Time's Up - 6th season di SidRevo (/viewuser.php?uid=115424)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 370 miles. ***
Capitolo 2: *** Come home. ***
Capitolo 3: *** Dear old Babylon. ***
Capitolo 4: *** Ironic. ***
Capitolo 5: *** Sunshine shines again? ***
Capitolo 6: *** Some things never change. ***
Capitolo 7: *** I still love you, afterall. ***
Capitolo 8: *** Thanksgiving day. ***
Capitolo 9: *** Another Goodbye. ***
Capitolo 10: *** See you soon. ***
Capitolo 11: *** Old routine. ***
Capitolo 12: *** Together again. ***
Capitolo 1 *** 370 miles. ***
1.370 miles.
A Elena,
compagna di mille discussioni o ipotesi,
sogni e "filmini",
su questo splendido telefilm,
che ci ha allegramente intrippato il cervello.
Sappi che mi dovrai sopportare ancora per molto.
6x01 – 370
miles.
[capitolo betato da Trappy]
"The
scientist” - Coldplay
«È solo
tempo.»
La
sentiva rimbombare ancora quella frase nella testa, per l'ennesima
volta, in cui sembrava divertirsi a ricordargli che quel
tempo
era finito. Pulsava feroce, da togliere il fiato e costringerlo a
poggiare le mani sul vetro per sostenersi e sporcarlo delle impronte
delle sue dita. Perché c’era ancora in quel mondo, e la sua
presenza era in quelle macchie opache; lui era ancora vivo, anche se
vivo non si sentiva affatto.
Intrappolato a
soffocare in un posto della sua mente, tra un passato da rimpiangere,
costellato di troppi “se” e altrettanti “ma” con cui
combattere ogni giorno, e quel presente in cui non voleva stare; a
cui non voleva dare ascolto.
Sospirò
sommessamente, immettendo più aria possibile nei suoi polmoni,
cercando di concentrare la sua mente in quel gesto che sarebbe dovuto
essere naturale, ma che aveva paura di aver dimenticato.
Non
si era mai sentito così in tutta la sua vita: arreso, senza una
speranza a cui aggrapparsi. Perso e incapace di rialzarsi, o almeno
di galleggiare; perso e incapace di voler
trovare un modo
per non lasciarsi andare.
Ne
aveva passate e superate di tutti i colori. Era sfuggito alla sua
morte e aveva sconfitto anche quella della persona che più amava al
mondo. Non si era fatto problemi a sfidare la sorte per lui, né
chiunque gli si parasse davanti. Aveva sbagliato e trovato sempre il
modo per rimediare ai suoi errori…ma allora era diverso; a quel
tempo aveva qualcosa per cui lottare e stringere i denti. Aveva una
speranza – seppur spesso troppo fievole e troppo simile a una
stupida illusione – a cui aggrapparsi. Una meta, un obbiettivo, uno
scopo da raggiungere a tutti i costi; aveva
Brian.
Brian.
Gli costava così
tanto anche solo pensarlo quel nome così comune, che nella sua
semplicità nascondeva troppo del suo passato e molto ancora del suo
presente e di quello che – sempre che ne avesse ancora uno –
sarebbe stato il suo futuro.
Un nome che amava
pronunciare, finché il suo proprietario era lì per ascoltare le sue
chiamate; o anche quando non voleva parlargli per quel suo brutto
carattere, ma era comunque presente e non poteva fuggire dalla sua
testardaggine.
Ma
ora non ci sei.
Pensare quella
verità fu troppo difficile, come ogni volta.
Ammettere di aver
fallito e aver scritto la parola “fine” era la cosa che più lo
feriva in assoluto, tanto che spesso perfino il suo cuore si
rifiutava di crederci e provava a ribellarsi, battendo più forte,
quasi a fargli male.
Un altro respiro
sfuggì dalle sue labbra e la sua fronte andò a imprimersi sul vetro
che la domestica aveva pulito accuratamente. Passò gli occhi
sull’immensa città che si perdeva davanti ai suoi occhi, senza
riuscire ad ammirarne davvero i contorni, lasciando che quelle
innumerevoli luci perdessero la loro consistenza e si trasformassero
in fasci informi per l’insistenza con cui osservava.
Si morse le labbra
e con uno sbuffo arrendevole si allontanò dall’enorme finestra,
con l’intento di farsi una doccia e provare a lavar via i troppi
pensieri che continuavano ad arrovellarglisi in testa, ma il trillo
acuto del telefono lo costrinse a rimandare i suoi piani. Non aveva
alcuna voglia di rispondere, né di parlare, chiunque fosse all’altro
capo del telefono – perché l’unica persona che avrebbe voluto
sentire non l’avrebbe chiamato – eppure, incapace di sopportare
ancora quel suono fastidioso, si convinse ad afferrare il cordless.
«Pronto?»
pronunciò svogliatamente, ed il suo cuore perse un battito
nell’udire la voce del suo interlocutore.
«Topino,
ti disturbo?»
«Deb.» sussurrò
lui, quasi cercasse una conferma di cui in fondo non aveva bisogno,
prima di riscuotersi e affrettarsi ad aggiungere: «No, certo che no.
Come stai?»
«Al solito.
Sempre più vecchia e sempre più indaffarata.» la sentì
ridacchiare con quel suo buffo modo e l’immaginò piena di quei
suoi gingilli stravaganti e colorati. «Che ore sono lì da te?»
«Sono a New York,
non in Australia.» sorrise divertito, seppur fievolmente. «Non c’è
il fusorario. Sono meno di quattrocento miglia.»
«Ah, ma davvero?»
si finse stupita lei, e Justin capì che era tempo di una delle sue
battute acide. «Credevo tu fossi molto più lontano, visto che è
più di un anno che non ti fai vedere! Un anno e…»
«Un anno e sei
mesi proprio oggi, lo so.» l’anticipò lui. «Mi dispiace, ma ho
avuto da fare e…»
«Stronzate.» lo
interruppe, e il tono che assunse gli fece intendere che non
ammetteva repliche. «Non m’importa un fico secco dei tuoi impegni.
Potevi tornare almeno per il giorno del Ringraziamento, o per
Natale!»
«Hai ragione,
ma…»
«Lo so che ho
ragione!» esclamò, e Justin sorrise ancora. Almeno di una cosa era
sicuro: Debbie non sarebbe mai cambiata, ovunque lui fosse, qualunque
cosa facesse o dicesse; e per come si erano messe le cose, questo lo
rincuorava un bel po’. «E mi auguro che tu non voglia darci buca
anche quest’anno!»
«Non lo so.»
«Justin!» lo
chiamò lei; e quando lo chiamava per nome, non significava niente di
buono.
«Ascolta
Deb, è complicato…» sospirò stancamente. Gli mancava tutto di
Pittsburgh, tutto,
ma non poteva tornare. Non se la sentiva ancora.
«Complicato?
Io non ci vedo un bel niente di complicato!» strillò lei, sempre
più decisa. «Alza quel tuo bel culetto sodo e portalo a Pittsburgh.
Cosa c’è di complicato
in questo?!»
«Non è questo.»
esitò lui in risposta, vacillando davanti alla sua determinazione.
«È che…»
«Te lo ripeterò
una volta soltanto, quindi apri bene le orecchie.» si soffermò per
un attimo come per assicurarsi che la stesse ascoltando attentamente
e riprese: «Noi ti aspettiamo qua. Non m’importa quali
fottutissimi impegni tu abbia, perché anche se sei un grande
artista, la tua cazzo di casa è sempre qua ed io è qui che ti
voglio.» la sentì sospirare e strinse più forte il cordless per
aiutarsi a ricacciare indietro le lacrime, mentre davanti agli occhi
gli passavano davanti tutti i suoi gesti abituali e gli parve di
averla lì nel suo loft. Quello che più lo feriva era non poterla
abbracciare. «Se ci tieni ancora a noi, sai cosa fare. Altrimenti
smetterò di romperti le scatole.»
Deglutì a forza e
alzò gli occhi al soffitto, dando il consenso a una delle lacrime
che gli inondava gli occhi di rompere l’argine e scendere lungo la
sua guancia. Si passò la lingua sulle labbra e cercò dentro di sé
la forza di parlare ancora. «Non dire stronzate. Lo sai quanto ci
tengo a voi. Siete la mia famiglia.»
«E
per noi è lo stesso, topino.»
gli rispose Debbie, con un tono molto più dolce. «Ti aspettiamo qua
per le nove.»
«Non ti prometto
niente, Deb.» riabbassò lo sguardo mortificato come se potesse
davvero vederlo e concluse con un fil di voce: «Scusami.»
«Dovrai
affrontarlo prima o poi.» lo rimbeccò lei. «Dovrete
affrontarlo.»
«Lo
so.» si affrettò a dire. Non aveva assolutamente voglia di parlarne in quel momento. Non aveva voglia di parlarne mai.
«Adesso scusami ma…»
«Devi
andare, perché hai da fare.» immaginò di vederla scuotere la testa
e mettersi le mani sui fianchi come al solito, e riuscì a
sorriderne. «Sempre impegnati voi vip!»
«Non
sono un vip!» ridacchiò stavolta. E gli suonò perfino strana e
sconosciuta quella sensazione. Da quanto non rideva? «Sono sempre il
tuo raggio
di sole.»
«Certo, e mi
manchi tanto.»
«Mi manchi anche
tu. Mi mancate tutti voi.» si sforzò di dire, seppur soffocato dal
nodo che gli stringeva la gola. «Ci sentiamo Deb. Stammi bene e
saluta tutti, ok?»
«Cerca di venire
tu a salutarli.»
«Ci proverò,
ciao.» sussurrò, improvvisamente stanco, prima di premere il tasto
per riagganciare e lasciarsi ricadere sul suo divano bianco.
Ennesimo sospiro
ed ennesima lacrima.
Justin
prese a fissare il soffitto socchiudendo gli occhi. Si sentiva
perennemente spossato, qualunque cosa facesse. Aveva perso quella
verve
che lo caratterizzava e il sorriso luminoso che gli aveva fatto
guadagnare quello sciocco soprannome con cui tutti lo identificavano:
“raggio di sole”.
Si era perfino
dimenticato in che occasione Deb gliel’aveva affibbiato ma,
guardandosi allo specchio, non vedeva che una pallida copia del quel
se stesso. Non era più un raggio di sole, ma un triste riflesso
opaco a cui nessuno avrebbe fatto più caso.
Si passò una mano
tra i capelli biondissimi e setosi, ormai più lunghi di come li
avesse mai avuti in precedenza; così come piacevano a sua madre e a…
Scattò seduto,
guidato da un guizzo di rabbia, e poggiò i gomiti sulle ginocchia
per stringersi la testa tra le mani nel vano tentativo di riuscire a
strappare via certi pensieri. Si stropicciò la faccia e si massaggiò
le tempie, ma certi ricordi non avevano la ben che minima intenzione
di porre fine a quella infima tortura.
La percepiva
chiara nella mente quella voce, insieme alle parole che si erano
detti. Le urla al telefono e il pugno di rabbia sferrato contro il
muro. La delusione che cresceva di pari passo con la rabbia, fino
allo sprofondare nell’oblio della tristezza…
«Non posso
crederci!» lo aveva urlato, stringendo con forza il cellulare. «Stai
parlando sul serio?!»
«Perché
non dovrei?»
gli
aveva risposto con semplicità disarmante, facendolo tremare per un
attimo.
«L’avevi
promesso, Brian!» urlò ancora. «Avevi promesso che saresti
venuto!»
«Io non ti ho
promesso proprio un bel niente. Non era quello che ci eravamo detti
quando sei partito.»
«Pensavo
t’importasse di vedermi, ma non ti sei mai degnato di passare
neanche per un giorno!»
«Ho avuto da
fare» replicò con tono piatto. «E poi non mi pare che tu abbia
fatto diversamente…»
«Ma
io avevo le mostre!»
«E io il
lavoro.»
Strinse i
propri capelli biondi con forza, preda di un attacco isterico. Era
passato quasi un anno da quando si era trasferito a New York e da
allora non si erano più visti. Quando era partito era triste, ma
convinto che sarebbero riusciti ad affrontarlo e resistere in qualche
modo…perché si amavano; eppure in quel momento non gli parve che
una sciocca illusione.
«A che cazzo
ti serve essere il capo se non puoi fare come ti pare? Se non puoi
prenderti neanche un paio di giorni?!»
«Esserlo non
significa potersene sbattere i coglioni e andarsene a giro per i
cazzi propri. Ho delle responsabilità, sai cosa sono?»
«Tutti le
hanno, Brian!» lo attaccò esasperato. «Non solo tu! Eppure tutti,
e ripeto tutti, hanno trovato un momento per farmi una visita. Tutti
meno che te!»
«Evidentemente, ‘tutti’ avevano meno impegni di me.» restarono per un attimo in
silenzio, finché non lo sentì sbuffare. «Senti, ho da fare…»
«Certo! Tu hai
sempre da fare!»
«Ho una cazzo
di riunione, va bene?!»
«Ah, lo so! È
un anno che sei sempre sommerso di riunioni ogni volta che dobbiamo
parlare o discutere! Una volta la scusa era che volevi fare la
doccia, almeno hai cambiato!»
«Lasciamo
perdere…»
La rabbia
lasciò lo spazio alla delusione, mista alla tristezza per
quell’ennesimo litigio che ormai era il loro unico modo di
comunicare. «Già.»
pronunciò, con la voce rotta da un pianto che non riusciva a
trattenere. «Forse è davvero meglio lasciar perdere. Lasciar
perdere tutto.».
lasciar
uscire quelle parole gli era costato una fatica immensa, soprattutto
perché mai avrebbe pensato di doverle dire ancora; mai avrebbe
voluto farlo.
Brian rimase
interdetto per un attimo. «Di cosa stai parlando?»
«Quando sono
venuto qua, l’ho fatto contando sul fatto che comunque ci amavamo e
che in qualche modo avremmo saputo gestire la cosa. Ma da quando sono
arrivato, tra noi non va niente come avevo sperato…»
«Nessuno ha
mai detto che sarebbe stato facile. Ricominci a scappare ogni volta
che le cose non vanno come vorresti?» domandò, senza preoccuparsi
di lasciar trasparire l’irritazione della sua voce.
«Non sto
scappando. Sto semplicemente dicendo le cose come stanno.» strinse i
denti e li digrignò. «Sembra che non t’importi.»
«Oddio, ti
prego! Risparmiami le tue insicurezze da ragazzina adolescente.»
«Ovviamente,
perché tu non ne hai!»
«No, non ne
ho. E allora?» sentì attraverso il cellulare il suono di un tonfo
ed immaginò che avesse colpito con un pugno la scrivania. «È un
problema?»
Prese un grosso
respiro e si appoggiò ad una delle colonne di mattoni del loft in
cui si era trasferito da poco. «Ciao Brian.» si sforzò di dire,
senza però riuscire a terminare la chiamata.
L’altro non
rispose immediatamente, ma il suono dei suoi respiri gli fece
intendere che era ancora lì. «Non ne siamo proprio capaci, eh?»
«L’avrei
tanto voluto, ma sembra proprio di no.» e non riuscì a trattenere
le lacrime. «Mi manchi, cazzo!»
«Justin, devo
andare davvero. Ti chiamo stasera.»
Si asciugò il
viso con la manica della felpa e tirò su col naso. «Servirà
davvero a qualcosa?»
«Ciao.»
rispose l’altro e, dopo qualche secondo di silenzio, lo sentì
riattaccare.
Preda nuovamente
di un attimo di rabbia, colpì con un calcio uno degli stupidi e
costosi soprammobili che gli erano stati regalati per omaggiarlo, e
l’osservò rotolare più lontano nel parquet.
Quella famosa sera
poi, Brian non l’aveva chiamato e lui non se l’era proprio
sentita di comporre il suo numero, aumentando quel senso di
frustrazione che, come una gabbia troppo piccola, continuava a
stringerglisi addosso.
Si erano sentiti
il giorno dopo e ne era uscito l’ennesimo litigio; e quello dopo
ancora, sempre con lo stesso risultato. Non riuscivano più a fare
altro ormai, e ogni volta sembrava andar sempre peggio. Telefonate
sempre più rare, più arrabbiate e sbrigative. Briciole di un amore
che stava lentamente riducendosi in pezzi troppo piccoli, anche per
pensare di essere rincollati.
Si rialzò,
incapace di star fermo; preda di momenti di sconforto in cui
desiderava solo distendersi e dormire per ore e ore, alternati da
quelli passati a gironzolare in quel loft troppo grande e silenzioso.
A volte dipingeva
per sfogarsi, ma non era più come prima.
Colori sempre più
cupi e opachi, pennellate rabbiose, figure sempre più stilizzate
dalle forme aggressive e aguzze, e schizzi confusi; la trasposizione
perfetta di quello che si stava muovendo dentro di lui.
E
la cosa peggiore…l’incapacità di disegnare ancora sia se stesso
che lui.
Guardava ai suoi
vecchi lavori e li sentiva lontani anni luce, come appartenenti alla
mano di qualcun altro; alle dita esperte di una persona completamente
distante e diversa da quello in cui si era trasformato; o a quella
grossa tela poggiata in un angolo e coperta da un lenzuolo
immacolato, sotto cui giaceva il suo ultimo tentativo incompiuto di
riprodurre quei lineamenti che conosceva anche meglio dei suoi, e che
sembrava poterlo guardare e ricordargli la sua presenza in ogni
momento; emblema del suo degrado come uomo, come artista e di quella
sua abilità innata che tutti continuavano a vedere ed elogiare, meno
che lui.
Lo sguardo gli
cadde sul prezioso tavolino basso di vetro, su cui erano state sparse
disordinatamente riviste e giornali in cui c’era almeno un accenno
a quel “genio” che tutti decantavano quale Justin Taylor, ma in
cui non riusciva a identificarsi. Con un gesto secco li rovesciò
tutti a terra, liberando quella superficie trasparente da qualsiasi
cosa.
Avrebbe voluto
strapparli tutti, incendiare qualsiasi cosa lo riguardasse da quando
si era trasferito in quella stramaledetta città per seguire un sogno
che ben sapeva essere meno importante dell’altro, che continuava a
conservare in fondo al cuore.
Si ravvivò i
capelli e riprese il cordless in mano, fissandolo nell’indecisione
di compiere un numero che, nonostante il tempo, non aveva mai
dimenticato. Compose le prime cifre, per poi chiudere gli occhi e
cancellarle tutte.
Non riusciva a
chiamarlo; non dopo quello che si erano detti. Non dopo come era
finita tra loro.
Perché
era finita.
Niente pause,
niente “forse”. Era finita, punto e basta.
Respirò a fondo e
tornò a distendersi sul divano, abbracciò il cuscino e chiuse gli
occhi.
Aveva solo bisogno
di dormire, cullato dalle lacrime e dalla disperata speranza di non
sognare ancora quel matrimonio mai celebrato.
*'*'*
"I miss you”
- Blink 182
«Brian.» lo
chiamò Cynthia, entrando nel suo ufficio carica di fogli e cartelle,
con i capelli biondi acconciati con una matita. Lui però parve non
sentirla, troppo impegnato a fissare un punto a caso davanti a sé e
a stringere tra le mani quel cellulare di cui non riusciva a premere
i tasti. «Brian, sei in fase creativa in un mondo parallelo o il
logo della Apple è diventato improvvisamente interessante?»
Lui si limitò a
sollevare lo sguardo, senza darle a vedere quanto in realtà fosse
realmente perso in un altro mondo, e incrociò le mani in grembo,
dopo aver posato malamente il cellulare sulla scrivania. «Cynthia.»
la chiamò, con quel suo tipico tono di sufficienza. «Dimmi una
cosa. Per cosa ti pago?»
«Perché svolgo
il mio lavoro meglio di chiunque altro?» azzardò lei, con le
sopracciglia inarcate per quella strana domanda.
«Uhm. Esatto.»
convenne, e arricciò la bocca annuendo un paio di volte con la
testa. «E tra le tue mansioni c’è per caso compreso l’obbligo
di fare queste battute del cazzo?»
«Uh, uh. Qualcuno
si è svegliato dal lato sbagliato questa mattina?» replicò la
donna, ma l’occhiata poco amichevole che lui le rivolse, la
distolse dal continuare a punzecchiarlo.
«Avanti, dimmi
che vuoi prima che ti licenzi.»
«Tieni.»
rovesciò quella marea di scartoffie sulla sua scrivania e sorrise,
ticchettando con la penna sulle sue labbra. «Me li ha dati Ted. Ha
detto di averli controllati almeno un paio di volte, ma se vuoi puoi
ridarci un’occhiata.»
Brian sollevò
qualche foglio distrattamente e lo lasciò ricadere. «No, mi fido.»
«Ehi, ma che ti
succede?»
«Niente. Torna a
lavoro.» prese il mouse e si finse impegnato a cercare qualcosa
sullo schermo.
«È
niente
da mesi. Ed è uno strano
niente.»
«Cynthia!»
esclamò con voce esasperata, e la vide sussultare.
«Sì, lo so. Se
non vado mi licenzi.»
Brian fece uno dei
suoi sorrisetti di circostanza, anche più falsi del solito, e
l’osservò mentre usciva dal suo ufficiò, prima di riaffondare
contro schienale della morbida poltrona in pelle e tornare a perdersi
nei suoi pensieri.
Osservò la sua
agenda stracolma d’impegni, così piena da far sembrare ogni post
uno strano groviglio di segni; staccò il post-it giallo che spiccava
sugli altri e sbuffando lesse quelle poche righe, accennando ad un
sorriso.
“Festa del
Ringraziamento a casa Bruckner Novotny. Non ti azzardare a mancare, o
ti sguinzaglio dietro mia madre.”
Inutile dire che
non aveva nessunissima voglia di sedersi a tavola e assistere
all’esibizione del matrimonio perfetto – quello di Ben e Michael
– del fidanzamento perfetto – con Ted e Blake – o subirsi i
piagnistei dell’altro single rimasto – quella checca isterica di
Emmett – né tantomeno poteva anche lontanamente pensare di dover
sopportare Debbie che cercava di rimpinzarlo con quel dannato
tacchino ricordandogli ogni circa dieci minuti quanto fosse dimagrito
e sciupato, come se sentirselo dire potesse farlo star meglio.
Era vivo, lo
sapeva e non aveva certo bisogno che gli altri glielo ricordassero
continuamente, ma voleva stare solo ed essere lasciato in pace.
In fondo, lui non
aveva proprio un bel niente per cui dire “grazie”, specie se
ripensava alla delusione ricevuta proprio in quella stramaledetta
festività, esattamente un anno prima, quando Justin all’ultimo
minuto l’aveva chiamato per dirgli che non sarebbe riuscito a
tornare a Pittsburgh.
Aveva aspettato
così tanto quel momento e la possibilità di poterlo finalmente
riabbracciare, che sentire quelle parole era stato come ricevere
un’improvvisa doccia fredda, e in un misero istante il suo sorriso
si era raggelato fino a svanire.
Non
era mai stato un tipo troppo pessimista, ma era stato inevitabile
iniziare a pensare che quello fosse “l’inizio della fine”,
esattamente come quando il suo
raggio di sole
era partito per Los Angeles e aveva iniziato a rimandare il suo
rientro; con la sola differenza che in quell’occasione erano
riusciti a ritrovarsi.
Sbuffò
rumorosamente, dopo aver gonfiato le guance ed essere riuscito a
stento a trattenersi dall’afferrare il cellulare e chiamarlo,
quando questo lo fece sobbalzare iniziando ad agitarsi e trillare.
Non
volle illudersi di vedere quel
nome sul display e fu una mossa furba per evitare l’ennesima
delusione, perché le lettere che vi lampeggiarono, andavano a
comporre quello di tutt’altra persona: “Brandon”.
«Quante volte ti
ho detto di non chiamarmi a lavoro?» si accanì immediatamente
contro di lui, dopo aver risposto.
«Infatti ti sto
chiamando sul cellulare.» rispose l’altro beffardo. Ancora non era
riuscito ad abituarsi all’idea che potesse esistere qualcuno
irritante esattamente quanto era capace di esserlo lui stesso.
«Che vuoi?» si
affrettò a chiedergli. Non aveva voglia di perdere tempo a
conversare.
«Il solito.
Stasera Babylon?»
Brian restò in
silenzio per un attimo e si umettò le labbra.
«Sì, certo.»
rispose infine, e sentì l'altro ridere.
«D’accordo,
Kinney. Ci vediamo là.»
«Ciao.» si
limitò a replicare, prima di riattaccare senza alcun entusiasmo.
La
loro era certamente la peggior “coppia” – sempre che così si
potessero definire – di “non amici” di questo mondo. Lui e
Brandon non erano niente.
Non erano amici,
ma a malapena conoscenti. Non avevano avuto nessun incontro a sfondo
sessuale né progettavano di averne uno; o almeno non rientrava nelle
intenzioni di Brian. L’unica cosa che interessava l’uno
dell’altro, e che quindi faceva da collante a quell’assurda
alleanza, era il loro modo di essere e di fare.
Per quanto fosse
assurdo che due “re” potessero convivere nello stesso regno,
avevano trovato il modo di farlo, perché entrambi trovavano
conveniente quel rapporto.
Brandon dal canto
suo riceveva ogni agevolazione dall’essere in compagnia del padrone
del locale, mentre Brian poteva contare sul fatto che non avrebbe mai
sentito petulanti raccomandazioni o dissensi da uno come lui, fatto
della sua stessa identica pasta. Brandon era quello che gli ci voleva
per non pensare a Justin, al cambiamento che per il suo amore era
stato capace di fare, ma soprattutto per provare a tornare ad essere
quello di un tempo, prima di quella maledetta notte trascorsa da
quasi sette anni ormai.
Infilò il
cellulare nella ventiquattrore di pelle nera e, dopo essersi
sistemato la giacca, s’infilò il cappotto e raggiunse Cynthia. «Io
me ne vado.» le disse, lasciandola di stucco. «Disdici gli
appuntamenti per oggi. Inventati qualcosa.»
«Brian, ma…»
«Quale parte del ‘disdici gli appuntamenti’ non ti è chiara?» sbottò con uno
sguardo fulminante. «Io sono il capo, tu la mia assistente. E a meno
che le cose non siano cambiate nel giro di qualche minuto, sono
ancora io quello che prende le decisioni.»
Cynthia prese in
mano la cornetta e cercò un numero sul palmare, lanciando di tanto
in tanto occhiate a Brian che nel frattempo stava uscendo con grandi
falcate. «Faresti bene a chiamarlo. Stai diventando peggio di una
zitella acida.»
Lo vide bloccarsi
sulla soglia e voltarsi appena. «Non ti pago per farmi da
psicoterapeuta, né come cupido per froci. Fatti gli affari tuoi e fa
quelle cazzo di telefonate.»
«Ok, capo.»
sibilò sollevando le sopracciglia e si riscosse, quando lo sentì
sbattere la porta. «Cristo, fa che quell’angelo torni a Pittsburgh
o ci mangerà vivi.»
Uscire all’aria
aperta fu liberatorio, almeno per qualche secondo, prima che la sua
mente iniziasse a registrare ogni singolo angolo di quella dannata
città in cui lui e Justin avevano parlato, riso o litigato; o
perfino scopato.
Aveva iniziato a
detestare quel posto dove ogni cosa sembrava esser stata segnata da
quella loro assurda storia, che si era ostinato per anni a non voler
definire tale, ma che lo aveva incatenato molto più di qualsiasi
altro legame.
Aprì
rabbiosamente la portiera della sua Corvette e si lasciò ricadere
sul sedile, dopo aver gettato la ventiquattrore sul posto del
passeggero, e appoggiò la fronte sul volante. Inspirò profondamente
e accese la radio.
Non voleva pensare
e non voleva ricordare, eppure qualunque cosa facesse, alla fine
sembrava rivelarsi sempre completamente inutile. Continuava a vedersi
scivolare tra le dita la sua intera vita, come se non riuscisse più
a controllarla, volatile e inafferrabile come fumo, mandandolo
letteralmente in bestia.
Lui
che era abituato ad avere il controllo su ogni aspetto della sua
esistenza; lui che faceva e imponeva le proprie regole con chiunque;
lui che non doveva rendere conto a nessuno, che non aveva pensieri ed
era libero
da qualunque cosa, si era ridotto ad essere intrappolato nel caos di
una speranza di felicità persa, che andava contro tutti i suoi
principi e che l’aveva cambiato così radicalmente da avergli fatto
smarrire ciò che era sempre stato.
Il vecchio Brian
Kinney non esisteva più, e lui non riusciva ad accettarlo.
«Non
ce la faccio più!»
lo
sentì urlare attraverso il telefono. «Possibile che tu non ci sia
mai? È un anno che non ci vediamo! Un fottutissimo anno!»
«E credi che
la colpa sia solo la mia?» alzò la voce a sua volta e tirò un
calcio su una delle travi del loft. «Infatti, devo dire che il
giorno del Ringraziamento l’abbiamo proprio trascorso bene
insieme!» pronunciò ironico con il suo solito sorrisetto stampato
in faccia, anche se dentro si sentiva ribollire di rabbia.
«È per lavoro
che sono rimasto a New York, lo sai anche tu!» ribatté Justin e gli
venne da ridere. «Potevi raggiungermi. Potevamo passarlo qua!»
«Sai che non
voglio intromettermi nei tuoi affari.» aveva ripetuto così tante
volte quella frase che ormai ne aveva perso il conto.
«Assistere a
una mostra la chiami un’intromissione?!»
«Che cazzo
c’entro io con quella roba?!» corrugò la fronte e si passò una
mano tra i capelli. «Era inutile che venissi là. Non avremmo avuto
tempo per stare insieme.»
«Di certo non
ne avremmo mai se continuiamo a stare in due città diverse, e se tu
ti ostini con questa stronzata dell’intromissione!»
«Sapevi che
sarebbe stato così quando sei partito. Quindi non dare la colpa a
me!»
«Brian, tu mi
hai detto di non rinunciare al mio sogno! Tu mi hai detto di non
voler sposare qualcuno che rinunciava a se stesso per amore!»
«E mi pare che
fossi d’accordo.» si limitò a puntualizzare. Conosceva a memoria
ogni battuta di quella discussione. Da troppo tempo non parlavano
d’altro.
«Penso sempre
più che sia stata una cazzata.» mormorò Justin, così fievolmente
che riuscì a malapena a sentirlo.
«Cosa?» trovò
il coraggio di chiedere, dopo aver deglutito. «Andartene o
continuare a stare insieme?»
«Andarmene.»
rispose dopo qualche secondo. «Anche se non credo che si possa
parlare di ‘stare insieme’. Non era così che l’avevo
immaginato.»
«Non è
giusto, non è bello…» iniziò lui, lasciando la frase a metà.
Sapeva che il suo raggio di sole l’avrebbe terminata.
«…ma è
così.» sospirò e gli parve di sentirlo singhiozzare. «Non ce la
faccio, Brian.»
«Lo so.» fu
l’unica cosa che seppe dirgli, nonostante il suo cuore gli urlasse
tutt’altre parole.
«Forse…»
iniziò Justin incerto, e Brian già sapeva che non avrebbe mai
voluto sentire il resto. «…sarebbe meglio lasciar perdere.»
«Forse, sì.»
Inforcò gli
occhiali da sole per nascondere la luminosità dei suoi occhi verdi,
bagnati da lacrime che non si era ancora permesso di piangere, e girò
la chiave per mettere in moto, osservando la sua immagine riflessa
nello specchietto. «Brian Kinney, ma come cazzo ti sei ridotto?»
rise di se stesso, prima di scuotere la testa e immettersi nel
traffico, diretto verso il negozio di Michael.
*'*'*
«Sono tre dollari
e settantacinque.» comunicò al ragazzino, prima di battere sui
tasti della cassa e imbustare il fumetto. Prese i soldi e sorrise.
«Grazie.»
«Alla prossima!»
lo salutò, avviandosi verso l’uscita e scostandosi su un lato per
far passare qualcuno che stava entrando; qualcuno che era solo una
vaga ombra del suo migliore amico.
«Come mai
l’imprenditore frocio più importante di Pittsburgh vaga da queste
parti?» gli chiese, appuntando la vendita sul computer.
«L’imprenditore
frocio più importante, punto.»
ribadì per l’ennesima volta, togliendosi gli occhiali da sole per
mordicchiare una delle aste.
Michael sorrise e
scosse la testa rassegnato. In fondo un po’ ammirava il suo
tentativo di dimostrare che stava bene dopo la sua rottura con quella
testolina bionda, ma poteva convincere e ingannare il resto del
mondo, non certo lui.
«Se sei qui per
dirmi che non ci sarai alla cena del Ringraziamento, ti avverto che
mia madre è pronta a strapparti l’unico coglione che ti è
rimasto.»
«E togliere alle
lesbiche la possibilità di procreare grazie a uno sperma di prima
categoria?» ammiccò e prese in mano uno dei fumetti, fingendo
interesse. «Sarebbe troppo crudele perfino per lei.»
«Non si sa mai
cosa può succedere con Deborah Jane Grassi Novotny.»
Lo vide sorridere,
ma era ben lontano dal credere che fosse uno di quelli sinceri. «Non
penso di venire comunque. Credo che me ne andrò a Ibiza.»
«Devo
preoccuparmi?» chiese, abbassando lo sguardo al cavallo dei suoi
pantaloni firmati.
«Alla
vera
Ibiza.»
specificò, inarcando le sopracciglia. «Mi merito una bella vacanza.
In fondo la Kinnetik non potrebbe andar meglio.»
«Già, la
Kinnetik.» mormorò Michael, guardandolo dritto negli occhi. «E tu
come stai?»
Brian allargò le
braccia, come per indicargli quanto fosse dannatamente bello e
sorrise. «Indosso un nuovo completo di Armani, mocassini di Gucci,
cappotto di Hugo Boss e ho un portafoglio strapieno. Sono il frocio
più realizzato di Pittsburgh e ancora il migliore sulla piazza. Chi
sta meglio di me?»
«Sto parlando
seriamente.»
«Anch’io!»
esclamò, con una smorfia stranita.
«Non l’hai più
sentito?» domandò allora con un sospiro. Quando ci si metteva era
peggio di un bambino; e pensare che si era anche convinto che fosse
finalmente maturato
«Chi?»
Michael
roteò gli occhi e incrociò le braccia al petto. Era ogni giorno più
dura provare a superare la scorza ruvida e dura dietro la quale era
tornato a chiudersi, ma non voleva pronunciare quel nome. Ormai
quelle sei lettere erano diventate una specie di tabù. «Sai
benissimo di chi
sto parlando.»
Brian distolse lo
sguardo e si passò la lingua sulle labbra, com’era solito fare
quando odiava dover rispondere a qualcosa.
«Mickey,
ascoltami. Mi stai ascoltando?» aspettò che annuisse e sorrise.
«Non so di che cazzo tu stia parlando e neanche m’interessa. Io
sto benissimo, perciò falla finita con queste tue fottutissime
convinzioni e smettetela tutti quanti, una buona volta, di tentare di
psicanalizzarmi. Io
sto bene, chiaro?»
«Brian, ascoltami
tu adesso.» replicò, e si sforzò di ignorare quel mugolio
infastidito che uscì dalle labbra del suo migliore amico. «Smettila
di fingere. Non ti fa bene.»
«Dio, sembri tua
madre!»
«Sto solo dicendo
la verità! Siamo amici da una vita, puoi sfogarti con me! Non hai
bisogno di nasconderti, lo vuoi capire?»
L’altro sorrise
e sbuffò scocciato. «Grazie Mickey per l’ennesima seduta. Fammi
sapere quanto ti devo e ti giro un assegno.»
«Brian…» lo
chiamò, nel tentativo di fermarlo mentre si dirigeva verso la porta.
«Ci vediamo!»
esclamò in risposta, e uscì dal negozio con un sorrisetto odioso.
Michael appoggiò
entrambi i palmi sul bancone e sbuffò rumorosamente.
Odiava vedere il
suo più caro amico – quello che riteneva un fratello – lasciarsi
andare al suo dolore e non accettare l’aiuto di nessuno. Odiava
essere allontanato da lui e rendersi conto di non poter far niente
per farlo stare meglio.
Ci pensò su un
attimo e poi sollevò la cornetta, digitando un numero per effettuare
una chiamata internazionale. Gli sarebbe costata un po' cara, ma non
sapeva più dove sbattere la testa. «Pronto, Linz?»
«Michael!» la
sentì esclamare, sinceramente felice. «Come stai?»
«Direi bene. Lì
le cose come sono?»
«Tutto ok, ma
Jenny Rebecca non c’è adesso. È fuori con Mel e Gus.»
«Non importa, è
te che cercavo.» sospirò e si decise a continuare, anche se già
poteva immaginare quanto si sarebbe incazzato Brian se l’avesse
saputo. «Si tratta di Brian.»
«Come sta?» gli
chiese lei, con uno tono di voce decisamente meno felice.
«È Brian! Non
ammetterà mai che sta soffrendo e tenterà fino alla fine di
nasconderlo a chiunque, ma…»
«La realtà è
che sta da cani.» completò la sua frase.
«Già…»
«Hai parlato con
Justin ultimamente?»
«No. Non saprei
che dirgli.» rispose, ma la realtà era anche che non voleva
intromettersi. Quello, Brian non glielo avrebbe perdonato davvero.
«Tu hai sue notizie?»
«Ci ho parlato
per poco più di un minuto. È praticamente irreperibile, ma non c’è
bisogno di parlare per capire come sta. Mi basta leggere una delle
migliaia di recensioni che scrivono ogni giorno su di lui.»
«Sì, ho letto
qualcosa.» sorrise e fece una smorfia. «Prima che mia madre mi
strappasse il giornale dalle mani e lo gettasse nella spazzatura. È
convinta di farlo per il bene di Brian. Cerca di tenerlo all’oscuro
di tutto, come se lui vivesse solo al Diner e non potesse leggere i
giornali in altre occasioni!»
«Be’, chiunque
non fa altro che elogiare le sue opere definendolo un genio. Un
ragazzo prodigio. Ma anche a chi non s’intende d'arte basta dare
una semplice occhiata per capire che è cambiato qualcosa dalle sue
prime esposizioni.»
«Un ‘periodo
cupo’.» convenne lui, citando le uniche parole che era riuscito a
leggere di un’intestazione, prima che la mano di Debbie arrivasse
ad accartocciare l’intero giornale.
«Credi che
tornerà a casa per il Ringraziamento?»
«Non
lo so. Non credo.» replicò, seppur una parte di sé continuasse a
sperare il contrario. Se pensava a quanto aveva trovato fastidioso il
modo in cui quel moccioso biondo era piombato nelle loro vite –
soprattutto in quella di Brian – e a quanto si era ingelosito per
come Justin era riuscito in quello in cui lui aveva sempre e solo
fallito, gli veniva da ridere. Alla fine, come tutti del resto, anche
lui aveva imparato a voler bene a quel raggio
di sole
e adesso non desiderava altro che vederlo di nuovo a Pittsburgh. Sia
perché in fondo gli mancava averlo attorno, sia per rivedere Brian
sorridere. «Per questo ti ho chiamata. Che ne pensate di venire da
noi? Credo che a Brian farebbe bene rivedere Gus e passare del tempo
con lui.»
«Penso di sì. Ne
parlo a Mel quando torna.»
«D’accordo.»
sorrise, mentre in lui si accendeva una fievole speranza.
«Ti chiamo più
tardi.» gli disse, prima di aggiungere: «Nel frattempo, occupati tu
di lui.»
«Ok, come
sempre.» rise e la salutò, per poi attaccare e iniziare a
mordicchiarsi le labbra nervoso; perché sapeva bene quanto sarebbe
stato più difficile prendersi cura di Brian, dal momento che non si
trattava più di riportarlo a casa perché era troppo fatto per
guidare, ma di riattaccare i pezzi di quel cuore che una volta sola
nella vita si era permesso di donare a qualcuno, e che era stato
disastrosamente sbriciolato.
*'*'*
«Signor Taylor!»
esclamò un uomo panciuto ed elegante, porgendogli la mano. «È una
vera fortuna poter assistere ad una sua personale. Lei è un vero
genio!»
«Troppo gentile.»
sorrise e strinse quella mano umidiccia. «Signor?»
«Rizzo. Peter
Rizzo.»
«Rizzo?» domandò
incuriosito. «Origini italiane?»
«Esatto. Mio
nonno lo era.» rise, con la sua voce cavernosa. «Ma non parliamo di
me. Piuttosto ci tengo a farle i miei più sentiti complimenti. Da
tempo non si vedevano opere di questo genere! Si lasci dire che si è
meritato pienamente le voci che girano su di lei!»
«Spero siano
positive!» si sforzò di scherzare, per quanto gli restasse
difficile. Stupidamente, anche solo l’aver saputo delle origini
italiane dell’uomo che gli stava davanti, l’aveva portato a
pensare a Debbie e a Pittsburgh.
«Certo
che sì!» puntò un dito nella sua direzione e sorrise. «Lei ha
tutte le carte in regola per arrivare molto
lontano. Più di quanto immagina!»
«Lo spero
vivamente, signore.» mentì spudoratamente. In realtà l’unica
cosa in cui sperava era di trovare il coraggio di tornare indietro
alla sua città, che non distava che poche miglia, ma che sembrava
lontano migliaia di anni luce.
«Bene, è stato
un vero piacere conoscerla. Adesso è meglio che vada.»
«Piacere mio.
Arrivederci.» disse e gli porse nuovamente la mano.
Quel Peter restò
per un attimo a fissarlo, continuando a stringere le sue dita e
sorrise. «Può giurarci, signor Taylor. Può giurarci.»
Justin non
comprese il perché di quel guizzo luminoso in quegli occhi scuri, ma
non ci fece poi così caso. Semplicemente si limitò ad osservarlo
mentre usciva dalla sala e a sorridere per quel suo buffo modo di
camminare – dondolando a destra e a sinistra ad ogni passo, forse
per la mole decisamente generosa – e per la cordialità con cui
salutava chiunque incontrasse.
Era
certo di non averlo mai visto prima d'ora, né di aver sentito il suo
nome – probabilmente anche perché nonostante fosse nel clou
della vita mondana della Grande Mela, era sempre rimasto sulle sue.
Comportamento un po’ da asociale forse, ma non era riuscito a fare
diversamente – eppure dal modo in cui tutti si premuravano di
salutarlo o scambiare almeno due chiacchiere, doveva essere un pezzo
grosso di quel mondo a cui ormai anche lui apparteneva.
«Ti prego, dimmi
che non hai fatto gaffe!»
Justin si voltò
con le sopracciglia inarcate nel sentire il suono di quella voce, fin
troppo familiare da poco più di un anno. «Jace, per chi mi hai
preso?»
«Per un asociale
ignorante che, potrei scommetterci le mie chiappe rifatte, non ha la
più pallida idea di chi sia quell’uomo.» gesticolò nevrotico,
sistemandosi la sciarpa di seta vistosamente fucsia intorno al collo.
«Le
tue chiappe sono salve.» rise. Jace era una delle poche persone a
cui aveva permesso di avvicinarlo, e che ancora riuscivano a farlo
ridere davvero. L’aveva conosciuto per caso, in un buffo incontro
sullo stile di quei film melensi e poco probabili che Daphne si
ostinava ad adorare. Si erano scontrati
per le scale, entrambi di fretta, lasciando volare in aria alcuni
schizzi di Justin ed i progetti di Jace. Si erano scusati velocemente
l’uno con l’altro senza guardarsi neanche in faccia – o meglio,
Justin non l’aveva fatto, troppo perso nei suoi pensieri – e
avevano proseguito per la loro strada. Probabilmente non si sarebbero
neanche riparlati, se tra i fogli di Jace non fosse finito uno dei
disegni dell’altro, che si era premurato di riportargli la sera
stessa, dando poi vita ad una chiacchierata dapprima imbarazzata, poi
sempre più accesa. Da lì Jace aveva scoperto di abitare nello
stesso palazzo di un astro nascente dell’arte contemporanea,
emozionandosi come un bambino come per ogni volta che sentiva “odore
di VIP”, mentre di lui, Justin aveva saputo che lavorava come
designer in un’azienda molto famosa a New York. Da quel giorno non
era più riuscito a liberarsi di quella sua confusionaria ed
ingombrante presenza e, forse, era stato meglio così. «Quindi, vuoi
dirmi chi è o provo a indovinare?»
«Peter Rizzo,
Justin! Peter Rizzo!» esclamò, riprendendo a gesticolare. Certi
suoi modi di fare gli ricordavano troppo Emmett, e forse era
principalmente per quello che aveva accettato la sua compagnia.
«Possibile che non ti dica niente questo nome?»
«Ehm, il tizio
con cui parlavo prima?»
«È
uno dei più famosi e importanti galleristi europei!»
rispose con tono scocciato. «Sai almeno cos'è l’Europa o il tuo
mondo finisce a Pittsburgh?»
«Mi sembra di
essere a New York adesso.» Jace sollevò un sopracciglio scuro e lo
fissò con aria scettica. «E comunque ho visto l’Europa solo in
cartina.»
«Dio,
sei così provinciale!»
sbuffò con una smorfia. «Ancora mi chiedo come tu possa tirar fuori
queste meraviglie. Sicuro di non soffrire di personalità multiple?»
«Jace,
proprio tu! Lo sai che gli artisti sono gli incompresi
per antonomasia,
no?»
«Già,
soprattutto quelli gay.» mosse le mani verso il colletto della sua
camicia e glielo tirò su. «Ma mai quanto i belli
e dannati.
E credimi, tesoro, tu fai certamente parte della categoria! Questo
tuo faccino d’angelo insieme a quell’aria da ‘lasciatemi in
pace, sono inarrivabile, non voglio avere niente a che fare con
nessuno di voi e se vi sorrido è solo perché sono ben educato’,
farà impazzire schiere di finocchi e ragazzine etero con l’ormone
in delirio, in qualunque angolo di questo mondo.»
«Io non ho l’aria
da bello e dannato!»
«Certo, come no.»
sventolò la mano sotto il suo naso e lo prese sotto braccio per
condurlo chissà dove. «E a me piace la patata.» afferrò due
calici di champagne e gliene porse uno. «Comunque, tornando a noi.
Se riesci a farti prendere sotto l’ala di Peter Rizzo, credimi, hai
la strada spianata per l’Europa mio caro! E potrai andartene alla
conquista di qualche culo oltreoceano!»
«Devo ancora
andare alla conquista degli Stati Uniti. Non voglio fare il passo più
lungo della gamba.»
«Justin,
sei l’anticristo degli artisti! Dovresti camminare almeno a due
metri da terra ed essere sfrontato e ribelle con tutto il successo
che hai avuto!» prese un sorso e continuò con i suoi sproloqui: «In
fondo, solo
a
New York, San Francisco, Los Angeles, Seattle, Chicago, Washington e
Denver baciano la terra su cui cammini. E a Pittsburgh staranno già
progettando le tazze con la tua faccia! Poi appenderanno un cartello
con scritto ‘qui è nato Justin Taylor’ con tanto di visita
guidata a pagamento e nomineranno una strada in tuo onore!» sollevò
le sopracciglia e sbuffò. «Certo tesoro, hai proprio ragione a
voler fare le cose con cautela! Ah, scusa, e dimenticavo Toronto e
Vancouver in Canada.»
«Jace, tu mi
sopravvaluti.»
«No,
caro. Tu
ti sottovaluti.»
«Comunque
sia, il problema non sussiste fino a quando questo famoso Peter Rizzo
non verrà a propormi qualcosa, giusto?» aspettò che l’altro
annuisse, seppur scocciato e concluse: «Quindi posso continuare a
fare il provinciale
ancora per un po’. E stasera direi che possiamo andare a Chelsea a
bere qualcosa.»
«Ci vediamo allo
Splash?»
«No, pensavo di
andarci giovedì allo Splash, stasera avrei voglia del Barracuda. Ti
va?»
Jace restò a
fissarlo stranito con i suoi occhi nocciola, impreziositi da mascara
e matita nera. «Giovedì è il giorno del Ringraziamento. Non torni
a Pittsburgh?»
Justin s’irrigidì
nel sentirglielo pronunciare. Si era sforzato così tanto di non
pensarci che alla fine aveva finito col dimenticarsene. «No, non
credo. Perché dovrei?»
«Fammi
pensare…forse perché l’anno scorso ti è quasi venuta una crisi
isterica per non averne avuto la possibilità? Oppure perché tutta
la tua famiglia è là, sia quella canonica che non? O magari per…»
«Non dirlo.» lo
ammonì. «Non voglio…»
«…‘sentire quel
nome’, lo so.» replicò l’altro, ripetendo quella frase come un
mantra. «Certo che potevi scegliertelo con un nome meno comune, che
so, Absalom, Crispian o Zubin!»
«Zubin?»
sollevò il labbro schifato. «È anche peggio del nome da fata di
Michael.»
«Di cosa?»
«No, niente.
Lascia stare.» rise tra sé e sé. «Comunque non penso di tornare a
Pittsburgh. Non ha molto senso, considerando che neanche tre giorni
dopo dovrei tornare qua e scappare ad Atlanta.»
«Atlanta?» si
passò una mano sulla faccia e roteò gli occhi. «Justin, di
grazia, che cazzo dovresti fare ad Atlanta?»
«C’è la
mostra, no?»
Jace sospirò e
gli circondò le spalle con un braccio, facendo frusciare la sua
costosa camicia bianca con i bordini in pendant con la sciarpa.
«Atlanta è una mostra già brillantemente avviata, e non hai
affatto bisogno di portare il tuo culo in quel posto.» gli diede una
pacca sul sedere e continuò, ignorando le sue occhiatacce: «Perciò
questa opera d’arte, e sì, mi riferisco ancora al tuo culetto di
marmo, è bene che vada in Pennsylvania ed affronti i fantasmi del
suo passato...uuhhh!» Justin lo fissò scettico, ma non si fece
scoraggiare. «Ovviamente supportato dal tuo amico Jace Wilson.»
«Cosa?!»
«Andiamo, me
l’avevi promesso! Voglio assolutamente vedere questo famoso
Babylon!»
Justin si liberò
dalla presa tentacolare dell’amico e si maledisse per aver bevuto
troppo quella notte di circa nove mesi fa, dopo l’ennesimo litigio
telefonico con Brian, in cui si era sfogato con lui e gli aveva
raccontato ogni singolo bel momento trascorso in quel locale, per
esorcizzare i pensieri tristi. «Io non ti ho promesso niente.»
«Bugiardo!»
«Ero ubriaco,
Jace! Quello che dico quando sono fradicio non conta!»
«Sì, invece.»
protestò con il broncio. «Justin Taylor e Jace Wilson alla
conquista di Pittsburgh! ‘J and J’, non fa figo?»
«No, sembriamo
una marca di caramelle.»
«Andiamo bel
biondo!» lo incitò, scompigliandogli i capelli. «Cos’è? Hai
paura?»
«Non ho paura! E
poi non ha senso! Avranno già preso impegni e non posso piombare
così a casa della gente!»
L’altro sbuffò,
poi improvvisamente sorrise e fece schioccare la lingua. «D’accordo,
allora andiamoci stasera o domani!»
«Stasera?»
ripeté incredulo. Sapeva di avere a che fare con un pazzo, ma non
pensava fosse tanto squilibrato.
«Sì! Adesso ce
ne andiamo a casa, facciamo i bagagli e partiamo!»
«Non è detto che
ci siano voli disponibili.» replicò con aria da saputello, sperando
di riuscire a dissuaderlo.
«E
chi ha parlato di aereo? Hai ancora quella splendidissima e
frocissima
macchina da esporre!» saltellò entusiasta sul posto e per un attimo
gli parve di vedere Emmett in quel suo sorriso esagerato.
«Jace, da New
York a Pittsburgh ci vogliono almeno cinque ore!» si lamentò
incredulo. «E sono già stanco!»
«Appunto!»
strillò Jace, e Justin si trovò a fissarlo sconcertato. Non sempre
riusciva ad afferrare il filo dei suoi ragionamenti. «Proprio per
questo ti ho detto che dobbiamo correre a preparare i bagagli!»
guardò l'orologio da polso e affermò: «Se ci muoviamo, per le…
nove di questa sera saremo lì!»
«Jace,
sono
stanco.»
ribadì, ma l'altro non si arrese.
«D’accordo,
allora domani!»
«Quale parte del
‘non verrò a Pittsburgh’ non ti è chiara?» domandò, e mai
come allora ebbe l’impressione di sentirsi parlare esattamente come
Brian.
«Oh, tu verrai.
Verrai eccome!» sorrise sornione, come se avesse già vinto; e
Justin non poteva neanche lontanamente immaginare quanto fosse vicino
alla realtà dei fatti.
***
Note finali:
Salve! XD
è la primissimissima volta che scrivo in questo fandom, ma dopo
aver visto Queer as Folk e averlo letteralmente divorato in meno di due
settimane, non sono riuscita a trattenermi dallo scrivere una sesta
stagione, nell'attesa e speranza di vederne una ufficiale, o almeno un
film, prima o poi!
So che di "seste stagioni" ne esistono già un po' su questa
sezione, ma considerando che proprio non riuscivo a disintossicarmi da
Brian e Justin, ho voluto provare a liberare le mie fantasie su di loro
e sul resto del cast, per vedere quello che ne sarebbe venuto fuori!
Cercherò di concentrarmi un po' su tutti i personaggi, come
fosse una serie vera e propria, anche se il "clou" della situazione
sarà sempre e solo "Britin"...perché è più
forte di me! Per quanto ami anche altri personaggi della serie, Brian e
Justin hanno letteralmente rapito il mio cuore, occupando il primo
posto tra le coppie dei telefilm! <3
Mi auguro di restare più o meno IC con i personaggi, spercie con
Brian che, bene o male, credo sia quello più difficile da
trattare, ma soprattutto con Michael, perché per quanto ci provi
a farmelo rimanere simpatico o comunque neutrale, proprio non ci
riesco...e non vorrei che questa antipatia trasparisse anche attraverso
i capitoli.
Insomma, come avrete capito è
trascorso un anno e mezzo da quando Justin ha lasciato Pittsburgh e
sono sei mesi che i due "piccioncini" hanno rotto i ponti,
perché incapaci, per un motivo o per un altro, di reggere le
redini della situazione. Il perché, conoscendoli entrambi,
credo sia abbastanza ovvio, comunque sia sarà spiegato presto!
Non credo ci sia molto altro da precisare in questo capitolo, perciò spero vi sia piaciuto e comunque, è ovvio che potete contattarmi per qualsiasi chiarimento!
Ah, ovviamente la
dicitura "altro personaggio" si riferisce a Jace e ad altri che
comprariranno più o meno frequentemente e con più o meno
rilevanza e, ancora ovviamente, i personaggi di Queer as Folk non mi appartengono e bla, bla, bla...la solita solfa, insomma!
La
scelta delle canzoni è semplicemente dettata dal fatto che
riconducono a qualche frase o al contenuto del capitolo, o
perché per scrivere quello specifico paragrafo, ho ascoltato
quelle...ovviamente, ognuno è libero di creare la propria "colonna sonora", o di non crearne affatto...è semplicemente una cosa che mi aiuta a scrivere, tutto qui! XD
Nel caso comuque vogliate ascoltare quelle che ho scelto, vi consiglio di cliccare sul link con il destro e aprire la pagina in un'altra finestra...altrimenti rischiate che venga caricata al posto della storia. :) purtroppo non ho ancora ben capito come fare per farla aprire altrove. -.-''
Ringrazio anticipatamente tutti coloro che leggeranno questa storia, ma soprattutto ci tengo a ringraziare di cuore Elena
- nonché la mia beta "Trappy" - che è diventata una Queer
as Folk addicted a causa mia, che sopporta tutti i miei colpi di testa
e con cui intrattengo infinite conversazioni sull'argomento, quasi al
limite del paradossale.
Per farla breve...siamo così innamorate e in astinenza da questo
telefilm, che ormai possiamo definirci seriamente malate!
Ancora grazie a tutti, e a presto.
Se tutto va bene, dovrei riuscire ad aggiornare ogni due settimane. :)
Un bacio, Veronica.
PS.
Non ho mai capito di che colore siano gli occhi di Gale - e quindi di
Brian - credo siano un marrone-verde cangiante, di quelli che
cambiano tonalità con il sole...comunque sia, alla fine, siccome
dire "marrone-verde cangiante" era un tantino lungo da
scrivere ogni volta XD ho optato per un verde scuro. Quindi, non
preoccupatevi, non sono daltonica...è solo che quegli occhi sono
così belli e particolari, ma anche letteralmente indefinibili nel
colore!
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Capitolo 2 *** Come home. ***
2.Come home
6x02 – Come
home.
[capitolo betato da Trappy]
“Hide u” -
Kosheen
Le luci
psichedeliche continuavano la loro danza colorata imperterrite,
riproducendo la stessa magica atmosfera da anni e anni; un’atmosfera
di cui non si era mai stancato, di cui credeva di non poter fare a
meno, tanto da averlo indotto a comprare quel posto e riportarlo al
suo splendore più di una volta.
Per Brian Kinney,
il Babylon era una specie di regno o una “zona di caccia”, dove
poteva ritenersi il migliore in assoluto e il più desiderato.
L’unica
persona che l’aveva quasi spodestato se ne stava appoggiata al
bancone di fianco a lui, sorseggiando tranquillamente birra, dopo
esser stato battuto in quella loro sciocca sfida e che, per qualche
assurdo motivo, aveva finito per diventare il suo “compagno di
nottate”; mentre l’altra
persona,
quella che era riuscita a far passare in secondo piano ciò che fino
al suo arrivo era stato il suo passatempo preferito; quella che aveva
stravolto il suo modo di essere e i suoi credo; quella che in poche
parole l’aveva cambiato, dandogli altre priorità, era lontana
miglia e miglia da lui.
Ordinò una
tequila e la trangugiò con un solo sorso, strizzando gli occhi per
il bruciore che gli solcò la gola, prima di ordinarne un’altra e
farle fare la stessa identica fine.
«Sei più
silenzioso del solito.» esordì Brandon, soffiando le parole al suo
orecchio.
«Non mi pare di
essermi mai impegnato in qualche patetico dibattito esistenziale con
te, né sulla politica, sui diritti dei finocchi, sulla fame del
mondo o qualsiasi altra stronzata di questo genere.» gli fece un
sorrisetto di circostanza e ordinò un Chivas Regal.
«Effettivamente
no.» convenne l’altro, e sollevò le spalle. «Ma c’è sempre
una prima volta.»
Brian lo guardò
disgustato, tenendo il bicchiere a mezz’aria. «Ma per favore!»
«Stavo solo
scherzando.»
«Lo spero
davvero, o potrei seriamente vomitare.» scolò interamente il
liquido ambrato e posò il bicchiere sul bancone.
Brandon gli fece
un cenno con la testa e sorrise. «Se continui così, non andrai
molto lontano.»
«Grazie
per l’avvertimento, mammina.»
sputò acido. «Ma se avessi avuto bisogno di una balia, me ne sarei
andato a trascorrere una penosa serata sul divano di casa Bruckner
Novotny!» fece una smorfia e l’altro sollevò le mani in senso di
resa.
«È che sembri
turbato da qualcosa.»
«Oh Cristo!»
imprecò e sollevò un sopracciglio. «Se proprio devi muoverla
quella cazzo di bocca, usala per qualcosa di più utile! Vai a
succhiarlo a qualcuno invece di fracassarmi l’unico coglione sano
che mi è rimasto.» si allontanò con fare nervoso e superò la
calca di gente, fino alla porta della Dark Room. Varcò la soglia,
con lo sguardo dritto avanti a sé, ignorando le moine che ogni uomo
là dentro si premurava di rivolgergli e tirò fuori dalla tasca il
popper per inalarlo da entrambe le narici, nella speranza che
servisse ad annebbiargli la mente quel che bastava per cancellare
certi pensieri.
Sentì qualcuno
picchiettargli sulla spalla e si voltò, lasciando che sulla sua
faccia si disegnasse una smorfia, nel momento in cui si trovò
davanti capelli biondi e occhi azzurri; ma non quelli che avrebbe
davvero voluto. «Che cazzo vuoi ancora?»
Brandon
sorrise divertito. «Che tu ammetta che ho ragione. È evidente che
hai qualcosa che non va.» si avvicinò di più al suo viso ed unì
le mani dietro la propria schiena. «Non che tu sprizzi gioia da
tutti i pori di solito, ma stasera sei anche peggio.»
Brian sbatté più
volte le palpebre e si lasciò andare a una risata. Si passò la
lingua sulle labbra e sorrise. «Che cazzo di problema hai?» scosse
la testa e lo guardò storto. «Se questo è un patetico tentativo di
approccio perché sei ancora deluso della volta che non te l’ho
messo nel culo, piantala immediatamente. Sei ridicolo.» si soffermò
un istante a fissarlo, e con un sorriso si voltò di scatto per
proseguire il suo tour fino a raggiungere uno dei suoi soliti posti;
il suo preferito per l’esattezza: quello strano trono, sistemato
dietro la rete.
Bastò un suo
cenno agli occupanti per far si che questi se ne andassero e gli
permettessero di abbandonarvisi sopra; e servì ancora meno prima che
uno dei presenti – un bel ragazzo moro che non doveva avere più di
venticinque anni, e che probabilmente si era già fatto –
s’inginocchiasse davanti a lui, liberasse il bottone dalla sua
asola e gli abbassasse la zip dei jeans.
Allontanò la sua
testa quando questo cercò di baciarlo, con un’espressione
infastidita e, passando una mano dietro la sua nuca, lo guidò verso
l’unico posto del suo corpo dove le labbra degli estranei potessero
sostare. Strinse quei capelli scuri tra le dita, abbandonò la testa
all’indietro e dischiuse le labbra. Si passò la lingua sulla bocca
e sorrise, facendo un cenno con la mano libera di saluto, quando con
la coda dell’occhio vide la figura di Brandon che lo stava
osservando divertito, e altrettanto impegnato con un ragazzetto
inginocchiato davanti a lui.
Quello era l’unico
motivo per cui l’aveva lasciato avvicinare e per cui gli aveva
concesso di conoscere un poco di sé: Brandon era simile al Brian che
era un tempo.
Con
lui – almeno solitamente – non doveva sviare domande fastidiose
come con tutti gli altri che avevano vissuto il privilegio di camminare al fianco di quel
sorriso luminoso; non doveva sostenere le occhiate di disapprovazione
per le sue scelte, né doveva giustificare i suoi sbagli; non doveva
sopportare il dolore di dover condividere qualche ricordo di
Justin…perché, semplicemente, Brandon non aveva mai avuto niente a
che fare con il suo unico amore.
Trattenne il fiato
e digrignò i denti, prima di emettere un lieve gemito, quasi
infastidito, e venire nella bocca di quello sconosciuto, per poi
allontanarlo malamente e risistemarsi.
Senza degnarlo di
uno sguardo, uscì dalla Dark Room, dopo essersi limitato a un altro
cenno di saluto per Brandon e raggiunse il bancone. Bevve l’ultimo
shot di tequila e attraversò la pista per uscire dal Babylon.
Salì sulla sua
Corvette e la mise in moto, con la testa che già vagava nel limbo
dei suoi insistenti fantasmi, e il familiare groppo alla gola che
puntualmente si formava al pensiero di dover tornare in un loft
troppo buio e solitario, da quando un “raggio di sole” non era
più lì a illuminarlo e scaldarlo.
*'*'*
«Non
andremo a Pittsburg!» gridò per l’ennesima volta Justin, entrando
in un negozio della 5th
Avenue, seguito da Jace.
«Io scommetto di
sì invece.» lo contraddisse l’altro, osservando distrattamente un
completo di Armani fieramente sistemato su uno dei manichini. «Anche
perché altrimenti non capirei questa tua improvvisa voglia di
shopping.»
«Non posso voler
far shopping per i fatti miei?»
«Certo
ma…Armani?»
disse, indicando il cartellino appeso a una camicia.
«Posso
permettermelo, lo sai!»
«Non
ho dubbi su questo ma, non per essere il solito malfidato, sbaglio o
qualcuno,
che spero conoscerò presto, ha una malsana passione per Armani?»
«Armani, Prada,
Gucci.» elencò Justin. «Qualsiasi cosa di alta moda italiana se
proprio vuoi saperlo, ma non c’entra affatto! Quando ci siamo
conosciuti non indossavo cose del genere.» prese un paio di
pantaloni neri dal taglio elegante e glieli sventolò sotto il naso,
senza curarsi delle occhiatacce lanciategli dai commessi. «Perciò
non c’entra affatto.»
«Magari vuoi solo
mostrarti a lui più adulto di quando te ne sei andato. Mi pare di
ricordare che all’inizio è stato un intralcio per voi, o meglio
per lui, la differenza d’età…»
«Una camicia
d’Armani non mi farà essere più adulto.»
«Più adulto no,
ma un finocchio riccamente realizzato, sì!» finse di non vedere la
sua espressione scettica e fece un cenno verso uno scaffale in cui
erano stipati i capi della linea “Armani Jeans”. «E certamente
con un paio di jeans slavati e strappati, avrai un culo che neanche
una lesbica desisterebbe dal palpeggiarlo selvaggiamente.»
Justin lo fissò
schifato. «Jace, grazie ma non dire mai più una cosa del genere.
Potrei vomitare.» ed eccola lì, un’altra delle tante espressioni
di Brian Kinney; e quasi gli vennero i brividi, come ogni volta che
gli veniva sbattuto bellamente in faccia quanto lui ormai gli si
fosse cicatrizzato dentro, tanto da diventare parte integrante
dell’uomo che era diventato.
Un omosessuale
di cui esser fiero.
Lo squillo del suo
cellulare lo fece però sobbalzare improvvisamente e gli venne
naturale sbuffare quando sul display lesse il nome del suo agente:
«Gary, ciao.»
«Justin, dove
diavolo sei?» chiese senza troppe cerimonie ed un’evidente crisi
di nervi da gestire.
«Sulla quinta
strada, con Jace.» rispose con voce strascicata.
Gary era una
persona fantastica, l’aveva preso sotto la sua ala appena sceso a
New York, riconoscendo il suo talento e facendosi in quattro per lui.
C’erano state sere in cui avevano bevuto una birra insieme e in cui
si era sorbito tutte le sue lamentele di ragazzino spaventato da quel
nuovo mondo caotico e scintillante, e si era premurato di proteggerlo
per non lasciarlo allo sbando in quella città rumorosa; ma oltre
tutti questi enormi pregi, Gary era prima di tutto una persona
estremamente diligente, che pretendeva professionalità da ogni suo
collaboratore e metteva al primo posto il lavoro e la carriera.
Aveva puntato
molto in alto con Justin; aveva riposto in lui un’enorme fiducia e
non gli permetteva di allentare il ritmo. Non adesso che era sulla
cresta dell’onda e doveva imparare a domarla per non affondare.
C’erano stati
momenti in cui l’aveva detestato – soprattutto quando gli aveva
impedito di rientrare a casa per il giorno del Ringraziamento – ma
non era mai riuscito a biasimarlo. Tutto quello che aveva, lo doveva
anche a lui e alla sua tenacia; si sentiva debitore in un certo senso
nei suoi confronti e, per quanto a volte avesse desiderato fare le
valige e correre a casa, alla fine dei conti non se l’era mai
sentita di mollarlo lì e andarsene.
Gary
aveva solo
quindici anni più di lui, ma si comportava come la figura paterna
che gli era mancata da quando aveva fatto il suo “debutto
ufficiale” nel mondo omosessuale e, a differenza dell’altro
suo mentore, – per quanto, come Brian, fosse orgogliosamente gay –
aveva i piedi ben saldati a terra, non era affatto arrogante o
scostante, si assumeva sempre le proprie responsabilità e non si
vergognava a mostrare i suoi sentimenti. Era una persona piacevole,
colta, piena di sorprese; un uomo da cui si poteva sempre imparare
qualcosa e, per quanto a volte risultasse tremendamente petulante o
si lasciasse colpire da attimi di isterismo cronico, Justin provava
un’immensa ammirazione e gratitudine nei suoi confronti…anche
quando gli urlava contro come in quel momento. «Perché non mi hai
avvertito? Ti ho cercato dappertutto e ieri sei sparito!»
«Ti ho lasciato
un messaggio alla reception, e poi ormai avevo già vagato anche
troppo per quella sala. Potrei dirti il numero esatto di mattonelle.»
Lo sentì
sospirare contrariato, ma già sapeva che non era più arrabbiato.
Per quanto Gary ci tenesse a una partecipazione attiva di Justin a
quegli eventi, sapeva di non poter pretendere troppo da lui, e che
era già tanto se gli aveva concesso il beneficio di qualche ora
chiuso là dentro. «D’accordo.» soffiò allora. «Che intenzioni
hai per il Ringraziamento?»
Di nuovo quella
domanda. Sembrava che proprio nessuno avesse dimenticato l’esagerata
reazione che aveva avuto l’anno precedente, quando era stato
“incatenato” a New York. «Non saprei, perché?»
«Pensavo volessi
tornare a casa.» replicò l’altro, senza celare la sorpresa nel
tono della sua voce. «Mi ero già organizzato.»
«Organizzato
cosa?» pronunciò allarmato. Quando Gary usava quella parola, c’era
sempre da tenere le orecchie bene aperte, perché significava che ne
aveva combinata una delle sue.
«Immaginavo
volessi trascorrere del tempo con la tua famiglia e…»
«E…?» incalzò
lui, stringendo spasmodicamente il cellulare. Gli tremavano le gambe
solo al pensiero di rimettere piede in quel posto.
«Justin, c'è
qualcosa che non so e che dovrei sapere?»
«Avanti, Gary!»
esclamò con voce supplicante, facendo un cenno a un incuriosito e
agitato Jace, intimandogli di stare zitto, e che gli avrebbe spiegato
tutto più tardi. «Dimmi che succede!»
«Visto che è più
di un anno che non torni là, e vista la tua reazione dell’anno
scorso, ho pensato che ti avrebbe fatto piacere passarci del tempo…»
«Tempo?»
«Non è ancora
niente di certo ma, diciamo almeno fino a Natale.» gli disse, e
Justin sentì il suo cuore fermarsi per un attimo. «Pensavo che
avresti potuto trascorrere anche le vacanze là.»
«È uno scherzo?»
chiese titubante, dopo aver riacquistato il respiro e la voce.
«No.»
«Un pesce
d’aprile in ritardo?»
«Neanche…»
«Un regalo di
Natale anticipato?»
«Justin!» gridò
esasperato. «Mi dici che ti prende?!»
«Niente, è solo
che…»
Gary si lasciò
sfuggire una piccola risata, finalmente conscio del perché il suo
più caro cliente fosse così agitato.
Sapeva tutto dei
suoi trascorsi, dei problemi in famiglia, l’aggressione, il fumetto
e ovviamente di Brian e del matrimonio mancato. Sapeva della loro
“recente” – almeno così lui si ostinava a definirla,
nonostante fossero passati sei mesi – rottura e quanto quella
ferita bruciasse ancora; sapeva dello sforzo immane che stava
compiendo per resistere e non lasciarsi andare ma, per quanto
cercasse di negarlo ogni volta con le parole, gli sembrava quasi di
sentire il suo cuore supplicarlo di lasciarlo tornare a casa. «Te lo
meriti, davvero.» pronunciò con dolcezza e sperò che fosse la
mossa giusta.
I quadri di Justin
si vendevano comunque a peso d’oro e con una velocità disarmante,
nonostante il suo stile si fosse drasticamente incupito, ma per Gary
era importante anche che lui fosse felice; per Gary, Justin, non era
solo una macchina per fare soldi.
«Grazie.»
sorrise, anche se il suo cuore sembrava improvvisamente sul punto di
esplodere.
«Non farci ancora
la bocca però. È tutto da sistemare per le mostre e non è detto
che riuscirò a tenerti fuori dai giochi per tutto quel tempo.» lo
avvertì e a Justin venne istintivo annuire con la testa, anche se
non poteva vederlo. «Se non ci riesco...»
«Niente vacanze a
Pittsburgh, lo so.»
«Esatto.»
affermò deciso. «Quindi, quando hai intenzione di partire?»
Justin esitò per
un attimo, poi lanciò un’occhiata fugace a Jace impegnato a
ispezionare delle camice classiche con aria schifata; evidentemente
troppo poco vistose per i suoi gusti; e sorrise. «Io e Jace
pensavamo di fare un salto là già da domani sera. Tu quando vieni?»
«Ah, ma bene! E
quando pensavi di dirmelo?» ridacchiò. Di certo non aveva perso
tempo.
«Era solo
un’idea. Saremmo comunque tornati il giorno dopo.» spiegò per
rabbonirlo. «Ma visto che il mio agente è di tutt’altro
avviso…quando pensi di venire a farmi visita?»
«E io che
c’entro?»
«Semplice.» si
ritrovò a sorridere nuovamente. «Voglio che tu veda dove è nata la
tua gallina dalle uova d’oro!»
Gary
scoppiò a ridere. «D’accordo, d’accordo gallinella.»
lo schernì. «Vedrò di passare a farti una visita, ma non esaltarti
troppo.» si raccomandò, con la sua solita aria professionale e quel
tono da “non mettiamo le mani troppo avanti”. «Non è detto che
potrò venire, considerando che ancora non è sicuro neanche che tu
possa restare tanto. Il
lavoro è lavoro.»
Justin roteò gli
occhi e sbuffò in modo da farsi sentire. Detestava quel suo modo di
dire e l’aveva sentito talmente tante volte da averne la nausea.
«D’accordo.»
«Fa buon viaggio
allora.» gli augurò, cercando di rassicurarlo. «E se c’è
qualche problema, chiama.»
«Certo.» esclamò
e rise. «Chi meglio di te può gestire le mie crisi da adolescente
depresso?»
«Cerca di
dipingere, piuttosto, adolescente depresso!» scherzò, con un finto
tono di rimprovero. «Non penserai certo di esserne esente!»
«Non sia mai, con
te!» lo canzonò.
«Lo spero bene.
Ci sentiamo presto, e salutami Jace.»
«Certo.» sorrise
ancora, finalmente in modo sincero, e dopo averlo salutato riattaccò,
per poi alzare uno sguardo luminoso verso Jace e sollevare
maggiormente gli angoli della bocca.
«Cristo.»
pronunciò l’altro, resosi conto delle sue attenzioni. «Credo di
aver appena capito perché ti chiamano ‘raggio
di sole’. Ti hanno detto che hai vinto alla lotteria, caro?»
«No, meglio!»
«Meglio?» inarcò
le sopracciglia e lo fissò più attentamente. «Hai un harem
personale?»
«Ritenta.»
ridacchiò ed iniziò a girovagare per il negozio, raggiante.
«Insomma Justin,
vuoi dirmi o no perché hai un sorriso che se solo non avessi le
orecchie, ti farebbe il giro della testa?»
«Forse,
e ripeto forse…»
rispose, guardandolo dritto negli occhi. Fece una pausa per essere
sicuro che l’amico avesse afferrato e incrociò le braccia. «Gary
mi ha appena comunicato che pensa di riuscire a lasciarmi dei giorni
liberi, almeno fino a Natale. Il che implica che, sempre
forse,
potrò trascorrere quasi un mese a Pittsburgh!»
«Per tutti i
froci!» strillò l'altro entusiasta. «Ma è fantastico!»
«È
un forse,
Jace. È ancora un forse.»
«Oh
al diavolo, biondo.»
sbuffò e si mise le mani sui fianchi. «Un po’ di ottimismo! Sei
un frocio per la miseria, non un etero depresso!»
Rise e scosse la
testa. «Anche i gay possono essere depressi.»
«Stronzate.
I gay sono solo melodrammatici! Abbiamo troppo da conquistare per
permetterci di oziare nel limbo della depressione.» gli sventolò
una mano davanti agli occhi come per voler scacciare certi argomenti
e aggiunse: «Piuttosto, stringi le chiappe, raddrizza la schiena,
sorridi e trova uno straccetto in questo posto che ti stia perfetto,
perché domani sera partiamo alla conquista della provincia!»
Justin non
rispose. Si limitò a sorridere e a osservarlo divertito mentre si
allontanava sculettando vistosamente verso uno dei commessi e
prendeva a gesticolare come suo solito, indicandolo.
Spostò il suo
sguardo su uno degli specchi e si perse nel guardare la sua immagine
riflessa; i pochi centimetri guadagnati in altezza, le spalle più
larghe perché Jace l’aveva costretto a frequentare la palestra con
lui pur di farlo uscire di casa; la sua pelle perfettamente nivea, in
cui erano incastonati i suoi occhi azzurri e quei capelli
biondissimi, che gli ricadevano morbidi in una frangia disordinata e
lunga sulla fronte, e che dietro arrivavano scalati per tutta la
lunghezza del collo.
Li scompigliò con
le dita, immaginando che fosse un’altra mano a farlo al posto suo,
e sorrise amaramente.
Non sapeva se ne
avrebbe avuto davvero la forza e se fosse stato pronto ad affrontare
tutto quanto, ma ci si erano messi proprio tutti a ricordargli quel
posto e forse, significava solo che era tempo di tornare a casa.
*'*'*
«Questa è la
segreteria di Justin Taylor. Non sono a casa al momento, perciò
lasciate un messaggio dopo il bip e vi richiamerò al più presto...»
Daphne riattaccò
rabbiosa e lasciò ricadere malamente il cellulare sul bancone del
Diner, attirando l’attenzione di Debbie. «Che succede, tesoro?»
le chiese benevola e si ritrovò a sbuffare contrariata.
«C’è che sono
stufa di avere un rapporto con la segreteria di Justin!» sbottò e
mangiò una delle patatine con foga. «Non c’è modo di
rintracciarlo e non richiama mai!»
«Dolcezza.» la
chiamò con uno sguardo comprensivo e le accarezzò una guancia. «Lo
sai che non è perché non vuole sentirti. È solo molto impegnato.»
«Io invece
comincio a dubitare che sia proprio così! Ha chiuso i ponti con
tutti, Deb! Non chiama più neanche sua madre e Molly è
arrabbiatissima con lui!»
Debbie sospirò e
versò una tazza di caffè per un cliente. «Se può consolarti sono
riuscita a chiamarlo e a parlarci appena qualche minuto.»
«Davvero?» le
disse Daphne, sorpresa e piena di speranza.
«Sì, ma non
sembrava dell’umore migliore di questo mondo. Se non chiama, non è
certo perché è troppo impegnato a divertirsi.» borbottò e scosse
la testa. «Ho provato a chiedergli se sarebbe tornato per il
Ringraziamento, ma non sono riuscita a strappargli neanche una vaga
promessa.»
«Suppongo che il
ricordo di quello passato non la giochi a suo favore.»
Debbie sollevò le
sopracciglia come per confermare le sue parole e piegò le labbra.
«Secondo te si sentono ancora?»
«Non lo so.»
rispose immediatamente la ragazza, giocherellando con uno dei suoi
riccioli. Non avevano bisogno di fare nomi, perché c’era solo una
persona a cui potevano riferirsi. «Le pochissime volte che mi ha
degnata di una parola, non mi sono neanche azzardata a toccare
l’argomento. Temevo mi riattaccasse in faccia.»
«E da Mister
Brian ‘Statemi-alla-larga-perché-sto-benissimo’ Kinney, non
caveremo un cazzo di ragno dal buco. Figuriamoci se quel borioso
confessa qualcosa!» mormorò con la fronte aggrottata.
«Buongiorno
signore!» esclamò Ted alle loro spalle, prima di sistemarsi accanto
a Daphne. «Un caffè Deb e…che sono quelle facce?» domandò, con
le sopracciglia inarcate.
«Un certo ‘raggio
di sole’ che sembra svanito nel nulla.» confessò Deb, e rovesciò
nella tazza il liquido nero dalla caffettiera.
Ted annuì
comprensivo e accennò ad un sorriso. «È molto che non lo senti?»
domandò rivolto a Daphne, e la vide sollevare le spalle.
«Praticamente
sento la sua voce solo registrata nella segreteria. E non lo vedo dal
mio ultimo viaggio a New York, dove abbiamo trascorso insieme appena
qualche ora dei due giorni che mi ero presa.»
«È un artista
apprezzato e impegnato ormai…» gli disse e prese a sfogliare il
giornale. «Guarda qua.» indicò un’intestazione e recitò
solennemente. «‘Justin Taylor, il nuovo Warhol di Pittsburgh,
conquista anche il Canada’.» ridacchiò e concluse: «Chi glielo
fa fare di tornare nella vecchia Pittsburgh quando ha il mondo da
conquistare?»
«Alla
vecchia
Pittsburgh,
c’è la sua cazzo di famiglia!» protestò Debbie, strappandogli il
giornale di mano e appallottolandolo frettolosamente, dopo aver
lanciato un’occhiata fugace alla porta. «E da questo momento sono
vietate le parole ‘Justin’, ‘Taylor’, ‘New York’,
‘artista’ e connessioni varie, fino a nuovo avviso!»
Sia Ted che Daphne
annuirono decisi, senza aver bisogno di spiegazioni. Le parole di
Debbie e il rumore della porta che si apriva e si richiudeva
bastarono e avanzarono a far intendere chi aveva appena fatto il suo
ingresso. I sospiri eccitati dei presenti e il brusio fatto di
complimenti e strillini strozzati servirono solo a dare un’ulteriore
conferma: Brian Kinney era arrivato.
«Buongiorno
ragazze.»
salutò appoggiando la ventiquattrore sul bancone e lisciando il suo
costoso cappotto immacolato. «Un caffè forte Deb, senza zucchero.»
«Subito! Allora
tesoro, tutto bene?» domandò Debbie, con un tono vago, masticando
come suo solito il chewing-gum.
Brian la fissò
con un sopracciglio sollevato e il suo solito sorrisetto ironico.
Piegò per un attimo le labbra all’interno della bocca e sbatté le
ciglia.
«Ti risponderei
‘benissimo’, o ‘chi può stare meglio di me’, come è ovvio
che sia d’altronde.» prese un sorso di caffè e la fissò
sottecchi. «Ma qualcosa, come ad esempio quel giornale
appallottolato, mi suggerisce che dovrei vederci un significato
nascosto nelle tue parole e che dovrei optare per un ‘fatti i cazzi
tuoi’.» sorrise ancora e aggiunse: «O mi sbaglio?»
«È solo che…»
tentò di parlare con voce mortificata, ma lui non gliene lasciò il
tempo. Trangugiò il suo caffè e si alzò velocemente.
«Credo di dover
trovare un altro bar per fare colazione la mattina. Questo è un po’
troppo invaso da pettegoli petulanti e patetici.» passò gli occhi
su ognuno di loro e si soffermò su Ted. «Ah, Theodore.» increspò
le labbra in un finto sorriso benevolo e inforcò gli occhiali da
sole. «Fossi in te alzerei il culo e correrei a lavoro. Se non ti
trovo lì prima del mio arrivo, ti licenzio.»
L’altro, per
contro, bevve il suo caffè e si affrettò a salutare le due donne,
prima di inseguire il proprio capo, ben conscio del fatto che sarebbe
stata certamente una giornata faticosa. Brian non era affatto di
buonumore e la Kinnetik sarebbe assomigliata molto più a un inferno.
«Decisamente, ha
un modo davvero tutto suo di elaborare il dolore.» commentò Daphne,
con gli occhi ancora fissi alla porta da cui erano appena usciti.
Debbie
scrollò le spalle e mugugnò. «Ringrazia che non abbia ripreso a
scoparsi tutto quello che si muove come quando il suo raggio
di sole
l’ha lasciato per quel tortura
gatti.»
«Ethan?» domandò
l’altra ridacchiando.
«Già.» confermò
con un tono di voce decisamente scocciato. «Non dico che non se lo
sia meritato, ma in fondo un po’ mi è dispiaciuto per lui.»
Daphne abbassò
gli occhi e accennò ad un sorriso amaro. «C’erano quasi riusciti
a scrivere il loro lieto fine.»
«Spero tanto che
non sia troppo tardi.» mormorò sconsolata. «È uno stronzo a cui
prenderei il suo bel culo regale a calci almeno un paio di volte al
giorno ma, che cazzo, anche lui ha diritto ad essere felice!»
«Se solo Justin
tornasse…»
*'*'*
“Strawberry
swing” – Coldplay
Emmett
Honeycutt non era mai stato un tipo troppo paziente e doveva
ammettere che spesso si lasciava prendere da attacchi isterici, anche
per un nonnulla, ma mai e poi mai
si
era ritrovato tanto incasinato in vita sua.
Quando aveva
iniziato la sua attività come organizzatore di eventi, tutto gli era
apparso come un bel sogno; come un film di Audrey Hepburn; in cui
ogni cosa sembrava magicamente prendere la piega giusta – tranne
per come era finita con Drew Boyd, ma quella era un’altra storia –
e si era quasi convinto di avere il tocco magico di sistemare
all’ultimo secondo anche il peggiore dei pasticci.
Già, ne era
sicuro finché non si era trovato davanti a una crisi coniugale in
piena regola con una probabile separazione a seguire, a causa della
scelta di uno stupidissimo portatovaglioli.
Si massaggiò le
tempie vigorosamente e inspirò a fondo ricorrendo a quel poco di zen
che Ben si era premurato di insegnarli quando era in procinto di una
delle sue crisi. Cercò di ignorare i piagnistei della donna, fin
troppo simili a quelli di un incrocio tra una foca e la sirena del
911, e le grida dell’uomo, che continuava a urlare le sue ragioni,
prendendosela inspiegabilmente con il tavolo di prova, quando il
rumore di un bicchiere di cristallo che si frantumava a terra, lo
fece letteralmente sbottare: «Non vi sposate!»
I due litiganti
rimasero in silenzio ed interdetti per qualche secondo, prima di
rispondere all'unisono: «Ma noi siamo già sposati.»
«E allora
separatevi, Cristo Santo!» irrigidì le braccia e uscì a passo
svelto dal salone dell’albergo, rischiando di stritolare il suo
preziosissimo Blackberry. Si sistemò l’auricolare all’orecchio e
avviò la chiamata per una delle sue collaboratrici. «Jude,
zucchero, ho bisogno di te. Interrompi qualsiasi cosa tu stia
facendo, a meno che tu non sia in punto di morte, allora in quel caso
puoi anche lasciar perdere, e porta le tue chiappe etero qua.» sputò
le parole fuori come una macchinetta e neanche aspettò una risposta.
«Hai una crisi matrimoniale da risolvere, prima che io cambi
mestiere e diventi un frocio serial killer.» riattaccò e continuò
la sua camminata per ridistendere i nervi.
Era
decisamente un periodo nero per lui. Non perché il lavoro andasse
male o perché ci fosse carenza di uomini nella sua vita, ma perché
semplicemente tutti – ma proprio tutti
– sembravano aver trovato l’amore; perfino Brian Kinney,
l’anticristo delle relazioni, era capitolato, seppur fosse finita
male; e proprio non riusciva a sopportare il fatto che la sua anima
gemella fosse smarrita chissà dove, o che Dio avesse sicuramente
sbagliato qualche calcolo nel disegno della sua vita. Perché per
quanto la scopata di una notte fosse piacevole, con l’andar del
tempo non aveva più il gusto di una volta.
Dopo la
“separazione” – sempre che così la si potesse definire – con
Drew, qualunque uomo avesse incontrato e scopato ovviamente, sembrava
non avere la stoffa giusta per restare al suo fianco oltre quei
minuti utili a un orgasmo; e mentre tutti erano andati avanti con le
loro vite e avevano magicamente incontrato la persona giusta, lui si
era trovato intrappolato nello stesso identico posto, senza vedere
davvero una via d’uscita.
Si lasciò
ricadere su una delle panchine di pietra dell’immenso giardino e
perse lo sguardo oltre un roseto, riflettendo su quello che stava
succedendogli intorno.
Michael e Ben,
erano sempre più schifosamente innamorati e finalmente sembravano
essere riusciti a dare una raddrizzata anche ad Hunter. Ted e Blake,
neanche a parlarne, sembravano la riproduzione perfetta di una coppia
che dopo aver affrontato mille difficoltà insieme risplende della
bellezza della loro unione. Perfino la relazione tra Carl e Debbie
andava a gonfie vele, per non parlare di Linz e Mel più innamorate e
unite di un tempo, nonostante alla prima fosse tornata per un attimo
la passione per l’organo genitale maschile, che non si limitava
certo a un dildo; o Jennifer, che sembrava vivere la sua storia
d’amore con Tucker felice e spensierata come un’adolescente.
L’unico a
“fargli compagnia” nel mondo dei single era Brian, ma anche lui
pareva fin troppo preso dai suoi affari e affatto interessato alla
vita monogama, specie dopo aver iniziato la sua malsana
frequentazione con quel Brandon, di cui ancora nessuno sapeva nulla –
a parte lui – visto che erano troppo impegnati a condurre una vita
da sposati per anche solo pensare di fare un salto al Babylon.
Ancora
non era ben riuscito a spiegarsi il perché di quella strana
accoppiata, né ovviamente si era azzardato a chiedere spiegazioni a
Brian perché, dopo che la prima teoria in cui li immaginava
divertirsi allegramente nel loft era deliberatamente saltata, l’unica
che gli rimaneva plausibile era che continuassero con le loro stupide
scommesse e che Brian esorcizzasse in quello strano modo il dolore
per la perdita del suo raggio
di sole.
Qualunque
fosse il motivo, comunque, ognuno dei suoi amici aveva trovato uno
scopo da perseguire: i primi si dedicavano all’amore, mentre
l’ultimo si dedicava al sesso, proprio per dimenticarlo quell’amore
che l’aveva travolto e abbandonato; e invece, lui, non riusciva a
trovare il suo posto.
Sbuffò
rumorosamente e chiamò un taxi. Quel giorno era troppo depresso per
lavorare, anche se la mattina era appena terminata, perciò decise di
lasciare tutto nelle mani dei suoi collaboratori e recarsi al Diner.
Una ciambella di Deb, forse, gli avrebbe risollevato il morale.
Il campanello
della porta della tavola calda tintinnò allegramente quando entrò,
seguito dalla voce squillante di Deb che lo salutava pimpante come
suo solito: «Ciao dolcezza!»
«Ciao Deb.»
rispose sconsolato, e si trascinò fino al bancone.
«Zucchero,
cos’è quella faccia?» lo invitò a sedersi e gli offrì un
tortino al limone. «Avanti, parla con Debbie.»
Emmett arricciò
le labbra e appoggiò la testa sulle mani sistemate a coppa. «Sono
un finocchio triste, patetico e single.»
«Ma che stai
dicendo?» esclamò contrariata e sorpresa. «Non sei affatto
patetico e, per la persona giusta, vedrai che arriverà presto!»
«Ma
Deb!» piagnucolò, agitandosi sullo sgabello. «Michael e Ben sono
una coppia felice, Ted e Blake anche peggio. Tu e Carl siete zucchero
fuso, così come le due lesbiche e perfino Jennifer!» sospirò
sconsolato e concluse: «Brian ha ricominciato a scopare come un
riccio e sta sempre in compagnia di quel…» fece una smorfia
«…Brandon,
e io sono solo come un cane!»
«Fermo lì!» gli
intimò Debbie e la vide sporgersi sul bancone. «Cos’hai detto che
fa Brian?!»
Lui
le rivolse uno sguardo scocciato. «Quello che ha sempre fatto Brian
Kinney. Scopa.»
«E
chi diavolo è questo…» ci pensò su un attimo. «…Bruce.»
«È ‘Brandon’, non
‘Bruce’. E comunque stavamo parlando di me!» indicò la sua faccia con
l’indice e fece un sorriso ebete.
«Ma perché non
me l’hai detto prima?!» strillò, e lui aggrottò la fronte
confuso.
«Dirti cosa?»
«Di quello che
sta combinando quell’idiota!» afferrò la cornetta immediatamente
e compose un numero. «Devo avvertire Michael!»
Emmett sospirò
sommessamente e diede un morso al tortino, in barba a tutte le sue
preoccupazioni per i grassi saturi di cui quel coso, certamente, era
pieno.
*'*'*
“Come home”
- OneRepublic
Chiuse la zip
dell’ultimo trolley con non poca difficoltà, e si lasciò ricadere
sul letto esausto e sudato. Fare i bagagli era più faticoso di
quanto potesse ricordare, e anche se aveva decisamente più roba di
quando era arrivato a New York senza il becco di un dollaro, non
aveva certo creduto che sarebbe stato così difficile scegliere.
«Ma hai
intenzione di trasferirti definitivamente?» gli chiese Jace, facendo
capolino dal pannello opaco che separava il letto dal resto del loft.
«Ero solo
indeciso.»
L’altro passò i
suoi occhi marroni sulle tre valige stracolme e sollevò un
sopracciglio. «È scientificamente provato che l’amore rende
imbecilli.»
Justin ridacchiò
e si sollevò puntellandosi sui gomiti. «Non può essere semplice
vanità come ogni stramaledetto finocchio di questo pianeta?»
«No.»
sentenziò secco. «Non dato che si tratta di te.
Che sembri conoscere i colori solo quando li usi sulla tela e che sei
convinto che ‘Pucci’ sia la versione tarocca di ‘Gucci’.»
«Ehi!» esclamò
offeso, per poi lanciargli contro uno dei cuscini. «So benissimo chi
è Pucci!»
Jace assunse
un'espressione scettica. «Già, solo perché te l’ho detto io.»
«No, mio caro. Lo
sapevo già da tempo.»
«Ops! Dimenticavo
il tuo amore tormentato con l’uomo dell’alta moda.» incrociò le
mani, come se stesse pregando e sollevò lo sguardo al soffitto.
«Signore, grazie per aver donato a questo povero piccolo frocio
ignorante la possibilità di redimersi e conoscere Prada, amen.»
Justin scosse la
testa e prese a ridacchiare. «Fottiti, Jace.»
L’altro gli
sorrise e iniziò a guardarsi intorno, finché i suoi occhi si
fermarono sul piccolo personale fantasma dell’artista. Il lenzuolo
bianco continuava a coprire la tela incompiuta che giaceva sotto di
esso e, a giudicare dall’alone grigio di polvere che lo ricopriva
indisturbata, il suo giovane amico non aveva ancora avuto il coraggio
di affrontarla. «Pensi di finirla prima o poi?» gli domandò,
indicandola con un cenno.
«Non lo so.»
sospirò ed arricciò le labbra. «Suppongo finirà presto tra gli
altri, così com’è.»
Jace annuì
debolmente e un po’ deluso, perché sapeva che “gli altri”
erano quadri che ritraevano lo stesso soggetto di quello incompiuto,
e che Justin aveva accuratamente nascosto dietro una delle ante
dell’armadio, per non vederli mai più. Diceva che appartenevano al
passato e che non potevano essere esposti perché troppo personali,
nonostante perfino Gary avesse tentato di convincerlo a farlo, poiché
su quelle tele si scorgeva un altro aspetto – più profondo e
passionale – della sua anima e dei sentimenti che gli si
aggrovigliavano dentro. Era un’altra sfaccettatura; l’ennesima
tessera del puzzle che componeva l’immagine di quell’artista
geniale che si ostinava a stare sulle sue, protetto dall’ombra e da
quel suo essere un po’ asociale.
«Allora, sei
pronto?» gli domandò Jace, senza distogliere lo sguardo dal
lenzuolo.
«Sì, ma tu,
potrai davvero restare fino a Natale?» disse, mentre dentro di sé
pregava per una risposta positiva. Nessuno avrebbe potuto mai neanche
immaginare quanto Justin avesse bisogno della sua presenza e del suo
sostegno in quel momento.
«Considerando che
la mia famiglia mi considera un reietto della società perché mi
piace il cazzo e che quindi non ho nessun noiosissimo ritrovo a cui
dover partecipare…» iniziò, picchiettandosi l’indice sul mento.
«…e che fottersi il proprio capo a volte può condurre a immensi
benefici, come bonus vacanze che compaiono dal nulla, sì. Direi
proprio di sì!»
«Ti sei scopato
il tuo capo?» domandò incredulo, mantenendo le labbra socchiuse.
Lui mugugnò e
scrollò le spalle. «Cos’è quella faccia sconvolta? Gliel’ho
solo succhiato un paio di volte!» confermò, per poi assottigliare
lo sguardo. «E poi, ora che ci penso, non eri tu che lavoravi per il
tuo amore e te lo sei scopato nel suo ufficio?»
Justin mostrò un
sorriso tirato e scattò dal letto per infilare il cappotto. «Credo
proprio che sia ora di andare. Il viaggio è lungo!» prese due dei
trolley per il manico ed iniziò a trascinarli verso il montacarichi
adibito ad ascensore.
Jace per contro
scosse la testa e si premurò di recuperare il terzo trolley e il
beauty case, ricordando al suo compagno di viaggio con un urletto
stridulo che doveva ancora chiudere la porta e inserire l’allarme.
Quella testolina
bionda ricomparve con un sorriso imbarazzato e, dopo aver dato
un’ultima occhiata al suo loft, eseguì quello che Jace gli aveva
appena ricordato per poi scendere al piano terra, e raggiungere la
sua jeep nera praticamente nuova. Caricarono i bagagli e si
sistemarono ai loro posti.
Justin prese un
profondo respiro e girò la chiave per mettere in moto, mentre
l’altro iniziò a litigare con la radio e con i cd sparsi
casualmente nel cassetto e privi di una misera etichetta; in fondo,
chiunque sapeva che il padrone di quell’auto non era certo un
maniaco dell’ordine.
Compiuta la scelta
della musica, entrambi inforcarono i loro occhiali da sole e si
scambiarono un sorriso carico di adrenalina ed eccitazione, prima che
la macchina venisse immessa nel traffico newyorkese, alla volta di
Pittsburgh.
Si torna a
casa…
***
Note finali:
Ecco anche il secondo capitolo! Ho deciso di pubblicare un po' prima di quanto avevo preventivato perché
era già pronto in quanto l'avevo scritto come diretta
continuazione del primo e non mi andava di farvi aspettare per niente, soprattutto dato che si tratta di uno spezzone di "transizione"
- ergo, non succede niente di troppo eclatante, a parte la
"presentazione" di Gary e la decisione di Justin di tornare a
Pittsburgh!
Suppongo
comunque che chi legge non aspetti altro che l'incontro tra Brian e
Justin - o almeno io è quello che vorrei di più -
perciò vi comunico che non avranno un incontro vero e proprio prima del quarto/quinto capitolo. Abbiate pazienza, ma c'erano altre situazioni che volevo delineare! XD
Spero di non aver sforato con il carattere dei personaggi...per quanto
riguarda Brian sono sempre un po' confusa dal grosso cambiamento che ha
avuto negli ultimi episodi della quinta serie...quindi, rifacendomi a
quel Brian, ho immaginato
che nonostante le sue vecchie abitudini, per lui non fosse affatto
facile toccare e lasciarsi toccare da qualcuno che non fosse Justin,
proprio per la piega che aveva preso il loro rapporto; non
potevo però neanche dipingere un Brian casto e puro come un
prete che pensa solo al lavoro e passa le serate sul divano...ho
cercato quindi di ricreare una via di mezzo e una personalità
tormentata da quello che era e da quello che è diventato. Mi auguro di non aver combinato disastri. XD
Mentre per quanto riguarda Emmett - personaggio che io ho sempre adorato - ho cercato di dipingerlo sulla cresta dell'onda e super indaffarato con il suo lavoro, ma con una punta di malinconia - per quanto Emmett possa essere malinconico nella sua favolosità - per l'unico tassello della sua vita che proprio non vuole andare al suo posto: l'amore...e
visto che gli autori non hanno voluto dargli la sua storia d'amore nel
finale, indosso le vesti di "cupido per gay" e parto all'azione!
Tralasciando le mie stupidaggini, spero che questo capitolo non vi abbia annoiato e ci tengo a ringraziare
tutti coloro che hanno letto il primo capitolo, chi ha messo la storia
tra le seguite, le ricordate o le preferite, ma soprattutto a: silver girl, Trappy, Hel Warlock, mindyxx, Clara_88, Thiliol, oo00carlie00oo, FREDDY335, Katie88 e asterix_c per aver recensito. GRAZIE DAVVERO.
Un bacio e a presto.
Veronica.
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Capitolo 3 *** Dear old Babylon. ***
3.Dear old Babylon.
6x03 – Dear old
Babylon.
[capitolo betato da Trappy]
Era certo che
l’occhiata minacciosa lanciatagli da Hunter significasse
semplicemente che, se non avesse smesso immediatamente di gironzolare
come una checca isterica per tutta la cucina con il cordless in mano,
l’avrebbe sicuramente legato a una sedia; ma Michael non poteva
farci assolutamente nulla, non da quando sua madre l’aveva chiamato
ore prima per riferirgli la triste e preoccupante soffiata di Emmett,
circa le rinnovate attività sessuali e promiscue di Brian.
Da quel momento
aveva continuato a vagare come una trottola impazzita per tutto il
tempo, componendo decine di volte il numero del suo migliore amico,
per poi cancellarlo e sostituirlo con quello di suo marito per
chiedere un consiglio, prima di cancellare anche quello e far
ripartire la solfa da capo.
Dire che il
pensiero di ritrovarsi il vecchio Kinney davanti lo terrorizzava, era
decisamente un mero eufemismo.
Avevano faticato
così tanto per farlo crescere almeno un po’ e smussare quella sua
corazza ruvida e spigolosa, che vedere il lavoro di oltre sei lunghi
anni rovinato in qualche misero mese lo mandava letteralmente in
bestia.
Prese a
ticchettare con le dita sul tavolo, ignorando l’ennesima occhiata
contrariata di Hunter, e si decise a comporre il numero di Ben,
quando quest’ultimo aprì la porta di casa, urlando un “sono a
casa”.
Michael neanche
gli diede il tempo di togliersi la giacca a vento e srotolare la
sciarpa dal suo collo che gli fu immediatamente addosso con le sue
preoccupazioni: «È una tragedia!»
Suo marito si
bloccò per un attimo e lo fissò stranito con i suoi occhi azzurri.
«Cosa?»
«Brian, è di
nuovo...Brian.» balbettò, agitandosi.
Ben lo guardò
sempre più confuso. «Il che implicherebbe, esattamente?»
«Devo fare
qualcosa. Non posso starmene con le mani in mano! Io lo so che lui
soffre ma…» si grattò la testa con una mano e continuò con un
cipiglio preoccupato a solcargli la fronte. «…se accenno
all’argomento mi scuoia.»
«Michael, mi vuoi
spiegare cosa sta succedendo?»
«Mi ha chiamato
mamma qualche ora fa, dicendomi che è venuta a sapere da Emmett che
Brian ha ricominciato a scopare qualsiasi cosa gli capiti a tiro!»
«Ed è un male?»
domandò incerto, beccandosi un’occhiataccia contrariata
dall’altro. «Insomma, è quello che ha sempre fatto! Avresti
dovuto preoccuparti se avesse iniziato a drogarsi.» ci pensò su un
attimo e si corresse. «Ah no, anche quello lo faceva già. Comunque
sia, non fa niente di sbagliato. Non per quelli che sono i suoi
canoni almeno.»
«Ben, tu non
capisci!»
«Tesoro,
ascoltami. Capisco benissimo invece.» gli posò entrambe le mani
sulle spalle e gliele strinse per rassicurarlo. «Sta solo mitigando
il dolore a modo suo. Ricordi quando mi hai raccontato
dell’aggressione a Justin? Ha reagito allo stesso modo. Ognuno è
diverso.»
«Tu credi?»
domandò speranzoso, e l’altro non poté far altro che sorridergli
e baciarlo con amore.
«Ne sono certo.»
Michael annuì
poco convinto e ripose il cordless alla sua postazione, lanciandogli
un’ultima occhiata indecisa.
Sicuramente quello
era il modo di Brian per dimenticare, disinfettare e ricucire le
proprie ferite, ma era il suo migliore amico e non poteva certo
lasciarglielo affrontare da solo.
Si voltò verso
Ben e Hunter e sorrise, sentendosi veramente fortunato, per poi
prendere la sua decisione: «Forse è meglio se passo comunque dal
Babylon stasera, giusto per esserne certo.»
*'*'*
Respirò
profondamente per quella che fu almeno la milionesima volta e si
portò una mano sul petto, all’altezza del cuore, per sentire il
suo potente pulsare anche attraverso il maglione.
Da quando aveva
oltrepassato il grosso cartello su cui erano posizionati caratteri
cubitali a formare il nome “Pittsburgh”, aveva iniziato a
soffrire improvvisamente di tachicardia. O almeno i sintomi erano
quelli.
Sorrise
involontariamente nel vedere le sagome familiari di quella che era
stata la sua culla per ventidue lunghi anni; il posto che l’aveva
visto crescere, ribellarsi e seguire la propria natura, rischiando
anche di morire per difendere quello che la sua anima gli urlava di
essere; per aver creduto ed esternato un amore ritenuto blasfemo.
Si allontanò
dalla finestra con passo ciondolante e si gettò sul letto della
stanza d’albergo che aveva prenotato per lui e Jace.
L’altro aveva
provato a convincerlo ad alloggiare da sua madre, assicurandogli che
non avrebbe certo sentito la sua mancanza durante la notte, visto e
considerato che comunque non dormivano mai insieme neanche a New
York, ma Justin aveva preferito di gran lunga tenergli compagnia, più
per il fatto di non avere il coraggio di affrontare tutto e subito,
che per non lasciarlo solo.
Ragionamento
egoista forse, ma si sentiva già fin troppo spossato dopo aver
trovato finalmente la forza di percorrere tutte quelle
trecentosettanta miglia, per riuscire ad arrivare fino a casa di sua
madre e iniziare a dare le dovute spiegazioni.
Sapeva
che era arrabbiata con lui dal modo in cui gli si rivolgeva durante
le sporadiche volte in cui si erano parlati attraverso il telefono,
così come immaginava quanto fosse offesa sua sorella per il modo in
cui era “scomparso”, dato che si rifiutava di sentirlo già da un
bel po’. Era certo che si sarebbe beccato una bella lavata di capo
anche da Daphne e Debbie, per non parlare di tutti gli altri o di
lui.
Solo il pensiero
di essere nuovamente nella sua stessa città ad una ridicola manciata
di minuti dalla Kinnetik lo svuotava dentro. Ogni volta si sentiva
come se gli stessero risucchiando l’anima, e aveva la sensazione
che il cuore gli potesse tremare esattamente come le gambe, sostenute
da ginocchia ormai più simili a viscida gelatina che altro.
Chiuse gli occhi e
sospirò, delineando nel buio i lineamenti di Brian: le labbra
morbide e succose piegante nel suo solito sorrisetto impertinente;
gli occhi verde scuro, profondi e penetranti, capaci di perforarti
con un solo sguardo; i capelli scompigliati e morbidi, su cui troppe
volte dalla sua partenza aveva sognato di affondare le mani, e la sua
pelle liscia tirata dai muscoli asciutti di quel fisico perfetto.
Un solo misero
pensiero era bastato a farlo eccitare e a spezzare il suo respiro; un
solo istante in cui aveva aperto la mente ai ricordi ancora
perfettamente vividi del tocco delle sue mani e di quelle labbra
morbide e calde che lo sfioravano come solo lui sapeva fare, che si
era ritrovato duro come un adolescente in preda a una crisi ormonale
in piena regola.
Sbuffò
infastidito per il pulsante ingombro nei pantaloni e imprecò a denti
stretti, quando la porta della camera si aprì, mostrando il suo
problemino
a un Jace che – resosi conto della situazione – non riuscì a
trattenere una risata: «Accidenti Justin! È proprio vero che l’aria
di casa cambia le persone.» sollevò le sopracciglia e continuò a
fissarlo visibilmente divertito. «Ad averlo saputo, te l’avrei
fatta respirare prima.»
«Imbecille.»
rispose l’altro stizzito, potando un cuscino a coprire il punto in
cui la stoffa si era tesa. «Hai sistemato tutto con la reception?»
«Certo, caro.»
confermò quasi offeso da quella velata mancanza di fiducia. «Tra
poco ci serviranno la cena quindi, pensi di poter abbassare l’asta,
o sei in vena di patriottismi e possiamo attaccarci una bandiera?»
Justin gli lanciò
un’occhiataccia. «Vado a farmi una doccia.» distese le labbra in
un sorriso nervoso e si sollevò dal letto, dirigendosi verso il
bagno.
Jace si trattenne
a stento dallo scoppiare in un’altra fragorosa risata e imitò il
saluto militare al suo passaggio, riuscendo a schivare il cuscino
lanciatogli dal suo compagno di stanza appena in tempo. «Avvertimi
se hai bisogno di una mano. In tutti i sensi!»
*'*'*
“Forever” –
Ben Harper
Gary Hudson
stringeva il suo bicchiere di bourbon picchiettando di tanto in tanto
con l’indice sul vetro, seguendo il ritmo del vecchio vinile che
girava ozioso sul suo prezioso giradischi.
Fissava il vuoto
nel suo studio rischiarato dalla fievole luce di una semplice lampada
da scrivania moderna, che era costata un occhio della testa a sua
sorella quando gliel’aveva regalata, e di cui ancora non era
riuscito capire il fascino.
Si portò il
bicchiere alle labbra per bagnarle appena di quel sapore forte e
passarci la punta della lingua in modo da goderselo appieno, prima di
stropicciarsi gli occhi scuri come petrolio e dare l’ennesima
occhiata alle sue scartoffie.
Cercò di
concentrarsi su quella miriade di parole, ma il suo sguardo cadde
inevitabilmente sul quadro appeso alla parete di fronte a lui; uno
degli ultimi lavori di Justin.
Sorrise,
sollevando appena uno degli angoli della bocca, ammirando quel
trionfo vorticoso di colori vivaci, così diversi da quelli cupi che
lentamente erano andati a sostituirli nelle ultime tele, e immaginò
di vedere quel suo sorriso luminoso.
Si sentiva un
idiota ogni volta che lo faceva, perché sapeva di compiere un enorme
e grottesco sbaglio, ma c’erano momenti in cui proprio non riusciva
a evitarlo; attimi in cui la sua testa voleva essere libera di
fantasticarlo per sé.
Non avrebbe mai
saputo dire quando era successo – a volte credeva perfino che fosse
stato la prima volta in cui aveva incrociato quegli splendidi occhi
azzurri – eppure aveva iniziato a provare sentimenti contrastanti per
quel ragazzino dall’aria sperduta, ma che sapeva tirare fuori denti
e artigli quando era necessario.
Era rimasto
abbagliato dalla luce che sembrava emanare in ogni suo gesto e dalla
tenacia che lo caratterizzava; da quella sua lingua spesso un po’
troppo tagliente e dalla maturità che dimostrava nell’affrontare
la vita, pur continuando a seguire i suoi sogni.
Si sentiva
combattuto tra l’innegabile attrazione per quei capelli disordinati
e la pelle candida, e la professionalità che doveva mantenere per il
rapporto di lavoro che intercorreva tra loro.
Spesso si era
addirittura trovato a pensare di recidere il loro contratto per
prendere una delle due direzioni possibili – scappare lontano da
lui o provare a fare un passo per avvicinarsi e confessare tutto –
invece che restare a torturarsi in bilico tra quelle due realtà che
continuavano a scannarsi dentro la sua testa.
Alla fine, però,
non era mai riuscito a prendere una decisione, un po’ perché non
se la sentiva di abbandonarlo, ma neanche di aprirgli il cuore, e un
po’ perché sentiva che era troppo giovane per lui e soprattutto
ancora troppo innamorato della persona che aveva lasciato a
Pittsburgh.
Sorrise ancora,
dandosi dell’idiota, quando il nome di quella città balenò nel
suo cervello.
Qualcuno l’avrebbe
sicuramente accusato di pazzia se avesse saputo la verità sui suoi
sentimenti, considerando che l’aveva letteralmente spinto a tornare
nell’unico posto da cui, per il bene del suo cuore, avrebbe dovuto
tenerlo lontano, ma teneva troppo a quel ragazzo e non riusciva più
a sopportare di vederlo spegnersi lentamente ogni giorno di più.
I sorrisi che gli
facevano battere il cuore diventavano sempre più rari e sempre meno
sinceri, la luminosità di quegli occhi sembrava nascosta da una
patina opaca che non era capace di lavare via e, come se non
bastasse, l’aveva visto piangere troppo spesso mentre si
dedicava ai suoi quadri.
In sintesi, non
poteva costringerlo a New York, se significava avere solo un
fantoccio vagamente simile alla bellissima persona che in realtà
era; e non poteva neanche tenerlo lontano dall’unico posto che –
ne era sicuro – gli avrebbe ridonato quella sua caratteristica
luminosità.
«Raggio
di sole.»
sussurrò appena, ridacchiando per quel nomignolo buffo quanto
azzeccato, prima di prendere un altro sorso.
Sbuffò
riappoggiando il bicchiere sul legno scuro e pregiato della scrivania
ellittica e tornò a riempire la testa di numeri e parole per
scacciare via l’immagine di quel ragazzino, quando il suo cellulare
prese a squillare e, per ironia della sorte, mostrargli proprio quel
nome. «Ehi, come procede?»
«Lavoro.»
rispose sorridendo, mentre immaginava gli occhi cerulei del suo
interlocutore sollevarsi, come tutte le volte.
«Non avevo
dubbi.» commentò acido. «Io e Jace siamo a cena in albergo e…»
«Albergo?» lo
interruppe stranito. «Non sei da tua madre?»
«Ehm, no.»
replicò l'altro con una punta d'incertezza nella voce. «Ho
preferito fare le cose con…calma.»
«In poche parole
te la stai facendo sotto.»
«Già.» confermò
con una risatina nervosa. «Più tardi ti invio un messaggio con
tutti i recapiti. Tu quando pensi di raggiungerci?»
«Non lo so. Devo
controllare ancora alcune cose. Tu pensa a fare quel che devi, poi ci
sentiremo.»
Lo sentì ridere e
riuscì a distinguere uno strano borbottio da parte di Jace. «Qui ci
stiamo chiedendo se ti prenderai mai un po’ di tempo per te!»
«Piccolo
ingrato.» lo apostrofò, nel vano tentativo di rimanere serio,
quando la realtà era che non riusciva a smettere di sorridere come
un’idiota. Sentire quella voce finalmente viva come l’aveva
conosciuta gli alleggeriva il cuore. Perché Gary era una persona
adulta e responsabile, capace di amare di un amore generoso, che lo
rendeva in grado di essere almeno un po’ felice per la serenità
ritrovata da Justin, nonostante quella nota amara e storta che gli
ricordava ogni volta di non essere certo lui il motivo. «Sappi che
se sei dove sei…»
«‘Lo
devo anche a te’.» recitò solennemente. «Lo so, lo so. È per
questo che vieni profumatamente
pagato!»
«Vedo che
qualcuno ha rialzato la cresta eh?» ridacchiò ancora, e si passò
una mano tra i capelli neri. «Faremo i conti presto, Taylor.»
«Certamente,
signor Hudson.» lo prese in giro, imitando in modo grottesco la sua
voce. «Ci sentiamo presto.»
«Ok.» lo salutò
semplicemente e si ritrovò ad inspirare profondamente dopo aver
riattaccato.
Lasciò correre lo
sguardo ancora sulla tela che sembrava poterlo fissare ed avvolgere
con il suo bagliore e si perse ancora nei contorni di quelle
pennellate accese e sinuose, mentre nel cuore avanzava la speranza di
poter assistere alla realizzazione di un altro quadro così
prorompente e che, prima o poi, quel sorriso luminoso potesse essere
rivolto solo a lui.
*'*'*
“Trouble” –
Coldplay
Il vento freddo
gli sferzò la faccia così forte da fargli socchiudere gli occhi,
mentre quei frammenti freddi e dispettosi di nevischio continuavano a
danzargli intorno imperterriti. Tirò sul col naso e affondò di più
nella sua sciarpa, stringendosi i lembi del cappotto scuro.
Nonostante i
guanti non sentiva più le dita e quella dannata e logora
ventiquattrore acquistata al suo debutto nel mondo del lavoro come
contabile, sembrava potesse tagliargli la pelle con il manico troppo
rigido.
Da quando aveva
iniziato a lavorare per la Kinnetik, i suoi profitti erano certamente
risaliti a livelli molto più che accettabili, eppure dalle
esperienze passate – e anche dal caratteraccio del suo capo che
minacciava di licenziarlo almeno una volta al giorno – ancora non
sentiva i piedi ben saldi a terra.
Ci sarebbero state
tante cose che avrebbe voluto fare, non solo per sé, ma soprattutto
per strappare un sorriso al suo Blake che sembrava sempre così
felice di tutto, anche delle cose più semplici, e non si lamentava
mai.
Da quando si erano
ritrovati, le cose sembravano aver preso finalmente la piega giusta;
gli pareva di aver intrapreso la strada corretta ed essere riuscito a
spedire tutta la sua vita nei binari di un amore veramente solido.
Lui e Blake in
fondo ne avevano affrontate tante; aveva anche capito molti dei suoi
problemi sentendoseli passare sulla propria pelle e, proprio la
persona che tanto tempo prima aveva criticato, l’aveva aiutato più
di chiunque altro ad uscire dal tunnel buio e profondo della droga.
Era grato a Blake;
era grato per la speranza che gli aveva dato, per averlo aiutato e
anche per averlo lasciato quando non era il momento giusto; gli era
grato per essere tornato e per aver ricominciato a renderlo l’uomo
felice che aveva sempre desiderato di essere.
Non c’era giorno
in cui entrambi non ricordassero all’altro quanto si amavano, non
solo con le parole, ma anche attraverso sorrisi e sguardi a volte
molto più eloquenti di qualsiasi sdolcinato – o patetico sullo
stile delle leccacespugli, come avrebbe detto un certo Brian Kinney –
discorso.
Eppure sentiva
dentro di sé che doveva fare qualcosa di più; che si sentiva pronto
a qualcosa di più.
Si soffermò per
un attimo davanti ad una vetrina di gioielli senza neanche rendersene
conto, attirato dalla miriade di faretti luminosi che sembravano
rischiarare e sovrastare tutto il resto. Passò lo sguardo sul
velluto rosso o verde con cui erano ricoperti i ripiani e si fermò
con un sospiro su un piccolo cofanetto blu, contenente una semplice e
fine fedina d’oro.
Non era niente di
particolare; non brillava di diamanti grossi come ghiaccioli, né era
incastonata di qualsiasi altra pietra preziosa. Non era pacchiana, ma
discreta e bella nella sua essenzialità; come lo erano loro due e il
loro amore, d’altronde.
Perché Ted non
era il fascinoso e facoltoso Brian Kinney, né Blake era il geniale
artista, bello come un angelo, che rispondeva al nome di Justin
Taylor, e tanto meno il loro amore era stato tanto burrascoso e fuori
dalle righe come quello dei suoi amici, nonostante avessero avuto non
poche difficoltà.
La
loro unione era chiara, convenzionale, ben definita e sì,
pateticamente
simile a quelle etero,
perciò aveva bisogno di un qualcosa di altrettanto semplice, che si
uniformasse perfettamente a quello che rappresentavano.
Avrebbe voluto
sposare Blake, ne era assolutissimamente certo. Molto più di
qualsiasi altra decisione che gli fosse balenata in testa negli ormai
quarant’anni della sua vita, ma tra l’ammetterlo nel suo cuore e
nella sua testa e trovare il coraggio di sputar fuori quelle
elementari seppur pesantissime parole davanti agli occhi azzurri del
suo compagno, c’era un abisso troppo profondo e buio che gli
metteva le vertigini solo se provava ad immaginare di affacciarsi.
Rabbrividì per
una folata di vento più forte delle altre, riscuotendosi anche dai
propri pensieri e abbandonando l’immagine lucente di quel filo
dorato, per tornare a guardare la strada davanti a sé, fino a casa.
Girò a fatica la
chiave nella toppa e tirò un sospiro di sollievo quando la sua pelle
arrossata e congelata venne accolta dal calore della propria cucina e
dallo sguardo amorevole che Blake gli rivolse, occupato ai fornelli.
«Ciao tesoro.» lo salutò sorridendo. «Hai fatto più tardi anche
stasera.»
«Sì.»
si sforzò di rispondere, mentre tentava di scongelarsi. «Qualcuno
non era propriamente di buonumore e ci ha fatto sgobbare come muli.»
«Come sempre da
un annetto a questa parte, quindi.»
Ted sollevò le
sopracciglia e piegò le labbra in un gesto di assenso. «Non posso
biasimarlo.»
«Perché ti fa
fare orari impossibili e ti minaccia di licenziamento praticamente
ogni giorno?» ridacchiò lui, prima di assaggiare il sugo.
«Oggi sono
arrivato a quota tre.» lo informò, dopo averle contate mentalmente.
«Tre minacce di licenziamento.»
«Accidenti,
doveva essere più nervoso del solito.»
«Questa mattina
ha visto Debbie appallottolare un giornale.» Blake fece un gesto di
comprensione, considerando che era un fatto quasi all’ordine del
giorno e che le aveva visto fare innumerevoli volte. «E Brian se n’è
accorto. Come se non bastasse, poi non ha resistito dal chiedergli
come stava, cercando di farla passare come una conversazione normale
ma…»
«Stiamo parlando
di Brian Kinney.» convenne l’altro inarcando le sopracciglia.
«Esatto.» si
tolse il cappotto e lo sistemò sull’attaccapanni insieme alla
sciarpa e ai guanti. «Ha fatto una delle sue solite sparate con il
suo sorrisetto stampato in faccia ed è uscito dal Diner minacciando
di licenziarmi se non mi fossi materializzato in ufficio
all’istante.»
Blake scoppiò a
ridere per la smorfia del suo compagno e si avvicinò a lui per
baciarlo dolcemente. «Un buon inizio di giornata.»
«Niente di troppo
diverso dagli altri, se ci pensi bene.»
Le mani di Blake
scivolarono sulle sue spalle fino ad intrecciarsi sulla nuca, poi
sorrise e parlò a fior di labbra. «Noi siamo fortunati.»
Credere che un
bruscolo gli fosse improvvisamente finito in un occhio sarebbe stata
una scusa idiota anche per Brian, perciò non ci mise molto ad
ammettere con il suo cuore che quelle tre semplici parole l’avevano
fatto tremare di felicità.
Baciò il suo
compagno con infinita passione, assaporando il gusto delle sue labbra
e riempendosi i polmoni di quel profumo familiare che da tempo lo
cullava prima di addormentarsi e lo risvegliava al mattino.
L’unione di
quelle labbra calde con le sue dissipò magicamente quell’abisso
profondo e scuro, insieme alla paura di un rifiuto, convincendolo che
sarebbe stata la cosa più giusta da fare.
Theodore voleva
sposare Blake più di ogni altra cosa al mondo, e ormai era certo che
glielo avrebbe chiesto molto presto.
*'*'*
“Children”
- Robert Miles
«Ti vuoi
muovere?» esclamò Jace irritato. «È da un’ora che sei
appoggiato a quel palo. Vuoi per caso portatelo a casa?»
«Be’…»
mormorò Justin incerto, sfiorando con le dita quella consistenza
grigia e fredda. Se solo avesse potuto comprendere anche una briciola
di cosa significasse quel punto esatto, probabilmente non l’avrebbe
criticato così tanto; o forse l’avrebbe definito una penosa
lesbica, perché almeno per quel che riguardava l’amore, Jace era
molto simile al vecchio Brian Kinney: niente sentimenti, niente
sdolcinatezze, niente stupide promesse. Solo tanto – ma tanto –
buon sesso.
Vide
l’amico sollevare uno dei sopraccigli scuri e ben curati in
un’espressione confusa. «Credevo che avessi abbastanza dildo a New
York, ma soprattutto non immaginavo certe tue abilità dilatatorie.»
«Idiota.» rise,
scuotendo la testa. «È solo che…»
«Solo che?»
incalzò l'altro.
«Niente.»
sorrise amaramente e sventolò una mano davanti agli occhi. «Solo
una cosa ridicola
e romantica.»
«Certo che in
Pennsylvania siete davvero strani.» borbottò con un rinnovato
cipiglio a solcargli la fronte. «Adesso però, caro il mio Romeo
dei finocchi, possiamo entrare o le mie chiappe non sono ancora
abbastanza congelate per te?»
Justin diede
un’occhiata furtiva all’entrata del Babylon.
Nonostante fosse
ormai scoccata l’una da tempo, la fila fuori sembrava non voler mai
terminare, continuando a costeggiare il muro dell’edificio.
Sorrise appena,
constatando che gli affari in quel posto andavano decisamente bene, e
che il ricordo della bomba esplosa quasi due anni prima non aveva
scoraggiato nessuno dal continuare a divertirsi in quegli angoli di
mondo in cui l’etica e il buonsenso non avevano mai messo piede.
C’erano così
tante persone a infreddolire nell’attesa, che probabilmente
avrebbero rischiato di non entrare se non fosse ricorso alla
conoscenza con tutti i buttafuori del locale; e, per un attimo, lo
prese come una sorta di avvertimento a restare fuori da quel posto
che rappresentava più di ogni altro il suo passato e ciò che più
aveva amato; ciò che era stato e che troppo spesso si era trovato a
pensare di voler tornare ad essere: lo studentello omosessuale,
neanche maggiorenne, che ancora alle prime armi e completamente
ignorante su quel mondo a cui sapeva di appartenere, compiva i suoi
primi passi, atteggiandosi come il gran figo competente che in realtà
non era.
Rise di se stesso,
conquistandosi le occhiate storte di Jace, per poi prendere un grosso
respiro e, dopo essersi slegato i capelli per lasciarli scendere a
nascondere un po’ il viso, avanzò verso quel vicolo buio appena
illuminato dalle luci azzurre delle insegne aggirando tutta la fila
senza badare ai commenti che i presenti si premurarono di
rivolgergli.
Raggiunse i
buttafuori all’entrata e sorrise.
In un primo
momento sembrarono non riconoscerlo, o forse erano troppo stupiti dal
trovarselo davanti, ma dopo qualche attimo di assoluto silenzio, il
pelato dei due si decise a balbettare qualcosa di vagamente
comprensibile: «Signor…signor Tay...»
Justin portò
immediatamente l’indice sulle labbra per intimargli di stare zitto.
Non avrebbe saputo spiegare il perché, ma non voleva che la voce di
un suo ritorno si spargesse in giro così velocemente.
Per quanto il suo
cuore gli urlasse di chiedergli immediatamente di Brian per vederlo,
nella sua testa non si sentiva ancora pronto ad affrontarlo. Non
avrebbe saputo cosa dire, o fare.
Quella sera voleva
solo osservare, ricordare e sentire. Rispolverare i frammenti del suo
passato e dare modo al suo corpo di abituarsi a poco a poco a
respirare nuovamente quell’aria. Giusto un po’ di Pittsburgh a
piccole dosi e molto lentamente, per riprendere a convivere con
quella dipendenza che gli era bruciata nelle vene ogni giorno da
quando si era trasferito a New York, e con cui, se le cose non
fossero andate come desiderava, avrebbe dovuto tornare a combattere
molto presto. «Non dire niente a…» si sforzò di pronunciare e,
dopo una prima occhiata stranita, quell’omone tozzo gli rivolse un
sorriso e si scostò da una parte per lasciarlo passare. «Grazie.
Lui è con me.» concluse, indicando Jace alle sue spalle che per
tutto il tempo era rimasto in silenzio ad osservare tra la folla in
attesa qualche possibile preda da accalappiare.
Percorrere di
nuovo i primi passi dentro al Babylon fu più difficile del previsto.
Sentiva
perfettamente il sangue pulsargli nelle vene veloce e potente come un
fiume in piena, mente i battiti del suo cuore sembravano potergli
togliere il respiro e lasciarlo stramazzare a terra da un momento
all’altro. Di nuovo quella maledetta tachicardia.
Ma che cazzo ci
faccio qui?
Il primo istinto
fu quello di fare dietro front e scappare a gambe levate per
rifugiarsi nella sua calda camera d’albergo, ma ogni suo progetto
venne immediatamente stroncato dalla mano di Jace che corse a
stringersi sui polsini della sua camicia candida. I suoi occhi
azzurri si spostarono ad incontrare quelli accigliati di Jace che,
storcendo le labbra, gli sussurrò all’orecchio: «Non ci provare.»
Justin
sbuffò rumorosamente e si liberò dalla presa con uno strattone,
prima di riprendere ad avanzare con il cuore in gola. Il fatto che
Jace avesse imparato così bene a conoscerlo tanto da anticipare ogni
sua mossa e capire ogni stato d’animo, in quel momento gli risultò
decisamente fastidioso. «Andiamo a prendere qualcosa da bere?»
propose e vide l’altro ridere di gusto.
«Credo proprio
che tu ne abbia bisogno.»
Avanzarono
lentamente fino al bancone, fermandosi su un lato più nascosto,
vicino alle scale in ferro. Se solo avesse avvistato anche da lontano
Brian, quello sarebbe stato il posto migliore da cui poter fuggire.
Si sentiva un
codardo, ma le sue gambe proprio non la volevano smettere di tremare.
Ordinò una birra
per sé e un Martini per Jace, conquistandosi le occhiate incuriosite
del barista che, assottigliando lo sguardo – avrebbe potuto
giurarci – stava cercando di capire dove avesse già visto quei
capelli biondissimi e quel viso troppo bello da sembrar vero.
Abbassò la testa
immediatamente per far sì che la frangia liscia potesse nasconderlo
un po’, e si voltò con circospezione verso Jace, certo che se le
cose fossero continuate su quella linea ancora per molto, non sarebbe
arrivato sicuramente vivo a fine serata.
«Tutto bene?» lo
sentì ridacchiare vicino al suo orecchio e gli rivolse uno sguardo
poco amichevole. «Non sembri esattamente a tuo agio.»
«Va’ a farti
fottere.» sibilò in risposta, ottenendo solo un sorrisetto
compiaciuto dell'altro.
«Se non dovessi
fare da balia a te, che rischi di crollare a terra per un infarto da
un momento all’altro, ti avrei già chiesto dov’è questa famosa
Dark Room!»
La
Dark Room.
Sentire
quel nome lo fece rabbrividire dalla testa ai piedi, mentre la sua
mente, nuovamente traditrice, si premurò di riportargli davanti agli
occhi troppi ricordi; alcuni dolorosi, altri dolorosamente
stupendi.
Chissà
se lui è lì?
Annebbiò quei
pensieri con una sorsata di birra, sperando servisse a lavarli via
completamente e, con un cenno della testa, indicò a Jace le scale.
Voleva salire su
per osservare e sperare di non essere riconosciuto troppo presto,
anche se ogni passo sembrava costargli sempre più fatica. Senza
contare poi il fatto che ogni persona, per un attimo, sembrava mutare
i propri lineamenti in quelli dell’uomo che mai – neanche per un
misero secondo – aveva smesso di amare.
Raggiunsero il
piano superiore e si appoggiarono al parapetto.
Gli occhi di
Justin presero a muoversi freneticamente in lungo e in largo per
tutta la pista, alla ricerca di quel viso familiare. Più volte aveva
sentito il cuore sussultare nel vedere una chioma scura e
scompigliata su un fisico slanciato, ma nessuno di questi si era
rivelato ciò che cercava.
Per un attimo gli
parve di essere tornato realmente ai suoi diciassette anni, quando
era entrato al Babylon insieme a Daphne alla sua ricerca. La stessa
sera in cui si era intromesso in una delle sue conquiste,
soffiandogliele da sotto il naso, e aveva ottenuto esattamente ciò
che desiderava: un’altra notte con lui.
Sorrise e prese un
altro sorso di birra, attirando l’attenzione di Jace. «Ti racconti
le barzellette da solo, o hai visto qualche bocconcino interessante?»
Justin negò con
un movimento della testa. «Stavo solo ripensando ad una cosa.»
L’altro
roteò gli occhi e sbuffò. «Praticamente non fai altro da quando
siamo arrivati. Sei inquietante sai? Soprattutto quando inizi a
fissare il vuoto.» gli diede un buffetto sulla spalla con la mano
libera e trangugiò il suo Martini. «Andiamo biondo!
Due salti in pista con il tuo vecchio Jace!»
«No, grazie.»
rispose, ricevendo l’ennesimo sbuffo. «Vai tu se vuoi.»
«E lasciarti qui
da solo a deprimerti?»
«Tranquillo.»
ammiccò e gli rivolse un sorrisetto storto. «Giuro che non mi
metterò a piangere.» tornò a guardare la folla che si agitava
sulla pista da ballo e aggiunse: «Me ne starò qui buono buono e…»
si bloccò, e sentì le parole morirgli in gola e il cuore
sprofondargli nel petto.
Spalancò gli
occhi, quando le dita andarono a stringere spasmodiche il collo della
bottiglia, sbiancando nello sforzo. Dischiuse le labbra per respirare
meglio e togliersi di dosso quell’orrenda sensazione che l’aria
nei suoi polmoni non fosse mai abbastanza. Sbatté più volte le
palpebre e boccheggiò nel vano tentativo di ritrovare la forza di
pronunciare almeno un suono, mentre con lo sguardo continuava a
seguire ogni minimo spostamento della persona che aveva cercato fin
dall’inizio, ma che in quel preciso attimo si pentì di aver visto.
Non pensava che
gli avrebbe fatto così male rivederlo, né che l’avrebbe svuotato
di ogni cosa in un solo misero momento, prima di riempirlo
improvvisamente di troppe emozioni contrastanti, per cui sarebbe
potuto esplodere all’istante.
Felicità,
malinconia, tristezza, paura, miste alla voglia improvvisa di correre
tra le sue braccia, che faceva letteralmente a pugni con quella che
gli gridava di scappare il più lontano possibile.
Brian Kinney era
lì.
Brian
– il suo
Brian – era qualche metro sotto di lui, che avanzava tra la folla
con una birra in mano, spiccando su tutto il resto; avvolto in una
delle sue splendide camice nere di seta che risaltava la linea
perfetta delle sue spalle e il candore di quel collo liscio ed
elegante.
Era solo e
sembrava non troppo propenso alla compagnia, visto il modo in cui
ignorava chiunque gli si rivolgesse anche con approcci piuttosto
espliciti.
Tirò un sospiro
di sollievo dopo quella constatazione e riprese per un pelo la
bottiglia di birra che nel frattempo gli stava scivolando dalle mani
nuovamente rilassate. Sentì vampate di calore lambirgli il viso,
alternate da brividi lungo la linea della schiena, mentre gli occhi
sembravano poter prendere fuoco da un momento all’altro; due
tizzoni ardenti, proprio come quando era influenzato. Solo che in
quel momento non era certo la febbre a incendiarli, ma lo sforzo di
trattenere le lacrime.
«Ehi, Jus.» lo
chiamò Jace, posando una mano sulla sua spalla. «Ti senti bene?»
«È qui.»
balbettò soltanto, ma quando si accorse che l’altro aveva
sollevato le sopracciglia e lo fissava incuriosito, si costrinse a
parlare ancora, nonostante ogni parola avesse l’effetto di
graffiargli la gola. «Brian, è qui.»
Jace spalancò gli
occhi e sbatté più volte le palpebre sorpreso. «E che aspetti a
farmelo vedere?»
In tutto il tempo
trascorso dal suo trasferimento, Justin non aveva mai fatto vedere
neanche una foto dell’uomo di cui era innamorato da anni alle
persone che l’avevano affiancato nella sua vita a New York; non lo
aveva mai menzionato o ricordato, se non nella sua mente. Durante il
suo soggiorno nella Grande Mela, era come se Brian non esistesse.
Solo Jace e Gary
ne erano venuti a conoscenza, ma non l’avevano mai visto, se non
nei segni astratti dei quadri di Justin, o nei disegni in cui
talvolta si dilettava per lasciar sfogare i pensieri che si
arrovellavano nella sua testa attraverso una semplice matita.
Perciò si ritrovò
a descriverlo e indicare un punto preciso della pista con un gesto
fulmineo della testa; e dallo strillino strozzato che uscì dalle
labbra di Jace, comprese che l’amico avesse centrato l’obbiettivo.
«Oh Santa Finocchia!» esclamò, guadagnandosi un’occhiata storta
da parte di Justin. «Chi cazzo è quel dio?!»
«Come direbbe
Deb, ‘Brian Kinney, il regalo di Dio ai gay’.»
Jace passò più
volte lo sguardo da Brian a Justin con la bocca inverosimilmente
aperta, prima di riuscire a strillare: «Adesso capisco perché ti
sei dato all’astinenza forzata! L’avessi preso io da uno come
quello, avrei decisamente appeso le chiappe al chiodo.» Justin
scoppiò a ridere e terminò la sua birra. «Cristo santo, ma…ma…»
«Ma…cosa?»
«È bellissimo!»
«Lo so.» si
limitò a replicare con un sospiro a seguire, senza riuscire a
staccare gli occhi da quella figura familiare e perfetta, immaginando
di potersi stringere ancora nel calore di quel corpo.
Jace
intanto aveva riconquistato la parola e la stava usando per elogiare
ogni singolo centimetro di Brian, anche se lui neanche l’ascoltava.
Era troppo impegnato ad ammirarlo e ricordare cosa
era capace di fare e di fargli provare; era troppo impegnato a
ricordare attraverso il battito del suo cuore quanto amasse
quell’uomo e quanto avesse bisogno di lui.
Ed era così
assorto in quella sua venerazione, che neanche si accorse di un altro
paio di occhi azzurri che lo stavano osservando da un po’…
*'*'*
“King of my
castle” - Wamdue Project
Ordinò quella che
fu almeno la quarta vodka della notte, dopo aver messo in circolo nel
sangue anche un paio di birre, e si appoggiò con un gomito e la
schiena al bancone, per osservare distrattamente i ragazzi che si
agitavano nella pista.
Distolse lo
sguardo da chiunque lo fissasse insistentemente o provasse approcci
attraverso occhiate eloquenti e sorrisi languidi, rifilando solo
decisi due di picche, dato che quella sera proprio non era in vena;
in fondo, lui era ancora Brian Kinney e, anche se dentro qualcosa era
cambiato – per non dire tutto –, fuori restava sempre l’uomo
più desiderato di Pittsburgh, e poteva permettersi di rifiutare
chiunque volesse quando e come volesse. Gli sarebbe bastato comunque
un semplice gesto per farli correre tutti quanti se mai avesse
cambiato idea.
Continuò a
monitorare il locale con il suo sguardo profondo – di quel verde
strano, così scuro da sembrar petrolio – finché non scorse una
figura sorridente e familiare che tentava di attraversare la pista
per raggiungerlo. «Attenzione gente, Michael Charles Novotny
Bruckner in libera uscita, senza il maritino!»
«Piantala,
idiota.» rispose il nuovo arrivato, e gli diede una leggera spinta
sul petto fingendosi offeso.
«A cosa devo
questo scioccante scoop?» continuò a prenderlo in giro, prima di
voltarsi verso il barista e ordinare una birra per il suo migliore
amico.
«Sono solo
passato a fare un saluto.» prese la bottiglia e sorrise per
ringraziarlo. «Ben aveva un lavoro da terminare per l’università,
e così...»
«Sei tornato a
ricordare i tempi in cui eri un frocio single che sapeva ancora
divertirsi.» tirò fuori uno dei suoi sorrisi storti, sollevò il
bicchiere come per brindare a lui e trangugiò il liquido
trasparente.
Michael
lo fissò lievemente accigliato e scosse la testa. «Io so
ancora
divertirmi.»
«Certo.» annuì
Brian arricciando le labbra. «Suppongo che lo Scarabeo sia piuttosto
entusiasmante, o siete già passati agli scacchi?»
L’altro gli
sferrò un pugno sulla spalla e rise. «Ma smettila! Proprio tu parli
poi, che stavi per…»
«Io che stavo
per?» domandò, incrociando le braccia al petto, per poi prendere a
fissarlo intensamente. Sapeva benissimo dove il suo amico volesse
andare a parare. Stava per pronunciare la parola “matrimonio” o
comunque qualcosa di annesso, ma nel momento in cui si era reso conto
della gaffe, si era zittito immediatamente.
«No, niente. Una
stronzata.» si sforzò di sorridere, ma era così nervoso e tirato
che non c’avrebbe creduto neanche un bambino. Michael poi, era
sempre stato un pessimo bugiardo, a differenza sua.
«Io
che mi stavo per sposare?
Io che stavo per convolare
a nozze?
Io che stavo per fare
il grande passo?
Matrimonio?»
elencò, con un tono che andava a inacidirsi sempre di più, seppur
le sue labbra fossero ancora increspate in un sorriso. «Era questo
che volevi dire?»
«Mi dispiace,
Brian. So di non dover…»
«Mickey, Mickey.»
sospirò, prima di passare un braccio a circondare le spalle
dell’altro. «Per quanto ancora dovrò ripeterti che sto bene? Sono
ancora io e sono al Babylon, come ho sempre fatto.»
Michael restò per
un attimo in silenzio, con gli occhi scuri puntati in quelli
dell’altro. Per quanto Brian si ostinasse a sorridere, il tono
della sua voce continuava a tradirlo, così come lo tradiva il fatto
di averlo spesso sorpreso a fissare il vuoto in silenzio; così come
dimostrava che mentiva il fatto di non aver ancora restituito le
fedi, né di aver gettato la disposizione dei tavoli ma, soprattutto,
il modo in cui le sue spalle s’irrigidivano nel sentir pronunciare
il nome di Justin, mentre la luce nei suoi occhi sembrava
affievolirsi fino a spegnersi. Decise comunque di tacere anche quella
volta e di passare ad un altro argomento che gli premeva: «Certo. E
ho saputo che hai ripreso anche a fotterti perfino l’aria.»
Brian
scoppiò in una risata anche se, per come stavano le cose, non aveva
proprio niente da ridere, considerando che le accuse di Michael erano
solo una triste
mezza verità.
La
realtà,
era che lui avrebbe
voluto
riprendere a fottersi anche l’aria, ma non ci riusciva.
C’aveva provato.
Aveva persino perso il conto di quanti gigolò – rigorosamente
biondi – avesse invitato al suo loft, ma con nessuno di loro era
riuscito a scopare. C’erano stati momenti in cui gli veniva perfino
la nausea, perché nessuno di loro aveva quel profumo addosso che
tanto amava, né il suono di quella voce o quella pelle morbida e
perfetta. Semplicemente, nessuno di loro era Justin.
La
realtà,
era che si limitava a farsi fare un pompino quando proprio non
riusciva a resistere, o sentiva il bisogno di doversi svuotare la
mente – oltre che qualcos’altro
– perché provare piacere sembrava essere l’unico modo per
riuscire a liberarsi e lenire quel fastidioso dolore per almeno
qualche minuto.
La
realtà è che non so più dove sbattere la testa.
Questa
è l’unica fottutissima realtà.
«Bah, sì.
Qualcosa del genere.» mentì però, con fare vago, perché era
troppo difficile ammettere che quel moccioso biondo gli mancava più
dell’aria che respirava. «Te l’ho detto che sto bene, no?»
«Già.» sorrise
Michael; o almeno si sforzò di fare qualcosa che somigliasse a un
sorriso. Avrebbe preferito sentirsi dire che stava male e che non
riusciva ad andare avanti. Avrebbe preferito qualsiasi altra parola,
ma non quella. Il suo migliore amico si era nuovamente intestardito a
voler fare e affrontare tutto da solo, esattamente come col cancro, e
quando si comportava così non prometteva niente di buono.
Fece per
aggiungere altro, ma una figura conosciuta e slanciata, dagli occhi
azzurri e i capelli biondi si avvicinò a loro. «Brandon.» lo
salutò Brian, prima di squadrarlo e inarcare le sopracciglia.
«Perché quella faccia da funerale?»
«Credo di essermi
innamorato.» sospirò con ironia e sorrise. «Ho visto un biondo che me l’ha
fatto diventare duro con una sola occhiata, ma l’ho perso.»
L’altro fece una
smorfia e finse di consolarlo picchiettando una mano sulla sua
spalla. «Povero piccolo Brandon alle prese con la sua prima
delusione amorosa.» sollevò lo sguardo e scosse la testa in un
gesto di rassegnazione, come se volesse far intendere che lui quelle
cose proprio non le capiva. Ennesima bugia.
«Ho la sensazione
di averlo già visto altre volte, ma non nell’ultimo periodo.»
«Pure
visionario.» fece una smorfia e aggiunse: «Lasciatelo dire, sei
messo davvero male.»
Brandon però non
fece neanche caso alle sue parole, troppo impegnato a far vagare lo
sguardo nella pista alla ricerca del suo fantomatico amore. «Capelli
biondi e lunghi, pazzeschi occhi azzurri e un fisico da favola.»
«Ti sei
innamorato di uno specchio, Narciso?» continuò a prenderlo
in giro Brian, ridacchiando con il suo solito fare da arrogante.
«Idiota. Sto
parlando seriamente.» replicò sbuffando. «Potrei giurare di aver
visto un angelo.»
A quelle parole
Michael puntò immediatamente gli occhi verso Brian e, come previsto,
lo vide irrigidirsi per la durata di un secondo, ma che bastò a
confermare ogni sua teoria. In fondo, poteva mentire a tutti, ma non
a lui.
Angelo.
Per Brian c’era solo una persona al mondo in grado di guadagnarsi
un soprannome simile, ed era l’unico uomo che avesse mai amato.
L’unico per il quale avrebbe sacrificato tutto, e l’unico che
l’aveva fatto soffrire e per cui stava ancora soffrendo.
«Be’, va’ a
cercarlo allora, invece che spaccare i coglioni a noi con le tue
stronzate.» rispose difatti con un tono decisamente meno amichevole,
prima di voltarsi verso il bar e ordinare da bere. Alcool, droga e
sesso erano l’unica soluzione temporanea per salvarsi da una
dipendenza molto più grande.
Michael evitò
ogni commento a riguardo e continuò a sorseggiare la sua birra,
osservando distrattamente i ragazzi in pista, per poi sollevare lo
sguardo verso l’alto. Percorse le scale in ferro ed il corridoio
sopraelevato, senza badar troppo alle figure che i suoi occhi
incontravano, finché non vide l’impensabile.
Capelli di quel
biondo così chiaro da risplendere ogni volta che le luci li
colpivano, anche se più lunghi dell’ultima volta in cui l’aveva
visto; pelle marmorea, fasciata in una camicia bianca che lo faceva
sembrare davvero un angelo; occhi così azzurri da essere notati
anche nel buio di una discoteca, e quei lineamenti morbidi che
conosceva fin troppo bene, e che l’avevano fatto sempre sembrare
più giovane della sua età.
Sembrava una
visione, e se possibile era ancora più bello di quando aveva
lasciato Pittsburgh.
Sbatté
più volte le palpebre, incredulo e stralunato per ciò che i suoi
occhi si ostinavano a mostrargli, convinto che fosse solo una stupida
visione dettata dai suoi pensieri; ma per quanto li chiudesse e li
riaprisse, quella figura non spariva. Continuava a restare lassù,
appoggiata al parapetto con l’espressione smarrita di chi cerca
qualcosa ma non riesce a trovarlo…e Michael sapeva benissimo cosa,
o meglio chi,
stava cercando.
Fu
probabilmente quello che lo convinse di non essere pazzo o ubriaco, e
le parole uscirono dalle sue labbra incontrollate: «Justin.»
mormorò, facendo voltare Brian con un’espressione stizzita sul
volto. «Justin è qui.»
«Ma che cazzo
stai blaterando?» lo aggredì l’altro.
Michael si voltò
e lo guardò dritto negli occhi. «Senti, lo so che non mi crederai e
mi prenderai per pazzo, ma è qui.»
«Cos’è…hai
visto la madonna?»
«No!» esclamò
esasperato. «Guarda, è proprio lassù…» fece per indicare il
punto in cui l'aveva visto, ma di Justin non c’era più traccia.
Brian gli lanciò
un’occhiata storta e smosse le labbra in una smorfia. «Dammi retta
Mickey…» iniziò con quel suo solito tono saccente. «Va’ a casa
a fare la mogliettina. Restare così tanto alzato sembra ti faccia
male.»
«Ma…» provò a
replicare, passando nuovamente lo sguardo in ogni angolo senza
riuscire a scorgerlo. Si soffermò per un attimo sull’espressione
scocciata di Brian e scosse la testa. «Niente, lascia stare.»
«Bene.»
rispose l’altro, scompigliandogli i capelli. «Io vado a
controllare che nella Dark Room sia tutto apposto. Vuoi farmi
compagnia?» chiese, prima di sorridere e fingere di aver tralasciato
qualcosa. «Ah no, scusa! Dimenticavo che sei sposato!» scrollò le
spalle ignorando gli sguardi contrariati di Michael e concluse: «Buon
rientro a monogamolandia!»
Incapace di
rispondere, lo osservò allontanarsi con quel suo passo fiero,
seguito dagli sguardi eccitati dei presenti, e sospirò sommessamente
dandosi del cretino.
Si sentiva
patetico per essere andato lì come spalla per il suo migliore amico
e tentare di distrarlo, quando l’unica cosa che era stato capace di
fare, era stata scacciarlo con le sue stupide visioni.
Era così certo di
averlo visto e così felice nel sentir riaccendersi quella fievole
fiammella di speranza di rivederli ancora insieme, che non aveva
pensato neanche per un secondo a quanto potesse essere assurda quella
situazione.
Justin era a New
York, non a Pittsburgh; e Brian soffriva già abbastanza per quella
consapevolezza, senza il bisogno che lui girasse – e conficcasse
a fondo – il dito nella piaga.
Prese l’ultima
sorsata di birra e abbandonò la bottiglia sul bancone, prima di
avviarsi sconsolato verso l’uscita. Si guardò intorno per
un’ultima volta, ancora aggrappato a quella velata e debole
illusione, ma non vide neanche l’ombra di quel piccolo artista.
Ma perché
cazzo non torni?
Stizzito da un
moto di rabbia e delusione, tirò su la zip del maglione con foga e
tornò ad immergersi in quel freddo umido di fine autunno, con mille
pensieri in testa e neanche uno straccio di soluzione per salvare il
suo migliore amico.
***
Note finali:
Ed ecco anche il terzo!
Dal prossimo non sarò affatto così veloce nel pubblicare,
ma visto che lo scorso era piuttosto spoglio come capitolo e che questo
era praticamente già scritto, ho deciso di pubblicare
prima...approfittando anche del fatto che oggi: 10 Luglio, quel dio che porta il nome di Gale Morgan Harold III, compie 42 anni portandoli più che splendidamente!
E siccome il mio amore per quell'uomo rasenta la follia, mi sembrava
più che giusto omaggiarlo, seppur con una cosa minima come
questa.
Nello
scorso capitolo, il caro Gary Hudson, aveva riscosso qualche parere
positivo...e io ogni volta non riuscivo a non sorridere pensando
proprio a quello che avevo già scritto in questo...ehm, ehm...qualcosa mi dice che i pareri positivi diminuiranno, ma chissà...tutto può essere!
Comunque sia, non c'è poi molto da dire...a parte che gestire
tutti i personaggi è una vera faticaccia, specie quando la mia
vena "Britin" prende il sopravvento! XD scriverei vagonate di
"fluffaggini dolciose" su di loro, ma è bene che mi trattenga
dal farlo o sarà come tirarsi la zappa sui piedi.
Ci tengo comunque a specificare che io ODIO Blake.
Non l'ho mai sopportato e mai lo sopporterò. Non potevo
soffrirlo quando era un drogato e ancora meno quando è
rinsavito...ho pregato fino
all'ultimo che Ted se lo levasse dalle palle ma nulla... -.-'' il mio
caro contabile ama quel biondo con la faccia da schiaffi, perciò
devo tenermelo! Mi auguro che anche questa mia sviscerale antipatia non si noti troppo e...a proposito dell'altra mia antipatia - Michael - chiedo venia, ma ormai
nella mia testa il signorino è quello catalogato sotto
l'etichetta "dico un sacco di stronzate sempre al momento sbagliato e
non mi ricordo mai di tenere la bocca chiusa quando dovrei"...quindi
perdonatemi se gli ho fatto fare, come al solito, la figura del coglione, ma è stato più forte di me. XD
Ci tento a ringraziare come sempre Elena, la mia adorata beta che sopporta i miei squilibri mentali; tutte le persone che hanno letto questo capitolo; chi ha inserito la storia tra le seguite, le ricordate o le preferite...ma soprattutto un gigantesco GRAZIE a: mindyxx, oo00carlie00oo, Hel Warlock, silver girl, Katie88, Katniss88, giacale, Thiliol, FREDDY335, TWINDIDO, EmmaAlicia79, Clara_88 per aver recensito lo scorso capitolo.
Un bacione e a presto.
Veronica.
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Capitolo 4 *** Ironic. ***
4.Ironic.
6x04 – Ironic
[capitolo betato da Trappy].
“Ironic” -
Alanis Morissette
«D’accordo.»
esclamò perentorio Jace, bloccandosi in mezzo alla strada col
fiatone e le mani puntate nei fianchi. «Adesso mi dici per quale
cazzo di motivo stiamo scappando come due ladri!»
Justin si voltò
esasperato e tornò indietro di qualche passo per afferrarlo e
tentare di trascinarlo via. «Ti vuoi muovere?!»
«No.» replicò
l’altro. «Non se non mi dici perché! Sei impazzito per caso?»
«Michael mi ha
visto.» mormorò, e quando vide l’espressione confusa dell’altro,
sbuffò e aggiunse: «Michael, il migliore amico di Brian. Quello
piccolino e moro che era accanto a lui.»
Jace prese a
ridacchiare. «Ah, il tuo rivale in amore?»
«Piantala. È
sposato.»
«Ciò non toglie
che sia sempre stato innamorato di Brian, o sbaglio?» lo punzecchiò
con un sorrisetto irritante. «E adesso che l’ho visto, mi spiego
tante cose…»
«Cristo,
risparmiami!» lo supplicò, alzando gli occhi al cielo dopo aver
visto la luce d’eccitazione che era comparsa a illuminare quelli
nocciola del suo amico.
«Mi era diventato
duro come il marmo.»
Dalle labbra di
Justin uscì un mugolo di dissenso. «Grazie per il bollettino,
Jace.» lo strattonò per l’ennesima volta e sibilò a denti
stretti. «Adesso possiamo andare?!»
«Ma se ti ha già
visto, qual è il problema?»
«Conto sul fatto
che abbia pensato di avere le visioni. Michael ha sempre avuto una
fervida immaginazione.»
L’altro
restò a fissarlo in silenzio per un attimo, prima di storcere la
bocca e inarcare le sopracciglia. «Taylor, spiegami una cosa.»
iniziò, per poi sospirare. «Per quale fottutissimo motivo siamo
tornati a Pittsburgh, se stai facendo di tutto per evitare chiunque
ti conosca? Se volevi fare una gita, c’erano migliaia
di altri posti da visitare. Tutti sicuramente più interessanti.»
«Non è facile
come pensi.» rispose e abbassò lo sguardo. «Io…non ci riesco.
Non posso sbucare dal nulla e…»
«Vuoi inviare a
tutti una raccomandata per avvertirli del tuo arrivo? Chi cazzo sei,
la regina d’Inghilterra?»
«Non è questo!»
sbottò, e si passò una mano sui capelli per toglierli dalla faccia.
«Non torno qui da più di un anno.»
«Appunto, direi
che è l’ora di muoversi. Soprattutto con quel Brian.» si avvicinò
a lui e gli scostò un ciuffo biondo dietro l’orecchio. «Tesoro,
ascolta. Lo so che non è facile dopo tutto questo tempo, perché
credi di non appartenere più a questo posto o che tutti siano andati
avanti senza di te. E so anche che se non sei mai tornato è solo
perché avevi paura di quel che avresti trovato, ma ormai sei qui…»
gli sorrise e gli diede un buffetto sul naso. «Perciò tira fuori le
tue palle lisce e incontrali. Sono certo che saranno più che felici
di vederti.»
«Gli altri
probabilmente sì, ma…»
«Sarà felice
anche lui.»
Justin increspò
le labbra in un sorriso amaro. «Tu non conosci Brian. Mi avrebbe
spedito a calci a New York anche contro la mia volontà, e non
avrebbe mai voluto che tornassi se prima non fossi diventato
qualcuno. Non è mai neanche venuto a trovarmi e…»
«Tappati
quella bocca ora. Non costringermi a farlo con uno dei miei dildo.»
lo interruppe, puntandogli l’indice sotto il naso. «È vero, io
non lo conosco, ma tanto per cominciare credo che tu sia già
diventato qualcuno,
e non lo penso solo io, ma ogni rivista del cazzo e perfino i
quotidiani. Praticamente hai monopolizzato ogni inserto d’arte e
cultura di questo Paese.» strizzò l’occhio e continuò: «E poi
sono sicuro che lui era spaventato almeno quanto te. Da quel che mi
hai detto, credo proprio che quel suo ‘non voglio interferire’
fosse una bugia che raccontava a entrambi per non ammettere il
terrore di non rivederti mai più, perché non saresti più tornato
da lui. Preferiva raccontarsi la cazzata che eravate troppo impegnati
e che non dovevate mettervi in mezzo alle vostre cose, piuttosto che
confessare quelle paure.» gli circondò le spalle con un braccio e
ripresero a camminare verso la jeep. «Se solo le avesse ammesse, poi
avrebbe dovuto fare i conti con il fatto che gli mancavi e non
sarebbe più riuscito a tenerti lontano. Se fosse venuto a New York,
probabilmente ti avrebbe riportato a casa e avrebbe mandato a puttane
la tua carriera pur di averti con sé. Si sarebbe comportato da
egoista.»
«L’avrei
preferito.» borbottò Justin, tirando fuori le chiavi dalla tasca,
per poi far scattare la serratura dell’auto. «Avrei preferito che
fosse venuto a prendermi.»
«E avresti
sacrificato tutto per lui?»
Non rispose
subito. Aspettò che entrambi fossero seduti al loro posto e mise in
moto. «Come ho detto una volta a una mia cara amica…‘New
York non è il mio sogno di una vita, Brian sì’.»
Jace scosse la
testa e sorrise fievolmente. «Devi essere proprio tanto innamorato.»
«Troppo.»
ridacchiò appena e inserì la marcia per partire. «Quasi da averne
la nausea.»
«Be’, comunque
sia, il problema non sussiste più.» scrollò le spalle e lo guardò
sottecchi. «Sei uno stramaledetto artista famoso ormai, quindi chi
cazzo ti vieta di tornare da lui?»
«Non posso
mollare così Gary.»
«Adesso sei tu
quello che inventa stronzate per non affrontare le cose.»
Justin sorrise,
osservando la strada. «Non sono stronzate.»
«Certo, come no.»
sbuffò l'altro, sventolando la mano. «Se continuate così, è ovvio
che non vi ritroverete mai. Vi complicate la vita.»
«Non è mai stato
facile niente per noi.»
«Ah, su questo
non ho dubbi.» lo rimbeccò, scocciato. «Sembra che vi divertiate a
rendere le cose impossibili, anche quando sono banali.»
«Domani andrò a
trovare mia madre e Molly.» rispose dopo qualche minuto di silenzio.
«Una cosa alla volta.»
«Non prendertela
troppo comoda, artista da strapazzo.» replicò l’altro con la
fronte aggrottata. «Ricordati che non è ancora detto che potrai
davvero restare. A meno che tu non molli tutto, ma sei troppo buono
per farlo, quindi non ci spero neanche.»
«Proprio tu
m’incoraggi a mollare tutto per amore?» rise, lanciandogli
un’occhiata storta.
«Considerando che
per te questo ‘tutto’ non ha alcuna importanza, e che mi è
sempre piaciuto il lieto fine, direi proprio di sì.» fece
schioccare la lingua e sorrise. «Il fatto che io preferisca
strusciare il mio culo rifatto ovunque, non significa che io non
tenga a veder felice il tuo.»
«Se continui
così, presto dovrai rifartelo ancora. Te lo sei consumato.»
Jace lo fissò
sconcertato e quasi offeso. «A che pensi che serva la chirurgia
plastica?»
«Sei
completamente pazzo.»
«Parli bene tu. Non hai neanche ventiquattro anni!»
«E tu quanti ne
hai? Non me l’hai mai detto.»
«Cafone.» lo
apostrofò Jace. «Non si chiedono gli anni a una signora.»
Justin scoppiò a
ridere, e ringraziò mentalmente chiunque gli avesse concesso la
fortuna d’incontrare quell’amico che gli sedeva accanto.
Ne aveva fatte
tante di scelte sbagliate nella vita – a partire dalla sua
decisione di andare a New York che, a parte per i soldi, non gli
sembrava poi così vantaggiosa – ma quella di portare Jace con sé,
era stata certamente una delle poche cose giuste che avesse fatto.
La sua compagnia
lo metteva di buonumore e, per quanto a volte fosse decisamente
petulante o isterico, averlo vicino significava aver meno tormenti da
portare sulle spalle; e mai come in quel momento ne avrebbe avuto
bisogno.
Sorrise tra sé e
sé, con gli occhi puntati sulla strada e le luci della città che
sfrecciavano ai lati. Lanciò un’occhiata verso la direzione in cui
sapeva esserci la casa di Brian – quel bellissimo loft che aveva
assistito a mille divergenze e altrettante notti d’amore – e
sentì lo stomaco attorcigliarsi su se stesso.
Probabilmente non
sarebbe mai stato pronto a quel momento; non si sarebbe mai sentito
abbastanza coraggioso da affrontarlo, ma non poteva permettersi di
attendere oltre.
Un
passo alla volta.
Raggiungere Brian
sarebbe stato un po’ come percorrere quella navata su cui non aveva
mai messo piede. Arrivare nuovamente a lui sarebbe stato come aver
coronato quel sogno, permesso e non concesso che gli permettesse per
l’ennesima volta di tornare.
L’aveva fatto
così tante volte, e altrettante volte gli aveva concesso di compiere
i suoi sbagli – alcuni anche madornali – che gli sembrava quasi
impossibile che fosse ancora lì ad attenderlo, pronto a riprenderlo
nella sua vita e a concedergli quello stramaledetto cassetto che
ancora non era riuscito a prendersi davvero.
Gli sembrava
tremendamente improbabile eppure, in fondo al suo cuore, non aveva
mai smesso di crederci; non aveva mai smesso di sperare che un giorno
si sarebbero appartenuti come si erano promessi.
Sospirò e
frizionò i suoi capelli indomabili, cercando un modo per rincontrare
tutti, attanagliato dalla paura che non lo vedessero più come il
loro piccolo “raggio di sole”, ma come l’artista famoso di New
York, o il “nuovo Warhol” come si ostinavano a definirlo tutti.
Poi pensò alle
loro telefonate e ai giorni in cui erano passati a trovarlo.
Debbie l’avrebbe
sicuramente stritolato in uno dei suoi abbracci, rischiando di
soffocarlo e fargli concludere in una bara il suo ritorno. Sua madre
avrebbe fatto altrettanto, lamentandosi del fatto che fosse troppo
magro, mentre sua sorella avrebbe sicuramente recitato la parte
dell’offesa, finché non fosse riuscita più a desistere dal
saltargli in braccio e riempirlo di baci e schiaffi. Il suo modo
tutto singolare di dimostrargli quanto teneva a lui e quanto le era
mancato.
Anni prima non
erano stati troppo legati, nonostante si volessero bene, ma da quando
era cresciuta e aveva capito com’era la situazione, Molly gli si
era letteralmente appiccicata addosso e non perdeva occasione per
lamentarsi di quanto poco tempo passasse con lei, per poi ricordargli
quando fosse orgogliosa di averlo come fratello.
Se glielo avessero
detto a diciassette anni non l’avrebbe mai creduto possibile,
eppure quella fastidiosa ragazzina dai capelli lisci e rossicci, i
suoi stessi occhi azzurri, la pelle lattea e quelle
impertinenti lentiggini sul naso, gli mancava da morire; così come
gli mancava Daphne.
In quell’anno si
erano sentiti per telefono – non quanto lei avrebbe voluto e spesso
si era dimenticato di richiamarla – ed era passata a trovarlo più
volte a New York, ma non era più come quando viveva a Pittsburgh.
Non appena le si
fosse presentato davanti, non avrebbe potuto giurare che avrebbe
fatto finta di niente e l’avrebbe accolto con un abbraccio
sorridente. Era quasi certo che uno schiaffo sarebbe arrivato anche
da lei, ma era ben disposto ad accettarlo, se ciò significava farsi
perdonare.
Avrebbe accettato
qualsiasi cosa, se questo gli avesse assicurato che tutto sarebbe
rimasto immutato a quando se n’era andato.
Sperava che
Michael ricominciasse a stressarlo con le sue nuove idee su Furore,
per tentare di convincerlo a dare ancora vita a quel loro prezioso
supereroe, come se non fosse già abbastanza impegnato, mentre Ben
gli avrebbe sicuramente chiesto di tutto e di più su musei
newyorkesi che ancora, ovviamente, non si era neanche premurato di
visitare; ed era quasi certo che Ted si sarebbe unito a lui, passando
poi a mostrargli qualche articolo che era riuscito a conservare, su
cui venivano decantate le sue doti di artista.
Hunter non avrebbe
fatto altro che informarsi su quali locali fossero più in voga e gli
avrebbe strappato l’ennesimo invito al suo loft per trascorrere
qualche nottata di baldoria, immediatamente ripreso dai suoi
genitori, mentre per Emmett immaginava di sentirsi riempito da mille
domande su quali attori famosi, o vip di ogni genere, avesse avuto la
fortuna d’incontrare. Gli avrebbe chiesto certamente anche quali
tendenze la facessero da padrone nella Grande Mela e avrebbe concluso
riempendogli la testa di gossip su persone che neanche aveva la più
pallida idea di chi fossero, conducendolo a una scontata emicrania di
dimensioni epocali.
Linz e Mel
probabilmente non le avrebbe trovate. Gli mancavano da morire e
voleva assolutamente rivedere anche Gus e Jenny Rebecca, perciò si
appuntò di ritagliarsi un momento per andare a Toronto.
L’unico punto
interrogativo – più grande e spaventoso degli altri – restava
sempre e solo lui: Brian.
Non riusciva a
immaginare una sua reazione. Non poteva neanche lontanamente
provarci.
Nella sua testa si
alternavano le possibilità più disparate. Da un improbabile
abbraccio, seguito da un bacio, in un assurdo momento di passione e
desiderio, ad una molto più reale espressione d’indifferenza da
cui, certamente, sarebbe uscito a pezzi.
Picchiettò
nervosamente con le dita sul volante e sbuffò appena, per non farsi
sentire.
Era inutile
arrovellarsi in quel modo, perché per quanto provasse a farsi
un’idea nella sua testa, accanto a quel nome, sarebbe stato
eguagliato sempre e comunque il vuoto più totale.
Lo
conosceva bene – per certi aspetti anche meglio di Michael – ma
in quel caso, in quella situazione, che poi era la più importante,
quella che avrebbe potuto cambiare ogni cosa, Brian Kinney era,
ironicamente,
la persona più imprevedibile di questo mondo.
*'*'*
“9 Crimes”
- Damien Rice
Fece scorrere la
porta pesante sul carrello e restò ad osservare per un attimo il suo
loft illuminato dalla fievole luce azzurra dei neon accanto al letto.
Michael
era convinto che non l’avesse sentito, ma alle sue orecchie era
arrivato perfettamente il suono di quel
nome.
“Justin è qui”,
aveva detto; e per qualche assurdo e stupido motivo, si era aspettato
di vederlo nella penombra di quel posto enorme, solitario e troppo
silenzioso da quando se n’era andato. Si era illuso di trovarlo lì,
ad aspettarlo come tante volte era successo, che sollevava gli occhi
verso di lui non appena sentiva il rumore della porta e restava a
fissarlo senza dire una parola, prima di sorridergli.
Ma
il loft era ovviamente vuoto; Justin era a New York, ed era
estremamente stupido da parte sua credere il contrario, soprattutto
se pensava che erano ormai sei mesi che non si parlavano.
Sei
mesi, cinque giorni e circa sei ore.
Sorrise
fievolmente, ironizzando su di sé e sulle sue stupide illusioni.
Sapeva che non
poteva essere possibile, eppure in fondo c’aveva davvero sperato.
Era ben conscio che concedersi di crederlo avrebbe solo riaperto
quella ferita ostinata a non volersi cicatrizzare, e che si sarebbe
fatto solo del male; eppure c’erano giorni in cui lo sentiva
necessario. Provava l’insano bisogno di continuare a sperare in
quell’amore che aveva lasciato andare, ritenendosi schifosamente
patetico, quasi da provare disgusto e rabbia per se stesso, fino a
rendersi conto – e arrendersi al fatto – di non poter fare
diversamente.
Lui e Justin erano
uniti da un filo invisibile quanto impossibile da recidere. Lo sapeva
lui, lo sapeva Justin e lo sapeva chiunque li avesse conosciuti; e
forse era quello il motivo principale per cui non riusciva a smettere
completamente di sperare; forse quella era la risposta a tutti i suoi
perché.
Brian
semplicemente aspettava il trascorrere di quel
tempo,
come poi tante altre volte era successo e, nonostante il suo enorme
ego, affiancato dall’altrettanto mastodontico orgoglio, sapeva che
avrebbe trovato sempre un posto per quel suo raggio
di sole
nella sua vita.
Sempre.
Qualunque cosa avesse fatto o detto, Justin avrebbe avuto il suo
angolino, perché ormai faceva parte di lui e nessun altro pezzo si
sarebbe mai incastrato così bene in quello spazio scavato quasi al
centro del petto. Il punto esatto dove batteva il suo cuore.
In fondo, lui lo
sentiva ancora.
Per quanto assurdo
fosse, si era ritrovato spesso a percepire tracce del suo profumo sul
cuscino, nonostante le lenzuola fossero state lavate fin troppe volte
perché fosse anche solo vagamente possibile; o si era svegliato di
soprassalto durante la notte, convinto di aver udito la sua voce.
C’erano notti in
cui s’illudeva di avere il calore del suo corpo al suo fianco, e
altrettanti giorni in cui lo immaginava mentre abbandonava la giacca
di pelle o qualsiasi altra cosa sulla stessa sedia.
Tornava al loft e
gli sembrava di vederlo armeggiare in cucina; entrava nel box doccia,
e aveva la sensazione di sentire le sue mani insaponargli
delicatamente la schiena; si addormentava e sperava di sentire il
suono del suo respiro e la morbidezza dei suoi baci sulla pelle.
Era diventato
paranoico forse, ma era anche assolutamente certo che quelle piccole
ossessioni fossero l’unico appiglio che gli restava per tenersi
ancora la sua vita e non impazzire.
Poi, come se
quella tortura in quel momento non fosse abbastanza, sentì il
cellulare nella tasca dei jeans pesare come un macigno. Percepiva la
sua consistenza premere sulla coscia, quasi volesse costringerlo a
prenderlo e comporre quel numero ma, nonostante tutto, decise di
ignorarlo e raggiungere il suo costoso tavolino per fumarsi una delle
canne che aveva già preparato.
Non l’avrebbe
chiamato.
Se solo si fosse
concesso di farlo, non gli avrebbe neanche permesso di parlare. Gli
avrebbe semplicemente ordinato di fare le valige e portare il suo bel
culo immediatamente a Pittsburgh, perché non poteva resistere un
minuto di più senza vederlo, senza sentire il suo profumo, o le sue
mani e i suoi capelli sfiorargli la pelle; non poteva resistere un
minuto di più senza fare l’amore con lui.
Non
poteva chiamarlo; non doveva
chiamarlo.
Non dopo che era
stato proprio lui a insistere perché partisse e inseguisse il suo
sogno; non dopo che lui per primo l’aveva convinto a rinunciare
all’altro sogno che stavano per coronare insieme.
Sarebbe rimasto
lì, nel suo loft a Pittsburgh, ad aspettarlo nell’ultimo posto che
avevano condiviso.
«Patetico.»
mormorò, stringendo tra le labbra il filtro, prima di accendere
quella canna e inspirare profondamente, così che il fumo potesse
risalire fin nel profondo e annebbiargli la mente. «Patetico e
ridicolmente romantico.»
Si lasciò cadere
sul suo divano candido e appoggiò la testa al cuscino. Aspirò
ancora e soffiò oziosamente il fumo, osservando ipnotizzato quei
girigogoli grigiastri che si sollevavano lentamente in aria fino a
svanire, dopo averlo trattenuto per qualche istante e lasciarlo a
raschiare la gola.
Chiuse gli occhi e
si passò il pollice sulla fronte, com’era solito fare ogni volta
che si arrovellava tra i suoi pensieri, ormai sempre più difficili
da domare e sopportare.
Prese
qualche altra boccata e lasciò ricadere il mozzicone sul posacenere,
prima di portare l’avambraccio a coprire gli occhi e assopirsi sul
divano, come altre notti in cui il ricordo di Justin era così forte
e pulsante da non permettergli di riuscire a dormire su quel letto
che troppe volte avevano condiviso; in cui si erano abbracciati,
baciati e sì…anche amati.
*'*'*
La fine di
quell’autunno, a Toronto, somigliava molto più a un pieno inverno.
Nevicava ormai da
parecchi giorni e il vento sembrava non voler mai smettere di
sferzare la faccia di ogni cittadino.
Linz calcò meglio
il cappello di lana sulla testa di Gus e sistemò la sciarpina rosa
di Jenny Rebecca, accertandosi che la gola fosse ben riparata. Fece
soffiare il naso a entrambi – ignorando le poteste di Gus che,
capriccioso esattamente come suo padre e altrettanto orgoglioso,
insisteva per fare tutto da solo – e tenendo per la mano la più
piccola dei due, percorse l’ultimo tratto di strada che li separava
da casa.
Quando aprì la
porta per rifugiarsi nel caldo del salotto, trovò immediatamente
Melanie impegnata a terminare di portare giù i bagagli e sistemare
le ultime cose prima della partenza. «Bentornati!» li accolse
sorridente, per poi baciare sulla fronte entrambi i suoi figli –
seppur Gus fosse estremamente contrario a certe smancerie – e
sfiorò le labbra di sua moglie con le sue. Lanciò un’occhiata al
bambino che trotterellava eccitato per casa come un piccolo uragano e
arricciò la bocca. «Ricordami un’altra volta perché abbiamo
scelto Brian come donatore?»
Linz le scoccò
un’occhiataccia, ma non riuscì a trattenersi dal ridere. Quella
piccola peste ogni giorno di più somigliava a suo padre, sia
nell’aspetto – che in fin dei conti poteva essere considerata più
una fortuna che altro – che nel carattere; e questo, decisamente,
non era di buon auspicio.
Come se non
bastasse poi – come chiunque del resto, a parte pochi eletti come
Mel – sembrava pendere letteralmente dalle labbra di Brian.
Lo ammirava, lo
cercava, lo desiderava e avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di
guadagnarsi un suo sorriso d’approvazione, o qualche minuto in più
in sua compagnia.
Aspettava
trepidante la sua telefonata ogni sera e sorrideva per giorni, con
gli occhi illuminati dalla felicità, quando sapeva che presto
l’avrebbe rivisto.
Ogni
volta, proprio come in quel momento, non riusciva a trattenere la
frenesia e scorrazzava a destra e a manca, neanche fosse posseduto.
In tante occasioni
– soprattutto quando lo vedevano con le lacrime agli occhi dopo
ogni saluto – Linz e Mel avevano pensato di fare ritorno a
Pittsburgh, sentendosi colpevoli per quella lontananza a cui
forzavano il bambino, ma come i loro pensieri correvano ai diritti
che in quel paese non li erano riconosciuti, o al ricordo di quei
momenti di terrore dopo la bomba esplosa al Babylon, rinunciavano a
quell’idea per la paura di dover affrontare ancora un incubo simile
e il possibile risultato che in quell’occasione le cose non si
risolvessero per il meglio.
«È
tutto pronto per la partenza?» le domandò invece. «Se non ci
muoviamo, Gus ci farà diventare pazze.»
Mel
sospirò. Quel bambino era anche più impossibile di Brian quando si
metteva d’impegno. «Sì, è tutto pronto. Dobbiamo solo chiamare
il taxi e avvertire gli altri del nostro arrivo. Ha chiamato Michael
prima…» sollevò un sopracciglio e rettificò. «Ha chiamato
quattro
volte in tutta la mattina. Voleva assicurarsi che gli dicessimo l’ora
d’arrivo, così che lui o Brian sarebbero passati a prenderci.»
Linz la guardò
per un attimo e annuì. «Ho capito, chiamo Brian.»
«Esatto.» le
rispose l’altra. «Non credo di poter sostenere la guida da
pensionato di Michael.»
«Perché, quella
da formula uno di Brian sì?»
«Non ho ancora
perso la speranza che il suo cervello sia riuscito a maturare tanto
da farlo diventare un po’ responsabile.» replicò Melanie, e
Lindsay le posò una mano sulla spalla come per incoraggiarla.
«Continua a
sperare Mel.» la baciò sulle labbra e prese il cordless.
Compose il numero
del cellulare del suo migliore amico e attese qualche squillo, prima
che quella voce profonda, e decisamente assonnata, rispondesse. «Sai
che ore sono?» il solito cafone. Melanie poteva pure continuare a
sperare anche per millenni. Brian non sarebbe mai cambiato.
«È
quasi mezzogiorno, bello
addormentato.
Non dovresti essere a lavoro?»
«No,
di tanto in tanto mi prendo una vacanza anch’io. Ci sono i miei
schiavetti
alla
Kinnetik.» lo sentì biascicare, prima di emettere un sonoro
sbadiglio. «La strega cattiva come sta?»
Linz
lanciò un’occhiata a sua moglie intenta a tenere a bada Gus e
rispose: «È qui che tenta di addomesticare il mini
Kinney,
con pochi risultati.» lo sentì ridacchiare e aggiunse. «È proprio
tuo
figlio.»
«Ricordami di
fargli un bel regalo quando ci vediamo.»
«Brian, non devi
incitarlo!»
«Perché no?»
Lei sospirò e si
massaggiò la tempia con la mano libera. «Lasciamo perdere.
Piuttosto, fatti una doccia e vieni all’aeroporto. Tra un paio
d’ore siamo lì.»
«Mi prendi per il
culo?» le chiese, dopo qualche secondo di silenzio assoluto.
«No. Michael ci
ha invitato a trascorrere il Ringraziamento da lui. Dovresti esserci
anche tu se non sbaglio. E comunque abbiamo deciso di arrivare un
paio di giorni prima, così da trascorrere più tempo insieme.»
«Quello
stronzetto non mi ha detto niente.»
Linz fece una
smorfia. «Forse perché non lo ascolti quando ti parla. Anzi, direi
che ultimamente non ascolti proprio nessuno.»
«Non ci provare.»
intervenne perentorio Brian. «Non cominciare anche tu a giocare alla
piccola psicologa, perché non è proprio il caso. Ne ho già in gran
numero qua a Pittsburgh, uno più penoso dell’altro, e non ho
bisogno di una che viene appositamente da un altro Paese.»
«Ma
come siamo egocentrici.» lo canzonò lei. «Non vengo certo per te,
mio caro.»
Sentì Brian
ridere e inevitabilmente sorrise. «E io dovrei crederci?» le
domandò con il suo tono saccente. «Lo so che ti stai struggendo di
nostalgia per me, lì in mezzo al nulla, tra le tue cose da lesbica.»
«Tranquillo. Ho
una parte molto consistente di te anche qua.» replicò, osservando
Gus che s’imbronciava ed incrociava le braccia al petto. «Gus
diventa sempre più intrattabile, esattamente come qualcuno di mia
conoscenza. E senza la tua influenza tra l’altro! Forse è questo
che mi preoccupa di più.»
«Pensa se ci
vedessimo tutti i giorni.»
«No grazie.
Preferisco lasciarli a Mel certi incubi.»
Brian restò
nuovamente in silenzio, e lei avrebbe pagato oro per riuscire a
capire cosa gli stesse passando per la mente, poi, come mai avrebbe creduto
possibile, quei pensieri si tramutarono in parole: «A me non
dispiacerebbe.» mormorò, lasciandola di stucco. «Sì, insomma. Lo
so che qua non potreste vivere in pace il vostro romantico e patetico
sogno d’amore, imitando la famigliola felice di ‘Settimo
Cielo’, ma…»
«Ho capito. Sei
tu quello che si strugge di nostalgia.»
«Vaffanculo.»
borbottò lui, e Linz non riuscì a trattenersi dallo scoppiare a
ridere.
Si asciugò poi
una lacrima che le era scesa sotto l’occhio, senza neanche rendersi
conto di quando aveva iniziato a piangere e rispose: «Dai, alza quel
culo e fila a farti la doccia. Non abbiamo intenzione di aspettarti
per ore all’aeroporto.»
«Mi fai salutare
Gus?» chiese invece lui.
«Solo se mi
assicuri di non dirgli niente per far incazzare Melanie.»
Lo sentì
mugugnare. «E dove finisce tutto il divertimento?»
«Brian.» lo
chiamò, con quel solito tono di rimprovero.
«Ho capito. ‘Fila
a fare la doccia’.»
la scimmiottò. «Dai un bacio ai mocciosetti da parte mia.»
«Ok, a dopo.» lo
salutò, per poi riattaccare e riporre il cordless al suo posto. Si
voltò verso la sua famiglia e sorrise nel vedere Jenny Rebecca che
tentava, seppur inconsciamente, di placare sua madre stringendosi al
suo collo, proprio come avrebbe fatto Michael; e Gus che alzava gli
occhi al soffitto con una buffa espressione di sufficienza per un
bambino di neanche sette anni, terribilmente identica a quella di
Brian. «Possibile che devi sempre far arrabbiare la mamma?»
intervenne e lui spostò i suoi occhi verde scuro – perfettamente
uguali sia nella forma che nel colore a quelli del padre – verso di
lei, ancora più scocciato.
«Voglio andare da
papà.» borbottò, battendo un piede a terra.
«Papà non ti
vorrà se continuerai a fare i capricci.» tentò di spaventarlo
Melanie, con scarsi risultati.
«È
una bugia.» replicò infatti, e neanche poteva immaginare quanto
avesse ragione. Se Brian fosse stato lì, probabilmente lo avrebbe
incitato a continuare. Tutto pur di veder Melanie arrabbiata e in
difficoltà.
«D’accordo,
allora ti lasceremo con i vicini, mentre noi torniamo a Pittsburgh. I
bambini cattivi non possono venire.»
«Io non sono
cattivo!» protestò isterico. «Voglio andare da papà. Siete voi
che siete donne e siete lente!»
A quelle parole
Lindsay e Melanie si scambiarono un’occhiata sconcertata.
Quell’uscita era sicuramente opera di suo padre, solo che si erano
perse il momento in cui gli aveva tramandato certi insegnamenti. «Gus
Peterson Marcus.» lo chiamò Linz, aggrottando la fronte.
«E Kinney.» si
ostinò a specificare lui, altrettanto contrariato. Voleva sempre
rimarcare il suo legame con Brian.
«Sì,
come vuoi, signorino Kinney.» borbottò in risposta. «Vedi di
comportarti bene, e di non ripetere più certe frasi, altrimenti
quant'è vero che Brian Kinney è tuo padre, tu resterai a Toronto,
chiaro?»
Gus
assottigliò lo sguardo e, se un’occhiata avesse potuto fulminarla,
era certa che suo figlio ci sarebbe riuscito. «Cristallino.»
borbottò infine, in una perfetta imitazione del Kinney senior, prima
di voltarsi e raggiungere la sua valigia per trascinarla fuori dalla
porta.
«Mi verranno i
capelli bianchi prima del tempo.» mormorò sconsolata Linz rivolta a
Melanie.
«Consolati.»
rispose l’altra, baciando sulla guancia la bambina che teneva in
braccio. «Tu li avrai bianchi, ma io sarò completamente calva.»
*'*'*
«Per quanto
ancora dobbiamo restare chiusi in questa jeep come due ebeti?»
Justin si voltò a
guardare Jace e tentò di fulminarlo con lo sguardo ma, vista
l’espressione esasperata dell’altro, non ottenne alcun risultato.
Era ormai quasi
un’ora che erano fermi nei pressi del vialetto di casa di Jennifer,
e ancora non aveva trovato il coraggio di scendere dalla macchina.
Si sentiva un
idiota, perché era di sua madre e di sua sorella che si trattava,
non di chissà quale sconosciuto – o, peggio, di Brian – eppure
le sue gambe si erano cementificate sul sedile e non ne volevano
sapere di muoversi. «Ancora un minuto. Magari non c’è neanche.»
«Di certo, se
restiamo qui, a meno che tu non abbia una vista a raggi infrarossi, e
in quel caso sappi che ti odierei perché potresti goderti la vista
di piselli all’aria ogni secondo, non lo sapremo mai.» si sporse
per aprire la portiera e gli fece un cenno con la testa. «Perciò
ora alza il culo e portalo davanti a quella porta. Suona il
campanello e saluta tua madre! Io comincio anche ad aver fame e sai
meglio di chiunque altro quanto divento isterico.»
«Non più checca
del solito.» commentò Justin, sollevando un sopracciglio.
«Fa poco lo
sbruffone e fai quello che devi fare, o ti ci porto a forza.»
Trattenersi dallo
sbuffare fu impossibile, così come calmarsi, ma finì comunque per
aprire lo sportello e scendere dalla Jeep, seguito da Jace.
Attraversò la
strada e, con le spalle irrigidite dall’ansia, raggiunse il
portico, per poi sostarvi per qualche momento in preda ai suoi
ricordi – come quelli in cui su quelle scale era seduto Brian che
l’aiutava con gli esercizi per rimettere in sesto la mano – prima
di portare l’indice al campanello e suonarlo con un groppo alla
gola.
Attese per qualche
secondo, senza ricevere risposta, per poi riprovare ottenendo lo
stesso risultato. Né Jennifer, né Molly erano in casa.
Prese un grosso
respiro per calmarsi e si voltò verso Jace, sollevando le spalle.
«Non ci sono.»
L’altro inarcò
le sopracciglia. «Ma davvero? Non l’avrei mai detto.» lo prese in
giro, per poi portare le mani ai fianchi. «Allora, dove potrebbero
essere?»
«Non ne ho la più
pallida idea.»
«Chiamale.»
disse, con il tono di chi gli suggeriva la cosa più ovvia del mondo,
ma Justin scosse la testa, facendolo sbuffare.
«Non voglio
mandare all’aria i loro programmi. Riproverò stasera.»
«Oddio, ma chi
cazzo sei? La reincarnazione di Gandhi?»
«Avevi
fame no? Andiamo a mangiare qualcosa.» sviò il discorso, tornando
sui suoi passi per raggiungere la macchina.
«Già, e so anche
dove voglio andare.»
Justin si rimise
alla guida, rimuginando sulla frase appena pronunciata dall’altro,
e non appena mise in moto, capì il motivo di quel sorrisetto sulle
sue labbra. «No. Non provare neanche a pensarci.»
«Oh sì invece,
mio caro.» fece schioccare la lingua e ticchettò sul pomello del
cambio. «Porta questo gioiellino a Liberty Avenue. Voglio vedere
questo fantomatico…com'è che si chiama?»
«Jace,
non
andremo a pranzo al Diner. Togliti immediatamente questa idea dalla
testa.» pronunciò con voce decisa, ma l’altro si limitò a
rinnovare il suo sorriso. Le ultime parole famose.
“The one you
wanted” - Howie Beck
Pochi minuti dopo
svoltarono l’angolo ed entrarono nella colorata e caotica Liberty
Avenue, poi, tra i vari sbuffi di uno e le risatine eccitate e
vittoriose dell’altro, scesero dalla jeep e presero ad avanzare
verso la tavola calda.
Justin camminava a
testa bassa, con qualche ciuffo biondo, sfuggito dalla stretta
dell’elastico sulla nuca, che gli accarezzava la faccia, ed
entrambe le mani affondate nelle tasche dei jeans chiari e stretti.
Borbottava sommessamente qualcosa d’incomprensibile, e ogni suo
tentativo di fuga veniva immediatamente troncato sul nascere dalle
mani di Jace che si muovevano furtive ad afferrare le maniche, o il
cappuccio, del suo piumino scuro.
All’ennesimo
tentativo andato storto, Jace si convinse a prenderlo sottobraccio e
a trascinarlo con sé, con un passo sostenuto, fino alla vetrata del
“Liberty Diner”. «Sei pronto?» gli chiese con un sorriso.
«No.» replicò
l’altro isterico. «Ma ho altra scelta?»
«Direi proprio di
no, perciò prendi un bel respiro e cerca di non svenire.»
Justin gli rivolse
un sorrisetto nervoso e si divincolò dalla sua presa. Ci mancavano
solo strani equivoci da spiegare e non sarebbe uscito vivo da lì.
Seguì comunque i
suoi suggerimenti e inspirò profondamente, prima di spingere la
porta in vetro e immergersi nella confusione di quella piccola tavola
calda in cui aveva trascorso alcuni dei momenti più importanti della
sua vita.
Rimettere piede là
dentro fu come esserci entrato per la prima volta; e come la prima
volta, il pensiero principale della sua testa aveva il volto di
Brian.
Ricordava
perfettamente la notte in cui Michael l’aveva portato lì e gli
aveva presentato sua madre, dopo che “il suo pensiero fisso”
appunto, lo aveva abbandonato con i suoi amici per correre alla
ricerca di qualche bel ragazzo.
Debbie si era
presa cura di lui fin dal primo istante, riempendogli lo stomaco e
provando a tirargli su il morale. In fin dei conti, si era comportata
immediatamente come una seconda madre per lui.
Sorrise a quel
ricordo, e l’ansia scomparve lentamente a ogni passo, finché,
vedendola impegnata a discutere come al solito con il cuoco, ignorò
i borbottii che si erano sollevati fin dal suo ingresso, e raggiunse
uno degli sgabelli, aspettando che lei si voltasse.
Sentiva il cuore
galoppargli furioso all’altezza della gola, minacciando di guizzare
fuori da un momento all’altro, ma l’espressione che si disegnò
sul volto di Deborah Jane Grassi Novotny nel momento in cui i suoi
occhi si posarono su di lui fu letteralmente impagabile.
Era certo di non
averla mai vista tanto sorpresa prima di allora.
Il
cipiglio che le solcava la fronte dopo l’ennesimo diverbio si era
immediatamente disteso, le labbra si erano schiuse e le sopracciglia
le avevano più o meno raggiunto l’attaccatura dei capelli.
Per poco non le
scivolò il vassoio dalle mani – a lei che non capitava
praticamente mai – e fu costretta ad appoggiarlo sul bancone,
incapace di tenerlo per un secondo di più.
Quasi
non credesse ai suoi occhi, si avvicinò a lui e allungò una mano
verso la sua guancia. «Topino.»
lo chiamò, e solo allora Justin si accorse delle lacrime che
minacciavano di scendere e rigare le sue guance truccate.
«Ciao Deb.» le
disse semplicemente, con uno di quei sorrisi splendenti per cui si
era guadagnato uno dei tanti soprannomi affibbiatogli da quella
donna; e si lasciò stringere in un abbraccio soffocante.
«Cristo santo,
non mi sembra vero! Sei qui!»
«Alla fine ce
l’ho fatta.» rispose, e lei si staccò per circondargli il viso
con le mani e riempirlo di baci, stampando segni delle sue labbra
rosse ovunque.
«Come stai,
splendore?» gli pizzicò una guancia e lo squadrò. «Ma guardati,
sei ancora più bello. Anche se…» e lui già sapeva dove voleva
andare a parare. «...mangi abbastanza?»
«Sì, Deb.
Mangio.» rise, felice e sollevato che niente in lei fosse cambiato.
«Anche se mi manca il tuo pollo alla parmigiana.»
Lei si portò una
mano al petto, emozionata, ma non riuscì a desistere dalla voglia di
abbracciarlo ancora. «Te ne farò quanto vorrai. Non puoi capire
quanto io sia felice di vederti! Hai avvertito tutti?»
«No. Sei la prima
che incontro.» rispose e abbassò gli occhi imbarazzato.
«Neanche tua
madre, né…»
«Nessuno di
loro.» la interruppe. «Ho preferito arrivare senza chiamare. Non
volevo che qualcuno modificasse i suoi programmi per me.»
Deb si accigliò e
piegò le sue labbra, prima di rifilargli uno scappellotto
esattamente come avrebbe fatto con Michael. «Sei sempre il solito.»
poi sorrise e raggiunse il telefono.
«No, non chiamare
nessuno.»
«Tranquillo,
dolcezza. Non chiamerò lui.
Quest’incombenza
la lascio a te.» replicò, facendolo sorridere, mentre digitava i
tasti sul telefono. «Michael, tesoro.» parlò poco dopo. «Vieni al
Diner, immediatamente.
C’è una sorpresa.» si voltò verso Justin, strizzò l’occhio
con un sorriso che le illuminava tutto il volto e, a quel punto, a
nulla valsero i tentativi di fermarla.
In pochi minuti
infatti, l’ordine era già stato esteso a Ben, Hunter, Molly e sua
madre ovviamente. Gli unici che riuscì a tenere lontani da quella
tavola calda furono Ted, Blake ed Emmett.
Uno perché
lavorava esattamente per l’unica persona a cui non poteva dirlo, e
sarebbe stato piuttosto complicato trovare una scusa per sgattaiolare
via dall’ufficio; mentre Blake, essendo il compagno del primo, era
esattamente nella stessa posizione. Più che altro perché avrebbe
dovuto spiegare la situazione a Ted, e tutti sapevano quanto questo
fosse poco affidabile in quanto a segreti.
L’ultimo invece
era semplicemente risultato irreperibile a causa di un’improvvisa
crisi d'identità della sposa – o almeno così era stato riferito
da una delle sue collaboratrici – del matrimonio a cui stava
lavorando, e non si sarebbe liberato molto presto, a meno che
quest’ultima non avesse optato per il suicidio.
Il primo ad
arrivare fu Michael.
Quando sua madre
l’aveva chiamato, da buon paranoico qual era, aveva immediatamente
pensato al peggio.
Era giunto alla
conclusione che Debbie volesse trascinarlo in qualche sua strana
crociata, perciò si era affrettato a chiudere il negozio e correre
al Diner per stroncare qualsiasi idea strampalata sul nascere. Nel
momento in cui però varcò la soglia, per poco non svenne.
Restò
imbambolato in mezzo al corridoio, con le labbra dischiuse e gli
occhi strabuzzati, in una perfetta imitazione della reazione di sua
madre.
Gli ci volle
qualche secondo per riprendersi e confermare a se stesso di non
essere pazzo come aveva creduto la sera prima; e che quindi al
Babylon c’aveva visto giusto; dopodiché accennò un sorriso e
mormorò, incapace di qualsiasi gesto: «Allora eri davvero tu.»
Justin sorrise.
«Sì, ma…non volevo scappare, scusa. Solo che…» balbettò, ma
Michael non gli permise di continuare, stringendolo in un abbraccio.
«Lascia stare.»
gli sussurrò all’orecchio. «Ho già capito.» gli stampò un
bacio sulle labbra, proprio come uno di quelli che avrebbe riservato
a Brian, e sorrise. «Sono davvero felice che tu sia tornato. Era
ora!» l’altro provò a replicare, ma non gliene diede il tempo. Da
perfetto figlio di Debbie, anche lui lo colpì sulla nuca, prima di
sgridarlo. «Per quanto cazzo di tempo ancora pensavi di restare a
New York senza venire a trovarci, piccolo stronzo?»
«Lo so, hai
ragione.» tentò di scusarsi, sollevando le mani.
«Certo che ho
ragione!» esclamò, ed un altro colpo schioccò a scompigliargli i
capelli. «Non riazzardarti mai più, intesi?»
«Sì,
mammina.»
rispose, massaggiandosi la testa. «Mi hai fatto male.»
«Ben ti sta,
moccioso.» continuò ad infierire, finché i suoi occhi scuri non si
sollevarono ad incontrare quelli nocciola di Jace. «Lui è…»
mormorò, lasciando la frase in sospeso.
«Jace.»
lo presentò, e quando Michael gli rivolse un’occhiata allarmata si
affrettò a puntualizzare: «È solo un amico. Mi ha accompagnato
qua.»
«Diciamo pure che
ti ci ho trascinato perché te la stavi facendo sotto.» lo rimbeccò
il ragazzo, per poi fare un cenno di saluto verso Michael.
«Ah, piacere. Io
sono Michael.» rispose l’altro, osservando divertito il suo modo
eccentrico di vestire. Talmente vistoso da riuscire quasi a superare
Emmett e, conscio di questa constatazione, si avvicinò all’orecchio
di Justin, senza farsi vedere, per bisbigliare: «Due Regine
nello stesso alveare? Questo è un colpo basso per il povero Emmett.»
«Scommetto venti
dollari che si adoreranno.» ridacchiò Justin in risposta.
«Punto la stessa
cifra per il contrario. Vedrai, ne uscirà vivo solo uno.» strizzò
l’occhio e gli passò una mano sui capelli biondissimi. «Allora
artista, che mi dici di New York?»
L’altro
scrollò le spalle. «Che vuoi che ti dica? È caotica e sempre
viva.»
«Da come lo dici
sembra più che tu sia stato in mezzo al deserto del Nevada.»
Justin sorrise.
«No, è solo che sono stato piuttosto impegnato.»
«Di pure che Gary
ti ha fatto sgobbare come uno schiavo.» intervenne Jace, portando
una mano davanti a sé per controllare la manicure.
«L’ha fatto
solo per il mio bene.»
«Chi è Gary?»
domandò Michael, con un’espressione incuriosita.
«Il mio agente.»
«Il
suo schiavista.»
lo corresse Jace, sollevando un sopracciglio e provocando gli sbuffi
scocciati del biondo.
«Mi spieghi
cos’hai contro Gary?» domandò, torcendo il busto per osservarlo.
L’altro fece una
smorfia. «Bah, vediamo. Da dove potrei partire…» portò un dito
alle labbra e mugugnò: «Forse perché ti riempie di lavoro, neanche
tu fossi un automa? Forse perché ti ha impedito di fare tante di
quelle cose che avresti voluto da non essere neanche numerabili? O
forse perché ho il sospetto che lo faccia per tenerti lontano da
tutto dato che è palesemente innamorato di te?»
«Non dire
stronzate.» si accigliò Justin, prima di colpirlo con una leggera
pacca sulla spalla.
«Pensala come ti
pare.» rispose l’altro. «Io ti ho avvertito.»
«Il tuo agente è
innamorato di te?» chiese allora Michael, che nel frattempo aveva
ascoltato quel piccolo dibattito incredulo.
«Certo che no.»
esclamò il più giovane dei tre. «Sono tutte sue fantasie, solo
perché Gary mi è stato un po’ addosso in questo anno.»
«Credimi,
non ti è stato addosso come avrebbe
voluto.»
commentò Jace, esasperato dall’ingenuità del piccolo artista.
«Ma piantala!»
«Come vuoi.»
replicò l’altro e fece finta di chiudersi le labbra con una zip,
per poi accavallare le gambe e assumere una posa stizzita.
Justin scosse la
testa e sospirò con fare arrendevole, per poi rivolgersi a Michael.
«Lasciamo stare. Tu piuttosto? Come stai?»
«Nella norma. Non
è cambiato un bel niente da quando te ne sei andato.»
«Non immagini
quanto sia un sollievo sentirtelo dire.» gli confessò con un lieve
sorriso.
«Credevi che
saremmo stati diversi?» ridacchiò Michael. «Noi siamo rimasti qui
a Pittsburgh, alla vita di sempre. L’unico che poteva cambiare con
New York eri tu, e non posso negarti che l’ho creduto davvero visto
che non ti sei fatto vivo per più di un anno.»
«Mi dispiace.»
mormorò mortificato. C’erano stati infiniti momenti in cui
l’istinto gli aveva suggerito di prendere il primo aereo per
Pittsburgh e restare lì per sempre ma, per un motivo o per un altro,
aveva sempre finito col rimandare. Solo quando era tornato
finalmente di nuovo a casa si era reso conto quanto quel posto gli
fosse mancato e di che errore madornale si era macchiato a non avervi
fatto ritorno prima. «Immagino che gli altri abbiano creduto la
stessa cosa.»
«Non lo so.» si
strinse nelle spalle e aggiunse: «Non potevamo parlare molto di te.
Eri un argomento tabù.»
«Lui come sta?»
chiese allora, con un macigno spigoloso a sfaldargli lo stomaco.
«Vuoi la risposta
che ti direbbe lui, o quello che penso io?»
Justin scoppiò a
ridere. «La sua risposta la conosco già.»
«Bene, allora la
mia è ‘da schifo’.» si frizionò i capelli scuri con le mani e
abbozzò un sorriso. «Si comporta come al solito. A occhi esterni è
lo stesso Brian Kinney di sempre, ma è dalle piccole cose che ti
accorgi che sta recitando. Ho sempre pensato che avrebbe dovuto fare
l’attore.»
«Ma non può
ingannare te.»
«Non può
ingannare neanche mia madre, o la tua, né tutti i nostri amici.»
sospirò profondamente e continuò: «Ma ci prova comunque, perché è
il solito stronzo orgoglioso e non l’ammetterebbe mai.»
«Mi manca.»
sorrise amaramente e perse lo sguardo nel vuoto. «Mi manca anche se
è uno stronzo egoista, con la testa dura più del marmo.»
«Probabilmente
non ti saresti neanche innamorato di lui, se non fosse stato così.»
Scrollò le spalle
e tornò a puntare le sue iridi cerulee in quelle scure dell’amico.
«Probabilmente no.» rispose con cristallina sincerità. «Ma sono
terrorizzato dal rivederlo, soprattutto per come ci siamo lasciati
l’ultima volta.»
Michael guardò
l’orologio e disse: «Adesso si starà preparando per andare
all’aeroporto. O almeno spero.»
«Aeroporto?» gli
fece eco l’altro, allarmato.
«Linz, Mel e i
bambini vengono a trascorrere il Ringraziamento da noi. Brian deve
andare a prenderli.» vide Justin sospirare di sollievo, e non riuscì
a trattenersi dal ridacchiare. «Perché non vieni anche tu?» gli
chiese, per poi rivolgersi a Jace. «Ovviamente l’invito vale anche
per te.»
Jace gli sorrise,
pur mantenendo le labbra serrate, poi lanciò un’occhiataccia a
Justin e lo indicò con un cenno di sufficienza, come per dire:
“chiedi a lui, perché io non posso parlare”. Era decisamente una
persona estremamente permalosa.
«Non so se…»
mormorò indeciso l’altro, e Debbie, che aveva origliato tutta la
conversazione tra un’ordinazione e l’altra, intervenne
immediatamente con il suo tono deciso.
«Non ti azzardare
a rispondere con un no.» lo rimproverò. «Zucchero, tu e il
tuo amico siete con noi. Fine della discussione.»
Justin sollevò le
mani in aria. «Mi arrendo. Saremo presenti.»
Le chiacchiere
continuarono anche con l’arrivo di Ben e Hunter, che lo riempirono
di domande, fino all’entrata al Diner delle sue tre donne – sua
madre, sua sorella e Daphne – che lo sgridarono per una buona
mezz’ora, in quella che gli parve un’assurda gara per chi avesse
più cose da rinfacciargli.
Jennifer fu
comunque la prima a cedere e a gettarglisi al collo per stringere il
suo bambino di nuovo tra le braccia e baciare quei capelli morbidi,
luminosi e profumati; poi fu il turno di Daphne, che dopo averlo
ricoperto di battutine acide, gli concesse un abbraccio e un bacio
sulla guancia.
La più dura da
far desistere, come aveva previsto, fu Molly, che con la fronte
aggrottata e gli occhi cerulei, specchio dei suoi, lo fissava
contrariata. Era ovviamente arrabbiata con lui, perché credeva di
essere stata messa da parte da quel fratello che adorava con tutta se
stessa.
Aveva trascorso
mesi ad aspettare di sentirgli suonare il campanello e trovarlo sulla
soglia di casa, ma non era mai successo; e aveva passato altrettanto
tempo ad attendere una telefonata che arrivava sempre più
difficilmente e che si riduceva a brevi banalità.
Perciò, troppo
orgogliosa per ammettere quanto gli mancasse e quanto avesse bisogno
di lui, decise di farglielo capire rifiutandosi di sentirlo e,
all’insaputa di tutti - Jennifer a parte - rifugiandosi da Brian.
Il primo giorno in
cui si era trovata davanti alla porta scorrevole di quel loft, Molly
non sapeva neanche cosa dire o fare. Aveva bussato senza pensare ed
aveva atteso che lui le aprisse.
Brian l’aveva
fissata senza nascondere minimamente la sorpresa di trovarla lì, ma
gli era bastata un’occhiata per capire il motivo di
quell'inaspettata visita e, senza dire una parola, l'aveva lasciata
entrare.
Iniziare un
discorso fu più difficile del previsto, perché sapeva quanto il
compagno di suo fratello fosse restio a parlare di lui e di cose che
lo riguardavano ma, se c’era una cosa che l’accomunava a Justin,
era certamente la sua testardaggine; per tanto non si lasciò certo
scoraggiare dalle prime risposte scorbutiche o dalle occhiatacce, e
continuò a recarsi in quel sontuoso loft almeno una volta a
settimana, per riuscire a strappare qualche informazione in più su
Justin, ma soprattutto per sentirsi meno sola.
Perché Brian, era
la persona che, paradossalmente, più le ricordava suo fratello,
nonostante fossero completamente diversi sia nell’aspetto, che nel
carattere; e perché sapeva che tra loro esisteva un legame così
forte e speciale che la vicinanza con quell’uomo le permetteva di
illudersi di poter attingere a una piccola parte di quel loro
strampalato rapporto e rubare per sé un po’ di Justin.
Alla fine, però,
neanche lei riuscì a resistere ai sorrisi che suo fratello le
rivolgeva e, con le lacrime ad inumidirle gli occhi, si fiondò su di
lui e lo strinse con tutta la forza che le sue braccia esili le
permettevano.
Sentire ancora
quel profumo e il calore del suo corpo fu una liberazione così
grande che desistere dallo scoppiare a piangere come una bambina fu
impossibile e, per quanto le costasse doverlo fare, non riuscì
neanche a trattenere i singhiozzi.
In fin dei conti,
per una volta poteva anche sorvolare, far tacere il suo ego e
lasciarsi andare, perché l’unica cosa che contava davvero era che
suo fratello fosse finalmente lì con lei.
*'*'*
«Papà!» sentì
strillare una vocina alle sue spalle, e quando si voltò in quella
direzione, vide una versione in miniatura di se stesso che correva
come un pazzo con un sorriso enorme e le braccia spalancate.
«Ehi, campione!»
esclamò e si accoccolò appena per accoglierlo tra le sue braccia e
sollevarlo. Lo sentì stringersi con forza al suo collo, e il calore
emanato dall’infinita dolcezza di quel gesto riuscì a riempire per
un po’ il vuoto che continuava a portare dentro di sé. «Ma come
sei cresciuto! Diventi sempre più grande e più bello, come il tuo
papà.»
«Brian,
risparmiaci.» commentò Linz, avvicinandosi insieme a Mel e a Jenny
Rebecca stretta tra le sue braccia. «Tuo figlio è già abbastanza
vanitoso senza che tu gli dia incentivi.»
«E come potrei
dargli torto, è uno splendore.»
«Tu che fai
complimenti a qualcun altro oltre te stesso.» mormorò Melanie
fingendosi sorpresa. «Questo giorno deve essere annotato sul
calendario.»
Brian
la fissò con uno sguardo di sufficienza. «È mio
figlio, Melanie. È ovvio che lo sia.» le rivolse un sorrisetto e
diede un bacio sulla fronte di JR. «Nonostante la vostra cattiva
influenza, Gus è un Kinney.»
«Il nostro
peggiore incubo, in poche parole.»
Lui le rivolse una
smorfia e tornò a guardare il bambino. «Tranquillo figliolo, adesso
che c’è il tuo papà queste streghe non potranno condizionarti
ancora con le loro stronz…»
«Brian!» lo
riprese Linz.
«Strampalate
idee.» si corresse. «Più tardi, io e te, senza queste zavorre, ce
ne andiamo a fare shopping con l’auto figa.»
«Sì!» strillò
Gus in risposta. «Andiamo, andiamo?»
«Adesso portiamo
le donne a casa.» rispose, prima di prendere uno dei trolley ad
avviarsi verso l’uscita.
Melanie lanciò
un’occhiata storta a Lindsay, e la bionda sollevò gli occhi al
cielo. «Lo so, lo so. Quando torniamo dovremmo fargli un lavaggio
del cervello.»
«Comincio a
credere ogni giorno di più che siano proprio i geni ad essere
sbagliati.» la rimbeccò acida sua moglie. «Ma sei sicura che abbia
preso qualcosa da te e che non sia solo figlio di quello lì?»
«Probabile che io
sia stata solo un insulso contenitore per cloni.»
«Un
nuovo Brian Kinney, forse, etero.»
assunse un’espressione allarmata e aggiunse, prima di raggiungere
la jeep: «Penso che niente possa terrorizzarmi di più.»
Quando trovarono
la villetta dei Bruckner Novotny completamente vuota, Brian riuscì a
stento a trattenersi dall’imprecare almeno un centinaio di volte,
solo grazie alle occhiatacce di Lindsay e alle poco velate minacce di
morte di Melanie.
Il fatto poi che
Michael non avesse telefonato almeno cinque volte in un tragitto che
poteva durare al massimo venti minuti, contribuì ad accendere
qualche sospetto nella testa dei tre adulti. C’era sicuramente
qualcosa di strano nell’aria; e, se si trattava di Mickey, era
un’idea strampalata e assurda per cui preoccuparsi seriamente.
«Dove
cazz…» Brian si morse la lingua e si corresse. «...cavolo
si
è cacciato Mickey?» provò a ridigitare il numero e a inoltrare
nuovamente la chiamata ma, come le altre volte, non ricevette nessuna
risposta. «Non ci posso credere.»
«Io sto iniziando
a preoccuparmi seriamente.» replicò Mel, dondolando la bambina. «Di
solito ci asfissia di telefonate finché non ci vede.»
«E se gli fosse
successo qualcosa?»
«Linz,
non dire cazz…eresie.»
sbuffò. Erano arrivate da neanche mezz’ora e già non ne poteva
più di dover moderare i termini. Prima o poi, i bambini avrebbero
comunque imparato a usare certe parole, quindi tanto valeva che
succedesse subito.
«Quindi che si
fa?» sbuffò Mel.
Sua moglie scrollò
le spalle. «Immagino che l’unica soluzione sia fare un salto al
Diner. Io poi sto morendo di fame.»
«Linz,
Linz.» la chiamò Brian con un sorrisetto stampato sulle labbra. «Se
non stai attenta, tuo
marito sarà
costretto a correrti dietro mentre rotoli per Toronto.»
«Vaffanculo,
stronzo.» lo colpì con un pugno sul braccio, ma non appena si rese
conto delle sue parole, si tappò la bocca con entrambe le mani.
«Uh,
uh. Hai sentito Gus?» rise lui. «La mamma ha detto non una, ma ben
due
parolacce.»
«E smettila una
buona volta!» lo rimproverò Linz, tappando invano le orecchie del
bambino.
Mel scosse la
testa e si avviò verso la jeep. «L’ho sempre detto che hai una
cattiva influenza sulle persone.» aprì la portiera e si sistemò
sui sedili posteriori con Gus e Jenny Rebecca. «Neanche un’ora in
tua compagnia e mia moglie non riesce a trattenersi.»
Brian inarcò le
sopracciglia e le rivolse uno dei suoi sorrisi spavaldi. «Che vuoi
farci, tiro fuori sempre il meglio di chi mi sta intorno.» si mise
al volante e girò la chiave nel quadro. «Non possono fare a meno di
prendermi come modello di vita e seguirmi come mentore.»
Linz sbuffò,
mentre Melanie roteò gli occhi esasperata. «La grandezza del tuo
ego è seconda solo alle stupidaggini che dici.»
«Non sono
stupidaggini.» ammiccò guardandola dallo specchietto retrovisore ed
inserì la marcia. «È un dato di fatto.»
“Mad World”
- Gary Jules
Pochi minuti dopo,
conditi da imprecazioni trattenute a stento da parte delle due donne
a causa della guida non propriamente tranquilla di Brian, giunsero
all’angolo di Liberty Avenue.
La manina di Gus
corse immediatamente a stringere le dita di suo padre, e gli rivolse
un sorriso ricolmo di aspettative e serenità per quel pomeriggio che
gli aveva promesso di trascorrere insieme. Loro due da soli.
Brian ricambiò
con una semplice carezza sulla testa, incapace di confessare con le
parole quanto fosse felice di poter trascorrere del tempo in sua
compagnia; perché poter stringere quella mano così piccola nella
sua, vedere quegli occhi e quel sorriso ingenuo, avere vicino il
piccolo miracolo che lui stesso aveva creato, era qualcosa che
riusciva a lenire, levigare e plasmare, tanto da renderlo un po’
più sopportabile, quel senso di incompletezza e di vuoto che non gli
dava mai tregua, e che spesso gli rubava il respiro.
Attraversarono la
strada correndo e ridendo insieme, per poi voltarsi per prendere in
giro le due mamme, prima di spingere la porta di vetro ed entrare.
Le sopracciglia di
Brian s’inarcarono incuriosite dalla quantità insolitamente alta
di persone riunite nella tavola calda per quell’ora e, prendendo in
braccio il bambino con fare protettivo, avanzò di qualche passo fino
a raggiungere Ben. «Che diavolo succede?» gli chiese, picchiettando
sulle sue spalle larghe, ma non ebbe bisogno di risposte, perché
proprio nel momento in cui la sua voce raggiunse le orecchie dei
presenti, facendoli voltare, quello che vide dissolse qualsiasi cosa.
Non sentì più il
chiacchiericcio sommesso, né la voce di suo figlio che lo chiamava
tirandolo per il colletto della giacca. Non si accorse della mano di
Linz posata sulla sua spalla come per volerlo sostenere, e ogni
persona perse importanza, sparendo dalla sua vista.
Tutte tranne una.
L’unica persona
che aveva disperatamente sperato di rivedere, tanto da riprodurre
nella sua testa, come in un film, le immagini di un suo eventuale
ritorno fino alla nausea; fantasticando su quello che avrebbe potuto
fare o dire, o su quello che avrebbe voluto sentire.
Ma la realtà era
che non udiva né vedeva più niente, ora che quella chioma bionda
che fin troppe volte aveva sognato e desiderato era lì davanti a
lui.
La sola cosa che
riuscì a percepire, fu il fremito del suo cuore, nel momento in cui
quegli occhi cerulei si sollevarono a incontrare i suoi, prima che
una ragnatela di crepe si disegnasse sopra quella patina gelata che
lo stringeva in una morsa, facendola sgretolare senza alcun suono.
«Brian.» lo
sentì mormorare così fievolmente che non sarebbe stato sicuro che
l’avesse realmente pronunciato, se solo quel suo fragile cuore non
avesse ripreso a battere come un pazzo nel riconoscere la voce del
suo padrone.
***
Note
finali :
Finito anche
questo.
Mi auguro
sinceramente che nessuna voglia uccidermi per come ho concluso il
capitolo e per farmi perdonare, prometto che non tarderò troppo a
farvi sapere come reagirà il caro Kinney, ora che il suo povero
cuoricino ammaccato ha ripreso a battere.
Non so come ve lo
immaginate voi il loro incontro, se tutto rose e fiori o
completamente diverso...in fondo, parliamo della coppia più
imprevedibile di tutte, quindi tutto può essere!
Mi rendo conto
che sto trascurando un po' Ben e Hunter che, nonostante i loro alti e
bassi, sono due personaggi che adoro...solo che mi preme più di
tutto affrontare almeno inizialmente il ritorno di Justin e la
questione "Britin"...poi prometto che lascerò a tutti un
po' più di spazio! :)
Credo non ci sia molto altro da
specificare, quindi posso passare alla questione più importante:
Ringraziamenti!
Un
grazie a tutti coloro che hanno letto il
capitolo, a chi ha inserito la storia tra le seguite,
le ricordate o le preferite,
ma soprattutto grazie a: EmmaAlicia79,
ooOOcarlieOOoo, Thiliol,
mindyxx, Hel Warlock,
Katniss88, FREDDY335,
silver girl e Clara_88 che
hanno recensito l'ultimo capitolo.
Un bacio e a
presto.
Veronica.
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Capitolo 5 *** Sunshine shines again? ***
5.Sunshine shines again?
6x05
– Sunshine shines again?
[capitolo betato da Trappy]
«Brian.»
Sentir
pronunciare il suo nome da quella voce, tramite quelle labbra, fu
come ritornare a respirare dopo un’infinità di tempo passata in
apnea. Fu come tornare a vivere e percepire il calore diramarsi in
ogni angolo del suo corpo.
Justin
era davvero lì, come tante volte aveva sognato, e l’unica cosa che
gli impedì di perdere i sensi per quell’improvvisa reazione da
parte del suo cuore fu la stretta decisa di Gus, e quel suo
sgambettare felice dal momento in cui aveva riconosciuto quel ragazzo
biondo e simpatico che tante volte aveva giocato con lui.
Brian
restò in silenzio, con le labbra schiuse e tutte le parole
incastrate a lacerargli la gola. I suoi occhi non abbandonarono
quella figura neanche per un attimo, e si sentì fremere quando lo
vide alzarsi e muovere qualche passo incerto nella sua direzione.
Come
poche volte nella sua esistenza, si sentiva insicuro. Lui che sapeva
sempre cosa fare, se ne stava lì immobile come il peggiore dei
cretini; e non riuscì a dire o compiere il più misero gesto,
neanche quando la persona amata fu a meno di un passo da lui.
Ci
pensò suo figlio a toglierlo da ogni possibile imbarazzo, gettandosi
al collo di Justin – come in realtà anche lui avrebbe voluto fare
– per abbracciarlo con tutta la forza di cui disponeva.
In
fondo, Gus gli somigliava anche in quello.
Come
lui, era stato immediatamente abbagliato dalla luce emanata da quel
raggiante angelo. Si era innamorato del suo sorriso, dei suoi gesti e
della sua voce; e tante volte, in quei cinque anni, l’aveva
sorpreso ad osservarlo rapito ed estasiato, con quegli occhioni verdi
spalancati per lo stupore, o un sorriso istintivo disegnato sul suo
volto.
Le
sue stesse identiche reazioni.
«Ehi!»
Justin salutò con un sorriso radioso quell’impertinente bambino, e
lo strinse a sé. «Come stai? È un bel po’ che non ci vediamo.»
Gus
lo baciò frettolosamente sulla guancia – quasi se ne vergognasse –
sorprendendo le sue due mamme, e prese a torcersi le manine,
emozionato. «Perché...» iniziò incerto, per poi lanciare
un’occhiata furtiva a suo padre e sganciare la bomba: «...perché
non sei più venuto a trovarmi con il mio papà?»
Il
sorriso sulle labbra di Justin si spense per un attimo, affievolito
dall’imbarazzo dovuto alla domanda. «Ehm…ecco…» cominciò
incerto. «Sarei voluto venire, credimi, ma dovevo lavorare e…» si
morse le labbra e tornò a sorridere. «…ma ti ho pensato, davvero!
E mi sei mancato.»
«Anche
a me!» rispose felice, lasciando allentare la tensione che si era
formata tra tutti i presenti. «La prossima volta però ci vieni,
vero?»
«Certo.»
rispose dopo una breve esitazione. «Verrò, te lo prometto.»
«Non
si fanno le promesse ai bambini, se non si è sicuri di poterle
mantenere.» borbottò Jace alle sue spalle, conquistando
l’attenzione di tutti. Soprattutto l’occhiata decisamente poco
divertita di Brian, seguita da quella altrettanto fulminante di
Justin.
«Tu
saresti?» gli chiese infatti Brian, quasi sibilando le parole. «Non
mi pare di avere il piacere
di conoscerti.»
«Ah…»
balbettò l’altro, intimorito dalla sua espressione. «Mi chiamo
Jace. Sono un amico di Justin.»
Brian
sollevò le sopracciglia ed il mento, per poi toccarsi i denti con la
punta della lingua e sorridere. «Uhm, capisco.»
«Jace
è un designer e abita nel mio stesso palazzo.» spiegò Justin,
intervenendo in quella strana discussione. «Mi ha accompagnato
durante il viaggio.»
«Capisco.»
ripeté e protese le mani verso suo figlio. «Andiamo campione,
abbiamo un giretto in programma da fare.» lasciò che il bambino si
aggrappasse nuovamente al suo collo e si voltò verso Michael. «Tu
piuttosto, a che cazz...cavolo
ti serve un cellulare se non rispondi quando ti chiamo?» lo vide
guardarsi intorno allarmato e rettificò, con le sopracciglia
inarcate. «Sveglia Mickey, sto parlando con te.»
«Ah!»
esclamò in risposta. «Non l’ho sentito.»
«Ma
non mi dire!» commentò acido. «Porta Mel e Linz a casa con la
bambina. I bagagli sono nella mia jeep. Io porto Gus a fare un po’
di shopping.» si voltò verso il bambino e i suoi occhi si
addolcirono immediatamente. «Vero, tesoro?»
Gus
annuì con un sorriso, per poi gettare l’ennesima occhiata verso
quel ragazzo biondo che continuava a fissare suo padre con gli occhi
tristi. «Papà, possiamo portare anche Justin?»
Se
c’era una persona in grado di mettere in imbarazzo Brian Kinney,
quella era proprio il sangue del suo sangue; e tutti se ne resero
conto nel momento in cui le spalle dell’uomo s’irrigidirono come
mai gli avevano visto fare prima d’allora.
Esitò
per un attimo, spostando gli occhi verdi con un movimento fulmineo
tra Justin e Gus, per poi piegare le labbra all’interno della bocca
e mugugnare. «Credo che sia stanco, e nella macchia bella di papà
possiamo stare solo in due.»
La
peggiore scusa della terra; e infatti...«Ma io stavo sempre in
braccio a lui!» protestò il bambino, mettendolo nuovamente in
imbarazzo davanti a quella schiera di persone che seguiva lo scambio
di battute nel più assoluto silenzio.
«Lo
so, ma sei più grande adesso.»
«Allora
prendiamo la jeep!» ripartì all’attacco, e per la prima volta da
quando era nato, Brian si chiese perché suo figlio dovesse
somigliargli poi così tanto anche nel suo essere ostinato e
intelligente da rigirare sempre la situazione a suo favore.
«Gus,
non posso venire.» intervenne Justin a salvarlo, con la brutta copia
di un sorriso disegnata sul volto. «Ma ti prometto che in questi
giorni staremo insieme.»
Gli
occhi del bambino s’incupirono e un piccolo broncio spuntò sulle
sue labbra. «Quando?»
«Domani.»
rispose di getto e si avvicinò per dargli un buffetto sul naso.
Il
sorriso tornò a risplendere sul quel facciotto tondo, e insieme a
quello, arrivò anche l’ennesima imbarazzante domanda: «Io, te e
papà?»
«Ah…»
borbottò Justin, muovendo gli occhi in ogni direzione, alla ricerca
di una soluzione.
«Certo
Gus!» esclamò Linz al suo posto, intromettendosi nella
conversazione, lanciando un’occhiataccia a Brian, che ricambiò
stizzito. «Domani, tu, Justin
e papà,
passerete un bel pomeriggio insieme.
Sei contento?»
Neanche
a dirlo, il bambino sprizzava gioia da tutti i pori, e nessuno –
neanche se si fosse verificata la peggiore delle catastrofi –
avrebbe potuto deludere le sue aspettative. Era sempre meglio non far
incazzare, non una, ma ben due mamme…lesbiche, per giunta!
«Bene
figliolo. Ora che una delle tue mamme ha monopolizzato la vita del
tuo papà…» sibilò, con un sorriso tirato e isterico. «…possiamo
anche andare a goderci la nostra giornata in santa pace.» rivolse
un’occhiata a tutti i presenti e concesse al figlio di salutare
Justin, sventolando la sua manina paffuta, prima di voltarsi stizzito
e uscire dal Diner, senza neanche provare a nascondere il proprio
fastidio.
Nessuno
dei presenti avrebbe potuto dare una spiegazione logica e coerente
del comportamento di Brian, andato contro tutte le aspettative.
Ovviamente
non si erano certo immaginati scene strappalacrime in cui entrambi si
dichiaravano apertamente il loro immutato amore, tra baci pieni di
passione e dolci carezze, ma neanche avrebbero pensato a una scena
tanto sterile di romanticismo e inaspettatamente ricolma di tensione
e imbarazzo.
Decisamente,
Brian e Justin sarebbero stati sempre fuori da ogni canone.
*'*'*
Inviò
anche l’ultimo dei messaggi dal suo preziosissimo Blackberry e
ripose al loro posto i cataloghi delle stoffe.
Lavorare
continuamente tra matrimoni, anniversari, battesimi e un trilione di
altri eventi non era propriamente salutare per la sua autostima, né
per il suo povero cuore.
Gettò
nel cestino la pubblicità inviatagli per posta e diede uno sguardo
veloce alle riviste consegnategli tramite abbonamento.
Si
appuntò mentalmente creme da provare e capi firmati da trovare,
finché il suo sguardo cadde su un articolo di gossip. Un riquadretto
rosso a fondo pagina, su cui spiccava, con un font deciso, un nome
che tempo prima gli aveva fatto sentire le farfalle nello stomaco.
A
dispetto della sua dichiarazione e degli scandali che ne erano
susseguiti, Drew Boyd era stato riammesso a pieno titolo nella
propria squadra e, a quel che si diceva in giro, sembrava esser
diventato anche migliore di quel che già era. Probabilmente,
l’essersi tolto quel peso dal cuore, non aveva fatto altro che
liberare la sua mente e concedergli di concentrarsi al massimo nel
suo lavoro.
Emmett
sorrise appena, accarezzando con lo sguardo i contorni di quella
foto, immaginando le volte in cui le sue mani avevano avuto la
fortuna di posarsi sul suo corpo statuario, e rivangando alle ore
passate insieme che, seppur nascoste e clandestine, gli avevano
riempito il cuore.
In
un modo o nell’altro, sapeva di essersi innamorato di quell’uomo
un po’ rude e borioso, eppure dentro di sé non riusciva a non
provare un pizzico d’orgoglio e soddisfazione per esser stato la
motivazione di quella confessione.
Proprio
lui, Emmett Honeycutt, aveva convinto il celebre Drew Boyd a
dichiarare al mondo intero la sua omosessualità; e anche se non
c’era stato un lieto fine per quella loro bizzarra storia, poteva
comunque ritenersi felice.
Chiuse
il giornale e lo lasciò cadere insieme al resto che aveva gettato
via, prima d’infilarsi il cappotto e avvolgersi nella sua sciarpa
colorata.
Sventolò
la mano per attirare l’attenzione di un taxi ed elencò velocemente
l’indirizzo del Liberty Diner, da cui aveva ricevuto qualche ora
prima una misteriosa telefonata di Debbie.
Osservò
distrattamente i contorni già bui della città e le luci dei
lampioni che sfrecciavano veloci al lati della strada, finché le
prime lampadine colorate appese, non lo avvertirono di essere giunto
nei pressi della sua meta.
Pagò
il tassista e scese, dirigendosi con passo svelto verso la tavola
calda, stringendosi nel suo cappotto per ripararsi da quel dannato
nevischio che insisteva per vorticargli intorno. Spinse la porta,
accolto dall’abituale campanellino, e fece correre lo sguardo verso
il bancone per trovare Deb.
Quella
che vide per prima però, non fu la testa arruffata e di un rosso
acceso della donna, ma un’altra familiare chioma bionda,
inconfondibile nella sua lucentezza.
Le
sue labbra si schiusero in una muta sorpresa e le parole gli morirono
in gola, quando riconobbe in quella figura familiare un Justin
cresciuto e ancora più bello di quanto ricordasse. «Splendore!»
urlò, affrettandosi a raggiungerlo. «Oh mio Dio, ma sei davvero
tu?!»
Justin
lo accolse con uno dei suoi magnifici sorrisi e guizzò in piedi per
avvolgerlo in un abbraccio così forte che a Emmett parve di poter
toccare con mano i sentimenti che trasudavano da quel gesto.
Felicità, sollievo e tanta – forse troppa – nostalgia.
«Come
stai?» gli chiese, con una lieve luce negli occhi a tradire la sua
commozione.
«Lo
chiedi a me? Tesoro, sei tu quello che dovrebbe avere mille storie da
raccontare.» gli ravvivò i capelli morbidi con una mano e sorrise
amorevolmente. «Io sono sempre rimasto nella gloriosa Pittsburgh.»
«Credo
di poterti invidiare.» rispose l’altro con le labbra arricciate.
«Prego?»
domandò Emmett con un’espressione di puro scetticismo, ma non ci
mise molto a fare due più due. In fondo, aveva trovato il modo di leggere
qualcosa sui giornali a lavoro – perché ovviamente al Diner era
praticamente impossibile – e da lì era riuscito a capire come le
cose non dovessero aver preso la piega più rosea per Justin come
persona; contrariamente al suo lato di artista che sembrava aver
spiccato il volo e non aveva alcuna intenzione di atterrare. Il suo
talentuoso amico aveva coraggio e carattere da vendere, e lo aveva
sempre dimostrato, ma insieme a questo suo lato creativo e temerario,
si affiancava anche l’altra parte di lui, quella che
paradossalmente l’aveva reso ancora più speciale. Justin amava le
cose semplici e abitudinarie. Sognava una vita intrisa di normale
felicità e non le luci dei riflettori che, con l’andar del tempo,
sembravano solo offuscare quella che per natura aveva dentro di sé.
Il successo non era mai stato al primo posto tra i suoi desideri, e
probabilmente mai lo sarebbe stato. I suoi sorrisi si accendevano
quando cucinava nel loft di Brian, durante le cene a casa di Debbie,
nel giocare con Gus e Jenny Rebecca, nel dipingere per il solo
piacere di farlo ma, soprattutto, quando i suoi occhi cerulei
incontravano quelli profondi di Brian. Era sempre stato così, fin
dal primo giorno in cui l’avevano incontrato, e l’unico che
pareva non essersene ancora reso conto, era proprio il destinatario
primario di tutta quella felicità. «Zucchero, New York ha
tutto!»
«Tutto
e anche di più.» rispose il ragazzo affiancandovi un sospiro.
«Tutto tranne la mia famiglia.»
Gli
occhi di Emmett si addolcirono, e non riuscì a trattenersi
dall’abbracciarlo ancora. Nonostante gli anni, Justin a volte
sembrava ancora lo stesso adolescente incasinato e bisognoso di una
mano che lo guidasse. «Ma noi ci siamo sempre qui per te, dovresti
saperlo!»
Sul
viso dell’altro si disegnò un sorriso sincero. «Lo so.» mormorò,
e lo invitò a sedersi insieme a un altro ragazzo, decisamente
vistoso. «Ti presento Jace.» annunciò poi. «Lui è Emmett, il
mago nell’organizzazione degli eventi.»
«Tesoro,
così mi lusinghi.» gongolò lui e strinse la mano di Jace. «Anche
se, ammettiamolo, non si è mai lamentato nessuno!»
«Justin
mi ha raccontato di ognuno di voi.» rispose l’altro, squadrandolo
attentamente.
«A
tal proposito, gli altri li hai già incontrati?»
«Sì.»
annuì il ragazzo con la testa, mentre la frangia bionda ondeggiava
seguendo oziosamente i suoi movimenti. «Li ho incontrati qui, tutti
a parte Ted e Blake, un’ora fa, ma sono dovuti andar via. Ci
vedremo comunque tra due giorni, per il Ringraziamento.»
«Hai
già incontrato anche…»
Justin
storse la bocca e sollevò le sopracciglia. «Già.»
«E…?»
«Niente.»
scrollò le spalle. «Sarei potuto essere anche il più insulso dei
conoscenti. Forse sarebbe stato più entusiasta.»
Emmett
si sporse verso di lui per posargli una mano sulla spalla come
incoraggiamento. «Splendore, lo sai com’è fatto. Brian,
l’esternazione dei sentimenti, non sa neanche dove stia di casa.»
Justin
abbozzò un sorriso e congiunse le mani sul tavolo. «Immagino sia
così.»
«Dagli
tempo.» attese che l’altro annuisse, seppur lievemente, e cambiò
totalmente il tono della conversazione. «Allora? Che mi racconti dei
maschioni newyorkesi?!»
«Che
vuoi che ti dica?» ridacchiò più rilassato. «Sono sempre stato
impegnato tra le mie mostre e le conferenze.»
«In
poche parole, gli unici maschioni che ha visto, sono quelli dei
quadri.» commentò Jace sfottendolo. «E le volte che siamo usciti
per locali, nessuno era all’altezza del signorino. Il massimo che
ho visto è stato qualche ragazzetto abbagliato dalla sua fama,
inginocchiato davanti a lui a succhiarglielo in un angolo buio!»
inarcò le sopracciglia e lo punzecchiò con il gomito. «Per un
attimo ho creduto tu fossi etero.» fece una smorfia schifata e
aggiunse: «Poi ho visto il famoso Brian Kinney, e ogni dubbio si è
dissipato.»
«Jace,
la pianti di elogiare le bellezze di Brian?»
«Gesù,
non ti sarai mica innamorato anche tu di quel bastardo narcisista!»
strillò Emmett scandalizzato.
«Nah!»
negò l’altro. «Oddio, confesso che nella mia testa sono balenati
pensieri tutt’altro che pudici, ma il signor Kinney sfila sotto
l’etichetta di ‘intoccabile’.»
«Me
lo auguro per le tue palle.» commentò Justin, con un’occhiata
poco amichevole. Decisamente, la gelosia nei confronti di quello che
era stato il suo
uomo non sarebbe mai passata.
«Quindi
hai trascorso quest’anno con dei veri
pennelli in mano, e non in senso metaforico?» domandò Emmett.
«Eh
già.» rispose l’artista. «Ho passato giornate a dipingere, e
all’inizio ero una vera esplosione d’idee, finché anche quello
ha perso il suo fascino.» abbassò lo sguardo e sospirò sconsolato.
«Io non so cosa mi sta succedendo, ma ho sempre meno voglia di
dipingere. Mi sembra che sia qualcun altro a farlo, non mi sento più
io.» si passò una mano tra i capelli e concluse: «E quello che mi
fa più rabbia è che qualunque cosa faccia, anche la più schifosa e
insulsa, non fa che essere accolta da entusiasmo.»
«Tesoro,
tutti impazziscono per le tue opere! Non vedo cosa ci sia che non
va!» cercò di risollevargli il morale, ma Emmett, in fondo,
riusciva a capire cosa significasse quell’espressione stanca e
delusa; l’ombra negli occhi di chi non riesce a trovare il suo
posto nel mondo e che vede affievolirsi anche l’unica cosa che fino
ad allora l’aveva fatto andare avanti. Nel caso di Justin, l’amore
e la passione per l’arte.
«A
questa gente andrebbe bene anche se io disegnassi un cazzo dritto e
ci mettessi sotto il mio nome.» esclamò esasperato. «Per loro
sarebbe comunque un capolavoro!»
«E
dove sta il problema?» chiese, provando ad incoraggiarlo. «Massimo
guadagno con il minimo sforzo…non è il sogno di ogni uomo?»
Justin
scosse la testa e sorrise fievolmente. «Emmett, per un artista non è
così bello. A meno che tu non abbia venduto l’anima al demonio
denaro.»
«Ah
certo, voi piccoli Bohémien non date prezzo all’arte!» ricambiò
quel sorriso e sfiorò una delle sue guance candide con una carezza.
«E comunque un cazzo dritto non è mica qualcosa di brutto!»
Finalmente
una risata sincera uscì dalle labbra morbide del ragazzo, e il cuore
di Emmett riuscì a sollevarsi un po’; perché voleva bene a quel
raggio
di sole,
più di quanto mai avrebbe potuto esprimere a parole; perché per
quanto sfavillante fosse la fiammella che vantava di avere dentro,
niente sarebbe mai stato paragonabile alla luce che Justin era in
grado di irradiare anche con un semplice sguardo.
Chiunque
lo avesse incontrato ne era stato abbagliato – perfino Brian,
abituato a vivere nel buio di una Dark Room, era rimasto incantato e
catturato da quei raggi luminosi – e anche lui aveva ormai capito
che la sua presenza vicino avrebbe sempre alimentato il fuoco della
sua favolosità.
*'*'*
“Amen
Omen” - Ben Harper
Suonare
per minuti quel dannato campanello si era rivelato pressoché
inutile, dato che l’inquilino – benché fosse in casa – si
rifiutava categoricamente di dare segni di vita.
Ormai
lo conosceva fin troppo bene, e non sarebbe stata certo una porta
chiusa a fermarlo, perciò si fece aprire il portone da un altro
degli abitanti del palazzo e richiamò il montacarichi al piano
terra.
Michael
era deciso a parlare con Brian circa quello che era successo al
Diner, e niente – neanche il silenzio del suo migliore amico –
l’avrebbe fermato dall’ottenere le sue risposte.
Salì
sul montacarichi e premette il pulsante, rimuginando sulle possibili
motivazioni che avevano spinto Brian a trattare Justin come un
perfetto sconosciuto, quando era palese
che dentro di sé stesse ancora soffrendo come un cane per come
quella loro tormentata storia fosse finita.
Non
si aspettava certo lacrime e salti di gioia, ma il fatto che neanche
un sorriso fosse nato su quelle labbra…be’, quello no. Non era
contemplato in nessuna possibilità.
Come
se non bastasse, poi, Linz lo aveva chiamato quasi un’ora prima,
dicendogli che Brian aveva già riaccompagnato Gus a casa, in
perfetto orario, quando solitamente dovevano urlargli dietro almeno
cento volte, prima che si decidesse a riportare il bambino dalla
madre; pertanto si era affrettato a chiudere il negozio in anticipo e
si era diretto verso Fuller Street.
Brian
aveva qualcosa che non andava – o meglio, qualcosa che non andava
più
del solito
– e lui non poteva certo ignorarlo.
Raggiunse
il piano e prese a bussare insistentemente contro la porta
scorrevole, finché non si rese conto che era già aperta.
Brian
e il suo stupido vizio di non chiudere mai!
La
fece scorrere spingendo con entrambe le mani e avanzò di qualche
passo dentro il loft, in cui regnava il silenzio più assoluto.
Non
gli ci volle comunque poi molto per trovare l’oggetto delle sue
ricerche: il proprietario di quel meraviglioso appartamento giaceva
mezzo addormentato sul divano, con i capelli arruffati e
impiastricciati di sudore; la canottiera bianca malamente arrotolata
su un fianco e i pantaloni grigi di felpa mezzi calati a scoprire
l’elastico dei boxer. Un braccio posato a coprire gli occhi e
l’altro ciondolante nelle prossimità di una bottiglia di Jim Beam
vuota, abbandonata a terra. Era completamente ubriaco, e non erano
neanche le otto.
Si
avvicinò scuotendo la testa, completamente rassegnato, e provò a
scuoterlo un po’ per farlo svegliare.
Aveva
la pelle calda, sudata e appiccicosa; segno che doveva essersi
addormentato già da un po’ e che il suo corpo aveva trasudato
tutto l’alcool che aveva ingurgitato come il peggiore dei
ragazzini.
Sbuffò
contrariato e lo riscosse ancora, finché un mugolio scocciato non
uscì dalle labbra dell’altro e sulla fronte si disegnò un
cipiglio profondo. «Cristo, Brian. Ma quanto hai bevuto?»
Gli
occhi verde scuro apparvero attraverso una lieve fessura lasciata
dalle palpebre, mentre le guance si gonfiarono a formare
un’espressione scocciata. «Il medico dice che per una buona salute
si dovrebbe bere almeno un litro e più al giorno.» biascicò a
fatica e tentò di alzarsi.
«Di
acqua, non di Jim Beam.» lo rimproverò Michael, sorreggendolo per
farlo sedere.
«È
lo stesso.» replicò, passandosi una mano sulla faccia. Si sentiva
un vero schifo.
«Avevo
pensato a mille possibili reazioni nella mia testa, ma non che ti
saresti ridotto a uno straccio.»
Brian
lo guardò sottecchi, fingendo di essere confuso. «Per cosa?»
chiese quindi, e l’altro roteo gli occhi scuri.
«Per
Justin. Penso tu l’abbia visto che è tornato.»
«Non
ho l’Alzheimer. Ancora riesco a riconoscerlo.»
«Credevo
ti avrebbe fatto piacere.» mormorò, e vide l’altro sollevare le
spalle oziosamente. «Dopo tutto questo tempo, non mi hai ancora
detto perché alla fine avete deciso di non sposarvi e un anno dopo
vi siete lasciati.»
«Ci
eravamo già lasciati quando è partito per New York.» puntualizzò,
cercando di mantenere un tono fermo, anche se sapeva che Michael non
gli avrebbe creduto neanche per un misero istante.
«Bugiardo.»
lo accusò infatti. «Allora? Perché non vi siete sposati?»
Brian
sbuffò e si fece forza per rispondere. L’unica cosa che desiderava
era una doccia fredda, ma era certo che il suo adorato Mickey non
l’avrebbe lasciato in pace almeno fino a quando non avesse esaurito
la sua filippica, perciò si stropicciò gli occhi e disse: «Perché
non aveva senso. Ci stavamo trasformando in qualcosa per cui poi ci
saremmo odiati.» poggiò le braccia sulle cosce e unì le mani.
«Perciò lui è partito per inseguire il suo sogno e io ho
ricominciato con la mia vita. Niente di più semplice.»
«Ma
tu lo amavi davvero. E anche lui…»
«Proprio
per questo l’ho lasciato andar via.» borbottò scocciato. Era la
cosa più ovvia del mondo, perché mai nessuno riusciva a capirla? «E
proprio perché mi ama, ha rinunciato al matrimonio. Non voleva
vedermi diventare ciò che non sono, chiuso in una gabbia.» sospirò
e fissò Michael con un sopracciglio sollevato. «Noi non siamo e non
saremo mai come una coppia di lesbiche, di checche, o peggio, di
etero. Siamo froci.»
«Io
e Ben siamo sposati e ci amiamo.»
Sorrise
appena e scosse la testa. Avrebbe potuto ripeterlo fino allo
sfinimento, ma nessuno avrebbe mai capito quello che per lui e il suo
raggio
di sole
era ormai ovvio e assodato. «Ma noi non siamo tu e Ben. Noi siamo
Brian e Justin.» attese qualche secondo perché l’altro
assimilasse la frase e proseguì: «E per quanto potrà sembrarvi
folle, è stato meglio così per entrambi.»
«Comunque
non spiega perché in tutto questo tempo tu non sia mai andato a
trovarlo, neanche una volta.» continuò a protestare Michael.
«L’avresti reso felice.»
«Gli
sarei stato solo d’intralcio.»
«Intralcio
per cosa? Brian, smettila di dire stronzate.» esclamò l'altro, con
un profondo cipiglio a solcargli la fronte e quegli occhi scuri con
cui continuava a squadrare attentamente ogni movimento del suo
interlocutore. «Justin ti avrebbe voluto là. Una volta è anche
crollato a telefono con mia madre, dopo che ti sei rifiutato ancora
di andarlo a trovare! E anche Daphne l’ha detto che…»
«Ci
saremmo solo fatti male, ok?!» sbottò interrompendolo, stufo di
sentirsi ripetere sempre le stesse cose. Era stanco del fatto che
tutti si premurassero di intromettersi nei fatti loro; era stanco di
dover sopportare le opinioni di ogni fottutissima persona e i
continui rimproveri. Sapeva benissimo, senza che ci pensassero gli
altri a ricordarglielo, quanto Justin avesse desiderato una sua
visita e, checché ne dicessero, anche lui aveva agognato quel
momento più di qualsiasi altra cosa al mondo…ma non poteva. Non
poteva prendere quello stramaledetto aereo e volare fino a New York,
perché era perfettamente conscio del fatto che non sarebbe più
stato capace di lasciarlo ancora. Si sarebbe rimangiato ogni
stupidissima parola, avrebbe mandato a puttane tutto il lavoro di
Justin e l’avrebbe anche trascinato a Pittsburgh, per non lasciarlo
andar via ancora una volta. Sapeva di non aver più la forza di fare
a meno di lui e anteporre la carriera d’artista alla sua felicità.
In fin dei conti, Brian Kinney era un fottuto egoista e, in quel
caso, non sarebbe riuscito a prescindere dalla sua natura per il bene
altrui. «Sarebbe stato solo un modo per prolungare quell’agonia.
Presto avrebbe trovato il suo posto a New York, sarebbe stato sempre
più impegnato e non potevo mettermi in mezzo. Ed è stato così,
esattamente come avevo previsto.» continuò allora, compiendo un
enorme sforzo. «È diventato famoso, si è fatto un nome e non ha
avuto più il tempo per pensare al passato e a Pittsburgh. È andato
avanti senza voltarsi indietro, ed è giusto così.» si lasciò
sfuggire l’ennesimo sospiro, e respirò a fondo per calmarsi.
«Perché avrei dovuto tenerlo incatenato a questa stupida città,
quando ha New York e il mondo davanti? Sono uno stronzo, ma non fino
a questo punto.»
Michael
gli rivolse un’occhiata carica d’affetto, e per poco Brian riuscì
a reprimere la voglia di colpirlo con un altro pugno. Odiava essere
guardato così. «Hai sempre fatto lo stronzo nei momenti sbagliati,
e l’unica volta che avresti dovuto tirar fuori il tuo egoismo del
cazzo non l’hai fatto. Perché?»
«Hai
davvero bisogno che ripeta ad alta voce quelle tre stupide parole?
Credo di essermi umiliato abbastanza per oggi.» gli rispose,
assottigliando gli occhi.
«‘Perché
lo ami’?» domandò
Michael, pronunciandole al suo posto, togliendogli quell’incombenza.
«Lasciatelo dire Brian, è stato nobile da parte tua, ma a che
prezzo?»
«Non
pretendo che tu lo capisca e neanche m’interessa.» mormorò con un
fil di voce, ormai stufo di quella conversazione. Desiderava
semplicemente essere lasciato solo, ma sembrava proprio che le
attenzioni degli altri crescessero in proporzione al suo bisogno di
solitudine. «L’ha capito lui, e tanto basta.»
«Dimmi
la verità. Avevi paura che lui ti avrebbe messo da parte? Per questo
l’hai lasciato andare? Credevi ancora una volta che avrebbe finito
col rimpiazzarti con qualcuno di più giovane, ora che non ti vede
più come un dio?»
Brian
sollevò gli occhi per quella trafila di domande ed elaborò una
bugia, sperando fosse abbastanza credibile, augurandosi di riuscire a
renderla reale, prima o poi. «Cazzate. Se avesse trovato qualcuno
capace di andare nella sua stessa direzione, rendendolo finalmente
felice, sarei stato contento per lui.»
«Anche
voi sapevate andare nella stessa direzione. Solo che di tanto in
tanto perdevate la strada.»
«Io
e Justin non andavamo proprio da nessuna parte. Giravamo in tondo.»
«Ma
eravate felici. Tu
lo rendevi felice.»
rettificò Michael. «Non ha mai sorriso a nessuno come ha sempre
sorriso a te.»
«Lo
so.» ammise l’altro; e concedersi quella piccola verità, non gli
provocò altro che una fitta dolorosa al centro del petto.
«Era
la tua unica occasione per essere felice. È
la
tua unica occasione.»
«Mickey,
falla finita.» lo aggredì. Non voleva sentirne più.
«Preferisci
continuare a scappare?!»
«Io
non sto scappando!» gridò, alzandosi di scatto in piedi, senza
riuscire davvero a capire dove avesse trovato tutta quella forza. La
testa gli girava e la nausea continuava a torturarlo, ma non avrebbe
sostenuto un minuto di più quella conversazione spinosa. «Sono solo
obbiettivo da capire che non poteva andare e che è stato meglio
così. Smettetela voi di voler trasformare tutto in un patetico
romanzetto rosa! Siete ridicoli.»
«Justin
è tornato…»
«E
con questo? Cosa cazzo cambia!» esclamò rabbioso. «Sarà tornato
per farvi un saluto, prima di ripartire per New York. Ha una sua vita
adesso, mettetevelo in testa e piantatela di tenerlo legato a questa
cazzo di città e a voi, perché lo state solo soffocando. Lasciatelo
libero, Cristo Santo!»
«Non
ti è mai venuto il dubbio che magari stesse solo aspettando che tu
gli dicessi di tornare?»
«No.»
mentì ancora. La realtà era che l’aveva sperato ogni singolo
giorno. Aveva pregato
che non si fosse dimenticato di lui e che lo desiderasse con la
stessa intensità con cui l’aveva fatto dal loro primo incontro. Lo
stesso passionale desiderio che si era acceso nel suo corpo e che
continuava a bruciare e a divorarlo ogni giorno.
«Be’,
allora non sei poi così obbiettivo come credi.» replicò l’altro
con sguardo deciso. «Datti una svegliata, perché sei l’unico a
quanto pare a non essersi accorto quanto lui sperasse in una tua
cazzo di parola quando vi siete rivisti.» lo rimproverò. «Justin
non è come te.»
«Non
è neanche come voi.»
«No,
ma ti vuole ancora.» rispose con un tono duro, prima di addolcirlo e
comunicargli quella verità che, per quanto bella, lo feriva più di
ogni altra cosa, perché non poteva goderne. «Ti ama ancora.»
«Mickey…»
mormorò stancamente. Non voleva sentire altro, ma il suo migliore
amico non aveva ancora alcuna intenzione di finire e lasciarlo
respirare.
«No,
stavolta ascoltami tu.» l’afferrò per le spalle e lo costrinse a
guardarlo in faccia. «È ora di crescere Brian, la parte di Peter
Pan lasciala a tuo figlio.» strinse la presa e concluse: «E
smettila di aver paura di amare. Non c’è niente di male.»
«Il
fatto che io ami in un modo diverso dal vostro, non significa che io
ne abbia paura.»
«Ma
ne hai di metterti in gioco, perché credi e sei sicuro che tanto
prima o poi ti abbandonerà. Be’, lasciati dire una cosa. È certo
se continui così, lo perderai di sicuro.» lasciò la presa e lo
guardò negli occhi, quasi volesse sfidarlo. «Perciò fatti una
domanda…preferisci lasciare che il tempo se lo porti via davvero, o
hai intenzione di muovere il culo e provare a essere felice?»
Brian
non rispose. Le labbra gli si erano cementificate tra loro e non
aveva la forza, né la voglia, di ribattere ancora.
Parlare
di Justin e del sentimento che aveva per lui lo svuotava di ogni
energia; soprattutto adesso che aveva rimesso piede nella gloriosa
Pittsburgh e aveva riaperto anche la più piccola ferita
pazientemente tamponata.
Distolse
lo sguardo e con quel gesto pose fine a quella diatriba, prima di
passarsi una mano tra i capelli arruffati e ciondolare fino al bagno,
nel silenzio più assoluto.
Gettò
i vestiti a terra e sentì la porta scorrere e richiudersi, segno che
Michael se n’era andato.
Fece
scorrere l’acqua della doccia e s’infilò sotto, sperando di
riuscire a lavare via quell’angosciosa sensazione che gli si era
plasmata addosso.
*'*'*
“Fly
again” – Kristine W
A
mezzanotte passata, Justin camminava costeggiando la fila per
l’entrata al Babylon, affiancato da Jace.
Si
sentiva un po’ in colpa ad usare le sue conoscenze, ma non riusciva
a resistere neanche per un minuto, fermo e buono, ad aspettare.
In
tutto il pomeriggio non aveva fatto altro che parlare di Brian, e
ascoltare le mille possibili versioni del suo pensiero, espresse da
chiunque incontrasse dei suoi amici; con il risultato che andavano
tutte nello stesso posto: “Brian non sa esprimere le emozioni”.
E
sarebbe stato un ragionamento perfettamente plausibile, se quelle
parole le avesse udite quasi due anni prima; prima dell’esplosione
del Babylon e di quei suoi due “ti amo”.
Da
quel momento aveva capito che Brian – quando voleva
– era perfettamente capace di esprimere i propri sentimenti, il che
lo riconduceva drammaticamente alla sua unica grande paura: l’aveva
dimenticato. Brian si era dimenticato di lui e del loro amore.
Scosse
la testa per cacciar via i pensieri e salutò con un sorriso i
buttafuori, prima di immergersi nell’atmosfera buia e sensuale del
Babylon.
«Sicuro
di star bene?» gli chiese Jace, dopo averlo afferrato per il polso.
Aveva la fronte aggrottata e negli occhi la stessa apprensione che
aveva visto tante volte in quelli di sua madre. In fondo, in
quell’anno e mezzo a New York lui era stato la sua sola famiglia.
«Non hai una bella cera.»
«Certo,
alla grande.» mormorò Justin, scostando una ciocca bionda dalla
faccia, per sistemarla dietro l’orecchio. «Prendiamo qualcosa da
bere?»
L’altro
annuì, poco convinto, e prese a seguirlo fino al bar.
Si
appoggiarono al bancone e attesero il loro turno per ordinare.
Afferrarono i rispettivi bicchieri con la mano sinistra e si
voltarono contemporaneamente verso la pista, rivolgendosi un sorriso
complice.
In
tutto il tempo trascorso insieme, avevano acquisito una serie di
abitudini e gesti fin troppo simili. Il vivere a stretto contatto
ogni giorno, aveva ampiamente influenzato l’uno con i vizi
dell’altro, fino a crearne alcuni dal niente; proprio come quello.
Sorseggiarono
i loro drink passando lo sguardo in ogni angolo della pista, finché
gli occhi nocciola e ridefiniti da un tocco di ombretto viola
metallico – in pendant con la camicia – di Jace, incontrarono una
persona che, decisamente, non passava inosservata.
Dopo
Justin ovviamente, quello a un paio di metri da lui, era il biondo
più eccitante che avesse mai visto.
Seguì
i movimenti di quel corpo statuario, mentre danzava tra due ragazzi
che pendevano letteralmente dalle sue labbra. Lo guardavano con la
stessa eccitazione intensa che doveva essersi accesa anche dentro il
suo sguardo; e lui sorrideva apertamente di quelle attenzioni,
sussurrando chissà quali parole alle orecchie di quei due fortunati.
Sgomitò
sul braccio di Justin per richiamarlo e si avvicinò a lui: «Chi è
quel dio?» domandò, e indicò l’oggetto del suo interesse con un
cenno della testa.
«Chi?
Quello biondo?» Jace annuì e sorrise. «Si chiama Brandon.»
«Interessante.»
«Sì,
se ti piacciono i tipi come lui.» commentò e storse le labbra. «È
la più grande puttana di Pittsburgh. Dopo Brian, ovvio.»
«Te
lo sei fatto?»
«No.»
prese un sorso del suo drink e si passò la lingua sulla bocca.
«Stavo già con Brian quando si è trasferito qua da Atlanta. E
comunque non mi è mai interessato.»
Jace
assottigliò lo sguardo e lo fissò attentamente. «Sbaglio o scorgo
dell’astio nelle tue parole?» sorrise sornione e inarcò le
sopracciglia. «Cos’è? Brian si è scopato anche lui e sei
geloso?»
«Non
se l’è scopato.»
«No?»
«No.
È una storia lunga.» tagliò corto, ma non aveva fatto ancora i
conti con l’inesauribile curiosità del suo amico. Jace infatti gli
prese il mento tra le dita e lo fece voltare verso di sé.
«Hai
per caso in programma qualcosa?» gli domandò e, quando l’altro
scosse la testa in una negazione, aggiunse: «E allora hai tutto il
tempo per raccontarmelo, signorino.»
«Non
credo.» sorrise e gli indicò la pista con un movimento secco delle
iridi cerulee. «Sta venendo qua.»
Jace
lasciò immediatamente la presa e si voltò per verificare le sue
parole, ma non fece in tempo a mettere a fuoco niente, che si ritrovò
Brandon a meno di un passo di distanza. «Ciao.» sorrise
quest’ultimo, mostrando una fila di denti bianchissimi, che
risaltavano anche con più intensità grazie alla pelle perfettamente
abbronzata.
«Ciao…»
balbettò Jace, mentre Justin si limitò a un sorriso appena
accennato.
«Non
vi ho mai visto da queste parti. Siete nuovi?»
«Io
sono di New York, ma lui ha vissuto qui fino a quasi due anni fa.»
Brandon
corrugò la fronte. «Davvero?» domandò, rivolto a Justin, con gli
occhi accesi d'interesse. «Che strano…più o meno due anni fa mi
sono trasferito qua da Atlanta, ma non ho mai avuto il piacere di
conoscerti.»
L’artista
scrollò le spalle e posò il bicchiere ormai vuoto sul bancone.
«Capita.» replicò telegrafico e fece un cenno a Jace. «Io vado di
sopra. Ci vediamo lì.»
«Eh?
Come?» esclamò confuso. «Aspettami, vengo con te!» si ritrovò
poi a dire, seguendolo senza neanche pensarci.
Salì
le scale affiancando l'altro e lanciò un’occhiata alle proprie
spalle.
Brandon
era ancora lì che li fissava stranito, ma con un sorriso che
lasciava ben poco all’immaginazione: si stava mangiando Justin con
lo sguardo.
*'*'*
“I'm
in Miami Bitch” - LMFAO; Lucky Date RMX
«Se
hai puntato quel biondino, fossi in te, lascerei perdere…» gli
sussurrò un ragazzo, accarezzando appena l’orecchio con il
movimento delle sue labbra.
«Perché?»
si limitò a chiedere Brandon, ignorando le palesi occhiate
interessate che il suo interlocutore insisteva per lanciargli.
«Quella
è roba proibita.» sorrise affabile. «A meno che tu non voglia
giocarti la possibilità di entrare ancora in questo posto, mi
cercherei qualcun altro.»
«Ripeto,
perché?»
«Quello
è Justin Taylor.» rispose, guardandolo dritto negli occhi. «E solo
Brian Kinney può scoparselo.»
«Brian?»
domandò, con una sfumatura di stupore nella voce. «Cos’è, il suo
fidanzatino?» vide l’altro annuire e scosse la testa. «Andiamo,
ma non farmi ridere. Brian non è il tipo da…»
«No,
infatti.» lo interruppe l’altro. «Stavano solo per sposarsi…»
arricciò le labbra e un guizzo soddisfatto si accese nei suoi occhi,
quando sul volto di Brandon le labbra si schiusero per la sorpresa.
«…poi però, Justin è partito per New York. È un artista
piuttosto famoso.»
«Sì,
credo di aver letto qualcosa a riguardo.» corrugò la fronte e
riprese a cercarlo con lo sguardo. «E che ci fa qui allora?»
«E
chi lo sa!» replicò il ragazzo e scrollò le spalle. «Non so
neanche se stanno ancora insieme o meno.»
Gli
occhi di Brandon percorsero tutto il soppalco in ferro, invano. Di
quello splendore biondo non c’era traccia, ma trovò comunque
qualcosa di altrettanto interessante: Brian era appena entrato. «Be’,
l’unico modo per saperlo è chiedere…» annunciò poi, e prese ad
avanzare nella sua direzione, senza neanche guardare o salutare il
ragazzo che gli aveva rivelato tutte quelle impensabili informazioni.
«E così, Brian Kinney aveva un fidanzato da sballo, e non me l’ha
mai detto…» esordì, soffiandogli le parole all’orecchio, con un
sorrisetto ironico.
«Ciao
a te, Brandon.» lo salutò Brian, altrettanto sarcastico. Gli
rivolse un sorriso storto e passò un braccio sulle sue spalle per
condurlo al bar. «Di che cazzo stai parlando adesso?»
«Justin
Taylor, ti dice niente?»
«Un
Grand Marnier Cosmo.» comunicò al barista, cercando di alleviare
quell’angosciante sensazione che l’aveva immediatamente colpito
all’altezza dello stomaco, nel momento in cui aveva sentito
pronunciare quel nome. Ringraziò il cielo che Brandon non lo
conoscesse ancora bene per accorgersi di quanto si era irrigidito e
rispose, con un finto tono annoiato: «Bah…giovane, biondo, occhi
azzurri.» prese il suo drink e ne sorseggiò un po’. «E allora?»
«Di
un po’, è per lui che non hai riscosso la tua vincita quella
volta?»
«Barbie,
se
hai tutta questa voglia che te lo metta nel culo, basta che tu lo
dica chiaramente.»
Brandon
sorrise e scosse la testa. «State ancora insieme?»
«Chi?»
chiese vago.
«Tu
e quell’angelo…Justin.»
«Perché
dovrebbe importarti?» temporeggiò ancora, continuando a nascondere
la sua reale preoccupazione dietro una maschera di ironica curiosità.
«Non diventerò comunque il tuo fidanzatino.»
«Infatti
non è per questo.»
«E
per cosa allora? Sentiamo…»
«Perché
in nome della nostra salda
amicizia...» iniziò Brandon, mentre l’altro si lasciò sfuggire
una risata. «…non mi permetterei di scoparmelo se fosse ancora
tuo.»
Brian
annuì lentamente, e spinse la lingua verso la guancia, con
un’espressione assorta, quasi stesse valutando ogni singola
particella di quella frase. «Cosa ti fa pensare che si farebbe
scopare da te?»
«Kinney,
è forse gelosia questa?»
«Non
siamo mai stati insieme.» replicò nervoso. Se Brandon stava
iniziando quel gioco solo per farlo innervosire o per una delle loro
stupide scommesse, doveva cercare il modo di rendere la situazione
meno appetitosa possibile…per quanto qualcosa in cui era coinvolto
Justin, potesse non essere appetitoso.
«Che
strano…» mormorò, aggrottando la fronte. «…a me è giunta voce
che ti stessi per sposare.»
Un
altro falso sorriso si disegnò sulle labbra di Brian. Stavolta molto
più tirato degli altri. «Sai com’è fatta la gente. Quando ha una
vita noiosa, inventa storie su quella degli altri per passare il
tempo.»
«Il
che comporta che per te non ci sono problemi…giusto?»
Brian
lo fissò attentamente negli occhi, con le labbra serrate tra loro.
Terminò il suo drink con un solo sorso e abbandonò il bicchiere sul
bancone. «Ciao, Brandon.» gli sorrise affabile e senza aggiungere
altro, si voltò e prese a camminare verso l’uscita.
*'*'*
Nel
buio della sua camera, Ted fissava il soffitto rischiarato dalla luce
dei lampioni che attraversava le finestre, ascoltando attentamente i
respiri di Blake che, a differenza sua, dormiva tranquillamente al
suo fianco.
Non
era mai stato un tipo troppo sicuro di sé, ma la consapevolezza che
gli era arrivata dritta al cervello come un fulmine, quando era
rientrato a casa, l’aveva colto di sorpresa e punto sul vivo.
Non
riusciva a smettere di pensarci, e non sapeva come trovare le parole
per esternare quella semplice quanto importante richiesta all’uomo
che amava.
Qualcosa
dentro di sé gli suggeriva di svegliarlo immediatamente e di
gettarsi a capofitto in una dichiarazione montata così, su due
piedi, mentre l’altro lato che si contendeva la sua ragione gli
sussurrava di aspettare ancora e di preparare qualcosa di più
significativo.
Non
avrebbe saputo dire se era solo la voglia di renderlo un momento
davvero speciale o meno – in fondo, tra i suoi amici, aveva
assistito all’apoteosi della normalità, con Ben e Michael o Linz e
Mel, ma anche al gesto più costosamente
romantico della storia, con la villa che Brian aveva acquistato solo
per farsi dire un semplice “sì”, e già questo bastava a
mandarlo in confusione – o se la sua era semplice e pura paura di
un rifiuto; sapeva solo che voleva legarsi a Blake.
Sbuffò
e si girò più volte nelle lenzuola, nel vano tentativo di cercare
una posizione migliore per dormire, riuscendo ad ottenere solo un
groviglio stretto in cui restare grottescamente incastrato alla
stregua di un salame. Imprecò contro se stesso per quel suo essere
sempre maldestro e diede uno strattone per liberarsi, terminando il
suo movimento con un tonfo sul pavimento.
«Teddy?»
sentì mugugnare dalla voce di Blake, seguitò dal leggero strusciare
delle lenzuola, dovuto ai movimenti del suo corpo. «Che fai?»
«Niente.»
borbottò, arrossendo di vergogna per il suo penoso spettacolo. «Sono
solo caduto.»
Il
suo compagno ridacchiò. «Sicuro di star bene?» si protese verso di
lui, stropicciandosi gli occhi e gli sorrise. «Hai fatto un brutto
sogno?»
«No,
no.» rispose incerto. «Cioè…solo qualche pensiero.»
Blake
sembrò svegliarsi all’improvviso e un cipiglio corse a solcare la
sua fronte e incupire l’azzurro delle sue iridi. «Che tipo di
pensieri?» lo fissò serio per un attimo e riprese: «Lo sai che
Brian non fa sul serio quando minaccia di licenziarti.»
«No,
non è per Brian. Lo so che non dice sul serio…»
«E
allora cosa?» chiese, con una nota d’apprensione a colorargli la
voce. Scese dal letto e si accoccolò accanto a Ted.
Per
contro, l’altro abbassò immediatamente gli occhi, sentendosi in
imbarazzo sotto l’esame di quello sguardo amorevole. Strinse la
presa sulle lenzuola e deglutì rumorosamente.
Avrebbe
voluto avere il coraggio di pronunciare quelle tre fatidiche parole,
con la stessa sicurezza per cui sentiva che Blake era l’uomo giusto
per lui, ma sembrava proprio che ogni lettera gli si fosse
fastidiosamente incastrata tra la lingua e il palato e si rifiutasse
categoricamente di uscir fuori. «Niente, davvero. Una stupidaggine
senza senso.» sorrise mentendo, e si rialzò barcollando.
Risistemò
il letto con l’aiuto del suo compagno e tornò sotto le coperte
senza aggiungere una parola.
Blake
gli si avvicinò, circondandolo in un abbraccio e gli stampò un
bacio sul collo. «Qualunque cosa sia…» iniziò, sussurrando ogni
parola. «…anche la più stupida, se avrai voglia di parlarne, con
me puoi farlo sempre.»
Ted
sorrise nel buio e cercò la bocca dell’altro con la sua, per
unirle in un semplice bacio. Si sistemò nel suo abbraccio e respirò
a fondo il suo odore. «Ok.» bisbigliò poi e riprese a fissare il
soffitto, e ad ascoltare il respiro rilassato dell’uomo che aveva
ripreso a dormirgli accanto.
Mi
vuoi sposare?
Ma le parole
echeggiarono solo nella sua mente mentre, con un sospiro sommesso, si
augurava di trovare prima o poi il coraggio di dargli anche un suono
udibile alle orecchie del suo compagno.
***
Note finali:
Fine anche del quinto capitolo!
Se pubblico un po' troppo spesso ditemelo eh...non vorrei intasarvi il pc con le mie stupidaggini! XD
Comunque sia...il primo incontro dei Britin è avvenuto...forse
qualcuno di voi se lo immaginava diversamente o un po' più
significativo...ma io proprio non ce lo vedevo Brian a chiarire i fatti suoi in mezzo al Diner con tutta quella gente ad ascoltare e poi... non sarebbe Queer as Folk senza Mister Meraviglia che si riduce a uno straccio con il Jim Beam almeno una volta per colpa delle sue fisime...XD e l'avevo detto che era un capitolo di transizione, no?
Prendetelo un po' come la seconda parte del precedente insomma...e quindi come introduzione alla storia...dal prossimo si farà un pochino più sul serio. XD
Per quanto riguarda Brandon, sono certa che qualcuno lo troverà
anche "molto" più "simpatico" dopo questo capitolo. Comunque
sia, io sono partita dal presupposto che Brandon non avesse mai conosciuto Justin e che non avesse mai saputo del matrimonio mancato. Che io ricordi non si vede mai lui durante i "festeggiamenti" pre-matrimoniali...quindi, prendetela per buona!
XD Mentre per quanto riguarda il piccolo povero Teddy, ancora non
è riuscito a esprimersi con il suo Blake...e per come la penso
io lo eviterei anche, visto quanto odio quel personaggio, ma Theodore
Schmidt lo ama e io non posso prescindere da questo...eeee, va
be'!
Stupidaggini a parte, spero vi sia piaciuto comunque anche se è
solo di passaggio e prometto di non tardare troppo con il prossimo,
visto che avremo il primo vero incontro-scontro degli adorati Britin...perciò passiamo alle cose più importanti: ringraziamenti!!!
Un grazie a tutti coloro che hanno letto il capitolo, e che hanno messo la storia tra le seguite, le ricordate o le preferite...e un grazie ancora più grande a: Thiliol, Veronica611, giacale, EmmaAlica79, Katniss88, oo00carlie00oo, FREDDY335, Hel Warlock, susyjames, Clara_88, mindyxx e fritty per aver recensito lo scorso capitolo! GRAZIE DAVVERO.
Un bacio e a presto, Veronica.
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Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Some things never change. ***
Some things never change.
6x06 – Some
things never change.
[capitolo betato da Trappy]
“You look so
fine” - Garbage
Inspirò
profondamente, con gli occhi socchiusi per via del fumo e l’intento
di godersi pienamente la sensazione raschiante nella gola, mentre
perdeva lo sguardo oltre lo spesso vetro, tra le luci della città
che rischiaravano appena il loft e la sua figura.
Con solo un paio
di Jeans chiari addosso, Brian fumava quella che era la seconda canna
della serata, da quando era rientrato a casa di umore più che nero.
Non bastava ogni
sua conoscenza a girare il dito nella piaga e l’improvvisa
ricomparsa di Justin a riaprire ogni ferita. Ci si metteva anche
Brandon a spargere sale e attentare alla salute dei suoi nervi, e
peggio, del suo cuore già abbastanza martoriato.
Non lo conosceva
abbastanza bene da prevedere cosa potesse architettare dentro quella
sua testa ossigenata, ma qualunque cosa fosse, era ben conscio dal
sapere che non gli sarebbe piaciuta neanche un po’;
specie se pensava che era coinvolta proprio l’ultima
delle persone a cui l’avrebbe
lasciato avvicinare.
Si appoggiò con
l’avambraccio al vetro
e portò nuovamente il filtro alle labbra per riempire ancora i
polmoni di fumo, fino a saturarli, quasi volesse affogare in quella
nuvola grigia.
Liberò la scia
fumosa attraverso le labbra socchiuse e osservò il suo riflesso
sinuoso nel vetro, immaginando di veder quei girigogoli prendere la
forma del volto di Justin. Li vide mutare e disegnare i suoi
lineamenti e quelle iridi cerulee che lo fissavano.
Fu impossibile
desistere dal ricordare le notti trascorse insieme.
Fantasticare sul
suono dei suoi passi che si avvicinavano alle spalle quando si
svegliava e non lo trovava nel letto. Le sue dita che andavano a
massaggiargli le spalle per farlo rilassare. La sua bocca che rubava
un tiro dalla canna sorretta dalle sue dita, e quelle labbra che poi
correvano a congiungersi alle sue, prima che il mozzicone venisse
abbandonato e che lui stesso si lasciasse andare alle attenzioni di
quel ragazzino biondo che gli aveva sconvolto la vita, e che lo
guidava, senza la minima traccia del timore che gli aveva visto al
loro primo incontro, fino al divano, che si bagnava del loro sudore e
s’impregnava dei loro
gemiti e di quell’amore
che li legava.
Chiuse gli occhi
con sofferenza e prese l’ultimo
tiro.
Ricordare quei
momenti, era la peggiore delle torture che potessero imprimergli.
C’erano
giorni in cui quel dolore si faceva così assordante e insistente,
che la nausea per la radioterapia gli sembrava solo uno scherzo.
C’erano giorni in cui
avrebbe voluto rifugiarsi nel ricordo della sua lotta contro il
cancro, per schiacciare il dolore della lontananza di Justin, con ciò
che ricordava di quei momenti terribili, quando la sensazione fredda
e rassicurante della ceramica del cesso sotto le dita, era una delle
poche cose che riuscivano a farlo sentire meglio.
Sarebbe ricorso
anche a quello, e avrebbe costretto la sua mente a rivivere quegli
attimi, se solo in mezzo a quell’inferno,
non fosse stato presente quel raggio di sole a sostenergli la
testa e scostargli i capelli. Se solo non ci fossero state quelle
mani ad accarezzargli la schiena o quelle labbra a baciargli la
fronte, le guance, il collo...ogni centimetro della sua pelle, pur di
rendere più facile e piacevole quel calvario.
In mezzo a
quell’inferno, c’era
sempre stata la dolcezza di Justin, ciò che l’aveva
spinto a stringere i denti e andare avanti. Perché se anche non
gliel’aveva mai detto;
e spesso si era ritrovato a pensare che, forse, alla fine dei conti
sarebbe davvero morto giovane come aveva sempre detto di volere; se
non si era lasciato andare, era soprattutto per quella testolina
bionda e impertinente.
Era stato per le
volte in cui si era svegliato di soprassalto la notte, e aveva
trovato Justin addormentato con la testa sul suo petto e le braccia a
circondarlo come se volesse proteggerlo da qualunque cosa e impedire
a chiunque di portarlo via. Era stato per le volte in cui aveva visto
quegli occhi blu opacizzati e segnati dal pianto. Era stato per le
volte in cui, quando non riusciva a dormire, aveva sentito Justin
chiamare il suo nome, mentre si agitava nel sonno e le lacrime
scendevano oziose a solcargli il viso.
Era stato sì,
anche per se stesso, ma soprattutto per Justin; per non lasciarlo
solo, per non farlo soffrire più di quanto non avesse già fatto.
Aveva sopportato
fin troppo, nonostante la sua giovane età, e non si meritava di
patire anche quello. Non lui che con devozione gli preparava quello
stramaledetto brodo di pollo – che non avrebbe mai più toccato per
il resto della sua vita – o qualche intruglio miracoloso di sua
nonna. Non lui che non si lamentava mai del fatto che dal fare sesso
almeno quattro volte al giorno, erano passati a trascorrere la
sera a sonnecchiare sul letto, o inginocchiati sulle mattonelle del
bagno, perché doveva vomitare per la trecentesima volta nel
giro di una giornata. Non lui che aveva continuato ad amarlo
nonostante il suo caratteraccio, o le volte in cui l’aveva
ferito.
Brian era
sopravvissuto per Justin e perché, per quanto gli costasse
ammetterlo, dentro di sé aveva chiaro come il sole che non era
affatto disposto a separarsi definitivamente da lui. Non era disposto
ad andarsene in un posto dove Justin non c’era.
‘Fanculo,
piccolo stronzo. Guarda come cazzo mi sono ridotto...
Spense il
mozzicone nel posacenere e si avviò verso il letto, ciondolando
stancamente. Si lasciò ricadere e inevitabilmente il suo sguardo si
posò su quel cassetto che, da quando Justin se n’era
andato, non aveva più riaperto, se non per nasconderci le uniche tre
cose che gli restavano di lui.
Avrebbe dovuto
sbarazzarsene tempo prima, invece che lasciarle ad impolverare là
dentro, perché sembravano poter urlare la loro presenza ogni minuto
che trascorreva in quel posto, ma non ci era mai riuscito.
Un po’
perché aprire quel cassetto, significava ritrovarsele davanti agli
occhi, insieme ai ricordi dei momenti passati con Justin – alcuni
splendidi, altri terribili, ma pur sempre insieme – e un po’
perché, da qualche parte in fondo al suo cuore, la speranza di poter
riaprirlo e riempirlo ancora delle sue cose; la speranza di vederlo
tornare, non si era mai spenta.
Sì tolse i Jeans
e li lanciò in un punto a caso del pavimento, prima di abbandonarsi
sul letto e affondare la testa nel cuscino. Sospirò a fondo e fece
per infilarsi sotto il copriletto, quando qualcuno prese a bussare
insistentemente alla porta.
Mugugnò
contrariato, finché nella sua testa balenò la possibilità che a
battere il pugno fosse Justin; così, col cuore che gli pulsava in
gola, si alzò di scatto e si affrettò a raggiungere la porta.
«Jus...» pronunciò, dopo averla fatta scorrere con foga; e per un
attimo gli parve davvero di vedere quel sorriso, ma l’incantò
svanì nel giro di un secondo, lasciando il posto al ghigno divertito
di un’altra persona.
«...Brandon?!» esclamò sorpreso, deluso e scocciato. «Ma che
cazzo sei? Uno stalker?»
L’altro
scrollò le spalle e sorrise. «Mi annoiavo al Babylon.»
«E che cazzo ci
fai qui?!» sputò rabbioso, aggrottando la fronte.
«Sei impegnato
con qualcuno?» chiese e cercò di sbirciare verso il letto,
alzandosi sulle punte.
«No...»
«E allora dov’è
il problema?» cercò di entrare, ma Brian gli si parò davanti,
assumendo un sorrisetto che poco celava il fastidio nato da quella
visita.
«Il problema,
Barbie, è che qui non c’è
nessun cazzo di Ken disposto a scoparti e, se non ti dispiace, io
vorrei dormire. Quindi, fammi il grosso favore di evaporare.»
Brandon prese a
ridacchiare. «Lasciatelo dire, non sei per niente ospitale.»
«Non ho mai
voluto esserlo.»
«Non è questo
che si diceva da te fino a un po’
di tempo fa...»
Brian scosse la
testa e si passò la lingua sui denti. «Le cose cambiano.» abbozzò
un sorriso fulmineo e concluse, prima di chiudergli la porta in
faccia. «Perciò, buonanotte riccioli d'oro, e sta’
attento ai tre orsi mentre torni a casa.»
*'*'*
Portò la mano
allo stereo e girò la manopola per alzare il volume, prima di
prendere l’accendisigari
già caldo e accendersi una sigaretta. Abbassò il finestrino e
lasciò che il fumo fluisse via attraverso lo spiffero. «Hai
intenzione di fumarne ancora molte?» borbottò Jace contrariato.
Justin sbuffò.
«Chi cazzo sei, mia madre?!»
«No, ma tu soffri
decisamente di attacchi d’ira.»
commentò in risposta l’altro,
con aria stranita.
«Scusa.» mormorò
seriamente dispiaciuto. Prese l’ultimo
tiro e lasciò cadere il resto fuori dal finestrino. «È
solo che...»
«Senti, non è
perché non voglio aiutarti ma...non credo che restare piantati in
macchina sotto casa del tuo bello ti servirà a qualcosa!»
Justin prese a
ridacchiare. Erano arrivati da almeno dieci minuti, con tutta
l’intenzione di
smuovere la situazione, ma nonostante le minacce di Jace, non era
ancora riuscito a scendere e suonare il campanello. Se poi pensava a
quanto era stato sfacciato in passato e a quante volte si era
presentato alla porta di Brian senza prima avvertirlo, quella
situazione prendeva una piega anche più assurda.
Inspirò
profondamente, scostandosi dalla faccia una fastidiosa ciocca di
capelli biondi e sorridendo all’amico,
fece per aprire la portiera, quando il portone del numero sei di Fuller Street, venne improvvisamente spalancato.
Trattenere la
sorpresa fu impossibile, nel momento in cui in strada fece la sua
comparsa Brandon, e sentì qualcosa rompersi dentro.
Aveva sempre
provato una particolare gelosia per quell’uomo,
non solo perché era bello, ma anche per quella strana intesa che si
era creata tra lui e quello di cui era innamorato, data l’incredibile
compatibilità del loro modo di essere e di fare. Per certi versi,
Brandon era praticamente un Brian Kinney con i capelli biondi e gli
occhi azzurri.
Gli aveva visti
insieme a Babylon, e aveva cercato di non sorprendersi della loro
breve chiacchierata, ma vedere proprio Brandon uscire dal palazzo in
cui viveva l’altro...quello
no, non se lo sarebbe mai aspettato, né mai avrebbe voluto vederlo.
In qualche modo si
era sempre sentito minacciato da lui, e in quel momento ogni paura
sembrò materializzarglisi davanti e divenire reale. In fondo, perché
mai Brian avrebbe dovuto aspettarlo quando poteva avere chi voleva,
anche uno come Brandon?
Con rabbia cieca
portò la mano a girare la chiave e mise in moto, ignorando i
borbottii di Jace – che in vano cercava di farlo ragionare,
nonostante fosse altrettanto visibilmente sorpreso – e partì,
schiacciando fino in fondo il pedale dell’acceleratore.
Sorpassò due
macchine e svoltò bruscamente a destra, in uno stridio acuto di
freni e gomme, e gli strilli di Jace. «Ok, ok.» balbettò
spaventato, stringendosi con entrambe le mani al sedile. «Jus,
rallenta. Ti prego, rallenta!» lo fissò allarmato e aggiunse: «Non
ti ho mai detto quanti anni ho, ma questo non vuol dire che io sia
abbastanza vecchio per crepare!»
Justin però non
sentiva neanche le sue parole. Davanti ai suoi occhi vedeva a
malapena la strada, coperta dalle immagini di lui e Brian insieme,
confuse a quelli che credeva potessero essere i momenti che, quello
che era stato il suo uomo, poteva aver trascorso con Brandon.
Immaginare l’altro
al suo posto, nei ricordi del loro amore, gli occludeva la gola
impedendogli di respirare; e si sentiva bruciare dentro come mai gli
era successo prima.
Era sempre stato
molto geloso di Brian, fin dall’inizio,
e per quanto avesse spesso criticato l’altro
per i suoi stani scatti di rabbia e gelosia, guidati da un probabile
“mostro dagli occhi verdi” – come lo chiamava Debbie – in
quell’istante, fu
certo di avere un mostro decisamente peggiore a divorargli il fegato,
lo stomaco e qualsiasi altro organo commestibile; cuore compreso.
Inchiodò davanti
al loro albergo e parcheggiò alla meno peggio, prima di correre
nella loro stanza, come un pazzo, e afferrare con rabbia il proprio
trolley.
«Che cazzo stai
combinando?» esclamò Jace, dopo averlo raggiunto, osservandolo
stranito mentre afferrava le sue cose e le scaraventava malamente nel
proprio bagaglio.
«Non lo vedi?!»
sbottò, senza neanche guardarlo. «Torno a New York!»
«Oddio, ecco che
ci risiamo con un altro dei melodrammi di Justin Taylor. Tesoro,
lasciatelo dire, tu hai davvero un problema con i tuoi nervi.»
«Che cazzo ci
faccio qui?!» gridò ancora, lanciando a terra una cintura. «Perché
cazzo mi sono lasciato convincere a tornare qua, se si è già
dimenticato di me?! Perché mi hai permesso d’illudermi così?»
«Justin!» lo
chiamò, posandogli una mano sulla spalla per spingerlo a sedersi sul
letto e calmarsi. «Non sai se ti ha dimenticato...»
«Ah no? E allora
che cazzo ci faceva quello a casa sua?»
«Da quello che mi
hai raccontato, scopare a destra e a manca, è sempre stato il suo
modo per affrontare la vita. C’è
da sorprendersi?»
«Non lo so.»
sospirò, distendendosi con la schiena sul letto. «Io non...»
«Jus, ascoltami.
Non sai se quello era davvero lì per scop...» iniziò, ma
l’occhiata ricolma
d’ira che gli rivolse
l’altro, lo convinse a
cambiare le proprie parole: «D’accordo,
magari è come pensi, ma l’hai
sempre accettato così, e prima di tornartene a New York su ipotesi
interamente create dal tuo cervellino, almeno parlagli e accertati di
come stanno le cose.» si distese al suo fianco e prese a fissare il
soffitto. «E poi, hai una promessa da mantenere a un bambino...e le
promesse ai bambini si mantengono, sempre.»
La mente di Justin
corse a Gus, e al sorriso che si era disegnato su quel faccino dolce.
Non poteva andarsene e deluderlo; non poteva fare del male a quel
bambino stupendo che aveva visto realmente nascere e a cui aveva dato
un nome.
Sospirò
profondamente e si girò su un fianco, strisciando sul letto fino a
raggiungere Jace e posare la testa sul suo petto. Si lasciò
abbracciare e chiuse gli occhi, trattenendo a stento le lacrime.
«D’accordo.
Restiamo.»
*'*'*
Erano scoccate
appena le sette del mattino, quando Gus zampettò giù dal letto e
corse fino alla camera in cui dormivano le sue mamme.
Si aggrappò alla
maniglia per abbassarla ed entrò, sgattaiolando immediatamente da
Linz, per riscuoterla e svegliarla dal sonno. «Mamma, mamma!» la
chiamò, e continuò a farlo finché la donna non prese a
stropicciarsi gli occhi. «Mamma, quando viene papà? E Justin? Mi
devi vestire!»
«Amore, ma che
ore sono?» biascicò stordita, finché non si accorse della
posizione delle lancette. «Gus, sono appena le sette.»
«Voglio andare da
papà! Me l’hai
promesso!»
«Che succede?»
mugolò Mel rigirandosi tra le lenzuola, svegliata dalla voce
lamentosa del bambino.
«Voglio andare da
papà e Justin.» batté i piedi deciso.
«Tesoro, tuo
padre verrà e anche Justin, ma questo pomeriggio.» gli rispose Mel.
«Adesso torna a dormire.»
«Non voglio
andare a dormire, voglio andare dal mio papà!» strillò più forte,
mentre le lacrime iniziarono a riempirgli gli occhioni verdi.
«Gus...» iniziò
Melanie, con tono di rimprovero, ma fu fermata da Linz.
«Gus, lo so che
vuoi stare con tuo padre, ma lui ha da fare e anche Justin. Ti hanno
promesso di passare il pomeriggio con te e lo faranno, ma non se
farai i capricci.»
«Ieri papà mi ha
detto che posso andare da lui quando voglio!» replicò intestardito.
«E io voglio stare con lui. Non lo vedo mai! Io voglio vivere qui
con lui, con nonna Deb, Justin e gli zii!»
Sia Mel che Linz
sussultarono a quella confessione dettata dall’esasperazione.
Probabilmente il loro bambino si stava tenendo da un po’
certi pensieri nascosti dentro, e dal momento in cui era tornato a
Pittsburgh, trattenergli era stato impossibile.
Fermare i soliti
sensi di colpa dettati dalla loro scelta di essersi trasferite a
Toronto e aver allontanato i propri figli dal resto della loro
famiglia, fu impossibile, perciò, con un tacito assenso dato da una
semplice occhiata, Linz afferrò il cellulare e compose il numero del
loft, aspettandosi una lunga serie di imprecazioni da parte di Brian.
«Vivi in un posto
dove hai un altro orario, o ti rendi conto che sono le sette del
mattino?» sbottò lui infatti, all’altro
capo del telefono, dopo innumerevoli squilli.
«Fatti una
doccia, e renditi presentabile. Porto tuo figlio da te, altrimenti mi
farà diventare matta.»
«E bravo il mio
bimbo.»
«A dopo.»
mormorò e riattaccò, ignorando il tono soddisfatto di Brian, per
poi rivolgersi al bambino. «Fatti bello tesoro, ti porto da tuo
padre.»
Quando arrivarono davanti al
portone, Gus non stava più nella pelle.
Si alzò sulle punte e premette
con forza l’indice sul
bottone del citofono, impaziente di sentire la voce di suo padre.
«Salite.» lo sentì
comunicare, attraverso il microfono, a cui seguì lo scatto secco del
portone.
Decise
di non aver tempo, né voglia, di aspettare il montacarichi, così
costrinse Linz a seguirlo di corsa per le scale. Le percorse tutte
con un enorme
sorriso sulle labbra, fino al pianerottolo, dove Brian lo stava
aspettando a braccia conserte, appoggiato al muro. Vide suo padre
accoccolarsi per accoglierlo, e quando si gettò nel suo abbraccio,
si sentì sollevare e stampare un rumoroso bacio sulla fronte. Per
Gus, non esisteva niente al mondo che potesse renderlo più felice.
«Papà!» strillò, e allacciò le braccia intorno al suo collo,
respirandone il profumo che sapeva essere quello di un uomo.
«Ciao,
campione.» gli sorrise. «Ma...dove l’hai
lasciata la mamma?»
chiese, e non ebbe bisogno di risposte, perché vide spuntare una
Linz piuttosto provata dalle scale.
«Tuo figlio mi
vuole morta.» annaspò, salendo gli ultimi scalini.
«Di piuttosto che
sei vecchia.» la canzonò lui e schivò appena in tempo il pugno con
cui la donna tentò di colpirlo.
Entrarono nel
loft, e Brian posò il bambino a terra, così che potesse correre a
sedersi sul divano e godersi un film di James Dean che, nonostante la
giovanissima età, sembrava già amare.
Brian
prese una bottiglia di birra dal frigo e ne offrì una a Linz.
«Allora...» esordì poi. «È
tutto ok?»
«Suppongo
di sì.» rispose lei, trangugiando una grossa sorsata per
riprendersi. «È
solo che non riuscivamo più a tenerlo buono. Gus non riesce a stare
lontano da te e...»
«E...» la
incoraggiò, sollevando un sopracciglio.
«Ci
ha detto che vuole restare qua a Pittsburgh, con tutti voi.» sospirò
la donna e lanciò un’occhiata
amorevole al figlio, intento a osservare le immagini che si
susseguivano sullo schermo al plasma. «Mi chiedo se vivere a Toronto
sia davvero la cosa migliore. Gus sembra soffrirne troppo.»
«Non
sentirti in colpa. L’hai
fatto per il suo bene. Per tenerlo al sicuro dallo schifo che non lo
accetta per quello che è.»
«Lo so, ma se
questo vuol dire vederlo soffrire perché ha bisogno di te...»
Brian
voltò lo sguardo verso il bambino e le sue labbra s’incresparono
involontariamente in un sorriso. Ogni volta che i suoi occhi
incrociavano la figura del figlio, era come se sentisse allargarsi il
cuore, ed era una sensazione che aveva sempre provato fin dal primo
istante in cui l’aveva
visto. Forse era quello che tutti chiamavano “istinto paterno”.
Un giorno non c’era,
e poi, come quel frugoletto era entrato nella sua vita, era comparso
all’improvviso.«Cercherò
di venire a Toronto più spesso. Non solo nel fine settimana.»
«E se tornassimo
noi?» azzardò e vide il suo migliore amico voltarsi di scatto. Non
avrebbe potuto giurarci, perché Brian era un maestro nel nascondere
le emozioni, ma per un misero istante, le era parso di veder
accendersi una luce di speranza in quegli occhi scuri. «Se
tornassimo a vivere qui...»
«Tuo marito che
ne pensa?» domandò in risposta, con tono piatto, sforzandosi di
trattenere la gioia che gli era divampata dentro nel momento in cui
aveva sentito anche solo accennare a quella possibilità.
«Non ne abbiamo
mai parlato bene, ma so che anche lei si è accorta di come sta
reagendo Gus e si sente in colpa quanto me.» sospirò e sorrise
appena. «Suppongo poi che le tue parole le brucino ancora.»
Brian sollevò le
sopracciglia. «Non potevate certo aspettarvi che reagissi con gioia
nel sapere che mio figlio si sarebbe trasferito in un altro paese.»
Linz gli si
avvicinò e lo baciò sulla guancia. «Devi amarlo proprio tanto,
eh?» si lasciò abbracciare e appoggiò la testa sulla spalla di
lui. «Attento Brian, di questo passo verrai nominato anche padre
dell'anno.»
«Pensavo di
esserlo già.» replicò ridendo, e lei gli stampò un bacio sulle
labbra.
«Va tutto bene?»
ebbe il coraggio di chiedergli.
«Perché questa
domanda?» replicò, sciogliendo l'abbraccio. Quando qualcuno – a
prescindere da chi fosse – faceva il minimo riferimento
all'argomento “Justin”, sentiva l'impellente bisogno di doversi
allontanare da tutti.
«Be’,
hai promesso a tuo figlio un pomeriggio con Justin.»
«Rettifica.»
Brian sorrise sprezzante. «Se ben ricordo, tu
hai promesso a mio figlio un pomeriggio con Justin.» la fissò in
silenzio per qualche istante e prese un sorso di birra. «Comunque
sia, non c’è
alcun problema.»
«Sei spaventato?»
gli chiese e lui roteò gli occhi scocciato, emettendo un mugugno di
fastidio.
«Da cosa?»
«Dal fatto che
lui sia qui.»
«Perché
dovrei?!» esclamò, con un’espressione
stranita.
Linz arricciò le
labbra e rispose, con un tono di ovvietà. «Per come sono andate le
cose, e perché lo ami.»
«Chi ti dice che
lo amo ancora?» replicò saccente. «Perché tutti lo date per
scontato?»
«Perché
è così, anche se ti ostini a non volerlo ammettere, ami Justin più
di qualsiasi altra cosa.» gli si fece nuovamente vicina e lo
costrinse a guardarla negli occhi. «Non l’avresti
lasciato libero, se non lo amassi così tanto.»
«Stiamo parlando
di un anno e mezzo fa. Chi ti dice che non siano cambiate le cose?»
«Il
fatto, ad esempio, che sai esattamente quanto tempo è passato da
quando se n’è
andato...» ammiccò, picchiettando con l’indice
sul suo petto. «...quando non ricordi neanche il compleanno di tua
madre.»
«Non vedo perché
dovrei ricordarmelo.» ribatté prontamente, tentando invano di
metterla a tacere.
«Oppure da come
lo guardavi quando vi siete incontrati. Ti sei pietrificato.»
continuò lei, ignorando e mandando in fumo i suoi tentativi di fuga.
«Ero solo
sorpreso nel vederlo lì.» scrollò le spalle e inarcò le
sopracciglia. «Niente di più.»
«Bugiardo.» lo
canzonò Linz. «Comunque sia, libero di continuare a negare la
realtà dei fatti a tutti noi, ma non farlo con lui. Digli che lo ami
ancora.»
Brian restò in
silenzio per un attimo, a sostenere lo sguardo di lei, per poi
sospirare e guardare oltre la finestra. «Perché dovrei farlo?»
borbottò e si sentì immediatamente avvolgere da un abbraccio.
«Perché ne ha
bisogno. Ne ha bisogno lui di sentirlo, quanto tu hai bisogno di
toglierti questo peso dallo stomaco.»
L’uomo però non
rispose, si limitò a inspirare profondamente e a trattenere l’aria
dentro di sé per qualche secondo, prima di espirare, come se in quel
modo potesse gettar fuori ogni preoccupazione. Si allontanò di un
poco da Linz e le sfiorò le labbra con le sue, prima di prendere a
osservarla intensamente. «Parla con Mel.» mormorò poi. «Tornate a
casa.»
*'*'*
«Il bluastro
cadavere non ti dona molto tesoro, quindi che ne dici di riprendere a
respirare prima di morire per asfissia?» esordì ironico Jace, tra i
risolini di Daphne, picchiettando sulla sua spalla.
Justin gli rivolse
un’occhiata scocciata e fece una smorfia. «Devo ridere?»
«Non era una
battuta. Non scherzo quando dico che non hai una bella cera.»
sollevò un lato del labbro e lo scrutò attentamente. «Mia nonna
aveva il tuo stesso colorito quando ha tirato il calzino. Santa
Lilian, che Dio l'abbia in gloria! Aveva dei foulard di seta
favolosi.»
«Grazie, Jace.»
commentò l'altro acido. «Ora sì che mi sento meglio. Tu sì che
sai come tirare su il morale delle persone!»
«Coraggio Justin!
Smettila di fare la checca melodrammatica!» gli disse Daphne,
punzecchiandolo sulla spalla.
«Ricordatemi di
non portarvi mai più in giro insieme.» replicò, passando gli occhi
blu tra i suoi amici. «Piuttosto pranzo a cianuro e cicuta!»
«Che ti dicevo,
Daphne?» Jace incrociò le braccia e prese a scrutare l’artista con
fare esperto. «Questa è la tipica ‘RDCS’.»
«La che?»
domandarono gli altri due all’unisono.
«‘Reazione
da chiappa stretta’.»
puntualizzò annuendo. «In poche parole ti stai cagando addosso e
stringi le chiappe per evitarlo, il che ha come conseguenza
sudorazione e sbiancamento della faccia. Il fatto che poi trattieni
il fiato, contribuisce a donarti quella tonalità bluastra tipica di
un cadavere.»
«Grazie per la
diagnosi, Doctor House.» gli rivolse un sorriso tirato e si
scostò un ciuffo biondo dalla faccia con fare nervoso. «Pensi di
aver finito?»
«Avanti Taylor,
rilassati! Non devi mica tenere un discorso per il Golden Globe!»
«No, infatti.
Forse sarei meno agitato.» deglutì forzatamente e si stropicciò le
mani sudate. «Che ore sono?» chiese poi rivolto a Daphne e la vide
roteare gli occhi scuri, prima di ammiccare verso Jace.
«Neanche cinque
minuti in più di prima.» replicò saccente. «Justin, datti una
calmata. È solo Brian!»
«È
proprio il significato di quel ‘solo’
che stona nella frase.» rettificò lui, sempre più nervoso. Erano
arrivati da poco più di cinque minuti al Diner, dopo che Linz l’aveva
chiamato per concordare l'appuntamento, e già non ne poteva più di
aspettare. I secondi parevano ore. «È
proprio perché è lui che mi sento così. L’hai visto come ha
reagito quando mi ha visto?»
«Sì, era nervoso
e sorpreso esattamente quanto te.»
«Era scocciato,
quasi infastidito.»
«Dio, Justin.
Possibile che dopo tutti questi anni ancora non hai imparato a
decifrare le espressioni di Brian?» gli si fece più vicina e gli
sorrise. «Credimi quando ti dico che devi stare tranquillo e che non
ti ha dimenticato. Tu non c’eri a Pittsburgh, ma io sì...e so quello
che ho visto! Devi solo dargli il tempo di digerire l’idea. Non è
facile per lui.»
«‘Non
è facile per lui’.»
ripeté sarcastico. «E a me e ai miei nervi chi ci pensa?»
«Valium e
Prozac?» propose Jace, ma dall’occhiata che ricevette capì che non
era una buona idea. «Comunque sia, fossi in te comincerei ad
asciugarmi quelle mani umidicce e mi darei una sistemata.»
«Perché?»
domandò Justin incuriosito.
«Quante Corvette
verde bottiglia con la cappotta bianca ci sono a Pittsbugh?»
«Suppongo una.
Quella di Brian.»
«Perfetto, allora
ti comunico che Brian è appena arrivato.» sorrise
furbescamente e fece schioccare la lingua. «Ha appena parcheggiato.»
Se gli avessero
tirato un macigno sullo stomaco, probabilmente sarebbe stato molto
meglio. Il vuoto che aveva sentito improvvisamente scavargli dentro,
non era niente paragonato a quello che aveva provato quando l’aveva
rivisto dopo più di un anno.
Era certo che
sarebbe svenuto da un momento all’altro, se solo non avesse costretto
il suo cuore a regolare i battiti e i suoi polmoni a riaccogliere
l’aria e funzionare correttamente; ed era altrettanto certo di non
essere mai stato tanto spaventato in vita sua.
In fondo si
trattava di un semplice pomeriggio in compagnia di Gus, e vista la
presenza del bambino, forse non avrebbero potuto neanche parlare
liberamente. Eppure il solo pensiero di dover trascorrere anche solo
qualche minuto con lui, lontano dagli occhi indiscreti di quei
pettegoli – perché per quanto gli volesse bene, era quello che
erano – dei suoi amici, lo mandava letteralmente in tilt. «Ok,
adesso sono davvero agitato.»
«Respira Jus.
Respira.» gli prese le mani e le strinse appena. «Respira e
inspira. Respira e poi inspira.»
«Jace, non devo
partorire!»
«Dalla faccia che
ti ritrovi sarei quasi disposto a scommettere il contrario.»
«Sempre più
incoraggiante.» sibilò minaccioso.
«Datti un
contegno, sorgi e splendi raggio di sole. Il tuo principe è
arrivato.» e a conferma delle sue parole, il trillo del campanellino
si disperse nell’aria, seguito dal quello della porta che si apriva e
si richiudeva.
«Justin!» si
sentì chiamare da una vocina cristallina e portando lo sguardo verso
quella direzione, vide quel piccolo e bellissimo uragano che
rispondeva al nome di Gus, corrergli incontro.
Seppur con un
sorriso lievemente tirato per l’agitazione, Justin riuscì ad alzarsi
e accogliere il bambino, sollevandolo per abbracciarlo. Lo fece
sistemare con le gambe ben salde al suo fianco, così come erano
sempre stati abituati a fare e lo riempì di baci sulla fronte e
sulle guance morbide. «Ciao Gus! Sei sempre più bello e grande.»
Il bambino sorrise
e si voltò un poco verso il padre che era rimasto in disparte a
godersi la scena con una punta di malinconia. «Hai visto papà?
Justin è venuto davvero!»
Brian sollevò
appena uno degli angoli della bocca. «Ho visto.» annuì e si
strinse nelle spalle. «Allora...andiamo?»
Justin restò a
fissarlo in silenzio ancora per qualche istante.
A occhi esterni,
Brian poteva apparire come la persona più tranquilla del mondo, ma
dalla linea della mascella squadrata leggermente indurita, dal modo
in cui teneva inarcate le sopracciglia e da come i suoi occhi si
muovevano, riuscì a capire quanto in realtà fosse nervoso; forse
anche più di lui e altro non gli restava che comprenderne il perché.
Non era pronto a
giurare che fosse per amore, specie dopo aver visto quel Brandon
uscire dal suo palazzo, ma non poteva neanche rimandare ancora per
molto. Doveva sapere la verità e se solo le sue paure si fossero
avverate, avrebbe “semplicemente” dovuto imparare a sopravvivere
senza avere più un cuore.
Si voltò per fare
un cenno si saluto a Jace e Daphne e fece qualche passo incerto verso
Brian. Riposò il bambino a terra e accolse con un sorriso quella
manina piccola e morbida nella sua, quanto Gus gliela porse
silenziosamente, concedendo l’altra a suo padre.
Justin lanciò
un’occhiata imbarazzata a Brian, ma vedendo gli occhioni brillanti di
speranza del bambino, non riuscì a trattenersi dal sorridere
apertamente: «Andiamo.»
“Special needs” - Placebo
Nonostante il
vento continuasse a sferzare la faccia di entrambi, il sole
splendente riusciva comunque a scaldarli.
Continuando a
tenere Gus per mano, Brian e Justin passeggiavano fingendo
disinvoltura e tentando di distrarsi e allontanarsi dai pensieri che
si arrovellavano e avvicendavano nella testa di entrambi, insieme
alle preoccupazioni, ascoltando le storie che il bambino si premurava
di raccontare con entusiasmo sulla sua vita a Toronto: «Papà, lo
sai che la maestra ha detto alla mamma che sono bravissimo e faccio i
conti come i bambini più grandi?»
«Lo so, lo so.»
gli sorrise lui. «E sono fiero di te.»
«E poi ci hanno
portato al museo e ho visto un sacco di cose. E ho fatto tanti
disegni, sai?» si voltò verso Justin e saltellò sorretto dalle
mani dei due adulti. «Justin, quando vieni a Toronto te li faccio
vedere!»
«Non vedo l’ora.
Diventerai sicuramente un’artista migliore di me.»
«E poi allora
anch’io sarò come te e papà? E andremo nei posti tutti e tre
insieme?»
«Ah...sì.»
balbettò incerto. «Sarai sicuramente bravo come tuo padre.»
«Anche meglio.»
continuò Brian, incoraggiandolo.
«E avrò una
macchina bella bella, come quella di papà e un castello con i
cavalli!»
«Io non ho i
cavalli. Solo le scuderie.» rise l’uomo, accarezzando la testa con
la mano libera, senza accorgersi di come Justin lo stava fissando
stupito dopo le parole del bambino.
C’era solo un
castello a cui Gus poteva riferirsi. «Britin...» mormorò allora,
facendo sì che quegli occhi verdi si posassero a incontrare i suoi
blu. «Non...non l’hai venduta?»
Brian scrollò le
spalle. «Mi avanzavano abbastanza soldi per poterla tenere senza
problemi.»
Justin annuì,
come per fargli intendere che aveva compreso e arricciò le labbra.
«Ma...non ci vai mai? Cioè, vivi ancora al loft?» si sforzò di
chiedergli, lasciando che nel suo cuore nascesse la speranza che
Brian si fosse trasferito a Britin, così da potersi augurare che
Brandon non fosse in quel palazzo per lui. La gelosia lo stava
letteralmente divorando senza pietà.
«No. Vivo ancora
al loft.» replicò invece e a Justin parve di sentire il suo cuore
tremare. «Non ho toccato niente là. È
rimasto tutto come quando l’ho comprata.»
«Capisco.»
borbottò, abbassando lo sguardo deluso senza più proferire parola,
limitandosi ad ascoltare i racconti del bambino e a sorridergli di
tanto in tanto finché non raggiunsero il parco, dove Gus, dopo aver
chiesto il permesso al padre, corse a giocare in compagnia di altri
bambini, eliminando l’unica flebile barriera che ancora lo teneva
lontano dal confronto diretto con Brian.
Si
sedettero su una panchina di legno, entrambi con le labbra serrate
dal nervosismo e tennero gli occhi puntati sul bambino, fino a quando
non fu proprio Brian a rompere il ghiaccio: «Allora, Taylor.
Come procede a New York?»
Justin gli lanciò
un’occhiata furtiva e si protese in avanti, appoggiando gli
avambracci sulla cosce e unendo le mani per torturarsele. «Abbastanza
bene. Vorrei solo avere più tempo per me.»
«Il prezzo della
fama.»
«Sì, suppongo
sia così.» mormorò, fissando un punto a caso davanti a sé. «Forse
però ci sono riuscito a ritagliarmi un po’
di tempo libero.»
«Deb ti ha
minacciato di morte?» commentò sarcastico, prima di tirar fuori
dalla tasca del cappotto elegante il pacchetto di sigarette per
prenderne una e offrirne una seconda a Justin.
«Una cosa del
genere.» replicò, afferrando il filtro con due dita e portandoselo
alle labbra. «Ma è stato il mio agente ad accorgersi finalmente che
ero in procinto di una crisi di nervi. Debbie ha solo contribuito con
le sue telefonate per farmi sentire in colpa.»
«Avresti dovuto
chiamarla più spesso.» accese la sua sigaretta con lo zippo e lo
passò all’altro, fingendo una tranquillità che in realtà non gli
apparteneva affatto. Dentro di sé sentiva ribollire la frustrante
sensazione di avere al suo fianco la persona che amava, unita al
bisogno martellante di baciarlo, che si scontrava con la paura di
lasciarsi andare. Era una vera esplosione di sentimenti contrastanti
e coincidenti; e non aveva la più pallida idea di come gestirla.
«Anche tua madre, Daphne e tua sorella erano piuttosto arrabbiate.»
«Lo so, mi hanno
fatto una bella lavata di capo.» si sforzò di sorridere e prese una
profonda boccata di fumo, cercando di nascondere i fremiti che lo
attraversavano continuamente. «Avrei voluto chiamarle, ma ero sempre
di corsa tra una mostra e l’altra
e...» si mordicchiò le labbra e si sistemò una ciocca di capelli
biondi dietro l'orecchio. «...non era così facile.»
«Lo so.» replicò
Brian semplicemente; e lo sapeva davvero. Sapeva benissimo cosa
significava passare minuti a fissare il telefono, tra la speranza di
sentirlo squillare e vederci il nome di Justin impresso sul display,
e la voglia di comporlo di propria intenzione quello stesso numero
per poter sentire anche solo per un istante quella voce che gli
mancava da morire. Non era stato facile desistere dal chiamare, ma
allo stesso tempo era stato ancora più difficile trovare il coraggio
di farlo.
«Alla Kinnetik?»
chiese, per non lasciar cadere nel vuoto la conversazione.
«Tutto nella
norma. Siamo sempre i migliori.»
«Sì, lo
immaginavo.» sorrise e l’osservò con la coda dell’occhio. «Anche
al Babylon sembra che gli affari vadano bene.»
«E tu che ne
sai?» domandò sorpreso, con la fronte aggrottata, finché non gli
balenarono le parole di Michael nella testa. «Mickey c’aveva
visto giusto allora...»
«Eh già.»
Brian continuò a
fissarlo in silenzio, per poi sospirare e costringersi a tirar fuori
quelle parole che gli si erano incagliate nella gola fin dal primo
momento in cui i suoi occhi avevano incrociato quelli dell’altro.
«Per quanto ti fermerai?»
«Ancora non lo
so.» ribatté, un po’ confuso da quella inaspettata domanda. «Gary,
il mio agente, ha detto che proverà a lasciarmi libero almeno fino a
Natale.»
«È un bel po’
di tempo.» mormorò, mentre uno squarcio andava ad aprirglisi
improvvisamente nel petto; uno squarcio liberatorio, da cui poté
lasciar uscire il suo dolore e le sue paure, per rilassarsi almeno un
po’ dopo più di un anno passato a torturarsi nel ricordo di qualcosa
che temeva di non poter più riafferrare. Un mese. Trenta giorni in
cui poter ancora respirare e godere ancora della sua presenza. Aveva
paura perfino a crederci.
«Poco meno di un
mese, ma mi ha detto di non potermelo garantire. Potrei dover tornare
a New York da un momento all’altro.»
«Da come lo dici,
sembra quasi una chiamata alle armi.» cercò di suonare ironico, ma
quel suo “potrei dover tornare a New York da un momento all'altro”,
era stata un’inevitabile pugnalata.
New
York. Comincio seriamente ad odiarla quella cazzo di città.
«Non è poi così
diverso da una guerra.» sorrise Justin e si sciolse un po’, tornando
a respirare regolarmente. «Ancora non ho capito se tutto questo fa
per me.»
«Era il tuo
sogno.» commentò Brian, posando per la prima volta il suo sguardo
sull’altro.
«Le cose non sono
sempre come le immagini.» replicò con una scrollata di spalle e
vide l’uomo increspare le labbra in un sorriso appena accennato, che
pareva avere una punta di amarezza dentro.
«No, non lo
sono.» convenne, arricciando la bocca, per poi ridistenderla e
percorrerla interamente con la punta della lingua. «Non lo sono
quasi mai.»
Justin si perse
nei suoi pensieri, mentre con lo sguardo percorreva ogni millimetro
dello splendido volto che gli si mostrava davanti. Ancora non
riusciva realmente a credere di esser riuscito a incontrarlo ancora;
di aver sentito ancora quella voce profonda che era stata capace di
fargli provare ogni sorta di emozione.
Guardò a quelle
labbra piene, ricordando il momento in cui avevano pronunciato quelle
due parole che aveva agognato per cinque lunghi anni. Lo poteva
sentire distintamente il loro suono perfetto rimbombare nella sua
testa come una cantilena da cui prescindeva la sua felicità.
Ti
amo. Ti amo.
Erano ancora lì.
Perfettamente intatte come se le avesse appena pronunciate e ancora
costringevano il suo cuore a una corsa a rotta di collo, fino allo
stremo.
Non riusciva
neanche a immaginare cosa avrebbe detto, dato o fatto per
sentirgliele ripronunciare anche una sola volta, ed era inutile dire
che, il solo pensiero che potesse rivolgerle a qualcun altro, o che
qualcun altro si fosse appropriato di quel posto che una volta era
suo e che mai avrebbe voluto abbandonare, lo spaccava a metà e lo
svuotava completamente.
Non ci volle molto
perché quei pensieri si collegassero automaticamente alla notte
precedente e alla scena che aveva visto e che l’aveva spinto a
decidere di tornare immediatamente a New York; e ci volle ancora meno
– che quasi non se ne accorse – perché le sue labbra si
muovessero per pronunciare una frase: «Stai con Brandon adesso?»
Brian si voltò
interdetto e insicuro su ciò che aveva sentito. «Come?»
«Hai capito.»
deglutì e strinse i pugni. «È
il tuo compagno, il tuo amante o la tua nuova scopata abitudinaria?»
L’altro non
rispose immediatamente. Lo fisso sorpreso, prima di sollevare una
delle sopracciglia e lasciarsi sfuggire una risata. «Di che cazzo
stai parlando?»
«Rispondi.»
pronunciò quasi con rabbia, per poi costringersi alla calma,
chiudendo gli occhi per un istante. «Rispondimi. Per favore.»
«No.» replicò e
non gli sfuggì il guizzo di sollievo che andò a illuminare quelle
iridi blu chiaro. «Non è la mia ‘scopata
abitudinaria’, non è
il mio ‘amante’
e...» rise ancora e concluse, decisamente incredulo e divertito.
«Cazzo no, non è neanche il mio fottuto ‘compagno’.
Da dove ti spuntano queste idee, raggio di sole? Non starai
esagerando con qualche droga come ogni artista che si rispetti?»
«No, no.» si
affrettò a rispondere e non poté non muovere le labbra in uno dei
suoi sorrisi luminosi e perfetti, dopo aver sentito quel buffo
soprannome pronunciato proprio da lui. Gli era mancato così tanto
sentirlo. «È solo che
vi ho visti insieme.»
«Io vado al
Babylon, lui anche.» scrollò le spalle e aggiunse: «Capita di
trovarsi lì.»
«L’ho visto
uscire dal tuo palazzo. Ieri notte.»
«Che fai? Mi spii
adesso?» rise, dopo averlo squadrato con la fronte aggrottata.
«Pensavo ti fosse passata da un po’ la fase di ‘stalker
adolescenziale’.»
«Avevo solo
bisogno di parlarti.» ammise sincero, quasi vergognandosene. «Ma
quando l’ho visto, ho abbandonato i miei propositi. Ho pensato
davvero che ci fosse qualcosa tra voi.»
«Capisco.»
borbottò Brian, annuendo con la testa. «E...cosa volevi dirmi?»
chiese, fingendo di non essere troppo interessato, quando in realtà
stava scalpitando per saperne di più.
Justin deglutì a
fatica e tornò a fissare il selciato, incapace di rispondere.
Avrebbe voluto
semplicemente urlare che lo amava ancora e che aveva un disperato
bisogno di lui. Che gli era mancato, che non voleva più fare a meno
della sua presenza. Avrebbe voluto gettarglisi al collo e baciarlo;
respirare il suo odore e stringerlo forte per piangere sul suo petto
e sfogare tutta la rabbia e la tristezza per non averlo avuto accanto
in tutto quel tempo. Avrebbe voluto fare e dire tante cose, ma come
al solito, scelse una sola e chiara frase per riassumere tutto: «Che
sei ancora l’unico che voglio.»
Brian nascose
dietro un lieve sorriso la sorda esplosione che era gli avvenuta
esattamente al centro del petto, quando con estrema semplicità aveva
sentito le parole che ogni giorno aveva sperato di udire. L’aveva
desiderato così tanto da non crederci quasi più, e invece Justin
era lì, davanti a lui che lo guardava con occhi speranzosi e un
sorriso timido, opacizzato dalla preoccupazione per la sua reazione.
Aveva pregato ogni santo secondo della sua vita perché quel
momento arrivasse e finalmente era stato esaudito. «E tu sei ancora
il solito patetico ragazzino romantico.»
«Per fortuna
certe cose non cambiano mai.» rispose Justin spavaldo, conscio che
il sorriso dell’altro e quella sua frase sarcasticamente acida
stavano solo a dimostrargli quanto in realtà era felice.
Restarono a
fissarsi. Entrambi con un sorrisetto impertinente, quasi di sfida, a
increspargli le labbra; e quelle stesse labbra avrebbero voluto unirle
in quel preciso istante, per staccarle solo quando non avessero avuto
più fiato, se solo il cellulare di Justin non gli avesse strappati e
riscossi da quel momento perfetto che erano riusciti faticosamente a
creare. «Scusa.» borbottò l'artista e rispose dopo aver sbuffato.
«Ciao Gary. Dimmi.»
«Ehi, è morto
qualcuno?» rispose l’altro interdetto.
«No, no. Tutto
ok. Dimmi.»
«Dal modo
telegrafico in cui mi stai rispondendo devo forse dedurre di aver
scelto un momento sbagliato?»
Justin lanciò
un’occhiata furtiva a Brian e lo vide visibilmente scocciato. «Non
preoccuparti. Hai qualche novità?»
«Effettivamente
sì. Sembra ci sia qualche riscontro positivo anche per allestire
qualche altra tua mostra in Canada, a Ottawa.»
«Ah, fantastico.»
commentò atono e privo di entusiasmo.
«Immagino. Dalla
voce con cui l’hai detto. Comunque sia, per adesso non dovrebbe
essere prevista la tua presenza, quindi la tua vacanza non è
rovinata.»
«Ok.» sorrise e
riprese a respirare. Aveva trattenuto il fiato temendo di sentirsi
dire di dover già rientrare. L’avrebbe ucciso, se solo ci avesse
provato. «Questo sì che è davvero fantastico.»
«Molto
divertente, Taylor. Arriverà il giorno in cui prenderai sul serio
tutte queste persone che ti venerano come un dio?»
«Nah, non credo.»
rise e osservò con la coda dell’occhio l’uomo sedutogli accanto,
trovandolo anche più infastidito di prima, a braccia conserte mentre
passava lo sguardo in ogni dove e in modo frenetico. «Ti devo
lasciare adesso. Ci sentiamo presto, ok?»
«Ok. Ma ricordati
i tuoi impegni.»
«Lo farò. Stai
tranquillo.» cercò di rassicurarlo e dopo aver attaccato tornò a
rivolgersi a Brian. «Scusami. Notizie da New York.»
«Buone o
cattive?» si sforzò di chiedergli, anche se non aveva nessuna
voglia di sentir parlare di quella città.
«Buone, credo. Il
mio agente ha parlato di una personale a Ottawa, o qualcosa del
genere.» farfugliò, e quando vide lo sguardo lievemente allarmato
di Brian posarsi su di lui, si affrettò a rispondere: «Ma non devo
andare. Posso restare qua.»
«Ok.» mormorò
semplicemente, mentre dentro di sé aveva sentito distintamente la paura assalirlo
ancora. Non poteva vivere così; non poteva vivere con il costante
terrore di vederselo portare via in ogni fottutissimo momento. Non
riusciva a pensare di poter andare avanti con il timore di poter
essere abbandonato ogni volta che provava a concedersi di essere
felice con la persona di cui era innamorato. Era meglio troncare la
cosa sul nascere...farsi del male subito, quando la ferita che ne
sarebbe conseguita, forse non lo avrebbe squarciato del tutto. Forse
era ancora in tempo a riabituarsi al malinconico limbo in cui si era
rifugiato e rinchiuso quando Justin se n’era andato. Poteva ancora
tornare a fingere di vivere e arrancare facendo a meno di lui? «Già,
ma adesso appartieni a New York.» si sforzò di dire, anche se ogni
parola gli bruciava la gola. «Il tuo posto è là, a conquistare il
mondo.» deglutì a fatica, senza avere il coraggio di guardare in
faccia il ragazzo al suo fianco e richiamò suo figlio: «Gus
andiamo, papà deve controllare un paio di cose alla Kinnetik.»
«Di già?»
borbottò il bambino.
«Sì campione, ma
ci vediamo più tardi.» gli sorrise appena e fece per alzarsi e
andarsene.
«Aspetta.» lo
fermò Justin, senza nascondere la delusione nella sua voce.
«Che...che significa?»
«Significa che tu
hai la tua vita a New York e che io ho la mia qua.»
«Lo so che hai la
tua vita qua, ma non vuol dire che...»
«Justin.» lo
interruppe, cercando di apparire freddo. «Devo andare. Ci si vede.»
Non avrebbe voluto
arrendersi così, né lasciarlo andare...ma lo sguardo freddo che gli
aveva rivolto, lo aveva semplicemente lasciato senza forze.
Se c’era una cosa
che aveva imparato negli ormai quasi ventiquattro anni della sua
vita, è che spesso non si può tornare indietro dopo aver fatto una
scelta; che le cose che ti lasci alle spalle non restano immutate ad
aspettare un tuo eventuale ritorno, ma vanno avanti, esattamente come
tutto il resto.
Non c'è niente di
dovuto, né di garantito. Di quello che lasci, resta certo solo il
ricordo...e osservando Brian allontanarsi per la mano con suo figlio,
capì che probabilmente, non avrebbe ricevuto altro da lui.
***
Note Finali:
Ok...penso di poter scappare velocemente dal lancio dei pomodori marci! XD
Forse questo Brian mi sta uscendo anche più ottuso di quanto non
sia già...ma prometto di farlo rinsavire al più presto,
anche perché, mica posso far impazzire solo i cari "Britin"...
è ovvio che io debba riservare qualche sorpresa anche per gli
altri! XD
Scommetto che ci sarà qualcuno che detesterà Brandon
anche più di prima, io invece - non chiedetemi perché -
mi sto divertendo a scrivere di lui...non ha molto senso, ma mi fa ridere l'idea di veder Brian e "riccioli d'oro" confrontarsi ancora.
XD Insomma, tanto per intendersi, per quel che mi riguarda, il caro
Brandon non si guadagna lo scettro di "essere più odioso del
telefilm"!
Diciamo che nella mia testolina, Michael e Blake si contendono il
secondo posto, mentre al primo...be', al primo non poteva esserci che
lui: Ethan Gold!
Mi sta talmente sulle balls, che non so neanche se riuscirò a scrivere di lui senza renderlo un perfetto cretino!
Quindi è probabile che forse eviterò la sua presenza...o
forse no, la utilizzerò per sfogarmi - tipo pungiball telematico
- ma una cosa è certa...se mai dovesse esserci, aspettatevi un Brian Kinney in versione Mike Tyson perché, QUI LO GIURO, se mai quel "cespuglio col violino" dovesse entrare a far parte dell'allegra combriccola di questa sesta serie, riceverà quel tanto desiderato pugno in faccia che ho agognato per tutto il telefilm!
C'ho sperato fino alla fine che, oltre che per Michael, ne riservasse
uno anche per Ethan...ma nulla, speranze vane... :( e va be'! Ci
penserò io, se mai dovesse spuntare la sua chioma ricciolosa e
unticcia.
Ma sorvolando ed evitando di divagare ancora con i miei sproloqui senza
senso, so di aver scritto un altro capitolo prettamente "Britin", ma vi
prego di avere pazienza, e presto torneranno anche gli altri personaggi
- adorati e non - con tutti i loro problemi da affrontare... XD
Spero comunque vi sia piaciuto anche questo capitolo, nonostante i pomodori che vorrete lanciarmi per il finale!
Vi comunico che il prossimo capitolo dovrebbe essere previsto per venerdì 5 Agosto [non Luglio come avevo scritto prima XD scusate, sono fusa],
dopo di che passerà qualche giorno in più per la
pubblicazione, dato che - finalmente - parto per la Grecia! :)
Ok, direi che posso passare alla cosa più importante: Ringraziamenti!
Un grazie a tutti coloro che hanno letto, a chi ha messo la storia tra le seguite, le ricordate o le preferite, ma soprattutto a:
electra23, Katie88, Katniss88, Thiliol, OferliaCuorDiGhiaccio, susyjames, mindyxx, Hel Warlock, oo00carlie00oo, FREDDY335, giacale, asterix_c, Clara_88 e EmmaAlicia79 per aver recensito l'ultimo capitolo! GRAZIE DAVVERO.
Un bacio e a presto.
Veronica.
|
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Capitolo 7 *** I still love you, afterall. ***
7.I still love you, afterall.
6x07] – I still
love you, afterall.
[capitolo betato da Trappy]
Con qualche
“piccola” difficoltà e l’aiuto di un divertito passante, riuscì
a parcheggiare la sua adorata spider in modo più o meno decente e
scese facendo attenzione a non sbattere e sciupare il rosso acceso
della vernice.
Se solo Brian
l’avesse vista, non avrebbe esitato a prenderla in giro e ricoprirla
di quei luoghi comuni sulle donne incapaci di guidare che tanto lo
divertivano; specie quando si trattava di infierire su di lei.
Era per questo che
ogni volta parcheggiava abbastanza lontano dalla Kinnetik e
sopportava almeno cento metri di strada sui suoi tacchi vertiginosi e
rigorosamente firmati, per raggiungere il suo posto di lavoro. Non
voleva certo dare a quel sadico del suo capo un altro motivo per
punzecchiarla apertamente durante ogni loro incontro!
Sbuffò
contrariata e si affrettò a percorrere la strada illuminata dai
lampioni, ticchettando sull’asfalto con i suoi adorati e nuovissimi
decollété in vernice nera, ammirandoli attraverso il riflesso delle
vetrine, finché non raggiunse la sede della Kinnetik e aprì con le
sue chiavi, entrando in quel posto minimalista e di classe, che
rispecchiava perfettamente il suo elegante proprietario.
In quei giorni
l’azienda era chiusa per via delle vacanze, e le fece un po’ effetto
percorrere i pochi corridoi solitamente pieni di persone che
scattavano da una parte all’altra – soprattutto nell’ultimo
periodo, da quando Brian era diventato un tutt’uno con quell’aura
nera e rabbiosa che aveva iniziato a circondarlo da quando il suo
raggio di sole aveva preso il volo per New York – in quel
momento vuoti e silenziosi; immersi in una penombra che gli donava
quel non sapeva cosa di surreale.
Un po’ titubante,
per via del suo essere sempre così suggestionabile – e forse anche
per colpa dei thriller che guardava continuamente sul divano di casa
sua, munita di cucchiaio e vaschetta di gelato, come la più triste
delle single trentenni della sua città – zampettò fino alla sua
scrivania per riprendere il palmare che aveva dimenticato il giorno
prima, finché non udì l’eco di alcuni passi provenire proprio
dall’ufficio di Brian.
Scosse la testa,
convinta si trattasse di un’altra sua stupida paranoia, quando udì
distintamente il rumore di un cassetto sbattuto. Deglutì a forza e
spaventata, afferrò la lampada della scrivania, staccandone la
spina, e si preparò a contattare la polizia. Abbandonò le sue
adorate scarpe, lanciando loro un bacio e avanzò furtiva fino alla
soglia. Sollevò la lampada, pronta a colpire e fece capolino per
sbirciare oltre l’angolo, quando una voce la sorprese alle spalle:
«Che cazzo stai facendo?»
Balzò per lo
spavento e con il cuore a mille si affrettò a voltarsi e a lanciare
la lampada senza neanche guardare il suo interlocutore. Solo grazie
alla sua solita sfacciata fortuna e i riflessi pronti, Brian riuscì
a schivarla. «Oh Santo Dio!» esclamò lei, resasi conto che chi
aveva appena tentato di ammazzare, non era un ladro ma il suo capo.
«Che cazzo ci fai tu qui?!»
Brian la fissò
stranito e contrariato, prima di superarla e raggiungere la sua
costosa poltrona. «Uhm...questa è la mia agenzia, questa è la mia
scrivania e questi sono i file della Brown Athletics.» piegò le
labbra all’interno della bocca e sbatté le ciglia, per poi
concludere con sarcasmo: «Lavoro. Tu che dici?»
«Lavori?» storse
le labbra lei. «Il giorno prima del Ringraziamento, tu lavori?»
«Che ci vuoi
fare. Sono un capo diligente che vuole avere perfettamente sotto
controllo l’andamento della sua proficua azienda.» lasciò ricadere
i fogli sulla scrivania e si appoggiò allo schienale, con le mani
incrociate sulle gambe accavallate. «Tu piuttosto che cazzo ci fai
qui?»
«Ero tornata a
prendere questo.» disse e agitò il palmare che ancora teneva ben
stretto tra le mani. «L’ho dimenticato ieri.»
Brian annuì e
girò la poltrona per avvicinarsi alla scrivania. Poggiò gli
avambracci sul bordo e si apprestò a leggere i documenti, quando si
accorse che la sua assistente non aveva mosso un passo. Sollevò gli
occhi scocciato e stirò le labbra in un sorriso infastidito. «Che
cazzo c’è ancora?»
Cynthia scrollò
le spalle e sospirò con le labbra arricciate e un’espressione
pensosa. Si sedette su un lato della scrivania, ignorando le
occhiate contrariate di lui e sorrise. «Allora capo...quale
frustrante e insormontabile problema si sta arrovellando nella tua
testolina gay?»
«Credo di non
aver capito bene...» sibilò, con le sopracciglia inarcate.
«Lo fai sempre.»
«Agatha
Christie, che ne dici di farla
finita col mistero e venire al sodo?» piegò la testa di lato e la
squadrò con la sua solita espressione sprezzante. «Come vedi sarei
un tantino impegnato e vorrei dedicare il minor tempo possibile alle
tue stronzate.»
«Vedi, ho
ragione.»
«Ma cosa?!»
«Diventi
irritabile.» rispose con ovvietà, prima di correggersi. «Cioè...più
irritabile del solito, e lavori come un pazzo quando c’è
qualcosa che non va.»
«E quindi?»
domandò, allargando le braccia e gettando la penna sui fogli.
«Quindi, cosa
turba il mio adorato, brillante e meraviglioso capo?»
Brian sorrise, per
poi sbuffare con ironia. «Se stai cercando di ottenere un aumento
puoi scordartelo.»
«No, ma se vuoi
darmelo non rifiuterò.» replicò immediatamente lei. Lavorava da
così tanto tempo con lui che ormai sapeva dove andare a parare e
come tenergli testa. D’altronde, era proprio per questo suo modo
spiccio di essere che Brian si fidava di lei e l’aveva sempre voluta
al suo fianco. «Allora, vuoi dirmi o no cosa ti turba?»
«Niente,
Cynthia.» sospirò esasperato. «Adesso potresti farmi il grosso
favore di togliere il tuo culo dalla mia scrivania e andare a goderti
le tue cazzo di ferie come ogni stramaledetto dipendente di questo
posto?»
«Che razzista.
Solo perché il mio è il culo di una donna.» si finse offesa e lo
vide ridacchiare sinceramente. «Se fosse stato di un uomo non
l’avresti schifato così...o forse gli avresti chiesto di posarsi
altrove?»
Lui spinse la
lingua contro la guancia e la fissò con il suo classico sguardo
furbo e profondo, mentre sul suo viso si disegnava un’espressione
divertita. Anche se non l’avrebbe mai ammesso, Cynthia sapeva
benissimo quanto lui adorasse i loro battibecchi. Esattamente come li
amava lei. «Stai cercando di prendermi per esasperazione?»
«Di solito
funziona.» ribatté, con una scrollata di spalle.
«Buone vacanze,
Cynthia. E non strafogarti di tacchino o non ti entrerà più neanche
un tailleur.»
«‘Fanculo,
Brian.» lo apostrofò, sporgendosi per colpirlo sulla spalla.
«D’accordo. Tu non parli, allora lo farò io.» restò a fissarlo
per un attimo e si decise a pronunciare quel nome, pronta a
subirne anche le peggiori conseguenze. «È
per Justin, vero?»
«Esattamente, che
ti dice il cervello per farti credere una stronzata simile?»
«Non è il mio
cervello che me lo fa credere. È
Ted che mi ha detto che è tornato a Pittsburgh.»
Brian assottigliò
lo sguardo in un modo decisamente poco amichevole. «Io lo licenzio.»
«Lo dici sempre
ma non lo fai mai.»
«Bene, questa
volta lo faccio sul serio e licenzio anche te se non evapori
immediatamente fuori di qui.»
«Abbaia quanto
vuoi, capo. Non riusciresti mai a fare a meno di me e Ted.»
«Questo lo
vedremo.» ammiccò lui, e tentò invano di tornare al suo lavoro.
«Allora, vi siete
già incontrati?»
«Chi?» chiese
con voce esasperata, sollevando gli occhi al soffitto.
«Come chi? Tu e
Justin!» esclamò lei, corrugando la fronte, prima di cambiare la
sua espressione in una fin troppo entusiasta. «Immagino già la
maratona di scopate selvagge in cui vi sarete cimentati. Dio, quanto
invidio la vostra attività sessuale.»
«Trovati un bravo
uomo, sposati, metti al mondo un paio di pargoli e sfogati con loro
invece di fracassare i coglioni a me.»
«Il coglione.»
rettificò lei e lui le lanciò un’occhiataccia.
«Grazie per
avermelo ricordato.» commentò con velenoso sarcasmo.
«Prego. In fondo
è il mio lavoro: colmare le tue dimenticanze.»
Lui sbuffò
ancora, per poi lasciarsi ricadere nuovamente contro lo schienale con
un sospiro stanco e prolungato. «Non te ne andrai vero?»
«No.»
Brian si leccò le
labbra e scosse la testa, prima di sibilare telegrafico: «‘Sì, l’ho visto’ e ‘No,
non abbiamo fatto una maratona di scopate selvagge’.
Sei contenta adesso?»
«A dire il vero
no.» s’imbronciò Cynthia. «Ho scommesso cinquanta dollari con Ted
che appena vi foste rivisti avreste svegliato tutto il vicinato.»
«Bene. Dammi un
buon motivo per cui non dovrei davvero licenziarvi adesso?»
«Sempre lo
stesso. Perché non potresti stare senza di noi.» incrociò le
braccia soddisfatta e riprese: «Quindi niente sesso?»
«No, niente
sesso.» sbottò scocciato. «La vuoi piantare di trasformare la
mia vita in uno dei tuoi penosi e stupidi romanzetti rosa Harmony?»
«Io non leggo
quella roba!» esclamò, e lui sollevò le sopracciglia, lanciandole
un’occhiata eloquente. «Ok, a volte. Ma solo perché me li porta mia
madre.»
«Certo, certo.»
ridacchiò l’uomo e si passò il pollice sulla fronte. «Allora ciao
Cynthia. È stato un
piacere intrattenere questa frizzante conversazione con te...ora ti
puoi gentilmente togliere dalle palle?»
«Va’ da Justin e
scopatelo come si deve.» rispose invece contro le sue aspettative,
lasciandolo di stucco. «Che c’è? Che ho detto di strano? Tu usi
sempre certi termini.»
«È
quasi ora di cena.» mormorò lui, dopo qualche attimo di silenzio.
Riordinò i fogli e li gettò in uno dei cassetti. S’infilò il
cappotto e sospirò guardando il soffitto, leccandosi le labbra con
la punta della lingua. Spostò gli occhi scuri su Cynthia e le disse,
con fare arrendevole. «Andiamo a bere qualcosa?»
«Birra, hamburger
e patatine fritte che scoppiano di grassi con tanto di salsa, che
impiegherò mesi a smaltire e che manderanno a puttane la mia
dieta...» elencò fingendosi di pensarci su, prima di sorridergli
raggiante. «Certo che sì, capo!»
“My
life changed” – William Fitzsimmons
«Quindi, fammi
capire...» esordì Cynthia, mangiucchiando l’ultima patatina
ricoperta di ketchup. «Ricapitolando, Justin è ripiombato a
Pittsburgh con quel suo amico.»
«‘Checca’.»
la corresse Brian, appoggiato al tavolo in legno, guardandosi
distrattamente intorno e sorseggiando la sua birra. «È
questo che ho detto, non ‘amico’.»
«Sì, ok. Quello
che è.» soffiò scocciata lei. Era passata almeno un’ora da quando
erano entrati in quel bar, e il suo capo con tutte le sue risposte
ambigue, quelle lasciate a metà o terminate con un’espressione
indecifrabile, le aveva creato una confusione in testa degna del
peggiore enigma. «E non m’interrompere, altrimenti perdo il filo.»
Brian sollevò le sopracciglia e le mani, come per arrendersi e serrò
le labbra, così che lei potesse continuare con i suoi sproloqui.
«Allora, Justin è tornato con questa checca a Pittsburgh e
ti ha detto che forse resterà qui per almeno un mese.
Giusto?» lui annuì, con il pollice premuto sulle labbra e lei prese
una sorsata di birra, dopo essersi pulita le mani. «Quindi, dove sta
il problema? Scopate e amatevi allegramente per un mese e se mai
dovrà tornare a New York, deciditi a usare una buona volta quei
cazzo di biglietti aerei che mi fai prenotare e che puntualmente
getti nel cestino!»
«Non è
questo...» soffiò stanco lui, prima di essere interrotto.
«Che c’è? Il
meraviglioso Brian Kinney teme la concorrenza?»
«Quale
concorrenza?» domandò in un guizzo di spavalderia, con le
sopracciglia inarcate.
«La checca. Il
suo amico.»
«No. Quello al
massimo potrebbe andar bene per Emmett, non è certo il tipo di
Justin.»
«E il tipo di
Justin sarebbe?» rise lei. «Bellissimo e con charme, anche se più
grande di lui. Brillante, sagace e con un’azienda avviata
splendidamente?»
«Suppongo di sì.»
«Supponi?
Supponi?» esclamò incredula. «Brian Kinney non suppone un
cazzo di niente. Brian Kinney è solo e soltanto certezze.»
bevve la birra con gli occhi sgranati e si passò una mano tra i
capelli biondi. «Se inizi ad avere i dubbi esistenziali anche tu,
posso anche tornare a casa e tagliarmi le vene.»
Brian si lasciò
sfuggire una risata a prese a giocherellare con la bottiglia. «Che
modo triste e poco elegante per andarsene. Tutto quel sangue da
smacchiare.»
«E sentiamo, tu
che sceglieresti?»
Sollevò uno degli
angoli della bocca e ripensò al quel suo stupido “gesto estremo”
per i suoi tanto temuti trent’anni. In quel momento ne aveva trentacinque e pensò che se davvero Michael non l’avesse fermato,
avrebbe perso davvero troppe cose della sua vita. Troppi attimi e
ricordi che custodiva gelosamente nel profondo del suo cuore, anche
se alcuni spesso sapevano ferirlo profondamente. In fondo non era poi
così male la vita anche dopo il “tre-zero”. «Strafatto di
alcool e droga mentre mi faccio una sega, m’impiccherei nel mio
lussuosissimo loft, con una sciarpa candida di purissima seta
firmata. Armani s’intende.»
«Che classe,
capo.»
«Be’, se le cose
devi farle...falle con classe o non farle affatto.» ammiccò e bevve
ancora.
«E allora, sempre
con classe ovviamente, va’ da Justin.» replicò lei, con un
tono deciso, quasi lo stesse sgridando. «Potrebbe girare il mondo,
ma non troverà mai nessuno che sa dargli quello che puoi tu, perché
nessuno sarà mai come te e nessuno potrà mai condividere con lui
quello che avete condiviso voi due.»
«Una tragedia
dietro l’altra?» ribatté, strusciando svogliatamente la bocca della
bottiglia contro la fronte.
«Non fare il
melodrammatico. Non ti si addice e poi ti vengono le rughe.»
«L’hanno quasi
ammazzato spaccandogli la testa, ha dovuto occuparsi di me per mesi,
mentre non facevo altro che vomitare per la radioterapia e gli è
esplosa una bomba quasi addosso.» chiuse gli occhi e tentò di
respingere il ricordo delle mani di Justin mentre lo accarezzava e si
prendeva cura di lui. «Suo padre è un fottuto omofobo che l’ha
cacciato via da casa, il mio era un povero stronzo ubriaco che ha
passato gli ultimi anni della sua vita a spillarmi soldi, e quando
gli ho detto che sono frocio mi ha detto che avrei dovuto esserci io
al suo posto.» sorrise con amarezza e sollevò appena la bottiglia,
come se volesse brindare ironicamente alla sua memoria. «Figlio di
puttana, ce l’ha quasi fatta a farmi crepare come lui.» scosse la
testa e distese le labbra in un sorriso più sincero, dato dalla
soddisfazione di essere ancora vivo e vegeto, nonostante gli infelici
auguri di morte dategli da entrambi i suoi genitori dopo aver saputo
la verità. «Non sono certo rose e fiori. Bello schifo che abbiamo
da condividere.»
«Ma lui ama te e
tu ami lui.» insisté lei e gli sventolò la bottiglia davanti agli
occhi. «E non provare a dire il contrario o ti caccio questa su per
il culo.»
«Che finezza,
principessa.»
«Da quando sei
diventato un finocchio educato e schizzinoso?»
«Da quando le
lesbiche mi riempono di legnate ogni volta che accenno solo a mezza
parolaccia.» fece una smorfia di disappunto e terminò la sua birra.
«Non capisco perché poi. Tanto prima o poi mio figlio sarà anche
più sboccato di me.»
«Gus è a
Pittsburgh?»
«Sì, resterà
qui per il Ringraziamento.»
«Sembra che le
cose stiano prendendo la piega giusta, paparino innamorato.»
Brian roteò gli
occhi scocciato e le rubò la bottiglia dalle mani, per terminarla
con una sorsata. «Non stanno prendendo nessuna cazzo di piega. Tra
un mese al massimo tornerà tutto come prima.»
«Cazzo, Brian. Il
tuo pessimismo uccide.»
«Sono realista.»
rettificò, con lo sguardo assottigliato.
«Chiedigli di
restare.»
«A chi?» chiese
interdetto. «A mio figlio?»
«A Justin.»
«E togliergli la
possibilità di raggiungere la vetta e restarci ‘nei secoli dei
secoli, amen’?»
«Come se gli
importasse.» commentò lei con una scrollata di spalle.
«E tu che ne
sai?»
«Lo sanno tutti
Brian. Tutti meno che te hanno capito che lui non aspetta
altro che tu gli dica di tornare.»
«Fammi
indovinare.» mormorò, prendendosi il mento tra le dita. «Justin ha
parlato con Theodore...e il buon vecchio Theodore ha pensato di far
sapere a tutta l’azienda i cazzi del proprio capo.»
«D’accordo, lo
ammetto. Ted mi ha dato un aiutino...ma ci sarei arrivata anche da
sola!»
«Certo. Neanche
un paio d’ore che sono con te e ho già trovato almeno tre buoni
motivi per licenziarlo. Dovrei dirlo al resto dei dipendenti che sei
una cattiva influenza.»
«Non è vero.»
esclamò, ed entrambi indossarono i loro cappotti senza doversi dire
niente. Dopo tutti quegli anni sapevano bene quando uno dei loro
scontri era ormai giunto al termine. Erano in perfetto equilibrio.
«Allora, principe azzurro...sei pronto per andare a
riprenderti la tua principessa?»
«E tu sei pronta
per andare a recuperare la tua macchina a miglia e miglia dalla
Kinnetik perché non la sai parcheggiare, per poi strafogarti di
gelato davanti alla tv come una zitella patetica?» ridacchiò
alzandosi per pagare, con un’espressione visibilmente soddisfatta per
averla lasciata a bocca aperta e il cuore un po’ più leggero dopo
quella chiacchierata.
«E questo chi
cazzo te l’ha detto?»
«Indovina un
po’...» le sorrise, sollevando una delle sopracciglia.
«Credo che invece
andrò a preparare la lettera di licenziamento per Ted!»
*'*'*
Con lo stomaco
chiuso, ed uno strano peso a incombere sulle sue spalle, Justin, dopo
aver vagato per ore per la città, senza una vera meta e perso tra i
suoi pensieri e gli innumerevoli rimpianti, rientrò nell'albergo.
Si fece consegnare
la sua copia delle chiavi e salì fino alla sua stanza, pregando –
pur sapendo che fosse pressoché inutile – di essere solo per farsi
una doccia in pace e deprimersi sul letto.
Era quello di cui
aveva bisogno. Un po’ come quando aveva ancora diciannove anni e
passava il tempo a rimuginare e oziare nella stanza di Daphne con i
suoi sogni erotici in cui lui e Brian scopavano a mezz’aria.
Neanche a dirlo
però, le sue preghiere non vennero ascoltate.
Ad attenderlo,
disteso sul suo letto in accappatoio mentre sgranocchiava patatine,
c’era Jace, intento a seguire una di quelle sue penose soap opera.
Lo vide spostare
le sue iridi nocciola nella sua direzione e quel suo sguardo caldo si
addolcì immediatamente nel constatare le condizioni pietose in cui
versava. «Qualcosa mi dice che non è andata esattamente come
speravi...»
Justin sollevò le
sopracciglia, come per comunicare un “ma dai”, e si tolse la
sciarpa e il cappotto, per poi lasciarsi ricadere a peso morto sul
letto. Affondò la testa nel cuscino e aspettò che l’altro facesse
la sua mossa.
Sapeva che nel
giro di qualche secondo se lo sarebbe ritrovato nel letto e avrebbe
iniziato a punzecchiarlo con insistenza; e come da previsione,
percepì il materasso abbassarsi sotto il peso dell’altro. «Allora?
Che ti ha detto il bobo nero?»
«Mi ha
velatamente invitato a togliermi dalle palle e riportare il mio culo
a New York.»
«Pensavo che il
tuo culo gli piacesse...»
Attraverso i
ciuffi biondi, gli occhi blu chiaro di Justin guizzarono a fulminare
l’amico. «Va’ a farti fottere.»
«Sì, penso che
questa sera lo farò quel giretto in Dark Room.» pronunciò
distrattamente, come se stesse leggendo la lista della spesa. «Tanto
non dovrò controllare che tu non ti accasci sulle scale in preda
agli effetti dell’alcool.»
«E perché mai?»
mormorò l’altro, con la bocca premuta contro il cuscino.
«Semplice, perché
tu non verrai al Babylon.»
«Mi stai
esortando a deprimermi e tentare il suicidio nella mia stanza
d’albergo?» gli domandò stranito. «So che sarebbe lo stereotipo di
morte di un giovane artista, ma mi aspettavo che almeno avresti
tentato di fermarmi.»
«E chi ha parlato
di suicidio o di restare nella tua stanza d’albergo?»
«E che dovrei
fare allora? Andare a svendere il culo?»
«Non ne vedo il
motivo...i soldi mica ti mancano, e che io sappia non hai qualche
strana dipendenza tipo le slot machines o le corse ai cavalli, quindi
non credo finirai presto in rovina.» continuò a farfugliare Jace,
con la sua parlantina a mitraglietta, esasperando Justin.
«Quindi...non
posso venire al Babylon, non mi posso suicidare e non posso neanche
farmi scopare. Che mi resta da fare allora?»
«Non puoi farti
scopare da degli sconosciuti, ma puoi farlo con il tuo grande amore.»
Justin si alzò di
scatto, puntando gli avambracci sul materasso. «Dico, ma mi ascolti
quando parlo? Ti ho appena detto che mi ha gentilmente invitato
a tornare a New York!»
Jace gli riservò
un’occhiata scettica. «Dimmi un po’...da quando vi conoscete, c’è
mai stata una sola volta in cui hai dato ascolto a quello che
ti diceva di fare?»
«A parte quando
mi diceva ‘girati’,
o ‘andiamo a fare la
doccia’ o ‘scopiamo’?»
l’altro annuì esasperato e l’artista perse qualche secondo a
riflettere. «Allora no.» rispose infine e vide nascere un sorriso
furbo sulle labbra di Jace.
«Giust’appunto. E
allora per quale cazzo di motivo dovresti dargli ascolto ora?»
sollevò un sopracciglio con ovvietà e non permise a Justin di
ribattere. «Quindi, tu vai a farti una doccia veloce, ti vesti e
piombi a casa sua. Dovrà ascoltarti per forza. Digli tutto quello
che ti tieni dentro da più di un anno e, se neanche allora cambierà
idea, almeno non avrai più il rimpianto di non averci provato fino
alla fine.»
«Jace, tu non
capisci...»
«No, caro il mio
artista da strapazzo!» lo interruppe nuovamente. «Tu non
capisci che se non fai come ti dico, ti caccio il pomello del letto
su per il culo e senza lubrificante.»
Justin si lasciò
andare a una risata. «Chi ti dice che non mi piacerebbe?»
«Mi auguro per
quel dio che si è preso la tua verginità che non sia così,
altrimenti sai che fatica soddisfarti!»
«Credi davvero
sia la cosa giusta?» chiese titubante, anche se poteva sentire
chiaramente le urla del suo cuore che lo spingevano a correre da
Brian.
«Tesoro, cos’hai
da perdere?» gli scompigliò i capelli biondissimi e fece una
smorfia. «Mi pare poi che la dignità tu l’abbia persa già da tempo
con i tuoi imbarazzanti colpi di testa da adolescente frustrato!»
«Grazie
Jace...come incoraggi tu, non incoraggia nessuno.» borbottò con
acido sarcasmo.
«Lo so, e ora
fila a farti la doccia!» gli ordinò, trascinandolo giù dal letto e
spingendolo dentro il bagno.
“After
afterall” – William Fitzsimmons
Neanche un’ora più
tardi, Justin se ne stava impalato davanti al portone del numero sei
di Fuller Street, dopo che Jace senza tante cerimonie, si era
appropriato della sua adorata jeep e l’aveva scaricato lì.
Sbuffò scocciato,
chiedendosi se fosse davvero la cosa giusta da fare, finché un altro
degli inquilini del palazzo uscì lasciandogli la porta aperta senza
che lui avesse chiesto niente.
Quell’idiota
di Jace direbbe che un segno.
Inspirò a fondo e
sgattaiolò dentro prima che si richiudesse, ritrovandosi a respirare
il familiare profumo che fin dalla prima volta aveva sentito
aleggiare in quel posto.
Il suo cuore prese
a pulsare con più foga mentre, senza neanche rendersene conto,
l’indice corse a premere il pulsante per richiamare il montacarichi.
Con la gola secca e deglutendo a vuoto salì e lo indirizzò con
qualche esitazione al piano del loft di Brian, continuando a darsi
dello stupido, visto e considerato che non sapeva neanche se
l’inquilino era in casa.
Quando il
montacarichi raggiunse la destinazione con il classico rumore, pensò
che il cuore potesse esplodergli da un momento all’altro, e lo mise
ancora più a dura prova nel portare la sua mano a bussare alla porta
scorrevole.
Quante volte aveva
fatto quel gesto? Quante volte ne erano susseguite scene piacevoli e
felici, e quante orrende da strappargli il cuore e schiacciarlo senza
pietà...
Quante volte aveva
fatto scorrere quella porta con l’idea di rientrare in quella che
sentiva davvero come casa propria, e quante ancora l’aveva lasciata
con le lacrime agli occhi e un orribile nodo alla gola.
In quel momento
sentiva ognuna di quelle sensazioni amplificata dismisura dalla
prolungata assenza a cui era stato costretto; e le cose peggiorarono
decisamente, quando nel silenzio riuscì a percepire dei passi
avvicinarsi dall’altra parte ed il rumore secco dell’ingranaggio che
iniziò a muoversi.
«Justin...»
sentì sussurrare, ma non vide immediatamente la faccia sorpresa di
Brian; perché semplicemente non aveva il coraggio di sollevare lo
sguardo da terra. «Che ci
fai...» lo sentì pronunciare, e fu allora che alzò di scatto la testa
e lo interruppe prima che distruggesse ogni sua intenzione con una
manciata di parole gettate lì.
«Ti sbagli.» gli
urlò quasi in faccia, a pugni stretti.
L’espressione
dell’altro mutò da sorpresa a confusa. «Eh?»
«Guardami Brian,
io non sono a New York.» si sentì sciocco a pronunciare quelle
parole, ma d’altronde non poteva far altro che lasciarle uscire,
prima che lo facessero impazzire. Aveva bisogno di urlare che era
tornato solo e soltanto per lui. «Sono qui, dannazione! Sono tornato
perché è qui che devo stare.» aggrottò la fronte e lasciò
fuoriuscire i suoi pensieri come un fiume in piena. «È
qui che voglio stare ed è qui che tornerò sempre, dopo
tutto. Il mio posto non è a New York, e non appartengo a loro. Per
quanto tu ti ostini a dire il contrario, io appartengo a te.»
calcò la voce su quel “te”, trattenendosi a stento dal gridarlo
come un pazzo e riprese: «Non m’importa quante volte l’hai negato o
lo negherai, o se mi dici che io sono solo di me stesso, perché la
realtà dei fatti è un’altra.»
«Justin,
ascoltami...» mormorò Brian, ancora aggrappato con una mano alla
porta e con l’altra al muro. Nonostante il suo tentativo di aprir
bocca però, non sembrava voler combattere davvero per far valere le
sue ragioni. Non aveva il familiare sguardo pungente e deciso; al
contrario, sembrava piuttosto stanco.
«No. Non
ascolterò le tue patetiche scuse.» replicò Justin deciso. «Non
farò finta che vada tutto bene. Che mi vada bene di starmene in quella
cazzo di città circondato da cose di cui non m’interessa niente!»
si soffermò a fissarlo negli occhi con decisione e per un attimo
credette di poter affogare in quel verde scuro e tremendamente
profondo. «L’unica cosa che m’importa sapere è se tu mi vuoi ancora
almeno un briciolo di quanto ti voglio io.» soffiò infine con un
fil di voce, come se con una sola delle sue occhiate, Brian fosse
riuscito ad annullare tutta la foga con cui si era fomentato. «Voglio
solo sapere se...posso ancora essere tuo.»
Non poteva esserne
certo, ma per un solo misero attimo, ebbe la sensazione di veder
accendersi un po’ di sorpresa mista a sollievo in quegli occhi verdi,
e pregò come mai nella sua vita di non essersi sbagliato.
A confermare i
suoi pensieri, e ad alleggerirgli almeno un po’ il cuore, ci pensò
il sospirò con cui Brian si riempì i polmoni, il modo in cui
sollevò lo sguardo al soffitto e il sorriso che non riuscì a
nascondere piegando le labbra all’interno della bocca. Lo vide
premere la punta della lingua a gonfiare la guancia e rivolgergli una
delle sue occhiate ambigue, come ogni volta che non voleva dargliela
subito vinta dopo una delle sue classiche sparate, lasciandolo un po’ cuocere nel suo brodo, prima di pronunciare con finto disinteresse e
una sola parola, ciò che sperava di sentirsi dire: «Entra.»
*'*'*
Accompagnato ormai
dal suono di quella porta che in poco tempo era ormai diventato
familiare anche per lui, Jace entrò nel Liberty Diner, con un
sorrisetto divertito che non riusciva a cancellarsi dalle labbra per
via della caustica espressione che Justin gli aveva rivolto quando
l’aveva
letteralmente abbandonato per strada, dopo averlo spinto giù quasi a
calci.
Quello che ormai
era il suo diventato il suo più caro amico, aveva fegato e
spavalderia da vendere in qualsiasi cosa facesse, e spesso si era
trovato a tapparsi gli occhi e le orecchie dopo una delle sue sparate
davanti a qualche pezzo grosso di New York, senza l’ombra
di un’indecisione
nel difendere le sue convinzioni, eppure, nel momento in cui si era
ritrovato a fare i conti con i propri sentimenti, il terrore aveva
preso il sopravvento.
Nell’anno
di vita che avevano condiviso, a Jace non era mai stato permesso di
pronunciare il nome di Brian...pena la morte; ma in un modo o
nell’altro
quell’ingombrante
presenza che incombeva su Justin era stata nominata quasi ogni giorno
dietro qualche stupido soprannome.
Brian era per il
piccolo artista un enorme
fantasma del passato, un cardine fondamentale del suo presente e il
sogno più agognato per il futuro. Brian per Justin era tutto...e
Jace voleva così bene a quel ragazzino troppo bello, troppo
artisticamente dotato, troppo biondo...insomma “troppo tutto”,
che si era ripromesso di bacchettarlo fino alla fine, per spronarlo a
non arrendersi mai, neanche davanti alla peggiore delle difficoltà, e
volare a raggiungere il proprio obbiettivo come aveva sempre fatto con
tutto il resto.
Ai suoi occhi,
Justin era quel fratellino impertinente e coraggioso che gli mancava
da morire e che aveva perso tanti anni prima, in un tempo così
lontano che a malapena lo ricordava.
Suo fratello aveva
la stessa età di Justin, ma non era un artista, non era biondo né
aveva gli occhi azzurri. Non era gay – o almeno non che lui sapesse
– e non possedeva quella brillante luminosità, eppure era comunque
speciale, per il modo in cui si rapportavano, per come lo faceva
sentire, per la loro complicità e l’intesa
perfetta. Esattamente come quella che intercorreva tra lui e Justin.
Per quel fratello
avrebbe fatto di tutto e di più, e aveva sopportato per anni le botte
di suo padre e il disprezzo della sua famiglia dovuto alla disapprovazione per i suoi gusti
sessuali; e avrebbe continuato a farlo per sempre, se solo un brutto
incidente non glielo avesse strappato via.
Da quel giorno,
Jace non aveva più avuto un solo misero motivo per restare in quel
posto che avrebbe dovuto chiamare “casa”, ma che nella sua testa
era registrato sotto il nome di “inferno”.
Se n’era
andato senza mai voltarsi, quasi senza avvertire nessuno; e con
nessuno aveva mantenuto un rapporto, ricominciando da capo con la sua
vita a New York e una bella maschera sorridente a coprire la
sofferenza che in realtà si portava dentro.
Era andato avanti
grazie alla sua forza d’animo,
ottenendo successi su successi, ma senza mai riuscire a togliersi
quel peso dallo stomaco, finché una testa inverosimilmente bionda,
con un sorriso così abbagliante quasi da ferire gli occhi, si era
intromessa nel suo cammino, e tra i fogli che volavano a
sparpagliarsi aveva incontrato due iridi blu e un vero amico;
un’ancora
di salvezza che aveva a sua volta bisogno di qualcosa a cui
sorreggersi per non affondare.
Inspiegabilmente,
in quel ragazzo che non assomigliava neanche un po’
al suo fratellino, Jace aveva trovato il modo di redimersi e
riversare quell’affetto
fraterno che aveva lasciato accumulare, ormai stantio, che non poteva
più liberare e che lentamente lo stava soffocando.
Justin lo aveva
salvato dal mostro formato dai suoi rimorsi, ed era l’unico
a conoscenza della sua storia. In una delle loro tante serate di
confessioni alcoliche, era uscito fuori il nome di suo fratello, che
non osava più pronunciare da troppo tempo, e dopo che la sua lingua
aveva sentito il sapore amaro di ognuna di quelle lettere, non
piangere quelle lacrime che si era tenuto dentro per anni, era stato
impossibile.
Aveva finalmente
rimosso quel blocco opprimente ed era nuovamente rinato.
Suo fratello gli
sarebbe mancato per sempre, di questo era ben conscio...ma, da quando
Justin era piombato nella sua vita, aveva ricominciato a vivere e
respirare anche lui; a ridere e scherzare sinceramente ma,
soprattutto, aveva finalmente qualcuno a cui poter donare quell’amore
e con cui condividere una speciale complicità.
«Ehi, ciao!»
sentì esclamare da una voce femminile e squillante, vagamente
familiare, che lo riscosse dai suoi pensieri. «Jace, giusto?»
Gli occhi nocciola
si spostarono a incontrare la sfavillante figura di Debbie, e un
ennesimo sorriso gli increspò le labbra. A Pittsburgh girava gente
davvero strana, ma non gli era poi così difficile capire perché al
suo caro artista mancassero così tanto. Erano tutte persone così
diverse e speciali a loro modo, da riempirti la vita e lasciarti un
buco enorme dentro se non le avevi accanto. «Sì.»
«Vieni a sederti.
Cosa ti porto?»
«Mi basta un
caffè, grazie.» rispose, accomodandosi sullo sgabello.
«Che ci fai da
queste parti?» gli chiese, versando il liquido nero. «E dove l’hai
lasciato il mio topino? Sta bene, vero?»
«Spero di sì.»
ridacchiò Jace nel sentire l’altro
buffo soprannome di Justin. «Al momento suppongo sia ancora
impegnato a riprendersi la sua vita...e farà bene a riuscirci!»
«È
ancora con Brian?»
Lui annuì,
portandosi la tazza alle labbra. «Già. L’incontro
di oggi non era finito nel migliore dei modi, ma lo saprai anche
meglio di me, Justin non è uno che si scoraggia molto presto.»
«No, direi
proprio di no.» replicò convinta e agguerrita con i pugni puntati
sui fianchi. «Quel coglione l’ha
trattato male?»
«No, no.» si
affrettò a rispondere. Non conosceva affatto quella donna, ma era
pronto a giurare che sarebbe partita in quarta alla ricerca di Brian
per bastonarlo, se solo avesse saputo che aveva ferito il suo
figlioccio biondo. «Solo gli ha detto che il suo posto è a New York
adesso.»
«Ha solo una
fottuta paura.» sospirò lei, con uno sguardo improvvisamente
addolcito. «Brian non è il tipo da dare possibilità all’amore
e ai sentimentalismi. Prima di Justin non sapeva neanche cosa volesse
dire e...l’unica volta
che l’ha concessa,
be’...sai anche tu
come è andata a finire.»
«Non deve essere
proprio una passeggiata per quei due.»
«Oh credimi, in
cinque anni che li ho visti insieme hanno attirato catastrofi come
due cazzo di calamite.» scosse la testa e si protese sul bancone,
sventolando il suo indice con l’unghia
laccata di rosso sotto il naso. «Ma hanno sempre avuto le palle più
grosse di tutto lo schifo che gli è stato gettato addosso e hanno
sempre trovato il modo di mandare a ‘fanculo
tutti.» sorrise e masticò con energia il chewin-gum «Superare
questo è niente rispetto a tutto il resto.»
«Già, ma le
ferite restano. A volte le persone si stancano di dover sempre
combattere.»
«Non il mio
topino. Lui non si arrende mai.» borbottò quasi offesa, con
la fronte aggrottata. «E neanche quell’altro
stronzo. Brian ha la faccia come il culo...figuriamoci se c’è
qualcosa che può stenderlo. Neanche il cancro l’ha
voluto.» rise ancora e sollevò le spalle. «Comunque, l’unica
cosa che possiamo fare è aspettare.»
«E allora
aspettiamo.» gli sorrise lui e terminò il suo caffè.
«Di te invece che
mi racconti? Problemi di cuore?»
«Eh?» chiese
stupito, con le sopracciglia sollevate quasi a raggiungere
l’attaccatura dei
capelli. «No, no. Che mi prenda un’accidente
se mai mi farò incastrare!»
«Che cazzo sei,
una versione di Brian Kinney newyorkese?»
«A me piace
donare ‘amore’
in giro, non limitarmi a una sola persona.» ammiccò, sistemandosi
il foulard intorno al collo. «Sono un tipo generoso!»
«Questa è la
scusa più idiota che le mie povere vecchie orecchie abbiano mai
sentito.» replicò lei. «E ti assicuro che ne ho sentite tante.»
«Certo che devi
vederne di stranezze qui dentro.»
«Uh, non immagini
quante! Voi gay siete un melodramma continuo!»
«Senza neanche un
dramma personale, che razza di frocio sei?»
Debbie sollevò le
sopracciglia come per voler confermare le sue parole. «Comunque
straniero, dove hai intenzione di ‘donare
amore’, e non dico
‘buco di culo’
perché sono una cazzo di signora, questa sera?»
Jace la fissò per
un attimo sconcertato e scoppiò a ridere. «Suppongo di ‘donare
amore’, e non dico
‘buco di culo’
perché sono una cazzo di signorina anch’io, al Babylon.
Justin mi ha detto che c’è
sempre da divertirsi.»
«Mi piaci
ragazzo.» sorrise affabile. «Spero tu sia ben conscio che se
t’infili nella nostra
strana famiglia poi puoi dire addio a privacy e libertà. Sarai
costretto a partecipare a tutte le nostre cazzo di cene familiari e
guai a te se ti lamenterai se sarai soffocato d’affetto.»
«Sarebbe
un’esperienza da
provare.» rise lui pagando e alzandosi per uscire. «Non ho una
famiglia da tanto tempo, e forse non l’ho
proprio mai avuta. Credo di poterlo sopportare.»
*'*'*
“The
blower's daughter” – Damien Rice
Quel posto non era
cambiato.
Nel loft il tempo
sembrava essersi fermato a quella mattina trascorsa da più di un
anno e mezzo, quando con un macigno sullo stomaco, era strisciato
fuori dalle lenzuola e dal calore del corpo di Brian, e si era
vestito e trascinato oltre la porta, senza avere il coraggio di
guardare nient’altro
che non fosse il pavimento di parquet perfettamente lucido.
Respirò a fondo e
sorrise, quando i suoi occhi si posarono su ogni angolo di quel
lussuoso appartamento, riportando alla mente frammenti dei momenti
trascorsi lì.
Avanzò lentamente
verso il letto, nel silenzio più totale, quasi temesse di rovinare
quell’attimo così
perfetto e magico, e si soffermò a osservare quella macchia blu
notte, spesso presente nei suoi quadri, che nella sua testa si raffigurava come la
massima espressione d’amore:
il blu scuro delle lenzuola in cui lui e Brian si erano aggrovigliati
e fusi a formare una cosa sola, innumerevoli volte.
L’accarezzò
con lo sguardo e proseguì fino al comodino; dove sapeva esserci il
suo cassetto: il terzo; e concluse la corsa delle sue iridi
cerulee all’armadio;
al lato sinistro, quello che Brian aveva abitualmente riservato per
lui.
«Non è cambiato
niente qui.» esordì, più verso se stesso, per convincersi di
quello che i suoi occhi vedevano, che rivolto a Brian.
L’uomo
allargò le braccia e sollevò le spalle, per poi riprendere a
giocherellare con il pacchetto di sigarette che stringeva tra le
mani. «Perché avrebbe dovuto essere diverso?»
«Non lo so.»
rispose titubante. «È passato parecchio tempo dall’ultima
volta che sono stato qui.»
«Lo so.» sorrise
appena. E chi meglio di lui poteva saperlo? Lui che aveva scandito
ogni singolo, stramaledetto, istante da quando Justin se n’era
andato. Contando ogni secondo e inghiottendoli come bocconi amari e
spinosi. Chi meglio di lui poteva sapere cosa significava ritrovarsi
a respirare lentamente, per cercare di conservare il più possibile
l’odore della persona
che amava intatto tra quelle quattro mura; e guardare a un calendario
come alla somma dei giorni che si erano accumulati dalla sua
partenza.
«È bello.»
mormorò poi Justin, rivolgendogli un sorriso.
«Cosa?» domandò
stranito.
«Che sia rimasto
tutto uguale anche qui.» ridacchiò appena e scese gli scalini per
avvicinarsi a Brian. «Ero terrorizzato dal fatto che, tornando a
Pittsburgh, niente sarebbe stato come l’avevo
lasciato. Invece è tutto com’era.»
«Lo sai che nella
gloriosa Pittsburgh non succede mai niente.»
«Credo proprio di
essere davvero felice, per la prima volta, che questo posto sia così.
È rassicurante.»
«È patetico. È
noioso e ridicolo.»
«È un po’
romantico.»
Brian scoppiò a
ridere e scosse la testa, picchiettando con il pacchetto rosso e
bianco sul bancone della cucina. Restarono in silenzio per un tempo
incalcolabile, finché le iridi verde scuro di Brian si sollevarono
appena a scrutarlo sottecchi, quasi temesse che da un momento
all’altro non
l’avrebbe più visto e
capisse che era stato solo un altro dei suoi patetici e tristi sogni.
A dispetto delle
sue paure, invece, lo trovò più vicino e spaventato.
Justin aveva lo
stesso sguardo incerto e quel falso sorriso tirato della prima volta
in cui era stato lì. Era cresciuto, era più bello, ma mai come in
quel momento gli parve di rincontrare quel ragazzino inesperto che si
affacciava per la prima volta al mondo a cui appartenevano entrambi.
Aveva le spalle
irrigidite e le braccia altrettanto intirizzite e abbandonate lungo
il corpo. Lo guardava come un cucciolo abbandonato in cerca di una
mano che lo guidasse, e non si accorgeva di quanto in quel momento,
dietro la sua solita facciata impenetrabile e il sorrisetto
sprezzante, si nascondesse la stessa paura.
La paura di
sbagliare, di lasciarsi andare e illudersi. La paura di vederlo
tornare, di sperare ancora, per poi essere abbandonato di nuovo,
pur sapendo di non potergliene mai fare una colpa, perché proprio lui
era stato il primo a ferirsi e a spingerlo fuori da quel loft per
mandarlo a conquistare il mondo con la sua arte e i suoi sogni, e
farsi un nome. Proprio lui l’aveva
incoraggiato – per non dire quasi costretto – ad abbandonarlo,
per esser sicuro che riuscisse a ottenere tutto ciò che potesse,
anche solo velatamente, desiderare.
E se quello non
era amore; se ancora c’era
qualcuno che osasse dire che Brian Kinney non sapeva amare, o se
qualche stupido omofobo potesse ancora ritenerlo abominevole; allora
che gli spiegassero cos’era
davvero quel sentimento che tutti tanto decantavano, perché, e forse
peccava di presunzione, lui era certo di non aver mai visto o provato
niente di più grande in tutta la sua vita.
Justin era una
specie di catalizzatore sentimentale: al suo fianco ogni cosa
sembrava concentrarsi e quintuplicarsi. Amore, rabbia, tristezza,
gelosia e sì, anche odio. Quando si trattava di Justin, Brian si
sentiva esplodere.
Lui che aveva
sempre definito i sentimenti come una cosa stupida, ridicola e
patetica, adatta solo agli etero o alle lesbiche, ma assolutamente
fuori dalla portata dei gay; lui che si era sempre vantato di quel
suo essere egoista e superficiale...accanto a Justin, era
semplicemente incapace di prescindere da certe emozioni, e non sapeva
fare a meno di ciò che aveva sempre ripudiato.
Perso tra i suoi
pensieri, lasciò che le sue labbra si piegassero in un fievole
sorriso, praticamente invisibile agli occhi di una persona qualunque,
ma perfettamente percepibile da chi, anche dell’interpretazione
di ogni suo gesto, aveva fatto un’arte.
Justin negli anni
aveva imparato a leggere tra le righe delle sue parole, ma
soprattutto a vedere cosa si nascondeva dietro gli sbuffi, i sorrisi
o anche il solo movimento di quegli occhi profondi e di ogni singolo
muscolo del suo corpo. Aveva imparato perfino a riconoscere i suoi
stati d’animo dal modo
in cui respirava; aveva imparato fin troppo di lui.
Perciò, anche in
quel momento, riuscì a capire che, per quanto si sentisse
spaventato, Brian non avrebbe potuto aiutarlo; non avrebbe preso in
mano le redini del gioco come la sera in cui si erano incontrati e
non gli avrebbe mai fatto un invito esplicito ad avvicinarsi. Per
quella volta, doveva essere lui a “stare in piedi da solo e tirare
fuori le palle”; doveva essere lui a raggiungerlo.
E lo fece.
Con il cuore
incastrato a metà della gola che pulsava come un pazzo, minacciando
di abbandonarlo da un momento all’altro,
Justin colmò la distanza tra loro, e sollevò gli occhi ad
incontrare quelli dell’altro,
per andare a sprofondare in quell’abisso
verde scuro. Così vicino da poterne sfiorare il naso e sentirne il
respiro sulla bocca.
Sostenne quello
sguardo con decisione, finché non separò le labbra lentamente, con
una nota d’incertezza,
per poi incagliarle tra i denti.
Le mordicchiò
appena e respirò a fondo, riempendosi i polmoni dell’odore
della pelle di Brian, misto a quello del suo dopobarba e dello
shampoo; frammenti di quei profumi così familiari, e gli unici che
nella sua testa poteva ricondurre alla sensazione di sentirsi
veramente a casa e nell’unico
posto in cui avrebbe voluto essere.
Ovunque fosse, gli
bastava percepire quell’odore
per star bene.
«Mi sei mancato.»
mormorò con un filo di voce, come per voler esternare la conclusione
ovvia a cui era giunto nel sentir vorticare certi pensieri nella
mente, e sorrise a sua volta, nel vedere gli angoli della bocca
dell’uomo di cui era
disperatamente innamorato piegarsi verso l’alto.
Sapeva bene di non
doversi aspettare parole da Brian; e sapeva anche che il guizzo
luminoso che si era acceso in quelle iridi verdi nel momento in cui
aveva pronunciato quelle parole valeva molto di più di qualsiasi
confessione.
E probabilmente fu
proprio quella traccia lucente a dargli il coraggio per sollevare una
mano e sfiorare con la punta delle dita una guancia perfettamente
rasata dell’altro,
appagandosi del calore della sua pelle e del modo in cui la testa di
Brian si piegò per cercare quella carezza, plasmandosi su quel
tocco.
Piccoli gesti,
movimenti appena percettibili; passi lenti e misurati da infinita
calma, per percorrere la distanza che si era intromessa tra di loro
in quel tempo che avevano definito insignificante ma che, a dispetto
della loro traballante spavalderia, aveva quasi rovinato ogni cosa.
Respiri trattenuti
e occhi che si osservavano attentamente per imprimersi ancora una
volta nella testa ogni singola particella del volto che gli stava
davanti; per una volta l’uno
di fronte all’altro,
in un confronto diverso, senza la fretta di aversi, scortati da
quella passione incontenibile che aveva caratterizzato ogni loro
incontro.
Justin sentì il
proprio cuore accelerare il battito quando la sua mano venne coperta
da quella di Brian e le loro dita andarono a intrecciarsi in un
incastro perfetto e guidato da movimenti fatti di una complicità
disarmante, come se fossero mossi dalla stessa persona.
Perché fin dal
loro primo incontro, qualcosa d’incomprensibile
ma altrettanto resistente si era andato a formare e annodare tra le
loro vite. Un filo quasi invisibile e che spesso gli aveva comunque
permesso di allontanarsi l’uno
dall’altro e di farsi
anche male, ma che in un modo o nell’altro,
era rimasto ben saldo a ricordare loro come ritrovare sempre la strada e
incontrarsi ancora.
Né Justin, né
tanto meno Brian, credevano in cose stupide e patetiche come il
destino, eppure quel loro legame così particolare aveva il sapore di
qualcosa che andava ben oltre la normale realtà. Un po’
come loro due del resto, che di convenzionale non avevano
assolutamente niente, e forse mai l’avrebbero
avuto.
Brian mosse il
pollice per accarezzare con movimenti circolari il dorso di quella
mano più piccola della sua e diafana, dalle dita affusolate e abili,
proprio come immaginava dovessero essere quelle di un’artista
– il suo artista – che lo toccava ogni volta come se fosse
una preziosa opera d’arte,
facendolo sentire venerato, appagato e amato, come mai nessuno era
riuscito a fare.
Quelle mani sulla
sua pelle, avevano lasciato tracce indelebili; si erano tatuate su di
lui, gli erano entrate dentro, e avevano scavato con inesorabile
lentezza finché, senza neanche rendersene conto, erano arrivate a
toccargli il cuore e a scaldarlo per la prima volta nella sua vita.
Justin era l’unico
a esser stato capace di arrivare così nel profondo e, soprattutto, a
esser stato in grado di ricavarsi uno spazio in mezzo al suo enorme
ego e a diventare indispensabile.
Per ogni volta in
cui l’aveva cacciato
via, per ogni volta in cui l’aveva
ferito e per ogni volta in cui aveva sbagliato, portandolo a tirare
su un muro per allontanarlo, quel piccolo raggio di sole aveva
sempre trovato il modo di oltrepassare ogni sua barriera, anche se
questo aveva significato dover percorrere una strada insidiosa e
dolorosa. Justin, in fondo, non si era mai arreso e, alla fine, lo
aveva raggiunto.
E in fin dei conti
era stato così facile innamorarsi di lui che neanche riusciva a
capire quando era successo. Forse fin dalla prima volta in cui
l’aveva visto, oppure
dalle sensazioni che aveva provato nel fare l’amore
con lui – perché Justin aveva ragione. Neanche la prima volta era
stato solo sesso. Tra di loro, non era mai stato solo sesso –
o nel momento in cui aveva capito che stava rischiando di perderlo,
la notte dopo il ballo scolastico.
Non era stato
difficile amarlo; era stato difficile ammetterlo.
Era stato
difficile – e continuava a esserlo – pronunciare quelle due
piccolissime parole, e neanche quelle erano servite a non farli
separare, o a togliersi quell’orrendo
vizio di torturarsi inconsapevolmente a vicenda, o smettere di
soffrire per gesti non fatti e parole non dette, guidati da
convinzioni assurde.
Niente era mai
stato semplice fra loro, a parte innamorarsi l’uno
dell’altro; e
probabilmente era stato proprio questo il motivo per cui si erano
intrecciati in quel legame ed erano finalmente di nuovo insieme.
In quel loro
ostinarsi a complicare le cose si nascondeva l’innata
capacità di ritrovarsi sempre e comunque; la facilità con cui
sapevano rincontrarsi senza smettere mai di amarsi.
Brian ampliò il
suo sorriso – colto da quelle consapevolezze – e si protese un
poco per far sfiorare la punta del suo naso contro quella di Justin,
e avanzò ancora fino a trovare la sua fronte su cui appoggiarsi,
come già tante altre volte aveva fatto.
A occhi chiusi si
beò della stupenda sensazione che gli davano quei fili biondi quando
lo sfioravano delicatamente, e ascoltò il suono del suo respiro
confuso con quello dell’altro,
insieme al battito sincronizzato dei loro cuori.
Era come se si
fossero riconosciuti e avessero ricominciato a pulsare in sincronia,
sulla stessa lunghezza d’onda,
come se per funzionare davvero avessero bisogno di farlo insieme.
Cristo,
quanto mi sei mancato.
Si riempì del suo
odore con un respiro e slegò le sue dita da quelle di Justin per
portare entrambe le mani a circondargli il viso e affondare in quella
chioma bionda e soffice, per trarlo a sé e far finalmente
congiungere le loro labbra in un bacio dolce e appena accennato, come
se entrambi sentissero di doversi riabituare lentamente a quella
droga chiamata “passione”, che era sempre imperversata tra loro,
per cinque lunghi anni.
Ma per quante
accortezze potessero prendere, non potevano certo mentire a loro
stessi; non potevano nascondere ancora a lungo quella loro natura.
Il calore
divampato improvvisamente da quel contatto, insieme ai fremiti che
dilagarono in tutto il corpo, non fu che la scintilla destinata a
innescare l’esplosione.
Perché per quanti
anni fossero trascorsi, per quanta distanza gli fosse stata imposta e
per quanti ostacoli avessero dovuto superare, il fuoco che li aveva
sempre uniti non poteva essere estinto. Poteva essere solo domato e
sopito per un tempo limitato e insignificante.
Brian e Justin non
potevano stare vicini senza prender fuoco, incendiandosi l’un
l’altro; erano fatti
per bruciare e consumarsi insieme, ed era così che sarebbe sempre
andata tra loro.
La loro prima
volta, Brian gli aveva detto che avrebbe fatto in modo che se la
ricordasse per sempre, cosicché, con chiunque fosse stato da quel
momento in poi, ci sarebbe sempre stato anche lui.
Ed era esattamente
così che era andata.
Justin non avrebbe
mai dimenticato quel giorno, la perfezione di quella notte e del modo
in cui quelle mani lo avevano accarezzato, come quella bocca lo aveva
baciato e la sensazione di averlo dentro di sé per la prima volta.
Da quel momento in
poi, Brian c’era
sempre stato. Nei suoi pensieri, sulle sue labbra con il suo sapore e
sulla sua pelle con il suo inconfondibile odore.
Niente era
paragonabile a quando faceva l’amore
con lui; niente era paragonabile a Brian Kinney.
E anche quella
sera, nonostante i giorni che li avevano separati e feriti, la
complicità dei loro movimenti, non era stata minimamente scalfita o
contaminata dalla lontananza. Proprio come il loro amore, non era
ingrigita, ma brillava con la stessa intensità di sempre, e guidava
le mani di Brian ad accarezzare la schiena dell’altro,
lasciandolo pervadere dai brividi, fino a raggiungere il bordo del
maglione e sfilarglielo con un gesto secco, insieme alla maglia.
La loro complicità
divampava nel modo in cui le dita di Justin liberavano i bottoni
della camicia di Brian dall’asola,
e da come i lembi venivano scostati e abbassati, fino a che la stoffa
bianca non andò ad adagiarsi a terra; o nel modo in cui si
sorridevano, tra un bacio e l’altro,
incespicando nei jeans già sbottonati, mentre raggiungevano il letto
e si lasciavano ricadere con un tonfo nel blu oceano del copriletto.
Affondare di nuovo
le dita l’uno nei
capelli dell’altro e
farle correre fino a stringerli. Far sollevare la testa dell’amante,
con passione, a scoprire il collo per poterlo inumidire di una scia
umida lasciata dai baci o dalla punta della lingua; piccoli morsi che
costellavano la pelle di marchi rossastri e sospiri trattenuti
appena, per poi essere rilasciati, senza nascondere minimamente il
sollievo nel sentirsi nuovamente insieme.
Justin portò le
braccia a circondare il collo di Brian e lo tirò a sé, per
assaporare ancora il gusto di quelle labbra morbide e intrecciare la
lingua con quella dell’altro,
e sentirne il respiro caldo sulla pelle.
Lasciò che fosse
lui a togliere anche l’ultimo
pezzo di stoffa rimasto a dividerli e fu inevitabile sorridere,
quando lo vide aprire il quadratino di plastica del profilattico con
i denti; così come gli aveva sempre visto fare.
Non c’era
tempo quella volta per i preliminari, o i loro giochetti sciocchi ed
eccitanti; non c’era
tempo per scherzare, perché dovevano aversi. Dovevano sentirsi
nuovamente una cosa sola, al più presto. Percepire ancora il calore
emanato dai loro corpi fusi in un unico incastro perfetto; e al
diavolo se non si fossero mai più rivisti dopo quella notte...al
diavolo New York, l’arte,
gli impegni di lavoro, gli aerei mancati e le telefonate non fatte.
Al diavolo
tutto...perché, in quel momento, c’era
spazio solo per loro due e per la felicità che riuscivano ad
accendersi dentro quando erano insieme, quando potevano abbracciarsi
e amarsi come solo loro sapevano fare.
Cancellando
definitivamente i pensieri dalla mente, Justin portò entrambe le
gambe ad appoggiarsi sulle spalle dell’altro
e si sollevò un poco per raggiungere la bocca del suo amante e
baciarlo ancora. Brian lo guardò intensamente, con gli occhi accesi
di languida eccitazione, mentre le sue labbra si erano già
increspate in un dolce sorriso. Socchiuse gli occhi e, trattenendo il
fiato, entrò dentro di lui, lasciandosi sfuggire un gemito strozzato
che andò ad unirsi e mischiarsi nell’aria
a quelli di Justin.
Brividi di piacere
percorsero il corpo di entrambi come scariche elettriche, mentre le
loro lingue continuavano a cercarsi e trovarsi, dall’unione
delle loro labbra, tra spinte e sospiri, gemiti e parole sussurrate
appena.
Piccoli morsi,
come se volessero divorarsi e vivere soltanto cibandosi l’uno
dell’altro, e di
quell’amore che li
legava saldamente; e affondi più profondi, quasi a voler perdere e
distruggere i loro contorni per ricollegare quelle due anime che, ne
erano certi, un tempo dovevano aver fatto parte di una sola essenza.
Brian gli
accarezzo i capelli, lo baciò sulla fronte e scese lungo il naso e
la bocca, fino al collo. Lo leccò per tutta la lunghezza, aumentando
la presa delle sue dita, nella foga delle sue spinte, tanto da
togliere il fiato a entrambi. Justin spostò le gambe a cingere la
vita dell’altro e con
le mani si aggrappò alla sua schiena, avvicinandosi per congiungere
nuovamente le loro labbra e perdersi in quei baci pieni di passione,
fino all’orgasmo.
Sudato e con il
respiro affannato, Brian si lasciò
ricadere sul petto di Justin e lentamente uscì dal corpo del suo
amante, mentre con le labbra costellava quelle dell’altro
di piccoli baci languidi.
Si sorrisero
ancora, sinceri, e sfiorarono i loro nasi, inspirando profondamente i loro
profumi nuovamente mischiati, insieme all’odore
della loro unione, e godendosi il calore che i loro corpi erano
finalmente tornati a trasmettersi.
Le mani di Justin
corsero ad accarezzare i capelli e il collo dell’altro,
prima di scendere sulle spalle e proseguire a sfiorare i muscoli
asciutti e sempre perfetti delle braccia di quell’uomo
a cui doveva tutta la sua vita, trovando il coraggio per ripetere
ancora quella piccola frase: «Mi sei mancato.» lo sussurrò e volle
dirglielo ancora, e ancora. «Mi sei mancato, mi sei mancato da
morire.» e con le lacrime ad annacquargli il blu chiaro degli occhi,
respirò a fondo e riuscì a togliersi di dosso anche quelle ultime
parole che continuavano ad opprimergli il petto: «Ti amo ancora.»
***
Note finali:
Fischietto distrattamente e faccio la gnorri... XD
Ho deciso di anticipare perché mi sono resa conto che nei
prossimi giorni sarò davvero incasinata, soprattutto per la
partenza, e non volevo rischiare di non avere il tempo per rispondere a
tutte le recensioni e andarmene senza aver aggiornato come
promesso.
Stavolta però, note telegrafiche e senza alcun tipo di commento o
anticipazione...anche perché non ho la più pallida idea
di come interpreterete questo momento molto fluffleggiante...nè di quello che vi aspettate nel prossimo...
Spero solamente vi sia piaciuto almeno un po'! ^^
Mi limito perciò a fare la cosa più importante di tutte: Ringraziamenti!
Un grazie a tutti coloro che hanno letto questo capitolo, a chi ha inserito la storia tra le preferite, le seguite o le ricordate, ma soprattutto grazie a: Thiliol, electra23, OfeliaCuorDiGhiaccio, Clara_88, FREDDY335, mindyxx, EmmaAlicia79, SusyJM, oo00carlie00oo, giacale, Hel Warlock, Katniss88 e silvergirl per aver recensito l'ultimo capitolo! GRAZIE DAVVERO!
Detto questo posso anche scappare fuori, altrimenti mi lasciano a piedi
e almeno posso sfuggire dalla furia di alcune di voi che mi odieranno
per questo capitolo, e probabilmente anche di più per cosa
succederà nel prossimo! XD
Tornerò il 14, ma non so ancora quando pubblicherò...prometto comunque di non farvi aspettare troppo!
Un bacio e ancora buone vacanze.
Veronica.
PS. Non so come lo chiamate voi, ma per noi Fiorentini il "bobo nero" è l'uomo nero. XD Sono cretina, lo so.
PPS. La canzone di Damien Rice - che io adoro particolarmente - vale per tutto il paragrafo, fino alla fine. Lo so che è un appunto idiota, ma ho scritto quella parte con questa canzone in loop, quindi ci tenevo a specificarlo. XD
|
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Capitolo 8 *** Thanksgiving day. ***
8.Thanksgiving day.
6x08 –
Thanksgiving day.
[capitolo betato da Trappy]
“Fever” – Adam Lambert
Affrettò il
passo, spaventato perfino dal continuo frusciare dei suoi pantaloni
di nylon arancioni, intento a superare il più velocemente possibile
quella zona di parcheggio adombrata.
Odiava andare al
Babylon da solo, ma da quando i suoi amici si erano accasati con i
loro compagni, non c’era
stata più l’occasione
per riuscire a trascinarli lì. Preferivano di gran lunga condurre la
vita dei pantofolai; tutti tranne Brian ovviamente, ma non si sognava
neanche per sbaglio di chiedere a lui un passaggio, considerando poi
che il ritorno non sarebbe mai stato garantito.
Emmett sbuffò
scocciato, stringendosi di più nella sua pelliccia sintetica blu,
riprendendo a respirare con più regolarità quando la luce dei
lampioni tornò ad accoglierlo sotto la sua rassicurante presenza.
Per quanto potesse
essere ampiamente definibile “checca
urlante” – e doveva dire che, a dispetto di tutto, possedeva una
discreta potenza vocale e degli acuti da far invidia anche a George
Michael o Prince – Emmett aveva assistito a fin troppe aggressioni
sulla pelle di persone che conosceva bene, per sentirsi al sicuro
perfino lì, nella zona più popolata da omosessuali e transessuali.
Svoltò l’angolo
in tutta fretta, con lo sguardo basso sull’asfalto
e neanche si rese conto della persona che lo precedeva con un passo
più tranquillo, finché non ci sbatté letteralmente contro. «Oh
Cristo!» strillò, sobbalzando per lo spavento. «Oddio, scusa!»
restò per qualche secondo a scrutare la persona con cui aveva appena
avuto il “sinistro pedonale” ed aggrottò la fronte. «Un
momento, ma io ti conosco.»
Gli
occhi nocciola dell’altro
abbandonarono finalmente le proprie scarpe – fino a pochi secondi
prima perfettamente bianche e immacolate – per degnarlo di uno
sguardo, seppur decisamente infastidito. «Già.» ribatté asciutto,
tornando a ispezionare i suoi preziosi mocassini italiani pagati
trecentocinquanta dollari e tenuti nel migliore dei modi, prima che
un “carrarmato frocio e multicolore” ci passasse sopra.
«Tu sei Jace,
giusto?» esclamò ancora Emmett, battendo le mani entusiasta,
ignorando l’imminente
crisi isterica che stava per colpire il suo interlocutore da un
momento all’altro.
«L’amichetto di
Justin.»
Jace lo guardò
nuovamente sottecchi, con una vena sulla tempia che minacciava
d’inspessirsi ogni
secondo di più, come ogni volta che stava per esplodere. «Esatto.»
sibilò e si passò l’indice
ed il pollice delicatamente sulle palpebre per calmarsi, tentando di
non togliere quel tocco di luce donatogli da qualche minuscolo
brillantino. Non poteva esplodere con uno dei più cari amici di
Justin, eppure, l’improvvisa
voglia di violenza che lo aveva pervaso al pensiero di poter usare la
lingua del suo “investitore” per pulirsi le sue adorate scarpe,
era difficile da trattenere.
«Anche tu al
Babylon? Sei insieme a Justin? Dov’è?
Non lo vedo!» lo tempestò di domande, continuando a non sospettare
minimamente del pericolo che incombeva su di lui.
«‘Sì,
anch’io al Babylon’
e ‘No, non puoi vedere
Justin perché non siamo insieme’.
Ergo, ‘non c’è’.»
replicò, sempre più stizzito. Neanche cinque minuti da solo con
quel tipo e già gli era venuto un gran mal di testa
«Oh, che
peccato!» continuò Emmett imperterrito. «Si sente male?»
«Mi auguro di no
per lui! O se proprio deve sentire male, almeno che sia per qualcosa
di eccitante.»
Emmett rimase per
qualche secondo in silenzio a fissarlo con i suoi occhioni azzurri,
accentuati dal mascara. «Sta scopando con Brian?» chiese poi, quasi
incerto.
«Come vedi sono
qui, perciò non posso saperlo. Per mia sfortuna non ho ancora il
dono dell’ubiquità.»
ribatté l’altro con
un sopracciglio innalzato. «In compenso, spero di sì. Avrà le
ragnatele in mezzo a quelle chiappe sode.» tirò fuori un fazzoletto
dalla tasca del cappotto e si pulì accuratamente le scarpe. «Non
capisco proprio come abbia resistito per un anno e mezzo.»
«Un anno e mezzo
d’astinenza?» gridò
scandalizzato Emmett, portandosi una mano davanti alla bocca.
Conoscendo i ritmi che il biondino era abituato a tenere con “Mister
Meraviglia”, gli sembrava anche più straordinario di tutti e tre i
miracoli di Fatima messi assieme. «Ma sei sicuro?»
«A meno che non
si sia dilettato con i pennelli, sì.»
«Cristo
Santo...il mondo sta davvero andando a rotoli.»
Jace sospirò e
gettò il fazzoletto nel cestino. «Eh già. Non ci sono più i froci
di una volta...» mugugnò quasi sconsolato. «...adesso fanno a gara
a chi inventa più stronzate tipo matrimoni, monogamia o famiglia.»
fece una smorfia disgustata e finse di rabbrividire. «Mi chiedo come
i loro ormoni non abbiano ancora indetto rivolte degne di quelle
parigine!»
«Di un po’...»
iniziò Emmett fissandolo storto. «...fai per caso di cognome
‘Kinney’?»
«Eh?»
L’altro
sbatté più volte le palpebre e continuò a scrutarlo come se avesse
tre occhi. «Adesso capisco perché Justin ti adora così tanto.»
«Credo di essermi
perso qualcosa...» mormorò Jace sempre più confuso.
«Niente, niente.»
replicò sventolando la sua mano, facendo tintinnare i due
braccialetti tondi e colorati. «Allora, vogliamo entrare? Passi con
me? Conosco i buttafuori.»
Jace gli sorrise
per la prima volta. In fondo, quell'Emmett, non era poi tanto male una volta
abituati alla sua persona un tantino ingombrante. «La fortuna di
essere amici del capo, eh?»
«No, tesoro.»
puntualizzò fingendosi altezzoso e sfoderando un sorrisetto furbo,
affiancandolo mentre attraversavano la strada. «La fortuna
dell’essersi scopati
la maggior parte dei buttafuori.»
Un
guizzò divertito illuminò gli occhi del designer newyorkese, che
sorrise più apertamente e scoccò un’occhiata
d’intesa
e di piena approvazione all’altro,
quando entrarono nel locale saltando la chilometrica fila con un solo
cenno di saluto ad uno degli energumeni accostati all’ingresso.
«D’accordo.»
esordì più amichevole. «Visto che mi hai fatto entrare, ti offro
da bere. Non mi piace avere debiti.»
«Non
è necessario. Non abbiamo bisogno di pagare per bere.» rispose
Emmett, togliendosi l’ingombrante
e vistosa pelliccia blu e mostrando un
altrettanto
particolare maglia a rete.
«La
fortuna dell’essersi
scopati anche tutti i barman?» chiese Jace sorpreso e
divertito, sfoggiando una decisamente molto più elegante camicia di
seta bianca, ornata da fini girigogoli dorati.
«No.» borbottò
l’altro, arricciando
le labbra quasi dispiaciuto, per poi tirar fuori dalla tasca dei
pantaloni elasticizzati una carta oro con sovra impressa la dicitura
“VIP CARD”. «La fortuna di essere amici del capo.» gli strizzò
l’occhio citando a sua
volta le sue parole e si avviò sculettando verso il bancone.
*'*'*
“Pocketful
of Sunshine” – Natasha Bedingfield
Era certamente già
mattino inoltrato quando riuscì ad aprire le palpebre e mostrare al
mondo il verde scuro dei suoi occhi che s’illuminavano
di pagliuzze più chiare se colpiti, come in quel momento, da un
fascio di luce proveniente dalla finestra.
Ma ciò che in
realtà brillava nel loft, rischiarando ogni cosa attorno, era
l’inconsapevole
sorriso appena accennato che increspava le labbra del ragazzo ancora
assopito sul divano, in uno strano groviglio di gambe, braccia e
delle lenzuola che si era trascinato dietro quando dal letto si erano
svegliati e trasferiti per fare l’amore,
prima sul tappeto morbido e bianco, e infine sul divano.
Durante la notte,
Brian si era svegliato di soprassalto, temendo che quello che era
successo tra lui e Justin fosse stato solo un altro dei suoi sogni;
una stupida illusione. Quando però, facendo correre lo sguardo al
calore al suo fianco, aveva visto la chioma scompigliata di Justin e
la sua espressione rilassata, si era tranquillizzato, tirando un
sospiro di sollievo.
Facendo attenzione
a non svegliare il suo amante, si era infilato i boxer ed era sceso
dalla zona notte per raggiungere il pacchetto di sigarette ancora
abbandonato sul mobile della cucina, e ne aveva accesa una per
placare i battiti del suo cuore ancora ferito, mentre ammirava senza
la solita malinconia lo spettacolo della sua città illuminata.
Non c’era
voluto molto comunque, prima che Justin si accorgesse della mancanza
del suo corpo nel letto e si svegliasse, stropicciandosi gli occhi
per il sonno. Si era sollevato e aveva vagato con lo sguardo per il
loft, fino a che non aveva scorto la familiare figura che si
stagliava come un’ombra
dai contorni perfetti, davanti all’enorme
vetrata; resa quasi eterea dalla lieve nuvola di fumo che lentamente
si disperdeva a circondarla.
Con passi incerti
e dondolanti, l’aveva
raggiunto, coprendosi con il lenzuolo blu notte sistemato a mo’
di toga, e gli aveva cinto la vita in un abbraccio, prima di posare
più di un bacio lungo la linea delle spalle.
Brian
non era riuscito a trattenere un sorriso compiaciuto e a stento aveva
chiuso nella gola i gemiti di piacere nel sentire ancora quelle mani
che si muovevano sulla sua schiena e sul suo petto; finché astenersi
dal gustare ancora quelle labbra e sentire ancora l’odore
ammaliante del sesso era stato impossibile.
Avevano fatto
ancora l’amore; lì, distesi sul tappeto, fino a riassopirsi con i
loro corpi ancora uniti e risvegliarsi insieme per riaffondare ancora
nel limbo del piacere.
Era l’alba
quando si erano definitivamente addormentati, abbracciati sul divano;
e in quella stessa posizione Brian si era risvegliato, pronto ad
ammirare la bellezza marmorea del corpo che giaceva tra le sue
braccia.
Si
sentiva un po’ patetico, ma era un prezzo che era disposto a pagare
anche con gli interessi che ne sarebbero derivati, se significava
poter godere di quella sensazione di magnifica leggerezza che era
divampata dentro di lui da quando quel raggio
di sole aveva
rimesso piede nel suo loft.
«Buongiorno,
splendore.»
lo prese in giro, imitando Deb, quando lo sentì mugugnare come ogni
volta che si svegliava. Justin aprì prima un occhio, poi l’altro e
sorrise apertamente. Se c’era una cosa che Brian aveva imparato in
quegli anni era che, quando quel ragazzino sorrideva, era anche più
accecante del sole. Justin era il suo
sole.
«Che ore sono?»
biascicò, strusciandosi contro la sua spalla come un gatto.
«Venticinque
centimetri virgola cinque a mezzogiorno.»
«È
un’allusione poco
velata alle dimensioni del tuo cazzo e al fatto che sia sull’attenti
per l’erezione
mattutina, o vuoi dirmi che mancano venticinque minuti a
mezzogiorno?» ridacchiò in risposta.
Brian ammiccò.
«Entrambe le cose, ma mi è parso di sentir squillare il tuo
cellulare prima. Il che significa che ti stanno dando per disperso.»
«Dici che
dovremmo proprio andare al Diner?»
«Se non vuoi che
Deb chiami l’FBI,
indica una squadra di ricerca e si rivolga a qualche trasmissione
televisiva per lanciare un annuncio disperato...direi proprio di sì.»
Justin borbottò
qualcosa d’incomprensibile
e lamentoso con le labbra premute sul petto dell’uomo.
«Che palle.» soffiò poi e lentamente si tirò su. Cercò di domare
i capelli ribelli e si liberò dal groviglio in cui era incastrato.
Si allungò nuovamente verso
Brian e iniziò a sfiorare la pelle del collo dietro l’orecchio con
la punta del naso e un sorrisetto impertinente.
Era più che ovvio
che i suoi programmi non comprendevano affatto il Diner...non il quel
momento almeno.
Brian sorrise e
gli afferrò la faccia con una mano sola, stringendogli le guance con
le sue dita lunghe ed eleganti, prima di farlo avvicinare alle sue
labbra e prendere a mordicchiarlo.
Risero e si
sorrisero, tra un bacio e l’altro, prima di intraprendere una
sciocca lotta fatta di morsi dispettosi, alternati a carezze audaci,
col risultato di rovinare l’uno addosso all’altro sul pavimento,
tirandosi dietro perfino i cuscini.
Fu Brian ad averla
vinta in un primo momento, riuscendo a sovrastare l’altro con il
suo peso e bloccandogli entrambi i polsi sopra la testa, prima di
iniziare una dolce tortura, fatta di scie umide e lucide con la punta
della lingua, a seguire le linee del collo e del petto; ma non riuscì
a tenerlo imprigionato per molto, conscio del bisogno che aveva di
sentire quelle dita abili vagare in ogni parte del suo corpo.
Si ritrovarono
quindi a ruoli invertiti; con Justin che si premurava di far dilagare
scariche elettriche e brividi sulla pelle del suo amante, giocando
semplicemente con i denti sul suo lobo.
Lo sentì ridere
appena e sospirare di piacere, rendendosi nuovamente conto che
avrebbe passato la sua intera vita a sentire solo quei semplici
suoni, insieme a quello della voce dell’uomo che amava.
Avrebbe passato
ogni suo giorno a respirare solo quel profumo; ad ammirare ogni suo
movimento, ogni suo vizio. Avrebbe passato ogni istante che ancora
gli restava in compagnia di Brian, riempiendosi l’anima di tutto
quello che andava a comporre la sua essenza.
Fece scendere una
mano ad accarezzargli il petto, superando lo stomaco fino al limite
del ventre, sorridendo compiaciuto quando sentì l’altro deglutire,
per poi emettere un piccolissimo gemito; ed era pronto a ottenerne
altri ben più sonori, se solo il telefono non avesse iniziato a
squillare.
Lasciò cadere la
testa sconsolato addosso a Brian - che nel frattempo aveva sollevato
gli occhi e si era lasciato ricadere a terra con esasperazione - e
sbuffò rumorosamente, unendosi alle colorite imprecazioni dell’uomo,
sibilate tra i denti.
Justin si scostò
da un lato per permettere all’altro di alzarsi e raggiungere il
telefono. L’osservò in tutta la sua nuda bellezza e lasciò che le
sue labbra piene s’increspassero in un sorriso.
Brian
se ne accorse e, solo per un attimo, abbandonò il suo cipiglio
contrariato per ricambiare quel sorriso, prima di rispondere:
«Pronto?» soffiò scocciato e portò una mano a massaggiarsi
la faccia per calmarsi, quando riconobbe la voce del suo migliore
amico.
«È
da te?» gli chiese semplicemente Michael, senza aggiungere
spiegazioni, mentre sua madre borbottava alle sue spalle.
«Arriviamo.»
ringhiò e sbatté malamente il ricevitore al suo posto. «La libertà
condizionata è finita, raggio di sole.» comunicò poi a un
Justin visibilmente divertito. «I malefici carcerieri ti rivogliono
nel loro covo.»
«Non potresti
chiedere a Furore se può salvarmi?»
«Mi dispiace, ma
contro Debbie non basterebbe una bomba nucleare.» fece una smorfia
e, dopo essersi infilato i pantaloni della tuta, iniziò a preparare
il caffè. «Altro che HIV...è lei il nemico giurato di ogni frocio.
Ti si aggrappa alla giugulare e ti succhia la vita. Peggio di un
vampiro.»
«Non sapevo che
ti dispiacesse farti succhiare...»
«Il cazzo.» lo
interruppe, versando una quantità esagerata di granellini bianchi
nella caraffa, nell’intento
di zuccherare. «Non il sangue, e soprattutto non da Deb.»
«Sei crudele.»
rise Justin, avvicinandosi a lui, nuovamente avvolto nel lenzuolo.
«Non sono
crudele.» mormorò porgendogli una tazza fumante. «Voglio solo
farmi la mia sacrosanta scopata mattutina in pace, senza che quel
cazzo di telefono cominci a squillare. È
un reato forse?» inarcò le sopracciglia e bevve direttamente dalla
caraffa, prima di risputare tutto il liquido scuro nel lavabo.
«Era sale, vero?»
gli chiese Justin con la faccia schifata, tenendo ancora tra le dita
la tazza.
Brian rovesciò il
resto nelle condutture, con un’espressione
disgustata. «Vedi? È
colpa di quella strega!» abbandonò la caraffa e afferrò il
cartoccio del succo dal frigo. «Mi avrà lanciato qualche
maledizione contro, dal momento che si è accorta che ti ho
monopolizzato.»
«Va be’...in
fondo, dovremmo pur farci una doccia prima di uscire, no?» sorrise
sornione, prima di abbandonare la tazza, afferrare Brian per
l’elastico dei
pantaloni e trascinarlo fino al bagno, lasciando che il lenzuolo blu
scivolasse a terra, scoprendo il suo corpo niveo.
*'*'*
«Secondo me è
inutile che te la prendi così.» mormorò Ted, addentando il suo
panino col tonno. «Stiamo parlando di Brian e Justin! Che ti
aspettavi che facessero, a parte chiudersi in qualche posto a scopare
come ricci?»
«Non si parla con
la bocca piena.» lo rimproverò Debbie, dopo avergli rifilato uno
scappellotto. «E comunque pensavo fossero cresciuti abbastanza da
riuscire a tenerselo buono nei pantaloni, almeno per qualche ora!»
Ted, Emmett e
Michael, seduti sugli sgabelli dall’altra
parte del bancone, si scambiarono occhiate eloquenti, prima che il
figlio della donna provasse ancora a rabbonirla. Proprio non l’aveva
buttato giù il fatto che Brian avesse letteralmente rapito il suo
“topino”. «Mamma, andiamo! Non si vedono da più di un anno!»
«E che vuol
dire?» borbottò, puntando entrambi i pugni sui fianchi. «Che
devono recuperare tutto insieme?»
Emmett sollevò le
sopracciglia. «Se pensi che erano abituati ad almeno quattro
volte al giorno, e che sono stati lontani tutto quel tempo...»
«Fa una media di
circa...» Ted ci pensò su un attimo, continuando a masticare e
affermò soddisfatto: «Duemilacentonovanta scopate da
recuperare, come minimo.»
«Esistono anche
altre cose oltre al sesso, lo sapete?» continuò la donna con la sua
filippica.
«Vallo a spiegare
a Brian!» commentò Emmett, tagliando la sua ciambella e portando il
boccone alle labbra. «Comunque ha detto che sarebbero arrivati, no?
Abbi fede!»
«Eccoli infatti!»
esclamò Michael, indicando con un cenno della testa la vetrina del
Diner, davanti a cui i due stavano sfilando. Aspettò che fossero
entrati e sorrise raggiante, prima di rendersi conto delle condizioni
disastrate in cui vertevano le facce di entrambi. Nonostante la loro
proverbiale bellezza, le borse sotto gli occhi non perdonavano
nessuno. «Ma che cazz...»
«Avete già
recuperato tutte le duemilacentonovanta scopate?» chiese Ted,
dando voce ai pensieri di tutti, mentre i due si lanciavano occhiate
confuse.
«Cristo. Avevo
sentito parlare di mitologiche maratone di sesso!» esclamò Emmett,
con la forchetta a mezz’aria,
per poi ammiccare e tornare a mangiare. «Adesso so da chi derivano
certe leggende.»
«Topino!»
esclamò Debbie infine, riscuotendo gli ultimi arrivati con il volume
decisamente alto della sua voce. «Ma cosa ti ha fatto?!»
«Sicura di
volerlo sapere, mamma?»
«Deb, quando hai
finito di trattarmi come il mostro cattivo della laguna, mi
verseresti una tazza di caffè?» Brian si tolse gli occhiali da sole
e i guanti, e si appoggiò al bancone con un sorriso tirato.
Ignorando le occhiatacce della donna. «Grazie.»
«Una anche per
me, Deb!» intervenne Justin con uno sbadiglio.
«Certo, tesoro.»
rispose e con un sorriso posò uno dei suoi rossi baci sulla fronte
del ragazzo.
«Tutte tue le
attenzioni, raggio di sole.» commentò il bel pubblicitario,
ridendo del segno lasciato dal rossetto. «Non t’invidio
affatto.»
«Perché a
differenza sua, sei un frocio acido e scorbutico, come se ti avessero
piantato qualcosa su per il culo!» borbottò lei. «Senza
lubrificante!»
«Mi spiace
deluderti, ma nel mio culo non c’è
proprio niente.»
«Accidenti.»
replicò Ted. «Questa sì che è una novità! E poi dicono che a
Pittsburgh non succede mai niente di nuovo!»
«Theodore...» lo
chiamò Brian, continuando a sorridere. «...vuoi usare il giorno del
Ringraziamento per essermi grato di averti licenziato?»
«No!»
«E allora chiudi
quella cazzo di bocca.» sibilò con le sopracciglia inarcate, e
allargò il suo sorriso sfrontato.
«Maledetto
schiavista.»
«Come scusa?»
«Parlavo...dell’‘insalata
mista’.» sorrise
indicando il panino. «Sai, non la digerisco bene! Eppure non riesco
a farne a meno. Non ha lo stesso gusto, né il colore senza!»
«Certo, certo.»
annuì Brian e portò il pollice a sfiorare la propria fronte. «Be’,
cerca di abituarti, perché sarà l’unica
cosa che potrai permetterti di mangiare quando ti avrò ridotto a
vivere sotto un ponte.» sorrise ancora e sbatté le ciglia più
volte, prima di rivolgersi a Justin, che nel frattempo aveva
assistito alla scena ridacchiando. «Direi
di andare.» il ragazzo annuì e posò la tazza sul bancone. Brian
inforcò gli occhiali da sole e rinfilò i guanti di pelle nera.
«L’avete
visto anche per troppo oggi.» disse rivolto agli altri e, dopo aver
passato un braccio intorno alle spalle di Justin, lo scortò fino
alla Corvette verde e lucente.
«Secondo voi
tornano a scopare?» domandò Emmett, quasi sconvolto.
«Be’
duemilacentonovanta scopate non sono poche da recuperare.»
replicò Michael. «Un minimo di duemilacentonovanta.»
«Non credo di
averne mai fatte così tante, neanche in due o tre anni.» concluse
Ted.
Debbie prese le
due tazzine sporche e passò uno straccio sul bancone. «Una cosa è
certa. Da quanto il topino è tornato, Brian Kinney è risorto
e risplende di luce nuova.»
«Amen.»
commentò in risposta il figlio, con uno sbuffo sarcastico. «Sembra
che tu stia parlando di Gesù Cristo.»
«Perché...c’è
qualche sostanziale differenza?»
«Effettivamente...»
iniziò Emmett. «A parte il look e il fatto che, purtroppo per lui,
non sa ancora trasformare l’acqua
in Jim Beam, più o meno ci siamo.»
«Nel suo letto
avviene la moltiplicazione degli uomini.» continuò Ted, sollevando
uno degli angoli della bocca in un lieve sorriso.
«Per non parlare
dei preservativi!» esclamò l’altro
in risposta. «Mi sono sempre chiesto dove diavolo li tenesse
nascosti!»
«E dei soldi.»
aggiunse infine il contabile, terminando il suo panino e pulendosi
accuratamente le mani. «Pensate alla Kinnetik.»
Michael sorrise,
tra gli sguardi sconvolti che sua madre stava lanciando ai tre amici.
«Se non sono miracoli questi! Certo le sue parabole non sono
propriamente etiche, però...»
«E voi chi cazzo
siete? I Re Magi?» replicò sarcastica la donna.
«Soldi...»
pronunciò Ted indicando se stesso, per poi passare a Emmett dopo
averci pensato su un attimo. «...droga...» e per finire fece un
cenno verso Michael. «...e birra.»
«Facciamo
‘alcool’.
È più generico!»
rispose l’ultimo
tirato in causa.
«Ma che cazzo di
problemi avete?» chiese lei al limite dello sconvolto, prima di dare
un’energica pulita al
bancone con lo straccio, masticando decisa il chewin-gum. «Piuttosto,
che avete combinato ieri sera?»
«Cena e film con
Ben e Hunter.» replicò immediatamente Michael con una scrollata di
spalle.
«Cena e film con
Blake.» lo seguì imitandolo Ted.
«Non avevo
dubbi.» commentò con ironia, per poi rivolgersi a Emmett. «E tu,
tesoro? Quanti bei maschioni hai conquistato ieri sera? Ti ho sentito
rientrare tardi a casa.» rise compiaciuta e aggiunse: «Scommetto
che qualcuno si è divertito parecchio!»
«Effettivamente...»
mormorò con tono vago, giocherellando con uno degli stecchini. «È
stata una bella serata.»
Debbie si protese
sul bancone, appoggiandosi sui gomiti. «Allora, racconta! Com’era
il ragazzone?»
«No, no.» rise
Emmett, sventolando una delle mani in segno di negazione. «Non è
come pensi. Ho passato una bella serata intavolando
un’interessantissima
chiacchierata.»
«‘Chiacchierata’?!»
chiesero sorpresi Ted e Michael, all’unisono.
«Tu?!»
«Esattamente.»
confermò deciso, con un pizzico di vanità.
Gli altri due si
scambiarono un’occhiata
confusa e ripresero a fissarlo come se fosse stato un alieno. «Em,
sicuro di sentirti bene?»
«Ehi, voi due.»
intervenne Debbie. «Piantatela. Non tutti pensano solo e soltanto a
scopare! Può essere piacevole anche una chiacchierata, sapete?»
Il figlio le
rivolse un’occhiata
scettica. «Mamma. Stiamo parlando comunque di Emmett.»
«E con questo?
Non fa mica ‘Kinney’
di cognome.» ribatté contrariata, prima di riportare la sua
attenzione sul colorato single della combriccola. «Allora
tesoro, dicci chi è?»
Emmett osservò
con attenzione il rosso sorriso di Debbie, prima di passare lo
sguardo sui propri amici.
Una parte di sé
avrebbe voluto confessare candidamente di aver trascorso l’intera
serata con Jace. Non c’era
niente di male in fondo, visto e considerato che avevano davvero solo
parlato per tutta la sera, eppure qualcosa bloccava la sua
proverbiale lingua sempre in movimento e spesso inopportuna.
Pochissime volte
nella sua vita qualcuno lo aveva coinvolto tanto usando solo le
parole; soprattutto nell’ultimo
periodo, in cui trascorreva le sue notti al Babylon trovando quasi
ogni sera un uomo diverso con cui passare qualche ora facendo
esclusivamente buon sesso, anche se decisamente vuoto.
Stavolta invece
era stato diverso.
Jace aveva riso e
scherzato con lui. Avevano bevuto insieme e parlato del più e del
meno, osservando la pista e commentando i presenti, prima di
lanciarsi in qualche ballo, al centro di quel vortice di luci
colorate.
Si era sentito
davvero libero e spensierato. Quel ragazzo sembrava in grado di
alleggerirlo da ogni pensiero ed ogni peso. Poteva apparire
superficiale, ma per certi versi gli ricordava tanto lo sprizzante e
un po’ frivolo Emmett -
senza alcun problema o fantasma con cui combattere, che era stato
anni addietro - condito da quella speziata malizia e da quel tocco di
charme, tipici di uno come Brian.
Jace era un tipo
estremamente sicuro di sé.
Sapeva di essere
un bel ragazzo con una classe indiscutibile, e dal suo sguardo deciso
sembrava che niente potesse turbarlo o intimorirlo; e se mai qualcosa
ci fosse stato, certamente lo nascondeva più che bene.
La vicinanza di
quel ragazzo era stata una vera e propria boccata d’aria
fresca, e proprio perché sentiva quella sensazione nuova così
personale, ne era “geloso” e non sapeva se condividerla, né come
poterla spiegare. «È
un segreto!» rispose allora, con un largo sorriso a nascondere il
suo turbamento, prima di alzarsi dallo sgabello e controllare il
proprio palmare. «Scusate, ma devo proprio andare!» concluse poi,
inviando loro un bacio nell’aria,
per poi sculettare come sempre verso l’uscita,
infilandosi il cappotto.
Debbie, Michael e
Ted seguirono la psichedelica figura per tutto il suo tragitto, con
uno sguardo attento. Restarono in silenzio per qualche secondo e si
scambiarono un’occhiata
eloquente.
Non c’era
bisogno di parole.
Emmett aveva
qualcosa di strano, e come ogni famiglia che si rispetti, era loro
preciso compito ficcanasare a dovere per scoprire cosa stesse
nascondendo.
*'*'*
«Quindi...che si
fa?» chiese Justin, passeggiando tranquillamente al fianco di Brian
per Liberty Avenue, e passando gli occhi intorno a sé, in ogni
angolo di quella strada così familiare, per assaporarne ogni
particolare.
Aveva agognato per
così tanto tempo la possibilità di rivivere quei momenti, fatti
delle loro abitudinarie passeggiate, che ancora non riusciva a
crederci davvero. Continuava ad essere terrorizzato dall’orrendo
presentimento che tutto quello fosse solo un sogno e che presto
avrebbe finito per svegliarsi nel suo letto a New York.
Spostò lo sguardo
su Brian, bellissimo e reale accanto a lui, e gli si fece più
vicino, cingendogli la vita con un braccio e lasciando che l’uomo
passasse il proprio sulle sue spalle.
«Lo domandi?»
replicò in risposta il bel pubblicitario, con il suo solito
sorrisetto spavaldo. «Scopiamo.»
Justin sorrise e
scosse la testa. «Non mi riferivo solo a oggi. Come sempre non ci
siamo dati neanche il tempo per parlare un po’...»
«C’è
sempre da preoccuparsi, quando hai ‘voglia
di parlare’.» mormorò
Brian arricciando le labbra poco convinto dalle parole dell’altro,
ed inarcò le sopracciglia. «Il tuo pensare non ha mai portato a
niente di buono.»
«Brian, sto
parlando sul serio.»
«Anch’io.»
ribatté prontamente, ma quando incrociò l’espressione
seria di Justin, sospirò e comprese che non era davvero il momento
di scherzare. «E va bene...hai detto che potrai restare circa un
mese se tutto procede secondo i piani, no?» sollevò le spalle e
prese le chiavi della Corvette dalla tasca del cappotto. «Ok, allora
quando arriverà quel giorno vedremo.»
«Vedremo?»
«Esatto. Quando
sarà il momento in cui dovrai ritornare a New York, perché tu
ritornerai a New York...» scandì bene le parole, per accertarsi
che il suo biondo interlocutore avesse afferrato l’indiscutibile
concetto, e con un’altra
distratta scrollata di spalle, aggiunse: «Allora ne parleremo. Non ha
molto senso farlo ora.»
Stizzito e
spaventato dalle parole dell’uomo,
Justin sentì montare rabbia ed esasperazione dentro. Non poteva
permettere che Brian l’allontanasse
di nuovo. Non era a New York che voleva stare, ma a Pittsburgh
insieme a lui. «E se io non volessi tornare là? Hai sentito quello
che ti ho detto ieri?»
«E tu hai sentito
quello che ti ho detto più di un anno fa?» replicò asciutto,
togliendosi gli occhiali da sole. Brian aveva già preventivato una
reazione del genere e, per quanto in cuor suo avrebbe voluto
accontentarlo e lasciarlo restare, non poteva assolutamente
permettere uno sbaglio simile. Justin aveva una carriera da portare
avanti, ed era quello che avrebbe fatto, anche a costo di
costringerlo e rispedirlo nella Grande Mela legato al sedile
dell’aereo. «Tornerai
a New York e non si discute. Non puoi mandare tutto a puttane.»
«Ho già avuto
tutto da quella città.»
«Puoi sempre
avere di più.»
«Ma non
m’interessa e...»
«Justin. Non
voglio ripeterlo.» lo interruppe, stavolta con un tono molto più
duro. «Non butterai nel cesso tutta la tua carriera. Fine della
storia.»
«È
la mia vita, cazzo!» sbottò inevitabilmente, stringendo i pugni
così forte da far sbiancare le nocche. «Posso decidere di farne
quello che voglio!»
«Non erano questi
i patti.» replicò irremovibile Brian, aggrottando la fronte.
«‘Fanculo
i patti!» esclamò Justin. «Non voglio tornare in quel posto.»
«Ok, resta alla
vecchia e gloriosa Pittsburgh, ma non aspettarti di trovarci anche
me.»
«Perché devi
essere sempre così stronzo?» chiese con rabbia, passandosi una mano
tra i capelli biondi e lucenti per scostare i ciuffi che gli
coprivano gli occhi.
«E tu perché
devi essere sempre così sordo e cieco?!» ribatté Brian, alzando la
voce e inchiodando l’altro
con il suo penetrante sguardo verde scuro. Serrò le labbra e aspettò
che Justin recepisse il messaggio celato nella sua frase; e come da
programma, dopo qualche secondo di gelido silenzio, le spalle
dell’artista si
rilassarono e gli occhi blu si addolcirono nuovamente, facendogli
riassumere quella sua tipica
aria da ragazzino.
Come in ogni loro
litigio, Justin aveva avuto il bisogno di fare la sua solita sparata,
prima di calmarsi e comprendere cosa in realtà l’altro
volesse comunicargli. Aveva avuto bisogno di sfogare la sua
frustrazione, prima di ascoltare con più attenzione quelle parole e
capire che tutto quello che Brian diceva o faceva era, come sempre,
solo e soltanto per il suo bene.
Non era per
scacciarlo o perché non lo voleva tra i piedi. Perché per quante
volte gli avesse detto di andarsene in passato, ormai la fase “sono
single, voglio restarlo e scoparmi qualsiasi cosa si muove” era
stata superata ed accantonata da un bel pezzo, e Brian aveva già
imparato ad ammettere, accettare e convivere con l’amore
che provava per Justin. Aveva compreso il suo bisogno di quel
ragazzino biondo nella sua vita e non avrebbe mai fatto niente per
allontanarlo, se non fosse stato esclusivamente per il suo bene.
Nuovamente
consapevole di quella verità, con un sospiro sommesso, Justin finì
per placare anche la poca rabbia rimasta e mormorò, pur mantenendo
uno sguardo triste: «La smetterai mai di sacrificarti per gli
altri?»
«Non è un
sacrificio.»
«Per me lo è!»
esclamò ancora. Non riusciva a sopportare il fatto che ogni dannata
volta, Brian dovesse sempre anteporre la sua stramaledetta carriera
d’artista alla propria
felicità; e non abbandonava mai la speranza che prima o poi la
piantasse con quella sua stupida crociata e gli dicesse un sincero
“resta”.
«Tornerai quando
sarà il momento e non è certo adesso.» gli rispose invece, con un
tono che non ammetteva repliche, e fu impossibile per Justin
desistere dall’alzare
gli occhi al cielo e sospirare ancora.
«Verrai a
trovarmi almeno?»
Le labbra di Brian
si schiusero con fare incerto, per rispondere, quando il suo
cellulare prese ad agitarsi e suonare nella tasca interna del
cappotto. «Pronto...» disse, dopo aver letto un “Linz”
lampeggiare sullo schermo. «Ciao figliolo!» esclamò poi; e quegli
occhi verdi parvero accendersi e brillare di una luce accecante,
mentre un sorriso sincero andava ad increspargli le labbra piene.
«Sì...di pure alla mamma che passo a prenderti tra...» guardò il
suo costoso Rolex e comunicò: «...dieci minuti.» sorrise più
apertamente e lanciò un’occhiata
a Justin. «Sì, è qui con me. Verrà anche lui. A tra poco.»
riagganciò e, dopo aver riposto il cellulare nel taschino, fece
scattare la serratura della Corvette. «Andiamo raggio di sole,
devo andare a dar sfoggio delle mie qualità di padre perfetto.»
«Brian...» lo
chiamò con uno sbuffo scocciato. «Smetti di sviare il discorso. Hai
sentito quello che ti ho detto?»
Lui sollevò gli
occhi al cielo e si passò la punta della lingua sulla bocca. «Sì,
ho sentito...e la mia risposta è sempre la stessa...‘non
voglio interferire o crearti distrazioni’,
e...»
«Ma perché non
la pianti una buona volta con...»
«Non ho finito.»
intervenne per bloccare le proteste dell’altro.
«Stavo dicendo che non voglio crearti distrazioni mentre lavori, ma
se avrai il tempo di prenderti una pausa...» alzò le spalle
e piegò per un attimo le labbra all’interno,
prima di accennare ad un sorriso. «...Pittsburgh dista un’ora
d’aereo e nessuno ti
vieta di trascorrere qua le tue vacanze. In fondo è anche casa tua.
Chi può impedirti di tornare?»
Justin lo scrutò
attentamente, nel silenzio più assoluto, come se si aspettasse
un’altra clausola in
quell’ennesimo loro
patto, che non gli sarebbe piaciuta affatto. Aggrottò la fronte e
pronunciò fievolmente: «Vuol dire che posso...»
«‘Tornare
durante le pause’...è
questo che ho detto.» si affrettò a puntualizzare, per smorzare sul
nascere qualsiasi strana idea potesse aggirarsi in quella folle e
spettinata testolina bionda. «Non ‘abbandonare
tutto e ritrasferirti in pianta stabile’.
Chiaro?» aspettò che l’altro
annuisse, seppur con titubanza, ed aprì la portiera della Corvette.
«Andiamo, sali. Gus s’innervosisce
se arrivo tardi.» sorrise e si mise al volante, rendendosi
conto di come la frase appena pronunciata gli riportasse alla mente
un Justin appena maggiorenne che, dopo l’aggressione,
mostrava quella stessa identica reazione se non lo aveva vicino. Per
qualche strana ragione, Gus somigliava un po’
anche a lui. «Sai, ha un po’
i tuoi modi di fare.» gli confessò quindi, ridacchiando.
«E questo ti
preoccupa?» domandò il ragazzo, regalandogli uno dei suoi sorrisi luminosi e
compiaciuti. Gli piaceva davvero tanto l’idea
che Gus ricordasse lui al padre.
Brian gli scoccò
una strana occhiata e inforcò nuovamente gli occhiali scuri, prima
di mettere in moto e partire. «Non immagini quanto.»
Con un minuto
esatto di anticipo, dopo una
sua classica performance di guida perfettamente
spericolata, Brian
parcheggiò la Corvette nel vialetto, assistendo compiaciuto alla
corsa felice di suo figlio che lo raggiungeva con le braccia aperte -
pronto a farsi stringere in un abbraccio - ed un sorriso splendido ad
illuminargli il visino dolce e paffuto.
Scese
velocemente dall’auto e si preparò ad accoglierlo compiaciuto,
quando il bambino si gettò al collo di Justin. «Justin,
Justin.» lo chiamò entusiasta, lasciando il padre decisamente
confuso e interdetto. «Ho fatto un disegno! Vuoi vederlo?!» gli
chiese speranzoso, dopo aver afferrato la mano del giovane artista
con la sua minuscola e morbida, per tirarlo verso casa.
«Certo, certo.»
rise il ragazzo, per poi farsi trascinare, senza neanche avere il
tempo di salutare Linz a dovere.
Brian scosse la
testa, con uno strano sorriso e inserì l’allarme,
prima di avviarsi lentamente verso la porta d’ingresso,
dove la sua bionda migliore amica lo stava aspettando con
un’espressione
evidentemente divertita. «Evita i commenti.» l’avvertì
immediatamente ma, come aveva già preventivato, fu tutto
perfettamente inutile.
«Sembra che i
geni dei Kinney, abbiano un particolare debole per quello dei
Taylor.» sorrise compiaciuta, dandogli un buffetto sulla spalla.
«Non mi pare che
l’amore divampasse tra
me e papà Taylor.» rispose lui, riferendosi ai brutti
trascorsi con Craig, per confutare in qualche modo la sua teoria.
Linz sollevò le
sopracciglia ed arricciò le labbra, come se stesse varando varie
ipotesi. «Effettivamente...» mormorò, per poi aggiungere:
«...probabilmente è un debole solo per quel Taylor in
particolare.»
«Come no.»
borbottò Brian, entrando in casa, sperando nuovamente – e invano –
che il discorso si esaurisse con quella battuta.
«Sono davvero
contenta che sia tornato.»
«Non l’ha
fatto infatti.» rispose con una scrollata di spalle, e quando vide
lo sguardo confuso della donna, si decise a spiegare: «Starà
qui solo per un mese, al massimo. Poi dovrà tornare alla sua base
operativa nella
Grande Mela.»
«Un mese non è
poco, e magari potresti anche deciderti per farti qualche viaggetto a
New York.» lo rimproverò con un’occhiataccia.
«O magari a Toronto in sua compagnia. Faresti felice anche
Gus.»
«Vedremo.»
tagliò corto con un sospiro, facendo il suo ingresso nel salotto di
casa Bruckner-Novotny, dove il tavolino ed il pavimento erano
completamente imbanditi di pastelli, matite e fogli.
Le labbra di Brian
s’incresparono in un
sorriso dolce e sentì il cuore battergli con forza dirompente nel
petto, quando tra quel tripudio di pittoresca confusione, i suoi
occhi s’imbatterono
nell’entusiasmo del
piccolo Gus che mostrava i suoi buffi disegni a Justin, spiegandoli
accuratamente: «Questa è la nostra casa a Toronto.» disse deciso,
indicando quella strampalata riproduzione dal tetto rosso e
triangolare e il comignolo storto. «E questo sono io, con le mie
mamme, Jenny e il mio papà.» indicò tutti, uno per uno, finché
non arrivò ad un’altra
figura bionda nel disegno, con due grandi cerchi blu ad interpretarne
gli occhi. «E ho disegnato anche te, vicino al mio papà! Vedi?»
«Sì.» sorrise
Justin. «È bellissimo
sai?» gli disse poi, accarezzandogli la testa. «Che dici...posso
tenerlo io questo?»
A quelle parole
Gus si gonfiò d’orgoglio.
«Certo!» esclamò, prima di voltarsi verso i propri genitori e
correre da loro. Si allungò verso Brian e si fece prendere in
braccio. «Hai sentito papà? A Justin è piaciuto il mio disegno!»
gli rivolse un gigantesco sorriso e continuò: «E se l’ha
detto lui, vuol dire che anche io farò i quadri?»
«Be’...se
l’ha detto Justin...»
ammiccò, strizzando l’occhio.
«...deve essere per forza così. Anche perché ne sono certo,
Gus...potrai diventare tutto quello che vorrai.»
Il bambino sorrise
felice, prima di passare gli occhi tra suo padre e il biondo artista.
«Adesso possiamo andare alla tua casa? È
più bella e ha la televisione grandissimissima.»
«D’accordo
signorino.» convenne lui, facendo un cenno a Justin.
«È
proprio tuo figlio.» commentò Linz, scuotendo la testa. «Non
riesce a stare lontano dalle cose costose, di classe e da megalomani
come te.»
«Per fortuna,
aggiungerei.» ribatté Brian, inarcando le sopracciglia. «La
sua natura lo salverà da te e tuo marito. Non oso immaginare cosa ne
verrebbe fuori altrimenti.»
«Molto
spiritoso.» lo apostrofò lei. «Comportati bene davanti a tuo
figlio...» lanciò un’occhiata
eloquente e ammonitrice a Justin e sorrise maliziosa. «Tenete le
mani a posto e portatelo a casa di Debbie in orario per la cena.
Chiaro?»
«Sì, signorina
Rottermaier.» la prese in giro l’uomo,
tra le risate di Justin, riuscendo a schivare appena in tempo un
debole pugno. «Ci vediamo più tardi.» la salutò, seguito
dagli altri due suoi uomini, prima di raggiungere la Corvette e
consegnare il bambino a Justin, per farlo sedere con lui, proprio
come avevano sempre fatto in passato.
“Hear you me” – Jimmy Eat World
Il primo a
raggiungere la porta scorrevole fu Gus, dopo aver trascinato i due
uomini in una “gara a chi arriva primo” su per tutte le scale del
palazzo, e in cui, ovviamente, lo avevano lasciato vincere.
Brian osservò suo
figlio saltellare felice, mentre prendeva in giro sia lui che Justin,
e fece girare le chiavi nella serratura per permettere a tutti di
entrare nel loft.
Con uno scatto
fulmineo, il bambino corse immediatamente all’interno
e salì su una delle due sedie bianche, sporgendosi sul tavolo, senza
neanche togliersi il cappotto e la sciarpa, pronto ad iniziare il suo
pomeriggio di disegni con il giovane e biondo artista. «Justin,
Justin!» lo chiamò, agitandosi sulla sedia. «Metti tutto qui!»
strillò entusiasta, riferendosi ai colori e ai fogli che aveva
insistito per portarsi da casa.
«Piano,
campione.» lo riprese suo padre. «Togliti prima questa roba.» gli
disse, prendendo a srotolare la sciarpa dal piccolo collo bianco e
sbottonandogli il piumino.
«Ehi Gus.» lo
chiamò Justin. «Che ne dici se disegniamo sul pavimento?» propose,
sapendo quanto Brian tenesse al suo tavolo ellittico e immacolato, e
che sarebbe certamente stato in pericolo con un bambino di sette anni
e i suoi coloratissimi pennarelli.
Gus annuì felice
in risposta e zampettò vicino al ragazzo, mettendosi immediatamente
disteso a pancia sotto e aspettando che Justin posasse un foglio
bianco davanti a lui. «Che disegno?» chiese in seguito, indugiando
sulla miriade di pennarelli a sua disposizione.
«Non so, quello
che preferisci.» gli rispose l’artista,
sedendosi accanto a lui.
«Allora...»
iniziò incerto il bambino, inarcando le piccole ciglia scure e
facendo sparire le labbra all’interno
della bocca, replica del padre. «...disegno me, te e papà!»
decise, e prese il pennarello rosa, iniziando a tracciare i primi
contorni.
«Attenti al mio
parquet, voi due.» brontolò immediatamente Brian, prendendo una
bottiglia di birra dal frigo. «Vi tengo d’occhio.»
«Non fare il
padre pallos...ehm...» Justin si schiarì la voce e lanciò
un’occhiata al
mini-Kinney, per sincerarsi che non l’avesse
sentito. «...noioso.»
«Taylor...» lo
apostrofò, fingendosi sconvolto, mentre si avvicinava ai due e si
sedeva con loro. «Che cos’è
questo linguaggio?»
«Ma piantala!»
ribatté l’altro,
lanciandogli contro uno dei pennarelli.
«Justin, mi
disegni una casa?» chiese Gus, intento nella riproduzione dei
capelli del padre sul foglio bianco.
«Certo.»
rispose, prendendo immediatamente i colori giusti ed iniziando a
tracciare le prime linee perfettamente dritte, mentre gli occhi scuri
di Brian si perdevano nell’osservare
l’espressione assorta
che Justin assumeva ogni volta che doveva disegnare; anche se si
trattava della cosa più semplice del mondo.
Semplicemente, gli
piaceva guardarlo.
Adorava vedere il
cipiglio leggero che gli solcava la fronte nivea, e quelle perle blu
dei suoi occhi fisse sul foglio e concentrate; o il modo in cui a
volte serrava le labbra o le mordicchiava distrattamente. Adorava
come piegava di lato la testa per controllare da un’altra
angolazione il suo operato; o come i capelli biondi e lisci danzavano
davanti alla sua faccia, costringendolo a scostarseli dietro le sue
bellissime orecchie a conchiglia. E adorava anche quel suo buffo
vizio di premersi il pennarello – o qualunque fosse lo strumento
che usava in quel momento per disegnare – sulle labbra,
assottigliando lo sguardo e assumendo quella sua eccitante aria
pensosa.
Brian avrebbe
trascorso ore ad osservarlo mentre disegnava, perché in quel momento
Justin gli appariva etereo. Era così bello da sembrare intoccabile,
e a volte quasi aveva avuto paura a farlo, perché temeva di rovinare
quell’affinità che
quel ragazzino riusciva a creare con l’arte.
Solo nei momenti in cui il bisogno di sentirselo addosso era
diventato più forte di tutto il resto, si avvicinava a lui e lo
strappava dal quel suo strano limbo per farlo ancora suo.
Prese un sorso e
inconsapevolmente si ritrovò a sorridere.
Se invece che
avere il genio della pubblicità dentro, avesse avuto quello
dell’arte come Justin,
sicuramente avrebbe immortalato su una tela quella scena, e l’avrebbe
nominata con un titolo che avrebbe richiamato il significato della
felicità più semplice e pura; perché per lui, quell’immagine,
aveva davvero quel sapore perfetto, e avrebbe anche pregato purché
non finisse mai, perché restasse indelebile ed immutata nel tempo;
eppure, bastò un brutto ricordo del passato a rovinare tutto.
Improvvisamente la
mano di Justin prese a tremare, come tante altre volte gli aveva
visto fare, e il ragazzo fu costretto a ritrarla prima di rovinare il
disegno con i suoi spasmi e ad afferrarla con quella sana, per
mettere in trazione i tendini.
Brian lo vide
borbottare qualche imprecazione, così che si avvicinò a lui con uno
strano groppo alla gola, e sostituì le sue mani a quella
dell’artista, per
aiutarlo nei massaggi. «Non mi hai ancora detto niente di questa.
Come va?»
Justin sbuffò.
«Come sempre. Solo che in questo periodo le ho chiesto davvero
troppo, e adesso sembra resistere un po’
meno del solito.»
«Tranquillo...»
gli disse, vedendolo nervoso. «...tienila un po’
a riposo e tornerà come prima.»
«Finisco questo
disegno e...»
«Justin.» lo
chiamò, con un leggero tono di rimprovero.
«Solo questo.»
gli sorrise, gongolando un po’
per il fatto che Brian si preoccupasse tanto per lui. «Promesso.»
«D’accordo.»
sospirò arrendevole, terminando di massaggiargli la mano, prima di
passare le dita nei capelli setosi del figlio, in una carezza carica
d’amore. Tornò a
sorseggiare la sua birra, e riprese a godere di quell’immagine
perfetta, seppur con un po’
di ansia che, come un dito gelido, gli sfiorava la schiena in tutta
la sua lunghezza, impedendogli di sciogliere quell’odioso
nodo al centro della gola.
Per quanti anni
fossero trascorsi, Brian non sarebbe mai riuscito a farsi davvero una
ragione per quello stramaledetto incidente; Brian non riusciva ancora
a perdonarsi per non esser stato capace di impedire a Chris Hobbs di
colpire il suo Justin e di lasciargli addosso una ferita indelebile.
Gli capitava
spesso di sentir bruciare quella ferita al centro del petto che si
era andata ad aprire nel momento in cui l’aveva
visto crollare, seguita dall’immagine
del rosso vermiglio del sangue che andava a insinuarsi tra i fili
dorati dei suoi capelli e a macchiargli la faccia, spegnendone il
sorriso.
Non ne aveva mai
parlato con nessuno, ma gli capitava di avere incubi per quella
notte, e qualche volta si ritrovava a fissare il vuoto mentre la sua
mente gli riproponeva, traditrice, quella sequenza orribile.
Erano stati forse
anche quelli, nell’ultimo
anno, i momenti in cui desistere dal chiamare Justin e correre da
lui, era stato davvero difficile. Si svegliava nel cuore della notte,
terrorizzato dal fatto che tutto ciò che avevano vissuto dopo
l’incidente fosse
stato solo un sogno, e che nella realtà, Justin era morto da tempo,
perché non era riuscito a salvarlo.
Si sentiva i
polmoni svuotati, il cuore che sembrava sul punto di esplodere, e la
pelle sudata e fredda per lo spavento, finché non si rendeva conto
che era l’ennesimo
incubo e si lasciava ricadere sul letto disfatto dal suo continuo
rotolarsi e riprendeva a respirare, ripetendosi come un mantra che
era tutto a posto, che Justin stava bene e che non doveva
disturbarlo.
A volte si
chiedeva se una semplice telefonata avrebbe salvato le cose; se per
una di quelle notti avesse ceduto e gli avesse detto la verità,
invece di continuare a fingere che tutto fosse un
idillio, avrebbe cambiato le sorti di quella loro strampalata e
minata storia...poi però, gettava uno sguardo distratto all’inserto
di cultura di un qualsiasi giornale, e leggendo quel nome tanto
familiare seguito da miriadi di recensioni positive, il suo cuore si
riempiva a metà tra l’orgoglio e la malinconia, per cui, con un
sorriso amaro, abbandonava ogni proposito e si costringeva a tornare
alla sua vita.
E si era ormai
quasi arreso al fatto che le cose sarebbero rimaste in quel modo,
quando quei ciuffi biondi e luminosi, quegli occhi profondamente blu
e quel sorriso disarmante, erano ricomparsi all’improvviso sulla
sua strada, riattivando il suo cuore ammaccato e gelido che credeva
ormai destinato ad essere inutilizzato, e a riempirsi di polvere e
ragnatele.
Era stata come una
sorda esplosione, come ricominciare a respirare dopo aver passato
troppo tempo a soffocare lentamente in apnea; era stato come sentire
distintamente il sangue ricominciare a scorrere nelle vene, e
scaldare quel corpo ormai gelido, alla stregua di quello di un
cyborg.
Justin era
tornato, e con lui il suo bambino.
Erano tornati a
dargli una speranza che, per quanto borbottasse di non volere, in
realtà era la cosa che più agognava al mondo e a cui si aggrappava
con tutte le sue forze.
Brian Kinney
sperava, sperava eccome.
Sperava di
raggiungere quella felicità di cui tutti parlavano, ma che lui era
riuscito solo a sfiorare per qualche istante, prima di vederla volare
via; sperava di poter tenere con sé gli unici due uomini che aveva
davvero amato più di qualsiasi altra cosa nella sua discutibile
esistenza, e che occupavano tutto il suo cuore.
Con un lieve
sospiro, svuotò la bottiglia con un ultimo sorso e si riavvicinò a
suo figlio, in uno slancio d’affetto, per sfiorargli con un bacio
la testa ed osservarlo mentre terminava di colorare gli ultimi
dettagli di quel suo piccolo capolavoro, tenendo la lingua fuori su
un lato, stretta tra le labbra, a dimostrazione dell’impegno che ci
stava mettendo. «È bellissimo, sai?» gli confidò poi, passandogli
un braccio intorno alla vita.
«È quasi
finito!» esclamò il bambino in risposta, prima di chiudere il
pennarello – come mamma Mel gli aveva insegnato per non lasciarli
seccare – e sventolare il foglio colorato. «Guarda!»
«Ma come Gus, non
metti la firma alla tua opera?» gli chiese Justin. «Tutti i grandi
artisti lo fanno.»
«Anche tu?» gli
domandò in risposta, con gli occhi vispi e incuriositi.
Justin
annuì e Brian gli porse un pennarello nero. «Andiamo piccolo
Warhol,
scrivi il tuo nome.»
«Dove?» chiese
lui, squadrando il disegno con attenzione, come se dovesse fare la
cosa più importante del mondo.
«Qui.» indicò
Justin. «Nell’angolo in fondo a destra. Ti piace?»
Gus annuì
sorridente, e si distese nuovamente a pancia sotto, concentrandosi al
massimo per non sbagliare neanche una lettera e mostrare a suo padre
quanto ormai fosse bravo. «‘Gus’.» pronunciò lentamente per
aiutarsi. «‘P’...‘M’...‘Kinney’.» sorrise soddisfatto,
per essere riuscito a scrivere tutto correttamente e si voltò verso
Brian, con uno sguardo furbo. «Il cognome importante è ‘Kinney’.»
«Mi sembra più
che ovvio, campione.» convenne, strizzando l’occhio.
«Fanatico.»
sussurrò Justin, attento a non farsi sentire dal piccolo.
«Ha
già capito come stanno le cose.» ammiccò, sollevando le
sopracciglia e spingendo la lingua contro la guancia. «È
intelligente...d’altronde è mio
figlio.»
Justin scosse la
testa rassegnato e prese a ridacchiare. «Ho quasi paura di sapere
come verrà fuori. Sembra già fin troppo sulla buona strada per
replicarti.»
«E questo è un
male?»
«Dipende dai
punti di vista.» rispose, storcendo le labbra. «Spiegalo a Melanie,
se ci riesci.»
«Mamma Melanie si
mette sempre a pregare ogni volta che qualcuno le dice che assomiglio
a te.» intervenne il bambino, stupendo i due adulti. «Lo fa perché
spera che sia così, vero? È per questo che alza gli occhi al cielo
e prega tanto?»
Per Justin,
trattenersi dal ridere dopo la sorpresa, fu letteralmente
impossibile, mentre Brian si sforzò di assumere un’espressione più
seria. «Certo tesoro.» rispose, con un ghigno divertito. «E non
immagini quanto! Non vede l’ora...»
«Allora
m’impegnerò tanto e diventerò come il mio papà.» affermò
convinto il bambino, prima di prendere un altro foglio e ricominciare
a disegnare, ispirato da chissà cosa.
«Melanie ti
strapperà le palle per questo.» sussurrò all’orecchio di Brian,
il biondo artista, e l’altro scrollò le spalle.
«Be’...mi
auguro le difenderai a costo della vita, perché non ci perdo solo
io, stronzetto...» inarcò le sopracciglia e si sporse per baciarlo
sulle labbra.
Appoggiò la
fronte contro quella dell’altro, trattenendolo per la nuca e
facendo vagare le dita tra quelle ciocche bionde, prima di sfiorare
il proprio naso su quello di Justin. Sollevò le palpebre, andando
incontro all’abisso profondo di quegli occhi blu e non riuscì a
trattenere un sorriso beato, reso più sognante dal leggero sospiro
che gli sfuggì dalle labbra, quando riprese a baciarlo.
Erano quei
semplici momenti di malcelata dolcezza, quelli in cui avrebbe davvero
pregato che il tempo si fermasse; quando inconsapevolmente si
concedevano di coccolarsi, senza però dirselo apertamente, come se
fosse il loro piccolo segreto. Un segreto di cui avrebbero certamente
negato l’esistenza, se mai qualcuno avesse provato a pronunciarlo
ad alta voce...perché loro erano Brian Kinney e Justin Taylor, e per
il resto del mondo scopavano e basta, senza mai confessare che quei
gesti, in realtà, erano così pieni di dolcezza e di un’amore
talmente grande, che avrebbero potuto spazzare via qualsiasi cosa.
E avrebbe
continuato a restare in quella tiepida bolla, dove ogni cosa sembrava
perfetta, se solo quel dannato telefono non avesse emesso il suo
trillo acuto, attentando alla salute dei suoi nervi per la seconda
volta in una sola giornata.
Sollevò gli occhi
verde scuro verso l’altro gonfiando le guance, e si alzò per
raggiungere il cordless, ciondolando scocciato per il breve tragitto.
«Pronto?» rispose ed immediatamente le sue labbra si piegarono in
una smorfia.
«Mi auguro per
voi due che vi siate astenuti dal fare porcate davanti a Gus, o mi
premurerò di staccarvi le palle personalmente...» lo aggredì
immediatamente la voce decisa di Melanie. «...a parte questo, datevi
una mossa, ci vediamo da Debbie tra mezz’ora.»
Brian si diede una
sonora scozzata ai gioielli di famiglia, come ogni volta che il
marito di Linz si premurava di lanciare minacce alla sua tanto
cara attività sessuale, e biascicò in risposta: «Bestellungen,
fuhrer!»
«Attento a quello
che dici.» lo minacciò nuovamente lei, con la voce ridotta ad un
sibilo. «Ricordati che sono ebrea.»
«Appunto.»
ridacchiò lui e riagganciò prima che potesse protestare.
«Chi era?» gli
domandò Justin, quando lo vide riavvicinarsi.
Brian imitò il
saluto militare nazista e calcò la voce come se fosse un tedesco:
«Kommandant
Melanie Marcus.» si
sedette nuovamente al fianco dell’artista e si sporse verso di lui
per baciarlo. «Ha detto che tra mezz’ora dobbiamo essere da Deb.
Pena...»
«Non voglio
sentirla.» lo fermò l’altro. «Posso immaginarla e tanto basta.»
«Ehi campione,
hai sentito?» si rivolse allora a suo figlio. «Mamma Mel ha detto
che dobbiamo andare subito da nonna Deb.»
«Di già?»
s’imbronciò il bambino, facendogli intendere che avrebbe
decisamente preferito restare solo con loro due.
E come poteva
dargli torto suo padre, che attingeva da quegli sporadici e preziosi
momenti tutta l’energia di cui aveva bisogno per affrontare quelli
in cui la mancanza di Gus e Justin si faceva davvero insopportabile.
Accarezzò ancora
una volta i capelli del suo bambino, con uno sguardo profondamente
dolce, e si lasciò andare ad un sospiro. «Prometto che domani
staremo ancora insieme, ok?»
«Va bene.»
mormorò il piccolo, con quella sua vocina adorabile, prima di
rimettere nella scatola i pennarelli.
«Sembri quasi più
dispiaciuto tu di tuo figlio.» gli fece notare Justin, facendosi più
vicino. «Non so chi dei due ha il broncio più grande.»
Brian sorrise
amaramente e portò una mano a scostare un ciuffo biondo e ribelle
dietro l’orecchio, per poter ammirare meglio quei lineamenti
morbidi e perfetti. «Probabilmente sto davvero invecchiando.»
«O forse stai
finalmente crescendo.» ribatté Justin, protendendosi con l’intento
di appropriarsi di altri baci.
Le loro labbra si
ricongiunsero ancora e ancora, tra tanti piccoli schiocchi, prima che
il piccolo Gus – perfettamente a suo agio – reclamasse
l’attenzione di entrambi e la sua dose di coccole, gettandosi
addosso a suo padre in un assalto.
Brian si lasciò
ricadere all’indietro ed attingendo a un poco della forza nelle
braccia, sollevò il bambino in aria, come se volesse farlo volare.
La possibilità di
sentire le risate di Justin, disteso accanto a lui, unite a quelle di
suo figlio, era per Brian qualcosa di così prezioso per cui provava
davvero la voglia di dire “grazie” in quel giorno di festa; di
urlarlo con tutta la voce, più forte di quanto gli fosse
possibile...e anche se
continuava a percepire dentro al cuore il dolore di vecchie ferite,
miste alla paura che, prima o poi, avrebbe perso per sempre quei
momenti, un sorriso di suo figlio e uno di Justin bastarono perché
ogni preoccupazione e ogni senso d’inquietudine
svanissero all’istante,
come nuvole soffiate via dal vento, lasciando solo il posto ad un
accecante sole che gli scaldava il cuore.
*'*'*
«Hunter, metti
quei salatini sul tavolo.» ordinò Debbie dalla cucina, sbraitando
isterica. «E le bibite sull’altro tavolo. Ah, e mi raccomando, il
ghiaccio!»
«Che palle!»
sbottò il ragazzo, guardando truce la nonna adottiva. «Non siamo al
Diner! La pianti di farmi sgobbare?!» lanciò un’occhiataccia a
Carl beatamente accomodato sulla poltrona a guardare le ultime
notizie alla tv, insieme ad un Emmett stranamente inquieto, e ai suoi
genitori che squadravano attentamente quest’ultimo come se gli
volessero fare una lastra, e continuò: «Perché non fai alzare un
po’ anche i loro culi?!»
«Se usassi le
energie che impieghi per lamentarti nel fare ciò che ti ho chiesto,
a quest’ora saresti anche tu stravaccato sul divano come loro.»
replicò la donna con un sorriso, prima di appioppargli un vassoio di
tartine ed una pacca sul sedere come incentivo a darsi una smossa.
«Va bene, va
bene.» borbottò lui, procedendo tra gli sbuffi verso la sala in cui
era stato sistemato parte del gigantesco aperitivo preparato da
Debbie, che, come suo solito, cucinava per un vero reggimento. Lasciò
il vassoio sul tavolo e lanciò un’occhiata a Melanie – intenta
nel sistemare tovaglioli e bicchieri – prima di chiederle: «Se la
uccido, mi difenderai in tribunale?»
Mel scosse la
testa ridacchiando. «Non credo
ci arriveresti al tribunale, sai?» fece un cenno alle sue spalle,
indicando il resto dei presenti e aggiunse: «Provocheresti una crisi
emotiva a livello mondiale. Qui tutti dipendono da lei...immaginati
il caos. Sicuro di voler correre un rischio simile?»
Hunter sollevò le
sopracciglia, soppesando per un attimo le varie possibilità, per poi
assumere un’espressione terrorizzata ed affrettarsi a negare con la
testa. «No, grazie. Chi li sopporta poi?»
«Appunto.»
ribatté con ovvietà, quando il suono del campanello si diffuse per
tutta la casa. Si avviò verso la porta e l’aprì, dando il
benvenuto a Jace, Ted e Blake. «La casa non è stata difficile da
trovare allora!» esclamò, riferendosi al primo dei tre.
«No, no.»
sorrise il designer. «Fortuna che ho sempre avuto un buon senso
dell’orientamento.» la salutò con due baci sulla guancia e
proseguì per raggiungere Debbie e consegnarle la confezione di
dolciumi acquistata in pasticceria. «Questa è per la padrona di
casa.»
«Tesoro!» lo
chiamò con uno strillo che fece sobbalzare tutti; tutti tranne
Emmett, che si era gelato sulla poltrona fin dal primo momento in cui
aveva udito la voce del ragazzo. «Ma non dovevi!»
«Ho chiesto un
po’ in giro e mi hanno detto che era la pasticceria migliore della
città.» fece un sorriso spavaldo e aggiunse: «Ho sentito dire che
fanno dei cannoli favolosi.»
Debbie gli rifilò
uno scappellotto e lo spinse verso la sala. «Va’ a sederti,
piccolo succhiacazzi impudente!»
Continuando a
ridacchiare, Jace raggiunse gli altri stravaccati sul divano, e li
salutò con un sorriso. «Ciao a tutti!» esclamò, passando lo
sguardo su ognuno di loro, fino ad incontrare la perennemente
evidente figura di Emmett. Gli strizzò l’occhio con fare complice,
e solo allora si rese conto di quanto questo fosse più cupo del
solito e rigido come un blocco di marmo. Di certo, non era il solito
favoloso e sfavillante Emmett; perciò, continuando a sostare con lo
sguardo su di lui, si avvicinò con la fronte aggrottata pronto a
sederglisi a fianco, incuriosito dal suo comportamento, quando il
campanello suonò per la seconda volta.
I suoi occhi
abbandonarono il ragazzo per spostarsi verso la porta, da cui un uomo
sulla cinquantina, con i capelli cenerini e gli occhi azzurri come il
cielo, fece il suo ingresso, accolto da una quantità esagerata di
affetto e sorrisi, soprattutto da parte di Debbie.
«Era il compagno
di mio zio.» gli comunicò una voce alle sue spalle, che poi
riconobbe essere quella di Michael. «Non hai fatto in tempo a
conoscerlo, ma so che ti sarebbe piaciuto.»
«Be’, a chi non
poteva piacere Vic?» convenne immediatamente Ben, cingendo il marito
in un abbraccio. «Era una persona fantastica.»
L’altro fece un
sorriso un po’ amaro, con lo sguardo perso nel vuoto a ricordare
qualche aneddoto, per poi riportare la sua attenzione su Jace. «Ci
ha lasciati tre anni fa.»
«Come...» iniziò
il ragazzo, un po’ imbarazzato.
«AIDS.» rispose
senza tanti fronzoli. «Era malato da parecchi anni, ma è riuscito a
tenere testa a quello schifo per davvero molto tempo.»
«Doveva essere un
vero uomo con le palle.»
Michael sollevò
le sopracciglia ed indicò con gli occhi la madre, ancora intenta a
parlottare con Rodney. «Come pensi che potesse essere con una
sorella del genere?» scoppiò a ridere e aggiunse: «Per vivere una
vita intera con mia madre, non ti bastano due palle.»
Jace sorrise a sua
volta, osservando l’energica donna, come abbagliato da quella sua
forza che sembrava letteralmente sprizzare da ogni centimetro del suo
corpo ed annuì convinto, prima di gettare l’ennesima occhiata
furtiva verso Emmett, sempre più assente.
«Allora, ci siamo
tutti?» esclamò Debbie, con la sua voce dirompente.
«No.»
comunicarono in coro gli altri, con una voce un tantino esasperata.
«Chi cazzo manca
ancora?» replicò lei, guardandosi intorno, finché, resasi conto
della stupidità della sua domanda, emise un mugugno infastidito.
«E lo domandi?»
borbottò Carl, guardando fuori dalla finestra.
«Li ammazzo.»
sibilò Melanie, temendo e pensando al peggio, a cui diede
immediatamente voce Ted.
«Staranno mica
scopando...»
«Spero di no per
le loro palle. C’è mio figlio con loro e non voglio che ne esca
traumatizzato!» replicò Linz inviperita, scendendo le scale con in
braccio la piccola Jenny Rebecca, dopo aver sentito la conversazione.
Raggiunse sua moglie, consegnandole la bambina e si affrettò ad
aprire la porta, quando – finalmente – il campanello venne
suonato anche dagli ultimi ospiti attesi. «Alla buon’ora!»
Gus fu il primo ad
entrare, correndo immediatamente in contro alle loro mamme,
entusiasta. Agguantò Linz per il maglione e prese a tirarlo per
conquistare la sua attenzione. «Mamma, mamma! Io, Justin e papà
abbiamo giocato alla lotta!»
Gli occhi di tutti
i presenti guizzarono immediatamente verso Brian, nel gelido
silenzio, contornati da espressioni poco amichevoli. «Non quel
tipo di lotta.» si affrettò a ribattere allora lui, roteando gli
occhi. «Ma perché dovete pensare subito male?»
«Perché si
tratta di te e Justin.» replicò acida Melanie, con un
sorriso tirato.
Justin si lasciò
andare ad una risata e scosse la testa. «Accidenti che bell’idea
che avete di me! Sono più responsabile di tutti voi messi assieme.»
«Lo sappiamo,
topino.» lo rincuorò immediatamente Deb, con un tono dolce,
prima di assottigliare nuovamente lo sguardo ed inacidire la voce,
riferendosi al pubblicitario: «Ma, sai com’è, sappiamo anche
quanto riesce ad essere traviante una certa persona di nostra
conoscenza.»
«Moi?!»
esclamò Brian, portandosi una mano al petto e fingendosi
sconcertato, ottenendo un pugno sulla spalla da parte di Linz.
«Mangiamo che è
meglio.» comunicò la padrona di casa allora, quando il cellulare di
Justin prese a suonare.
La mano
dell’artista corse immediatamente alla tasca dei Jeans, immaginando
che fosse la madre a chiamarlo per ricordargli l’impegno per il
pranzo del giorno successivo, ma dovette ricredersi, quando sul
display vide un nome totalmente diverso. «Ah...» balbettò,
impallidendo per l’ansia. «...rispondo un attimo e arrivo.»
«Certo. Fa pure,
tesoro.» gli rispose Debbie, cominciando a riempire il proprio
piatto tranquillamente, seguita dal resto della combriccola, eccezion
fatta per Brian e Jace che, prima seguirono Justin attentamente,
mentre si allontanava per rispondere, poi – senza neanche volerlo –
si scambiarono un’occhiata carica della stessa apprensione.
Erano le due
persone che lo conoscevano meglio, e ad entrambi non era certo
sfuggito quel drastico cambiamento sul suo volto, quando i suoi occhi
avevano incrociato lo schermo.
Restarono immobili
in mezzo alla stanza, in silenzio, ed ignorando cosa stesse
succedendo intorno a loro, troppo presi dall’attesa di quei pochi
minuti che assumevano ogni istante di più il sapore di una
spiacevole sentenza.
Qualche scambio di
battute appena, e Justin lasciò ricadere il braccio, come se fosse
privo di forze, chiudendo la comunicazione e voltandosi verso il
resto dei presenti, con un’espressione affranta sul volto e
passando gli occhi blu – ormai spenti ed opacizzati – prima su
Jace, confermando ogni suo presentimento, poi su Brian, sentendo
lacrime amare spingere per fare la loro comparsa. «Era Gary, il mio
agente...» biascicò con la voce ridotta ad un soffio; e credette di
poter svenire da un momento all’altro, quando vide gli occhi
dell’uomo di cui era follemente innamorato chiudersi con
rassegnazione, nell’attesa che lui terminasse quella frase, come se
fosse una pugnalata. Strinse i pugni e digrignò i denti, cercando
invano di sciogliere quel fastidioso nodo creatosi improvvisamente
nel fondo della gola, per poi costringersi a immettere aria nei suoi
polmoni letteralmente svuotati e mormorare a fatica quelle parole gli
stavano graffiando la lingua: «...domattina devo rientrare a New
York.»
***
Note dell'autrice:
Rieccomi qua, dopo poco più di un mese con questo nuovo capitolo!
Scusatemi per il ritardo, ma tra vacanze, matrimoni e università, mi è proprio mancato il tempo!
Sarò brevissima, perché è già tardi e poi non credo ci
sia molto da specificare! XD Qualcuno mi odierà...ma io l'avevo
detto che non sarebbero state facilmente "rose e fiori" e che sono un
po' sadica, no?
Stupidaggini a parte, spero che vi sia comunque piaciuto e che abbiate
trascorso delle belle vacanze, perciò passo immediatamente alla
cosa più importante: Ringraziamenti! Un grazie a tutti coloro che hanno letto, a chi ha inserito la storia nelle preferite, nelle seguite o nelle ricordate, ma soprattutto grazie a: mindyxx, electra23, FREDDY335, Hel Warlock, Katie88, SusyJM, EmmaAlicia79, Clara_88, OfeliaCuorDiGhiaccio [a cui devo dire grazie anche per avermi fatto ascoltare "Fever" di Adam Lambert], giacale, silver girl e Thiliol per aver commentato l'ultimo capitolo!
Grazie ancora e alla prossima!
Prometto di essere molto più veloce con la pubblicazione del prossimo capitolo!
Un bacio,
Veronica.
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Capitolo 9 *** Another Goodbye. ***
9.Another goodbye.
6x09 – Another
goodbye.
“Echo” –
Jason Walker
«...domattina
devo rientrare a New York.»
Ebbene sì,
l’aveva detto; e seppur avesse soffiato quelle parole a fatica,
quasi sussurrandole, erano arrivate perfettamente alle orecchie di
tutti, come un boato assordante o il fastidioso stridio di qualcosa
che s’incrina, prima di spezzarsi.
Justin sapeva di
aver sorpreso tutti con quell’annuncio; sapeva di aver appena
rovinato l’idillio festivo che fino a qualche attimo prima
aleggiava tra di loro indisturbato, scaldandoli di felicità e
spensieratezza, eppure l’unica persona da cui non riusciva a
staccare gli occhi e per cui fremeva nell’attesa di una qualsiasi
reazione o un misero gesto, era l’uomo che amava, nonché l’unico
che si ostinava a restare in silenzio.
Dopo la notizia un
brusio si era alzato, fatto di legittime domande, richieste di
spiegazioni e imprecazioni trattenute a stento, eppure le uniche
labbra che avrebbe voluto vedersi muovere, restavano perfettamente
sigillate tra loro, in una linea dritta e severa, come morte.
E forse quel
paragone non era poi così lontano dalla realtà...
Lo si vedeva nella
linea delle spalle incurvate o nelle braccia abbandonate a ciondolare
lungo il corpo; si percepiva nell’immobilità perfetta
dell’espressione del suo viso, ridotto ad una maschera di cera, o
in quello sguardo spento che tutto osservava, a parte lui, così come
si evita il sole per non essere feriti dalla sua luce accecante.
Sembrava una
bambola; una di quelle bellissime bambole algide, che nonostante la
loro perfezione, altro non trasmettono che un freddo insopportabile;
un burattino a cui erano appena stati tagliati i fili o un giocattolo
rotto, scarico, senza quel piccolo propulsore nel petto che gli
concede la vita.
Brian si era
spento d’improvviso, senza che nessuno si fosse accorto dell’attimo
esatto in cui era successo. Se era stato nel momento stesso in cui
era squillato il telefono, a causa di un brutto presentimento
rivelatosi poi vero, o nel sentire quelle parole, o ancora dopo,
quando la sua mente aveva concepito cosa quelle stessero a
significare e come si sarebbero tradotte nella sua vita, nessuno
poteva dirlo; l’unica cosa certa, era che avrebbe dovuto fare a
meno di Justin, di nuovo.
Avrebbe dovuto
dirgli ancora quel “ciao” – quel maledetto saluto – che per
qualche assurdo motivo aveva sempre più il sapore amaro di qualcosa
di definitivo.
Ed era forse stato
proprio quello – il ricordare quanto gli avrebbe fatto male,
affiancato al pensiero di doverlo sopportare ancora e dalla
consapevolezza che forse, questa volta, non l’avrebbe davvero
superato – il momento in cui il suo cuore già abbastanza
martoriato si era rotto con uno schianto sordo.
Perché quando il
cuore si spezza, non è come un bicchiere che si frantuma, qualcosa
che si accartoccia o il suono sibilante della stoffa che si strappa.
Non è l’esplosione
assordante e potente di una bomba, né lo schianto di un auto, a cui
sussegue lo stridio delle lamiere che si piegano.
Il cuore quando si
spezza lo fa silenziosamente; e Brian lo sentì bloccarsi
all’improvviso, come
tante altre volte gli era successo, e cadere giù, sprofondare
risucchiato chissà dove dentro di sé. Come se fosse imploso
all’improvviso, senza
lasciare alcuna traccia, a parte quel vuoto incolmabile che sembrava
pronto a rubare tutto il resto del suo corpo.
Si costrinse a
respirare a fatica, senza neanche poter dire per quanto tempo avesse
lasciato i suoi polmoni completamente vuoti, e si passò una mano tra
i capelli, per raggiungere la nuca e massaggiarla distrattamente.
Se avesse avuto il
modo per svanire, Brian l’avrebbe
usato sicuramente.
Avrebbe fatto
qualsiasi cosa, pur di non dover restare un solo minuto di più in
quella casa che improvvisamente era diventata troppo stretta; pur di
non dover sopportare l’oppressiva
e pungente presenza di tutti quegli sguardi che – ne era più che
certo – lo stavano scandagliando a fondo, incapaci di immaginare
cosa doversi aspettare.
Stizzito si tolse
il cappotto e i guanti, sistemando tutto all’attaccapanni,
nel vano tentativo di fingere che nulla fosse successo; ed afferrò
una delle tartine a caso, prima di sforzarsi di scollare le labbra e
infilare a forza qualcosa nel proprio stomaco, ormai accartocciato su
se stesso.
«Brian.»
si sentì chiamare allora, ma la voce non apparteneva all’uomo di
cui era innamorato, bensì al suo migliore amico che, come nella
peggiore delle sue previsioni, aveva già assunto quella sua aria
tanto preoccupata – fastidiosa e patetica, a sua detta – che
detestava da sempre.
«Che c’è?»
soffiò scocciato, addentando una seconda tartina.
«Come...»
balbettò l’altro incerto. «Non hai...non hai sentito?»
«Sì, Mickey.»
commentò caustico. «Ci sento ancora piuttosto bene.» prese in
braccio suo figlio e gli allungò una delle tartine che sapeva essere
tra le sue preferite. «Adesso possiamo mangiare?» concluse poi,
resosi conto delle continue occhiate apprensive di chi gli stava
intorno.
A quella richiesta
– che sapeva più di ordine – gli sguardi di tutti i presenti
finalmente lo abbandonarono, perfettamente consci che, se avessero
continuato anche solo per un misero istante in più, avrebbero
assistito ad una vera e propria esplosione di rabbia.
Brian riprese
lentamente a respirare – seppur continuasse a costargli fatica –
e si concentrò nuovamente sul piccolo Gus, finché non si rese conto
che un paio di occhi blu – resi liquidi dalle lacrime trattenute a
stento – non lo avevano ancora abbandonato.
Justin non si era
mosso dalla sua posizione; era rimasto in attesa di qualcosa:
un’occhiata, un gesto o una semplice parola da parte sua, che
potesse comunicargli qualcosa, ma che, per quanto volesse dargli, pur
di alleviare almeno un poco il dolore che sapeva albergare dentro
quel corpo efebico, non poteva concedersi.
Se solo l’avesse
abbracciato – come poi avrebbe desiderato – sarebbe certamente
crollato.
Gli avrebbe detto
di non andare, di non lasciarlo di nuovo; gli avrebbe chiesto
finalmente di restare, mandando all’aria tutti gli sforzi compiuti
fino ad allora da entrambi, venendo meno al loro patto.
Nessuno poteva
capire quanto questo sacrificio gli stesse costando. Nessuno, nemmeno
Justin; e neanche gli importava se questa sua falsa indifferenza gli
sarebbe costata anche una filippica da parte di Deb, o le accuse da
parte di chiunque altro dei suoi amici, perché l’unica cosa che
davvero contava in tutta quella confusione che si arrovellava sia
fuori che dentro la sua testa, era che il futuro del suo Justin
fosse salvaguardato da qualsiasi cosa. L’unica cosa che contava
davvero, era che i sogni del suo raggio di sole, restassero
perfettamente al sicuro.
Per questo
semplice motivo, ad un veloce e distratto scambio di sguardi non
susseguì altro che il silenzio più totale, nonostante gli fosse
perfettamente chiaro quanto quell’ennesimo muro costruito in mezzo
a loro potesse ferire Justin e spezzare quelle speranze che
sicuramente si erano già accese nel suo giovane cuore; e per lo
stesso identico motivo non lo seguì per fermarlo nel momento in cui
lo vide voltarsi ed uscire di casa come un razzo, quasi sbattendo la
porta, né quando gli sguardi contrariati dei presenti si posarono
nuovamente su di lui, quasi a volerlo spronare a fare ciò che
secondo loro era la cosa più giusta, ma che Brian sapeva essere la
scelta peggiore che potesse fare.
Riabbassò lo
sguardo sul ripiano abbondantemente imbandito di cibarie e perse lo
sguardo in un punto a caso, inghiottendo perfino il boccone amaro che
sentì formarsi sulla lingua quando fu Jace a compiere quel gesto che
gli sarebbe dovuto appartenere, e raggiunse Justin.
«Brian...» la
voce di Debbie gli arrivò chiara alle orecchie, come l’urlo più
forte e fastidioso, nonostante fosse solo un sussurro, ed alzò la
testa di scatto per impedirle di aggiungere altro.
«Non sono cazzi
che ti riguardano.» sentenziò duramente e la vide sospirare.
«Non lo saranno,
ma te lo dico lo stesso...» lo sguardo di Debbie si fece più deciso
– forse perché aveva anche già posato le mani sui fianchi e
assunto il suo ruolo di mamma – e Brian sollevò gli occhi al cielo
con aria scocciata. «...lo so che non vuoi intrometterti, né
impedirgli di raggiungere i suoi sogni, ma...»
«Se lo sai,
allora non credo ci sia altro da aggiungere.»
«Non ho finito.»
esclamò la donna e gli si fece più vicina. «Stavo dicendo...anche
se pensi questo, e lo sappiamo entrambi che nonostante sia un
coraggioso quanto stupido gesto d’amore, sia la cosa più giusta
per lui...» si soffermò ancora una volta e gli puntò l’indice
sotto il naso per intimargli di non interromperla ancora. «...ficcati
in quella zucca dura che ha anche bisogno di te. Ne ha un disperato
bisogno e non credo sia necessario dirti quanto la cosa sia
reciproca, perché per quanto tu continui a mettere su questa farsa
dello stronzo senza cuore che sta bene anche da solo e non ha bisogno
di nessuno, abbiamo avuto ampiamente prova del fatto che è una
gigantesca stronzata.»
«Hai finito?»
sputò lui acido.
«No, bello mio.
Non ho finito neanche adesso.» replicò la donna senza scomporsi, e
Brian le rivolse un altro sbuffo infastidito. «E togliti
immediatamente dalla faccia quell’odiosa espressione del cazzo,
perché non serve affatto né a te, né al topino!» abbandonò
il suo cipiglio contrariato e distese le labbra nel suo classico
sorriso comprensivo e materno. «Eri diventato così bravo a
mostrargli quanto ci tenevi, ed ero così fiera di te...» vide
quello che era il suo “figlioccio adottivo” deglutire a fatica il
groppo che gli si era annodato in gola e seppe di aver colpito nel
punto giusto. «...non dirmi che hai già dimenticato come si fa.»
Brian finalmente
la guardò dritta negli occhi, e con quella sola intensa occhiata,
Debbie ricevette la sua risposta.
No, che non
l’aveva dimenticato.
Come poteva aver
dimenticato qualcosa che Justin, con infinita pazienza, si era
impegnato ad insegnargli per cinque lunghi anni? Come poteva aver
dimenticato qualcosa che era stata la salvezza del loro amore, quando
gli era stata donata l’ennesima occasione di poterlo avere al suo
fianco, ed aveva finalmente trovato il coraggio di confessarglielo
apertamente?
Brian sapeva che
quella era una delle cose che, una volta accettate e comprese,
diventavano letteralmente indelebili. Era qualcosa da cui non poteva
più sfuggire, perché faceva ormai parte di lui; e da se stesso non
sarebbe mai potuto scappare, neanche con tutte le proprie forze. Era
qualcosa di definitivo, qualcosa da cui non poteva più tornare
indietro...e probabilmente, questo non lo spaventava poi neanche più
di tanto.
Non gli importava
di non essere più lo stesso; di non essere più lo stronzo senza
coscienza che scopava qualunque cosa volesse, quando e come lo
desiderasse. Non era più quella la vita a cui voleva restare
attaccato a tutti i costi.
La vita che
desiderava aveva occhi blu e capelli luminosi come il sole. Aveva il
sorriso più bello che avesse mai visto, una risata che scalda il
cuore, la pelle chiara e morbida; conservava le caratteristiche di un
ragazzino e un corpo sottile che andava ad incastrarsi nel suo
abbraccio in un modo così perfetto, che al solo pensiero gli faceva
male.
La sua vita
– lo sapeva già – rispondeva al nome di Justin...solo che, al
momento, il suo posto non era al suo fianco...
«Io vado.»
borbottò allora, riconsegnando Gus alla madre, con un dolce bacio
sulla fronte, per poi infilarsi il cappotto.
Sistemò i costosi guanti di
pelle nera e si avviò verso il portone, senza più voltarsi
indietro, già conscio delle espressioni e degli sguardi
insopportabili che vi avrebbe trovato.
*'*'*
“Find a way”
– SafetySuit
Dopo aver saturato
i polmoni d’aria con un grosso respiro, Jace aprì il portone ed
uscì sul portico di casa Novotny, trovando l’oggetto delle sue
ricerche accoccolato su uno degli scalini in legno.
Richiuse
lentamente la porta alle sue spalle e si avvicinò con cautela,
incerto su ciò che l’avrebbe aspettato di lì a poco.
Justin era sempre
stato imprevedibile in questi casi. C’erano stati momenti in cui la
rabbia aveva preso il sopravvento e non si era placata fino a quando
ogni singolo oggetto presente nel raggio di qualche metro non era
stato scaraventato a terra o contro qualche muro; altre volte invece,
aveva assistito al suo continuo fumare, perennemente disteso sul
letto o sul divano, in uno stato depressivo da far venire i brividi;
mentre altre ancora, aveva percepito distintamente il proprio stomaco
contorcersi nel vedere tante piccole lacrime lucide che scendevano ad
inumidirgli le guance, dandogli l’aspetto di un bambino indifeso.
Quella sera però,
Justin sembrava non aver ancora scelto quale “versione di sfogo”
adottare, limitandosi ad incrociare le braccia sulle ginocchia
piegate e a posarvi il mento; continuando a fissare un punto a caso,
con la testa immersa e persa in chissà quali pensieri.
«Ehi...» lo
chiamò allora, sedendoglisi accanto.
«Ehi.» rispose
secco l’altro, con un filo di voce, senza neanche scostare il
proprio sguardo.
«Non ti chiedo
‘come stai’, perché non voglio incorrere in qualche tua
maledizione, perciò mi limiterò a chiederti: ‘che cazzo vuole
Gary’?»
Justin sbuffò e
sollevò appena le spalle. «Vuole che torni a New York.»
«Sì.» commentò
Jace sollevando una delle sopracciglia con sarcasmo. «Questo
l’abbiamo ampiamente capito tutti quanti, la mia domanda si
riferiva al ‘perché’.»
«Perché è uno
stronzo.» replicò con poco entusiasmo, e il designer si ritrovò a
sbuffare.
«D’accordo, ho
capito. Non ne vuoi parlare.»
«Dovrei essere
felice...» esordì invece il biondo artista, come se non avesse
sentito le parole del suo più caro amico. «...dovrei saltare
ovunque per la felicità, perché Gary è riuscito a concludere altri
contratti con ben quattro gallerie. Dovrei essere al settimo cielo
nel sapere che queste stesse gallerie richiedono mie nuove opere.»
«E invece ti
senti uno schifo.» concluse Jace al suo posto, e Justin sospirò
ancora.
«Secondo te sono
un ingrato?»
«No, sei solo un
povero frocio che non ha più uno straccio di vita privata.» replicò
caustico, scoccandogli un’occhiata. «Famoso, ricco, ma pur sempre
imprigionato in una qualche cazzo di galleria.»
Gli occhi blu di
Justin si spostarono ad incontrare quelli dell’amico. Si umettò le
labbra, prima di mordicchiarsele, come se stesse valutando le parole
giuste da pronunciare, per poi soffiare quasi rassegnato: «Che cazzo
dovrei fare allora? Mollare tutto?»
Jace scrollò le
spalle. «Solo quello che ti rende felice.»
«Vallo a spiegare
a Brian.» rispose l’altro, inarcando le sopracciglia chiare.
«Sei tu che stai
con lui, non io.»
«Non credere che
questo semplifichi le cose, anzi...»
«Quindi che si
fa?» domandò il newyorkese, stiracchiandosi come un gatto.
«Ho molta
scelta?» replicò acidamente Justin. «Domani torno a New York e me
ne starò inchiodato a quella cazzo di città per chissà quanto
ancora, senza poter tornare indietro.»
«Guarda che
nessuno ti sta puntando una pistola contro. Vuoi smettere? Fallo.»
fece schioccare la lingua ed aggiunse: «Hai spillato abbastanza
soldi a quei ricconi con i tuoi scarabocchi per vivere di rendita per
il resto dei tuoi giorni, se non ti lasci andare a spese
insostenibili da attacchi di depressione.»
«Fantastico.»
commentò Justin con sarcasmo. «Proprio una gran prospettiva di vita
per uno che non ha neanche ventiquattro anni.»
«E allora che
vorresti fare?» chiese Jace, lasciandosi sfuggire una risatina.
«Fare il giro del mondo in zattera? Scalare una montagna in
infradito?»
«Dipingere.»
replicò l’altro, lasciandolo interdetto per qualche secondo.
«E...fammi
capire, cos’è che avresti fatto fin’ora?»
Justin scosse la
testa. «Non è la stessa cosa. Non voglio dipingere come una specie
di automa. Voglio farlo perché è quello che sento il bisogno di
fare.»
«L’artista a
tempo perso?» ribatté ironico l’altro, beccandosi
un’occhiataccia.
«Mi manca sentire
quel brivido che ti corre lungo la schiena quando sei davvero
ispirato da qualcosa, ed impazzisci se non metti subito con i colori
sulla tela ciò che ti è balenato in testa. L’eccitazione di
qualcosa che prende forma dentro di te ed esplode, così in un attimo...all’improvviso...capisci cosa?»
«Un...orgasmo?»
Justin finalmente
gli concesse un sorriso, seppur condito da una chiara espressione di
rassegnazione. «Sì. Qualcosa del genere.»
«Che vuoi che ti
dica piccolo Warhol. È una decisione che puoi prendere solo
per conto tuo. Solo tu puoi sapere qual’è la soluzione...devi
trovare la tua strada...»
«Grazie,
Obi-Wan.» lo canzonò Justin, e Jace fece finta di non averlo
sentito.
«Perciò adesso
resta solo un piccolissimo problema...» arricciò le labbra e
spostò gli occhi nocciola ad incontrare quelli blu dell’artista.
«...che combinerai col tuo bello? Hai intenzione di tornare a
deprimerti sul divano di casa o farai qualcosa? Non voglio neanche
lontanamente pensare di aver fatto quasi quattrocento miglia a
vuoto.»
«Guarda che
nessuno te l’ha chiesto!»
«Stronzetto
ingrato.»
Un altro lieve
sorriso andò ad increspare le labbra di Justin. «È che non ne ho
la più pallida idea, e questo mi spaventa anche più di dover
prendere una decisione per cambiare questo casino...»
«Non avete ancora
risolto un cazzo di niente, insomma. Preferirei ritrovarmi la lingua
attaccata a quella di una lesbica, piuttosto che dire una cosa simile
ma...il sesso non è esattamente la soluzione a tutto, specie quando
ci sono invischiati in mezzo quelle cose chiamate ‘sentimenti’.»
«Abbiamo anche
parlato. Mi ha detto che non posso rinunciare alla mia carriera, ma
che posso tornare qui quando riesco a prendermi qualche giorno di
pausa...»
Jace gli sorrise e
passò una mano sui suoi capelli biondi per scompigliarli. «Non è
andata poi così male allora. Adesso sai che ti vuole...e mi pare che
anche il tuo bel culetto possa confermartelo!»
«Quindi dovrei
tornare a New York, spaccarmi il culo con i pennelli e le tele e
muovermi per tornare a Pittsburgh?»
«Al tuo posto,
preferirei spaccarmi il culo in altri modi. Ognuno però
è libero di scegliere con cosa dilettarsi. Se i pennelli ti
piacciono tanto...»
«Sto parlando
seriamente, imbecille.» esclamò l’artista, colpendolo con un
pugno sul braccio.
«Anch’io!»
replicò Jace, con ilarità, prima di sorridergli. «Stronzate a
parte...è la tua vita Justin. Fanne quel che cazzo vuoi.» si sporse
verso di lui e posò un bacio sulla sua tempia. «Torneremo a New
York domani e poi, che tu scelga di restare con quello schiavista o
di stravolgere tutto, per me non fa differenza. Io sarò dalla tua
parte...e se pensi di liberarti di me ti sbagli di grosso, frocetto.»
«Ci ho rinunciato
molto tempo fa.» rispose il ragazzo, con un tono che in
realtà stava solo ad indicare un sincero “grazie”. Dopo di che
si passò una mano tra i lunghi capelli biondi e riportò lo sguardo
fisso davanti a sé. «L’unica cosa che so, è che voglio passare
il Natale a casa, con la mia famiglia.»
«Dovrai davvero
sputare sangue allora.»
«Il rosso è
sempre stato una costante sui miei quadri.» ribatté deciso; e in
quello stesso istante, uno strano brivido gelido percorse la schiena
di Jace.
«Cerca di non
esagerare, artista da strapazzo.» lo ammonì con fare scherzoso,
senza neanche lontanamente immaginare quanto quel rimprovero potesse rivelarsi fin troppo azzeccato. Si soffermò ad osservare
l’espressione decisa del suo più caro amico, e fece per aggiungere
altro, quando il portone venne aperto, mostrando loro la figura
slanciata e perfetta di Brian. «Credo che rientrerò dentro. Fa
freddino in questo posto e tutti quei dollari buttati in creme non
serviranno a un bel niente se lascio che la pelle si screpoli.»
farneticò alzandosi e, dopo aver rivolto un sorriso di gratitudine
al nuovo arrivato, rientrò in casa per lasciare i due amanti da
soli, a risolvere i loro problemi.
«Ehi.» mormorò
Brian, quando sentì la porta chiudersi alle sue spalle; e prese a
scendere un paio di scalini.
Justin gli rivolse
un lieve cenno con la testa ed abbassò lo sguardo. «Sembra che ti
libererai di me anche prima del previsto.»
«Sembra di sì.»
commentò atono il pubblicitario e scese anche l’ultimo scalino.
Tirò fuori le chiavi della Corvette dalla tasca e si avvicinò al
suo prezioso gioiello verde bottiglia.
«Te ne vai?»
chiese allora Justin, con un groppo in gola e vide Brian scrollare le
spalle con indifferenza, prima di far scattare la serratura ed aprire
la portiera, a dare conferma a quella domanda.
Posò gli occhi
verde scuro ad incontrare l’immagine rannicchiata di Justin e, dopo
essersi maledetto almeno un milione di volte per quello che stava per
dire – sapendo che gli sarebbe costato altre lacerazioni e
cicatrici – si leccò le labbra con la punta della lingua e soffiò
fuori quelle parole che scalpitavano per uscire dalla sua bocca: «Tu
che fai? Vieni?»
Justin alzò di
scatto la testa, sorpreso da quella richiesta.
Lo fissò per
qualche secondo, finché non vide l’uomo che amava sparire dentro
l’abitacolo, e finalmente si sollevò da terra per raggiungerlo
senza fare domande.
Si sistemò al suo
posto ed allacciò la cintura, cercando di rilassarsi e di placare
quel senso di malessere che all’improvviso era tornato a farsi
soffocante.
Abbandonò la
testa contro il vetro e prese ad osservare le luci dei lampioni,
senza premurarsi di avvertire il resto delle persone rimaste in casa,
certo che avessero già assistito a tutta la scena curiosando dalla
finestra.
*'*'*
«Lascia
stare tesoro, ci penso io.» esclamò Debbie, togliendo il piatto
sporco dalle mani di Jace.
«E
dai, volevo dare una mano.» tentò di rispondere lui. «Praticamente
hai ospitato in casa uno sconosciuto per la cena del Ringraziamento!»
«Gli
amici del topino,
non sono degli sconosciuti.» gli diede una pacca sulla guancia e gli
sorrise. «E poi, non te l’avevo
già detto? Fai parte della famiglia.»
«Condoglianze.»
annunciarono all’unisono
sia Carl che Emmett. Gli unici ormai rimasti, dopo che il resto degli
invitati se n’erano
andati.
«E
voi due, vi ho sentito!» urlò la donna dalla cucina, prima di
tornare nella sala. Riservò un’occhiataccia
al compagno e al colorato convivente, e si rivolse ancora a Jace:
«Tesoro, lasciali perdere questi ingrati. Si lamentano sempre, ma
neanche si rendono conto di quanto sono fortunati! Far parte della
famiglia ha un sacco di vantaggi.»
«Certo!»
convenne Emmett. «Pietanze ipercaloriche che impiegherai mesi,
se non anni,
a smaltire. Una vita privata praticamente inesistente,
consigli e pareri
che ti verranno dati anche se non gli avrai mai chiesti e,
ovviamente, una buona dose di schiaffi da parte di Deb.»
Carl
si sporse verso di lui e gli strizzò l’occhio
complice. «Credimi, fuori dalla porta c’è
la gente che fa la fila!»
«Avete
per caso intenzione di dormire fuori stanotte?» domandò acida lei,
con le braccia incrociate. Aspettò che i due negassero terrorizzati
e sorrise. «Bene, allora chiudete quelle cazzo di bocche!»
«Agli
ordini, comandante.» bisbigliò Carl ad Emmett, stando ben attento a
non farsi sentire dalla donna.
«Sapete,
in fondo un po’
mi dispiace andar via.» ammise Jace, giocherellando con un ciondolo
del proprio bracciale. «Non è così male questo posto.» distese le
labbra in un sorriso ed aggiunse: «Certo, lo shopping non sarebbe
così grandioso come a New York, ma devo dire che la parte frocia
della città, non è
affatto male. Brian poi ha fatto un gran lavoro con quel Babylon.»
«Non
si può certo dire che Brian, quando fa una cosa, non la faccia
bene.» rispose Debbie con orgoglio. «Quel ragazzo è nato con il
successo cucito addosso.»
«Un
po’
come Justin.»
La
donna annuì sorridendo. «Forse è per questo che s’incastrano
così bene.»
«In
tutti
i sensi, direi.» commentò Emmett, sollevando il sopracciglio.
Jace
si lasciò andare ad una risata, prima di sospirare. «Comunque, da
quando lo conosco, non ho mai visto Justin così felice.»
«Brian
è sempre stato il sogno più grande della sua vita. Lo ama più di
qualsiasi altra cosa al mondo...» Emmett si strinse nelle spalle e
sollevò uno degli angoli della bocca, in un sorriso privo di
allegria. «...tante volte mi sono chiesto cosa ci trovasse in lui.
Brian si è sempre comportato come uno stronzo patentato, così
all’inizio
ho pensato fosse solo l’infatuazione
di un diciassettenne per quello che vedeva come un dio...e forse i
primi tempi è stato davvero così...» scosse la testa, ripensando a
quante ne avevano passate e concluse, incrociando lo sguardo di Jace.
«...poi qualcosa è cambiato. Non saprei dire quando, comunque sia
da quel momento, tutti abbiamo capito che quei due sono legati da
qualcosa che va decisamente oltre l’umana
comprensione di noi comuni mortali.»
«Il
topino
risplende più del sole quando è con Brian, e quel figlio di buona
donna, splende con lui.» intervenne Debbie, portandosi una mano al
petto.
«Ho
visto, e non credo tutti abbiano la fortuna di poter avere al proprio
fianco qualcuno che ti fa sentire così.»
Alle
parole di Jace, Emmett sentì uno strano brivido attraversarlo e
riscuoterlo. Non avrebbe saputo dire perché, ma per un minuscolo
istante, dentro di sé aveva forse sentito accendersi la speranza che
quel tipo un po’
snob, sarcastico ma anche estremamente brillante, fosse proprio
quella
persona.
Era
inutile girarci intorno. Continuava a riflettere su quella loro
strana serata, in cui avevano trascorso tutto il tempo conoscendosi e
divertendosi nella versione più “normale ed innocente” del
termine.
Eccezion
fatta per Teddy, Emmett non aveva mai veramente conosciuto qualcuno
prima di finirci a letto. Neanche con Drew era stato così,
nonostante poi le cose si fossero evolute in tutt’altro
modo; per questo forse sentiva qualcosa smuoversi pericolosamente
dentro di sé. E sempre forse,
quello poteva significare che in quel caso sarebbe stato diverso.
«Be’...ecco...»
balbettò allora, quasi sudando freddo. «...magari quella persona è
anche più vicina di quel che pensi, no? Magari è qualcuno che non
avresti mai pensato.»
Jace
lo fissò tra il sorpreso e lo stranito per qualche secondo, prima di
sorridergli. «Chiunque sia, spero di scoprirlo presto...» replicò
senza alcuna esitazione, ma il lieve sorriso compiaciuto, nato
spontaneamente sulle labbra di Emmett insieme ad un’altra
fievole speranza, era destinato a morire in quel preciso istante.
«...così posso girare ampiamente alla larga e non farmi fregare o
incatenare! Non ho certo intenzione di perdere tempo con certe cose.
Non fanno per me!»
«Ancora
con la storia di ‘donare
amore in giro’?»
domandò Debbie sarcastica, e quando vide il ragazzo annuire,
aggiunse: «Credimi signorino, quando arriverà, non riuscirai a
sfuggirgli. Brian Kinney ne è la prova vivente. Quello stronzo ha
spezzato cuori per anni ed è sempre stato sfuggevole con
chiunque...»
«Finché
non è arrivato Justin.» concluse Carl per lei. «Anche se, quando
io li ho conosciuti, avevano già la loro non-relazione.»
«Be’...sono
davvero molto contento per loro, ma io preferisco tenermene fuori il
più possibile!» esclamò Jace, sollevando le braccia. Lanciò
un’occhiata
all’orologio
a muro e si alzò. «E credo sia anche ora che me ne torni in
albergo, domattina mi aspettano cinque ore di viaggio e di probabili
scatti d’ira
e tragedie greche. Devo essere in forma, e poi non sopporterei di
avere le occhiaie.» si avvicinò a Debbie e le stampò un bacio
affettuoso sulla guancia. «Grazie di tutto.»
«E
di che, tesoro.» rispose lei, pizzicandogli la guancia. «Mi
raccomando...torna presto a trovarci, d’accordo?»
«Giusto
per chiarire la cosa...ragazzo, ti avverto che non è affatto una
domanda, ma un’ordine.»
puntualizzò Carl, alzandosi dalla poltrona per stringerlo in un
abbraccio.
«Lo
avevo immaginato.» rise Jace, prima di spostare l’attenzione
su Emmett, che sembrava aver lasciato quella stanza da tempo,
con i propri pensieri. «Allora, ci vediamo.» gli disse, facendolo
riscuotere. «Ti aspetto a New York appena ne avrai il tempo, per
quella sessione di shopping!»
«Ah,
sì...certo.» rispose Emmett, un po’
incerto. «Torna presto anche tu.»
Il
designer lo squadrò attentamente, prima di avvicinarsi a lui ed
abbracciarlo. Si avvicinò con le labbra all’orecchio
dell’altro, e sussurrò appena, per non farsi sentire dagli altri.
«Grazie per la serata di ieri. Mi sono divertito davvero.»
«A-anch’io.»
mormorò Emmett, con la tristezza nel cuore, perché ben sapeva che
quelle parole non avevano lo stesso significato che avrebbe voluto
dargli lui.
Jace
sciolse il loro abbraccio e recuperò il suo prezioso ed elegante
cappotto targato Roberto Cavalli. «Allora, alla prossima.» annunciò poi, con un
sorriso un po’
malinconico e, dopo l’ennesimo
cenno con la mano, uscì di casa, lasciando i tre rimasti nel silenzio.
Debbie
terminò di riporre in frigo gli avanzi, mentre Emmett si adoperò
per dare una veloce spazzata alla sala, mentre tanti pensieri
continuavano a susseguirsi nella sua mente.
Ripose
la scopa al suo posto ed entrò in cucina per augurare la buonanotte
alla padrona di casa, quando la vide fargli un cenno, ed invitarlo a
sedersi con lei per una coppa di gelato con panna montata.
Con
un sorriso malinconico, Emmett si avvicinò a lei e prese la sua porzione,
affondandoci distrattamente il cucchiaino.
«Allora...»
iniziò Debbie, prendendo il primo boccone. «...ti piace proprio
tanto quel ragazzo, eh?»
«Cosa?!»
esclamò lui sorpreso, con il tono di voce più alto del solito. «No,
io non...»
«Be’...ti
capisco sai? È proprio un bel giovanotto.»
Emmett
sorrise appena e annuì con la testa. «Sì, lo è.»
«È
più grande di Justin, vero?»
«Sì,
compirà ventotto anni il prossimo anno.» rispose e prese a
giocherellare con la panna montata. «Ma non dirgli che te l’ho
detto. Mi ha fatto giurare di non dirlo a nessuno.»
Debbie
sollevò le sopracciglia e piegò le labbra in una smorfia
esasperata. «Un altro
maniaco dell’eterna
giovinezza.»
«Così
pare.»
«Splendore,
perché quel facciotto triste?» gli chiese la donna, con un sorriso
dolce e comprensivo. «Quello che ha detto conta fino ad un certo
punto. Hai visto come vanno le cose, no? Guarda Brian...è proprio
innamorato perso del topino!
Eppure chi cazzo l’avrebbe
fino a qualche anno fa?»
«Ma
non so se è per quello...o solo una sciocca sbandata perché per una
volta ho trovato qualcuno con cui poter parlare, e non solo farmi una
scopata di qualche minuto.»
«Ti
ricorda quello che avevi con Teddy?»
«Forse
un po’...ma
in modo diverso, perché Jace è diverso da Teddy.»
Debbie
gli sorrise. «È favoloso
come te.»
«Anche
più di me.» rise Emmett.
«Tesoro...»
lo chiamò lei, protendendosi verso di lui per prendergli il mento
tra le dita, in modo affettuoso. «...non c’è
nessuno più favoloso di te. Forse come
te, ma mai di più.»
«Grazie
Deb.» sussurrò lui, con gli occhi azzurri splendenti di
gratitudine, prima di affondare con decisione il cucchiaino nel
gelato, e concedersi a quella dolce e confortante esplosione di
calorie.
*'*'*
Ted
infilò le chiavi nella toppa, borbottando per il freddo. Si lasciò
riscuotere da un brivido e rientrò nel caldo della sua casa, insieme
al compagno. «Cristo Santo, si gela là fuori!» esclamò, soffiando
sulle proprie mani, prima di togliersi cappotto e sciarpa, e
rifugiarsi vicino al radiatore.
«Già...ma
non so se era più freddo fuori o in casa di Deb, dopo che Justin ha
detto di dover tornare a New York.» commentò Blake, prendendo posto
al fianco dell’altro.
«Be’,
è normale.» rispose Ted, posando la testa sulla spalla del
convivente. «Justin è uno di famiglia, ed era tornato solo da un
paio di giorni. Poi c’è
Brian...» fece una smorfia terrorizzata ed aggrottò la fronte.
«...non oso immaginare cosa ci aspetterà in ufficio al rientro
dalle vacanze.»
Blake
scoppiò a ridere. «Vi conviene rigare dritti e lavorare almeno al
doppio delle vostre possibilità.»
«Io
direi anche al triplo.»
«La
lontananza di Justin lo mette proprio di cattivo umore eh?»
Ted
scrollò le spalle. «E chi non lo sarebbe al suo posto? Anche se non
lo ammette apertamente, Brian lo ama esattamente tanto quanto Justin
ama lui. Quei due si completano, per questo gli è così difficile
stare lontani.»
«Chissà
come fa...» mormorò Blake.
«Cosa?»
«Justin,
chissà come fa a sopportarlo. Insomma, ammettiamolo...Brian a volte
è proprio un grandissimo stronzo.»
«Togli
pure quel ‘a
volte’.»
rettificò Ted, arricciando le labbra. «Dì pure che lo è ‘sempre’,
anche con tutte le persone a cui vuole davvero bene. Tutte
ovviamente, a parte Justin.» sorrise benevolo, innalzando uno degli
angoli della bocca e disse: «Fin dall’inizio...con
quel ragazzino impertinente, non è riuscito a comportarsi da vero
stronzo fino in fondo. In un modo o nell’altro
lo riprendeva sempre con sé, qualsiasi cosa facesse o dicesse.»
«Tu
credi che l’abbia
amato fin dall’inizio?»
«Be’...sembra
una gran cazzata affiancata a Brian Kinney, ma io credo che il suo
cuore lo sapesse già che Justin era quel
lui. Solo che Brian
stesso ci ha messo più di tutti a capirlo. O forse, l’aveva
anche già compreso, ma non voleva ammetterlo.»
Blake
annuì e si fece più vicino al proprio compagno, per abbracciarlo e
lasciarsi abbracciare. «È triste che debbano essere divisi ancora
così.»
«Già.»
sospirò il contabile, prima di appropriarsi delle labbra dell’altro,
con un bacio. «Fortuna che a noi non capiterà...»
«Certo
che no.» rispose Blake con decisione, e Ted percepì un tremolio nel
cuore.
Deglutì
a fatica e si soffermò ad osservare con decisione gli occhi azzurri
del proprio compagno, mentre un sorriso andava ad increspargli
lentamente le labbra fini. Sospirò profondamente e si allontanò di
un poco. «Blake...» sussurrò con la voce malferma. «...tu, tu mi
ami, vero?»
«Teddy...»
lo chiamò l ’altro
con un sorriso dolce. «Che domande fai? Certo che ti amo.»
«Bene.»
sorrise impacciato. «Anch’io.
Anch’io
ti amo.» continuò a balbettare ed afferrò una mano di Blake per
stringerla tra le sue. «E...ed è per questo che voglio stare con
te...»
Le
sopracciglia chiare dell’altro uomo andarono ad aggrottarsi, in
un’espressione
confusa. «Teddy, c’è
qualche problema...o qualcosa che devi dirmi?»
«Sì!»
rispose di getto, per poi ritrattare: «Cioè...no.» alzò gli occhi
scuri per farli incrociare con quelli del convivente e cercò di
essere più chiaro: «Va tutto bene, ma c’è
una cosa che dovrei dirti...cioè, chiederti...»
«Ok.»
mormorò Blake, un po’
incerto e preoccupato, prima di sorridere appena. «Coraggio,
dimmi.»
«Ecco...forse
ti sembrerà un po’
prematuro, o forse no...» farfugliò, mentre la sua mente già
vagava al giorno delle nozze e alla loro cerimonia. «Però
conviviamo da tempo, e visto che io ti amo, e anche tu mi ami...»
lasciò cadere la frase nel vuoto e gli lanciò uno sguardo che pensò
essere eloquente, ma che il compagno non afferrò minimamente.
«Teddy,
credo di...credo di non aver ben capito cosa intendi.»
«Ok.»
sorrise il contabile. «Allora te lo dico apertamente...» respirò
profondamente ed intrecciò le dita di Blake alle sue. «...mi...mi
vuoi...sposare?»
Gli
occhi chiari dell’altro si tinsero di pura sorpresa, mentre le
labbra si schiudevano lentamente, senza lasciar uscire neanche un
piccolo suono. Theodore continuò a sorridere entusiasta di quella
frase che finalmente aveva trovato il coraggio di pronunciare,
aspettando fiducioso che l’uomo
di cui era innamorato da tempo – e che avrebbe voluto come compagno
per la vita – si abbandonasse ad uno slancio di felicità e lo
abbracciasse, urlando la risposta che avrebbe voluto sentirsi dire.
«Ted
io...» mormorò Blake in risposta, con uno sguardo smarrito. «...io non
so davvero che dire.»
«‘Sì’...devi
solo dire ‘sì’.»
suggerì l’altro
che, seppur avesse sentito un lieve timore nascergli dentro, mantenne
il suo sorriso pieno di rosee aspettative. «Sempre che tu lo voglia,
certo. Ma non vedo perché no, visto che hai detto che mi ami.»
Blake
restò qualche secondo in silenzio, con le labbra dischiuse, prima di
provare a schiarirsi la gola. «Teddy...» sospirò ed abbassò lo
sguardo. «...io sì, ti amo...»
«E
allora, che aspetti?»
«Ti
amo...» ripeté ancora una volta. «...ma non so se è la cosa
giusta.»
«C-Cosa?»
balbettò, sentendo distintamente il proprio stomaco contorcersi. «Perché
non dovrebbe? Michael e Ben si amavano, così come Linz e
Melanie...ed è per questo che l’hanno
fatto. Perfino Brian e Justin stavano per...»
«Non
so se lo voglio.» lo interruppe Blake, sovrastandolo con un tono più
alto di voce e riportando gli occhi a fissare i suoi. «Non so se
sono pronto per un passo del genere.»
Ted
scosse lievemente la testa, lasciando la presa sulla mano dell’altro.
«Io...io non capisco. Perché non...»
«Non
lo so Teddy, so solo che...» sospirò sommessamente e si morse le
labbra. «Io ti amo, ma...»
«Questo
discorso non ha alcun senso. Dici di amarmi ma non vuoi sposarmi?»
«Non
si deve sposare per forza qualcuno per amarlo.»
«No,
certo che no.» esclamò Ted. «Ma pensavo che tra noi ci fosse
qualcosa che...io credevo che tu lo volessi! Credevo che tu volessi
impegnarti seriamente con me.»
«Ma
noi siamo impegnati in modo serio, però...»
Theodore
si passò una mano sulla faccia e rispose con la voce indurita. «Però
non vuoi sposarmi.»
«Io,
non lo so. Penso di no...cioè...» balbettò impacciato Blake.
«...non so davvero se lo voglio. Mi sembra un passo troppo
grande...»
«Troppo
grande da fare con uno come me. Troppo grande da fare con qualcuno
che non ami abbastanza da volerlo.»
«Non
è questo...è che...»
«Lasciamo
perdere.» intervenne il contabile, mettendo fine alla discussione.
Scostò lo sguardo verso il basso e prese un respiro profondo.
«Adesso scusami, ma ho bisogno di stare da solo.»
«Ted...»
provò a chiamarlo il suo compagno, ma l’altro
non sentì ragioni.
«Vado
a fare un giro. Non aspettarmi sveglio.» replicò telegrafico,
prendendo il cappotto e la sciarpa.
«No.»
lo fermò Blake. «Questa è casa tua. Ti lascio da solo.» lo guardò
per qualche secondo, intensamente ed in silenzio, e aggiunse: «Teddy,
io ti amo...davvero, ma non so se...» scosse la testa e si
riabbottonò il cappotto. «Lasciamo stare per adesso...ti lascio
tempo per te. Buonanotte.» concluse infine, accennando ad un lieve
sorriso, prima di aprire il portone e uscire, voltando le spalle e
sparendo alla vista di Ted, così come tante altre volte era
successo.
*'*'*
“Here
with me” – Dido
Per l’ennesima
volta nella sua vita, muovere un passo dentro quel loft gli costò un
dolore immenso, consapevole che presto avrebbe dovuto lasciarlo,
senza sapere se gli sarebbe stato concesso di tornarci ancora.
Schiuse le labbra
appena, con fatica ed estrema lentezza, quasi gli si fossero
incollate insieme, ma non riuscì a pronunciare una sola misera
sillaba.
Senza che Brian
gli dicesse niente, richiuse la porta e restò imbambolato al suo
posto, passando gli occhi in ogni dove, nel tentativo di imprimersi
con minuziosa attenzione anche l’angolo
più nascosto di quello che aveva davanti.
«Che combini?»
biascicò Brian, riscuotendolo dai suoi pensieri.
«Niente.»
Vide l’altro
arricciare le labbra per poi storcerle, ed annuire appena, appoggiato
al bancone della cucina con lo sguardo vitreo e perso nel vuoto.
«Vuoi qualcosa?» gli chiese poi, per rompere quell’assurdo
muro di ghiaccio improvvisamente cresciuto a dismisura tra di loro,
dopo quella telefonata.
«No.» pronunciò
Justin, in un sussurro appena udibile. Riusciva a malapena a parlare,
figuriamoci se poteva bere o mangiare. Si strinse nelle spalle e
tentennò nell’avvicinarsi
a Brian, con gli occhi fissi a terra. «Io...» iniziò incerto.
Sentiva di dover dire qualcosa, ma non sapeva cosa. Perché quella
situazione gli sembrava irreale, e nonostante avesse saputo fin
dall’inizio che
l’incanto poteva
essere rotto in qualsiasi momento e che il richiamo da New York
poteva essere innalzato prima di quanto temesse, nella sua testa e
nel suo cuore si era illuso del contrario. Si era illuso di poter
restare e vivere appieno ogni giorno promessogli, e goderselo fino
all’ultimo istante.
«...pensavo di...non credevo di dover rientrare così presto e...»
«Non ha
importanza.» lo interruppe Brian, con un tono secco come uno
schiaffo. «L’hai
detto fin dall’inizio,
no?» finalmente sollevò lo sguardo, e Justin quasi ebbe paura di
quegli occhi spenti e così induriti da sembrar finti. «Potevi
tornare a New York in qualsiasi momento, ed è quello che farai.»
«Già, anche
se...»
«Niente ‘anche
se’, Justin.»
intervenne ancora, sovrastando la sua voce. «Non sono contemplati i
‘se’,
lo sai.» il biondo artista annuì, con un po’
d’incertezza, ed
abbassò lo sguardo, fissandolo sul parquet perfettamente lucido.
Brian si passò la lingua sulle labbra, ricacciando indietro e con
forza le parole che avrebbe voluto realmente confessargli, e si
schiarì la voce, sostituendole con altre: «Vado a farmi una
doccia.»
«Posso venire con
te?» si affrettò a chiedere Justin, con un tono supplicante. Non
poteva certo permettere che Brian scappasse da lui con la sua solita
scusa.
L’altro
restò in silenzio per un attimo, prima di voltarsi appena e muovere
la testa in un cenno d’assenso.
«Ok.»
Si spogliarono in
silenzio, lasciando cadere disordinatamente i vestiti a terra ed
entrarono nel box continuando a tenere le labbra perfettamente
sigillate.
Brian ruotò la
manopola dell’acqua ed
il potente getto colpì entrambi, mentre nelle loro teste si
accendeva la fievole speranza che potesse servisse a lavare via la
graffiante sensazione di tristezza e dolore che gli si era cucita
addosso.
Sotto la doccia,
Justin poteva piangere liberamente, illudendosi che le gocce d’acqua
potessero nascondere quelle salate delle sue lacrime agli occhi di
Brian, così da continuare a recitare e apparire forte; così da
sembrare un appiglio a cui il suo amante potesse appoggiarsi e
sostenersi se il male che gli dilagava dentro fosse diventato troppo
pesante da sopportare.
Si lasciò
spingere contro la parete fredda e scura della doccia, anche se ben
sapeva che quel freddo non era niente paragonato a quello che stava
dilagando dentro entrambi; né poteva esistere un posto tanto scuro e
buio come quella voragine che gli si era nuovamente aperta in mezzo
al petto e che sembrava poter mangiare ogni brandello del loro corpo,
fino a che non li avesse svuotati e privati di tutto.
Sentì il
familiare rumore della plastica che veniva strappata, e con la coda
dell’occhio riuscì a
vedere l’involucro
nero del condom raggiungere il pavimento, prima che le labbra di
Brian lo conquistassero con un bacio languido posato all’incavo
del collo.
Si lasciò
avvolgere dalle sue braccia forti e voltò la testa per baciarlo,
facendo affondare le proprie dita nei capelli lisci e scuriti
dall’acqua di Brian.
Strinse senza troppa forza, quel che bastava per rinnovare la sua
presenza sul corpo del proprio amante, e succhiò la pelle delle
guance, imperlate da tante piccole gocce d’acqua.
I loro occhi
s’incontrarono per un
lunghissimo istante, in cui – senza il bisogno di parole –
confessarono i propri sentimenti e tutta quella tristezza
che, paradossalmente, riuscì ad unirli più di quanto già non
fossero; a stringere di più quel legame annodato tra le loro vite,
ormai ridotte ad una sola.
Justin si sforzò
di sorridere; e quel piccolo e semplice gesto riuscì a strapparne
uno identico alle labbra dell’uomo,
seppur quegli occhi verdi, scuriti dal desiderio ma anche dal dolore,
tradissero la realtà dei fatti.
In
quel sorriso non c’era
traccia di serenità, se non di quella data dal loro essersi
reciprocamente grati per i momenti che erano riusciti a concedersi
ancora; per quella breve riunione che aveva ricordato ad entrambi
cosa significava amare con ogni più piccola parte di sé. Un modo
come un altro – un modo tutto loro – per rinnovare la promessa
che si erano scambiati quasi due anni prima.
Si
baciarono ancora ed ancora, con dolcezza, finché l’abbraccio
di Brian mutò in uno più forte, quasi volesse realmente saldare i
loro corpi, per non lasciar andar via il suo prezioso raggio
di sole, e
riaffondare nella solitudine del buio a cui non poteva sfuggire senza
la presenza dell’altro.
Justin
strozzò a stento un singhiozzo nella gola, e sentì Brian
entrare dentro di lui con rabbia; non perché volesse fargli del
male, ma perché quella rabbia era macchiata di disperazione e sapeva
che stava divorando il suo uomo pezzo per pezzo, senza dargli un
attimo di tregua; perciò, nonostante il dolore fisico, strinse i
denti e soffocò la sua sofferenza, sentendosi in parte colpevole per
quello che erano costretti a vivere ancora una volta.
Si sentiva la
causa di quella tristezza; Justin sentiva che il suo lavoro era la
causa di tutto. Se solo non fosse stato un’artista,
se solo non avesse accettato di andare a New York, se solo non avesse
avuto quel dono...
Il suo bisogno di
Brian lo portava anche a questo: a rinnegare quell’abilità
innata; quella preziosa
appendice in più, che aveva ricevuto fin dalla nascita, e di
cui andava perennemente fiero, tranne quando lo allontanava
dall’unico uomo che
avesse mai amato.
In quel preciso
momento, avrebbe anche pregato e scongiurato perché gli venisse
tolta, perché la fama lo abbandonasse e fuggisse via il più lontano
possibile da lui così da lasciarlo tornare alla sua vecchia vita; al
sapore di normalità che tanto gli mancava.
Appoggiò la
fronte contro le piastrelle, sorreggendosi con entrambe le mani, e si
lasciò sfuggire un gemito, quando Brian affondò con più forza nel
suo corpo, beandosi poi di quella scia di piccoli e dolci baci che le
labbra del suo compagno si premuravano di lasciargli sulle spalle e
sulla schiena, come a volersi scusare se gli faceva male.
Ruotò la testa
per quanto gli era possibile, e si riappropriò delle labbra di Brian
con foga, per imprimersi in modo indelebile il suo sapore; respirando
a fondo per inebriarsi del loro odore mischiato, così da sperare di
poterlo conservare finché non si fossero rivisti ancora...
Perché sarebbe
successo. Justin lo promise a se stesso.
Giurò nella sua
testa che avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di poter tornare a casa
il prima possibile; pur di poter correre ancora tra le braccia del
suo uomo.
“Echo” –
Jason Walker
Quando raggiunse
il culmine del piacere, Brian non riuscì a separarsi subito dal
calore del corpo di Justin; non riuscì ad allontanarsi e spezzare
quel loro incastro perfetto...quel loro abbraccio che formava il
posto in cui si sentiva più al sicuro.
Poggiò le labbra
lungo la linea delle spalle candide del suo piccolo amante, e leccò
qualche goccia con devozione, sentendolo rabbrividire. Respirò
sommessamente sulla sua pelle e nascose il viso nell’incavo
del suo collo pallido, quasi a volersi nascondere per sempre dal
resto del mondo.
Restò immobile
per qualche istante, con le braccia ancora strette intorno a quel
corpo esile, percependo distintamente come Justin si muovesse
lentamente a plasmarsi in base ad ogni suo movimento, per restargli
attaccato il più possibile; prolungamento del suo corpo e della sua
anima.
Gli baciò il
collo e l’orecchio e,
con estrema dolcezza e a malincuore, uscì dal suo corpo, sentendosi
immediatamente avvolgere e colpire da un fastidioso gelo. Gettò il
profilattico a terra con noncuranza e restò ancora un poco sotto il
getto della doccia, tornando a godere della pelle di Justin a
contatto con la sua, in un altro dolcissimo e malinconico abbraccio.
«Coraggio
raggio di
sole...andiamo a
dormire.» mormorò poi, con le labbra contro l’orecchio
dell’artista.
Chiuse il rubinetto ed aprì la porta del box, prendendo un
asciugamano per sé e porgendone un
altro a Justin.
Si
asciugarono velocemente in religioso silenzio, entrambi persi tra le
proprie paure, le preoccupazioni ed i propri fantasmi; prima di
ciondolare fino al letto, privi di forze.
Brian
si distese nel letto e, senza pensarci,
tirò su le lenzuola, coprendosi fino a metà torace; e si voltò su
un fianco, dando le spalle a Justin, così che non potesse vedere
quanto quell’imminente
separazione lo stesse distruggendo.
Il
ragazzo per contro, si voltò nella sua direzione e posò una mano
sulla schiena ampia, per accarezzarla lentamente. «Immagino
che tu non voglia essere svegliato domani.» sussurrò poi, con un
groppo alla gola.
«Dormi, Justin.»
gli ordinò Brian, atono, anche se non aveva alcuna voglia di dormire
e sentiva insinuarsi fin dentro le ossa la paura di non riuscir
neanche a respirare normalmente se fosse stato abbandonato ancora una
volta dal suo raggio di sole. «Devi alzarti domattina.»
«Questa volta
tornerò presto, te lo prometto.» la voce di Justin uscì in un
tremolio incerto, nello sforzo di non scoppiare a piangere, e ogni
parola gli feriva la gola.
«Non voglio
nessuna promessa. Non farle.» replicò Brian, senza trovare la forza
per voltarsi e guardarlo negli occhi. «Ti ho detto come la penso.
Perciò concentrati sul tuo lavoro.»
«Ok, allora non
prenderla come una promessa, se ti fa sentire meglio, ma ascoltami
bene...» strisciò più vicino e lo circondò con le braccia,
poggiando la fronte alla sua nuca. «...tornerò.» disse deciso. «Mi
hai sentito?» chiese con voce rotta, liberando le lacrime e
lasciandole cadere ad inzuppare il proprio cuscino. «Tornerò a Pittsburgh,
prima di quanto immagini.»
***
Note finali:
Ed eccoci qua anche al nono capitolo.
Mi scuso per il ritardo e se adesso sarò frettolosa, ma dovrei uscire e se non mi muovo mi scannano immediatamente!
Ci tengo a specificare due cosine...la prima, è che questa in
realtà è solo la prima parte del capitolo che ho dovuto
dividere in due, perché altrimenti sarebbe uscito fuori un
mattone di dimensioni epiche e vi sareste addormentate sicuramente dopo
cinque minuti - considerando poi che non è dei più felici
XD - e poi, avrei tardato troppo con la pubblicazione! Spero
comunque vi sia piaciuto comunque e che non mi lancerete uova o
verdura! XD
Secondo appunto...la frase sul cuore che si spezza e blablabla, non
è interamente farina del mio sacco, ma è ripresa da una
frase scritta da Cecelia Ahren! Ok, adesso - e perdonatemi ancora la
"fugacità" - penso di poter passare alla cosa più
importante di tutte: Ringraziamenti!
Un grazie a tutti coloro che hanno letto anche questo capitolo e inserito questa storia tra le seguite, le ricordate o le preferite...
Ma il grazie più grande ovviamente va a: OfeliaCuoriDiGhiaccio, FREDDY335, oo00carlie00oo, electra23, klaudia62, Hel Warlock, SusyJM, mindyxx, Thiliol, silver girl, Katniss88, EmmaAlicia79, Katie88 e Clara_88.
Grazie davvero per tutte le bellissime parole che mi avete dedicato!
Un bacione e a presto.
Veronica.
PS:
Ho pubblicato senza leggere accuratamente il capitolo, perciò se
trovate errori perdonatemi...domani cercherò di revisionarlo al
meglio. XD
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Capitolo 10 *** See you soon. ***
10.See you soon.
6x10 – See
you soon.
“Gone
away” – SafetySuit
Schiuse gli occhi
che l’alba era appena
iniziata, lasciando filtrare un velo leggero di luce così pallida,
da far sembrare lo spazio racchiuso tra quelle quattro mura etereo,
quasi magico, come appartenente ad un mondo totalmente separato da
quello che lo aspettava oltre la sua soglia.
E forse era
davvero così.
Fin dalla prima
volta in cui aveva mosso i primi passi su quel parquet chiaro, nel
suo cuore spaventato, si era fatta spazio la sensazione di aver dato
il via ad un meccanismo che gli avrebbe cambiato totalmente la vita
e, di lì in avanti infatti, ogni volta che vi aveva fatto ritorno –
che fosse col sorriso, con la rabbia o le lacrime – quella stessa
sensazione era sempre rinata dentro di lui.
Per Justin, il
loft era diventato una sorta di accogliente nido; qualcosa da cui non
riusciva a separarsi; ed anche in quel preciso momento non riuscì a
resistere dallo stringersi come un bambino al cuscino, soprattutto
quando i suoi occhi chiari incontrarono la schiena di Brian.
Durante tutta la
notte non era riuscito ad addormentarsi, e per tutto quel tempo in
cui era rimasto pienamente vigile, non aveva sentito muoversi neanche
di un millimetro il suo uomo, né aveva percepito un suono provenire
da lui, se non quel lieve fischio che emetteva quando respirava, e a
cui ormai si era abituato ad ascoltare ogni volta che dormivano
insieme, quasi fosse la sua ninna nanna.
Inspirò
profondamente, con gli occhi puntati su quella pelle perfetta,
lievemente rischiarata dalla luce, ed allungò una mano con
nell’intento di
lasciarci una dolce carezza. Giunse quasi a toccarla con la punta
delle dita, ma si bloccò e le richiuse a pugno, quasi si fosse
scottato o si fosse già arreso al dover vivere lontano da momenti
come quelli.
Si morse le labbra
e, con gli occhi divenuti ormai liquidi per le lacrime, scostò con
attenzione le coperte e scivolò fuori dal letto, percependo il peso
di un gigantesco macigno sullo stomaco.
Col fiato corto e
la gola che bruciava nello sforzo di trattenere urla e pianto, prese
i pantaloni e li infilò di malavoglia, proseguendo poi con il resto
degli indumenti che la sera precedente aveva abbandonato a terra.
Inviò un
messaggio a Jace perché lo passasse a prendere con la jeep sotto
casa e, dopo essersi avviato verso la porta ed essersi infilato il
giubbotto, tornò a fissare Brian attraverso le ante lasciate semi
aperte, mentre le lacrime sfuggivano al suo controllo e scendevano
lentamente lungo la linea del naso e sulle guance candide.
Ne sentì un paio
infrangersi sulle labbra e le leccò via, imprimendosi il loro gusto
salato sulla lingua. Strinse i denti con forza per impedirsi di
singhiozzare come un bambino, fino a quando non si ritrovò a
tapparsi la bocca con il palmo della mano, scosso dai fremiti, mentre
si sorreggeva alla porta scorrevole per non crollare e correre verso
il letto, alla ricerca di un conforto tra le braccia di Brian.
Con le ultime
forze rimaste, si costrinse a chiudere gli occhi e a voltarsi. Aprì
la porta con rabbia disperata e, dopo esser avanzato di un passo, se
la richiuse alle spalle, per poi appoggiarcisi con la schiena e
strisciare per tutta la sua lunghezza, fino ad accoccolarsi a terra
ed abbracciare le proprie gambe, immergendovi anche la testa ed
abbandonandosi ad un pianto strozzato, certo che Brian non avrebbe
potuto sentirlo.
*'*'*
“Please
don’t go” –
Barcelona
Nel momento in cui
percepì il rumore della porta scorrevole che raggiungeva il termine
del suo percorso, Brian sollevò lentamente le palpebre. Finalmente
non era più costretto a fingere di dormire.
Respirò
sommessamente e, deglutendo a fatica, si concesse di piangere una
sola minuscola lacrima, che percorse leziosa la sua pelle, fino a
cadere e bagnare il cuscino, in una macchiolina più scura.
Fissò lo sguardo
in un punto a caso e si costrinse a ignorare il suo cuore che, per
ogni singolo battito, sembrava potergli urlare di alzarsi da quel
letto e correre giù per le scale a rotta di collo, così da fermare
Justin e confessargli finalmente quelle dannate parole.
Per
favore, non andartene.
Si passò una mano
sul viso, come a voler cancellare quei pensieri, e si tirò su, per
poi protendersi verso il comodino ed afferrare il pacchetto di
sigarette.
Di solito non
amava fumare appena sveglio, ma saturarsi i polmoni con il fumo,
pareva essere l’unica
momentanea soluzione per colmare il vuoto che si era creato dentro il
suo petto, nel momento in cui il corpo di Justin aveva abbandonato il
letto, lasciando solo il proprio calore ed il profumo a ricordargli
la sua presenza.
Accese la
sigaretta e si appoggiò con la schiena alla testata del letto,
lanciando una lunghissima ed intensa occhiata al lato vuoto al suo
fianco, e a quelle coperte arricciate sul fondo, immaginando per un
brevissimo istante, di vederci Justin beatamente assopito, con i
capelli arruffati a coprirgli parte del viso e le labbra lievemente
socchiuse, che come sempre sembravano invitarlo ad essere baciate.
Prese una prima
boccata, e nel soffiare via il fumo, distese le labbra in un sorriso
di scherno per se stesso e per quei pensieri che lo facevano sembrare
quella che, fino a qualche anno fa, avrebbe definito una patetica
checca innamorata.
Eppure, ogni volta
che pensava al sorriso del suo Justin, percepiva distintamente la
sensazione di uno strappo sul cuore; una lacerazione che forse non
sarebbe stato capace di ricucire – non da solo almeno – e che lo
obbligava a respirare con più forza per non impazzire o affogare in
quel lancinante dolore.
Ed erano quelli i
momenti in cui non si trovava poi più così tanto ridicolo; perché
il male che lo colpiva era così fottutamente reale da fargli passare
perfino la voglia di schernirsi, o continuare a fingere che fosse
tutto perfetto.
Inspirò
altre boccate di fumo – una dietro l’altra,
profonde tanto da togliergli il fiato – finché la sigaretta venne
bruciata e consumata fino al filtro, e le sue dita la schiacciarono
sul posacenere. Soffiò via l’ultima
nuvola di fumo e si alzò stizzito dal letto, dirigendosi verso le
ampie vetrate, incurante della propria nudità. Posò lo sguardo
sulla strada sottostante, ed un profondo cipiglio si disegnò sulla
sua fronte, quando vide una jeep scura accostare.
Non
aveva bisogno di guardare al suo interno per capire che alla sua
guida stava Jace, e che avrebbe portato via il suo piccolo artista
lontano da Pittsburgh; così come non era necessario che gli
spiegassero il motivo per cui Justin aveva acquistato proprio quella
jeep. Era fin troppo
ovvio che anche in quel dettaglio si potesse leggere quanto quel
ragazzino sentisse la sua mancanza.
Sorrise
malinconico; e nell’istante
in cui riuscì a vedere quella familiare chioma bionda e luminosa
comparire all’improvviso
per poi sparire dentro l’abitacolo,
poggiò il palmo della mano sul vetro, come a voler indirizzare una
carezza verso di lui; e mentre qualcosa andava a stritolargli il
cuore nell’ennesima
morsa dolorosa, le sue labbra trovarono la forza di separarsi e di
soffiare via parole diverse da quelle che vibravano nel suo animo:
«Buon viaggio, raggio
di sole.»
*'*'*
Da quando avevano
iniziato il loro viaggio, esattamente quasi cinque ore prima, Justin
non aveva aperto bocca, se non per dargli un fievole e distratto
saluto. Si era limitato ad adagiarsi sul sedile, poggiando la testa
al finestrino, ed aveva fissato gli occhi blu chiaro e orribilmente
opachi per la tristezza, verso il proprio lato della strada.
Per contro, Jace,
non aveva fatto altro che alternare le proprie occhiate tra la strada
e la figura rannicchiata al suo fianco, visibilmente preoccupato.
Da quando si erano
incontrati, per quante volte lo avesse visto triste o in preda ad un
pianto isterico, il designer newyorkese, non aveva mai visto il suo
migliore amico tanto spento e apatico come in quel momento. Nel giro
di poco più di un giorno, era riuscito a vedere lati ed espressioni
sconosciute su quel viso angelico: dalla preoccupazione più
drammatica, alla felicità più pura, fino a quella tristezza
soffocante.
Superò con la
jeep il gigantesco cartello verde che annunciava l’ormai
imminente arrivo nella Grande Mela e, schiarendosi la voce, si decise
a parlargli prima che il loro viaggio terminasse, e che quindi Justin
si ritrovasse di nuovo immerso nella realtà di essere un’artista
sulla cresta dell’onda.
«Allora...» iniziò,
lanciando altre occhiate fugaci alla sua destra. «...vuoi passare un
attimo da casa, o vuoi che ti porti direttamente in ufficio da Gary?»
Justin per contro si limitò a sollevare le spalle, con noncuranza,
senza staccare gli occhi dal panorama che sfrecciava ai lati. Jace
arricciò le labbra, un po’
contrariato, e si decise a riprovare: «Senti, se vuoi possiamo
fermarci prima a fare colazione e poi...»
«Jace,
non m’importa.»
sbottò Justin interrompendolo. «Va’
dove preferisci, ok?»
«Allora penso
opterò per il primo ospedale della zona.» ribatté in tono
sarcastico il designer. «Mi pare che qui qualcuno abbia proprio
bisogno di un calmante!»
Gli occhi blu
chiaro di Justin finalmente abbandonarono la strada e si posarono su
Jace, decisamente costernati. «Scusa.» mormorò fievolmente. «So
che non devo prendermela con te. È solo che...»
«Non
volevi tornare a New York.» aggiunse Jace, al posto dell’altro;
che annuì, per poi sbuffare e lasciarsi affondare nel sedile.
«Vorrei
sapere chi cazzo me l’ha
fatto fare di venire fin qui...» borbottò, inarcando le
sopracciglia chiare. «...non potevo restarmene alla cara vecchia
Pittsburgh?! No, dovevo combinare un casino, come sempre. Bella
trovata, Justin Taylor!» proseguì ironizzando sulle sue scelte.
«Adesso sono intrappolato qui, ed ho le mani legate.»
«Be’...puoi ancora
mollare tutto.» replicò tranquillamente Jace, sollevando le spalle
e distendendo le labbra in un sorrisetto furbo. «Tu dimmi di tornare
indietro, o di andare chissà dove...e lo farò. Basta solo che tu lo
dica...»
Justin ricambiò
quel sorriso con uno appena accennato, prima di sospirare e negare
con la testa. «Non posso mollare tutti così.»
«Gary se ne farà
una ragione...» pronunciò con noncuranza, prima che nella sua testa
balenasse la convinzione che aveva maturato in quei mesi, secondo cui
il manager si era preso una bella cotta per il piccolo artista.
Perciò fece una lieve smorfia e aggiunse: «...almeno credo.»
«Non è solo per
Gary. Ho delle promesse da mantenere.»
«Se
ti riferisci a quella stronzata fatta a Brian, sta certo che se anche
non la manterrai, ti riprenderà nel suo letto molto
volentieri.» fece
schioccare la lingua e continuò: «E poi, insomma, dopo tutti questi
anni saprai come prenderlo
per la gola no? E
non mi riferisco alle tue doti culinarie.»
Justin
finalmente si lasciò andare ad una breve risata. «Non parlo di
Brian. Parlo dei proprietari delle gallerie a cui ho già detto ‘sì’,
o agli altri impegni presi.»
«Ripeto: secondo
me ti prendi troppo seriamente. Sei un’artista,
per la miseria! È un tuo dovere fare i capricci e rendere la vita
impossibile al prossimo!»
«Vorresti dirmi dove l’hai
sentita questa?»
Jace
gli lanciò un’occhiata
di sbieco e scosse la testa con rassegnazione. «Tutti gli artisti
sono così...solo tu ti dai alla misericordia! Pensa anche a
quel...come si chiama...» ci pensò un po’
su, per poi esclamare: «Sam Auerbach! Lui sì che è un vero
artista. Un caprone insopportabile e arrogante!»
Nel
sentir pronunciare quel nome, Justin percepì un lungo brivido
attraversargli la schiena. Non aveva mai davvero conosciuto Sam, ma
sapere come quell’uomo
avesse quasi rovinato il matrimonio tra le sue più care amiche, gli
era bastato. Decise comunque di non parlarne con Jace, e proseguì
nella conversazione: «Quindi dovrei diventare uno zotico incivile
secondo te?»
«Già...e sarebbe
molto arrapante.» mormorò l’altro,
umettandosi le labbra, e fingendo un’espressione
sensuale.
«Sei
completamente matto.» rise l’artista.
«Comunque non ho nessuna intenzione di diventare come
quell’Auerbach.
Neanche se significasse guadagnare milioni di dollari in più. Io
sono solo Justin Taylor, non posso essere nessun
altro.»
Jace
sollevò le sopracciglia, ammiccando. «Be’...non
so se sia la sua cafonaggine il motivo di tutto il suo successo, ma
in Europa ha davvero fatto faville.»
«Sì, ho letto
qualcosa.»
«Chissà
perché però ha abbandonato così all’improvviso
l’America
e se n’è
andato a Milano...» mugugnò Jace, con la fronte leggermente
aggrottata. «...insomma, ha rischiato parecchio. In America era una
specie di dio, ma in Europa in pochissimi lo conoscevano.»
Justin
si ritrovò a deglutire a disagio. Lui conosceva bene uno dei motivi
per cui Sam si era allontanato di tutta furia dall’America;
e quel motivo rispondeva al nome di Lindsay Peterson. «L’hai
detto anche tu, no? È un’arrogante...»
balbettò quindi in risposta. «...probabilmente voleva semplicemente
provare qualcosa.»
«Probabile.»
convenne Jace. «Comunque, sembra proprio che farà ritorno nella
madre patria.»
«Cosa?!»
schizzò Justin, facendo sobbalzare anche l’altro.
«E perché mai?!»
«Ehi
calma. Cos’è
tutta questa agitazione?» gli chiese stranito dalla sua reazione.
«Non sapevo fossi un suo fan!»
«Non
lo sono infatti!» borbottò in risposta il biondo
artista, in preda
all’ansia.
Non voleva neanche immaginare la reazione che avrebbero potuto avere
Mel e Linz nel venire a conoscenza di quella notizia. «Allora?
Dimmi, sei sicuro che abbia intenzione di tornare?»
Jace
gli lanciò un’occhiata
stranita, per poi rispondere: «Così ha rilasciato in un comunicato
alla stampa. Ha detto che non avrebbe preso altri impegni in Europa
perché sarebbe rientrato in America. Non so altro.»
«Cazzo...»
mormorò Justin, lasciandosi cadere a peso morto sul sedile.
Le
sue due amiche avevano superato ormai da tempo la “Crisi Auerbach”,
così come si divertivano a definirla tutti loro – oltre all’altro
nomignolo, ovviamente molto meno sottile, inventato da Brian – ma
conosceva fin troppo bene Melanie, e sapeva quanto rancore fosse in
grado di covare anche a distanza di anni; e quanto questo avrebbe
potuto far male, se fosse stato risvegliato.
Ciò
che lo spaventava di più però, era il motivo per cui Sam, da un
momento all’altro,
avesse deciso di far ritorno in America. Ovviamente non c’era
niente a sostenere la sua preoccupante tesi che quel motivo fosse
Linz, ma neanche si sentiva di scartarla completamente. Per non
parlare del fatto che, a prescindere da quello che lo aveva spinto al
suo ritorno, non osava neanche immaginare cosa avrebbe potuto
scatenare un casuale incontro.
Era risaputo
infatti, che gli artisti americani facessero spesso tappa a Toronto
con le loro personali, quindi le possibilità che il disastro
avvenisse, non erano poi così remote come si era augurato.
Perso
comunque in tutte le sue congetture, Justin non si era neanche reso
conto del modo in cui Jace aveva preso a fissarlo da qualche minuto,
finché questo non lo riscosse con una delle sue domande a
bruciapelo: «Ti sarai mica scopato anche lui? Ma non era decisamente
etero?»
«Eh?
Cosa?» chiese l’artista,
riscuotendosi dai propri pensieri. «No! Cioè, sì!» si affrettò a
rispondere e quando si accorse dell’espressione
dell’amico
sempre più allucinata, rettificò: «Non me lo sono scopato io.»
«Che
significa quel ‘io’?»
domandò immediatamente il designer, e Justin si ritrovò ad
imprecare mentalmente contro se stesso. «Si è divertito Brian con
lui?»
«No...»
«E allora chi?»
«Prometti
di non dirlo ad anima viva.» sibilò il ragazzo, puntando un dito
contro l’altro.
«Promettilo sulla tua collezione di mocassini italiani!»
«Oddio. Stai per
rivelarmi un segreto di stato?»
Justin fece una
smorfia. «Qualcosa del genere.»
«D’accordo,
prometto.»
«Jace, ti taglio
le palle se te lo lasci sfuggire con qualcuno!»
«Ho
promesso!» sospirò esasperato, prima di protendere l’orecchio
verso l’amico.
«Allora, dimmi un po’
questo super segreto.»
Le
labbra dell’artista
si arricciarono indecise sul da farsi. Le mordicchiò per un po’
finché, con un respiro profondo, si decise a confessare: «Con Linz.
È stato con Lindsay»
«Linz?!» replicò
Jace, quasi strillando il nome. «Ma non è lesbica?!»
«Evidentemente
sarà diventata etero per qualche minuto, che vuoi che ti dica! Non
sono comunque affari che ci riguardano!»
«Be’...oddio...»
mormorò il designer, aggrottando la fronte. «Un pensierino con quel
rozzo ce lo farei anch’io.
Ma Melanie lo sa?»
«Sì.»
«E sono ancora
tutti vivi?»
Justin scoppiò a ridere. Effettivamente se l’era
sempre chiesto anche lui come Linz e Sam fossero riusciti a scampare
alla morte dopo che la verità era stata rivelata. Insomma, Melanie
Marcus non era certo ricordata per la sua assoluta calma. A quello ci
pensava per tutti quanti il caro ZenBen. «A quanto pare sì.»
rispose comunque, prima di sospirare. «Per questo sono preoccupato.»
«Temi
che si potrebbe scatenare l’inferno
in famiglia?»
«Diciamo che Mel
non è una dal perdono facile...e che è meglio non buttare sale su
certe vecchie ferite.»
«Vuoi
avvertirle?»
«Non so. Tu che
dici, dovrei?»
Jace ci pensò su
per un attimo, prima di negare con la testa. «Aspetterei ancora un
po’ a dare l’allarme. In fondo non sappiamo ancora se lo farà
davvero...magari siamo fortunati e cambia idea!»
«Ho sempre
creduto molto poco alla fortuna.» ribatté l’altro, piegando le
labbra in una piccola smorfia.
«Eppure ne hai
avuta parecchia.»
«Dipende dai
punti di vista.»
«D’accordo,
come vuoi.» sospirò sollevando le mani dal volante, ed indicò con
un cenno della testa un cartello sospeso a poca distanza da loro.
«Allora Taylor...casa o Gary?»
Justin si morse
l’interno della guancia, indeciso sul da farsi, fissando lo sguardo
sulle due direzioni stampate in bianco su uno sfondo verde, per poi
indicare il lato destro. «Andiamo da Gary.» annunciò in seguito,
prima di aggiungere con uno sguardo stranamente deciso: «Vorrei parlargli.»
*'*'*
«Mamma, mamma!»
si sentì chiamare da una voce squillante. «Dai, sbrigati!»
Melanie osservò
il suo bambino saltellare ovunque mentre pesticciava la neve caduta
durante la notte, sorridendo e scuotendo la testa, ormai rassegnata
al fatto che non sarebbe riuscita a riportarlo a casa asciutto e
pulito.
A stento era
riuscita a farlo pranzare e a fargli fare il suo quotidiano riposino
pomeridiano, quando il piccolo si era accorto del bellissimo manto
bianco che ricopriva l’intera città; fino al momento in cui, le
sue ragioni, non avevano dovuto cedere alle richieste di quel bambino
bellissimo, quanto terribilmente persuasivo.
E quel
particolare, gli ricordava decisamente qualcuno...
«Gus, non
correre!» esclamò, cercando di assumere un’espressione di
rimprovero.
«Dai, mamma!
Corri!» strillò in risposta lui, come a confermare che in realtà
non aveva ascoltato neanche una parola di quello che gli aveva detto.
La donna si
concesse un lungo sospiro rassegnato e, dopo aver sbuffato, si decise
a correre dietro a quella piccola peste, così da riempirsi le
orecchie di quelle sue urla felici e delle sue risate che tanto le
scaldavano il cuore.
«Vieni qui,
piccola peste!» gridò lei, cercando di acciuffare il bambino.
«Tanto non mi
prendi, tanto non mi prendi, mamma!» la canzonò lui, prima di bloccarsi
all’improvviso, con lo sguardo fisso davanti a sé. Melanie alzò
gli occhi, seguendo la stessa direzione di quelli del figlio, fino ad
incrociarli con una figura slanciata e familiare che, nel suo
cappotto di pelle decisamente costoso, e con gli occhiali scuri
inforcati, avanzava con le mani affondate nelle tasche, verso di loro. «Papà!»
strillò allora Gus, con la voce colorata di entusiasmo; e prese a
correre come un pazzo.
«Ehi.» lo salutò
Brian, accogliendolo tra le sue braccia, per poi tirarlo su. «Ma che
bel cappotto che hai! Chi te l’ha comprato? Deve avere sicuramente
buon gusto!»
«Tu!» esclamò
il bambino, stringendosi forte al suo collo.
«E oltre al buon
gusto, anche un sacco di soldi.» intervenne Mel, dopo averli
raggiunti, con quella sua solita punta di acidità nella voce. «Un
cappotto di Hugo Boss per un bambino di sette anni. Non è un tantino
esagerato?»
«No, se lo sa
portare con classe.» replicò Brian, innalzando uno degli angoli
della bocca in un sorrisetto spavaldo. «E dato che Gus è mio
figlio, non ci sono dubbi a riguardo. Il sangue non mente, anche
quando ci sono due lesbiche in mezzo.»
«Guarda che è
figlio anche di Linz.»
Lui scrollò le
spalle ed ammirò i lineamenti dolci del bambino, perfettamente
identici ai suoi quando aveva la sua stessa età; perché c’era
stato un periodo della sua vita in cui, perfino lui, era parso
innocente. Gli sorrise, prima di baciargli una guancia morbida e
arrossata dal freddo, e riportò l’attenzione su Mel. «Ma Linz è
una borghese. Lesbica, ma comunque borghese.»
Melanie sospirò
esasperata, e si decise a cambiare argomento, pur sapendo che lo
avrebbe fatto innervosire. «Come mai da queste parti comunque?»
piegò le labbra in un ghigno furbo ed aggiunse: «Per caso hai
improvvisamente deciso di distrarti diventando il padre dell’anno?»
«Io sono già
il padre dell’anno.» precisò Brian, scandendo bene le parole. «E
poi distrarmi da cosa? Sono in vacanza e comunque la Kinnetik va alla
grande.»
«Sto parlando di
Justin.» ribatté lei, arrivando dritta al punto. Lo vide piegare le
labbra all’interno della bocca lievemente stizzito, ed aspettò che
le rivolgesse il suo solito sorrisetto sarcastico, prima di
aggiungere: «Non mi sembravi particolarmente rilassato a casa
di Debbie.»
«Dimmi Mel, sei
mai stata scopata da un uomo?»
Lei lo fulminò
con lo sguardo, indicando il bambino con il movimento degli occhi.
Attese che Brian lo posasse a terra per lasciarlo andare a giocare
con la neve, e rispose, con le sopracciglia inarcate: «No, ma questo
che c’entra?»
«Bene.» sorrise
lui, spingendo appena la lingua contro la guancia. «Allora posso anche
consigliartelo: va’ a farti fottere.»
«Che razza di
stronzo.» lo apostrofò, incrociando le braccia. «Era solo un modo
come un altro per sapere come stai!»
«Se proprio devi
compatire qualcuno, va’ a casa del tuo amico Theodore.»
«Teddy sta bene,
per fortuna.» rispose acida. «Per una volta sembra che gli vada
tutto liscio. Cosa che non posso certo dire di te.» sollevò le
sopracciglia e rettificò: «Almeno per quanto riguarda
l’amore...visto che per il resto sei il bastardo più ricco e
fortunato che io conosca!»
«Che vuoi farci,
la fortuna è cieca.»
«In certi casi
invece, penso seriamente che la tua faccia se la ricordi benissimo!»
sbuffò, assottigliando lo sguardo. «Ci manca solo di scoprire che
perfino quella si è presa una cotta per te!»
Brian sorrise
ironico. «Be’, direi che non sarebbe certo l’unica.»
«Fortuna per me
che ne sono totalmente esente!»
«Ma perché
invece di metter bocca nella mia vita non pensi alla tua di
famiglia?» sbottò lui improvvisamente. Pochi come Mel sapevano
farlo innervosire tanto. «Perché non attingi un po’ alla tua
proverbiale oggettività e non ti accorgi di come stanno le
cose?»
«E sentiamo professor Kinney, come starebbero le cose?» gli rispose a tono lei.
Lui riacquistò la
calma e la sua perfetta espressione da schiaffi, per poi passarsi la
lingua sulla bocca, e lasciar increspare le labbra nell’ennesimo
sorriso ironico. «Davvero non ti accorgi che Gus non è felice?»
«Gus è
felice.» obbiettò Melanie, sempre più furiosa. «È amato. E io e
Linz non gli facciamo mancare niente!»
«Già.» annuì
lui con sarcasmo. «‘Niente’, a parte la sua famiglia.»
«Che diavolo stai
dicendo?»
«Avanti
Melanie...sei davvero così cieca da non vedere che Gus è molto più
felice qui che a Toronto? O forse non vuoi vederlo, perché
significherebbe ammettere a te stessa di aver fatto una gigantesca
stronzata quando sei scappata da qui.»
«Io non sono
scappata! Io...»
«Sì che l’hai
fatto.» l’interruppe lui, sovrastandola con la sua voce. «Tu e
Linz ve ne siete andate per paura.»
«Volevamo soltanto
vivere tranquille! In una città dove i nostri diritti sarebbero
stati riconosciuti...dove non saremmo state trattate come cittadine di
seconda classe, o peggio!»
«Certo, ma
adesso?» chiese lui, in tono retorico. «Adesso che quella stronzata
della proposizione quattordici è finita...adesso che Gus sta
cercando di dirvi in tutti i modi possibili che è qui che vuole
stare...adesso, come cazzo la metti?»
«La storia della
proposizione quattordici sarà anche finita, ma non ci vengono ancora
riconosciuti quei diritti che ci spettano dalla nascita! A Toronto
invece sì, e...»
«E che ne è
stato di quell’avvocato che con il suo patetico idealismo si
batteva perché questo avvenisse anche qui?» le domandò Brian a
bruciapelo, zittendola all’istante. «E poi chi cazzo se ne frega
se c’è qualche stronzo che ancora non ci accetta! È solo della
felicità di mio figlio che m’interessa, non dell’approvazione di
qualche coglione che si sente in dovere di giudicare.»
Dopo qualche
attimo di silenzio, Melanie sospirò sommessamente e lanciò uno
sguardo amorevole verso Gus, prima di arricciare le labbra e
rispondere: «Wow. Con un’arringa del genere, avresti dovuto fare
l’avvocato.»
«Sono molto più
bravo a gettare fumo negli occhi, che a difendere la gente.» soffiò
in risposta, nel momento in cui comprese di aver fatto centro, e che
gli animi si erano finalmente placati. «Comunque sia...» riprese a
parlare, spingendo la lingua all’interno della guancia.
«...Jennifer è davvero brava nel suo lavoro. Potrà trovarvi una
bella casa ad un ottimo prezzo.»
«Brian...» provò
a ribattere lei, senza risultato.
«Fatti dare il
numero da Ted, quando vi sarete decise.» concluse lui, voltandosi
per raggiungere suo figlio; mentre Melanie si ritrovò a stringersi
di più nel cappotto, raggelata dalle parole di Brian, più che dal
freddo vento dicembrino.
*'*'*
Dopo aver varcato
la porta in vetro scorrevole dell’agenzia in cui lavorava Gary, ed
esser stato sommerso di complimenti da ogni persona che incontrava –
di cui, la maggior parte, neanche conosceva – Justin, affiancato da
Jace, raggiunse la porta scura dello studio del suo manager.
Diede un paio di colpi con le nocche, ed attese di essere invitato a entrare:
«Avanti.» sentì pronunciare, e spinse sulla maniglia.
«Ciao, disturbo?»
esordì, quando gli occhi scuri di Gary si posarono su di lui,
riempendosi di sorpresa.
«Ehi, Justin!»
esclamò, lasciando ricadere la penna sulla scrivania, per poi fare
un cenno di saluto in direzione di Jace. «Non pensavo saresti corso
immediatamente qui.»
«A dire il
vero...» iniziò Justin, facendo correre gli occhi ovunque nella
stanza. «...sono venuto qui perché devo parlarti.»
«Non guardare
me.» intervenne il designer, sollevando le mani in segno di resa.
«Io non ne so niente. L’ho solo accompagnato.»
Le sopracciglia di
Gary si inarcarono a formare un’espressione stranita. «Ok...»
pronunciò con voce fievole. «Accomodati e spiegami tutto.»
Sia Justin che
Jace presero posto sulle poltrone scure in silenzio, finché
l’artista non si umettò le labbra e, intrecciando le dita tra
loro, prese a parlare: «Ecco, io volevo ringraziarti per tutto
quello che hai fatto per me in questi mesi. Se non fosse stato per
te, probabilmente non sarei arrivato dove sono...» si soffermò per
un attimo, e finalmente si decise a guardare Gary negli occhi,
trovando in quei pozzi scuri un evidente disagio. «...e ti sono
grato anche per questi ultimi contratti che sei riuscito ad ottenere,
ma...»
«Ma?» incalzò
il manager.
«Ma non credo di
voler più andare avanti così.» rispose deciso, con voce ferma.
«In che senso?»
domandò Gary allarmato.
«Nel senso che,
rispetterò gli impegni presi fin’ora, ma non voglio prenderne
altri per adesso.» sospirò profondamente e aggiunse: «Ho bisogno
di tempo per me...io, non mi sento più neanche un’artista. Mi
sembra solo di essere una macchina che dipinge a comando, senza più
ispirazione, senza più passione.» strinse le mani a pugno e,
visibilmente dispiaciuto – poiché una parte di sé lo faceva
sentire un ingrato – concluse: «Mi dispiace Gary, ma davvero...ho
bisogno di tornare a casa per un po’.»
L’altro scosse
la testa dopo qualche secondo passato perfettamente immobile.
«Justin, il mondo dell’arte non è un gioco. Non puoi ancora
permetterti di fare quello che vuoi...è vero, sei sulla cresta
dell’onda e le persone sborsano quantità esorbitanti di dollari
per i tuoi quadri, ma questo non significa che sei sistemato.» fissò
i suoi occhi neri in quelli azzurri del giovane artista e,
incrociando le mani alle labbra, continuò: «Non è il momento per
prendersi una vacanza. Questo è il tempo che devi sfruttare al
meglio, dopo di che avrai tutti i giorni che vuoi da trascorrere a
Pittsburgh. Quando le persone saranno disposte a fare anche la fila
sotto casa tua per avere un tuo quadro da esporre, allora potrai
permetterti di fare ciò che vuoi...»
«Mi pare che la
gente faccia già la fila per avere un suo quadro.» intervenne Jace,
che fino a quel momento aveva seguito lo scambio di battute con
attenzione. «Così come le gallerie. Justin è il più richiesto tra
gli artisti emergenti...»
«Esatto.» lo
interruppe Gary. «Artisti emergenti. Il che significa che non
si è ancora consolidato il suo piedistallo. Se molla adesso, butterà
nel cesso tutti gli sforzi fatti.»
«Ma io non riesco
più a dipingere come vorrei!» prese in mano una stampa ridotta di
uno dei suoi ultimi quadri, poggiata sulla scrivania di Gary, e la
sventolò in aria con rabbia. «Questo non sono io!»
«Fino a prova
contraria, è stata la tua mano a dipingerla...»
«Ma è solo uno
scarabocchio casuale! Terribilmente accademico!»
Gary sollevò le
spalle. «I critici non lo pensano affatto. Nessuno lo pensa.»
«Io non voglio
dipingere per i critici o la gente.» ribatté Justin, sibilando le
parole. «Io voglio dipingere prima di tutto per me, per le emozioni
che sento! E adesso non sento niente...sono vuoto.»
«Non è forse una
sensazione anche questa?» replicò il manager, prima di sbuffare.
«Ascolta, lavoro in questo mondo da molti anni prima di te e so come
va e quanto può essere spietato. Se molli adesso, hai chiuso...lo
capisci?» si soffermò per guardarlo attentamente e, piegando le
labbra in un sorriso comprensivo, disse: «Hai davvero intenzione di
gettare il tuo sogno così? Proprio ora che ce l’hai in pugno?»
«Non credevo che
per seguire un sogno dovessi rinunciare a tutto il resto.» ribatté
il ragazzo, con tono asciutto. «Non pensavo significasse annullare
me stesso.»
«Non è così.
Non sarà per sempre così.»
«Che cazzo
dovrebbe fare allora?» sbottò Jace, visibilmente innervosito. Se
c’era una cosa che proprio non sopportava del lavoro di Justin, era
proprio il fatto che dovesse veder sacrificata la sua anima per il
solo scopo di ottenere fama e soldi.
«Stringere i
denti.» sentenziò Gary. «Dipingere come ha fatto fin’ora...e
quel tempo per te che tanto desideri arriverà prima di quel che
pensi.» si passò la lingua sulla bocca e picchiettò con un dito
sulla scrivania, come se fosse indeciso se pronunciare o meno altre
parole; prima di schiudere le labbra e scegliere di parlare: «Voglio
essere sincero con te, Justin.» si accomodò meglio sulla poltrona e
riprese: «Da quando sei arrivato in questa agenzia, non posso negare
che le entrate per noi siano salite alle stelle. Anche il mio capo è
letteralmente impazzito per i tuoi quadri ed ha puntato molto su di
te...il che significa che, se tu ci molli adesso, metterai l’intera
agenzia in una brutta situazione.»
«Ah...quindi è
solo una questione di soldi. Solo per il vostro interesse.» commentò
Jace, con un tono decisamente acido ed un sorrisetto caustico.
«È sempre
una questione di soldi, Jace. In qualsiasi situazione.» scrollò le
spalle con noncuranza e disse, rivolto a Justin: «Ho semplicemente
voluto metterti al corrente di tutto, prima che tu prendessi la tua
decisione. Oltre al fatto che hai una penale da pagare se recidi il
contratto prima della scadenza...ma di quello eri già a conoscenza e
comunque non sarebbe un problema per te.»
«Quanto brutta
sarebbe la situazione?» domandò allora l’artista.
«Abbastanza dal
dover fare qualche taglio, suppongo.»
«Licenziamenti?»
approfondì, mentre il suo stomaco prendeva ad attorcigliarsi per il
senso di colpa.
Gary arricciò le
labbra e si prese qualche secondo prima di rispondere. «Forse.»
sentenziò poi. «Non saprei dirtelo con certezza. Non è una
possibilità da scartare.»
«Praticamente ho le
mani legate.» commentò Justin, inarcando le sopracciglia bionde in
un’espressione contrariata.
«Non vorrei che
tu la vedessi così.» rispose l’altro. «Mi dispiace che tu ti
senta così, ma la situazione è questa e io non posso farci niente.
Dipendesse da me, ti darei tutto il tempo che vuoi...»
«Certo, come no.»
borbottò Jace, roteando gli occhi.
Gary finse di non
averlo sentito e si rivolse ancora all’artista. «L’unico
consiglio che posso darti, è quello di dipingere.»
«Ma se ti ha
appena detto che non riesce più a farlo come vorrebbe, come cazzo
puoi chiedergli una cosa del genere?!»
«Jace, calmati.»
intervenne Justin, posando una mano sulla spalla dell’altro, per
farlo rilassare. Apprezzava questo suo forte senso protettivo, ma
quella era una questione che doveva risolvere da solo. Si prese
qualche secondo per riflettere e, dopo aver respirato profondamente,
chiese: «È necessaria la mia presenza alle mostre?»
«Non sarebbe di
certo un male per te ma, a parte quella della prossima settimana qui
a New York, a cui sarebbe meglio tu partecipassi, direi di no.
Perché?»
«Se io riesco a
dipingere abbastanza per sistemarmi per...che so, le prossime mostre
fissate...a quel punto potrò prendermi la vacanza che mi spettava?»
«Justin, se non
fosse stato necessario, io non ti avrei richiamato qua.»
«Lo so.»
replicò, seppur la sua voce non suonasse poi più tanto convinta.
«Ma ne ho davvero bisogno Gary. Non ce la faccio davvero più. Mi
sento in trappola.»
Il manager si
passò una mano tra i capelli lentamente, prima di concedersi un
piccolo sbuffo. «Tu cerca di combinare qualcosa con quelle tele. Io
cercherò di tenerti fuori dalle mostre.»
«Come hai fatto
l’ultima volta?» domandò Jace, con una punta di amarezza nella
voce, ricordandogli come, del mese di vacanza promesso, non erano
rimasti che un paio di miseri giorni, appena goduti.
«Ve l’ho già
detto. Non dipende da me.»
Justin si alzò
dalla poltrona, seguito immediatamente dal designer. Si soffermò con
lo sguardo sul suo manager, prima di passarlo sulle stampe
miniaturizzate dei suoi quadri e mormorare: «Cercherò di farti
avere quei quadri presto. Voglio almeno passare Natale a casa.»
«D’accordo.»
convenne Gary. «Ci sentiamo per la mostra allora.»
«Ok.» confermò
il giovane artista, prima di salutarlo con un cenno ed uscire dallo
studio, seguito dall’amico. Percorse un paio di metri del lungo
corridoio, e si preparò alla filippica che – ne era certo – Jace
gli avrebbe riservato.
«Che diavolo stai
pensando di fare?» indagò infatti, puntuale come aveva previsto,
l’altro.
«Mi sembra ovvio.
Dipingere.»
«Ma se hai appena
detto che non riesci a farlo!» esclamò con un’espressione
confusa. «Che riesci a produrre solo roba terribilmente
accademica.»
«È la verità.»
replicò il più giovane, proseguendo verso l’uscita, fino a
raggiungere la propria jeep. «O almeno, lo era.»
«In che senso?»
chiese Jace, sempre più stranito.
Justin sollevò
gli occhi verso il cielo, incontrando la scia bianca di un aereo che,
inevitabilmente lo riscosse dentro, facendolo pensare alla sua Pittsburgh.
Durante tutto il viaggio non aveva fatto altro che pensare alla sua
città e alle persone che lo aspettavano lì. Aveva preso
la decisione di chiudere per un po’
con la sua vita da artista, augurandosi di riuscire a vincerla anche
contro Brian, sperando che non si comportasse come uno stronzo e che
accettasse di averlo al proprio fianco, ma non aveva pensato alle
conseguenze del suo gesto per l’agenzia che si occupava di lui.
Era troppo grato a quelle persone per abbandonarle così, perciò l’unica
possibilità che gli restava, era mettere anima e corpo su ogni
tela, lasciandosi ispirare da quella nuova sensazione di speranza - ora
che finalmente aveva ricevuto una conferma dell’amore di Brian - mista alla malinconia scaturita dalla nostalgia di casa che era tornata ad albergare dentro di lui.
Sospirò sommessamente, avvolto da quelle due emozioni, e si voltò verso Jace. «Nel senso che adesso ho un
altro motivo per dipingere. Qualcosa che finalmente mi spinge a
farlo.» mormorò poi, prima di chiudere gli occhi ed aggiungere con un sorriso luminoso: «La
voglia di tornare a casa, da Brian.»
*'*'*
In casa Bruckner –
Novotny regnava un silenzio perfetto da quando Hunter era uscito per
studiare a casa di un compagno di università, seguito da Ben per una cena con
dei colleghi, mentre Mel e Linz erano passate a trovare le loro
vecchie amiche insieme ai bambini.
Non era una
situazione abituale – in quella casa il caos totale la faceva
sempre da padrone – specie negli ultimi giorni, eppure Michael non
si sentiva a proprio agio in tutta quella calma.
Dopo aver letto
almeno un paio di fumetti, mangiando sul divano un panino poco
salutare – per cui suo marito gli avrebbe rifilato una filippica infinita,
se solo lo avesse visto – lanciò un’occhiata
fugace all’orologio e
decise di andare a farsi un giro.
Scrisse un
biglietto per la sua famiglia e, dopo averla attaccata al frigo con
una calamita a forma di Capitan Astro, s’infilò
il giubbotto ed affrontò la sera gelata di Pittsburgh per
raggiungere Woody’s.
Nell’ultimo
periodo non aveva avuto troppo tempo per trascorrere qualche serata
in compagnia dei suoi più cari amici perciò, trovarsi nuovamente
solo in quella colorata via, gli riportò alla mente mille vecchi
ricordi che lo fecero sorridere di nostalgia.
La sua vita lo
rendeva felice; la sua famiglia anche di più, ma c’erano
momenti in cui ripensare a tutti gli anni passati su quella strada,
tra una bevuta, un incontro
interessante, o anche solo la semplice risata in compagnia di Brian,
Emmett e Ted per una sciocca battuta, lo lasciavano invadere da una
lieve malinconia.
Era stata sempre
la stessa routine per anni ed anni: uscivano insieme, ballavano,
ridevano e sì...si drogavano e bevevano, finché Brian non trovava
qualcuno che poteva intrattenerlo per qualche ora, ed erano costretti
ad aspettare i suoi comodi per riportarlo a casa, ovviamente troppo
ubriaco o fatto per guidare.
Erano notti che a volte lo
lasciavano con l’amaro
in bocca, perché Brian si scopava chiunque, ma non concedeva mai
questo privilegio a lui, eppure in un modo o nell’altro
riusciva comunque ad amarle, perché alla fine la consapevolezza che
nessuno di quei tizi significasse qualcosa per il suo migliore amico,
lo rincuorava. Sapeva che Brian sarebbe sempre rimasto con lui.
Già...fino a
quella notte.
Un po’
il suo cuore gliel’aveva
già detto che prima o poi sarebbe arrivato quel fantomatico lui,
anche se per uno come Brian sembrava impossibile, e anche se una
parte di sé aveva sempre sperato che sarebbe stato il suo ruolo...ma
non era così che erano andate le cose.
Un ragazzino
biondissimo, con un corpo filiforme ed un sorriso accecante, era
piombato nelle loro vite, e si era insinuato a poco a poco in quella
di Brian.
All’inizio
si era convinto che sarebbe stata la solita scopata di una notte e
fine dei giochi, eppure – ripensandoci negli anni – avrebbe
dovuto capirlo fin dall’inizio
che sarebbe stato diverso; che quel moccioso avrebbe fregato il Dio
dei gay.
Avrebbe dovuto
prestare più attenzione a come era cambiata l’espressione
di Brian nel momento in cui l’aveva
visto; così come avrebbe dovuto accorgersi di come si fosse formato
qualcosa tra quei due fin dal primo scambio di sguardi.
Justin Taylor era
il nome di quel lui.
Justin Taylor era
fatto appositamente per Brian Kinney; e a Michael non era rimasto
nient’altro
da fare se
non ingoiare quel boccone amaro e pensare alla propria vita.
Una vita che poi si era rivelata comunque bellissima, e che gli
aveva regalato prima Ben, poi Hunter. Una
vita che – nonostante la nostalgia del passato che ogni tanto
tornava ad abbracciarlo, da inguaribile romantico qual’era
– valeva molto di più.
Sorrise sincero,
soffermandosi ad osservare il tendone rosso che caratterizzava
Woody’s e, con passo
deciso, attraversò la strada fino a raggiungerlo.
Varcò l’entrata,
salutando con un cenno della testa qualche ragazzo conosciuto, finché
scrutando tra i tavoli, riuscì ad individuare Emmett e Ted.
«Ehi
ragazzi!» salutò
entusiasta, prendendo posto tra loro. Passò lo sguardo da uno
all’altro
– che nel frattempo gli avevano risposto con un piccolo cenno della
testa ed un sorriso appena accennato – ed aggrottò la fronte,
stranito dal loro comportamento e da quell’aria
funebre che aleggiava su entrambi. «Ma...che vi succede?»
«Niente.»
sbuffò Emmett, facendo una smorfia schifata. «Solo che questo mondo
fa schifo.»
«E
adesso diventerà anche più crudele.» borbottò Ted, indicando con
un’occhiata
la porta da cui aveva appena fatto il suo ingresso Brian. «Non
bastava che fosse una giornata di merda...Dio doveva proprio mandarci
anche te ad infierire sulle nostre disgrazie?» gli chiese quando fu
più vicino, e dal pubblicitario ricevette in risposta solo un’alzata
di sopracciglia ed uno sguardo di sufficienza.
«Mickey...»
chiamò Brian sedendosi sull’ultima
sedia libera. «...che ci fai da queste parti senza il maritino?»
«Che
fai adesso? Sfoghi la tua acidità su di me per non pensare al tuo
quasi-maritino appena
volato a New York?» replicò Michael con un sorriso ilare, ma
dall’occhiata
che ricevette dai tre suoi più cari amici, capì che non era proprio il momento adatto
per sfoggiare la felicità della sua famigliola.
«Lo
dico e lo ripeto...» mugugnò Emmett, girando oziosamente lo
stecchino nel suo Cosmopolitan. «Il mondo è uno schifo.»
Brian
inarcò le sopracciglia e si protese verso di lui per dargli una
falsa pacca amichevole, tinta del suo onnipresente sarcasmo. «Cos’è
tutto questo pessimismo, Martha
Stewart dei gay?»
L’altro
posò il suo sguardo azzurro su di lui con fare scettico e, dopo aver
preso un sorso del cocktail rosa shocking, rispose: «Ti interessa
davvero, o mi stai solo prendendo in giro?»
Il
bel pubblicitario sollevò le spalle. «Lo sai che sono sempre
disposto ad ascoltare i drammi altrui...»
«Perché
ti fa sentire meglio?» sibilò acidamente Ted, e Brian gli sorrise.
«Esattamente.»
«Bene.
Ignorerò le tue egoistiche parole e fingerò che tu me l’abbia
chiesto per puro interesse e affetto...» riprese a parlare Emmett.
«...e ti dirò che, per la mia solita e proverbiale fortuna in
amore, ho finito per prendermi una bella cotta per un uomo che non mi
ricambierà mai!»
«Vedo
che continua a piacerti vedere il tuo cuore in un cassonetto.»
commentò Brian, a cui seguì la domanda di Michael.
«Di
chi si tratta?»
«Di
Jace.» replicò Ted per l’altro,
così da accelerare i tempi. Era certo che il suo migliore amico
avrebbe “allungato il brodo” partendo dalla preistoria, o con
qualche aneddoto della zia Loola.
«Chi?»
domandò allora Brian, fingendo di non ricordare affatto il ragazzo.
«L’amichetto
del tuo Justin.» ribatté il contabile, con una punta di
soddisfazione nella voce; a cui l’altro
rispose con l’ennesima
occhiata di sufficienza.
Michael,
sorpreso, si protese verso Emmett. «Perché non ci
hai detto niente?»
chiese, per poi continuare: «Eri strano...ma non pensavo fosse per
questo. E poi, lui lo sa?»
«No.»
Brian
ordinò una birra ed iniziò a giocherellare con uno degli stecchini
presi dal tavolo. «Di certo non combinerai niente se pensi di
poterglielo comunicare con la telepatia. Vuoi che ti scopi?
Diglielo.»
«La
fai facile tu.» commentò sarcastico il più giovane dei quattro.
«Non hai mai ricevuto un rifiuto in vita tua. Non sai quanto possa
far male.»
«Ti
sbagli.» replicò l’altro
con noncuranza, così da dare poca importanza alle sue parole.
«Justin mi ha detto no, la prima volta che gli ho chiesto di
sposarmi.»
«Ha
fatto...cosa?»
chiese, con il tono di voce più alto di almeno un’ottava,
Emmett, scambiandosi occhiate incredule con Michael.
«Oddio.»
intervenne Ted, trasformando poi la sua espressione sorpresa in una
più ironica. «Credo di sentirmi meglio. Allora anche Brian Kinney
ha le sue grane in amore...c’è
ancora un po’
di giustizia in questo mondo!»
«E
sentiamo, Theodore...» sibilò in risposta il pubblicitario in tono
caustico, avvicinandosi a lui per dargli un buffetto dispettoso sul braccio.
«...com’è
che hai ripreso a bere? Quali atroci dispiaceri hai deciso di
annegare nell’alcool?
Hai forse visto la tua immagine riflessa?»
«Ah-ah.»
finse una risata l’altro,
prima di prendere un sorso della sua birra. «Sappi che te lo dico
solo perché non sei certo messo meglio di me, visto che ti ritrovi
un fidanzato che vedi più sulle riviste che dal vivo...» Brian gli
rivolse un sorrisetto nervoso, e lui si decise a proseguire: «Ho
chiesto a Blake di sposarmi.»
«Teddy,
ma è fantastico!» esclamò Emmett. «Sia chiaro, il ricevimento lo
organizzo io! E non voglio niente...sarà il mio regalo di nozze!»
batté le mani entusiasta, ma quando si trovò davanti
all’espressione
da funerale di Ted, arricciò le labbra e, con un po’
di indecisione, chiese: «Perché...ci saranno le nozze, vero?»
Il contabile
scosse la testa, prima di trasfigurare le sue labbra in una smorfia
di sofferenza – e un tantino ridicola, a detta di Brian – per
piagnucolare: «Ha detto no!» si gettò verso il suo capo per un po’
di conforto, e per poco non rischiò di schiantarsi a terra, quando
quest’ultimò
indietreggiò all’improvviso,
in un guizzo contrariato.
«Ricaccia
immediatamente indietro quelle penose lacrimuccie da lesbica e
tieniti lontano dal mio cappotto.» sibilò Brian, aggrottando la
fronte e schivandolo come se avesse la peste. «Non voglio certo
rischiare che quelle inutili perdite di cloruro di sodio annacquato
possano rovinare il tessuto di questa meraviglia.»
Ted gli rivolse
un’occhiataccia e
commentò: «Sai sempre essere di conforto tu.»
«Faccio del mio
meglio.» replicò l’altro
con uno dei suoi soliti sorrisetti.
«Ma
perché ti ha detto no?» domandò allora Michael, stranito dalla
situazione. «Insomma, Blake ti ama.»
«Anche
Justin ama Brian.» intervenne Emmett, prima di voltarsi verso di
lui. «E a tal proposito...com’è
che ti ha detto no?»
Brian
scrollò nuovamente le spalle. «Credeva l’avessi
fatto solo perché mi ero spaventato con la bomba al Babylon.»
Gli
altri tre sollevarono contemporaneamente le sopracciglia, come a
confermare i dubbi del piccolo artista; poi, fu Michael a riprendere
la parola: «Ma Ted non è Brian.»
«No,
direi proprio di no.» ribatté prontamente il pubblicitario, dopo
aver rivolto uno sguardo attento a Ted, osservando ogni minimo
particolare del suo aspetto.
Il
contabile ricambiò quell’attenzione
con l’ennesima
occhiata caustica, prima di tornare mogio e mugugnare: «Non lo so
che gli è preso. Ero convinto anch’io
che mi amasse e volesse passare il resto della sua vita con me...»
«Non
c’è
bisogno di sposarsi per questo.» replicò Brian, quasi infastidito
da quelle parole. «E di certo, una stupida firma, su un altrettanto
stupido foglio, non ti assicurerà che starete insieme felici e
contenti come una coppia di lesbiche per il resto della vostra
patetica vita.»
«Smetterai
mai di essere così stronzo?» borbottò Emmett.
«E
perché mai? È il mio fascino.» replicò l’altro,
piegando le labbra in un sorriso furbo.
«Stupidaggini
a parte, mi scoccia ammetterlo ma...Brian ha ragione.» Michael posò
una mano sul braccio di Ted per confortarlo ed aggiunse: «Essere
sposati non è certo una garanzia a prova di qualsiasi cosa.»
«Fatto
sta che non lo saprò mai...» sospirò il contabile, prima di bere
ancora. «Ricordate? Mi ha detto no.»
«Aspetta
ad arrenderti...magari cambia idea come Justin.» replicò Michael, e
l’altro
si sforzò di sorridergli.
«O
non lo farà, e tu potrai tornare al Babylon ad affogare il tuo
dolore nell’alcool
e a rendermi ricco.»
Gli
occhi degli altri tre si posarono per l’ennesima
volta su Brian, stizziti; dopo di che, Emmett chiese, rivolto verso
Michael: «E tu? Che
tragico melodramma personale avresti da sottoporci?»
«Io?» replicò
il negoziante sorpreso e a disagio.
Ted si protese
immediatamente verso di lui ed assottigliò lo sguardo in modo minaccioso. «Trova
immediatamente un motivo per cui lamentarti e dire che la tua vita fa
schifo, o vattene all’istante!
Non hai alcun diritto di stare al nostro tavolo altrimenti!»
«Ehm...» mugugnò
Michael preso alla sprovvista, passando gli occhi ovunque alla
ricerca di una risposta.
«Allora?»
incalzò Brian, ed il suo migliore amico fece una smorfia
preoccupata.
«Che
Hunter ha bocciato l’ultimo
esame?» tentò,
balbettando le parole; ed i suoi amici si alzarono dal
tavolo – come risposta indignata alle sue parole – lasciandolo
solo come un’idiota
e con il conto da pagare.
*'*'*
“Shattered”
– Trading Yesterday
Era ormai notte
fonda quando, dopo aver salutato gli altri, Brian fece ritorno alla
sua adorata Corvette ammirandone, mentre si avvicinava, le linee
sinuose e quel colore lucido ed elegante; sorridendo appena e
ripensando allo sguardo stupito di Justin quando l’aveva
visto arrivare al Diner per la prima volta, su quel bolide d’epoca...
Al quel tempo –
doveva ammetterlo – quell’acquisto
era stato una sorta di sfizio; una distrazione per concentrarsi su
qualcosa che non fosse il pensiero del suo raggio di sole tra
le braccia di un altro...eppure, nonostante tutto, era stato perfino
divertente notare il modo in cui quegli occhi blu chiaro si erano
spostati sottecchi e curiosi nello squadrare il suo prezioso
gioiellino verde.
Justin aveva
sempre dimostrato di avere un gusto fine ed un occhio di riguardo per
certi “dettagli”, esattamente come lui; e forse, ripensandoci col
senno di poi, quell’acquisto poteva essere visto anche sotto la
luce di una sorta di dispetto nei suoi confronti. Uno sfogo
infantile, certo, ma che per qualche secondo – quando quelle
pupille scure, parzialmente nascoste da quei ciuffi dorati, si erano
ridotte per lo stupore – gli aveva concesso una piccola
soddisfazione.
Scosse la testa,
con un sorriso amaro e lo sguardo malinconico, mentre nella sua mente
riaffioravano vari ricordi legati a quei due sedili in morbida pelle
chiara; e con un piccolo sbuffo, entrò nell’abitacolo,
per poi girare la chiave e far rombare il potente motore nel silenzio
della notte.
Ingranò la marcia
ed imboccò la strada di casa finché, all’improvviso
e senza neanche riuscire a spiegarsene il motivo, si trovò a
percorrere una via totalmente diversa, ma che al contempo conosceva
perfettamente.
Costeggiò il
marciapiede illuminato dalla luce gialla dei lampioni, rallentando in
modo progressivo, fino a quando l’auto
non raggiunse una breve scalinata bianca, con un portone del medesimo
colore.
«Ma
che cazzo sto facendo qui?»
borbottò tra sé, lanciando un’occhiata
verso una delle finestre che mostrava l’interno
di una delle stanze, completamente immersa nel buio.
Si prese qualche
altro secondo per osservare, e nel posare lo sguardo su quegli
scalini candidi, fu inevitabile ricordare gli sporadici momenti
trascorsi lì insieme a Justin, quando lo aiutava con gli esercizi
per la mano, o quando semplicemente lo aveva accompagnato da sua
madre.
Non aveva mai
messo piede oltre quella soglia, eppure – forse per il semplice
fatto che quel piccolo genio aveva vissuto lì – sentiva quel posto
stranamente familiare.
Un altro sorriso
amaro si disegnò sulle sue labbra e, dopo aver preso un respiro più
profondo degli altri, fece per ringranare la marcia ed andarsene,
quando una luce lo sorprese accendendosi.
Voltò di scatto
la testa, e in quello stesso momento, ogni sua ipotesi di fuga venne
resa vana dal suono di una voce familiare che chiamò il suo nome:
«Brian? Brian, sei tu?»
Sul portico si
stagliava la figura filiforme di Jennifer, avvolta in una camicia da
notte candida e di seta, che la copriva fino alle ginocchia. Lo
osservava stupita ed insicura allo stesso tempo, probabilmente
domandandosi se ciò che i suoi occhi le stavano mostrando, non fosse
solo una stupida visione.
La
vide accostare la porta e muovere un paio di passi verso l’auto,
stringendosi con entrambe le mani i lembi della vestaglia, per
proteggersi dal freddo. Scese i primi scalini lentamente e si
avvicinò allo sportello. «Grazie a Dio sei tu!» esordì
sospirando, mentre il finestrino si abbassava. «Mi hai fatto
prendere un colpo, lo sai?»
«Non
c’è
il tuo baldo cavaliere a proteggerti?» mormorò Brian, ticchettando
le dita sul volante, senza trovare il coraggio di guardarla negli
occhi.
«No, Tuck è
fuori città per lavoro. Siamo solo io e Molly.» gli sorrise lei,
prima di porre quella domanda a cui Brian sapeva di non poter
sfuggire ormai; e a cui, oltretutto, neanche sapeva come rispondere:
«Che ci fai qui?»
Lui arricciò le
labbra, abbozzando un sorrisetto sarcastico. «Mi sono perso.»
«Ti
va di entrare?» gli domandò allora lei, e Brian non poté che
notare quanto le sue doti di attore – o bugiardo che dir si voglia
– facessero letteralmente schifo nel momento in cui si trovava a
fronteggiare un Taylor, o comunque qualcuno che, in un modo o
nell’altro,
aveva fatto parte di quella famiglia.
Ovviamente,
Jennifer non aveva creduto neanche per un secondo a quella sua
facciata di strafottente indifferenza, perciò si ritrovò a
mugugnare un assenso, e a scendere dalla
sua adorata Corvette, per poi seguirla fin dentro casa.
«Bel
posto.» commentò,
osservandosi distrattamente intorno, prima di fare il proprio
ingresso in cucina.
«Mi
prendi in giro?» rise
lei di gusto. «In
confronto a casa tua, o al castello di cui mi ha parlato Justin,
questa è una catapecchia.»
«È
accogliente.» borbottò
lui in risposta, e la donna non riuscì a fare a meno di sorridere
ancora. Suo figlio aveva decisamente ragione: vedere Brian in
difficoltà, era uno spettacolo imperdibile.
«Vuoi
qualcosa da bere?» gli
chiese. «Un thè, una
camomilla...» si voltò
verso di lui ed incontrò il suo sguardo scettico. «...o
forse è meglio un goccio di bourbon.»
«Adesso
si ragiona, mamma
Taylor.»
Jennifer
aprì uno degli sportelli della vetrina, ed afferrò una bottiglia di
Jim Beam vuota per metà. Ne versò due dita in due bicchieri e ne
porse uno a Brian. «Hai
sentito Justin?» chiese
poi, diretta.
«Vedo
che hai gusto.» ribatté
invece lui, indicando la bottiglia, in modo da sviare la domanda.
«Ogni
tanto mi concedo qualche piccolo piacere...»
mormorò, e dopo aver preso un sorso di quel liquido ambrato, sorrise
furba. «...e la
testardaggine di mio figlio, non è certo nata a caso. Da qualcuno
l’ha
ereditata, perciò...»
«No.»
rispose Brian, certo di non avere scampo. «Non
l’ho
ancora sentito.»
A
quella confessione, Jennifer abbassò lo sguardo dispiaciuta. «Io
gli ho parlato per appena un paio di minuti. Non è neanche passato
di qui prima di tornare a New York.»
«Justin
è fatto così. Non ama particolarmente i saluti della partenza.»
«O
forse non li ami tu...e non facendolo con te, si è reso conto che fa
molto meno male andarsene senza salutare nessuno.»
commentò lei, senza alcuna traccia di rimprovero nella voce.
«Vero
anche questo.»
«Pensi
che tornerà presto?»
Brian
terminò il suo bicchiere con una sola sorsata e lo appoggiò sul
tavolo, chiudendo gli occhi mentre il liquido gli scorreva nella
gola, bruciandola. «Non
lo so.» mormorò poi,
fissando un punto a caso. «In
quello che fa non esistono orari o tempi.»
Jennifer
abbozzò un sorriso senza allegria. «È
sempre stato così bravo, ma non credevo che sarebbe arrivato così
in alto.»
«Io
sì.» confessò
candidamente lui. «Hai
messo al mondo un genio.»
«E
tu l’hai
aiutato a crescere e a ricominciare a vivere...»
replicò lei, con un groppo alla gola. «...se
non fosse stato per te, non so che avrei fatto. Forse non sarebbe
neanche più qui e...»
«Ma
non è successo.» la
interruppe. Non voleva neanche lontanamente pensare alla possibilità
di una realtà in cui non era riuscito a salvarlo da quel pavimento
scuro di quel dannato parcheggio. «Lui
c’è,
quindi non pensiamoci più.»
La
donna annuì, regalandogli uno sguardo dolce e ricolmo di
gratitudine. «Hai
ragione, ma non ti ringrazierò mai abbastanza.»
«Non
serve. Non l’ho
fatto né per te, né per me...né per nessun altro.»
«Lo
so. L’hai
fatto solo per Justin.»
convenne lei, e Brian sollevò le sopracciglia, come a voler dare
ovvia conferma alle sue parole.
«Comunque sia, te l’ho
già detto una volta e, anche se ti sembrerà strano, la mia idea non
è mai cambiata...» gli sorrise sinceramente, e un brivido corse a
solcare la schiena di lui, nel constatare quanto in quel momento
Jennifer somigliasse al suo raggio di sole. «...mi sarebbe
davvero piaciuto essere tua suocera.»
«Una gran
bella suocera.» replicò Brian, assumendo la sua classica
espressione ilare.
«Stai per caso
cercando di comprarmi?»
Lui piegò le
labbra all’interno
della bocca, ed innalzando una delle sopracciglia, rispose: «No
mamma Taylor, ho solo un
debole per ‘le
bionde’.»
Jennifer rise e
restò a guardarlo per qualche secondo, prima di avvicinarsi. «Vieni
qua.» sussurrò appena, per poi alzarsi sulle punte e circondargli
le spalle ampie in un abbraccio; in cui lo sentì irrigidirsi di
sorpresa.
Da quello che le
era sempre stato raccontato da suo figlio, sapeva che Brian non era
tipo da smancerie e dimostrazioni d’affetto
troppo dirette. Lui era fatto a modo suo; ed aveva anche un modo
tutto suo di dire e fare le cose.
Si aspettò
pertanto di sentirsi immediatamente allontanare ma, a dispetto di
quelle sue previsioni, percepì i muscoli della schiena larga
dell’uomo lasciarsi
lentamente andare – rilassandosi – per poi sentirlo poggiare il
mento sulla sua spalla, e stringerle la vita così da ricambiare il
suo gesto d’affetto.
Brian respirò
profondamente, trovando nel profumo di Jennifer qualche traccia di
quello di Justin.
Non avrebbe saputo
dirne il motivo, ma sentì distintamente un nodo stringersi nella
gola e qualche lacrima pizzicargli gli occhi.
Forse
per l’odore
fresco del detersivo che era sempre stato abituato a sentire sui
vestiti puliti di Justin, o quello dello shampoo che percepiva tra i
capelli; forse per l’idea
di essere stretto da colei che aveva dato vita all’uomo
di cui era innamorato, e a cui, come lui, era legata da un filo
invisibile e indistruttibile...
O
forse più semplicemente perché in quell’abbraccio
poteva sentirsi realmente amato e accettato per quello che era – a
prescindere da tutto quello che aveva sempre fatto o detto –
esattamente come con il suo Justin.
*'*'*
“See
you soon” – Cold Play
Da quella strana
notte – in cui l’inaspettato
abbraccio di Jennifer era riuscito a calmare almeno di un poco il suo
malessere – erano passati due giorni, che Brian aveva trascorso in
ogni loro singolo attimo in compagnia del suo bambino, sia per
godersi fino all’ultimo
della sua compagnia e del suono della sua risata, sia per non pensare
al suo Justin, da cui ancora non aveva ricevuto né una chiamata, né
un messaggio...probabilmente troppo impegnato con il lavoro per
farlo; o almeno questo era ciò di cui si era convinto e che, per
quanto gli facesse male, aveva accettato.
Il tempo dei
saluti però era nuovamente arrivato, insieme a quella consumante
sensazione di malessere che lo colpiva ogni volta che doveva
allontanarsi da Gus; perciò respirò a fondo, nel tentativo di
infondersi un coraggio che in realtà non aveva, ed afferrò la
manina calda di suo figlio – così piccola e soffice rispetto alla
sua, che quasi sembrava sparire nel suo palmo – e a testa alta,
per non vederne gli occhioni verdi lucidi di lacrime, si avvicinò
svogliatamente all’auto
dove Michael e Ben stavano ancora caricando i bagagli.
«Fatto.» affermò
Ben, dopo aver sistemato anche l’ultimo.
Chiuse il portellone e si sfregò le mani con un sorriso amaro
dipinto sul volto. Michael accanto a lui non parlava, né accennava a
volerlo fare. Si limitava a tenere gli occhi bassi, quasi volesse
scappare da quella situazione imbarazzante e soffocante di tristezza
a cui ogni volta erano obbligati.
«Ok.» mormorò
Mel, tenendo in braccio Jenny Rebecca. «Allora, ci rivediamo per
Natale?»
«Certo.» si
scrollò Michael. «Dovete venire assolutamente. Altrimenti, mia
madre chi la sopporta!» si avvicinò per baciare la sua piccolina
sulla fronte, e accarezzò affettuosamente Gus sulla testa.
Come per riflesso
incondizionato, il bambino strinse più forte la mano del padre e si
accostò maggiormente a lui, quasi volesse nascondersi dentro al suo
corpo. «Non voglio andare a Toronto.» piagnucolò poi.
«Tesoro, dobbiamo
andare a casa.» gli rispose Linz, accoccolandoglisi davanti
«Casa mia è
qui!» strillò pieno di rabbia. «È
qui con papà!»
Brian ingoiò a
fatica il nodo amaro stretto nella gola e sollevò il figlio per
baciarlo sulla fonte. «Ci vediamo presto, Gus.» cercò di
tranquillizzarlo, quando in realtà anche lui avrebbe voluto tornare
a essere solo un bambino per poter piangere, strillare e battere i
piedi. Gli faceva così male lasciarlo andare; ogni volta era come se
gli strappassero con la forza un pezzo di sé. «Venti giorni al
massimo e saremo di nuovo insieme. Faremo un sacco di cose, te lo
prometto.»
«Non voglio
andare via.» ribadì e strinse più forte la presa sul collo e sul
cappotto di Brian.
L’uomo
non riuscì a desistere dall’accarezzargli
la testa dolcemente e, senza neanche rendersene conto, rivolse uno
sguardo supplichevole a Linz, quasi le stesse dicendo: “non
portarmelo via”.
«Cerco di
liberarmi prima quest’anno.
Così resteremo più tempo.» provò a tranquillizzarlo allora
lei, stringendosi nelle spalle e soffrendo per quell’orrenda
sensazione che le bruciava in mezzo al petto...perché era così
triste ogni volta dover allontanare quelle due anime che sembravano
incastrarsi così bene nel loro abbraccio.
«È
ora di andare.» soffiò Melanie, quasi le costasse pronunciare
quelle parole e Linz si avvicinò a Brian per prendere Gus.
«No!» strillò
più forte il bambino, aggrappandosi con tutte le forze a suo padre,
finché fu proprio lui a lasciarlo andare.
«Gus, ascolta.»
gli disse dolcemente, quando fu tra le braccia della madre. «Se non
sono troppo impegnato con il lavoro, cerco di venire a Toronto il
prossimo fine settimana, ok?» tra le lacrime che scendevano copiose,
il bambino annuì, tirando su con il naso e Brian gli sorrise
accarezzandogli una guancia. Si sporse per baciarlo sulla testa e vi
sostò per qualche secondo, respirando il profumo dell’innocenza
tra quei capelli castani; un’altra
delle sue tante eredità. «Chiamami appena arrivi a casa, ok?»
aspettò che il figlio annuisse ancora e si sforzò di sorridere più
sinceramente. «Intanto io vado ad appendere il tuo capolavoro.»
«Torneremo
presto.» cercò di rassicurarlo Linz, dopo averlo baciato sulle
labbra e Brian annuì appena, incapace di non collegare quella stessa
promessa a quella dell’altra
persona che neanche due giorni prima se n’era
andata. Sembrava un circolo vizioso in cui, ogni fottuta
volta, le persone che più amava erano destinate ad allontanarsi da
lui. Lui che era sempre stato il primo a volerlo fare, era
quello che era sempre rimasto a Pittsburgh, mentre guardava gli altri
andarsene.
Salutò con un
cenno della testa Melanie e baciò Jenny, prima di accendersi una
sigaretta e – dopo aver concesso un ultimo sorriso a suo figlio –
voltarsi senza dire una parola per raggiungere la Corvette.
Non voleva vederli
andar via; se ne sarebbe andato via prima, così che potesse
illudersi ancora per qualche attimo che, se mai li avesse cercati,
sarebbero stati sempre lì.
Ingranò la marcia
e partì sgommando alla volta del suo loft; per poi entrarci
stancamente, come se ogni passo lo prosciugasse dell’energia
vitale.
Richiuse la porta
scorrevole alle sue spalle e s’immerse
nel silenzio assordante della sua casa, che fino a qualche giorno
prima era illuminata da un raggio di sole, e resa ridente e
chiassosa da una vocina argentina.
Per un attimo
immaginò di vederli ancora lì, impegnati a disegnare sul pavimento,
sporchi di pastelli colorati; e non avrebbe neanche avuto il coraggio
di arrabbiarsi se avessero macchiato il suo pregiato parquet, per
quanto era felice di essere circondato dalla loro confusione.
Avrebbe preso una
birra dal frigo e sarebbe rimasto ad osservarli ammirato, mentre
dentro si sentiva esplodere di gioia per quei sorrisi ed il suono
delle loro risate.
Immaginò di
vedere Gus sollevare lo sguardo e rivolgergli il sorriso più bello
che potesse fare, prima di sollevarsi da terra e corrergli incontro;
ed immaginò anche Justin che l’osservava
felice, con quel suo sguardo blu luminoso, mentre si alzava e lo
raggiungeva per regalargli uno dei suoi baci.
Li avrebbe stretti
entrambi a sé e avrebbe respirato a fondo il loro profumo, fino a
saturarsene i polmoni e inebriarsi la mente. Avrebbe annullato se
stesso per riempirsi di loro e dell’amore
che sapevano rivolgergli.
Forse, sarebbe
stato anche capace di sussurrare un “ti amo”; anzi due...
Uno soffiato
all’orecchio di
Justin, l’altro
pronunciato strofinando il suo naso con quello di Gus...perché era
quella la realtà. Lui li amava; li amava da morire e avrebbe dato
tutto, ogni più microscopica briciola di sé stesso per
poterglielo dire...per tenerli per sempre con sé.
Ma la realtà era
anche fatta di un loft solitario; e mentre vide svanire quella
fantasia perfetta, emblema della sua felicità più rosea, permise a
una lacrima di lasciarsi cadere dall’angolo
dell’occhio lungo la
sua guancia.
Scosse la testa,
come per scrollarsi di dosso il dolore e avanzò a passi lenti, fino
al divano, dove il disegno di suo figlio e di Justin giaceva
indisturbato.
Lo
prese con delicatezza tra due dita e si lasciò sprofondare tra i
guanciali bianchi e soffici, perdendosi in quei colori vivaci;
scavandoci dentro alla ricerca di una traccia dei suoi due infiniti
amori e provare a trattenere un po’
di loro per sé...così da sentirsi un po’
meno solo.
***
Note finali:
Here i am...di nuovo!
Ebbene sì, sono tornata ad infestare questo fandom con un capitolo che manco mi piace, ma che era necessario per spargere indizi qua e là, tanto per dare una piega alla storia. XD
In pratica - come avrete visto - non succede niente di che, solo un paio di precisazioni e qualche lacrimuccia.
Premetto che neanche questa volta ho avuto il tempo di rileggere il capitolo, perciò se trovate errori...perdonatemi! Ho
saputo che tra una settimana avrò un esame intermedio - di cui
io manco sapevo niente. Come al solito cado dalle nuvole! - e mi sono
ritrovata a dover studiare dieci capitoli indigeribili in meno di una
settimana! Fantastico!
Insomma, per farla breve, non volevo farvi aspettare ancora...quindi ho
terminato il capitolo e l'ho messo su NVU...senza guardare ad eventuali
orrori sparsi nei paragrafi!
Detto questo, ci tengo anche a dirvi che mi
dispiace se la parte della discussione tra Justin/Jace/Gary risulta un
tantino confusa e un po' incoerente dal punto di vista di Justin, ma ora come ora non potevo spiegare bene le cose...lo farò nel prossimo capitolo, o almeno spero risulterà comprensibile! XD
A questo punto posso passare alla parte più importante, prima di strisciare verso i libri! -.-''
Ringraziamenti-time: Un grazie a tutti coloro che hanno letto questo capitolo, arrivando fino in fondo senza addormentarsi - ed ammetto che non era affatto facile! - grazie a chi ha inserito la storia tra le seguite, le preferite o le ricordate...ma soprattutto GRAZIE a: mindyxx, SusyJM, FREDDY335, electra23, klaudia62, Thiliol, Giohs, oo00carlie00oo, asterix_c, silver girl, Clara_88, OfeliaCuorDiGhiaccio ed EmmaAlicia79 per aver commentato lo scorso capitolo! *w* Grazie davvero!
Quindi vi saluto e piagnucolo verso la scrivania. -.-''
Un bacione e alla prossima.
Veronica.
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Capitolo 11 *** Old routine. ***
11.Old routine.
6x11 – Old
routine.
«È davvero un
piacere conoscere di persona un talento come lei, signor Taylor!»
Quelle parole
arrivarono a Justin come un eco lontano, ma in qualche modo
riuscirono a riportarlo alla realtà. Abbandonò i propri pensieri –
che da molti giorni ormai avevano sempre lo stesso nome e lo stesso
bellissimo volto – e si costrinse a prestare attenzione allo
sconosciuto che gli sostava davanti e gli sorrideva entusiasta.
Impose alle
proprie labbra di piegarsi in un sorriso pressoché credibile e
strinse la mano che gli era stata porta. «La ringrazio.» si limitò
a rispondere poi, biascicando le parole, ormai troppo stanco anche
per pensarne altre.
Non riusciva a
fingere così bene; non quando ogni suoi pensiero era totalmente
catalizzato a miglia e miglia di distanza, mentre la sua speranza era
riposta in un cellulare che non squillava. O meglio, squillava anche
troppo, ma non mostrava mai sul display l’unico nome che avrebbe
voluto vedere.
Da quando se n’era
andato, il silenzio era tornato a dividere lui e Brian come un muro
invalicabile. Né lui era riuscito a chiamarlo, né l’altro l’aveva
mai fatto.
Un soffocante
silenzio che era andato ad unirsi al senso di vuoto in cui si sentiva
sprofondare lentamente ogni giorno di più, come se la mancanza
dell’uomo che amava lo stesse snaturando; come se gli stesse
togliendo tutto.
Si sentiva sempre
più stanco, a malapena si riconosceva; eppure la speranza di poter
tornare al più presto alla sua città natale non si era mai
affievolita.
Era solo quella
che lo spingeva ad andare avanti; a riprendere in mano i propri
pennelli ogni giorno, a colorare le tele e presenziare a tutti quegli
stupidi eventi a cui Gary lo costringeva a partecipare.
Non era quello che
desiderava per sé, ma il suo sogno e la voglia di non deludere
nessuna delle persone che avevano sempre creduto in lui – Brian in
primis – lo spingevano ad andare avanti e a desistere dal mandare
tutto all’aria.
Era sempre stato
un tipo caparbio, anche nelle situazioni che sembravano esser
impossibili da superare. Non si era mai arreso; non si era mai dato
per vinto, e alla fine il premio più grande non era stato tanto
l’aver ottenuto il risultato, quanto vedere il sorriso e una luce
orgogliosa negli occhi di coloro che per lui contavano di più.
Era soprattutto
per loro che stringeva i denti e sopportava, proprio come in quel
momento: un pomeriggio che avrebbe preferito passare ovunque, meno
che lì, in mezzo a centinaia di sconosciuti con cui era costretto ad
intrattenersi, tra Jace che gli lanciava occhiate insofferenti e Gary
che lo controllava a vista.
Si passò una mano
tra i capelli e fece un cenno di saluto allo stesso – sconosciuto –
signore distinto con cui aveva appena intrattenuto non sapeva neanche
che tipo di conversazione. Si stropicciò gli occhi che sentiva
bruciare, sotto le palpebre che si facevano sempre più pesanti e
sospirò stancamente, finché non si rese conto delle occhiate
contrariate che Jace gli stava lanciando.
«Credi di poter
tenere gli occhi aperti...» gli domandò proprio lui, assottigliando
lo sguardo. «...o devo procurarmi un pennarello per disegnarteli
sulle palpebre?»
Justin
sorrise fievolmente e si stiracchiò un poco. «Sono solo un po’
stanco.»
«Uhhhm.
Grazie per l’informazione,
Taylor. Non se ne sarebbe accorto nessuno. Un vero maestro nel
nascondere le cose.»
commentò l’altro
con sarcasmo.
«Non ho dormito
molto stanotte.»
«Lo
so bene. E grazie a te non sto dormendo neanche io!» ribatté Jace,
con un tono sempre più acido, atto a nascondere la reale
preoccupazione che da giorni lo assillava. «Tu e i tuoi
stramaledetti barattoli di vernice che sbatacchi ovunque. Al piano di
sotto c’è
gente che vuole dormire, nel caso tu non lo sapessi.»
incrociò le braccia al petto e continuò la sua filippica,
nonostante fosse nato nella sua testa il sospetto che il bell’artista
non lo stesse più ascoltando.
«E giuro che ti chiederò i danni se mi verranno le occhiaie
e...Justin, mi stai ascoltando?»
Ormai perso tra
stanchezza e nostalgia di casa, Justin fu colto di sorpresa dal tono
improvvisamente alto dell’altro, e si scosse spalancando gli occhi.
«Eh? Sì, certo.»
«Non ti prendo a
sberle solo perché ho intenzione di chiamare Debbie.» sospirò
Jace, scuotendo la testa con rassegnazione. «Ci penserà lei per
me.»
«Non oseresti...»
tentò di minacciarlo il ragazzo, ma la voce gli uscì più fievole
del previsto. Era davvero a pezzi.
«E allora dormi
la notte, invece di fare il pazzo!» riprese a rimproverarlo, per poi
passargli un braccio sulle spalle. «E adesso andiamo a far
imbambolare qualche riccone con le tue opere.»
Justin gli sorrise
con gratitudine, consapevole di quanto dietro a quei rimproveri o
alle critiche si nascondesse in realtà pura preoccupazione, dettata
da quella sorta di affetto fraterno che caratterizzava la loro solida
amicizia. Circondò la vita di Jace con un braccio e, facendosi
forza, si apprestò a ravvivare il sorriso sulle sue labbra e a
perdersi in altre chiacchiere con chi sa ancora quanti sconosciuti e
probabili compratori, sforzandosi di distogliere i propri pensieri da
quel cellulare che si ostinava a giacere immobile nella sua tasca.
*'*'*
A trecentosettanta
miglia di distanza anche qualcun altro si prodigava nel
rigirare tra le proprie mani il cordless del lussuoso ufficio in cui
era rinchiuso da ore.
Brian osservò i
tasti attentamente, arricciando le proprie labbra in una continua
battaglia con se stesso; indeciso tra premerli ed avviare quella
dannata telefonata o meno.
Fece per scostare
il pollice sul primo numero quando, dopo aver dato una fugace
occhiata all’orologio, si decise a riporre il cordless sulla
propria piattaforma con uno sbuffo scocciato e a lasciarsi
sprofondare contro lo schienale della poltrona in pelle scura.
Incrociò le mani
in grembo, dandosi mentalmente dell’idiota – perché mai, Brian
Kinney, si era ridotto così, alla stregua di una patetica checca,
prima di quel famoso incontro con il suo raggio di sole – e piantò
gli occhi verso il soffitto, fino a quando non riuscì a scorgere con
la coda dell’occhio due presenze familiari che sostavano in modo
ridicolo sulla soglia, stringendo dei fascicoli tra le mani.
«Sareste così
gentili da spiegarmi che cazzo ci fate impalati lì come due idioti?»
borbottò acido, fulminando sia Cynthia che Ted con lo sguardo.
«Controllavamo il
campo di battaglia.» rispose il suo contabile, passando gli occhi in
ogni angolo dell’ufficio, prima di dare una gomitata a Cynthia. «Ad
esempio, quel tagliacarte è piuttosto inquietante.»
Brian aggrottò
immediatamente la fronte, contrariato. «Dico, vi ha dato di volta il
cervello?»
«Anche la lampada
è considerata un oggetto contundente, no?» mugugnò però Cynthia,
ignorando completamente il proprio capo e continuando il suo strano
scambio di opinioni con Ted.
«Se è per questo
potrebbe lanciarci dietro anche lo schermo del pc.» ribatté
l’altro, già impaurito dalle sue fantasie, quando Cynthia sospirò
con fare teatrale e gli diede una pacca sulla spalla.
«Coraggio Ted, è
per una buona causa.»
«Sappi che ti ho
voluto bene.» ribatté lui, continuando a non prestare attenzione a
Brian, la cui espressione si stava facendo sempre più livida di
rabbia.
«Anch’io.»
annuì la donna, con un’espressione
affranta. «Anche se ti ostini ad indossare quei boxer orrendi.»
«Ehi, ma...»
provò a protestare Ted, aggrottando la fronte, ma la voce
innervosita del Boss echeggiò in tutto lo spazioso ufficio.
«Si può sapere
che cazzo vi prende?!»
Cynthia sobbalzò
ed artigliò le mani con forza al braccio del collega. «Ecco si è
arrabbiato.»
«Non solo, vi
licenzierò anche seduta stante se non mi dite immediatamente cosa
cazzo sta passando nelle vostre teste marce.»
«Secondo te
morde?» provò a sussurrare il contabile, ma non lo fece abbastanza
piano perché Brian non lo sentisse.
«Theodore...»
sibilò infatti, assottigliando lo sguardo e lasciando presagire che
se non avesse ricevuto immediatamente una risposta soddisfacente,
avrebbero di certo passato un bruttissimo quarto d’ora.
«È solo che...»
tentò allora l’altro uomo, sbrodolando le proprie parole con
estrema cautela. «...avevamo solo paura ad entrare qui, ecco.»
«Sì,
insomma...» intervenne Cynthia, con la sua proverbiale mancanza di
tatto. «...Justin se n’è
andato e tu sei diventato intrattabile!»
Con quella scomoda
verità, gli occhi di Brian divennero immediatamente due pozzi scuri
di rabbia; tanto penetranti e pungenti che entrambi i suoi
dipendenti indietreggiarono di un passo, spaventati dalla possibilità
di essere inceneriti sul posto. «Vi do cinque secondi per portare il
vostro culo lontano da qui.» sibilò Brian, scandendo bene ognuna di
quelle parole.
«Te
l’avevo
detto che si sarebbe incazzato!»
esclamò la donna, spingendo Ted verso il corridoio per sfuggire a
quell’ira.
«Cynthia!» tuonò
subito dopo Brian, facendola sussultare ancora.
«Eccomi!»
«Le cartelle che
avevate in mano.»
La donna titubò
per un attimo sul da farsi, finché non si decise a poggiare quelle
stesse cartelle su un tavolo dell’ufficio, restando a debita
distanza dalla scrivania. «Eccole.»
«Ma che cazzo ti
dice il cervello?! Portale qui!» sbottò nuovamente lui, digrignando
i denti.
«Non ho marito,
né figli...» mugugnò lei, stringendosi i fascicoli colorati al
petto.
«E mi auguro per
loro che non li avrai mai.»
«...ma sono
comunque troppo giovane per morire.»
Brian sollevò una
delle sopracciglia. «Su questo potremmo discutere.»
«Ma proprio tu
parl...» si azzardò a ribattere lei, punta sul vivo e nuovamente
combattiva così come era sempre stata, almeno fino a quando non si
accorse dell’espressione visibilmente stizzita sul volto del
proprio capo. «...ok...lascio le cartelle e me ne vado, ho capito.»
«Ottimo.»
sentenziò lui, per poi richiamarla: «Ah,
Cynthia...chiamami Theodore.»
Lei annuì
immediatamente, per poi affrettarsi ad uscire dall’ufficio.
Brian tornò a
rilassarsi sulla propria poltrona, massaggiandosi la radice del naso
con l’indice ed il pollice, prima che quella ritrovata quiete fosse
interrotta dalla voce di Ted. «Eccomi, volevi dirmi qualcosa?»
«Entra e chiudi
la porta.» sbuffò, accarezzandosi distrattamente la fronte con un
dito.
«Mi devo
preoccupare?»
«Fa’
come ti dico e chiudi quella cazzo di porta!»
sbottò allora Brian, sollevando gli occhi al cielo con
esasperazione.
«Ok,
ok.» si affrettò a rispondere il contabile, per poi eseguire
l’ordine
ed avvicinarsi alla scrivania al cenno del pubblicitario. «Allora?
Che...che c’è?»
«È
tutto ok?» chiese semplicemente l’altro,
sospirando appena le parole.
«Oh, sì. Hanno
telefonato quelli della Brow Athletics e con il pagamento è tutto in
regola come previsto, mentre quelli della...»
«Non stavo
parlando di lavoro. Stavo parlando di te.» lo interruppe,
lasciandolo interdetto, prima di puntualizzare. «Di te e Blake.»
Ted
si soffermò a fissare il proprio capo con uno sguardo a metà tra il
sorpreso e lo scettico. «Mi stai davvero chiedendo come vanno i miei
problemi sentimentali?» domandò poi, ma nel momento in cui vide
quegli occhi verde petrolio roteare nuovamente, sollevò le mani in
segno di resa. «Ok, ok. Be’,
a dire il vero non so neanche io cosa risponderti. La verità è che
non lo so. Cerco di non pensarci e non abbiamo ancora parlato...»
«Hai bisogno di
qualche giorno di riposo?» si affrettò a chiedere, così da portare
al termine quella confessione che sembrava prolungarsi più del
dovuto; o meglio, più di quello che Brian fosse capace di
sopportare.
Sapeva bene che
Ted era quel tipo di persona che non si stanca mai di lamentarsi di
tutti i suoi problemi, ed aveva perfino iniziato a pensare che tutte
quelle “condivisioni” a cui aveva partecipato durante la sua
disintossicazione, l’avessero anche peggiorato...eppure, nonostante
la sua petulanza ed il suo essere sempre così melodrammatico –
quasi ai livelli della regina del dramma, Michael Novotny –
rappresentava senza ombra di dubbio un membro fondamentale e
completamente affidabile della Kinnetik, nonché – per quanto gli
costasse ammetterlo – un vero amico.
Era per questo
motivo che gli aveva porto quella domanda.
Era il suo modo
per chiedergli se avesse bisogno o meno di aiuto, o se avesse solo
bisogno di tempo per sé e per pensare.
«No, figurati.»
gli rispose però Ted, con un mezzo sorriso di gratitudine.
«Ted...ricordi?
Se fai qualche casino, io ti uccido.» puntualizzò immediatamente,
così da poter nascondere le reali motivazioni di
quell’interessamento dietro la propria preziosa agenzia.
«Lo so, e so di
quel che parlo. Non ti metterei mai in qualche guaio.» lo rassicurò
l’altro, fingendo di credere a quella scusa. «Il lavoro mi aiuta a
stare meglio e non pensarci.»
«Dovrai
affrontarlo prima o poi.»
«Anche tu.»
Brian restò
interdetto per qualche secondo da quella risposta, finché non vide
nel sorriso amichevole di Ted la risposta al suo interrogativo. Come
era ovvio che fosse, si stava riferendo a Justin.
Consapevole
di questo, trattenne a stento uno sbuffo e mise su la sua classica
faccia di bronzo, dietro cui nascondeva ogni sentimento,
preoccupazione o pensiero, e finse di non aver capito: «Anche io,
cosa?»
«Non
l’hai
ancora chiamato, vero?»
chiese allora Ted, in tono retorico. «E non fare quella faccia. Sai
benissimo di chi stiamo parlando.»
Gli
occhi verde scuro rotearono ancora in un’espressione
scocciata, così da darsi il tempo per trovare una via di fuga: «I
file dell’Iconic
sono pronti?» tentò
allora, sviando il discorso, ma dopo tutti quegli anni insieme era
ovvio che non gli avrebbe creduto.
«Senti, se non
vuoi parlarne con me, va bene...ma dammi retta per una volta:
chiamalo. Sono certo che ne ha bisogno.»
«Theodore...»
sibilò Brian minaccioso, ed il contabile sollevò entrambe le mani.
«Sì, sì. Te li
faccio avere sulla scrivania tra due ore.»
«Un’ora.
Al massimo.» rettificò il
pubblicitario con un sorriso sadico sulle labbra.
«È sempre un
piacere lavorare per te.» ribatté Ted con un tono acido,
proseguendo poi col borbottare qualcosa di incomprensibile mentre
raggiungeva la porta e la richiudeva alle proprie spalle, lasciando
Brian nuovamente immerso nel silenzio del proprio ufficio, affiancato
dal rumore odioso ed assordante di tutti i suoi pensieri insistenti.
“Delicate”
– Damien Rice
Dopo qualche
minuto trascorso da solo, Brian non era ancora riuscito a
cancellare le parole di Ted dalla propria mente. Per quanto tentasse di
concentrarsi su altro, qualsiasi cosa sembrava ricordargliele ed
amplificarle fino a farle diventare così insistenti da risultare
fastidiose.
Con uno sbuffo prese a
giocherellare con la preziosa stilografica nera ticchettandola sulle
proprie morbide labbra, mentre i suoi occhi si fissarono nel vuoto, finché la
mano libera, probabilmente mossa da quella martellante sensazione divenuta insostenibile, raggiunse il cordless e premette
in modo frenetico tutti i numeri di quella sequenza così familiare,
ed un suono cadenzato raggiunse le sue orecchie, seguito da un rumore secco.
Aveva risposto.
«Brian.»
Nel sentire il suo
nome pronunciato da quella voce il suo cuore ebbe un sussulto, prima
di cominciare a pompare come un pazzo, come se avesse appena corso
una maratona. Sentì il fiato venirgli meno, mentre la mano prese
inspiegabilmente a tremare, eppure in qualche angolo profondo di sé,
trovò la forza di parlare: «Ehi...» biascicò appena, per poi
schiarirsi la voce. «...come...come procede nella Grande Mela?»
Il silenzio che
seguì quella domanda non durò che qualche secondo, ma a Brian
parvero ore, a causa della paura che lo attanagliava ogni volta,
quando Justin era lontano da lui. La paura che prima o poi potesse
dimenticarlo e cancellare tutto quello che avevano vissuto.
Respirò a fondo,
stringendo con più forza le dita sul cordless, finché tutti i suoi
timori vennero immediatamente dissipati dalla voce del suo piccolo e
bellissimo artista che, con un filo di voce tremante, confessò
candidamente: «Mi manchi.»
A quelle parole un
lieve sorriso spuntò sul viso di Brian, dopo di che tornò a
rilassarsi sulla poltrona e a chiudere gli occhi immaginando che
Justin fosse ancora lì al suo fianco.
In
fondo l’aveva
sempre saputo che quel ragazzino impertinente era sempre stato molto
più bravo di lui ad esprimere i propri sentimenti e, a dirla tutta,
se era arrivato ad esserne capace lui stesso, lo doveva solo e
soltanto a Justin e alla pazienza con cui glielo aveva insegnato.
Ogni
volta, con una semplicità disarmante, Justin trovava il modo di
dirgli le parole che aveva bisogno di sentirsi dire, come se
inconsapevolmente potesse capire anche a distanza ogni sua
preoccupazione; e si sentiva perfino patetico per questo, ma gli
capitava di pensare che certe cose accadessero semplicemente perché
quel moccioso luminoso come il sole...fosse stato creato apposta per
lui. «Va tutto bene, raggio
di sole.» sussurrò
lentamente, con il cuore più leggero, nonostante la nostalgia di
lui.
«Torno presto.»
rispose Justin, azzeccando ancora le parole esatte.
«Lo so.»
sussurrò Brian con dolcezza, prima di schiarirsi nuovamente la voce
ed assumere un tono più autoritario. «Ora però torna a lavoro.»
«Ok...ma tu non
guadagnare troppo, eh.» gli rispose semplicemente e, nel momento in cui
lo sentì ridere, seppur in modo appena accennato, Brian si sentì
riempire di calore, quasi fino ad esplodere.
«Nah! Giusto
qualche milione.»
Justin rise
ancora, e il bel pubblicitario provò il desiderio di non separarsi
più da quel telefono, così da poter sentire ancora quella risata
cristallina che riusciva a fargli tremare il cuore.
Gli impegni di
entrambi però non avrebbero permesso una cosa del genere; e Brian se
ne rese conto nel momento in cui la spia rossa sulla piattaforma del
cordless prese a lampeggiare, informandolo di un’altra chiamata
posta in attesa. «Devo andare anch’io.» si sforzò di dire
allora, e sentì Justin annuire.
«Ti amo.» gli
confessò poi, sempre con la sua proverbiale semplicità, per cui
Brian non poté far altro che sorridere e sentirsi davvero leggero.
«Ciao.»
Qualche altro
secondo di silenzio ed il suono acuto della chiamata che veniva
interrotta lo raggiunse, lasciandogli una piccola fitta di malinconia
a bruciare nel petto.
Brian si morse
delicatamente le labbra e riaprì gli occhi, tornando a quella realtà
in cui Justin era troppo lontano perché lui potesse ricambiare
quelle sue parole con un bacio, uno sguardo o un abbraccio.
Prese un respiro
profondo e, aprendo il primo cassetto della scrivania, gettò un
lungo sguardo a quella foto che custodiva gelosamente all’insaputa
di tutti.
Erano
semplicemente loro due, in una delle tante cene a casa di Debbie; una
sera come un’altra, ma allo stesso tempo speciale perché erano
felici.
Per un attimo,
Brian provò una sciocca invidia per “quel se stesso” che ancora
aveva la possibilità di stringersi a quel corpo filiforme,
abbracciandolo da dietro e respirando il profumo di quei capelli
biondissimi.
Sorrise del modo
in cui in quell’immagine stringeva a sé Justin, neanche avesse il
bisogno di rimarcare che si appartenevano, nonostante il fatto che
tra loro non fossero mai esistiti catene o “lucchetti alle porte”.
Si passò la
lingua sulle labbra ed attardò ancora lo sguardo sul sorriso del suo
raggio di sole, accecante così come era sempre stato; o forse anche
di più, perché come tutti gli ricordavano sempre, Justin sorrideva maggiormente quando si trattava di loro due.
Il tempo di un
ultimo sospiro, e finalmente si decise a separarsi da quella foto,
non senza prima aver sussurrato quelle maledette parole che gli
esplodevano dentro, ma che ogni volta gli si incagliavano nella gola:
«Ti amo anch’io.»
*'*'*
«Sono a casa!»
esclamò Melanie mentre rincasava dal lavoro, facendo echeggiare la
propria voce per tutto l’ingresso. Si tolse il cappotto,
rabbrividendo per colpa dello sbalzo termico tra la sua accogliente
casa ed il gelo di Toronto, e raggiunse la cucina con la fronte
aggrottata per non aver ricevuto risposta.
Si passò una mano
tra i capelli che portava ancora corti, sempre più interdetta,
finché notò il post-it giallo lasciatole da Linz attaccato allo
sportello del frigorifero.
“Sono fuori
con JR. Torno presto. Gus ha fatto i capricci come al solito ed è
rimasto in camera sua, vedi di parlarci tu. Ti amo. L.”
Con gli occhi
ancora incantati sul foglietto, Melanie si ritrovò a sospirare.
Da quando erano
rientrate a Toronto, Gus non le aveva ancora perdonate per averlo
nuovamente allontanato da Pittsburgh, ma soprattutto da suo padre.
Era sempre stato
difficile gestire la mancanza che il bambino manifestava nei
confronti di Brian, ma in un modo o nell’altro erano sempre
riuscite a fargli tornare il sorriso sulle labbra e, anche se di
tanto in tanto riprendeva a piangere o a fare i capricci, almeno
erano solo brevi episodi separati l’uno dall’altro, e non uno
continuo che sembrava non voler arrivare ad una fine.
Andava a scuola
malvolentieri, non rivolgeva la parola a nessuna delle sue mamme se
non per lo stretto necessario mantenendo sempre il suo broncio e,
cosa peggiore, terminava ogni telefonata con Brian con un pianto
disperato in cui lo pregava di andarlo a prendere insieme a Justin e
di tenerlo a Pittsburgh con sé.
Sia lei che Linz erano
arrivate al punto in cui non sapevano più dove mettere le mani, e
neanche le parole che Brian rivolgeva al bimbo – e che di solito
riuscivano a calmarlo – sembravano essere poi più così
convincenti.
Con uno sbuffò
scocciato, Melanie accartocciò il post-it per poi gettarlo, prima di
salire le scale e raggiungere la stanza del bambino. Aprì la porta
e lo trovò come sempre immerso tra i disegni, solo che quella volta
non aveva i pastelli in mano, bensì il cordless e l’agenda di
Linz. «Tesoro che stai facendo?» domandò allora, facendolo
sobbalzare.
«Niente.» si
affrettò a rispondere lui, cercando di nascondere l’agenda dietro
di sé.
Melanie gli si avvicinò e gli occhioni verdi di Gus si inondarono di paura e
nervosismo. «Che ci fai con l’agenda della mamma?» chiese con
un tono contrariato e incrociando le braccia al petto.
«Quante volte ti abbiamo detto di non prenderla?» proseguì nella
sua filippica, ma il bambino non sembrava disposto ad ascoltarla.
«Gus, guardami e dimmi che stavi facendo.»
«Cercavo il
numero di Justin.» borbottò lui sommessamente, resosi conto che la
pazienza di “Mamma Mel” stava venendo meno.
«Di Justin? E
perché?»
«Perché voglio
andare a da lui. Se voi non volete portarmi da papà, allora io vado
da lui.» rispose deciso, mentre gli occhi gli si riempivano di
lacrime rabbiose.
«Gus ma che stai
dicendo?»
Il bambino tirò
su con il naso e strinse con più forza il cordless al petto, quasi
temesse che glielo portasse via. «Io non ci voglio stare qui.»
«Amore, non puoi
chiamare Justin per queste cose. Lui non può portarti con sé e poi
te l’abbiamo già detto tante volte che faresti arrabbiare papà.»
«Ma perché?»
piagnucolò lui, con il labbro inferiore che tremava e le guance
rigate dalle lacrime. «Papà mi lasciava sempre stare con lui.»
«Perché non
vuole che nessuno lo disturbi mentre lavora. Justin deve dipingere,
non deve essere distratto.»
«Anch’io faccio
i disegni e Jenny viene sempre a darmi noia!»
Melanie si lasciò
sfuggire una piccola risata. «Non è la stessa cosa, tesoro. E poi
pensaci, se a te da noia che qualcuno venga a disturbarti mentre
disegni, non pensi sia lo stesso anche per Justin?»
Gus abbassò lo
sguardo dispiaciuto e gonfiò le guance. «Ma io e lui possiamo
disegnare insieme.»
«Quando siete a
casa di tuo padre.»
«Infatti, io
voglio tornare a Pittsburgh da papà e Justin!»
«Tesoro...»
sussurrò lei, accarezzandolo sulla testa con dolcezza. «...ma
Justin non è a Pittsburgh.»
«E perché?»
domandò immediatamente lui, sorpreso da quella notizia. «Papà è
più felice quando c’è Justin.»
Melanie sorrise a
quelle parole, trovandole così vere. Perfino un bambino che non
sapeva niente dell’amore era riuscito a vedere quanto Brian fosse
diverso dal momento in cui Justin era al suo fianco. «Lo sappiamo.»
convenne allora, mentre il suo sorriso diveniva più triste. «Ma
come tutti ha anche lui degli impegni. Lui è tornato a New York.»
Il bambino restò
in silenzio per qualche secondo, visibilmente scombussolato da quella
notizia, mentre nella sua testa avanzava un’ipotesi che poi tramutò
candidamente in parole: «E allora papà sarà triste senza Justin,
quindi io devo stare con lui.»
«Gus,
ascoltami...»
«No, io devo
andare da papà!» esclamò, stavolta con preoccupazione; ed il cuore
di Melanie venne stretto da una morsa nel notare come – anche se
in modo diverso – perfino in questo Gus somigliasse a Brian. Anche
suo padre aveva il “vizio” di occuparsi dei problemi di tutti,
seppur lo facesse nell’anonimato, non l’avrebbe mai ammesso e
soprattutto la considerasse quasi un’offesa se qualcuno glielo
faceva notare.
«Tesoro,
torneremo presto a Pittsburgh. Neanche una settimana e saremo lì.»
provò a rabbonirlo, ma quel piccolo broncio sembrava non voler
abbandonare il volto del figlio. «E poi non ti dispiacerebbe
lasciare i tuoi amichetti a scuola?»
«No! Voglio papà
e Justin!» replicò lui, sempre più deciso. «Gli amici ce li avevo
anche a Pittsburgh!»
Un altro sospiro
di rassegnazione uscì dalle labbra di Melanie finché, scuotendo la
testa, si ritrovò a fare l’impensabile per un’inguaribile ed
agguerrita orgogliosa come lei. «Passami il cordless.»
«Perché?»
domandò il bambino.
«Devo fare una
telefonata importante.»
Gus la guardò
storta per qualche istante, fino a che non si decise a darglielo,
seppur con uno sbuffo contrariato.
Melanie lo baciò
frettolosamente sulla fronte e, componendo un numero quasi con
disgusto, si allontanò di un poco verso il corridoio. Pochi secondi
ed una voce profonda e familiare, quanto irritante, la raggiunse
dall’altra parte del telefono. «Pronto?»
«Non hai idea di
quanto mi sia costato fare questo numero, perciò vedi di non fare lo
stronzo.»
Per qualche
secondo ci fu solo silenzio, poi Brian si decise a pronunciare il suo
nome con una buona dose di contrariata sorpresa: «Melanie?»
«Già.» replicò
secca lei. Ancora non poteva credere di aver realmente chiamato lui
per chiedergli aiuto. «Non m’importa quale importantissimo
contratto milionario tu stia seguendo o con chissà quale cliente
altrettanto milionario tu sia, perché tuo figlio ha una crisi
isterica peggiore del solito e...»
«Passamelo.» la
interruppe, con tono sicuro.
«Eh?» replicò
lei sorpresa, e dall’altra parte riuscì a percepire distintamente
uno sbuffo scocciato.
«Sei diventata
improvvisamente sorda? Ho detto passamelo.»
«Pensavo ci
volesse di più per convincerti.» rispose, dando voce ai suoi
pensieri. Era partita col piede di guerra, pensando che avrebbe
dovuto superare una delle loro solite discussioni per convincerlo a
lasciar perdere la Kinnetik per occuparsi di suo figlio, ma
evidentemente aveva sbagliato i propri calcoli.
«È mio figlio,
Melanie.» ribatté lui, con una semplicità così disarmante che non
ebbe bisogno di altre spiegazioni. Magari Brian all’inizio non era
stato proprio come il padre dell’anno, ma per quanto le costasse
ammetterlo, col tempo, anche grazie a Justin e a tutte le difficoltà
che insieme erano riusciti a superare, Brian si era trasformato in un
padre decisamente migliore, che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di
veder sorridere quella sua fotocopia in miniatura che era il figlio.
Da quando aveva
imparato ad amare e a lasciarsi amare; da quando la parola “famiglia”
non gli suonava poi così tanto disgustosa, Brian Kinney era
diventato davvero un buon padre per Gus; o almeno lo era per quello
che la lontananza gli permetteva di essere.
«Lo so.» rispose
allora lei, lanciando un’occhiata al bambino che aveva ripreso a
disegnare e sentendosi realmente in colpa per la prima volta, come se
con il suo comportamento non solo avesse ferito Gus, ma anche Brian
impedendogli di essere padre, così come avrebbe voluto. Si morse
ancora le labbra e, rivolgendosi a suo figlio, disse con un sorriso:
«Gus, vieni qui. C’è papà a telefono.»
Gli occhioni verde
scuro del bambino si spalancarono di sorpresa, prima che un sorriso
splendido gli illuminasse il viso e le corresse incontro felice,
saltellando
per prendere il cordless. «Passamelo, passamelo!»
Con un nodo alla
gola, la donna gli porse il ricevitore. «Tieni.»
«Papà!» esclamò
Gus entusiasta, per poi tornare nella sua stanza e lanciarsi sul
letto.
Melanie si
avvicinò alla soglia di qualche passo, per poi appoggiarsi allo
stipite della porta e respirare a fondo, così da lasciar dissipare
quella strana sensazione annodata dentro di sé.
Vedere come quel
broncio fosse scomparso immediatamente nel momento in cui il suo
bambino aveva sentito la voce di suo padre, la portò a pensare alle
proprie scelte, così come alla discussione avuta giorni prima con
Brian. Le sue parole tornarono pungenti a rimbalzarle in testa, ed
il tarlo del dubbio le si insinuò sempre più a fondo, facendole
capire che forse, quella vita a Toronto, era la soluzione più
sicura, ma non quella che li avrebbe resi tutti davvero felici.
*'*'*
Guardandosi al
grande specchio di quella che era la sua nuova bellissima casa da
circa due anni ormai, James Hunter Bruckner Novotny sorrise
soddisfatto al suo riflesso.
Finalmente era
riuscito a superare anche quell’ostico esame che aveva interrotto
la sua sequenza di risultati positivi, e si sentiva trasformato. Era
fiero di quello che era diventato, e lo era anche del fatto che
finalmente stava davvero riuscendo a ripagare tutti gli sforzi
compiuti dai suoi genitori adottivi per allontanarlo dalla strada.
Se qualche anno fa
avessero detto a James Hunter Montgomery che la sua vita sarebbe
cambiata a tal punto, probabilmente si sarebbe fatto una grossa – e
amara – risata, prima di tornare sul bordo del marciapiede nel
tentativo di trovare qualcuno disposto ad accettare le sue
prestazioni in cambio di qualche centone.
Invece, a dispetto
di tutte le sue previsioni, la vita che per prima gli aveva negato
l’amore genitoriale, era stata capace di restituirglielo perfino
con gli interessi, dandogli la possibilità di incontrare due persone
come Ben e Michael che, per quanto a volte fossero apprensivi o
terribilmente noiosi, erano pur sempre la sua famiglia e lo amavano
davvero.
Insomma, in fin
dei conti aveva una vera famiglia che, seppur decisamente fuori dalle
righe, lo amava; degli amici che tenevano sinceramente a lui e
finalmente perfino una vera istruzione che in fin dei conti gli
piaceva e anche tanto.
Sarebbe potuta
essere una vita perfetta, se solo non fosse stato per quella singola
macchiolina nera, eredità del suo passato, che continuava a portarsi
dentro e che non l’avrebbe abbandonato mai.
Nonostante i
controlli a cui si sottoponeva con Ben risultassero sempre positivi,
e che la sua carica virale fosse realmente bassa, quelle tre lettere
messe in fila lo spaventavano ancora a morte.
L’HIV continuava
ad essere un incubo presente nella sua vita; tanto reale e così
spaventoso che spesso si ritrovava a svegliarsi di soprassalto la
notte.
Gli capitava di
sognare quel virus maledetto – quella pena che avrebbe dovuto
scontare per tutta la vita – soprattutto nei periodi in cui
aspettava i risultati degli esami medici. Sognava l’arrivo di
quella “bestia” – così come la chiamava lui – a portargli
via prima Ben, per poi tornare in seguito anche per lui. Sognava
perfino la sofferenza di Michael rimasto solo e sentiva addosso
l’impotenza di non poter fare niente per lui; per dargli un po’
di conforto.
Erano quelli i
momenti in cui le cose sembravano prendere una brutta piega, poiché
inevitabilmente i suoi pensieri andavano anche ai figli che non
avrebbe mai potuto avere, e forse anche all’amore che non avrebbe
mai trovato, perché temeva che nessuno si sarebbe potuto innamorare
di un infettato.
Quando quella
parola balenò nella sua mente, Hunter strinse le mani al lavabo e
scosse la testa come per volerla scacciare, prima di aprire il
rubinetto con un gesto secco e sciacquarsi la faccia.
«Ehi dormiglione,
non sei ancora pronto?» la voce di Ben lo sorprese facendolo
scattare. Afferrò l’asciugamano con gli occhi mezzi chiusi e si
tamponò il viso, prima di lanciargli un’occhiata furba,
cancellando definitivamente ogni pensiero negativo o preoccupazione, così da non mettere in allerta i propri genitori.
«Potrei partire
da casa anche mezz’ora dopo di te. Arriverei comunque prima, caro il mio vecchietto.»
Ben sorrise ed
incrociò le braccia. «Accidenti, siamo già in vena di battutine a
quest’ora e a stomaco vuoto?»
«Proprio perché
sono a stomaco vuoto, sono in vena di battutine acide.» ribatté
Hunter, lanciandogli in faccia l’asciugamano appena usato, per poi
dirigersi verso la propria stanza.
«Ehi...che ti
costava metterlo al suo posto?» tentò di rimproverarlo il padre, ma
era ancora troppo felice del risultato del suo ultimo esame per
arrabbiarsi con lui.
Consapevole di
questo, Hunter gli rivolse una falsa smorfia annoiata. «Smetterai mai di
lamentarti per tutto? Stai diventando peggio di tuo marito, lo sai?»
«Cosa avrei fatto
io?» intervenne l’altro padre chiamato in causa, salendo le scale
con in mano la cesta dei panni.
«Ecco l’altro
vecchio. Attento a non farti male alla schiena con quella.»
ironizzò, indicando con un cenno della testa la pila di panni che
stava trasportando. «Sai, alla tua età...»
Michael
assottigliò lo sguardo con fare minaccioso. «Moccioso, perché
invece di borbottare non lo fai tu?»
«Perché io sono
troppo giovane per sprecare il mio tempo con certe cose.» ribatté
con un sorrisetto, infilandosi i Jeans e la felpa. «E devo correre a
nutrirmi per affrontare una nuova e proficua giornata universitaria
per il mio gran bel cervello superiore.»
Gli occhi scuri di
Michael rotearono fingendo un’espressione scocciata. In realtà
riusciva a malapena a nascondere quanto era fiero di suo figlio e,
non appena lui non era nei paraggi, ne approfittava per gongolare
come un matto. «Smetterai mai di vantarti per aver superato
quell’esame?»
«Considerando il
voto che ho preso...» mormorò, arricciando poi le labbra come se ci
stesse riflettendo su. «...e nel caso vi fosse sfuggito, vorrei
ricordarvi che è stato il massimo.» sorrise, vedendo entrambi i
genitori sollevare lo sguardo verso il soffitto, e aggiunse: «E
soprattutto visto il fatto che in tutto il nostro corso solo io e
Danny ci siamo riusciti...» si soffermò ancora per qualche secondo
e concluse ancora con un sorriso spavaldo: «Be’ no, penso proprio
che non smetterò mai di ricordavi quale onore è avere un figlio
geniale come il sottoscritto.»
«Andiamo
Einstein.» sospirò Ben, passandogli un braccio attorno alle
spalle. «Vai a fare la tua colazione ipercalorica.»
«È inutile che
ci provi.» replicò Hunter, scendendo per primo le scale seguito da
entrambi i genitori. «Non riuscirai mai a farmi sentire in colpa per
le schifezze che mangio, e soprattutto non riuscirai mai a farmi
ingurgitare quella merda salutista che continui a cercare di
propinarmi.» raggiunse il tavolo ed afferrò la sua scatola di
cereali al cioccolato, versandone una quantità esagerata nella sua
ciotola con un sorrisetto quasi sadico. «Grassi saturi, a me!»
Ben sospirò con
rassegnazione ed aprì i giornale per controllare le ultime notizie,
sorseggiando il suo frullato di un poco invitante verdolino pallido,
mentre per Michael iniziò la sua giornaliera guerra per la conquista
della scatola di cereali, prima che Hunter riuscisse a terminarla
senza lasciargli neanche una briciola.
Ed era proprio
questo che Hunter amava di più della sua vita: la quotidianità
spensierata delle loro giornate. Le risate con cui iniziavano la
mattina, fatta di scherzi idioti e battutine acide; i sorrisi
soddisfatti della propria famiglia quando li rendeva fieri di lui e
la cena fatta di altrettante risate, scherzi e battute, prima della
classica riunione al Liberty Diner, o da Woody’s; e anche se non lo
avrebbe mai ammesso, perfino cene e pranzi a casa di nonna Debbie lo
rendevano felice.
A quel pensiero,
Hunter non riuscì ad impedire alle proprie labbra di distendersi in
un sorrisetto divertito e, per quanto tentò di nasconderlo prendendo
una nuova cucchiaiata di cereali, ai suoi attenti ed impiccioni
genitori non sfuggì affatto. «Che hai da ridacchiare adesso?»
chiese infatti Michael che, inutile dirlo, dei suoi due padri era il
più petulante curioso.
«Che ti frega?»
ribatté lui, mostrando la lingua con una smorfia.
Michael prese uno
dei cereali e glielo lanciò contro. «Mi frega dal momento che in
quella testolina potresti anche organizzare qualche strana pazzia.»
«Chi? Io?» si
finse sconvolto, prima di voltarsi verso l’altro genitore. «Ben,
diglielo tu a tuo marito che sono un angioletto.»
«Sì,
angioletto.» commentò Ben in risposta con sarcasmo, ripiegando con
cura maniacale il giornale. «Vedi di muoverti a finire il tuo
pastone o farai tardi.»
Hunter gli rivolse
l’ennesima smorfia scocciata e prese l’ultimo boccone di cereali,
prima di alzarsi ed andare a lavarsi i denti per poi recuperare il
piumino e le chiavi del lucchetto per la bici, ed avviarsi verso la
porta con noncuranza.
«Ehi,
principino!» lo richiamò Michael con un lieve tono di rimprovero.
«Sbaglio o quella è la tua ciotola?»
«Sì...e allora?»
«Pensi che ci
vada da sola nel lavabo?»
«No.» rispose
con una scrollata di spalle. «Contavo che ce la portassi tu. Esci
per ultimo e hai il compito di casalinga in questa casa!»
«Cosa?» domandò
sorpreso, cercando con lo sguardo un aiuto da parte del marito, che
contrariamente alle sue aspettative, si stava semplicemente sforzando
per non ridere. «E da quando sarebbe così?»
«Da quando fai la
mamma chioccia!» Hunter gli rivolse un sorriso furbo ed aprì la
porta di casa. «Cioè da sempre!»
«Aspetta di
tornare a casa stasera, signorino. Te lo faccio vedere io chi è
mamma chioccia.»
«Sì, sì...certo. A
stasera!» lo liquidò semplicemente, uscendo di casa seguito da Ben
e recuperando insieme a lui le biciclette, prima di raggiungere la strada
ed inforcarle.
«A che ora pensi
di tornare stasera?» gli chiese il padre, affiancandolo.
«Al solito.
Finite le lezioni resto con Danny in biblioteca e per cena sono a
casa.»
«Uhmmm.» mugugnò
l’uomo con un espressione fintamente sorpresa. «Hai deciso di fare
proprio sul serio, eh?»
«Perché? Avevi
qualche dubbio?»
Ben non gli
rispose immediatamente, ma gli rivolse un sorriso benevolo. «No.»
gli disse poi. «Certo che no. Nessun dubbio.»
Hunter ricambiò
quel sorriso e continuarono a pedalare affiancati, in silenzio ma
sereni, finché non giunsero al solito incrocio in cui, come ogni mattina,
presero direzioni diverse salutandosi con un altro sorriso.
Giunto ormai in
prossimità della propria università, Hunter tornò a sedersi sul
sellino e rallentò la corsa per evitare di travolgere qualcuno.
Varcò i cancelli e si diresse verso il parcheggio per biciclette
dove, come sempre, Danny lo stava aspettando avvolto dalla scia
di fumo della sua immancabile sigaretta.
Inchiodò
sgommando di lato e scese dalla bicicletta, per poi legarne la ruota
con la catena.
«Sei in ritardo.»
lo informò immediatamente il ragazzo, prendendo l’ultima boccata
di fumo per poi schiacciare il mozzicone a terra.
«Le mie mammine
stamattina erano più loquaci del solito.» si scusò Hunter, con un
sorriso divertito. Danny in fondo sapeva tutto – davvero tutto
– di lui.
Si erano
conosciuti per caso nei primi giorni di corso, e ancora per puro caso
aveva scoperto che anche lui faceva parte di una “famiglia
arcobaleno” – così come la definiva Danny – con la sola
differenza che lui aveva due mamme.
Da lì avevano
iniziato per gioco a chiamare “mammine” Ben e Hunter, e “papini”
le madri di Danny, dopo essersi raccontati aneddoti famigliari in cui
avevano constatato quanto paradossalmente i genitori di Hunter –
soprattutto Michael – somigliassero più a due chiocce
iperprotettive, rispetto all’altra coppia.
Ed era stato
proprio il fatto che Danny vivesse una realtà simile alla sua, che
aveva spinto Hunter a fidarsi e ad aprirsi piano, piano con lui, fino
a trovare anche il coraggio di confessargli del male che albergava nel
suo corpo.
Non era stato
certo facile, ma era stata come una liberazione e, seppur all’inizio
il ragazzo avesse manifestato un’ovvia sorpresa – più per il
fatto di esser venuto a conoscenza di ciò che la madre l’aveva
costretto a fare, che per l’HIV – aveva finito con lo scrollare
le spalle tranquillamente e con un sorriso gli aveva confessato che
anche alcuni amici delle loro madri vivevano la medesima situazione,
e che comunque non significava che fosse ancora realmente malato,
poiché non era affetto da AIDS.
Dopo quella
confessione non erano più ritornati sull’argomento, ma senza
dirglielo apertamente, Danny si era più volte offerto di
accompagnarlo in ospedale durante i controlli, e soprattutto aveva
sempre mantenuto il segreto, perfino con la propria famiglia.
Insieme avevano
conosciuto tante altre persone e formato un bel gruppetto, di cui
faceva parte anche la storica fidanzata dello stesso Danny, ma con
nessuno di loro, Hunter, era riuscito ad aprirsi tanto quanto con lui
e, anche se contava di riuscirci prima o poi, la realtà che stava
vivendo al momento gli andava più che bene.
«I miei papini
invece, stamani avevano un diavolo per capello.» ribatté Danny,
facendo una smorfia. «Periodo di spese. Quando arrivano le bollette
si trasformano in due iene...ed ovviamente la colpa ricade sullo
stronzo di turno e sul mio computer che, secondo loro, sta acceso
ventiquattr’ore su ventiquattro.»
«Il tuo computer
sta acceso ventiquattr’ore su ventiquattro.» puntualizzò
Hunter, con ironia, mentre si avviavano verso l’entrata.
«Sì, ma loro non
sanno neanche accenderlo, quindi come fanno a saperlo e accusarmi
di questo?»
«Fidati di me,
quando vogliono incolparti di qualcosa, hanno più risorse di quel
che credi!» ribatté sbuffando e ben ricordando a quali assurdi
sotterfugi era in grado di ricorrere Michael quando voleva rigirare
la frittata a suo favore.
«Sono due serpi.»
borbottò Danny in risposta, e fece per aggiungere altro, quando si rese conto che
Hunter – come ogni mattina del resto – si era incantato a fissare
la struttura della piscina coperta. «Perché non vai e t’iscrivi
ai corsi? Eri bravo, no?» gli disse allora, e lo vide scuotersi dai
suoi pensieri per voltarsi verso di lui.
«No, non
m’importa e poi non vorrei rischiare.» replicò con franchezza e
senza il bisogno di spiegazioni, visto che Danny era già a
conoscenza dell’episodio del liceo.
«Che io sappia il
nuoto non è uno sport di contatto, e quello che ti è successo è
stato solo un caso isolato.» si sistemò la tracolla sulla spalla ed
ammiccò. «Fossi in te riproverei.»
«Se mi dovessi
anche solo tagliare...»
«Dovresti avere
la sfiga tremenda di trovare proprio un persona altrettanto sfigata
che si è tagliata in quel momento o che ha una ferita aperta...senza
contare poi che la piscina non è una pozzanghera. Non infetteresti
nessuno, soprattutto perché la tua carica virale è bassa.»
«Non si può mai
sapere se...» ritentò di nuovo, ma Danny lo interruppe ancora una
volta.
«Sì che si può.
Si chiama statistica.»
«Le statistiche
hanno un margine d’errore.»
Danny roteò gli
occhi scocciato. «In una piscina olimpionica dove non è detto
che dovrai per forza spargere il tuo sangue come una bistecca
ambulante?»
«Non sei
divertente.»
«No, infatti.
Sono solo realista.» replicò, posandogli una mano sulla
spalla per fermarlo. «Ascolta...ogni volta che passiamo di qui è la
stessa storia. T’incanti a fissare quella cazzo di piscina. Ti
manca nuotare? Vai e torna a gareggiare.»
Hunter sbuffò e
riprese a camminare. «Non sono più neanche in forma.»
«Stronzate. Non
hai mica ottant’anni! In forma ci puoi sempre tornare e poi vai quasi
ogni giorno in palestra e neanche fumi come una ciminiera come me,
quindi che problemi hai?»
«Una cosa
chiamata HIV.»
«Che non mi pare
faccia affondare la gente o impedisca loro di nuotare, giusto?»
Hunter tentò di
replicare, ma dopo l’occhiataccia rivoltagli da Danny decise di
lasciar perdere. Quel ragazzo era anche più cocciuto di lui. «Ci
penserò.» borbottò allora e vide le sopracciglia dell’altro
inarcarsi.
«Dici sul serio o
mi prendi per il culo per farmi stare zitto?»
«Questo non te lo
dico.» sorrise in risposta, ed accelerò il passo salendo i pochi
gradini, così da concludere la discussione. Lanciò un’ultima
fugace occhiata a quella gigantesca struttura bianca e per un attimo
tornò ad immaginare la fresca sensazione dell’acqua che gli
scivolava addosso in una bracciata, o l’adrenalina precedente al
tuffo dalla piattaforma.
Era inutile
negarlo, il nuoto e le gare gli mancavano davvero. Erano state la
prima cosa in cui era riuscito a strapparsi una vera soddisfazione e
che l’avevano fatto sentire rinato, eppure la brutta storia
capitatagli ai tempi del liceo era ancora una ferita fin troppo viva
per essere dimenticata o almeno accantonata.
Ogni volta che
ripensava a quei bei pomeriggi passati ad allenarsi, tornavano anche le
occhiate di disgusto e paura che gli erano state rivolte, neanche
fosse stato un appestato.
Non voleva
rischiare di rivivere ancora quel momento, e forse, perché questo
non si verificasse ancora, doveva davvero dire definitivamente addio
al nuoto.
*'*'*
“Sleeping
with ghosts” – Placebo
Il Natale era
ormai alle porte.
Meno di una
settimana lo separava da quella festività e, da quando aveva fatto
ritorno nella Grande Mela – soprattutto dopo la breve telefonata ricevuta,
che Jace senza alcuna spiegazione, aveva capito essere da parte di
Brian – Justin si era rinchiuso nel suo loft tramutandosi in una
specie di cyborg eremita che trascorreva le sue giornate a dipingere,
fatta eccezione per le occasioni in cui Gary era piombato
personalmente a trascinarlo fuori da lì per farlo presenziare a
qualche evento.
Per giorni e notti
intere, Justin aveva inzuppato tele di colori, sfogando tristezza,
rabbia e speranza per riempire quel bianco candido e rigido, dando
vita a quello che era stato definito – e accolto con approvazione –
dai critici come un nuovo “periodo”,
che manteneva i caratteri cupi del precedente, ma che sembrava poter
sfociare in una via d’uscita,
grazie a degli schizzi di colori vivaci che riuscivano a rompere il
buio.
Nessuno però era
riuscito a spiegarsi il reale motivo di questo cambiamento; nessuno
ovviamente tranne Jace, che ben sapeva a cosa era dovuto.
Lui sapeva che
quella “via d’uscita” profumata di speranza aveva un nome e un
cognome: “Brian Kinney”; sapeva che dal momento in cui,
finalmente, le cose tra i due sembravano essersi almeno chiarite –
che l’amore, da parte di entrambi, non era mai finito – Justin
non pensava ad altro che non fosse l’idea di tornare a farsi
stringere da quelle braccia.
Eppure, nonostante
quel lieve barlume e quella consapevolezza, Jace proprio non riusciva
a togliersi di dosso quella brutta sensazione che gli era nata dentro
da quando avevano fatto ritorno nella “Grande Mela”.
Non riusciva ad
essere ottimista come Gary, né entusiasta come i galleristi e i
critici d’arte...perché lui non vedeva Justin come un’artista;
lui vedeva Justin come il suo più caro amico, ed assisteva in
silenzio al suo progressivo spegnersi.
Lo vedeva
annullarsi, assopirsi. Vedeva con chiarezza quella luce naturale di
cui sapeva risplendere, traballare e affievolirsi sempre di più,
come mai era successo prima di allora.
Era come se, per
imprimere la sua arte sulla tela, Justin attingesse alla propria
energia vitale e se ne privasse fino a svanire.
Gli occhi blu
splendenti erano ridotti a due pietre opache e vitree, stanche e
segnate da ombre scure; la pelle aveva assunto un pallore malsano e
le guance si erano scavate e sciupate lentamente, insieme a quelle
labbra solitamente rosee e piene, ormai screpolate e perennemente
statiche in una linea dritta e severa, su cui solo sporadicamente si
accennava il disegno di un sorriso.
Justin aveva
smesso di mangiare; di questo Jace ne era certo.
Ed era certo anche del fatto
che dormisse appena, solo quando crollava sul pavimento per la
stanchezza, senza neanche avere la forza per raggiungere il letto.
Non staccava mai
gli occhi dai suoi quadri e non impegnava le sue mani per altro che
non fosse il dipingere, concedendosi una pausa solo per farsi una
doccia e mangiucchiare qualcosa quando lui lo sgridava e lo
costringeva; o quando era la sua stessa mano ad imporgli con forza di
smettere, tremando come un’ossessa o straziandolo con i crampi.
Ma quello che più
lo angosciava e gli metteva tristezza, era il motivo per cui il suo
più caro amico si era ridotto così. Non perché avesse perso la
voglia di vivere, o perché fosse depresso...bensì perché era
affondato in uno strano tunnel che gli imponeva di lavorare a ritmi
impossibili, per poter far ritorno al più presto nella sua città
natale, tra le braccia del suo uomo...soprattutto dopo la telefonata
da lui ricevuta.
«Jus, ti vuoi
fermare un attimo?» gli chiese con un sospiro, avvicinandosi a lui.
Da ore ormai lo osservava dipingere e non l’aveva degnato neanche
di una parola.
«Non posso.»
replicò telegrafico l’altro, con gli occhi blu incollati alla
tela.
«Hai mangiato?»
«Eh?»
mormorò distratto. «Ah sì, sì.»
Jace aggrottò la
fronte contrariato. «Cosa hai mangiato? È
tutto intatto in cucina.»
«Ho mangiato.
Jace, per favore, ho da fare adesso.»
«Prenditi una
pausa. Stai crollando, non te ne accorgi?»
«Sto benissimo.»
rispose Justin, più nervoso. «Devo finire questi. Prima lo faccio,
prima torno a Pittsburgh. Non voglio mancare per Natale e se dipingo
abbastanza quadri, forse riesco anche a prolungare la mia permanenza
là.»
«Se non ti riposi
non arriverai neanche a domani, te ne rendi conto?!» replicò con un
tono più severo, nel vano tentativo di riuscire a farsi ascoltare,
ma per quanto Justin restasse sordo alle sue parole, la sua mano non
era del suo stesso avviso.
Come capitava
sempre più frequentemente da qualche giorno infatti, le dita allentarono
improvvisamente la presa sul pennello ed iniziarono a tremare. Era
come se il grande sforzo a cui Justin le aveva costrette dal suo
rientro a New York, queste glielo stessero facendo ripagare con
crampi sempre più frequenti e più dolorosi.
«‘Fanculo!»
imprecò il biondo artista,
stringendosi la mano quando il pennello cadde sul pavimento,
macchiandolo di schizzi blu.
«Lo vedi? Stai
esagerando.» lo rimproverò ancora Jace.
«Vaffanculo anche
tu.»
«Hai
intenzione di mandare a ‘fanculo
anche il resto del mondo, o credi di poterti almeno prendere una
pausa?»
«Non posso, io
devo...»
«Sì
che puoi.» lo interruppe rabbioso. «Non solo puoi, ma devi.
La tua mano non ce la fa più. Non lo vedi?»
Justin
per la prima volta si degnò di guardarlo, e Jace non poté far altro che constatare
quanto i suoi occhi blu fossero anche più infossati e stanchi di
quel che temeva. «Non
hai del lavoro da sbrigare?!»
«No.»
replicò secco. «Ricordi? Sono in vacanza.»
«Perché
non trovi qualcosa da fare?» ribatté Justin, piegandosi per
raccogliere il pennello; peccato che la sua mano fosse ancora in vena
di capricci e che si ribellò ancora al suo controllo, facendolo
infuriare ancora di più.
«Perché
ce l’ho
già.» commentò in risposta Jace, con un sorriso caustico. «Badare
ad un ragazzino nevrotico che non è capace di farlo da solo.»
«Io
so badare
a me stesso.»
«Ah,
lo vedo.» borbottò lui, indicando la mano su cui ancora non aveva
ripreso il controllo. Fece per aggiungere altro, ma il telefono di
casa prese a squillare e, sul display della piattaforma apparve il
nome di “Gary”.
«Rispondo
io.» mormorò Justin, afferrando il ricevitore. «Pronto?»
Jace
sbuffò contrariato.
Quando
era Gary a chiamare non erano mai
buone notizie. O meglio, lo erano per la carriera di Justin, ma
questo significava anche mille altri impegni che, ne era certo,
avrebbero sfiancato il giovane artista o l’avrebbero
portato sull’orlo di
una crisi di nervi.
«Sì,
certo.» lo sentì mormorare, scostandosi una ciocca di capelli
biondi dal viso. «No,
ok. Penso di farcela...sì, ciao.»
«Che
succede ancora?» gli domandò immediatamente, quando lo vide
riattaccare.
Justin
scosse la testa, ma dal modo in cui fissava il vuoto era chiaro che
per lui non fosse affatto una buona notizia. «Gary mi ha chiesto di
andare ad un evento stasera. Non ho capito di cosa si tratta. So solo
che passerà a prendermi verso le
otto.»
«Sta
scherzando...spero.» sibilò Jace, incrociando le braccia. «Non gli
sembra di averti schiavizzato abbastanza? È proprio necessario
che tu partecipi ad un’altra
delle sue stronzate?»
Justin
si passò una mano tra i capelli e finalmente riuscì a raccogliere
il pennello da terra. «Senti Jace, non lo so. L’unica
cosa che so è che voglio finire questo.» indicò il quadro non
ancora terminato e si morse le labbra. «Ma soprattutto voglio
tornare a casa...e se questo significa stringere i denti e sgobbare
per ancora un paio di giorni, lo farò.»
«Questo
non è sgobbare.
Questo è portarti allo sfinimento!» esclamò Jace, prenda di un
attacco di rabbia. «E vuoi sapere perché? Perché quello stronzo di
Gary di cui ti fidi tanto, lo fa apposta per non farti tornare
indietro.»
«Non
dire cazzate, Jace. Lo fa solo per la mia carriera.»
«Sì,
certo.» commentò il designer, in tono acido. Era la prima volta che
si sentiva così arrabbiato nei confronti di Justin; anzi, a dirla
tutta, non si era mai davvero arrabbiato con lui da quando lo
conosceva, e questo gli faceva anche più male. «Sai che ti dico?!
Fai un po’
quel che cazzo ti pare! Continua a dargli retta, dipingi fino a
svenire...almeno Natale lo passerai in ospedale invece che a
Pittsburgh!» gli diede un ultimo sguardo, sentendo il proprio cuore
creparsi nel momento in cui si rese conto del dispiacere che riempiva
gli occhi azzurri di Justin e, stringendo i pugni con forza fino a
sbiancare le proprie nocche, raggiunse la porta ed uscì di casa,
incapace di restare ancora a guardarlo distruggersi senza poter far
niente.
Dopo
più di un paio d’ore
trascorse a passeggiare a caso per le vie di New York, Jace decise di
sedersi in una delle panchine di Central Park, affondando il mento
nella sciarpa e le mani nelle tasche.
Sospirò,
giocherellando con i piedi con un sasso, mentre i suoi pensieri
ancora vagavano al primo e unico vero litigio avuto con Justin.
Era
così abbattuto per l’accaduto
che neanche la sua solita cura infallibile – lo shopping sfrenato –
sembrava poter funzionare.
Era passato perfino davanti ai negozi
della 5th
avenue, ma nessun brivido aveva solcato la sua schiena, ed aveva
osservato le vetrine senza il minimo interesse.
Male,
molto
male.
Emise
l’ennesimo
sospiro ed afferrò il cellulare ultramoderno con l’intenzione
di chiamare Justin, così da potersi scusare con lui prima di tornare
a casa, quando questo prese a trillare, mostrando sul display un
numero sconosciuto alla propria rubrica. Jace aggrottò la fronte,
cercando di ricordare se avesse mai visto prima quella sequenza di
numeri ma, non riconoscendola, si decise a rispondere: «Sì?»
«Eri
stato tu a dirmi che potevo chiamarti, ricordi?»
In
un primo momento restò interdetto per il suono di quella voce.
Raramente gli capitava di sentirne una femminile all’altro
capo del telefono. «Daphne?» chiese poi, visibilmente sorpreso, e
quella stessa voce gli confermò le sue supposizioni con una breve
risata cristallina.
«Indovinato.»
rispose poi, prima di tramutare il suo tono in uno scocciato, velato
di esasperazione. «Hai per caso la più pallida idea di dove si sia
cacciato quello che un tempo era il mio migliore amico?»
«Justin?
Dovrebbe essere in casa.»
«No,
non c’è.
Ho provato a chiamarlo quattro volte.»
«Hai
provato al cellulare?»
«Sì,
ma non starei chiamando te se mi avesse risposto.»
«Vero
anche questo.» replicò lui, ridacchiando per la stupidità della
sua domanda. «Senti, Daph...l’ultima
volta che l’ho
visto era in casa...» sentì un suono provenire dal proprio
cellulare e, soffermandosi per controllarlo, si accorse di un’altra
chiamata in attesa. «...ma credo che non ci sia, visto che mi sta
chiamando anche la donna delle pulizie. Come minimo non le ha
lasciato le chiavi. Di nuovo.» le disse in seguito, scuotendo la testa.
«Rispondo a lei e ti richiamo più tardi, ok?»
«Ok!
A dopo!» convenne la ragazza, con la sua inconfondibile voce
trillante. «E se trovi quell’idiota,
picchialo selvaggiamente da parte mia.»
«Sarà
fatto, ciao!» la salutò e premette il tasto per accettare l’altra
chiamata. «Sì?»
«Signor
Wilson!» strillò la donna, con il suo inconfondibile accento
sudamericano.
«Maria,
ma quante volte devo dirti di chiamarmi solo ‘Jace’?»
borbottò lui, senza prestare troppa attenzione alle parole sconnesse
della donna. «E poi che hai da urlare tanto?»
«Il
signor Taylor! Il signor Taylor!»
«Il
signor Taylor, cosa?!» ribatté lui, mentre il sangue iniziava a
gelarglisi nelle vene. Maria era una persona stupenda, un po’
troppo apprensiva forse, e che spesso faceva di una sciocchezza un
vero dramma, ma da quando si conoscevano non l’aveva
mai sentita così
agitata.
«Sta
male. Lui sta male. È a terra e non
muove.» balbettò
lei, faticando a gestire il proprio inglese con il respiro rotto.
«Non si muove.»
A
quelle parole Jace scattò immediatamente in piedi come una molla
e percepì il proprio stomaco attorcigliarsi in una stretta
dolorosa.
«Chiama un’ambulanza
e calmati.» scandì, con un groppo alla gola, rendendosi conto di
quanto quelle parole le avesse pronunciate soprattutto per se stesso
e per quel suo cuore che improvvisamente sembrava essersi bloccato.
«Sto venendo lì.»
*'*'*
“Running
up that hill” – Placebo
Brian varcò la
soglia del loft massaggiandosi la fronte.
Da qualche ora il
mal di testa non gli dava più tregua ed era uscito dalla Kinnetik
prima del solito, per raggiungere immediatamente casa e provare a
rilassarsi con una dormita.
Dal momento in cui
Justin aveva fatto ritorno a New York, il sonno non era più arrivato
tranquillo, e riusciva a mettere in fila a malapena tre o quattro
ore senza stupidi incubi a torturarlo.
Con uno sbuffò
lanciò la ventiquattr’ore
sul divano, per poi abbandonarvici anche la costosa giacca. Si tolse
le scarpe, abbandonandole in mezzo al loft e si gettò sul letto, per
poi sistemarsi supino e prendere a stropicciarsi le palpebre con
l’indice ed il
pollice, sperando di riuscire ad assopirsi. Respirò a fondo e fece
per alzarsi e prendere una delle sigarette, quando qualcosa lo
sorprese infrangendosi a terra con un rumore secco.
Brian aggrottò la
fronte infastidito, finché quel fastidio si tramutò in una strana
ed inspiegabile angoscia, nel momento in cui riconobbe l’oggetto
a terra.
Poggiato dalla
parte del vetro – ormai frantumato – verso il pavimento, stava
uno dei quadri di Justin; anzi...il quadro di Justin.
Non aveva bisogno
di voltarlo per sapere che quello era il primo quadro che gli aveva
dedicato: quello che lo ritraeva nudo nel letto del loft, quando
ancora la sua tecnica non era quella perfetta; quando ancora poteva
disegnare per ore ed ore senza dover fare i conti con il dolore alla
mano; quando ancora era poco più di un ragazzino innocente, eppure
anche così naturalmente bravo nel sesso, tanto da inebriarlo fin
dalla loro prima volta.
Si
sedette sul bordo del letto ed allungo una mano per afferrarlo,
lasciando cadere altri frammenti di vetro. Lo voltò verso di sé e
sfiorò quella figura delineata a lapis con il pollice. «Justin.»
sussurrò con filo di voce, mentre una sensazione fredda gli si
insinuava dentro.
Gli
aveva parlato pochi giorni prima ed era certo che stesse bene.
Doveva
essere per forza così.
E
allora perché quell’improvviso
brutto presentimento?
***
Note finali:
Come vedete sono ancora viva!
Sì, lo so che vi ho fatto aspettare un milione di anni per un capitolo che poi è anche quello che in assoluto mi piace di meno, per ogni tanto sono necessari, anche se rallentano un po'! Spero non vi sarete addormentate a metà. XD
Premetto che manco stavolta sono riuscita a rileggere il capitolo per bene.
Lo farò in seguito, con più calma, ma se voi trovate qualche errore, non esistate a dirmelo che mi fate un favore! XD Sono pigra, lo so!
Non c'è molto da dire, se non che ho tolto molto "britin" per
dare spazio ad altre vicende che comunque non posso lasciare in
sospeso...penso sia chiaro però che dal prossimo capitolo qualcosa cambierà.
Ah, per quello che è successo a Brian nell'ultima parte del
capitolo, be'...io non sono una che crede in cose come il destino o
simili, ma una volta mi è successa una cosa simile. In breve mio
cugino - a cui sono molto legata - ha fatto un incidente in moto, e
più o meno in quel momento una foto di noi due che avevo appesa
al muro è caduta da sola.
Probabilmente sarà stata solo una coincidenza, ma è stato
piuttosto inquietante! A voi è mai capitato?
Coooooooomunque, tralasciando certe cose, mi pare ovvio di dover passare alla cosa più importante: Ringraziamenti!
Un grazie a tutti coloro che sono arrivati alla fine di questo capitolo senza addormentarsi, a chi ha inserito la storia tra le seguite, le preferite o le ricordate, ma soprattutto grazie a: silver girl, mindyxx, electra23, Katie88, SusyJM, Thiliol, klaudia62, FREDDY335, EmmaAlicia79, agrumi e OfeliaCuorDiGhiaccio per aver recensito l'ultimo capitolo.
Grazie davvero!
Mi scuso ancora per l'attesa e prometto di metterci un po' meno con il prossimo.
Un bacio e a presto.
Veronica.
|
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Capitolo 12 *** Together again. ***
12.Together again.
6x12 – Together
again.
New York non gli
era mai piaciuta davvero.
Fin dal primo
giorno in cui vi aveva messo piede, quando era ancora un bimbo di
appena sei anni, tutto quel caos assordante, quelle luci che non si
assopivano mai e la fretta con cui sembravano vivere i suoi
cittadini, l’avevano spaventato.
Non capiva cosa
tutti ci trovassero di tanto eccitante e spesso rimpiangeva il suo
tranquillo paesino sperduto tra le nevi del Montana, nonostante il
fatto che quel posto così caotico gli avesse concesso più
occasioni, conoscenze e gratificazioni di quante se ne sarebbe mai
aspettate.
Gary era cresciuto
nel caos della Grande Mela, ma in tutto quel tempo non si era mai
abituato a viverci, né era mai riuscito a sentirla come casa
propria.
Tante volte aveva
pensato di andarsene, anche se lì era iniziata la sua carriera, e
sempre lì era nata la sua fama come agente. Per anni aveva guardato
l’azzurro del cielo attraverso le ampie vetrate dell’ufficio,
osservando le scie bianche degli aerei e sognando di volare altrove,
fino al giorno in cui una figura sottile, candida e dal sorriso
luminoso, era piombata nella sua vita e l’aveva rischiarata come un
lampo di luce.
Era bello Justin
Taylor; era bello in un modo tutto suo, come mai ne aveva visti
prima. Attirava le persone con quel suo disarmante sorriso che
mozzava il fiato e scaldava il cuore; incantava con una semplice
occhiata di quegli occhi blu chiaro, ma profondi come un abisso,
mentre quei fili dorati e luminosi dei suoi capelli formavano una
cornice perfetta a quella che sarebbe stata la descrizione esatta del
volto di un angelo.
L’aveva
semplicemente stregato e, da quel giorno, New York non gli era parsa
poi più così tanto invivibile. In un modo o nell’altro aveva
imparato ad apprezzarla al fianco di quel ragazzino e a godersi di
più ogni minuto vissuto in quel caos.
Sorrise,
ripensando a quanto la sua vita fosse cambiata dal momento in cui
aveva conosciuto Justin, e fece scorrere la rubrica del cellulare
fino a quel nome, per poi premere il tasto verde ed avviare la
chiamata.
Il classico suono
cadenzato echeggiò per circa un minuto, finché uno acuto arrivò
alle sue orecchie ed annunciò il collegamento alla segreteria
telefonica.
Stranito da quella
mancata risposta tentò una seconda volta, componendo però il numero
del loft, ma neanche in questa occasione ebbe successo. «E adesso
dove si è cacciato?» mormorò allora, aggrottando la fronte e
ripercorrendo la rubrica, stavolta alla ricerca di un altro numero:
quello di Jace.
Di nuovo quel
classico suono, ma in quel caso bastarono pochi squilli per far sì
che una voce lo raggiungesse sorprendendolo per il suo tono
decisamente agitato: «Proprio tu! Che cazzo vuoi?!»
Gary restò
interdetto per qualche secondo. Controllò di non aver sbagliato,
dando una veloce occhiata al display, e disse: «Jace?»
«Chi vuoi che
sia!»
«Ma che ti
prende?» domandò aggrottando la fronte e sforzandosi di mantenersi
calmo. «Stavo cercando Justin comunque. Sai dov’è?»
«Sì.» annunciò
l’altro duramente. «È in ospedale, a causa tua.»
«Che cazzo stai
dicendo?» mormorò, con il fiato reso corto da quella rivelazione.
«Hai capito
bene.» lo sentì sibilare, come se avesse pronunciato le parole a
denti stretti. «Lo sto raggiungendo adesso e ti consiglio caldamente
di stare alla larga. Se solo ti dovessi vedere, potrei non rispondere
di me.»
«Dov’è
ricoverato?» domandò però l’uomo, ignorandolo completamente.
«Hai sentito
quello che ti ho detto?»
«Sì, ma non
m’interessa. Sono il suo agente e...»
«Certo.» lo
interruppe Jace, con tono acido. «Ciao Gary.» lo salutò poi, quasi
con ironia, prima di riattaccargli in faccia senza dargli possibilità
di replica.
*'*'*
“Here nor
there” – Andy Stochansky
Per la prima volta
nella sua vita si sentiva davvero troppo patetico.
Aveva perso il
conto di tutte le volte in cui lo avevano definito “checca
isterica”, o quelle in cui il suo caro amico Brian lo aveva
apostrofato come ridicolo e patetico, appunto; ma per quante
volte sentisse arrivare quelle parole alle orecchie, non gli aveva
mai dato veramente peso.
Stavolta però era
diverso, perché non era una voce esterna ad urlarglielo, ma una
interna che martellava nella sua testa e che proprio non poteva
ignorare.
Non aveva mai
capito come funzionassero tutte quelle stronzate sulla coscienza o
sul subconscio, ma era decisamente certo che il suo doveva essersi
risvegliato da solo, tutto insieme, e lo stava assillando da giorni.
Una vocina
fastidiosa che rimbalzava nella sua mente ogni volta che si trovava a
fissare il cellulare con i suoi occhi azzurri accesi di speranza;
ogni qual volta che quello stesso stramaledetto telefono emetteva il
classico trillo acuto per avvertirlo di una chiamata, ma sul display
non compariva mai il nome che avrebbe voluto.
Patetico.
Emmett si sentiva un coglione patetico che continuava a sperare in
una chiamata da parte di Jace.
Aveva avanzato
mille ipotesi nella testa: sapeva bene che il designer si era preso
un periodo di vacanze per seguire Justin a Pittsburgh, ma si era
ritrovato anche a pensare che non avesse il tempo di chiamarlo perché
si era deciso a rientrare prima a lavoro ed era troppo impegnato. Si
era anche detto che probabilmente doveva sistemare alcune sue
faccende, e che la vita di New York era così caotica da non
lasciarlo respirare; ne aveva immaginate davvero tante, ma nessuna di
queste era stata abbastanza convincente da togliergli l’idea che,
semplicemente, Jace non lo chiamava perché non voleva farlo.
In fondo perché
avrebbe dovuto?
Avevano trascorso
solo una serata al Babylon insieme, perché si erano trovati per puro
caso e perché si erano recati lì da soli. Erano stati bene – o
almeno lui lo era stato davvero – ma non c’era un vero motivo per
cui poi avrebbero dovuto sentirsi ancora, anche se si erano scambiati
i numeri.
Probabilmente
l’invito di Jace a New York per una sessione di shopping era stato
solo un modo carino di dire, ma in realtà non ci pensava proprio a
trascorrere un pomeriggio in sua compagnia; forse quella sera gli era
bastata e anche avanzata.
A quel pensiero
Emmett emise un sospiro e controllò ancora una volta il suo caro
cellulare. Ovviamente, non c’era nessuna chiamata.
«Emmett
Honeycutt, stai diventando incredibilmente patetico.» si disse, con
tono di rimprovero. «Non ti chiama? Chi se ne frega!» fece per
riporlo, quando un’altra idea gli balenò in testa.
Magari Jace stava
pensando la stessa identica cosa.
Neanche lui
lo aveva mai chiamato in tutto quel tempo, quindi poteva credere che
fosse lui a non avere alcun interesse a risentirlo o vederlo.
Arricciò le
labbra indeciso e spostò le dita sui tasti fino a raggiungere quel
numero in rubrica. Un
altro sospiro e premette con decisione il tasto verde, inoltrando la
chiamata.
Uno, due,
tre...anche più di trenta squilli susseguirono, ma non ricevette
alcuna risposta.
Sbuffò
sconsolato tornando ad osservare il piccolo display con uno sguardo
triste, quando qualcuno lo fece sobbalzare pronunciando il suo nome.
«Emmett!» si sentì chiamare da una voce squillante alle sue spalle
e, nel momento in cui si decise a voltarsi con una mano sul petto,
certo di non essere morto d’infarto,
ebbe davvero paura che il suo piccolo cuore non potesse reggere alla
sorpresa.
Di tutte le
persone a cui la sua mente aveva pensato, quella lì davanti a lui,
non era stata neanche calcolata tra le ultime.
E invece era lì;
con i suoi capelli lunghi, di un biondo luminoso, gli occhi celesti e
così chiari come due acquamarine ed un sorriso appena accennato e
decisamente imbarazzato.
«Sierra?»
pronunciò Emmett un po’
turbato e lievemente a disagio. Dopo che Drew aveva fatto il suo
coming out
non l’aveva
più vista e non aveva saputo più niente di lei. In cuor suo si era
sempre sentito un po’
in colpa, soprattutto perché quella donna era stata una delle poche
persone davvero gentili con lui e che non l’aveva
giudicato o disprezzato per il suo essere – così “vistosamente”,
sempre a detta del suo caro amico Brian – gay. Si era sentito un
vero schifo quando gli aveva parlato del suo
Drew e di come fosse il suo eroe, ben sapendo che la stesse tradendo;
e si era sentito anche più in colpa, nonostante sapesse che fosse la
cosa più giusta per tutti, quando finalmente il famoso giocatore di
football si era deciso a rivelare la sua vera identità e a rompere
con lei, insieme a tutti i suoi sogni.
Proprio per questo
motivo, tirare fuori il coraggio per parlare, insieme alla voce,
davanti a quegli occhioni tanto limpidi, fu davvero difficile, ma in
qualche modo si sentiva in dovere di dirle qualcosa. «Come...»
balbettò. «...come stai?»
«Bene.» affermò
lei con convinzione, allargando il suo bel sorriso. «E tu?»
«Un
po’
impegnato ma bene.» le rispose, sollevando uno degli angoli della
bocca.
«Ho saputo che
come organizzatore di eventi hai fatto davvero tanta strada. Infatti
la scorsa settimana ero ad una festa organizzata proprio da te.»
«La festa degli
Smiths?»
«Esatto.»
confermò lei. «Julia è una mia cara amica e devo dire che è stata
molto entusiasta di quello che hai fatto...e pensare che è anche una
dai gusti piuttosto difficili!»
«Oh,
non dirglielo, ma l’ho
notato.» si portò una mano alla bocca come se stesse per rivelarle
un segreto di importanza mondiale e bisbigliò: «Avrà cambiato idea
sulle composizioni per almeno venti volte, per non parlare poi dei
colori tema che voleva usare. Roba passata di moda da anni!»
Sierra
scoppiò a ridere ed Emmett sentì il cuore alleggerirsi un po’.
«Hai ragione!» convenne la donna. «Julia è incontentabile e ogni
tanto ha delle idee discutibili! Le voglio davvero bene, ma credo che
abbia fatto proprio bene a rivolgersi a te per organizzare il suo
party! Pensavo di trovarti lì però, ma non c’eri.»
«Oh
no, avevo un rinfresco per un matrimonio di cui occuparmi.» rispose
di getto, ma se ne pentì quando rifletté sulle parole appena
pronunciate. Doveva occuparsi anche del matrimonio di Drew e Sierra,
ma non era mai avvenuto perché lui non se l’era
sentita di aiutarla e perché poco dopo la loro storia era finita.
«Ho lasciato una mia fidata collaboratrice a controllare che tutto
procedesse per il meglio.» si affrettò ad aggiungere, ma quando
finalmente trovò il coraggio di guardarla negli occhi, non trovò
traccia di rancore.
«Sta’
tranquillo, Emmett.» disse infatti, come se gli avesse appena letto
la mente. «È tutto ok. Non ce l’ho
con te...non sono arrabbiata nemmeno con Drew.»
«Sierra, ti giuro
che mi dispiace davvero tanto. Non avevo il diritto di rovinare...»
«Non hai rovinato
niente, piuttosto hai portato alla luce la verità. La vera rovina
sarebbe stata se io e lui ci fossimo davvero sposati. Sarebbe stata
una bugia.»
«Ma tu lo
amavi...» mormorò lui allora, con un filo di voce.
Sierra annuì.
«Sì, è vero...ma amavo qualcuno che non mi amava come credevo.
Drew mi voleva davvero bene, questo lo so...ma non poteva amarmi
davvero. Ero qualcosa come una cara sorella per lui, non la persona
da amare.»
«L’hai
più rivisto?»
«Non
nell’ultimo
periodo. Sai...lui non frequenta più le nostre vecchie amicizie e, a
dire il vero, molte di queste ho scoperto essere totalmente false e
di convenienza, nel momento in cui ci siamo lasciati.»
«Mi dispiace.»
ripeté mesto Emmett e lei gli sorrise.
«A me no, per
questo. Almeno ho capito da chi ero circondata. Credo di sapere di
chi mi posso fidare adesso.» gli posò una mano sul braccio e si
sporse appena per guardarlo dritto negli occhi. «Emmett, stai
tranquillo. Io sto bene, davvero.»
Lui
abbozzò un sorriso. «L’importante
è questo.»
«Tu
l’hai
rivisto?»
«A parte che
sulle riviste, in tv o sui cartelloni pubblicitari?» commentò con
tono ironico. «Togliendo quelli, no. Non ci siamo più sentiti né
rivisti.»
«Pensavo
foste rimasti in contatto visto che...» sollevò le sopracciglia ed
arricciò le labbra con una lieve punta di disagio. «...insomma,
l’ha
fatto anche per te. Credo che Drew ti amasse.»
«No,
non credo.» negò in risposta Emmett, con un sorriso amaro. «Lui
era nuovo nel nostro gaio
mondo. Penso mi
volesse bene, ma non credo mi amasse davvero. Era come un
diciassettenne...un bambino in un parco giochi. Drew non mi poteva
amare, doveva fare le sue...esperienze.»
«Capisco.» annuì
lei. «Ma non ti piacerebbe rivederlo?»
«Non lo so.»
rispose sinceramente, con una scrollata di spalle. «Penso di sì.»
Sierra
restò un po’
in silenzio; sembrava intenta a pensare qualcosa, poi gli disse:
«Senti Emmett, hai impegni per capodanno?»
«Ah...»
borbottò lui, colto di sorpresa. «Dovrei vedere l’agenda
ma...in che senso?»
«Un’altra
mia amica era alla ricerca di un organizzatore di eventi per la sua
festa. Julia ovviamente aveva pensato di darle il tuo numero, ma
quando ha chiamato ci hanno detto che eri pieno d’impegni
fino ai capelli.» gli sorrise apertamente e si lasciò andare ad una
breve risata. «So che approfittare della tua conoscenza per
scavalcare altri clienti non è carino ma, mi chiedevo se potessi
trovare un po’
di tempo per noi e se potessi anche presenziare alla festa.»
Emmett
osservò con attenzione quegli occhi chiari, così ricchi di speranza
proprio come li ricordava. Avevano la stessa luminosità di quando
gli aveva parlato del suo matrimonio e proprio per questo motivo una
lieve fitta lo colpì al petto. Era inutile dire quanto si sentisse
in debito e in colpa con lei. «Be’...»
iniziò allora e prese il proprio palmare dalla tracolla. «...posso
vedere di spostare qualcosa e...» premette con la pennina sullo
schermo e concluse: «Posso essere da te in questa settimana per
parlare dei primi accorgimenti. Che ne dici di...dopodomani?»
«Sarebbe
perfetto!» esclamò lei, prendendogli le mani nelle sue. «Ti
ringrazio, Em! Ci stai salvando la vita!»
«Ti
prometto che sarà il party più favoloso
che Pittsburgh abbia mai visto e, già che ci sei...perché non
estendi l’invito
a tutte quelle arpie che ti hanno voltato le spalle? Le faremo verdi
d’invidia!»
Sierra
scoppiò a ridere. «Ecco, non saprei. Tu credi che sarà la cosa
giusta visto che...be’,
ci sarà anche Drew.»
«Drew?!» chiese
Emmett, quasi strozzandosi con la sua stessa saliva.
«Sì, è per
questo che ti ho chiesto di presenziare anche al party.»
«Perché lo fai?»
le chiese dopo qualche secondo trascorso ad osservarla. «Perché
stai facendo questo per me...dopo che io...»
«Non
lo so.» replicò lei e a lui parve una risposta sincera. «Io voglio
ancora bene a Drew, davvero...e ecco...tu sei sempre stato così
gentile con me. So che hai anche rifiutato la mia offerta perché non
volevi proseguire con quella farsa. Drew mi ha detto che hai chiuso
con lui dopo e io...sì insomma, l’ho
apprezzato. Soprattutto quando ho visto quante persone mi hanno
voltato le spalle. E allora ho pensato che...»
«Hai pensato che
avrei voluto rivederlo?»
«Qualcosa
del genere, sì.» ammise con un po’
d’imbarazzo.
Emmett prese un
respirò più profondo e le sorrise.
Non
sapeva se era davvero pronto a rivedere Drew, visto che dopo
quell’ultima
loro chiacchierata non l’aveva
più incontrato, se non su qualche immagine o su uno schermo. Non
sapeva se era il momento per farlo, visto il modo in cui già si
sentiva scombussolato per via di Jace, ma era certo che non poteva
rimangiarsi la parola data e rinunciare al lavoro. «Organizzerò il
party.» le disse quindi. «Ma non assicuro la mia presenza per la
festa. Ci penserò su.»
«Ok.»
convenne lei comprensiva e gli regalò l’ennesimo
sorriso. «Grazie comunque Emmett. Adesso devo proprio andare, ma mi
ha fatto davvero piacere incontrarti.»
«Anche a me.»
replicò sincero. «A dopodomani, allora.»
Sierra annuì
entusiasta e lo salutò con un cenno della mano, prima di andarsene.
Emmett la seguì
con lo sguardo, incapace di non pensare a quanta forza dovesse
nascondersi in quello scricciolo biondo che era stata capace di
incassare il colpo basso ricevuto con dignità e maturità, mentre le
sue aspettative venivano infrante sotto il peso di una grande bugia.
Si
ritrovò ad invidiarla un po’
per tutta quella energia e, gettando ancora un altro sguardo al
display sul cellulare, si decise a riporlo nella borsa e a smetterla
con le sue congetture mentali.
Per quanto facesse
male, i veri problemi erano altri e lui ne aveva affrontati tanti.
Una chiamata non
ricevuta non era la fine del mondo.
*'*'*
Terrorizzato.
Completamente terrorizzato.
Dal momento in cui
aveva concluso la telefonata con Maria, il terrore puro si era
impadronito di lui e a malapena era stato in grado di alzare la mano
per chiamare un taxi e indicargli la via da raggiungere.
Per tutto il
tragitto che lo separava dal palazzo in cui vivevano sia lui che
Justin, Jace aveva avuto il cuore incastrato a metà gola, e quasi si
era sentito morire nel momento in cui, una volta raggiunta la
destinazione, la stessa Maria gli aveva detto che il 911 era già
arrivato a soccorrere Justin e l’aveva trasportato fino
all’ospedale più vicino.
Gli sembrava di
rivivere un vecchio incubo che mai l’aveva abbandonato davvero. Si
sentiva catapultato anni addietro, quando al centro di ogni suo
pensiero, ad alimentare le sue paure, c’era la sorte del suo
fratellino.
Anche in
quell’occasione temeva che il cuore potesse scoppiargli da un
momento all’altro, ed anche allora non appena era riuscito a
raggiungere l’ospedale, si era gettato in una corsa folle
attraverso quei corridoi bianchi, come una trottola impazzita,
badando appena alle persone che lo circondavano e che rischiava di
travolgere, fino a che non era riuscito a trovare qualcuno in grado
di dargli un attimo di pace e qualche notizia.
Dal poco che era
riuscito a sentir trapelare dalle persone che lo avevano scortato
fino all’ospedale, Justin, qualunque cosa avesse avuto, non
sembrava essere in serio pericolo, eppure nonostante quello, proprio
non riusciva a calmarsi e a darsi pace.
Diede una fugace
occhiata all’entrata sotto di lui, attraverso le ampie vetrate, e
si rese conto di come i paparazzi e giornalisti avessero già
iniziato ad appostarsi lì davanti in attesa di qualche scoop. Era
più che certo che, nel giro di qualche ora, sarebbe diventata una
situazione invivibile.
Justin era una
stella in ascesa; aveva incuriosito migliaia di persone con la sua
arte ed aveva attirato anche di più l’attenzione su di sé proprio
per il suo essere così schivo ed impenetrabile.
Nessuno conosceva
Justin Taylor come persona. Nessun giornalista era stato in grado di
strappare informazioni personali a quel brillante genio che sembrava
essere apparso dal nulla tra i grattacieli della Grande Mela; come
per magia.
Sapevano che era
nativo di Pittsburgh e, ovviamente, non aveva mai nascosto la sua
omosessualità, proprio perché ne andava orgoglioso. Aveva
confessato di aver frequentato l’istituto delle belle arti della
sua città e qualche piccola informazione era saltata fuori circa un
– non meglio specificato – “incidente” avuto anni prima.
Ma erano tutte
informazioni di poco conto, o inutili frammenti che non portavano da
nessuna parte; una biografia totalmente scarna, come se tutto il suo
passato, Justin l’avesse abbondantemente avvolto e nascosto con
cura dietro un alone di spessa riservatezza.
C’era chi
addirittura considerava la sua identità fittizia, che neanche il suo
nome fosse reale. Tutti erano attratti da quel ragazzino bello come
un angelo, ma schivo ed inafferrabile come l’aria.
Justin parlava di
sé solo con i suoi quadri; si faceva conoscere solo con l’arte.
Era come se la sua
sola identità fosse solo quella d’artista e che non avesse fatto
altro per tutta la vita; come se non avesse un passato.
Tutto questo
mistero lo rendeva ancora più interessante e giornalisti e
paparazzi, invece di arrendersi davanti a quel muro bianco che
trovavano sempre sulla loro strada, non facevano altro che fomentarsi
maggiormente, spinti soprattutto dalla gente comune e dai critici
d’arte, il cui interesse sembrava allargarsi a macchia d’olio con
una velocità impressionante.
Ovunque andasse
era un successo, ma era sempre anche un buco nell’acqua per quanto
si trattava del saperne di più su di lui. Sembrava che la fama non
stesse scalfendo neanche un po’ la facciata dietro cui nascondeva
la sua persona; e Jace era più che certo che non ci sarebbero mai
riusciti, se solo questo incidente non si fosse verificato.
Si era aperta una
piccola falla su quel muro candido, ed era ovvio che nessuno si
sarebbe mai lasciato sfuggire lo scoop del momento.
Con uno sbuffo
preoccupato, Jace afferrò il cellulare. Fece per premere un tasto,
quando si accorse della chiamata persa che neanche aveva sentito.
Nel vedere il nome
di Emmett, l’agitazione scemò per un breve istante concedendo alle
sue labbra di distendersi in un breve sorriso, prima che la realtà
tornasse a colpirlo e a ricordargli che non poteva perdere tempo.
Raggiunse la
rubrica, ripromettendosi di richiamarlo più tardi, e scorse veloce
al numero di Jennifer. Pochissimi squilli e riuscì a sentire la sua
voce. «Pronto?»
«Jen.» la chiamò
senza salutarla, cercando di non farsi riprendere dall’agitazione.
«Dovresti venire subito a New York?»
«A New York?»
gli fece eco lei, confusa.
«Sì, il prima
possibile. Si tratta di Justin.»
*'*'*
Quel giorno in
ufficio sembrava proprio non voler passare.
Non mancava che
qualche minuto all’orario in cui tutti i suoi dipendenti se ne
sarebbero tornati a casa, ed il lavoro da sbrigare sembrava
accumularsi sempre di più.
Chissà, forse era
davvero giunto il momento di assumere altro personale, ma in quel
momento era davvero l’ultimo dei suoi pensieri.
La mente di Brian
già vagava all’attimo in cui avrebbe riaperto la porta del suo
loft e l’avrebbe trovato ancora una volta vuoto e freddo,
esattamente come l’aveva lasciato quella stessa mattina, dopo
essersi svegliato di soprassalto da un sogno con Justin, che l’aveva
reso intrattabile per il resto della giornata.
Prese a
giocherellare con il tagliacarta, battendone la punta sulla
scrivania, con un ritmo che neanche lui conosceva finché, stanco
anche di quello e senza alcuna voglia né intenzione di restarsene lì
ad ammuffire ancora, si alzò dalla sedia con un gesto secco e carico
di frustrazione ed afferrò il proprio costoso cappotto nero.
Si sistemò la
sciarpa al collo ed infilò le ultime cose nella ventiquattrore,
insieme a qualche fascicolo che si ripromise di controllare a casa
per impiegare il tempo, accompagnato da un bicchiere di Jim Beam,
quando la porta in vetro del proprio ufficio venne aperta senza alcun
avvertimento.
Solo Cynthia o Ted
si azzardavano ad entrare senza bussare – e non pensare che un
tempo lo aveva fatto anche Justin, fu impossibile quanto doloroso –
perciò non si voltò neanche, aspettando di sentire una delle loro
voci.
Quella che però
giunse alle sue orecchie, non apparteneva a nessuno di loro due:
«Ehi...disturbo?»
Brian si voltò
interdetto, certo di conoscere fin troppo bene quel tono, ma anche
incredulo dal saperlo lì. «Ciao Blake.» pronunciò in seguito,
quando le sue ipotesi si rivelarono esatte, per quanto assurde.
«Ciao Brian.»
replicò l’altro,
passandosi una mano sui corti capelli biondi, per poi accennare ad un
sorriso. «Cercavo Teddy.»
«Be’...Teddy
non c’è in questo
momento.» rispose lui con tono secco, chiudendo la propria
valigetta. Il fatto di essere così sorpreso da quella visita, non
era certo servito a cancellare il fastidio ed il senso di
frustrazione per il sogno su Justin, né per l’avere
davanti la presenza di Blake. In fondo non l’aveva
mai nascosto che quel tipo non gli era mai andato troppo a genio,
nonostante il fatto che, alla fine dei conti, si era sempre tenuto da
parte nel momento in cui Ted aveva deciso di tenerlo nella sua vita.
«Posso lasciargli un messaggio da parte tua, o magari mi fai il
grosso favore di andartene e non presentare più la tua faccia qui?»
Gli occhi azzurri
di Blake si accesero di vera sorpresa. «Cosa? Io...ecco, non credo
di aver capito.»
«Ti prego. Non
fare l’ingenuo con
me.» sbuffò Brian scocciato, dopo aver sollevato gli occhi verso il
soffitto. «Sai Blake, ti preferivo di più quando ti
drogavi...almeno non eri tanto ipocrita da mettere su quella faccia
da agnellino piccolo e innocente. O forse era il tuo cervello ad
essere talmente andato da non permetterti di farlo.»
«Continuo a non
capire.»
Il bel
pubblicitario piegò le labbra all’interno
della bocca e sollevò le sopracciglia, prima di rivolgergli uno dei
suoi sorrisi storti e ironici. «Ok, allora te lo spiegherò con
paroline molto semplici.» spinse la lingua verso la guancia ed
aggiunse: «Non mi sei mai piaciuto, né quando eri un povero
drogatello, né adesso che ti spacci per consulente contro le
dipendenze.»
«Io non mi
spaccio per...»
«Ma non è un mio
problema.» lo interruppe, tornando serio e scrollando le spalle.
«Alla fine non sono io che ti scopo, ma Ted...il che significa che
la scelta è la sua.»
Blake aggrottò la
fronte, sempre più confuso da quelle parole. «Infatti, quindi non
capisco dove sta il problema.»
«Il problema,
caro Blake...sta nel fatto che questa è già la quarta volta
che gli fai del male e non ti preoccupi minimamente di prenderlo a
bastonate.» snocciolò con noncuranza, allargando le braccia.
«Purtroppo per lui, Theodore è un coglione e ti ha perdonato
sempre...ed io l’ho
sempre lasciato fare. La vita è la sua, il cuore anche e se gli
piace vederlo sbriciolato non mi riguarda affatto.»
«Quindi?»
«Quindi, se sei
qui per implorare il suo perdono e ricominciare per l’ennesima
volta...prego, fa’
pure. Ted tornerà tra poco dalla banca.»
«Bene...»
«Non ho finito.»
lo interruppe ancora. «Fa’
pure, per l’ultima
volta.»
«Come?» domandò
l’altro, con
un’espressione
stranita.
«Hai capito
benissimo.» ribatté Brian. Non l’avrebbe
mai ammesso, ma da quando Ted aveva confessato loro di come erano
andate le cose con Blake, quell’ex
tossico gli era piaciuto sempre meno. «Questa è l’ultima
volta che farò finta di niente...se mai dovesse succedere ancora, se
non sarà lui stesso a farlo, sarò io a prenderti a calci in culo e
a spedirti il più lontano possibile da qui. Sono stato abbastanza
chiaro?» lo fissò negli occhi con durezza ed un cipiglio di puro
disprezzo andò a segnargli la fronte. «Per quanto sia idiota, è
un’idiota che non si
merita di soffrire, anche se spesso e molto volentieri avrei voglia
di prenderlo a schiaffi per quanto è imbranato o per quanto si rende
ridicolo.»
«È
il tuo modo di dirmi che gli vuoi bene e che non vuoi che nessuno lo
ferisca?» gli chiese l’altro,
ancora un po’ interdetto, ma con un sorriso che spingeva sulle sue
labbra per nascere.
Brian roteò gli
occhi. «È il mio modo
per dirti quello che penso di te, e che se mai ci dovesse essere
un’altra situazione
simile non perderò l’occasione
di rispedirti da dove sei venuto.»
«Io amo Teddy.»
«Lo vedo...»
commentò caustico il pubblicitario, sollevando le sopracciglia.
«È
stato solo un momento d’insicurezza
e paura...ma sono pentito. Non avrei mai voluto farlo soffrire ancora
e adesso sono certo di quello che voglio e di quale sarà la mia
risposta.»
Brian scosse la
testa e si lasciò sfuggire una breve risata ilare. «Purtroppo per
me, so già che il caro Theodore ti riaccoglierà a braccia aperte.»
si leccò le labbra e tornò a fissarlo. «Come ti ho detto, l’essere
un perfetto idiota è parte integrante di lui...quindi sei avvertito
Blake, questa è l’ultima
volta che ti lascio fare.»
«Ok.» annuì il
consulente debolmente, ma con uno strano senso di gratitudine che gli
dilagava dentro. Per quanto Brian Kinney fosse rinomato per essere un
terribile stronzo era ovvio che dovesse tenere davvero molto ai pochi
che avevano il privilegio di essere considerati suoi veri amici.
«Devi volergli proprio bene. Ted sarebbe felice di saperlo.»
«Theodore non
verrà mai a saperlo...anche perché non c’entra
proprio niente con quello che dici tu.» ribatté immediatamente,
come se fosse stato punto sul vivo. Oltre ad essere un terribile
stronzo, era anche rinomato per il suo orgoglio e l’ego
mastodontico. Era ovvio che non avrebbe ammesso una cosa del genere
neanche sotto tortura...considerando poi che, per confessare al suo
Justin di amarlo, c’era
voluta addirittura una bomba. «Nonostante tutte le sue infinite
stronzate è un ottimo contabile e il suo cervello mi serve integro e
funzionante. Non me ne faccio niente di una povera checca depressa
per amore.» portò ancora una volta le sue labbra a piegarsi dentro
la bocca e scrollò le spalle. «Tutto qui. Se rappresenti un
pericolo per la Kinnetik, devo provvedere a toglierti di mezzo.»
«Certo...per la
Kinnetik.» annuì Blake, senza credere ad una parola. Quella scusa
che aveva messo su su due piedi faceva acqua da tutte le parti. Ormai
anche lui aveva imparato a conoscerlo un po’.
«Vado ad aspettare Ted.» gli disse poi e, prima di uscire, si voltò
ancora verso di lui. «Ah Brian...grazie.»
«Non capisco per
cosa e neanche m’interessa,
ma prego.»
*'*'*
Se c’era un
motivo per cui Cynthia non aveva mai desiderato figli, contrariamente
alla maggior parte delle donne del mondo, era proprio perché non
aveva la più pallida idea di come gestirne uno, specie quando questi
si trasformavano in degli adolescenti esagitati che scorrazzavano a
destra e a manca come uragani in preda alla pazzia.
Non capiva quel
loro continuo urlare come squilibrati e non riusciva neanche a
spiegarsi perché una ragazzina di circa quindici anni, con i capelli
rossi come il fuoco ed un paio di occhi blu chiaro che le erano –
per qualche assurdo motivo – fin troppo familiari, se ne stava
davanti a lei a gesticolare come se fosse preda di qualche demonio e
le chiedeva di vedere Brian.
Brian Kinney,
il suo acidissimo ed intrattabile capo che in quel preciso momento
sembrava una donna nel bel mezzo del suo ciclo mestruale.
Si era mantenuta a
debita distanza dal suo ufficio per quasi tutto il giorno, se non per
casi speciali in cui era stata costretta a raggiungerlo, con il
terrore che la scaraventasse fuori da una delle finestre; e adesso
non aveva alcuna intenzione di rischiare ancora, soprattutto per dar
ascolto alle richieste di una ragazzina che era certa di non aver mai
visto prima, anche se la sensazione che somigliasse a qualcuno
d’importante la stava assillando.
«Devo vedere
Brian!» strillò ancora questa, lasciandola basita per la sua
energia. «È una cosa importantissima!»
«Tesoro.» tentò
nuovamente lei, cercando di salvarla dalla sorte terribile che le si
sarebbe sicuramente abbattuta addosso se solo avesse tentato di
varcare quella soglia. «Il signor Kinney è molto impegnato in
questo momento e non può essere proprio disturbato.»
«Ma io lo conosco
bene! Devo vederlo e devo parlargli!»
«Se lo conosci
tanto bene, perché non l’hai chiamato direttamente?» indagò, con
il suo solito fare da pettegola impicciona.
«L’avrei fatto,
se solo rispondesse al suo dannatissimo telefono! È stata mamma a
farmi venire qui!»
Nel sentire la
parola “mamma” Cynthia si autoconvinse che la ragazzina dovesse
essere una dei pargoli di qualche parente che Brian ovviamente
detestava, perciò s’impuntò maggiormente sulle sue ragioni,
sperando di evitare una Terza Guerra Mondiale. «Mi dispiace ma
non...» non fece però in tempo a terminare la frase, che l’arrivo
di Ted con la sua faccia sorpresa, le impedì di proseguire.
«Molly?!» la
chiamò e la ragazza dai capelli fulvi si voltò immediatamente verso
di lui. Se perfino Theodore la conosceva, allora non doveva
appartenere alla “prole di Satana”.
«Teddy! Meno male
che sei qui!» esclamò lei, andandogli incontro. «Devo parlare
subito con Brian. Si tratta di Justin!»
«Justin?» gli
fece eco Cynthia, con un’espressione in faccia come quella di chi
ha appena visto un fantasma.
«Cynthia...» la
chiamò Theodore con un sospiro esasperato, già consapevole di ciò
che aveva combinato la sua amata collega. Brian l’avrebbe sbranata
nel giro di un secondo. «Questa è Molly, la sorellina di Justin.»
«Oh cazzo.» fu
il commento di lei, soprattutto quando quella ragazzina le sorrise e
le mostrò un sorriso gemello di quello del fratello.
«Te l’avevo
detto che lo conoscevo bene!»
«Potevi dirmi
subito di essere la sorella di quell’angelo!» piagnucolò la
donna. «La mia fine è vicina!» aggiunse poi con fare
melodrammatico, nel momento in cui si ritrovò a pensare a quello che
le avrebbe fatto Brian se avesse scoperto che aveva impedito alla
sorella del suo grande amore di vederlo.
«Puoi giurarci.»
borbottò Ted e fece finta di non vedere l’occhiataccia che gli
lanciò la collega subito dopo, mentre accompagnavano Molly fino
all’ufficio di Brian.
Cynthia allungò
una mano per afferrare la maniglia, quando questa venne aperta
dall’altra parte, mostrando un Brian già impeccabilmente pronto
per uscire.
«Ma che cazzo...»
imprecò il pubblicitario nel trovarsi i tre davanti, finché i suoi
occhi elaborarono un’immagine precisa e il suo cervello riconobbe
Molly in quella bella cascata di capelli rossi. «E tu che diavolo ci
fai qui?!» esclamò aggrottando la fronte. «Non ho proprio il tempo
di giocare con te. Tornatene a casa, prima che alla tua cara mammina
venga un infarto!»
«Razza di
buzzurro! Hai idea della fatica che ho durato per venire fin qui?!»
strillò in risposta lei e Cynthia non poté fare a meno di
strabuzzare i suoi occhi azzurri nel sentir pronunciare la parola
“buzzurro”.
Buzzurro
a Brian.
La ragazzina aveva
un gran fegato e a quel punto non c’erano più dubbi: era una
caratteristica intrinseca nel gene dei Taylor.
Brian assottigliò
lo sguardo e restò a fissarla con quella sua classica aria che in
genere non prometteva niente di buono. Spinse la lingua all’interno
della guancia e sollevò le sopracciglia. «Bene.» commentò
asciutto. «E adesso prenditi l’energia che ti resta e va’ a
casa.»
«Sai una cosa? Ti
facevo più sveglio da quel che mi avevano detto di te!» ribatté
lei con sicurezza. «Forse la vecchiaia ti sta facendo perdere
colpi.»
«Attenta Molly.»
la ammonì Ted, tentando di tamponare i danni. «Stai rischiando
grosso...»
La ragazzina però
sembrò non prestargli il minimo ascolto e proseguì imperterrita
«Secondo te perché sarei qui?»
«Non so.»
scrollò le spalle Brian. «Forse per lo stesso motivo per cui mi hai
invaso casa nell’ultimo periodo? Perché sei una zecca molto
fastidiosa?»
«No!» strillò
Molly, isterica. «È per Justin, deficiente!»
L’uomo restò in
silenzio per qualche secondo a scrutarla con attenzione. A dire il
vero, era comunque sempre Justin il motivo per cui se l’era
ritrovata più volte a girovagare nel loft – o meglio, per la
mancanza che la piccola Taylor aveva di lui – quindi non capiva
cosa ci fosse di diverso in quell’occasione; eppure, nonostante
l’ormai familiare espressione da schiaffi che quella ragazzina
insolente metteva su durante una delle loro discussioni, in quegli
occhi blu – fin troppo simili a quelli di quello che era stato un
altro ragazzino insolente nella sua vita – si nascondeva
qualcosa. «Che cazzo significa?» domandò allora e lei sembrò
calmarsi, prima che quegli stessi occhi si inumidissero di lacrime.
«Ha chiamato Jace
da New York.» mormorò con un groppo alla gola. «Justin si è
sentito male. L’hanno ricoverato. Io...io non so cos’è successo.
Non ho capito.» si soffermò ancora e riuscì a leggere chiaramente
in quegli occhi color verde petrolio il terrore vero. «Sapevo solo
di dover avvertire te.» concluse poi e, senza pensarci su, si
aggrappò con una mano ad i lembi del costoso cappotto, alla ricerca
di un appiglio e di conforto.
Intanto Brian non
aveva mosso un solo muscolo e sembrava aver smesso anche di
respirare. Continuava a fissare Molly con gli occhi sbarrati e le
labbra schiuse. Lo sguardo era duro, ma anche carico di paura e, dal
momento in cui aveva udito quelle parole, il suo corpo si era
rifiutato di rispondere ai suoi comandi.
Justin si è
sentito male. L’hanno
ricoverato.
Nella
sua testa non c’era
altro che il pensiero di Justin, più doloroso, martellante e forte
di sempre. Aggressivo, quasi soffocante, e lo avvolgeva in una morsa
alla gola.
Justin
– il suo Justin –
stava male e lui non era lì.
«Molly.» la
chiamò Ted, cercando di capire di più. «Cos’è che ha detto
Jace? Cosa ha detto precisamente?»
«Io non lo so.»
piagnucolò lei, lasciandosi riprendere nuovamente dal panico. «Ha
parlato con mamma e le ha detto di andare a New York. Io sono corsa
qui!» lanciò un’occhiata a Brian ed aggiunse: «Dovevo dirtelo!
Anche la mamma ha pensato...»
«Cynthia.»
mormorò il pubblicitario interrompendo la ragazzina, riscossosi
dallo stato catatonico in cui era caduto. Fece per dire altro, ma non
ne ebbe il bisogno.
«Prenoto
immediatamente un jet privato.» lo anticipò la donna, digitando
qualcosa sul suo palmare.
Brian annuì.
«Theodore.» chiamò poi, e il contabile accennò ad un sorriso.
«Ci pensiamo noi
qui. Se c’è qualcosa ti chiamerò immediatamente. Tu vai.»
L’altro annuì
ancora una volta ed attardò lo sguardo sull’amico, come per
volergli rivolgere un muto ma sincero ringraziamento. «Chiama tua
madre.» comunicò poi con fare telegrafico a Molly. «Dille che tra
meno di venti minuti siamo sotto casa a prenderla.»
Lei fece un cenno
di affermazione e compose il numero di Jennifer per avvertirla,
mentre Cynthia, contrariamente, ripose il palmare nella tasca del bel
tailleur e si riavvicinò al proprio capo. «Ti sta già aspettando
un’auto qui fuori per portarti fino all’aeroporto. Il jet sarà
pronto per quando sarete lì.»
«Ottimo.»
replicò lui, per poi afferrare Molly per un braccio e trascinarla
all’uscita. Poco prima di varcare la soglia però, si fermò e si
voltò appena verso i propri fidati collaboratori. «Grazie.»
annunciò, sorprendendoli per poi spostare l’attenzione su Ted.
«Ah, Theodore. Nel tuo ufficio c’è Blake che ti aspetta. Non fare
cazzate.»
Il contabile restò
ad osservarlo sbalordito per quell’ennesima frase, mentre usciva
con passo deciso dalla Kinnetik; un po’ per il nome che aveva
sentito, ma anche – o meglio, soprattutto – per quell’ultima
parte.
Non fare
cazzate; gli aveva detto.
E Ted sapeva
benissimo che quello era un altro dei discutibili e strani modi di
Brian Kinney per incoraggiarlo e fargli capire che, comunque, sarebbe
stato dalla sua parte.
*'*'*
Blake girovagava
da minuti nell’ufficio di Ted, muovendo gli occhi per quelle mura e
avvicinandosi a ciò che lo attirava per osservarlo meglio.
Era la prima volta
che vi entrava da solo e nelle altre occasioni in cui era passato a
trovarlo, non aveva mai prestato davvero attenzione ai suoi oggetti.
Eppure si
compiacque di vedere quanto anche nelle piccole cose e nel suo ordine
il contabile sapesse parlare di sé e del suo modo di essere. Gli
piaceva vedere una copia della loro adorata Traviata presente anche
lì, sull’elegante scrivania di legno scuro, perfettamente pulita;
tre semplici cornici posizionate a formare un piccolo ed astratto
triangolo su un lato, dove erano immortalati la sua famiglia, i suoi
più cari amici e lui stesso...l’uomo che Ted amava e che avrebbe
desiderato sposare, se solo non fosse stato tanto sciocco e codardo.
Sospirò
sommessamente e sfiorò con le dita la morbida poltrona scura su cui
Ted trascorreva chino intere giornate, brillando nel proprio lavoro e
compiacendosene, pur lamentandosi puntualmente di quel capo tanto
competente quanto arrogante e fascinoso.
Sorrise appena,
ripensando ai tanti piccoli momenti in cui avevano riso insieme delle
varie disavventure a cui doveva sottoporsi da quando lavorava per la
famosa e prestigiosa Kinnetik, ed una piccola fitta di nostalgia andò
a colpirgli il cuore.
Era stato uno
stupido. Aveva una vita perfetta, una relazione felice...e invece di
provare a renderla più salda e accrescerla facendo un passo avanti,
si era tirato indietro e l’aveva rovinata, ferendo anche l’uomo
di cui era innamorato da anni.
Si maledisse
ancora e ancora, e quasi si spaventò per la sorpresa di sentir
aprire la porta, troppo immerso nei suoi pensieri per accorgersi che
Ted era già arrivato. Lo fissò in silenzio per qualche secondo ed
abbozzò un sorriso. «Ciao.» lo salutò.
«Ciao.» rispose
l’altro, senza troppo entusiasmo, richiudendosi alle spalle la
porta in vetro. «Brian mi ha detto che mi cercavi.»
«Sì, infatti.»
confermò, ripensando alla precedente conversazione con il padrone
della Kinnetik. «Sai, non è poi così male anche sul lavoro...forse
un po’ più brusco del solito, ma...»
«Blake, io avrei
del lavoro da sbrigare. Brian è dovuto partire per New York adesso e
non possiamo permetterci di dormire.» affermò, cercando di non
assumere un tono troppo duro e di non sembrare troppo scortese.
Eppure nascondere il disagio provato dal momento in cui l’aveva
rivisto, non era affatto facile; così come non lo era evitare di
pensare alla ferita che ancora gli bruciava dentro per quel rifiuto.
«Quando il boss è presente è un vero inferno, ma quando non
c’è è anche peggio. Mandare avanti la baracca senza di lui non è
facile, quindi se devi dirmi qualcosa, fallo.»
Blake abbassò lo
sguardo dispiaciuto. «Sì, certo...scusami...hai ragione.»
«Scusami tu, io
non volevo sembrare scortese...» si affrettò ad aggiungere Ted.
«... è solo che quando si saprà che Brian non c’è si scatenerà
il putiferio. Alcuni dei nostri clienti non vogliono neanche provare
a trattare se non c’è lui. Temono tutti di non essere serviti nel
migliore dei modi.»
«Be’...capisco.
Brian è sempre stato una garanzia per loro.»
«Appunto.»
«Non voglio farti
perdere altro tempo, quindi sarò breve.» iniziò Blake, sollevando
finalmente gli occhi azzurri ad incontrare quelli scuri dell’altro.
«Mi dispiace. Mi dispiace davvero tanto Teddy per come ho
reagito...mi sono comportato da idiota. Sono scappato proprio quando
non avrei dovuto, ma mi sono spaventato.»
«Questo l’ho
capito Blake.»
«Davvero?»
chiese speranzoso l’uomo.
«Sì, ma mi ha
aiutato anche a pensare. Forse non avrei dovuto metterti fretta...»
sollevò le spalle e sospirò. «... forse non era davvero il momento
giusto, però...»
«Ci ho pensato
anch’io Teddy.» lo interruppe Blake, non riuscendo a trattenere un
sorriso di sollievo. «Ci ho pensato davvero in tutto questo tempo e
ho capito che ho sbagliato e che in realtà dovremmo farlo. Io ti amo
e tu ami me, perché non dovremmo?» si avvicinò a lui e gli prese
le mani tra le sue. «Scusami, scusami.»
Ted però non
riuscì a sorridergli e sciolse quel loro legame, allontanandosi di
un passo. «Blake, ascoltami.» disse. «Per una parte di me è un
vero sollievo sentirtelo dire, ma...quando ho pensato al perché mi
hai risposto così, be’...sono giunto alla conclusione che forse
non è davvero la cosa giusta da fare.»
«In che senso?»
«Forse non siamo
sulla stessa lunghezza d’onda. Se lo fossimo stati, sempre forse,
tu avresti risposto immediatamente ‘sì’, senza ombra di
dubbio...» sospirò ancora e stavolta fu lui ad abbassare lo
sguardo. «... il fatto è che ci sono troppi ‘forse’ in mezzo e
sono confuso.»
Blake scosse la
testa ed aggrottò la fronte. «Teddy, io davvero non ti capisco...»
«Non mi capisco
nemmeno io.» ammise il contabile e finalmente trovo la forza di
risollevare lo sguardo. Dopo tutte quelle difficoltà che avevano
affrontato insieme, glielo doveva; gli doveva il coraggio di
guardarlo negli occhi, mentre pronunciava quelle parole.
«Credo di essere io, adesso, ad aver bisogno di tempo per pensare.»
*'*'*
New York.
Fin dal momento in
cui aveva sentito quel nome pronunciato da un altoparlante dopo il
loro atterraggio, aveva iniziato a provare una sorta di repulsione
per quella città.
Per anni ed anni
era stata il suo obbiettivo; per giorni aveva desiderato dare il suo
addio alla gloriosa Pittsburgh per raggiungere la Grande Mela e
costruirsi lì la sua nuova vita, eppure anche quando era stato ad un
misero passo dal raggiungere quell’obbiettivo, la sua città natale
lo aveva preteso per sé ed incatenato ancora.
Con il passare del
tempo poi, New York non era diventata altro che l’ombra di un
vecchio desiderio ormai svanito e, per quanto provasse a ricordare a
tutti che alla prima occasione se ne sarebbe andato, nessuno ormai
gli credeva più; perfino lui, non ci credeva più.
Ed il motivo –
inutile negarlo – era che da quando quel ragazzino testardo come un
muro era entrato di prepotenza nella sua vita, aveva smesso di
provare quel desiderio di scappare; una voglia che lo aveva
accompagnato per anni ed anni, ma che – ancora neanche era riuscito
a capire come – si era dissolta come neve al sole; come neve
riscaldata dal suo raggio di sole.
Si sarebbe fatto
tagliare le palle piuttosto che ammetterlo ma, alla fine dei conti,
aveva iniziato ad essere davvero felice.
Era felice di
svegliarsi al mattino e di trovare quel corpo sottile e niveo
addossato contro la sua schiena, con le lenzuola scure attorcigliate
alle gambe ed un respiro leggero e regolare che lo cullava,
soffiandogli delicatamente sulla pelle; era felice di respirare quel
profumo buono e familiare, e lo era anche di più nel momento in cui,
sollevando le palpebre rese pesanti dal sonno, scorgeva quella
figura angelica beatamente addormentata.
Non l’avrebbe
davvero ammesso – non poteva ammetterlo, perché in fondo, era
sempre lui: Brian Kinney – ma lo rendeva felice anche solo saperlo
vicino, lì per lui; baciarlo e stringerlo a sé o sentire la sua
voce e la sua risata.
Semplicemente
Brian era felice di avere Justin al suo fianco; una felicità che gli
era stata portata via, proprio dal richiamo di quella città che
aveva dimenticato.
New York si era
presa Justin; e stavolta non solo per lo stupido capriccio di un
ragazzino immaturo che cercava in tutti i modi di attirare la sua
attenzione.
Justin si era
costruito una vita e una vera fama tra quei grattacieli enormi. Aveva
iniziato a brillare anche in mezzo a quel caos e si era
inevitabilmente allontanato da lui.
«Andrà tutto
bene.» la mano di Jennifer si posò delicata sulla sua e il tono
dolce e premuroso con cui aveva pronunciato quelle parole, lo
distolse per un po’ dai suoi frustranti pensieri. «È sempre mio
figlio.»
«Lo so.» replicò
lui semplicemente, continuando a fissare la strada dal finestrino, in
attesa di poter finalmente scorgere l’ospedale. Restare immobile ed
impotente nell’attesa, lo stava facendo impazzire.
«Non dovrebbe
mancare molto.» riprese la donna, come se – esattamente come il
figlio – avesse imparato a leggergli nel pensiero.
Brian spostò lo
sguardo su di lei, trovando sulle sue labbra un sorriso tirato e
negli occhi una luce di forte speranza.
Una parte di sé
aveva sempre ammirato quella donna risoluta, con forza e grinta da
vendere; una vera madre – quella che lui non aveva mai avuto
– che sa amare il proprio figlio a prescindere da quello che è.
Si sforzò di
abbozzare un sorriso, ma non fu proprio certo che non assomigliasse
più ad una smorfia che altro, mentre di quanto i suoi nervi fossero
tesi, se ne rese davvero conto nel momento in cui il cellulare di Jen
prese a squillare, facendolo sobbalzare.
Il nome di Jace
comparve sul display e la donna rispose subito, inserendo poi il
vivavoce, così che anche Brian e Molly potessero sentire. «Pronto?»
«Jennifer,
ascoltami. Davanti all’entrata dell’ospedale c’è un macello.»
l’avvertì con un tono piuttosto infastidito. «Ci sono giornalisti
e fotografi ovunque!»
«Quindi? Che
facciamo?»
«Fatevi portare
sul retro. Vi faranno entrare da un’altra porta.»
«Ok.» confermò
lei, con voce più ansiosa. «Ma Justin? Sai qualcosa?»
«No. Non mi
dicono niente. Stiamo aspettando tutti te.»
Brian diede una
fugace occhiata all’esterno e, tra la confusione delle persone che
vagavano ovunque, spesso con una macchina fotografica in mano, riuscì
a vedere la sagoma dell’enorme ospedale. «Ci siamo, Jace.»
comunicò allora, per poi dare indicazioni all’autista.
«Brian?» il
ragazzo sembro sorpreso, poi aggiunse quello che parve essere un vero
sospiro di sollievo. «Grazie a Dio, ci sei anche tu! Vi aspetto
all’entrata.»
«Ok.» riconfermò
Jennifer, chiudendo la chiamata, per poi osservare la quantità
esorbitante di giornalisti appostati fuori dall’ospedale.
«Cazzo. Ma quanti
sono?»
«Molly!» la
riprese immediatamente la madre e Brian non riuscì a trattenere un
sorrisetto.
«Scusa mamma.»
pronunciò mesta. «Ma hai visto quanti sono?!»
«E non promette
niente di buono.» mormorò il pubblicitario, aggrottando la fronte.
«Questi stronzi non ci lasceranno respiro!»
«Brian!»
«Scusa mamma
Taylor.» si affrettò ad aggiungere, con un altro breve sorriso.
Nel frattempo
l’auto riuscì a compiere una gimcana tra le persone e a
raggiungere il retro dell’ospedale. Brian s’impose per pagare e,
tra i vari borbottii, scesero tutti e tre guardandosi freneticamente
intorno per individuare Jace.
«Eccolo!»
esclamò poi Molly, indicando una figura che si stava sbracciando
sulla porta come un forsennato.
Con una breve
corsa lo raggiunsero e lui si dimostrò essere nuovamente sollevato
nel constatare con certezza anche della presenza di Brian, come se
quello avesse appena cambiato tutte le carte in tavola; come se la
stessa salute di Justin fosse legata a lui. «Eccovi! Andiamo,
dobbiamo raggiungere un altro padiglione.»
«Insomma vuoi
spiegarci che cazzo è successo?» chiese Brian, mentre si avviavano
verso il reparto in cui era ricoverato il biondo artista.
«Non lo so
neanch’io con certezza. Avevamo litigato e sono uscito di casa. Mi
ha chiamato Maria, la nostra colf, per avvertirmi che Justin stava
male.»
«Litigato?»
indagò Jennifer.
«Ma tu e Justin
non l’avete mai fatto. Che è successo?» rincarò Molly.
Jace grugnì
rabbioso, ripensando ai motivi della loro diatriba. «È successo che
il tuo caro fratello è un coglione che lavorava a ritmi impossibili.
Abbiamo litigato per questo e per colpa di...» si soffermò per un
attimo e chiamò proprio quel nome nel momento in cui riuscì a
scorgerlo davanti all’entrata del reparto. «Gary!»
«Siete arrivati.»
replicò il manager, mostrandosi piuttosto nervoso.
«Allora? Saputo
qualcosa?»
«Secondo te?»
rispose frustrato. «Non dicono niente e, da una parte è una
fortuna, visto il casino che si è creato qua sotto, però è davvero
snervante.»
Brian si guardò
intorno, finché non vide un gruppo di infermiere. Gli si fece più
vicino, ignorando le occhiate ammirate che queste avevano iniziato a
lanciargli e chiese: «Scusate. La madre di Justin Taylor è
arrivata. Possiamo parlare con un il medico?»
«Oh sì, certo!»
si affrettò a rispondere una, afferrando la cornetta per comunicare
con l’interno del reparto. «Sarà subito da voi.»
«Grazie.» si
limitò a rispondere, tornando poi sui suoi passi.
«Ok, forse sei
davvero geniale come dicono.» mormorò Molly. «Io non c’avrei mai
pensato ad una soluzione tanto semplice.»
«Perché sei una
donna e ti lasci prendere dalle crisi di panico.»
«È per caso un
commento puramente maschilista quello che hai fatto?»
«Puoi giurarci,
mocciosa.»
Jennifer sospirò
esasperata. «Piantatela voi due. Siete peggio dei bambini. Quasi mi
sembra di avere tre figli, invece di due.» lanciò
un’occhiataccia a Brian, e non riuscì a trattenere un lieve ma
dolce sorriso per quello che aveva appena detto.
Lui ricambiò quel
sorriso, sforzandosi d’ignorare l’ansia per quella dannata attesa
che era ritornata per torturarlo. Spostò poi lo sguardo sulla grande
porta bianca e finalmente la vide aprirsi, mostrando loro un uomo
avvolto nel proprio camice.
«Mi scusi, sono
la madre di Justin Taylor.» intervenne immediatamente Jennifer.
«Come sta? Posso vederlo?»
«Salve.» rispose
questo, con un sorriso cortese. «Justin sta bene, ma ci sono delle
cose di cui vorrei parlarle. Mi segua pure.» fece per voltarsi e
rientrare nel reparto, ma quando vide che anche gli altri lo stavano
seguendo, fu costretto a fermarsi, seppur a malincuore, per
rispettare il protocollo. «Aspettate, voi siete?»
«Questa è mia
figlia.» rispose Jennifer, passando un braccio sulle spalle di Molly
ed il medico annuì, spostando poi la propria attenzione verso i tre
uomini.
«Io sono il suo
agente.» si presentò Gary.
«Sono un suo
amico.» rispose in seguito Jace ma, nel momento in cui si accorse
dell’espressione mortificata sul volto dell’uomo, comprese che
non gli era ancora concessa l’entrata. «Immagino che questo non mi
permetta di entrare, giusto?»
«Non ancora.
Almeno fino a quando non verrà portato in reparto, mi spiace.» gli
disse, sinceramente dispiaciuto, per poi rivolgersi a Brian. «Lei
chi è?»
Lui schiuse le
labbra, indeciso sulla sua risposta, ma la voce di Gary lo anticipò
sorprendendo i presenti a conoscenza del reale ruolo di Brian nella
vita di Justin. «Un amico.»
«Ma che cazzo...»
commentò Jace stizzito, e fu subito afferrato per un braccio dal
manager.
«Ci può scusare
un minuto?» chiese poi, rivolgendosi al medico e allontanandosi di
qualche passo per parlare con tutti gli altri.
«Che
cazzo ti prende adesso? Cos’è
questa storia?» lo aggredì
immediatamente il designer, visibilmente arrabbiato per quella sua
infelice uscita. «Cazzo, ma
non l’hai
ancora riconosciuto?!»
«So benissimo chi
è.» gli confermò l’altro in tono pacato. «Ma penso tu abbia
visto la quantità di giornalisti appostati là fuori.»
«E con questo?!
Brian è...» tentò di protestare, ma Gary lo interruppe.
«Quelli sono qui
perché cercano il loro dannatissimo scoop, e è probabile pensino
che Justin sia stato ricoverato per aver abusato di qualche droga o
schifezze del genere, ma pagherebbero oro per avere una qualsiasi
altra notizia riguardante la sua vita.» aggrottò la fronte e si
passò una mano tra i capelli scuri. «Credi davvero che i presenti
qua dentro se ne starebbero zitti e buoni se venissero a sapere chi è
Brian? Non so in che mondo vivi, ma qui siamo a New York, nel caso tu
non te ne fossi ancora accorto e la gente non si fa i fatti suoi,
specie se si tratta di qualcuno di famoso!»
Jace lo fissò con
astio. «E allora? Se sapessero di Brian saprebbero solo la verità!
Justin ha bisogno di lui.»
«Justin non ha
mai voluto parlare della sua vita privata ed io intendo
rispettare questa sua volontà.»
«Non mi pare che
sia un segreto che mio figlio sia gay, signor Hudson. Quindi non vedo
dove sia il problema.» intervenne Jennifer, già nervosa per la
piega che stava prendendo la conversazione.
Gary spostò lo
sguardo prima su di lei, per poi farlo saettare ad incontrare quello
degli occhi verde scuro del bel pubblicitario.
Non riusciva a
capire cosa stesse pensando; sembrava quasi impassibile, ma da quel
poco che Justin gli aveva raccontato di lui, era pronto a giurare che
stesse macchinando qualcosa.
Prese
un lungo respiro e tornò a spiegare la situazione: «Non è questo,
ma il fatto che lui non abbia mai accennato alla sua passata
relazione con Brian.» tornò a fissare il diretto interessato per
sondare la sua reazione e, per un breve attimo, ebbe la
chiara impressione che, se
non avesse dosato con attenzione le proprie parole, quell’uomo
bellissimo l’avrebbe
sicuramente ucciso con le proprie mani. «Se
non l’ha
fatto...» esitò per un istante e aggiunse: «...avrà avuto i suoi
motivi ed intendo rispettarlo.»
«Che
diavolo stai cercando di insinuare?» l’aggredì
di nuovo Jace. «L’unico
motivo per cui Justin non ha mai voluto parlare di Brian, è perché
era preoccupato che questo potesse provocargli grane con il lavoro!»
indicò una delle grandi vetrate che dava sull’entrata
principale e disse: «Temeva
che quegli squali là fuori arrivassero fino a Pittsburgh per scavare
nel suo passato e stravolgessero sia la vita di Brian che quella
delle persone che ama! Temeva che scoprissero troppo sull’aggressione
e che magari andassero a scavare nella sua relazione con Brian e la
descrivessero per quello che non è e non è mai stata! Che
fraintendessero tutto! Era terrorizzato dal fatto che tutto questo
potesse portare guai alla Kinnetik!»
riprese fiato per un attimo e gli puntò il dito contro a monito.
«Justin non ha mai
voluto nascondere Brian,
cercava solo di proteggerlo!
Perciò, non ti azzardare mai più a...»
«Jace, lascia
stare. Ha ragione.»
La voce profonda
di Brian arrivò alle orecchie del designer come una stilettata.
Sconvolto da quelle parole si voltò verso di lui e tentò di
protestare, non riuscendo a comprenderne il perché: «Ma...»
Il
pubblicitario scosse la testa e si passò il pollice sulla fronte.
«Se questo è quello che vuole Justin, allora non c’è
neanche bisogno di discutere.»
spostò lo sguardo su Gary e si accigliò, trattenendosi a stento dal
piantare un pugno in mezzo a quella faccia. Justin era sempre stato
un ingenuo in queste cose, ma Jace c’aveva
visto giusto: il “caro” manager non desiderava un rapporto
puramente lavorativo con l’artista.
«Lo vedrò più tardi, quando tutto sarà più tranquillo.
L’importante
è che stia bene e...»
«Ma che stai
dicendo?» gli domandò Jennifer, guardandolo stupita ed oltraggiata,
come se quelle parole l’avessero personalmente ferita. «Puoi
scordarti che io finga che tu sia solo un amico di mio figlio! Non
posso proprio farlo, non dopo quello che hai fatto per noi.»
incrociò le braccia al petto e l’osservò irremovibile. «Non
posso farlo, sapendo quello che rappresenti per Justin e soprattutto
quanto lui ha bisogno di te! Per quel che mi riguarda quei
giornalisti possono tutti andare a farsi fottere!»
«Mamma!» esclamò
la figlia, stralunata dalla reazione di Jennifer.
«Scusa tesoro, ma
Brian e tuo fratello hanno l’incredibile capacità di esaurire la
mia pazienza con le loro decisioni.» gli lanciò l’ennesima
occhiata ammonitrice, probabilmente riferendosi alla loro travagliata
storia ed al matrimonio mancato, e si voltò verso il medico.
«Dottore, lui può entrare.»
«Signora,
aspetti...» provò a fermarla Gary, senza alcun risultato. Justin in
fondo, da qualcuno doveva aver pur preso la propria determinazione,
simile a quella di un treno in corsa.
«È il compagno
di mio figlio.» annunciò infatti lei, traboccante d’orgoglio e
senza prestare la minima attenzione al resto dei presenti.
«Ah...» mugugnò
il medico, stranito dalla vicenda che gli si era appena presentata
davanti agli occhi, per poi fare un cenno. «Sì, certo. Seguitemi.»
Brian scosse la
testa ed affiancò Jennifer. Osservò la sua espressione determinata
e si lasciò sfuggire un sorriso nel riconoscere in quei lineamenti
quelli di Justin, e quel suo buffo modo d’imbronciarsi quando gli
riserbava una delle sue classiche e famose sparate. «Grazie mamma
Taylor.» sussurrò poi, con un tono canzonatorio.
Jennifer gli
rivolse un’occhiataccia. «Un giorno poi mi spiegherete perché con
voi due deve essere sempre tutto così difficile.»
Il pubblicitario
si lasciò andare ad un sorriso più sincero, mentre quella dannata
tensione andava ad allentarsi, nonostante il pessimo rapporto che
continuava a mantenere con i corridoi bianchi e spogli degli
ospedali.
«Ok.» disse il
dottore, fermandosi poco prima della porta di una camera con tutti
gli avvolgibili abbassati. «Justin è qui e sta ancora dormendo.»
«Adesso può
dirci che è successo?» chiese Molly, impaziente.
«Si è trattato
di un esaurimento. Justin ha davvero esagerato con il lavoro. Dalle
analisi risultano valori sballati e mi chiedo quanto tempo fa abbia
fatto un pasto come si deve. È dimagrito e stressato.»
«Ma si rimetterà
presto no? Non ci sono conseguenze...»
«Certo, si
rimetterà, sempre che riprenda a mangiare regolarmente e si dia
anche dei limiti con il lavoro.» rispose l’uomo, facendo tirare
finalmente a tutti e tre un vero sospiro di sollievo. «L’unica
cosa di cui volevo parlarle e che...ho guardato la cartella clinica
di suo figlio e ho visto dell’operazione...»
«Preferirei che
dell’aggressione non trapelasse nulla.» lo ammonì Jennifer.
«No, certo che
no. Non è certo quello il problema.» rispose lui. «Il fatto è che
Justin ha sbattuto la testa cadendo.»
Brian sentì il
sangue gelarsi nelle vene ed un vecchio incubo mai realmente sopito
riaffiorare nella sua mente. Di nuovo il rumore secco della mazza che
lo colpiva tornò a rimbombargli nelle orecchie e dovette respirare
più a fondo per calmarsi. «C’è stato qualcosa, dovuto alla
caduta?» chiese poi pronunciando quelle parole a fatica.
«Pare di no,
almeno dalla T.A.C.» rispose il dottore con professionalità,
nonostante avesse scorto perfettamente il terrore che aveva solcato
quegli occhi verde scuro. «Ha riportato solo una piccola ferita poco
sopra il sopracciglio, ma consiglio di tenerlo comunque d’occhio,
soprattutto quando dorme. Dovreste svegliarlo ogni ora almeno per i
primi giorni.»
«Teme che non si
risvegli?» si azzardò a chiedere Jennifer.
«No, no. Sembra
stare bene, ma è solo una procedura di sicurezza. Non voglio fare
dell’allarmismo, è solo una precauzione.»
«Ok, non c’è
problema.» rispose Brian. «Possiamo vederlo adesso?»
«Sì,
certamente.»
«Vai tu intanto.»
gli disse Jennifer, decisa a lasciagli un po’ di tempo da solo con
il figlio. Ormai aveva imparato a conoscere Brian ed era certa che ne
avesse davvero bisogno. «Io devo parlare ancora un attimo con il
dottore per la dimissione.»
Lui le rivolse
prima uno sguardo sorpreso, poi comprese il motivo del suo gesto e la
guardò con sincera gratitudine, prima di stringere la mano sulla
maniglia della porta.
“Fix you” –
Coldplay
Per qualche
secondo la sua mente viaggiò ancora indietro, ricordando in un flash
un vecchio passato in cui era rimasto a vegliare su quel raggio di
sole ogni notte, senza avere mai neanche tentato di varcare la soglia
che li separava, fermato dal suo orgoglio e dalla sciocca convinzione
di non aver bisogno di nessuno.
All’epoca, anche
se sentiva chiaramente la presenza di quello squarcio doloroso al
centro del petto, mai avrebbe ammesso quanto ci fosse di Justin in
quella ferita.
Le cose però
erano cambiate, senza che lui potesse davvero controllarle. Gli erano
sfuggite di mano, e da uno stizzito “Che cazzo ci fai qui” era
passato ad un “Dove cazzo sei”; dallo scacciarlo via e dirgli che
lui non credeva nell’amore, era arrivato a sussurrargli di amarlo e
di volerlo sposare, fino a sacrificare tutto per lui, pur di vederlo
felice e senza alcun personale rimpianto.
Dalla prima volta
in cui aveva sostato dall’altra parte di un vetro d’ospedale
erano cambiate così tante cose da non riuscire neanche a tenerne il
conto, e solo una costante era rimasta immutata: Justin.
Adesso però a
fermarlo non c’erano più le sue sciocche questioni d’orgoglio,
né i suoi dogmi. Non aveva paura di ammettere di tenere a qualcuno;
non aveva paura di ammettere che Justin contava più di qualsiasi
altra cosa...
Spinse su quella
maniglia con decisione e mosse il primo passo oltre la soglia.
Il cuore prese a
battergli furioso all’altezza della gola, prima di esser
inghiottito da questa, nel preciso momento in cui i suoi occhi si
posarono sulla figura minuta che giaceva sul letto, avvolta dal
bianco candido delle lenzuola.
I lunghi capelli
biondi, spanti casualmente ed arruffati sul cuscino, risaltavano come
tanti piccoli raggi; una corona dorata e luminosa sotto cui la pelle
di Justin sembrava esser fatta di pura porcellana. Le morbide
palpebre che Brian amava baciare, ancora chiuse, terminavano nelle
lunghe ciglia chiare che ombreggiavano la piccola porzione di pelle
sotto gli occhi, già resa lievemente più scura dai segni della
stanchezza, mentre le labbra dischiuse e rilassate, svettavano nel
loro roseo colorito.
Justin dormiva
beato, muovendosi appena nel petto per il ritmico e lento respiro, e
per un attimo ancora a Brian tornò in mente quel ragazzino appena
diciottenne che già era stato costretto a fare i conti con la morte
ed a scamparne per un puro miracolo.
Della
determinazione e della forza che scaturiva da quegli occhi blu chiaro
non c’era alcuna traccia; si mostrava solo un ragazzo indifeso,
bello come un angelo, e mai come allora Brian sentì dentro di sé il
desiderio di proteggerlo.
Certo, l’aveva
fatto innumerevoli volte – alcune anche senza rendersene conto –
e gli aveva insegnato tanto per affrontare la vita, ma a volte
tendeva a dimenticare che quello davanti a lui non era che un ragazzo
di ventitré anni e non un uomo. Dimenticava la sua età per la
maturità che aveva sempre dimostrato; si scordava quanto in realtà
potesse aver bisogno di un aiuto, solo perché continuava a voler
risolvere tutto da solo e a non chiedere mai niente a nessuno...
E anche in
quell’occasione, l’unica vera motivazione per cui si era ridotto
così, era proprio perché, come al solito, aveva voluto strafare.
Justin era sempre
stato più maturo della sua età sì, ma anche lui aveva i suoi
stupidi colpi di testa; anche lui prendeva decisioni sciocche, mosse
dall’istinto e, anche lui aveva bisogno di qualcuno che sapesse
tenergli testa e a cui potesse anche appoggiarsi e sostenersi.
Justin sapeva
camminare da solo, aveva una strada da percorrere ed era anche
perfettamente indipendente, proprio come lo era sempre stato lui, e
questo lo rendeva più orgoglioso che mai...ma come tutti, aveva
bisogno di qualcuno con cui poter gioire dei propri successi;
qualcuno di cui gli importasse davvero, una persona per cui rientrare
a casa con il sorriso...
Justin,
semplicemente, aveva bisogno di Brian al suo fianco, non come persona
a cui riferirsi o da idolatrare, ma come complemento della sua vita.
Due pezzi che riescono anche a stare in piedi da soli, terribilmente
diversi, ma allo stesso tempo componenti perfetti di un’unica
entità.
E questa
consapevolezza fu come una scarica al cervello per Brian.
L’aver
finalmente capito che la sua presenza non avrebbe davvero interferito
con la vita di Justin, ma ne sarebbe stato solo il pezzo mancante;
esattamente come lo stesso Justin lo sarebbe stato per lui.
Con un sospiro si
avvicinò a letto, maledicendosi per come quelle guance morbide e
chiare si erano scavate per via della stanchezza o per quel cerotto
bianco posto sul sopracciglio a nasconderne la ferita; e non riuscì
a trattenere la propria mano quando questa si mosse per sfiorare
l’artista in una carezza.
Le punte delle sue
dita sfiorarono l’epidermide lattea, tracciando il contorno della
guancia, risalendo per la tempia fino a raggiungere una di quelle
ciocche dorate che lasciò scivolare distrattamente tra l’indice ed
il pollice.
Fece per ripetere
il gesto, quando vide il petto di Justin sollevarsi in un respiro un
po’ più profondo dei precedenti, come se i suoi polmoni avessero
percepito la sua presenza e cercassero di riempirsi del suo profumo.
Le palpebre
tremarono per qualche secondo, prima di sollevarsi e mostrare le due
perle blu che fino ad allora avevano nascosto. Brian sorrise nel
momento in cui queste s’incontrarono con il suo sguardo ed anche un
altro lieve sorriso andò ad increspare le labbra morbide
dell’artista.
«Ehi...» mormorò
il pubblicitario, passando una mano tra i capelli di Justin.
«Sto sognando?»
gli rispose il ragazzo, spostando appena la testa per godere di più
del tocco dell’uomo.
«No.» lo
rassicurò Brian. «Sei sveglio e sei un perfetto coglione.»
Gli occhi blu
chiaro, ancora appannati dal sonno, si spostarono lentamente per
tutta la stanza. «Dove...dove sono?» domandò poi, inarcando le
ciglia chiare.
«In ospedale. Hai
avuto un esaurimento.»
«Ah...» si
limitò a commentare, ancora confuso. «Non ricordo niente. Solo
che...che stavo dipingendo, credo.»
«Forse avresti
fatto meglio a mangiare qualcosa, invece che giocare con i pennelli,
non credi?» disse in tono retorico ed ironico Brian; e a Justin non
sfuggì che si trattava di un rimprovero.
«Mi dispiace.»
«Resti comunque
un perfetto idiota.»
«Lo so.»
Brian avvicinò
una delle sedie al letto e si tolse il cappotto. Si sedette il più
vicino possibile e prese a giocherellare distrattamente con una delle
mani di Justin; così piccole al confronto con le sue, ma le cui
sottili dita sembravano esser state fatte apposta per potersi
infilare tra le sue. «Come ti senti?» domandò poi, cercando di
nascondere almeno un po’ l’apprensione dietro un tono disinvolto.
«Indolenzito e
sfinito.» rispose Justin, dopo averci riflettuto un attimo.
Brian sorrise
sornione e sollevò le sopracciglia. «Allora non c’è da
preoccuparsi, dovresti esserci ormai abituato da anni.»
Le labbra
dell’artista si piegarono in un sorriso, divertite dal riferimento
dell’uomo alle loro ormai famose e sfiancanti performance tra le
lenzuola; poi socchiuse le palpebre e voltò la testa verso il
pubblicitario. «Sai? Quando ti ho visto ho creduto davvero fosse
solo un sogno.» si leccò le labbra e sorrise ancora. «‘Ci
vediamo nei tuoi sogni’...ricordi?»
«Qualcosa di
vago.» borbottò Brian, pur ridacchiando di quel vecchio aneddoto;
se solo all’epoca avesse potuto immaginare quanto si fosse
sbagliato...
«Sicuro che non
sto sognando?»
«Raggio di
sole, non è che l’ospedale ti trasforma in una lesbica
paranoica?»
Justin rise. «Ok,
non è un sogno.»
«No, altrimenti
non saremmo certo in una stanza che puzza di disinfettante, ma a
scopare su qualche spiaggia caraibica.»
«Sempre così
romantico.» commentò l’artista in tono canzonatorio, continuando
a tenere gli occhi chiusi e quel lieve sorriso sulle labbra.
«Faccio del mio
meglio.»
Continuarono a
guardarsi – occhi verde scuro incantati da quelli blu – in un
silenzio perfetto che non aveva minimamente il sapore d’imbarazzo,
ma quello di un’intimità rassicurante, come se avessero
improvvisamente creato una bolla tra loro ed il resto del mondo; come
se si fossero rifugiati in un mondo fatto apposta per loro, dove
nessuno avrebbe potuto raggiungerli.
Si sorrisero
vicendevolmente, entrambi consapevoli di quella realtà, e fu proprio
per quella bellissima sensazione ritrovata che Brian si decise a
parlare: «Ti voglio a casa con me.»
Sei semplici
parole, pronunciate piano, ma che parvero rimbombare nella stanza
come un eco infinito; una frase che alle orecchie di Justin sembrò
una melodia netta, breve, ma bellissima, tanto da togliergli il fiato
e lasciarlo incredulo per un breve istante.
Credette perfino
di non aver sentito bene; che quello fosse davvero solo un
sogno, ma nell’intensità con cui quegli occhi verde petrolio lo
osservavano, capì di non essersi sbagliato.
Non era solo
un’illusione. Brian aveva finalmente pronunciato quelle parole che
per mesi e mesi aveva sperato di sentirgli dire, così tanto da non
contarci più.
Avevano finito per
trasformarsi in un desiderio vecchio e sbiadito, troppo lontano dalla
realtà e troppo doloroso per essere ricordato; un po’ come quel
loro mancato matrimonio.
Qualcosa però si
era smosso nell’ostinato Brian Kinney; qualcosa che gli aveva
improvvisamente ricordato che si vive una volta sola e che di
rimpianti è meglio averne pochi o non averne affatto, soprattutto se
a causa di convinzioni che non hanno né capo né coda.
Qualcosa gli aveva
ricordato che qualche volta si deve reclamare per sé quel che si
vuole; che può esserci la necessità di un minuscolo gesto
egoistico, pur di esser felici; e Justin sapeva che quel
qualcosa era la vecchia paura di perderlo, che era tornata a fargli
visita e a dargli finalmente una scrollata. «Devi sempre aspettare
che succeda qualcosa per dirmi che mi vuoi con te?» gli domandò
allora con un sorriso.
Prima
l’aggressione, poi l’arrivo di Ethan, il cancro, perfino una
bomba ed infine il suo esaurimento con conseguente ricovero.
Brian era sempre
stato un perfetto, inguaribile incapace con i sentimenti e questo non
sarebbe mai cambiato neanche tra miliardi di anni o mille vite. C’era
sempre voluto molto più di una bella scossa per smuoverlo.
«‘Certe cose
non cambiano mai’.» lo citò infatti il pubblicitario con un
sorrisetto. «L’hai detto anche tu, no?»
«Già, ma perfino
i gatti hanno solo sette vite...e io sono già un bel po’ avanti
con i jolly consumati.» emise un falso sospiro sconsolato e sollevò
gli occhi. «Finirò per crepare bello e giovane come
ogni artista che si rispetti.»
Brian gli tirò
una lieve pacca sulla fronte. «Ma sta’ zitto, James Dean dei
poveri.»
«Sei solo
invidioso perché tu ormai non puoi più morire giovane.»
«Dì la verità,
stronzetto, vuoi per caso consumare tutti insieme i jolly
rimasti?»
Justin gli
sorrise, mostrandogliene finalmente uno di quelli luminosi che gli
era valso il soprannome affibbiatogli anni prima da Debbie. «Sono
troppo stanco per discutere con te.»
«Allora
riposati.» rispose Brian, accarezzandogli ancora una volta la fronte
chiara. «Mi servi rigenerato per quando torneremo a casa. Ho
intenzione di scoparti come si deve.»
Justin restò ad
osservarlo ancora per un po’. Le palpebre si stavano facendo sempre più
pesanti, ma non voleva chiuderle e addormentarsi. Brian gli aveva
detto di volerlo con sé, ma era ancora troppo spaventato.
Una minuscola
parte di sé continuava a temere che, se si fosse assopito anche solo
per qualche secondo, tutto quello che si erano detti sarebbe svanito.
«Non ho sonno. Non voglio dormire.» pronunciò allora, dandosi
mentalmente dell’idiota per come la sua voce era apparsa
incredibilmente infantile.
Brian però gli
sorrise ed accostò appena le proprie labbra a quelle di Justin, in
un dolce bacio, prima di sfiorare la punta del naso contro la sua.
«Dormi.» gli ordinò poi. «Non vado da nessuna parte.» e a quel
punto il piccolo artista, chiudendo gli occhi lentamente e
increspando le labbra piene in un sorriso beato, comprese che l’uomo
di cui era innamorato l’aveva capito ancora una volta, senza il
bisogno di parole.
«Torniamo a
casa.» fece poi in tempo a sussurrare, prima che il sonno arrivasse
ad avvolgerlo nel suo abbraccio.
"...Lights will guide you home,
and ignite your bones,
and i will try to fix you."
***
Note finali:
No,
come vedete non sono morta...almeno non per ora! XD Tra un po' non so
se sarà lo stesso, visto che ho degli esami da dare, ma
sorvoliamo!
Mi dispiace aver tardato tanto, ma sono stata davvero tanto incasinata in questo periodo! Perdonatemi! :(
Purtroppo sono ancora di fretta, quindi dovrò salutarvi
frettolosamente...non so se questo capitolo vi è piaciuto ma,
è un po' come se fosse la "fine" della prima parte di questa
ipotetica sesta stagione.
Come vedete Justin torna a casa, questo però, come insegnano i
cari CowLip non è sempre sinonimo di tranquillità...e poi
c'è ancora la situazione di Ted e Blake da risolvere, Emmett con
Jace, ma anche un ipotetico ritorno di Drew ad "aleggiare" così
come quello di "Auerbach" per Mel e Linz, che a loro volta sono ancora
a Toronto con Gus e JR a cui badare; Gary non è ancora sparito e
con lui neanche Brandon, per non parlare di Hunter o delle sue "ziette"
- come le chiamerebbe Brian - Michael e Ben.
Insomma, ne ho anche fin troppe da risolvere, quindi altrettante da scrivere!
Intanto però spero vi siate godute questo capitolo, e spero di poter far arrivare il prossimo tra Natale e Capodanno, visto che parte del prossimo parlerà anche del 25 Dicembre!
Farfugliamenti a parte credo sia l'ora di passare alla parte più importante di tutte:
RINGRAZIAMENTI!
Un gigantesco grazie a tutti coloro che sono arrivati fin qui a leggere, a chi ha inserito questa storia tra le seguite, le preferite o le ricordate...ma soprattutto grazie a: mindyxx, SusyJM, electra23, Thiliol, Clara_88, giacale, silvergirl, EmmaAlica79, Katie88, Gojyina e Erikioba per aver recensito! :) Grazie davvero!
Detto questo devo proprio salutarvi e scappare!
Spero davvero vi sia piaciuto anche questo capitolo! :)
Un bacione e a presto.
Veronica.
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