Attenzione! Le vostre case sono in pericolo!

di KikyoOsama
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Romolo e Remo [753 a.C. - V sec. d.C. circa] ***
Capitolo 2: *** L'asse [1945] ***
Capitolo 3: *** Separati da una cortina di ferro [1945-1957] ***
Capitolo 4: *** Festeggeremo fino all'alba, e questa non ci coglierà impreparati [1861-2011] ***
Capitolo 5: *** Io sono nato libero [1915] ***
Capitolo 6: *** Che Dio mi aiuti [1936-1939] ***
Capitolo 7: *** Eri tutto per me [1949 - 1961] ***



Capitolo 1
*** Romolo e Remo [753 a.C. - V sec. d.C. circa] ***


Si diceva che l’Impero più temuto d’Occidente non fosse che un trovatello.

“Due gemelli allattati da una lupa” amava raccontare questi, seduto davanti al focolare sul pavimento della casa: un tempo avrebbe potuto accomodarsi sul suo triclinium, ma l’era sfarzosa dei suoi domini si era da tempo conclusa a favore di una decadenza dilagante. Teneva sulle ginocchia possenti i due nipotini e nei loro occhi sgranati intravedeva la sua unica speranza di riscatto. “E uno di quei due bambini, piccoli miei, ero proprio io: Romolo.”

Nonno Roma, così lo chiamavano i suoi pargoli. Da quando gli erano stati affidati gli si erano affezionati subito, e in effetti Romolo non faceva mancare loro niente: li coccolava, li viziava, gli raccontava delle fiabe proprio come avrebbe fatto la loro madre. Feliciano e Romano non avevano mai conosciuto i loro genitori e, quando domandavano di loro o cominciavano a piangere e strillare perché sentivano la loro mancanza, lui era sempre pronto a tirare fuori storielle come quella per poterli distrarre e strappare loro un sorriso.

Vedendo che il minore era distratto e sognante in quel momento, l’uomo gli pizzicò affettuosamente il naso.

“E da bambino ero proprio come te, Feliciano. Chissà, magari un giorno diventerai proprio come me:  un grande Impero, rispettato e temuto da tutti. Ho tanta fiducia in te.”

Feliciano rise, e così fece anche Romolo. Romano invece cominciò a sentirsi scomodo sul ginocchio di quell’uomo – forse si sentiva semplicemente di troppo- e desiderava più di ogni altra cosa poter scendere giù:  sapeva benissimo che Feliciano era il preferito del nonno e, anche se non poteva farne una colpa al fratello e prendersela con lui, nutriva un certo astio nei confronti di entrambi. La mano affettuosa di Romolo si posava sempre prima su Feliciano e, quando si ricordava di avere anche un altro pargoletto da crescere, cercava la testolina di Romano che per orgoglio rifuggiva le coccole strepitando che a lui certe smancerie non piacevano. Sin da piccolo Romano non desiderava altro che essere indipendente.

“ E Remo?” sbuffò il piccolo, volgendo al nonno un’occhiata sagace. Se Feliciano era come Romolo, lui certamente doveva essere come Remo: che anche questo Remo fosse un disgraziato come lo era lui?

Al vecchio tremarono le ginocchia.

Lo stesso Romano non avrebbe mai potuto sperare di ottenere un effetto tale sul nonno: da sereno che era, improvvisamente mutò e divenne molto turbato, al punto che gli fu difficile mentire subito e inventare uno scherzo sul momento.  Tuttavia avrebbe dovuto aspettarsi quell’osservazione su Remo: il suo amato fratello, che egli stesso aveva respinto negandogli la condivisione della città –divenuta poi l’Impero- di cui era così follemente geloso. Una gelosia che lo aveva portato a punire l’invidia di Remo con la morte, e che poi, negli anni, lo aveva spinto nel baratro del pentimento: aveva a lungo cercato un sostituto, un simulacro di suo fratello, e credeva bene di averlo trovato nella sua conquista, la sua nuova metà, l’Impero d’Oriente; ma la somiglianza era scarsa e il ricordo insostituibile. Sospirò, augurandosi che ai suoi nipoti non toccasse la triste sorte da lui dolorosamente sperimentata d’esser divisi per sempre.

“Te lo racconterò domani. Ora è tardi, andate a dormire.”

E Romano si rabbuiò, zitto: sapeva che il domani non arrivava mai, e non sarebbe arrivato nemmeno quella volta. Ma, mentre veniva posato nella culla dalle forti braccia di Romolo, prima di assopirsi, promise a sé stesso che avrebbe cercato Remo e avrebbe risolto l’enigma.

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Capitolo 2
*** L'asse [1945] ***


Grazie Viadyn Lady Daethedr per aver letto il capitolo precedente!
Premetto che non sono nazista, fascista, appartenente all’estrema destra e così via. Questo capitolo è il più vecchio della raccolta, oggi in televisione hanno rievocato nuovamente l’attacco di Pearl Harbour in un documentario e colgo l’occasione per pubblicarlo. Buona lettura e spero che vi piaccia!
 
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Da quel momento il mondo aveva cominciato a girare più velocemente, il suo cuore a battere più forte. Quel vortice aveva risucchiato e trascinato all’inferno ciascuno di loro, nell’abisso più nero e spinoso che avesse mai immaginato.
Francia era stremato, Inghilterra per quanto potesse soccombere non si sarebbe mai arreso, Cina aspettava l’occasione propizia per distruggere le proprie catene. Quanto ai suoi –amici? No- alleati, aveva inciso nel cuore con il sangue le date della loro morte: 1945, la recente dipartita di Germania, uno spirito guerriero, ambizioso e folle al suo pari; 1943, l’anno in cui aveva incominciato a morire Italia … nonostante l’ avesse tradito, non aveva potuto fare a meno di interessarsi delle sorti di quell’Italia ignorante e gretta che diffidava dei musi gialli e di compatire la lunga agonia di una nazione spaccata in due, due fratelli destinati ad ammazzarsi l’un l’altro in una sanguinosa guerra civile.
Non era ancora finita. Sapeva che, presto o tardi, Russia sarebbe venuto a prenderlo, emergendo spettrale dalle acque del mare che avevano in comune: immaginò che si sarebbe spartito i suoi vestiti –le sue terre- , le sue medaglie –le sue ricchezze- e la sua servitù –i popoli da lui sottomessi- con America, giocando a morra cinese sul suo cadavere. No, probabilmente America non avrebbe mai sopportato l’idea di condividere un simile bottino di guerra proprio con il suo più talentuoso e martoriato nemico-amico e si sarebbe dato da fare per precederlo sulla costa. Sfilò leggermente la sciabola dal fodero e li attese: li odiava, li odiava tutti. Non aveva alcuna voglia di rivedere i loro visi, né desiderava rievocare alla mente quelli dei defunti commilitoni. Erano sempre loro, sempre gli stessi, bravi soltanto a ferirsi a vicenda ma ogni volta in un modo diverso e più…crudele.
 
Lui, Giappone, era l’ultimo rimasto ancora in piedi.
Era rimasto esterrefatto nel ricevere al posto delle condizioni di resa quella spregevole missiva, quell’insulto ignobile, quella straordinaria insubordinazione: così aveva stretto nelle mani la dichiarazione di guerra fino a stracciarla e aveva dato animo e corpo nell’accettazione della sfida, con l’intenzione di insegnare agli Stati Uniti quanto temibile potesse essere la potenza di un Impero. Il suo Impero.
 
La guerra lo aveva disonorato: dipinto come un mostro, annunciato come un pericolo, aveva ottenuto a caro prezzo il rispetto e il timore che aveva a lungo desiderato dalle altre nazioni del globo. Si infilò i guanti per nascondere le cicatrici delle mani, marchiate indelebilmente dalle ferite procurategli da alleati e nemici. Italia gli aveva voltato le spalle per abbandonarsi ad un supplizio peggiore della sconfitta, Germania era stato brutalmente annientato in vendetta del sangue dei popoli che aveva versato: ma loro tre avevano un ideale e ci avevano creduto fino alla fine. Allo stesso modo lui, Giappone, avrebbe combattuto fino alla fine: per onorare i sacrifici affrontati sino ad allora da tutti e tre –arrendersi avrebbe significato vanificarli- , per imprimere un’impronta sublime al loro supremo ideale.
Sarebbe morto, Giappone.
 
“Sto morendo”
Lo aveva realizzato nel momento in cui aveva sentito cedere Germania. Italia gli aveva insegnato a ridere delle proprie disgrazie, sventure e sconfitte –Me ne frego!- ma lui non era ottimista, credulone e superficiale quanto il suo compagno: lui sarebbe andato incontro alla morte con tutta la sua serietà e la sua superiorità morale. Nobiltà d’animo? No, lui aveva venduto la sua anima. Non restavano che la vittoria o l’annichilimento, il tutto o il nulla.
Lui, Giappone, del resto proprio non sarebbe riuscito a vivere in un mondo che non avesse l’Impero e la memoria dei suoi defunti compagni come asse. 

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Capitolo 3
*** Separati da una cortina di ferro [1945-1957] ***


America si chiese da quanto fosse cominciata veramente.
La cortina di ferro, così come Regno Unito aveva preferito definirla, era calata forse quando Russia aveva annunciato gonfio d’orgoglio il suo piano nucleare?
 
America ricordava benissimo la sfacciataggine del sorriso di Russia, la presunzione con cui aveva spiegato il braccio come a dire “Te l’avevo detto: se ci sei riuscito tu, posso riuscirci anche io. E ora te l’ho dimostrato. In più, ci sono riuscito da solo.” … quella volta, America si era messo davanti allo specchio e aveva finito con l’appoggiarvisi con i pugni.
Russia non capiva, non avrebbe mai potuto capire, e quei folli sorrisi non attestavano altro che la leggerezza e la noncuranza con cui avrebbe reso realtà le sue minacce: voleva solo farli morire di paura o faceva sul serio? America stesso era spaventato, immaginando che Russia fosse davvero capace di esplodere un ordigno letale come la bomba atomica in destinazioni casuali, e sapeva che avrebbe dovuto rispondere al fuoco col fuoco. Dopotutto, lui aveva le sue bombe ad idrogeno…
No, lui non ne sarebbe stato capace. Al contrario di Russia, avrebbe potuto soltanto abbaiare, e questo proprio perché lui aveva davvero avuto il coraggio di adoperare la bomba A e conosceva in pieno la sua devastante potenza: ben più vivido del Trinity Test sperimentato su sé stesso, lo infestava l’imperdonabile rimorso del Little Boy di Hiroshima e del Fat Man di Nagasaki. Quest’ultimo, molto più inclemente delle critiche avute dagli altri Paesi, non lo aveva mai abbandonato in tutti quegli anni e lui non era mai riuscito a perdonarsi di aver massacrato tanto brutalmente Giappone, sperimentando sulla sua pelle la più terrificante delle sue armi. Ricordò che, tra le motivazioni che l’avevano pressato a sganciare il letale ordigno, c’entrava pur sempre Russia.
 
A Jalta aveva vinto lui.
Non aveva avuto alcun rispetto della debolezza del suo presidente e aveva avanzato le sue pretese con veemenza e determinazione: Regno Unito aveva arbitrato l’incontro in silenzio, prendendo le distanze dai due poli appena formatisi, intuendo un pericolo provenire dal sovietico. Probabilmente se non l’ avesse ottenute con la diplomazia, si sarebbe preso ciò che gli spettava con la forza.
“Non è giusto” aveva protestato Russia, con una rabbia latente nascosta dietro l’espressione fanciullesca di delusione e di rassegnazione. Non aveva parlato fino a quel momento ma, pronunciata quella frase, non si era più arrestato e nessuno era stato più in grado di fermarlo “Io sono quello che ha combattuto di più in questa guerra! Ho affrontato un attacco da parte dei miei alleati con le mie sole forze, ho sanguinato, ho subito, ho aspettato… ho dispiegato tutte le mie forze in tutte le direzioni e in tutti i fronti per potervi venire incontro! Voi tutti avete preteso la massima serietà del mio impegno oltre ogni limite, adesso io pretendo un riconoscimento e una ricompensa!”
In quel frangente, Russia aveva suscitato in lui una commozione inaudita. E come non compatirlo? Lo avevano soprannominato “Rullo Compressore” e, come tale, lo avevano sfruttato su ogni fronte per poter guadagnare del tempo su Germania, l’alleato che inspiegabilmente e improvvisamente aveva mosso le armi contro di lui.  Si era davvero sacrificato fino all’ultima goccia di sangue e, sebbene distrutto, trovava ancora la forza di non cadere: come avrebbero potuto dirgli che i suoi sacrifici erano vani?
Dopotutto , aveva pensato America, nulla è deciso e non vi è ancora nulla di definitivo: diamogli pure ciò che desidera per motivarlo e non perderemo la sua collaborazione.
D’accordo con Inghilterra, pagarono un ulteriore impegno di Russia a carissimo prezzo: volendolo investire di un ruolo importante e desiderando alleggerire i loro oneri bellici, gli commissionarono, senza la sicurezza che sarebbe stato in grado di arrivare a tanto, la presa delle armi contro il Giappone contemporaneamente all’avanzamento sul fronte tedesco ; Russia accettò ciondolando bambinescamente con il capo e in cambio chiese mezza Europa.
 
Dì lì a concedergliela su un vassoio d’argento, America pensava che la strada fosse ancora lunga.
E invece no.
Russia lo sorprese: sconfessando ogni sua aspettativa sulla sottomissione di Germania, Russia era già a Berlino ad attenderlo con la sua formidabile armata. Gli sorrise, volendo attirare su di sé un elogio per il lavoro svolto e, passandogli di fianco, si diresse immediatamente sull’altro fronte dicendogli: “Sono stato di parola, ora sta a te rispettare i patti.”
America  aveva sentito un’impellente fretta gorgogliargli dentro.  Russia si era già preso Berlino, non poteva permettersi di lasciargli mettere le mani anche su Giappone altrimenti la sua supremazia sarebbe stata schiacciante: tutti loro avrebbero dovuto osannarlo per aver chiuso definitivamente la partita e, soprattutto, ratificare tutte le sue pretese.
Offrirgli la vittoria sul Giappone e quindi la conclusione del conflitto sarebbe stato un errore ben più grave dell’essersi fatto anticipare su Berlino, questa volta non avrebbe potuto permettersi il lusso dell’indecisione. Un minimo ritardo sarebbe stato fatale.
A Postdam lanciò un ultimatum a Giappone: non avendo risposta soddisfacente, lo freddò con le due esplosioni più terrificanti della storia. Un finale così onnipotente ed assoluto da imprimere indelebilmente un’immagine di sé schiacciante e irraggiungibile. Lesse con soddisfazione lo stupore congestionatosi sui visi sconvolti dei suoi alleati, ma l’appagamento durò poco…
 
Aveva comprato con la fame il rispetto e la stima dei paesi occidentali, aveva piegato tutti gli altri con il terrorismo nucleare: ma, nonostante questo, Russia continuava a trascinare gli altri Paesi dall’altra parte della cortina, inarrestabile e silenzioso. America sapeva che Russia sapeva che lui lo stava guardando: come un bambino che lo faceva apposta a fargli quel dispetto, Russia aspettava e sorrideva dalla sua fumosa e gelida metà perché confidava che, presto o tardi, si sarebbero incontrati a metà strada.
Lo aspettava per la resa finale dei conti.

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Capitolo 4
*** Festeggeremo fino all'alba, e questa non ci coglierà impreparati [1861-2011] ***


Questo capitolo è risultato il primo classificato del contest “Nagagutsu de kanpai da! Hetalia” dell’Axis Powers Hetalia Fan Forum. Sono molto soddisfatta di questo risultato!
-Avvertenze: Feliciano è 2P!Feliciano (o Feliciano OOC di Dark Hetalia) e ho infranto il canone secondo cui lui e Romano siano fratelli di sangue.
-Note: Questa storia l’ho scritta due anni fa, quando ero in collegio assieme alla mia amica che studiava arabo e mi traduceva i discorsi di Gheddafi e sentivamo gli aerei che passavano sopra la struttura. L’input della storia è stato un compagno di corsi che ci disse che probabilmente non sarebbe più venuto all’università poiché lui ed altri ragazzi avevano ricevuto una strana lettera di chiamata che esortava a “tenersi pronti”.
- Note storiche: La festa dell’Unità la conosciamo tutti  e, sì, si parla anche di Odissea all’Alba – come siano collegate tra loro preferisco non suggerirlo. Napoli era stata eletta come centro di coordinamento delle operazioni e assieme a una serie di basi NATO del sud, tra cui Amendola. Per quanto riguarda il debito del Piemonte non l’ho inventato, si può ritrovare in molti saggi dell’epoca.
+++
 
Era mattina e il sole splendeva più che mai sul Bel Paese.
Feliciano spalancò le ante del balcone e vi si affacciò lasciando che la luce lambisse tutta la sua figura: ogni città era in festa.
“Guarda come sono felici” osservò, con un sorriso candido ed apparentemente gentile, le bandiere, i festoni, gli annunci allestiti appositamente per il giorno del loro compleanno. Erano centocinquant’anni, finalmente: così aveva parlato, commosso, della loro tanto agognata riunione sfruttando ogni mezzo possibile e immaginabile in modo da far nascere alla nuova generazione di italiani quell’amor patrio per cui i loro avi avevano a lungo lottato e che loro sembravano avere perso. Ed era stato un successo clamoroso: arrivati finalmente al diciassette marzo, tutti si sentivano più allegri, più uniti, più italiani. “Tutti ci amano. Buon compleanno, Sud.”
Si voltò per osservare il fratello acquisito: quante volte lo aveva guardato dall’alto in basso nei giorni in cui doveva ancora abituarsi alla sua compagnia? Lo aveva sempre considerato un incapace e , ora se ne rendeva conto, non avrebbe mai potuto avere più torto di così: tra lui e Romano vi era un’intesa perfetta, mai avrebbe potuto trovare un complice più efficiente e valido. Quante volte lo aveva nascosto ai suoi amici influenti per timore che quello straccione avesse potuto fargli fare una brutta figura? Nella divisa militare da parata di quel giorno, Romano sembrava tutto fuorché un pezzente: si era finalmente deciso a valorizzarsi – il che era necessario, dal momento che doveva comparire in pubblico quell’oggi- e , doveva ammetterlo, conservava nella sua persona un fascino selvaggio ed antico.
Peccato per quegli occhi. Leggermente più fosche e avvelenate dei suoi limpidi occhi nocciola, le iridi di Romano lo scrutavano sempre in silenzio, senza far domande, con il medesimo sguardo indomito del Regno delle Due Sicilie, il padre contro il quale lui l’aveva persuaso a prendere le armi e a…unificare l’Italia.
Sì, era così che l’avevano raccontato ai posteri.
La verità era che quella nazione, un tempo potente ed antica al punto da essere persino cantata da Shakespeare al suo posto,  era l’unico ostacolo –ovviamente dopo lo Stato della Chiesa- che impediva la loro unificazione. Feliciano aveva bisogno di quei soldi, quelli con cui pagare i debiti del Piemonte. Così non ci era voluto molto a persuadere quel sempliciotto di Romano a ribellarsi alle angherie che costantemente subiva dal padre, maltrattamenti che non aveva avuto neppure il bisogno di inventare tanto che erano atroci ed esasperanti, con la promessa che al suo fianco sarebbe divenuto una grande nazione.
Lo aveva convinto ad ammazzarlo. E Romano, disperato, l’aveva accoltellato alle spalle.
Non era mai riuscito a perdonare a sé stesso quel gesto, figurarsi perdonare lui, ed ogni tanto Feliciano rivedeva nei suoi occhi sempre così torvi il fantasma di quel rimorso come un biasimo diretto a lui: tuttavia lo dimenticava presto, pensando che, dopotutto, non poteva farci nulla.  Sì, a Romano non andava mai bene niente. Romano si lamentava sempre per tante cose e sembrava non fosse in grado di fare altro che piangersi addosso anziché prendere le redini di una situazione, rimboccarsi le maniche ed affrontarla da solo: era una debolezza che gli tornava utile perché, a patto di qualche protesta, gli lasciava carta bianca sulle decisioni dell’intera nazione, ma era anche il motivo per cui Feliciano si sentiva così responsabile nei confronti dell’altra metà del paese, così bisognosa del suo aiuto.
“Tanti auguri, Nord” gli rispose quello, addolcendo finalmente il suo sguardo severo, mentre impugnava la staffa della sua bandiera. Guardava da lontano la festa svolgersi al di sotto del balcone, come se non ne facesse parte. Il fratello immediatamente gli passò un braccio intorno alle spalle e lo fece avanzare verso la luce. “Avanti, non startene in disparte! Questa è anche la tua festa, non dimenticartelo!”
L’altro sospirò profondamente.
“Hai ragione” riconobbe, ma subito si scrollò di dosso l’abbraccio del fratello, lasciandolo interdetto. Non era il momento per festeggiare, evidentemente: Romano indietreggiò, ritornando nella penombra creata dalle tendine, e, completamente contrario all’atmosfera che vigeva quel giorno, domandò: “Ma per quanto tempo vorrai ancora nasconderlo?”
Il colpo andò a segno: la vigliaccheria di entrambi, ma in particolar modo di Feliciano, era sempre una corda bollente, e il ragazzo subito si strinse nelle spalle fingendo di non capire. In realtà, Feliciano aveva capito benissimo.
“Tu hai paura.” Lo accusò quindi, Romano, prendendolo in contropiede. L’altro mise immediatamente il broncio, sentendosi incompreso: non era paura, voleva solo delle garanzie certe prima di mettersi in moto.
“Non è come pensi, Sud.” Spiegò pazientemente, chiudendo il balcone per la paura che qualcuno potesse udirlo. “Non ho paura, solo voglio verificare quanto siano attendibili le dichiarazioni dei nostri vicini. Russia lo vedo troppo restio, mentre Spagna è ancora titubante…”
“Ma abbiamo dalla nostra Stati Uniti, Francia e Portogallo.”
“Ah, Portogallo!” esclamò quello, come se fosse stata una battuta. Romano prendeva sul serio in considerazione la proposta di un paese sull’orlo del collasso? “Non metto in dubbio la sua forza di volontà, ma ritengo che sia in condizioni troppo deboli per sostenerci davvero. Guardalo, Romano: non si regge nemmeno in piedi! Io non conterei troppo su di lui, fossi in te.”
“Stati Uniti fa sul serio però”
“E’ troppo lontano da noi e dai nostri problemi. Non può capire.” Obiettò l’altro, ricordando la bruciante onta del Patto Atlantico. Ma non poteva ignorare le parole del fratello, né sopportare l’idea di dover portare un fardello simile senza poter intervenire con una propria scelta. Quindi si arrese e gli rivelò: “Ma sono andato a Parigi e ho preso accordi con Francia. Abbiamo già il nome dell’operazione, molto poetico devo dire.”
“Bene.” La risposta secca dell’altro. Si aspettava la classica richiesta “Romano? Te la senti di…”  con la quale lo avrebbe convinto a correre i rischi maggiori dell’operazione, ma non arrivò. Arricciò un sorriso sulle labbra, comprendendo che Feliciano non aveva neppure bisogno di esprimerla: non importava come, sarebbe finita esattamente come ogni volta. Che esaudisse il suo desiderio o che, credendo di aver finalmente preso una decisione autonoma, finisse con l’essere manovrato dal suo abile fratello minore, lui avrebbe fatto comunque ciò che Feliciano si aspettava da lui: e ci era già dentro. “Ho inviato da una settimana le chiamate ai ragazzi dell’85 della Campania. Attendiamo un ordine ufficiale prima di poterci muovere.”
Feliciano portò una mano alla bocca, forse per nascondere il fatto che si stesse nervosamente mordendo il labbro, pensoso. Quell’indecisione certamente non avrebbe giovato all’operazione che volevano intraprendere, quindi non dovevano esserci né dubbi né ansie. E allora perché stava tremando?
“L’ordine partirà all’alba… tra domani o dopodomani…i preparativi sono stati tutti ultimati.” O quasi, per la precisione. Ma la ricorrenza del loro compleanno aveva sopperito prodigiosamente a una dannosa propaganda bellica e tutti gli italiani si sentivano più buoni e più uniti. Sembrava quasi Natale! “Senti, Romano… vorrei che assumessi tu il controllo dell’operazione, dato che ti riguarda più da vicino…”
L’altro ascoltò ed annuì immediatamente, con un gesto deciso ma meccanico. “Nessun problema.” 
Tuttavia Feliciano non sembrava contento di quella risposta: no, no, no! Così non andava affatto bene! Non poteva rassegnarsi ad ogni cosa! Doveva decidere anche lui, alla pari, almeno quella volta!
Almeno quella volta…
C’era forse in lui un inconscio bisogno di riscattare il fratello dalle umiliazioni che aveva sempre subito? Cosa voleva veramente lui da Romano? Feliciano non sapeva esprimersi: fremeva, si agitava, piangeva, ma dalle sue labbra non usciva alcun suono. Avrebbe voluto dirgli semplicemente “ti voglio bene”.
L’altro si accorse di quel repentino cambiamento d’umore e, posata la bandiera contro lo stipite della porta, si avvicinò a Feliciano e lo abbracciò forte, stringendolo a sé con il mento sulla fronte di lui.
“Di cosa hai paura, stupido fratellino?” chiese, sussurrandolo dolcemente. “Ti proteggerò io.”
Il settentrionale si accoccolò ancora più docilmente tra le braccia del fratello. Come si poteva non voler bene a Romano? Forse il bene che Romano voleva a lui superava di gran lunga il rancore dei secoli passati, facendo sì che lo perdonasse. Forse lui non era meritevole di quel bene. D’altronde, come si poteva voler bene a lui, Feliciano?
“Basta così” concluse il maggiore, staccandosi dal fratello. Se avessero continuato a parlare di quell’argomento Feliciano avrebbe finito sicuramente per piangere o agitarsi inutilmente, e sarebbe stato davvero un peccato, considerato che quello era giorno di festa. E non di una festa qualunque. “Non sopporto di vederti piangere anche il giorno del nostro compleanno, è una cosa che mi fa davvero incazzare. Muoviti, dai, fuori c’è tanta gente che ci aspetta. E’ la nostra festa, Nord”
Feliciano annuì, prese un bel sospiro e si fece coraggio. Vide Romano voltarsi, precederlo con l’infantile minaccia del “guarda che ti lascio qui se non ti sbrighi!” e svanire oltre la porta con il suo splendido tricolore ondeggiante. Quindi lui, cercando di recuperare il sorriso di quella mattina, raccolse l’asta della sua bandiera a sua volta ma la tenne con mano malferma:  prima di uscire volse un’occhiata fuori, dubbioso, e vedere tutta quella gente festante gli annodò un magone colpevole alla gola.
Oh, se sapessero! Poveri festanti, ignari del pericolo!
Decise nuovamente di ritardare l’annuncio: avrebbe concesso loro almeno quell’ultimo giorno di festa, finchè tutti avrebbero potuto permetterselo. Dopotutto, l’Italia e gli italiani, che tante sofferenze avevano patito nel corso della storia, se lo meritavano.
“Non c’è proprio niente da festeggiare, in realtà…”
 

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Capitolo 5
*** Io sono nato libero [1915] ***


“E’ la tua occasione, te la stiamo offrendo sul piatto d’argento”
Da qualche tempo Feliciano aveva cominciato a considerarsi un adulto. Andare a vivere per conto proprio –non esattamente da solo, considerata la presenza di suo fratello Romano che però non gli era di alcun conforto o giovamento- aveva completamente cambiato il suo modo di pensare, parlare e di agire: là fuori c’erano tante volpi scaltre, tanti lupi pronti a raggirarti ed azzannarti.
Homo homini lupus, suo nonno glielo diceva sempre: era tutto vero.
Là fuori, inoltre, c’era la guerra.
Dalla finestra ogni giorno sbirciava i monti che circondavano la sua casa e vedeva file di soldati partire per i fronte: lui non era certo un cuor di leone e, per inesperienza, vigliaccheria forse, si era illuso che chiudersi in casa sarebbe bastato a preservarlo dalle mostruose atrocità che avvenivano ai confini.
Ma una sera avevano bussato alla sua porta e nulla era stato più lo stesso.
“Ascoltaci: tutti danno Austria per sconfitto, è solo una questione di tempo.”
Austria, ricordò in un sussulto, il suo vecchio tutore: o forse, più d’un tutore, era stato per lui un vero e proprio tiranno; il ricordo di tutte le vessazioni e le umiliazioni che gli erano toccate subire sotto lo schiocco della sua frusta lo fecero immediatamente racchiudere su se stesso, in un gesto che non si accorse neppure di compiere, in virtù di una paura inculcata nel profondo.
“Non hai alcun motivo di affondare con lui.”
Impero Britannico era persuasivo, piccato, essenziale: eppure ogni sua parola lasciava sbigottito il giovane. Dei tre uomini che erano entrati in casa, due erano vecchie conoscenze – e non del tutto piacevoli, per la verità- delle due Italie, l’altro, che stava in disparte ad osservare silenzioso accanto alla porta, Nord ricordava di averlo conosciuto solo di vista: lo aveva sempre immaginato diverso Impero Russo, eppure non riusciva a non provare un moto di soggezione nei suoi confronti.
“Se tu…”
Ad un tratto si intromise Francia, sollevando le mani e avanzando verso di lui. All’interlocutore sfuggì il gesto di intesa che invece i suoi complici colsero, quel lasciate fare a me: di certo lui era il più indicato a trattare con le Italie, nonché il più abile e suadente. In fondo erano vecchi amici, anche se Feliciano in quel momento, a causa dello shock, non era in grado di capire se quella fosse la verità e quanto invece gli avessero fatto più male che bene i suoi migliori amici – come si erano presentati.
“In nome dell’amicizia che ci lega, dovrai mantenere il segreto” addusse quindi l’idea che quello fosse un privilegio che aveva concesso solo a lui e che metteva in pericolo sé e i suoi due alleati – un vero e proprio onore, insomma, del quale Feliciano era obbligato a sentirsi responsabile. “Noi intendiamo liberare le nazioni slave dal giogo dell’Impero Austro-Ungarico, e per farlo crollare abbiamo bisogno di te.”
Feliciano accolse la proposta come una vera e propria congiura e le iridi nocciola si avvelenarono di terrore.
 “Austria si arrabbierà moltissimo quando saprà” dichiarò, con voce sommessa e tremando vistosamente “Sarà furibondo!”
“Il tuo aiuto è indispensabile” incalzò Francia, comprensivo, poggiando una mano sulla spalla dello sciocco e ingenuo ragazzo: gesto che voleva comunicargli la pesantezza di quell’onere, di una cosa che andava fatta, e al contempo instillargli una luce d’orgoglio. Perché lui era unico e insostituibile, indispensabile per la loro scalata al monopolio d’Europa. E Feliciano sollevò gli occhi lucidi, abortendo il vergognoso pianto sul nascere, per la prima volta sentendosi investito di fiducia: solo lui, lui soltanto poteva aiutarlo, e dalle sue mani dipendevano le sorti di tutte le nazioni balcaniche. “Sei la persona più vicina ad Austria: dovrai essere tu a farlo.”
“Ma Austria si fida di me… abbiamo un accordo…” mormorò lui, con voce appena percettibile e poco mordente, ovviamente ignorato dal trio. Forse in quel momento si era misurato e si era reso conto di non essere una nazione capace di agire da sola –come l’avrebbe detto alla sua metà, poi?- , ma la fierezza lo spinse in avanti, desiderando ardentemente di coinvolgersi in una grande impresa che lo avrebbe avvicinato ai grandi. Per essere più simile a Francia, Impero Britannico e Impero Russo. “Cosa?”
“Vieni” la voce chiara ed estremamente ingannevole di Impero Russo interruppe strategicamente la conversazione, sospendendola al suo culmine, e attirò l’attenzione sulla sua persona: Feliciano si voltò, trascurando il dettaglio di aver taciuto e quindi non aver negato subito il coinvolgimento in un vero e proprio tradimento, e gli vide sollevare il braccio in modo da riaprire la porta, con in viso un sorriso disteso. C’era un’altra persona che aspettava fuori, dunque. “Voglio presentarti una persona.”
I passi, trascinati con una pesantezza involontaria, lo portarono fino a lui: era un ragazzo magro, bruno, anch’egli dall’aria inesperta e giovane proprio come lui; indossava una divisa grigiastra con un curioso berretto che ricordava per la sua forma l’interno cavo di una barchetta e aveva nella mano destra una pistola.
“Lui è Serbia.” Impero Russo lo presentò, e lui a sua volta si presentò con uno sguardo indomito che restò ben impresso nella mente di Feliciano: sino ad allora aveva sempre pensato male di lui, in un primo momento che fosse solo una nazione anonima ed arretrata, poi che fosse un terrorista, ma di persona faceva decisamente un altro effetto; riconosceva in parte il suo stesso sguardo in quegli occhi cupi e determinati che sopprimevano la paura innegabile con la fermezza. “Ho pensato di fartelo conoscere: avete tante cose in comune e tante altre di cui parlare, suppongo.”
“Piacere.”
La stretta di mano di Serbia fu serrata e decisa, più forte di quella blanda di Settentrione.
“Piacere mio…”
 
Quando si presentò al cospetto di Austria non era più lo stesso.
Gettò il secchio a terra, con fare provocatorio, e l’acqua torbida e avvelenata prese a scorrere sul marmo bianchissimo del palazzo, infiltrandosi tra le fessure candide: Austria, avvertendo lo schianto, sollevò appena lo sguardo su di lui, per nulla impressionato; immaginava si trattasse della solita maldestra distrazione da parte del suo vecchio subordinato ma, quando si accorse che Feliciano gli scontrò quello sguardo ardente e che quindi qualcosa era cambiata, finse di non vedere nulla.
“Raccatta e pulisci” sentenziò con disprezzo, poi tornò a voltargli le spalle ma non vide dal riflesso del finestrone lucido il ragazzo chinarsi, tutt’altro: era ancora in piedi, per giunta osava alzare il mento e fare lo sfrontato con lui. Austria decise di non essere disposto a tollerare oltre.
Si voltò, dunque, accogliendo la ribellione del ragazzo come una dichiarazione di guerra.
“Allora?”
Attese, gelido e sottilmente irato, che scattasse qualcosa: un altro gesto insolente, una parola rabbiosa repressa in tanti anni di sofferenza, ma per lungo tempo non vi fu altro che il silenzio. L’altro si sforzò di non chiudere gli occhi, di non indietreggiare, di puntare dritto al suo orgoglio.
“Perchè l’hai fatto?”, aveva chiesto a Serbia la notte precedente riguardo alla manovra che aveva trascinato il suo paese e l’intera Europa in guerra come prezzo della sua mancata sottomissione, e lui gli aveva risposto “Perché sono nato libero.”
Si sfilò allora dalla testa il fazzoletto candido che aveva adoperato in quanto membro della servitù e lo strinse forte nella mano, mostrandolo ad Austria.
“Non sono più il tuo servo!” sentenziò poi con disprezzo e stizza e lo gettò a terra come se fosse stato il più immondo e misero straccio. Austria aprì bocca per dire qualcosa, ma gli si mozzò quasi il respiro a quella vista e calò di nuovo un tagliente silenzio. “Dovrai fare a meno di me.”
Poi si allontanò, sapendo che Austria non avrebbe mai capito.
Quella stessa sera, con le mani ben accorte a coprire il fono dell’apparecchio telefonico in modo da non importunare il sonno di Romano, chiamò Francia e pronunciò una sola parola.
“Accetto.”

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Capitolo 6
*** Che Dio mi aiuti [1936-1939] ***


Spagna soffriva terribilmente.
Stringeva i denti, strizzava gli occhi, barcollava stringendosi una mano sul petto: era così stanco, ma non poteva permettersi di riposare un solo secondo. Il suo era un male che lo stava lentamente distruggendo da dentro: lo chiamavano guerra civile e, benché non fosse una nuova sensazione, Spagna non ricordava di aver provato un dolore così straziante prima d’ora. Era malato, sì, molto malato, e a nulla sarebbero serviti i suoi tentativi di tenere nascosta agli altri la sua debolezza: Portogallo ovviamente se n’era accorto e subito gli aveva domandato  se stesse bene;  Spagna, orgogliosamente, si era ritratto e aveva mentito.
Sto benissimo.
Ma la verità era un’altra. Quanto ancora sarebbe riuscito a resistere prima di crollare?
 
Portogallo si dondolava sulla sedia dello studio del suo omonimo presidente del consiglio, ancorando i piedi scalzi sulla scrivania di cristallo e le mani intrecciate dietro la nuca. Pensava a Spagna e alla sua stupida ostinazione: stava forse aspettando che le sue febbri si incendiassero tanto da portarlo alla morte? Beh lui, Portogallo, non avrebbe di certo aspettato così tanto: quella guerra poteva ucciderlo e Spagna era solo uno stupido se la prendeva sottogamba come se fosse stato solo un piccolo conflitto.
Quando entrò il dittatore, Portogallo non si scompose: c’era nella nazione chi lo odiava e chi lo amava, ma Portogallo pensava semplicemente che gli servisse un uomo di quello stampo per dirigere unilateralmente e velocemente le sue azioni; ben lungi dalla natura mite e placida di tutti i portoghesi, c’era in lui quella punta di ferocia guerresca che da troppo tempo aveva creduto sopita nel suo spirito centenario. Dopo secoli di relativa immobilità, finalmente aveva cominciato a sgranchirsi gli arti intorpiditi e, una volta completamente scatenato, nessuno sarebbe più stato in grado di fermarlo.
Volse uno sguardo sagace al suo omonimo e , scivolando giù dalla sedia, gli annunciò: “Ho deciso di intervenire.”
Portogallo non si soffermò neppure ad osservare l’espressione dell’altro, immaginando che vi avesse preso una forte soddisfazione. Di Spagna era meno sicuro, ma, se fosse stato necessario, Portogallo avrebbe agito persino contro di lui per il suo bene. E –perché no?- anche per i suoi interessi: dopotutto anche lui aveva sempre qualcosa di buono da cavar fuori dalle situazioni disperate.
“Voglio fare qualcosa per Spagna”
Il dittatore lasciò la stanza. Portogallo, intanto, si infilava a callo vivo gli anfibi pensando a che soddisfazione avrebbe provato quando Spagna finalmente sarebbe stato bene: bene come lui, con una dittatura e qualcosa in più in comune…e niente scherzi, perché lui faceva sul serio.
Oh, sì! Spagna lo avrebbe ringraziato di cuore.
 
La notizia della malattia di Spagna aveva raggiunto anche l’Italia.
Due fratelli, divisi sulle modalità di intervento, stavano l’uno di fronte all’altro. Il primo, il maggiore, era seduto e si teneva la testa tra le mani: era preoccupato per Spagna e ancor di più dal fatto che la sua malattia potesse attirare eventuali sciacalli in cerca di ricchezza e gloria dilaniando quello che sarebbe rimasto di lui. “Cosa facciamo?”
L’altro, il minore, sollevò lo sguardo con fare vago.
“Ho parlato con Portogallo. Ha detto di voler guarire Spagna a tutti i costi, se necessario arrivando a marciare al suo capezzale e costringerlo a ingoiare il cucchiaino con la medicina.” Gli rivelò, suscitando subito uno sguardo adirato del fratello: aveva preso accordi con Portogallo e non gli aveva detto niente? Ma non c’era nulla da temere, la loro era stata una semplice conversazione, uno scambio di informazioni nulla di più. “Secondo me ha ragione.”
Questo non sollevò affatto la preoccupazione del maggiore, al punto che il minore dovette rincarare la dose. La questione non era cosa faceva Portogallo, ma cosa avrebbero fatto loro due.
“Tu cosa hai intenzione di fare?”
“Vorrei aiutare Spagna” confessò infine, con un po’ di vergogna.  Era una decisione che covava da tempo ma, per qualche ragione, non era riuscito ad esprimersi prima di Portogallo: questo non significava però che lui alla salute e al bene di Spagna tenesse meno del suo amato-odiato fratello. L’Italia, prima di agire, voleva assicurarsi che quello comportasse davvero il bene di Spagna. “Ma lui non lo accetterà mai. Dirà che mi sono intromesso nei suoi affari senza averne il diritto, che può benissimo cavarsela da solo senza bisogno di aiuto, che…”
“Si, ho capito. Ma tu gli dirai che non sopportavi di vederlo soffrire in quel modo, cioè la verità.”
“E’ davvero la verità, Feliciano?” Il sorriso beato del fratello sembrò incrinarsi. Non c’erano santi in quella guerra e anche loro, come Portogallo, avevano degli interessi precisi nell’intervento in Spagna. Magari non lo facevano per il suo bene, ma per il loro sì. “Credo che Portogallo voglia arricchirsi sulle spalle di Spagna, ora che è indifeso e debilitato…”
“E se anche fosse, Romano? Noi avremo comunque Spagna vivo, in salute e pronto a rialzarsi di nuovo. Forse, se tu lo aiuterai adesso che è malato, si ricorderà del tuo incondizionato gesto e ti vorrà ancora più bene…”  
Quegli prese un bel respiro. L’idea era davvero allettante per lui che era sempre così profondamente toccato dalle azioni di Spagna, ma restava sempre il problema del suo orgoglio. La sua metà settentrionale, a questo proposito, aveva un’idea: “E se lo aiutassimo senza farci vedere?”
“Che intendi?”
“Intendo dire…agiamo dalle retrovie, senza essere direttamente coinvolti. Spagna non si accorgerà di nulla, faremo tutto di nascosto.”
Nulla di ufficiale, dunque. Quell’ultima comoda proposta vinse le ultime resistenze del Meridione il quale, alzatosi finalmente in piedi, andò a stringere la mano all’altra sua metà stando a significare che avrebbero agito di comune accordo. Se al Nord interessava quella guerra, allora anche il Sud sarebbe sceso in campo: loro avevano superato la stessa sofferenza che ora pativa Spagna e, così pensava, ne erano usciti più forti ed uniti di prima.
“D’accordo allora. Partiremo domani stesso per la Spagna.”
Poco dopo si divisero:  il maggiore intascò la bussola e si imbarcò a comando della sua ingente flotta, il minore si allacciò il casco e mise in moto le eliche dei suoi bombardieri alla volta della penisola Iberica.
 
Francia non sapeva mantenere i segreti.
Sorridendo misteriosamente, aveva scoccato a Germania un’equivocabile sfida vantandosi di come si era accorto della malattia di Spagna, dei segni che la rivelavano per quanto lui tendesse a nasconderli, di come aveva deciso di intervenire con il suo prezioso aiuto per salvare la vita al suo amico: di queste cose, ufficialmente, non era a conoscenza nessuno ma dai suoi vanti era trasparita l’informazione.
Germania allora decise di prestare attenzione alla situazione e cominciò a tirare le sue somme. L’Italia unita era intervenuta tempestivamente: con un tale dispiegamento di forze, il suo intervento sarebbe stato superfluo ma lui era comunque deciso a lasciare in piccolo anche la sua firma. Misurò le sue forze, pianificò l’attacco e si schierò anche lui nella diabolica formazione di Italia e Portogallo, quella che secondo le sue previsioni avrebbe avuto la meglio ed avrebbe rispecchiato più fedelmente lo spirito della sua stessa nazione. L’idea di convertire Spagna  sul letto di morte ai principi spiccatamente nazionalisti che condivideva con le altre due nazioni e quindi guarirlo lo affascinava molto. Spagna, rinato e rimodellato come lo desideravano loro, sarebbe stato un formidabile alleato…
Sollevò la cornetta del telefono: “Spagna, sto arrivando. Italia, Portogallo, sono al vostro fianco.”
Poi, senza nemmeno attaccarlo, lo sbatté contro il muro lasciandolo penzolare come un impiccato mentre lui lasciava il suo paese.
 
Così Spagna si vide accerchiato ovunque.
La ferita di Guernica infertagli da Germania sanguinava ancora a fiotti, nonostante avesse cercato di fermare maldestramente l’emorragia. I Viriatos erano liberi di mettere a ferro e fuoco il paese e , quando aveva chiesto spiegazioni a Portogallo, quello gli aveva risposto che non ne sapeva nulla - “Provalo!”-  e che lui agiva solo per il suo bene. Aveva finito per soccombere sotto i bombardamenti dei caccia e di quell’inavvertita flotta - dietro cui aveva scoperto nascondersi le due metà d’Italia - , ma solo perché non era abbastanza in forze da poter reagire.
“Pensiero, almeno tu che puoi, fuggi per me”
Avrebbe voluto fuggire in Francia, in cui aveva riversato una parte di sé per poterla proteggere, ma era fatalmente inchiodato al suolo della penisola iberica. Non riusciva a rialzarsi perché Portogallo, Italia e Germania lo stavano continuamente schiacciando e calpestando. Non riusciva a guarire perché la sua malattia aveva più potere sulle sue nuove ferite più di quanto non ne avesse lui. Arrancò e tese le mani in avanti, nella folle speranza che qualcuno le stringesse e lo sorreggesse.
Portogallo, Italia e Germania lo stavano ammazzando.
Che Dio mi aiuti.

+++

Note: Grazie innanzitutto per chi ha letto, seguito o recensito la storia ><
Questo è stato il secondo capitolo che scrissi della raccolta ed è molto datato rispetto agli altri; quando l'ho scritto il personaggio di Portogallo di Himaruya non esisteva ancora e così ho adoperato il mio vecchio OC, Salazar (l'omonimia era chiarissima, credo) - avrei dovuto riadattare il capitolo sul personaggio di Portogallo ora esistente ma non me la sono sentita, anche perchè non lo conosco bene caratterialmente e così ho preferito lasciarlo com'era >< per cui se volete potete considerarlo un 2P!Portogallo assieme alle altre nazioni 2P che compaiono in questo capitolo: a proposito, ho sentito dire che hanno dei nomi riconosciuti nel fandom, ma siccome i fandom sono divisi alla fine ho lasciato quelli classici. Spero che la storia vi sia piaciuta!

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Capitolo 7
*** Eri tutto per me [1949 - 1961] ***


Germania sentiva uno stormo di voci provenire dal piano superiore.
Questa volta stavano parlando di lui.
La voce di America, chiassosa e prorompente come sempre, aveva sancito la divisione: benché Russia avesse inizialmente protestato era alla fine venuto subito ai patti e America sapeva quanto Russia adorasse stringere accordi – in fondo era come tutti gli altri, bastava toccare il tasto giusto.
“La separazione avrà luogo tra maggio ed ottobre”
“Posso già cominciare i preparativi?” Russia intrecciò le mani, sporgendosi poi con il busto sul tavolo con aria sonnolenta e tiepidamente compiaciuta: lo allettavano sempre i preparativi per le grandi feste e aveva sempre amato le storie con finali tragici e le separazioni erano sempre così… commoventi. “Non vedo l’ora che arrivi quel giorno. Adornerò la sua stanza con dei girasoli, in modo che anche se sarà la più fredda del palazzo possa trovarla accogliente.”
C’era una persona, convocata straordinariamente e in modo coatto all’assemblea, che ancora faticava a seguirli e a capire che ruolo avesse lui in tutto ciò: quella persona era Prussia. I suoi occhi seguivano smarriti l’andamento del battibecco da una bocca all’altra e tradivano la sua ansia, nonostante fosse riuscito a mantenere una posa decorosa e degna del temibile guerriero che era stato – e, forse, cominciava a capire.
Gli sguardi di America e Russia erano divenuti più intensi e, talvolta, lanciavano messaggi silenti anche a lui: spesso America sistemava gli occhiali in segno che lo stava guardando e che voleva attirare la sua attenzione su una particolare frase, preparandolo chiaramente a una rivelazione; gli occhi freddi di Russia invece avevano una presa salda e vigile sui suoi, con lo strano potere di riuscire a metterlo a disagio persino quando non lo stava guardando.
No, non si parlava di girasoli, accoglienza e premure innocenti.
Quello sguardo che inclinarono su di lui alla fine, ricolmo d’aspettativa e minaccioso, lo inchiodarono letteralmente alla sedia senza alcun bisogno di ganasce: capì in quell’esatto momento cosa stava per accadere, ma anche che non poteva più scappare.
“E tu, Prussia? Non sei impaziente di venire a vivere con me?”
La proposta di Russia era il meglio che poteva essergli offerto in quel momento: lui era uno sconfitto, aveva firmato una resa incondizionata e versava nella miseria, e, sebbene Russia stesso non se la passasse poi meglio di lui, lui aveva bisogno di qualcuno che lo sostenesse. Rifiutare la clemenza di Russia sarebbe stata follia. Eppure…
“No!” La voce di Prussia proruppe con uno squarcio disperato e incredulo. “Non può essere! Già, non può essere! E’ uno scherzo, vero?!”
Germania sentì la vibrazione della sua voce sulla sua pelle, come un rimbombo in grado di percuotere persino le fredde mura rivestite in acciaio di quello che era stato forse un rifugio antiaereo. Scattò con il braccio in avanti in uno sfogo di rabbia ma non riuscì neppure a sferrare un pugno contro la parete: la catena era troppo corta e l’averla strattonata gli fece procurare un taglio ad opera della polsiera di metallo che lo bloccava; abbandonò allora mollemente la mano, rassegnato, ed emise un sospiro, impossibilitato com’era ad aiutare il fratello da quella prigione sotterranea in cui era stato rinchiuso.
Aveva tentato di attribuirsi quasi tutta la colpa della guerra, come anni prima aveva ratificato Francia: sarebbe stato da lui e lui sarebbe stato in grado di rialzarsi una seconda volta, ma non Prussia; la sua magnificenza non avrebbe retto un crollo così rovinoso e avrebbe sgretolato il suo orgoglio di nazione in un solo istante.
Eppure la sorte più crudele non era accaduta a lui: benché non fosse il solo responsabile, il destino di Giappone, annichilito dalle esplosioni nucleari, e di Italia, distrutto da una guerra civile combattuta al contempo insieme e contro suo fratello –o forse proprio contro se stesso-, era stato decisamente più crudele dell’incertezza in cui versava lui ora.
Mentre le urla di Prussia che veniva trascinato con la forza da Russia affollavano tutto il palazzo, America era sceso nei sotterranei per poter parlare con lui.
 
“Ti darò da mangiare e ti porterò dei vestiti nuovi”
Germania stette a fissarlo impassibile, ma anche vulnerabile ed incredulo: America era stato incoraggiante, nella sua semplicità e prontezza l’avrebbe forse spronato a non dimenticare quali fossero le sue priorità, ma anche spiazzante, al punto che Germania aveva creduto di non riconoscerlo più. Non poteva essere lo stesso America che lo aveva preso a calci, quello che a suo dire voleva fare il culo ai nazisti e che rideva crudelmente mentre sparava con l’automatico come se fosse stato tutto un gioco: il suo odio doveva essere stato cieco quanto il suo, come aveva potuto metterlo da parte? Oh, no: Germania non credeva che America avesse smesso di odiarlo. Tuttavia, America non era obbligato ad aiutarlo e questa scelta controcorrente l’aveva destabilizzato del tutto: alla fine non aveva resistito a chiederglielo.
“Perché?” Afferrò le sbarre avvicinando il viso quanto più possibile al suo “Perché lo stai facendo?”
“Eh?”
Era America quello che non capiva ora.
Sì, prima di scendere in quell’angusta prigione aveva ripassato più volte il discorso con cui affrontare Germania, selezionando le parole da riferirgli e cercando di prevedere le possibili reazioni – mise in conto anche lo stato d’animo in cui si trovava, ma non aveva presagito affatto quella domanda.
Fece spallucce: forse doveva parlare col cuore, per una volta, dicendo una cosa che lo avrebbe stupito.
“Io credo che tu sia una vittima.”
Gli occhi cerulei di Germania divennero vitrei, in essi era visibile l’emozione di un grido trattenuto. L’altro cercò di incoraggiarlo con un sorriso e procedette.
“Come me, come Polonia, come Russia, come tutti gli altri. Tutto questo ti sembrerà incredibile: sì, ti odiavo profondamente durante la guerra e ci sono ancora molte cose che non potrò mai perdonarti, tuttavia… la guerra è finita. E quello di cui hai bisogno adesso è di aiuto, ne hai bisogno subito. Rimanderemo a dopo le conversazioni sconvenienti, voglio che tu prima ti sia rimesso del tutto: in questo modo avrai più tempo per pensare.”
D’accordo.
Germania chinò il capo in segno di resa, eloquente e silenzioso.
“E Prussia…?”
“Lo rivedrai...presto.”
Avrebbero preso strade diverse.
Anche se non aveva avuto il cuore di dirglielo quella volta che erano venuti a trovarlo dietro le sbarre, il suo silenzio e il suo scuotere lentamente la testa erano stati egualmente eloquenti.
Lo avrebbe visto dall’altra parte del muro.

 

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