La Lista

di Quintessence
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte Prima - Passare ***
Capitolo 2: *** Parte Seconda - Scavare ***



Capitolo 1
*** Parte Prima - Passare ***


Ciàtùùùtti. Questa non è una shot (Persone: NooooH incredibile) e invece sì avete capito bene. È una long. (Persone: NooooH un'altra) sì un'altra .-. Questa è diversa perché ci ho messo molti meno elementi di riflessione e molta più leggerezza. È una long divertente sulle seconde occasioni, e su come certe scelte nella vita... oddio ci cambiano e non possiam farci proprio nulla. Un piccolo avvertimento prima di cominciare: in questa Long le Senshi sono sempre combattenti ma diciamo... combattenti diverse. Leggendo ovviamente capirete, ma eliminate i vostri pregiudizi su Sailormoon perché qui siete in un AU vero! :) che altro dirvi, buon divertimento e naturalmente recensioni sempre gradite ;) 


 

Parte prima ~ Passare


Morire non è come ve l'hanno descritto. Non è come addormentarsi, e non è come vedere una luce bianca. Non è come nascere, che nemmeno te ne accorgi. Non è come una paralisi, e non è come un sonno eterno. Non lasciamo il nostro corpo con leggerezza e in silenzio. Niente tunnel di luce, niente vita che ti passa davanti agli occhi in un solo momento. Morire è orribilmente doloroso.
Per quanto mi riguarda sono stata strappata da Usagi con violenza, nel momento esatto in cui ha gettato fuori l'ultimo sospiro, e non ha più ripreso aria, come se una enorme mano mi avesse presa per le spalle e tirata fuori da lei; ho urlato con forza, ma non mi ha sentito nessuno. Perché è stato un grido estremamente silenzioso. Accasciata su un pavimento biancastro, ho provato a respirare. Una delle peggiori cose della morte è che essere non-vivi cancella parecchie delle tue abitudini mortali; prima fra tutte? Non puoi respirare.
Singhiozzai orribilmente cercando di prendere l'aria nei polmoni. Un senso di soffocamento mi pervase ogni centimetro del corpo mentre aprivo la bocca nel tentativo di ingoiare aria senza successo. La testa prese a girarmi, e gli occhi a mostrarmi luci al neon. Cercai di aggrapparmi a qualcosa, ad appoggiarmi ad un muro, ma essere non-vivi cancella parecchie delle tue condizioni mortali; prima fra tutte? Non puoi toccare le cose.
Così, come sott'acqua, mi lasciai andare. Che i polmoni prendessero l'acqua, pensai, morirò una seconda volta. E la morte non venne, anzi. Appena smisi di respirare, o quantomeno di annaspare provando a farlo, il senso di nausea si affievolì lentamente e docilmente, domato. Pensai di essere l'ultimo residuo di coscienza del cervello, visto che si narra che questo resti cosciente per almeno una decina di minuti dopo la morte. Ma non ero nemmeno quello. Me ne accorsi quando, al posto di indebolirmi e sbiadire, piano piano prendevo forza e consistenza. Non la consistenza dei vivi, purtroppo. Ma la mia vista si abituava secondo dopo secondo a quello che era un bianco troppo luminoso, e dopo qualche minuto riuscii ad alzarmi senza troppi sforzi.
« Sei morta » -Mi annunciò una voce con gentilezza. Non trovavo educato essere così estremamente diretti, ma in effetti non avevo altre parole migliori per dirmelo. Ero morta. Strizzai gli occhi e provai a parlare. La voce mi uscì leggermente impastata, ma precisamente chiara.
« Sono in paradiso? » -Domandai. La voce che mi aveva parlato si sciolse in una risata, e si manifestò in una figura che riconobbi all'istante- « Amichan! Ma... come sei vestita? »
Non portava la classica mise scolastica, piuttosto stivali al ginocchio, un diadema e una fuku da Senshi che somigliava in modo quasi sbalorditivo ai pochi ricordi che avevo del videogioco di Sailor V.
« Questa è la nostra Fuku, Sailormoon. E io sono Sailormercury, non Ami » -Neanche per sogno. Io non sono una combattente, che cos'è questa storia, pensai. Io sono morta- « Ah, sì, sei morta »
Ribadì lei con il tono con cui si parla dell'ultimo film visto, o del gusto che preferisci prendere in gelateria. Continuando ad osservarla, in ogni caso, la sua somiglianza con Amichan era assolutamente evidente e impossibile da negare. Era proprio lei! Me ne rimasi zitta, comunque, nel mio piccolo bozzolo di inconsapevolezza della mia non-vita, stringendo le spalle in attesa del verdetto di chiunque sarebbe stato il giudicatore della mia vita.
« Vieni, non avere paura » -non ne ebbi. Sapevo con precisione che la Morte era la cosa peggiore che potesse capitarmi in quel momento- « Ti presento una persona »
Dio, mi dissi. Allora non era come avevo sempre creduto. C'era un solo Giudice. Un solo Dio. Sperai che non tenesse troppo conto del fatto che in effetti non l'avevo mai calcolato. Non l'avevo mai considerato tale, non avevo creduto in lui, non sapevo nemmeno cosa fosse una messa. Mi fermai un momento a pensare. Se avesse dovuto mettere sul piatto della bilancia azioni buone e azioni cattive sarebbe stato un casino. Non facevo mai i compiti, bigiavo continuamente scuola per prendere un gelato, ero una frana in quasi tutto quello che provavo a fare. Non ero una cima di intelligenza, non ero una ragazza di quelle che quando le si vede si pensa ecco, vorrei avere una vita come la sua. Al contrario. Avevo passato tutta la mia vita a cercare di rovinare la mia e quella degli altri a pugni, morsi e parolacce. Non ero una granché bella persona, e benché mi rendessi conto di avere avuto una vita intensa, fortunata e piena d'amore... Non avevo avuto una vita felice.
Ami mi spinse di fronte a una parete bianca, e mi disse di guardare. Lo feci con attenzione, senza contraddirla, e improvvisamente allargai gli occhi in una espressione di stupore. La parete non era una parete ma uno specchio e... Quella ero io.
Sì, insomma, non ero proprio io, era una me un po' diversa. Prima di tutto, gli odango avevano degli elastici tutti particolari, sopra, rossi e dai riflessi rubicondi. E poi, ero vestita con una fuku molto simile a quella di Ami, con gli stessi stivali, il diadema, e un fiocco voluminoso con una spilla in centro. Ero io, ma non ero io. Intorno a me fluttuava un'aura dorata che usciva e si tuffava nella mia pelle a scintille alterne.
« Cosa significa? »
« Questa » -Mi disse appoggiandomi tutte e due le mani sulle spalle e aggiungendo il suo riflesso al mio- « Sei tu, Sailormoon » -Non capii. Scossi la testa leggermente confusa, rintronata. Tutto quel bianco, fra le altre cose, aveva ripresto a farmi discretamente male agli occhi. Mi ci sarei dovuta abituare.
« Adesso che sei morta, sei diventata una Senshi » -Oh, no. No, no e no. Che diavolo voleva dire quella roba? Ero appena morta e dovevo cominciare a combattere qualche strana battaglia celeste perché non avevo fatto qualche (d'accordo, molti, ma ha importanza relativa) compiti di matematica? Mi svincolai dalle sue mani, e la guardai con malcelato terrore negli occhi. Non avevo mai combattuto niente in vita mia, e glielo dissi.
« Io non so combattere... » -Ami sorrise, mi prese per mano. Mi trascinò nel bianco fino ad un punto definito, in cui un secondo specchio, fatto di qualcosa che sembrava acqua, mi mostrava Tokyo; la mia città. Inclinai la testa e allungai la mano verso la superficie del mondo. Sembrava parecchio diversa da come la ricordavo; i miei occhi focalizzarono immediatamente ogni dettaglio, comunicandomelo attraverso quegli strani aggeggi fissati agli odango, che vibrarono con insistenza sulla mia testa. Era una Tokyo passata; per la precisione, una Tokyo di venticinque anni prima.
« Non capisco » -Ammisi per la seconda volta, rivolgendomi verso Ami.
« Tieni a mente, Sailormoon. Ci sono delle regole » -Regole? Quali regole? Un momento, aspetta, avrei voluto dirle, stai andando davvero troppo veloce. Ma aveva già sollevato il dito indice, perciò decisi di rimandare qualsiasi domanda a un tempo indefinitamente successivo, e mi preparai all'ascolto annuendo.
« Prima di tutto, proteggi » -Proteggi, presi nota nella mente- « Sventa le circostanze sfortunate. Salvale la vita. » -La vita di chi? Risparmiai la domanda vedendola alzare il secondo dito, il medio, con il fare da insegnante che da sempre la caratterizzava.
« Seconda cosa, ricorda » -Ricorda, aggiunsi alle note mentali- « Il tuo diadema è un diario, un registratore. Segna ciò che senti, ciò che vedi, ciò che odori. E segna quello che provi. Tu ricorda, e lui ti aiuterà a ricordare » -Ricordare cosa? Roteai gli occhi. Ambiguità angelica, immaginai.
« Terzo, non intervenire » -Non intervenire. Immaginai che fosse una regola molto importante, perché l'aveva pronunciata con solennità- « Quando il nostro mortale fa una scelta, noi senshi non possiamo cambiarla per alcuna ragione » -Annuii con malcelata inconsiderazione.
« Quarto, combatti » -Ecco, lo sapevo che questa parte sarebbe arrivata- « Combatti per tutto quello che ritieni giusto, fino in fondo. La resa non è tollerata » -Tanto mi avrebbero fatta fuori molto prima che avessi anche solo il tempo di dire m'arrendo.
« Ultima cosa... » -Titubò- « amala. Ama Usagi »
Sbarrai gli occhi. Allora cos'ero diventata, una specie di angelo custode o cosa? Dovevo vegliare su me stessa, combattere il male che incombeva su di me, non intervenire sulle mie scelte e che altro? Annotare tutto quanto quello che la me mortale faceva, come la colazione con i cereali, i compiti mollati in bianco, le interrogazioni lasciate al proprio destino? E poi, dovevo scrivere anche di tutti gli eventi che mi avevano rovinato in modo incancellabile la vita?
« Amichan, io... » -Mi voltai solo per scoprire di non essere più nell'etereo nulla in cui mi trovavo poco prima. Ero improvvisamente stata messa da qualcuno in una stanza, ancora bianca, ma di un bianco differente. Prima di tutto, piena di rumori. Voci che non avevo mai conosciuto in vita mia, ma sapevo con precisione a chi appartenessero appena mi sfioravano le orecchie. Un dottore primario inventore di una nuova tecnica di operazioni al cuore, un'infermiera incinta di due mesi, un paziente che sarebbe morto di lì a poco. Ogni senso amplificato mi apriva sulle persone finestre temporali potenzialmente infinite. Se non decidevo di smettere e di chiuderle, avrei visto tutte le loro vite, e le vite dei figli e dei nipoti, e dei nipoti dei nipoti fino alla fine dei tempi. Allungai una mano aperta. Le spensi con un gesto. Prima di tutto, prima di restare incantata su quelle porte dei futuri infiniti possibili, su quelle tv irresistibili... dovevo capire perché ero lì. Il posto l'avevo afferrato subito dalla memoria, anche se leggermente diverso dalle ultime volte che l'avevo visto; era l'ospedale principale di Tokyo.
Mi fregai gli occhi mentre prendevo piano coscienza del fatto che, in effetti e per fortuna con le mie strane fattezze, non mi vedeva nessuno. Riprendendo per un secondo fiato dopo essere riuscita a chiudere quelle orribili immagini future, decisi di dare un'occhiata intorno. Mi ci volle poco più di qualche secondo per rendermi conto che il mondo, visto da una Senshi, è completamente diverso dal mondo mortale. Molti spiriti lo popolano, alcuni buoni e altri altrettanto cattivi.
Vicino all'uomo che avevo visto morire in breve tempo, per esempio, cani neri si accanivano sulla sua carne, affondando i denti dentro di lui e masticando aria. Provare a cacciarli via fu assolutamente inutile. Nemmeno per un secondo mi videro, nemmeno per un secondo smisero di consumare l'aura vitale che circondava l'uomo. Ogni umano ne aveva una. Rosse, verdi o nere a seconda del loro umore, scintille che gli orbitavano intorno con rara bellezza. Era come guardare il mondo attraverso degli occhialetti speciali, creati apposta per gli spiriti. Sentivo il mio diadema pulsarmi in testa, registrando ognuna di quelle impressioni.
Dentro l'infermiera, vidi agitarsi il feto appena concepito. Lo vidi rigirarsi nella pancia, ipnotizzata. Il fascino che tutte quelle vite esercitavano su di me e il piano astrale in cui, nella mia non-vita, ero venuta a trovarmi mi fecero sentire leggera, finalmente, e pronta ad osservare qualsiasi cosa ci fosse da osservare. A registrare. Ad amare. Intorno a me, molte altre Senshi si affannavano vicino agli uomini. Vidi una di loro produrre onde di acqua e rovesciarle addosso a un malato, facendogli tirare un sospiro di sollievo. Vidi una seconda guerriera infilare la mano nel petto di una bambina, e strizzarle il cuore fermo fino a farlo ripartire. Proteggi, sì. Non c'erano solo senshi, tuttavia. Anche mostri e animali di taglie differenti si accanivano su qualsiasi forma di vita presente in sala. Grossi orchi cacciati dai poteri delle ragazze in fuku, e animali che stritolavano in mortali morse soffocanti bambini e ragazzi, o anziani in fin di vita. Mi resi conto che con tutta probabilità la vita e la morte erano presenti lì, in quel momento. E stavano lottando all'ultimo sangue. Io, in particolare, ero dalla parte della vita.
A distogliermi da quelle riflessioni fu all'improvviso la porta principale. Si spalancò con una folata di vento, e l'acqua della pioggia scrosciante e un uomo con in braccio una donna in chiara crisi pre-parto si precipitarono all'interno. L'uomo chiamò immediatamente un dottore urlando, e quello a sua volta con chiari e precisi ordini lo indirizzò in sala parto. Mio padre e mia madre. Con una curiosità che si sarebbe quasi vista scorrere nelle vene eteree -se qualcuno avesse potuto vedermi, ovviamente- mi gettai dietro di loro di gran carriera. L'ostetrica aveva pronta una barella. L'uomo appoggiò la donna su di essa, accarezzandole la testa e rassicurandola con parole d'amore e di dolcezza. Lei deglutì e sorrise, nel breve momento di pausa fra le scosse delle doglie. Era molto pallida e sudata, e chiaramente ancora in preda all'orribile ondata precedente. Stava cercando di smaltirla del tutto, quando la successiva la fece prima mugolare, poi sospirare e infine urlare di dolore. Entrai in sala parto attraverso la parete, e scostai alcuni strumenti che sarebbero stati di intralcio provocando una folata di vento.
La donna -mia madre... la mia mamma- si aggrappò alle maniglie e prese a spingere. L'ostetrica si chinò su di lei, rassicurandola a tratti. Lui le teneva la mano. Con la mia speciale vista a raggi X, vidi la bambina premere per uscire, aiutando sua madre. Lei sembrò soffocare per più di una volta nel tentativo di spingerla fuori, di darle aria e spazio. Io guardavo ipnotizzata la mia nascita. Fui tentata di aiutare più di una volta. Non lo feci, però, visto che l'ostetrica se la cavava egregiamente e anche mia madre non era da meno. Forte e vigorosa come non avrei mai potuto ricordarla, spinse con tutte le sue membra. Sopportò le doglie con stoicismo.
Ed alla fine, ecco, la bimba vide la luce. Subito strillò di dolore, prendendo il primo respiro. Sorrisi, pensando a poco prima. Anche a me respirare aveva fatto male, povera piccola. E anche a me la luce aveva dato fastidio, quando mi ero trovata in mezzo a tutto quel bianco. Le accarezzai la testa, e un leggero calore giallo si irradiò dalla mia mano alla sua testa. Lentamente, smise di piangere e si addormentò fra le braccia dell'ostetrica, che la diede alla mamma ripulita e vestita di una meravigliosa tutina rosa con un coniglio stampato sopra. Le scintille della sua aura saltellarono intorno a lei, prima poche e rade, e poi sempre più vitali e forti.
Credo che nessuno sia mai stato fortunato così, ad assistere alla propria nascita. La maggior parte di noi, quando torna da non-viva, è per una persona diversa. Per qualcuno che ha amato, per qualcuno che ha odiato. In qualsiasi caso, qualcuno con cui ha avuto un forte legame. I casi come il mio, mi ha spiegato Ami, sono più unici che rari. Lei era tornata per Reichan. E io, invece? Eccomi lì.
A guardarmi nascere, a vedermi prendere il dito della mamma come se non ci fosse altro mondo se non quello. Pronta a crescere e a fare tutti gli sbagli che mi hanno resa Usagi Tsukino. A fissarmi così, una strana sensazione mi pervase. Un po' come ascoltare la propria voce in segreteria, o vedersi in video, uno strano imbarazzo misto a vergogna, che mi fece distogliere lo sguardo. La sensazione amplificata, l'avrei provata molte volte, mi dissi, visto che mi sarei vista crescere, fare i primi passi e poi andare a scuola e... il resto.
La verità è che vedere me stessa che mi rovinava la vita non era propriamente quello che mi aspettavo dalla morte: speravo in tutta onestà di andare di là, via. Magari di dimenticare tutto quanto quello che era successo, la mia colpa, il motivo per cui ero morta e il modo in cui la cosa era successa. E invece no, eccoli qui i miei ricordi, fissi nella mia mente come le portate di un aperitivo da matrimonio. Invitanti e poi amari, come non te li aspetti, come un fiume. E adesso che ho questo, questi poteri, questo diadema, tutto quello che vedo mi sembra grande cento volte il resto.
Riguardare il film della mia vita in HD, 3D senza occhialetti e con un registratore che mi dice ad ogni secondo quale di queste idiozie che ho fatto fosse la più grossa non mi ispirava affatto. Chiamai a voce chiara Ami. Lei non si fece ripetere l'appello, e apparve di fianco a me con quel musetto dolce e affabile che aveva sempre avuto anche da viva. Più che mai mi convinsi di non averla mai conosciuta del tutto.
« Mi chiamo Sailormercury. Sailormoon » -Mi sgridò bonariamente mentre Usagi, i pugnetti chiusi come gli occhi, ronfava fra le braccia di una mamma altrettanto esausta. Il papà teneva la testa ciondolante sulla poltrona, addormentato a sua volta, seduto in una posizione del tutto innaturale- « Serata dura per tutti, eh? »
« Non sapevo che il 30 giugno ci fosse stato un temporale estivo » -Dissi vedendo i fulmini fuori dalla finestra, e sentendo l'acqua scrosciare, e poi tornando a osservare Usagi con cura, bevendone i particolari, la testa spelata, un po' a forma di pera, il naso leggermente schiacciato. Sailormercury ridacchiò.
« Nata bagnata, nata fortunata » -Già, mi sarebbe piaciuto che fosse stato così.
« Senti, Amichan, io... »
« Sailormercury »
« Sì, Sailormercury, non sono sicura di essere pronta per questo » -Non ero pronta a vedermi morire. Davvero.
« Ma è un bene che tu non lo sia, Sailormoon. Ricordati, nessuna di noi lo è. Quando una senshi torna per se stessa, a maggior ragione... Posso capire il tuo sbigottimento. Una seconda occasione non è mai facile da accettare, anche se è il dono più grande. » -Come sempre la saggezza di Ami mi aveva lasciata a bocca aperta, e benché avessi ancora tante domande, e volessi farne molte, alla fine compresi che ciascuna non era per Ami, ma per Usagi.
Per quello scricciolo schiacciato fra le braccia della mamma, il papà adesso entrato che piangeva di gioia su di lei, baciandole la fronte e gli occhi chiusi. Per Te, Usagi. Perché se questa è la nostra seconda occasione sul serio, se devo rivedere il film della mia vita, voglio che il copione sia diverso. Voglio cambiare tutte le scene principali, e voglio essere accanto a te in ogni scelta. Voglio che tu comprenda i tuoi sbagli, voglio imparare ad amarti come non ho fatto in vita. Voglio sussurrarti parole d'amore, vere, e magari anche qualche risposta all'esame. Se questa è la nostra seconda occasione, Usagi, la scriveremo insieme. Vorrei chiederti perché hai fatto certe cose, Usagi. Perché non hai studiato quando era il momento, perché hai lasciato andare l'amore? Perché non hai voluto essere quella donna perfetta che potevi essere? Perché non sei stata pronta ad esserlo?
Forse sono domande troppo difficili per una bambina così piccola, e forse le cose da fare sono troppe, le cose che cambierei sono troppo grandi per essere contemplate nel mare delle tue scelte. Le regole dicono che quelle non posso cambiarle, ma forse potrò almeno combattere per provare a farle cambiare a te. Perché se la mia vita... La vita di Usagi deve essere cambiata da qualcuno, quel qualcuno sono io. 
Usagi, vorrei chiederti ancora così tante cose sulla tua vita, sulla tua crescita, e su quello che ami. Su quello che odi, e su quello che provi veramente. E poi, vorrei chiederti com'è stato morire per te. Se hai sofferto come me, se sei da un'altra parte. In un'altra non-vita. In una terza occasione. Ma ho paura che la terza occasione non ci sarà. Perciò sarà meglio che mi metta all'opera. Probabilmente le possibilità di cambiare la tua vita intera sono remote quanto una perla d'ostrica nell'oceano. Ma ci sono cose che non potrò non mutare. Cose per cui combatterò fino in fondo. Chissà se il diadema può farne una lista.
Fissai la bimba dietro un piccolo vetro, il sorriso sdentato stampato sulla faccia già allora. Forza, piccola, pensai. Teniamo duro. Insieme, prometto, cambieremo la tua vita. La nostra vita.

O almeno, almeno l'evento che l'aveva distrutta.

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Capitolo 2
*** Parte Seconda - Scavare ***


Mi scuso grandemente per il ritardo. Ringrazio ogni recensore, ma prometto che vi ringrazierò anche singolarmente. E non dico nient'altro che mi metto solo nei casini. Dico buona lettura e faccio bene a tutti. LoveLove!


Parte Seconda ~ Scavare


Appena mia madre fu in grado di camminare, mio padre la riportò a casa. Ci fu tutta una infinita trafila di moduli da firmare, che seguii passo passo con attenzione e curiosità. Quando venne il momento di scegliere il nome, ebbi momenti di panico. Mia madre voleva chiamarmi Fumiko, e mio padre Umi. Inutile dirvi chi gli mise in testa il magnifico nome che avrei portato tutta la vita. Dovetti spremermi e infilargli le dita nel cervello, ma alla fine mio padre ricordò un fumetto di quando era giovane, Usagi Yojimbo il samurai. In grazia divina, il nome era anche femminile. Insomma, tirai decisamente un sospiro di sollievo.
A due anni mi erano già cresciuti i capelli, della tonalità del grano che avrei cercato di mantenere per tutta la vita ossigenandoli, senza successo. Gli occhi blu scandagliavano la casa con una attività incessante. Le mani schioccavano come le chele di un granchio intorno a tutto quello che trovavano.
Non avrei mai creduto di essere una bambina così adorabile. Mia madre non aveva mai avuto occasione di parlarmi della mia primissima infanzia. Esistevano poche foto di me piccola. Esistevano pochi filmati di me, dei miei bagnetti e di tutte quelle cose di cui di solito una mamma è piena. O forse ne esistevano davvero una marea, e io non li avevo mai visti. Forse la mamma li aveva sempre tenuti per sé fino al momento della mia personale tragedia. Comunque, ero indubbiamente deliziosa.
A un anno circa, forse anche poco meno, riuscii a convincere Usagi a dire la prima parola. Fu un « Ma, ma, ma! » che deliziò mia madre da morire. Rise da impazzire con la piccola me stretta fra le braccia, ascoltò quella cantilena provocata dalle mie smorfie più e più e più volte ancora. E fu solo allora che mi accorsi che, nonostante gli adulti non mi vedessero, sicuramente per Usagi era tutto diverso. Mi vedeva perfettamente e con precisione, sventolava la manina nella mia direzione e si lasciava cullare, di notte, smettendo di piangere appena le appoggiavo una mano sul piccolo petto. E dentro di me si riaccese la speranza.
Se mi vedeva, potevo parlarle. Potevo raccontarle ciò che era successo, capirne le ragioni. Potevo salvare quella piccola felicità, che mi guardava con i suoi occhi blu dal lettino, ridacchiando felice ad ogni saltello. Potevo cambiare la sua vita e la mia, a partire dalle piccole tragedie e fino ad arrivare alle grandi. Mi riproposi di fare un tentativo. Mi avrebbe aiutata di sicuro, se mi avesse vista e sentita parlare, riconoscendosi come se stessa trent'anni dopo. Seduta sulla sua culla, riflettei a lungo su questioni di questo genere, chiedendomi se mai avrei potuto ricominciare da capo davvero. Cercando di ricordare i salienti avvenimenti della mia vita, e tutte le cose che potevo cambiare -e quelle che sicuramente non sarei riuscita a fare, invece- passai notti incerte, divise fra la convinzione di riuscire nel mio intento e la disperazione assoluta dovuta al molto più probabile fallimento.
Quando scoprii di non poter dormire -vegliare era uno dei miei fondamentali compiti- cominciai a passare le notti sul tavolo della cucina, piano astrale, e a scrivere tutto quello che vedevo. Anche quello, mi resi conto, era di utilità assolutamente nulla; difatti ricordavo alla perfezione qualsiasi dettaglio, e il mio diadema era diventato in soli due anni un archivio inesauribile di informazioni che funzionava da solo senza alcun bisogno del mio aiuto.
Mi ci volle del tempo, invece, ad abituarmi ai miei nuovi poteri di senshi. La stanchezza mi era divenuta sconosciuta quando stavo appollaiata sulla testiera del letto a fare smorfie per far dormire Usagi o quando semplicemente l'osservavo con pazienza di notte, controllando che non cadesse (e se cadeva, reggendole la testa per evitare che si facesse male), ma gli attacchi degli youma erano tutt'altra cosa.
All'inizio non mi accorgevo che ci fossero, riuscivano ad ingannarmi con facilità e con astuzie al di fuori del comune: io non li vedevo, e loro si arrampicavano sulla culla cominciando a cantare nenie strane ed inquietanti, dalle quali li distoglievo appena mi rendevo conto dell'imbroglio.
La prima volta che dovetti fronteggiarne uno, era grosso e alto almeno sei metri, tanto che il suo corpo se ne stava piegato in una orribile massa informe che evidentemente non riusciva a controllare con precisione, perché più che camminare rotolava rantolando animalescamente. Mi spaventai talmente tanto, vedendolo muoversi in quella maniera in direzione di Usagi, che presi a strillare con il fanatismo di chi ha visto il suo assassino, sbracciandomi e cercando di cacciarlo come si fa con una mosca. Evidentemente quei gesti attirarono adeguatamente la sua attenzione, perché si bloccò istantaneamente per fissarmi con quello che con tutta probabilità era il suo unico occhio.
« Amichan! » -Strillai, posseduta dal panico incontrollato, senza riuscire a contenerlo- « Amichan! Aiuto! »
Ma Ami non era venuta, e non mi aveva fatto sapere cosa fare con quella voce sapiente e saggia che più di una volta mi aveva tranquillizzata anche in vita.
« Amichan! » -Avevo chiamato allora, ancora una volta- « Se la mangia, se la mangia, Amichan! »
Oramai certa di essere l'unica testimone del fatto che quella... cosa stava aprendo la bocca tanto da inghiottire Usagi per intero, e sicura che la cosa non avrebbe giovato alla mia reputazione di Senshi, angelo, custode, qualunque cosa fossi diventata, e più timorosa del giudizio finale che per una vera e propria voglia di gettarmi nella mischia, decisi perciò di intraprendere un'azione coraggiosa e ferma. Come prima cosa, cercai di armarmi. Guardandomi velocemente intorno, e cercando di afferrare un portaombrelli dall'atrio, mi resi conto per la prima volta di non aver mai toccato un oggetto nella mia vita.
I muri li oltrepassavo con serenità, e non avevo mai avuto bisogno di nutrirmi o di fare altro che potesse richiedere l'utilizzo di qualsiasi cosa del piano materiale. Dopo aver passato le mani sul portaombrelli diverse e svariate volte, mi convinsi che sul piano astrale non gli avrebbe sicuramente nemmeno fatto male -piuttosto, avrebbe rischiato di farne alla bambina.
Quando però l'orrida creatura le prese davvero la testa in bocca e cominciò a succhiare via la luce che l'avvolgeva fin da quando l'avevo vista nascere, compresi con precisione millimetrica che né Ami, né nessun altro sarebbe arrivato a proteggere quella bambina indifesa. Mi risuonò nella testa il canto che diceva proteggi, ama; qualcosa si ruppe violentemente dentro di me, così esplosi in una corsa sgangherata e molto poco guerriera, gridando qualcosa che suonò come « AYAYAYAAAAAAH » -e che nella mia testa era esattamente un grido di guerra pellerossa.
Sorprendentemente, la cosa funzionò. La suprema forza che mi aveva messa a capo del programma protezione di me stessa intervenne, il mio corpo irradiò una formidabile luce che spazzò tutta l'oscurità nel giro di chilometri, e lo youma si ritirò in se stesso, sparendo alla vista e lasciando solo una Usagi in lacrime. Mi ripromisi massima attenzione, da quel momento in poi, ma i trucchi dei demoni mi hanno spesso ingannata. I primi tempi, diffidavo di chiunque e di qualunque forma che non fosse la mia vecchia me stessa.
Una volta Sailormercury venne a trovarmi e la colpii con un fendente di luce così netto da farle quasi perdere l'equilibrio. I segni che mi ero fatta astralmente sulle guance non lasciavano scampo, così come la benda che mi ero legata sulla fronte. Era in territorio nemico.
« Non mi ingannerai, Youma! » -Avevo detto puntandole addosso un pugno carico di energia luminosa.
« Sailormoon, la diffidenza è un bene. La fiducia è una virtù » -Una frase come quella non avrebbe che potuto essere pronunciata da Ami. Passai le successive due ore a profondermi in scuse troppo zuccherine, prima di ascoltare veramente quello che era venuta a dirmi.
« Ho visto che hai avuto una discussione con il portaombrelli. » -Aveva esordito facendomi istantaneamente arrossire. Era vero, l'avevo avuta; annuii con timidezza- « Gli oggetti non si toccano in quel modo »
Alle labbra mi salì una domanda spontanea del tipo e allora come diavolo si toccano, ma contenni la mia esuberanza ricordando il modo in cui poco prima avevo cercato di colpirla. La mia smorfia dovette tuttavia lasciare intendere fin troppo bene quello che avevo appena pensato, perché Ami rise di gusto.
« Devi pensare alle cose per passare attraverso il piano astrale. Se vuoi attraversare un muro, pensi inconsciamente PORTA, e se vuoi afferrare una forchetta devi pensare con cura FORCHETTA » -Come logica, mi sembrò un po' forzata.
« Sicuro? » -Domandai con reticenza allungando una mano in direzione del libro più vicino. Non avevo mai pensato alla possibilità di leggere.
« Ma certo »
E va bene. Mi concentrai. Libro, pensai. Libro, Libro e Libro. La parola mi si incuneò nel cervello, avvitandosi come un tornado e rimbombandomi nella testa. Libro, libro, libro. Incredibile. Non ero mai stata capace di concentrarmi in quella maniera in tutta la mia vita. Oh. Forse era proprio questo, adesso non c'era più la vita a distrarmi. Tesi la mano.
Il libro sembrava più solido. Fluido, quasi, come percorso da una increspatura impercettibile. Le dita sfiorarono la superficie e poi ci si chiusero sopra, mentre scintille argentee danzavano attorno al punto di contatto.
« Vedi? » -Ritrassi la mano di scatto e flettei le dita. Sembrava tutto a posto. Non male per una neodefunta. Un oceano di possibilità mi si aprì di nuovo davanti al viso. E poi, la terribile ondata di consapevolezza se lo portò via tutto.
« E se uno prende una pistola? E poi, voglio dire, spara a tutti, tipo? » -Con quell'idea, uno aveva tutte le potenzialità del mondo. Poteva ammazzare centinaia di persone o nutrirne migliaia.
« Non bisogna abusarne »
« Ma Ami... Sailormercury » -Mi corressi immediatamente quando vidi il rimprovero farsi strada sul suo viso, facendo ammenda con le mani- « Gli umani non sono in grado di non abusarne »
« Noi senshi non lo facciamo, infatti... Perché non siamo degli umani. Ti renderai presto conto di quanto forte sia il tuo animo. È degli youma, che ci preoccupiamo che lo facciano. »
« E dobbiamo... impedirlo? » -Domandai con un velo di preoccupata necessità. Non mi andava di affrontare ancora tanti di quei cosi, e poi... Non sapevo con precisione come avevo fatto, questa era la mia prima verità. Avevo solo gridato e agitato le mani ed era tutto venuto da sé. Sperai che fosse così anche le volte a venire -e così sarebbe stato più o meno, in effetti.
« Dobbiamo farci attenzione » -Rinunciai ad ascoltare oltre e tornai alla mia guardia evitando con cura di pensare LIBRO mentre mi sedevo sull'astrale bordo del letto. Amichan sparì, con quella sua risata divertita che mi avrebbe accompagnato per lunghi anni a venire. Con il venire dell'inverno e della primavera, e poi del nuovo autunno, cominciai a prendere più dimestichezza con quello che ero diventata.
Innanzitutto presi a chiamarmi Sailormoon, e smisi di chiamarmi progressivamente Usagi, riferendomi con quel nome solamente alla mia nuova protetta. E poi la mia vista cominciò a dare tutti i numeri più uno; non solo vedevo aure, youma e finestrelle temporali, ma anche composizioni chimiche e fisiche e molto altro ancora.
Dopo qualche esperimento, scoprii che qualsiasi oggetto possedeva un'aura e un pizzico anche minimo di forza vitale. I ricordi avevano da fluttuare anche fra il legno e l'imbottitura di un materasso. In quel caso, si trattava soprattutto della gente che ci aveva dormito, ma decisi comunque di tenermi il più possibile alla larga da qualsiasi altro mobile.
Il fatto di non poter dormire cominciò a pesarmi. Eccomi lì a perdere tempo, l'orologio spettrale che mi raccontava che stavo andando verso una fine terribile, scaricandosi di secondo in secondo, mentre la bambina che dovevo aiutare se ne stava beata a dormire sotto di me, piangendo e russando a fasi alterne. Tipico.
Provai più di una volta a guardare la televisione. Macché. La mia aguzzata vista sovrannaturale distingueva ogni elettrone sullo schermo, e per mettere a fuoco le immagini era necessario un immane sforzo di concentrazione.
Pensavo che mi fosse rimasta l'idea di consolarmi con il cibo. Non che avessi fame, giusto per fare qualcosa, per ricordare i vecchi tempi della vita. Per perdere il tempo in modo migliore. Trovai nel frigo una mousse al cioccolato e la divorai con le dita. Disgustoso, ma che bontà!
Tutto quanto andò per il verso giusto finché continuai a pensare mousse, ma non appena smisi di pensare alla mia pancia nuovamente piena, il viscidume marroncino cominciò a fuoriuscire dalle pareti dello stomaco e, una volta fuori dall'aura, la forza di gravità lo spiaccicò sul parquet.
Passai due ore a pulire.
A quanto pareva non solo non avrei avuto più fame, ma nemmeno l'occasione di rimpinzarmi. Con un sospiro, alla fine, decisi di stendermi sul letto accanto a Usagi, senza provare a pensare portaombrelli nonostante la forte tentazione. Però sentivo le gocce del latte sfuggite al biberon strepitare dietro il cuscino, e da qualche parte là sotto c'era un peluche a forma di unicorno. O forse c'era stato.
Era di Makoto.
Quando il letto mi parlò del peluche di Makoto la prima volta, restai di sasso. Makoto era diventata mia amica dal primo giorno della scuola materna, ma fino a quel momento non l'avevo mai vista. Come era possibile che un suo peluche fosse finito sul letto di Usagi in quei pochi anni di vita? Bastò chiedere gentilmente al letto quale fosse la verità per scoprirla in un battibaleno; Makoto era nata nel mio stesso reparto ospedaliero. Non lo sapevo, naturalmente, ma inizialmente non riuscii a trovare un nesso fra la sua nascita e il fatto che un suo oggetto fosse nel mio letto. Il legame c'era eccome; sua madre aveva donato a mia madre l'oggetto, e probabilmente quello aveva portato con sé il ricordo della sua prima padroncina. Avevo immaginato più e più volte che fra me e le ragazze ci fosse un legame molto più forte del semplice incontro fortuito o della banale coincidenza.
L'incontro con Makoto, la nostra amicizia fondamentale, e tutto quello che avevo passato con lei andava molto oltre. Era qualcosa che a naso avrei provato a chiamare Destino, ma che subito dopo provai a correggere in entità suprema, valore supremo e altri cento termini inadatti a descrivere la cosa.
Sailormercury venne da me molte volte in quel tempo. Ancora e ancora. Mi raccontò del destino e di noi, del fatto che il nostro incontro fosse voluto da sempre e del grande disegno che ci aveva unite.
E io continuai ad avere la tremenda impressione di essere nel posto sbagliato, al momento sbagliato, di dovermene stare in qualche Altrove blu o rosso, a scontare le pene di quello che avevo combinato di orribile nella vita, non a rivedere la videocassetta della stessa. E in qualche modo, probabilmente, quello era proprio quello che stava succedendo. Mi stavano punendo per tutto. Più di una volta mi scoprii a cercare di singhiozzare.
Cercavo di piangere per sfogare la terribile frustrazione che mi attanagliava, il tremendo senso di colpa che cresceva vedendo la mia altra me fare i primi passi, abbracciare mia madre, assaporare il suo profumo di menta e gelsomino senza la precisa consapevolezza che un giorno l'avrei delusa come figlia e come donna. Senza sapere niente di quello che sarebbe venuto, ignorante di tutto quello che io le avevo fatto passare. Cercavo di piangere perché speravo che dalle mie lacrime qualcosa sarebbe nato, qualcosa di buono. Tutti tornano per proteggere i loro familiari, i figli, le persone che avevano più care.
Io invece cercavo di piangere perché ero destinata a proteggere me stessa, a inciampare nei miei stessi ricordi, a sentire la voce di un peluche rosa a forma di unicorno che la mia migliore amica mi aveva regalato ancora prima di sapere di esistere, a turbinare in una storia che non sapevo se sarei stata in grado di cambiare. Forse dovevo ancora capacitarmi dell'idea di non essere del tutto morta, o forse la lista era ancora stilata incompleta, nella mia testa. Forse non ero ancora in grado di obbedire all'ultimo dei comandi che mi erano stati impartiti. Non mi amavo e sarebbe stato difficile riuscire a farlo guardandomi rovinare tutto.
Ma, mi dissi, se esiste qualcosa che mi mette in questo piano astrale, allora c'è anche qualcosa che mi permetterà di uscirne. Fu così che cominciai a stilare la lista sul serio. Come una lista vera, intendo. Il diadema mi assecondò come sempre, e di notte mi parve di perdere molto meno tempo da quando i punti cominciarono a farsi più nitidi.
Atrofizzata nei miei astrali muscoli, passai in rassegna la mia vita individuando con più precisione possibile una serie di errori. Cose che non avevo fatto quando ne avevo la possibilità. Non è stato facile, credetemi, c'era solo che l'imbarazzo della scelta. Ma alla fine, riuscii a trovare dei momenti cruciali sul serio. Otto. O nove. Forse anche dieci, ma più o meno quel numero. Visivamente quello che il diadema scriveva era assolutamente indecifrabile per chiunque, ma nella mia testa non aveva alcuna importanza; le parole cantavano nelle mie orecchie ancora prima di pensarle. La sofferenza che trapelava dalla mia lista si librava nell'aria in gemiti vischiosi.
Il rimpianto è un incentivo potente.
A qualcuno poteva sembrare sicuramente una lista assurda, ma quelli erano davvero i miei peggiori fallimenti. E adesso avevo una buona occasione per rimediare. Non avrebbero probabilmente fatto la differenza, per me che avevo sofferto già una volta tutto quello, ma avrebbero cambiato l'opinione che avevo di me stessa. Avrebbero cambiato la vita di un'altra me. Avrebbero dato la felicità a qualcun altro.
E non c'era di che pensare “quando sarai più grande capirai” -io, più grande non sarei mai più diventata.
E quella lista, forse, era l'unica speranza che rimaneva per il paradiso... per tutte e due.
Da viva mi chiamavo Usagi Tsukino. Dopo la mia morte, sono diventata questo. Una senshi, Sailormoon, e adesso guido una me stessa più giovane, che ha tutta la vita davanti e tutte le scelte possibili.

Anche quelle giuste, questa volta.

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