Helleborus di cartacciabianca (/viewuser.php?uid=64391)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: In Anima Vili ***
Capitolo 2: *** Sufficit Diei Malatia Sua ***
Capitolo 3: *** Nemo mortalium omnibus horis sapit ***
Capitolo 4: *** Dies Irae - Parte 1a ***
Capitolo 5: *** Dies Irae - Parte 2a ***
Capitolo 6: *** Dies Irae - Parte 3a ***
Capitolo 7: *** Furor et venia ***
Capitolo 8: *** Vento secondo vei ***
Capitolo 1 *** Prologo: In Anima Vili ***
Helleborus
(dal latino, Elleboro)
è una
long-fiction incentrata sui fatti prettamente
“visivi” del trailer di lancio presentato alla E3
2010.
La narrazione – che si colloca poco tempo PRIMA di quel
trailer – comprenderà una ventina di capitoli
centrali, un prologo e un epilogo.
Saltando la conclusione che Brotherhood non è ancora uscito
– e perciò nessuno di noi sa cosa aspettarsi prima o dopo quel beneamato
trailer – ho voluto creare un “What
If…” tutto mio, caratterizzato da un primo
tentativo di assassinio di Cesare/Rodrigo e un presunto fallimento.
Pertanto, le scene da me di seguito descritte non ricalcano
assolutamente parti del gioco, ma sono frutto della fantasia della
sottoscritta. Gli unici spoiler saranno unicamente di carattere
storico. :) Amando
entrare molto nei dettagli, buona parte della fan fiction vi
parrà, sì e mi dispiace dirlo, una pallosa
analisi psicologica dei cinque assassini – Ezio compreso.
Non
c’è un vero e proprio protagonista. La mia
attenzione di narratore esterno cadrà una volta sui nuovi
personaggi, una volta sui soggetti di questa immagine [link]
ai quali
mi sono divertita ad affibbiare dei nomi provvisori, con il cento per
cento di certezza che, quando uscirà Brotherhood e
scopriremo quelli veri, farò una
‘sìddetta figura di miedda. Ma vabbe’,
vorrà dire che chi leggerà questa storia dopo
l’uscita del gioco si farà quattro risate! XD
Vorrei ringraziare, per
la pazienza dimostrata nel sopportare le mie confessioni, Elkade
e manga_darling.
Mi sono lamentata con entrambe sulla mia incompetenza nel tenere al
guinzaglio la fantasia, quando questa mi sveglia alle 2 di notte con
una storia tutta nuova da scrivere.
Dedico
la fan fiction, inoltre, a tutti quei fans sfegatati che, come
me, non riescono a togliersi dalla mente il personaggio di cui
vestiranno i panni nel multigiocatore. (E ve lo dice una che ha provato
la Beta ;) Ci becchiamo tutti lì :3
Detto
ciò, come Ezio Auditore il suo Requiescat, recito:
Questi
personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà della
Ubisoft (fatta eccezione per il profilo degli Apprendisti ed eventuali
nuovi personaggi);
questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
Capitolo I
Prologo: In
Anima Vili
“Tu
non tentar l’avvelenatore, e il veleno non sarà
tentato da te.”
La chiamavano Locusta, come l’avvelenatrice che nel I secolo
dopo Cristo servì Agrippina nel suo assalto al trono
imperiale. Cesare aveva ordinato che fosse scovata e condotta in
Vaticano giusto quella notte. Gli scopi del Valentino erano simili o
ancor più subdoli alla madre di Nerone.
La donna, coperta da un pesante mantello di lana e scortata da due
guardie a cavallo, giunse nel cortile sotto uno squarto di limpido
cielo stellato. La sua figura proporzionata cavalcava
all’amazzone un asino picco e tozzo che, pure affiancato da
due possenti palafreni rivestiti di cotte da guerra, non si azzardava a
fiatare mantenendo lo stesso contegno della padrona. Ella
smontò agilmente di sella e s’avviò
spedita sulle scale, sapendo già dove dirigersi, pedinata da
tre alabardieri.
Cesare si staccò dal balcone e tornò nella stanza
illuminata solo da qualche candela. Giunse le mani dietro la schiena e
si posizionò al centro del tappeto, in attesa che la sua
ospite varcasse la soglia a lui di fronte.
Erano in pochi a conoscerla di persona, ma ancor di meno a permettersi
di pronunciarne o raccomandarne i servigi. Durante la sua permanenza a
Roma, Cesare ne aveva ignorato l’esistenza come,
d’altronde, il basso popolo romano faceva da secoli. Per
questo motivo persino il figlio del Papa aveva faticato a rintracciare
chi sapesse indicargliela.
Si pensava che fosse la diretta discendente della fattucchiera che
aveva miscelato il veleno per Claudio, e che pertanto ne portasse lo
stesso nome. In realtà era stata l’ignoranza
locale ad affibbiarle quel diritto di sangue, alimentando oltremodo il
mito. Tutto ciò che componeva la sua leggenda era stato
tramandato per sentito dire. Si sapeva con certezza che la donna
abitava fuori dalle Mura Aureliane, lontano da controlli di guardia o
vicini spioni. A quel punto le opinioni raccolte dai suoi informatori
si ramificavano in più parti: alcuni avevano riferito che
viveva in una fetta di campagna abbandonata alla mercé di
rovi e d’erbacce, così che nessuno potesse
avvicinarvisi facilmente; altri avevano sussurrato ch’era
accampata sulle sponde del Tevere, tra rospi e canneti, in un piccolo
quartiere paludoso. Nonostante l’infecondità o
l’ostilità del terreno, in entrambi i casi, le
visioni pubbliche concordavano sul fatto che in qualche arcano modo
coltivasse da sé tutti gli ingredienti a lei necessari,
piantandone un giorno il seme e cogliendone il giorno dopo la pianta.
Il mito, per Cesare, l’aveva alimentato chi sosteneva di
averla vista assemblare e smontare a piacimento la sua casa con
l’uso della stregoneria.
Sommando il tempo che c’era voluto per trovarla, il Valentino
l’aveva attesa per settimane nella stanza che avrebbe
ospitato il loro segretissimo incontro; poiché neppure
l’Alessandro VI, in quei primi anni del ‘500 Papa e
principe d’inganni, o Lucrezia sospettavano che Cesare,
figlio per uno e fratello per l’altra, avrebbe ordinato il
più infido tra gli omicidi al più insormontabile
dei nemici.
Gli anni all’apice del potere erano volati via e la colpa era
degli Assassini, che come parassiti si erano impuntati a sabotargli le
forze. Se nessuno fosse intervenuto, si sarebbe avviata una discesa
lenta e inesorabile, ma Cesare avrebbe fatto qualsiasi cosa per
impedire che accadesse.
La sua coscienza di generale di guerra splendeva unicamente
dell’idea che, a cose fatte, i suoi alleati
l’avrebbero guardato col doppio del rispetto - da non
confondere col timore - e i suoi nemici non l’avrebbero
guardato affatto. Mai più. Dopo quella e la notte
successiva, Cesare avrebbe potuto ammirare dal suo balcone la fuga
degli Assassini con la coda tra le gambe. I suoi epocali avversari si
sarebbero dispersi per la Romagna come formichine, sul cui formicaio
s’era divertito a saltare personalmente. Avrebbe fatto dare
loro la caccia in tutt’Italia e all’estero, se
necessario, fin quando anche l’ultimo di quegli insetti
ammorbanti non fosse perito sotto la suola dei suoi stivali.
Nei minuti che restavano cercò di svuotare la mente,
domandandosi semplicemente che aspetto avesse una strega capace di tali
nefandezze. S’immaginò di tutto: una vecchia col
bastone, un’asiatica con serpenti attorcigliati su polsi e
caviglie, un’anziana fattucchiera greca; oppure -
l’idea gli strappò un respiro profondo - una
piacevolissima e giovane dama dalle forme prorompenti e la lingua
biforcuta, come Cesare ne aveva domate poche.
Fu allora che Locusta fece la sua apparizione, sorprendendo il
Valentino con quel ghigno ambiguo che la visione di una bella donna gli
stampava in faccia. Al contrario, l’impressione che si fece
di lei, non appena la vide avvolta in quella mantella pesante, fu di
estrema povertà. La lana era grezza, sciupata e scolorita, e
le dava inoltre un aspetto gobbo. Il largo cappuccio, opera di un sarto
alle prime armi, copriva la maggior parte della piccola testa.
Là sotto, azzardò Cesare, poteva nascondersi una
capigliatura altrettanto deforme.
La donna gli si posizionò dinnanzi e proferì un
mezzo inchino. Quando tornò retta, Cesare si accorse che in
altezza li separavano pochi centimetri, mentre guardandola dal balcone
gli era parsa una differenza più considerevole. Il Valentino
congedò le guardie, dopodiché invitò
la sua ospite ad accomodarsi.
La donna rifiutò, impuntandosi al centro della stanza.
“Limitatevi ad avanzare la vostra richiesta, mio Signore,
senza offrirmi i vostri favori”
disse freddamente in un latino stretto e dall’accento
nordico.
“Un uomo come me cosa potrebbe volere da una donna come
voi?”
Locusta sostenne il suo sguardo ambizioso. “Di che genere e
applicazione?”
“Non troppo immediato, con sintomi anomali. Da
freccia.”
“Da freccia?” persino Locusta metteva in
discussione il suo onore, ma notando il viso del Valentino contorcersi
in una smorfia contrariata, impiegò poco a trasfigurare
stupore in interesse: “La quantità?”
“Un solo utilizzo.”
“Avventato” commentò la fattucchiera.
“L’affidabilità dei miei uomini non vi
riguarda.”
“Fino a quanto sapete contare, mio signore? Per
più archi non basterà una sola freccia”
ironizzò con un risolino.
Cesare tacque. Se avesse continuato ad essere così irritante
l’avrebbe strangolata personalmente. Non gli piaceva che
quella donna si ponesse al suo stesso livello, usufruendo di una
confidenza non autorizzata. Il Valentino si stava irritando e non
poco. “Cosa vi occorre?”
domandò direttamente. Era ufficialmente già stufo
di quella cagna e voleva togliersela dai piedi il prima possibile.
La fattucchiera recitò una serie d’ingredienti
comuni che sulle prime screditarono la sua infallibilità.
Per ultimo lasciò il nome di una pianta che guariva,
piuttosto che uccidere.
“Salderete il debito del fallimento con la vostra
vita,” ringhiò Cesare, “tenetelo a
mente.”
La notte successiva Locusta tornò in Vaticano, ma questa
volta in buona compagnia.
Si presentò a Cesare con un serpente del deserto dalla testa
sottile, bianco, attorcigliato sul braccio. Mostrò la
creatura al Valentino dopo averla tenuta nascosta alle guardie di
scorta, durante il viaggio, sotto il mantello. Intenzionato a non
lasciarsi stupire oltre, Cesare congedò le guardie ordinando
che nessuno li disturbasse fino all’alba. Per
quell’ora Locusta sarebbe stata fuori dalle Mura Vaticane con
il suo mulo carico d’oro, lontano da Roma ma soprattutto dal
suo committente.
Quando la donna si fu accomodata al tavolo imbandito, la bestia si
srotolò dal suo polso e prese posto autonomamente accanto al
resto degli ingredienti. A quel punto la fattucchiera si
levò il cappuccio, mostrando un volto raffinato e di pelle
chiara. Occhi azzurri e labbra sottili, caratteri tipicamente nordici
come i capelli biondi, tagliati cortissimi.
“Quanto tempo ci vorrà?”
domandò Cesare, avvicinandosi, meravigliato da tanta
bellezza.
Locusta non rispose. Passò in rassegna le piante e gli oli
disposti ordinatamente sul tavolo, verificando che fossero tutti quelli
da lei richiesti.
Cominciò col tagliare e bollire in un pentolino di rame il
“serpente
dagli occhi blu” tanto fedele. Nel frattempo
ridusse in polvere del muschio e bulbi di narciso, per poi gettare il
tutto ad acqua e fuoco.
La professionalità con la quale aveva confezionato
l’infuso avrebbe fatto invidia a Lucrezia. L’ultimo
ingrediente aggiunto, una pianta dagli enti curativi, Locusta lo
trattò con la massima delicatezza, come se fosse stato un
prezioso e raro rubino.
Appena fu ultimato, Locusta mostrò al Valentino come
applicare il veleno sulla punta di una freccia. Dopodiché si
affacciarono entrambi dal balcone della stanza. Puntando una guardia
qualunque tra quelle che facevano la ronda nel cortile, Cesare
scoccò il dardo avvelenato che colpì solo di
striscio il malcapitato.
“E’ sufficiente” lo rasserenò
Locusta.
Quando giunsero nel cortile, l’uomo stava per essere soccorso
dai compagni allarmati. “Fermi” ordinò
Cesare vedendo che qualcuno si apprestava a portarlo via.
“Non avvicinatevi, lui non va da nessuna parte”
decretò.
Le guardie ammutolirono e, ad un secondo comando, tornarono a fare la
ronda ignorando le grida del compagno.
Il soldato, in preda alle vertigini, si dimenava in terra continuando a
strillare di essere cieco.
In due ore circa, molto dopo che Cesare aveva già ordinato e
assistito alla decapitazione della donna, il veleno di Locusta ebbe
effetto e la guardia morì.
.:Angolo
d’Autrice:.
La
figura misteriosa di Locusta, che la storia degli Imperatori ha
macchiato col sangue degli stessi, rimase a lungo nell’ombra
del secondo piano. La donna, chiamata prima in causa da Agrippina,
ordinando l’avvelenamento del vecchio Imperatore Claudio,
avrebbe spianato la strada per figlio di lei, Nerone. Alla dichiarata
morte dell’Imperatore, restava da far fuori l’erede
legittimo, Britannico. Sempre a questo scopo fu richiesta Locusta. Alla
fine Agrippina aveva visto realizzato il suo sogno, prima di sentirsi
bruciare la gola dallo stesso veleno confezionato ai parenti. Il
figliol prodigo, infatti, non aveva esitato a togliersi di mezzo anche
quell’incomodo. Potendo regnare indisturbato, Nerone aveva
ripudiato i servigi di Locusta non senza ordinare la sua cattura e la
sua esecuzione, affinché nessuno potesse trarne altrettanti
servigi e la verità sprofondasse con lei nella tomba.
Il
mio Cesare è un po’ il Nerone della situazione
:) anche se la storia ce lo dipinge capacissimo di confezionarsi un
veleno da solo. In extremis, avrebbe potuto chiedere aiuto alla
sorella, direte voi, la cui fama di avvelenatrice si è
sospinta nei secoli fino a noi. Ma la figura di Lucrezia, in questa
storia, va molto fuori quella che conosciamo noi e probabilmente
conosce anche la Ubisoft, per necessità
d’intreccio.
Ed
eccomi tornata a rompervi le scatole! Avevo annunciato che storie
passate, presenti e future avrebbero visto capitoli pubblicati solo al
completamento delle stesse, ma la verità è che
sono una gran bugiarda! :D Non ho resistito alla tentazione (o al
bisogno) di cominciare la pubblicazione di questa storia prima
dell’uscita di Brotherhood, così da non dover
riscrivere determinati capitoli al fine di farli combaciare al gioco.
Non per fare razzia o vantarmene, assolutamente, ma questa storia in
particolare per me vale molto più delle altre. Ci sbatto la
testa contro tutte le notti, prima di andare a dormire, sognandomene
poi una determinata scena o un determinato personaggio. Helleborus
è nata, sì e no, circa due mesi fa, quando
scoprimmo in grande spoiler e per la prima volta, che Ezio, al suo
fianco, avrebbe avuto degli “apprendisti.” Da quel
momento la mia fantasia è entrata in una frenetica spirale
che sta portandomi verso il più grande sogno mai partorito
fino ad ora. Gli aggiornamenti di Helleborus non saranno costanti
quanto i miei episodi di vita, ma Helleborus è un pezzo
della mia vita :)
Cos'è
Helleborus (non)
in breve...
Ci
sarà
qualche sprazzo di storia della famiglia Orsini, un nobile casato
romano che rifornì la Chiesa Cattolica di Papi, Vescovi e
Cardinali per generazioni. Non furono tutti o in parte fedeli al Papa
spagnolo *sorisetto malvagio*.
Le
vicende legate a questa famiglia, tra cui l’avversione per
i Colonna e il sottomesso/dovuto rispetto ai Borgia, mi hanno colpito
molto. Presto scriverò anche un full immersion nella storia
della dinastia Orsini, in questi anni Signori rispettivamente di
Anguillara, Cerveteri, Oriolo Romano, Ladispoli, Monterotondo,
Bracciano, Trevignano ed altri, e la battezzerò come
“Le Cronache di Gentil Virginio”.
Il
filo principale,
sperando che catturi la vostra attenzione, è la storia di
come Ezio, nel passaggio da AC II a Brotherhood, capisce che il
sostegno del popolo è importante sotto tutti i punti di
vista. L’Assassino imparerà dai propri errori e
vedrà crescersi ai fianchi amici preziosi, più
che veri e propri scagnozzi. Le circostanze spietate – la
cecità e il fallimento della missione – fungono
solo da cornice all’ideale centrale della fan fiction.
La
lotta personale contro Cesare Borgia ha rinchiuso Ezio in quel
“cinismo fatale” dei più spietati serial
killer – qualcuno ha mai visto Criminal Minds? E per questo
motivo, in un primo momento, l’ho immaginato mentre agisce
impulsivamente, come una bestia affamata che, di fronte alla preda, non
si ferma ad ascoltare le sue supplice di pietà, tantomeno
perde tempo a guardarsi le spalle dando tutto troppo per scontato:
nessuna trappola, nessun tradimento, nessun veleno… solo tu
e il target, nient’altro. Il mio Ezio sarà
determinato a tal punto da ignorare addirittura il Credo
stesso… vi ricorda qualcuno? ;) Esatto, sto parlando
dell’Altair d’inizio game. Ve lo ricordate quello
spietato assassino che pur di conseguire il suo obbiettivo –
o applicare una vendetta personale – manda a puttane la
missione nel Tempio di Salomone con le varie conseguenze? Questo
sarà Ezio nella prima parte della mia fan fiction. Poi
accadrà qualcosa che lo sconvolgerà quanto basta
per farlo tornare sulla retta via.
Pensiero
egoistico il mio: pretendere di poter manipolare i personaggi
della Ubisoft come pongo, intendo, sporcando di veleno la fama
magistrale di Ezio; quale fan accanito tra voi non preferirebbe tirarmi
addosso un’accetta piuttosto che proseguire nella lettura? Ma
avanti, cos’altro sono le fan fiction se non distorsioni
della trama
originale? Io ho
creato la mia, una da aggiungersi alle
tante :) Si capisce che mi manca tanto il cazzuto assassino che fa
arrabbiare Malik? :D
Ma
tornando ad Ezio…
Per
garantire il fallimento
alla base della storia, tralascerà ovvi dettagli che invece,
i suoi fedeli assistenti, tenderanno a considerare e circoscrivere per
lui, pur non potendo ribaltare gli ordini del loro superiore. Ezio,
infatti, vi parrà freddo, inconsistente e, da un punto di
vista umano,
insensibile; un suo adepto lo nominerà addirittura
“senza
cuore”. Divenuto
da poco Maestro degli
Assassini, Ezio è solo una parte di quell’uomo
determinato, valoroso e fatale che vediamo nel trailer di lancio.
L’altra metà saranno i miei nuovi personaggi a
donargliela…
Il
popolo di Trevignano
– frazione di Bracciano, paese stupendo, tutt’ora
esistente e celebre per lo storico circolo di vela 3V che
frequentò st'estate mio fratello XD – sosterranno
la causa degli Assassini non potete nemmeno immaginare quanto,
arrivando addirittura a dare la vita per Ezio e i suoi compagni.
I
turbolenti anni del primo ‘500 sono caratterizzati dalla
fama di potere di un Tiranno e del suo Cardinal Prodigo. Il popolo che
vi descriverò vive in una quasi condizione di
schiavitù e certo non appoggia il fatto di dover dipendere
da un simile “cancro”. Anche quando studiai questa
parte di storia alle medie vidi sempre nel Valentino – Cesare
Borgia – una figura negativa. Certo, all’epoca ne
parlammo ed io me ne interessai pochissimo, ancora tutta presa dalle
Crociate, ma ero inconsciamente già schierata con gli
Assassini! Ora basta, credo di avervi rotto a sufficienza! XD
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Capitolo 2 *** Sufficit Diei Malatia Sua ***
Helleborus
Capitolo
II
Suffucit
diei malatia sua
(Ad ogni giorno basta il suo male)
Era
un buco di stanza, ma agevole abbastanza da custodire sia la segretezza
sia l’importanza del loro incontro. Le pareti si confondevano
col soffitto, le finestre sprangate, il pavimento di pietra. Il flebile
chiarore di alcune candele era sufficiente a distinguere un tavolo e
una mappa geografica distesa su di esso. A tenerne piatti gli angoli
c’erano da una parte le scodelle nelle quali colava la cera
delle candele, dall’altra uno stocco dalla lama sottile e
un’ascia da guerra dal fusto imbottito e l’aria
pesante. Spianata per bene sul ripiano e larga tre piedi per quattro,
la cartina era una perfetta ricostruzione – molto dettagliata
e artigianalmente dipinta – del sestiere storico romano. Era
di un papiro non troppo antico, ma ugualmente pregiato e piuttosto
spesso, oltremodo resistente agli acciacchi degli anni e agli agenti
della polvere. Poteva avere duecento, forse trecento anni quanto essere
una banale riproduzione di un esemplare andato perduto. Fatto sta che
il talentuoso geografa-artista aveva scelto di esaltarne i monumenti
più importanti, ingigantendoli: c’erano il
Colosseo, affiancato da un’inserzione latina e la data di
costruzione, le Terme e la villa di Nerone, anch’esse seguite
da uno specchietto con le rispettive nomine storiche. Il Circo Massimo,
il Foro, il Mercato e la Colonna di Traiano, principali punti di
riferimento della città. In pompa magna la vecchia e
rudimentale Basilica Costantiniana – futura San Pietro
– e altri edifici cattolici romani. Il Tevere era un serpente
d’argento che stritolava i Sette Colli, la cui fonte e foce
si nascondevano timidamente oltre i lati confinanti della mappa. In
basso, sulla destra, la Legenda incorniciata d’oro era
accompagnata da una temutissima effige: quelli che lo avessero visto
per la prima volta, lo avrebbero raccontato a parole come un compasso
aperto o come la prima lettera dell’alfabeto latino
semplificata; chi ne avesse già udito l’eco delle
gesta, invece, l’avrebbe chiamato il Simbolo degli Assassini.
Un marchio che raccontava di una guerra tanto antica non poteva essere
ignorato, nemmeno così ben camuffato tra i decori arborei
che ornavano la cornice della Legenda.
Per degli occhi che non fossero stati abituati all’assenza di
luce e al dominio dell’ombra, sarebbe risultato difficile
distinguere tre figure disposte attorno al tavolo, sistemato
perfettamente al centro dell’angusto locale che aveva tanto
l’aria di una cantina abbandonata.
A parlare per primo fu un quarto uomo in disparte, fuori dal cerchio di
luce, che meglio condivideva l’intimità della
propria ombra: “I Borgia hanno spedito nell’Ade
abbastanza innocenti” disse. Tra le labbra solcate da una
cicatrice ormai coperta di barba era passato appena un filo di voce
severa. “Assicuriamoci di fare un lavoro pulito, questa
volta.” Gli abiti scuri e informali gli conferivano
l’aspetto elegante e spaventoso di un demone. Seduto in
disparte e sopra chissà quale vecchia cassa di vino, Ezio
era il meno esposto alla luce delle candele che, invece, prestavano la
loro attenzione sul suo contingente personale riunito attorno al
tavolo.
Lustrando la sua mazza con della pelle di daino, seduta su un vecchio
sgabello e con un gomito appoggiato ad un angolo del ripiano, una
seconda figura due volte più massiccia ridacchiò
sommessamente. “Tu chiedi troppo, amico mio.”
“Leone, smettila d’insistere”, intervenne
un terzo incappucciato di grigio, spezzando il tono ironico del
compagno. “Sai bene che non possiamo correre il rischio di
esporci” concluse irritato.
Leone arricciò le labbra e ignorò il desiderio di
agguantarlo per la gola com’era già successo
quella mattina. Lui e Davide si erano punzecchiati fino al mezzogiorno
e avevano smesso solo quando Ezio li aveva sorpresi a bisticciare in un
vicolo di Trastevere. Il capitano aveva decretato che non ci sarebbero
state altre occasioni di mostrare le lame al nemico per nessuno dei
due, se il fatto si fosse ripetuto ancora. Persino un innocente
dibattito sul Mito di Davide e Golia, all’inizio delle
indagini, era stato un buon motivo per accapigliarsi.
L’astuzia contro la forza bruta era una delle tante polemiche
del giorno, tra quei due.
“Davide ha ragione.”
Ezio e tutto il clan spostarono gli occhi su Adriano, il più
fresco tra loro.
Il giovane che aveva parlato esitava se mostrarsi o meno, pensieroso
sulle sue e sulle parole appena consumate da Davide. Questi aveva
assunto un sorriso sghembo a compiacere se stesso – qualcuno
che sosteneva le sue idee c’era ed era anche sveglio da
gradirle.
Adriano, appena si fu capacitato di dover proseguire nel proprio
intervento, mosse un passo verso il tavolo avvicinandosi alla fonte di
luce. Vestiva di un completo grigio fumo: le brache sparivano negli
stivali a collo alto, le maniche lunghe, il cappuccio alzato,
l’ombra del quale gli mangiava buona parte del volto giovane
e aguzzo. Aveva ancora indosso l’uniforme che il suo signore
lo aveva costretto ad indossare per quella giornata. “Forse,
prima di saltare alla conclusione e pretendere un gesto tanto avventato
come sgozzare Cesare in casa sua, penso che dovremmo rivalutare le
possibilità, tornare a studiare i suoi spostamenti e
garantirci il vantaggio della sorpresa: così facevano gli
antichi, e così ci è stato insegnato fin
ora” suggerì cercando nel buio gli occhi del suo
superiore.
Ezio era una statua sul suo trono nero. Gli occhi che Adriano cercava,
diamanti nell’ombra, si ridussero a due fessure.
Annuì, intimando al ragazzo di proseguire.
Andando ad esaminare la mappa distesa sotto il suo naso, il giovane
interpellato non si lasciò intimidire dal mutismo accorto
nel quale si erano chiusi i suoi confratelli. Leone in particolare, con
la mente sempre volta all’azione, detestava quel genere di
riunioni in cui si facevano tante ciance peggio di un pomeriggio da
dame; ma, fortunatamente, almeno quella sera stava nei ranghi e taceva.
“Dobbiamo sorprenderlo in un luogo
appartato”, continuò Adriano seguendo col dito
sulla carta un segno d’inchiostro rosso, che indicava il
percorso più breve dalla Dimora degli Assassini –
loro attuale nascondiglio – alla Basilica di San Pietro.
Stava per aprire bocca di nuovo, quando Davide lo interruppe e, in tono
nervoso, recitò per lui: “Ma sì,
attacchiamolo alle spalle, magari mentre si scopa
l’amante!”.
Nel frattempo Leone, che aveva finito di lucidare la propria arma,
appoggiò la mazza sul tavolo accanto all’ascia e
allo stocco. “Davide, sei davvero convinto che Cesare consumi
le lenzuola nella Chiesa di suo Padre?” ironizzò.
Era scontato sapere che Cesare non si faceva quel genere di scrupoli.
Risero tutti tranne uno.
“Basta” la voce di Ezio, vibrante
nell’oscurità, ruppe quella futile quanto breve
allegria.
Davide, Leone ed Adriano si voltarono a cacciare la sua figura nel buio
e la scorsero immobile nella postura fatale di un gatto acquattato tra
le casse del vino.
“Per oggi è più che
sufficiente” mormorò Ezio alzandosi dal suo trono
oscuro. Si avvicinò al tavolo, ma non abbastanza
perché la luce delle candele ne mostrasse il volto serio ai
compagni. “Riprenderemo questa conversazione domani a mente
fresca” disse. Estrasse dalla cintola un pugnale col manico
d’argento e lo piantò con grazia e forza assieme
sul tavolo, trapassando la carta geografica e buona parte del legno.
“Approfittate della mia pazienza per deridere voi
stessi… nessuno vi toglie questo sfogo, ma voglio che
restiate concentrati” concluse lasciando la cantina.
Dispersi tra le ombre e l’uno più sorpreso
dell’altro, nel salottino angusto rimasero solo Davide, Leone
ed Adriano; faticavano a distinguere i passi troppo silenziosi del loro
signore che saliva le scale di pietra.
Davide era scettico. Il destino di Roma si discuteva quella sera e il
Gran Maestro dava congedo con l’unico ordine di tenersi
all’erta, ma non lo biasimava se parlava di “mente
fresca”. Forse sarebbe stato un bene riprendere la
discussione l’indomani, affinché la
lucidità giocasse la sua mossa nella partita, ma Davide era
lungi dal permettere che andasse speso del tempo proprio quando a loro
n’era concesso: la frase ‘il
nemico è vulnerabile nel sonno’ si
riferisce anche alle macchinazioni possibili solo durante una sua distrazione.
Avrebbero dovuto approfittarne finché potevano.
Così Davide, di sua iniziativa, si avvicinò alla
cartina e ne studiò a lungo, riflettendo, un settore
preciso. Gli altri due, già in procinto di smontare le
tende, ne furono incuriositi.
“Al sorgere del sole le guardie in questa zona celebrano il
cambio. Mi sembra un momento non buono, bensì ottimo per
agire” propose.
Ci fu silenzio solo qualche istante.
“Certo, ma non arriveremmo mai in tempo”
commentò Adriano indagando lo sguardo contrariato del
compagno Leone.
“Lo scricciolo ha ragione, idiota”
esordì quello, arrogante, piazzandosi dall’altro
capo del tavolo rispetto a Davide. “Ti ricordo che Cesare ha
disposto i suoi sacchi di sterco attorno al giardino”
indicò il verde che circondava il punto su cui indugiavano
gli occhi di Davide. “Se anche superassimo le fontane,
arrivati in piazza ci sguazzeremmo fino al collo nella sua merda”
concluse.
Davide lasciò cadere le spalle. “Leone, per
favore, le parole.”
Quanto lo infastidivano i termini volgari…
“No, adesso stai zitto e ascolti,” tutt’a
un tratto Leone sembrava molto preso dalla discussione, più
di quanto non lo fosse stato in precedenza al cospetto del Gran
Maestro.
Ogni occasione
è buona per prendermi a parolacce… pensò
Davide, sospirando.
“Non basterebbero altri venti di noi per sgombrare quella
zona e avere il via libera fino alla cattedrale. Se proprio Ezio vuole
colpire così presto e noi andare sul sicuro, io propongo di
aprirci un varco alle loro spalle, qui. Non oseranno lamentarsi se
scavalchiamo i loro terrazzi, perché avranno le gole mozzate
prima di poter cantare col gallo!”
“Intanto non possiamo permetterci di scatenare
l’anarchia in quel distretto; finiremmo per farci tirare
dietro mattoni dalla gente del posto. Di nuovo. E poi, chi ti da il
diritto di azzittirmi in questo modo?! Sono un tuo fratello di lama, ma
soprattutto un tuo superiore in grado, razza di stolto!”
“Al tuo posto, non tremo quando i gatti rizzano il pelo! Se
te la fai sotto per un paio di zappa-terra inferociti, penso che
faticherai parecchio a tenertela in culo di fronte alle Guardie
Papali!”.
“Rimangiati quello che hai detto. Subito!”
“Ragazzi, non ricomin…”
“Adriano, lascia parlare gli adulti”
sottolineò Leone, pungente.
“In tal caso, con chi altri potrei parlare se non me
stesso?” schernì Davide.
Il sangue gli ribollì nelle vene, ma Leone si
limitò a stringere l’asta della sua mazza
– probabilmente resistendo all’impulso di fargliela
salire su per il culo. Dopodiché borbottò sotto
tono qualche insulto a Davide che Adriano si divertì ad
ascoltare. In fine, al termine di una sanguinosa battaglia interiore,
ripose l’arma tra la stoffa rossa che gli cingeva i fianchi
robusti e lasciò la cantina a grandi passi pesanti.
A quel punto Adriano ringraziò il Cielo, potendo godere di
una quiete quasi surreale. Era una di quelle rarissime volte in cui le
discussioni tra Davide e Leone non si concludevano in una scazzottata.
“Dato lo spazio così stretto, poi, ci sarei andato
sicuramente di mezzo pur io…” constatò
tra sé e sé.
Davide soffiò sulle candele. “Non so quanto ti
convenga gioire” borbottò scoccandogli
un’occhiata penetrante attraverso la nuova e fitta
oscurità. “Abbiamo deciso una botte di niente!
L’hai visto, no? E’ tutta la settimana che va
avanti così: sempre nero più della sua ombra. Ha
smesso di darci ordini, vuole fare tutto da solo! E questa cosa,
dannazione, mi fa saltare i nervi!”
Adriano ci mise un po’ per capire. “Ah, parli del
Maestro.”
“E di chi, sennò?”
“…Leone?”
Davide scrollò le spalle. “Non tengo a lui tanto
da preoccuparmene. Litigandoci sfamo la mia curiosità di
sapere quanto può alimentare la sua stupidaggine. Con quel
cervello da gallina che si ritrova ci farà ammazzare tutti
quanti” pronunciò accigliato fissando un gradino
impreciso delle scale, forse il punto nel quale la sagoma di Leone era
scomparsa del tutto alla sua vista. “Piuttosto,”
disse voltandosi verso il giovane compagno, “è
Messer Ezio a preoccuparmi. Non mi piace come si sta comportando
ultimamente. Tu cosa ne pensi?”
Adriano si strinse nelle spalle. Era anche la prima volta che messer
Davide gli chiedeva un parere così diretto. Il ragazzo aveva
capito dove il suo confratello voleva andare a parare con quella
domanda e non lo biasimava poiché erano ragioni che
l’avevano spinto in più occasioni, nelle ultime
settimane, a dubitare della lucidità del suo signore.
“Forse dovremmo lasciarlo in pace;
infondo…” esitò, ma Davide sembrava
realmente interessato al suo parere; così
inghiottì la timidezza. “Il Maestro sta
combattendo la sua guerra, e noi la nostra, e penso che le motivazioni
di ciascuno non debbano influire su quelle dell’altro.
Poiché suoi apprendisti, il nostro unico compito
è per l’appunto apprendere. E se
questo implica tacere sulle sue, di motivazioni, non mi stupisco. Non
siamo tenuti a fare altro, al di fuori dall’ubbidire ad
ordini provenienti dalla sua bocca. Dipendiamo dalle sue labbra, ma il
Maestro non dipende forzatamente
da noi.” Un discorso tanto serio, più o meno
logico, non gli era mai uscito di testa. Adriano si
meravigliò di se stesso.
E di fatti, a maggior ragione, anche Davide annuì
compiaciuto. “Sei sveglio” commentò.
“Molto sveglio. Ora capisco che c’è
altro per cui ad Ezio piace ascoltare la tua voce da bambino”
ridacchiò, facendo arrossire il ragazzo. “Ma anche
molto ingenuo” assentì a voce più greve.
Quelle sue ultime parole pesarono come mattoni sulle spalle del giovane
Assassino. “Su una cosa però ha
ragione:” obbiettò Adriano, un po’
offeso, guardando il compagno mettere ordine sul tavolo.
“Dobbiamo concentrarci sulla missione!”
“Almeno noi, vorrai dire, sperando che basti”
blaterò Davide per sé.
Adriano lo lasciò andare via senza aggiungere altro.
Così, mentre il confratello più anziano
abbandonava la cantina e prendeva congedo, il più giovane
guardò un’ultima volta il manico dello stiletto
conficcato nella cartina e nel legno del tavolo.
L’impugnatura d’argento era decorata di un motivo
piumato; un becco d’aquila si apriva
sull’attaccatura della lama e il manico doveva rappresentarne
l’ala distesa. Nessuno aveva o avrebbe osato toccare quel
pugnale, la cui punta spariva, inghiottita dal disegno, tra le mura del
Vaticano.
.:Angolo
d’Autrice:.
Ecco un primo accenno dell’imprudente Ezio di cui vi parlavo,
ovvero di quell’uomo mentalmente frustrato che maledice il
giorno in cui è andato a farsi degli
“amici”, come dice nello Story
Trailer.
Se all’inizio della pubblicazione ho stimato una ventina di
capitoli, adesso ne ho fissati quasi una trentina. Ancora tutti da
stilare, ovvio, poiché quello che avete appena letto
l’avevo pronto assieme ai prossimi 10 non so da quanto
tempo…
Per adesso ho deciso di mantenere gli “apprendisti”
di Ezio nell’anonimato, nell’ombra, insomma. Avrete
notato (spero…) pochissime descrizioni fisiche. La cosa
è voluta. Un po’ perché, ci tenevo a
dirvelo, vi chiedo di non immaginarveli tutti bei giovani ventenni. Nel
prossimo capitolo conosceremo Vittorio, il quarto discepolo di Ezio,
che ha quasi l’età del Gran Maestro :D Se Adriano
si aggira attorno alla diciassettina d’anni, massimo
diciotto, Davide e Leone si avvicinano ai trenta (e sì!
Ancora litigano come dei bambini!)
Spero di non avervi spaventati con tutto quel popò di
considerazioni personali su Helleborus, o annoiati con questo nuovo
capitolo. In dolce attesa delle vostre impressioni ^^’
*Colgo l’occasione per ringraziare infinitamente Phantom
G, che sta alleviando i cuori di molti scrittori e scrittrici
con le sue recensioni piene di lusinghe alle varie nuove storie. Non
immagini che colpo all’anima (cit. Ligabue) sia stato per me
poter finalmente sbocciare la prima recensione. Ci tenevo molto, ci
tengo tutt’ora. Grazie, infinite grazie… sai come
sollevare il morale alle scrittrici depresse! XD
*Ringrazio anche Runa
Magus per aver aggiunto la fan fiction alle seguite.
È un onore.
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Capitolo 3 *** Nemo mortalium omnibus horis sapit ***
Helleborus
Capitolo
III
Nemo
mortalium omnibus horis sapit
(Nessun mortale è saggio a tutte le ore)
Un fortissimo mal di testa l’aveva colpito
all’improvviso giusto la mattina precedente, e non se
n’era più andato. Vittorio, il quarto assassino
che all’alba del prossimo giorno si sarebbe unito ai festeggiamenti,
aveva preferito, in via del tutto eccezionale e solo per quella sera,
tenersi in disparte ai preparativi tattici discussi nella cantina.
Era certo di non essersi perso granché: Davide, Leone e
Adriano avrebbero condiviso con Ezio Auditore, Gran Maestro degli
Assassini, le informazioni acciuffate per le strade di Roma durante la
giornata. Poi, assieme al loro superiore, avrebbero discusso della
strategia vincente in base alle fonti più attendibili.
Liquidare Cesare Borgia e arrivare a Rodrigo, Papa Alessandro VI, non
sarebbe stata una passeggiata tra i tetti. Vittorio, e così
i suoi confratelli, si erano marchiati la pelle con la parola
“prudenza” fin dal primo giorno in cui la
Provvidenza li aveva selezionati per affiancare il Gran Maestro nella
sua missione. Nessuno aveva detto che estirpare la corruzione dal cuore
di Roma sarebbe stato facile, tantomeno privo di sacrifici, uno dei
quali – e forse il più snervante – era
sopportare quel diavolo di mal di testa!
Prima di congedarsi aveva chiesto se qualcuno degli altri fosse stato
disposto a condividere con lui i progetti stabiliti in sua assenza, al
termine della seduta nella cantina. Accomodato sul davanzale in pietra
a godersi il panorama notturno e l’aria fresca, Vittorio
immaginava che sarebbe stato Adriano – il più
giovane e disponibile del gruppo – a salire per primo fin
lassù, all’unico scopo di narrargli i piani
stabiliti per il giorno successivo. La dolcezza di quel ragazzo non
aveva fine.
L’avamposto scelto in cui passare la notte non era altro che
un rudere di villa romana fuori dalle Mura Serviane, volute da Servio
Tullio nel VI secolo a.C. Un tempo doveva essere appartenuta a qualche
nobile politico e forse tutt’ora compariva tra i beni
ereditari di qualcuno che, a quanto dato a vedere, se ne prendeva ben
poca cura. Non essendoci i vetri alle finestre, l’edera
– un rampicante mediterraneo molto diffuso sulle coste del
Tevere – aveva avuto libero accesso alle stanze interne della
villa. Potendo abitare tutte e quattro le pareti senza che nessuno si
fosse preso la briga di potarla, divertiva fingersi un qualche affresco
decorativo come quelli del da Vinci nel Palazzo Sforzesco di Milano.
All’esterno, invece, il fronte colonnato
dell’edificio e il cortiletto erano entrambi rigogliosi di
una vegetazione selvaggia con felci, siepi e cespugli di rose alti un
uomo.
Ridotti a poco più di macerie, alcuni dei monumenti
più significativi di Roma si sovrapponevano l’uno
sull’altro, come contendendosi la possibilità di
ostentare la propria magnificenza col semplice toccare le stelle.
Più a sud il Mercato di Traiano e il suo Foro ospitavano
ogni giorno centinaia di banchi e mercanti stranieri, a nord
l’Arco di Galliano accompagnava i pellegrini che andavano
verso l’Esquilino e il Viminale. Non c’era bisogno
di sforzarsi per delineare, anche da così lontano, la
grandiosità della Cupola di San Pietro. Nonostante le
impalcature a nasconderla, svettava nella penombra notturna circondata
da luci di palazzi e di chiese.
Chissà se l’indomani mattina sarebbe stata quella
la loro destinazione, si chiese Vittorio. Sapeva abbastanza da poter
immaginare che i luoghi pratici alle loro intenzioni erano due, date le
circostanze: San Pietro o il Pantheon. Quel bizzarro edificio forgiato
dalla sovrapposizione di ben tre elementi architettonici – il
cilindro, la sfera e la pianta templare greca – era il
massimo simbolo della Cristianità ed era lì che
Rodrigo Borgia e suo figlio Cesare avrebbero fatto la loro comparsa un
giorno di quelli. Ne era certo.
Vittorio si augurava con tutto il cuore che le proprie o le azioni
future dei suoi compagni non compromettessero
l’integrità della missione. Affiancare il Gran
Maestro in una spedizione di così vitale importanza per la
Confraternita – e la salvezza di milioni
d’innocenti – era al contempo una
responsabilità onorevole e un rischio insolubile. Dalle loro
decisioni dipendeva il destino della Penisola Italica e del
Mondo… solo a pensarci il mal di testa si faceva
più forte.
Fu a quel punto che fece la sua comparsa il portavoce tanto atteso.
Vittorio si alzò dal davanzale di pietra e si
preparò a salutare il compagno Adriano con un semplice gesto
del capo. Ma, quando si accorse che ad essersi presentato sulla soglia
era ben altra persona, sbiancò e preferì
allungarsi in un inchino. “Maestro…”
riuscì solo a mormorare.
“Stai comodo, amico mio” Ezio gli venne incontro
muovendosi nella penombra della notte con la grazia di una pantera. Se
quell’uomo era diventato un Assassino tanto letale da
incutere soggezione nelle menti dei suoi sicari, figuriamo in quelle
dei suoi nemici!
“Ti senti meglio?” chiese il figlio di Giovanni
fermandosi accanto alla balconata. Per quella e le sere passate, quando
il convoglio si riuniva nel quartier
generale, sceglieva di sostituire l’uniforme a
degli abiti del tutto informali, apparentemente comuni che gli si
vedeva addosso di rado: un completo nero, fatta eccezione per il
candore della camicia che spuntava dagli spacchi delle maniche. Il
farsetto lasciato sbottonato sino all’altezza dello sterno
concedeva libero sfogo alla fantasie delle signore che si fossero
avventurate sul quel torace scolpito e virile.
“Molto meglio, grazie” annunciò Vittorio
con un sorriso grato. “Posso garantirvi che
l’indomani le mie forze saranno ristabilite e le mie frecce
pronte a servirvi, Maestro.” Non c’era nulla di
falso nelle sue parole: sperava briosamente che l’emicrania
gli concedesse di godersi al meglio la carneficina dei soldati del
Borgia, nonostante avesse ancora bisogno che qualcuno gli illustrasse
le strategie di battaglia.
Un curioso bagliore malinconico attraversò gli occhi di
Ezio. Per un istante, seppur breve assai, l’immagine di
fierezza felina che Vittorio aveva del suo superiore
vacillò. Qualcosa turbava il Gran Maestro, ma Vittorio non
aveva l’autorità – o forse il coraggio?
– necessario per estirpare ad Ezio una confessione. Se non
per sfogo, allora per dovere: un dispiacere del cuore può
portare fuori strada la spada dell’uomo più
capace.
“Abbiamo deciso di colpire nella Basilica” lo
informò Ezio lanciando un’occhiata fuori dalla
finestra.
Vittorio aveva dato per scontato che lui e gli altri ne avessero discusso. In
realtà il Gran Maestro aveva preso quella decisione da solo,
piantando il pugnale del suo antenato dritto al bersaglio e squartando
una prestigiosa mappa geografica. Ma questo Vittorio non poteva saperlo.
“San Pietro?” ambì chiedere conferma:
sarebbe stata una carneficina davvero! Chissà quante guardie
avrebbero presenziato attorno all’edificio pur di assicurare
la salvaguardia del Pontefice e il suo Cardinal Prodigio ospite presso
le grazie del padre!
Dietro al sospiro che tirò Ezio, Vittorio lesse le parole
‘sono stanco, perciò fai meno domande
possibili’. Di fatti, poco più tardi il figlio di
Giovanni ordinò: “Dammi una cartina. Ti mostro il
piano”, con tono affrettato come se volesse concludere al
più presto anche quella faccenda.
Vittorio andò verso un angolo della stanza, dove lui e Leone
avevano riposto tutto l’equipaggiamento, e si
chinò su un baule di legno grande quanto una botte. Facendo
scivolare le dita sui perni di metallo che tenevano il legno compatto,
individuò la serratura e girò la chiave.
Dopodiché, scoperchiando e affondando la mano nel pozzo
oscuro che si era creato, vi trasse la mappa che lo aveva guidato per
Roma in tutti i mesi trascorsi al fianco del suo Maestro. Richiudendo
il baule, porse la pergamena ad Ezio che la distese sul davanzale,
poiché la luna crescente era l’unica e sufficiente
fonte di luce di cui disponevano. Accendere una candela avrebbe
disperso troppo tempo e troppe energie, per un uomo che non dormiva da settimane e
Vittorio non pensava a se stesso.
Non era difficile immaginare Ezio Auditore vagabondare solitario per le
strade romane, mentre ai suoi segugi concedeva un po’ di
riposo. Nelle ultime quattro settimane, il Gran Maestro aveva chiuso un
occhio solo per affinare la mira sul bersaglio. La notte, soprattutto,
non si dava pace: era convinto di poter assimilare più
informazioni da solo, valutando questo e quell’altro, di
quand’era circondato da suoi sicari, dei quali,
però, non riusciva ugualmente a privarsene per lo meno di
giorno. Era diventato un uomo silenzioso, assorto e spesso pensieroso,
di poche ma concise e taglienti parole che sapevano come far rizzare i
peli sul petto ad ogni suo apprendista. Si era prefisso alcuni
obbiettivi particolari che voleva raggiungere senza l’aiuto
di nessuno, scansando qualsiasi tipo di compagnia armata. Il rischio al
quale desiderava esporsi corrispondeva alla grandezza del proprio
dolore. Troppo a lungo i Templari gli avevano lasciato gli artigli
piantati nella carne di famiglia, strappandone i pezzi più
preziosi. Dopo tali spiacevoli avvenimenti, chiunque, se mai fosse
riuscito ad avvicinarsi abbastanza da guardarlo in faccia, avrebbe
potuto dire che Ezio Auditore, di fronte ai suoi nemici, era diventato
un uomo senza cuore.
Se c’erano state volte in cui andava con una donna diversa
ogni martedì e giovedì – visitando
spesso un particolare bordello veneziano – quei tempi erano
politicamente finiti con la morte di Mario Auditore.
L’asprezza e l’arroganza con le quali Cesare aveva
preteso la vita di suo zio, avevano del tutto risvegliato nel nipote di
Mario una bestia assopita e fatale. Gli ultimi tre anni erano stati per
Ezio pregni di sacrifici, tutti scontati con un’eguale
espressione del viso: risolutezza, determinazione, rigore. Da quando lo
conosceva, Vittorio non aveva alcun ricordo di un sorriso che stirasse
quelle labbra. E ora, oltre ad essere tremendamente vendicativo e
spietato, l’uomo che aveva di fronte e studiava la sua
cartina – era possibile che avesse perso la propria!?
– gli appariva anche stanco.
Forse stanco nel fisico, date le poche e quasi inesistenti ore di sonno
concessosi, ma stanco soprattutto nell’anima. Quella che era
iniziata come la guerra di qualcun’altro l’aveva
trascinato in un pericoloso gioco di potere, del quale Ezio, adesso,
era una pedina fondamentale: come Gran Maestro degli Assassini, certo,
ma anche come soldato, combattente o semplicemente uomo.
Tracciando col dito la cinta vaticana, Ezio disse: “Tu e
Davide sarete sulle Mura, in questo punto” fermò
l’indice e mimò una stretta circonferenza.
“Cercherò di portare Cesare allo scoperto nei
Giardini. Eliminato lui, passerò a Rodrigo. Comunque vadano
le cose, io entrerò da solo e Adriano mi seguirà
per un tratto. Voglio che ci copriate”.
“E Leone?”
“Di lui non so che farmene. Se lo lasciassi a ruota libera,
magari di vedetta, la sua mazza potrebbe ferire o urtare accidentalmente
qualcuno. E non credo che tornerebbe indietro a chiedere venia, ma
piuttosto a concludere l’opera” ammise con una
smorfia.
Vittorio sorrise. Gli piaceva quel genere di sarcasmo sui suoi
compagni. Dava colore al legame che li univa, ma,
ovviamente… Ezio escluso.
“Potreste congedarlo e richiamare messer Ludovico del
Portico. Il mio parente sarebbe entusiasta di prendere parte alla
missione, e un arco in più sulla vostra testa vi
farà comodo” propose sorridendo. Conosceva bene
quel giovane Ludovico; era una sorta di parente acquisito, in
realtà un suo stimatissimo vicino, da quando avevano
combattuto fianco a fianco per la patria a suon di frecce e corde.
Ezio sembrò ignorare del tutto il suo intervento dando voce
ai pensieri più oscuri: “Non voglio che
l’omicidio di Borgia passi inosservato, Roma deve sapere chi
ha disinfettato e bendato le sue ferite, ma non voglio nemmeno mettervi
in pericolo.”
Vittorio era sconcertato: il suo Maestro che parlava di pericolo per i
propri sicari era incoerente! Premura verso i suoi scagnozzi? Eh,
sì, Ezio doveva essere molto, ma molto stanco,
perché ragionava da cane.
“Non sono d’accordo” replicò
Vittorio, anche un po’ offeso. “Fino a prova
contraria, avete tutto il diritto di mandarci in prima linea, se lo
desiderate.”
Ezio inarcò un sopracciglio. “Mi stai giurando
fedeltà di fronte a morte certa?”.
“Perché, c’è qualcuno
là sotto che non l’ha ancora fatto?”
fece Vittorio con finto stupore, indicando le scale e alludendo ai
compagni nella cantina.
“Ti sto affibbiando una posizione sopraelevata e al contempo
quanto più vicina possibile a me e a Cesare. Dovresti
esserne onorato!” sbottò Ezio.
“E lo sono! Però non sembra la soluzione
migliore” esordì l’altro imbronciandosi.
“Ma lo è”
s’intestardì Ezio.
“Allora non esitate, mio capitano.” Era stufo di
replicare gli ordini del suo superiore e altrettanto infastidito dal
dovervi dare un giudizio personale. Voleva sapere cosa turbava il
Maestro e affiancare a quelle di Ezio le proprie idee che, in un
momento di così poca lucidità del suo mentore,
avrebbero significato l’unica certezza; ma la cosa sarebbe
andata per le lunghe…
Perciò cambiò argomento.
“Come riuscirete ad entrare?” era una follia
varcare le soglie del Vaticano senza farsi impiccare.
“Come entrerò io non riguarda altri che Adriano,
di voi.”
“D’accordo, ma noi altri? Davide ed io come
arriveremo ad appostarci sulle mura?”
Ezio sorrise al ricordo di Michelangelo Buonarroti che litigava con
Leonardo di fronte alla Santa Maria degli Angeli. Per evitare che lo
scienziato e l’architetto dessero spettacolo con
un’allegra scazzottata, e poiché aveva preferito
tenersi buono chi stava avendo affari con le parti alte del Vaticano,
Ezio era intervenuto personalmente, trascinando via Leonardo e dando a
Michelangelo la possibilità di scolpire sul blocco di pietra
tanto ambito – motivo del litigio. Leonardo non
gliel’avrebbe perdonato: raramente quel genio di uomo si
abbandonava a criticare e maledire gli altri e gli avrebbe fatto
piacere, per una volta, sopraffare un ragazzino tanto arrogante come
Michelangelo. Ezio, trovato il modo di distrarre l’amico con
altro, quella sera si era recato nel cantiere del Buonarroti in vesti
comuni e aveva portato le scuse soprattutto da parte
dell’inventore – che mai, ovviamente, si sarebbe
abbassato a tanto. In cambio della cortesia dimostrata, Michelangelo
gli aveva rivelato un interessante aneddoto architettonico delle Mura
Vaticante, che aveva scoperto lui stesso durante una casuale
passeggiata ispiratrice.
“Un nemico di un amico mi ha parlato bene delle mura
occidentali” rispose Ezio, risvegliatosi d’un
tratto dai ricordi, per acquietare la curiosità del compagno.
Vittorio aggrottò la fronte, che si riempì
oltremodo di rughe. “Vi fidate davvero di
quest’uomo?”
Un nemico di un
amico… si ripeté
l’apprendista ancor più scettico.
“Non lo definirei ancora
‘uomo’… ma sì, mi fido quanto
basta.”
Vittorio si fece sospettoso. “C’è altro
che devo sapere?”
“Sì, una cosa ci sarebbe: vorrei che ti ricordassi
di mettere in scarsella un lenzuolo, domani, per quando saremo
fuori.”
“Un lenzuolo? E quanto grande?”
“Da brandina andrà benissimo.”
“Sta bene. Ma vi prego, illuminatemi.”
“Adesso non c’è tempo” Ezio
gli strinse una spalla con gesto fraterno. “Se la morte di
Cesare dovesse costare la vita di qualcuno, voglio che sia la
mia.”
Vittorio rabbrividì a quella macabra e disastrosa
eventualità. Possibile che Ezio, esalato l’ultimo
respiro, volesse farsi avvolgere in un lenzuolo? “Non ditelo
nemmeno per scherzo” ribatté. “Domani
nessuno di noi pagherà un prezzo così alto.
Dubitate forse delle nostre o delle vostre
capacità?”
Ezio scosse la testa, lasciò cadere il braccio lungo il
fianco e si allontanò dalla finestra. Mosse alcuni passi nel
locale, poi si fermò a riflettere. Nel frattempo Vittorio
ripiegò la mappa in silenzio e la ripose nel baule,
sconcertato.
Aveva ragione chi diceva che Ezio s’era impigrito per la
fretta di togliere la vita a qualche Borgia.
Il Maestro tacque a lungo prima di rivolgersi a Vittorio con queste
parole: “Non diffido di nulla, a parte di me stesso”
Vittorio sbiancò e per un attimo
s’immaginò nel ruolo del lenzuolo che avvolgeva la
salma del suo Maestro. Scacciò quei pensieri con una
scrollata di spalle.
“Cesare non esiterà ad usare qualsiasi mezzo pur
d’intralciare i nostri piani, come ha già fatto in
passato.”
“Non capisco cos’è che vi spaventa di
più, Maestro”, lo interruppe Vittorio allargando
le braccia in un gesto esasperato, ma insieme compatendolo con uno
sguardo dispiaciuto. “Se il fatto di non essere riuscito a
liberare Caterina da Castel Sant’Angelo prima che lo facesse
il francese, o il fatto di non aver ancora piantato le vostre lame nel
petto del suo sequestratore.” Fece una pausa. “O
magari ambedue le cose!”
Ezio accennò un vaghissimo sorriso, ma impiegò
mezzo secondo a distogliere lo sguardo e avviarsi verso le scale.
“Vittorio, mi conosci bene abbastanza per poterti rispondere
da solo.”
.:Angolo
d’Autrice:.
Scommetto che già odiate Vittorio e i suoi mal di
testa… non vi biasimo, ma non prendetevela con lui,
poverino, che ne ha sofferte parecchie. Il fatto è
occasionale. Mi serviva che fosse estraneo alla riunione nella cantina
e non ho trovato una scusa migliore. In realtà lui
è un ottimo arciere, il più fedele al Gran
Maestro nonché discepolo più anziano. Un
po’ la “guardia del corpo” di Ezio
Auditore. Nel corso della fan fiction emergeranno la sua come la storia
degli altri Apprendisti.
Seconda cosa: Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti si
contesero un pezzo di pietra. Non ricordo né quando,
né come e né perché. So solo che lo
scultore ne avrebbe fatto il suo capolavoro più noto e che
poc’anzi i due artisti non si picchiarono. In
realtà il fatto che Ezio sia intervenuto scoprendo dallo
scultore un aneddoto interessante delle Mura Vaticane è un
po’ arrampicato sugli specchi, lo ammetto umilmente e senza
peli sulla lingua… nel senso: studiosi e appassionati,
picchiatemi pure, sono qui a posta. Come tutti (spero) sappiamo,
Leonardo da Vinci in quegli anni era ospite del
Valentino. Invece nella mia storia pare tanto serenamente ancora in
contatto con gli Assassini. Perdono anche questo sfregio alla Ubisoft,
ma io dovrò pur inventarmi qualcosa per far andare avanti la
storia! Sempre nel prossimo capitolo scopriremo il vero e proprio
utilizzo del lenzuolo richiesto da Ezio.
Terzo ed ultimo punto: il rapimento di Caterina Sforza.
Ezio, come sappiamo, è entrato molto in confidenza con la
signora di Forlì che, senza spoilerare sulle possibili
pieghe del gioco, risulta prigioniera del Valentino dal 1499, quando la
sua rocca cedette definitivamente all’assalto delle truppe
borgiane. Qualcuno riuscirà a strapparla alle grinfie del
Valentino solo due anni dopo, ma la storia (wikipedia – poi
vai a scoprire se è vero!) ci racconta che non fu un
cappuccio bianco, bensì un certo Yves d'Allègre,
giunto a Roma assieme all’esercito di Luigi XII diretto verso
il Regno di Napoli. Un possibile alleato degli Assassini? Lo scopriremo
tra meno di un mese.
Considerazioni personali?
Più vado avanti con questa storia e meno mi piace
il mio modo di scrivere. Punto ad una pulizia piena, conto di eliminare
parole e termini arcaici superflui. Conto soprattutto di catturare al
meglio l’attenzione del lettore, e non solo aumentando il
rating che, per quello che ho in mente di scrivere più in
là, è giusto giallo.
Gli aggiornamenti per Helleborus saranno settimanali o a discrezione
dell’autrice, che preferisce anticiparsi un altro capitolo
nello stesso momento in cui ne posta uno nuovo per i lettori :)
*Ringrazio tutti i 133
passanti silenziosi . Vi voglio bene anche solo se leggete il titolo
del capitolo :)
*M’inchino umilmente alla Divina Josie_n_June
per la sua recensione. Dio mio…non credevo che al lettore
potesse arrivare tanto di quello che ho scritto. Insomma… ho
stilato i profili di ciascun personaggio con coscienziosa
consapevolezza, tanto da renderli facilmente afferrabili – e
perciò, pensavo, poco originali. Ho creato un Ezio
innovativo che io per prima, al parto di questa storia, non sopportavo.
Credevo che una tale cura per dettagli storici e magistrali descrizioni
ambientali avrebbero schifato anche mio cugino che insegna Storia
dell’Arte… ero convinta che questa fan fiction
sarebbe collassata nel baratro del dimenticatoio di sezione ed io nella
più oscura depressione, quando, tutt’a un tratto,
vedo spuntare quel 2… quel 2 misericordioso… e
non speravo davvero in un commento tanto complesso e completo. Davvero
non so né cosa risponderti e né come
ringraziarti… non immagini quanto io sia felice, in questi
giorni, solo a causa del tuo commento. E’ stata una secchiata
d’acqua gelida nel profondo assopimento della speranza. La
stessa cosa è stata sapere che segui Project
Delta! A proposito… le mie e le altre quattro mani
che lavorano al “progetto” stanno rielaborando il
terzo capitolo per la decima volta. E’ probabile che vedremo
fin da subito il Soggetto Cacciatore in Sessione entro la fine del
mese.
*Ancora grazie ad Enio
(adoro l'immagine nel tuo profilo, è una delle
più belle a mio parere :) e RunaMagus
per aver aggiunto la fan fiction alle seguite :)
|
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Capitolo 4 *** Dies Irae - Parte 1a ***
Helleborus
Capitolo
IV
Dies
irae
(Il giorno dell’ira)
Il sole stava tramontando quando Adriano s’issò
sul tetto della domus dopo essersi arrampicato sulla facciata
posteriore. Spolverandosi le ginocchia, si aggregò ai
compagni che si godevano l’ultimo spicchio di cielo diurno,
dove Dio stava tingendo pacatamente il suo trono di nuvole con colori
mai visti.
Leone controllava l’equipaggiamento forse per la centesima
volta: stringeva le cinghie degli stivali, estraeva e saggiava la
lealtà dei pugnali da lancio. Ammaccava l’aria del
crepuscolo con la propria mazza da guerra, probabilmente tentato dal
testarne la potenza frantumando il pergolato del tetto.
Anche Vittorio compieva la stessa azione di sempre, forse per la
millesima volta: sfogliava le pagine di un libricino dalla carta antica
e sgualcita per via della copertina dispersa. I suoi occhi nascosti
all’ombra del cappuccio correvano e godevano tra le righe,
come se le parole contenute nel testo fossero la linfa vitale di
quell’uomo. Era così che Vittorio sembrava cibare
il corpo e la mente. Al suo fianco aveva una curiosa sacca
rigonfia…
Davide era seduto in disparte ad una certa altitudine. Rinunciava ad
osservare la Città Eterna e a crogiolarsi
nell’abbraccio serale, dopo un’intensa giornata
lavorativa, insistendo col ripassare gli atti di una strategia
inesistente, dettata unicamente dalla sua fantasia. Dopotutto Ezio non
si era visto tutto il giorno: si era dileguato quella mattina presto,
lasciando indietro con un congedo i suoi apprendisti.
E meno male che stamani
avremmo dovuto discutere i dettagli della missione a mente fresca! Studiando
un quadrato della carta geografica che aveva ripiegato sulle ginocchia,
Davide accumulava lo sconcerto. Mentalmente tracciava su di essa il suo
e l’ipotetico percorso dei suoi compagni, preferendo essere
preparato all’eventualità di scansare il tragitto
del compagno Leone. Poiché era il gran giorno, non avrebbe
rischiato di accapigliarsi con Golia su Ponte Mollo!
Adriano sedé accanto a Davide, cercando di non infastidirlo.
Lo scricciolo,
come lo chiamava Leone, quella mattina era particolarmente nervoso.
L’assalto al Vaticano sarebbe stata la sua prima missione
onoraria. Era già stato in spedizione varie volte, in altre
città italiane, ma l’onore di affiancare il Gran
Maestro nella guerra contro i Templari screditava qualsiasi altra
spedizione che avesse mai compiuto all’estero. Era bravo a
nasconderlo altrui, ma anche lui, uno spietato sicario, temeva il
fallimento e la morte. Di quella debolezza, però, se ne
faceva una convinzione e una forza ancora più grande: la sua
caduta avrebbe garantito l’ascesa della pace, in ogni caso.
Guardando Davide tanto concentrato sulla sua mappa, capì che
in un certo senso, con o senza il Maestro ancora e lì
presente, la missione era già iniziata. Il silenzio era una
preparazione spirituale fondamentale all’interno del loro
gruppo. Adriano e i suoi confratelli, chiusi nel rispettoso mutismo che
ornava le loro e le gesta del loro condottiero, sarebbero stati solo la
cornice del quadro che Ezio avrebbe dipinto, seminando morte e terrore
tra i Templari. Spostarsi per le strade facendo tacere anche la propria
ombra significava non potersi/doversi permettere di attirare alcun tipo
di attenzione. Sarebbero stati muti,
assassini addestrati ad uccidere con l’unico fine di
salvaguardare l’epopea del Maestro. L’avevano fatto
in precedenza, durante le indagini e le imprese dei giorni passati, e
non avrebbero mai smesso anche dopo la morte.
Vittorio arricciò il naso e, alzando gli occhi dal suo
libricino malridotto, fissò a lungo l’orizzonte.
Pioggia in arrivo,
pensò con un sospiro cambiando pagina.
Davide e Adriano condivisero un breve sguardo angosciato. Leone si
grattò la schiena con la mazza mentre un ultimo raggio di
tramonto gli scavava nell’oscurità del cappuccio.
Poi, assieme al mento, nascose dietro al bavero un sorriso inquieto.
Roma si distese sotto la sua coperta di stelle. Il respiro di antichi
Dèi dimenticati si abbatté sulle tuniche grigio
fumo e bianco spento, risvegliando la lingua di stoffa rossa che
cingeva loro i fianchi. Ebbero giusto il tempo di fare gli ultimi
controlli, poi, non appena in strada sembrò crearsi un
po’ di folla – per lo più pescatori
sbronzi, malfattori, ladri o cortigiane – tra le
costellazioni si fece più luminosa quella
dell’aquila. Il rapace annunciò il suo volo.
Ed Ezio Auditore si gettò nel vuoto.
All’inizio viaggiarono l’uno molto distante
dall’altro. Il fattore lontananza, il cercarsi con gli occhi
tra i palazzi, garantiva che un presunto intercettatore non indovinasse
il loro punto di origine, ovvero il luogo dal quale erano partiti.
La gerarchia voleva che tutti gli assassini fossero a portata del
Maestro, ma non era necessario che il Maestro lo fosse per gli
assassini. Ezio aveva tutto il diritto di sparire dalla vista dei suoi
sicari per poi ricomparire all’improvviso in balia delle
circostanze. Il più grande dovere dell’apprendista
– diversamente da qualsiasi ladro o mercenario al suo seguito
– era quello di rispettare il valore di ciascun ruolo ed
entrare in azione al momento opportuno. Il
Maestro poteva nascondersi quando e dove voleva; a loro era concesso
farlo unicamente per suo ordine, e solo dopo aver adempiuto al motivo
del richiamo. Archibugeri, balestrieri e arcieri erano in
agguato, pertanto dovevano essere pronti a fare scudo del proprio
corpo. Fortunatamente non si rischiava mai di correre quel genere di
rischi, sia perché Ezio Auditore non passeggiava da
incosciente tra le pattuglie dei suoi avversari, sia perché
Ezio Auditore
era capace di sbaragliare un esercito pari a quello che aveva attaccato
Monteriggioni; se solo Cesare non l’avesse anticipato e
indebolito, colpendolo al cuore e strappandogli lo zio, il figlio di
Giovanni avrebbe potuto scacciare gli invasori a mani nude…
Quella mattina Vittorio sentiva aumentare la preoccupazione tra
i suoi compagni, mentre le impalcature attorno a San Pietro si facevano
più vicine. Il piano discusso la sera precedente era una
follia: estirpare la sorveglianza dalle Mura Vaticane, sostituirsi alle
guardie e addentrarsi nei Giardini Papali. Riempiva la bocca e
annacquava d’ansia il cuore. Scegliendo di avventurarsi nei
territori nemici, Ezio non avrebbe esitato a fronteggiare tutti i
soldati necessari per arrivare in quei benedetti parchi. A
Vittorio non era nemmeno chiaro come Ezio avrebbe attirato il toro
fuori dal suo recinto. Che si tenesse tanto stretto Adriano non era una
novità. Ovunque andasse, il ragazzo doveva essere
costantemente sotto la sorveglianza degli altri apprendisti o del
Maestro stesso. Forse per sfiducia, forse per premura verso il
più giovane, il figlio di Giovanni non lasciava mai solo un
pulcino del pollaio.
Quando Assassini e Gran Maestro furono di nuovo uniti sotto una fetta
di cielo comune, Vittorio aveva già piantato frecce in gola
a due uomini. Davide – preferendo l’astuzia al
sangue – si era gettato in un covone di fieno, trascinandovi
dentro, poi, una Guardia Papale. Leone, poiché un
balestriere nemico l'aveva preso nel mirino, era sfuggito al
dardo con una capriola in un cortile privato, abbellito di rose.
C’era mancato poco che la donna e il suo amante –
lì a farsi la corte sotto la luna – non lo
accoltellassero e che lui rispondesse a man armata. Abbandonato il
cortile, l’assassino aveva aggirato il balestriere
sorprendendolo alle spalle. Aveva fatto ruotare la mazza sperando che
quella non fosse l’ultima battuta del giorno.
Adriano era stato affiancato all’improvviso dal suo Maestro
mentre camminava sulla strada. Ezio, tra un’ombra e
l’altra, gli aveva sussurrato il comando di spostarsi sui
tetti e raggiungere Davide prima di arrivare a destinazione. Adriano
aveva annuito, ma la figura bianca del suo Maestro – a
contrasto con il ricordo di un demone nero che aveva della sera
precedente – si era dissolta in quel mare di ombre come miele
nel latte.
La fame, la sete e molti altri erano bisogni che aveva imparato ad
ignorare fin da bambino, quando passava giornate intere a zappare la
terra sotto il cocente sole estivo per racimolare giusto qualche
cereale da vendere al mercato. In realtà Adriano ricordava
pochissimo del suo passato, ma essendosi sempre prefisso di guardare al
futuro non l’aveva mai considerata una grave mancanza.
Per giungere alle spalle del Vaticano e saggiare con gli occhi
l’altezza delle sue mura posteriori, Ezio e gli assassini
impiegarono buona parte della nottata. I cinque si erano appartati in
un angolo del Borgo,
riuscendo ad eludere la sorveglianza che batteva le mura
dall’alto dei merli.
In realtà nessuno degli assassini sapeva cosa sarebbe
successo o come il Maestro avrebbe oltrepassato quelle mura.
C’erano più speranze che una fune piovesse dal
cielo e lo issasse oltre la scogliera. Solo verso la mezzanotte, quando
la maggior parte delle guardie cittadine sonnecchia o permette che si
chiudano un po’ gli occhi, Ezio sembrò condurli
dove la sua segreta attenzione era caduta molto tempo prima, mettendo a
dura prova la pazienza dei suoi compagni.
“È uno scherzo?” chiese Leone mentre
Davide si assicurava che i lembi del lenzuolo – portato da
Vittorio – coprissero per bene una lapide incastonata tra la
pietra delle mura. La lastra di travertino era larga due per un metro e
riportava qualche frase latina riferente alla costruzione della
Basilica Costantiniana, scomparsa nel nome di San Pietro con
l’assalto del Cattolicesimo sulla città.
“No, affatto. Avanti, colpiscila”,
ordinò Ezio indicando prima la mazza che Leone portava al
fianco, poi la lapide coperta dal panno, che – ora Vittorio
capiva l’assurdità di quella richiesta –
avrebbe attutito il suono ma non la forza dell'impatto.
Leone si strinse nelle spalle e acconsentì, pur tremando
all’idea che qualcuno li vedesse aprire breccia e li
denunciasse. Si guardò attorno e impugnò
l’asta a due mani, calcolò per bene la traiettoria
e saggiò il peso dell’aria – tutta
scena: poteva frantumare il cranio di un uomo ad occhi chiusi.
Dopodiché, fece per avventarsi sulla lapide, ma
arrestò il colpo a mezz’aria, improvvisamente
congelato come una statua ellenistica che raffigura un qualche sport
olimpionico greco. Si guardò attorno di nuovo, ma
‘sta volta per studiare le facce sbigottite dei suoi compagni
nell’ombra dei loro cappucci: probabilmente Davide, Adriano e
Vittorio si chiedevano quale stregoneria avesse frenato il fremente
desiderio di Leone di rompere le cose. Quando l’assassino
incontrò gli occhi del suo Maestro, ridotti a due fessure,
non trattenne un tremore alle gambe avvolte nelle calzamaglie rigate.
Avrebbe voluto avvertire il suo superiore di un rischio che Ezio
ignorava, ovvero quello di attirare attenzioni indesiderate, ma nessuno
si era o avrebbe mai potuto permettersi di disobbedire ad un suo
ordine. Però Leone non riusciva a negarsi che Ezio stava
davvero cominciando a perdere colpi in fatto di discrezione.
“Siete sicuro?” formulò Leone, incerto,
schiarendosi la voce. “Insomma, avete contato quante guardie
c’erano al Mausoleo di Augusto la scorsa settimana? E tutte
con un ottimo udito! Vuoi che Alessandro non le abbia triplicate
attorno al suo letto a baldacchino?! Qui potrebbero essercene almeno
un…”
Non gli fu concessa un’altra parola, perché da che
era rimasto immobile a ribollire di una rabbia silenziosa per il
comando interdetto, Ezio aveva deciso di agire personalmente:
strappando la mazza ferrata dalle mani di Leone, impugnò
l’asta in un sol palmo e l’abbatté sulla
lapide, che si frantumò in cinquanta pezzi dopo
quell’unico colpo.
Per una manciata di secondi Roma si cristallizzò nella
notte: persino animali, cicalii e fruscii del vento preferirono tacere
piuttosto che rispondere al suono della pietra che andava in frantumi
tra la stoffa del lenzuolo.
Gli assassini, trattenendo il fiato, non sapevano cosa aspettarsi: da
un momento all’altro qualcuno avrebbe riconosciuto
l’origine del fracasso e si sarebbe esposto dalla balaustra
delle mura puntando la balestra, oppure sarebbe continuato a filare
tutto liscio e il Vaticano non avrebbe mai rimpianto la perdita di
quella lapide?
Adriano tirò un sospiro di sollievo: era passato un minuto
buono e nessuno aveva fiatato.
Leone riebbe indietro la propria mazza senza che il Maestro lo degnasse
di uno sguardo. Determinato a condurre e vincere la sua guerra, da
solo, se necessario, Ezio nemmeno guardava più in faccia i
suoi apprendisti pur di non compromettere la missione. Quello che
l’Auditore sbagliava ad ignorare, però, era il
fatto che i suoi compagni lo stessero ponendo in allarme quando lui
preferiva infischiarsene e agire senza indugio, all’istante:
la collera e la vendetta, così prossimo alla meta, lo
avevano reso cieco – proprio come i paraocchi dei cavalli da
carrozza, che non vedono altro se non il sentiero che calpestano. Forse
tutto si stava ripetendo, forse Ezio era tornato ad essere la carne in
terra di quello spirito vendicativo che l’aveva condotto al
cospetto di Papa Alessandro VI già una volta, in passato. Le
sue intenzioni erano cambiate solo all’ultimo, scegliendo di
risparmiare la vita a Rodrigo Borgia, e nessuno osava mettere in dubbio
che adesso ne stava patendo e rimpiangendo le conseguenze.
Chissà cosa
sarebbe diverso oggi se Ezio avesse ucciso il Borgia nella Cripta.
Chissà quanti innocenti sarebbero ancora vivi, e
chissà quale Papa migliore di quello attuale siederebbe sul
Trono di Pietro…
Vittorio scacciò quei pensieri. Doveva mantenersi lucido.
Almeno lui.
Mentre Adriano e Davide aiutavano Leone a smantellare le parti intatte
della lapide costantiniana, Vittorio, che si era affiancato
all’ombra del
suo Maestro, sussurrò a voce bassa: “Siete un
pazzo, avete rischiato di farci ammazzare; voi compreso. Lo sapete
questo, vero?”.
Non aveva idea di come avrebbe reagito il suo Maestro a parole
così sfrontate. Solo la notte precedente,
all’insegna di una discussione privata, si era preso anche
troppe libertà che forse, vuoi per la stanchezza, Ezio non
aveva considerato gravi. Ma ora che il Maestro degli Assassini era
tornato a vestire gli abiti bianchi di Angelo della Morte, era
rischioso osare una simile confidenza. Però Vittorio doveva
chiarire, doveva sapere cosa frullava per la testa del suo Maestro, e
precederlo nel caso le sue azioni lo avessero spinto troppo oltre. Non
avrebbe esitato ad intercettare la traiettoria di una freccia, se
questa avesse minacciato il cuore del suo Maestro, ma gli piaceva
pensare che tali rischi potevano benissimo essere evitati. Valeva la
pena tentare di restituire ad Ezio un po’ del senno perduto.
Le labbra dell’Auditore, unica parte visibile del suo volto e
che il cappuccio non celava, si tesero in quello che Vittorio non
poté contare come un sorriso, perché assomigliava
tanto più ad un ghigno.
Davide
cominciò a sudare. Lui e Adriano dovevano raggruppare i
detriti nel lenzuolo che Vittorio aveva portato per attutire il colpo
della mazza di Leone; dopodiché, forse, avrebbero gettato i
resti della lastra nel Tevere, così che nessuno –
a parte le pantegane – ne avrebbe rimpianto la mancanza.
Occhio non vede, cuore non duole...
Erano pochi, infatti, a passare per quelle zone del Borgo
sia il dì che la notte. Oltre quelle mura invalicabili
c’era un regno misterioso che la povera gente di Roma del
quartiere di Trastevere, confinante col Borgo, non osava immaginare
neppure nei sogni più fecondi. I fasti e il lusso dei Papi
presenti, futuri e passati – con tanto della loro arroganza
– si annidavano dietro metri di spessa e robustissima pietra
vergine. Il cuore della corruzione batteva a poche spanne da chi aveva
il potere di sopraffarla…
Vittorio si era immerso nella feccia del popolo in più di
un’occasione, vuoi per borseggiare, origliare o captare
qualche informazione al nemico là dove la gente si lamentava
volentieri dei propri mali col primo passante. In quelle occasioni
aveva sentito quanto il popolo soffriva realmente delle sue condizioni
e di quanto sarebbe stato disposto a sacrificare pur di veder
migliorare il proprio e far precipitare il tenore altrui. Un macellaio
di Porta san Paolo si sarebbe volentieri sgozzato come un agnello
pasquale se in cambio fosse stato possibile ricevere della grazia per
la sua famiglia. La disperazione tra la gente aveva raggiunto i
margini, pensò Vittorio.
Roma dormiva beata sotto un magnifico cielo stellato, e loro erano
lì a farla a pezzi con una mazza. Che vergogna, si
disse Davide, come se
qualche ammacco sulle mura potesse aprire il magico Portone dei Sette
Ladroni!
Il piano di Ezio era una pazzia, ma lui non aveva
l’autorità sufficiente per intercedere le sue
richieste. Il ruolo abituale di Davide era quello di tracciare e
individuare percorsi alternativi, nascondigli e camuffamenti per il suo
Maestro. Era uno stratega e un illusionista. Se al fianco portava
legata una poderosa scure che molti avrebbero detto di carta
– data la stazza slanciata ma esile del ragazzo –
allora meritava a pieno debito il titolo di apprendista assassino.
Nonostante quell’arma e qualche freccia avvelenata che andava
sempre a buon segno, la pedina che personificava sulla scacchiera era
l’alfiere: vicino al suo Signore, ma non troppo da poter
origliare le sue conversazioni più intime. Era un
consigliere, un acculturato, e fino a qualche tempo prima anche un
devoto fedele. Eppure Ezio non si era mai fidato abbastanza
né di lui, né di Leone. Forse era
l’astio che quei due sperperavano nelle situazioni meno
opportune ad alimentare il disappunto del Maestro nei loro confronti.
Il ragioniere dovette interrompere il filo dei suoi pensieri
bruscamente, quando notò che, dove prima c’era
stato qualche blocco di pietra, si era aperto un buio e polveroso
passaggio segreto.
Frantumando il silenzioso stupore, il figlio di Giovanni si rivolse
all’assassino con le calzamaglie rigate: “Leone, tu
resterai di guardai a quest’ingresso.”
L’assassino boccheggiò sconcertato: aveva davvero
sperato che quella notte qualche Borgia crepasse con
l’acciaio della sua mazza tra i denti.
Ezio non vi fece nemmeno caso e proseguì dettando:
“Se tutto va secondo i piani…”
s’interruppe, accogliendo anche gli altri discepoli con uno
sguardo.
“Ma quali piani?” mugugnò Davide tra
sé e sé.
“Se tutto va secondo i piani”, riprese il Maestro
scoccandogli un’occhiataccia da sotto il becco del cappuccio,
“ci rincontreremo qui a cose fatte. A seconda delle
circostanze riassembleremo i resti della lapide con del calcestruzzo o
li getteremo nel Tevere. Si vedrà.”
Sospirò una breve pausa, poi guardò il passaggio
segreto.
“Io per primo. Subito dietro voglio
Adriano.”
Il ragazzo annuì.
“Davide a seguire. Quattro tempi di distacco.”
Lo stratega vaneggiò un assenso col capo.
In fine, tutta la fiducia del gran Maestro andò a pesare
sulle spalle di un uomo soltanto: “Vittorio
chiuderà la fila.”
L’arciere socchiuse gli occhi.
Il Maestro era scomparso attraverso lo stretto cunicolo già
da un po’. Per seguirlo, Adriano dovette accovacciarsi e
quasi gattonare; non si vedeva nulla oltre le proprie ciglia.
“Un passaggio segreto, mio signore, ma dove
conduce?” chiese Adriano tenendosi basso e rannicchiato per
non battere la testa. I guanti strusciavano sulle pareti, le ginocchia
si alternavano coi talloni a sostenere il peso del corpo.
“Stammi vicino: se nessuno ha rotto quella lapide prima di
noi, vuol dire che scoprire dove porta sarà una sorpresa
anche per me”, fu la risposta del Maestro quando scomparve
dietro il ripiego del passaggio segreto, che compieva una curva a
gomito proprio mentre Adriano stava continuando dritto, rischiando di
rompersi il naso. Era stato Ezio ad afferrarlo per la manica e a
tirarlo nella direzione giusta.
“Ci sei, ragazzo?”
Adriano annuì.
“Preferirei che parlassi.”
Il giovane apprendista si affrettò a rispondere con la voce:
“Sì, ci sono.”
Poi il rumore degli stivali del Maestro che si allontanava ebbe la
precedenza su qualsivoglia singhiozzo del cuore, che ad Adriano era
salito fino in gola. Davanti a sé – forse di
qualche metro, forse di qualche centimetro – il Gran Maestro
procedeva senza mai guardarsi indietro, benché non ce ne
fosse la possibilità per via dello spazio insufficiente
anche solo a respirare.
Uno.
“Mi annoierò a morte.”
“Non è un problema mio.”
“Oh, oh, oh, sì che lo è!”
rise Leone.
Davide, inginocchiato di fronte al traforo delle mura,
sbuffò seccato. Stava rispettando il volere di Ezio,
indugiando quattro tempi prima di avventurarsi anch’egli
nell’oscuro passaggio segreto, ma sarebbe bastata
un’altra parola, e Leone gli avrebbe fatto perdere il conto.
“Dev’essere piuttosto buio là sotto.
Attenti a non pestare qualche sterco di pantegana, mi
raccomando”, commentò Leone scherzoso, indicando
il passaggio con la mazza. Impugnava quell’asta di puro e
solidissimo metallo con una mano sola, come se fosse anzi fatta in
legno.
“È davvero un peccato ch’io debba starne
fuori: chi terrà a bada le Guardie Papali mentre Davide
trova un alberello prima di farsela sotto?”
sospirò laconico, confidandosi con Vittorio immobile al suo
fianco.
Davide irrigidì le spalle. La sua pazienza aveva un limite.
Detestava l’umorismo di Leone a priori; se poi gli toccava
sorbirsi quel genere d’insulti addirittura durante una
missione ufficiale, non sapeva quanto a lungo sarebbe rimasto calmo.
Due.
“Dovremo salire sulle mura”, fu Vittorio a troncare
sul nascere un nuovo e fatale battibecco.
“Sulle mura?” s’insospettì
Leone.
Quella farse aveva attirato l’attenzione anche di Davide, che
però cercava di stare concentrato sul conto alla rovescia.
Vittorio fece scorrere lo sguardo verso l’alto fin quando non
incontrò le stelle. C’erano delle guardie
appostate in ronda tra i merli, ma fortunatamente il passaggio segreto
scoperto da Ezio era troppo scavato tra la pietra, e la loro attuale
posizione troppo incanalata tra le ombre. Nel preciso, si erano
appostati dove la cinta Vaticana compie un brusco ripiego a gomito, in
un angolo convesso di duecentotrenta gradi – geometricamente
parlando.
“Sì, sulle mura”, ribadì
Vittorio. “Con tutte le probabilità, una volta
scoperta la foce di questa galleria, Ez…”
s’interruppe all’improvviso. Aggrottò le
sopracciglia e, rivolgendosi anche a Davide, chiese: “Non lo
sapete?”
“Cosa?” Davide era distratto. Si capiva che seguiva
a mala pena qualche parola.
Tre…
“Tu, piuttosto, come lo sai che dobbiamo scalare le
mura?” esordì Leone, crucciato.
Vittorio precipitò nel baratro dello sconcerto.
“Non ditemi che Ezio…” stentava a
crederci. “Di cosa avete discusso l’altra sera
nella cantina?” domandò direttamente.
Lo stratega si voltò. “Che razza di domande
sono?”
“Scemo, Vittorio non c’era: stava male. Devi
raccontare anche a lui che te la fai sotto per du’ zappe e
tre oche”, schernì Leone.
“Per favore, ragazzi!” Vittorio richiamò
un po’ d’ordine. Il mal di testa stava tornando, e
il punzecchiarsi di quei due non aiutava sicuro. “Qual
è il piano?”
Davide e Leone si scambiarono una lunga occhiata perplessa.
“Qual è il piano?” si chiesero a
vicenda. Sorpresi, entrambi alzarono le spalle.
“Tu quale credi che sia?” domandò Leone,
serio, al mastro arciere.
Vittorio esitò, guardando prima uno poi l’altro
confratello. “Pensavo che anche voi lo sapeste,
insomma…” a quel punto tacque non sapendo davvero
cosa dire. Tornò a scrutare l’oscurità
del passaggio segreto, pensando che Ezio si era divertito di nuovo a
fare l’incosciente. Il Gran Maestro stava tirando la corda,
il suo comportamento superava i canoni dell’assurdo. Se
Vittorio non l’avesse conosciuto da così tanto
tempo, avrebbe detto che fosse ubriaco; ma siccome la situazione era
andata peggiorando gradualmente, già da parecchie settimane,
non poteva trattarsi del buon vecchio vino. No, Ezio era lucidissimo.
Anche troppo. C’era un dettaglio molto più
piccolo, ma altrettanto rilevante. Ci si comporta come una bestia per
centinaia di ragioni, dall’ira all’odio, dal
rancore alla vendetta. Forse una parte di queste ci andava di mezzo, ma
la giustificazione più subdola, capace di spingere un uomo a
muovere guerra in un modo così barbaro, poteva essere
solamente una…
“Porca Eva!”
Vittorio sgranò gli occhi, inchiodandoli sullo stratega.
Leone sobbalzò.
“Vittorio, perdonami, ma siamo in ritardo”, lo
informò Davide, scusandosi miseramente dispiaciuto. Scosse
la testa. “Devo aver contato circa il
dopp…”
Vittorio si era fiondato nel passaggio segreto prima che Davide avesse
potuto concludere la sua confessione. Non voleva arrabbiarsi con lo
stratega del gruppo perché si era distratto, sarebbe stato
inutile, ma non avrebbe permesso alla provvidenza di mettere troppa
distanza tra lui e il Gran Maestro che, nonostante il disguido, si
sarebbe sentito autorizzato ugualmente a portare avanti la missione con
o senza di loro. Qui
qualcuno vuole rischiare il tutto per tutto,
pensò Vittorio artigliandosi alla pietra, avanzando alla
cieca. Mi sta anche
bene, ma Ezio deve smetterla di rischiare da solo!
Dietro di lui, spintonato da Leone, si era aggiunto il giovane Davide.
Questi arrancava alle sue spalle maledicendosi in tutte le lingue a lui
conosciute, dal catalano al francese, dal dialetto di casa al suadente
latino ecclesiastico: Davide non si sarebbe mai perdonato
quell’errore di calcolo indicibile, e non pretendeva che
altri lo facessero per lui.
Fuori dal recinto del toro, il leone snudava nervosamente la coda e si
preparava alla lunga attesa con le zampe incrociate.
.:Angolo
d’Autrice:.
Eccoci nel pieno dell’azione. Ezio e i suoi apprendisti si
addentrano nelle Mura Vaticane per quella che, attualmente,
è questo piccolo foro [link]
Ovviamente non sono certa del fatto che all’epoca
fosse una “lapide” riportante insegne latine, tanto
meno l’ingresso ad un passaggio segreto. Mi sono
semplicemente sbizzarrita nell’immaginare cosa fosse quel
curioso aneddoto della cinta vaticana che non Michelangelo, ma io
scoprii quest’estate andando a trovare un’amica che
abita proprio alle spalle del Vaticano, a confine con le mura :)
Ecco svelato l’arcano mistero del lenzuolo…
Mi sorprendo della mia stessa banalità. Da non credere.
In questo capitolo sono stati frequenti i passaggi di POV, seppur molto
sottilmente. In un primo momento vediamo Adriano raggiungere i suoi
compagni sul tetto del “quartier generale”, poi
Davide farsi mille complessi mentali su un piano che, ufficialmente,
non esiste; e in fine Vittorio che prevede pioggia. (E pioggia
sarà…?)
La scena dell’affronto alla “lapide”
è nata come uno sclero… come Ezio,
anch’io quel giorno sentivo la voglia di spaccare le
cose… era il 29 luglio. Avevo appena scoperto di aver perso
il mio peluche preferito con il quale avevo condiviso ben 8 anni della
mia breve ed inutile vita… tutte le notti lo piango ancora,
ed Helleborus è, in un certo senso, un tributo funerario al
mio piccolo Norby (in realtà non aveva un nome…
era una riproduzione poco fedele e molto stilizzata di Norberto, il
draghetto di Harry Potter e la Pietra Filosofale. Me lo
comprò mia madre al Blockbuster quando ancora davano il film
sul grande schermo.) Quando ho realizzato che non l’avrei
rivisto mai più, i cinque giorni successivi ho avuto 38 di
febbre…
No, non sono normale.
Ma di questo a voi non può importare granché,
perciò faccio un’ulteriore figura da idiota
– cosa che la scrittura di questa fan fiction mi fa sembrare
già abbastanza.
I quattro tempi contati da Davide in realtà sono piuttosto
veloci. Quella scena in particolare, senza contare la stesura a
caratteri e le riflessioni interne dei personaggi, dovrebbe uscire
fuori abbastanza svelta. Svelta nel senso che per 4 tempi Ezio non
chiedeva un distacco non minore di cinque minuti. E perché?
Vi chiederete voi… Ebbene, la vostra schizofrenica
scrittrice non ha risposte preferisce rimandare l’argomento
dicendo con molta semplicità che l’Ezio della sua
storia è prudente, ma nel modo sbagliato.
Spero che abbiate passato un felice Halloween :) ma per quanto mi
riguarda covo la speranza di leggere presto i vostri commenti.
*Ancora grazie ad Enio
(quando aggiorni Perditae
Aedas???) e RunaMagus
(se state leggendo questa schifezza, sappiate che perdete tempo! Volate
alla sua Bianca
come il Peccato) per aver conservato la fan fiction tra le
seguite :)
*SophyTheWhiteDragon,
semplicemente ti adoro. Mi hai recensito tutti i capitoli e, credimi,
per me significa moltissimo e mi da prova di che persona corretta tu
sia. Sono la prima a detestare recensioni complessive, farne e averne,
s’intende, e so cosa si prova nel fare questo grandissimo
sforzo che, un giorno, quando pubblicherai qualcosa di tuo,
ricambierò a simile moneta. Sono felicissima che tu segua
anche Project
Delta. Spero di non deluderti anche lì. Spero di
non smontarti un mito se confesso di aver fatto solo 3 mesi di
classico, di non ricordare nemmeno la prima declinazione…
Perciò tu capisci che quelle stupende frasi Latine non
possono essere mie .__. E quanto me ne vergogno! Linciami pure,
è un affronto alla materia che sembri amare.
*Josi_n_June.
Ci sei ancora. Ci sei sempre! La prima a recensire, la prima a
migliorarmi la giornata! Fai bene a credere nella quiete prima della
tempesta. Forse ancora nel prossimo capitolo vedremo una pezza di
questa “quiete”, però da un punto di
vista del tutto inaspettato… non so. Per quanto riguarda
alcuni post futuri, stavo pensando addirittura ad una specie di
“raccolta” a parte, che comprenderebbe scene con un
POV molto particolare, esterno quindi a quello che sono i protagonisti
di Helleborus (ovvero Ezio e gli apprendisti.) Dimmi tu cosa ne pensi,
siccome mi hai detto di amare il prologo perché riguardava i
cattivoni :)
Ecco, a proposito del prossimo capitolo, intendo domandarvi
generalmente cosa pensate di una “raccolta” che
conterrebbe le scene “non dette”, plausibili o meno
riguardanti questa storia…
Vabbe’, basta, sto divagando ed è colpa della
stanchezza. E’ circa l’una meno un quarto e
c’è pure l’ora legale, perciò
è come se fossero le 2 del mattino.
Vi abbandono fiduciosa :)
La vostra
umile
|
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Capitolo 5 *** Dies Irae - Parte 2a ***
Helleborus
Capitolo
V
Dies irae
“Quando
c’è puzza di veleno, l’orgoglio scava la
fossa.”
Quel cunicolo infernale sfociava proprio nella tana del Diavolo,
constatò Adriano. Quando il suo Maestro
scoperchiò il ‘tappo’ che impediva loro
di salire verso l’alto abbandonando la galleria segreta, Ezio
e l’assassino emersero con agilità in mezzo ai
prati dei Giardini Papali, precisamente all’altezza del
Belvedere. La passeggiata iniziava su una piazzola nascosta dalla
vegetazione, nel cui centro, mimetizzato tra i marmorei sfarzi
geometrici, c’era il tombino. Il sentiero di mattonato che si
diramava per il Giardino aveva anche la funzione idraulica di far
scorrere l’acqua piovana dal terrazzo alle fogne.
Adriano si guardò attorno senza credere ai propri occhi: non
l’avrebbe mai detto, ma entrare nei domini dei Papi era stata
proprio una passeggiata! Magari un po’ stretta, ma di poche
fatiche.
Un sorisetto brioso apparve sulle labbra del ragazzo. Quella di Ezio, a
confronto, era la maschera delle serietà. Dopo che ebbe
richiuso il tombino di cui nessuno avrebbe mai sospettato la
possibilità di aprirsi, Adriano seguì
l’ombra del suo Maestro confondersi a quelle degli alberi.
I Giardini del Vaticano consistevano in una vasta distesa erbosa
meticolosamente curata. Chissà quanti giardinieri ci
sarebbero voluti per potare tutte quelle siepi di margherite
domestiche, rose e tulipani blu. Se c’era qualcosa che doveva
giovare molto ai buoni rapporti tra politici e cattolici, era
l’aspetto del giardino nel quale tenere funzioni e
discussioni. L’intero colle di Sant’Egidio,
abbellito di un frutteto e dei prati voluti da Papa Nicolò
III quasi tre secoli prima, era stato a lungo andare méta di
meditazione per i religiosi signori. Nonostante
l’oscurità notturna, Adriano contò
alcuni esemplari da terre lontane che, in altri luoghi e senza una
premura costante, sarebbero essiccati poche ore dopo il trapianto. Il
prato sotto ai suoi stivali era dei più soffici che avesse
mai calpestato. Il profumo intenso e fresco della natura era
terribilmente accattivante.
Ezio proseguiva spedito a poche spanne dal suo naso, ed Adriano era la
sua ombra.
Per mera fortuna nessuna delle guardie in alto, sparpagliate sui
colossali bastioni, li aveva notati. La frazione dei Giardini che
stavano attraversando – spostandosi di felce in felce e di
tronco in tronco – era troppo lontana sia dai focolari delle
torri, sia dagli edifici circostanti. Data la vastità del
terreno, ai due Assassini tornò facile eludere quel poco di
pigra sorveglianza, poiché avevano raggiunto il perfetto
centro dei Parchi senza che nessuno si fosse accorto delle loro ombre
di troppo.
Voltandosi nella direzione dalla quale erano venuti, Adriano
immaginò Davide e Vittorio che scalavano quelle mura ormai
lontanissime. Come avrebbero assicurato loro protezione con una tale
distanza? Ezio avanzava facendo strada al suo apprendista senza mai
guardarsi alle spalle, potendo facilmente intuire la presenza del
ragazzo attaccata alla sua schiena misurando gli spostamenti del vento,
che soffiava sui loro cappucci da nord-est…
Si acquattarono sul confine della pineta, dove una buona fetta di
prato, un sentiero in pendenza e alcuni gradini precedevano gli
Appartamenti. L’ingresso era presieduto da una dozzina di
guardie, due delle quali Papali.
“E se Cesare fosse già partito?”
domandò Adriano in un sussurro.
Ezio, in equilibrio sui talloni, guardava dritto davanti a
sé. “È ancora qui”, disse
semplicemente.
Adriano avrebbe voluto chiedere in base a cosa il suo Maestro ne aveva
la certezza, ma ingoiò l’intenzione
all’istante. Piuttosto seguì lo sguardo
dell’Auditore, che si era fissato in particolare su due
figure appena emerse dal portone e che venivano, passeggiando, verso di
loro.
“È lui?”, domandò
l’apprendista col cuore in gola.
“C’è anche Goffredo, ma è
disarmato”, riferì Ezio, la cui vista miracolosa
spaziava ben oltre quella di un comune mortale.
I due Borgia si avvicinavano alla pineta con indifferenza, seguendo il
sentiero della passeggiata. Se la fortuna avesse continuato a pendere
per gli Assassini, il gruppo che era partito con una fava sarebbe
rientrato al quartier generale prima dell’alba non con due,
ma tre grossi piccioni.
“Sta’ pronto.”
Adriano irrigidì i polpacci preparandosi allo scatto.
Strinse i pugni e portò indietro il braccio con il
meccanismo, saggiandone il peso. Al momento del balzo la sua lama
avrebbe trapassato la gola del Borgia più giovane, mentre il
Maestro avrebbe compiuto vendetta sull’omicida di suo zio.
Ma improvvisamente le due figure cambiarono direzione: Cesare e
Goffredo ripercorsero i propri passi con apparente
tranquillità e, giunti ai pressi dell’ingresso, il
piccolo Borgia rincasò al coperto. Il premio più
ambito scambiava due parole con una Guardia Papale.
Ezio, a pugni serrati e denti stretti, scattò istintivamente
in avanti, ma la voce di Adriano lo destò, per un breve
istante, dal sortilegio dell’ira.
“Non dovremmo aspettare Davide e Vittorio,
Maestro?”, gli ricordò il giovane. “A
quest’ora sarebbero dovuti già essere dietro di
noi…” constatò voltandosi amareggiato.
Alle loro spalle l’oscura pineta inghiottiva ogni cosa.
Tornò a guardare il suo superiore. Ezio, indugiando sulla
figura di Cesare che ripercorreva – quella volta solo
– la passeggiata, fece scattare una delle due lame celate.
“Non c’è più
tempo”, sussurrò l’aquila uscendo allo
scoperto.
Anche dalla loro attuale posizione non era facile riconoscere e tenere
sott’occhio tutti gli edifici che dimoravano nella tenuta
vaticana. La stessa Basilica di San Pietro – la cui cappella
spariva avvolta dalle impalcature – era una massa ombrosa
informe che deturpava una fetta del cielo stellato. Il Palazzo
Apostolico, ove risiedevano i Papi e tutta la corte, e le sue preziose
Cappelle erano un miraggio tanto distante quanto le guardie di
pattuglia tra i merli accanto.
Sulla spalla destra di Vittorio si era arrampicato un maestoso
esemplare di Falco
Sacro, una rarissima specie di cacciatore versatile, capace
di abitare e seguire il suo padrone tra le montagne più
fredde e i deserti più torridi. Gli occhi erano due pozzi
neri nei quali si specchiava un raggio di luna, il becco ricurvo e gli
artigli acuminati ben piantati sulla spallina imbottita della veste di
Vittorio. Sulle sue spalle gravava oltremodo il peso di un arco; al
fianco quello di una striscia, arma da taglio dalla sottile precisione.
Non era trascorso molto tempo da quando lui e Davide erano saliti sui
bastioni. Sorprendere e sostituirsi alle quattro guardie –
due delle quali appisolate – era stato facile come bere un
bicchier d’acqua. I corpi dei soldati li avevano ammassati
contro la balaustra; tra gambali e stivali si era allargata una grossa
pozza di sangue, nel quale si riflettevano addirittura le stelle del
cielo.
Davide era alle sue spalle, di vedetta verso ovest. Il vecchio
fraticello secco che circondava l’esterno delle Mura Vaticane
finiva dove cominciava l’agglomerato urbano di bassi edifici.
I monumentali edifici romani morivano all’orizzonte
così com’erano nati: confusi in un groviglio di
luci e ombre indistinte. Dall’altra parte, invece, verso est,
i Giardini dei Papi si estendevano a perdita d’occhio tra
pinete, campi di rose e margherite invernali.
Una folata di vento freddo spalmò la pelle d’oca
sul corpo di Davide. “Riesci a vederli?”, chiese
senza voltarsi. Doveva fingersi quella stessa guardia cittadina che
aveva pugnalato, mantenendo la posizione per non destare sospetti tra i
soldati delle torri vicine.
Vittorio ridusse gli occhi a due fessure studiando una sezione
particolare del Giardino. Tacque a lungo prima di rispondere, ma
sì, riusciva a vederli.
Adriano e il Maestro, due puntini bianchi
nell’oscurità, erano sul confine della pineta.
Quando notò che il faccia a faccia col Valentino era
già bello che iniziato, batté un colpo sulla
spalla di Davide. Questi si voltò, seguì
l’indice di Vittorio e rimase a bocca aperta.
“Che facciamo?”, domandò ansioso lo
stratega.
Dopo che Vittorio gli ebbe dato un buffetto sul muso, il falco sacro
spiccò il volo dalla spalla dell’arciere e
scomparve tra le stelle. “Piombiamo lì prima che
il destino lanci i suoi dadi truccati”, rispose.
E prima che arrivi la
tempesta, aggiunse mentalmente lanciando
un’occhiata alla banda di nuvoloni in viaggio da nord-est.
Poi si calò giù dalle mura con la stessa fune
utilizzata per scalarle.
Prima di seguire Vittorio, lo stratega si affacciò alla
balaustra e, come se avesse letto nei pensieri del compagno,
scrutò anch’egli l’ormai prossimo
temporale. Arricciò il naso, sentendo l’umido
pungergli la pelle.
Poi guardò in basso tra la vegetazione dei Giardini. Con
l’aiuto della luna che, ancora per poco alta in cielo,
rifletteva sulle loro armature, Davide poteva vederli con chiarezza:
una dozzina di uomini armati stavano per avventarsi sulla volpe e sul
suo cucciolo. Il giovane matador
Borgia, sicuro di vincere, non aveva neppure estratto la spada dal
fodero.
“Ezio Auditore… Speravo tanto in una tua visita
prima della mia partenza”, ghignò il Valentino
fermandosi in mezzo al sentiero con le mani giunte dietro la schiena.
“E hai portato anche un tuo… discepolo”,
constatò dondolandosi sui talloni.
Adriano si era affiancato al suo mentore con la cinquedea in pugno.
Aveva perso di vista le Guardie Papali sull’ingresso degli
Appartamenti e anche il resto del corpo militare. Doveva mettere
all’erta il suo signore, ma rischiava di affrettare le mosse
del Valentino, che aveva predisposto una trappola improvvisandola sotto
al naso dei suoi inaspettati ospiti.
Il duello tra Cesare ed Ezio era già iniziato, ma a suon di
sguardi.
Gli occhi dell’Auditore erano due diamanti
nell’ombra del suo cappuccio, splendenti
dell’abbaglio lunare sopra alle loro teste. Quelli del
Borgia, invece, due maliziosi topazi dorati. In un lungo momento di
silenzio, la vecchia aquila e il giovane toro si studiavano
scrupolosamente l’un l’altro preparandosi alla vera
battaglia.
Adriano guardò il Maestro e capì che le
intenzioni del suo superiore erano sempre state lì, a
portata di chiunque avesse potuto intravedere la piega malvagia
comparsa sulle sue labbra. Ezio voleva ottenere l’occasione
di uccidere il suo arcinemico senza che nessuno dei due fosse
infastidito da inutili accompagnatori, quali potevano essere irritanti
discepoli come maree di eserciti corazzati. La sera precedente aveva
ordinato ai suoi apprendisti di compiere quel gesto nel modo
più discreto possibile, quand’invece i suoi vecchi
compagni lo avrebbero pregato di appendere ad un palo, fuori dalla
città, la testa di Rodrigo e suo figlio, affinché
anche Roma e la sua gente potessero squartare con gli occhi quella
carne putrefatta. Ma Ezio era tornato prigioniero della stessa vendetta
personale che, per più di vent’anni,
l’aveva guidato a mietere vittime nel pugno della corruzione.
Adesso che tutto stava per compiersi, e nella maniera più
celere e impensabile, la ruota girava per l’ultima volta; la
storia scriveva le sue pagine, il destino si apprestava a lanciare i
suoi dadi e la morte contava ormai sulle punte delle dita…
Il ragazzo si voltò: un manipolo di soldati si era schierato
silenziosamente alle loro spalle, appostandosi nella stessa pineta
dalla quale erano emersi i due Assassini. Armi nei foderi, elmi
lucenti. Aspettavano il segnale del loro signore.
Ezio, ignaro, richiamò entrambe le lame dai polsi e
formulò a Cesare, sogghignando: “Come ti hanno
predetto che saresti morto? Scannato dal popolo o rosicchiato dalle
pantegane del Tevere dopo un soggiorno tra le sue correnti? Nonostante
immagino già quale dei due lo merita di più,
voglio sapere a chi dovrò consegnare il tuo cadavere quando
avrò finito io.”
Cesare scoppiò in una fragorosa risata. “Non hai
calcolato nemmeno questo, Ezio Auditore, come molto altro di
me.” I topazi del Duca Valentino brillavano di una
malvagità folle. “Il popolo mi ama”,
sottolineò il Borgia.
Ezio serrò i pugni. Quelle parole lo stavano provocando.
“Gli unici a camminare sugli sputi della gente
siete voi, Assassini, che dovunque andiate seminate scompiglio e
sconcerto. Il popolo ha scelto di seguire noi quando noi gli abbiamo
promesso una certezza. Il popolo ha scelto di seguire ME quando IO ho
dimostrato di avere i mezzi per mantenere quella promessa!”
si compiaceva. “E il popolo sa bene, Ezio Auditore, che tu non
farai altro che mettermi i bastoni fra le ruote.”
Adriano, come il suo Maestro, in un primo momento pensò che
il Valentino stesse mentendo, cercando semplicemente un modo per
allungare i tempi del loro dialogo. Non poteva dire sul
serio… non poteva davvero esserne convinto!
Cesare Borgia aveva sparso scintille tra i Regni d’Italia,
aveva messo i Signori più potenti della nazione li uni
contro gli altri, portando così alla rovina le terre su cui
questi omoni tirchi e presuntuosi si erano fatti battaglia. La fame, la
peste e la povertà ancora mietevano le loro vittime nella
stessa Capitale!
“Vorrà dire che ti affiderò con egual
piacere ai palati dei topi di fogna.”
E anche in mezzo alla tragicità del vero, Ezio tornava a
fare sarcasmo da ragazzino.
Cesare ridusse gli occhi a due fessure e riprese a parlare con tono di
voce più basso: “Tra poco la gente
d’Italia conoscerà un nuovo aspetto di me che mi
farà amare più di quanto tu non abbia mai
immaginato, Assassino, e tutto questo grazie a te.”
No, il Valentino mentiva… mentiva per sciupare oltremodo il
suo nemico, già debole e sprovvisto di aiuti. Se non erano
bugie quelle, allora Cesare era uno sciocco e per tutto quel tempo si
era convinto di essere qualcun altro…
Perplesso ma furente, Ezio avanzò di un passo.
Tra le fronde della pineta alle loro spalle si spezzò un
rametto secco. Il suono mise finalmente in allarme
l’Auditore. Adriano era bianco come un… lenzuolo.
Cesare sogghignò. “Ma è un vero peccato
che tu e il tuo pulcino non vivrete abbastanza a lungo per vedere tutto
questo.”
A quel punto circa una dozzina di archi si tesero nel silenzio della
notte.
Erano circondati.
Siamo morti… Adriano
ricacciò in gola la disperazione e strinse più
forte il manico della cinquedea dentellata.
Cesare si allontanò camminando all’indietro sul
sentiero, senza staccare gli occhi da quelli del suo arcinemico.
“Sto creando un mondo perfetto, Assassino, un mondo che mi
idolatri come un Dio per quello che faccio e non per
quello che sono.
Tu, che pretendi l’opposto e mandi al macello i tuoi
apprendisti, lo stai facendo male, credimi, molto male.”
Ezio avrebbe voluto saltargli addosso e staccargli a morsi quel suo
sorriso beffardo circondato di barba, ma il Gran Maestro sembrava
improvvisamente pietrificato accanto al suo discepolo. In Adriano
cresceva lo sconcerto, mentre l’oscurità dei
giardini inghiottiva la demoniaca figura di Cesare. Egli si dissolse
lasciando sospese queste parole: “Sei cieco, Ezio Auditore,
lo sei stato e lo sarai sempre.”
Quando Ezio lo spinse via, Adriano perse la cinquedea e fu costretto a
gettarsi tra le radici scoperte di un pino mediterraneo. Solo allora,
mentre guardava una freccia fare scintille sui bracciali luccicanti del
suo Maestro, comprese la gravità dell’intera
faccenda, e si maledisse per non essere intervenuto prima e aver
fermato quella follia.
“Arcieri! Uccidete gli assassini!” non era stato
Cesare a dare voce al comando, ma un essere che, date le circostanze,
bisognava affrontare lo stesso.
Adriano fu per drizzarsi in piedi e sfoderare la striscia dal fianco,
ma venne preso in contropiede da un dardo che sferzò la
corteccia del pino a pochi centimetri dal suo orecchio. La punta
metallica era scomparsa nel tronco, la stecca ancora vibrava.
Il ritardo col quale si schierò al fianco del suo Maestro
aveva consentito ai nemici di accerchiarli e a qualche altra freccia di
giocare al bersaglio coi lembi delle loro vesti bianche. Si capiva che
chiunque stesse impugnando un arco non riusciva a tener conto della
loro posizione esatta, grazie all’oscurità, ma
poiché i proiettili di legno e ferro arrivavano da tutte le
parti, era altrettanto difficile schivare i pochi in grado di colpirli.
Adriano si aiutava con la lama, intercettando di stoccata quei dardi
che il buon udito e gli ottimi riflessi lo aiutavano a precedere. Ezio
restò contro la sua schiena giusto pochi istanti, prima di
partire alla carica e avventarsi, come un demone assetato, sul corpo di
un primo soldato individuato tra le fronde. Dopo di quello perirono
molti altri arcieri per grazia delle sue lame e per dono del suo occhio dell’aquila.
I gemiti umani si confondevano ai sibili delle frecce, sempre meno
frequenti nell’aria notturna. Forse in un modo o
nell’altro ne sarebbero usciti indenni, si scoprì
a sperare Adriano che, facendo da esca nel centro del prato
affinché gli arcieri restanti si concentrassero su di lui,
dava al figlio di Giovanni - una bestia famelica assetata di sangue
– la possibilità di aggirare gli aggiranti e
trafiggerli alle gole.
Improvvisamente i sibili di piume confezionate cessarono e lo stesso
silenzio che li aveva accompagnati nell’attraversare buona
parte dei Giardini Papali tornò sovrano.
Adriano si voltò a più parti gonfiando e
sgonfiandosi d’aria i polmoni con la ferocia della battaglia
che gli scorreva nelle vene: non aveva trafitto abbastanza Templari per
domare l’ardore che la vista del sangue risvegliava in lui e
in chiunque fosse stato addestrato ad uccidere. La fronte imperlata di
sudore, le labbra nascoste dietro al bavero; nel complesso, il volto
per intero era celato. Solo gli occhi azzurri zampillavano da un lato
all’altro del campo visivo, tracciando i confini delle
possibili ombre nemiche ancora appostate nei dintorni.
Un’ultima freccia, fatale e concisa, sferzò il
cielo stellato andando a piantarsi nell’oscurità
oltre la figura di Adriano. Ne seguì un gemito represso e
un’imprecazione inconfondibile.
“Maestro!”
No, impossibile! si
disse il ragazzo accorrendo in quella direzione. Qualunque fosse il Dio
che aveva guidato quella freccia sino alla sua carne, Ezio Auditore non
poteva davvero essere stato ferito a tal punto da lasciarsi sfuggire
una simile bestemmia.
L’immagine che gli si presentò dinnanzi, mentre il
ragazzo rinfoderava l’arma, era inverosimile, mitica quanto
le Sfere Celesti o un Grifone delle Montagne.
Raggiunse il suo Maestro nell’istante in cui questi si
estraeva l’asticella della freccia dalla spalla. Attorno al
foro scavato nella carne, il tessuto della veste si stava macchiando
del sacro inchiostro. “Non è
nulla…”, si apprestò a dire il ferito
gettando via l’arma. Ai suoi piedi c’erano i
cadaveri di due guardie papali, delle quali doveva essersi sbarazzato
prima d’incassare la freccia in corpo. “Cesare
è andato. Goffredo si sarà nascosto da qualche
parte”, disse Ezio incamminandosi malfermo. Sembrava faticare
a mantenere la schiena dritta. “Dobbiamo raggiungerlo prima
che avverta…”.
Non era stato in grado di continuare perché un improvviso
infiacchimento delle gambe l’aveva costretto ad aggrapparsi
al braccio di Adriano. Questi, prontamente, lo aveva sorretto con tutto
il peso di ossa, muscoli, armi e armatura.
“Vi sentite bene?”, osò chiedere il
ragazzo, ma Ezio si scansò da lui preferendo il conforto del
tronco di un pino. Si appoggiò ad esso con entrambe le mani.
“Benissimo”, sottinse, ma la mascella contratta
tradiva le sue parole.
L’età
gioca certi scherzi proprio ora? Si chiese Adriano
terribilmente in ansia. Un mancamento di quel genere poteva essere dato
da due soli fattori: per una stanchezza fisica oppure per del
vel…
“Veleno…” mormorò Adriano.
“Maestro, la freccia era avvelenata!”, concluse.
“Non dire sciocchezze!”, ruggì Ezio
staccandosi dall’albero. Pareva aver riacquistato le forze,
ma fu una speranzosa illusione di brevissimi istanti.
Il Maestro mosse una dozzina di passi sul prato, prima correndo ma poi
necessitando di rallentare e camminare. Il respiro accelerava, la
fronte s’imperlava di sudori freddi, il cuore batteva
così forte contro le costole da far male. La ferita alla
spalla bruciava e il sangue non la smetteva di allargarsi in una
macchia sempre più grande, sbocciando nel candore delle sue
vesti come un rosso fiore di campo. Si fermò,
poiché i piedi non gli ubbidivano e la vista gli veniva
meno.
Non capiva cosa gli stesse succedendo, avrebbe voluto chiamare a
sé il giovane apprendista, ma le labbra si socchiusero solo
per lasciar passare un sospiro. Alzando un braccio per asciugarsi la
fronte sudata, si accorse di tremare e non riuscire a calibrare alcun
movimento. Alla fine, ciò che restava dei suoi muscoli non
fu più in grado di reggere il peso del corpo.
Il Gran Maestro degli Assassini perse i sensi e crollò
nell’erba come un fantoccio dai fili tagliati.
Adriano si gettò al suo fianco, affondando le ginocchia
nella terra umida del Giardino. Indugiò a lungo temendo il
peggio e non sapendo dove mettere le mani.
E adesso?!…
Si guardò attorno e vide solo la notte, col suo lento e
silenzioso scorrere, circondare i loro corpi di un’atmosfera
irreale. Era già del tempo che Cesare se n’era
andato, e non si era fatta viva una guardia in più oltre a
quelle cui aveva lasciato il compito di ucciderli. Ezio aveva
sterminato gli arcieri uno ad uno e abbattuto anche le due Sentinelle
Papali corazzate…
Ma ora, il Gran Maestro degli Assassini era disteso a pancia sotto nel
prato del suo nemico; Adriano avrebbe detto che dormisse se non fosse
stato per la posa innaturale di braccia e gambe. La mantella si
arricciò da una parte quando un’improvvisa ventata
fredda attraversò i domìni dei Papi.
Il ragazzo guardò il cielo.
Le stelle erano scomparse, inghiottite dalla massa di nuvole scure che
avevano finalmente raggiunto la Città Eterna. Presto o tardi
una tempestosa pioggia invernale si sarebbe riversata nei vicoli e sui
tetti di Roma senza pietà per nessuno.
Un tuono poderoso squassò l’aria congelata dei
parchi e un bagliore argentato illuminò per un istante
l’orizzonte. Fu in quel momento che Adriano vide venire verso
di loro, in corsa, altre guardie armate, probabilmente con
l’ordine di concludere l’opera. Erano una
quindicina e Adriano da solo non avrebbe potuto abbatterne un terzo.
Nonostante la consapevolezza della morte, il ragazzo si
alzò, impugnò la striscia e si scagliò
sui soldati. Trafisse il primo, schivò il fendente di un
secondo, disarmò il terzo, ma poi venne sopraffatto dagli
altri e costretto a terra, dove ricadde di schiena. La punta della lama
che lo minacciava alla gola risalì il mento,
tracciò la guancia e andò a scostargli il
cappuccio, mostrandogli il volto. L’oscurità
notturna faceva il suo gioco, ma il viso pallido e gli occhi azzurri
del ragazzo, irrigidito dal terrore, furono comunque alla portata del
soldato. “Ma che bel faccino…”,
commentò questi sarcastico. “Cesare non ha detto
di non fare prigionieri, e sarebbe un peccato gettare un
così bel fanciullo nel Tevere assieme a quella vecchia
carogna.”
Le altre guardie avevano accerchiato il corpo inerte del Gran Maestro.
Due di loro lo disposero a terra in modo tale da poterlo sollevare
facilmente per mani e per piedi. Erano pronti ad alzarlo, quando due
frecce silenziose e precise si piantarono nelle loro gole. Entrambe
ricaddero all’indietro sul prato in una pozza di sangue.
Il soldato che minacciava Adriano ordinò ai suoi uomini
restanti di mantenere la posizione e, muovendo di peso il ragazzo, si
allontanò sul prato. Il giovane apprendista tentò
invano di sottrarsi alla presa dell’Ufficiale Papale, che lo
colpì alla testa con l’elsa dello spadone,
stordendolo; il ragazzo perse i sensi tra le sue braccia.
Accorsero altre guardie.
Nel frattempo dalla pineta erano emersi Davide e Vittorio.
Quest’ultimo incoccava e scoccava con un ritmo
impressionante, alla velocità di un mortaio ad ingranaggio.
Lo stratega, invece, era avanzato nel bel mezzo della pattuglia e, dopo
aver messo l’arco a riposo, stava mietendo vittime tra le
fila nemiche con la sua scure leggera. Combatterono come forsennati,
entrambi, senza risparmiare munizioni ed energie. Le milizie Vaticane
li accerchiavano, moltiplicandosi nell’oscurità
della notte. Fu una lunga ed estenuante guerriglia, ma alla fine, pur
riportando diversi strappi e acciacchi alle vesti, Davide e Vittorio si
liberarono di buona parte delle guardie, e le poche che risparmiarono
scapparono via.
Il silenzio, quando giunse, parve un miraggio.
Gonfiando e sgonfiandosi d’aria i polmoni, Vittorio cercava
con gli occhi il quarto giovane apprendista.
“Adriano!” chiamò voltandosi a
più parti.
Un luccichio metallico risaliva frettolosamente la passeggiata.
Vittorio incoccò e prese la mira trattenendo il fiato. Non
avrebbe fallito, si disse, perché lui non falliva mai ed
Ezio l’aveva scelto tra tanti solo per questo.
Scoccò.
La freccia sibilò nella notte, attraversò una
siepe e trovò la carne dell’Ufficiale Papale
all’altezza del polpaccio sinistro, che gli schernirei
metallici non proteggevano. Era una ferita poco grave,
perciò la guardia vaticana riuscì a proseguire la
sua ritirata codarda, seppur zoppicando, verso gli Appartamenti dei
Borgia.
Vittorio strinse i denti e incoccò di nuovo.
Quella volta mancò il bersaglio di pochissimo,
perché l’Ufficiale Papale, che si era trascinato
via a peso morto il più giovane degli apprendisti, aveva
fatto giusto in tempo a voltare l’angolo.
Senza pensarci due volte, Vittorio cominciò a correre
nell’impresa folle d’inseguire Adriano e il suo
sequestratore. L’istinto gli diceva di andare, di non
fermarsi, uccidere e portare in salvo, vivo, almeno uno dei poveri
Angeli caduti quella notte. Scoccò frecce, in corsa,
finché non ebbe svuotato la faretra, nella disperata
speranza di prendere di nuovo, almeno di striscio, quel fottuto
bastardo…
Ma la collera, come aveva condotto alla rovina Ezio Auditore, era
riuscito a distrarre anche lui.
Quando si rese conto di non aver più dardi, fece per
sguainare la striscia, ma Davide, inginocchiato affianco alla carcassa
del Gran Maestro, lo trattenne con un grido e lo implorò di
lasciar perdere.
L’Ufficiale Papale era ormai scomparso tra le ombre.
“Vittorio, per Dio, torna indietro!”
strillò Davide cercando di sollevare il Gran Maestro, per il
cui peso non sarebbe bastato un solo uomo.
Vittorio ripercorse di corsa i suoi passi e aiutò Davide a
rivoltare il corpo del Gran Maestro, prima su un fianco e poi disteso
di schiena. Una grossa macchia rossa gli deturpava la veste
all’altezza della spalla destra, dove il dardo sembrava aver
trovato della carne da trafiggere nonostante i robusti spallacci.
“Dobbiamo tornare indietro”, disse Davide.
Vittorio esitò, guardandosi indietro. “Ma
Adriano…”
Lo stratega catturò il suo sguardo nel proprio, colmo di
dolore, pentimento e rimorso. Con un braccio Davide aveva avvolto la
fronte del Maestro, con l’altro solcato il suo petto
arrivando al cuore, che, seppur sussurrando, ancora parlava.
“Perciò è vivo…”
esultò Vittorio debolmente, sperandolo con tutta la sua
anima.
“La freccia che l’ha colpito era avvelenata, ma non
riesco a capire di che veleno si tratta. Dobbiamo tornare
indietro.” Davide lo guardò dritto negli occhi.
“Dobbiamo ritirarci.” Aveva pronunciato quella
frase con una tale solennità da sembrare quasi convinto che
sarebbe bastato.
“Lui non l’avrebbe voluto”,
mormorò Vittorio studiando la profonda oscurità
nel cappuccio del Maestro.
Davide boccheggiò incredulo. “Che razza di
risposta sarebbe?!” strillò; le lacrime presero a
scendergli sulle guance dall’agitazione.
Vittorio non poté replicare: il clangore di armature,
l’abbaio di cani e le voci di uomini spezzarono la quiete dei
Giardini Papali.
Fu Davide il primo a balzare sui talloni e a caricarsi il braccio
sinistro del Maestro sulle spalle. Vittorio si circondò le
proprie con quello destro e insieme si gettarono nella pineta.
.:Angolo
d’Autrice:.
Oggi (per vostra gioia) non ho intenzione di perdermi in chiacchiere
inutili. Diversi fattori hanno interferito con la pubblicazione di
questo capitolo, che sarebbe dovuto comparire il martedì
trascorso - come mi ha fatto notare SophyTheWhiteDragon
in una recensione a Project Delta.
Poche e concise parole riferite, genericamente, a tutti i miei lettori:
1. Dies Irae comprende una 3°
parte. *Sono a comoda portata di fucile a canne mozze*
2. La pubblicazione della raccolta - cui
primo capitolo inedito si colloca tra questo e il precedente -
vedrà la luce domenica 14/11/2010, verso le 11 di mattina.
Il rating previsto, a differenza di Helleborus, è arancione.
3. Adriano sarà puccioso
quanto vi pare, ma è un deficiente; come,
d’altronde, tutti i ragazzi italiani compresi nella sua
fascia d’età. Avrei dovuto descrivere il suo
“sequestro” diversamente, ovvero in maniera
più plausibile e meno imbarazzante per lui, ma tra le
diverse opzioni che avevo, questa mi è parsa quella
più “delicata”. Nella raccolta
precedentemente citata è probabile che finirò col
pubblicare anche le versioni alternative di questo e i capitoli
successivi.
4. Progetti, scolastici e non,
interferiranno col ritmo di pubblicazione, in quanto ho bisogno di
essere qualche capitolo avanti rispetto all’ultimo postato.
5. Con una conclusione tanto tragica,
spero di non aver fatto piangere nessuno. Io
“drammatico” nei generi l’ho messo. Uomo
avvisato…
6. Da
un punto di vista storico: se da una parte, soprattutto a
Roma, i Borgia sapevano come farsi odiare, dall'altra il Valentino era
riuscito ad abbonarsi molti comuni Italiani. In quel periodo, e per
motivi che elencherò non qui, ma nella raccolta, tutta la
Romagna lo credeva il salvatore
quale si spacciava di essere...
RINGRAZIAMENTI:
*Chiedo in singolo a SophyTheWhiteDragon
di evitare certe doppie recensioni inutili. Interferiscono con la
consultazione dei commenti più costruttivi per i lettori
esterni :) Per il resto, grazie. Lieta che l’aiuto del
Michelangelo ti sia gustato ^.^
*Enio,
ti ringrazio infinitamente per aver trovato tempo (e coraggio) di
leggerti quei capitoli dei quali non vedevo l’ora di
conoscere il tuo parere. Noto con piacere che il carattere particolare
di Ezio ha smosso curiosità anche su di te. Spero di
sentirti presto, sia come lettrice, sia come scrittrice :D
*Rispondo ad Emy_n_Joz…
senza sapere con chi, molto chiaramente, sto parlando! XD Ma
vabbhé… Apprezzo molto quando dici di aver
trovato, nonostante tutto, la carica per leggere il capitolo
precedente. E sono così felice che ti sia piaciuto. Ero
sicura che con dei cambi di POV tanto frequenti avrei creato parecchia
confusione generale, della quale avrebbe risentito, poi, anche questo
capitolo. Sì, è così: in Helleborus
conosceremo i pensieri di tutti, tranne di lui. Ezio. Entrare nella sua
mente è un tabù, me lo sono prefisso fin dalla
prima stesura. Volevo proprio creare questa tela bianca sulla quale lo
avrebbero dipinto unicamente i suoi Apprendisti attraverso occhi
esterni. Ho un po’ toppato nell’ultima parte,
quando accenno ad un respiro veloce ed un cuore forsennato, mentre il
“veleno” fa il suo effetto lasciando il Maestro
moribondo… a parte questo, grazie ancora per i tuoi commenti
pieni di cura. Mi dispiace confessare che non prima di dicembre
riuscirò a mettermi in pari con i tuoi lavori, ma
ricambierò, promesso, ricambierò.
*Grazie anche a PhantomG
che, quando arriverà a leggere questo capitolo, non
potrà che ribadire quelle cose meravigliose che rendono
un’artista fiera del proprio mediocre lavoro. ^^
E in
fine…
Grazie a tutti. Grazie davvero, di cuore, di tutto… amo i
vostri commenti, mi riempiono di gioia. Grazie per i pareri sinceri sui
personaggi, grazie per le note personali e grazie, soprattutto, per la
pazienza. Pazienza nel sopportare la logorroica mezza scrittrice quale
sono, che sta dilungandosi su particolari più che inutili di
una trama già troppo assurda.
Sì, sono un po’ maschilista. Nel gruppo degli
Apprendisti di Ezio non c’è nessuna donna, e non
ditemi che non vi siete soffermati ad accusarmi di questo almeno un
po’! XD Non ho dubbi sul fatto che in Brotherhood (-6!!!)
sarà possibile reclutare qualche femmina, ma nella mia
storia dico apertamente di aver preferito lasciarle fuori. Sono
personalmente un po’ stufa delle protagoniste
femminili… dopotutto sono dell’idea che una
scrittrice, per dirsi tale, debba saper affrontare la
varietà. Ho scavato a fondo nelle menti di questi
personaggi, esercitandomi su psicologie complesse che intendo farvi
conoscere molto presto; ovvero quando i nostri Assassini si
congiungeranno ai miei personaggi originali sulle coste di Bracciano :)
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Capitolo 6 *** Dies Irae - Parte 3a ***
Helleborus
Capitolo
VI
Dies
Irae
"Dio
guarda agli uomini quando si smarriscono, non quando trionfano."
Emersero dalla pineta e si gettarono sul piazzale marmoreo del
Belvedere.
Spartendo il peso del Gran Maestro con Davide, Vittorio
imprecò. I decori geometrici e i pizzi floreali del
pavimento si assomigliavano tutti. Il fato aveva giocato le sue carte
con un cielo senza più né luna né
stelle e gli abbai dei cani si facevano sempre più prossimi.
Dovevano ritrovare la mattonella del passaggio segreto e addentrarvisi
prima che fosse troppo tardi.
“Ho lasciato un traccia!” si ricordò
Davide che, da bravo stratega, aveva quello e altri vizi.
“Aiutami a cercare della stoffa nera”, disse
adagiando il Gran Maestro contro la balaustra. Poi
s’inginocchiò ad accarezzare la pietra del
piazzale e Vittorio lo imitò.
Nel bel mezzo della ricerca li riscosse un ululato tra gli alberi. Ai
due Assassini si mozzò il fiato in gola. Alzarono un istante
lo sguardo sulla pineta, poi Davide tornò a graffiarsi le
mani tastando il terreno con foga.
“Dov’è quel tuo fottuto piccione quando
serve?!” strillò con lacrime isteriche ad
annebbiargli gli occhi.
Se anche il Falco Sacro fosse apparso magicamente sulla spalla del suo
padrone, Vittorio dubitava che avrebbe potuto fare molto contro branchi
di cani da caccia e dozzine di uomini corazzati.
Senza proferire parola, il mastro arciere rubò le ultime
quattro frecce dalla faretra del suo compagno e ne incoccò
una. Sollevandosi in piedi, si piazzò nel centro della
terrazza e mirò tra gli alberi.
Balenò un lampo, e per un istante l’intera pineta
fu invasa di luce. A quel punto Vittorio scoccò, trafiggendo
la tempia di un soldato senz’elmo a quasi cento metri di
distanza tra le fronde.
Davide aveva provato a non distrarsi, ma la maestria di
quell’uomo lo aveva sempre affascinato. Si riscosse e
tornò a lavoro, non senza aver gettato prima
un’occhiata al Gran Maestro a riposo come un sacco di patate
contro la balaustra. La testa coperta dal cappuccio a becco
d’aquila gli ricadde di lato, sbilanciando il resto del
corpo, che si distese al suolo nel frastuono dell’armatura.
La mano del braccio destro, allungato in una posa innaturale,
indicò casualmente a Davide della stoffa nera incastrata nel
disegno del pavimento. Non sapendo chi
o cosa
ringraziare, lo stratega si gettò in quella direzione e
scoperchiò il passaggio segreto.
“Vittorio!” chiamò il ragazzo calandosi
nel tunnel.
Il mastro arciere consumò anche l’ultimo dardo
che, per suo dispiacere, aveva indirizzato nelle carni di un bellissimo
esemplare Epagneul
rischiosamente vicino. Rinfoderò l’arco e
voltò i tacchi. Aiutò Davide a calare senza
strattoni il Gran Maestro nel cunicolo e in fine, mentre lo stratega
trascinava via la carcassa di Ezio facendo posto, Vittorio
saltò nella galleria e tirò a sé il
“tappo”.
Quando giunsero i cani e i soldati, la geometria del piazzale sembrava
non essere mai stata più pulita e perfetta.
“Hai mai pensato di morire così?”
ironizzò Davide, col respiro affannato, man a mano che
avanzavano nell’oscurità.
Vittorio, ansimando, si limitò a scuotere la testa e
mormorare: “Non moriremo.”
L’aria mancava. Passare quel cunicolo già una
volta era stato un Inferno. Adesso dovevano pure spingerci attraverso
il corpo del Maestro, con una fatica immensa, facendolo strisciare
nella polvere. Contavano di ricongiungersi a Leone prima che le guardie
e i cani raggiungessero loro.
Erano circa a metà del tunnel e restavano una trentina di
metri quando sentirono rimbombare nella roccia l’abbaio dei
cani. I segugi spagnoli avevano fiutato l’odore degli
Assassini indicando il passaggio segreto alle guardie, che, senza
esitazione, sguinzagliarono i cani nella galleria.
I due Apprendisti accelerarono il ritmo della marcia a gattoni. Non
appena sentì le unghiette grattare la pietra pochi metri
dietro di sé, Vittorio si voltò e
portò una mano all’elsa della striscia, che
però, dato il diametro del tunnel, gli tornò
impossibile impugnare. Allora alzò le ginocchia e
bloccò il segugio tra di esse giusto in tempo, prima che
questi gli azzannasse la faccia. Il cane abbaiava e ringhiava. La bava
e la rabbia si miscelavano tra i denti bianchi e acuminati, schizzando
da tutte le parti e imbrattando i calzari grigio fumo
dell’Assassino.
“Ammazzalo, ammazzalo!” strillava Davide,
terrorizzato. Vittorio gli chiese una freccia, ma lo stratega rispose
di avere la faretra vuota. Il mastro arciere, se avesse potuto, avrebbe
calciato l’animale per respingerlo o quanto meno preferito
per lui una morte veloce; ma poiché gli serrava la gola tra
le ginocchia, Vittorio fu costretto a soffocare dolorosamente quella
povera bestia. Vide la luce spegnersi nei suoi occhi gonfi e iniettati
di sangue; sentì i muscoli dell’animale tendersi
in un crescendo e poi rilassarsi all’improvviso tra le sue
cosce, che dischiuse lentamente appena fu certo del decesso.
Il tempo era peggiorato, il cielo stellato scomparso e grossi nuvoloni
si annunciavano con clamore e prepotenza sopra la sua testa. La
tormenta stava passando, ma presto al vento si sarebbe sostituita la
pioggia.
Leone, distratto da diversi pensieri, dava le spalle al traforo nelle
mura con le braccia conserte. La testa di Davide emerse tra gambe
divaricate di Golia,
che non appena se ne accorse imprecò e saltò sul
posto.
“Il Maestro è ferito, aiutaci, presto!”
disse Davide snodandosi agilmente fuori dal cunicolo. Lui e Leone
affondarono le mani nell’oscurità e pescarono il
cappuccio e gli spallacci. Piantando le unghie nella stoffa e nel
metallo, tirarono con tutta la loro forza e finalmente, dopo tante
fatiche, le Mura Vaticane partorirono il Gran Maestro degli Assassini.
La figura di Vittorio emerse dal passaggio segreto accompagnata da un
lampo. Le divise sua e di Davide erano sporche di sangue, terra e
polvere, nonché rovinate da eventuali battaglie. Ma
ciò che più allarmò Leone, fu notare
il Maestro incosciente e quella grossa macchia purpurea sul candore
delle vesti impolverate.
"Adriano?" chiese Leone, pallido. Ignorò l'immensa tristezza di Davide, ma non si sentì più sollevato incrociando gli occhi infinitamente rammaricati di Vittorio, che si sottrasse in fretta da quella muta e drammatica intesa.
Dopo quegli sguardi non ci fu modo di scambiarsi parole, perché le
campane del Vaticano presero a suonare destando Roma dal sonno. Nello
stesso istante, dalla galleria balzò fuori un mastino da
caccia. Pronto di riflessi, Leone lo respinse con una mazzata in pieno
muso e la bestia, guaendo, morì sul colpo.
Vittorio nascose la smorfia dietro al bavero mentre aiutava Davide a
caricare il Gran Maestro sulla groppa del suo cavallo. Rovesciando i
detriti sul prato, lo infagottarono con il lenzuolo che sarebbe servito
a celare l’armatura splendente e la veste prestigiosa in un
bianco candido e anonimo. I due arcieri erano già in sella,
ma Leone tornò indietro e gettò una bomba
fumogena nel passaggio segreto. Il petardo esplose in una nuvola di
fumo tra guaiti di cani e imprecazioni di soldati, ormai prossimi.
Montando in groppa con un balzo e raggiungendo i compagni, Leone
sperò che quel diversivo bastasse a dar loro un
po’ di vantaggio.
Spronarono quelle povere bestie a quattro zoccoli in una corsa folle
per vicoli e stradine secondarie, attraversarono il distretto Vaticano
nella disperata impresa di evitare luoghi pubblici e altre pattuglie.
L’ombra dei cappucci sui volti, i baveri alzati. Davide era
alla testa del gruppo. In mezzo c’era Vittorio che con un
braccio assicurava il Gran Maestro alla groppa del cavallo e con
l’altra teneva le redini. Leone, di coda, lanciava occhiate
continue alle loro spalle.
Temporaneamente certi che niente o nessuno li inseguisse, si fermarono
sotto ad un portico buio per fare il punto della situazione.
Davide, respirando affannosamente, valutava la prossima strada da
prendere. Vittorio sistemò meglio il corpo del Gran Maestro
sulla groppa della bestia affaticata. Di quel passo e con tante guardie
appresso, le forze non sarebbero bastate a nessuno per condurli
più lontano delle Mura Aureliane.
“Ci serve un piano. Un vero piano”,
esordì Leone leggendo il disordine negli occhi dello
stratega.
Davide scosse la testa e guardò a terra; tacque a lungo, non
sapendo cosa dire.
Vittorio prese parola.
“La freccia che ha colpito Ezio era avvelenata.”
Leone arrossì di collera dietro al bavero.
“Veleno… solo un codardo come Cesare
potrebbe…” s’interruppe bruscamente,
irrigidendosi.
“No”, lo precedette il mastro arciere.
“Fortunatamente non ha leso parti vitali ed è solo
svenuto, ma per quanto ne sappiamo, e di qualsiasi veleno si tratti,
potrebbe aver già completato la sua opera. La
priorità è tornare alla villa
e…”
“Aspetta,”, lo interruppe Leone,
“Carolina è più vicina, portiamolo da
lei”, suggerì.
“Che buon momento per fare un salto al bordello di mia
sorella!” ringhiò Davide tra le lacrime.
Leone gettò lo sguardo tutt’altra parte,
ignorandolo.
Vittorio infierì rivolto ad entrambi: “Carolina
saprebbe senza dubbio come curare il Maestro, ma vive in pieno centro e
i fantocci di Cesare aspettano solo noi. Suggerisco di allontanarci
dalle caserme Papali e trovare un dottore.”
“La fate tanto facile, voi…”
lagnò Davide. “Io dico che moriremo tutti ancora
prima di vedere l’alba.”
“Grattamose!” Leone alzò gli occhi al
cielo.
Ci fu un nuovo lampo, seguito da un tuono poderoso che
innervosì i cavalli.
Vittorio, nel gesto di far girare in tondo l’animale per
calmarlo, notò un gruppo di guardie addentrarsi nella
stradina e venire verso di loro. “Ma per adesso dobbiamo
separarci”, disse preparandosi alla corsa.
Leone si era illuminato. “Ottima idea. Dobbiamo confonderli,
servono dei diversivi…” rifletté.
Vittorio proseguì: “Io cercherò un
medico a Trastevere. Davide, tu scenderai a sud-est, nella zona dei
fori. Leone…”
“Io tornerò al Vaticano e farò credere
che giriamo ancora da quelle parti”, annunciò il
tipo con le calzamaglie a righe; alzandosi sulla sella in un galoppo da
corsa, Leone lasciò l’oscurità del
portico e attirò tutte le guardie dietro di sé.
Il frastuono di zoccoli e voci si perse in lontananza nella notte.
“Vaticano?! Io bacerei per terra, ma Leone è un
pazzo se pensa di uscirne vivo una seconda volta!”
sbraitò Davide.
“Tutta Roma è in tempesta, perciò noi
non lo siamo meno di lui”, mormorò Vittorio dopo
aver misurato i battiti al polso del suo Maestro.
Leone se l’era cercate, ma era fiero di avere alle spalle
tutti quei soldati incazzati.
Girava e rigirava gli stessi vicoletti del Rione del Borgo ingannando
quattro truppe deficienti, ma non appena notò le otto
Guardie Papali alle sue spalle, si disse che doveva smetterla di
giocare col fuoco e trovarsi un nascondiglio. Ne provò
diversi, tra pozzi otturati e covoni di fieno, ma le guardie agili
erano sempre un passo troppo avanti e riuscivano a coglierlo sul fatto,
vanificando i suoi sforzi. Dovette ammettere che le lezioni di
mimetizzazione offerte da Davide all’inizio della loro
carriera di Assassini – quand’ancora non si
sputtanavano come megere – gli avrebbero fatto comodo ora come
ora.
Vittorio smontò e tirò a sé il cavallo
verso il medico, che in quel momento stava visitando la gola ad un uomo
vestito di stracci. Amareggiato, l’assassino si frappose tra
il cerusico e il mendicante, placando il dispetto a
quest’ultimo con moneta sonante. Dopodiché
sollevò dalla sella e distese il corpo di Ezio sul bancone,
imponendosi come cliente e illustrando le dinamiche dei loro guai. Il
cerusico, dopo ch’ebbe visitato celermente il Gran Maestro,
disse di non avere rimedio per quella miscela impropria; ma
diagnosticando un dardo da balestra, affidò a Vittorio un
olio anestetico da spalmare sulla ferita che avrebbe alleviato il
dolore e rallentato l’effetto del veleno. Disperato,
l’apprendista arciere domandò quanto tempo
restava, cosa si poteva fare o a chi ci si poteva rivolgere. Il medico
scosse la testa con tutta la maschera.
A quel punto un messaggero borgiano a cavallo comparve nel vicolo, li
vide e sguainò la spada. Mentre di sua spontanea
volontà il mendicante correva ad intralciare la guardia,
Vittorio si affrettò a caricare il Gran Maestro sulla groppa
del cavallo; rimontò in sella, lanciò al cerusico
tutto il denaro che gli restava e, galoppando tra i vicoli malati di
Trastevere, mormorò una preghiera per quel povero uomo che
ci aveva rimesso letteralmente la testa.
Niente da fare. Dovunque andasse, qualsiasi direzione prendesse,
scendere più a sud Castel Sant’Angelo fu
impossibile. La guardia cittadina si era sparpagliata lungo il fiume, i
ponti affollati da elmetti. Per sopravvivere ed evitare luoghi
oltremodo visitati dall’acciaio di armi e armature, lo
stratega voltò e rivoltò il cavallo nei vicoli,
senza mai interrompere il galoppo, fin quando l’animale non
lo ebbe condotto nella zona meno guarnita della città.
Riconobbe Vittorio che, spronando il cavallo, si gettava in una povera
stradina di Trastevere assieme al corpo del Maestro. Alle spalle
dell’arciere, il messaggero borgiano impugnava le redini in
una mano roteando la milanese nell’altra. La distanza che
divideva i due cavalli si dimezzava velocemente.
Davide diede di talloni sui fianchi dell’animale e
andò incontro alla pattuglia. Come in una giostra tra
cavalieri, lui e Vittorio s’incrociarono a metà
percorso, ma senza ferirsi. Il destino più cruento
toccò al soldato dei Borgia. Quando fu abbastanza vicino,
infatti, Davide gli scagliò la scure leggera in piena
faccia. Il soldato schizzò via dalla sella; il suo cavallo
s’impennò e scappò terrorizzato.
Davide e Vittorio si ritrovarono scambiandosi un sorriso fiero e un
assenso. Ma ancor prima che potessero parlarsi, due Guardie Papali su
palafreni da guerra, comparse nella piazza, li rimisero in viaggio.
E che viaggio.
Sorpresero Leone alla Porta Aureliana, presidio militare, e dopo di
quello non ci sarebbero stati altri incontri piacevoli,
perché ormai avevano addosso una dozzina di soldati a
cavallo tra capitani e Guardie Papali. Queste, con l’ordine
diretto di Cesare, non avrebbero demorso finché non avessero
consegnato al loro signore la ciccia degli Apprendisti e il cuore del
Gran Maestro su un unico grande piatto d’argento.
Il piano era ufficialmente saltato.
Tornare alla villa o cercare riparo dentro la città erano i
modi più veloci per farsi ammazzare. L’unica
strada ancora sicura li conduceva fuori dalle mura, nelle campagne
settentrionali, tra boschi, sentieri e campi incolti. Riuscirono a
farsi largo sulla Via
Cassia, desolata e silenziosa in quell’ora della
notte, per poi svoltare, oltrepassare la Porta
Romana ed imboccare la Clodia.
Per un breve tratto seguirono l’Acquedotto
Traiano e galopparono a perdifiato per chilometri e
chilometri di terreno campestre, viaggiando costantemente in compagnia
di lampi, tuoni e Guardie Papali. Il frastuono degli zoccoli sul
selciato distruggeva la quiete notturna dei boschi e non diede loro
tregua per ore ed ore di sfrenato inseguimento.
Le luci di Roma si persero lontane tra i colli e il Tevere divenne quel
serpente, ostile e malvagio, che li scacciava sibilando. La
Città Eterna vomitava i suoi patrioti salvatori. Schifando
la pace, diceva chiaramente di preferire, per sé, un destino
empio e corrotto, lasciando ai suoi marrani un dolce regalo
d’addio: manipoli di guardie alle costole.
Lunghe ed estenuanti ore di viaggio avevano provato la resistenza di
tutti, destrieri e cavalieri. L’aria secca, nella
frenesia della corsa che aveva scatenato il sudore, avrebbe attaccato i
polmoni nel giro di una settimana. Quindi, se fossero riusciti a
sfuggire alle Guardie di Cesare, il loro, come il destino del Gran
Maestro, era comunque segnato.
I tre Apprendisti, più l’incosciente figlio di
Giovanni, abbandonarono la strada battuta per darsi in pasto alla
foresta; così facendo contavano di seminare, o almeno
stanziare, gli inseguitori tra la boscaglia.
Quando neppure la vegetazione ebbe più forma e tutto venne
improvvisamente inghiottito da un piatto orizzonte nero, sul loro
cammino si distese una spiaggia paludosa. I cavalli rallentarono ad un
trotto scomposto: il fango depositato sotto agli zoccoli affaticava
oltremodo i muscoli surriscaldati, impedendo di proseguire
altrimenti; ma gli Apprendisti furono costretti a frenare i palafreni
ugualmente, prima che essi, accecati dalla stanchezza, affondassero
nella melma fino ai fianchi.
Davide si lasciò cadere sul collo dell’animale,
sfinito, aggrappandosi alla criniera umida. Lagnò una
preghiera con un filo di voce.
Pater Noster qui es in
cælis / sanctificétur Nomen Tuum…
…
Leone guardò Vittorio, che a sua volta guardava alle loro
spalle respirando forte.
Niente poteva dire se le Guardie Papali fossero vicine o lontane:
braccati e bracconieri vagavano entrambi al buio. Il contatto tra gli
uni e gli altri si era spezzato nella foresta, come gli Assassini
avevano sperato, ma adesso? Ancora qualche ora e i mastini di Cesare si
sarebbero sparpagliati a pattugliare la foresta, e se non fosse stato
sufficiente, avrebbero battuto l’intera penisola in una sola
notte, se necessario. L’ardore e la determinazione militare
delle Guardie Papali le avevano sempre distinte dai comuni convogli
borgiani, Roma e tutta la sua corruzione facevano affidamento su quei tori corazzati. A
ragion di logica, perciò, non se ne parlava di tornare
indietro e combattere: la stanchezza e
l’inferiorità numerica avrebbero giocato a loro
svantaggio. I cavalli stremati e la mancata conoscenza del territorio
– perché c’era da ammetterlo: nessuno
degli Apprendisti aveva idea né quanto e né verso
dove avessero viaggiato – stavano soffiando
sull’ardore della loro resistenza. Dovevano inventarsi
qualcosa e alla svelta, o sarebbero morti lì, nel fango,
come vermi qualunque.
Advéniat
Regnum Tuum / fiat volúntas Tua / sicut in cælo et
in terra…
Cercando disperatamente un aiuto della natura attorno a sé,
solo allora Vittorio notò un qualcosa che attirò
la sua attenzione, nascosto nel canneto poco più avanti.
Smontò dalla sella affondando nella melma fino alle
ginocchia, ignorò il freddo e corse in quella direzione
tirando il suo e il cavallo di Ezio con sé. Sotto lo sguardo
sperduto di Davide e quello critico di Leone, Vittorio
sfoderò la striscia e potò la vegetazione
circostante, rivelando così che nessuna, neppure la
più flebile speranza era stata vana.
Arenato sulla spiaggia paludosa, c’era un gozzo a vela latina
protetto da un panno.
Quand’ebbe capito le intenzioni del compagno, Leone
smontò da cavallo e arrancò con l’acqua
alle ginocchia per raggiungerlo. Dimenticandosi del gelo che portava
addosso, aiutò Vittorio a liberare l’imbarcazione
di legno dal telo. A quel punto i due Apprendisti scoprirono con
immensa gioia che la barca era in buone condizioni e grande abbastanza
da ospitarli tutti quanti.
“Vuoi metterti a vela prima della tempesta?”
domandò Leone al mastro arciere dopo un attimo di esitazione.
Vittorio guardò il compagno negli occhi come per chiedergli
se avessero altra scelta, e quella risposta bastò.
Panem nostrum /
cotidianum da nobis hódie…
Vi adagiarono per primo il Gran Maestro, e poi le bisacce con le
munizioni che tolsero dalle selle.
Riconobbero la vela attorcigliata attorno al boma, ma decisero di non
issarla. Piuttosto ringraziarono Dio per aver concesso loro almeno due
remi, perché nessuno sarebbe stato capace di manovrare la
barca altrimenti.
Non appena Davide fu a bordo, chinato sul Gran Maestro nella premura di
controllarne il battito e il respiro, Leone ebbe l’ordine da
Vittorio di radunare e poi disperdere i cavalli nella foresta.
L’uomo con i calzettoni a righe annuì,
rimontò sul suo destriero e sparì nel bosco
tirandosi dietro gli altri. Così facendo, si disse Vittorio
mentre Davide preparava disordinatamente i remi incastrandogli negli scalmi, avrebbero
portato le Guardie Papali fuori strada e guadagnato tempo prezioso per
allontanarsi dalla costa.
Et dimítte
nobis débita nostra / sicut et nos / dimíttimus
debitóribus nostris…
Leone riemerse di corsa dalla foresta e si precipitò ad
aiutare Vittorio nelle fatiche di spingere il gozzo, con Davide e il
Maestro a bordo, lontano dalla spiaggetta. Non appena lo scafo fu in
acqua, i due Assassini continuarono a incalzare la barca fin quando non
persero il contatto degli stivali con il fondo ciottoloso. A quel punto
diedero un ultimo spintone e si arrampicarono sui bastimenti facendo
attenzione a non cappottare l’imbarcazione. In fine, entrambi
completamente zuppi e gocciolanti, presero posto in modo tale da
bilanciare il peso.
Vittorio al timone di poppa, Davide ai remi sui banchi centrali, Leone
alla vedetta di prua come una polena.
Per lunghi minuti regnò un silenzio innaturale.
Il gozzo scivolava cheto lontano dalla costa senza che ancora nessun
remo fosse stato calato, la corrente e la spinta iniziale lo
accompagnavano a largo con delicata premura.
Uscirono dalla palude e abbandonarono la baia che li aveva protetti dal
vento, ora più prepotente. L’oscurità
inghiottiva il paesaggio in un orizzonte infinito. Il cielo e le
montagne, dopo una schiera di colline e picchi rocciosi, si
confondevano l’uno con le altre dando l’illusione
di una profondità ostile. L’acqua che
li circondava era nera come
l’inchiostro e pareva proprio che qualcuno ne avesse
rovesciati interi barili.
Davide, in precario equilibrio e teso come un chiodo,
cominciò a remare. Nervosamente, mancò
l’acqua diverse volte palettando l’aria e
riuscì a far rivoltare la barca di centottanta gradi. Lo
stratega aveva gli occhi sgranati e tremava come se
nell’acqua gelida per spingere il gozzo ci si fosse
gettato lui. Era sconvolto, in guerra costante con la realtà
e la malvagia sorte che stava piombando loro addosso dal Divino.
Davide. Religiosissimo. È
in momenti come questi che si dubita su cosa si ha creduto fino ad ora.
Leone, non sapendo se ridere o sbuffare, si allungò verso di
lui con un’espressione eloquente e una mano tesa. Lo stratega
s’irrigidì d’un tratto e
fissò il compagno apprendista come fa il topo al cospetto
del grosso micio buono. Ma in fine capì,
acconsentì, si alzò barcollando e fece cambio di
posto con l’altro. Leone sedé sul banco di mezzo e
scaldò le braccia facendole roteare. Davide si
accucciò sull’estrema prua e si strinse le
ginocchia al petto. Osservò a lungo la naturalezza e la
facilità con la quale Leone muoveva i remi in sincronia,
prima di rimettersi a pregare a bassa voce.
Vittorio distolse lo sguardo dal panorama e lo puntò a
terra, tra i suoi piedi. Proprio là giaceva il Gran Maestro
degli Assassini, rannicchiato in posa fetale con il famoso lenzuolo
attorcigliato tra le gambe e sul busto. Della semplice stoffa non
sarebbe mai bastata per tenerlo caldo, soprattutto sconcia e rovinata
come erano le vesti degli altri. Con amarezza,
Vittorio si ritrovò a pensare che c’era andato
vicino, la sera precedente, quando aveva immaginato
l’utilizzo improprio di quel telo…
Una
maliziosa goccia di pioggia gli scivolò sulla guancia
come una lacrima; l’apprendista scacciò quegli
orribili pensieri, ma era inutile cercare di concentrarsi su altro. Vedere il
Gran Maestro in quello stato pietoso aveva mescolato molti sentimenti
sui volti dei suoi Apprendisti. Un fragoroso
pentimento dovuto all’abbandono incondizionato di Adriano,
un malsano sconforto che offuscava oltremodo il loro futuro
certo e incerto, ma sicuramente un qualcosa che si stava preparando a
far vomitare via anche
l’ultima stilla di umana speranza. I loro cuori stavano
vacillando, cedendo alla tentazione di abbracciare
la resa e tutti i benefici che essa poteva offrire: la pace e la
serenità che questa vita terrena strappava agli uomini
liberi.
E fu con un ultimo boato nel cielo nero che scese la pioggia.
Et ne nos
indúcas in tentatiónem / sed líbera
nos a malo. / Amen.
.: Angolo
d’Autrice :.
Precisamente oggi, Assassin’s
Creed Brotherhood compie un mese.
Ma ve li ricordate quei giorni infiniti che sembravano non passare mai?
Quando ci domandavamo come avremmo vissuto, in che modo sarebbe
cambiato il nostro tenore di vita dopo
di lui.
Contemporaneamente ci guardavamo avanti e indietro: prima chiedendoci
come avessimo fatto a resistere per tutto quel tempo passato, e dopo
immaginandoci in un futuro nebuloso e incerto, ancora tutto da
scrivere.
E finalmente, eccoci. Perdonate l’assenza e lo spropositato
ritardo, ma noi fans ci capiamo, vero?
Vorrei chiedervi a che punto della storia siete, prima di spoilerare
quanto e cosa potrà combaciare tra la mia fan fiction e il
gioco. Premetto solo che, poiché concepii Helleborus
all’albore dei tempi, cercherò di attenermi
fedelmente a quella che era la struttura vergine della fan fiction. I
riferimenti al gioco, per tanto, saranno pochi, e quei pochi saranno
unicamente casuali
o storici,
per intenderci.
Commento personale al capitolo:
Ho deciso di staccare questo e il successivo in due post differenti,
causa motivi d’intreccio e di revisione. Sto aggiungendo e
togliendo roba a non finire, niente va mai come vorresti, diceva
qualcuno. Sei sempre lì a ritoccare, a puntualizzare
dettagli inutili che, bhé, almeno secondo me, sono
importanti. Poi non so… sarà questa mia influenza
da regista che mi è presa ultimamente.
In tre parole: la
grande fuga.
Prospettive per il futuro? Tanti capitoli da rileggere e aggiornare
ogni qual volta la mia arte schizofrenica ne sentirà il
bisogno. Prossimo aggiornamento previsto durante o dopo le vacanze di
Natale.
Con schifoso anticipo,
Auguri di buone feste :)
*Le risposte ai recensori le pubblicherò attraverso il nuovo
sistema introdotto da Erika*
Detto ciò, giriamo pagina e continuiamo le nostre vite come
nulla fosse :)
EDIT 22/1/2011
Facendo affidamento sui consigli di micho,
edito il capitolo VI inglobandovi il VII, revisionato e precedentemente
a sé col nome de Interstitium.
.: Angolo
d’Autrice :. (2)
Brevemente:
1. L’interstizio
è la fessura (stretta o meno, a seconda della
raffinatezza
dell’opera) tra una tessera e l’altra di un mosaico
:) Chi frequenta un qualsiasi anno di Liceo Artistico può
confermarlo annuendo :D
2. A parte questo, wow, credo di non avere altro da
aggiungere…
Se volete ulteriori spiegazioni o avete notato incoerenze,
incomprensioni e quant’altro, segnalatemelo nei commenti.
Provvederò rispondendo singolarmente e/o editando queste
note per i prossimi lettori :)
Forse alcuni di voi avranno già sbirciato attraverso il
collegamento tra il mio accaunt di EFP con quello di DeviantArt, ma
eccovi in sede ufficiale alcuni bozzetti di mia mano, finalmente e dopo
tanto tempo a marcire nella mia galleria aspettando di arrivare a
postare questo capitolo, cui sono tratti :)
Davide
Leone
Vittorio
Ezio
E in più, una chicca per chi non resiste agli spoiler: una
sbirciatina ai miei personaggi originali e un ulteriore rafforzamento
della trama nel commento :D
Helleborus
Mi dileguo. A presto :)
|
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Capitolo 7 *** Furor et venia ***
Helleborus
Capitolo
VII
Furor
et Venia
(Grazia e follia)
Lo squittire di un topolino che curiosava nella sua uniforme lo
svegliò, e poco dopo sentì un paio di unghiette
fredde graffiargli il pettorale. Adriano ruzzolò su un
fianco andando a pesare dolorosamente sulle anche, ma il movimento
brusco gli costò una smorfia da maschera veneziana; eppure
il sorcio, spaventato, zompò fuori dai suoi vestiti e
sgattaiolò nell’oscurità. Quella
sudicia bestiolina si era piazzata lì a mangiucchiare il
cotone della camicia e sarebbe tornata volentieri ad assaggiare anche
dell’altro se il ragazzo avesse abbassato la guardia.
Un rivolo di sangue omai secco gli era colato dalla tempia fino al
collo e, dovunque fosse, nessuno si era preso o si sarebbe preso la
briga di medicarlo.
Dopo un respiro profondo, Adriano constatò di avere libere
mani e caviglie.
Perché non ho
usato queste per scacciare quel ratto? Mi sarei risparmiato fatiche e
sofferenze inutili...
Tentò di sollevare la testa, ma dalla nuca partì
una scossa improvvisa che si diffuse in tutto il corpo. Era paralizzato
dal dolore. Ecco
perché!, si disse mordendosi la lingua pur di
non fiatare e, dopo averli strizzati, aprì gli occhi.
L’orientamento l’aveva abbandonato disteso su un
pavimento umido, freddo e cosparso di sterpaglia. Soltanto una delle
quattro pareti aveva un piccolo spiraglio sull’esterno, dove
era ancora notte e pioveva senza pietà. Oltre le sbarre di
quella che aveva tanto l’odore
di una cella, si apriva un androne inghiottito dalla penombra. Due
fiaccole delimitavano i piedritti di un arco, dopo il quale, sotto una
volta a crociera, c’erano un tavolo con tre sedie, una botola
e del fieno per terra. Appoggiati sul ripiano alcuni volumi - tra cui
una copia della Sacra Bibbia - e una mappa, forse la piantina delle
carceri; una coppia di bicchieri di peltro, un otre con del vino rosso,
una mela morsa e un coltello da frutta che non era servito, a quanto
pareva.
In disparte, nell’angolo dell’anticamera e
ammucchiato come spazzatura, Adriano riconobbe tutto il suo
equipaggiamento: la sottile striscia di fattura romana e la cinquedea;
i coltellini da lancio, l’unica bomba fumogena che entrava
nella piccola sacca e il suo meccanismo di lama celata, del quale
sentiva la mancanza come se gli avessero amputato un braccio o
un’intera gamba… poi il taccuino, i pugnali e la
scarsella con gli spiccioli per retribuire possibili informatori.
C’era anche lo schizzo di pianta del Vaticano che il ragazzo
aveva disegnato a mano libera la sera precendente, nella stanza
condivisa con Davide al rifugio. Si era seduto sul letto e ne aveva
curato i particolari con l’attenzione di un artista, tutto il
giorno, aspettando la notte che avrebbe segnato il destino della
Confraternita.
Accompagnati dal boato di un tuono, i ricordi cominciarono a
ricostruirsi, diligentemente, nell’ordine cronologico causa
effetto, fino all’ultimo atto della tragedia.
Il tramonto dal tetto dell’Isola Tiberina, Roma deserta, la
curiosa sacca rigonfia di Vittorio, la lapide costantiniana e il prato
verde, soffice, attorno alle Mura Vaticane; il lenzuolo il traforo
segreto il Belvedere Cesare Guardie Papali sangue…
Il Maestro avvelenato, la sua e la vita degli Apprendisti nelle mani
del Signore.
Si udì una porta sbattere: assieme alla tempesta fecero
irruzione nell’anticamera i passi di quattro piedi e due voci
maschili.
“Avresti dovuto puntare più in alto ad ogni
lancio. Hai perso anche ‘sta sera,” si lamentava il
primo, serio ma poco interessato.
“Ma ve l’ho detto! Messer Aurelio, voi non
ascoltate: quello spagnolo di merda, Gabriel, l’ha spostato anche
‘sta sera! È un mese che mi alleno con quel
bersaglio, fatevelo dire dal ragazzo nuovo, come si chiama…
Simone, che prendevo sempre il centro! Viene la Notte delle Sentinelle
e, guarda caso,
non mi avvicino nemmeno al terzo anello!” ribbatté
il secondo.
I due uomini entrarono nel campo visivo del ragazzo e sostarono sotto
alla campata. Erano entrambi fradici dall’elmo alla punta
degli stivali.
“Allora perché non lo dici a tutti, eh?
Perché la prossima settimana non alzi il culo e dici a tutti
che Gabriel sposta il piatto?” sbottò
l’altro, innervosito, mentre si strizzava il mantello.
Silenzio.
“Fottuta pioggia…” borbottò
togliendosi l’elmo da capitano. Svelò un volto
marcato dall’arte militare e un taglio cortissimo di capelli
scuri, e poi prese a sgrullarsi l’acqua di dosso come un cane
bagnato. Tornò rivolto al compagno: “Rosicone, te
lo dico io perché: perché nessun altro manca il
bersaglio come lo manchi tu e il piatto è sempre nello
stesso posto,
alla stessa altezza,
tutta la
settimana!” concluse con arroganza sedendosi al tavolo.
“Sei solo un dannatissimo senza palle, e a quelli come te,
tra le mie fila, i coglioni glieli facevo spuntare usando le
tonsille!”
L’altro richiuse la porta, muto.
In quei brevi secondi di tranquillità, Adriano
rifletté:
Nulla scredita
l’ipotesi che il Gran Maestro sia morto o stato catturato a
sua volta. Leone, Davide e Vittorio potrebbero essere da qualche parte
tra queste mura e perciò devo scoprire il più
possibile su dove e sono e con chi ho a che fare.
La sua mente da bravo discepolo infiltrato cercava di lavorare,
accumulando informazioni. Un’attività inutile e
dispendiosa, ma almeno lo teneva impegnato.
Il primo, messer
Aurelio - nome che all’Apprendista suonava
familiare - aveva un represso accento del nord ed era il più
anziano tra le due sentinelle. Rivestito d’argento e di
porpora, e con quell’aria da pezzo grosso, era chiaro
appartenesse agli alti ranghi tanto che Adriano si chiese fin da subito
cosa ci facesse in quella squallida prigione. L’atteggiamento
scomposto dei vigilanti professionali se conviene imbruttiva la
prestigiosa uniforme borgiana che indossava e tutto il suo ruolo. Si
era stravaccato sulla sedia con la fierezza di un grasso leone in
pensione.
Adriano serrò la mascella e sentì aumentare
vertiginosamente il disprezzo verso quegli sporchi mercenari italici
senza etica dipendenti da frustino spagnolo. Quanti ne aveva visti
ammazzare la propria gente?
Il secondo armigero, stretto nella sua divisa da Guardia Agile, aveva
baffi giovani e si muoveva come un gracile micetto, a confronto.
Adriano capì subito che era troppo intimorito dal suo
superiore anche solo per sedere allo stesso tavolo.
Guardandosi un po’ attorno, Aurelio aveva adocchiato il
meccanismo della lama celata confiscato al prigioniero e si era proteso
ad afferrarlo senza muovere le chiappe dalla sedia. Studiò
l’oggetto con distacco, l’aria incerta di chi
dubita della sua natura e del suo scopo.
“Non avete saputo?” chiese la sentinella Agile,
compita. “Abbiamo un ospite speciale,” aggiunse, e
lo disse come per vantarsene.
Una malinconia infinita attanagliò lo stomaco di Adriano al
sentir pronunciare quelle parole. Niente.
A quanto pare sono solo… ma allo stesso tempo
rinvigoriva la speranza che qualcuno si fosse salvato e fosse rientrato
al Rifugio.
“Sì, ho saputo: mi hanno mandato
apposta”, mormorò il Capitano assorto: ora
guardava il meccanismo della lama con un insolito rispetto. Poco dopo
sorrise apparentemente senza motivo. “Un pesce
piccolo… ma ho saputo anche che Sarto si è
beccato una freccia in culo per portarlo qua,”
ghignò.
Risero entrambi, e finalmente pure il secondo uomo si mise seduto.
Adriano collegò quel nuovo nome, Sarto, allo sfocato
ricordo del suo sequestratore: un Ufficiale Papale.
“Adesso sappiamo dove ha lavorato il Diavolo per tutto questo
tempo,” commentò Aurelio senza staccare gli occhi
dalla lama celata; se la rigirava nella mano come aspettandosi da essa
un qualche sortilegio: che il metallo cominciasse a brillare, per
esempio, o levitasse tra le sue dita.
“Dove?” domandò l’Agile, al
quale era sfuggito il senso della sua osservazione.
La calma negli occhi del Capitano mutò d’un tratto
in tempesta. “Nelle tane di questi topi di fogna!”
ruggì afferrando un bicchiere di peltro dal tavolo e
scagliandolo attraverso la stanza rabbiosamente, dritto nella cella del
prigioniero.
Adriano nascose la testa tra i gomiti.
Il bicchiere lisciò le sbarre, cozzò contro la
parete di fondo e rotolò ai piedi del giovane che rimase
immobile, un tutt’uno con la pietra del pavimento.
L’Agile non disse nulla; si limitò a lasciar
sbollentare gli spiriti del suo Capitano guardando tutt’altra
parte.
Il ragazzo tenne il naso premuto sui mattoni del pavimento e
spalancò gli occhi nell’oscurità delle
braccia chiuse.
Aurelio Enrico Pulciani.
Adesso Adriano ricordava.
Due settimane prima lui e Davide, coperti dalle frecce di Vittorio,
avevano sventrato la pattuglia del Capitano al Palazzo Lateranense.
Tale diversivo aveva consentito al Gran Maestro di agire indisturbato
attorno alla Basilica
di San Giovanni, ove era entrato scortato da Leone. Ne era
valso un fruttuoso interrogatorio al freschissimo Cardinale Diacono Giovanni
Colonna, il quale aveva confermato che, la notte
dell’attacco, Cesare avrebbe passeggiato dove previsto: in
Vaticano.
Adriano se lo ripeté ancora una volta, e ricevette la
risposta alle sue domande.
Aurelio Enrico Pulciani.
Ex Capitano della Guardia nel Rione Laterano, degradato a sentinella
della Prigione di Castel Sant’Angelo per grazia degli
Assassini che avevano decimato i suoi uomini. Era uno spadaccino
micidiale, uno dei tanti rettili ammaestrati cui il Valentino si
circondava affidando loro volentieri la sorveglianza delle zone calde.
Stentava a immaginare cosa sarebbe stato di lui non appena Aurelio
avesse scoperto che era sveglio. Poiché da bravo Templare ce
l’aveva a morte con gli Assassini, al Capitano era stata
esplicitamente concessa l’autorità di torturare il
ragazzo nel modo che preferiva. Perché Adriano sapeva che ci
sarebbe stato un interrogatorio. Sapeva che nessuno si sarebbe fatto
scrupoli per la sua giovane età, sapeva che non avrebbero
esitato ad ammazzarlo e ad appendere la sua testa incappucciata da
qualche parte; magari proprio su Ponte Fabricio, alle porte del
Rifugio, come ammonimento per chi si stava proclamando salvatore di Roma e
sovvertitore dei Borgia.
Adriano sentì la porta aprirsi di nuovo e il frastuono
dell’intemperia fare irruzione nell’anticamera.
L’attenzione dei due uomini seduti al tavolo volò
in quella direzione, fuori dal campo visivo del ragazzo.
“Messer Pulciani, mastro Gabriel vorrebbe conferire con
Fenicio Bèrtoli privatamente. È questione di
minuti,” esordì una voce estranea, maschile.
Fenicio… la
Guardia Agile si chiama Fenico.
“Sta bene,” ammiccò Aurelio al giovane
lì affianco.
Fenicio si alzò, si congedò con un inchino e
lasciò l’anticamera di corsa. Appena richiuse la
porta alle sue spalle, l’atmosfera tornò a farsi
silenziosa.
Dalla sua posizione, Ariano poté notare Enrico accigliarsi.
“Mi dispiace, Capitano, ma ho ricevuto l’ordine di
non lasciarvi solo col prigioniero,” disse il balestriere
fuori dalla visuale dell’assassino. Lo sentì
spostarsi più lontano dal Pulciani di quanto non
lo fosse già.
Aurelio sbuffò. “Sai che
nuove…”
“Cos’è?” domandò la
guardia alludendo alla lama celata nelle mani del Capitano.
Aurelio gliela lanciò con sprezzo, come per liberarsene, e
il balestriere l’afferrò al volo tirandosela allo
stomaco. Quando capì di cosa si trattava,
allontanò immediatamente l’oggetto da
sé e lo poggiò sul ripiano.
“Hai la faccia di chi li manderebbe tutti
all’Inferno, Simone,” chiosò Aurelio
compiaciuto versandosi del vino nell’unico bicchiere rimasto.
Simone,
l’ultimo arrivato…
Il ragazzo doveva aver cambiato improvvisamente color di faccia.
“Mio padre pattugliava sui tetti di Navona ed era un
brav’uomo. Hanno trovato il corpo al cambio della guardia,
sgozzato come un cane, pugnalato due volte,” il tono di chi
ha rivisto la scena mille volte e infierirebbe altrettanto sui cadaveri
dei responsabili.
Aurelio: un sorso di vino. “La sai usare, quella?”
chiese.
Il giovane estrasse la balestra dall’astuccio e ne
solleticò la scocca, facendola sibilare. “Avrei
ereditato il suo mestiere in ogni caso, perciò ho praticato
molto sotto la guida del mio vecchio, prima che morisse.”
Quando parlò di nuovo, Adriano sentì con
chiarezza l’ardore e la determinazione suscitati dalla
vendetta… e in un istante, per associazione,
ricordò la rovina che era stata la trasferta in Vaticano.
“Se ne ammazzo uno con la sua balestra, potrò
pagargli la tomba che merita,” concluse Simone.
Aurelio non poté replicare, perché qualcuno
piombò nell’anticamera dopo aver spalancato la
porta. “Gabriel e Fenicio si stanno scannando!” li
informò con eccitazione tutt’altro che
professionale un’altra guardia, sparendo subito dopo.
Simone non cercò neanche l’approvazione negli
occhi del Capitano e si catapultò sotto la pioggia senza
pensarci due volte, correndo a sedare la mischia.
Enrico e il prigioniero rimasero soli.
Calò un silenzio pesante, rotto solo dallo
scrosciare della pioggia oltre l’ingresso che né
quella guardia, né Simone, uscendo, si erano presi la briga
di chiudere.
Adriano respirava piano. Provò a distrarsi concentrandosi
sul dovere e sulla sua condizione.
Le guardie del Castello
giocano al bersaglio tutte le settimane. Sono sicuro che si scommettono
anche le braghe, sotto al naso di Cesare, perciò se
riuscissi a trasmettere queste informazioni al Rifugio… e se
sopravvivessi fino alla prossima Notte delle Sentinelle, Messer
Machiavelli saprebbe che per quell’occasione il corpo di
guardia è “distratto”; potrebbe inviare
un paio dei suoi, e tirarmi fuori di qui prima che…
Tra un pensiero e un altro Adriano urtò per errore il
bicchiere di peltro che giaceva vicino ai suoi piedi e
l’oggetto, logicamente, spostandosi produsse rumore.
Adriano si morse a sangue le labbra come punizione. Ogni tentativo di
riflettere oltre venne represso nella paura, mentre un liquido caldo e
amarognolo che gli scivolò in gola.
La sua copertura era saltata: ora che era cosciente, il
prigioniero poteva essere interrogato.
Dopo essere rimasto immobile come una statua, a guardare la pioggia
cadere sui corridoi delle mura di Sant’Angelo
aldilà della soglia, il Capitano Enrico si alzò
con una lentezza straziante e andò a serrare i battenti.
Fece due giri di chiave. Dopodiché venne verso la cella del
ragazzo.
Adriano chiuse forte le braccia attorno alla testa e si
rannicchiò più stretto.
Ogni passo, scandito dal tacco degli schinieri da guerra, tuonava sul
pavimento del buio androne ricordando i tamburi di
un’esecuzione.
Silenzio.
Lo scampanellio di chiavi.
Chiavistello, cigolio dei cardini.
Uno scatto e la fuga?
No.
Le armi troppo lontane, le ossa troppo deboli.
La resa dei conti.
…prima
che sia troppo tardi.
***
Il corpo del Gran Maestro, rannicchiato a poppa, galleggiava su quel
sottile strato di acqua piovana che si era raccolta sul fondo dello
scafo.
“Davide, quanto manca all’alba?”
Il ragazzo interruppe la sua litania e guardò il cielo con
una smorfia, mentre la sottile pioggerella gli cadeva sul volto
pallido. “Te lo direi volentieri, Vittorio, ma le
nuvole…”
“Inventa una scusa migliore, se non vuoi faticare”
ridacchiò Leone dando un colpo di remi più
potente.
Davide si accigliò. “Non era una scusa,”
disse aggrappandosi al legno del parapetto. “Prova tu a
trovare qualche stella, poi dimmi se Orione è
tramontato.”
Vittorio s’intromise prima che Leone potesse replicare. Il
mastro arciere guardò Davide e offrì le scuse per
la sciocca domanda.
Stringendosi nelle spalle, lo stratega tornò alle sue
preghiere.
Ad un tratto, Vittorio fu certo che qualcosa lo avesse sfiorato
all’altezza della caviglia. Quando abbassò lo
sguardo, vide che la mano sinistra del Gran Maestro era abbandonata
vicino al suo stivale, dove Vittorio ricordava di non avercela
lasciata.
Mollò il timone all’istante, ma gli altri due se
ne accorsero solo quando la barca cominciò a virare
insolitamente. Si rannicchiò su di lui e poté
sentire con chiarezza il respiro spezzato di Ezio, che iniziava a
manifestare delle anomale convulsioni al braccio della spalla ferita.
Davide venne in suo aiuto scavalcando i banchi e assieme distesero il
Gran Maestro su quello alle spalle di Leone.
“Respira più forte, ma non è un buon
segno.”
Davide sbiancò visibilmente nel notare le convulsioni
dell’arto. I suoi occhi anticiparono la domanda delle sue
labbra: “Cosa facciamo?”
“Semplice: torniamo indietro.”
Davide e Vittorio sincronizzarono lo sguardo sulla schiena del loro
terzo compagno.
Leone ripeté senza voltarsi: “Torniamo indietro e
diamo alle Guardie Papali quello che vogliono.”
“Di cosa parla?” chiese Davide
all’arciere.
Pessimo sarcasmo, Leone;
davvero pessimo. Vittorio scosse la testa, facendo
credere a Davide di aver preferito non capire, e tornò chino
sul Maestro.
Gli spasmi al braccio del Maestro cessarono sotto i loro nasi, ma Ezio
continuava a respirare con fatica. Provarono a metterlo seduto,
appoggiandolo alla balaustra del gozzo, e per alcuni minuti parve
migliorare.
Davide prese il timone, mentre Vittorio andava a medicare la ferita
sotto la guida del giovane stratega.
Il mastro arciere scostò la veste e applicò una
nuova dose di farmaco sul tampone. L’emorragia era cessata,
ma complessivamente Ezio non aveva perso molto sangue. Vittorio non si
sforzò nemmeno a immaginare quali oli e quali spezie
componessero quella miscela disinfettante datagli dal cerusico
trasteverino. Aveva altresì un odore fortissimo di muschio e
decomposizione.
Durante tutta la medicazione, il mastro arciere si affidò
agli unici sensi del tatto e dell’olfatto. Non sarebbero
stati né il buio né quella pioggia puntigliosa ad
intralciare la sua premura verso il Gran Maestro. Fosse il destino di
Ezio Auditore ormai segnato e diventasse pure quel vecchio gozzo la sua
tomba, Vittorio sarebbe morto medicandolo.
E fu in quell’attimo di folle determinazione che il fato lo
commiserò ancora una volta.
Il gozzo si fermò oscillando sulla corrente,
perché Golia
aveva smesso di remare.
“Torniamo indietro,” disse di nuovo Leone.
Esasperato, Davide si alzò. Leone, con grande stupore degli
altri due, fece ruotare il remo sinistro nello scalmo e lo
colpì dietro al ginocchio con violenza, rimettendolo seduto.
Lo stratega cadde sulla prua contorcendosi dal dolore, e per quanto
gridava Golia
poteva avergli rotto tutta la gamba.
Vittorio era sconcertato. “Leone,
cosa…!?”
Questi lo interruppe: “Posso sperare che adesso ti degnerai
di ascoltarmi?” chiese. “O devo sempre spaccare
qualcosa per attirare un po’
d’attenzione?!.”
“Vaffanculo!” sbraitò Davide alle sue
spalle.
Leone si alzò e liberò il remo dallo scalmo, per
poi voltarsi e minacciare ancora il compagno. “Ripetilo, se
hai le palle!” sibilò.
“Basta, Leone. Adesso stai esagerando,” lo riprese
Vittorio col tono serio e canzonatorio del genitore che ricorda al
figlio il proprio posto.
Guardando Leone negli occhi, Vittorio si preparò al peggio:
l’ncertezza e la paura, impossessate chiaramente di lui,
sfogarono come la peste su quel corpo provato. Vittorio avrebbe dovuto
prevedere che il prossimo a cedere, dopo Davide e la sua disperazione cattolica, sarebbe
stato proprio Leone, e in qualche modo arginarlo da se stesso. Il suo
ruolo nel gruppo, dopotutto, era proprio quello: sanare il sanabile.
“Ti ascolto, Leone, ma prima chiedi scusa a Davide e
rimettiti seduto.”
L’uomo con i calzettoni a righe fece tutt’altro. Si
voltò dalla parte di Vittorio e minacciò anche
questi con la pala scheggiata. I muscoli pulsanti, il respiro agitato.
“Non dirmi cosa devo fare! Chi ti ha promosso, eh? Lo Spirito Santo?! Lui
non credo proprio!” ruggì indicando il Gran
Maestro ai piedi del mastro arciere.
Vittorio tacque, inginocchiato sul figlio di Giovanni, pensando a cosa
dire.
Leone prese fiato. “Perché siamo qui,
Vittorio?” gli domandò. “Per rubare una
barca e sperare di arrivare vivi fino a Monteriggioni? Oppure credi
davvero che qualche anima pia ci prenda con sé e ci consigli
un buon medico? Sai almeno dove siamo? Se questo è il lago
di Bracciano come penso che sia, le Guardie di Cesare hanno tutta
l’autorità che gli serve per romperci il culo e
sbatterseli di nuovo, i reggenti, perché qui, gli Orsini,
sono caduti nel ‘98!” concluse con un ringhio.
“Lo so bene,” pronunciò calmo Vittorio,
cercando di dissuadere il compagno dall’ira che sembrava
diventata una moda. “Ma non hai motivo di comportarti
così, di aggredirci; cosa ti abbiamo fatto?”
Si pentì molto presto di aver scelto quelle parole.
Leone avvampò. “Quello è un fottuto
incapace,” sbottò puntando Davide con il remo,
“e questo una testa di cazzo che ha firmato per tutti noi un
posto all’Inferno!” Dio solo sa cosa
astené Leone dal calciare il Gran Maestro, disteso ai suoi
piedi.
Davide sbiancò. Lui che con Leone ne aveva passati tanti, di
litigi, aveva capito che il loro compagno era arrivato a un punto di
non ritorno. Quando partivano le parolacce, c’era poco che
potessero fare…
Vittorio rimase a lungo immobile, ma appena osò prendere
fiato, l’altro sopraggiunse.
“Perciò adesso ascoltami: torniamo indietro,
consegniamo questa merda d’uomo alle Guardie Papali e avremo
fatto l’unica mossa saggia della giornata.”
Alludeva al Gran Maestro, con disprezzo.
“Bastardo infame… come osi?!”
esordì Davide, sconvolto.
“Leone, renditi conto di cosa stai
dicendo…” pervenne Vittorio. Il baratro
più profondo che può toccare la
disperazione di un uomo è quello della follia. Leone ci era
dentro con tutte le scarpe.
“Ragiona con me, Vittorio:” cominciò
improvvisamente tranquillo. “Non gli resta molto da vivere,
lo sappiamo benissimo, perciò è questione di
minuti prima che sia buono solo per i pesci. E i nostri pesci,
Vittorio, sono le Guardie che Cesare ci ha incollato alle chiappe. Per
come la vedo io, ottenuta anche solo una parte, ma una grossa parte, di
quello che cercano, si dimenticheranno del resto e noi saremo liberi di
rientrare a Roma indisturbati! Torneremo da messer Machiavelli,
arruoleremo nuovi adepti, ci occuperemo della villa. Noi, Vittorio,
insieme. In futuro potremo riorganizzarci, tagliare la testa a Cesare,
quel figlio di puttana, una volta per tutte. È la cosa
giusta, tu sai che è l’unica
cosa giusta da fare,” sottolineò, poi parve
illuminarsi e si corresse oltremodo: “l’unica che lui ci ordinerebbe
di fare… se mai si risvegliasse da questa post-sbronza
pietosa,” concluse con dell’altro sarcasmo di
pessimo gusto.
Nonostante la sfacciataggine e quella mancanza di rispetto
considerevole, Leone era riuscito ad insinuare il dubbio ancora una
volta, con la sua dote di politico incompreso. Era una decisione
razionale, dopotutto, dovette ammettere Vittorio a se stesso, seppur
dettata unicamente dall’istinto di sopravvivenza. Il
ragionamento di Leone aveva senso, ma questo perché il sopra
citato non era uno stupido, anzi! Il problema di Leone, lo stesso che
Davide era troppo orgoglioso di contare come unico e solo, era che
usava la sua intelligenza nel modo e nel momento sbagliato.
“Sei con me, fratello?” Leone gli porse un braccio,
lieto di farselo stringere, ma Vittorio indugiò guardando
oltre la sua figura, dove gli occhi di Davide, infossati e cerchiati
dall’angoscia e dal dolore, lo supplicavano come quelli di un
cerbiatto ferito. È
troppo convinto… devi fare qualcosa, dicevano.
Il mastro arciere prese la sua decisione, a nome del gruppo, e non
volle ascoltare altre ragioni.
Agire. Subito. Nel bene della Confraternita.
Con una manovra improvvisa e fulminea, Vittorio strappò il
remo dalle mani di Golia
e lo incastonò nuovamente nello scalmo, mentre Leone,
sorpreso e senza avere il tempo di fermarlo, si gonfiava dalla rabbia.
“Torna al tuo posto e continua a remare,”
dettò il mastro arciere. “Non è un
consiglio, ma l’ordine di un tuo superiore,”
concluse autoritario.
Leone strinse i pugni lungo i fianchi così forte da
scrocchiarsi le nocche.
Vittorio riprese il timone. Davide, facendo attenzione a non pesare sul
ginocchio indolenzito, tornò seduto sulla prua.
Leone si era impuntato, di nuovo, e stentava ad ubbidire. Quei placidi
occhi azzurri che amavano la vita e la guerra allo stesso modo erano
diventati specchi della paura e del rancore. I muscoli di tutto il
corpo pulsavano gonfi sotto i vestiti pregni di pioggia.
Accadde in una frazione di secondo: salì la prua e scese la
poppa. Vittorio non riuscì né a parare
né a schivare le nocche di Leone, che gli affondarono nella
mascella e lo sbilanciarono all’indietro. Incassato il colpo,
Vittorio precipitò dritto in acqua.
Appena il gozzo smise di oscillare, Leone si voltò verso la
prua.
“Cristo Santo!” imprecò Davide
sporgendosi dalla balaustra con un moto istintivo del quale,
però, si pentì in fretta.
“Perché?!” domandò poi
guardando Leone senza che Vittorio fosse ancora riemerso.
“Perché vi siete rammolliti, e io voglio vivere
per farmi ancora tua sorella!”
Lo stratega inorridì, e per qualcosa che non era il dolore
alla gamba. “Tu… cosa?”
“Non dirmi che in tutto questo tempo non te l’ha
mai detto?” si stupì Leone con un sorriso
malvagio. “Ma come? Ho sempre pensato che fosse uno dei
motivi per cui mi manderesti volentieri sotto terra.” Si mise
seduto, impugnò i remi e iniziò a far ruotare la
barca nella direzione dalla quale erano venuti.
“Carolina… la mia Carolina,”
mormorò Davide a fior di labbra, sconcertato.
“Da quando ha aperto quel bordello, non è
più solo la tua
Carolina,” sghignazzò dando la prima remata verso
terra.
Davide si guardò indietro, dove era scomparso Vittorio e lo
specchio d’acqua s’increspava al cadere dalla
pioggia. Si chiese perché aspettare tanto prima di vederlo
riaffiorare.
Un paio di braccia emersero all’improvviso e trascinarono
Leone in acqua con un gran chiasso. Poi Vittorio si sostituì
a lui, rimontando fulmineo sul gozzo.
A quel punto la priorità dello stratega fu non perdere
l’equilibrio per via della barca che ondeggiava.
Quando Leone ricomparve e spalancò le fauci per riempirsi
d’aria i polmoni, si ritrovò una lama puntata alla
tempia.
“Spero che il bagnetto ti abbia schiarito le idee.”
Vittorio, l’uniforme tanto appiccicata al corpo da sembrare
una seconda pelle e invaso da impercettibili tremori, impugnava
saldamente la sua spada romana contro Golia.
Il pelo biondo cenere del leone gli copriva un occhio.
L’altro era tornato alla sua solita luce. L’uomo
borbottò qualcosa d’incomprensibile, ma alla fine
accettò pacificamente la mano tesa di Davide mentre Vittorio
si spostava dall’altra parte del gozzo per bilanciare il
peso.
Di nuovo a bordo e con i mattoni nei vestiti, Leone prese posto vicino
al Gran Maestro, al quale lanciò una breve occhiata pentita.
Gettò la testa in avanti e si mise le mani tra i capelli
gocciolanti, come il resto. Se pianse, non volle darlo a vedere.
Vittorio lo degnò giusto di uno sguardo, poi, reggendosi
all’albero, raggiunse Davide a prua. Il ragazzo si stava
massaggiando la gamba ferita e quando si accorse del mastro arciere
dietro di sé, si fermò un istante.
“Nessuno proverebbe pietà per degli sconosciuti,
armati, comparsi dal nulla nel cuore della notte…”
mormorò sconsolato, ma dietro quell’affermazione
si nascondevano ben altre ragioni di malessere.
“Conosco il cuore di questa gente,” incise Vittorio
guardando a nord, dove qualche altro chilometro cubo di acqua li
divideva dalla costa abitata. “Ed è simile a
quello di ciascuno di noi.”
“Allora Leone non mentiva,” si stupì
Davide.
“Su cosa? Che il bastone del pastore è
già passato su queste terre? No, Leone ha detto la
verità. Bracciano e tutte le sue frazioni portano cicatrici
fresche di frustino spagnolo.”
“Perciò… c’è
ancora speranza… per noi,”
concluse il giovane stratega cercando con gli occhi gialli quelli nel
cappuccio di Vittorio.
“Rimettiti a pregare, Davide,” gli
suggerì il mastro arciere tornando a poppa; impugnando il
timone ordinò a Leone di riprendere i remi almeno per
scaldarsi, sempre se non preferisse crepare. Ma Golia fissava qualcosa
alle sue spalle e, quando anche Vittorio si voltò, non
poté credere ai propri occhi.
.:Angolo
d’Autrice:.
Sarà l’estate ormai prossima, oppure la semplice
consapevolezza di interrogazioni e compiti in classe ormai alle spalle,
ma nuovo capitolo o nuova storia che sia, ho una gran bella faccia
tosta a farmi vedere di nuovo qui, con la medesima comparsa annuale
dopo mesi d’inattività sia come scrittore che come
recensore della sezione. Ogni tanto, sempre più raramente,
ho continuato a tenere d’occhio il numero delle storie
che…
Ma parlare di cose serie no, eh?
Queste otto pagine e mezza che avrò ritoccato 100 volte,
prima di decidermi a postarle, sono la conseguenza del mio modo
confusionario di far accadere tante cose tutte assieme, e di non avere
pietà alcuna dei miei personaggi, fin troppo protagonisti
delle situazioni più assurde.
Intanto, per precisazione e perché mi va di mettervi in
testa Aurelio Enrico Pulciani così come l’ho
immaginato io, ecco un link
ad un mio primo disegno su di lui.
Seguendo, ci tenevo a confessarvi che l’altra versione della
cattura di Adriano nei Giardini Papali è andata perduta sul
pc di mia madre, che custodiva l’unica copia del file.
Perciò, almeno per ora, non sono previsti ulteriori
aggiornamenti di Helleborus
Niger, la raccolta one-shot/capitoli che fa da Expansion-Pack
a questa fan fiction.
La scenata di Leone, con conseguente bagnetto suo e di Vittorio,
l’avevo in mente fin dal prologo, quando ho pensato che due
galli come loro, su un piccolo e mal conciato gozzo a vela latina, se
ne sarebbero stati tutt’altro che nel proprio pollaio. Da una
parte voglio dare ragione a Leone, sul fatto che lasciare
(più che consegnare
– dopotutto non si sarebbero mai permessi di presentarsi
personalmente con il Maestro tra le braccia agli spagnoli) la carcassa
di Ezio alle guardie, pur in quelle condizioni, avrebbe facilitato loro
la fuga. Dall’altra Vittorio ha tutto il diritto di decidere
per lui, per Davide e per Ezio, adesso che quest’ultimo
è incosciente. Una netta differenza di grado, tra il mastro
arciere e Golia l’ho immaginata e speravo che si fosse
intuita fin dal II capitolo, quando Ezio e Vittorio discutono negli
alloggi di quest’ultimo.
L’ultima precisazione riguarda, come al solito, la costanza
nella pubblicazione dei post futuri. Ovviamente, non posso parlare di
costanza, ma neanche di aggiornamenti. Helleborus, a differenza di
qualsivoglia long-finction che io abbia mai scritto o sulla quale stia
tutt’ora sbattendo la testa, è diversa proprio per
questo: sto cercando di evitare che diventi uno sfogo, o quanto meno si
allontani dall’essere un diario personale del quale, a
piccoli assaggi, porto sempre qualcosa in queste note
d’autrice.
La verità è che ho meditato a lungo se continuare
o meno la pubblicazione, pur potendo rinviare la sospensione della
fiction fino al XIV capitolo. E mi rendo conto che, nella seconda
eventualità, più che un torto a me stessa avrei
finito col coinvolgere i miei carissimi lettori, quei quattro gatti
coraggiosi che riescono a decriptare la mia scrittura catatonica e dai
quali fa sempre piacere sentirsi criticare piuttosto che lodare :)
Per ora è tutto. Perdonate i banalissimi link alle pagine di
wikipedia, ma non ho proprio la forza di commentare personalmente
personaggi, date, e luoghi storici.
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Capitolo 8 *** Vento secondo vei ***
Helleborus
Capitolo
VIII
Vento
secondo vei
(navigare secondo il vento)
“Noé,
ATTENTO!” si udì gridare ad un tratto.
Qualcosa urtò con violenza lo scafo del gozzo, che
s’inclinò col rischio di cappottarsi. Vittorio fu
costretto a reggersi al banco di poppa, lo stesso sul quale si era
gettato Leone. Il corpo inerte del Gran Maestro scivolò fino
a prua, da dove Davide, invece, fece capolino in acqua.
Senza pensarci due volte, Leone si lanciò a soccorrere il
compagno e, sporgendosi dalla balaustra, lo afferrò
saldamente per un braccio. “Reggiti, idiota!”
gridò issandolo con una forza mostruosa nuovamente a bordo.
Tremando come non mai, Davide si accovacciò e si strinse le
braccia attorno al copro, piantando le unghie nella sua stessa carne.
Le labbra gli si erano improvvisamente gonfiate perdendo colore, gli
occhi, annegati nella paura, schizzavano fuori dalle orbite.
Vittorio si voltò, dimenticandosi dei compagni, e vide che
il timone era andato distrutto nell’impatto tra la poppa del
gozzo e la prua di una piccola barchetta. Di questa, le cime lascate
liberarono il boma, mandandolo fuori controllo. La vela trapezoidale
cominciò a sbattere, schioccando, mentre la pioggia le
scivolava magicamente addosso senza impregnarla.
“Francesco, per Dio! Perché ti sei
ferm…!”
Alzando lo sguardo, Vittorio incontrò gli occhi azzurri di
un ragazzo che si stava risollevando in quel momento dalla balaustra
del gozzo, fin dentro al quale l'aveva scaraventato il contraccolpo
violento. Ma il giovane non terminò la frase,
perché si rese conto di avere di fronte tutt’altra
persona.
“E voi chi diavolo siete?” domandò,
ritraendosi sorpreso.
Vittorio andò dritto al dunque: “Dovete aiutarci,
vi prego, abbiamo un ferito.”
Ci fu un lungo attimo d’esitazione, durante il quale quel
ragazzo sembrò valutare ogni ruga visibile sul volto di
Vittorio. Distogliendo lo sguardo dall’Assassino,
lanciò un’occhiata al corpo del Maestro; in fine
si adocchiò intorno, con l’aria di chi sta
cercando qualcosa.
Solo allora Vittorio notò un’imbarcazione gemella
ferma poco distante. Anche quello scafo era molto piccolo, con la
stessa forma di vela, e l’Assassino capì che era
stato il suo passeggero a cacciare quel grido di avvertimento un
istante prima dell’incidente. “Noé, sei
vivo?” gridò costui dal lontano.
Il ragazzo parve ignorarlo, continuando a cercare laborioso intorno a
sé. Quando l’ebbe trovato, strizzò e si
rimise il berretto in testa; dopodiché si gettò
ad afferrare saldamente la balaustra del vecchio gozzo. “Cosa
avete detto che vi serve?” chiese calcolando i danni al
timone.
Fu con un immensa gioia che Vittorio gustò la sua voce
giovane e il tono disponibile. “Un medico,” rispose.
“Ne conosco uno che sarebbe entusiasta di sapere chi
è il suo paziente, prima di visitarlo.” Inutile
negare che di quei tempi la prudenza non era mai troppa.
Vittorio scrutò l’individuo che aveva di fronte,
studiandolo come il ragazzo aveva fatto poco prima con lui.
“Forestieri, ma soprattutto uomini liberi derisi dal
destino,” disse pesando le parole.
Il giovane lo squadrò a lungo. “Quanti?”
Riusciva a guardare Vittorio in faccia, sotto al cappuccio, ma non a
contare con esattezza la gente sul gozzo assieme a lui, oltre al
ferito.
“Cin…” iniziò Vittorio, ma
s’interruppe scuotendo la testa e guardando a terra. Quella
domanda, così freddamente posta, fu una nuova pugnalata
nello stomaco per l’abbandono di Adriano.
“Quattro,” si corresse.
“Mi spiace, ma se avete fretta, il mio amico ed io possiamo
portare solo due persone, e se una di queste dev’essere
lui…” sembrava realmente dispiaciuto mentre
guardava il Gran Maestro e annotava le sue condizioni.
Vittorio si voltò. “Davide,
andrai…”
Prima di concludere, ricordando la gamba indolenzita e vedendolo
bagnato e tremolante, Vittorio capì che non sarebbe riuscito
a farlo alzare di lì neanche con un piede di porco.
“Va’ tu, Vittorio,” s’intromise
Leone, a sorpresa. “Se venisse il momento, saresti tu il
più degno tra noi di essergli a fianco.”
Le sue erano state parole di un profondo pentimento e un radicato
rispetto, uscite dal cuore, che Vittorio non poté rinnegare.
Leone era tornato tra loro.
Il giovane barcaiolo annuì e spostò
l’attenzione sull’altra vela gemella.
“Francesco! Portati di bolina e parcheggia il tuo culo secco
accanto ai signori!” ordinò all’amico.
“Mais
certainement, mon capitan!” rispose quello
riprendendo velocità e preparandosi alla manovra.
“Voi!” il ragazzo richiamò
l’attenzione di Davide e Leone. “Mi dispiace per il
vostro timone, lo aggiusterò personalmente. Ma per adesso,
Se non preferite passare la notte qui, dovrete seguirci verso la costa
remando; nel caso ci perdeste, tenete questa. Sapete usarla?”
domandò allungandosi per porgere allo stratega un oggettino
rotondo estratto dalla fasciatura sulla vita.
Davide lo riconobbe subito e lo assicurò in una bisaccia,
stirando un sorriso poco convinto quando il ragazzo gli diede qualche
indicazione sulla destinazione.
“Vittorio…” lo strega cercò
il suo sguardo, ma il mastro arciere era già affaccendato
tra le bisacce.
“Prepariamoci.”
Leone lanciò un’occhiata oltre il parapetto,
annotò le due barchette entrambe assicurate al gozzo, ma non
riuscì a sorridere mentre divideva, assieme a Vittorio, le
bisacce e le armi dal Gran Maestro e le scorte mediche. Tutta la
faccenda ancora non lo convinceva, e tutta quell’improvvisa
ospitalità era sospetta. Per acquietare il proprio animo
indagatore, si disse che in ogni caso aveva già unito la sua
alla condanna dei suoi compagni tempo addietro, nel giorno della loro
iniziazione.
Il mastro arciere e Golia
trasportarono il corpo di Ezio sulla barchetta di Francesco,
adagiandolo sul fondo dello scafo tra le reti e le funi, ma in modo da
non intralciare i percorsi di quest’ultime. A trasloco
completato, la prima barchetta prese il vento e partì.
“Il vostro nome,” chiese Vittorio incontrando per
la seconda volta lo sguardo del giovane, poco prima che questi si
sistemasse al timone della seconda barchetta.
Quello sorrise e gli porse la mano. “Emanuele, Emanuele
Graziato Serraioli. Per servirvi.”
L’assassino accettò la presa e si
lasciò aiutare a salire in barca.
Davide e Leone seguirono le vele fin quando poterono, ma dovettero
arrendersi e cambiare strategia quando queste scomparvero del tutto
inghiottite dalla notte, come il pescatore aveva previsto.
“Tiralo fuori.”
Davide sobbalzò, arrossendo.
“Idiota! L’affare che ti ha dato quel ragazzo, o
come si chiama,” sbottò Leone, esasperato.
“Dai, tiralo fuori!” Diede un ultimo colpo di remi,
poi si fermò ad aspettare che Davide facesse il richiesto.
Lo stratega lo fulminò con un’occhiataccia.
“È una bussola,”
sottolineò, disprezzando l’ignoranza di
quell’uomo ancora una volta. “E continua a
remare,” aggiunse dopo aver dato una breve sbirciata,
“è la direzione giusta.” Rimise in tasca
l’oggetto e non ne volle più sapere.
Leone sbuffò. “Ti pesa tanto tenertela in
mano?” Col timone ridotto a brandelli aumentava il rischio
che il gozzo scarrocciasse e andasse fuori rotta, perciò
sarebbe tornato utile che Davide avesse la bussola sotto agli occhi; ma
il ragazzo si era rifiutato con tutto se stesso anche solo di toccarla.
“Perché?” domandò Leone,
laconico, continuando a remare come se in realtà non gli
importasse.
Davide abbassò la testa, poggiando il mento sul petto.
“Non ti riguarda, e non è né il momento
né il posto per fare conversazione,” concluse
starnutendo.
“Tuo padre ti picchiava da piccolo con una
bussola?” ammiccò l’altro.
Davide serrò i pugni. “Se anche
fosse?”
Leone scoppiò in una fragorosa risata.
“Non mi ha picchiato con una bussola, ma è stata
l’unica cosa che ha lasciato a me e mia madre prima di
sposarsi un’altra.”
Leone inarcò un sopracciglio. “… una
bussola.”
“Sì, una bussola!” Davide
scattò in piedi gridando, e il gozzo ondeggiò.
“Una maledettissima, fottutissima, squallidissima,
inutilissima bussola! Disse che aveva un valore di pochi ducati, ma che
avrei potuto utilizzarla per trovare le donne facili con cui andare a
letto una volta e mai più, come lui aveva fatto con mia
madre.”
Leone tacque. Era una storia assurda, alla quale poteva dare peso solo
un deficiente come Davide.
<>
<> <> <> <>
« ! El
capitán, por amor de Dios! Las antorchas
están agotando ! » (1)
“Fate tacere quel figlio di buona donna,” fu
l’ordine secco dell’uomo in testa al convoglio.
Alla guardia spagnola venne aperta la gola e il suo corpo inerte
scivolò giù dalla sella, fino a terra, dove si
riversò con lui anche la sua torcia, che, a contatto con la
terra bagnata, si spense all’istante.
Il drappello rimase al buio nel giro di pochi minuti, ma
l’ultimo lume a cadere fu proprio quello del Capitano, che se
ne liberò gettandolo in un cespuglio. Dopodiché
la foresta inghiottì le loro ombre, mentre gli unici suoni
che tradivano la loro presenza erano gli zoccoli dei cavalli sul
selciato umido e i tintinnii di staffe, armi e armature.
Cercare di proseguire oltre fu del tutto inutile. Giravano su loro
stessi, lo sapeva. Ma sapeva soprattutto cosa avrebbe raccontato a
Cesare quando entrambi, servo e padrone, fossero rientrati a Roma: uno
scontro aperto, un’imboscata, magari; dopotutto non era
fantasia troppo grande testimoniare qualche gruppo ribelle sul lago di
Bracciano. Un’unica bugia avrebbe coperto sia il fallimento,
sia l’omicidio di tutte le guardie spagnole che erano partite
con lui quella notte. Il Capitano ne aveva ordinato le esecuzioni una
dopo l’altra per i motivi più stupidi.
L’ultimo giustiziato, c’era da ammetterlo, aveva
benevolmente cercato di distoglierlo dalla missione e riportarlo sulla
strada di casa. Prima di morire si era lamentato coloritamente della
fame, del freddo, del buio e delle zanzare; ma il Capitano si rese
conto che sulla storia delle torce avrebbe dovuto prenderlo sul serio.
Fece per dare l’ordine di richiamare i cani, ma si
ricordò di aver fatto ammazzare anche gli unici ad avere la
loro fiducia. “Stupidi mastini
spagnoli…” borbottò voltando il cavallo
con un colpo di talloni e una tirata di redini. “Ci
ritiriamo!” disse, e partì al trotto.
I cavalli degli altri soldati si allargarono nervosamente per lasciarlo
passare. Si affiancò a lui, recuperando terreno, una Guardia
Papale che gli parlò in latino.
“Con quale scusa vi arrampicherete sugli specchi, Domenico da
Fossalto, quando Roma pretenderà la testa di noi
tutti?” sottolineò il suo nome come se fosse
pronto a tradirlo in tribunale.
“Voi parlate della mia città o degli invasori che
la hanno impunemente sottomessa?” rise triste il Capitano.
La Guardia Pontificia colse il senso dell’allusione che lei
stessa aveva fatto. “E’ per l’odio verso
Vostra Signoria che avete reciso le gole agli spagnoli della nostra
scorta?” lo disse col tono dell’avvocato in voce
d’accusa. “Non avete lasciato testimoni, me ne
compiaccio, ma…”
“Fate il vostro lavoro, ed io il mio,” chiuse
così una discussione che non voleva trasformare in
un’udienza.
“Questo è alto tradimento, Capitano.”
“Ditemi qualcosa che non so, ma fatelo anche per voi stesso.
Hià!” Domenico partì al galoppo e tutti
i suoi uomini lo imitarono, lasciando indietro la Guardia Papale.
L’armigero Pontificio, ancora sconcertato,
richiamò l’attenzione di un cavaliere italico che
si aggiustava le armi in spalla. Mostrò lui un sacchetto che
gli lasciò pesare sulla sua mano. L’italiano ne
rimase colpito e non poco.
“E’ solo metà di quello che ti
darò quando avrai finito,” disse masticando il
volgare del luogo.
Il soldato fu tutt’orecchi.
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<> <> <> <>
Nonostante i vorticosi giri di corrente che li avevano allontanati
l’uno dall’altro, Emanuele e Francesco riuscirono
ad orientarsi e a puntare le prue verso la riva.
Un’improvvisa ripresa di vento cominciò a tirare
le funi, e per una breve illusione le barche acquistarono maggiore
velocità; ma il peso di due corpi per scafo e la pioggia
crescente erano costantemente lì a ricordar loro
l’urgenza di raggiungere la costa.
Accovacciato tra le reti, Vittorio stringeva a sé
l’equipaggiamento medico sottratto a Davide prima di
imbarcarsi col Serraioli. Gli sarebbe stato utile al cospetto del
cerusico che non poteva pagare in altro modo dal baratto.
Messer Capitano Emanuele, tenendo il timone in una mano e la scotta
nell’altra, gli lanciava ogni tanto un’occhiata
indagatrice; soprattutto adesso che il suo passeggero gli dava le
spalle, non si era lasciato sfuggire la spada romana al fianco
dell’assassino. Quando lo sguardo cadde anche su arco e
faretra, la bocca non poté trattenersi oltre:
“Mercenari,” sentenziò tornando a
fissare l’orizzonte, dove la piccola vela del compagno
Francesco andava sparendo tra le onde.
Vittorio si schiarì la gola reprimendo un colpo di tosse.
“Ve l’ho detto, io e i miei
compagni…”
“Non m’interessa chi siete o da dove venite. Dovete
solo promettermi che non farete alcun male alla mia gente.”
L’aveva recitato senza intonazione alcuna, quasi di prima
lettura da un testo che gli era stato messo sotto agli occhi. Vittorio
sgranò i propri e cercò di capire con chi avesse
a che fare: un cordiale giovinetto magnanimo o un occasionale alleato?
Ad ogni modo, se c’era la possibilità di far
visitare il Maestro più affondo e con più calma,
non era da lasciarsela sfuggire.
Sigillò quella promessa con un sorriso, ma poco dopo fu
costretto a nascondere una smorfia sotto ai baffi, perché un
brivido freddo gli salì con artigli di ghiaccio tutte e
trentatré le vertebre.
Emanuele se ne accorse. “Resistete, manca poco.”
Il mastro arciere guardò alle proprie spalle cercando di
scorgere il gozzo con il resto dei suoi compagni a bordo, ma
inutilmente.
“Ora reggetevi e abbassate la testa,” disse ad un
tratto il ragazzo, “dobbiamo fare un cambio di
mura,” spiegò inoltre assemblando i preliminari
della manovra.
Vittorio ubbidì e si schiacciò come meglio
poté alla coperta.
Avvertì solo un leggero inclinarsi della barca, che
inizialmente rallentò, poi i passi frettolosi di Emanuele
che correva sull’altra fiancata a bilanciare il peso, mentre
il boma gli lisciava il cappuccio. Non appena il ragazzo cazzò (2)
la randa, facendo schioccare la scotta, la vela fu gonfia di vento e
con un balzo in avanti la barca riprese a tagliare le onde.
L’assassino approfittò del nuovo percorso in linea
retta per sistemarsi più comodo. Si appoggiò con
un fianco all’unico albero piantato in mezzo alla coperta,
non più larga di dieci spanne. Si aggiustò il
cappuccio sul viso, un gesto divenuto naturale ma che fece insospettire
oltremodo il suo ospite. Eppure Emanuele non fece altre domande, e
Vittorio gliene fu grato. Meno innocenti sapevano chi erano davvero
quei quattro incappucciati e meno innocenti sarebbero morti per
proteggere o svendere il loro segreto.
Dopo un’altra serie di cambi
di mura (3),
la piccola imbarcazione si arenò bruscamente sulla spiaggia.
Un agglomerato di poche e povere luci si arrampicava sulla collina di
fronte, interrompendosi all’improvviso nella parte alta.
C’era un solo focolare, sulla spiaggia, che illuminava lo
scafo ad albero nudo di due imbarcazioni più grandi.
“Francesco!” chiamò questi, mollando
tutte le funi tenute strette fino ad allora.
Il ragazzo emerse dall’oscurità e venne loro
incontro di corsa.
Vittorio balzò agilmente fuori dalla barchetta e lo prese
per un braccio. “Lui dov’è? Qualcun
altro lo ha visto?” chiese strattonandolo a sé.
Francesco guardò prima lui poi l’amico Emanuele,
come per dargli la colpa del livido che avrebbe lasciato
quell’uomo sulla sua pelle. “Sul carro della
Sabina, dietro le colonne. Mi hanno aiutato Rachele e Corrado, da solo
non ce la facevo a sollevarlo,” rispose.
Più preoccupato che mai, Vittorio lasciò andare
il ragazzo.
“Bravo, ora chiudi le vele e metti a posto,” disse
il Serraioli a Francesco. “Io accompagno
Messer…” fece una pausa.
“Vittorio.”
“…Messer Vittorio, da Bea,” concluse
Emanuele avviandosi. L’assassino lo imitò.
Francesco si protese a chiudere la vela, ma poco dopo si riscosse e
raggiunse l’amico di corsa. “Cosa? Beatrice? Sei
impazzito? Non puoi portare due estranei in casa sua così,
perché ti va!” lo rimproverò mentre la
pioggia gli entrava in bocca.
“Doriano è a Roma ed io non conosco altri dottori,
qui!” sbottò Emanuele strizzandosi il capello.
“Ora fa’ come ti ho detto, ma sbrigati! La vera
tempesta comincerà tra poco, e stare sotto la pioggia non fa
bene a nessuno.”
“E che dico agli altri due?” domandò
Francesco indicando il lago alle proprie spalle.
Vittorio si sentì chiamato in causa, ma si astené
dal parlare quando notò l’espressione crucciata
del Serraioli.
Infatti, dopo averci riflettuto un po’ su, Emanuele rispose
prontamente: “portali da Martina. Ci vediamo
lì.”
Francesco rimase immobile a guardare le sagome di Emanuele e Vittorio
scomparire; dopodiché tornò al suo lavoro sulla
spiaggia.
Il carro su cui giaceva il Gran Maestro degli Assassini era trainato da
una vecchia cavalla nera e lo trovarono dove aveva detto Francesco:
dietro una serie di quattro antiche colonne dell’ordine
corinzio, che un tempo dovevano essere appartenute ad un edificio
andato distrutto. Infatti c’erano ruderi un po’
ovunque, lungo la strada che dalla spiaggia saliva verso il centro
abitato.
“Insisto perché sediate al mio, di
fianco,” disse il ragazzo.
Vittorio dovette rinunciare a quel principio di idea che aveva di
sistemarsi al capezzale del Gran Maestro, sul retro del carro. Non
biasimò il giovane Emanuele sulla richiesta, coraggiosamente
imposta in modo così esplicito. Al suo posto si sarebbe
garantito altrettanto. Montò alla destra del Serraioli, che
imbracciò le redini e fece galoppare l’animale
senza mezze andature.
“Questa solitamente è la carrozza privata dei
nostri pesci,” spiegò il giovane con una punta
d’ironia.
Vittorio ripensò alle reti sulle quali si era seduto durante
il tragitto in barca. Pur ricordando di averle viste vuote e avendo
tante domande da porre, non indagò oltre. Non era il
momento, si disse. Piuttosto si voltò più volte a
controllare il Maestro, mantenendo un rispettoso e grato silenzio.
Distogliendo l’attenzione dalla stradina sterrata, Emanuele
continuava a guardarlo di sottecchi. L’uniforme e il bizzarro
cappuccio a becco d’aquila del suo ospite lo incuriosivano
sopra ogni dire. Ma pure lui, come Vittorio, non fece ulteriori
indagini sulla sua persona, anche se avrebbe voluto. Francesco aveva
detto il vero: ci voleva una bella faccia tosta ad accogliere
così spensieratamente due completi estranei, di cui uno
ferito grave e l’altro armato fino ai denti.
L’unica domanda che forse avrebbe dovuto porre, prima di ogni
altra, era cosa ci stavano a fare Messer Vittorio e i suoi compagni su
quel vecchio gozzo in mezzo al lago. Il resto non importava
più, ormai; nobile o mercenario, banchiere o contadino,
sguattero o capitano non faceva differenza alcuna: con la Tiara in capo
a un Borgia, tutto l’italici
populi era condannato allo stesso pietoso destino.
*
1. "Capitano, per
l'amor di Dio! Le torce si stanno spegnendo!"
2. S'intende cazzare la scotta,
in linguaggio velico, quando il velista tira la fune che tiene tesa, o lascata, la vela.
3. S'intende cambio
di mura quando il velista porta la barca ad avere il vento
che batte sul fianco opposto dell'imbarcazione. Manovre interessate: strambata e virata.
*
.:Angolo
d’Autrice:.
Qualche giorno fa ho risposto alla recensione di Emy_n_Joz
al capitolo settimo. In quella risposta, senza freno, ho confessato (a
mo’ di elenco della spesa) gli umori che hanno interceduto
con la pubblicazione della mia storia. Avendo scritto il tutto di getto
e con una sincerità inimitabile, spero non me ne voglia (la
suddetta Emy_n_Joz) se riporterò esattamente le mie parole
qui sotto, affinché sia di comune informazione.
Risposta alla Recensione
di Emy_n_Joz al capitolo VII:
«Finalmente
sto avendo un po' di tregua da me stessa per dedicarmi ad EFP, ma non
con la stessa costanza di una volta, ahimé.
Era da tempo che volevo
rispondere alla tua recensione, soprattutto perché ad un
certo punto mi sono sentita come abbandonata dalla storia in
sé e dagli stessi personaggi che avevo creato, quasi come se
mi avessero voltato le spalle con tutto quello spessore realistico che
avevo donato loro. E' stato terribile vederli persino sfumare dalla
carta, nei disperati tentativi di tenerli stretti a me con gomma e
matita.
Cos'è
realmente che mi ha frenato nella pubblicazione? Il fatto,
probabilmente, che non avevo più delle solide basi con le
quali confrontarmi. Io stessa ho smarrito il concetto di
realtà, di vita... Ho dato via troppe parti di me a troppe
discipline diverse, e arrivata al momento in cui non avevo
più fiato da sprecare, si è rotto... si
è rotto anche quel piccolo che mi consolava più
di ogni altra cosa: la scrittura.
I capitoli seguenti,
fino al XII, li ho sempre avuti e li ho tutt'ora. Da riguardare
sicuramente, dopo lo scorrere di questi lunghi mesi in apnea, ma che
non ho intenzione di modificare se non solo stilisticamente. La trama
c'è, c'è sempre stata ed ha continuato a
tormentarmi (fortunatamente) anche quando ero io, la prima, a
respingerla, a metterla da parte. Perciò so con certezza
quando finirà questa storia. Ma non il tempo che
impiegherò a scriverla. E' comunque un'emozione che non ho
intenzione di farmi mancare, quella di mettere la parola
fine.»
Tutto qui.
Come detto poco fa, ho sentito il bisogno di liberarmi di queste parole
ed è stato un lapsus improvviso. Non ho alcuna preferenza di
questo genere nei miei recensori, lasciare questa risposta ad Emy
è stato del tutto… casuale. Dicendomi
“ah, finalmente ho un po’ di tempo per rispondere
alle ultime due recensioni non corrisposte”, non immaginavo
che sarei finita col parlare di me in quel modo…
Anyway, miei carissimi, spero che la mia ennesima comparsa trimestrale
non vi abbia turbato troppo. Prendetevi tutto il tempo che vi serve per
leggere anche questo capitolo (partorito un po’ di fretta,
all’epoca, ma rivisto più volte nelle ultime
settimane.) Vi sarete resi conto da soli che con me potete andare molto
calmi nel commentare! XD
Non voglio dilungarmi oltre in altre chiacchiere politiche. Veniamo al
capitolo.
Mi ha fatto un immenso piacere scoprire che alla stragrande parte dei
miei followers è piaciuta la prima parte del capitolo
scorso. In realtà, coinvolgere Adriano direttamente,
raccontando della sua prigioni, è un’aggiunta
moderna. Agli albori di Helleborus non avevo intenzione di dilungarmi
troppo su di lui, nonostante avessi già stampato chiaro in
mente il ruolo che avrebbe ricoperto nella confraternita.
Perciò vi ringrazio: questo mi ha fatto capire che posso
deliberatamente decidere del suo destino. Il mio piano malvagio sta
andando a compimento… Muhahahaha!
LOL
Emanuele e Francesco sono i primi abitanti di Trevignano, e anche i
primi miei personaggi originali, con cui la banda bassotti ha a che
fare. Sono pescatori, spero sia abbastanza chiaro, ma che nelle nottate
libere hanno ben altro passatempo del quale parlerò in
seguito.
Leone e Davide da soli sul gozzo sono stati un libro aperto, per me!
Spero che l’idea possa divertirvi altrettanto.
In fine, vorrei rimandarvi ad un primo abbozzo della scena nel lago,
fatto non molto tempo fa. Ve la linko soprattutto per darvi
un’immagine più chiara di come mi sono divertita a
portare i piccoli Optimist indietro di quattrocento anni! Ahahahah!
A voi: [link]
Sono ben visibili Emanuele e Francesco nelle due barchette. Davide
sulla prua del gozzo e Leone piegato a tirare su il Gran Maestro,
pronto a metterlo sull’altra imbarcazione.
È tutto, gente.
La vostra poco presente, ma fedele,
cartacciabianca
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