La tristezza dei diamanti

di planet
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Perdere l'amore ***
Capitolo 2: *** 241995 ***
Capitolo 3: *** Al fresco è meglio che al freddo ***
Capitolo 4: *** Amore alias follia ***



Capitolo 1
*** Perdere l'amore ***


Perdere l’amore

Piove, anche il cielo piange la tua morte. Pioveva anche quando hai dato il tuo ultimo respiro. Due macchine, l’asfalto bagnato, un bicchiere di troppo e tutto è finito, tutto è svanito dopo l’uscita di quella galleria. Nessuno dovrebbe morire a ventuno anni, hai appena intrapreso l’arduo cammino che è la vita: il vero e primo grande amore, problemi, sofferenze ma anche gioie e soddisfazioni. Ora è troppo tardi, tardi perfino per fare congetture su ciò che hai provato, o anche solo sull’ultima cosa, parola o suono che la tua mente ha registrato. Una voce aspra, roca e monotona mi richiama alla realtà, il prete continua nella sua omelia senza dar segno di dispiacersi per la giovane vita che secondo lui il Signore ha chiamato ha sé. Io sono in disaccordo con quanto afferma quell’uomo ammantato di bianco e viola, non è Dio che ti ha tolto la vita, ma quell’assassino al volante della Ford che ti ha tagliato la strada. Lui non è morto, no, lui si è salvato. Mi è impossibile capire il perché tu sia morta e lui no, ti ha spezzato le ali, ti ha tolto il respiro, eppure lui è vivo, spontaneamente sorge una sola domanda: secondo quale giustizia?
I tuoi genitori sono straziati nell’anima e nel fisico, come deve essere doloroso perdere una figlia. Tuo padre, con gli occhi lucidi e le guance bagnate, sorregge sua moglie che austera e orgogliosa non lascia trasparire l’oceano di dolore che la pervade. Questa visione mi lacera nel profondo. Ad un tratto, un rumore, o per meglio dire, una canzone esplode nell’atmosfera di dolore di quel triste e piovoso pomeriggio di Febbraio. Una persona, evidentemente, ha dimenticato di spegnere il telefonino, e forse per vergogna o per paura che in paese si dica male di lui non lo spegne, permettendo così alle note di quella melodia di trafiggerci il cuore. La canzone è “Perdere l’amore” di Massimo Ranieri, ai tuoi genitori sarà sembrato surreale, e di sicuro ha contribuito ad aumentare l’emozione che regnava in noi. La melodia ci avvolge in una nebbia di tristezza, tutte le parole, che magari avevano un altro significato in origine, sembravano adattarsi perfettamente alla situazione. L’acuto-stilettata arriva prima del previsto.
 
Perdere l’amore
 
Tuo padre e tua madre avevano perso la persona che più avevano amato al mondo, la persona per la quale avrebbero dato tutto, anche la vita se necessario. Ciò che rimane della donna che una volta chiamavi mamma crollerebbe se non fosse per la presa vigorosa dell’uomo accanto a lei. Tuo padre si copre gli occhi con la mano callosa, cerca di nascondere le lacrime che scendono copiose, ma lentamente, quella stessa mano cade nel vuoto. E’ esausto, troppo stanco anche per nascondere ciò che prova.
 
Quando si fa sera 
 
Questa frase nella canzone è una metafora, penso riguardi la vita, e la sera è intesa come la vecchiaia, ma al tuo funerale non c’è spazio per inutili metafore. Tu sei morta di sera, i tuoi genitori ti hanno persa di sera, è questo il senso che diamo a quella frase.
 
Quando un po’ di argento i capelli li colora
 
L’argento, introverso e timido, è comparso da tempo sui capelli di tuo padre, mentre tua madre ha preferito celarlo dietro la tinta, che pure ne lascia intravedere un po’.
 
Rischi di impazzire
 
Pazzi di dolore, ecco cosa siamo in questo momento. Si può impazzire per il troppo dolore? Osservando i lineamenti dei tuoi cari la risposta è certa e repentina, si. E’ difficile guarire dal dolore, è un morbo senza cura, si dice che il tempo riesca a lenire anche le peggiori ferite, ma è davvero un medicinale così portentoso?
Può scoppiarti il cuore
 
Il cuore dei tuoi genitori era già scoppiato. Aveva fatto “boom” nello stesso istante in cui il tuo non ha più prodotto alcun rumore. Quell’assassino non ha spezzato solo una vita, ma tre. Ha tolto la vita ad un’ intera famiglia.
 
Perdere l’amore e avere voglia di morire
 
La mano di tua madre sulla bara, la voce poco più di un sussurro.
-Piccola mia, presto ti stringerò di nuovo tra le mie braccia-  

 

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Capitolo 2
*** 241995 ***


241995

La vita non è che un sogno, più ti addentri in essa meno ti apparirà chiara.
 
-Prigioniero 241995! Alzati, è arrivata l’ora di chiudere la tua inutile esistenza!- Disse con disprezzo la guardia, lo odiava, li odiava tutti. Per lui gli errori non dovevano esistere, colui che sbagliava non aveva diritto ad una seconda opportunità, ciò, ovviamente, non valeva per lui. Il cervello del prigioniero si sarebbe fritto da lì a pochi minuti ma questo sembrava solo rallegrarlo. Il prigioniero si alzò dal sudicio letto sul quale aveva dormito per ben tre mesi e si avviò verso le grate. Altre due guardie affiancarono la prima che sorridendo aprì la cella, anche il tintinnio delle chiavi dava un rumore lugubre e triste. In quella situazione quel rumore poteva benissimo essere considerato quello di una campana che suonava l’ultimo rintocco della vita di un uomo. Il prigioniero che si accingeva ad uscire da quella che aveva considerato un po’ come la sua casa, si chiamava Mehemet, per i suoi giudici aveva prima stuprato e poi ucciso brutalmente due ragazze, una di quindici anni e l’altra di diciotto.
-Ma che fai? Il grande Mehemet piange? Oh poverino!- Una manganellata arrivò rapida sul gomito del prigioniero, il grido di dolore che sfuggì a Mehemet causò una grande ilarità tra i suoi carcerieri, tra tutti, tranne uno. George era l’unico, tra tutti quegli uomini di ghiaccio, che provava ancora dei sentimenti umani nei confronti dei suoi prigionieri.
-Basta! Micheal basta! Pover’uomo fra pochi minuti deve dire addio a questo mondo e tu lo tratti così?- Si passò la manica della giacca per asciugarsi il sudore sulla fronte. Non voleva trovarsi in una brutta situazione con i suoi colleghi, ma non sopportava neanche di vedere quell’ ingiustizia di proporzioni colossali.
-Ma io lo sto aiutando, in questo modo quando siederà sulla sedia elettrica non rimpiangerà la vita!- Rise sinceramente divertito da quanto aveva detto, continuando a sorridere con un urtone spinse il detenuto nel miglio. Il miglio era il percorso che ogni detenuto doveva effettuare per giungere alla sedia elettrica, per giungere alla purificazione delle loro colpe, per giungere alla morte. Le lacrime continuavano a scorrere imperterrite e senza freni sulle guance di Mehemet che, nonostante questo, appariva fiero ed orgoglioso, un grifone ferito all’altezza del cuore ma che ancora arranca, percorrendo i pochi metri che gli restavano, con sguardo fiero e giusto. Si era sempre detto innocente, nessuno gli aveva mai creduto. Colpa degli stereotipi. Un musulmano di origine araba in America che compare in un processo diviene automaticamente il più crudele serial killer della storia, per la maggior parte di tutti gli americani lui era un islamista, un pazzo furioso, e non perché ci fossero serie prove a suo carico, ma solo per la sua religione, solo per il colore scuro della sua pelle. Un uomo che paga con la vita il tragico errore di un altro, un innocente in più sulla coscienza del grande popolo americano. Mehemet ricordava che suo nonno gli aveva sempre detto che gli uomini prossimi alla morte diventano saggi, improvvisamente anche lui si sentì saggio, pensò alla vita, alla sua vita.
Si era trasferito in America per sfuggire alla guerra che stava imperversando nel suo paese, con lui era fuggita anche sua moglie, incinta di due gemelli. Il sogno americano aveva conquistato anche loro, la possibilità di una nuova vita, una vita senza ingiustizie. Tutto era perfetto, così perfetto da sembrare un sogno, ma tutti i sogni prima o poi finiscono, lasciando quella sensazione acre sul palato, una sensazione di delusione e stupore. Un giorno mentre si recava normalmente al lavoro vide un uomo bianco, alto e biondo che stava gettando un sacco nero in un bidone, il sacco aveva una strana forma ma non fu questo ad attirare l’attenzione dell’uomo, bensì il viso guardingo di colui che stava alzando con forza immane quei sacchi. Aspettò che si allontanasse e si portò vicino il bidone della spazzatura, una strana voce gli diceva di aprire quel sacco, pensando fosse la voce del suo Dio lo aprì con mani tremanti. Appena vide il contenuto gettò fuori un urlo che attirò l’attenzione di una decina di passanti, una donna, spinta dalla curiosità, sollevò il capo quel tanto che le bastava per vedere anche essa il contenuto. Vide un viso circondato da candidi capelli biondi sporchi di sangue, vicino quel viso ve ne era un altro, più piccolo e rotondo del primo. Quei volti le ricordarono quelli visti in televisione, erano i volti di due ragazze scomparse da una decina di giorni, appena rimembrò l’accaduto con quanta più voce aveva in corpo, additando l’uomo, ululò
-E’ lui! L’assassino delle piccole è lui! Prendetelo-
Tre uomini capendo a cosa si stesse riferendo la donna gli si scagliarono contro, urlando le peggio cose e picchiandolo selvaggiamente. Solo l’arrivo di una volante di polizia riuscì ad impedire la morte di Mehemet. A nulla valse il racconto di Mehemet, nessuno gli credette. “La tua storia non regge” era l’affermazione che quotidianamente era costretto ad ascolatare, un’affermazione che faceva più male di una stilettata, più male di un colpo di pistola. Al buio nella sua cella la domanda ricorrente nella mente di Mehemet era: Cosa ho fatto per meritarmi questo? L’unica risposta era il silenzio della sua cella. Un silenzio che sembrava scusarsi per quanto gli stava accadendo. A pochi metri della sedia l’unica cosa che quel grifone ferito continuava a fare era pensare. Ricordava sua moglie, i suoi figli, il suo paese lasciato per uno nuovo che gli aveva strappato ogni speranza di miglioramento.
-Non sono stato io- disse con voce flebile, così flebile che si perse tra le grandi mura del miglio. Quel sussurro però non sfuggì a Micheal che sorrise enigmatico, nella stesso corridoio si scontravano due emozione completamente opposte. La prima era soddisfazione mista a gioia, la seconda era pura rassegnazione. Riso e pianto. Micheal e Mehemet. Lo fecero accomodare sulla sedia, gli legarono i piedi e le mani per poi posare una spugna bagnata sulla sua fronte.
-Non sono stato io!- Gridò cercando di strappare le corde di cuoio che lo tenevano fermo, non riuscendoci chinò il capo e le lacrime cessarono di cadere.
-Tu che sei nei cieli sai che sono innocente, ti prego salva la mia anima condannata ingiustamente, veglia sui miei figli, guida mia moglie e libera la mia patria-
Morì subito dopo aver pronunciato la sua ultima frase, i pugni erano ancora serrati nel tentativo di ristabilire una calma perduta da tempo immemore.
Micheal lasciò la stanza con una scusa qualsiasi, si tolse la divisa da guardia carceraria e si guardò allo specchietto che portava sempre con sé. Sorrise nel vedere la sua immagine riflessa, era un uomo bianco, alto e biondo, o almeno era stato biondo, si era tinto i capelli all’incirca tre mesi prima…  
 

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Capitolo 3
*** Al fresco è meglio che al freddo ***


Al fresco è meglio che al freddo

I fiocchi di neve si adagiavano con grazia a terra, la città era illuminata con mille luci splendenti, blu, gialle, bianche e rosse, il grande albero in piazza raggiungeva i tre metri ed anche se ad occhi maliziosi sarebbe potuto sembrare un cono di forma fallica, nel complesso risultava grazioso. Un vocio soffuso riempiva tutte le strade del centro storico, tutti erano felici ed avevano ragione di esserlo, era Natale, la festa più attesa, più bella, una festa che non ha, però, mezzi termini. A natale o si è estremamente felici o si è estremamente tristi, ma nessuno sembra pensare a questo lato “oscuro” del Natale. Perché mai una persona dovrebbe essere triste a Natale? Forse perché tanti non hanno una famiglia unita con cui passarlo, forse perché non hanno ricevuto il regalo sperato, forse perché non hanno nemmeno un tetto sulla testa. L’ultimo caso era proprio quello di Sergio, artista senza casa e senza famiglia, che era costretto a chiedere l’elemosina pur di poter continuare ad inseguire i suoi sogni.
-Per carità, mi aiuti non ho un posto dove andare, mi lasci qualcosa, almeno per mangiare! La prego!- Nulla da fare, la signora dopo averlo guardato come un pazzo maniaco aveva accelerato il passo con le buste dei dieci regali che aveva comprato per i suoi cari. “Bastardi, menomale che a Natale siamo tutti più buoni” pensò Sergio rabbrividendo per il freddo, aveva indosso solo una felpa a causa di due ragazzi che, per rendersi più desiderabili agli occhi delle loro ragazze, lo avevano pestato e poi derubato di cappotto e scarpe. Quando chiedeva l’elemosina, calpestando il suo orgoglio, tutti voltavano il capo dall’altra parte come se lui non esistesse, come se quelli come lui non esistessero. Era Natale non avevano tempo di pensare a loro, non che l’avessero mai voluto fare, ma quella malsana idea di aiutare gli altri durante quella festività mentre si è impegnati con compere all’ultimo minuto di certo non veniva in mente a nessuno. Una ragazza dall’apparenza dolce si avvicinò a Sergio vedendo le sue pietose condizioni.
-Ma scusa perché non vai a lavorare?- Disse con una voce incredibilmente odiosa.
-Ma scusa tu perché non ti fai gli affari tuoi? Secondo te mi diverto ad elemosinare?-
“Incredibile! Una ragazzina che vorrebbe farmi una predica, ma come osi? Ho vissuto trent’anni cercando un lavoro decente, lavoro che voi non mi avete dato e poi appena mi vedete in strada è come se io fossi invisibile” Ruggì con disperazione nella sua mente.
-Mia madre dice che voi chiedete dei soldi perché non volete lavorare, fate questo per guadagnare senza sforzo ed io concordo con lei, perché io vi ho visto. Oh si, io ho visto cosa fate, appena riuscite a raccogliere abbastanza soldi nel cappellino poi li mettete nella borsa, in questo modo le persone, vedendo il cappellino vuoto s’impietosiscono e vi danno altri soldi. Voi rovinate la società! Come dice mio padre il sindaco dovrebbe farvi arrestare tutti per intralcio alla pubblica decenza!-
- Matilde! Quante volte ti ho detto di non allontanarti?! Oh mio Dio! Lascia stare subito mia figlia!- Con sguardo preoccupato la signora prese la figlia che spaventata dalla reazione della mamma iniziò a piangere a dirotto.
-Cos’hai? Perché piangi?-
Matilde indicò Sergio che nel contempo si stava allontanando da quelle due che aveva definito non donne ma “esseri”, poiché erano qualcosa ma di certo non umane.
-Oh no! Piccola mia che ti ha fatto? Ti ha violentato! AIUTO!AIUTO! Quell’uomo ha violentato mia figlia! Fermatelo!- Una volante che pattugliava la zona prontamente sgommò verso l’uomo che era stato accusato di un simile atto e con la forza lo portarono al commissariato. Per tutto il tragitto Sergio aveva cercato di spiegare quello che veramente era successo ma nessuno gli diede ascolto, solo ingiurie gli erano rivolte contro dai due poliziotti nell’automobile. Dopo un lungo ed estenuante interrogatorio, nonostante tutto ciò che aveva detto Sergio e che sembrava corrispondere alla realtà, lo condussero in prigione.
“Beh, non mi è andata così male! Ora avrò vitto e alloggio gratuito e poi ogni artista che si rispetti è stato almeno una volta in carcere. Così passerò il Natale in compagnia!” Fondamentalmente Sergio era sempre stato un inguaribile ottimista, era felice poiché consapevole che la sua esperienza in prigione sarebbe durata poco, giusto il tempo di fare esami medici alla piccola peste e poi sarebbe stato rilasciato.
-Eh già, cosa volere di più dalla vita?- mormorò.
-Un lucano!- rispose il suo compagno di cella, Rocco.
-Quella battuta non fa più ridere da secoli- Disse Sergio con aria serena, in carcere non faceva affatto freddo, si stava proprio bene!
-Fa ridere se consideri che io sono lucano! E quindi eccomi qui… ora che hai anche un lucano non ti manca proprio nulla, no?-
Mentre Rocco e Sergio intavolavano una piacevole discussione, in una grandissima villa, con tanto di maggiordomi, una ragazzina molto soddisfatta di sé parlava con suo padre.
-Sai cos’è accaduto oggi?-
-No, dimmi, cosa?-
-Ho fatto un grande dono a tutta la società-
-Spiegati meglio, non comprendo-
-Ho fatto arrestare uno di quelli!- rispose gongolando
-Uno di quelli, chi?- Le sopracciglia sulla fronte del padre di Matilde assunsero una posizione interrogativa.
-Uno di quelli che inquinano il mondo respirando, uno di quelli che infamano il solo essere umano, uno di quelli che sono un affronto alla pubblica decenza. Visto come sono brava, papà?-


Buon Natale! (Scusate se vi ho rattristato =P)

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Capitolo 4
*** Amore alias follia ***


Amore alias follia
L'amore è la saggezza del folle e la follia del saggio.


Erano i caldi e calmi anni cinquanta, il sole si affacciava timido mentre parte di esso traeva svago nel giocare a nascondino con una vaporosa nuvola color latte che, sebbene impedisse di vedere la sfericità della stella al completo, lasciava filtrare impertinente i suoi raggi.
Due teneri innamorati, sdraiati sul verde prato del parco di San Francisco, guardando il cielo e in modo particolare le varie e strane nuvole, parlavano delle loro forme, sforzandosi di rimembrare qualche animale, qualcosa o qualcuno che potesse avere dei lineamenti se non identici almeno similari a quelli delle morbidi nubi. I loro nomi erano italiani, ambedue, infatti, erano figli di genitori d’origine italiana che si erano trasferiti in America all’inseguimento del famoso quanto utopico sogno americano, sogno che ovviamente non ebbe compimento. La loro situazione era migliore di quella in cui si erano trovati in Italia, ma pur sempre molto al di sotto delle loro, in origine, rosee aspettative. Eduardo e Cristina, questi erano i loro nomi. Incontratisi al liceo, lui proveniente dal south-west di San Francisco, lei dalla periferia della città, avevano da subito capito che vi era un forte legame fra di loro. In primis la loro patria d’origine e la conseguente mancanza di fiducia nei loro confronti da parte degli americani. L’Italia per loro era il paese che aveva dato vita alla mafia e ai mafiosi, nient’altro,. A seguire erano accomunati anche dalla tendenza ad isolarsi e riflettere, cosa estremamente difficile da fare in quella metropoli dove il rumore era presente nella mente di ogni singolo essere vivente impedendogli di pensare, immaginare, vivere degnamente e razionalmente, facendosi guidare da animaleschi impulsi. Non è sempre vero dunque che gli opposti si attraggono e i simili si respingono. Loro, metà della stessa mela, facce di una stessa tormentata medaglia, ventricoli di uno stesso,piangente, cuore. Semplicemente il destino aveva voluto che si incontrassero durante i corsi estivi per recuperare le loro carenze scolastiche. Dal primo momento in cui i loro occhi si erano incrociati si erano amati, era successo quello che comunemente viene denominato colpo di fulmine. Cristina, immersa nell’armonia del parco, si assopì e mentre stava teneramente riposando, Eduardo le accarezzava la mano, osservandola e sorridendo non soltanto con la bocca ma anche con i suoi grandi occhi scuri. L’amava, avrebbe dato la vita per lei e per il tenero pargolo che, ancora ignaro del mondo, risiedeva al sicuro nel ventre della giovane mamma. Cercando di fare meno movimenti possibili avvicinò il suo orecchio alla pancia, abbastanza evidente ormai, nella speranza di poter sentire suo figlio muoversi. Per il futuro padre lui o lei, poichè non avevano voluto sapere il sesso del bambino per vivere la nascita con l’estasi della sorpresa, rappresentava una luce nelle tenebre. Era decisamente un periodo infausto. Il lavoro non andava, era appena stato licenziato perché aveva rigato l’auto del suo datore di lavoro., Quel bastardo aveva molestato sua moglie! Se lo meritava, anche se la conseguenza era stata tremenda. Era consapevole che crescere un figlio e dare a questo tutto ciò che lui o Cristina non avevano mai potuto ottenere, senza stipendio, era cosa assai ardua. La casa in cui alloggiavano, se casa si poteva chiamare, era poco più che una catapecchia, l’affitto era a dir poco altissimo per una casupola in cui vi erano tante crepe quante mattonelle, tanti topi quanti acari, tanto gas quanto danaro ovvero zero. Da tempo erano costretti ad accendere varie bombole per far funzionare la cucina, che altrimenti non avrebbe riscaldato nemmeno una pentola di plastica. Naturalmente l’utilizzo della bombola metteva in serio pericolo tutta la sua famiglia per l’elevata probabilità di perdite di gas, cosa che fortunatamente ancora non era accaduta e con ancora un po’ di buon fato non sarebbe mai avvenuta. Lo sguardo dell’innamorato ritornò sulla pancia della moglie e lasciandosi distrarre dai tristi pensieri iniziò ad ipotizzare il sesso e il carattere del nascituro. Sapeva che Cristina avrebbe voluto un bel maschietto e che questo portasse il nome del padre da poco deceduto, ma in cuor suo sperava che potesse essere una femminuccia e in tal caso il nome sarebbe stato senza alcun ombra di dubbio Melissa. L’aveva ripetuto in continuazione negli ultimi tempi e anche la ragazza concordava sulla scelta del nome, in realtà avrebbe concordato su tutti i nomi pur di far felice il suo Eduardo, tutti tranne quelli davvero brutti e umilianti come Crocifissa o Addolorata finanche Ermenegilda le dispiaceva in minor modo di questi. Il/la bambino/ bambina in questione sarebbe stato solare, sempre sorridente, gioviale, socievole, divertente, ma non ridicolo, c’è differenza in fatti fra il far ridere e l’essere derisi. Nel contemplare queste liete prospettive non si era reso conto che Cristina già da tempo si era risvegliata e lo squadrava dalla testa ai piedi, mezza assopita e mezza incuriosita dalla sua espressione estatica.
-Che c’è?- chiese portandosi la mano sugli occhi per proteggersi dai raggi del sole
-Niente, pensavo- Sorrise dolcemente
-E a cosa di grazia, mio re?- La luce ironica nei suoi occhi non sfuggì ad Eduardo.
-Al nostro futuro e alla nostra futura reggia e al nostro piccolo principe o magari una splendida e bellissima principessa-
-A proposito di reggia che ne dici di tornare in quella che momentaneamente assomiglia di più alla capanna dello stalliere di corte?-
-Casa dolce casa- Disse per poi mettersi a ridere, una risata amara.
Aiutò la ragazza ad alzarsi senza movimenti bruschi e porgendole il braccio si avviarono verso casa. Un aspetto positivo della loro casa, e anche l’unico ad essere onesti, era la vicinanza al King’s Park, il parco più bello e meno movimentato dell’intera regione. Attraversandolo si sarebbero trovati sulla soglia della porta, l’uso del condizionale non è un caso. Infatti, non arrivarono mai alla loro ‘reggia’.
Uno strano individuo si fece loro avanti, aveva un’aria strana, subdola, malvagia. Si percepiva indistintamente tutto ciò, magari era anche un po’ folle, o forse questi erano solo fantasiosi pensieri che ingombravano la mente di Cristina. Pensieri che purtroppo corrispondevano alla verità. L’individuo cacciò d’improvviso dalla tasca destra della giacca rattoppata un coltello e lo puntò verso di loro. Era uno di quei coltelli tipicamente orientali che magari sarebbe potuto appartenere a qualche vecchio e onorato samurai a fianco della katana. Alla vista di quanto accadeva i due si bloccarono immediatamente, Eduardo tese il braccio in modo da impedire che Cristina avanzasse ulteriormente e la spinse dietro di sé.
-Sta dietro, non avanzare per alcun motivo al mondo e se vedi che si mette male, scappa!- Il tono perentorio però non bastò a convincerla.
-Ma…- Tentò titubante
-Niente ma, devi scappare! Per il tuo bene e per il bene del figlio che porti in grembo-
Concitati com’erano non avevano notato che quell’uomo si era avvicinato e leccandosi le labbra già pregustava la scena. Si chiamava Stevens Scott, molto tempo prima era stato un padre di famiglia, buono, onesto e per niente matto. I suoi vicini non si erano mai lamentati di qualcosa riguardante quest’ultimo, era un uomo distino ma al contempo allegro e disinvolto. Amava sua moglie e la sua tenera figliola di quattro anni, Stefany, ma per tutti coloro che la conoscevano era la piccola Steffy. Poi un giorno, la sua meravigliosa favola ebbe fine. Anne, la moglie, e Steffy morirono in una sparatoria causata dalla guerra fra i Corleone e i Fortunato, due fra la più pericolose famiglie mafiose degli Stati Uniti. Impazzì per il troppo dolore, aveva perso tutto, non aveva più uno scopo per cui vivere, ma ne aveva disperatamente bisogno, aveva necessità di trovarne uno e dopo quasi tre anni di assoluto vagabondaggio fra bar, whisky, martini, birra e lo squallido vino del minimarket vicino casa sua trovò il tanto agognato scopo. Avrebbe vissuto unicamente per uccidere quanti più italiani possibili, in fondo erano tutti mafiosi e più ne avrebbe uccisi più le possibilità che fosse parenti o magari figli e mogli di coloro che avevano ucciso i suoi cari aumentavano. Quei due ragazzi davanti a lui erano italiani, era ovvio. Si evinceva dal sorriso beffardo che avevano quando si guardavano l’un l’altro come se insieme potessero fregare il mondo, con la loro presunta superiorità di mafiosi. Senza attendere un solo attimo di più si scagliò con quanta più forza potè sul ragazzo dai capelli neri e gli occhi orgogliosi. La prima sferzata gli fu fatale, con precisione Stevens aveva reciso la vena cava impedendo al sangue desossigenato di coagulare e quindi privando cuore, muscoli, polmoni e tessuti della loro forza. Una leggere brezza soffiò proprio in quell’istante portandosi con essa anche la vita di Eduardo. Il suo corpo cadde esanime a terra ma come se al signor Scott questo non importasse continuò ad infierire ed infierire sul corpo ormai divenuto cadavere, finchè, alzando il capo, non vide una preda migliore. Immobilizzata e paralizzata completamente dal panico, non era riuscita neanche ad emettere un solo grido. Ripassandosi la lingua sul labbro superiore si avvicinò a lei, come un leone ad una gazzella, avrebbe potuto violentarla e poi ucciderla. Ripresasi dallo shock Cristina iniziò a correre odiando quell’uomo che la stava inseguendo e odiando sé stessa per star fuggendo abbandonando in tal modo il suo amato in una pozza di sangue. Correva il più celermente possibile, ma Stevens era molto più veloce, le sue falcate molto più ampie, la sua forza incredibilmente maggiore, non le restava che gridare, vi tentò diverse volte ma dalla bocca non uscì che un sibilo. Tutto l’ossigeno presente nel suo corpo era impegnato a fornire energia ai muscoli e non ne rimaneva abbastanza per poter urlare, per poter chiedere aiuto e sperare di essere salvata da qualcuno. Inciampò, cercò di rialzarsi ma non vi riuscì poichè lui si era letteralmente catapultato su di lei e con il peso del suo corpo le impediva di muoversi. Improvvisamente, però, sentì alcune voci avvicinarsi, doveva essere un’altra coppietta che si appropinquava nella loro stessa direzione. Gli mancava il tempo per poterla violentare come si doveva così, optando solo per la sua morte, iniziò a pugnalarla. Le voci si facevano sempre più vicine, doveva andarsene immediatamente, guardò il corpo della donna quasi immerso nel sangue, la celerità dell’azione l’aveva costretto a inferirle varie ferite superficiali ma sicuramente sarebbe morta dissanguata, quindi poteva dirsi soddisfatto per aver compiuto il suo lavoro. Compiaciuto si alzò e si allontanò dalla ragazza sofferente come se nulla fosse. Pochi minuti dopo giunsero due ragazze, colei che precedeva di poco l’altra ,quando vide quella donna insanguinata e sofferente, cacciò un urlo così spaventoso da far accorrere in poco tempo molte altre persone, fra le quali anche Stevens. Questo, dopo essersi tolto la giaccia, l’unica cosa che si era sporcata di sangue, guardava la scena traendone diletto. Fra gli astanti ve n’era uno, un medico per la precisione, che fu il solo a notare la pancia stranamente gonfia della donna, le si avvicinò cauto e inginocchiandosi capì che la ragazza era incinta, ma non solo, forse a causa dello spavento o forse per cause naturali le si erano rotte le acque. Un pensiero veloce come un lampo balenò nella sua mente, per la ragazza c’era ben poco da fare ma forse per il pargolo ancora vi era qualche probabilità di salvezza. Nella sua carriera non si era mai occupato della ginecologia, ma aveva qualche conoscenza nel campo, seppur esclusivamente scolastica. Chiese aiuto ad un paio di persone, una delle quali era un’infermiera che prontamente le fece la dilatazione manuale mentre il dottore cercava di farsi comprendere dalla paziente spiegandole cosa avrebbe dovuto fare. Sembrava capire quanto le veniva detto, eseguiva tutto anche se lentamente ed emettendo gemiti di dolore. Nel mentre, giungeva sempre più gente e un’altra donna chiamò un’ambulanza che giunse poco tempo dopo, trovandosi due distretti più ad est. Finalmente la piccola creatura venne alla luce, era una lei, era una piccola ed indifesa bambina che venne posta per qualche secondo fra le braccia della madre. Poco più di un sussurro fuoriuscì dalle labbra di Cristina, che però non sfuggì al dottore.
-Lui… avrebbe voluto… sarà felice… Melissa- Osservando la sua piccola, spirò con il sorriso sul viso. L’infermiera le chiuse le palpebre e guardò con aria interrogativa il medico che le stava di fronte.
-Il nome della piccola sarà Melissa. Io penso che… che fosse questo il nome che la ragazza avrebbe voluto darle-
Il rumore dell’ambulanza giungeva in lontananza, era arrivata troppo tardi. I due ragazzi erano morti, ma la loro piccolina era nata, anche se settimina, e quindi avente bisogno di urgenti cure. Il dottore chiese se qualcuno fra i curiosi che si erano affollati conoscesse la giovane donna. Una mano si alzava tremante nell’aria, era la mano di Stevens.
-Io… sono lo zio della ragazza- Disse fingendo un evidente accento italiano senza neanche sapere il perchè. Era più che mai sicuro di sé, avrebbe concluso la sua missione e raggiunto il suo scopo, niente e nessuno lo avrebbe fermato. Per riuscirvi aveva escogitato con grande celerità e mobilità intellettuale un piano. Si sarebbe finto un loro parente per entrare in possesso di quella cosa uscita dalla vagina di quella Cristina. Era oltremodo ovvio che aveva intenzione di uccidere anche l’infante appena nata. Folle e spietato, ecco com’era divenuto. Non si sarebbe fermato davanti a nulla, neanche una pura e piccola bambina avente pochi minuti di vita avrebbe deviato il suo cammino di folle omicida.
-Or dunque, lei accompagnerà la piccola all’ospedale, non si preoccupi- aggiunse alla vista della faccia contrariata dell’uomo- vi sono medici che eccellono nel loro lavoro in questo settore. Sicuramente basteranno pochi giorni nell’incubatrice, al massimo due…- Si dilungò nello spiegare l’elevata percentuale che aveva Melissa di sopravvivere, di norma, infatti, i prematuri nati tra 28 e 31 settimane hanno probabilità di sopravvivere tra il 90 e il 95%, inoltre per volontà divina nessuna sferzata aveva compromesso la stabilità del feto.
Salì sull’ambulanza evidentemente contrariato, ma il suo sguardo truce venne scambiato per disperazione. Aveva asserito che egli era l’unico parente rimasto in vita dei due ragazzi, storia davvero triste ma a causa del destino ad entrambi non era rimasto più nessuno, solo lui. Quindi, logicamente, e insistette a lungo su questo punto della faccenda lui diveniva il tutore della piccola, l’unico che poteva avere potere su di lei. Sarebbe potuto divenire un attore provetto, non vi fu alcun infermiere, dottore o assistente sociale che non prestò fede alle sue parole, era un signore dall’aspetto così raccomandabile! Perché dubitare delle sue ciance. In poco più di un mese e venti giorni riuscì ad ottenere la podestà sulla bimba, quasi senza colpo ferire, gli era bastato solo corrompere vari membri dei servizi sociali per un ammontare di 3450$, è incredibile come una piccola somma di danaro possa trasformare ciò che è umanamente e moralmente sbagliato e ingiusto in qualcosa di lecito e legittimo.
Finalmente gli venne consegnata Melissa con una piccola tutina rosa che però non rendeva giustizia alla bellezza della piccola, i suoi occhi erano di un celeste chiarissimo quasi di ghiaccio ma sempre calorosi e sorridenti, le gote paffutelle e di un dolce rosa, le mani e i piedini erano la cosa più tenera che si potesse immaginare. Inevitabilmente nel guardarla Stevens non potè non sorridere, era così fragile ed indifesa. Si sentì male, la sua coscienza iniziava a dolersi del come aveva trascorso gli ultimi anni, uccidendo e bevendo in un percorso di assoluta perdizione e depravata gioia. Tutto ciò per vendicarsi. Ma anche uccidendo, le sue due donne non sarebbero ritornate mai da lui. Cosa stava facendo? Non era il momento per il rimorso, si era spinto già troppo in là… non poteva più tornare indietro, rimangiarsi quella promessa fatta sulla tomba, adornata di fiori e peluche, della sua amata piccola. Guardò negli occhi quel tenero fagotto che aveva in grembo e la strinse a sé, così forte da farle male. Melissa cominciò a piangere, schiacciata dalla morsa di Stevens, ma questo, come se nulla stesse accadendo e sempre tenendola stretta, si avvio versò il King’s Park. Una volta giunto prese posto sulla panchina davanti il piccolo laghetto artificiale. Le acque del laghetto danzavano mosse dal vento, lo stesso fece volare sulle sue ali, goccia a goccia le lacrime della bambina. Fra quelle stille di tristezza ve n’era una che apparteneva all’uomo, una sola, che, appena toccò la superficie mossa del lago, sembrò gelarsi per poi posarsi, come un diamante in un mare, sulla sottile pellicola acquea. Poteva farlo, ne aveva la forza ma più di ogni altra cosa lui doveva farlo. Aveva perso le sue due stelle, le sue due guide. La madre glielo aveva sempre detto “Se perdi qualcuno che ami, il mondo, stanne certo, perderà i suoi colori”. Era proprio questo che aveva avuto luogo, soltanto un colore era rimasto, il nero del vuoto, il nero del più completo nulla, il nero della cecità dei sentimenti. Quasi come se fosse malato si alzò a rilento, le forze gli erano quasi venute meno, ma una cosa si era rinsaldata attraverso quei dolorosi ricordi: la sua volontà, il suo scopo.
-Mi spiace, davvero. Ma vedi io sono uno scoglio che non trova riparo in un mare di solitudine, io sono un vascello che sogna una terra senza di voi, voi che siete bestie e nulla più. In conclusione sprofondo, ogni ora, ogni giorno in quel vuoto, mentre la sofferenza mi toglie la luce, inseguo uno scopo, un sogno e se ti uccido, un pezzetto di quel sogno si sarà realizzato. Sono ricordi orrendi, ricordi che non posso né voglio cancellare, capisci?- Il suo sguardo folle incrociò nuovamente lo sguardo limpido e terso di Melissa, la guardò in modo penetrante aspettandosi quasi che lei potesse dargli una risposta. Era solo una bambina, era solo una bambina innocente.
-Prima di ucciderti piccola ti devo ringraziare. Forse non l’hai notato ma una lacrima è scesa lungo il mio viso, si proprio così. Che cosa sorprendente, pensavo di averle prosciugate tutte!-
Un sorriso illuminò il volto della piccola, con le manine cercava di afferrare il suo naso. In quel momento così tragico, voleva solo giocare, voleva solo far sorridere anche quell’uomo che la teneva in braccio e sul cui viso vi era un’espressione così bieca ed efferata. Stevens l’adagiò lentamente sulla sponda del lago e la spinse delicatamente verso l’interno. Le onde, il vento e la profondità di quel lago inghiottirono la piccola repentinamente mentre lei si dimenava cercando di liberarsi dalla pressione dell’acqua che la spingeva giù, sempre più giù finchè il suo corpicino toccò il fondo. Era la fine. Era morta e nel modo più crudele possibile, l’annegamento. I suoi polmoni straziati cercavano ancora dell’ossigeno, memori della vita che come un liquido perlaceo e sublime stava scivolando via dal cuore e dagli occhi di Melissa. Stevens, colui che in seguito venne chiamato il mostro di San Francisco, voltò le spalle all’acqua e si diresse con grande calma e tranquillità verso il Martini Bar, avrebbe ucciso a poco a poco anche sé stesso. Avendo un desiderio, aveva anche una ragione per cui vivere, ma il soddisfacimento di esso avrebbe rappresentato la morte. Gli antichi credevano che ogni volta nella quale si commetteva un crimine orribile parte della proprio anima si staccasse e raggiungesse le fauci di Cerbero pronto a riconoscerla e a sbranarla alla sua discesa negli inferi. Peccato, forse, che né l’inferno né il paradiso o il purgatorio esistano. La morte è l’unica cosa certa della vita cioè l’unica cosa di cui non si può sapere nulla con certezza. Gli occhi d’un caldo azzurro ora si erano trasformati in un azzurro di ghiaccio, imperturbabili e impermeabili., La piccolina aveva subito la più grande ingiustizia che si possa mai patire in questo mondo. Morire soffrendo è terribile, ma la morte che giunge quando ancora non si è vissuto è insopportabile. 

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