown»
dice, rapido ed efficiente, squadrandoci da capo a piedi. Sentendo il
suo nome,
mi ricordo che è un famoso e disgustosamente ricco
produttore televisivo e
cinematografico. «E voi siete i protagonisti del mio nuovo
show. »
|
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Capitolo 12 *** Lost ***
~LOST~
[Jonathan]
Osservo
con gli
occhi stretti Noah Brown mentre parla in tono entusiastico. A dire la
verità,
fatico a concentrarmi sulle sue parole a causa del dolore bruciante
alla gamba
destra, sotto il ginocchio –dove mi hanno colpito quando sono
stato portato
qui.
«Tutta
l’America
–no, che dico? Tutto il mondo aspetta
di potervi guardare. Certo, il preavviso che ci hanno dato è
breve, ma da oggi
per una settimana bombarderemo di pubblicità ogni singolo
canale televisivo,
ogni rivista, tappezzeremo di volantini Manhattan, Trafalgar Square, il
Big
Ben, la Tour Eiffel e persino il Colosseo … »
Brown
vaneggia ancora
un po’, dimostrando una preoccupante tendenza alla
megalomania, e nessuno di
noi apre bocca. Ci guardiamo con un misto di disgusto e confusione.
«”Mutant Wars”, si
chiamerà. Prevedo un
sacco di sangue, una vena leggermente melodrammatica, magari un filo di
romanticismo per rendere il tutto più interessante
… »
«Ma
di cosa diavolo
sta parlando?» sbotta alla fine Arthur.
Brown
lo guarda con
stupore.
«Di
cosa sto
parlando? Ragazzo mio, del reality show che
surclasserà ogni altro programma! Veri mutanti
che combattono tra di loro per la sopravvivenza!»
«Sta
scherzando?»
ringhia Charlotte. «Non avete il diritto
di
fare questo. Noi siamo cittadini degli
Stati Uniti. Siamo esseri umani, non potete trattenerci senza
una ragione
valida né tantomeno sfruttarci come marionette in un reality
show!»
«Tesoro
mio»
sorride Brown «Non sai di cosa stai parlando. Voi siete
considerati una specie sconosciuta,
e in quanto tale …
com’era, Candy?»
«Ritenuti
potenzialmente pericolosi, classificabili come animali
selvatici» cita lei a
memoria, sorridendo, orgogliosa di se stessa.
«Che
cosa?» ancora
una volta, è Charlotte a parlare, furibonda.
«Siamo persone
… o perlomeno lo siamo fino a prova contraria.»
«La
prova contraria
c’è già stata» replica Brown
con un sorriso. «E anche piuttosto evidente, se
posso dirlo. Quando due uomini sono stati inviati per tentare di
catturare vivo
uno di voi –e, mia cara, mi pare che sia proprio di te che
stiamo parlando- in
modo del tutto inoffensivo, un altro» e guarda me
«ha reagito in modo
eccessivo, ferendo gravemente entrambi.»
«In modo del tutto inoffensivo?!»
sbotto,
sentendo la rabbia salire. «L’hanno aggredita!
Stavano per … per … »
«Temo
che questo
non sia rilevante, adesso» taglia corto Brown. «In
ogni caso, gli unici che
avranno diritto di protestare saranno gli animalisti –e
nessuno li ascolta mai,
dico bene? Torniamo a noi. Credo che per la prima puntata ci serva
qualcosa di
davvero efficace e d’impatto, per creare interesse nel
pubblico. Quindi pensavo
a quello che lancia fulmini contro quello che diventa un animale, che
ne dici?»
«Trovo
che sia
un’idea deliziosa» sorride Candy. «Ma la
cosa davvero importante è che ci sia
un palco al di fuori del recinto dove io possa restare al sicuro e
commentare
lo spettacolo senza correre rischi.»
«Ci
sarà senza
dubbio. Con riflettori e tutto.»
«E
se ci rifiutiamo
di combattere?» prorompe Arthur.
«In
tal caso»
risponde Brown, con tutta l’aria di volersi godere la scena
«Ne andrà della vita
dei vostri compagni.»
La
minaccia aleggia
nell’aria a lungo, poi Brown si volta verso Candy.
«In
ogni caso,
stavamo dicendo … come secondo incontro che te ne pare
dell’invisibile contro
il veggente?»
«Oh,
cielo, no.
Pensavo di mettere il veggente con il genio, ne verrà fuori
uno spettacolo
molto … intellettuale,
se capisci
cosa voglio dire.»
«Certo,
ma stai
dimenticando qualcosa, Candy. La parte emozionale,
romantica della situazione. Voglio
dire, i due innamorati che combattono l’uno contro
l’altro, capisci?»
«Sì,
naturalmente,
ma non rischiamo di scatenare un dibattito ancora più forte
così, facendoli
vedere quasi come umani?»
«Ma
è esattamente
quello che voglio che accada! Voglio che se ne parli, e comunque non
esiste
cattiva pubblicità, giusto?»
Mentre
continuano a
parlare tra loro, mi volto verso gli altri. Charlotte ascolta
attentamente, gli
occhi socchiusi e le mani sulle tempie –credo stia cercando
di immagazzinare
informazioni nonostante in Pentothal. Blake e Jack parlano tra loro
sottovoce, nervosi.
Arthur è accanto a Damien, che sembra stare poco bene.
Vanessa è sola, in
silenzio, e si accarezza pensosamente la pancia.
Candy
e Brown, alla
fine, aprono la gabbia e ci tolgono le catene, lasciandoci solo le
manette con
l’iniettore di Pentothal. Poi escono, ancora chiacchierando
amabilmente.
«Allora?»
Il
silenzio dura a
lungo. È Vanessa la prima a parlare.
«Non
c’è niente che
possiamo fare.»
«Io
non voglio
combattere con nessuno» sibilo.
«Certo
che no, ma
abbiamo altra scelta?»
«Forse
una c’è» mormora
Charlotte senza neanche guardarci, le mani premute sulle tempie e gli
occhi
chiusi.
«Sarebbe
a dire?»
«Avete
un
cellulare?»
«Io
ce l’ho» dice
Arthur «Ma ci tengono qui legalmente, almeno secondo il
governo. Cosa possiamo
fare?»
«Chiamare
Lily.»
Spalanco
gli occhi,
sconcertato, insieme a tutti gli altri.
«Che
cosa? Sei
impazzita?» sbotto. «Ci sono il … non
so, il novantanove percento di
possibilità che siano lei e Vahel gli artefici di tutto
questo!»
«Dove
avrebbe preso
tutte le informazioni sui nostri poteri, altrimenti?» mi fa
eco Vanessa. «Non
ce l’hanno in molti.»
«Il
presidente sì.
Le ha ottenute dall’Area 51» replica Charlotte,
riaprendo gli occhi e
puntandoli su ognuno di noi. «Secondo me le
probabilità sono un cinquanta e
cinquanta.»
«Il
presidente?» commento,
affatto convinto.
«Perché mai dovrebbe volere uno spettacolo del
genere?»
«Perché
pensa che
abbiamo tentato di ucciderlo. E, in più, siamo in pieno
periodo di elezioni. Se
riesce nel tentativo di farci sembrare un pericolo per la
società –e ci
riuscirà, magari anche citando quell’attentato- e
mostrare in questo show
l’unico modo per tenerci sotto controllo,
guadagnerà punti per aver debellato
una minaccia. Ma questo significa comunque legarsi pubblicamente allo
show,
dichiarandosi a favore di esso contro … gli animalisti, o
chi per loro.»
Osservo
Charlie con
un certo stupore.
«Pensavo
fossi
sotto Pentothal anche tu» le faccio notare.
«Evidentemente
il
mio cervello si adegua più rapidamente degli
altri» replica lei alzando le spalle,
ma con un’aria vagamente compiaciuta.
«Comunque
sia,
questo non ci dà certezze» controbatte Blake.
«Non ci dice che Lily e Vahel
siano completamente al di fuori della faccenda.»
«No»
ammette
Charlotte. «Ma se corriamo il rischio, e chiamiamo Lily, cosa
abbiamo da
perdere? Se è lei la responsabile, ci riderà in
faccia. Se non lo è, c’è una
possibilità che decida di aiutarci. Magari in cambio di
quello che cerca da
anni, il potere di Arthur.»
Mi
volto con gli
altri verso quest’ultimo, che però non sembra star
seguendo la discussione. È
accanto a Damien e ha un’aria preoccupata.
«Charlotte,
i
farmaci sono rimasti in macchina, vero?»
Lei
sussulta.
«Oh,
cielo. Temo di
sì.»
«Sto
bene» ribatte
Damien, ma è bianco come un cencio e la sua voce debole.
«Ok»
dice Charlotte
con voce decisa. «Opzione uno: restiamo qui senza fare nulla.
Opzione due:
chiamiamo Lily e speriamo che ci aiuti.»
«Opzione
tre»
interviene Arthur «Proviamo a rompere queste manette in modo
da poterci
teletrasportare.»
Per
qualche intenso
minuto ci dedichiamo a provare l’opzione tre, ma senza alcun
successo. Quindi
torniamo a parlare della due.
Alla
fine giungiamo
alla conclusione che tentar non nuoce.
«Chi
chiama?»
chiede Charlotte.
«Sono
l’ultima
persona che vuole sentire» dice subito Blake.
«E
io ti faccio
concorrenza» aggiunge Arthur.
«Non
la conosco»
dice Jack.
«Non
penso di
poterlo fare» ammette Damien.
«Mi
odia» commenta
Vanessa.
Quindi
la patata
bollente resta nelle mani mie o di Charlotte.
«D’accordo»
cedo
con un sospiro, prendendo il telefono di Arthur. Cerco il suo numero e
premo il
tasto di chiamata.
«Pronto?»
Deglutisco
prima di
parlare, nervoso.
«Ehm,
Lily? Sono
Jonathan.»
Segue
un attimo di
silenzio.
«Cosa
vuoi?» chiede
poi, bruscamente.
«Beh,
io e … gli
altri … abbiamo un problema. Non so se … ne sei a
conoscenza, ma siamo …
prigionieri in un appartamento a Manhattan. Sì, insomma,
c’è questo tizio, Noah
Brown … lui ha intenzione di farci partecipare ad un reality
show e farci
combattere tra di noi.»
«E
allora?»
Il
suo tono freddo mi
fa perdere quasi tutte le speranze.
«Allora
ci
chiedevamo se tu potessi aiutarci.»
«Perché
dovrei?»
«Beh»
replico,
piuttosto innervosito «Forse perché non vuoi che
moriamo tutti?»
«Nah.
Trovami un
altro motivo.»
«Perché
sei nostra
amica.»
«Ero, al massimo. No, Jon. Arrangiatevi,
come ho fatto io quando mi avete mollata nel bel mezzo di Las Vegas da
sola.»
E
chiude la
telefonata.
I
giorni passano
lenti, e non succede quasi nulla, a parte qualche occasionale visita di
Brown,
oppure di fotografi per i manifesti pubblicitari di Mutant
Wars.
E
alla fine arriva
il grande giorno. Per quarantotto ore io e Blake siamo rimasti in
stanze isolate,
ognuna perfettamente equipaggiata per contrastare il nostro potere,
proprio
come all’Area 51, e senza Pentothal.
Al
mattino, un’equipe
di truccatori e consulenti d’immagine visita ogni stanza.
E
poi, eccoci.
Senza sapere nemmeno come, mi
ritrovo
in uno studio televisivo. Ovviamente io e Blake siamo stati trasportati
qua in
due diversi blindati, ognuno pensato appositamente per noi, e resteremo
qui
fino al momento di entrare sul palco. Mi hanno dato un piccolo
auricolare per
poter sentire le loro istruzioni.
Attraverso
le porte
sento confusamente la voce di Candy subito dopo la sigla.
«Benvenuti»
trilla
con entusiasmo «Alla prima puntata di questo straordinario,
innovativo reality
show. Mutant Wars vi
farà
rabbrividire, vi farà emozionare … »
Continua
a
blaterare per un po’ e poi passa a presentarci. Annuncia me e
Blake come
“migliori amici, costretti a combattere l’uno
contro l’altro”, quindi, dopo
altre parole entusiaste e presentazioni di ospiti importanti qui
presenti, mi
ritrovo spinto fuori dal blindato direttamente nel recinto.
È
un’arena di
grandi dimensioni, al coperto, con un pavimento di cemento ricoperto da
uno
strato di sabbia e una rete metallica che la circonda. Mi ricorda
vagamente
l’arena del Queen Victoria’s College, dove Vahel mi
aveva lanciato quella rete.
Non
esattamente una
cosa positiva.
Lancio
un’occhiata
a Blake, che entra nel recinto dalla parte opposta. Il microfono nel
mio
orecchio crepita fastidiosamente prima che la voce di Noah Brown ne
esca,
distorta.
«Bene.
Ci siamo.
Ascoltatemi attentamente. Se vi voltate dalla parte opposta al pubblico
–sì,
esatto- potrete vedere, in uno schermo, uno dei vostri amici insieme ad
uno dei
miei.»
Con
estremo orrore
seguo le istruzioni di Brown e vedo una televisione che trasmette
un’immagine
in bianco e nero di mio fratello in compagnia di una grossa guardia
armata, con
tutti gli altri ragazzi dietro.
Oh,
no.
«Se
fate qualunque
cosa che mi possa contrariare, sarà lui a pagarne le
conseguenze. È chiaro?»
Per
un attimo la
voce viene oscurata dalle urla festanti ed eccitate del pubblico.
Sembra che le
cose non siano cambiate molto dai tempi di leoni e gladiatori.
«Perfetto.
Allora
cominciate a combattere. In tutto voglio che duri circa
mezz’ora –non troppo,
non troppo poco.»
Guardo
Blake con
aria rassegnata e lui si stringe nelle spalle. Quindi cominciamo ad
avvicinarci
al centro dell’arena.
Ci
studiamo in
silenzio per un minuto, quindi Blake attacca per primo. Lancia una
scarica di
energia non troppo intensa che mi passa a un centimetro dal viso. Mi
sfugge un
sorriso di scherno.
Lui
stringe gli
occhi e avanza, per poi lanciare una nuova scarica, stavolta diretta
davvero a
me. Per evitarla mi trasformo in lupo. Mi avvicino di corsa, mentre
Blake
comincia a scagliare una raffica di colpi in serie, uno dopo
l’altro. Quando
riesco ad avvicinarmi a sufficienza, spicco un salto e riesco quasi a
gettarlo
a terra –ma resiste e mi allontana con altra energia.
«Vuoi
fare sul
serio, quindi» dico sottovoce, un lampo divertito negli
occhi.
Continuiamo
a lungo
con questo tira e molla, e il pubblico esulta con fischi o incitamenti.
Alla
fine, non è male come pensavo. Somiglia a quei combattimenti
che abbiamo
affrontato tante volte al Queen Victoria’s prima
dell’arrivo di Vahel
–divertente, impegnativo e innocente.
Decido
di optare
per una vecchia tattica. Mi trasformo in una formica e Blake,
già pronto a
colpirmi, esita, non vedendomi più. Lo raggiungo rapidamente
e aspetto che si
volti dall’altra parte per tornare lupo e saltargli addosso
alle spalle. Lo
getto a terra amichevolmente, senza usare zanne o artigli.
«Bene.
Adesso
mordilo» mi ordina Brown.
Se
fossi umano,
direi “che cosa?”,
ma non lo sono,
quindi mi limito a ringhiare piano.
«Avanti,
fallo» mi
incita bruscamente, ma scuoto la testa.
È
Blake a reagire –mi
lancia un lampo di energia che mi fa saltare indietro. Torno umano e
rotolo
sulla sabbia per qualche metro, per poi tossire, tentare di rialzarmi e
venire
bloccato da una fitta al ginocchio.
«Colpiscilo!»
intima Brown a Blake.
Lui
esita,
lanciando un’occhiata allo schermo, dove Jack è
tenuto ben stretto dalla
guardia.
Io
faccio appena un
cenno affermativo prima di ricevere un’altra scarica di
energia che mi fa
sollevare in aria. L’istinto mi dice di trasformarmi prima di
atterrare, ma non
lo faccio. Voglio solo che Brown sia soddisfatto. Cado male e il
ginocchio mi
lancia un’altra fitta lancinante. Provo a mettermi in piedi,
appoggiandomi alla
parete.
«Colpiscilo
ancora!» urla Brown nel mio orecchio, e Blake, dopo
un’ulteriore esitazione,
obbedisce.
Finisco
a terra
altre tre, quattro, dieci volte. Perdo il conto delle cadute e delle
contusioni, e anche delle volte in cui Brown ha incitato Blake a
continuare.
Poi,
a un certo
punto, la voce cambia.
«Perfetto.
Adesso
falla finita. Lancialo contro la parete. Forte. Non voglio che si
rialzi. Se
riuscissi a rompergli qualche osso sarebbe perfetto.»
Muovo
lentamente la
testa per guardare Blake, che scuote energicamente la testa.
«No?»
commenta
Brown, una nota aspra nella voce.
Vorrei
muovermi,
fare qualcosa, perché ho una bruttissima sensazione, ma non
faccio in tempo. I
miei occhi guizzano sullo schermo, dove vedo la guardia estrarre una
pistola.
«No!»
riesco a
urlare, tentando di alzarmi, di muovermi, qualunque cosa –ma
è inutile. Non
sento nulla, ma vedo il braccio dell’uomo spostarsi per il
rinculo e Jack
cadere a terra, fuori dallo spazio visivo della telecamera.
«Fallo,
o ammazzo
anche gli altri!»
È
questa l’ultima
cosa che sento prima di essere scaraventato contro la parete e
scivolare nel
buio dell’incoscienza.
Mi
risveglio nel
blindato insieme a Blake, il bracciale con il Pentothal di nuovo legato
al
polso. Non ho neanche il tempo di pensare che il blindato si ferma e
vengo
spinto giù –di nuovo all’interno della
stanza con gli altri.
Tutto
il mio corpo
duole a causa delle cadute, e il mio ginocchio non è
più in grado di reggere il
mio peso. Ma niente di tutto questo importa.
Quando,
incespicando e zoppicando, entro nella stanza, mi precipito verso il
corpo
disteso a terra.
È
vivo.
È
questa l’unica
cosa a cui riesco a pensare quando vedo il petto di Jack sollevarsi
lentamente
in un respiro ansante. Il proiettile lo ha colpito al petto. Il sangue
cremisi
macchia tutto il suo corpo e gocciola lentamente sul pavimento
nonostante il bendaggio
improvvisato eseguito con strisce di tessuto strappato da una maglietta.
Charlotte
è
inginocchiata accanto alla sua testa. Quando incrocio il suo sguardo,
vedo le
lacrime nei suoi occhi.
«Mi
dispiace»
mormora, senza fiato. «Ho fatto tutto quello che
potevo.»
Sostiene
il mio
sguardo per qualche secondo in più, abbastanza da farmi
capire. Non c’è nulla
in questa stanza –niente che possa essere usato come
strumento di cura.
Poi
abbasso gli
occhi e afferro la mano di Jack, stringendola forte.
Lui
apre gli occhi
e li punta su di me.
«Jon»
ansima, dopo
qualche colpo di tosse. Vedo un rivolo di sangue scivolare sul suo
mento e devo
lottare per mantenere il controllo di me stesso.
«Ssh»
mormoro. «Non
parlare. Riposati. Andrà tutto bene, te lo prometto. Sono
qui con te,
fratellino.»
Lui
mi guarda
ancora per un po’, gli occhi spaventati ma fiduciosi, poi
chiude gli occhi e
rafforza la presa sulla mia mano.
Resiste
per qualche
minuto. Il suo respiro si fa sempre più lento e irregolare.
Quando respira per
l’ultima volta, io sono ancora accanto a lui e gli tengo la
mano.
Non
succede altro.
Delicatamente,
stacco la sua mano dalla mia.
Un’occhiata
rapida
in giro per la stanza mi mostra l’immobilità degli
altri, sospesi –tranne
Charlotte, che allunga incerta una mano verso di me.
La
guardo, senza
capire –niente ha più senso.
Vorrei
tornare nel
buio, perdere i sensi e poter non pensare
–ma questo lusso non mi viene più concesso.
E
allora rimango
sveglio, immobile, accanto al corpo senza vita di mio fratello.
*scappa
per sottrarsi al linciaggio* a presto!
|
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Capitolo 13 *** Unexpected ***
~UNEXPECTED~
[Arthur]
Secondo
il mio
orologio, sono passate cinque ore e mezza quando finalmente Jonathan si
addormenta. Tutti noi abbiamo dormito un po’ nel frattempo,
ma lui non aveva
ancora chiuso occhio.
«Ne
aveva bisogno»
mormora Charlotte sottovoce. «Attenti a non
svegliarlo.»
Non
ho certo
bisogno che me lo dica lei, ma mi trattengo dal dirlo ad alta voce.
Vedo
chiaramente che l’espressione di Charlotte nasconde un
profondo senso di colpa
per non essere riuscita ad aiutare Jack.
«Cosa
facciamo
ora?» chiedo.
Il
silenzio è
l’unica risposta.
Sospiro.
Vanessa e
Damien sono i prossimi sulla lista dei combattimenti, fra tre giorni,
ma lui
non riuscirebbe ad affrontare qualcosa di simile a quello che hanno
fatto Blake
e Jonathan.
Gli
lancio un’occhiata.
È seduto accanto a me, la schiena appoggiata al muro, gli
occhi socchiusi.
«Sei
sicuro di non
voler mangiare nulla?» insisto, spingendo verso di lui il
piatto ormai freddo
di minestra che ci hanno portato circa un’ora fa.
Lui
scuote la testa
senza dire niente.
«Magari
dopo» dice,
sapendo che io so che mente.
Annuisco
debolmente
e guardo Charlotte, che ha seguito la conversazione in silenzio. Ma lei
alza le
spalle, impotente. Qui dentro non abbiamo nulla che possa anche solo
essere
usato come eventuale bisturi per un’operazione di emergenza
–sono ancora in
attesa del prelievo genetico- né tantomeno i farmaci da
prendere insieme al
Pentothal.
Torno
a guardare
Jonathan, disteso sul pavimento con i pugni serrati. Sono venuti a
prendere il
corpo di Jack qualche ora fa, e lui è rimasto assolutamente
immobile, senza
reagire. Non oso immaginare quanto dev’essere dura per lui.
Dopotutto Jack non
sarebbe stato qui se non fosse stato per Jon –e sono sicuro
che lui ne è
perfettamente consapevole.
E
Blake, ovviamente,
si sente ancora più in colpa per essersi rifiutato di
colpire Jon.
Insomma,
nessuno di
noi sta passando un bel momento.
«Dobbiamo
fare
qualcosa» riprendo. «Charlotte?»
Lei
mi guarda
storto. Temo di aver preso l’abitudine di Blake di chiamarla
sempre in causa
quando si tratta di pensare a qualcosa.
«Non
lo so» dice
chiaramente. «Ci ho pensato a lungo … volevo
organizzare un piano di fuga, ma
non ho gli strumenti per farlo. Mi basterebbe un computer, ma non
c’è modo di
riuscire a ottenerlo. Siamo chiusi qui tutto il giorno, sotto
Pentothal, e se
usciamo è per andare agli studi televisivi –e mai
tutti insieme. Davvero, non
so che pesci pigliare. Mi dispiace.»
«Va
bene» dice
Blake, sorridendo forzatamente. «Non è colpa tua.
Riusciremo ad inventarci
qualcosa.»
Ma
sappiamo tutti
che siamo in una situazione senza via d’uscita. Con Damien
che sta male, Jon
che ha appena perso suo fratello, Vanessa incinta, Blake e Charlie
divorati dai
sensi di colpa e io dalla preoccupazione, non riusciremo a fare un bel
niente.
Maledizione.
Il
silenzio torna,
oppressivo, e alla fine scivolo di nuovo nel sonno.
I
tre giorni
passano, e Vanessa viene rinchiusa nel blindato quando le tolgono il
Pentothal.
Ovviamente hanno un rilevatore di calore per poter stabilire
esattamente la sua
posizione all’interno del veicolo.
Invece
Damien resta
con noi: Brown non ritiene che togliergli il Pentothal possa
rappresentare una
minaccia. E ha ragione.
Almeno
il Pentothal
aveva l’effetto di bloccare le sue visioni. Così,
invece, lo vedo peggiorare
ancora, tormentato da esse.
«Coraggio,
Dam» lo
incoraggia Charlotte. «Ricordi? Devi respirare a fondo
… e poi visualizzare la
porta. Avanti. L’hai già fatto tante volte, puoi
farlo anche ora.»
Damien,
le mani
premute sulle tempie, ci prova per la milionesima volta.
«È
inutile» sibila.
«Non funziona più.»
Lo
osservo in
silenzio, del tutto impotente, e mi chiedo come farà a
sopravvivere al
combattimento di stasera. D’accordo, si tratta di Vanessa, la
sua migliore
amica –ma la vita di uno di noi dipenderà dalla
loro capacità di farsi del male
l’un l’altro, e non credo che Damien si
troverà in posizione di vantaggio.
Charlotte
si
allontana per raggiungere Jonathan e io mi avvicino a lui.
«Ehi»
mormoro. «Va
tanto male?»
«No»
dice lui,
deciso. «Migliorerò. Devo solo riuscire a
concentrarmi.»
Annuisco
e lascio
che appoggi la testa sulla mia spalla. Restiamo zitti a lungo.
«Arthur?»
mormora
dopo un po’.
«Sì?»
«Quello
che è
successo a Jack … sarà così anche per
me?»
Resto
senza parole
per un momento, ma mi riprendo in fretta. Lo scosto bruscamente.
«Guardami.
Damien, guardami.» Lui
obbedisce. «Non devi
dirlo, ok? Non ti succederà niente. Stasera andrà
tutto bene, e poi … Charlotte
troverà un modo di farci uscire da qui.»
Lui
scuote la
testa.
«Non
è quello che
intendevo. So che andrà
così, alla
fine.» Apro la bocca per contraddirlo, irritato, ma non me lo
permette. «No,
Art. Non trattarmi come un bambino, d’accordo? Sappiamo
entrambi com’è la
situazione, non c’è bisogno di mentirci a vicenda.
È molto probabile che io non
sia più qui, tra qualche giorno. Forse già
stasera.»
Lo
guardo negli
occhi in silenzio, scorgendo la fermezza e la consapevolezza che
mancavano
qualche settimana fa, e non so cosa rispondere.
«No,
quello che
volevo chiederti» riprende dopo qualche secondo, a voce
più bassa «È se tu
resterai accanto a me e mi terrai la mano fino alla fine, come ha fatto
Jonathan per Jack.»
Chiudo
gli occhi
per un istante, raccogliendo la forza.
«Certo»
mormoro.
«Non devi neanche chiederlo. Non ti lascerò un
attimo. Sei tutta la mia vita,
Dam, e ti amo così tanto che non riesco neanche ad
esprimerlo. Resterò al tuo
fianco fino … fino alla fine.»
Le
parole mi
bruciano la gola mentre escono, ma vengo ricompensato dallo sguardo
sereno e
rassicurato di Damien, che si stringe a me. Appoggio il mento sulla sua
testa,
le nostre mani intrecciate, e chiudo gli occhi.
«Grazie»
sussurra,
reclinando il capo sul mio petto. «Le visioni non sono
così terribili quando ci
sei tu, sai?»
«Allora
resta qui.»
«Non
me ne andrei
per niente al mondo.»
Creo
il vuoto nella
mia mente, cercando di non pensare al futuro e fingendo di riuscirci.
I
miei occhi sono
incollati al televisore. Damien e Vanessa sono appena entrati
nell’arena e si
fronteggiano. Mi chiedo come possa la gente accettare di vedere una
ragazza incinta
e un malato terminale costretti a combattere per salvare i loro amici.
Non ci è
permesso guardare la TV in altri momenti che non siano questi, quindi
non so
nulla di eventuali dibattiti televisivi o altro.
Però
non ho mancato
di notare il simbolo presidenziale accanto al logo di Mutant
Wars e la dicitura “approvato
dal presidente degli Stati Uniti” al fondo dei
titoli di testa.
Stavolta
è
Charlotte che ha la pistola puntata contro di sé. Pallida,
guarda nello schermo
con angoscia.
Il
combattimento
comincia con un corpo a corpo –Ness scompare ma Damien sembra
sempre sapere
dove individuarla, grazie alle visioni.
Continua
pacato per
un po’, e il pubblico inizia a dare segni di noia. Immagino
Brown dettare istruzioni
all’orecchio di Damien e Vanessa. Lui le afferra un braccio e
glielo porta
dietro la schiena, causandole un gemito di dolore. Ness si libera con
forza e
sparisce di nuovo. Stavolta Damien non sembra riuscire a trovarla.
Dopotutto le
visioni non sono più controllabili.
Lo
vedo piegarsi
improvvisamente in due, come se avesse ricevuto un colpo nello stomaco,
e
probabilmente è così.
Continuano
a
lottare a lungo, ma vedo i segni della stanchezza sul volto di Damien.
Poi, ad
un certo punto, Vanessa finisce a terra. Vedo Damien sbarrare gli occhi
in
reazione a qualcosa che gli dice Brown. Esita e lancia uno sguardo
rapido in
direzione dello schermo dietro le quinte. Charlotte ha un fremito.
Poi
si decide e
obbedisce agli ordini, colpendo con forza il gomito di Vanessa, che
urla,
stringendoselo al petto. Brown ordina a Damien di colpirla alla pancia,
che lei
protegge istintivamente con le braccia. Però, per fortuna,
lei riesce a
scivolare di lato e rialzarsi.
Sono
entrambi
stanchi e ben presto è Damien a trovarsi a terra. Vanessa
è costretta a
colpirlo più volte –allo stomaco e sul viso,
ancora e ancora.
La
situazione è
assurda e paradossale –lei piange mentre esegue gli ordini.
Ho
la gola chiusa,
vorrei poter fare qualunque cosa che non sia restare qui immobile a
vedere il
sangue che cola lentamente sul viso di Damien. Se solo fossi con lui.
Se
potessi …
E
poi succede
qualcosa. Un vento forte scuote lo studio, violento, e poi sul palco
esplode il
fuoco. Damien si rialza faticosamente mentre il pubblico, terrorizzato,
inizia
a correre verso le uscite di sicurezza. Qualcuno –una figura
alta e sottile- si
fa strada tra le fiamme senza problemi e apre le porta
dell’arena con un raggio
di energia.
Lily.
Damien
e Vanessa
non si fermano a sindacare ed escono di corsa. Guardie armate li
raggiungono in
men che non si dica, ma la nuova arrivata le respinge con altra
energia. E poi
scompaiono tutti dal campo visivo delle telecamere, che inquadrano solo
più
gente che scappa urlando dalle fiamme.
Nello
stesso
momento, le porte qui si spalancano e un uomo armato entra, rivolgendo
la
pistola contro la guardia che minaccia Charlotte. Questi lascia partire
un
colpo e sento Charlotte gridare –poi la guardia finisce a
terra e altri uomini
entrano, controllando che il posto sia libero.
Quindi
si schierano
su due lati e lasciano passare qualcuno in mezzo a loro. Non mi
sorprende
riconoscere due occhi gelidi che spiccano in un volto serio e
inquietante.
Ivan
Vahel,
naturalmente.
«Charlotte,
Jonathan. È un piacere rivedervi. Arthur, Blake, lo stesso
vale per voi,
nonostante il modo … rocambolesco in
cui ci siamo lasciati la volta scorsa.»
Charlotte
è stata
colpita da un proiettile alla mano destra, e se la stringe al petto,
macchiandosi di sangue. Fissa Vahel con gli occhi stretti e lucidi.
«Lei
ha tentato di avvelenarmi»
ringhia Blake al nostro
cosiddetto salvatore.
«Tu
hai tentato di
rubare qualcosa di mio» ribatte Vahel pacificamente.
«Cosa
ci fa qua?»
intervengo, per cercare di evitare un omicidio.
«Voglio
liberarvi»
dice semplicemente. «Potete anche decidere di rifiutare,
ovviamente, e rimanere
qua … »
Ci
scambiamo
qualche occhiata. Tra seguire Vahel e restare qua, senza armi o soldi o
poteri
o qualunque cosa che potrebbe esserci utile, e con Noah Brown che
potrebbe
tornare da un momento all’altro, sappiamo tutti qual
è il male minore. Forse.
«D’accordo.»
Ritroviamo
Damien e
Vanessa al piano terra, insieme a Lily.
«Oh,
Dio» mormoro,
raggiungendo velocemente Damien. «Come stai?»
Ha
il volto ancora
insanguinato ed è ancora più pallido di prima.
Protetto dalla sicurezza di
essere invulnerabile –o almeno, di tornarlo quando mi
verrà tolto il bracciale
al Pentothal-, non corro rischi di contagio: tiro fuori un fazzoletto
stropicciato dalla tasca e gli do una mano a ripulirsi il viso dal
sangue.
«Bene»
risponde con
poca convinzione.
«Non
… non importa.
Siamo fuori, ok? Adesso possiamo fare qualcosa.»
«Basterebbe
sapere cosa» replica lui
amaramente, gettando a
terra il fazzoletto e dando voce a quello che penso.
«Credo
che il
minimo che possiate concedermi, adesso» dice Vahel, sedando
tutte le nostre
conversazioni «Sia seguirmi senza fare storie per parlare.
Per ogni evenienza,
le mie guardie sono armate con aghi al Pentothal oltre che con
proiettili.»
Non
che ce ne sia
bisogno, perché attorno ai nostri polsi –con
l’eccezione di quelli di Damien e
Vanessa- ci sono ancora i bracciali con l’ago.
«Arthur
… per
favore … potresti darmi una mano?» mormora
Charlotte mentre ci dirigiamo verso
una macchina nera parcheggiata qui di fronte, presto circondata da
altre di
scorta.
La
osservo e vedo
che la mano ferita, trapassata da un proiettile, continua a sanguinare.
Annuisco
e la aiuto
a sfilare la felpa, per poi arrotolarla strettamente intorno alla mano.
Ovviamente avrei potuto usare la mia camicia per questo –ma
mi sembrava un gesto
lievemente troppo generoso.
«Grazie»
replica,
ma vedo che deve provare molto dolore.
«Figurati»
borbotto, allungando il passo per raggiungere Damien.
|
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Capitolo 14 *** Forgiveness ***
~FORGIVENESS~
[Lily]
Seduta
accanto a
Vahel, che sta guidando da circa tre ore, mi volto per lanciare uno
sguardo ai
sedili posteriori. Sul primo, subito dietro di me, sono stretti
Jonathan -con
un’aria vagamente sperduta-, Vanessa –che, diamine,
è incinta- e Blake. Su
quello al fondo un Arthur e una Charlotte
piuttosto preoccupati tengono d’occhio Damien, che sembra
stare sempre peggio.
Ci
stiamo dirigendo
verso il Queen Victoria’s College, naturalmente, e la cosa
non sembra
tranquillizzare nessuno di loro. Mi
chiedo come mai.
Ho
notato che Vahel
non ha fatto nulla per togliere loro il bracciale al Pentothal
–specialmente ad
Arthur, che potrebbe sparire in un istante e vanificare tutti i suoi
sforzi.
Ora,
dicendo così
sembra che ci sia lui dietro questa idea dello show televisivo. Ma non
è
affatto così. L’effetto di quella bravata, al
cento percento ideata e promossa
dal presidente degli Stati Uniti, è stato
l’opposto di quello che Vahel cercava.
Adesso il nostro anonimato è compromesso per sempre, dopo
essere andati in onda
in tutto il mondo: non ci sarà più
così facile organizzare nel buio un
attentato contro la sua persona. Probabilmente era anche a questo che
mirava il
presidente sponsorizzando Noah Brown.
E
allora cosa ci
fanno gli altri qui, e perché Vahel mi ha ordinato di
salvarli? E, ancora di
più, a cosa gli servono loro se tutti i loro poteri sono
ormai scritti nei miei
geni?
La
prima risposta è
semplice: non ne ho idea. I suoi piani sono ignoti persino a me, la sua
più
fidata collaboratrice.
La
seconda è poco
piacevole. La verità è che non va tutto a
meraviglia come abbiamo lasciato
intendere a tutti, compreso Arthur quando è venuto da noi. I
cinque poteri che
Vahel mi ha impiantato hanno perso efficacia con il passare di questi
tre anni.
Più li usavo, più si consumavano,
per
così dire. Le visioni di Damien, del tutto involontarie,
sono state le prime ad
andarsene, dopo appena un paio di mesi, per
fortuna –perché averle nella mente
ventiquattro ore al giorno era una vera
e propria tortura. A seguire se n’è andato il QI
di Charlotte, quindi
l’invisibilità di Vanessa. La capacità
di trasformarmi si è affievolita sempre
di più, fino a sparire qualche mese fa. Stasera ho dato il
massimo con i poteri
di Blake, e li ho esauriti del tutto.
È
stato questo che
ha impedito a Vahel di pianificare un attacco al presidente. Abbiamo
dovuto
testare i limiti dei poteri, e non siamo mai stati abbastanza certi
della loro
efficacia –che mutava da un momento all’altro- da
andare al sodo. Per non
parlare dei tentativi di Blake di fermarci –piuttosto
patetici, a dire il vero.
Insomma,
il mio potere è intatto, ma tutto il resto si è
dimostrato inefficace. E questo
vuole anche dire che ormai Vahel ha rinunciato alla tecnica di impianto
dei
poteri. A quella tradizionale,
almeno.
Perché
il prelievo
che Vahel ha effettuato su Arthur poche settimane fa era diverso. Ha
consultato
dei colleghi, ha studiato manuali su manuali, mi ha annoiata a morte
con decine
di lezioni sul tema, e alla fine ha deciso di sperimentare in pratica
quello
che aveva teorizzato. Invece del sangue, il nuovo prelievo si effettua
sul
midollo osseo, ricco di materiale genetico, e l’impianto
nella nuova cavia –per
chiamarla così- avviene allo
stesso modo. Per questo motivo è stato necessario tanto
tempo per prelevare i
poteri di Arthur.
Questo
però
richiede una quasi totale compatibilità del gruppo sanguigno
dei due soggetti
–insomma, vanifica il sogno di impiantare sulla stessa
persona tutti i diversi
tipi di superpoteri.
Infatti
è per
questo che la fiala dei poteri di Arthur –quella vera, non
quella avvelenata,
ovviamente- è ancora al sicuro nelle mani di Vahel e non
già impiantata dentro
di me: io e Art abbiamo due gruppi sanguigni differenti.
Onestamente,
non so
cosa stia pianificando adesso Vahel. Da una parte, sembra tornato
all’idea
originaria di impiegare direttamente tutti noi –anche se non
so come convincerà
gli altri a partecipare. Dall’altra, è ancora
preso dall’idea dell’impianto, e
forse sta cercando una scappatoia per i problemi che ha incontrato.
Chissà.
Io,
per il momento,
me ne tiro fuori e osservo dall’esterno lo scorrere degli
eventi.
Guardare
gli altri
mi fa provare una certa dose di rimpianto e nostalgia –se
avessi reagito con
più diplomazia, tre anni fa, adesso forse sarei insieme a
loro. Ma continuo a
ritenerli inesorabilmente e ingiustificabilmente colpevoli
di avermi esclusa solo per aver tradito Arthur –cosa che,
forse, oggi rifarei.
O
forse no,
medito, osservando attraverso lo specchietto
retrovisore la delicatezza con cui parla sottovoce a Damien, gli occhi
colmi di
preoccupazione.
In
ogni caso, è
troppo tardi per un ripensamento. Tre anni troppo tardi, per la
precisione.
Quando
arriviamo è ormai
sera. Ci siamo fermati sulla strada per mangiare e adesso tutto
ciò che voglio
è andare a dormire. Quello a cui non avevo pensato
è che la mia camera è di
nuovo occupata da altre due ragazze.
Guardo
in silenzio
Vanessa e Charlotte che si mettono d’accordo per fare la
doccia e riaprono
l’armadio per ritrovare gli abiti lasciati qui quando siamo
scappate. Percepisco
la loro vaga tensione: fingono di ignorarmi ma sono consapevoli della
mia
presenza.
Lascio
che occupino
il bagno per prime e quando finalmente riesco a entrare nella doccia
è passata
un’ora. Mi asciugo i capelli, mi cambio ed esco, aspettandomi
di trovare le
ragazze addormentate. Invece non sono in camera.
Scendo
verso la
sala comune, e li trovo tutti lì. Per un istante prendo in
considerazione l’ipotesi
di restare qua e spiare la conversazione –ma questo non
contribuirebbe a
riabilitarmi ai loro occhi.
Quindi
adesso è questo che voglio fare? Riabilitarmi?
Il
mio orgoglio
fatica ad accettarlo, ma lo soffoco e scendo le scale.
«Non
possiamo più
aspettare» sta dicendo Arthur, serio. «Non sei
d’accordo, Charlotte? Dobbiamo
farlo adesso.»
Qualcuno
si volta
al mio ingresso, ma per nessuno sembra essere un problema.
Evidentemente non
stanno discutendo di evasione o qualunque altra cosa che temono potrei
riferire
a Vahel. Continuano a parlare mentre mi siedo in silenzio su una delle
poltroncine.
«Lo
so» replica
lei, l’aria desolata. «Ma hai visto la mia mano.
Non riesco neanche a piegare
le dita, e si tratta della destra. Non posso operare nessuno
così.»
«E
allora cosa
proponi di fare?» ringhia Arthur, acido. «Aspettare
e guardare Damien che-»
Non
termina la
frase, ma è più che evidente cosa intendeva dire.
Conosco
Damien, e
mi aspetterei una battuta ironica a questo punto, o qualche commento
sul fatto
che parlano di lui come se non ci fosse. Ma lui, acciambellato sul
divano con
gli occhi socchiusi, non apre bocca.
«Non
lo so!» geme
Charlotte. «A meno che … non sia qualcun altro a
farlo.»
«E
chi? Vahel?»
Vedo
che Charlotte
sta perdendo la pazienza per il tono sarcastico di Arthur, ma resiste
stoicamente.
«Jonathan»
dice.
Quest’ultimo,
finora intento a contemplare il muro, sussulta e alza gli occhi.
«Che
cosa? Perché
io?»
«Perché
stai
studiando per diventare veterinario, ed è la cosa
più simile ad un medico che
abbiamo.»
«No.
Non se ne
parla, Charlie. Primo, sono solo al terzo anno. Secondo,
c’è una differenza tra
operare un furetto e una persona vera.»
«Ti
guiderò lungo
tutta l’operazione. Ti dirò esattamente cosa fare
e quando potrò ti darò una
mano.»
«Non
posso farlo.
Assolutamente no.»
«L’alternativa
è
lasciare che Damien muoia.»
Cade
il silenzio.
Charlotte ha pronunciato davvero quella
parola.
Damien
alza la
testa e incontra lo sguardo spaventato di Jonathan.
«Vorrei
che ci
fosse un altro modo» mormora Charlotte. «Ma non
c’è, e … a meno che per te sia
davvero impossibile, ti prego, Jon, fallo. Damien ha messo a rischio
tutto per
andare a New York a salvarti. Lui non te lo rinfaccerebbe mai, ma
… »
«Ho
paura di
sbagliare» replica Jonathan, senza distogliere lo sguardo da
quello di Damien,
tormentandosi le dita delle mani.
«Cos’abbiamo
da
perdere?» chiede piano Damien, parlando per la prima volta, a
fatica. «Morirò comunque,
se non ci provi.»
Guardando
Jonathan
vedo che ha ancora impressa a fuoco nel cuore la morte del fratello.
Immagino
quanto debba essere difficile per lui accettare una cosa del genere
–e ancora
di più, quanto rifiutarla.
«Va
bene» sussurra.
«Lo farò.»
«Bene.»
Charlotte
abbandona in fretta l’espressione drammatica per adottare
quella consueta,
pratica e razionale. «Quello che bisogna fare è un
trapianto di midollo osseo
da Arthur a Damien.»
«Sono
compatibili?»
chiedo, stupita.
Tutti
si voltano
verso di me, sorpresi, come se si fossero dimenticati della mia
presenza.
«Sì»
risponde
Charlotte. «Sorprendentemente. Ho fatto gli esami a Baltimora
e la
compatibilità è quasi del novantacinque per
cento.»
Annuisco.
La
coincidenza –sempre che lo sia, perché Vahel sta
facendo delle scoperte
interessanti su come funzionano i nostri organismi- è
straordinaria.
«Abbiamo
bisogno di
una sala operatoria sterile» enuncia. «E di
strumenti adeguati. Anestetici,
prima di tutto.»
«Non
so quello che
ha Vahel di preciso. Dovreste chiedere a lui. Per operare Arthur la
prima volta
l’ha portato nella clinica di un medico che
conosce.»
«Forse
è
un’opzione» commenta speranzoso Jonathan.
«No.»
A parlare è
stato Vahel, entrato in questo momento –ma, conoscendolo,
stava probabilmente
ascoltando la conversazione da un po’. «Temo che il
medico in questione abbia
avuto un … mm … tragico
incidente
poco dopo l’operazione. Si era dimostrato molto curioso nei
confronti
dell’esperimento.»
La
cosa non mi fa
né caldo né freddo –non è
certo la prima volta che capita- ma sembra fare
piuttosto impressione sugli altri.
«Abbiamo
bisogno di
fare questa operazione. Se ci lasciasse teletrasportare a Baltimora per
un paio
di giorni … » propone Charlotte, accennando al
bracciale al Pentothal ancora
stretto ai loro polsi.
«Temo
che non sia
praticabile» replica Vahel con un sorriso freddo e ironico.
«Tra pochi giorni dobbiamo
partire e non vorrei mai che qualcuno di noi perdesse
la strada.»
«Per
andare dove?»
«A
trovare un mio
caro amico. Nessun rischio per voi, certo –ma qualunque cosa
vogliate fare,
dovete farla prima.»
«Perché
siamo qui,
allora?»
«Affari
personali
da sbrigare.»
«Questo
significa
che non possiamo aspettare che il Pentothal termini il suo
effetto» mormora
Charlotte.
«Potete
utilizzare
il laboratorio, se vi serve» dice Vahel. «Temo di
non avere medicinali al
momento, ma ho qualche strumento di base che potrebbe esservi utile.
È nel mio
interesse che tutti voi siate vivi e in salute.»
Come
no,
penso con una vena ironica.
«D’accordo»
taglia
corto Charlie. «Dobbiamo provare.»
Poco
meno di
mezz’ora dopo siamo giù in laboratorio, io,
Jonathan, Arthur, Damien e
Charlotte.
Mi
sono offerta
come aiutante per il semplice fatto che non volevo restare con le mani
in mano
al piano di sopra insieme ai due piccioncini, Blake e Vanessa.
«Per
prima cosa»
comincia Charlotte, palesemente fingendo che non le faccia effetto
ritrovarsi
nel luogo che, quando vivevamo qua, era il nostro spauracchio «Devo poter
sterilizzare il laboratorio. Ma
non so se … forse, se cerco tra quello che ha qui,
troverò anche qualcosa da
usare come anestetico. Nel frattempo … forse è
meglio che tu vada a stenderti
un po’, Damien.»
«Lo
accompagno io»
mi offro, e usciamo insieme.
Saliamo
di nuovo le
scale ed entriamo nella camera dei ragazzi, dopo aver oltrepassato
Blake e
Vanessa che, impegnati, non ci notano nemmeno. Non che mi importi.
Insomma,
Blake non era il mio ragazzo. Non proprio. E non è che solo
perché mi chiamava Lily-belle dovrei
essere gelosa di Vanessa. Tanto
più che,
adesso, lei aspetta un bambino da lui. Non posso certo competere con
questo, e
neanche lo voglio.
Giusto?
«Chi
se lo
aspettava, eh?» commenta Damien, l’aria esausta,
raggiungendo il proprio letto.
«Cosa?»
«Questo.
Essere di
nuovo qui, tutti insieme.»
«Come
nel peggiore
degli incubi» confermo.
Lui
sorride appena.
«Non
è proprio
quello che intendevo.»
Chiude
gli occhi e
resta in silenzio. Sento il suo respiro difficoltoso e ogni volta fa
più male.
«Non
ti capita mai
di pensare che hai sbagliato tutto?» sussurro dopo un
po’, senza neanche sapere
se è sveglio, incoraggiata dalla penombra che rende tutto
quasi innaturale.
«Cosa
intendi?»
domanda Damien, la voce debole.
«Se
non avessi
perdonato Arthur per averti lasciato al Queen Victoria’s,
anni fa, adesso non
saresti in queste condizioni.»
«Mi
sono pentito di
tante cose» replica lui, senza esitare «Ma mai di
questo.»
Sospiro.
«Sarei
dovuta
tornare?» chiedo.
«Io
penso che siamo
stati noi a sbagliare. Abbiamo giudicato troppo in fretta. Art ti aveva
fatto
del male.»
Nessuno
dei due ha
bisogno di aggiungere altro, e basta uno sguardo per capire che le cose
tra noi
hanno cominciato a tornare come prima.
È
un inizio.
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Capitolo 15 *** Losing the last hope ***
~LOSING
THE LAST HOPE~
[Jonathan]
Le
parole di
Charlotte mi rimbombano nella mente mentre cammino nervosamente avanti
e
indietro di fronte alla porta del laboratorio.
La
responsabilità
che mi chiedono di accollarmi è pesante, un fardello che non
voglio portare.
Eppure, ogni volta che mi sono quasi deciso a ribellarmi e ho le parole
“non voglio farlo”
sulla punta della
lingua, mi basta guardare Arthur per decidere di tacere. È
seduto a terra, la
schiena appoggiata al muro, immobile.
So
cosa pensa di
questa lunga attesa: ogni minuto che passa può fare la
differenza per Damien.
Poi
la porta si
apre, Charlotte esce e io non ho più occasione di ritirarmi.
«La
buona notizia è
che sono riuscita a rendere sterile la stanza più piccola
del laboratorio. Beh,
quasi –ma abbastanza perché sia sicuro operare.
Quella cattiva è che non sono
riuscita a trovare dell’anestetico. C’è
della morfina, ma è davvero poca.»
«Non
importa»
taglia corto Arthur. «Facciamolo lo stesso.»
«D’accordo.
Useremo
quel poco che c’è e … »
«No.
Voglio che la
tieni per Damien» dice lui con fermezza.
«Ci
sono più
probabilità che Damien perda conoscenza durante
l’operazione» obietta
Charlotte, ragionevole. «In poco tempo non ne avrà
bisogno.»
«Ha
già sofferto
abbastanza. Tienila per lui.»
«Come
preferisci»
cede lei. «Ma questo vuol dire che tu resterai cosciente. E
serve che tu sia
perfettamente immobile. Il prelievo di midollo è
un’operazione estremamente
delicata. Un errore potrebbe compromettere la spina dorsale.»
Deglutisco.
Avrei
preferito non saperlo.
«Resterò
fermo.»
«Sii
realistico»
sbotta Charlotte. «Farà male. Non riuscirai a
rimanere immobile.»
«E
allora cosa
proponi, piccolo genio?»
«Dobbiamo
immobilizzarti.»
«Ammettilo,
Charlotte» brontola Arthur «Non aspettavi altro,
vero?»
Ed
ecco come sono
arrivato qui, in questa stanzetta soffocante, le luci al neon
accecanti, con
Arthur disteso prono sul tavolo, polsi e caviglie legati.
«Non
posso,
Charlotte» mormoro, il cuore in gola.
«Devi»
taglia corto
lei. «Vado in laboratorio a prendere quello che
serve.»
Resto
da solo con
Arthur. Il silenzio è assordante. Lui muove la testa per
lanciarmi un’occhiata.
«Mi
fido di te,
Jon» dice.
«Non
ne sembri
tanto convinto.»
«Non
lo sono. Lo
dicevo sperando di rassicurarti.»
«Non
preoccuparti.
Potrei farlo ad occhi chiusi.»
«Ti
prego, evitalo.»
Sorrido
appena,
teso.
«Potresti
fingere
che al posto mio ci sia Damien con un frustino in mano»
scherzo.
«Oh,
Dio. Ho
cambiato idea. Dì a Charlotte di usare la mano
sinistra.»
Lei
rientra con
degli strumenti che appoggia su un ripiano.
«Ok,
si comincia.»
Non
posso descriverlo
con frasi compiute. Ci sono solo lunghi momenti di buio, di cieca
obbedienza e
di fortissima concentrazione, inframmezzati da pochi istanti di atroce
consapevolezza di quello che sta succedendo.
La
sensazione
strana del bisturi in mano.
Il
brivido gelido
mentre la lama taglia la pelle.
Le
grida soffocate
di Arthur.
Il
suo corpo che si
tende e si irrigidisce per il dolore.
La
voce calma e
irremovibile di Charlotte.
E
quando,
finalmente, ho applicato anche l’ultimo punto per chiudere la
ferita, le parole
“bene, hai finito”.
Appoggio
con cautela
gli strumenti sul ripiano.
La
mia mente è
ancora vuota.
«Arthur?»
chiede
Charlotte, tesa.
Lui
non risponde.
«Credo
che abbia
perso i sensi» commenta Charlie.
«Io
ci sono vicino»
replico debolmente, uscendo dalla stanza e assaporando una boccata
d’aria
fresca.
«Sei
stato
bravissimo» mi elogia lei. «Che ne dici di andare a
vedere come sta Damien? Io
resto qua con Arthur.»
«Va
bene» accetto
subito, allontanandomi.
Ancora
non mi
permetto di pensare e mi limito a salire le scale in una sorta di
trance.
Apro
la porta della
nostra stanza e trovo Lily addormentata su uno dei letti.
«Come
sta Arthur?»
è la prima cosa che chiede Damien, in ansia.
«Bene,
credo»
replico, sedendomi accanto a lui.
«E
tu? Sembri un
fantasma.»
«Insomma.»
«Sei
stato
coraggioso.»
«Avrei
potuto
sbagliare e … »
«Ma
non l’hai
fatto.»
«Immagino
di no.»
Il
silenzio dura un
solo secondo: poi un urlo lo spezza.
È
un urlo feroce, di
dolore, e sveglia immediatamente Lily.
«Cosa
… ?»
Ci
precipitiamo su
per le scale perché, stranamente, è da
lì che sembra provenire il suono.
Una
porta è aperta.
Faccio un passo avanti e la scena che mi si presenta davanti mi lascia
senza
fiato per lo stupore.
In
una stanza non
dissimile da quella da cui sono da poco uscito, con un tavolo
operatorio
improvvisato e qualche strumento medico, un uomo in un camice sterile
guarda un
secondo uomo, disteso sul tavolo –e questo secondo uomo
è Ivan Vahel.
Poco
più tardi
siamo tutti riuniti nella nostra camera, con Arthur disteso a letto e
appena
risvegliatosi.
Charlotte,
dopo aver
parlato sottovoce con il dottore, è venuta a spiegarci
cos’è successo.
«Per
farla breve,
il motivo per cui Vahel ha insistito per tornare qui al Queen
Victoria’s è che
ha tentato di farsi impiantare i poteri di Arthur.»
«Che
cosa?!»
«Aveva
detto che non
ci sarebbe più riuscito, per le modifiche che avevano fatto
all’Area 51 ai suoi
geni» obietta Blake.
«Non
con il vecchio
metodo, quello del sangue. Ma con quello del midollo osseo …
»
«Erano
compatibili?»
«Secondo
il medico,
quasi al novantotto percento» ammette Charlotte.
«Ma
non ha
funzionato.»
«Anzi.
C’è stato un
violento rigetto.»
Cala
un silenzio
pesante.
«La
loro
compatibilità era maggiore della nostra» mormora
Damien. «Questo significa che
non abbiamo speranze?»
«Sono
molto
pessimista al riguardo» dice Charlotte a bassa voce.
Vedo
Damien
chiudere gli occhi allo svanire di quest’ultima speranza che
era parsa così
realistica e vicina.
«Non
possiamo
provare comunque?» propone sottovoce.
«Un
rigetto come
quello di Vahel potrebbe facilmente esserti fatale, viste le tue
bassissime
difese immunitarie.»
Mi
stupisco di
Arthur –pensavo che sarebbe scattato e si sarebbe messo ad
urlare contro
Charlotte. Invece non apre bocca. Allunga la mano verso quella di
Damien e la
stringe –nient’altro.
«Non
può essere che
il rigetto di Vahel sia dovuto alle manipolazioni genetiche?»
ipotizzo
disperatamente.
«È
possibile»
ammette Charlotte «Ma poco probabile. Le due cose non sono
legate.»
Silenzio,
ancora.
Persino più atroce di prima. Noto il cenno deciso di
Charlotte, che indica a
tutti noi di andarcene.
Obbediamo,
lasciando Arthur e Damien da soli.
Seguo
Charlotte
fuori, in giardino.
«Mi
sento in colpa»
sussurra, non appena raggiungiamo una panchina isolata.
«Non
devi» replico
stancamente. «Hai fatto tutto ciò che
potevi.»
«Sono
io il medico,
qui. Se ci fosse una soluzione e io non ci avessi pensato? Se
… »
«Credi
che la morte
di Jack sia colpa mia?» la interrompo duramente.
«Cosa?
No,
assolutamente no! È stato Brown che … »
«Io
credo che lo
sia» proseguo. «Sono stato io a proporgli di venire
a Baltimora. È per salvare
me che vi ha seguiti fino a New York.»
«Jonathan,
tu non
c’entri nulla.»
«Se
reputi me
innocente per quello che è successo a Jack»
ribatto «Come puoi incolpare te
stessa per quello che sta succedendo a Damien?»
Lei
tace e abbassa
gli occhi.
«Charlotte»
riprendo più gentilmente dopo qualche secondo «Hai
già fatto tanto. Mi hai
salvato la vita, qualche anno fa, ricordi?»
Lei
annuisce.
«Mi
sei mancato»
mormora. «Anche se questi tre anni mi sono serviti per
realizzare i miei sogni
… il più grande l’ho dovuto
abbandonare.»
Le
sue parole mi
stupiscono. Non è mai stata tipo da sentimentalismi:
razionale, scientifica,
talvolta fredda. Eppure l’emozione nella sua voce
è evidente.
«Mi
sei mancata anche
tu. Mi sono chiesto tante volte se fosse il caso di venirti a trovare,
ma non
ho mai trovato il coraggio. Pensavo che con
l’università, e il lavoro … non
avessi più bisogno di me.»
«Lo
pensavo
anch’io, ma mi sbagliavo.»
Ci
guardiamo in
silenzio.
La
prossima mossa è
quasi scontata –ma anche difficile. Una parte di me vorrebbe
ritrarsi, tornare
indietro alla noiosa ma sicura vita normale che stavo sperimentando
prima di
partire. Una vita senza poteri, senza morte, senza fughe, senza
rapimenti.
Senza Charlotte.
Ma
come potrei
tornare a casa?
Come
potrei
guardare i miei genitori negli occhi dopo quello che è
successo a Jack?
Chiudo
gli occhi
per scacciare l’idea tentatrice. Sono qui con Charlotte,
adesso. Sono sue le
labbra che premono sulle mie, suo il leggero profumo di cannella, suoi
i
capelli che mi solleticano il collo.
Pensavo
di averla
persa.
Ora
devo accettare
di andare avanti, lasciarmi il passato alle spalle e ricominciare. Non
da solo,
questa volta.
«Devo
tornare
dentro» sussurra Charlotte sulle mie labbra.
«Resta
ancora un
po’.»
«Voglio
parlare con
Damien. Ci vediamo tra un’ora giù al vecchio
salice?»
«D’accordo.»
Mi
sorride, mi da
un ultimo bacio e si allontana.
Rimasto
solo,
sorrido a mia volta. Vorrei che fosse ancora qui con me.
Sto
facendo la cosa
giusta.
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Capitolo 16 *** The greatest mistake ***
~THE
GREATEST MISTAKE~
[Charlotte]
Il
sorriso che mi
aleggia ancora sulle labbra dopo il bacio con Jonathan sparisce non
appena
rientro nella sala comune.
Faccio
per parlare,
ma Arthur si mette l’indice sulla bocca per farmi segno di
tacere. Damien si è addormentato
sulla poltrona.
Arthur
si alza ed
esce con me dalla sala, faticando a camminare, ancora provato
dall’operazione.
Saliamo le scale fino alla camera dei ragazzi.
«Allora,
cosa
vuoi?» chiede bruscamente dopo aver chiuso la porta dietro di
sé.
«Mi
dispiace» dico
d’un fiato.
«E
perché mai?»
«Io
… pensavo che
avrebbe funzionato.»
«Sembra
che anche miss Perfezione possa
sbagliare,
quindi.»
«Non
è colpa mia,
Arthur» dico, le parole rassicuranti di Jonathan ancora nelle
orecchie. «Ho
fatto tutto il possibile.»
«Una
decina di
lauree, chissà quanti master, un quoziente intellettivo di
oltre duecento
punti» sibila, riuscendo in qualche modo a far suonare il
tutto come un insulto,
«Ed è questo il
tuo “tutto il
possibile”?»
«Io
… »
«Siamo
venuti da te
perché pensavamo che fossi l’unica in grado di
fare qualcosa. Forse se fossimo
andati da qualcun altro … »
«Non
è colpa mia!» insisto.
«E
di chi, allora?»
«Sei
stato tu a
trasmettergliela» ringhio,
vendicativa, desiderando solo che smetta di incolparmi.
«L’hai detto tu stesso,
non siamo negli anni Sessanta. Avevi il dovere
di sapere come … »
«Non
osare dare la
colpa a me!» urla Arthur. «Io sono stato
l’unico che non lo ha abbandonato!»
«Ti
sbagli» lo
contraddico, con rabbia sempre più bruciante. «Tu
non hai mosso un dito. Non
hai fatto altro che pretendere che io trovassi
una cura, quando è ovvio che non esiste!»
«Io
lo amo!»
«E
io sono sua
amica! Se ci fosse una minima possibilità …
»
«L’idea
dell’invulnerabilità è stata
mia.»
«Sì,
e non ha
funzionato!»
«Ma
tu pensavi il
contrario! Fino a pochi minuti fa … anzi,
l’avresti fatto, e lui sarebbe morto!»
«Tanto morirà comunque!»
Non
so da dove mi
siano uscite queste parole fredde e disinteressate –non sono
io, è che Arthur è
l’unico che ha il potere di darmi sui nervi in questo modo.
Tutto
quello che so
è che, un istante dopo, la mia schiena preme contro il muro
e Arthur mi sta
baciando.
Non
ha nulla a che
fare con i baci delicati di Jonathan.
È
l’equivalente uno
schiaffo in pieno viso, ma so già che dopo farà
più male.
È
odio, è rabbia,
è disperazione –e
li sento bruciarmi nelle vene mentre ricambio il bacio e mi aggrappo ad
Arthur.
Vorrei
poter dire
che ci fermiamo subito e ci rendiamo conto dell’errore
–ma mentirei.
Non
ci fermiamo. Le
nostre mani lottano per toccare quanto più possibile
dell’altro, e non c’è
l’ombra di un pensiero razionale in questo.
Odio.
Rabbia. Disperazione.
I
suoi capelli
sotto le mie dita che li tirano forte.
Odio.
Rabbia. Disperazione.
Lo
strappo di una
cucitura della mia maglietta per la foga con cui me la toglie.
Odio.
Rabbia. Disperazione.
Il
cigolio delle
molle del materasso quando, senza sapere come, la mia schiena affonda
su di
esso.
Odio.
Rabbia. Disperazione.
Le
lacrime sul suo
viso, o forse sul mio, chissà chi le ha piante. Tanto
è lo stesso.
Odio.
Rabbia. Disperazione.
Il
suono quasi
ridicolo di una zip abbassata.
Odio.
Rabbia. Disperazione.
Un
morso sul collo,
più violento di quanto mi aspettassi, che mi provoca un
gemito involontario.
Odio.
Rabbia. Disperazione.
Le
mie dita che si
aggrappano alla sua schiena –la cicatrice fresca
dell’operazione che avrebbe
dovuto salvare Damien.
Damien.
Odio.
Rabbia. Disperazione.
Qualche
minuto
dopo.
Riprendiamo
fiato,
senza osare guardarci negli occhi.
Cosa
ci è successo?
La
scena, vista
razionalmente, è imbarazzante. Il letto sfatto, i volti
sudati, i vestiti per
terra.
Deglutisco.
Come
sono arrivata
qui? Io, la razionale, fredda, calcolatrice Charlotte, che non conosce
la
parola impulsività, come
sono finita
in questa situazione con una persona che detesto?
La
risposta è
davanti ai miei occhi, inaccettabile.
Odio.
Rabbia. Disperazione.
Lentamente,
con la
sensazione di nuotare in un mare di gelatina, mi alzo e raccolgo i miei
abiti.
Non
oso alzare gli
occhi su Arthur, che sta facendo lo stesso.
Senza
dire una
parola, mi rivesto ed esco, rifugiandomi nella vecchia camera delle
ragazze,
dove ho dormito da quando avevo dieci anni a quando ne avevo diciotto
insieme a
Vanessa e Lily –una vita intera di scherzi da ragazze, risate
e lacrime da
adolescenti.
Mi
guardo allo
specchio.
Sono
sempre io,
solo un po’ cresciuta, con i capelli arruffati e il viso
arrossato.
Eppure
è tutto
diverso.
Qualcosa
è
cambiato, e vorrei tornare indietro di un’ora per rimettere
le cose a posto.
Solo
che stavolta
non si può.
Mi
ricordo
dell’appuntamento con Jonathan solo quando ormai è
troppo tardi. Mi sembra di
muovermi in un sogno. Nulla è reale, niente ha
più senso.
Faccio
una lunga
doccia, mi cambio e scendo le scale.
Vedo
Vanessa
intenta a chiacchierare a bassa voce con Blake su un divano, ma non mi
avvicino.
È
la mia migliore
amica, e vorrei disperatamente confidarmi con lei –ma
è ancora più vicina a
Damien, e non posso permettere che lui venga a saperlo.
Esco
dalla sala
comune e decido di andare verso la biblioteca –quando vivevo
qua lo facevo ogni
volta che mi sentivo male per qualche motivo.
Trovo
Lily seduta
su un divanetto con un libro.
Prima
ancora di
realizzarlo razionalmente –sembra che ormai il mio cervello
mi abbia definitivamente
abbandonata- sono seduta accanto a lei e sto piangendo.
«Shh
… cos’è
successo, Charlotte?» mormora lei, accarezzandomi i capelli
ancora bagnati. «È
per Damien?»
Solo
sentirlo
nominare mi fa sentire maledettamente in colpa.
«Ho
fatto una
cazzata» singhiozzo non appena riesco a parlare.
«La cosa peggiore che potessi
fare.»
«Vedrai
che si
sistemerà tutto» mi consola lei.
«No»
mugolo «Non
posso tornare indietro … »
«Cos’hai
fatto,
Charlie? Qualunque cosa sia, sono sicura che c’è
un rimedio.»
«Sono
andata a
letto con Arthur» sussurro, e dirlo ad alta voce lo rende in
qualche modo reale, tanto che esco
-con un rumore
interiore di vetri infranti, o forse è il mio cuore- dallo
stato di trance in cui mi trovavo.
Lily
sbarra gli
occhi e la sua mano si ferma sui miei capelli.
«Che cosa?!»
«Sono
stata così stupida»
dico tra le lacrime. «Ero
arrabbiata perché continuava a
darmi la colpa per Damien … ero fuori di me, e non pensavo
lucidamente …
nessuno di noi due lo faceva … e un attimo dopo
eravamo-» mi interrompo e
riprendo a piangere.
«No,
non piangere,
Charlie. Ok, è stato un errore –ma non
è così grave, giusto? L’hai detto tu
stessa: eravate sconvolti. Sono cose che capitano.»
«Tu
non capisci»
mormoro. «Era … era la mia prima volta.»
Lily
batte le
palpebre.
«Oh»
riesce solo a
commentare.
«Mi
sento così idiota! Sono
tra le persone –no, sono la persona
più intelligente del pianeta»
mi correggo con notevole ma realistica mancanza di modestia
«e sono riuscita a
fare una cosa così ingenua!»
«Oh,
Charlie. Mi
dispiace tanto.»
Appoggio
la testa
sulla sua spalla e continuo a piangere in silenzio.
Non
mangio cena e,
quando Lily e Vanessa rientrano in camera, fingo di star già
dormendo. Loro si
danno la buonanotte e in breve crollo anch’io, distrutta.
Mi
risveglio
presto. Il mio orologio non segna ancora le sette.
Faccio
una doccia,
mi vesto e scendo.
Appena
entrata in
cucina per cercare qualcosa che appaghi il mio stomaco brontolante vedo
l’ultima persona che avrei voluto incontrare.
Arthur.
Il
mio primo
istinto è di voltarmi e andare via senza dire una parola, ma
il sonno sembra
avermi riportato un minimo di raziocinio e decido di comportarmi da
persona
matura.
Mi
avvicino alla
dispensa e trovo un pacco ancora sigillato di pane in cassetta. Ne
infilo un
paio di fette nel tostapane e aspetto in silenzio.
Arthur,
che sta
bevendo del caffè, non mi guarda quando comincia a parlare.
«Volevo
solo che
sapessi» esordisce, intento ad osservare il manico della sua
tazza, «Che ne
parlerò io con Damien. Perciò, se prima di allora
potessi … »
«Non
lo dirò a
nessuno» scatto, irritata dal fatto che il suo solo pensiero
sia tenere tutto
nascosto –tra l’altro, realizzo, Lily lo sa
già.
«Bene.»
Il
silenzio adesso
è ancora più imbarazzante.
«Charlotte»
riprende dopo un po’, ancora evitando di guardarmi, mentre io
spalmo della
marmellata sul mio pane tostato «Mi dispiace che …
insomma, che la tua prima …
ecco … sia stata … così.»
«Te
ne sei accorto»
dico solo, pacata, come una considerazione indifferente.
«Certo.
Ma … troppo
tardi, credo.»
La
gola chiusa, mi
limito ad annuire in silenzio.
«Avrei
dovuto
pensare un po’ di più» commenta.
Mi
arrischio ad
alzare lo sguardo.
«Anche
io» ammetto
con voce debole.
Lui
si passa le
dita sulle palpebre chiuse.
«Non
sto dicendo
che non mi sia piaciuto» aggiunge precipitosamente.
«È solo che … »
«Damien» concludo per lui con un
sorriso
amaro. «Ti capisco. Volevo che fosse … doveva
essere Jonathan.»
«Possiamo
dimenticarcene» suggerisce speranzoso.
«Vorrei
che fosse
così semplice.»
«Io
non so neanche
se … » si interrompe e sospira. «Damien
è un
ragazzo. Dio sa che mi ci è voluto del tempo per
accettarlo. E adesso che
ero convinto di essere … insomma, come faccio a dirglielo?
Se fosse stato un ragazzo,
forse –ma con te? Ho
paura che pensi
che … che io non l’ho mai veramente …
»
Smette
di parlare e
scuote la testa, appoggiando la tazza sul bancone con forza.
«Capirà»
sussurro.
Mi
guarda
inespressivo.
«Credi
che io debba
dirglielo?» domanda. «A che scopo, Charlotte? Per
farlo soffrire negli ultimi
giorni ... »
la voce gli si spezza.
«È
una tua scelta»
replico dolcemente, ritrovando il mio consueto ruolo di consigliera.
«Ma, se ti
interessa la mia opinione, io penso che la sincerità sia la
cosa migliore.»
«Ah,
sì? Tu lo
dirai a Jonathan?» ribatte lui.
Mi
coglie
impreparata e batto le palpebre, sorpresa. Chissà
perché, non riesco mai a fare
a lungo la maestrina con lui.
«Io
… immagino … »
«Non
è così
facile.»
«No»
concordo con
un sospiro.
Ci
guardiamo.
«Credo
che questa
sia la prima volta che non litighiamo quando parliamo»
commenta Arthur con
l’ombra di un sorriso.
«Sì,
lo penso
anch’io. Se avessimo saputo prima che bastava andare a letto
insieme … »
Gli
sfugge un
sorriso, ma torna subito serio.
«Allora?
Lo dirai a
Jonathan?»
«Sì.
È giusto che
lo sappia.»
Annuisce.
«Ci
penserò»
promette prima di uscire. «Oh, ciao, Jon.»
Fantastico.
E io
che pensavo di poter rimandare.
«Charlie»
mi saluta
freddamente.
«Jon.
Mi dispiace
non essere venuta ieri. È successa una cosa e …
mi è completamente passato di
mente.»
La
sua espressione
si addolcisce.
«Non
è un problema.
Cos’è successo?»
Mi
schiarisco la
voce.
«Io
… ho litigato
con Arthur. Continuava ad incolpare me e poi …»
deglutisco a vuoto «Insomma, mi
ha … baciata. E … »
«Lui
che cosa?!» esplode
Jonathan.
«Non
… non è che
fosse solo lui, Jon. È
stato …
eravamo sconvolti, tutti e due, e … »
Lui
sbarra gli
occhi.
«Non
avrete …?»
Lascia
la frase in
sospeso, ma capisco benissimo. Non rispondo, ma credo che la mia
espressione
sia sufficientemente eloquente.
«Non
ci credo»
ansima lui. «Non ci credo! Avete fatto sesso!»
Arriccio
il naso
per il modo rude in cui ha posto l’accusa –non per
questo meno vera, certo.
«Ma
lui è gay,
maledizione!»
La
sua reazione non
è esattamente quella comprensiva che mi aspettavo.
«Jon,
te l’ho
detto, non volevamo farlo. È stato tutto un malinteso
… »
«Un
malinteso? Sei andata a letto con
lui
dopo che ci eravamo baciati per la prima volta da tre anni!»
«Credimi,
quel
bacio è stato molto più importante che
… »
«Vaffanculo,
Charlotte. Tornatene da Arthur, adesso. Anche se a lui non frega niente
di te
–non più di Damien, sicuramente.»
«Lo
so» mormoro, le
lacrime agli occhi. «E non importa neanche a me! Eravamo
… »
Ma
Jonathan esce
sbattendo la porta prima che io possa ripetere l’ennesima,
inutile
giustificazione.
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Capitolo 17 *** Apologize ***
~APOLOGIZE~
[Damien]
Sono
già sveglio da
un po’ quando Arthur entra, una tazza in mano.
«Buongiorno»
mi
dice con un sorriso teso. «Ti ho portato del
caffè.»
«Grazie.»
Lo
osservo
attentamente mentre chiude la porta, mi porge la tazza e si siede sul
bordo del
mio letto. Mi metto a sedere e soffio sul liquido bollente.
«Ho
anche qualche
biscotto, se ti va» propone speranzoso, allungandomene uno.
Solo
a guardarlo mi
viene la nausea.
«Magari
dopo»
mento, e lo vedo rabbuiarsi.
«Come
vuoi.»
«È
successo qualcosa?»
indago delicatamente, notando la sua tensione e il disagio che
dimostra,
evitando di guardarmi negli occhi.
Annuisce.
«Io
… ho fatto una
cosa molto stupida» annuncia.
Mi
preoccupo
immediatamente.
«Cosa?»
«Ieri
ho litigato
con Charlotte.»
«Non
mi sembra una
novità.»
«Ero
furioso, e …
l’ho baciata.»
Spalanco
gli occhi,
incredulo.
«Hai
baciato
Charlotte?» ripeto, sconcertato.
«Sì.»
Faccio
una smorfia,
ma non riesco a trattenermi. Scoppio a ridere.
Arthur
mi guarda
come se fossi impazzito.
«Scusa»
mugolo «È
solo che … l’idea è veramente esilarante.
Ok, no, scusa. Ho finito. Non preoccuparti. Sono cose che capitano.
Posso
accettarlo.»
«Non
è tutto.»
«No?»
«No.
Eravamo tutti
e due molto arrabbiati e molto sconvolti.» Non posso
fare a meno
di notare l’uso eccessivo ed enfatizzato
dell’aggettivo molto.
«E le cose sono … sfuggite al nostro controllo,
ecco.»
Lo
guardo
seriamente, stavolta, e stringo gli occhi.
«Avete
fatto
l’amore?» chiedo, cercando inutilmente il suo
sguardo.
«Abbiamo
fatto
sesso» mi corregge debolmente. «Sono stato un
idiota, Dam, lo so. Ero fuori di
me, non stavo pensando razionalmente, e neanche Charlotte. Me ne sono
pentito
così tanto … io non provo nulla,
nulla per lei, te lo giuro. Non so
cosa
sia successo. Mi dispiace da morire.»
Rimango
in silenzio
per un po’, ascoltando le sue scuse.
«Beh»
dico alla
fine «Ci sarei rimasto molto peggio se fosse stato Blake, o
Jonathan.»
«Cosa?»
«Nonostante
tu non
riesca a dirlo a voce alta» spiego «Tu sei gay,
Art. Ti conosco meglio di
quanto conosca me stesso, e ne sono assolutamente certo
–anche se tu non lo
sei, almeno non consciamente. E questo vuol dire che con Charlotte
… è stato
veramente solo sesso.»
«È
così» mormora.
«Ma per lei era la prima volta, e adesso mi sento
così in colpa … avrei dovuto
pensare. Stavo così male, Dam, e lei ha detto che tu saresti morto comunque –avrei
voluto ucciderla.»
Lo
osservo. Sto
facendo il possibile per essere ragionevole e comprensivo, ma
è difficile. È
vero che sarebbe stato peggio se fosse stato un ragazzo –ma
questo non
significa che io sia del tutto indifferente. È un assaggio
di come sarà la vita
di Art dopo che io me ne sarò andato.
«Art»
dico,
tentando di restare calmo e non farlo sentire in colpa «Ti
capisco. Io sto male
da mesi e non
… non abbiamo più … »
«No»
mi interrompe
lui con fermezza. «Non c’entra nulla. Io ti amo,
Dam, lo sai, e ti avevo
giurato che non ti avrei abbandonato-»
«Ma
non l’hai
fatto» dico ragionevolmente. «Sei qua, giusto? Mi
hai detto la verità quando avresti
potuto tacere.»
«Sì,
ma questo non
rende meno grave … »
«Art.
Basta. Ti amo
anche io. Non mi importa di Charlotte, ok? L’hai detto tu,
eravate sconvolti. E
poi dobbiamo accettare che tra non molto tu potrai fare ciò
che vorrai perché
…»
«Non
dire così»
sussurra lui. «Ti prego, Damien. Non troverò
nessun altro. Charlotte è stata un
errore. Sai a cosa pensavo in quei momenti? A quanto avrei voluto che
al suo
posto ci fossi tu, e a quanto fosse ingiusto tutto quanto.»
Faccio
per ribattere
ma un attacco di tosse me lo impedisce. Fatico a riprendere a respirare
e sento
il poco caffè che ho bevuto rivoltarsi nel mio stomaco. Ci
vogliono un paio di
minuti, ma poi riprendo il controllo.
«Sto
bene» taglio
corto, in risposta all’evidente ansia di Arthur. «E
… non parliamone più, ok? È
successo, ma è tutto perdonato.»
Lui
fa per
obiettare, ma poi si limita a fare un cenno con la testa.
«Va
bene.»
«Sai
che cosa … »
comincio, ma la porta della camera si apre.
Jonathan
entra a
grandi passi.
«Tu»
ringhia,
rivolto ad Arthur «Brutto bastardo
…
»
Art
si alza e
indietreggia appena.
«Jonathan»
dice con
calma «Non … »
Ma
Jon, furioso, lo
raggiunge e gli sferra un pugno in pieno viso.
Sussulto.
«Jon,
calmati»
provo a farlo ragionare, ma so che da qui non posso fare nulla. Con
cautela, mi
alzo e mi avvicino.
«Come
hai potuto
fare questo a Charlotte?» ruggisce, cercando di colpirlo
ancora, ma Arthur lo
schiva e tiene le mani sollevate, dimostrando di non volerlo colpire a
sua
volta.
«Non
ho fatto» dice
chiaramente «nulla che lei non volesse.»
Capisco
che ha
detto una cosa stupida prima ancora di Jon. Si trasforma in lupo e si
scaglia
verso Art.
«Jon!»
sbotto, e mi
avvicino.
Arthur
e Jonathan
rotolano a terra, avvinghiati. Mi chiedo perché Arthur non
si teletrasporti
lontano, poi mi ricordo del bracciale al Pentothal ancora al suo
braccio.
Questo significa che non è neanche invulnerabile, e che gli
artigli e le zanne
di Jon potrebbero fargli male sul serio.
Il
lupo
indietreggia ringhiando e mi dà l’occasione di
vedere il morso sul braccio di
Arthur.
«Basta,
Jonathan»
sbotta lui.
Ma
lui, furioso, fa
per attaccare ancora. D’istinto, senza pensare, lo afferro
per la collottola
per impedirgli di attaccare ancora. Lui, altrettanto istintivamente, si
volta
di scatto e mi allunga una zampata.
Sento
gli artigli
affilati tagliare la mia maglietta e la pelle sottostante con un dolore
sordo
che mi fa ansimare. Scivolo a terra, il battito accelerato. Prendo
fiato ma i
polmoni non mi obbediscono. Annaspo in cerca d’aria.
Vedo
confusamente
Art che mi raggiunge e Jon che torna umano.
«No!»
urla Arthur.
«Non toccarlo. Il sangue è infetto.»
Jonathan
indietreggia, pallido.
«Vai
a chiamare
Charlotte!» gli ordina Art.
Questa
è l’ultima
cosa che sento. Il bruciore ai polmoni si fa insostenibile e scivolo in
un buio
che, lungi dall’essere confortante, è spaventoso
come il pensiero che potrei
non svegliarmi più.
Sento
le voci ma
non riesco ad abbinarle ai loro proprietari.
I
miei polmoni sono
forzati a respirare da ossigeno artificiale.
«C’è
qualcosa che
possiamo fare?»
«Non
lo so …»
«Ti prego, Charlotte!»
«L’unica
cosa … l’ultima cosa
che potremmo tentare è il
trapianto di midollo.»
«Quello
che ha
fatto Vahel?»
«Sì.»
«Ma
potrebbe
ucciderlo.»
«Sì.»
«Se
non lo facciamo
… quanto potrà andare avanti
così?»
«Non
più di
ventiquattr’ore. Probabilmente di meno.»
Un
lungo silenzio,
poi un sussurro.
«Non
so cosa fare.»
«Sei
tu il suo
tutore legale, Arthur. Devi decidere per lui.»
«Sarai
tu ad
operarlo?»
«Dovrà
farlo
Jonathan.»
«È
colpa sua se adesso
è qui!»
«Primo:
è la vostra
unica possibilità. Secondo: su di te è riuscito.
E terzo: sarebbe successo
comunque entro breve.»
«Hai
della
morfina?»
«Poca.
Ma non credo
che sentirà molto, è incosciente.»
Un
altro silenzio,
più lungo del primo.
«Va
bene. Fallo.»
La
poca morfina non
fa altro che placare il dolore per qualche minuto. Poi, più
in là, nei brevi
momenti di lucidità, niente può fermarlo.
Grido
e cerco di
muovermi, ma sono immobilizzato.
E
allora posso solo
concentrarmi sulla sensazione della mano di Arthur stretta nella mia
–il
mantenimento di una promessa.
«Allora?»
«I
segnali sono
buoni. Credo che si risveglierà presto.»
«Ma
… è guarito?»
«Non
possiamo
ancora saperlo. Per prelevare il sangue aspetterei che
l’invulnerabilità abbia
tempo di guarire tutto il sistema immunitario.»
«Pensi
che possa
sentirci?»
«Non
ne sono
sicura, ma credo di sì. Vieni qui, ti medico quel morso.
Jonathan non è stato
delicato, eh?»
«Non
esattamente.»
«Hai
sentito quello
che ha detto Lily?»
«No.»
«Vahel
si è ripreso.
Pare che voglia portarci veramente da qualche parte.»
«Dovrà
aspettare
che Damien si riprenda.»
«Non
sei riuscito a
togliere il bracciale con il Pentothal?»
«Non
ci ho pensato,
onestamente.»
«Ho
sfruttato un
corso in nanotecnologie a cui avevo partecipato e sono riuscita a
toglierlo a
Blake, Jon e a me stessa. Dammi il polso.»
«Oh.
Grazie.»
«Figurati.
I tuoi
poteri torneranno presto.»
«Immagino
che tu
abbia parlato a Jonathan.»
«L’ho
fatto. Non
l’ha presa bene.»
«L’ho
notato.»
«E
Damien?»
«Ha
capito e mi ha
perdonato. Spero solo che continui ad essere così ora che
forse abbiamo più
tempo davanti a noi.»
«Andrà
bene,
vedrai. Ora vado a riposare. Dovresti farlo anche tu. Sono sicura che
Vanessa
ti darebbe il cambio volentieri.»
«Non
mi muoverò da
qui.»
«Come
preferisci. Fammi
chiamare se si sveglia, o se succede qualunque altra cosa,
d’accordo?»
«Va
bene.
Buonanotte.»
«Altrettanto.»
«Damien?
Non so se
riesci a sentirmi. Secondo Charlotte sì, e lei non sbaglia
mai un colpo,
giusto? Pensavo che questa cosa del trapianto fosse stato un suo
errore, ma
sembra che abbia funzionato. Che fortuna sfacciata.
«Spero
che ti
sveglierai presto. Io sono qui accanto a te, comunque. Te
l’avevo promesso,
ricordi? Bene, dovresti sapere che Vanessa è venuta a
trovarti. È
molto preoccupata per te. Lei sta
bene, ha detto che la bambina fa le capriole oggi.
Sono
passati anche
Blake e Lily … e Charlotte, ovviamente. Jonathan non si
è ancora fatto vedere,
penso che si senta in colpa. Fa bene. Capisco che abbia aggredito me
–anche se
non avevo fatto niente di male a Charlotte, in realtà-, ma
non avrebbe dovuto
toccare te. Comunque credo che le cose torneranno a posto, col tempo.
«Bene,
ho finito
gli argomenti … adesso riposati bene e, appena te la senti,
se puoi, svegliati,
ok? Perché qui siamo tutti abbastanza in ansia. Io sono qui
e non mi allontano
neanche per un minuto. Ti tengo la mano, senti? Ti amo. Torna
presto.»
Un
filo di luce
attraversa le tende tirate e raggiunge il letto. Batto le palpebre e mi
guardo
intorno.
Art,
ovviamente, è
accanto a me, su una sedia, e tiene la mia mano. Ha gli occhi piccoli,
come se
non dormisse da tempo, e i capelli arruffati, lo sguardo perso nel
vuoto.
«Ehi»
mormoro con
un filo di voce, la gola secca.
Art
sussulta e si
rianima subito.
«Damien!
Oh, Dio.
Stai bene?» chiede, preoccupato.
Con
cautela mi
metto a sedere.
«Bene»
confermo,
godendomi la sensazione dell’aria che entra ed esce
liberamente dai polmoni
senza impedimenti, e dei miei muscoli intorpiditi che si tendono.
«Mai stato meglio»
confermo.
Lui
sorride, un
sorriso vero e sincero che non posso non ricambiare.
«Vuoi
dell’acqua?»
chiede.
«Sì,
grazie. In
realtà ho fame … c’è
qualcosa da mangiare?»
Art
si illumina a
queste parole.
«Tutto
quello che
vuoi. No, aspetta. Non alzarti. Prima fammi chiamare
Charlotte.»
«Al
diavolo
Charlotte» replico, ma obbedisco e resto seduto, lasciando
che sia lui,
recuperata l’acqua, a raggiungermi.
Bevo
tutto il
bicchiere e poi, senza riuscire ad aspettare, lo attiro a me e lo bacio.
Avidi,
non ci fermiamo
fino a quando la porta non si apre.
«Damien!
Beh …
sembra che tu stia bene» commenta Charlotte.
Vagamente
imbarazzato, confermo. Cercando di non pensare che non molto tempo fa
lei è
andata a letto con Arthur.
Mi
misura la febbre
e preleva del sangue per avere la certezza che il virus sia sparito,
quindi si
dilegua, lasciandomi solo con Art.
«Quanti
giorni sono
passati?» gli chiedo mentre divoro uno a uno un pacco di
biscotti.
«Tre.»
«E
Vahel?»
«È
ancora
fermamente convinto a portarci via con lui. Aspettava solo che tu ti
risvegliassi.»
«Ma
… pensavo che
senza quel bracciale ti fossero tornati i poteri.»
«Ecco
… sì, sono
tornati, ma per il momento non riesco a teletrasportare nessuno insieme
a me.
Ho provato.»
«Oh.»
«Già.
Ma tutto il
resto funziona bene, invulnerabilità compresa.»
Arthur
evita il mio
sguardo. Credo ci sia qualcosa che mi sta nascondendo, ma non ho cuore
di
indagare adesso.
«Charlotte
cosa
dice?» chiedo.
«Che
è colpa dei
troppi prelievi. Ma secondo lei si rigenererà nel giro di
qualche mese.»
«Di
sicuro?»
«No,
ma sai che lei
non sbaglia mai.»
Queste
parole mi
ricordano qualcosa.
«Mi
hai parlato»
dico lentamente «Mentre dormivo.»
«Quindi
sentivi. Un
altro punto per Charlotte.»
«Non
mi hai
lasciato un attimo.»
«Te
l’avevo
promesso.»
Gli
sorrido.
Qualcuno bussa alla porta, che si socchiude.
Vedo
Arthur
irrigidirsi immediatamente.
«Jon.
Vieni.»
«Ciao.
Sono felice
che tu ti sia svegliato.»
Fa
qualche passo
dentro, senza guardarmi negli occhi.
«Volevo
solo …
chiederti scusa. È colpa mia. Non avrei dovuto aggredirti
così.
E
... anche te, Arthur. Scusatemi.»
«Va
tutto bene»
replico con un sorriso.
Jon
lancia
un’occhiata ad Art, che si stringe nelle spalle.
«Quello
che va bene
a Dam va bene anche a me. Ma non riprovarci.»
«Non
lo farò.»
Art
annuisce.
«Vado
a prenderti
qualcos’altro da mangiare» annuncia, e si allontana.
Io
e Jon restiamo
un attimo in silenzio.
«Come
fai ad
accettarlo?» chiede poi lui, sottovoce, sedendosi accanto a
me.
«Cosa?»
«Arthur
e
Charlotte.»
«Mi
ha assicurato
che è stato un errore.»
«E
tu ti fidi?»
«Certo.»
Jon
socchiude gli
occhi.
«Vorrei
potermi
fidare anch’io.»
«Verrà
con il
tempo.»
«Lo
spero proprio.»
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Capitolo 18 *** Proposal ***
Mi scuso per il ritardo tremendo nel pubblicare questo capitolo, ma
soffro di un blocco dello scrittore che mi tormenta -.-''
Eccolo, comunque, finalmente! Ah, tra l'altro mi è stato pure formattato il computer, perciò la nuova versione di NVU che ho scaricato ha deciso di cambiarmi il formato della storia... spero sia leggibile!
~PROPOSAL~
[Blake]
Vahel ci riceve in una
delle vecchie aule. Sono passati diversi giorni
dall’operazione che ha subito, ma sembra ancora molto
provato. Non che la cosa mi dispiaccia, sia chiaro.
Vorrei solo che
potessimo andarcene da qui. Ma Arthur non riesce a teletrasportare
altri con lui, e Charlotte ha già detto che i sistemi di
sicurezza del Queen Victoria’s sono migliorati. Sospiro e mi
guardo intorno. Damien sta molto meglio, sembra del tutto ristabilito,
e Arthur è rinato di conseguenza –ogni tanto
è gentile persino
con Charlotte.
Lei e Jonathan non si rivolgono la parola, naturalmente. Vanessa
è diventata enorme, il suo pancione è una
mongolfiera e mi fa ridere il modo in cui se ne lamenta; ormai
è all’ottavo mese. E Lily … Lily.
Lily se ne sta
perlopiù per i fatti suoi, ignorata da tutti
–tranne da Damien, che ogni tanto la coinvolge nelle nostre
conversazioni. Il suo smalto e la sua vivacità sembrano
essere rimasti sepolti da qualche parte dove è difficile
vederli –forse sotto strati di rancore, o forse solo di
indifferenza. Perché non sembra più avercela con
noi, ma non si sforza neanche di riallacciare dei rapporti che forse
crede persi per sempre.
E io? Io dovrei fare
il primo passo verso di lei, lo so. Ma la verità
è che ne ho una paura folle.
Perché mi
ha già deluso una volta.
Perché so
di avere sbagliato a giudicarla.
Perché ho
degli obblighi nei confronti di Vanessa.
Perché ho il
terrore di provare qualcosa.
«Non so se
avete seguito i notiziari, in queste ultime settimane»
esordisce Vahel.
«Come
no» rispondo in automatico, con sarcasmo non necessario.
«È stato facile, da prigionieri.»
Vahel mi ignora.
«Potreste
quindi non sapere il risultato delle elezioni» commenta.
È
così, infatti. Mi era completamente sfuggito di mente, ma
effettivamente la fase di voto a quest’ora deve essersi
conclusa e probabilmente i risultati sono già stati
divulgati. Dio, lo saranno da settimane, ormai.
«Chi ha
vinto?» chiede Vanessa.
«Leonard
Renshaw» annuncia Vahel, appoggiando la schiena alla
cattedra. «Esponente del partito Repubblicano, ex marine, ex
generale dell’Esercito ed ex Senatore. Nonché un
mio vecchio amico.»
Quindi il vecchio
Presidente, Democratico, è stato sconfitto. È
strano saperlo così, dopo tre anni in cui ho fatto del mio
meglio per salvargli la vita senza che lui lo venisse mai a sapere.
«Dovete
sapere» prosegue «Che l’atteggiamento del
signor Renshaw nei confronti dei poteri è decisamente
differente da quello del suo predecessore. Il Presidente
–ormai possiamo chiamarlo così- è
d’accordo con me nel vederne le potenzialità piuttosto che la pericolosità.»
«Cosa
significa?» domanda Charlotte, stringendo gli occhi.
«Che ha intenzione di sfruttare la nostra immagine per
sostenere la sua popolarità? Vuole metterci in mostra
dicendo di aver trovato il modo di salvare il Paese dalla
criminalità?»
Vahel rimane immobile
per un momento, quindi un angolo della sua bocca si solleva in un
freddo sorriso storto.
«Avevo
dimenticato la tua arguzia» concede con un cenno del capo.
«Ma devo precisare che non stiamo parlando di schiavitù, bensì di un
lavoro ben pagato.»
«Non si
parla di lavoro quando non è possibile scegliere se
farlo» obietta logicamente Charlotte.
«Ma voi
potrete scegliere! Voglio solo che mi seguiate fino a Washington e
ascoltiate quello che Renshaw ha da dire. Dopodiché, sarete
liberi di andare per la vostra strada.»
Mi sembra talmente
irrealistico che scuoto istintivamente la testa.
«Potete non
credermi, ma è la verità» dice
semplicemente Vahel. «Fra tre giorni sarete liberi, se lo
vorrete.»
Le parole mi
raggiungono a metà del corridoio.
«Mi
dispiace.»
Mi volto e inquadro
Lily, che accelera il passo per raggiungermi.
«Per
cosa?»
«Lo
sai.» Deglutisce e si scosta una ciocca di capelli rossi
dagli occhi, nervosa. «Per aver cercato di estorcerti a forza
quelle informazioni.»
«Potevi dire
torturarti.»
«Mi sembrava
troppo brutale.»
Alzo le spalle e
riprendo a camminare, seguito da lei.
«In ogni
caso, adesso sai che dicevo la verità sull’essere
solo.»
«Non pensavo
che fossi stato stupido a tal punto da buttarti in un’impresa
suicida come quella.»
«E io
credevo che fossimo ancora alla fase delle scuse.»
Raggiunto il giardino,
rallento il passo fino a fermarmi su una delle panchine. Lancio
un’occhiata a Lily, che adesso tace e mi osserva da in piedi,
le mani che affondano nelle tasche della felpa grigia.
«Allora»
riprende, piegando leggermente la testa in un modo che mi fa desiderare
di stringerla a me –ma respingo ogni pensiero.
«Diventerai padre. Come ci si sente?»
La osservo con
attenzione per un momento. La sua espressione mostra assoluta
indifferenza, ma attraverso la stoffa sottile riesco a vedere le sue
mani strette a pugno nelle tasche. E preferirei che non fosse
così.
«Non lo
so» ammetto. «Credo di non averlo ancora
interiorizzato.»
«Dovrai
farlo» replica lei, quasi malignamente «Quando ti
troverai a fare i conti con pappe e pannolini.»
Socchiudo gli occhi.
«Accetterò
le mie responsabilità» ribadisco con fermezza.
«Dimmi la
verità» insiste Lily, un sorriso malizioso sulle
labbra rosse «Eri ubriaco, quando sei andato a letto con
lei?»
«No!»
sbotto, scacciando la sua insinuazione con un gesto infastidito della
mano.
«E allora
com’è successo che lei è rimasta
incinta?» domanda lei, senza girarci intorno.
«Quando stavi con me, hai sempre fatto in modo di
evitarlo.»
«Io
… » prendo fiato, chiedendomi come diavolo abbia
fatto a smascherarmi così in fretta. «Avevo la
testa da un’altra parte. Ero preoccupato.»
«Scommetto
che non stavi pensando all’affitto da pagare»
insinua.
So che sta solo
cercando di provocarmi, ma non credo che abbia capito la
verità. Incrocio le braccia.
«Non sono
affari tuoi» taglio corto.
Lily si siede accanto
a me e mi posa una mano sul ginocchio, guardandomi negli occhi.
«Tu sei affar mio, Blake.»
«Non
più.»
Lei si ritrae subito e
socchiude gli occhi.
«Pensi che
non abbia capito?» ride con un pizzico di cattiveria.
«Scommetto che stavi pensando a me. Ti struggevi per come mi
avevate abbandonata e, pieno di rimorsi, sei andato in cerca di
consolazione da Vanessa … »
Scatto in piedi.
«Non
è così!» protesto vigorosamente, ma lei
mi ignora e prosegue.
«E poi,
preso dalla rabbia e dal dolore, sei andato a letto con lei pensando a
me, e non ti sei fermato un attimo a riflettere.»
«Non sai di
cosa stai parlando!»
«Quindi»
continua Lily senza dare alcun segno di aver sentito, alzandosi a sua
volta, ancora con quel sorriso strano «In sostanza,
è tutta colpa mia. Dici che dovrei scusarmi con
Vanessa o pensi che lo troverebbe indelicato?»
Non riesco a
controllarmi. Sono talmente furioso che la mia mano scatta da sola e le
colpisce il volto con forza. Lily indietreggia di un passo e mi guarda
sconcertata, portandosi una mano alla guancia.
Restiamo un momento in
silenzio, mentre io cerco di calmare il mio respiro affannoso.
«Mi
dispiace» dico alla fine, la voce incerta. Non posso credere
di avere appena picchiato una ragazza. «Non avrei dovuto
perdere il controllo.»
Lily abbassa la mano e
riesco a vedere la guancia arrossata, sentendomi subito in colpa.
«Ho
esagerato» dice cautamente. «Ma la prossima volta
che ci provi ti do fuoco.»
Annuisco
meccanicamente e mi allontano rapidamente, la mente in subbuglio, con
l’orribile sensazione di essere stato messo a nudo.
Vanessa è
seduta su uno dei divani della sala comune e sta leggendo un libro sui
bambini che deve aver scovato in biblioteca. Mi vede subito e mi
sorride.
«Blake! Mi
stavo chiedendo dove fossi finito.»
«Io
… uhm, ero fuori in giardino.»
Ometto di specificare
“con Lily” senza riflettere. So di non avere nulla
da nascondere –per Dio, il mio autocontrollo è di
molto superiore a quello di Charlotte e Arthur- ma temo che
… non lo so neanche io.
«Guarda»
mi invita, e mi siedo accanto a lei.
Mi mostra delle
immagini di come appare il bambino in questo momento, entusiasta, e io
sorrido e annuisco.
Poi Vanessa si
avvicina e mi bacia. Mentre ricambio, penso a Lily.
Più tardi,
mi ritrovo nel furgoncino di Vahel, schiacciato nel sedile posteriore
tra il finestrino e Jonathan. La strada si srotola davanti a noi a
lungo, lasciandomi tempo per pensare. Lascio la mente libera di vagare,
appoggiando la testa contro il vetro e osservando il paesaggio cambiare
lentamente.
Siamo diretti a
Washington.
Vanessa
avrà un bambino.
Lily sarà
furiosa con me, adesso.
Vanessa
avrà un bambino, e io sono il padre.
Lily cosa
penserà? Che posto avrà in tutto questo?
Vanessa e io saremo
genitori di una creatura che dipenderà da noi.
Io dipendo da Lily?
Vanessa dipende da me?
Con queste domande
confuse e insensate che mi ronzano in testa, mi addormento.
A svegliarmi, qualche
ora dopo, è una sosta al distributore di benzina. Ne
approfittiamo per sgranchirci le gambe. Mentre sto parlando pigramente
con Jonathan, il suo cellulare squilla. Lui risponde senza neanche
guardare il mittente, distratto.
«Pronto?»
Lo vedo impallidire e
irrigidirsi davanti ai miei occhi.
«Io
… sì, lo so» dice. «No,
mamma. Non … »
Si blocca, e posso
quasi sentire la madre chiedergli come stia Jack. Mi allontano,
lasciando che affronti da solo l’argomento –un
po’ per rispetto, un po’ per paura.
Raggiungo Vanessa, che
sta uscendo dal bar con una lattina in mano.
«Ehi»
mi sorride. «Va tutto bene?»
«Sì,
tutto ok. Tu?»
«Anche. La
bambina continua a darmi calci da ore, credo che non le piaccia
viaggiare in macchina.»
Allungo
d’istinto una mano a toccarle la pancia. Dopo qualche
secondo, sento un movimento. Mi ritraggo, stupito.
«È
lì davvero» dico stupidamente, guardandola con gli
occhi spalancati.
Vanessa ride.
«Beh, meno
male che te ne sei accorto.»
Sorrido
anch’io e la abbraccio. Da sopra la sua spalla, con gli occhi
socchiusi, distinguo Lily che ci osserva mentre accende una sigaretta
con le dita.
Washington
è lontana, ma alla fine la raggiungiamo. Guardo la Casa
Bianca con ammirazione e ansia, temendo che le guardie armate ci
sparino al solo vederci, dopo la perdita del nostro anonimato.
Ma Vahel mostra
qualcosa a una di loro, che annuisce e ci lascia passare.
Percorriamo
innumerevoli corridoi, superiamo metal detector e controlli vari e,
alla fine, eccoci arrivati.
Lo Studio Ovale.
Rimango senza fiato.
Non posso credere di essere davvero qui, nel luogo politico
più famoso d’America, di fronte all’uomo
il cui volto ha campeggiato per mesi su cartelloni e volantini di tutto
il Paese, sovrastato dalla scritta CHANGE.
Leonard Renshaw,
massiccio, sulla cinquantina, con capelli corti da militare ormai
grigi, un completo elegante e occhiali da vista, ci saluta con un
sorriso affabile.
«Benvenuti»
dice, e respingo l’impulso di inchinarmi –non
è la Regina, dopotutto- limitandomi a ringraziare insieme
agli altri. «Vi riconosco» prosegue «Per
via di quel terribile show televisivo. Ma voglio che sappiate fin da
subito che quello che intendo proporvi non ha nulla a che fare con
questo. È stata opera del mio predecessore, e non ho
intenzione di seguire i suoi passi.»
Annuiamo tutti,
piuttosto sollevati.
«Il motivo
per cui siete qui è che vorrei instaurare con voi una
collaborazione su base assolutamente volontaria. L’Area 51
non è minimamente coinvolta in questo. Si tratta di un
lavoro molto ben retribuito che contribuirà al bene del
Paese.» Fa una pausa meditata, quindi riprende:
«Non posso negarlo: siamo sotto attacco. Dalle indagini della
CIA si è scoperto un piccolo nucleo terroristico e anarchico
che è ben nascosto e radicato. Si fa chiamare il Falco.»
«Chiaro
riferimento ad un contrasto con l’Aquila americana» mormora
Charlotte con un cenno di assenso.
«Chiarissimo» conferma sottovoce
Lily, al mio fianco, e sorrido in silenzio.
«Questa
organizzazione sta organizzando un attentato, ne siamo certi, ma non
siamo stati in grado di procurarci prove a sufficienza per incastrarli.
Il vostro lavoro consiste nel trovare queste prove, che siano evidenti
e inoppugnabili, e successivamente nell’arrestare i
propugnatori del Falco.»
Segue qualche istante
di silenzio.
«Quanto ci
guadagneremmo?» chiede in termini molto pratici Jonathan.
Renshaw lo dice, e di
sicuro è una cifra i cui zeri superano di molto qualunque
altra io abbia mai visto.
Rimaniamo tutti a
bocca aperta.
«Sul
serio?» indaga Jon, incredulo.
«A
testa» specifica Renshaw sorridendo.
«Oh.»
«Vi lascio
soli a discutere.»
Rimasti tra di noi, ci
guardiamo in silenzio. Fin dal primo momento è chiaro che
non siamo tutti d’accordo: perciò mi preparo con
un lieve sospiro ad una lunga discussione.
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Capitolo 19 *** Egoistic ***
Lo so, lo so... sono passati più di due mesi, non ho scuse! Ma la mia ispirazione è veramente ai minimi storici! Ecco il capitolo, comunque, spero di farmi perdonare!
~EGOISTIC~
[Vanessa]
Gli schieramenti che si sono formati sono evidenti immediatamente.
«Dobbiamo accettare» dice per primo Blake, deciso. «Soldi a parte, è semplicemente … patriottico. Si tratta di terroristi.»
«Il perfetto ragazzo americano» commenta acida Charlotte, incrociando le braccia. «Orgoglioso della sua nazione al punto di morire per la Patria. Sai, sarebbe più commovente se il Presidente non ti avesse umiliato sulla pubblica televisione.»
«Quello era il vecchio Presidente» taglia corto Blake.
«Mai sentito parlare di teoria della circolazione delle élite?» domanda retorica Charlotte, ben sapendo che nessuno di noi ha idea di cosa stia parlando. «È una teoria sociologica. Dice che chiunque sia al potere persegue solo i propri interessi, perché non fa più parte del popolo da cui proviene e non ha quindi alcun vantaggio nel difenderlo.» I nostri sguardi devono sembrarle ancora piuttosto vuoti, perché specifica «Insomma, i politici sono tutti uguali. Nessuno vuole altro che il potere e il vantaggio personale.»
«Come ti sentiresti se i terroristi colpissero l’America e tu non avessi fatto nulla per impedirlo?»
«Continuerei a sentirmi una vittima del nostro governo razzista che non ci considera parte della specie umana» replica lei, facendo sfoggio della sua notevole abilità retorica e argomentativa.
«Lasciamo da parte patriottismo, razzismo e sociologia» sbuffo io, intervenendo per la prima volta. «Stiamo parlando di una cifra da capogiro, Charlie. Si tratta di milioni. Forse tu, con il tuo stipendio da medico migliore del mondo, puoi permetterti di rifiutarlo, ma io no.»
«Si tratta di vendere se stessi al miglior offerente, allora, Ness? Se i terroristi ti offrissero un milione in più, è loro che andresti a supportare?» chiede Charlotte, guardandomi negli occhi con schiettezza.
«Tu non capisci» dico lentamente. «Casomai lo avessi dimenticato, io aspetto una bambina. E manca poco più di un mese. Cosa farò quando nascerà? La manterrò con il mio lauto stipendio da cameriera di un bar sulla spiaggia in California, nel mio appartamento di due stanze a venti minuti da ogni forma di vita civile? O forse dovrei tornare dai miei genitori promettendo di darla in adozione, perché “una brava ragazza non resta incinta prima del matrimonio, e se lo fa non deve darlo a vedere”?»
Charlotte stringe gli occhi.
«La prima soluzione sarebbe sempre più dignitosa che non vendersi come una» deglutisce nel cogliere la mia occhiata omicida e cambia la conclusione, «merce.»
Blake mi mette una mano sulla spalla.
«Noi restiamo, Charlotte. Nessuno ti obbliga a fare lo stesso.»
«Anche io resto» dice Lily a sorpresa, e intercetto fulmineamente lo sguardo che si scambia con Blake. Non reagisco, ingoiando il mio disappunto.
«Io sono d’accordo con Charlotte» dice l’ultima persona da cui ci si aspetterebbe che queste parole vengano pronunciate, ovverosia Arthur, guadagnandosi una notevole serie di occhiate incredule. «Non me ne frega niente di questa storia. Voglio restarne fuori, e non voglio aiutare un governo che mi ha trattato come un animale, o peggio.»
«Io sono con Arthur» dice tranquillamente Damien, mettendo le mani in tasca. Le sue parole sono come uno schiaffo in pieno viso.
«Damien» mormoro soltanto.
Lui mi guarda.
«Mi dispiace, Ness, ma ho già avuto abbastanza problemi in questi mesi. Non voglio rischiare la vita un’altra volta.»
Non posso fare altro che prendere atto della sua scelta con un cenno del capo, anche se il mio cuore scricchiola per il pensiero di doverlo lasciare ancora dopo aver quasi rischiato di perderlo.
Mi volto verso Jonathan, l’ultimo che è rimasto.
«Resto anch’io» dice, evitando lo sguardo ferito di Charlotte. «Ho bisogno di quei soldi per l’università, e non voglio più dipendere dai miei genitori, specialmente dopo … dopo quello che è successo a Jack.»
Nessuno osa replicare. Guardandoci negli occhi, capiamo che è giunto di nuovo il momento di separarsi. Non lo vogliamo veramente, ma è inevitabile. Gli interessi e gli ideali sono diversi e sembra impossibile conciliarli.
I saluti sono quasi impersonali. Vedo lo sguardo malinconico che Charlotte lancia a Jonathan prima di uscire, e io stringo la mano di Damien sentendolo già chilometri lontano.
All’improvviso mi sembra che faccia un po’ più freddo.
Renshaw sembra piuttosto deluso di aver ottenuto solo la partecipazione di noi quattro, ma dura solo per un istante. Quello successivo sta già sorridendo.
«Venite» ci invita. «Vi condurrò nei vostri appartamenti e vi farò conoscere la vostra compagna.»
Questo ci incuriosisce, e il Presidente ci spiega che ha già reclutato una mutante prima di noi, che è qua da qualche giorno ed è ansiosa di conoscerci.
La prima emozione che provo guardandola è gelosia. Perché, diamine, è davvero bella. Non è una bellezza comune, ma particolare, e vedo immediatamente gli occhi di Blake e di Jon illuminarsi loro malgrado.
I suoi capelli sono scuri e lisci, lunghi fino alle spalle, e gli occhi ambrati e intensi. Il fisico, naturalmente, è perfetto –snello al punto giusto, con le curve ben sistemate.
Non penso di avere nulla da invidiarle –la mia autostima ha sempre brillato- ma in questo preciso momento, con un pancione di otto mesi sulla considerevole altezza di un metro e sessanta, mi sento un ippopotamo. La bambina mi dà un calcio e lo considero come una punizione per questo pensiero, perciò metto da parte la ritrosia e mi sforzo di sorridere.
«Piacere di conoscerti, sono Vanessa» dico tendendo la mano.
Lei mi squadra con un’espressione vagamente di sufficienza, quindi china appena il capo e mi stringe la mano.
«Sono Julie» si presenta.
«Lily.»
«Jonathan.»
«Blake.»
Julie guarda Blake con un grado di interesse decisamente superiore a quello che la decenza consentirebbe, perciò gli stringo il braccio con fare vergognosamente possessivo –e lei dirotta abilmente lo sguardo su Jonathan.
«Perché siete qui?» domanda.
«Per i soldi» replica tranquillamente Jonathan, nello stesso momento in cui Blake risponde:
«Per aiutare il Presidente.»
Lo sguardo di Julie lancia un lampo divertito.
«Apprezzo l’onestà» dice a Jon. «Ma non dirlo davanti a mio padre.»
«Tuo padre?» chiedo distrattamente.
«Non lo sapevate? Mio padre è Leonard Renshaw. Il Presidente.»
«Oh.»
Lei sorride, in un lampo di orgoglio arrogante.
Non cominciamo veramente il nostro lavoro per due lunghi giorni. Poi, una mattina, Julia viene a chiamarci e ci fa cenno di seguirla.
«Il laboratorio è al piano di sotto» spiega. «Ultimamente siamo riusciti ad infiltrare un agente della CIA nelle schiere dei terroristi, le immagini più recenti sono appena arrivate, credo. Io non le ho ancora viste. Carson –è questo il suo nome- si collega ogni due o tre giorni, quando gli è possibile, al server e ci trasmette informazioni.»
Raggiungiamo una porta metallica che Julie apre con l’impronta del dito indice e che conduce in un laboratorio che ricorda vagamente quello di Vahel al Queen Victoria’s, solo che è almeno venti volte più grande. Ogni cosa è fatta d’acciaio o di vetro, e l’effetto del riflesso dei neon è strabiliante. Sembra di entrare direttamente in un film di fantascienza.
«Wow» mormora Jonathan.
Ci sono almeno tre piani sotto al nostro, tutti visibili grazie al pavimento di vetro perfettamente lucido. Tutto intorno e sotto di noi, decine di uomini e donne in camice bianco sono affaccendati in varie occupazioni intorno a macchinari dall’aria costosissima e complicata.
«Benvenuti!»
Una voce acuta richiama la nostra attenzione: proviene da una donna sulla quarantina, alta e slanciata, con un camice bianco su un tailleur, tacchi alti e capelli biondi legati in una crocchia.
«Sono la dottoressa Marjorie Brennan» si presenta.
Ripetiamo i nostri nomi in fretta, prima che la donna ci dica di seguirla verso un grande monitor che occupa un’intera parete del laboratorio, sul quale si susseguono brevi spezzoni di video e fotografie sfocate di un posto buio.
«Ci sono appena arrivati i file del nostro infiltrato nel Falco. Per ora niente di sorprendente. Voglio dire, abbiamo latitudine e longitudine, finalmente –il microchip non aveva trovato segnale prima- e alcuni tecnici stanno verificandone l’attendibilità.»
«Un momento, chi sono quelli?» dice Blake in tono allarmato.
Seguo il suo sguardo e resto paralizzata.
Sullo schermo sono apparse figure inconfondibili: Charlotte, Arthur e Damien.
«Cosa diavolo ci fanno nel covo dei terroristi?» sbotto.
«Non ne ho idea» mormora la dottoressa Brennan. «Ma sembra che siano prigionieri.»
«Hanno le mani legate» ringhia Blake. «Complimenti per l’arguzia.»
Non ci sono video, solo alcune immagini in bianco e nero di uomini armati che li spintonano, e anche del luogo dove li tengono, una stanza piccola e senza finestre.
«Se ne sono andati di qui meno di tre giorni fa» dico, tentando di imitare il freddo raziocinio di Charlotte. «Non possono essere troppo lontani.»
«Quelle immagini risalgono a stanotte» aggiunge inutilmente un tecnico, battendo furiosamente sui tasti del computer.
«Avete detto di avere latitudine e longitudine» scatta Jonathan.
«Indicano una zona poco oltre il confine, in Canada» replica lo stesso tecnico. «Ma devono ancora essere verificate.»
«Non c’è tempo» sbotto, senza riuscire a trattenermi. «Vorranno ottenere informazioni, o forse sfruttare i loro poteri … dobbiamo intervenire subito!»
«Signorina Evans» mi trattiene la dottoressa, con calma gelida, «Questa è una decisione che va ponderata con molta cautela. Osserveremo lo svolgersi degli eventi tramite il nostro infiltrato … »
«Almeno questo infiltrato potrà aiutarli?» la interrompo seccamente.
Lei mi guarda con stupore.
«Certo che no, c’è il rischio di far saltare la sua copertura.»
«Quindi avete semplicemente intenzione … di lasciarli lì e vedere cosa succede?» chiedo, giusto per accertarmi di non aver frainteso.
«Se avessero accettato la nostra offerta, a quest’ora sarebbero qui al sicuro.»
Non riesco a credere alle mie orecchie.
«Non mi importa ciò che dite» replica chiaramente Blake «Io ho intenzione di andare a cercarli.»
«Temo che questo non sia possibile.»
Bastano queste parole.
Ormai mi pare evidente che è il nostro destino.
La nostra libertà è condannata ad essere distrutta: siamo stati prima prigionieri delle nostre famiglie, che si vergognavano di noi, poi di Hermann, poi di Vahel, poi di Brown, e adesso del Presidente.
A questo punto, mi chiedo se siamo mai stati liberi e soprattutto se lo saremo mai. Se le cose continueranno così, temo che la risposta sia negativa.
Stringo istintivamente le mani sulla pancia.
Non è questo che voglio per me, né tantomeno per la mia bambina.
Per la nostra bambina, penso, guardando Blake che difende con la sua solita, irruenta passione la nostra causa.
Non è che improvvisamente io abbia smesso di avere paura per quanto riguarda diventare madre. Anzi. Più le settimane passano, più tutto diventa reale, tanto quanto lo sono i frequenti calci che sento nella mia pancia. Vorrei che questo fosse un periodo lieto e perfetto, ma sono costretta a viverlo in ansia, in fuga da tutto e da tutti.
Non posso mettere a rischio la vita della bambina, non se c’è un’alternativa.
Per questo motivo, quando Blake, questa stessa sera, al riparo da occhi e orecchi indiscreti, ci propone di scappare per andare a recuperare Charlotte, Arthur e Damien, sono costretta a rispondere di no.
Anche se Damien è il mio migliore amico, e desidero solo che sia al sicuro, specialmente dopo tutto quello che ha passato; anche se ho imparato a tollerare Arthur, consapevole del fatto che Dam lo ama da morire; anche se Charlotte è la mia amica più cara e le voglio un bene dell’anima.
Mia figlia si staglia al di sopra di tutto questo. È su un altro livello, semplicemente, e non posso fare nient’altro per mettere in pericolo la sua vita.
Dopotutto, manca solo un mese al termine della gravidanza.
«Ness, sei sicura?» insiste Jon per l’ennesima volta, nervoso.
«Non posso venire, Jon. Semplicemente non posso.»
«Ma se andiamo noi» obietta Blake, un tono vagamente disperato nella voce, «Se la prenderanno con te per averci fatti scappare.»
«Vuoi che non vada nessuno di noi, Vanessa?» dice bruscamente Lily. Al mio silenzio, ride con malignità. «Ma certo, mi sembra giusto. Salvaguardiamo i tuoi interessi lasciando che Charlie, Art e Dam muoiano per mano di terroristi spietati.»
«Tu volevi lasciarci morire per mano di Noah Brown!» mi difendo.
«Mi pare che siate ancora tutti qui, grazie al fatto che ho cambiato idea.»
«Dì pure che Vahel ha cambiato idea.»
«Non stiamo parlando di me, adesso» taglia corto Lily.
«Non metterò in pericolo la vita di mia figlia.»
«Sei un’ipocrita» dice a bassa voce. «Per non rischiare preferisci lasciarli perdere. Riesci ad immaginarteli, Ness? Prigionieri, probabilmente torturati per scoprire i piani del Presidente e di Vahel, senza nulla da mangiare o da bere. Li vedremo morire lentamente attraverso i video dell’infiltrato, e tu saprai sempre che è tutta colpa tua.»
Ascolto le sue accuse rabbiose in silenzio, sentendo le lacrime affiorarmi agli occhi.
«Basta così, Lily» dice con fermezza Blake, ma lei lo ignora completamente.
«Ti odieranno tutti, lo sai?» prosegue lei sottilmente, un sorriso crudele sul volto. «Charlotte e Arthur, perché sanno che potrebbero essere salvati. Damien, che non capirà come hai potuto abbandonare il tuo cosiddetto migliore amico.»
«Lily … » insiste Blake, minaccioso.
«Jonathan ti odierà, perché è innamorato di Charlotte, naturalmente. Io ti odio già, questa non è una novità. Ma persino Blake, persino il tuo grande amore per una notte ti odierà, perché lui non vorrebbe altro che correre da loro e tu e il tuo bambino lo trattenete-»
Non resisto più: la mia mano scatta a schiaffeggiare Lily in pieno volto.
«Non osare» sibilo. «Non osare dirmi queste cose.»
La vedo sussultare, stupita, quindi stringere gli occhi.
«Non ho intenzione di accettarlo ancora» ringhia. «Sai cosa sei, piccola innocente? Sei solo una grandissima puttana.»
E poi mi scaglia contro una vampata di fuoco. La schivo per un pelo e divento invisibile d’istinto.
«Lily! Vanessa! Smettetela subito!» urla Blake.
«Sei tu ad esserlo, Lily» ribatto, furiosa, spostandomi perché non individui da dove proviene la mia voce. «Sei fottutamente gelosa perché hai sempre voluto che Blake finisse con te, ma sai cosa? Non sei stata altro che qualche bella scopata!»
Non è da me questo linguaggio. Sono un tipo calmo e ragionevole, di solito, ma Lily tira fuori il peggio di me.
La risata acuta di Lily riecheggia per tutta la stanza.
«Oh, tesoro, non te ne rendi conto? Sei stata tu ad essere solo una bella scopata –e sul bella avrei ancora da criticare! Quando è venuto a letto con te-»
«Lily, no!» sbotta Blake.
«Stava pensando a me, Vanessa. A me. Si sentiva dannatamente in colpa per avermi lasciata andare e aveva bisogno di facile conforto, e chi meglio di te, che gli sbavavi dietro da anni? Era talmente sconvolto che non si è neanche reso conto del rischio … magari pensava che avessi fatto qualcosa tu, ma eri troppo innamorata per essere lucida, giusto?»
Le sue parole colpiscono un punto dentro di me che è troppo vulnerabile. Ricompaio e la guardo.
«Sei solo un’illusa» mormoro, ma non ci credo neanche io.
Mi volto verso Blake, che sembra cristallizzato, accanto ad un Jonathan che, imbarazzato, finge di non ascoltare.
«Blake?» dico piano.
«Naturalmente no» dice lui, ma la sua voce suona così incerta e falsa che la mia gola si chiude.
«Non ci credo» sussurro. «Non ci credo, tu … »
Vorrei trovare una frase d’effetto per segnalare la mia uscita di scena spettacolare, ma riesco solo a fargli notare le lacrime che mi scivolano sulle guance prima di girarmi e andarmene lentamente.
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Capitolo 20 *** Bad feeling ***
~BAD FEELING~
[Arthur]
A svegliarmi è la sensazione spiacevole dell’acqua gelida in faccia. Sussulto e spalanco gli occhi, faticando a ricordare dove mi trovi e cosa sia successo.
Sono in una stanza piccola e sporca, con le pareti in muratura coperte di muffa, in una temperatura gelida e umida. I miei polsi sono legati ad una catena attaccata sulla parete dietro di me.
Di fronte a me, un uomo alto e corpulento, con una folta barba scura, mi osserva cupamente.
Il mio primo istinto è quello di teletrasportarmi lontano, ma non succede nulla. Quindi mi torna la memoria, e ne capisco il motivo.
Mi guardo intorno.
«Dove sono i miei compagni?» chiedo immediatamente.
«Questo ora non è importante» replica l’uomo con un pesante accento straniero che non riesco a identificare. «Cosa facevate a Washington?»
Batto le palpebre.
«Siamo stati ricevuti dal Presidente» replico.
«Perché?»
La risposta lampeggia nella mia mente –perché è sulle tracce di un’organizzazione terroristica e vuole il nostro aiuto per debellarla- e mi rendo conto di chi sono le persone che ci hanno rapiti a pochi chilometri da Washington dopo aver sparato alle gomme della nostra auto.
Merda.
«Allora?» insiste l’uomo.
Capisco di non poter rispondere. Se questi sono i terroristi in questione, e ormai non ho dubbi che lo siano, non posso rivelare loro che l’FBI è alle loro costole. Soprattutto perché, come la mia mente realizza freneticamente, lavorerei contro i ragazzi che sono rimasti a Washington, e se i terroristi fossero preparati ad un’incursione anche loro potrebbero restare uccisi.
«Rispondimi!»
Non parlo; non posso farlo.
Ne va della vita di Vanessa, di Jonathan, di Blake e di Lily.
E, con tutte le probabilità, anche di quella del Presidente, se decidessero di attaccare la Casa Bianca.
«Va bene, hai deciso di non collaborare. Sai, lo speravo segretamente.»
Deglutisco a vuoto quando vedo l’uomo aprire la porta e tornare, poco dopo, con un oggetto in mano. Sembra una scatola di metallo lunga e stretta, e quando si avvicina capisco che è piena di tizzoni ardenti. Il che rende l’attizzatoio che spunta da essa molto poco invitante.
Il sorriso compiaciuto dell’uomo è l’ultima cosa che vedo prima di serrare gli occhi, un dolore infernale che mi colpisce mentre la sbarra metallica incandescente viene premuta sul mio petto.
Prima che mi sleghino i polsi e mi trascinino fuori di peso passa un lasso di tempo estremamente lungo, o almeno così pare.
Vengo gettato con poca cura sul pavimento di una cella dove –ringrazio il cielo per questo- sono seduti Damien e Charlotte.
«Oh, mio Dio» sento quest’ultima sussurrare.
«Art» esclama Damien, raggiungendomi subito. «Cosa ti hanno fatto?»
Vorrei riuscire a rispondere, ma la mia gola riarsa brucia per le urla che non sono riuscito a trattenere.
«Ti hanno dato del Pentothal?» chiede Damien, spaventato, mentre cerca di aiutarmi a girarmi sulla schiena, per evitare che le ferite doloranti tocchino il pavimento sporco. «Charlotte dubitava che loro sapessero della sua esistenza.»
Scuoto la testa.
«Art, dovresti essere invulnerabile» dice con voce strozzata, nel momento in cui vede le ustioni nella loro totalità.
«C’è … » comincio con voce roca, per poi tentare di schiarirmela.
Charlotte mi allunga dell’acqua in una bottiglia semipiena. Bevo, grato, quindi riprovo.
«C’è una cosa che non ti ho detto» sono costretto ad ammettere. «Dopo il prelievo … i poteri non sono tornati.»
«Avevi detto che riguardava solo il teletrasporto di altre persone!» sbotta Damien.
«Non volevo … farti preoccupare» mormoro, appoggiando la testa sul pavimento.
Questo lo raddolcisce un po’.
«Dobbiamo fare qualcosa» dice a Charlotte.
Lei annuisce.
«Dammi l’acqua. La muffa sul pavimento potrebbe far infettare le ferite. Tu prova a sollevarlo un po’.»
Damien mi sostiene e mi aiuta ad appoggiare la schiena al muro retrostante, anche se il dolore provocato dal movimento mi stordisce, rischiando di farmi svenire.
Charlotte strappa con decisione una striscia di tessuto dalla manica della sua camicia, quindi la imbeve nell’acqua.
«Lascia fare a me» dice Damien con decisione, prendendogliela di mano.
Lei non protesta.
Damien comincia a passare la stoffa bagnata sulle ferite e io mi costringo a soffocare il gemito di dolore che ne consegue.
«Mi dispiace» mormora. «Ho quasi finito.»
Charlotte decide di non bendare le ustioni, sostenendo che l’aria fredda perlomeno mi darà un po’ di sollievo.
Chiudo gli occhi e scivolo, finalmente, in un sonno tormentato.
«Tu lo sapevi, non è vero?»
«Sì, lo sapevo.»
«Perché non me l’hai detto?»
«Arthur non voleva. Pensavo che non fosse così importante.»
«Beh, lo era.»
«Se avessi saputo che non era invulnerabile sarebbe cambiato qualcosa? Ne dubito.»
«Pensavo che lo odiassi. Come mai improvvisamente lo difendi?»
«Non lo sto difendendo.»
Batto le palpebre e socchiudo gli occhi, ma Damien e Charlotte non se ne accorgono e continuano a discutere.
«Sì che lo stai facendo.»
«Perché è una sua scelta dirti o no ciò che vuole. Io, in quanto medico, ho il dovere di … »
«Oh, ti prego» sbotta Damien. «Dipende dal fatto che siete andati a letto insieme, vero?»
«Mi sembrava che l’avessi presa con troppa filosofia.»
«Non stiamo parlando di me.»
«Damien, è ovvio che quello che è successo ha cambiato le cose. Non puoi … avere quel genere di rapporto con una persona e poi … dire che è rimasto tutto come prima. Specialmente perché era la prima volta.»
«Questo cosa dovrebbe significare?» chiede lui a denti stretti.
«Nulla! Non significa nulla. Non sono innamorata di lui, non lo sono mai stata. Non c’è motivo perché tu sia geloso.»
«Io non sono geloso» replica lui in automatico. Charlotte solleva un sopracciglio, critica. «Senti, lascia perdere, d’accordo? Non volevo insinuare nulla. Ho detto una cosa stupida, lascia perdere.»
Si volta e vede che sono sveglio. L’espressione mortificata sul suo volto è quasi divertente.
«Art … » comincia.
«Non importa. Hai tutto il diritto di arrabbiarti.»
«Non sono arrabbiato. Te lo giuro.»
«Credo che abbiamo cose più importanti di cui parlare» taglia corto Charlotte. «Cosa volevano sapere?»
«Cosa voleva da noi il Presidente.»
«Glielo hai detto?»
«Naturalmente no. Temevo di mettere in pericolo i ragazzi.»
«È probabile che torneranno» dice Charlotte, decisa e tagliente. «È questa la linea comune? Non diciamo nulla?» Io e Damien confermiamo. «Non hanno paura a torturare, l’abbiamo già visto.»
«Non importa.»
«Non siate ingenui» scatta lei, nervosa. «Potete fare i coraggiosi finché volete, come due veri uomini, quando è di voi che si tratta. Questi uomini sono spietati, non solo continueranno ad oltranza, per prenderci per stanchezza: potrebbero anche-»
La porta si spalanca. Lo stesso uomo di prima entra, seguito da un altro uomo e da una donna, entrambi vestiti con abiti pesanti e con i volti semicoperti da sciarpe e cappelli mimetici, più qualche guardia armata.
Evidentemente già sapendo cosa devono fare, alcune di queste ultime raggiungono me e Charlotte e ci tirano in piedi, tenendoci fermi, mentre le altre prendono Damien e lo portano all’altro lato della cella.
Un orribile presentimento serpeggia nella mia mente e mi chiude la gola.
«Sapete già cosa vogliamo che ci diciate: ciò che il Presidente vuole da voi, e tutto ciò che vi ha detto riguardo a noi. Fermateci quando sarete pronti a parlare.»
E poi le guardie cominciano a colpire Damien.
«No» mormoro, capendo ciò che Charlotte intendeva dire poco fa.
Guardo gli uomini che si accaniscono su di lui, e tutto ciò che vorrei è urlare loro di fermarsi, dire loro tutto ciò che vogliono sapere.
Ma non posso farlo.
Strattono le braccia, tentando di liberarle dalla presa ferrea delle guardie, ma è del tutto inutile. Non posso fare altro che guardare impotente il mio ragazzo picchiato a sangue.
Sento Charlotte gemere e chiudere gli occhi, voltando la testa, in lacrime. Io incrocio lo sguardo di Damien e lo sostengo per tutto il tempo, resistendo alla tentazione di nascondermi per non sentire i suoi gemiti.
Dura almeno mezz’ora: poi se ne vanno tutti, promettendo di tornare presto.
Non appena sono libero, corro da Damien, sul pavimento in una pozza di sangue.
«Dam» lo chiamo, teso.
Lui batte le palpebre, confuso, quindi tenta di mettersi a sedere. Lo aiuto e, con il sostegno di Charlotte, lo esamino per tentare di limitare i danni.
Alla fine la diagnosi conta due costole rotte, una spalla lussata e molti lividi, ma nulla di davvero grave.
«È andata piuttosto bene» commenta lui, sollevato, pur stringendo i denti per il dolore.
«Peggiorerà» taglia corto Charlotte, cupa. «Hanno capito il metodo giusto per piegarci.»
«Cosa intendi?»
«Minacciare uno per far parlare gli altri» replico io al suo posto, passando con cautela della stoffa bagnata sulle abrasioni sul viso di Damien.
Nessuno aggiunge altro.
Mi sveglio nel mezzo della notte per una fitta dolorosa dovuta alle ustioni che ancora campeggiano su buona parte del mio corpo. Faccio una smorfia e mi metto a sedere, massaggiando con le dita la parte interessata, a livello delle costole. Brucia da morire.
Il mio sguardo scivola automaticamente su Damien, che dorme rannicchiato su se stesso sul pavimento. Quindi passa a Charlotte, che è immobile e mi dà la schiena –troppo ferma per essere addormentata.
«A cosa pensi?» le chiedo sottovoce.
Lei si irrigidisce, colta di sorpresa, quindi si volta lentamente.
Mi aspetto un “niente” come risposta, ma mi prende alla sprovvista.
«Penso che piegare una ragazza sia molto più facile che farlo con un ragazzo» replica in un sussurro, mettendosi a sedere.
La guardo con stupore.
«Di cosa stai parlando?»
Lei si stringe nelle spalle.
«Di quello che hanno tentato di farmi a Baltimora» replica. «Di quello che sarebbe successo se Jonathan non mi avesse soccorsa.»
«Non credo che arriverebbero a tanto» dico, incerto.
«Io credo che farebbero qualunque cosa, pur di avere le informazioni che cercano.»
La osservo con attenzione.
«Andrà tutto bene, Charlotte.»
Lei scuote la testa.
«Non verranno a salvarci stavolta, Art.»
«Che cosa?»
«Non li lasceranno venire. Quelli del governo, intendo. Probabilmente non gli diranno nemmeno che siamo stati catturati.»
«Lo scopriranno ed evaderanno. Non sarebbe la prima volta.»
«Non sono sicura che tutti lo vorranno fare.»
«Certo che lo faranno! Per salvarci la vita.»
Charlotte sospira.
«Ho davvero un bruttissimo presentimento. Non andrà a finire bene.»
«Siamo sopravvissuti a tante cose, Charlie. Passerà anche questa.»
«Siamo finiti in una situazione che non possiamo controllare. Ci sono troppi interessi in gioco. Siamo diventati delle pedine nelle mani dell’una e dell’altra fazione, più ancora di quanto non lo fossimo già prima. Unirsi al Presidente è stato uno sbaglio.»
«È stata una loro libera scelta. Noi non l’abbiamo fatta, eppure siamo qui lo stesso. Se fossimo andati tutti via, ora nessuno potrebbe aiutarci.»
Lei si sdraia di nuovo sul pavimento.
«Non andrà a finire bene» ripete, profetica.
Chiudo gli occhi e fingo di addormentarmi mentre il mio cervello corre.
Vorrei credere veramente che qualcuno ci verrà a salvare. |
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Capitolo 21 *** Friends again ***
~FRIENDS AGAIN~
[Lily]
Corro il più velocemente che posso, gli occhi fissi sulla sagoma davanti a me, seguendo i suoi passi.
Il buio è quasi totale, eccezion fatta per la torcia che Blake, di fronte a me, tiene in mano mentre corre.
Mi sento una via di mezzo tra James Bond e Arsenio Lupin.
Ho appena scavato un tunnel sotto alla Casa Bianca. Io, Lily Bennett, potrei essere accusata di atti terroristici.
Chi l'avrebbe mai detto?
Le mie orecchie sono tese per captare ogni movimento, ma non ne percepisco nessuno. Per forza. Il tunnel scende per quasi seicento metri nelle profondità della terra, prima di dirigersi verso il centro di Washington e immettersi nel sistema fognario. Si tratta di circa due chilometri di scavo, in totale, e ho impiegato tutta la notte a completarlo, sfruttando ogni singola goccia del mio potere, in un modo che non avevo mai sperimentato prima.
L'idea è stata di Blake, che mi ha aiutata a far saltare tutto ciò che intralciava la costruzione del cunicolo. Ora, potrei descrivere la lunga notte passata con lui spalla a spalla, ma sarebbe inutilmente imbarazzante e anche noioso, visto che si è rifiutato di rivolgermi la parola, se non quando era strettamente necessario.
In ogni caso, ora siamo qui, io, Blake e Jonathan, in fuga verso l'ignoto.
Il tunnel giunge bruscamente a termine e Blake si ferma.
«Devi solo far saltare la parete di destra» dico, ansimando leggermente. «Poi saremo nelle fogne.»
«Lo so» taglia corto Blake, freddo.
Vanessa, come previsto, è rimasta indietro, e lui non l'ha presa bene. Io, in realtà, sono contenta di non averla tra i piedi.
Blake crea una spaccatura nella parete del tunnel, quindi la allarga e ci permette di entrarvi. La attraversiamo e dall'odore capisco subito che siamo sulla strada giusta.
A volte fare la cosa giusta fa davvero schifo.
Quando usciamo dalle fogne è l'alba. Il sole sbuca timido all'orizzonte mentre risaliamo le scale e spuntiamo fuori da un tombino.
Siamo nella periferia di Washington.
«E ora? Dove lo troviamo un tassista che ci porti in giro quando puzziamo così?» domanda Jonathan storcendo il naso.
«Per mille dollari, vedrai che lo farà» replico io con calma, aspettando di scorgere un taxi.
Come previsto, alla vista dei soldi l'autista tace e ci porta fuori città.
Il pagamento anticipato del presidente ci tornerà decisamente utile. Abbiamo intenzione di prendere un aereo per raggiungere il Canada, per poi trovare il luogo dove Charlotte, Arthur e Damien sono tenuti prigionieri e liberarli. Come questo avverrà, non lo sappiamo ancora.
Un passo alla volta.
In aeroporto ho finalmente la possibilità di comprare dei vestiti nuovi e di darmi una lavata nei bagni, per quanto è possibile, pur bramando una doccia vera per scacciare definitivamente l'odore disgustoso che mi è rimasto appiccicato addosso.
Il primo aereo per il Canada partirà tra circa tre ore. Nascosta dietro ad una rivista in una delle sale d'attesa, osservo di sottecchi Blake che cammina in tondo. Non può chiamare Vanessa per timore che la sua telefonata venga rintracciata, ma so che muore dalla voglia di farlo.
Non capisco perché: lei lo detesta, lui non la ama, ma si sente responsabile.
Puah.
Mi rendo vagamente conto dei livelli preoccupanti che ha raggiunto il mio cinismo, ma non me ne do troppa pena. A chi importa?
«Ehi, va tutto bene?»
Alzo lo sguardo e incrocio quello di Jonathan, che mi si è appena seduto accanto.
«Sì, certo» dico casualmente. «George Clooney è di nuovo single. Cosa posso chiedere di meglio?»
«Non mi faccio fregare da te, sai?» ribatte Jon con tranquillità. «Si vede che stai male per tutta quella storia con Blake.»
«L'unica cosa di Blake che mi fa stare male è la sua stupidità» taglio corto. «Tu, piuttosto... sei preoccupato per Charlotte, vero?»
«Certo» ammette Jon. «Nonostante quello che ha fatto, spero non le succeda nulla di male.»
«È molto più di questo» lo correggo. «Sei ancora innamorato di lei. Non importa se ti ha tradito con Art, tu l'hai già perdonata. Solo che sei troppo orgoglioso per ammetterlo. E ora hai una paura folle che le facciano del male, per questo hai accettato di andartene dalla Casa Bianca. Se fosse stato solo per Art e Damien, saresti rimasto... per i soldi.»
Jonathan si irrigidisce leggermente.
«Sai, Lily» dice a voce bassa, «Forse, se ti comportassi meno da stronza e dimostrassi di avere un cuore, ogni tanto, ti avremmo già perdonata per quello che hai fatto.»
«Primo, non ho bisogno del vostro perdono, perchè non ho fatto niente di male. Se tornassi indietro lo rifarei. Secondo, darmi della stronza perchè dico la verità non è molto maturo.»
Jon scuote la testa e se ne va.
Rimango sola e abbasso di nuovo gli occhi sulla rivista.
Complimenti, Lily. Missione “terra bruciata” perfettamente riuscita.
Il volo per il Canada dura poco più di un'ora, che passo a dormire, tormentata da bambini rumorosi e dalla scomodità della posizione. Avremmo anche potuto prendere dei posti in prima classe, ma gli altri non ne hanno voluto sapere. Tirchi.
In ogni caso, siamo appena usciti dall'aeroporto di Ottawa e siamo diretti, in taxi, verso la campagna circostante.
Le indicazioni di latitudine e longitudine, purtoppo, non siamo riusciti a procurarcele, ma sappiamo che la zona dove si trovano Charlie, Art e Damien è grossomodo tra Ottawa e Toronto.
In ogni caso, quando ci troviamo soli nel bel mezzo dei campi, sotto un cielo nuvoloso che minaccia pioggia, ci rendiamo conto di non avere, effettivamente, la più pallida idea di cosa fare.
Non sappiamo se il rifugio sia facilmente visibile, se sia protetto, né tantomeno cosa faremo se mai lo troveremo.
«Faccio un giro di ricognizione» annuncia Jonathan, trasformandosi in una cornacchia e sollevandosi in volo, confondendosi ben presto con quelle vere.
Io e Blake restiamo soli e cala immediatamente un silenzio imbarazzante.
«Allora» esordisco, cercando di sembrare indifferente, «Come va?»
Blake mi guarda con un sopracciglio sollevato.
«Stai davvero cercando di fare conversazione?» domanda, scettico.
Io incrocio le braccia sul petto, mettendomi sulla difensiva.
«Sì.»
«D'accordo, allora. Se proprio vuoi saperlo, mi sento da schifo per aver lasciato Vanessa da sola alla Casa Bianca, e non so cosa farei se le succedesse qualcosa. In più, sono convinto che, se anche riuscissimo a trovare il covo dei terroristi, portare in salvo Arthur, Charlotte e Damien non sarà così facile. Non è neanche detto che siano ancora vivi, e, se lo sono, non sappiamo in che condizioni. E se i terroristi li uccidessero per il nostro tentativo di salvarli?»
Blake smette di parlare e io lo guardo per un momento, colta di sorpresa da quel fiume di parole che non mi aspettavo.
«Quando una persona ti chiede come va, Blake, si aspetta che tu risponda “bene”» dico.
Blake scuote la testa.
«Sei una stronza» mi comunica.
«Dimmi qualcosa che non so.»
«Posso farlo davvero, sai.»
«Cosa?»
«Dirti qualcosa che non sai.»
«Prego, allora.»
«Quello che non sai, Lily» dice lentamente, «È che io ti volevo bene sul serio. Sono convinto che abbiamo sbagliato ad abbandonarti, perchè già allora pensavo che, nonostante tutto, avremmo dovuto darti una seconda possibilità. Capita a tutti di sbagliare. Anche quando mi hai fatto saltare in aria nel bel mezzo del deserto... sì, ti ho detestata, non ho capito la tua scelta, ma alla fine ho sempre creduto che tu potessi tornare sulla retta via.»
«Ma poi hai cambiato idea» concludo.
«È qui che ti sbagli» dice con fermezza. «Io ci credo ancora.»
«Beh, non sembra. Non è che tu mi stia rendendo le cose facili.»
«Non capisci, Lily? Sei tu quella che complica le cose! Ti chiudi a riccio ogni volta che uno di noi cerca di avvicinarsi, non pensi neanche alla possibilità di scusarti, ti comporti come se ti sentissi superiore a tutti, litighi con Vanessa e metti in crisi il suo rapporto con me... Stai facendo tutto da sola! Se solo smettessi di comportarti come una ragazzina, ti accorgeresti che l'unica che ti ostacola sei tu!»
I miei occhi sono fissi in quelli di Blake. Questo discorso mi ha colta alla sprovvista.
«Eppure» dico alla fine, «Tu hai scelto Vanessa.»
«Lei aspetta il mio bambino, Lily. Ho delle responsabilità nei suoi confronti. Non so se la amo, ma ho il dovere di restarle accanto. Non potrei mai abbandonarla. Vorresti ancora stare con me se io lo facessi?»
Chiudo gli occhi.
Vorrei che le parole di Blake non avessero senso, vorrei trovarle stupide, ma la verità è che ha ragione.
Ha maledettamente ragione.
«Mi dispiace» soffio alla fine, e lo vedo sgranare gli occhi. «Mi dispiace, Blake. Per Vahel, per Vanessa, per tutto. Mi sono comportata nel modo sbagliato, e...»
«Li ho trovati!» mi interrompe qualcuno.
Mi volto per vedere Jon, di nuovo umano, in piedi dietro di me.
Faccio un respiro profondo.
«Dove sono?» domando.
«Poco oltre quella collina. Credo che il loro rifugio sia sottoterra, perchè ho visto solo degli uomini armati a guardia di una sottospecie di baracca -deve contenere un passaggio per raggiungere il resto del covo. Stai piangendo?»
«Cosa?» Mi porto una mano al volto e mi stupisco di trovarlo umido. «No, certo che no. Sono allergica al polline. Qual è il piano?»
«Il piano è semplice» afferma Blake con voce decisa. «Ci avviciniamo. Jon entra sottoforma di insetto, o qualcosa del genere, dà un'occhiata alla conformazione del rifugio e trova i ragazzi. Non riuscirai ad avvisarli, probabilmente, ma se troverai un'occasione di farlo, tanto meglio.» Jonathan annuisce. «Poi» prosegue Blake, «Esci, torni qui e decidiamo il da farsi. Probabilmente mi limiterò a far saltare in aria le guardie, o qualcosa del genere.»
Io e Jon ci diciamo d'accordo e iniziamo a spostarci in direzione del rifugio dei terroristi. Troviamo una macchia d'alberi distante circa duecento metri da esso e ci sistemiamo lì.
Jonathan diventa una formica e si allontana.
Appoggio la schiena ad un albero, tesa. Se dovessero scoprire Jon -e non è una possibilità così remota, visto che sanno dei nostri poteri- non oso immaginare cosa potrebbe succedere.
Io e Blake non parliamo, stavolta, e il silenzio è quasi assordante.
Poi, sento vibrare qualcosa.
Blake sussulta ed estrae il cellulare dalla tasca.
«È Vanessa» mormora.
«Pensavo le avessi detto di non chiamarci, perchè non potessimo essere rintracciati.»
«Infatti.»
Blake esita.
«Avanti, rispondi. Dev'essere importante.»
Blake annuisce e accetta la chiamata. Mi avvicino per ascoltare.
«Ness?»
«Blake! Oh, grazie a Dio. Ho scoperto una cosa...»
«Cosa? Di che si tratta?»
Il tono di Vanessa è frettoloso, quasi ansimante.
«Ho ascoltato di nascosto, non credo che lo sappiano... stanno progettando una cosa, un antidoto...»
Il telefono crepita e la voce di Vanessa giunge spezzata.
«Ness, non ti sento bene... Cosa hai detto?»
«Hanno trovato un antidoto! L'hanno somministrato oggi a Julie, pare che abbia funzionato.»
«Un antidoto a cosa?»
«Per i nostri poteri! Per farli scomparire del tutto!»
Io e Blake ci scambiamo uno sguardo sconcertato.
Questo cosa dovrebbe significare? Il presidente ha somministrato a sua figlia un antidoto e le ha tolto i suoi poteri? Perchè mai dovrebbe voler fare una cosa del genere? Perchè allora chiedere il nostro aiuto per debellare i terroristi? Perchè non somministrarcelo forzatamente?
La mia mente lavora velocemente per cercare una risposta, ma invano.
«Vanessa, tu dove sei?» chiede Blake con urgenza.
Segue un istante di silenzio.
«Sono nella mia camera» replica lei con un filo di voce. «C'è un'altra cosa. Blake... credo che mi si siano rotte le acque.»
Silenzio. Vedo Blake impallidire.
«Ness...» sussurra, cercando una soluzione.
Vista la sua espressione, decido di prendere in mano le redini della situazione. Strappo il telefono dalla mano di Blake.
«Vanessa, mi senti? Sono Lily. Resta calma, ok? Andrà tutto bene.»
«Lily? Ho paura. Cosa devo fare?»
Il suo tono terrorizzato mi convince definitivamente.
«Ascoltami bene, Ness. Adesso tu esci dalla tua camera, trovi qualcuno e ti fai portare in ospedale. Lì si prenderanno cura di te. Io prendo il prossimo aereo. Tra due, massimo tre ore sarò lì. Tieni il cellulare vicino, mi raccomando.»
«Io... due ore?»
«Sì. Stai tranquilla. Tra due ore sarò vicino a te. Tieni duro e vedrai che andrà tutto benissimo.»
«D'accordo.»
Chiudo la telefonata e mi volto verso Blake.
«Blake, porta in salvo i ragazzi.»
«No. No, Lily, resta tu qui. Io devo andare da Vanessa.»
«No. Ascoltami: c'è bisogno di te qui. Io sarei inutile, ma tu sei l'unico che può liberarsi delle guardie e aiutare Charlie, Dam e Arthur.»
«Ma...» obietta debolmente Blake, ma capisco che sa che ho ragione.
«Stai tranquillo. Mi prenderò cura di Vanessa come faresti tu, anzi, ancora di più. Non la lascerò un attimo e le dirò che tu arriverai presto. D'accordo?»
Blake esita ancora, quindi annuisce.
«Va bene. Mi raccomando» cede alla fine.
Gli faccio un cenno e mi alzo in piedi.
«Non ti preoccupare» dico, per poi avviarmi di corsa in direzione dell'aeroporto.
Impiego parecchio tempo ad arrivare all'aeroporto, anche di corsa, perchè non ci sono taxi a disposizione nel bel mezzo della campagna, ma riesco a trovarne uno quando sono ormai in vista della periferia.
Mi precipito alla biglietteria e benedico la mia fortuna nel trovare un posto per il prossimo volo, che partirà tra mezz'ora.
Faccio il check-in e tutti controlli di sicurezza a velocità supersonica, per poi ritrovarmi seduta in aereo, senza fiato, diretta a Washington.
L'ora abbondante di volo passa lentamente, ogni secondo sembra durare un secolo, ma alla fine atterriamo.
Mi precipito fuori e salgo su un taxi mentre chiamo Vanessa.
«Ness, dove sei?»
«In ospedale. Reparto maternità. Sto...» si interrompe e sento un gemito provenire dal cellulare.
«All'ospedale» dico all'autista, per poi rivolgermi di nuovo a Vanessa. «Stai bene? Tra pochi minuti sarò lì.»
«Sì, sì, era solo una contrazione. L'ostetrica dice che è ancora presto. Arriva in fretta, per favore.»
«Certo, stai tranquilla.»
Mentre il taxi procede a passo d'uomo nel traffico, penso con una lieve ansia che non so assolutamente nulla di come avvenga un parto, se non quello che ho visto in televisione. Non ho idea di come farò, ma voglio solo arrivare in tempo per dare a Vanessa una mano amica da stringere.
Quando mi rendo conto di cosa ho appena pensato, mi viene quasi da ridere. Solo poche ore fa la pensavo in modo totalmente opposto.
Adesso, grazie a Blake, credo di aver rimesso le cose nella giusta prospettiva. Io e Vanessa siamo sempre state amiche, ed è di un'amica che lei ha bisogno. Tutto il resto non ha importanza.
Il taxi si ferma di fronte all'ospedale. Pago e corro verso l'ingresso. Lancio un'occhiata al tabellone che indica la collocazione dei vari reparti e scopro che quello di maternità si trova al quinto piano.
Prendo l'ascensore. Tamburello le dita sulla mia gamba, nervosa, chiedendomi, tra l'altro, se il mio aspetto sia ancora umano dopo due voli e una gita nella campagna canadese.
Lo specchio dell'ascensore non mi è di grande conforto in questo senso.
Le porte dell'ascensore si aprono.
«Mi scusi, sto cercando una mia amica» dico ad un'infermiera. «Vanessa Evans.»
Lei mi indica una porta e la apro.
Vanessa è in piedi, sta camminando in tondo, indossa un camice da ospedale teso sul pancione e ha i capelli legati. Quello che stamattina doveva essere un filo di eyeliner le è colato sul viso con qualche lacrima, macchiandole il volto di nero.
«Lily» mormora, e, non appena mi avvicino, con mia grande sorpresa, mi abbraccia forte. Ricambio la stretta.
«Ehi» dico, «Va tutto bene?»
«Insomma» replica lei.
«Vieni, dai. Puoi sederti? Ti tolgo questo trucco orribile. Non vorrai avere la faccia tutta macchiata di nero quando farai la prima foto con la bimba! Me ne riterrei del tutto responsabile.»
A Vanessa sfugge una risata.
Mi dirigo in bagno, inumidisco un asciugamano e la raggiungo, per poi strofinarglielo con delicatezza sul volto, cancellando i segni del trucco.
La sua mano si posa sulla mia e la guardo con un'espressione interrogativa.
«Grazie, Lily» dice.
Io faccio un piccolo sorriso.
«È a questo che servono le amiche.». |
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Capitolo 22 *** A rescue and a birth ***
Solo due note: credo (non ne sono sicurissima, perchè devo ancora scriverli) che a questo capitolo ne seguirà solo un altro, più un epilogo, ma potrebbe essercene anche uno di più. Vedremo.
Per farmi perdonare per le lunghe attese e per ringraziare chi ha continuato a seguire la storia, dopo l'epilogo pubblicherò una one-shot che ho scritto l'anno scorso, a rating rosso, su Arthur e Damien. Altrimenti nota come il-mio-primo-tremendo-tentativo-di-scrivere-una-lemon. Poveri voi!
Buona lettura :)
~A RESCUE AND A BIRTH~
[Blake]
Nel silenzio più assoluto, riesco a sentire ogni singolo battito del mio cuore. La mia schiena è appoggiata contro il muro, la mia fronte sudata.
Vicino a me, Jonathan, in forma di lucertola, è in attesa.
Quando l'uomo si avvicina, Jon striscia silenzioso e lo raggiunge. Non riesco a vedere molto, nella penombra, ma so che si sta arrampicando sulla gamba del terrorista. Su, su fino alla cintola e al mazzo di chiavi.
L'ansia è quasi insostenibile. Se lo scoprisse...
Aspetto immobile, quasi immaginando l'urlo dell'uomo che scopre il tentativo di furto... ma non succede.
Un fruscio sul pavimento, quindi la lucertola (anzi, adesso è qualcos'altro, qualcosa con una coda più lunga, un rettile a cui non so dare un nome) torna umana. Jon mi fa un cenno affermativo: in mano stringe il mazzo di chiavi
Attendiamo che la guardia si sia allontanata, quindi ci dirigiamo verso la zona delle celle.
Jon, tornato dalla sua esplorazione preliminare, mi ha descritto con precisione la planimetria del rifugio, perciò ora sappiamo entrambi dove andare.
Percorriamo un lungo corridoio buio dalle pareti in cemento.
Il buio è quasi totale, l'umidità pesante e il freddo arriva fin nelle ossa. Il silenzio è interrotto solo dallo sgocciolio regolare attraverso il soffitto.
Quando raggiungiamo la porta, Jon si affretta ad inserire la chiave nella toppa e a girarla.
La porta si apre con un cigolio ed entriamo, rapidi.
Quello che vedo è quello che mi aspettavo, solo peggio.
Charlotte ha un taglio evidente sulla guancia e un inizio di occhio nero, e provo una repulsione violenta per quei bastardi che hanno avuto il coraggio di picchiare una ragazza.
Damien è messo peggio: tutto il volto è coperto di escoriazioni e, in generale, sembra pieno di lividi. Devono averlo picchiato a lungo.
Arthur, però, è la vera sorpresa: ero convinto che fosse invulnerabile, e dubitavo che i terroristi sapessero del Pentothal. Invece è pallido e sul suo torace risaltano decine e decine di ustioni, alcune delle quali evidentemente infette.
Deglutisco e sento Jonathan trattenere il fiato bruscamente.
Damien balza in piedi.
«Oh, grazie a Dio» invoca sottovoce.
Mi sforzo di sorridere.
«No, siamo solo noi» replico. «Coraggio,venite. Dobbiamo filarcela prima che si accorgano che siamo qui.»
Charlotte, nel frattempo, è saltata al collo di Jonathan e l'ha stretto con forza. Lui, un po' stupito, la sta tenendo vicina.
«Dobbiamo avvertire il Presidente» dice lei rapidamente. «Abbiamo scoperto delle cose, Blake...»
«Non è il momento. Avanti, andiamo» taglio corto.
Damien aiuta Art ad alzarsi e ci seguono fuori dalla cella.
Riusciamo a percorrere indenni tutto il corridoio, ma non possiamo essere tanto fortunati da raggiungere l'uscita inosservati.
Uno dei terroristi ci vede e lancia un grido d'allarme -giusto un secondo prima che io lo colpisca con una scarica di energia e lo mandi a sbattere contro la parete opposta.
Ma è bastato quello perchè altri venissero avvertiti. Ci troviamo con le spalle contro il muro del rifugio, a pochi metri dalla scala che porta verso la superficie e la salvezza.
«Charlie, Dam, Art» dico a denti stretti, allungando le braccia davanti a me, le mani già vibranti di energia trattenuta, riacquistando il mio consueto ruolo di leader, «Andate verso l'uscita, vi copro le spalle. Jon... come ai vecchi tempi?»
Jon mi sorride in un lampo prima di trasformarsi in un grande felino bianco. Rivedo per un istante il giorno, tanti anni fa, quando Vahel gli aveva lanciato una rete metallica che lo aveva imprigionato: allora aveva assunto la stessa forma. Le cicatrici sono ancora evidenti.
I terroristi arrivano a fiotte con i mitra, ma sembrano incerti sull'usarli davvero. Evidentemente hanno ricevuto istruzioni precise di non fare del male ai mutanti.
Poi, quando io comincio a farli saltare in aria, il loro buonsenso prevale.
Le pallottole cominciano a sibilare. Jon parte all'attacco dei terroristi più vicini, usando zanne e artigli per metterne fuori gioco quanti più possibile.
Io, invece, cerco di deviare la traiettoria di tutte le pallottole che potrebbero ferire i miei compagni, che si stanno faticosamente arrampicando sulla scala.
Quando loro tre sono usciti faccio un fischio a Jonathan, che comincia ad indietreggiare. Poi, però, un terrorista ci coglie di sorpresa arrivando lateralmente e gettando a terra con un calcio la scala che porta verso l'esterno, isolandoci sottoterra.
Impreco mentre lo faccio saltare via, cercando intanto di mantenere uno scudo perenne di energia che respinga le pallottole.
Guardo Jonathan, che sta cercando di raggiungere la scala per rialzarla, ma è troppo lontano e non riesco a proteggerlo adeguatamente dalla raffica di proiettili, ora che quasi tutti gli occupanti del rifugio ci stanno scaricando contro i loro mitra.
«Vola via!» urlo a Jon, cercando di superare il frastuono.
Naturalmente lui non prende neanche in considerazione l'opzione. Torna al mio fianco, le zanne insanguinate scoperte.
Siamo entrambi consapevoli che reggeremo solo per poco: ci attaccano su tutti i lati, eccetto che alle spalle, coperte dal muro, e la mia energia non è infinita, anzi, sta già cedendo.
Deglutisco, cercando disperatamente una via d'uscita, quando qualcosa mi cade sulla testa. Alzo lo sguardo per un istante: è terriccio.
Un rombo profondo scuote l'intero rifugio, e i terroristi cessano di sparare.
Qualcuno urla in una lingua che non conosco, ma ne intuisco il senso.
Crolla tutto.
«Jon! Fuori!» grido.
Lui capisce e si trasforma in un enorme rapace, mi afferra con artigli giganteschi e ci solleva entrambi. Non passeremo mai dal buco che ospitava la scala -è troppo stretto-, perciò Jon si dirige senza esitare verso il soffitto che sta crollando.
Recito mentalmente un paio di preghiere mentre i detriti precipitano addosso a noi, ma io sono quasi del tutto riparato dalle grandi ali da rapace di Jon, che si fa strada a fatica tra i massi in caduta libera attraverso il buco creato dal crollo.
Un attimo dopo, mi ritrovo a rotolare sul terreno, finalmente all'aperto. L'impatto mi toglie il fiato; tossisco, ma mi rialzo.
Jon è tornato umano ed è a terra accanto a me. Gli allungo la mano: lui la afferra e si tira in piedi. Adocchiamo Charlie, Art e Dam poco distante e iniziamo a correre per raggiungerli.
«Sorprendente, vero? Basta trovare il punto giusto su cui fare leva, e qualunque costruzione crolla come un castello di carte» commenta Charlie, solare. Mi prendo un istante per ammirare i calcoli che deve aver fatto per riuscire a far crollare il rifugio.
Poi ci precipitiamo verso la libertà, lontano, prima che i terroristi -almeno, quelli che sono sopravvissuti al crollo- possano inseguirci.
Raggiungiamo la strada e individuiamo un taxi.
Ringrazio di nuovo i soldi del Presidente, perchè dubito che alcun autista avrebbe accettato di portarci in aeroporto in queste condizioni senza la promessa di due centinaia di dollari.
Guardo i ragazzi attorno a me e tiro un sospiro di sollievo. Siamo salvi.
In aeroporto cerchiamo di darci una sistemata, come se non ci fosse appena piovuto addosso un intero soffitto.
Quando esco dal mio cubicolo nei bagni, vedo Damien che, con un'espressione concentrata, passa sulle ustioni sul petto di Arthur, appoggiato con la schiena ai lavandini, del disinfettante appena acquistato.
«Tutto a posto?» chiedo. «Charlotte cosa dice?»
«L'infezione non dovrebbe creare problemi, se curata non appena torniamo a casa» replica Art a denti stretti.
Usciamo dai bagni, tutti ripuliti, per ritrovare Charlotte.
Mentre la aspettiamo, compongo il numero di Vanessa. Sono passate oltre due ore dalla partenza di Lily: deve ormai essere arrivata.
Mi risponde Lily.
«Blake? Tutto bene?» mi domanda, ansiosa.
«Sì, tutto a posto. Charlie, Art e Dam sono qui con me. Il prossimo aereo parte tra un'ora, saremo lì tra due ore e mezza circa. Come sta Vanessa?»
«Se continua così, potrai essere presente quando nascerà la bambina» replica Lily. «È in travaglio, ma è ancora alla prima fase. L'ostetrica dice che ci vorranno almeno altre tre, quattro ore. Vanessa sta bene, è solo nervosa, ma sono qui con lei. Chiede... ah, vorrebbe parlare con Charlotte.»
Passo il cellulare a Charlotte.
«Ness? Sono Charlie. Tutto a posto?» ascolto le poche parole di Charlotte con nervosismo. Da una parte vorrei essere al fianco di Vanessa, dall'altra correi egoisticamente voltare la testa dall'altra parte e fingere che non stia succedendo nulla. «Certo, è del tutto naturale. È normale, stai tranquilla. Ricordati di restare calma. Tra poco più di due ore sarò lì, ok? Insieme a Blake. D'accordo. Ciao, tesoro.»
Charlotte chiude la telefonata.
«Allora» esordisce «Devo parlarvi. Abbiamo scoperto una cosa.»
«Se si tratta dell'antidoto per eliminare i poteri, lo sappiamo già» la interrompo.
«Che cosa?»
«Vanessa ha detto di aver sentito i ricercatori alla Casa Bianca parlare di un antidoto per togliere definitivamente i poteri ai mutanti. Pare lo abbiano già somministrato a Julie... la figlia del Presidente.»
«Ma... quello che abbiamo sentito noi dai terroristi» replica lentamente Arthur, «È esattamente l'opposto. Pare che alla Casa Bianca abbiano isolato il gene portatore dei poteri. Ora possono impiantarlo a chiunque, facendogli acquisire poteri personali. E per averlo, loro stanno organizzando un attentato... domani.»
«Non capisco» dico, strofinandomi una mano sulla fronte. «Cosa...?»
«Ma certo!» esclama Charlotte, interrompendomi. La lascio parlare, consapevole che, di certo, ha capito più di me. «Uno dei due deve aver dato un'informazione sbagliata. Chi è più probabile che lo abbia fatto?»
«Il Governo» replica Arthur. «Sapevano che Vanessa li stava ascoltando. Praticamente è un'infiltrata, in contatto con voi fuggiaschi...»
«Esatto» conferma Charlie. «E perchè mentire su una cosa del genere? Perchè se noi avessimo creduto che loro avessero la possibilità di toglierci per sempre i poteri, con un briciolo di buonsenso ci saremmo tenuti alla larga da Washington.»
«Ci volevano davvero lontani da Washington» commenta Damien, incredulo. «Vi hanno lasciati scappare...»
«Non si aspettavano che lasciassimo indietro Vanessa» aggiunge Charlotte, «E hanno fatto in modo che sentisse queste false informazioni per convincerla ad andarsene...»
«Ma perchè chiamarci, allora?» chiedo, sempre più confuso.
«Non è logico? Avevano bisogno di noi, per isolare quel gene! Avevano Julie a disposizione, ma non si può creare una formula solo a partire dai geni di un individuo. Volevano conferme prima di iniettare una formula potenzialmente pericolosa su qualche soldato scelto.»
Finalmente le cose si stanno facendo più chiare.
«Quindi» interviene Jon, «I terroristi volevano impadronirsi della formula per ottenere i poteri, immagino.»
«Già. Se devono combattere soldati selezionati con superpoteri dedicati alla lotta contro il terrorismo, tanto vale avere a propria volta superpoteri» conferma Charlie.
«E quindi... ora cosa facciamo?» domando.
Charlotte sembra pensarci su per un momento.
«Dobbiamo andare a Washington e dire al Presidente che i terroristi stanno progettando un attacco alla Casa Bianca per domani» dice alla fine. «Questo è il piano.»
Il volo sembra durare un'eternità, ma in realtà arriviamo a Washington dopo meno di due ore.
«Jon, devi andare tu dal Presidente» decide Charlotte. «Vanessa ha bisogno di me e Blake, e Arthur e Damien hanno bisogno di cure.»
«Io?» replica Jon, incredulo. «Ma non sono neanche sicuro di aver capito cosa sta succedendo!»
«D'accordo» ribatto, fermando la risposta di Charlotte sul nascere, «Credo che la cosa migliore sarebbe che ci andassi tu, Charlie. Ora andiamo in ospedale, tu aiuti Vanessa, ti fai dare una sistemata e poi decidiamo chi verrà con te per aiutarti e proteggerti. Ci stai?»
Lei sospira e annuisce.
«Mi sembra ragionevole» ammette.
Non ci vuole molto per arrivare all'ospedale. Mentre Arthur e Damien si dirigono al pronto soccorso, accompagnati da Jon, io e Charlie saliamo al quinto piano.
Ci indicano la sala parto dove si trova al momento Vanessa. Ci siamo dati una ripulita in aeroporto, perciò io sono presentabile, e Charlie anche, nonostante il suo occhio nero faccia una certa impressione.
Un'infermiera ci blocca prima che riusciamo ad entrare.
«Chi siete?» domanda, sospettosa.
«Io sono il suo... sono il padre del bambino. Della bambina, cioè» dico, impacciato.
«E io sono il medico della signorina Evans, Charlotte Miller. Può controllare la sua cartella clinica, se vuole, o chiederle conferma.»
La donna ci lascia passare.
Vanessa è distesa su un lettino con le gambe sollevate, pallidissima e sudata. Lily le stringe la mano.
«Io me ne vado, Charlie» sussurro.
«Assolutamente no» replica lei, inflessibile, spingendomi in avanti. «È ora che tu ti prenda le tue responsabilità, Blake.»
Vanessa gira la testa e mi vede. Mi aspetto un saluto caloroso, ma ricevo tutt'altro.
«Tu» ringhia. «Brutto stronzo! Sei solo un...» si interrompe e inarca la schiena, gemendo di dolore.
Mi immobilizzo a due passi da lei, sconvolto, mentre Charlotte prende in mano la situazione e si lava le mani, per poi infilare dei guanti sterili.
«A che punto è?» domanda all'ostetrica. «Sono il suo medico.»
«Manca poco» replica lei, una donna sulla cinquantina dall'aria severa. «È già in fase espulsiva.»
«Le avete somministrato dell'ossitocina?»
Smetto di ascoltare Charlotte e mi avvicino a Vanessa con cautela.
«Nessie? Come stai?» chiedo debolmente.
Lily e Vanessa mi lanciano la medesima espressione omicida.
«Domanda sbagliata» replica Vanessa a denti stretti.
«Ness?» interviene Charlotte, prendendo il mio posto accanto a lei. «So che fa male, ma ti prometto che, se fai come ti dico, tra pochissimo sarà tutto finito e potrai vedere la tua bambina. D'accordo?»
«Ok» dice Vanessa, a corto di fiato, «Cosa devo fare?»
«Quando senti arrivare lo stimolo, spingi più forte che puoi. E tu» dice a me, «Restale vicino e tienile la mano. Adesso, Ness, cerca di respirare regolarmente, ok?»
I minuti si susseguono e Vanessa mi stritola la mano, urlando in un modo che mi fa venire voglia da una parte di scappare, dall'altra di starle vicino e aiutarla a far passare tutto in fretta. Per fortuna, do ascolto alla seconda parte.
Vanessa spinge un'ultima volta, incoraggiata da Charlotte, urla forte, mi stringe la mano, inarca la schiena... e poi Charlie, sorridendo, solleva una creatura minuscola e rossastra, che emette uno strillo acuto.
La nostra bambina.
«Vuoi tagliare il cordone ombelicale?» mi propone Charlie, ma, vedendomi impallidire quasi al punto da svenire, decide di lasciare che se ne occupi l'ostetrica.
Poi allunga a Vanessa, che si sta asciugando le lacrime dal viso, la bambina, avvolta in un piccolo asciugamano rosa. Ness allunga le braccia, tremando leggermente, e Charlotte le lascia la creaturina, che smette di piangere.
Gli occhi di Vanessa cercano i miei, e guardiamo insieme quella cosina minuscola e così tremendamente vera, adesso. È qui, è qui davvero, ed è semplicemente...
«Bellissima» sussurro, quasi senza rendermene conto, mentre sfioro, quasi con timore, una delle manine tiepide della bambina.
Vanessa sorride, radiosa nonostante la stanchezza.
«Lo so» dice, «Ha preso tutto da me.»
Poi ride, e ci ritroviamo di nuovo incantati ad ammirare nostra figlia.
Nostra figlia.
«Hai pensato a come chiamarla?» chiedo piano a Vanessa.
«Dawn» risponde, sicura.
«Dawn» ripeto, assaporando il nome. «Alba. Sì, mi piace. È perfetto.»
«Vorresti aggiungere qualcosa? Un secondo nome?» mi domanda Vanessa dopo una breve esitazione.
So che è una grande responsabilità. Ci penso per un momento.
«Emma» rispondo. «Come mia nonna. Ti piace?»
«Dawn Emma Gray» mormora Vanessa. «Sì, è davvero perfetto.»
Spalanco gli occhi. Non pensavo che avrebbe deciso di darle il mio cognome, dopo il litigio. Anche se ora sembra passata un'eternità, e fatico persino a ricordarmi perchè avevamo litigato. Tutto ciò che è successo prima della nascita della bambina -di Dawn- ha perso d'importanza.
Guardo Vanessa e mi chino per baciarla delicatamente sulle labbra.
«Ti amo» sussurro. «Mi dispiace per tutto quello che ho fatto. Sappi che però non potrei mai, mai pentirmi di noi due... tutto ci ha portati a questo momento, a questa bambina.»
«Ti amo anch'io. Non potrei chiedere un padre migliore per lei.»
Charlotte rientra e ci interrompe, scusandosi, per fare alla bambina i primi test e accertarsi che sia tutto a posto. E nessuno si stupisce troppo quando, innervosita dal cambio di posizione, Dawn emette uno strillo di disapprovazione e dà a Charlotte una leggera scossa elettrica.
«Oh, è tutta suo padre» commenta Charlie, divertita.
«Bellissima?»
«In realtà intendevo dire qualcos'altro, ma se preferisci pensarla così...»
Charlotte esce con la bambina e l'ostetrica mi caccia via dalla stanza, borbottando parole spaventose come placenta: sento di non dover ascoltare altro.
Faccio l'occhiolino a Vanessa ed esco. Poco prima di ritrovarmi in corridoio, mi rendo conto di una cosa.
In qualche momento tra la nascita di Dawn e il mio bacio con Vanessa, Lily dev'essersene andata.
E io non me ne sono neanche accorto.
Per un istante mi preoccupo per lei, ma poi mi ritrovo assalito da Jon, Damien e Arthur, che si informano sulla bimba e sulla mamma, e tutto il resto mi passa di mente.
Dopotutto, sono appena diventato padre. |
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Capitolo 23 *** Run ***
Note: come potrete notare quando sarete arrivati alla fine, il capitolo e la storia si concludono con quello che era il prologo.
Seguirà ancora un epilogo, tra breve, che spiegherà anche tutto ciò che in questo capitolo non è stato chiarito. E a seguire, la one-shot promessa.
A presto!
~RUN~
[Jonathan]
Io e Charlotte partiamo non appena lei si è fatta dare un'occhiata.
Sapere che è stata picchiata è stato un colpo tremendo, mi sono sentito in colpa per non aver deciso di andare via con lei... poi, però, ho pensato che, se l'avessi fatto, forse gli altri non sarebbero riusciti a compiere un salvataggio come quello che io e Blake abbiamo messo in piedi (con grande stile, oserei dire).
In ogni caso, ora siamo pronti per farci ricevere dal Presidente degli Stati Uniti.
Il viaggio in taxi procede nel silenzio più assoluto; siamo immersi nei nostri pensieri.
I miei occhi, ogni tanto, guizzano verso Charlotte. Non posso fare a meno di ricordare il momento in cui sono entrato nella sua cella e lei mi ha gettato le braccia al collo: ero così sollevato, così incredibilmente felice di rivederla che, per un momento, ho dimenticato tutto il resto.
Eppure...
Eppure, adesso, questo ricordo passa in secondo piano; prepotente, se ne riaffaccia un altro.
«Ho litigato con Arthur. Continuava ad incolpare me e poi … Eravamo sconvolti...»
Stringo istintivamente i pugni al ricordo. Ero così furioso...
Dopo la morte di Jack, tutto sembrava aver perso di significato.
Charlotte e gli altri mi ripetevano che io non avevo colpe, ma ho sempre saputo che era esattamente il contrario.
Dio, se ripenso alla telefonata con mia madre...
Un nodo mi stringe di nuovo la gola, perciò cerco di allontanare il pensiero dalla mente.
Quando almeno qualcosa, per quanto piccolo e di minima importanza rispetto all'enormità della morte di Jack, sembrava essere tornato al suo posto -Charlotte tra le mie braccia, finalmente- anche quello mi è stato bruscamente sottratto.
«Jon?»
La voce di Charlotte mi richiama alla realtà. Alzo gli occhi.
«Sì?»
«Mi dispiace. Per tutto.»
La osservo per un istante, quindi annuisco lentamente. Non ho la forza, né il coraggio, di dire nulla.
Il taxi si ferma a pochi metri dalla Casa Bianca. Io e Charlotte, dopo aver pagato, scendiamo e ci avviamo verso l'ingresso.
Dobbiamo informare il Presidente che i terroristi stanno pianificando un attentato che avrà luogo tra poche ore, con lo scopo di impadronirsi della formula che darebbe a tutti l'accesso ai superpoteri.
Insomma, routine quotidiana.
Siamo quasi arrivati, quando qualcuno ci chiama per nome.
Ci voltiamo, ma abbiamo riconosciuto entrambi il tono freddo, che ci è fin troppo famigliare.
Ivan Vahel.
[Damien]
Arthur si sta facendo medicare le ustioni. I medici mi hanno impedito di restare nella sua stanza, perciò ho deciso di fare un giro a trovare Vanessa, che però stava dormendo.
Allora ho fatto due passi nel reparto maternità, e ora eccomi qui davanti alla nursery. I miei occhi indugiano sulla targhetta identificativa di uno dei lettini: Dawn Emma Gray.
È minuscola e avvolta in una copertina rosa; dorme con le manine strette a pugno.
Sono semplicemente esausto. Il dolore delle percosse che ho subito non è ancora sparito, nonostante gli antidolorifici che mi hanno somministrato al pronto soccorso. Ho bisogno di riposare.
Do la colpa alla stanchezza per i pensieri strani che mi aleggiano nella mente.
Guardando Dawn, infatti, una parte di me si rende conto che io non proverò mai questa esperienza -diventare padre- con la persona che amo. C'è una certa tristezza di fondo, in questo, qualcosa che non riesco bene ad afferrare.
«Damien?»
Mi riscuoto e mi volto. Arthur è comparso alle mie spalle, tanto inaspettatamente che per un istante penso si sia teletrasportato -ma poi mi ricordo che non può più farlo, perchè per salvarmi la vita ha perso i suoi poteri.
«Ehi. Tutto a posto?»
«Sì... a parte il terzo grado che ho subito. I medici volevano sapere come mi ero procurato quelle ustioni, e la spiegazione “sono stato rapito da una banda di terroristi” non li ha convinti.»
Sorrido.
«Sì, posso immaginarlo.»
Art mi raggiunge e, senza pensarci, mi stringe in un abbraccio. Colto di sorpresa, ricambio la stretta. Gesti di affetto in pubblico non sono la norma, per lui, perciò mi preoccupo un po'. Ma lui parla prima che io possa chiedergli quale sia il problema.
«Ho avuto paura per te» sussurra sulla mia spalla. «Quando eravamo in quella cella... prima ero spaventato per me, quando hanno usato quell'attizzatoio. Poi, quando hanno preso te...» Si interrompe, la sua stretta aumenta. «Avrei voluto parlare. Se avessero continuato ancora, penso che lo avrei fatto. Non potevo rischiare di nuovo di perderti.»
Resto in silenzio per un momento, cercando le parole giuste per rispondere.
Vorrei fare un discorso serio, esprimere con esattezza tutto quello che ho provato, il terrore quando ho visto quello che gli avevano fatto, il senso di colpa quando ho capito che aveva perso i poteri per me... eppure non riesco a dire nulla di tutto questo.
Le parole giuste che riesco a dire sono solo due.
«Ti amo» mormoro, ancora stretto a lui.
Arthur sorride debolmente e si allontana un po', solo per riuscire a posare le labbra sulle mie, piano.
«Ti amo anch'io» replica in un soffio.
Poi mi bacia e perdo la cognizione del tempo, almeno finché qualcosa non mi distrae.
Davanti ai miei occhi, superate le barriere che ho eretto nella mia mente, si staglia una visione chiarissima.
Vedo tre volti che conosco. Due sono apparentemente privi di sensi: Jonathan e Charlotte. Un terzo, invece, li osserva con un certo compiacimento prima di allontanarsi rapidamente.
Sussulto e mi allontano da Arthur.
«Oh, no» gemo. «Chiama Blake. Dobbiamo andare.»
[Arthur]
Io, Damien e Blake saltiamo su un taxi fuori dall'ospedale a velocità supersonica.
«Sei sicuro che siano lì?» chiede Blake, teso.
«Sì. Ho riconosciuto i pavimenti e la tinta alle pareti. Sono alla Casa Bianca» replica Damien.
«Privi di sensi?»
«Sì.»
«E con loro c'era Vahel?»
«Blake, ripeterlo non aiuta.»
«Scusa. Continuo a non capire... mi sfugge qualcosa.»
«In realtà è piuttosto ovvio» ribatto, gli occhi chiusi, i palmi premuti sulle palpebre, combattendo la sensazione di intorpidimento causata dai farmaci antidolorifici.
«Illuminaci, allora» sbuffa Blake, piccato.
«Vahel è d'accordo con i terroristi, giusto? Ma il Presidente crede che sia dalla sua parte.»
«E quindi?»
«Quindi deve aver impedito -o impedirà, a seconda di quando si verifica la visione di Damien- a Charlotte e Jonathan di avvertire il Presidente dell'imminente attacco terroristico. Il fatto che loro siano alla Casa Bianca significa probabilmente che Vahel deve aver incolpato loro, anzi, noi di qualcosa. Sai cosa? Credo che abbia detto al Presidente che noi mutanti stavamo organizzando un attentato contro di lui.»
«Ma... quindi l'attentato avverrà?»
«Sì, a meno che non riusciamo a contattare il Presidente e a convincerlo ad avvertire la CIA... O almeno ad evacuare la Casa Bianca.»
«E se l'attentato riuscisse» conclude Damien, comprendendo le conseguenze, «Ne verremmo incolpati noi, non di certo Vahel.»
«Già. Un buon piano, eh?»
Il taxi si ferma ad un paio di isolati dalla Casa Bianca. Paghiamo e scendiamo.
Scommetto che Vahel ha spie ovunque; ci individuerà con facilità estrema. Se solo ci fosse Vanessa, con la sua invisibiltà... o se io potessi ancora teletrasportarmi...
Mentre discutiamo sul da farsi -spostandoci verso l'isolato successivo per non dare nell'occhio- mi viene un'idea improvvisa.
Spalanco gli occhi.
«Damien!» esclamo.
Lui alza gli occhi.
«Cosa?»
«Stavo pensando... ti abbiamo impiantato i miei poteri, giusto? Per farti guarire.»
«Sì, e allora?»
«Quando i poteri sono stati trapiantati a Lily, lei li ha potuti usare.»
Damien tace per un istante, processando l'informazione, quindi scuote la testa.
«Io non sono invulnerabile» replica. «Hai visto cos'hanno fatto i terroristi. Probabilmente ho consumato tutto il potere che mi hai trasmesso per guarire.»
«Oh.»
Mi sgonfio, realizzando che ha ragione. Una possibilità andata in fumo.
«Forse potremmo entrare con...» comincia Damien, ma viene interrotto da una voce famigliare.
Quando ci voltiamo di scatto, è già troppo tardi.
Il proiettile schizza verso di me e mi colpisce al collo. Capisco subito di cosa si tratta: è un ago, probabilmente carico di Pentothal.
Vahel deve avermi colpito per primo ritenendomi il più pericoloso. Per un istante quasi mi aspetto di sentire gli ormai noti effetti collaterali, ma realizzo in fretta che non succederà proprio nulla. Non ho più poteri da neutralizzare.
Nel frattempo, Vahel ha sparato in direzione di Blake, ma questi ha schivato il proiettile e sta tentando di centrare l'avversario con una scarica di energia.
«Occhio a destra, Blake!» urla Damien, concentrato sul prevedere l'immediato futuro, e impedisce nuovamente a Vahel di centrare il bersaglio.
Damien mi fa un cenno eloquente e capisco subito cosa dovrei fare. Esito per un istante, quindi mi lancio di corsa verso la Casa Bianca.
[Blake]
Quando finalmente, grazie all'aiuto di Damien, riesco a centrare Vahel con una scarica di energia degna di questo nome, lui salta in aria e atterra qualche metro più in là, sul marciapiede, privo di sensi.
«Andiamo» dico a Damien, seguendo il percorso intrapreso poco prima da Arthur.
Per entrare nella Casa Bianca devo far saltare in aria altre cinque guardie.
Mi rendo conto che questo farà una pessima impressione sul Presidente, e che le possibilità che creda a quello che gli racconteremo sono praticamente nulle... ma almeno avremo fatto tutto il possibile per avvisarlo.
In fondo, sono più di tre anni che lotto per salvare il Presidente, sia egli quello precedente o quello attuale, e non mi darò per vinto ora.
Anche se gli spari mettono a dura prova questa convinzione.
«Codice rosso! Codice rosso! Attacco all'interno!»
«Beh, se il nostro obiettivo era di far evacuare la Casa Bianca, credo che ci siamo riusciti, Blake» commenta Damien, senza fiato, correndo accanto a me.
Mi sfugge un sorriso esausto, ma in effetti ha ragione.
Acceleriamo, mentre faccio saltare le guardie che si mettono in mezzo con tutta l'energia che mi resta. Fatico a sentirmi le gambe, ormai, tanto sono stanco, ma è necessario arrivare allo Studio Ovale.
Gli spari risuonano sempre più forti, sempre più vicini, e il mio cuore martella all'impazzata.
Manca così poco, così poco...
Poi sento l'urlo soffocato.
Subito non ci faccio troppo caso, ma mi accorgo che Damien si ferma immediatamente.
Al primo segue un altro urlo, stavolta femminile e distintamente riconoscibile.
Charlotte.
Io e Damien ripartiamo di corsa. Li vediamo nel corridoio successivo.
Jonathan è in forma di felino bianco -una delle sue preferite, penso stupidamente- e ringhia con ferocia, le zanne insanguinate scoperte in un chiarissimo gesto di minaccia.
Le guardie si stanno avvicinando, ma anche loro temono la furia del predatore infuriato.
Charlotte è inginocchiata a terra, le mani sporche di sangue, il respiro affannoso. Per un istante penso che dev'essere ferita -ma poi mi sposto di un passo verso di loro e vedo.
E capisco.
Sento il grido straziato di Damien, che mi supera di corsa e si butta a terra accanto a Charlotte.
«No» lo sento ansimare.
Charlotte mormora qualcosa, la voce rotta, ma non la sto ascoltando.
Osservo le guardie che si fanno sempre più vicine, le pistole cariche e pronte a far fuoco. Mi affianco a Jonathan e allungo le mani, pronto ad impedire loro di fare altro male, ma so che abbiamo ben poche possibilità. Almeno finché il corridoio non prende fuoco.
Lily.
Lei si fa largo tra le fiamme come se niente fosse, mentre le guardie indietreggiano gridando.
Prende atto della scena con gli occhi stretti e si morde il labbro inferiore con forza. Mi guarda.
«Lo Studio Ovale è alle vostre spalle. Tra poco le guardie spegneranno l'incendio» dice, cercando evidentemente di far sì che la sua voce non si spezzi.
So che l'immagine che abbiamo davanti agli occhi ci resterà impressa a fuoco nella mente per lungo tempo. Sono esausto, e il dolore che provo brucia nelle mie vene come l'incendio che divampa a pochi metri da noi.
Arthur è disteso a terra, gli occhi sbarrati, una pallottola nel petto.
Charlotte piange, Damien è pietrificato e Lily mi offre una possibilità.
Capisco ciò che quel gesto sottintende.
Facciamo in modo che non sia invano.
Vorrei poter piangere. Vorrei poter cadere in ginocchio e crollare. Vorrei averne il tempo. Ma l’orologio scandisce i secondi inesorabilmente, e di tempo non ne abbiamo più. E allora sono io, ancora una volta, a prendere il comando e a riscuotere gli altri. Non c’è più nulla che possiamo fare, qui, ma poco lontano il nostro intervento potrebbe salvare un’altra persona. Salvare il nostro Paese. So che capiranno. So che lui capisce, quando si alza e si asciuga le lacrime dal viso, e annuisce appena. E allora corriamo –veloci come la luce, veloci come la morte, perché il nostro futuro dipende da questo. Anche se adesso è difficile pensare che possa esistere un futuro, una casa in cui tornare se mai tutto questo potrà finire. Alla fine, sono stanco anch’io.
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Capitolo 24 *** Even heroes ***
Eccomi qui a postare l'epilogo di questa storia.
Che dire? Queen Victoria's College è stato un lungo percorso per me, durato oltre un anno e mezzo. La soddisfazione nel postare l'ultimo capitolo è pari solo alla malinconia che mi lascia in bocca. Forse è per questo che non sono riuscita a dare al tutto una conclusione positiva come era inizialmente nelle mie intenzioni.
Comunque sia, spero che questo epilogo vi piaccia tanto quanto è piaciuto a me scriverlo, e se è troppo amaro perdonatemi, ma è venuto fuori così!
Vorrei concludere con un grazie a tutti coloro che hanno continuato fedelmente a leggere e, soprattutto, a recensire.
Un ringraziamento speciale, perciò, a Felix White, il mio recensore più fedele in assoluto; a Yellow Daffodil; a Il Saggio Trent; a Priscilla.
Come promesso, posterò presto una one-shot a rating rosso su Arthur e Damien; a parte ciò, questa è davvero la fine della storia. Credo che i miei personaggi abbiano detto più o meno tutto quello che avevano da dire. Con ciò non escludo una possibile aggiunta di one-shot o di missing moments, però! Vedremo.
Ancora grazie a tutti voi!
adamantina
P.S.: Titolo e citazione iniziale, come al solito, sono presi dalla canzone “Superman” dei Five for Fighting.
~EVEN HEROES~
“Even heroes have the right to bleed”
[Vanessa]
Quando la musica comincia, ci voltiamo tutti verso l'ingresso della chiesa.
La marcia nuziale si eleva con solennità. Il mio sguardo corre per un istante a Jonathan, in trepidante attesa all'altare; si ferma per un momento sui suoi testimoni, Blake e Damien; scivola su Lily, qui accanto a me nel ruolo di testimone per la sposa.
Alla fine mi decido ad ammirare Charlotte.
È splendida nel suo abito bianco senza spalline, con un corpetto in raso di seta finemente decorato con cristalli che formano motivi floreali ripresi anche sull'ampia gonna in tulle. I capelli biondi sono raccolti a formare un elegante chignon che regge un lungo velo bianco, il trucco è leggero e appena visibile.
I suoi occhi brillano per la felicità.
La cerimonia comincia e noi ci sediamo. Con una mano, quasi distrattamente, ogni tanto sposto avanti e indietro il passeggino dove dorme Dawn, accoccolata su se stessa sul sedile reclinabile abbassato.
La cerimonia dura a lungo, ma alla fine giungiamo alla parte fondamentale.
Quando sia Jonathan che Charlotte hanno pronunciato le loro promesse e il sacerdote li dichiara ufficialmente sposati, il mio sguardo incrocia per un istante quello di Blake.
Lui mi sorride e mi fa l'occhiolino e io guardo istintivamente la mia mano, dove spicca un anello meraviglioso che ho ricevuto appena la settimana scorsa.
La cerimonia si conclude e ci dirigiamo verso il ristorante.
Gli invitati chiacchierano allegramente tra loro.
La primavera è sbocciata in tutta la sua bellezza e i fiori profumano lo splendido giardino dove si tiene il pranzo.
Sono seduta al tavolo con Blake, Lily e Damien, oltre ad altra gente che non conosco, probabilmente ex compagni di università di Charlotte o magari colleghi di lavoro suoi o di Jonathan.
Parlo soprattutto con Blake, perchè non vedo Lily da oltre sei mesi e francamente non saprei cosa dirle. In quanto a Damien... beh, è un caso a parte.
Quando Dawn si rifiuta di bere dal suo biberon e si mette a strillare, mi trovo costretta ad allontanarmi dal tavolo, cullandola tra le mie braccia per cercare di calmarla.
Percorro il giardino in lungo e in largo, finché lei non smette di singhiozzare.
«Hai proprio un talento naturale» commenta una voce familiare.
Mi volto verso Damien.
«Oh, non ti avevo sentito arrivare.»
Damien mi raggiunge e Dawn, riconoscendolo, inizia ad agitarsi.
«Ciao, Dawnie-bella» la saluta lui con un piccolo sorriso.
«Credo che voglia che lo zio la tenga in braccio» commento, e gliela affido senza troppi rimpianti.
«Accidenti, è cresciuta dall'ultima volta!»
«Si sente, eh?»
Damien annuisce appena mentre torce un braccio per riuscire a metterle in bocca il biberon di latte tiepido. Ci sediamo su una panchina e il silenzio cala impietoso.
«Ci sono novità?» chiedo alla fine, imbarazzata.
«Ieri mi sono trasferito definitivamente da Cape Coral a New York» annuncia. «Inizio il nuovo lavoro lunedì.»
«Bene! Cos'hai trovato, alla fine?»
«È un posto in una piccola stazione TV» replica Damien. Sembra vagamente imbarazzato. «Ehm, hanno visto Mutant Wars, qualche mese fa, e mi hanno contattato per fornirgli...»
Si interrompe, arrossendo, e io intuisco cosa sta cercando di dire.
«Non dirmi che farai le previsioni del tempo?»
Al silenzio rivelatore di Damien, scoppio a ridere senza riuscire a fermarmi. Riesco perfino a strappare una mezza risatina a Damien.
«Si fa quel che si può» annuncia, cercando di suonare serio.
«Beh, almeno vedere il futuro si rivelerà utile» dico, appena prima di riprendere a ridere.
Dopo un po', mi calmo e mi asciugo le lacrime.
«E tu? Novità?» mi chiede Damien.
Esito prima di allungare la mano verso di lui. Damien osserva l'anello e sorride.
«Blake si è deciso, finalmente» osserva. «Sono felice per voi.»
«Sì, è meraviglioso» concordo. «Pare che dovrai fare da testimone un'altra volta.»
Damien annuisce, ma vedo che la luce allegra nei suoi occhi è scomparsa. So che è già tanto che sia riuscita a farlo sorridere in primo luogo.
Damien guarda Dawn che, sazia, si rigira un po' prima di chiudere gli occhi e addormentarsi tra le sue braccia.
«Come stai, Damien? Sul serio, intendo» mormoro quando capisco che il momento delle risate non può continuare oltre.
Lui si stringe nelle spalle, continuando a guardare Dawn.
«Sto bene» replica, rigido. «Non devi preoccuparti per me.»
«Io mi preoccuperò sempre per te, Dam.»
«Non ne vale la pena. Dovresti pensare a tua figlia e al tuo futuro marito. Loro hanno bisogno che tu ti preoccupi per loro.»
«Anche tu ne hai bisogno.»
«No, non è vero.»
Rinuncio ad insistere. Damien depone Dawn di nuovo tra le mie braccia e si alza in piedi.
«Rinnova le mie congratulazioni a Charlotte e Jonathan» dice.
«Damien...»
«Ci sentiamo stasera» dice lui, quindi si allontana.
Rimango da sola e lotto per scacciare la tristezza che mi ha pervasa all'improvviso, quasi inspiegabile.
Osservo il visetto rilassato della mia bambina e mi sforzo di tornare a sorridere, quindi mi alzo e torno verso la festa, pensando con una certa impazienza che il prossimo matrimonio, finalmente, sarà il mio.
[Lily]
Il pranzo è finito e gli invitati stanno ballando, oppure chiacchierando a piccoli gruppi. Io, com'era prevedibile, sono rimasta sola.
Non che questo mi abbia mai fermata: infatti mi avvicino alla pista da ballo e ben presto catturo l'attenzione di un bel ragazzo con i capelli scuri che mi invita a ballare.
Il vino che ho bevuto mi fa girare un po' la testa, ma mi diverto, rido, chiacchiero con questo sconosciuto carino che, deduco da come mi guarda, è stato attirato più che altro dalla scollatura abbastanza profonda del mio vestito rosso. Beh, poco male.
Dopo qualche minuto, una mano mi si posa sulla spalla. Mi volto per vedere un volto conosciuto.
«Posso avere questo ballo, signorina?» mi propone allegramente Blake.
Per un momento penso di rispondergli di no, poi alzo le spalle e annuisco.
La musica è lenta e tranquilla e Blake mi mette le mani sulla vita. Con un ghigno, gliele sposto dove dovrebbero stare.
«Pare che tu non sia un grande ballerino, Gray» lo schernisco.
«Devo parlarti, Lily» dice lui, serio.
Sospiro.
«Che meraviglia» commento, sarcastica.
Blake mi osserva con attenzione.
«Io e Vanessa ci sposeremo presto» mi annuncia alla fine.
Sollevo un sopracciglio.
«Congratulazioni» replico, atona. Blake tace. «Beh, è tutto qui quello che volevi dirmi?»
«Lily...» Blake si morde il labbro inferiore prima di continuare. «So che l'ultima volta che abbiamo parlato sul serio ti sei scusata. Però io ci ho pensato e... credo che tu non fossi l'unica a doverlo fare.»
Inclino leggermente la testa.
«Ah, è così?» il mio tono è un po' più acido di quanto vorrei, ma Blake sembra non farci caso.
«Sì. Insomma, è vero che anche tu avevi la tua parte di colpa... ma io non mi sono comportato correttamente. Né nei tuoi confronti, né in quelli di Vanessa. Volevo chiederti scusa per questo.» Fa una breve pausa. «Da una parte, vorrei che le cose fossero andate diversamente. Credo che avremmo potuto sistemare il casino successo dopo che sei andata via con Vahel... ma d'altra parte, tutta quella serie di eventi ha portato alla nascita di Dawn, che è la cosa migliore che mi sia mai capitata.»
Annuisco, rigida.
«Sì, lo capisco, e... va bene così, Blake. Quel che è stato è stato.»
Lui sorride, apparentemente sollevato.
«Bene. Sono contento che abbiamo chiarito questa cosa. Ma quello che volevo chiederti era un'altra cosa... Damien sarà il padrino di battesimo di Dawn. Ti piacerebbe essere la sua madrina?»
I miei occhi si spalancano.
«Dici sul serio? E... Vanessa è d'accordo?»
«Certo. Lo ha proposto lei.»
Sorrido sinceramente per la prima volta da tanto tempo.
«Sarà un piacere per me.»
[Charlotte]
Gli invitati ci salutano e, un po' alla volta, iniziano ad andare via.
Sorrido e ricambio i saluti, accetto con un grazie le congratulazioni.
Alla fine restiamo solo io e Jon. Mio marito.
Dio, è ancora così difficile da credere.
Dopo tutto quello che è successo, il dolore che abbiamo provato, gli sbagli che abbiamo fatto, gli anni in cui siamo stati separati, alla fine ce l'abbiamo fatta. Siamo sposati.
Mi sfugge un sorriso e Jon lo ricambia.
«Sei felice?» mi chiede.
Gli allaccio le braccia al collo e appoggio la fronte contro la sua.
«Come mai prima d'ora.»
[Damien]
L'aereo è in volo da pochi minuti, appena decollato da Baltimora e diretto verso New York. È notte inoltrata, sono quasi le due, ma di dormire non se ne parla affatto. D'altra parte, ultimamente non riesco a chiudere occhio se non prendo qualche sonnifero.
Le mie dita tamburellano leggermente sul vetro del finestrino. Fuori non si vede nulla -nè nuvole, né stelle.
Il silenzio è quasi totale, eccezion fatta per la musica che giunge attutita dagli auricolari della ragazza che dorme sul sedile accanto al mio.
Mi sfugge un sospiro.
Odio questo silenzio. Lascia troppo spazio alla mia mente e le permette di vagare tra pensieri e ricordi, la cosa peggiore che potrebbe fare.
Eppure... c'è una strana, stupida, malinconica dolcezza nel chiudere gli occhi e abbandonarsi a ricordi dolceamari che, lo so già, mi faranno stare peggio più tardi.
Ma non riesco ad impedirmelo.
Ricordo...
La prima volta che ci siamo visti, il primo giorno di scuola al Queen Victoria's College, a soli dieci anni di età. Io ero nervoso, teso, già affetto da una bruciante nostalgia di casa; lui vagamente annoiato e infastidito.
La prima volta che abbiamo parlato, quella sera stessa. Le presentazioni formali e un po' imbarazzate, le dimostrazioni, di nascosto dagli insegnanti, dei nostri poteri. La sua risatina di disprezzo quando Charlotte ha recitato un intero brano della Divina Commedia a memoria, in lingua originale; il suo sguardo interessato quando ho affermato di vedere nel futuro.
La prima volta che abbiamo riso insieme, per uno scherzo abbastanza stupido ai danni di Vanessa che l'aveva lasciata a strillare contro di noi, i capelli impiastricciati di miele e farina, per almeno due ore.
La prima volta che abbiamo parlato seriamente, mi ha descritto il suo futuro nei minimi particolari. Se ne sarebbe andato dal Queen Victoria's College, naturalmente, e, anche se non sapeva ancora dove sarebbe andato di preciso, sicuramente avrebbe usato il suo potere a fin di bene. Sarebbe diventato anche famoso, magari -o forse avrebbe avuto un'identità segreta, chissà?- e, tra l'altro, avrebbe guadagnato un sacco di soldi.
E in tutto questo, io sarei stato lì con lui.
La prima volta che mi ha detto che ero il suo migliore amico, quando avevamo forse tredici anni. Gli era appena arrivata una telefonata da parte dei suoi genitori che lo informava che non sarebbero potuti venirlo a prendere quell'estate, perchè avevano organizzato una vacanza in Europa con degli amici, e che perciò avrebbe dovuto passare l'estate al Queen Victoria's. Art è salito in camera, ha afferrato il costoso portatile che i suoi gli avevano regalato per il compleanno e lo ha scagliato contro il muro, furioso. Io l'ho raggiunto e ho aspettato in silenzio che la rabbia sbollisse, senza fare nulla per impedirgli di distruggere la stanza.
Alla fine, quando si è calmato e si è lasciato scivolare per terra, con il respiro ancora affannoso, mi sono seduto accanto a lui e gli ho proposto di passare l'estate da me.
Mi ha guardato con gli occhi spalancati.
Grazie, Dam. Sei il mio migliore amico.
La prima volta che sono stato geloso di lui avevamo quattordici anni. Era un pomeriggio come tutti gli altri, in cui avrei dovuto studiare ma non avevo voglia di farlo, il sole primaverile che mi distoglieva da ogni ottimo proposito. Avevo deciso di cercare Art per convincerlo a fare un giro in giardino, o magari a teletrasportarsi in città e portare qui qualche nuovo gioco in scatola. Però, quando sono uscito dalla scuola, l'ho visto su una panchina dietro ad un albero, in giardino, intento a baciare Lily.
Non avevo idea della ragione per cui mi avesse dato tanto fastidio; fatto sta che era stato il primo segnale d'allarme. Poi le cose erano precipitate.
La prima volta che ho capito di essere innamorato di lui è stato poche settimane più tardi. Non è successo nessun episodio particolare -niente di straordinario, insomma. Semplicemente, eravamo seduti in riva al laghetto nel giardino della scuola, lanciando pezzi di pane ai pesci e osservando come risalivano in superficie per afferrarli. Era quasi estate, mancava poco alle vacanze. Ho alzato gli occhi su Art, che mi stava raccontando con entusiasmo di come avesse battuto Blake a calcetto la sera prima, e il sole gli illuminava i capelli neri, e sorrideva in un modo che, non so come né perchè, mi ha semplicemente tolto il fiato.
Sono innamorato di lui, ho realizzato in un misto di stupore e shock.
Poi, quando lui mi ha lanciato un pezzo di pane e mi ha accusato di non aver ascoltato una parola di quello che aveva detto, sono tornato in me. Ma quella sensazione non se n'è mai più andata.
La prima volta che ci siamo detti addio avevamo quindici anni. Art aveva elaborato il suo piano già da settimane, ma non pensavo che l'avrebbe veramente messo in pratica. Poi, un pomeriggio, mi ha preso da parte; siamo usciti in giardino, abbiamo camminato in silenzio per un po'... e alla fine me l'ha detto. Parto domani.
Ho lasciato che mi spiegasse che non resisteva più, che il Queen Victoria's era diventato una prigione, che a Las Vegas lo aspettavano fama e soldi e successo e ragazze, che avrebbe davvero voluto che io potessi andare con lui, ma che non poteva teletrasportare altre persone con sé e che comunque mi avrebbe aspettato.
Ho risposto con frasi di circostanza.
Fai quello che devi fare.
Lo capisco.
Non voglio esserti d'intralcio.
Alla fine è sceso il silenzio.
Mi mancherai, ha aggiunto alla fine, come per un ripensamento.
Io avevo risposto anche tu e mi ero tenuto in gola parole d'amore e di sofferenza che non avevano voluto lasciare la mia bocca.
Portami con te.
Non andartene.
Ti amo.
La prima volta che l'ho rivisto, tre anni dopo, eravamo in un casinò di Las Vegas. Mi ha squadrato attraverso un tavolo da poker e ha giocato sporco. L'ho battuto nascondendo le mie carte e giocando d'astuzia e di fortuna; ho cercato di ingannarlo senza credere davvero che avrebbe potuto funzionare. La mia gola si è chiusa quando ho visto l'espressione dura nei suoi occhi. Mi ha iniettato il Pentothal senza sapere cosa fosse... non gli ho mai chiesto se pensasse che si trattava di un veleno mortale. Ha creduto, almeno per un momento, che io avessi davvero intenzione di ucciderlo?
La prima volta che ci siamo baciati, mi aveva appena torturato con un coltello ben affilato. La mia testa girava per la perdita di sangue, e lui era così vicino e così bello e così pungente. Gli ho confessato quello che voleva sapere e l'ho convinto che la cosa giusta da fare era consegnarsi all'Area 51. Bene, allora. Puoi anche prendermi prigioniero, se vuoi.
E poi, l'impulso -stupido, forse; dettato dalla stanchezza, dal dolore e dal sollievo- di allungarmi e posare le labbra sulle sue.
Una breve esitazione... e poi ha risposto. E la sua espressione sconcertata quando alla fine si è allontanato...
Era lui che mi aveva preso prigioniero, solo che nessuno di noi due ancora lo sapeva.
La prima volta che abbiamo fatto l'amore, eravamo nel nostro appartamento a Cape Coral. Eravamo tesi, imbarazzati, eppure ci siamo cercati e abbiamo imparato a conoscerci anche sotto quell'aspetto.
Ti amo.
Le parole trattenute tanto a lungo che finalmente siamo stati liberi di dire.
Ti amo...
La prima volta che mi sono sentito male, Art ci ha teletrasportati entrambi all'ospedale. Era più spaventato di me, probabilmente.
Sono stato ricoverato e sottoposto ad una serie di esami. Uno di questi era particolarmente invasivo; l'infermiera gli ha detto che, se avesse voluto, avrebbe potuto restare accanto a suo fratello. E Art le ha risposto Non è mio fratello, è il mio ragazzo, e io, nonostante quell'esame fastidioso, mi sono sentito la persona più fortunata del mondo.
La prima volta che ho visto Art piangere è stata anche l'unica, ed è avvenuto quando Charlotte ci ha comunicato che avevo l'AIDS. Mentre io cercavo di elaborare quella parola, mentre cercavo un significato in tutto quello che mi stava succedendo senza che avessi la possibilità di impedirlo, ho visto le lacrime che Arthur lottava per scacciare. Si è voltato per far sì che non lo vedessi. Le mie mani si sono posate sulle sue spalle.
Farò qualunque cosa...qualunque, hai capito?
Ha mantenuto la promessa.
La prima volta che abbiamo litigato su qualcosa di veramente serio è stato al ritorno di Art dal Queen Victoria's, dove era stato per farsi prelevare i poteri da Vahel. Io avevo deciso di non prendere più medicine e lui non riusciva ad accettarlo; voleva far ripetere il prelievo a Charlotte, ma io mi sono rifiutato.
Non puoi impedirmi di farlo.
Posso rifiutarmi di accettare.
La prima volta che Art mi ha tradito è stata del tutto inaspettata.
Charlotte.
Se ci penso, ancora fatico a crederci.
Stavo così male... Lei ha detto che saresti morto comunque -avrei voluto ucciderla.
Il mio tentativo di sminuire il tutto, di non farlo stare male. Eppure, il dolore che ho provato quando ho capito che la sua vita sarebbe stata così, d'ora in poi -libera.
Se solo avessi saputo...
L'ultima volta che siamo rimasti soli, Art mi ha parlato sottovoce di quanto avesse avuto paura per me, di come avrebbe parlato con i terroristi pur di non permettere loro di farmi ancora del male.
Io non ho saputo dirgli nulla se non ti amo.
Ti amo.
Le ultime parole che ci siamo detti faccia a faccia.
L'ultima volta che ho sentito la sua voce è stato in un grido che ho riconosciuto immediatamente. Quando ho visto il suo corpo a terra, ormai privo di vita, credo di aver urlato. Non ne sono certo, i ricordi sono confusi.
So che ho cercato di trovare un senso in quello che mi circondava -i suoi occhi spalancati, il sangue ovunque, il battito mancante, le parole di Charlotte- e poi ricordo che Blake mi ha supplicato di alzarmi, di aiutarli a compiere quell'ultima missione, per far sì che Arthur non fosse morto invano.
Da lì in poi, sono solo immagini confuse: la corsa, l'ingresso nello Studio Ovale, le urla del Presidente, l'avvertimento gridato da Blake, l'evacuazione forzata, il nostro arresto (come se fossimo davvero stati noi i criminali) e, infine, l'esplosione avvenuta pochissimi minuti dopo a causa della bomba sganciata dai terroristi.
La Casa Bianca in fiamme e noi fuori, in manette, a guardarla bruciare.
Nessuna vittima, grazie all'evacuazione avvenuta appena in tempo.
Nessuna vittima, se non una: l'hanno definito effetto collaterale.
Un mese dopo hanno assegnato a tutti noi una medaglia al valore per il servizio reso al Paese.
Quella di Art l'ho gettata in faccia al Presidente prima di andarmene.
Solo un effetto collaterale.
Le mie dita scivolano via dal finestrino mentre l'aereo atterra con un sussulto all'aeroporto di New York.
Quando mi alzo in piedi, le mie gambe sono incerte.
Mi aspetta il mio nuovo appartamento: una casa vuota, senza ricordi, senza vestiti non miei nell'armadio.
Salgo su un taxi e lascio che tutto ciò che è successo resti alle mie spalle, per quanto è possibile. Baltimora, il matrimonio, il Presidente, Vanessa, Blake, Jonathan, Charlotte, Lily, Arthur.
Un passato che un giorno non sarà che un ricordo fumoso, ma che adesso brucia ancora, come la Casa Bianca in fiamme, quel giorno, contro il cielo scuro.
Il Queen Victoria's College svanisce in silenzio alle mie spalle, senza più alunni, schiavi o supereroi da addestrare.
Quello che il Queen Victoria's ci ha insegnato, alla fine, è il prezzo che paga chi tenta di essere un eroe.
Tutto quello che resta, alla fine, è una medaglia al valore che riposa su una pila di vestiti da buttare.
~THE END~
*Ultima noticina*: In caso interessasse a qualcuno, l'abito da sposa di Charlotte è questo: http://i45.tinypic.com/5b2nb7.jpg
Bye bye... e ancora grazie <3
adamantina |
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