The Unforgiving

di frenz
(/viewuser.php?uid=142517)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Why Not Me? ***
Capitolo 2: *** Shot In The Dark ***
Capitolo 3: *** In The Middle Of The Night ***
Capitolo 4: *** Faster ***
Capitolo 5: *** Fire And Ice ***
Capitolo 6: *** Iron ***
Capitolo 7: *** Where Is The Edge? ***
Capitolo 8: *** Sinéad ***
Capitolo 9: *** Lost ***
Capitolo 10: *** Murder ***
Capitolo 11: *** A Demon's Fate ***
Capitolo 12: *** Stairway To The Skies ***



Capitolo 1
*** Why Not Me? ***





Capitolo 1 - Prologo
Why not me?

 

Mother Maiden:

«Qualcuno potrebbe definire maledizione una vita come la mia, altri una benedizione per tutto quello che i miei occhi riescono a mostrarmi. Di certo è una vita solitaria, nascosta dalla luce del sole ormai da troppo tempo ma appagante, nel migliore dei casi.
È una croce che devo portare e che porto serenamente, una vendetta o un dono di qualche forza sconosciuta ricaduta su di me.
Tramite il mio corpo percepisco le sensazioni e le difficoltà della gente.
Sono i miei occhi quelli che mostrano la verità. Sono bianchi, persi, finti. Come di porcellana. Mostrano morte, dolore, peccato.
Qualcuno dovrebbe schierarsi contro il male... Perché non dovrei essere io?»





Note:
Mother Maiden è un personaggio esistente nel fumetto The Unforgiving di Steven O'Connell.
Nel testo ci sono frasi tratte dalla traduzione della canzone Why Not Me? dei Within Temptation.
Non vi è nessuno scopo di lucro.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Shot In The Dark ***




Capitolo 2
Shot In The Dark

 
 

Londra,  26 Marzo 1967



Una donna cammina nella penombra della notte lasciando intravedere la sua sagoma tra la luce emanata da un lampione stradale ed un altro. Passo deciso, lento, scandito dal rumore dei tacchi vertiginosi che la sostengono. Capelli rossi, sciolti, mossi e fluenti. Indossa un impermeabile che la copre del tutto. Il suo nome è Queen Hackin. È una regina, la regina della notte londinese.
Si avverte un'aria cupa tra i quartieri della città. Tutto puzza di marciume e la gente ubriaca è accasciata a terra. Queen, imperterrita, cammina scavalcando di tanto in tanto quei corpi pesanti, quasi senza vita.
La stretta di una mano la blocca per il braccio destro.
«Ehi bella, quanto vuoi per una notte di fuoco?»
Queen si gira. Un uomo più basso di lei, con una folta barba bianca e con addosso una giacca rattoppata, le sorride ammiccante mentre la divora con gli occhi. Con la mano destra si asciuga le labbra per cancellare i residui di liquore da quel viso ormai trasandato dopo la scorsa sbronza.
«Vattene via!» dice sottovoce Queen. Nel dire quelle parole i suoi occhi, da neri, diventano rossi come il sangue e il colore dei suoi capelli.
«Queen!» balbetta il tizio. Impaurito, ancora con lo sguardo fisso verso la donna, corre in direzione della piazza della città, verso il locale che lo aveva accolto per tutto il giorno offrendogli il nettare che più desiderava. Non curante di quello che gli stava succedendo, l’uomo corre alla cieca, come se ad un certo punto quegli occhi di Queen gli avessero proibito di poter vedere tutto quello che gli sta intorno. Nemmeno i fari della macchina che, all'improvviso, lo travolgono, lasciandolo senza vita sull'asfalto ghiacciato di quel che resta della vecchia Londra.
Queen è impassibile. Lei sapeva. Lei conosceva già questa storia ma è qui per viverla e rendersi protagonista di ciò che le sta intorno. Solo adesso può farlo, adesso che non è più Sinéad.
Continua a camminare, invisibile agli occhi della gente. Arriva di fronte ad un palazzo possente con un grande orologio nella facciata. Si avvicina alla maestosa porta di legno massello, batte il batacchio e aspetta.
Una voce irrompe nel silenzio.
«Chi è?» sussurra la voce.
«Mother Maiden...»
Non finì di dire la frase che la porta si spalancò come se fosse automatica. Di fronte a lei, adesso, si prospetta un lungo corridoio costeggiato da antichi quadri e presentato da un tappeto rosso di velluto. Al centro della stanza una scrivania fa da apertura ed una donna, seduta di spalle, invita ad entrare.
«Sono stata lasciata fuori come una maledetta criminale. Rifiutata da tutti, da ogni aiuto, non sono verso la fine. Combatterò questa guerra fino al giorno della caduta come ti ho promesso, ma mi sto disperatamente aggrappando a tutto. Mi sono persa, così maledettamente persa. Sento ancora le grida di una bambina in preda al panico e fa male, mi fa così male. Uno sparo nel buio e, adesso, sento tutto svanire.» dice Queen.
«La tua anima è in fiamme, Sinéad. Non puoi permettere che tutto vada in pezzi.»
Una forte energia invade Queen dalla scrivania di Mother Maiden. È costretta a chiudere gli occhi, la luce che la investe è troppo potente.
Li riapre dopo un po’. Non ha più addosso quell'impermeabile. Il suo corpo è coperto da una camicia con le maniche legate. I suoi capelli rossi son corti e castani e le lasciano scoperto il viso. Tutto intorno a lei è grigio e la luce entra tramite un piccolo foro sul muro che si trova alle sue spalle.
Entra un uomo in quella tetra stanza, con un camice bianco. Ha una cartella in mano e, dagli occhiali, è riflesso un nome.
«Hackin Sinéad? Mi segua.»





Note:
Queen e Sinéad Hackin sono personaggi esistenti nel fumetto The Unforgiving di Steven O'Connell.
Nel testo ci sono frasi tratte dalla traduzione della canzone Shot In The Dark dei Within Temptation.
Non vi è nessuno scopo di lucro.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** In The Middle Of The Night ***


Capitolo 3
In The Middle Of The Night

 
 

Il medico cammina per quei corridoi stretti tenendo saldamente la cartella clinica in mano. Accanto Sinéad due uomini robusti la squadrano dalla testa ai piedi e stanno attenti ad ogni singolo movimento del suo corpo, pronti come dei cani per saltarle addosso qualora qualcosa nel suo tragitto verso la meta di quell'inferno ghiacciato fosse andato storto. Il medico si ferma di fronte ad una porta blindata e, di conseguenza, anche la fila dietro si arresta.
«Entri» dice il dottore. Apre la porta e, al suo interno, vi è situata una sedia con tantissimi cavi elettrici collegati. I due uomini le tolgono la camicia di forza e Sinéad comincia a gridare come una pazza, si tocca la testa come se una fortissima emicrania la stesse colpendo. Piange a dirotto mentre quei due omoni le bloccano le braccia per non farla scappare. La prendono con forza e la spingono dentro quella macchina infernale per farle chissà quale tortura.
«No, non voglio morire! No, no!» grida Sinéad. Un uomo le blocca la testa mentre lei tenta invano di muoverla e liberarsi da quelle grandi mani sporche. L'altro uomo, invece, le unisce i cavi metallici nei fianchi, nei polsi, nelle gambe e, infine, le poggia sulla testa un grossissimo copricapo a forma di elmo da armatura medievale di combattimento. Il dottore toglie gli occhiali da vista per potersi mettere quelli di protezione. Gli uomini si allontanavano da Sinéad, ormai imprigionata in quella sedia.
«Aziona la macchina» dice il dottore. Gli uomini acconsentono e uno dei due si dirige verso un macchinario enorme collegato alla sedia. Sinéad ormai è rassegnata, zitta, con lo sguardo basso. Sa che la sua ora è giunta e non può far niente per bloccare il tempo. Sembra morta prima ancora che la macchina sia azionata. L'uomo, rapidamente, fa mettere in moto il congegno e i fili metallici iniziano a mandare delle scosse su di lei. Sinéad, immobile, avverte le scosse e sente cosa le sta succedendo ma una forte rabbia si sta sprigionando da quel gracile corpo. I suoi capelli, pian piano, si alzano come colpiti da elettricità statica. Inizia a gridare Sinéad ma non per il dolore. Grida con la rabbia che ha dentro, libera tutta se stessa in quell'urlo, l'ultimo della sua vita. Una forte energia si sprigiona in lei, la macchina inizia ad andare in tilt. I tre uomini non capiscono cosa sta succedendo e nemmeno Sinéad lo sa. Le si stanno allungando i capelli tagliati a caschetto, colorandosi di un rosso vivo su quel castano spento. I suoi occhi iniziano ad alzarsi e a diventare impenetrabili. Si alza dalla sedia quella donna che adesso non è più la stessa, liberandosi da tutti quei cavi. È sicura di se, pronta per farla pagare cara del male che le stanno facendo. È diventata un'altra, è diventata Queen. Si avvicina verso il medico e lo solleva da terra bloccandolo per il collo.
«Adesso dica addio a Sinéad» dice la donna strozzando il medico. I due uomini si avvicinano a lei ma è intaccabile. È come se intorno ci fosse un'aurea invalicabile. Con uno scatto veloce butta il dottore sulla sedia che, a causa delle scosse emanate dalla macchina, muore.
I due uomini si avvicinano ancora una volta a lei ma stavolta è pronta per lottare.
«A lungo ho percorso questa strada del desiderio, a lungo ho pregato per del sangue sulla parete. Non mi importa se sto giocando col fuoco, sono consapevole di essere ghiacciata dentro» sussurra Queen, lottando con gli uomini. «Nel pieno della notte non capisco cosa succede: è un mondo che si è perduto e non riesco a liberarmene». Con dei ganci, mentre parla, fa perdere i sensi anche a quei colossi umani.
Sono stesi a terra i tre uomini, chi in fin di vita chi già morto. Cammina tranquilla Queen tra i corridoi di quel luogo grigio, con un mezzo sorriso stampato sulle labbra, soddisfatta. Si dirige verso il bagno per pulirsi dopo quella lotta. Si specchia e l'immagine riflessa non è la sua: lì c'è Sinéad, chiusa in una parete di vetro che cerca la libertà.
«Addio Sinéad» dice Queen e, con un pugno, rompe lo specchio.
 




Note:
Queen e Sinéad Hackin sono personaggi esistenti nel fumetto The Unforgiving di Steven O'Connell.
Gli altri personaggi sono inventati dall'autore della fanfiction.
Nel testo ci sono frasi tratte dalla traduzione della canzone In The Middle Of The Night dei Within Temptation.
Non vi è nessuno scopo di lucro.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Faster ***


Capitolo 4
Faster

 
 

Bayswater, 2 Maggio 1956

 
È una mattinata tranquilla a Bayswater, un paese di provincia londinese. Era passato da poco aprile e i fiori erano sbocciati da un pezzo. Il sole è appena sorto, il gallo ha smesso di cantare per annunciare l'arrivo del nuovo giorno e gli uccelli cinguettano felici tra gli alberi. In ogni famiglia madri e padri fanno colazione insieme  ai figli prima di dirigersi a lavoro o a svolgere i vari impegni giornalieri. O almeno, quasi in tutte. C'è una casa lontana da tutte le altre, situate al centro del paese. È un po' vecchia, con delle crepe sulla facciata e delle piante rampicanti che le danno un aspetto di antichità. Lì dentro ci vive un bambino, Jason Riddle, insieme a suo padre. Ha solo otto anni ma potrebbe dar testa a menti eccelse di mezza età, se solo lui volesse. Passa il tempo della sua giornata leggendo continuamente libri presi in prestito dalla biblioteca di paese e a fissare lo spettacolo che la sua finestra, generosamente, gli regala.
Divora carta e inchiostro come fossero dolci prelibati. Ogni giorno che passa impara un nuovo termine, un nuovo insegnamento utile per il futuro. Cosa che non ha mai fatto il padre, ubriaco dall'alba al tramonto. Odia suo figlio ma, soprattutto, odia quella sguattera che glielo ha ceduto per poter riposare nell'alto dei cieli. È una condanna che deve scontare a vita, un peso che non vuole portarsi dietro per molto tempo ma che dovrà accudire fino alla maturità fisica e anagrafica.
La vita di Jason è sempre stata “monotona”: letture quotidiane, cura della casa e le botte del padre che lo massacrava senza dei validi motivi. E, quando cala la notte, mentre l'orco senza cuore dorme abbracciato al suo cuscino o è fuori per liberare i suoi istinti animaleschi, con una candela sulla scrivania scrive di nascosto lettere indirizzate alla madre, quei pezzi di carta che contengono sentimenti "da femminuccia", a giudizio del padre.


 

02 Maggio 1956

Cara mamma,
non riesco a dormire perché l'odio mi consuma dentro, nel profondo del mio cuore, come benzina, un fuoco che si spande libero. Basta paura. Non posso vivere in una favola di bugie, non posso nascondermi dalla paura perché è giusta. La vita va troppo veloce e io non mollerò, perché sono orgoglioso delle mie cicatrici e mi rendo conto di aver sprecato troppo tempo. Credo sia arrivato il momento. Il momento di farla finita. Il momento di smetterla di essere un carcerato colpevole della sua esistenza ma innocente di essa al tempo stesso.
So che da lassù mi osservi e leggi i miei pensieri ma amo ugualmente scriverti. È il nostro contatto segreto.
Ti voglio bene,
Jason.



Tutte le lettere di Jason sono nascoste, ben conservate in una scatola di scarpe sotto il suo letto, insieme a tutti i libri e i ricordi della madre. Sono gli unici suoi amici quegli oggetti immobili, senza emozioni. Non ha contatti con nessuno da quando ha finito la scuola materna.
È sempre stato un bambino strano Jason. All'età di cinque anni diceva di vedere suo padre con tante donne a letto. Il che era anche vero ma impensabile dai cittadini del luogo, visto la nomina prestigiosa del genitore. A sette anni, passata da poco la morte della madre trovata sgozzata in un appartamento fuori paese, Jason inizia a vedere strane presenze intorno a lui. Dice che sono anime, chiuse nel nostro mondo perché mai nessuno li ha amati. E, adesso, a otto anni, vede se stesso. Una figura a lui somigliante gli sta stringendo la mano a letto. E poi, come un anelito invisibile, arriva l'altra figura che gli stringe la mano destra. Sono tutti e tre supini su quel letto singolo strettissimo che li contiene.
«Cosa hai intenzione di fare a quel mostro?» dice la figura alla sinistra di Jason. «Non vorrai mica dargliela per vinta?»
«Jason, non far niente. Tutto si sistemerà, ne son convinto!» replica l'altra.
«Tutto si sistemerà? Non si è mai sistemato niente durante questi anni!»
«Zitti entrambi!» grida Jason.
«No, stai zitto tu adesso. Ho un piano per farla finita...»





Note:
Nel testo ci sono frasi tratte dalla traduzione della canzone Fire And Ice dei Within Temptation.
Non vi è nessuno scopo di lucro.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Fire And Ice ***


Capitolo 5
Fire And Ice



La figura alla sinistra di Jason si alza dal letto e cammina nel corridoio in punta di piedi. Jason la segue un po' discostato insieme all'altra figura. Si fermano tutti e tre sull'uscio della porta a osservare il padre dormire beato nel suo letto. Il mattino seguente si ripeté la stessa storia che ogni giorno accadeva: Jason preparava la colazione, il padre andava via chissà dove per farvi ritorno solo a cena. Jason aveva tutto il tempo di organizzare il suo piano. Era stanco di tutto quello che gli stava succedendo e, almeno per una volta, avrebbe voluto ascoltare quella voce che aveva sempre ignorato perché, a dir suo, sbagliata. Ma cosa c'è di sbagliato se non siamo noi a definirlo tale?
Aspettò che il padre fosse uscito di casa e, per tutta la mattinata, non fece altro che pregare e scrivere a sua madre. Probabilmente avrebbe bruciato quelle lettere dopo l'omicidio per non far cadere la colpa su di lui, anche se questi erano l'unico mezzo per poter parlare con la sua migliore amica, colei che ci sarebbe stata sempre. Passate le ore diciassette si recò nella stanza del padre e iniziò a cercare tra i cassetti del comodino che si trovava vicino al letto matrimoniale. Era lì che il padre conservava le medicine, nonostante la maggior parte fossero scadute. Jason prese il primo scatolo che vide nel cassetto: aveva una confezione bianca con una scritta impronunciabile. Dentro c'erano ancora dieci capsule rosse e bianche. Come se qualcuno lo stesse osservando, prese il pacchetto, lo mise di scatto nella tasca del pantalone e andò a preparare la cena. Quella sera decise di preparare una bistecca di carne e un bel bicchiere di vino rosso dove far sciogliere le capsule. Il padre rientrò alle diciotto e trenta come quasi tutte le sere. Prima di tornare a casa aveva sicuramente fatto "un salto" al bar. Il suo alito puzzava di alcool ed era impossibile stargli accanto. Jason lo accolse all'entrata ma, di scatto, il padre lo prese per l'orecchio: «Hai preparato la cena?»
Sofferente annuì con la testa e lui lo lasciò andare. Si diresse verso il bagno grattandosi il sedere e Jason se ne tornò in cucina, ora sempre più convinto di quello che stava facendo. Spezzò le capsule facendo cadere su quel liquido rosso una polverina bianca. Nel farlo non una lacrima scorse dal suo viso. Era piuttosto arrabbiato, non voleva più soffrire. Avrebbe fatto a meno di suo padre, un cuore ormai sordo che non riesce ad ascoltare i sentimenti degli altri ma solo il suo stomaco. Svelto Jason finì di spezzare le dieci capsule e mise tutto in ordine in modo che niente sembrasse strano. Aveva accanto a se le due figure, ancora una volta. Una lo guardava soddisfatto mentre l'altra era impietosita davanti a questa scena. Scomparvero improvvisamente, come fossero fantasmi, mentre il padre stava entrando in cucina. Lui e Jason si sedettero distanti, nei due capi del tavolo.
«Perché non mangi, Jason?»
«Non ho fame.»
Un silenzio imbarazzante calò in quella stanza. Jason aveva lo sguardo rivolto verso il basso. Gli occhi erano lucidi mentre si guardava le scarpe.
«Dammi quel bicchiere di vino!» disse con tono solenne Jason.
Il padre ignorò il ragazzo che, nel frattempo, si alzò per prendere il bicchiere.
«Cosa stai facendo?» disse il padre bloccandogli il polso. Lo stava stritolando lentamente e in ogni secondo che passava lo girava di qualche centimetro, come se volesse romperglielo.
«Non farlo, papà!»
Jason chiuse gli occhi per lo spavento ma, quando li riaprì, vide il padre accasciato sul piatto con alla schiena un coltello affilato per tagliare la carne. Dietro di lui la figura cattiva guardava il cadavere con disgusto. Tranquillamente, lasciando Jason avvolto ancora in quella mano senza forza, si avvicinò al telefono.
«Pronto carabinieri? Ho ucciso mio padre.»





Note:
Nel testo ci sono frasi tratte dalla traduzione della canzone Fire And Ice dei Within Temptation.
Non vi è nessuno scopo di lucro.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Iron ***




Capitolo 6
Iron


Londra, 27 Marzo 1967



Sono le undici del mattino quando Queen è nata. Non ha un'infanzia da ricordare perché non è mai vissuta. È nata grande in un corpo non suo. È come un virus che nasce e cresce dentro una persona tanto da mutarla, cambiarla. È inarrestabile, ormai non la ferma più nessuno. Cammina sicura per le vie del centro di Londra rimanendo, nonostante la luce del giorno, invisibile agli occhi degli altri. Sembra correre e sfrecciare tra la gente, come un razzo azionato da una forza irrefrenabile. I suoi capelli non sembrano più starle sulle spalle per la velocità della sua camminata. L'impermeabile segue il movimento del suo corpo, rivestito da un pantalone di pelle e un top. Ad un tratto scorge con lo sguardo una via a lei familiare. È come se la conoscesse anche prima di essere nata. Si ferma di scatto e inizia a pensare. Perché è così vicino questo ricordo nella sua mente? Perché si ricorda di quelle luci? Perché quella casa immensa, con quell'orologio sul frontale, le sembra di averla già vista?
Si pone queste domande Queen ma, nella sua mente, non trova nessuna risposta. Continua a camminare, cercando di non pensare più a quel luogo. In poco tempo, oltrepassato il centro della città, si ritrova in una zona di periferia con una struttura macabra, grigia, attorniata da tanto verde. Il cimitero di Londra.
C'era molta gente nonostante l'orario scomodo e si respirava aria di tristezza, rimorso e preghiera. Queen ride davanti a questa visione: perché piangere di fronte al vano? La cenere è polvere: inutile, da eliminare. Piangere per la polvere è come attendere la pioggia nel deserto. Ma perché la gente amava piangere e tornare a casa con gli occhi gonfi? Queen non vide quasi nessuno felice in quel posto. Eppure lei lo sarebbe stata: avrebbe pagato qualsiasi costo per lasciare alle spalle questo carcere chiamato Terra dove lei abitava da pochissimo tempo.
Guarda con superiorità quella gente, finché non riesce a scorgere una figura. Un uomo vestito in jeans e camicia a quadri, ricurvo, in ginocchio, con una rosa. È seduto di fronte ad una lapide ma non è triste: nei suoi occhi brilla la scintilla che adesso accende gli occhi di Queen. È la scintilla della vendetta, del dolore provato sulla loro pelle. Nonostante non lo avesse mai visto lo riconosce: è lui l'uomo che sta cercando, non può esser nessun altro in quel posto.
«Jason?» pronunciano le sue labbra, spinte da una forza incontrollata, involontaria come il battere del suo cuore, sempre più rapido.
L'uomo si volta e per Queen quei secondi sembrano eterni. La osserva. Non la conosce ma anche lui sente quella forza esplodersi dentro.
«Sei tu Queen?»
Queen fece cenno con la testa. Lo aiutò ad alzarsi dalla sua posizione e si scambiarono uno sguardo così intenso che il tempo sembrò fermarsi per almeno qualche secondo. Si conoscevano prima ancora di vedersi perché era nei sogni che si presentavano e si tormentavano. Ogni notte si sognavano, si parlavano e svanivano, per poi tornare nuovamente nelle tenebre della notte.
«Ti stavo aspettando» disse Jason. «La Mother Maiden mi ha parlato di te. Cosa hai intenzione di fare?»
Adesso a Queen è tutto chiaro. È chiaro di chi è quella casa vista prima, cosa doveva fare e, soprattutto, qual è la sua missione.
«Seguimi» disse Jason.
Il cielo sembrò oscurarsi. Il sole che splendeva sulla città adesso veniva oscurato dalle ombre. Immense nuvole si riversavano su Londra e la pioggia iniziava ad abbattersi su tutte le persone che camminavano accanto a loro. Hanno ancora quella luce, quella stella, quello spiraglio forte negli occhi che li lega indissolubilmente. Anche Jason, accanto a Queen, sembra invisibile: quelle persone che riconosce per le strade adesso non lo notano.
Jason guida Queen in quella casa che aveva visto prima. Si avvicinano in quel portone maestoso e Queen sente di aver toccato quel legno e quelle mura non tanto tempo fa. Eppure prima di qualche ora fa Queen non aveva volto, non aveva forma. Com'era possibile tutto ciò?
Jason, spavaldo, con Queen accanto ancora stupita da quello che le stava accadendo, bussa alla porta.
«Siete voi?»
«Colei che chiamano la regina e colui che chiamano il terzino» disse Jason.
«Venite, la Mother Maiden vi stava aspettando.»
Jason e Queen vedono aprirsi il portone e attraversano il corridoio, impavidi ma consapevoli in qualche parte del loro cuore di quello che stava succedendo. Mother Maiden da le spalle a Queen e Jason, seduta su una sedia. È come se non volesse mostrarsi in viso. Tiene per mano una penna e, freneticamente, come se guidata da un'altra mano che sta sulla sua, scrive su un foglio perfettamente bianco.
«Non devi temere, a meno che tu non sia un cuore oscuro. Un vile, che preda gli innocenti. Non potrai nasconderti per sempre nelle vuote tenebre perché ti braccheremo come l'animale che sei e ti getteremo nelle viscere dell'inferno.»
Richiude il foglio e lo dà ad un uomo. È vestito elegantemente di nero e il suo volto è oscuro. Non si riconoscono gli occhi, le labbra o il resto del suo viso.
E poi, lentamente, Mother Maiden si volta. Nel suo viso solchi profondi rimarcano la sua saggezza, il dolore vissuto. Quel misto di rughe e cicatrici lasciano spazio a quegli occhi. Sembrano gli occhi di una bambola. Bianchi, freddi, vacui. Non hanno né la cornea né la pupilla eppure lei vede Jason e Queen: vede che stanno davanti a lei e invita la ragazza ad avvicinarsi.
«Lasciata nell'oscurità qui, da sola, è stato risvegliato un ricordo. Percepisci il dolore e non puoi negarlo. Non c'è niente da dire, è tutto quello che ti serve per trovare la strada.»
Una lacrima scorre dagli occhi di Queen. È come se in lei si fosse risvegliato qualcosa di morto ma ancora bloccato dentro delle barriere.
Jason si avvicina per asciugarle le lacrime ma Mother Maiden lo blocca.
«Non puoi vivere senza il fuoco. È il calore che ti rende forte perché sei nato per vivere e per combattere costantemente. Puoi nascondere quello che giace dentro di te ed è l'unica cosa che conosci, lo stai accettando...»
Anche Jason sente dentro di sé una morsa, come se una mano prendesse ardentemente la sua anima e non la liberasse più da quel pugno.
Mother Maiden, senza alcuna emozione, prende la mano ad entrambi.
«La guerra sta iniziando! Sentite di volerla! Portiamola avanti...»





Note:
Queen e Mother Maiden sono personaggi esistenti nel fumetto The Unforgiving di Steven O'Connell.
Nel testo ci sono frasi tratte dalla traduzione della canzone Iron dei Within Temptation.
Non vi è nessuno scopo di lucro.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Where Is The Edge? ***


Capitolo 7
Where Is The Edge?




Dette le profetiche parole, Mother Maiden abbassa la testa, come se avesse esaurito tutte le sue energie. Non è più in trans e i suoi occhi tornano ad essere normali, come quelli dei comuni mortali. «Mi sento male, mi gira la testa...» sussurra Mother Maiden a stento e, prontamente, l'uomo vestito di nero la scorta nella camera da letto. Jason e Queen rimangono lì, fermi, in quella stanza. Sono abbracciati, come per proteggersi dal male interiore che quelle parole dette dalla vecchia signora possano procurare. Si spalanca il portone d'ingresso, lasciando un'ampia visione del mondo esterno. La pioggia è ininterrotta e potente, sembra frantumare i vetri delle finestre e creare dei solchi profondi sull'asfalto. Mano nella mano Queen e Jason si rialzano dal freddo pavimento e avanzano verso l'uscita. Non sanno cosa li attende, non sanno come la guerra che stanno intraprendendo potrà finire. A passo lento si avvicinano verso la porta e, fermi sulla soglia, osservano l'orrido scenario. Il cielo sembra essersi oscurato nonostante l'ora indicasse il pieno giorno e i fulmini inceneriscono tutto quello che si trovava vicino la casa di Mother Maiden. L'orologio sul frontale si era fermato alle dodici del 27 Marzo 1967. Ormai Jason e Queen sembravano leggersi nel pensiero. Entrambi, come spinti l'uno dall'altra, si muovono verso sinistra, alla ricerca di una via stretta dove potersi rifugiare da quegli attacchi climatici violenti. Due vecchie case non lontane da lì creavano un'incavatura nella strada. Si infiltrarono lì dentro e, ansimanti, si guardarono uno negli occhi dell'altro. Poi un fulmine violentissimo, più veloce di un battito di ciglio, li distrae. Si era riversato sulla casa di Mother Maiden, facendo cadere a terra le lancette di quell'orologio immenso. E, appena la prima lancetta toccò il suolo, tutto si ferma. Le gocce d'acqua rimangono sospese nello spazio, il fulmine attraversa la casa che stava per dividersi. Il cielo, gli uomini che cercavano di ripararsi, le catastrofi intorno. Tutto era immobile, come in una fotografia. Eppure Queen e Jason non erano fermi. Le loro braccia si muovevano, i loro occhi esprimevano terrore. «Non possiamo restare qui fuori» disse Jason. Entrano in una casa. Notano un camino acceso, con le fiamme immobili come il resto del mondo. Tutte le persone che abitavano quella casa si trovavano in una stanza non lontana da lì. La madre stava servendo un piatto amorevolmente al marito e il bambino osservava la vicenda. Sembravano una famiglia riprodotta per il museo delle statue di cera. Davanti a questa visione Jason chiude subito la porta della stanza. «Che succede?» dice Queen. «Niente. Non è niente.» «Non si può definire niente quello che ancora ci fa male.» Jason abbassa lo sguardo e si accovaccia per terra, vicino al fuoco che emanava calore solo in un determinato punto del salotto. «Perché, quando ci siamo presentati, hai detto di esser chiamato terzino?» Sospira Jason. Raccontare questa storia gli costa una fatica immane. «Anche io sono stato come quel bimbo in quella stanza. Anche io ho visto l'amore dei miei genitori riversarsi su di me. Avevo sette anni ma riuscivo a capire. Riuscivo a leggere negli occhi di mio padre e in quelli di mia madre. Mi guardava sempre con tristezza. Da lì a poco sarebbe morta. Non ho mai saputo il vero motivo, so solo che da lì la mia vita cambiò radicalmente. Vivere con mio padre è stata un'esperienza orribile che non ha fatto altro che farmi crescere in un guscio creato da me, richiudendomi in delle pareti bianche che, da un giorno all'altro, si sarebbero macchiate di sangue. Non ero pazzo, eppure vedevo altre due figure simili a me. Una, la figura cattiva, era quella che conteneva tutto il mio odio, il mio disprezzo. E poi l'altra, la parte buona, quella che pazientava, che sopportava. Ed io ero solo uno spettatore di fronte a questo teatrino fin quando non hanno divorato anche me. Mi trasformo, divento una o l'altra persona. Tripla identità, unita in un corpo solo. Stessa mente ma pensieri contrastanti. Sono questo io: un uomo senza una propria personalità, senza un'idea da portare avanti...» «Shh…» dice Queen, posando l'indice sulle labbra di Jason. «Sta' zitto e baciami.» E così le loro labbra si incontrarono per la prima volta. L'elettricità dei due corpi era percepibile, come le grida degli angeli della vendetta.




Note:
Queen e Mother Maiden sono personaggi esistenti nel fumetto The Unforgiving di Steven O'Connell.
Gli altri personaggi sono inventati dall'autore della fanfiction.
Nel testo ci sono frasi tratte dalla traduzione della canzone Where Is The Edge? dei Within Temptation.
Non vi è nessuno scopo di lucro.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Sinéad ***


Capitolo 8
Sinéad




Quel bacio, quel maledetto bacio. Quel bacio che non doveva mai essere dato, quel bacio che non doveva essere sentito, amato. Si apre nel cielo un varco dove un raggio di sole illumina la piazza antistante alla casa di Mother Maiden. Piccole luci sembrano scendere da quel varco. Sono lente come la neve candida che cade a fiocchi. Nel loro cadere verso terra formano l'arcobaleno e sembrano frammenti di cristallo. Trasparenti, limpidi. Sono puri, senza peccato. Diventano più grandi man mano che si avvicinano verso terra e la loro forma cambia continuamente. Adesso somigliano a delle aquile che volano alto nel cielo. Possenti, sembrano i padroni del mondo. Emanano un grido simile a quello delle sirene. Acuti impossibile da realizzare, armonici come canti. Farebbero diventar sordo ogni essere umano, ma Jason e Queen non li sentono. Sono ancora avvolti in quella magia, da quello scambio di amore e passione. Si abbracciano come se potessero trasmettersi sicurezza, certezza. Perché è questo quello che vogliono: la speranza. La speranza di una vita migliore con tutti i mezzi possibili. Una vita da difendere con le unghie e con i denti. Qualcosa a cui aggrapparsi e che non sia soltanto un’illusione. Jason prende la mano di Queen e la accarezza. «E tu invece? Perchè le ombre fanno parte di te?» Queen è zitta. Non riesce a proferir parola. È ferma, immobile. Ogni suo muscolo è immobilizzato e non riesce a controllare il suo corpo. Una lastra di ghiaccio che aspetta di essere scalfita dalle taglienti parole di Jason. «Queen? C'è qualcosa... che non va?» «È tutta la mia vita che non va. Ogni mossa, ogni movimento, non è mai stato mio. Io sono morta da quando sono nata. Sono morta per la vita, ma non per la mia. Era una fredda giornata d'inverno del 1946 quando sono nata. La guerra stava per terminare e già a Londra si respirava aria di ottimismo, di rinascita. Una donna era da sola in casa con un pancione che stava per esplodere. Non aveva un marito. L'uomo che l'aveva messa incinta era un poco di buono. Fumava, andava a donne e si scopava la prima figura femminile che gli capitava davanti. Mise incinta mia madre stuprandola. Una notte si infiltrò in casa per rubare qualcosa e vide mia madre sveglia. Fu così che la stuprò, dicendole che doveva star zitta perché era una lurida stronza e l'indomani sarebbe venuto a ripetere la scena. Non tornò più per stuprarla ma sapeva di averla messa incinta. La sposò, ma solo secondo la legge. Poi, in realtà, era sempre lo stesso uomo. Affabile, davvero affascinante. Con lo schiocco delle dita tutte le donne sarebbero cadute ai suoi piedi e lui non avrebbe assolutamente rifiutato certe avances. Faceva l'amore con chiunque e non tornava mai a casa. Quella giornata d'inverno tutto sarebbe cambiato. Quella donna aveva atteso per nove mesi il frutto di dieci minuti. Quei dieci minuti più brutti della sua vita. E fu così che nacqui. E subito dopo anche mia sorella. Eravamo due bambine, due gemelle. Sinéad e Queen. Io sarei morta nel giro di dieci minuti. I dieci minuti più brutti della mia vita. Sinéad era sopravvissuta ma anche io sarei rimasta per sempre nella sua mente. Son stata la sua amica immaginaria fino all'età di sedici anni. Poi mi sono impossessata di lei. Quel corpo fragile doveva resistere alle intemperie del mondo. E così diventai la sua ombra, la sua parte nascosta. Feci del male a mia madre, cercai mio padre e lo uccisi. Uccisi tutti coloro che negli anni avevano fatto soffrire mia sorella. E poi andavo via. Tornavo nella notte, quando le tenebre potevano avvolgermi ed io potevo nascondermi nelle strade della maledizione. E adesso eccomi qui. Ho fatto fuori anche mia sorella. Era necessario. Non poteva vivere sotto le torture. I fragili in questo mondo non durano molto. Forse mi crederai un mostro ma non puoi davvero capire. Non adesso. Un giorno, forse, proverai anche tu quello che ho provato io. E che provo ancora. Sono ferite insanabili...» Jason è spaventato. Non riesce a nascondere quella paura che adesso prova per Queen. Eppure la attira. La attira ancora di più, come una calamita. Inizia a baciarla con aggressione. È un fuoco indomabile. Il corpo arde ed emana calore. Brucia i vestiti, spoglia Queen da ogni involucro. Si abbandonano nel silenzio dei loro segreti. Sono uniti adesso, ogni gesto è amore ed eros. E, accanto al camino, i loro corpi ardono nel fuoco.




Note:
Queen, Sinéad e Mother Maiden sono personaggi esistenti nel fumetto The Unforgiving di Steven O'Connell.
Gli altri personaggi sono inventati dall'autore della fanfiction.
Nel testo ci sono frasi tratte dalla traduzione della canzone Sinéad dei Within Temptation.
Non vi è nessuno scopo di lucro.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Lost ***


Capitolo 9
Lost




Sono nudi, distesi sul quel pavimento che con lo sfregarsi dei loro corpi è diventato caldo. Non possono smettere di guardarsi a vicenda. È forza pura, attrattiva. Può passare tra di loro anche la forza più potente ma non potranno mai distaccarsi da quell'amore che li avvolge in una stretta. Chiusi nella gabbia del destino, Jason e Queen si accarezzano, si sfiorano, dopo aver consumato quei momenti che per entrambi segneranno l'inizio e la fine di un capitolo. Jason si rialza, si infila gli slip e si allontana verso una scrivania. «Cosa stai facendo?» dice Queen. «Resta qui ancora un po'!» «Non posso. Devo fare una cosa che non faccio da tantissimo tempo. Ed è giunto il momento adatto per ricominciare.» Prende carta e penna mentre Queen cerca di azzuffarsi i primi vestiti trovati per coprirsi e inizia a scrivere.


27 Marzo 1967

Cara mamma,
dall'ultima volta che ti scrissi è passato un po' di tempo. Sono un uomo adesso, e credo che tu lo sappia, visto che da lassù riesci a vedermi. So che il nostro unico contatto è questo: parole scritte come se fossero dette e udite da un semplice orecchio umano. Ma è l'unica cosa che mi resta: non ci rincontreremo mai più come una volta. Non potrai mai abbracciarmi, non potrai accarezzarmi. Non potrò odorare i tuoi capelli lunghi. Profumavano di ciliegie, ricordo. Non potrò mai assaggiare il ciambellone del sabato e provare quell'amore incondizionato verso una creaturina piccola e fragile che aveva bisogno – e ha bisogno tutt'ora – delle tue cure, del tuo amore. La mia vita ha preso una piega troppo diversa da quella di tutti gli altri. Mentre tutti hanno avuto amore e gioia intorno, io ho avuto solo disperazione. La pazzia mi ha perseguitato in questi anni, non lasciandomi un attimo di respiro. L'ossigeno è non arrivato la mio cervello e i miei impulsi sono stati sempre sbagliati. Mi hanno reso quello che oggi sono, uno sporco criminale. Ma lo è anche lei: Queen. È così forte e fragile allo stesso momento. Non vuole mostrarlo ma glielo leggo negli occhi: quegli occhi impenetrabili che non lasciano nessuna emozione. Fossi stata qui forse non ti sarebbe piaciuta, o forse sì. So soltanto che mi sto perdendo dentro la sua anima, e lei dentro la mia. Danzo su un filo che collega il suo cuore con la sua mente e non voglio abbandonarla. È persa nell'oscurità, sta svanendo come se fosse fatta d'aria. Io sono ancora qui vicino a gridare il suo nome in silenzio perché sta infestando il mondo dei miei sogni. Siamo in due adesso, non lotterò per questa battaglia da solo. Cammineremo contro corrente, combatteremo per ciò in cui crediamo, correremo verso la fine cercando di non arrenderci. Ci terremo per mano nei momenti più difficili e salteremo gli ostacoli come tu mi hai sempre insegnato. È qui in questo momento. Cerca di rivestirsi della sua storia con i frammenti che riesce a ritrovare per terra. Ed è così dolce quando si nasconde per non farsi vedere. Forse la cosa più giusta che abbia fatto nella mia vita è stata quella di uccidere papà. È stato sbagliato, ma era giusto. Non potevamo continuare a soffrire tutti e tre. Io non potevo ridurmi in un cadavere per il suo bene non dimostrato. Sono arrivato ad odiarlo e a sopportarlo, mascherando un sorriso dietro una pianto. Il vaso si era riempito di lacrime, giorno dopo giorno, e la mia ira era sempre maggiore. Cosa ho fatto di male per meritarmi questo? Forse ho sempre voluto bene nonostante tutto il mondo mi dicesse di non farlo? Gli ho sempre voluto stare vicino anche se mi faceva sentire male. Ed è questo quello che mi son meritato? La fine della mia vita? La mia vita è finita da quando tu sei morta, e lo sappiamo tutti. Perché adesso la luce mi sta cercando? Perché oggi e non prima, quando ancora ero indifeso? Non capisco. Non capisco cosa ho che non va. Non posso capire e mi scervello per trovare una risposta plausibile a questo mio quesito esistenziale. Ho mandato tutto a quel paese per riuscire a ritrovare me stesso. Volevo capire chi sono e qual è la mia missione nel mondo. E, quando ci sono riuscito, tutto mi è crollato addosso. Ho solo una certezza adesso e non voglio lasciarla sfuggire. Non voglio piangere ancora.
Per sempre,
Il tuo cucciolo cresciuto Jason.



Queen si avvicina verso Jason. Con le mani attraversa le sue spalle, arrivando a toccare il torso nudo.
«Cosa stavi facendo?»
«Parlavo con una persona che ha fatto parte di me. L'unica persona che realmente può capirmi.»
Queen lo abbraccia quasi in lacrime.
«Sappi e ripeti sempre che io sono qui.»
«Lo so, e per questo affronteremo il mondo.»




Note:
Nel testo ci sono frasi tratte dalla traduzione della canzone Lost dei Within Temptation.
Non vi è nessuno scopo di lucro.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Murder ***


Capitolo 10
Murder




Un forte boato fu udibile dopo che quelle parole furono pronunciate da Queen. Repentinamente i due uscirono da quella casa, vestendosi il prima possibile per vedere cosa stava accadendo della loro vita. Dal cielo scendono lentamente, come fiocchi di neve invernale, delle luci fioche verso terra. Man mano che si avvicinavano con il terreno terrestre iniziano ad acquisire luminosità e spessore. Assumono forme umane di rara bellezza, tali da poter accecare anche la luce, qualora questa avesse degli occhi. Sono tantissimi, una vera armata di uomini volanti vestiti di bianco. Capelli lunghi biondi raccolti dentro un elmo da battaglia. Ali immense, capaci di avvolgere anche l'aria che sta intorno a loro. Sembrano cento, e dietro di loro ci sono altre ombre non bene riconoscibili. Forse sono altri angeli. Forse sono più di cento. Mille, diecimila. Tutti posizionati a piramide, con uno scudo di ferro nella mano sinistra puntato per difendere il loro busto e la lancia appuntita, pronta ad attaccare, nella mano destra. L'unica figura a non avere niente per proteggersi è la prima visibile. È scesa dal cielo tramite un drago con le squame rosse e blu e i suoi capelli biondi erano accarezzati dal vento. I suoi occhi sono più cristallini degli altri e le sue ali sprigionano mille colori, come l'arcobaleno. Ha mille luci colorate tra le piume bianche che non fanno altro che risaltare quanto sia differente dagli altri e il suo abito è blu cobalto come le squame del drago. L'armata poggia i piedi a terra e il drago fa scendere l'angelo capo. «Queen, Jason: ritiratevi finché siete in tempo. Questa battaglia non potrete mai vincerla.» I due sono sempre più intimoriti ma, al tempo stesso, pronti ad affrontare la guerra. Si avvicinano e si prendono per mano. «Scusatemi, non mi sono ancora presentata. Sono Elehcim e difendo Dio e il suo nome contro le orde di Satana. Ogni essere umano, prima di esser spedito nel mondo, viene controllato dalla mente di Dio. È Lui che la purifica e gli da un'anima, una coscienza. Quando siete nati voi, questa coscienza è venuta a mancare. Sapevamo di aver fatto lo sbaglio più grande facendovi nascere, ma ad ogni uomo non si può negare la vita, la libertà. Speravamo di sbagliarci, ma non è stato così. Col tempo siete cresciuti, siete diventati ciò che temevamo poteste diventare. Dei mostri, degli assassini. Avete ucciso carne della vostra carne, sangue del vostro sangue. Coloro che vi hanno dato la vita e coloro che ne facevano parte. Avete ucciso voi stessi nel corpo degli altri per poter rinascere differenti da prima. E ci siete riusciti, diventando dei criminali. La pazzia che vi siete creati vi ha portato a conoscervi, ad amarvi. Ma questo legame non può durare a lungo. Siamo qui per avvisarvi di arrendervi al cuore divino, alla potenza che potrà liberarvi dal male e potervi far rinascere come fonte d'acqua limpida che scorre in piena nel Giardino dell'Eden» «Non potrete mai separarci» disse Jason. «Quel che lei è, adesso, lo sono anche io. Siamo un' unica anima, quella che non abbiamo mai acquisito. Ce la siamo creata per poter resistere a voi che credete che il mondo sia come dicono le vostre regole. No, non è così. Il mondo non gira secondo la mente di qualcuno più grande di noi. Siamo noi a far girare il mondo a nostro piacimento. Siamo noi a far girare il vento. Siamo noi quelli che muoviamo gli alberi. Siamo noi la forza che c'è intorno. E una forza è indistruttibile, letale ed elettrica. Voi siete fuori da questo cerchio. Non potete prenderla, andrebbe contro di voi.» «È puro male, quella forza.» disse Elechim, senza scomporsi. «Non vogliamo arrivare ad una battaglia: arrendetevi all'unica potenza ammissibile di questo mondo.» «Né ora né mai» disse Queen, guardando negli occhi Jason. Sono pronti, sanno che dovranno lottare per il loro amore e per le loro vite. Sanno che tutto dipenderà da quel momento e che lo passeranno insieme, combattendo con tutte le loro forze quel qualcosa in cui credono davvero. «Sto per darvi la caccia e sto per tagliarvi via le ali..» «Sto per farlo a modo vostro, renderò pericoloso il vostro mondo. Non pensavo che vi sareste spinti così lontano; è folle!» disse Elehcim con tono che non ammette revoche. «Siamo folli perché seguiamo il nostro cuore. Che sia sporco o che sia pulito non ha importanza. Abbiamo dei sentimenti pur non avendo un'anima. E per questo vi uccideremo. Tutti.»




Note:
Queen e Sinéad sono personaggi esistenti nel fumetto The Unforgiving di Steven O'Connell.
Gli altri personaggi sono inventati dall'autore della fanfiction.
Nel testo ci sono frasi tratte dalla traduzione della canzone Murder dei Within Temptation.
Non vi è nessuno scopo di lucro.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** A Demon's Fate ***


Capitolo 11
A Demon's Fate




Gli occhi di Elehcim si infuocarono. Nessuno poteva rivolgersi così a colui che ha dato tutto per il mondo, a Dio. Emise un urlo stridulo e acuto e con quello segnò l'inizio della battaglia. Quella battaglia che pazientava da troppi anni ormai. Quella battaglia che doveva essere iniziata, prima o poi, e che avrebbe visto la morte di una potenza e la vittoria di un'altra. La decisione era vicina, il bene e il male si stavano scontrando per vedere chi adesso aveva la meglio, chi poteva vincere sull'altro.
Jason teneva ancora stretta la mano di Queen un po' per timore. Si sarebbe diviso da lei appena gli angeli si sarebbero buttati addosso a loro. Dovevano separarsi per sopravvivere. Dovevano vivere insieme e per farlo, in questo momento, avevano bisogno di dividersi e scappare.
Elehcim salì sul drago rosso e blu che spiegò le ali per innalzarsi verso il cielo. Con un pugno verso l'alto aveva dato il segnale agli angeli di avanzare. E così l'armata iniziò a correre verso le due anime identificate come colpevoli. Colpevoli della loro esistenza.
Jason, di colpo, lasciò la mano di Queen, inavvertitamente. Lei, da parte sua, non si sarebbe mai aspettata una mossa del genere. Credeva che avrebbero combattuto insieme anche questa battaglia, come quelle che sarebbero avvenute durante la loro vita. Avrebbero sconfitto i mostri del passato e del futuro, come avevano detto poco prima. Eppure si sono separati, dividendosi per combattere la battaglia più decisiva, quella che avrebbe segnato il loro presente.
Jason iniziò a correre verso destra, sperando che Queen avesse capito quale fosse il suo piano. Ma Queen era ancora lì fissa, immobile. Pensava ancora a quelle parole dette. Non vedeva il riscontro. Era come un manichino e il suo sguardo era perso nel vuoto, incurante della folla che le si stava avanzando contro. Jason corse nuovamente indietro per poterla salvare prima che gli angeli la divorassero e la avvolgessero con le loro ali. Ma ormai era troppo tardi. Erano su di lei: come enormi lenzuoli la ricoprivano e le ali richiudevano a scudo quel guscio dove nel cuore veniva custodita la loro anima malvagia. Quell'anima malvagia che dovevano purificare. Quell'anima che riuscì a liberarsi dalla luce.
Queen, con la forza dell'amore, ce l'aveva fatta. Si era liberata di quegli angeli che le bloccavano il respiro, che le offuscavano la visuale per la luce troppo accecante. Lei voleva le tenebre, voleva il grigio e il nero per poter identificare se stessa. Con una spinta violenta era riuscita a stendere a terra quegli angeli che la opprimevano e a liberarsi.
Jason le corse incontro, la prese in braccio e si mise a correre ancora verso destra. Aveva fatto lo sbaglio più grande lasciandola lì da sola, senza di lui. Insieme erano la forza. In quella presa era nascosta la loro potenza inestimabile, capace di piegare ai loro piedi anche la forza più pura che potesse esistere. Perché dalle loro forze oscure era nata la luce più forte: l'amore.
Migliaia di angeli inseguivano Jason e Queen, senza forze tra le braccia di lui. Con le lance rivolte verso i due corpi umani, gli angeli gridavano un canto acuto, difficilmente sopportabile a lungo.
I vetri si frantumavano di fronte a Jason, bloccando la possibilità di correre ancora più veloce. Nessuna scheggia scalfiva i loro corpi. Erano protetti da un'aurea invisibile che li riparava. I piedi poggiavano sulle pozzanghere fangose della strada ma non si sporcavano. Camminavano pure sull'acqua. Erano più veloci del tempo, della luce che dietro di loro cercava di raggiungerli.
«Lasciami qui» disse Queen. «Sono troppo debole, non ce la faccio.»
«No, non posso farlo. Ho commesso lo sbaglio più grande lasciandoti andare da sola»
«Dovevi. Ti prego, lasciami qui. Andrà tutto bene. Ricorda che noi siamo insieme anche quando non lo siamo...»
Jason si fermò di fronte a quelle parole. Avevano toccato in lui le corde della sua vita. In quel momento si ricordò ancora una volta di sua madre e della sua mancanza e poi, per la prima volta, pensò a suo padre. Anche se l'aveva ucciso, era sempre lì con lui. Non si sarebbe potuto liberare della sua presenza in nessun modo.
Lasciò Queen per terra, si rimboccò le maniche della sua camicia di flanella blu con richiami di giallo e avanzò contro la luce che aveva davanti. Era pronto a combattere e, qualora avesse perso, a morire per espiare le sue colpe. Per espiare le anime che erano richiuse in lui, per liberarsi una volta per tutte, nel giusto modo, delle persone del passato che non erano mai andate via.
Stese a terra due o tre angeli con un calcio, mentre alcuni con dei pugni. Ma erano troppi. Uno contro migliaia e migliaia. Non poteva farcela, non poteva reggere a lungo. E intanto, mentre era impegnato a difendere se stesso e Queen. Elehcim era sceso dal drago per prendere con la bilancia la anima di Queen.
L'avrebbe pesata, come aveva fatto con milioni di anime, per poterla far accedere all'aldilà.




Note:
Queen e Sinéad sono personaggi esistenti nel fumetto The Unforgiving di Steven O'Connell.
Gli altri personaggi sono inventati dall'autore della fanfiction.
Nel testo ci sono frasi tratte dalla traduzione della canzone A Demon's Fate dei Within Temptation.
Non vi è nessuno scopo di lucro.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Stairway To The Skies ***


Capitolo 12
Stairway To The Skies




Gli angeli guerrieri bloccarono Jason prima che lui potesse accorgersi di quello che stava accadendo a Queen. Elehcim poggia la mano sul petto di Queen e tira da lei una nuvoletta trasparente, tonda quasi quanto una bolla di sapone. La ripone su un piattino e la bilancia non si muove completamente. Non era pesante di peccato, era un'anima leggera come quella di un bambino. Ma non era possibile. Aveva commesso un peccato enorme nella sua vita, eppure era come se tutto fosse stato cancellato. Queen si era pentita di quello che aveva fatto quando conobbe Jason, simile a lei in tutto e per tutto.
Elehcim fa segno agli angeli di liberare Jason. Egli corre incontro al corpo ormai senza vita della sua amata, la stringe forte al petto. Le lacrime scorrono da sole e solcano il suo viso barbuto. «Sappi che sarò solo un passo dietro di te.»
Si guarda intorno e vede gli angeli con la testa china verso il basso. Elehcim stava raggiungendo il drago e altri angeli, invece, erano stesi a terra, quasi senza vita. Vicino a loro ce n'era uno, con la lancia ancora stretta in mano. Con un impeto di rabbia e di tristezza, Jason prese la lancia, lasciò il corpo di Queen e, in silenzio, si trafisse il petto.
Nessuna lacrima avrebbe bagnato più quel viso, nessun amore avrebbe provato quello che insieme provavano. Son rimasti insieme, hanno perso la battaglia insieme. E adesso, insieme, si terranno per mano e raggiungeranno il luogo a loro destinato, ancora sconosciuto. Non raggiungeranno il paradiso insieme agli altri angeli ma non importa, perché saranno insieme.
Il corpo di Jason si accascia su quello di Queen di fronte a tutti gli altri angeli. Elehcim prese ancora una volta la sua bilancia e colse dal petto di Jason la sua anima. Anche l'anima di Jason era leggera: anche egli si era pentito di tutto ed era stato perdonato del male compiuto. Perché l'amore lo aveva cambiato, lo aveva reso un altro.
Queen e Jason si erano trasformati come fossero un unico corpo in simbiosi. Avevano sempre mosso gli stessi passi insieme e non se n'erano mai resi conto. Erano davvero destinati a stare insieme. Erano delle anime gemelle.
Elehcim prese la lancia con la quale Jason si era ucciso e, a passo lento, si diresse verso il drago. Salì su di esso e, mentre stava per volare, lo uccise. Trafisse il corpo del drago che precipitò verso terra senza vita. La creatura mistica cadde vicino a Queen e Jason e, sui tre corpi inermi, un raggio di luce squarciò il cielo e li illuminò. Il tempo si stava schiarendo e stava asciugando il misto tra sangue ed acqua presente sul terreno. I corpi degli angeli morti stavano svanendo come fossero vapore, e nascevano fiori bianchi sul terreno roccioso ed arido. Elehcim e gli altri angeli spiccarono il volo verso il cielo, diventando delle piccole luci e sparendo in alto, confondendosi tra le nuvole che stavano andando via.
Manca qualche secondo all'ascesa dei corpi di Jason e Queen. Le loro anime ormai non sono più lì dentro; Elehcim le ha portate via con sé.
Son morti, ma gli angeli non canteranno la loro morte. Nessuno saprà che erano esistiti in questo mondo. Non hanno lasciato nessun ricordo sulla terra. Non sono stati degli eroi e, comunque, non era questa la loro missione. La loro missione era quella di trovarsi, di amarsi e di lasciarsi andare. Di confondersi nel silenzio, unico mezzo capace di percepire il loro amore.




Note:
Queen e Sinéad sono personaggi esistenti nel fumetto The Unforgiving di Steven O'Connell.
Gli altri personaggi sono inventati dall'autore della fanfiction.
Nel testo ci sono frasi tratte dalla traduzione della canzone Stairway To The Skies dei Within Temptation.
Non vi è nessuno scopo di lucro.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=886278