Time's Up - 6th season

di SidRevo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 370 miles. ***
Capitolo 2: *** Come home. ***
Capitolo 3: *** Dear old Babylon. ***
Capitolo 4: *** Ironic. ***
Capitolo 5: *** Sunshine shines again? ***
Capitolo 6: *** Some things never change. ***
Capitolo 7: *** I still love you, afterall. ***
Capitolo 8: *** Thanksgiving day. ***
Capitolo 9: *** Another Goodbye. ***
Capitolo 10: *** See you soon. ***
Capitolo 11: *** Old routine. ***
Capitolo 12: *** Together again. ***



Capitolo 1
*** 370 miles. ***


1.370 miles.

A Elena,
compagna di mille discussioni o ipotesi,
sogni e "filmini",
su questo splendido telefilm,
che ci ha allegramente intrippato il cervello.
Sappi che mi dovrai sopportare ancora per molto.




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6x01 – 370 miles.
[capitolo betato da Trappy]


"The scientist” - Coldplay


«È solo tempo.»

La sentiva rimbombare ancora quella frase nella testa, per l'ennesima volta, in cui sembrava divertirsi a ricordargli che quel tempo era finito. Pulsava feroce, da togliere il fiato e costringerlo a poggiare le mani sul vetro per sostenersi e sporcarlo delle impronte delle sue dita. Perché c’era ancora in quel mondo, e la sua presenza era in quelle macchie opache; lui era ancora vivo, anche se vivo non si sentiva affatto.
Intrappolato a soffocare in un posto della sua mente, tra un passato da rimpiangere, costellato di troppi “se” e altrettanti “ma” con cui combattere ogni giorno, e quel presente in cui non voleva stare; a cui non voleva dare ascolto.
Sospirò sommessamente, immettendo più aria possibile nei suoi polmoni, cercando di concentrare la sua mente in quel gesto che sarebbe dovuto essere naturale, ma che aveva paura di aver dimenticato.
Non si era mai sentito così in tutta la sua vita: arreso, senza una speranza a cui aggrapparsi. Perso e incapace di rialzarsi, o almeno di galleggiare; perso e incapace di
voler trovare un modo per non lasciarsi andare.
Ne aveva passate e superate di tutti i colori. Era sfuggito alla sua morte e aveva sconfitto anche quella della persona che più amava al mondo. Non si era fatto problemi a sfidare la sorte per lui, né chiunque gli si parasse davanti. Aveva sbagliato e trovato sempre il modo per rimediare ai suoi errori…ma allora era diverso; a quel tempo aveva qualcosa per cui lottare e stringere i denti. Aveva una speranza – seppur spesso troppo fievole e troppo simile a una stupida illusione – a cui aggrapparsi. Una meta, un obbiettivo, uno scopo da raggiungere a tutti i costi;
aveva Brian.
Brian
.
Gli costava così tanto anche solo pensarlo quel nome così comune, che nella sua semplicità nascondeva troppo del suo passato e molto ancora del suo presente e di quello che – sempre che ne avesse ancora uno – sarebbe stato il suo futuro.
Un nome che amava pronunciare, finché il suo proprietario era lì per ascoltare le sue chiamate; o anche quando non voleva parlargli per quel suo brutto carattere, ma era comunque presente e non poteva fuggire dalla sua testardaggine.
Ma ora non ci sei
.
Pensare quella verità fu troppo difficile, come ogni volta.
Ammettere di aver fallito e aver scritto la parola “fine” era la cosa che più lo feriva in assoluto, tanto che spesso perfino il suo cuore si rifiutava di crederci e provava a ribellarsi, battendo più forte, quasi a fargli male.
Un altro respiro sfuggì dalle sue labbra e la sua fronte andò a imprimersi sul vetro che la domestica aveva pulito accuratamente. Passò gli occhi sull’immensa città che si perdeva davanti ai suoi occhi, senza riuscire ad ammirarne davvero i contorni, lasciando che quelle innumerevoli luci perdessero la loro consistenza e si trasformassero in fasci informi per l’insistenza con cui osservava.
Si morse le labbra e con uno sbuffo arrendevole si allontanò dall’enorme finestra, con l’intento di farsi una doccia e provare a lavar via i troppi pensieri che continuavano ad arrovellarglisi in testa, ma il trillo acuto del telefono lo costrinse a rimandare i suoi piani. Non aveva alcuna voglia di rispondere, né di parlare, chiunque fosse all’altro capo del telefono – perché l’unica persona che avrebbe voluto sentire non l’avrebbe chiamato – eppure, incapace di sopportare ancora quel suono fastidioso, si convinse ad afferrare il cordless.
«Pronto?» pronunciò svogliatamente, ed il suo cuore perse un battito nell’udire la voce del suo interlocutore.
«
Topino, ti disturbo?»
«Deb.» sussurrò lui, quasi cercasse una conferma di cui in fondo non aveva bisogno, prima di riscuotersi e affrettarsi ad aggiungere: «No, certo che no. Come stai?»
«Al solito. Sempre più vecchia e sempre più indaffarata.» la sentì ridacchiare con quel suo buffo modo e l’immaginò piena di quei suoi gingilli stravaganti e colorati. «Che ore sono lì da te?»
«Sono a New York, non in Australia.» sorrise divertito, seppur fievolmente. «Non c’è il fusorario. Sono meno di quattrocento miglia.»
«Ah, ma davvero?» si finse stupita lei, e Justin capì che era tempo di una delle sue battute acide. «Credevo tu fossi molto più lontano, visto che è più di un anno che non ti fai vedere! Un anno e…»
«Un anno e sei mesi proprio oggi, lo so.» l’anticipò lui. «Mi dispiace, ma ho avuto da fare e…»
«Stronzate.» lo interruppe, e il tono che assunse gli fece intendere che non ammetteva repliche. «Non m’importa un fico secco dei tuoi impegni. Potevi tornare almeno per il giorno del Ringraziamento, o per Natale!»
«Hai ragione, ma…»
«Lo so che ho ragione!» esclamò, e Justin sorrise ancora. Almeno di una cosa era sicuro: Debbie non sarebbe mai cambiata, ovunque lui fosse, qualunque cosa facesse o dicesse; e per come si erano messe le cose, questo lo rincuorava un bel po’. «E mi auguro che tu non voglia darci buca anche quest’anno!»
«Non lo so.»
«Justin!» lo chiamò lei; e quando lo chiamava per nome, non significava niente di buono.
«Ascolta Deb, è complicato…» sospirò stancamente. Gli mancava tutto di Pittsburgh,
tutto, ma non poteva tornare. Non se la sentiva ancora.
«Complicato? Io non ci vedo un bel niente di complicato!» strillò lei, sempre più decisa. «Alza quel tuo bel culetto sodo e portalo a Pittsburgh. Cosa c’è di
complicato in questo?!»
«Non è questo.» esitò lui in risposta, vacillando davanti alla sua determinazione. «È che…»
«Te lo ripeterò una volta soltanto, quindi apri bene le orecchie.» si soffermò per un attimo come per assicurarsi che la stesse ascoltando attentamente e riprese: «Noi ti aspettiamo qua. Non m’importa quali fottutissimi impegni tu abbia, perché anche se sei un grande artista, la tua cazzo di casa è sempre qua ed io è qui che ti voglio.» la sentì sospirare e strinse più forte il cordless per aiutarsi a ricacciare indietro le lacrime, mentre davanti agli occhi gli passavano davanti tutti i suoi gesti abituali e gli parve di averla lì nel suo loft. Quello che più lo feriva era non poterla abbracciare. «Se ci tieni ancora a noi, sai cosa fare. Altrimenti smetterò di romperti le scatole.»
Deglutì a forza e alzò gli occhi al soffitto, dando il consenso a una delle lacrime che gli inondava gli occhi di rompere l’argine e scendere lungo la sua guancia. Si passò la lingua sulle labbra e cercò dentro di sé la forza di parlare ancora. «Non dire stronzate. Lo sai quanto ci tengo a voi. Siete la mia famiglia.»
«E per noi è lo stesso,
topino.» gli rispose Debbie, con un tono molto più dolce. «Ti aspettiamo qua per le nove.»
«Non ti prometto niente, Deb.» riabbassò lo sguardo mortificato come se potesse davvero vederlo e concluse con un fil di voce: «Scusami.»
«Dovrai affrontarlo prima o poi.» lo rimbeccò lei. «
Dovrete affrontarlo.»
«Lo so.» si affrettò a dire. Non aveva assolutamente voglia di parlarne in quel momento. Non aveva voglia di parlarne
mai. «Adesso scusami ma…»
«Devi andare, perché hai da fare.» immaginò di vederla scuotere la testa e mettersi le mani sui fianchi come al solito, e riuscì a sorriderne. «Sempre impegnati voi
vip
«Non sono un vip!» ridacchiò stavolta. E gli suonò perfino strana e sconosciuta quella sensazione. Da quanto non rideva? «Sono sempre il tuo
raggio di sole
«Certo, e mi manchi tanto.»
«Mi manchi anche tu. Mi mancate tutti voi.» si sforzò di dire, seppur soffocato dal nodo che gli stringeva la gola. «Ci sentiamo Deb. Stammi bene e saluta tutti, ok?»
«Cerca di venire tu a salutarli.»
«Ci proverò, ciao.» sussurrò, improvvisamente stanco, prima di premere il tasto per riagganciare e lasciarsi ricadere sul suo divano bianco.
Ennesimo sospiro ed ennesima lacrima.
Justin prese a fissare il soffitto socchiudendo gli occhi. Si sentiva perennemente spossato, qualunque cosa facesse. Aveva perso quella
verve che lo caratterizzava e il sorriso luminoso che gli aveva fatto guadagnare quello sciocco soprannome con cui tutti lo identificavano: “raggio di sole”.
Si era perfino dimenticato in che occasione Deb gliel’aveva affibbiato ma, guardandosi allo specchio, non vedeva che una pallida copia del quel se stesso. Non era più un raggio di sole, ma un triste riflesso opaco a cui nessuno avrebbe fatto più caso.
Si passò una mano tra i capelli biondissimi e setosi, ormai più lunghi di come li avesse mai avuti in precedenza; così come piacevano a sua madre e a…
Scattò seduto, guidato da un guizzo di rabbia, e poggiò i gomiti sulle ginocchia per stringersi la testa tra le mani nel vano tentativo di riuscire a strappare via certi pensieri. Si stropicciò la faccia e si massaggiò le tempie, ma certi ricordi non avevano la ben che minima intenzione di porre fine a quella infima tortura.
La percepiva chiara nella mente quella voce, insieme alle parole che si erano detti. Le urla al telefono e il pugno di rabbia sferrato contro il muro. La delusione che cresceva di pari passo con la rabbia, fino allo sprofondare nell’oblio della tristezza…

«Non posso crederci!» lo aveva urlato, stringendo con forza il cellulare. «Stai parlando sul serio?!»
«
Perché non dovrei?» gli aveva risposto con semplicità disarmante, facendolo tremare per un attimo.
«L’avevi promesso, Brian!» urlò ancora. «Avevi promesso che saresti venuto!»
«Io non ti ho promesso proprio un bel niente. Non era quello che ci eravamo detti quando sei partito.»
«Pensavo t’importasse di vedermi, ma non ti sei mai degnato di passare neanche per un giorno!»
«Ho avuto da fare» replicò con tono piatto. «E poi non mi pare che tu abbia fatto diversamente…»

«
Ma io avevo le mostre!»
«E io il lavoro.»
Strinse i propri capelli biondi con forza, preda di un attacco isterico. Era passato quasi un anno da quando si era trasferito a New York e da allora non si erano più visti. Quando era partito era triste, ma convinto che sarebbero riusciti ad affrontarlo e resistere in qualche modo…perché si amavano; eppure in quel momento non gli parve che una sciocca illusione.
«A che cazzo ti serve essere il capo se non puoi fare come ti pare? Se non puoi prenderti neanche un paio di giorni?!»
«Esserlo non significa potersene sbattere i coglioni e andarsene a giro per i cazzi propri. Ho delle responsabilità, sai cosa sono?»
«Tutti le hanno, Brian!» lo attaccò esasperato. «Non solo tu! Eppure tutti, e ripeto tutti, hanno trovato un momento per farmi una visita. Tutti meno che te!»
«Evidentemente, 
tutti avevano meno impegni di me.» restarono per un attimo in silenzio, finché non lo sentì sbuffare. «Senti, ho da fare…»
«Certo! Tu hai sempre da fare!»
«Ho una cazzo di riunione, va bene?!»
«Ah, lo so! È un anno che sei sempre sommerso di riunioni ogni volta che dobbiamo parlare o discutere! Una volta la scusa era che volevi fare la doccia, almeno hai cambiato!»
«Lasciamo perdere…»
La rabbia lasciò lo spazio alla delusione, mista alla tristezza per quell’ennesimo litigio che ormai era il loro unico modo di comunicare.
«Già.» pronunciò, con la voce rotta da un pianto che non riusciva a trattenere. «Forse è davvero meglio lasciar perdere. Lasciar perdere tutto.»
. lasciar uscire quelle parole gli era costato una fatica immensa, soprattutto perché mai avrebbe pensato di doverle dire ancora; mai avrebbe voluto farlo.
Brian rimase interdetto per un attimo. «Di cosa stai parlando?»
«Quando sono venuto qua, l’ho fatto contando sul fatto che comunque ci amavamo e che in qualche modo avremmo saputo gestire la cosa. Ma da quando sono arrivato, tra noi non va niente come avevo sperato…»
«Nessuno ha mai detto che sarebbe stato facile. Ricominci a scappare ogni volta che le cose non vanno come vorresti?» domandò, senza preoccuparsi di lasciar trasparire l’irritazione della sua voce.
«Non sto scappando. Sto semplicemente dicendo le cose come stanno.» strinse i denti e li digrignò. «Sembra che non t’importi.»
«Oddio, ti prego! Risparmiami le tue insicurezze da ragazzina adolescente.»
«Ovviamente, perché tu non ne hai!»
«No, non ne ho. E allora?» sentì attraverso il cellulare il suono di un tonfo ed immaginò che avesse colpito con un pugno la scrivania. «È un problema?»
Prese un grosso respiro e si appoggiò ad una delle colonne di mattoni del loft in cui si era trasferito da poco. «Ciao Brian.» si sforzò di dire, senza però riuscire a terminare la chiamata.
L’altro non rispose immediatamente, ma il suono dei suoi respiri gli fece intendere che era ancora lì. «Non ne siamo proprio capaci, eh?»
«L’avrei tanto voluto, ma sembra proprio di no.» e non riuscì a trattenere le lacrime. «Mi manchi, cazzo!»
«Justin, devo andare davvero. Ti chiamo stasera.»
Si asciugò il viso con la manica della felpa e tirò su col naso. «Servirà davvero a qualcosa?»
«Ciao.» rispose l’altro e, dopo qualche secondo di silenzio, lo sentì riattaccare.

Preda nuovamente di un attimo di rabbia, colpì con un calcio uno degli stupidi e costosi soprammobili che gli erano stati regalati per omaggiarlo, e l’osservò rotolare più lontano nel parquet.
Quella famosa sera poi, Brian non l’aveva chiamato e lui non se l’era proprio sentita di comporre il suo numero, aumentando quel senso di frustrazione che, come una gabbia troppo piccola, continuava a stringerglisi addosso.
Si erano sentiti il giorno dopo e ne era uscito l’ennesimo litigio; e quello dopo ancora, sempre con lo stesso risultato. Non riuscivano più a fare altro ormai, e ogni volta sembrava andar sempre peggio. Telefonate sempre più rare, più arrabbiate e sbrigative. Briciole di un amore che stava lentamente riducendosi in pezzi troppo piccoli, anche per pensare di essere rincollati.
Si rialzò, incapace di star fermo; preda di momenti di sconforto in cui desiderava solo distendersi e dormire per ore e ore, alternati da quelli passati a gironzolare in quel loft troppo grande e silenzioso.
A volte dipingeva per sfogarsi, ma non era più come prima.
Colori sempre più cupi e opachi, pennellate rabbiose, figure sempre più stilizzate dalle forme aggressive e aguzze, e schizzi confusi; la trasposizione perfetta di quello che si stava muovendo dentro di lui.
E la cosa peggiore…l’incapacità di disegnare ancora sia se stesso che
lui.
Guardava ai suoi vecchi lavori e li sentiva lontani anni luce, come appartenenti alla mano di qualcun altro; alle dita esperte di una persona completamente distante e diversa da quello in cui si era trasformato; o a quella grossa tela poggiata in un angolo e coperta da un lenzuolo immacolato, sotto cui giaceva il suo ultimo tentativo incompiuto di riprodurre quei lineamenti che conosceva anche meglio dei suoi, e che sembrava poterlo guardare e ricordargli la sua presenza in ogni momento; emblema del suo degrado come uomo, come artista e di quella sua abilità innata che tutti continuavano a vedere ed elogiare, meno che lui.
Lo sguardo gli cadde sul prezioso tavolino basso di vetro, su cui erano state sparse disordinatamente riviste e giornali in cui c’era almeno un accenno a quel “genio” che tutti decantavano quale Justin Taylor, ma in cui non riusciva a identificarsi. Con un gesto secco li rovesciò tutti a terra, liberando quella superficie trasparente da qualsiasi cosa.
Avrebbe voluto strapparli tutti, incendiare qualsiasi cosa lo riguardasse da quando si era trasferito in quella stramaledetta città per seguire un sogno che ben sapeva essere meno importante dell’altro, che continuava a conservare in fondo al cuore.
Si ravvivò i capelli e riprese il cordless in mano, fissandolo nell’indecisione di compiere un numero che, nonostante il tempo, non aveva mai dimenticato. Compose le prime cifre, per poi chiudere gli occhi e cancellarle tutte.
Non riusciva a chiamarlo; non dopo quello che si erano detti. Non dopo come era finita tra loro.
Perché era
finita.
Niente pause, niente “forse”. Era finita, punto e basta.
Respirò a fondo e tornò a distendersi sul divano, abbracciò il cuscino e chiuse gli occhi.
Aveva solo bisogno di dormire, cullato dalle lacrime e dalla disperata speranza di non sognare ancora quel matrimonio mai celebrato.


*'*'*

"I miss you” - Blink 182


«Brian.» lo chiamò Cynthia, entrando nel suo ufficio carica di fogli e cartelle, con i capelli biondi acconciati con una matita. Lui però parve non sentirla, troppo impegnato a fissare un punto a caso davanti a sé e a stringere tra le mani quel cellulare di cui non riusciva a premere i tasti. «Brian, sei in fase creativa in un mondo parallelo o il logo della Apple è diventato improvvisamente interessante?»
Lui si limitò a sollevare lo sguardo, senza darle a vedere quanto in realtà fosse realmente perso in un altro mondo, e incrociò le mani in grembo, dopo aver posato malamente il cellulare sulla scrivania. «Cynthia.» la chiamò, con quel suo tipico tono di sufficienza. «Dimmi una cosa. Per cosa ti pago?»
«Perché svolgo il mio lavoro meglio di chiunque altro?» azzardò lei, con le sopracciglia inarcate per quella strana domanda.
«Uhm. Esatto.» convenne, e arricciò la bocca annuendo un paio di volte con la testa. «E tra le tue mansioni c’è per caso compreso l’obbligo di fare queste battute del cazzo?»
«Uh, uh. Qualcuno si è svegliato dal lato sbagliato questa mattina?» replicò la donna, ma l’occhiata poco amichevole che lui le rivolse, la distolse dal continuare a punzecchiarlo.
«Avanti, dimmi che vuoi prima che ti licenzi.»
«Tieni.» rovesciò quella marea di scartoffie sulla sua scrivania e sorrise, ticchettando con la penna sulle sue labbra. «Me li ha dati Ted. Ha detto di averli controllati almeno un paio di volte, ma se vuoi puoi ridarci un’occhiata.»
Brian sollevò qualche foglio distrattamente e lo lasciò ricadere. «No, mi fido.»
«Ehi, ma che ti succede?»
«Niente. Torna a lavoro.» prese il mouse e si finse impegnato a cercare qualcosa sullo schermo.
«È
niente da mesi. Ed è uno strano niente.»
«Cynthia!» esclamò con voce esasperata, e la vide sussultare.
«Sì, lo so. Se non vado mi licenzi.»
Brian fece uno dei suoi sorrisetti di circostanza, anche più falsi del solito, e l’osservò mentre usciva dal suo ufficiò, prima di riaffondare contro schienale della morbida poltrona in pelle e tornare a perdersi nei suoi pensieri.
Osservò la sua agenda stracolma d’impegni, così piena da far sembrare ogni post uno strano groviglio di segni; staccò il post-it giallo che spiccava sugli altri e sbuffando lesse quelle poche righe, accennando ad un sorriso.

Festa del Ringraziamento a casa Bruckner Novotny. Non ti azzardare a mancare, o ti sguinzaglio dietro mia madre.”

Inutile dire che non aveva nessunissima voglia di sedersi a tavola e assistere all’esibizione del matrimonio perfetto – quello di Ben e Michael – del fidanzamento perfetto – con Ted e Blake – o subirsi i piagnistei dell’altro single rimasto – quella checca isterica di Emmett – né tantomeno poteva anche lontanamente pensare di dover sopportare Debbie che cercava di rimpinzarlo con quel dannato tacchino ricordandogli ogni circa dieci minuti quanto fosse dimagrito e sciupato, come se sentirselo dire potesse farlo star meglio.
Era vivo, lo sapeva e non aveva certo bisogno che gli altri glielo ricordassero continuamente, ma voleva stare solo ed essere lasciato in pace.
In fondo, lui non aveva proprio un bel niente per cui dire “grazie”, specie se ripensava alla delusione ricevuta proprio in quella stramaledetta festività, esattamente un anno prima, quando Justin all’ultimo minuto l’aveva chiamato per dirgli che non sarebbe riuscito a tornare a Pittsburgh.
Aveva aspettato così tanto quel momento e la possibilità di poterlo finalmente riabbracciare, che sentire quelle parole era stato come ricevere un’improvvisa doccia fredda, e in un misero istante il suo sorriso si era raggelato fino a svanire.
Non era mai stato un tipo troppo pessimista, ma era stato inevitabile iniziare a pensare che quello fosse “l’inizio della fine”, esattamente come quando il
suo raggio di sole era partito per Los Angeles e aveva iniziato a rimandare il suo rientro; con la sola differenza che in quell’occasione erano riusciti a ritrovarsi.
Sbuffò rumorosamente, dopo aver gonfiato le guance ed essere riuscito a stento a trattenersi dall’afferrare il cellulare e chiamarlo, quando questo lo fece sobbalzare iniziando ad agitarsi e trillare.
Non volle illudersi di vedere
quel nome sul display e fu una mossa furba per evitare l’ennesima delusione, perché le lettere che vi lampeggiarono, andavano a comporre quello di tutt’altra persona: “Brandon”.
«Quante volte ti ho detto di non chiamarmi a lavoro?» si accanì immediatamente contro di lui, dopo aver risposto.
«Infatti ti sto chiamando sul cellulare.» rispose l’altro beffardo. Ancora non era riuscito ad abituarsi all’idea che potesse esistere qualcuno irritante esattamente quanto era capace di esserlo lui stesso.
«Che vuoi?» si affrettò a chiedergli. Non aveva voglia di perdere tempo a conversare.
«Il solito. Stasera Babylon?»
Brian restò in silenzio per un attimo e si umettò le labbra.
«Sì, certo.» rispose infine, e sentì l'altro ridere.
«D’accordo, Kinney. Ci vediamo là.»
«Ciao.» si limitò a replicare, prima di riattaccare senza alcun entusiasmo.
La loro era certamente la peggior “coppia” – sempre che così si potessero definire – di “non amici” di questo mondo. Lui e Brandon non erano
niente.
Non erano amici, ma a malapena conoscenti. Non avevano avuto nessun incontro a sfondo sessuale né progettavano di averne uno; o almeno non rientrava nelle intenzioni di Brian. L’unica cosa che interessava l’uno dell’altro, e che quindi faceva da collante a quell’assurda alleanza, era il loro modo di essere e di fare.
Per quanto fosse assurdo che due “re” potessero convivere nello stesso regno, avevano trovato il modo di farlo, perché entrambi trovavano conveniente quel rapporto.
Brandon dal canto suo riceveva ogni agevolazione dall’essere in compagnia del padrone del locale, mentre Brian poteva contare sul fatto che non avrebbe mai sentito petulanti raccomandazioni o dissensi da uno come lui, fatto della sua stessa identica pasta. Brandon era quello che gli ci voleva per non pensare a Justin, al cambiamento che per il suo amore era stato capace di fare, ma soprattutto per provare a tornare ad essere quello di un tempo, prima di quella maledetta notte trascorsa da quasi sette anni ormai.
Infilò il cellulare nella ventiquattrore di pelle nera e, dopo essersi sistemato la giacca, s’infilò il cappotto e raggiunse Cynthia. «Io me ne vado.» le disse, lasciandola di stucco. «Disdici gli appuntamenti per oggi. Inventati qualcosa.»
«Brian, ma…»
«Quale parte del 
disdici gli appuntamenti non ti è chiara?» sbottò con uno sguardo fulminante. «Io sono il capo, tu la mia assistente. E a meno che le cose non siano cambiate nel giro di qualche minuto, sono ancora io quello che prende le decisioni.»
Cynthia prese in mano la cornetta e cercò un numero sul palmare, lanciando di tanto in tanto occhiate a Brian che nel frattempo stava uscendo con grandi falcate. «Faresti bene a chiamarlo. Stai diventando peggio di una zitella acida.»
Lo vide bloccarsi sulla soglia e voltarsi appena. «Non ti pago per farmi da psicoterapeuta, né come cupido per froci. Fatti gli affari tuoi e fa quelle cazzo di telefonate.»
«Ok, capo.» sibilò sollevando le sopracciglia e si riscosse, quando lo sentì sbattere la porta. «Cristo, fa che quell’angelo torni a Pittsburgh o ci mangerà vivi.»

Uscire all’aria aperta fu liberatorio, almeno per qualche secondo, prima che la sua mente iniziasse a registrare ogni singolo angolo di quella dannata città in cui lui e Justin avevano parlato, riso o litigato; o perfino scopato.
Aveva iniziato a detestare quel posto dove ogni cosa sembrava esser stata segnata da quella loro assurda storia, che si era ostinato per anni a non voler definire tale, ma che lo aveva incatenato molto più di qualsiasi altro legame.
Aprì rabbiosamente la portiera della sua Corvette e si lasciò ricadere sul sedile, dopo aver gettato la ventiquattrore sul posto del passeggero, e appoggiò la fronte sul volante. Inspirò profondamente e accese la radio.
Non voleva pensare e non voleva ricordare, eppure qualunque cosa facesse, alla fine sembrava rivelarsi sempre completamente inutile. Continuava a vedersi scivolare tra le dita la sua intera vita, come se non riuscisse più a controllarla, volatile e inafferrabile come fumo, mandandolo letteralmente in bestia.
Lui che era abituato ad avere il controllo su ogni aspetto della sua esistenza; lui che faceva e imponeva le proprie regole con chiunque; lui che non doveva rendere conto a nessuno, che non aveva pensieri ed era
libero da qualunque cosa, si era ridotto ad essere intrappolato nel caos di una speranza di felicità persa, che andava contro tutti i suoi principi e che l’aveva cambiato così radicalmente da avergli fatto smarrire ciò che era sempre stato.
Il vecchio Brian Kinney non esisteva più, e lui non riusciva ad accettarlo.

«Non ce la faccio più!» lo sentì urlare attraverso il telefono. «Possibile che tu non ci sia mai? È un anno che non ci vediamo! Un fottutissimo anno!»
«E credi che la colpa sia solo la mia?» alzò la voce a sua volta e tirò un calcio su una delle travi del loft. «Infatti, devo dire che il giorno del Ringraziamento l’abbiamo proprio trascorso bene insieme!» pronunciò ironico con il suo solito sorrisetto stampato in faccia, anche se dentro si sentiva ribollire di rabbia.
«È per lavoro che sono rimasto a New York, lo sai anche tu!» ribatté Justin e gli venne da ridere. «Potevi raggiungermi. Potevamo passarlo qua!»
«Sai che non voglio intromettermi nei tuoi affari.» aveva ripetuto così tante volte quella frase che ormai ne aveva perso il conto.
«Assistere a una mostra la chiami un’intromissione?!»
«Che cazzo c’entro io con quella roba?!» corrugò la fronte e si passò una mano tra i capelli. «Era inutile che venissi là. Non avremmo avuto tempo per stare insieme.»
«Di certo non ne avremmo mai se continuiamo a stare in due città diverse, e se tu ti ostini con questa stronzata dell’intromissione!»
«Sapevi che sarebbe stato così quando sei partito. Quindi non dare la colpa a me!»
«Brian, tu mi hai detto di non rinunciare al mio sogno! Tu mi hai detto di non voler sposare qualcuno che rinunciava a se stesso per amore!»
«E mi pare che fossi d’accordo.» si limitò a puntualizzare. Conosceva a memoria ogni battuta di quella discussione. Da troppo tempo non parlavano d’altro.
«Penso sempre più che sia stata una cazzata.» mormorò Justin, così fievolmente che riuscì a malapena a sentirlo.
«Cosa?» trovò il coraggio di chiedere, dopo aver deglutito. «Andartene o continuare a stare insieme?»

«Andarmene.» rispose dopo qualche secondo. «Anche se non credo che si possa parlare di 
stare insieme. Non era così che l’avevo immaginato.»
«Non è giusto, non è bello…» iniziò lui, lasciando la frase a metà. Sapeva che il suo raggio di sole l’avrebbe terminata.
«…ma è così.» sospirò e gli parve di sentirlo singhiozzare. «Non ce la faccio, Brian.»
«Lo so.» fu l’unica cosa che seppe dirgli, nonostante il suo cuore gli urlasse tutt’altre parole.
«Forse…» iniziò Justin incerto, e Brian già sapeva che non avrebbe mai voluto sentire il resto. «…sarebbe meglio lasciar perdere.»
«Forse, sì.»

Inforcò gli occhiali da sole per nascondere la luminosità dei suoi occhi verdi, bagnati da lacrime che non si era ancora permesso di piangere, e girò la chiave per mettere in moto, osservando la sua immagine riflessa nello specchietto. «Brian Kinney, ma come cazzo ti sei ridotto?» rise di se stesso, prima di scuotere la testa e immettersi nel traffico, diretto verso il negozio di Michael.



*'*'*


«Sono tre dollari e settantacinque.» comunicò al ragazzino, prima di battere sui tasti della cassa e imbustare il fumetto. Prese i soldi e sorrise. «Grazie.»
«Alla prossima!» lo salutò, avviandosi verso l’uscita e scostandosi su un lato per far passare qualcuno che stava entrando; qualcuno che era solo una vaga ombra del suo migliore amico.
«Come mai l’imprenditore frocio più importante di Pittsburgh vaga da queste parti?» gli chiese, appuntando la vendita sul computer.
«L’imprenditore frocio più importante,
punto.» ribadì per l’ennesima volta, togliendosi gli occhiali da sole per mordicchiare una delle aste.
Michael sorrise e scosse la testa rassegnato. In fondo un po’ ammirava il suo tentativo di dimostrare che stava bene dopo la sua rottura con quella testolina bionda, ma poteva convincere e ingannare il resto del mondo, non certo lui.
«Se sei qui per dirmi che non ci sarai alla cena del Ringraziamento, ti avverto che mia madre è pronta a strapparti l’unico coglione che ti è rimasto.»
«E togliere alle lesbiche la possibilità di procreare grazie a uno sperma di prima categoria?» ammiccò e prese in mano uno dei fumetti, fingendo interesse. «Sarebbe troppo crudele perfino per lei.»
«Non si sa mai cosa può succedere con Deborah Jane Grassi Novotny.»
Lo vide sorridere, ma era ben lontano dal credere che fosse uno di quelli sinceri. «Non penso di venire comunque. Credo che me ne andrò a Ibiza.»
«Devo preoccuparmi?» chiese, abbassando lo sguardo al cavallo dei suoi pantaloni firmati.
«Alla
vera Ibiza.» specificò, inarcando le sopracciglia. «Mi merito una bella vacanza. In fondo la Kinnetik non potrebbe andar meglio.»
«Già, la Kinnetik.» mormorò Michael, guardandolo dritto negli occhi. «E tu come stai?»
Brian allargò le braccia, come per indicargli quanto fosse dannatamente bello e sorrise. «Indosso un nuovo completo di Armani, mocassini di Gucci, cappotto di Hugo Boss e ho un portafoglio strapieno. Sono il frocio più realizzato di Pittsburgh e ancora il migliore sulla piazza. Chi sta meglio di me?»
«Sto parlando seriamente.»
«Anch’io!» esclamò, con una smorfia stranita.
«Non l’hai più sentito?» domandò allora con un sospiro. Quando ci si metteva era peggio di un bambino; e pensare che si era anche convinto che fosse finalmente maturato
«Chi?»
Michael roteò gli occhi e incrociò le braccia al petto. Era ogni giorno più dura provare a superare la scorza ruvida e dura dietro la quale era tornato a chiudersi, ma non voleva pronunciare quel nome. Ormai quelle sei lettere erano diventate una specie di tabù. «Sai benissimo di
chi sto parlando.»
Brian distolse lo sguardo e si passò la lingua sulle labbra, com’era solito fare quando odiava dover rispondere a qualcosa.
«Mickey, ascoltami. Mi stai ascoltando?» aspettò che annuisse e sorrise. «Non so di che cazzo tu stia parlando e neanche m’interessa. Io sto benissimo, perciò falla finita con queste tue fottutissime convinzioni e smettetela tutti quanti, una buona volta, di tentare di psicanalizzarmi.
Io sto bene, chiaro?»
«Brian, ascoltami tu adesso.» replicò, e si sforzò di ignorare quel mugolio infastidito che uscì dalle labbra del suo migliore amico. «Smettila di fingere. Non ti fa bene.»
«Dio, sembri tua madre!»
«Sto solo dicendo la verità! Siamo amici da una vita, puoi sfogarti con me! Non hai bisogno di nasconderti, lo vuoi capire?»
L’altro sorrise e sbuffò scocciato. «Grazie Mickey per l’ennesima seduta. Fammi sapere quanto ti devo e ti giro un assegno.»
«Brian…» lo chiamò, nel tentativo di fermarlo mentre si dirigeva verso la porta.
«Ci vediamo!» esclamò in risposta, e uscì dal negozio con un sorrisetto odioso.
Michael appoggiò entrambi i palmi sul bancone e sbuffò rumorosamente.
Odiava vedere il suo più caro amico – quello che riteneva un fratello – lasciarsi andare al suo dolore e non accettare l’aiuto di nessuno. Odiava essere allontanato da lui e rendersi conto di non poter far niente per farlo stare meglio.
Ci pensò su un attimo e poi sollevò la cornetta, digitando un numero per effettuare una chiamata internazionale. Gli sarebbe costata un po' cara, ma non sapeva più dove sbattere la testa. «Pronto, Linz?»
«Michael!» la sentì esclamare, sinceramente felice. «Come stai?»
«Direi bene. Lì le cose come sono?»
«Tutto ok, ma Jenny Rebecca non c’è adesso. È fuori con Mel e Gus.»
«Non importa, è te che cercavo.» sospirò e si decise a continuare, anche se già poteva immaginare quanto si sarebbe incazzato Brian se l’avesse saputo. «Si tratta di Brian.»
«Come sta?» gli chiese lei, con uno tono di voce decisamente meno felice.
«È Brian! Non ammetterà mai che sta soffrendo e tenterà fino alla fine di nasconderlo a chiunque, ma…»
«La realtà è che sta da cani.» completò la sua frase.
«Già…»
«Hai parlato con Justin ultimamente?»
«No. Non saprei che dirgli.» rispose, ma la realtà era anche che non voleva intromettersi. Quello, Brian non glielo avrebbe perdonato davvero. «Tu hai sue notizie?»
«Ci ho parlato per poco più di un minuto. È praticamente irreperibile, ma non c’è bisogno di parlare per capire come sta. Mi basta leggere una delle migliaia di recensioni che scrivono ogni giorno su di lui.»
«Sì, ho letto qualcosa.» sorrise e fece una smorfia. «Prima che mia madre mi strappasse il giornale dalle mani e lo gettasse nella spazzatura. È convinta di farlo per il bene di Brian. Cerca di tenerlo all’oscuro di tutto, come se lui vivesse solo al Diner e non potesse leggere i giornali in altre occasioni!»
«Be’, chiunque non fa altro che elogiare le sue opere definendolo un genio. Un ragazzo prodigio. Ma anche a chi non s’intende d'arte basta dare una semplice occhiata per capire che è cambiato qualcosa dalle sue prime esposizioni.»
«Un 
periodo cupo.» convenne lui, citando le uniche parole che era riuscito a leggere di un’intestazione, prima che la mano di Debbie arrivasse ad accartocciare l’intero giornale.
«Credi che tornerà a casa per il Ringraziamento?»
«Non lo so. Non credo.» replicò, seppur una parte di sé continuasse a sperare il contrario. Se pensava a quanto aveva trovato fastidioso il modo in cui quel moccioso biondo era piombato nelle loro vite – soprattutto in quella di Brian – e a quanto si era ingelosito per come Justin era riuscito in quello in cui lui aveva sempre e solo fallito, gli veniva da ridere. Alla fine, come tutti del resto, anche lui aveva imparato a voler bene a quel
raggio di sole e adesso non desiderava altro che vederlo di nuovo a Pittsburgh. Sia perché in fondo gli mancava averlo attorno, sia per rivedere Brian sorridere. «Per questo ti ho chiamata. Che ne pensate di venire da noi? Credo che a Brian farebbe bene rivedere Gus e passare del tempo con lui.»
«Penso di sì. Ne parlo a Mel quando torna.»
«D’accordo.» sorrise, mentre in lui si accendeva una fievole speranza.
«Ti chiamo più tardi.» gli disse, prima di aggiungere: «Nel frattempo, occupati tu di lui.»
«Ok, come sempre.» rise e la salutò, per poi attaccare e iniziare a mordicchiarsi le labbra nervoso; perché sapeva bene quanto sarebbe stato più difficile prendersi cura di Brian, dal momento che non si trattava più di riportarlo a casa perché era troppo fatto per guidare, ma di riattaccare i pezzi di quel cuore che una volta sola nella vita si era permesso di donare a qualcuno, e che era stato disastrosamente sbriciolato.


*'*'*


«Signor Taylor!» esclamò un uomo panciuto ed elegante, porgendogli la mano. «È una vera fortuna poter assistere ad una sua personale. Lei è un vero genio!»
«Troppo gentile.» sorrise e strinse quella mano umidiccia. «Signor?»
«Rizzo. Peter Rizzo.»
«Rizzo?» domandò incuriosito. «Origini italiane?»
«Esatto. Mio nonno lo era.» rise, con la sua voce cavernosa. «Ma non parliamo di me. Piuttosto ci tengo a farle i miei più sentiti complimenti. Da tempo non si vedevano opere di questo genere! Si lasci dire che si è meritato pienamente le voci che girano su di lei!»
«Spero siano positive!» si sforzò di scherzare, per quanto gli restasse difficile. Stupidamente, anche solo l’aver saputo delle origini italiane dell’uomo che gli stava davanti, l’aveva portato a pensare a Debbie e a Pittsburgh.
«Certo che sì!» puntò un dito nella sua direzione e sorrise. «Lei ha tutte le carte in regola per arrivare
molto lontano. Più di quanto immagina!»
«Lo spero vivamente, signore.» mentì spudoratamente. In realtà l’unica cosa in cui sperava era di trovare il coraggio di tornare indietro alla sua città, che non distava che poche miglia, ma che sembrava lontano migliaia di anni luce.
«Bene, è stato un vero piacere conoscerla. Adesso è meglio che vada.»
«Piacere mio. Arrivederci.» disse e gli porse nuovamente la mano.
Quel Peter restò per un attimo a fissarlo, continuando a stringere le sue dita e sorrise. «Può giurarci, signor Taylor. Può giurarci.»
Justin non comprese il perché di quel guizzo luminoso in quegli occhi scuri, ma non ci fece poi così caso. Semplicemente si limitò ad osservarlo mentre usciva dalla sala e a sorridere per quel suo buffo modo di camminare – dondolando a destra e a sinistra ad ogni passo, forse per la mole decisamente generosa – e per la cordialità con cui salutava chiunque incontrasse.
Era certo di non averlo mai visto prima d'ora, né di aver sentito il suo nome – probabilmente anche perché nonostante fosse nel
clou della vita mondana della Grande Mela, era sempre rimasto sulle sue. Comportamento un po’ da asociale forse, ma non era riuscito a fare diversamente – eppure dal modo in cui tutti si premuravano di salutarlo o scambiare almeno due chiacchiere, doveva essere un pezzo grosso di quel mondo a cui ormai anche lui apparteneva.
«Ti prego, dimmi che non hai fatto gaffe!»
Justin si voltò con le sopracciglia inarcate nel sentire il suono di quella voce, fin troppo familiare da poco più di un anno. «Jace, per chi mi hai preso?»
«Per un asociale ignorante che, potrei scommetterci le mie chiappe rifatte, non ha la più pallida idea di chi sia quell’uomo.» gesticolò nevrotico, sistemandosi la sciarpa di seta vistosamente fucsia intorno al collo.
«Le tue chiappe sono salve.» rise. Jace era una delle poche persone a cui aveva permesso di avvicinarlo, e che ancora riuscivano a farlo ridere davvero. L’aveva conosciuto per caso, in un buffo incontro sullo stile di quei film melensi e poco probabili che Daphne si ostinava ad adorare. Si erano
scontrati per le scale, entrambi di fretta, lasciando volare in aria alcuni schizzi di Justin ed i progetti di Jace. Si erano scusati velocemente l’uno con l’altro senza guardarsi neanche in faccia – o meglio, Justin non l’aveva fatto, troppo perso nei suoi pensieri – e avevano proseguito per la loro strada. Probabilmente non si sarebbero neanche riparlati, se tra i fogli di Jace non fosse finito uno dei disegni dell’altro, che si era premurato di riportargli la sera stessa, dando poi vita ad una chiacchierata dapprima imbarazzata, poi sempre più accesa. Da lì Jace aveva scoperto di abitare nello stesso palazzo di un astro nascente dell’arte contemporanea, emozionandosi come un bambino come per ogni volta che sentiva “odore di VIP”, mentre di lui, Justin aveva saputo che lavorava come designer in un’azienda molto famosa a New York. Da quel giorno non era più riuscito a liberarsi di quella sua confusionaria ed ingombrante presenza e, forse, era stato meglio così. «Quindi, vuoi dirmi chi è o provo a indovinare?»
«Peter Rizzo, Justin! Peter Rizzo!» esclamò, riprendendo a gesticolare. Certi suoi modi di fare gli ricordavano troppo Emmett, e forse era principalmente per quello che aveva accettato la sua compagnia. «Possibile che non ti dica niente questo nome?»
«Ehm, il tizio con cui parlavo prima?»
«È uno dei più famosi e importanti galleristi
europei!» rispose con tono scocciato. «Sai almeno cos'è l’Europa o il tuo mondo finisce a Pittsburgh?»
«Mi sembra di essere a New York adesso.» Jace sollevò un sopracciglio scuro e lo fissò con aria scettica. «E comunque ho visto l’Europa solo in cartina.»
«Dio, sei così
provinciale!» sbuffò con una smorfia. «Ancora mi chiedo come tu possa tirar fuori queste meraviglie. Sicuro di non soffrire di personalità multiple?»
«Jace, proprio tu! Lo sai che gli artisti sono gli
incompresi per antonomasia, no?»
«Già, soprattutto quelli gay.» mosse le mani verso il colletto della sua camicia e glielo tirò su. «Ma mai quanto i
belli e dannati. E credimi, tesoro, tu fai certamente parte della categoria! Questo tuo faccino d’angelo insieme a quell’aria da ‘lasciatemi in pace, sono inarrivabile, non voglio avere niente a che fare con nessuno di voi e se vi sorrido è solo perché sono ben educato’, farà impazzire schiere di finocchi e ragazzine etero con l’ormone in delirio, in qualunque angolo di questo mondo.»
«Io non ho l’aria da bello e dannato!»
«Certo, come no.» sventolò la mano sotto il suo naso e lo prese sotto braccio per condurlo chissà dove. «E a me piace la patata.» afferrò due calici di champagne e gliene porse uno. «Comunque, tornando a noi. Se riesci a farti prendere sotto l’ala di Peter Rizzo, credimi, hai la strada spianata per l’Europa mio caro! E potrai andartene alla conquista di qualche culo oltreoceano!»
«Devo ancora andare alla conquista degli Stati Uniti. Non voglio fare il passo più lungo della gamba.»
«Justin, sei l’anticristo degli artisti! Dovresti camminare almeno a due metri da terra ed essere sfrontato e ribelle con tutto il successo che hai avuto!» prese un sorso e continuò con i suoi sproloqui: «In fondo,
solo a New York, San Francisco, Los Angeles, Seattle, Chicago, Washington e Denver baciano la terra su cui cammini. E a Pittsburgh staranno già progettando le tazze con la tua faccia! Poi appenderanno un cartello con scritto ‘qui è nato Justin Taylor’ con tanto di visita guidata a pagamento e nomineranno una strada in tuo onore!» sollevò le sopracciglia e sbuffò. «Certo tesoro, hai proprio ragione a voler fare le cose con cautela! Ah, scusa, e dimenticavo Toronto e Vancouver in Canada.»
«Jace, tu mi sopravvaluti.»
«No, caro.
Tu ti sottovaluti
«Comunque sia, il problema non sussiste fino a quando questo famoso Peter Rizzo non verrà a propormi qualcosa, giusto?» aspettò che l’altro annuisse, seppur scocciato e concluse: «Quindi posso continuare a fare il
provinciale ancora per un po’. E stasera direi che possiamo andare a Chelsea a bere qualcosa.»
«Ci vediamo allo Splash?»
«No, pensavo di andarci giovedì allo Splash, stasera avrei voglia del Barracuda. Ti va?»
Jace restò a fissarlo stranito con i suoi occhi nocciola, impreziositi da mascara e matita nera. «Giovedì è il giorno del Ringraziamento. Non torni a Pittsburgh?»
Justin s’irrigidì nel sentirglielo pronunciare. Si era sforzato così tanto di non pensarci che alla fine aveva finito col dimenticarsene. «No, non credo. Perché dovrei?»
«Fammi pensare…forse perché l’anno scorso ti è quasi venuta una crisi isterica per non averne avuto la possibilità? Oppure perché tutta la tua famiglia è là, sia quella canonica che non? O magari per…»
«Non dirlo.» lo ammonì. «Non voglio…»
«…
sentire quel nome, lo so.» replicò l’altro, ripetendo quella frase come un mantra. «Certo che potevi scegliertelo con un nome meno comune, che so, Absalom, Crispian o Zubin!»
«
Zubin?» sollevò il labbro schifato. «È anche peggio del nome da fata di Michael.»
«Di cosa?»
«No, niente. Lascia stare.» rise tra sé e sé. «Comunque non penso di tornare a Pittsburgh. Non ha molto senso, considerando che neanche tre giorni dopo dovrei tornare qua e scappare ad Atlanta.»
«Atlanta?» si passò una mano sulla faccia e roteò gli occhi. «Justin, di grazia, che cazzo dovresti fare ad Atlanta?»
«C’è la mostra, no?»
Jace sospirò e gli circondò le spalle con un braccio, facendo frusciare la sua costosa camicia bianca con i bordini in pendant con la sciarpa. «Atlanta è una mostra già brillantemente avviata, e non hai affatto bisogno di portare il tuo culo in quel posto.» gli diede una pacca sul sedere e continuò, ignorando le sue occhiatacce: «Perciò questa opera d’arte, e sì, mi riferisco ancora al tuo culetto di marmo, è bene che vada in Pennsylvania ed affronti i fantasmi del suo passato...uuhhh!» Justin lo fissò scettico, ma non si fece scoraggiare. «Ovviamente supportato dal tuo amico Jace Wilson.»
«Cosa?!»
«Andiamo, me l’avevi promesso! Voglio assolutamente vedere questo famoso Babylon!»
Justin si liberò dalla presa tentacolare dell’amico e si maledisse per aver bevuto troppo quella notte di circa nove mesi fa, dopo l’ennesimo litigio telefonico con Brian, in cui si era sfogato con lui e gli aveva raccontato ogni singolo bel momento trascorso in quel locale, per esorcizzare i pensieri tristi. «Io non ti ho promesso niente.»
«Bugiardo!»
«Ero ubriaco, Jace! Quello che dico quando sono fradicio non conta!»
«Sì, invece.» protestò con il broncio. «Justin Taylor e Jace Wilson alla conquista di Pittsburgh! ‘J and J’, non fa figo?»
«No, sembriamo una marca di caramelle.»
«Andiamo bel biondo!» lo incitò, scompigliandogli i capelli. «Cos’è? Hai paura?»
«Non ho paura! E poi non ha senso! Avranno già preso impegni e non posso piombare così a casa della gente!»
L’altro sbuffò, poi improvvisamente sorrise e fece schioccare la lingua. «D’accordo, allora andiamoci stasera o domani!»
«Stasera?» ripeté incredulo. Sapeva di avere a che fare con un pazzo, ma non pensava fosse tanto squilibrato.
«Sì! Adesso ce ne andiamo a casa, facciamo i bagagli e partiamo!»
«Non è detto che ci siano voli disponibili.» replicò con aria da saputello, sperando di riuscire a dissuaderlo.
«E chi ha parlato di aereo? Hai ancora quella splendidissima e
frocissima macchina da esporre!» saltellò entusiasta sul posto e per un attimo gli parve di vedere Emmett in quel suo sorriso esagerato.
«Jace, da New York a Pittsburgh ci vogliono almeno cinque ore!» si lamentò incredulo. «E sono già stanco!»
«Appunto!» strillò Jace, e Justin si trovò a fissarlo sconcertato. Non sempre riusciva ad afferrare il filo dei suoi ragionamenti. «Proprio per questo ti ho detto che dobbiamo correre a preparare i bagagli!» guardò l'orologio da polso e affermò: «Se ci muoviamo, per le… nove di questa sera saremo lì!»
«Jace,
sono stanco.» ribadì, ma l'altro non si arrese.
«D’accordo, allora domani!»
«Quale parte del ‘non verrò a Pittsburgh’ non ti è chiara?» domandò, e mai come allora ebbe l’impressione di sentirsi parlare esattamente come Brian.
«Oh, tu verrai. Verrai eccome!» sorrise sornione, come se avesse già vinto; e Justin non poteva neanche lontanamente immaginare quanto fosse vicino alla realtà dei fatti.

***

Note finali:

Salve! XD è la primissimissima volta che scrivo in questo fandom, ma dopo aver visto Queer as Folk e averlo letteralmente divorato in meno di due settimane, non sono riuscita a trattenermi dallo scrivere una sesta stagione, nell'attesa e speranza di vederne una ufficiale, o almeno un film, prima o poi!
So che di "seste stagioni" ne esistono già un po' su questa sezione, ma considerando che proprio non riuscivo a disintossicarmi da Brian e Justin, ho voluto provare a liberare le mie fantasie su di loro e sul resto del cast, per vedere quello che ne sarebbe venuto fuori!
Cercherò di concentrarmi un po' su tutti i personaggi, come fosse una serie vera e propria, anche se il "clou" della situazione sarà sempre e solo "Britin"...perché è più forte di me! Per quanto ami anche altri personaggi della serie, Brian e Justin hanno letteralmente rapito il mio cuore, occupando il primo posto tra le coppie dei telefilm! <3
Mi auguro di restare più o meno IC con i personaggi, spercie con Brian che, bene o male, credo sia quello più difficile da trattare, ma soprattutto con Michael, perché per quanto ci provi a farmelo rimanere simpatico o comunque neutrale, proprio non ci riesco...e non vorrei che questa antipatia trasparisse anche attraverso i capitoli.
Insomma, come avrete capito è trascorso un anno e mezzo da quando Justin ha lasciato Pittsburgh e sono sei mesi che i due "piccioncini" hanno rotto i ponti, perché incapaci, per un motivo o per un altro, di reggere le redini della situazione. Il perché, conoscendoli entrambi, credo sia abbastanza ovvio, comunque sia sarà spiegato presto!
Non credo ci sia molto altro da precisare in questo capitolo, perciò spero vi sia piaciuto e comunque, è ovvio che potete contattarmi per qualsiasi chiarimento!

Ah, ovviamente la dicitura "altro personaggio" si riferisce a Jace e ad altri che comprariranno più o meno frequentemente e con più o meno rilevanza e, ancora ovviamente, i personaggi di Queer as Folk non mi appartengono e bla, bla, bla...la solita solfa, insomma!

La scelta delle canzoni è semplicemente dettata dal fatto che riconducono a qualche frase o al contenuto del capitolo, o perché per scrivere quello specifico paragrafo, ho ascoltato quelle...ovviamente, ognuno è libero di creare la propria "colonna sonora", o di non crearne affatto...è semplicemente una cosa che mi aiuta a scrivere, tutto qui! XD
Nel caso comuque vogliate ascoltare quelle che ho scelto, vi consiglio di cliccare sul link con il destro e aprire la pagina in un'altra finestra...altrimenti rischiate che venga caricata al posto della storia. :) purtroppo non ho ancora ben capito come fare per farla aprire altrove. -.-''

Ringrazio anticipatamente tutti coloro che leggeranno questa storia, ma soprattutto ci tengo a ringraziare di cuore Elena - nonché la mia beta "Trappy" - che è diventata una Queer as Folk addicted a causa mia, che sopporta tutti i miei colpi di testa e con cui intrattengo infinite conversazioni sull'argomento, quasi al limite del paradossale.
Per farla breve...siamo così innamorate e in astinenza da questo telefilm, che ormai possiamo definirci seriamente malate!

Ancora grazie a tutti, e a presto.
Se tutto va bene, dovrei riuscire ad aggiornare ogni due settimane. :)

Un bacio, Veronica.

PS. Non ho mai capito di che colore siano gli occhi di Gale - e quindi di Brian - credo siano un marrone-verde cangiante, di quelli che cambiano tonalità con il sole...comunque sia, alla fine, siccome dire "marrone-verde cangiante" era un tantino lungo da scrivere ogni volta XD ho optato per un verde scuro. Quindi, non preoccupatevi, non sono daltonica...è solo che quegli occhi sono così belli e particolari, ma anche letteralmente indefinibili nel colore!

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Capitolo 2
*** Come home. ***


2.Come home

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6x02 – Come home.
[capitolo betato da Trappy]

“Hide u” - Kosheen


Le luci psichedeliche continuavano la loro danza colorata imperterrite, riproducendo la stessa magica atmosfera da anni e anni; un’atmosfera di cui non si era mai stancato, di cui credeva di non poter fare a meno, tanto da averlo indotto a comprare quel posto e riportarlo al suo splendore più di una volta.
Per Brian Kinney, il Babylon era una specie di regno o una “zona di caccia”, dove poteva ritenersi il migliore in assoluto e il più desiderato.
L’unica persona che l’aveva quasi spodestato se ne stava appoggiata al bancone di fianco a lui, sorseggiando tranquillamente birra, dopo esser stato battuto in quella loro sciocca sfida e che, per qualche assurdo motivo, aveva finito per diventare il suo “compagno di nottate”; mentre l’
altra persona, quella che era riuscita a far passare in secondo piano ciò che fino al suo arrivo era stato il suo passatempo preferito; quella che aveva stravolto il suo modo di essere e i suoi credo; quella che in poche parole l’aveva cambiato, dandogli altre priorità, era lontana miglia e miglia da lui.
Ordinò una tequila e la trangugiò con un solo sorso, strizzando gli occhi per il bruciore che gli solcò la gola, prima di ordinarne un’altra e farle fare la stessa identica fine.
«Sei più silenzioso del solito.» esordì Brandon, soffiando le parole al suo orecchio.
«Non mi pare di essermi mai impegnato in qualche patetico dibattito esistenziale con te, né sulla politica, sui diritti dei finocchi, sulla fame del mondo o qualsiasi altra stronzata di questo genere.» gli fece un sorrisetto di circostanza e ordinò un Chivas Regal.
«Effettivamente no.» convenne l’altro, e sollevò le spalle. «Ma c’è sempre una prima volta.»
Brian lo guardò disgustato, tenendo il bicchiere a mezz’aria. «Ma per favore!»
«Stavo solo scherzando.»
«Lo spero davvero, o potrei seriamente vomitare.» scolò interamente il liquido ambrato e posò il bicchiere sul bancone.
Brandon gli fece un cenno con la testa e sorrise. «Se continui così, non andrai molto lontano.»
«Grazie per l’avvertimento,
mammina.» sputò acido. «Ma se avessi avuto bisogno di una balia, me ne sarei andato a trascorrere una penosa serata sul divano di casa Bruckner Novotny!» fece una smorfia e l’altro sollevò le mani in senso di resa.
«È che sembri turbato da qualcosa.»
«Oh Cristo!» imprecò e sollevò un sopracciglio. «Se proprio devi muoverla quella cazzo di bocca, usala per qualcosa di più utile! Vai a succhiarlo a qualcuno invece di fracassarmi l’unico coglione sano che mi è rimasto.» si allontanò con fare nervoso e superò la calca di gente, fino alla porta della Dark Room. Varcò la soglia, con lo sguardo dritto avanti a sé, ignorando le moine che ogni uomo là dentro si premurava di rivolgergli e tirò fuori dalla tasca il popper per inalarlo da entrambe le narici, nella speranza che servisse ad annebbiargli la mente quel che bastava per cancellare certi pensieri.
Sentì qualcuno picchiettargli sulla spalla e si voltò, lasciando che sulla sua faccia si disegnasse una smorfia, nel momento in cui si trovò davanti capelli biondi e occhi azzurri; ma non quelli che avrebbe davvero voluto. «Che cazzo vuoi ancora?»
Brandon sorrise divertito. «Che tu ammetta che ho ragione. È evidente che hai qualcosa che non va.» si avvicinò di più al suo viso ed unì le mani dietro la propria schiena. «Non che tu sprizzi gioia da tutti i pori di solito, ma stasera sei anche
peggio
Brian sbatté più volte le palpebre e si lasciò andare a una risata. Si passò la lingua sulle labbra e sorrise. «Che cazzo di problema hai?» scosse la testa e lo guardò storto. «Se questo è un patetico tentativo di approccio perché sei ancora deluso della volta che non te l’ho messo nel culo, piantala immediatamente. Sei ridicolo.» si soffermò un istante a fissarlo, e con un sorriso si voltò di scatto per proseguire il suo tour fino a raggiungere uno dei suoi soliti posti; il suo preferito per l’esattezza: quello strano trono, sistemato dietro la rete.
Bastò un suo cenno agli occupanti per far si che questi se ne andassero e gli permettessero di abbandonarvisi sopra; e servì ancora meno prima che uno dei presenti – un bel ragazzo moro che non doveva avere più di venticinque anni, e che probabilmente si era già fatto – s’inginocchiasse davanti a lui, liberasse il bottone dalla sua asola e gli abbassasse la zip dei jeans.
Allontanò la sua testa quando questo cercò di baciarlo, con un’espressione infastidita e, passando una mano dietro la sua nuca, lo guidò verso l’unico posto del suo corpo dove le labbra degli estranei potessero sostare. Strinse quei capelli scuri tra le dita, abbandonò la testa all’indietro e dischiuse le labbra. Si passò la lingua sulla bocca e sorrise, facendo un cenno con la mano libera di saluto, quando con la coda dell’occhio vide la figura di Brandon che lo stava osservando divertito, e altrettanto impegnato con un ragazzetto inginocchiato davanti a lui.
Quello era l’unico motivo per cui l’aveva lasciato avvicinare e per cui gli aveva concesso di conoscere un poco di sé: Brandon era simile al Brian che era un tempo.
Con lui – almeno solitamente – non doveva sviare domande fastidiose come con tutti gli altri che avevano vissuto il privilegio di camminare al fianco di
quel sorriso luminoso; non doveva sostenere le occhiate di disapprovazione per le sue scelte, né doveva giustificare i suoi sbagli; non doveva sopportare il dolore di dover condividere qualche ricordo di Justin…perché, semplicemente, Brandon non aveva mai avuto niente a che fare con il suo unico amore.
Trattenne il fiato e digrignò i denti, prima di emettere un lieve gemito, quasi infastidito, e venire nella bocca di quello sconosciuto, per poi allontanarlo malamente e risistemarsi.
Senza degnarlo di uno sguardo, uscì dalla Dark Room, dopo essersi limitato a un altro cenno di saluto per Brandon e raggiunse il bancone. Bevve l’ultimo shot di tequila e attraversò la pista per uscire dal Babylon.
Salì sulla sua Corvette e la mise in moto, con la testa che già vagava nel limbo dei suoi insistenti fantasmi, e il familiare groppo alla gola che puntualmente si formava al pensiero di dover tornare in un loft troppo buio e solitario, da quando un “raggio di sole” non era più lì a illuminarlo e scaldarlo.


*'*'*

«Non andremo a Pittsburg!» gridò per l’ennesima volta Justin, entrando in un negozio della 5th Avenue, seguito da Jace.
«Io scommetto di sì invece.» lo contraddisse l’altro, osservando distrattamente un completo di Armani fieramente sistemato su uno dei manichini. «Anche perché altrimenti non capirei questa tua improvvisa voglia di shopping.»
«Non posso voler far shopping per i fatti miei?»
«Certo ma…
Armani?» disse, indicando il cartellino appeso a una camicia.
«Posso permettermelo, lo sai!»
«Non ho dubbi su questo ma, non per essere il solito malfidato, sbaglio o
qualcuno, che spero conoscerò presto, ha una malsana passione per Armani?»
«Armani, Prada, Gucci.» elencò Justin. «Qualsiasi cosa di alta moda italiana se proprio vuoi saperlo, ma non c’entra affatto! Quando ci siamo conosciuti non indossavo cose del genere.» prese un paio di pantaloni neri dal taglio elegante e glieli sventolò sotto il naso, senza curarsi delle occhiatacce lanciategli dai commessi. «Perciò non c’entra affatto.»
«Magari vuoi solo mostrarti a lui più adulto di quando te ne sei andato. Mi pare di ricordare che all’inizio è stato un intralcio per voi, o meglio per lui, la differenza d’età…»
«Una camicia d’Armani non mi farà essere più adulto.»
«Più adulto no, ma un finocchio riccamente realizzato, sì!» finse di non vedere la sua espressione scettica e fece un cenno verso uno scaffale in cui erano stipati i capi della linea “Armani Jeans”. «E certamente con un paio di jeans slavati e strappati, avrai un culo che neanche una lesbica desisterebbe dal palpeggiarlo selvaggiamente.»
Justin lo fissò schifato. «Jace, grazie ma non dire mai più una cosa del genere. Potrei vomitare.» ed eccola lì, un’altra delle tante espressioni di Brian Kinney; e quasi gli vennero i brividi, come ogni volta che gli veniva sbattuto bellamente in faccia quanto lui ormai gli si fosse cicatrizzato dentro, tanto da diventare parte integrante dell’uomo che era diventato.
Un omosessuale di cui esser fiero.
Lo squillo del suo cellulare lo fece però sobbalzare improvvisamente e gli venne naturale sbuffare quando sul display lesse il nome del suo agente: «Gary, ciao.»
«Justin, dove diavolo sei?» chiese senza troppe cerimonie ed un’evidente crisi di nervi da gestire.
«Sulla quinta strada, con Jace.» rispose con voce strascicata.
Gary era una persona fantastica, l’aveva preso sotto la sua ala appena sceso a New York, riconoscendo il suo talento e facendosi in quattro per lui. C’erano state sere in cui avevano bevuto una birra insieme e in cui si era sorbito tutte le sue lamentele di ragazzino spaventato da quel nuovo mondo caotico e scintillante, e si era premurato di proteggerlo per non lasciarlo allo sbando in quella città rumorosa; ma oltre tutti questi enormi pregi, Gary era prima di tutto una persona estremamente diligente, che pretendeva professionalità da ogni suo collaboratore e metteva al primo posto il lavoro e la carriera.
Aveva puntato molto in alto con Justin; aveva riposto in lui un’enorme fiducia e non gli permetteva di allentare il ritmo. Non adesso che era sulla cresta dell’onda e doveva imparare a domarla per non affondare.
C’erano stati momenti in cui l’aveva detestato – soprattutto quando gli aveva impedito di rientrare a casa per il giorno del Ringraziamento – ma non era mai riuscito a biasimarlo. Tutto quello che aveva, lo doveva anche a lui e alla sua tenacia; si sentiva debitore in un certo senso nei suoi confronti e, per quanto a volte avesse desiderato fare le valige e correre a casa, alla fine dei conti non se l’era mai sentita di mollarlo lì e andarsene.
Gary aveva
solo quindici anni più di lui, ma si comportava come la figura paterna che gli era mancata da quando aveva fatto il suo “debutto ufficiale” nel mondo omosessuale e, a differenza dell’altro suo mentore, – per quanto, come Brian, fosse orgogliosamente gay – aveva i piedi ben saldati a terra, non era affatto arrogante o scostante, si assumeva sempre le proprie responsabilità e non si vergognava a mostrare i suoi sentimenti. Era una persona piacevole, colta, piena di sorprese; un uomo da cui si poteva sempre imparare qualcosa e, per quanto a volte risultasse tremendamente petulante o si lasciasse colpire da attimi di isterismo cronico, Justin provava un’immensa ammirazione e gratitudine nei suoi confronti…anche quando gli urlava contro come in quel momento. «Perché non mi hai avvertito? Ti ho cercato dappertutto e ieri sei sparito!»
«Ti ho lasciato un messaggio alla reception, e poi ormai avevo già vagato anche troppo per quella sala. Potrei dirti il numero esatto di mattonelle.»
Lo sentì sospirare contrariato, ma già sapeva che non era più arrabbiato. Per quanto Gary ci tenesse a una partecipazione attiva di Justin a quegli eventi, sapeva di non poter pretendere troppo da lui, e che era già tanto se gli aveva concesso il beneficio di qualche ora chiuso là dentro. «D’accordo.» soffiò allora. «Che intenzioni hai per il Ringraziamento?»
Di nuovo quella domanda. Sembrava che proprio nessuno avesse dimenticato l’esagerata reazione che aveva avuto l’anno precedente, quando era stato “incatenato” a New York. «Non saprei, perché?»
«Pensavo volessi tornare a casa.» replicò l’altro, senza celare la sorpresa nel tono della sua voce. «Mi ero già organizzato.»
«Organizzato cosa?» pronunciò allarmato. Quando Gary usava quella parola, c’era sempre da tenere le orecchie bene aperte, perché significava che ne aveva combinata una delle sue.
«Immaginavo volessi trascorrere del tempo con la tua famiglia e…»
«E…?» incalzò lui, stringendo spasmodicamente il cellulare. Gli tremavano le gambe solo al pensiero di rimettere piede in quel posto.
«Justin, c'è qualcosa che non so e che dovrei sapere?»
«Avanti, Gary!» esclamò con voce supplicante, facendo un cenno a un incuriosito e agitato Jace, intimandogli di stare zitto, e che gli avrebbe spiegato tutto più tardi. «Dimmi che succede!»
«Visto che è più di un anno che non torni là, e vista la tua reazione dell’anno scorso, ho pensato che ti avrebbe fatto piacere passarci del tempo…»
«Tempo?»
«Non è ancora niente di certo ma, diciamo almeno fino a Natale.» gli disse, e Justin sentì il suo cuore fermarsi per un attimo. «Pensavo che avresti potuto trascorrere anche le vacanze là.»
«È uno scherzo?» chiese titubante, dopo aver riacquistato il respiro e la voce.
«No.»
«Un pesce d’aprile in ritardo?»
«Neanche…»
«Un regalo di Natale anticipato?»
«Justin!» gridò esasperato. «Mi dici che ti prende?!»
«Niente, è solo che…»
Gary si lasciò sfuggire una piccola risata, finalmente conscio del perché il suo più caro cliente fosse così agitato.
Sapeva tutto dei suoi trascorsi, dei problemi in famiglia, l’aggressione, il fumetto e ovviamente di Brian e del matrimonio mancato. Sapeva della loro “recente” – almeno così lui si ostinava a definirla, nonostante fossero passati sei mesi – rottura e quanto quella ferita bruciasse ancora; sapeva dello sforzo immane che stava compiendo per resistere e non lasciarsi andare ma, per quanto cercasse di negarlo ogni volta con le parole, gli sembrava quasi di sentire il suo cuore supplicarlo di lasciarlo tornare a casa. «Te lo meriti, davvero.» pronunciò con dolcezza e sperò che fosse la mossa giusta.
I quadri di Justin si vendevano comunque a peso d’oro e con una velocità disarmante, nonostante il suo stile si fosse drasticamente incupito, ma per Gary era importante anche che lui fosse felice; per Gary, Justin, non era solo una macchina per fare soldi.
«Grazie.» sorrise, anche se il suo cuore sembrava improvvisamente sul punto di esplodere.
«Non farci ancora la bocca però. È tutto da sistemare per le mostre e non è detto che riuscirò a tenerti fuori dai giochi per tutto quel tempo.» lo avvertì e a Justin venne istintivo annuire con la testa, anche se non poteva vederlo. «Se non ci riesco...»
«Niente vacanze a Pittsburgh, lo so.»
«Esatto.» affermò deciso. «Quindi, quando hai intenzione di partire?»
Justin esitò per un attimo, poi lanciò un’occhiata fugace a Jace impegnato a ispezionare delle camice classiche con aria schifata; evidentemente troppo poco vistose per i suoi gusti; e sorrise. «Io e Jace pensavamo di fare un salto là già da domani sera. Tu quando vieni?»
«Ah, ma bene! E quando pensavi di dirmelo?» ridacchiò. Di certo non aveva perso tempo.
«Era solo un’idea. Saremmo comunque tornati il giorno dopo.» spiegò per rabbonirlo. «Ma visto che il mio agente è di tutt’altro avviso…quando pensi di venire a farmi visita?»
«E io che c’entro?»
«Semplice.» si ritrovò a sorridere nuovamente. «Voglio che tu veda dove è nata la tua gallina dalle uova d’oro!»
Gary scoppiò a ridere. «D’accordo, d’accordo
gallinella.» lo schernì. «Vedrò di passare a farti una visita, ma non esaltarti troppo.» si raccomandò, con la sua solita aria professionale e quel tono da “non mettiamo le mani troppo avanti”. «Non è detto che potrò venire, considerando che ancora non è sicuro neanche che tu possa restare tanto. Il lavoro è lavoro
Justin roteò gli occhi e sbuffò in modo da farsi sentire. Detestava quel suo modo di dire e l’aveva sentito talmente tante volte da averne la nausea. «D’accordo.»
«Fa buon viaggio allora.» gli augurò, cercando di rassicurarlo. «E se c’è qualche problema, chiama.»
«Certo.» esclamò e rise. «Chi meglio di te può gestire le mie crisi da adolescente depresso?»
«Cerca di dipingere, piuttosto, adolescente depresso!» scherzò, con un finto tono di rimprovero. «Non penserai certo di esserne esente!»
«Non sia mai, con te!» lo canzonò.
«Lo spero bene. Ci sentiamo presto, e salutami Jace.»
«Certo.» sorrise ancora, finalmente in modo sincero, e dopo averlo salutato riattaccò, per poi alzare uno sguardo luminoso verso Jace e sollevare maggiormente gli angoli della bocca.
«Cristo.» pronunciò l’altro, resosi conto delle sue attenzioni. «Credo di aver appena capito perché ti chiamano
raggio di sole’. Ti hanno detto che hai vinto alla lotteria, caro?»
«No, meglio!»
«Meglio?» inarcò le sopracciglia e lo fissò più attentamente. «Hai un harem personale?»
«Ritenta.» ridacchiò ed iniziò a girovagare per il negozio, raggiante.
«Insomma Justin, vuoi dirmi o no perché hai un sorriso che se solo non avessi le orecchie, ti farebbe il giro della testa?»
«Forse, e ripeto
forse…» rispose, guardandolo dritto negli occhi. Fece una pausa per essere sicuro che l’amico avesse afferrato e incrociò le braccia. «Gary mi ha appena comunicato che pensa di riuscire a lasciarmi dei giorni liberi, almeno fino a Natale. Il che implica che, sempre forse, potrò trascorrere quasi un mese a Pittsburgh!»
«Per tutti i froci!» strillò l'altro entusiasta. «Ma è fantastico!»
«È un
forse, Jace. È ancora un forse
«Oh al diavolo,
biondo.» sbuffò e si mise le mani sui fianchi. «Un po’ di ottimismo! Sei un frocio per la miseria, non un etero depresso!»
Rise e scosse la testa. «Anche i gay possono essere depressi.»
«Stronzate. I gay sono solo melodrammatici! Abbiamo troppo da conquistare per permetterci di oziare nel limbo della depressione.» gli sventolò una mano davanti agli occhi come per voler scacciare certi argomenti e aggiunse: «Piuttosto, stringi le chiappe, raddrizza la schiena, sorridi e trova uno straccetto in questo posto che ti stia perfetto, perché domani sera partiamo alla conquista della
provincia
Justin non rispose. Si limitò a sorridere e a osservarlo divertito mentre si allontanava sculettando vistosamente verso uno dei commessi e prendeva a gesticolare come suo solito, indicandolo.
Spostò il suo sguardo su uno degli specchi e si perse nel guardare la sua immagine riflessa; i pochi centimetri guadagnati in altezza, le spalle più larghe perché Jace l’aveva costretto a frequentare la palestra con lui pur di farlo uscire di casa; la sua pelle perfettamente nivea, in cui erano incastonati i suoi occhi azzurri e quei capelli biondissimi, che gli ricadevano morbidi in una frangia disordinata e lunga sulla fronte, e che dietro arrivavano scalati per tutta la lunghezza del collo.
Li scompigliò con le dita, immaginando che fosse un’altra mano a farlo al posto suo, e sorrise amaramente.
Non sapeva se ne avrebbe avuto davvero la forza e se fosse stato pronto ad affrontare tutto quanto, ma ci si erano messi proprio tutti a ricordargli quel posto e forse, significava solo che era tempo di tornare a casa.

*'*'*


«Questa è la segreteria di Justin Taylor. Non sono a casa al momento, perciò lasciate un messaggio dopo il bip e vi richiamerò al più presto...»
Daphne riattaccò rabbiosa e lasciò ricadere malamente il cellulare sul bancone del Diner, attirando l’attenzione di Debbie. «Che succede, tesoro?» le chiese benevola e si ritrovò a sbuffare contrariata.
«C’è che sono stufa di avere un rapporto con la segreteria di Justin!» sbottò e mangiò una delle patatine con foga. «Non c’è modo di rintracciarlo e non richiama mai!»
«Dolcezza.» la chiamò con uno sguardo comprensivo e le accarezzò una guancia. «Lo sai che non è perché non vuole sentirti. È solo molto impegnato.»
«Io invece comincio a dubitare che sia proprio così! Ha chiuso i ponti con tutti, Deb! Non chiama più neanche sua madre e Molly è arrabbiatissima con lui!»
Debbie sospirò e versò una tazza di caffè per un cliente. «Se può consolarti sono riuscita a chiamarlo e a parlarci appena qualche minuto.»
«Davvero?» le disse Daphne, sorpresa e piena di speranza.
«Sì, ma non sembrava dell’umore migliore di questo mondo. Se non chiama, non è certo perché è troppo impegnato a divertirsi.» borbottò e scosse la testa. «Ho provato a chiedergli se sarebbe tornato per il Ringraziamento, ma non sono riuscita a strappargli neanche una vaga promessa.»
«Suppongo che il ricordo di quello passato non la giochi a suo favore.»
Debbie sollevò le sopracciglia come per confermare le sue parole e piegò le labbra. «Secondo te si sentono ancora?»
«Non lo so.» rispose immediatamente la ragazza, giocherellando con uno dei suoi riccioli. Non avevano bisogno di fare nomi, perché c’era solo una persona a cui potevano riferirsi. «Le pochissime volte che mi ha degnata di una parola, non mi sono neanche azzardata a toccare l’argomento. Temevo mi riattaccasse in faccia.»
«E da Mister Brian ‘Statemi-alla-larga-perché-sto-benissimo’ Kinney, non caveremo un cazzo di ragno dal buco. Figuriamoci se quel borioso confessa qualcosa!» mormorò con la fronte aggrottata.
«Buongiorno signore!» esclamò Ted alle loro spalle, prima di sistemarsi accanto a Daphne. «Un caffè Deb e…che sono quelle facce?» domandò, con le sopracciglia inarcate.
«Un certo ‘raggio di sole’ che sembra svanito nel nulla.» confessò Deb, e rovesciò nella tazza il liquido nero dalla caffettiera.
Ted annuì comprensivo e accennò ad un sorriso. «È molto che non lo senti?» domandò rivolto a Daphne, e la vide sollevare le spalle.
«Praticamente sento la sua voce solo registrata nella segreteria. E non lo vedo dal mio ultimo viaggio a New York, dove abbiamo trascorso insieme appena qualche ora dei due giorni che mi ero presa.»
«È un artista apprezzato e impegnato ormai…» gli disse e prese a sfogliare il giornale. «Guarda qua.» indicò un’intestazione e recitò solennemente. «‘Justin Taylor, il nuovo Warhol di Pittsburgh, conquista anche il Canada’.» ridacchiò e concluse: «Chi glielo fa fare di tornare nella vecchia Pittsburgh quando ha il mondo da conquistare?»
«Alla
vecchia Pittsburgh, c’è la sua cazzo di famiglia!» protestò Debbie, strappandogli il giornale di mano e appallottolandolo frettolosamente, dopo aver lanciato un’occhiata fugace alla porta. «E da questo momento sono vietate le parole ‘Justin’, ‘Taylor’, ‘New York’, ‘artista’ e connessioni varie, fino a nuovo avviso!»
Sia Ted che Daphne annuirono decisi, senza aver bisogno di spiegazioni. Le parole di Debbie e il rumore della porta che si apriva e si richiudeva bastarono e avanzarono a far intendere chi aveva appena fatto il suo ingresso. I sospiri eccitati dei presenti e il brusio fatto di complimenti e strillini strozzati servirono solo a dare un’ulteriore conferma: Brian Kinney era arrivato.
«Buongiorno
ragazze.» salutò appoggiando la ventiquattrore sul bancone e lisciando il suo costoso cappotto immacolato. «Un caffè forte Deb, senza zucchero.»
«Subito! Allora tesoro, tutto bene?» domandò Debbie, con un tono vago, masticando come suo solito il chewing-gum.
Brian la fissò con un sopracciglio sollevato e il suo solito sorrisetto ironico. Piegò per un attimo le labbra all’interno della bocca e sbatté le ciglia. «Ti risponderei ‘benissimo’, o ‘chi può stare meglio di me’, come è ovvio che sia d’altronde.» prese un sorso di caffè e la fissò sottecchi. «Ma qualcosa, come ad esempio quel giornale appallottolato, mi suggerisce che dovrei vederci un significato nascosto nelle tue parole e che dovrei optare per un ‘fatti i cazzi tuoi’.» sorrise ancora e aggiunse: «O mi sbaglio?»
«È solo che…» tentò di parlare con voce mortificata, ma lui non gliene lasciò il tempo. Trangugiò il suo caffè e si alzò velocemente.
«Credo di dover trovare un altro bar per fare colazione la mattina. Questo è un po’ troppo invaso da pettegoli petulanti e patetici.» passò gli occhi su ognuno di loro e si soffermò su Ted. «Ah, Theodore.» increspò le labbra in un finto sorriso benevolo e inforcò gli occhiali da sole. «Fossi in te alzerei il culo e correrei a lavoro. Se non ti trovo lì prima del mio arrivo, ti licenzio.»
L’altro, per contro, bevve il suo caffè e si affrettò a salutare le due donne, prima di inseguire il proprio capo, ben conscio del fatto che sarebbe stata certamente una giornata faticosa. Brian non era affatto di buonumore e la Kinnetik sarebbe assomigliata molto più a un inferno.
«Decisamente, ha un modo davvero tutto suo di elaborare il dolore.» commentò Daphne, con gli occhi ancora fissi alla porta da cui erano appena usciti.
Debbie scrollò le spalle e mugugnò. «Ringrazia che non abbia ripreso a scoparsi tutto quello che si muove come quando il suo
raggio di sole l’ha lasciato per quel tortura gatti
«Ethan?» domandò l’altra ridacchiando.
«Già.» confermò con un tono di voce decisamente scocciato. «Non dico che non se lo sia meritato, ma in fondo un po’ mi è dispiaciuto per lui.»
Daphne abbassò gli occhi e accennò ad un sorriso amaro. «C’erano quasi riusciti a scrivere il loro lieto fine.»
«Spero tanto che non sia troppo tardi.» mormorò sconsolata. «È uno stronzo a cui prenderei il suo bel culo regale a calci almeno un paio di volte al giorno ma, che cazzo, anche lui ha diritto ad essere felice!»
«Se solo Justin tornasse…»


*'*'* 


“Strawberry swing” – Coldplay



Emmett Honeycutt non era mai stato un tipo troppo paziente e doveva ammettere che spesso si lasciava prendere da attacchi isterici, anche per un nonnulla, ma mai e poi mai si era ritrovato tanto incasinato in vita sua.
Quando aveva iniziato la sua attività come organizzatore di eventi, tutto gli era apparso come un bel sogno; come un film di Audrey Hepburn; in cui ogni cosa sembrava magicamente prendere la piega giusta – tranne per come era finita con Drew Boyd, ma quella era un’altra storia – e si era quasi convinto di avere il tocco magico di sistemare all’ultimo secondo anche il peggiore dei pasticci.
Già, ne era sicuro finché non si era trovato davanti a una crisi coniugale in piena regola con una probabile separazione a seguire, a causa della scelta di uno stupidissimo portatovaglioli.
Si massaggiò le tempie vigorosamente e inspirò a fondo ricorrendo a quel poco di zen che Ben si era premurato di insegnarli quando era in procinto di una delle sue crisi. Cercò di ignorare i piagnistei della donna, fin troppo simili a quelli di un incrocio tra una foca e la sirena del 911, e le grida dell’uomo, che continuava a urlare le sue ragioni, prendendosela inspiegabilmente con il tavolo di prova, quando il rumore di un bicchiere di cristallo che si frantumava a terra, lo fece letteralmente sbottare: «Non vi sposate!»
I due litiganti rimasero in silenzio ed interdetti per qualche secondo, prima di rispondere all'unisono: «Ma noi siamo già sposati.»
«E allora separatevi, Cristo Santo!» irrigidì le braccia e uscì a passo svelto dal salone dell’albergo, rischiando di stritolare il suo preziosissimo Blackberry. Si sistemò l’auricolare all’orecchio e avviò la chiamata per una delle sue collaboratrici. «Jude, zucchero, ho bisogno di te. Interrompi qualsiasi cosa tu stia facendo, a meno che tu non sia in punto di morte, allora in quel caso puoi anche lasciar perdere, e porta le tue chiappe etero qua.» sputò le parole fuori come una macchinetta e neanche aspettò una risposta. «Hai una crisi matrimoniale da risolvere, prima che io cambi mestiere e diventi un frocio serial killer.» riattaccò e continuò la sua camminata per ridistendere i nervi.
Era decisamente un periodo nero per lui. Non perché il lavoro andasse male o perché ci fosse carenza di uomini nella sua vita, ma perché semplicemente tutti – ma proprio
tutti – sembravano aver trovato l’amore; perfino Brian Kinney, l’anticristo delle relazioni, era capitolato, seppur fosse finita male; e proprio non riusciva a sopportare il fatto che la sua anima gemella fosse smarrita chissà dove, o che Dio avesse sicuramente sbagliato qualche calcolo nel disegno della sua vita. Perché per quanto la scopata di una notte fosse piacevole, con l’andar del tempo non aveva più il gusto di una volta.
Dopo la “separazione” – sempre che così la si potesse definire – con Drew, qualunque uomo avesse incontrato e scopato ovviamente, sembrava non avere la stoffa giusta per restare al suo fianco oltre quei minuti utili a un orgasmo; e mentre tutti erano andati avanti con le loro vite e avevano magicamente incontrato la persona giusta, lui si era trovato intrappolato nello stesso identico posto, senza vedere davvero una via d’uscita.
Si lasciò ricadere su una delle panchine di pietra dell’immenso giardino e perse lo sguardo oltre un roseto, riflettendo su quello che stava succedendogli intorno.
Michael e Ben, erano sempre più schifosamente innamorati e finalmente sembravano essere riusciti a dare una raddrizzata anche ad Hunter. Ted e Blake, neanche a parlarne, sembravano la riproduzione perfetta di una coppia che dopo aver affrontato mille difficoltà insieme risplende della bellezza della loro unione. Perfino la relazione tra Carl e Debbie andava a gonfie vele, per non parlare di Linz e Mel più innamorate e unite di un tempo, nonostante alla prima fosse tornata per un attimo la passione per l’organo genitale maschile, che non si limitava certo a un dildo; o Jennifer, che sembrava vivere la sua storia d’amore con Tucker felice e spensierata come un’adolescente.
L’unico a “fargli compagnia” nel mondo dei single era Brian, ma anche lui pareva fin troppo preso dai suoi affari e affatto interessato alla vita monogama, specie dopo aver iniziato la sua malsana frequentazione con quel Brandon, di cui ancora nessuno sapeva nulla – a parte lui – visto che erano troppo impegnati a condurre una vita da sposati per anche solo pensare di fare un salto al Babylon.
Ancora non era ben riuscito a spiegarsi il perché di quella strana accoppiata, né ovviamente si era azzardato a chiedere spiegazioni a Brian perché, dopo che la prima teoria in cui li immaginava divertirsi allegramente nel loft era deliberatamente saltata, l’unica che gli rimaneva plausibile era che continuassero con le loro stupide scommesse e che Brian esorcizzasse in quello strano modo il dolore per la perdita del suo
raggio di sole.
Qualunque fosse il motivo, comunque, ognuno dei suoi amici aveva trovato uno scopo da perseguire: i primi si dedicavano all’amore, mentre l’ultimo si dedicava al sesso, proprio per dimenticarlo
quell’amore che l’aveva travolto e abbandonato; e invece, lui, non riusciva a trovare il suo posto.
Sbuffò rumorosamente e chiamò un taxi. Quel giorno era troppo depresso per lavorare, anche se la mattina era appena terminata, perciò decise di lasciare tutto nelle mani dei suoi collaboratori e recarsi al Diner. Una ciambella di Deb, forse, gli avrebbe risollevato il morale.


Il campanello della porta della tavola calda tintinnò allegramente quando entrò, seguito dalla voce squillante di Deb che lo salutava pimpante come suo solito: «Ciao dolcezza!»
«Ciao Deb.» rispose sconsolato, e si trascinò fino al bancone.
«Zucchero, cos’è quella faccia?» lo invitò a sedersi e gli offrì un tortino al limone. «Avanti, parla con Debbie.»
Emmett arricciò le labbra e appoggiò la testa sulle mani sistemate a coppa. «Sono un finocchio triste, patetico e single.»
«Ma che stai dicendo?» esclamò contrariata e sorpresa. «Non sei affatto patetico e, per la persona giusta, vedrai che arriverà presto!»
«Ma Deb!» piagnucolò, agitandosi sullo sgabello. «Michael e Ben sono una coppia felice, Ted e Blake anche peggio. Tu e Carl siete zucchero fuso, così come le due lesbiche e perfino Jennifer!» sospirò sconsolato e concluse: «Brian ha ricominciato a scopare come un riccio e sta sempre in compagnia di quel…» fece una smorfia «…
Brandon, e io sono solo come un cane!»
«Fermo lì!» gli intimò Debbie e la vide sporgersi sul bancone. «Cos’hai detto che fa Brian?!»
Lui le rivolse uno sguardo scocciato. «Quello che ha sempre fatto Brian Kinney.
Scopa
«E chi diavolo è questo…» ci pensò su un attimo. «…
Bruce.»
«È ‘Brandon’, non ‘Bruce’. E comunque stavamo parlando di me!» indicò la sua faccia con l’indice e fece un sorriso ebete.
«Ma perché non me l’hai detto prima?!» strillò, e lui aggrottò la fronte confuso.
«Dirti cosa?»
«Di quello che sta combinando quell’idiota!» afferrò la cornetta immediatamente e compose un numero. «Devo avvertire Michael!»
Emmett sospirò sommessamente e diede un morso al tortino, in barba a tutte le sue preoccupazioni per i grassi saturi di cui quel coso, certamente, era pieno.



*'*'*


“Come home” - OneRepublic



Chiuse la zip dell’ultimo trolley con non poca difficoltà, e si lasciò ricadere sul letto esausto e sudato. Fare i bagagli era più faticoso di quanto potesse ricordare, e anche se aveva decisamente più roba di quando era arrivato a New York senza il becco di un dollaro, non aveva certo creduto che sarebbe stato così difficile scegliere.
«Ma hai intenzione di trasferirti definitivamente?» gli chiese Jace, facendo capolino dal pannello opaco che separava il letto dal resto del loft.
«Ero solo indeciso.»
L’altro passò i suoi occhi marroni sulle tre valige stracolme e sollevò un sopracciglio. «È scientificamente provato che l’amore rende imbecilli.»
Justin ridacchiò e si sollevò puntellandosi sui gomiti. «Non può essere semplice vanità come ogni stramaledetto finocchio di questo pianeta?»
«No.» sentenziò secco. «Non dato che si tratta di
te. Che sembri conoscere i colori solo quando li usi sulla tela e che sei convinto che ‘Pucci’ sia la versione tarocca di ‘Gucci’.»
«Ehi!» esclamò offeso, per poi lanciargli contro uno dei cuscini. «So benissimo chi è Pucci!»
Jace assunse un'espressione scettica. «Già, solo perché te l’ho detto io.»
«No, mio caro. Lo sapevo già da tempo.»
«Ops! Dimenticavo il tuo amore tormentato con l’uomo dell’alta moda.» incrociò le mani, come se stesse pregando e sollevò lo sguardo al soffitto. «Signore, grazie per aver donato a questo povero piccolo frocio ignorante la possibilità di redimersi e conoscere Prada, amen.»
Justin scosse la testa e prese a ridacchiare. «Fottiti, Jace.»
L’altro gli sorrise e iniziò a guardarsi intorno, finché i suoi occhi si fermarono sul piccolo personale fantasma dell’artista. Il lenzuolo bianco continuava a coprire la tela incompiuta che giaceva sotto di esso e, a giudicare dall’alone grigio di polvere che lo ricopriva indisturbata, il suo giovane amico non aveva ancora avuto il coraggio di affrontarla. «Pensi di finirla prima o poi?» gli domandò, indicandola con un cenno.
«Non lo so.» sospirò ed arricciò le labbra. «Suppongo finirà presto tra gli altri, così com’è.»
Jace annuì debolmente e un po’ deluso, perché sapeva che “gli altri” erano quadri che ritraevano lo stesso soggetto di quello incompiuto, e che Justin aveva accuratamente nascosto dietro una delle ante dell’armadio, per non vederli mai più. Diceva che appartenevano al passato e che non potevano essere esposti perché troppo personali, nonostante perfino Gary avesse tentato di convincerlo a farlo, poiché su quelle tele si scorgeva un altro aspetto – più profondo e passionale – della sua anima e dei sentimenti che gli si aggrovigliavano dentro. Era un’altra sfaccettatura; l’ennesima tessera del puzzle che componeva l’immagine di quell’artista geniale che si ostinava a stare sulle sue, protetto dall’ombra e da quel suo essere un po’ asociale.
«Allora, sei pronto?» gli domandò Jace, senza distogliere lo sguardo dal lenzuolo.
«Sì, ma tu, potrai davvero restare fino a Natale?» disse, mentre dentro di sé pregava per una risposta positiva. Nessuno avrebbe potuto mai neanche immaginare quanto Justin avesse bisogno della sua presenza e del suo sostegno in quel momento.
«Considerando che la mia famiglia mi considera un reietto della società perché mi piace il cazzo e che quindi non ho nessun noiosissimo ritrovo a cui dover partecipare…» iniziò, picchiettandosi l’indice sul mento. «…e che fottersi il proprio capo a volte può condurre a immensi benefici, come bonus vacanze che compaiono dal nulla, sì. Direi proprio di sì!»
«Ti sei scopato il tuo capo?» domandò incredulo, mantenendo le labbra socchiuse.
Lui mugugnò e scrollò le spalle. «Cos’è quella faccia sconvolta? Gliel’ho solo succhiato un paio di volte!» confermò, per poi assottigliare lo sguardo. «E poi, ora che ci penso, non eri tu che lavoravi per il tuo amore e te lo sei scopato nel suo ufficio?»
Justin mostrò un sorriso tirato e scattò dal letto per infilare il cappotto. «Credo proprio che sia ora di andare. Il viaggio è lungo!» prese due dei trolley per il manico ed iniziò a trascinarli verso il montacarichi adibito ad ascensore.
Jace per contro scosse la testa e si premurò di recuperare il terzo trolley e il beauty case, ricordando al suo compagno di viaggio con un urletto stridulo che doveva ancora chiudere la porta e inserire l’allarme.
Quella testolina bionda ricomparve con un sorriso imbarazzato e, dopo aver dato un’ultima occhiata al suo loft, eseguì quello che Jace gli aveva appena ricordato per poi scendere al piano terra, e raggiungere la sua jeep nera praticamente nuova. Caricarono i bagagli e si sistemarono ai loro posti.
Justin prese un profondo respiro e girò la chiave per mettere in moto, mentre l’altro iniziò a litigare con la radio e con i cd sparsi casualmente nel cassetto e privi di una misera etichetta; in fondo, chiunque sapeva che il padrone di quell’auto non era certo un maniaco dell’ordine.
Compiuta la scelta della musica, entrambi inforcarono i loro occhiali da sole e si scambiarono un sorriso carico di adrenalina ed eccitazione, prima che la macchina venisse immessa nel traffico newyorkese, alla volta di Pittsburgh.
Si torna a casa…

***

Note finali:

Ecco anche il secondo capitolo! Ho deciso di pubblicare un po' prima di quanto avevo preventivato perché era già pronto in quanto l'avevo scritto come diretta continuazione del primo e non mi andava di farvi aspettare per niente, soprattutto dato che si tratta di uno spezzone di "transizione" - ergo, non succede niente di troppo eclatante, a parte la "presentazione" di Gary e la decisione di Justin di tornare a Pittsburgh!

Suppongo comunque che chi legge non aspetti altro che l'incontro tra Brian e Justin - o almeno io è quello che vorrei di più - perciò vi comunico che non avranno un incontro vero e proprio prima del quarto/quinto capitolo. Abbiate pazienza, ma c'erano altre situazioni che volevo delineare! XD
Spero di non aver sforato con il carattere dei personaggi...per quanto riguarda Brian sono sempre un po' confusa dal grosso cambiamento che ha avuto negli ultimi episodi della quinta serie...quindi, rifacendomi a quel Brian, ho immaginato che nonostante le sue vecchie abitudini, per lui non fosse affatto facile toccare e lasciarsi toccare da qualcuno che non fosse Justin, proprio per la piega che aveva preso il loro rapporto; non potevo però neanche dipingere un Brian casto e puro come un prete che pensa solo al lavoro e passa le serate sul divano...ho cercato quindi di ricreare una via di mezzo e una personalità tormentata da quello che era e da quello che è diventato. Mi auguro di non aver combinato disastri. XD 
Mentre per quanto riguarda Emmett - personaggio che io ho sempre adorato - ho cercato di dipingerlo sulla cresta dell'onda e super indaffarato con il suo lavoro, ma con una punta di malinconia - per quanto Emmett possa essere malinconico nella sua favolosità - per l'unico tassello della sua vita che proprio non vuole andare al suo posto: l'amore...e visto che gli autori non hanno voluto dargli la sua storia d'amore nel finale, indosso le vesti di "cupido per gay" e parto all'azione!

Tralasciando le mie stupidaggini, spero che questo capitolo non vi abbia annoiato e ci tengo a ringraziare tutti coloro che hanno letto il primo capitolo, chi ha messo la storia tra le seguite, le ricordate o le preferite, ma soprattutto a: silver girl, Trappy, Hel Warlock, mindyxx, Clara_88, Thiliol, oo00carlie00oo, FREDDY335, Katie88 e asterix_c per aver recensito. GRAZIE DAVVERO. 

Un bacio e a presto.
Veronica.

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Capitolo 3
*** Dear old Babylon. ***


3.Dear old Babylon.

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6x03 – Dear old Babylon. 
[capitolo betato da Trappy]


Era certo che l’occhiata minacciosa lanciatagli da Hunter significasse semplicemente che, se non avesse smesso immediatamente di gironzolare come una checca isterica per tutta la cucina con il cordless in mano, l’avrebbe sicuramente legato a una sedia; ma Michael non poteva farci assolutamente nulla, non da quando sua madre l’aveva chiamato ore prima per riferirgli la triste e preoccupante soffiata di Emmett, circa le rinnovate attività sessuali e promiscue di Brian.
Da quel momento aveva continuato a vagare come una trottola impazzita per tutto il tempo, componendo decine di volte il numero del suo migliore amico, per poi cancellarlo e sostituirlo con quello di suo marito per chiedere un consiglio, prima di cancellare anche quello e far ripartire la solfa da capo.
Dire che il pensiero di ritrovarsi il vecchio Kinney davanti lo terrorizzava, era decisamente un mero eufemismo.
Avevano faticato così tanto per farlo crescere almeno un po’ e smussare quella sua corazza ruvida e spigolosa, che vedere il lavoro di oltre sei lunghi anni rovinato in qualche misero mese lo mandava letteralmente in bestia.
Prese a ticchettare con le dita sul tavolo, ignorando l’ennesima occhiata contrariata di Hunter, e si decise a comporre il numero di Ben, quando quest’ultimo aprì la porta di casa, urlando un “sono a casa”.
Michael neanche gli diede il tempo di togliersi la giacca a vento e srotolare la sciarpa dal suo collo che gli fu immediatamente addosso con le sue preoccupazioni: «È una tragedia!»
Suo marito si bloccò per un attimo e lo fissò stranito con i suoi occhi azzurri. «Cosa?»
«Brian, è di nuovo...Brian.» balbettò, agitandosi.
Ben lo guardò sempre più confuso. «Il che implicherebbe, esattamente?»
«Devo fare qualcosa. Non posso starmene con le mani in mano! Io lo so che lui soffre ma…» si grattò la testa con una mano e continuò con un cipiglio preoccupato a solcargli la fronte. «…se accenno all’argomento mi scuoia.»
«Michael, mi vuoi spiegare cosa sta succedendo?»
«Mi ha chiamato mamma qualche ora fa, dicendomi che è venuta a sapere da Emmett che Brian ha ricominciato a scopare qualsiasi cosa gli capiti a tiro!»
«Ed è un male?» domandò incerto, beccandosi un’occhiataccia contrariata dall’altro. «Insomma, è quello che ha sempre fatto! Avresti dovuto preoccuparti se avesse iniziato a drogarsi.» ci pensò su un attimo e si corresse. «Ah no, anche quello lo faceva già. Comunque sia, non fa niente di sbagliato. Non per quelli che sono i suoi canoni almeno.»
«Ben, tu non capisci!»
«Tesoro, ascoltami. Capisco benissimo invece.» gli posò entrambe le mani sulle spalle e gliele strinse per rassicurarlo. «Sta solo mitigando il dolore a modo suo. Ricordi quando mi hai raccontato dell’aggressione a Justin? Ha reagito allo stesso modo. Ognuno è diverso.»
«Tu credi?» domandò speranzoso, e l’altro non poté far altro che sorridergli e baciarlo con amore.
«Ne sono certo.»
Michael annuì poco convinto e ripose il cordless alla sua postazione, lanciandogli un’ultima occhiata indecisa.
Sicuramente quello era il modo di Brian per dimenticare, disinfettare e ricucire le proprie ferite, ma era il suo migliore amico e non poteva certo lasciarglielo affrontare da solo.
Si voltò verso Ben e Hunter e sorrise, sentendosi veramente fortunato, per poi prendere la sua decisione: «Forse è meglio se passo comunque dal Babylon stasera, giusto per esserne certo.»



*'*'*



Respirò profondamente per quella che fu almeno la milionesima volta e si portò una mano sul petto, all’altezza del cuore, per sentire il suo potente pulsare anche attraverso il maglione.
Da quando aveva oltrepassato il grosso cartello su cui erano posizionati caratteri cubitali a formare il nome “Pittsburgh”, aveva iniziato a soffrire improvvisamente di tachicardia. O almeno i sintomi erano quelli.
Sorrise involontariamente nel vedere le sagome familiari di quella che era stata la sua culla per ventidue lunghi anni; il posto che l’aveva visto crescere, ribellarsi e seguire la propria natura, rischiando anche di morire per difendere quello che la sua anima gli urlava di essere; per aver creduto ed esternato un amore ritenuto blasfemo.
Si allontanò dalla finestra con passo ciondolante e si gettò sul letto della stanza d’albergo che aveva prenotato per lui e Jace.
L’altro aveva provato a convincerlo ad alloggiare da sua madre, assicurandogli che non avrebbe certo sentito la sua mancanza durante la notte, visto e considerato che comunque non dormivano mai insieme neanche a New York, ma Justin aveva preferito di gran lunga tenergli compagnia, più per il fatto di non avere il coraggio di affrontare tutto e subito, che per non lasciarlo solo.
Ragionamento egoista forse, ma si sentiva già fin troppo spossato dopo aver trovato finalmente la forza di percorrere tutte quelle trecentosettanta miglia, per riuscire ad arrivare fino a casa di sua madre e iniziare a dare le dovute spiegazioni.
Sapeva che era arrabbiata con lui dal modo in cui gli si rivolgeva durante le sporadiche volte in cui si erano parlati attraverso il telefono, così come immaginava quanto fosse offesa sua sorella per il modo in cui era “scomparso”, dato che si rifiutava di sentirlo già da un bel po’. Era certo che si sarebbe beccato una bella lavata di capo anche da Daphne e Debbie, per non parlare di tutti gli altri o di
lui.
Solo il pensiero di essere nuovamente nella sua stessa città ad una ridicola manciata di minuti dalla Kinnetik lo svuotava dentro. Ogni volta si sentiva come se gli stessero risucchiando l’anima, e aveva la sensazione che il cuore gli potesse tremare esattamente come le gambe, sostenute da ginocchia ormai più simili a viscida gelatina che altro.
Chiuse gli occhi e sospirò, delineando nel buio i lineamenti di Brian: le labbra morbide e succose piegante nel suo solito sorrisetto impertinente; gli occhi verde scuro, profondi e penetranti, capaci di perforarti con un solo sguardo; i capelli scompigliati e morbidi, su cui troppe volte dalla sua partenza aveva sognato di affondare le mani, e la sua pelle liscia tirata dai muscoli asciutti di quel fisico perfetto.
Un solo misero pensiero era bastato a farlo eccitare e a spezzare il suo respiro; un solo istante in cui aveva aperto la mente ai ricordi ancora perfettamente vividi del tocco delle sue mani e di quelle labbra morbide e calde che lo sfioravano come solo lui sapeva fare, che si era ritrovato duro come un adolescente in preda a una crisi ormonale in piena regola.
Sbuffò infastidito per il pulsante ingombro nei pantaloni e imprecò a denti stretti, quando la porta della camera si aprì, mostrando il suo
problemino a un Jace che – resosi conto della situazione – non riuscì a trattenere una risata: «Accidenti Justin! È proprio vero che l’aria di casa cambia le persone.» sollevò le sopracciglia e continuò a fissarlo visibilmente divertito. «Ad averlo saputo, te l’avrei fatta respirare prima.»
«Imbecille.» rispose l’altro stizzito, potando un cuscino a coprire il punto in cui la stoffa si era tesa. «Hai sistemato tutto con la reception?»
«Certo, caro.» confermò quasi offeso da quella velata mancanza di fiducia. «Tra poco ci serviranno la cena quindi, pensi di poter abbassare l’asta, o sei in vena di patriottismi e possiamo attaccarci una bandiera?»
Justin gli lanciò un’occhiataccia. «Vado a farmi una doccia.» distese le labbra in un sorriso nervoso e si sollevò dal letto, dirigendosi verso il bagno.
Jace si trattenne a stento dallo scoppiare in un’altra fragorosa risata e imitò il saluto militare al suo passaggio, riuscendo a schivare il cuscino lanciatogli dal suo compagno di stanza appena in tempo. «Avvertimi se hai bisogno di una mano. In tutti i sensi!»



*'*'*


“Forever” – Ben Harper


Gary Hudson stringeva il suo bicchiere di bourbon picchiettando di tanto in tanto con l’indice sul vetro, seguendo il ritmo del vecchio vinile che girava ozioso sul suo prezioso giradischi.
Fissava il vuoto nel suo studio rischiarato dalla fievole luce di una semplice lampada da scrivania moderna, che era costata un occhio della testa a sua sorella quando gliel’aveva regalata, e di cui ancora non era riuscito capire il fascino.
Si portò il bicchiere alle labbra per bagnarle appena di quel sapore forte e passarci la punta della lingua in modo da goderselo appieno, prima di stropicciarsi gli occhi scuri come petrolio e dare l’ennesima occhiata alle sue scartoffie.
Cercò di concentrarsi su quella miriade di parole, ma il suo sguardo cadde inevitabilmente sul quadro appeso alla parete di fronte a lui; uno degli ultimi lavori di Justin.
Sorrise, sollevando appena uno degli angoli della bocca, ammirando quel trionfo vorticoso di colori vivaci, così diversi da quelli cupi che lentamente erano andati a sostituirli nelle ultime tele, e immaginò di vedere quel suo sorriso luminoso.
Si sentiva un idiota ogni volta che lo faceva, perché sapeva di compiere un enorme e grottesco sbaglio, ma c’erano momenti in cui proprio non riusciva a evitarlo; attimi in cui la sua testa voleva essere libera di fantasticarlo per sé.
Non avrebbe mai saputo dire quando era successo – a volte credeva perfino che fosse stato la prima volta in cui aveva incrociato quegli splendidi occhi azzurri – eppure aveva iniziato a provare sentimenti contrastanti per quel ragazzino dall’aria sperduta, ma che sapeva tirare fuori denti e artigli quando era necessario.
Era rimasto abbagliato dalla luce che sembrava emanare in ogni suo gesto e dalla tenacia che lo caratterizzava; da quella sua lingua spesso un po’ troppo tagliente e dalla maturità che dimostrava nell’affrontare la vita, pur continuando a seguire i suoi sogni.
Si sentiva combattuto tra l’innegabile attrazione per quei capelli disordinati e la pelle candida, e la professionalità che doveva mantenere per il rapporto di lavoro che intercorreva tra loro.
Spesso si era addirittura trovato a pensare di recidere il loro contratto per prendere una delle due direzioni possibili – scappare lontano da lui o provare a fare un passo per avvicinarsi e confessare tutto – invece che restare a torturarsi in bilico tra quelle due realtà che continuavano a scannarsi dentro la sua testa.
Alla fine, però, non era mai riuscito a prendere una decisione, un po’ perché non se la sentiva di abbandonarlo, ma neanche di aprirgli il cuore, e un po’ perché sentiva che era troppo giovane per lui e soprattutto ancora troppo innamorato della persona che aveva lasciato a Pittsburgh.
Sorrise ancora, dandosi dell’idiota, quando il nome di quella città balenò nel suo cervello.
Qualcuno l’avrebbe sicuramente accusato di pazzia se avesse saputo la verità sui suoi sentimenti, considerando che l’aveva letteralmente spinto a tornare nell’unico posto da cui, per il bene del suo cuore, avrebbe dovuto tenerlo lontano, ma teneva troppo a quel ragazzo e non riusciva più a sopportare di vederlo spegnersi lentamente ogni giorno di più.
I sorrisi che gli facevano battere il cuore diventavano sempre più rari e sempre meno sinceri, la luminosità di quegli occhi sembrava nascosta da una patina opaca che non era capace di lavare via e, come se non bastasse, l’aveva visto piangere troppo spesso mentre si dedicava ai suoi quadri.
In sintesi, non poteva costringerlo a New York, se significava avere solo un fantoccio vagamente simile alla bellissima persona che in realtà era; e non poteva neanche tenerlo lontano dall’unico posto che – ne era sicuro – gli avrebbe ridonato quella sua caratteristica luminosità.
«
Raggio di sole.» sussurrò appena, ridacchiando per quel nomignolo buffo quanto azzeccato, prima di prendere un altro sorso.
Sbuffò riappoggiando il bicchiere sul legno scuro e pregiato della scrivania ellittica e tornò a riempire la testa di numeri e parole per scacciare via l’immagine di quel ragazzino, quando il suo cellulare prese a squillare e, per ironia della sorte, mostrargli proprio quel nome. «Ehi, come procede?»
«Lavoro.» rispose sorridendo, mentre immaginava gli occhi cerulei del suo interlocutore sollevarsi, come tutte le volte.
«Non avevo dubbi.» commentò acido. «Io e Jace siamo a cena in albergo e…»
«Albergo?» lo interruppe stranito. «Non sei da tua madre?»
«Ehm, no.» replicò l'altro con una punta d'incertezza nella voce. «Ho preferito fare le cose con…calma.»
«In poche parole te la stai facendo sotto.»
«Già.» confermò con una risatina nervosa. «Più tardi ti invio un messaggio con tutti i recapiti. Tu quando pensi di raggiungerci?»
«Non lo so. Devo controllare ancora alcune cose. Tu pensa a fare quel che devi, poi ci sentiremo.»
Lo sentì ridere e riuscì a distinguere uno strano borbottio da parte di Jace. «Qui ci stiamo chiedendo se ti prenderai mai un po’ di tempo per te!»
«Piccolo ingrato.» lo apostrofò, nel vano tentativo di rimanere serio, quando la realtà era che non riusciva a smettere di sorridere come un
idiota. Sentire quella voce finalmente viva come l’aveva conosciuta gli alleggeriva il cuore. Perché Gary era una persona adulta e responsabile, capace di amare di un amore generoso, che lo rendeva in grado di essere almeno un po’ felice per la serenità ritrovata da Justin, nonostante quella nota amara e storta che gli ricordava ogni volta di non essere certo lui il motivo. «Sappi che se sei dove sei…»
«‘Lo devo anche a te’.» recitò solennemente. «Lo so, lo so. È per questo che vieni
profumatamente pagato!»
«Vedo che qualcuno ha rialzato la cresta eh?» ridacchiò ancora, e si passò una mano tra i capelli neri. «Faremo i conti presto, Taylor.»
«Certamente, signor Hudson.» lo prese in giro, imitando in modo grottesco la sua voce. «Ci sentiamo presto.»
«Ok.» lo salutò semplicemente e si ritrovò ad inspirare profondamente dopo aver riattaccato.
Lasciò correre lo sguardo ancora sulla tela che sembrava poterlo fissare ed avvolgere con il suo bagliore e si perse ancora nei contorni di quelle pennellate accese e sinuose, mentre nel cuore avanzava la speranza di poter assistere alla realizzazione di un altro quadro così prorompente e che, prima o poi, quel sorriso luminoso potesse essere rivolto solo a lui.



*'*'*


“Trouble” – Coldplay



Il vento freddo gli sferzò la faccia così forte da fargli socchiudere gli occhi, mentre quei frammenti freddi e dispettosi di nevischio continuavano a danzargli intorno imperterriti. Tirò sul col naso e affondò di più nella sua sciarpa, stringendosi i lembi del cappotto scuro.
Nonostante i guanti non sentiva più le dita e quella dannata e logora ventiquattrore acquistata al suo debutto nel mondo del lavoro come contabile, sembrava potesse tagliargli la pelle con il manico troppo rigido.
Da quando aveva iniziato a lavorare per la Kinnetik, i suoi profitti erano certamente risaliti a livelli molto più che accettabili, eppure dalle esperienze passate – e anche dal caratteraccio del suo capo che minacciava di licenziarlo almeno una volta al giorno – ancora non sentiva i piedi ben saldi a terra.
Ci sarebbero state tante cose che avrebbe voluto fare, non solo per sé, ma soprattutto per strappare un sorriso al suo Blake che sembrava sempre così felice di tutto, anche delle cose più semplici, e non si lamentava mai.
Da quando si erano ritrovati, le cose sembravano aver preso finalmente la piega giusta; gli pareva di aver intrapreso la strada corretta ed essere riuscito a spedire tutta la sua vita nei binari di un amore veramente solido.
Lui e Blake in fondo ne avevano affrontate tante; aveva anche capito molti dei suoi problemi sentendoseli passare sulla propria pelle e, proprio la persona che tanto tempo prima aveva criticato, l’aveva aiutato più di chiunque altro ad uscire dal tunnel buio e profondo della droga.
Era grato a Blake; era grato per la speranza che gli aveva dato, per averlo aiutato e anche per averlo lasciato quando non era il momento giusto; gli era grato per essere tornato e per aver ricominciato a renderlo l’uomo felice che aveva sempre desiderato di essere.
Non c’era giorno in cui entrambi non ricordassero all’altro quanto si amavano, non solo con le parole, ma anche attraverso sorrisi e sguardi a volte molto più eloquenti di qualsiasi sdolcinato – o patetico sullo stile delle leccacespugli, come avrebbe detto un certo Brian Kinney – discorso.
Eppure sentiva dentro di sé che doveva fare qualcosa di più; che si sentiva pronto a qualcosa di più.
Si soffermò per un attimo davanti ad una vetrina di gioielli senza neanche rendersene conto, attirato dalla miriade di faretti luminosi che sembravano rischiarare e sovrastare tutto il resto. Passò lo sguardo sul velluto rosso o verde con cui erano ricoperti i ripiani e si fermò con un sospiro su un piccolo cofanetto blu, contenente una semplice e fine fedina d’oro.
Non era niente di particolare; non brillava di diamanti grossi come ghiaccioli, né era incastonata di qualsiasi altra pietra preziosa. Non era pacchiana, ma discreta e bella nella sua essenzialità; come lo erano loro due e il loro amore, d’altronde.
Perché Ted non era il fascinoso e facoltoso Brian Kinney, né Blake era il geniale artista, bello come un angelo, che rispondeva al nome di Justin Taylor, e tanto meno il loro amore era stato tanto burrascoso e fuori dalle righe come quello dei suoi amici, nonostante avessero avuto non poche difficoltà.
La loro unione era chiara, convenzionale, ben definita e sì,
pateticamente simile a quelle etero, perciò aveva bisogno di un qualcosa di altrettanto semplice, che si uniformasse perfettamente a quello che rappresentavano.
Avrebbe voluto sposare Blake, ne era assolutissimamente certo. Molto più di qualsiasi altra decisione che gli fosse balenata in testa negli ormai quarant’anni della sua vita, ma tra l’ammetterlo nel suo cuore e nella sua testa e trovare il coraggio di sputar fuori quelle elementari seppur pesantissime parole davanti agli occhi azzurri del suo compagno, c’era un abisso troppo profondo e buio che gli metteva le vertigini solo se provava ad immaginare di affacciarsi.
Rabbrividì per una folata di vento più forte delle altre, riscuotendosi anche dai propri pensieri e abbandonando l’immagine lucente di quel filo dorato, per tornare a guardare la strada davanti a sé, fino a casa.
Girò a fatica la chiave nella toppa e tirò un sospiro di sollievo quando la sua pelle arrossata e congelata venne accolta dal calore della propria cucina e dallo sguardo amorevole che Blake gli rivolse, occupato ai fornelli. «Ciao tesoro.» lo salutò sorridendo. «Hai fatto più tardi anche stasera.»
«Sì.» si sforzò di rispondere, mentre tentava di scongelarsi. «
Qualcuno non era propriamente di buonumore e ci ha fatto sgobbare come muli.»
«Come sempre da un annetto a questa parte, quindi.»
Ted sollevò le sopracciglia e piegò le labbra in un gesto di assenso. «Non posso biasimarlo.»
«Perché ti fa fare orari impossibili e ti minaccia di licenziamento praticamente ogni giorno?» ridacchiò lui, prima di assaggiare il sugo.
«Oggi sono arrivato a quota tre.» lo informò, dopo averle contate mentalmente. «Tre minacce di licenziamento.»
«Accidenti, doveva essere più nervoso del solito.»
«Questa mattina ha visto Debbie appallottolare un giornale.» Blake fece un gesto di comprensione, considerando che era un fatto quasi all’ordine del giorno e che le aveva visto fare innumerevoli volte. «E Brian se n’è accorto. Come se non bastasse, poi non ha resistito dal chiedergli come stava, cercando di farla passare come una conversazione normale ma…»
«Stiamo parlando di Brian Kinney.» convenne l’altro inarcando le sopracciglia.
«Esatto.» si tolse il cappotto e lo sistemò sull’attaccapanni insieme alla sciarpa e ai guanti. «Ha fatto una delle sue solite sparate con il suo sorrisetto stampato in faccia ed è uscito dal Diner minacciando di licenziarmi se non mi fossi materializzato in ufficio all’istante.»
Blake scoppiò a ridere per la smorfia del suo compagno e si avvicinò a lui per baciarlo dolcemente. «Un buon inizio di giornata.»
«Niente di troppo diverso dagli altri, se ci pensi bene.»
Le mani di Blake scivolarono sulle sue spalle fino ad intrecciarsi sulla nuca, poi sorrise e parlò a fior di labbra. «Noi siamo fortunati.»
Credere che un bruscolo gli fosse improvvisamente finito in un occhio sarebbe stata una scusa idiota anche per Brian, perciò non ci mise molto ad ammettere con il suo cuore che quelle tre semplici parole l’avevano fatto tremare di felicità.
Baciò il suo compagno con infinita passione, assaporando il gusto delle sue labbra e riempendosi i polmoni di quel profumo familiare che da tempo lo cullava prima di addormentarsi e lo risvegliava al mattino.
L’unione di quelle labbra calde con le sue dissipò magicamente quell’abisso profondo e scuro, insieme alla paura di un rifiuto, convincendolo che sarebbe stata la cosa più giusta da fare.
Theodore voleva sposare Blake più di ogni altra cosa al mondo, e ormai era certo che glielo avrebbe chiesto molto presto.



*'*'*


“Children” - Robert Miles



«Ti vuoi muovere?» esclamò Jace irritato. «È da un’ora che sei appoggiato a quel palo. Vuoi per caso portatelo a casa?»
«Be’…» mormorò Justin incerto, sfiorando con le dita quella consistenza grigia e fredda. Se solo avesse potuto comprendere anche una briciola di cosa significasse quel punto esatto, probabilmente non l’avrebbe criticato così tanto; o forse l’avrebbe definito una penosa lesbica, perché almeno per quel che riguardava l’amore, Jace era molto simile al vecchio Brian Kinney: niente sentimenti, niente sdolcinatezze, niente stupide promesse. Solo tanto – ma tanto – buon sesso.
Vide l’amico sollevare uno dei sopraccigli scuri e ben curati in un’espressione confusa. «Credevo che avessi abbastanza dildo a New York, ma soprattutto non immaginavo certe tue abilità
dilatatorie
«Idiota.» rise, scuotendo la testa. «È solo che…»
«Solo che?» incalzò l'altro.
«Niente.» sorrise amaramente e sventolò una mano davanti agli occhi. «Solo una cosa
ridicola e romantica
«Certo che in Pennsylvania siete davvero strani.» borbottò con un rinnovato cipiglio a solcargli la fronte. «Adesso però, caro il mio Romeo dei finocchi, possiamo entrare o le mie chiappe non sono ancora abbastanza congelate per te?»
Justin diede un’occhiata furtiva all’entrata del Babylon.
Nonostante fosse ormai scoccata l’una da tempo, la fila fuori sembrava non voler mai terminare, continuando a costeggiare il muro dell’edificio.
Sorrise appena, constatando che gli affari in quel posto andavano decisamente bene, e che il ricordo della bomba esplosa quasi due anni prima non aveva scoraggiato nessuno dal continuare a divertirsi in quegli angoli di mondo in cui l’etica e il buonsenso non avevano mai messo piede.
C’erano così tante persone a infreddolire nell’attesa, che probabilmente avrebbero rischiato di non entrare se non fosse ricorso alla conoscenza con tutti i buttafuori del locale; e, per un attimo, lo prese come una sorta di avvertimento a restare fuori da quel posto che rappresentava più di ogni altro il suo passato e ciò che più aveva amato; ciò che era stato e che troppo spesso si era trovato a pensare di voler tornare ad essere: lo studentello omosessuale, neanche maggiorenne, che ancora alle prime armi e completamente ignorante su quel mondo a cui sapeva di appartenere, compiva i suoi primi passi, atteggiandosi come il gran figo competente che in realtà non era.
Rise di se stesso, conquistandosi le occhiate storte di Jace, per poi prendere un grosso respiro e, dopo essersi slegato i capelli per lasciarli scendere a nascondere un po’ il viso, avanzò verso quel vicolo buio appena illuminato dalle luci azzurre delle insegne aggirando tutta la fila senza badare ai commenti che i presenti si premurarono di rivolgergli.
Raggiunse i buttafuori all’entrata e sorrise.
In un primo momento sembrarono non riconoscerlo, o forse erano troppo stupiti dal trovarselo davanti, ma dopo qualche attimo di assoluto silenzio, il pelato dei due si decise a balbettare qualcosa di vagamente comprensibile: «Signor…signor Tay...»
Justin portò immediatamente l’indice sulle labbra per intimargli di stare zitto. Non avrebbe saputo spiegare il perché, ma non voleva che la voce di un suo ritorno si spargesse in giro così velocemente.
Per quanto il suo cuore gli urlasse di chiedergli immediatamente di Brian per vederlo, nella sua testa non si sentiva ancora pronto ad affrontarlo. Non avrebbe saputo cosa dire, o fare.
Quella sera voleva solo osservare, ricordare e sentire. Rispolverare i frammenti del suo passato e dare modo al suo corpo di abituarsi a poco a poco a respirare nuovamente quell’aria. Giusto un po’ di Pittsburgh a piccole dosi e molto lentamente, per riprendere a convivere con quella dipendenza che gli era bruciata nelle vene ogni giorno da quando si era trasferito a New York, e con cui, se le cose non fossero andate come desiderava, avrebbe dovuto tornare a combattere molto presto. «Non dire niente a…» si sforzò di pronunciare e, dopo una prima occhiata stranita, quell’omone tozzo gli rivolse un sorriso e si scostò da una parte per lasciarlo passare. «Grazie. Lui è con me.» concluse, indicando Jace alle sue spalle che per tutto il tempo era rimasto in silenzio ad osservare tra la folla in attesa qualche possibile preda da accalappiare.
Percorrere di nuovo i primi passi dentro al Babylon fu più difficile del previsto.
Sentiva perfettamente il sangue pulsargli nelle vene veloce e potente come un fiume in piena, mente i battiti del suo cuore sembravano potergli togliere il respiro e lasciarlo stramazzare a terra da un momento all’altro. Di nuovo quella maledetta tachicardia.
Ma che cazzo ci faccio qui?
Il primo istinto fu quello di fare dietro front e scappare a gambe levate per rifugiarsi nella sua calda camera d’albergo, ma ogni suo progetto venne immediatamente stroncato dalla mano di Jace che corse a stringersi sui polsini della sua camicia candida. I suoi occhi azzurri si spostarono ad incontrare quelli accigliati di Jace che, storcendo le labbra, gli sussurrò all’orecchio: «Non ci provare.»
Justin sbuffò rumorosamente e si liberò dalla presa con uno strattone, prima di riprendere ad avanzare con il cuore in gola. Il fatto che Jace avesse imparato così bene a conoscerlo tanto da anticipare ogni sua mossa e capire ogni stato d’animo, in quel momento gli risultò decisamente fastidioso. «Andiamo a prendere qualcosa da bere?» propose e vide l’altro ridere di gusto.
«Credo proprio che tu ne abbia bisogno.»
Avanzarono lentamente fino al bancone, fermandosi su un lato più nascosto, vicino alle scale in ferro. Se solo avesse avvistato anche da lontano Brian, quello sarebbe stato il posto migliore da cui poter fuggire.
Si sentiva un codardo, ma le sue gambe proprio non la volevano smettere di tremare.
Ordinò una birra per sé e un Martini per Jace, conquistandosi le occhiate incuriosite del barista che, assottigliando lo sguardo – avrebbe potuto giurarci – stava cercando di capire dove avesse già visto quei capelli biondissimi e quel viso troppo bello da sembrar vero.
Abbassò la testa immediatamente per far sì che la frangia liscia potesse nasconderlo un po’, e si voltò con circospezione verso Jace, certo che se le cose fossero continuate su quella linea ancora per molto, non sarebbe arrivato sicuramente vivo a fine serata.
«Tutto bene?» lo sentì ridacchiare vicino al suo orecchio e gli rivolse uno sguardo poco amichevole. «Non sembri esattamente a tuo agio.»
«Va’ a farti fottere.» sibilò in risposta, ottenendo solo un sorrisetto compiaciuto dell'altro.
«Se non dovessi fare da balia a te, che rischi di crollare a terra per un infarto da un momento all’altro, ti avrei già chiesto dov’è questa famosa Dark Room!»
La Dark Room
.
Sentire quel nome lo fece rabbrividire dalla testa ai piedi, mentre la sua mente, nuovamente traditrice, si premurò di riportargli davanti agli occhi troppi ricordi; alcuni dolorosi, altri
dolorosamente stupendi.
Chissà se lui è lì
?
Annebbiò quei pensieri con una sorsata di birra, sperando servisse a lavarli via completamente e, con un cenno della testa, indicò a Jace le scale.
Voleva salire su per osservare e sperare di non essere riconosciuto troppo presto, anche se ogni passo sembrava costargli sempre più fatica. Senza contare poi il fatto che ogni persona, per un attimo, sembrava mutare i propri lineamenti in quelli dell’uomo che mai – neanche per un misero secondo – aveva smesso di amare.
Raggiunsero il piano superiore e si appoggiarono al parapetto.
Gli occhi di Justin presero a muoversi freneticamente in lungo e in largo per tutta la pista, alla ricerca di quel viso familiare. Più volte aveva sentito il cuore sussultare nel vedere una chioma scura e scompigliata su un fisico slanciato, ma nessuno di questi si era rivelato ciò che cercava.
Per un attimo gli parve di essere tornato realmente ai suoi diciassette anni, quando era entrato al Babylon insieme a Daphne alla sua ricerca. La stessa sera in cui si era intromesso in una delle sue conquiste, soffiandogliele da sotto il naso, e aveva ottenuto esattamente ciò che desiderava: un’altra notte con lui.
Sorrise e prese un altro sorso di birra, attirando l’attenzione di Jace. «Ti racconti le barzellette da solo, o hai visto qualche bocconcino interessante?»
Justin negò con un movimento della testa. «Stavo solo ripensando ad una cosa.»
L’altro roteò gli occhi e sbuffò. «Praticamente non fai altro da quando siamo arrivati. Sei inquietante sai? Soprattutto quando inizi a fissare il vuoto.» gli diede un buffetto sulla spalla con la mano libera e trangugiò il suo Martini. «Andiamo
biondo! Due salti in pista con il tuo vecchio Jace!»
«No, grazie.» rispose, ricevendo l’ennesimo sbuffo. «Vai tu se vuoi.»
«E lasciarti qui da solo a deprimerti?»
«Tranquillo.» ammiccò e gli rivolse un sorrisetto storto. «Giuro che non mi metterò a piangere.» tornò a guardare la folla che si agitava sulla pista da ballo e aggiunse: «Me ne starò qui buono buono e…» si bloccò, e sentì le parole morirgli in gola e il cuore sprofondargli nel petto.
Spalancò gli occhi, quando le dita andarono a stringere spasmodiche il collo della bottiglia, sbiancando nello sforzo. Dischiuse le labbra per respirare meglio e togliersi di dosso quell’orrenda sensazione che l’aria nei suoi polmoni non fosse mai abbastanza. Sbatté più volte le palpebre e boccheggiò nel vano tentativo di ritrovare la forza di pronunciare almeno un suono, mentre con lo sguardo continuava a seguire ogni minimo spostamento della persona che aveva cercato fin dall’inizio, ma che in quel preciso attimo si pentì di aver visto.
Non pensava che gli avrebbe fatto così male rivederlo, né che l’avrebbe svuotato di ogni cosa in un solo misero momento, prima di riempirlo improvvisamente di troppe emozioni contrastanti, per cui sarebbe potuto esplodere all’istante.
Felicità, malinconia, tristezza, paura, miste alla voglia improvvisa di correre tra le sue braccia, che faceva letteralmente a pugni con quella che gli gridava di scappare il più lontano possibile.
Brian Kinney era lì.
Brian – il
suo Brian – era qualche metro sotto di lui, che avanzava tra la folla con una birra in mano, spiccando su tutto il resto; avvolto in una delle sue splendide camice nere di seta che risaltava la linea perfetta delle sue spalle e il candore di quel collo liscio ed elegante.
Era solo e sembrava non troppo propenso alla compagnia, visto il modo in cui ignorava chiunque gli si rivolgesse anche con approcci piuttosto espliciti.
Tirò un sospiro di sollievo dopo quella constatazione e riprese per un pelo la bottiglia di birra che nel frattempo gli stava scivolando dalle mani nuovamente rilassate. Sentì vampate di calore lambirgli il viso, alternate da brividi lungo la linea della schiena, mentre gli occhi sembravano poter prendere fuoco da un momento all’altro; due tizzoni ardenti, proprio come quando era influenzato. Solo che in quel momento non era certo la febbre a incendiarli, ma lo sforzo di trattenere le lacrime.
«Ehi, Jus.» lo chiamò Jace, posando una mano sulla sua spalla. «Ti senti bene?»
«È qui.» balbettò soltanto, ma quando si accorse che l’altro aveva sollevato le sopracciglia e lo fissava incuriosito, si costrinse a parlare ancora, nonostante ogni parola avesse l’effetto di graffiargli la gola. «Brian, è qui.»
Jace spalancò gli occhi e sbatté più volte le palpebre sorpreso. «E che aspetti a farmelo vedere?»
In tutto il tempo trascorso dal suo trasferimento, Justin non aveva mai fatto vedere neanche una foto dell’uomo di cui era innamorato da anni alle persone che l’avevano affiancato nella sua vita a New York; non lo aveva mai menzionato o ricordato, se non nella sua mente. Durante il suo soggiorno nella Grande Mela, era come se Brian non esistesse.
Solo Jace e Gary ne erano venuti a conoscenza, ma non l’avevano mai visto, se non nei segni astratti dei quadri di Justin, o nei disegni in cui talvolta si dilettava per lasciar sfogare i pensieri che si arrovellavano nella sua testa attraverso una semplice matita.
Perciò si ritrovò a descriverlo e indicare un punto preciso della pista con un gesto fulmineo della testa; e dallo strillino strozzato che uscì dalle labbra di Jace, comprese che l’amico avesse centrato l’obbiettivo. «Oh Santa Finocchia!» esclamò, guadagnandosi un’occhiata storta da parte di Justin. «Chi cazzo è quel dio?!»
«Come direbbe Deb, ‘Brian Kinney, il regalo di Dio ai gay’.»
Jace passò più volte lo sguardo da Brian a Justin con la bocca inverosimilmente aperta, prima di riuscire a strillare: «Adesso capisco perché ti sei dato all’astinenza forzata! L’avessi preso io da uno come quello, avrei decisamente appeso le chiappe al chiodo.» Justin scoppiò a ridere e terminò la sua birra. «Cristo santo, ma…ma…»
«Ma…cosa?»
«È bellissimo!»
«Lo so.» si limitò a replicare con un sospiro a seguire, senza riuscire a staccare gli occhi da quella figura familiare e perfetta, immaginando di potersi stringere ancora nel calore di quel corpo.
Jace intanto aveva riconquistato la parola e la stava usando per elogiare ogni singolo centimetro di Brian, anche se lui neanche l’ascoltava. Era troppo impegnato ad ammirarlo e ricordare
cosa era capace di fare e di fargli provare; era troppo impegnato a ricordare attraverso il battito del suo cuore quanto amasse quell’uomo e quanto avesse bisogno di lui.
Ed era così assorto in quella sua venerazione, che neanche si accorse di un altro paio di occhi azzurri che lo stavano osservando da un po’…



*'*'*


“King of my castle” - Wamdue Project



Ordinò quella che fu almeno la quarta vodka della notte, dopo aver messo in circolo nel sangue anche un paio di birre, e si appoggiò con un gomito e la schiena al bancone, per osservare distrattamente i ragazzi che si agitavano nella pista.
Distolse lo sguardo da chiunque lo fissasse insistentemente o provasse approcci attraverso occhiate eloquenti e sorrisi languidi, rifilando solo decisi due di picche, dato che quella sera proprio non era in vena; in fondo, lui era ancora Brian Kinney e, anche se dentro qualcosa era cambiato – per non dire tutto –, fuori restava sempre l’uomo più desiderato di Pittsburgh, e poteva permettersi di rifiutare chiunque volesse quando e come volesse. Gli sarebbe bastato comunque un semplice gesto per farli correre tutti quanti se mai avesse cambiato idea.
Continuò a monitorare il locale con il suo sguardo profondo – di quel verde strano, così scuro da sembrar petrolio – finché non scorse una figura sorridente e familiare che tentava di attraversare la pista per raggiungerlo. «Attenzione gente, Michael Charles Novotny Bruckner in libera uscita, senza il maritino!»
«Piantala, idiota.» rispose il nuovo arrivato, e gli diede una leggera spinta sul petto fingendosi offeso.
«A cosa devo questo scioccante scoop?» continuò a prenderlo in giro, prima di voltarsi verso il barista e ordinare una birra per il suo migliore amico.
«Sono solo passato a fare un saluto.» prese la bottiglia e sorrise per ringraziarlo. «Ben aveva un lavoro da terminare per l’università, e così...»
«Sei tornato a ricordare i tempi in cui eri un frocio single che sapeva ancora divertirsi.» tirò fuori uno dei suoi sorrisi storti, sollevò il bicchiere come per brindare a lui e trangugiò il liquido trasparente.
Michael lo fissò lievemente accigliato e scosse la testa. «Io
so ancora divertirmi.»
«Certo.» annuì Brian arricciando le labbra. «Suppongo che lo Scarabeo sia piuttosto entusiasmante, o siete già passati agli scacchi?»
L’altro gli sferrò un pugno sulla spalla e rise. «Ma smettila! Proprio tu parli poi, che stavi per…»
«Io che stavo per?» domandò, incrociando le braccia al petto, per poi prendere a fissarlo intensamente. Sapeva benissimo dove il suo amico volesse andare a parare. Stava per pronunciare la parola “matrimonio” o comunque qualcosa di annesso, ma nel momento in cui si era reso conto della gaffe, si era zittito immediatamente.
«No, niente. Una stronzata.» si sforzò di sorridere, ma era così nervoso e tirato che non c’avrebbe creduto neanche un bambino. Michael poi, era sempre stato un pessimo bugiardo, a differenza sua.
«Io che mi stavo per
sposare? Io che stavo per convolare a nozze? Io che stavo per fare il grande passo? Matrimonio?» elencò, con un tono che andava a inacidirsi sempre di più, seppur le sue labbra fossero ancora increspate in un sorriso. «Era questo che volevi dire?»
«Mi dispiace, Brian. So di non dover…»
«Mickey, Mickey.» sospirò, prima di passare un braccio a circondare le spalle dell’altro. «Per quanto ancora dovrò ripeterti che sto bene? Sono ancora io e sono al Babylon, come ho sempre fatto.»
Michael restò per un attimo in silenzio, con gli occhi scuri puntati in quelli dell’altro. Per quanto Brian si ostinasse a sorridere, il tono della sua voce continuava a tradirlo, così come lo tradiva il fatto di averlo spesso sorpreso a fissare il vuoto in silenzio; così come dimostrava che mentiva il fatto di non aver ancora restituito le fedi, né di aver gettato la disposizione dei tavoli ma, soprattutto, il modo in cui le sue spalle s’irrigidivano nel sentir pronunciare il nome di Justin, mentre la luce nei suoi occhi sembrava affievolirsi fino a spegnersi. Decise comunque di tacere anche quella volta e di passare ad un altro argomento che gli premeva: «Certo. E ho saputo che hai ripreso anche a fotterti perfino l’aria.»
Brian scoppiò in una risata anche se, per come stavano le cose, non aveva proprio niente da ridere, considerando che le accuse di Michael erano solo una
triste mezza verità.
La realtà
, era che lui avrebbe voluto riprendere a fottersi anche l’aria, ma non ci riusciva.
C’aveva provato. Aveva persino perso il conto di quanti gigolò – rigorosamente biondi – avesse invitato al suo loft, ma con nessuno di loro era riuscito a scopare. C’erano stati momenti in cui gli veniva perfino la nausea, perché nessuno di loro aveva quel profumo addosso che tanto amava, né il suono di quella voce o quella pelle morbida e perfetta. Semplicemente, nessuno di loro era Justin.
La realtà
, era che si limitava a farsi fare un pompino quando proprio non riusciva a resistere, o sentiva il bisogno di doversi svuotare la mente – oltre che qualcos’altro – perché provare piacere sembrava essere l’unico modo per riuscire a liberarsi e lenire quel fastidioso dolore per almeno qualche minuto.
La realtà è che non so più dove sbattere la testa
. Questa è l’unica fottutissima realtà.
«Bah, sì. Qualcosa del genere.» mentì però, con fare vago, perché era troppo difficile ammettere che quel moccioso biondo gli mancava più dell’aria che respirava. «Te l’ho detto che sto bene, no?»
«Già.» sorrise Michael; o almeno si sforzò di fare qualcosa che somigliasse a un sorriso. Avrebbe preferito sentirsi dire che stava male e che non riusciva ad andare avanti. Avrebbe preferito qualsiasi altra parola, ma non quella. Il suo migliore amico si era nuovamente intestardito a voler fare e affrontare tutto da solo, esattamente come col cancro, e quando si comportava così non prometteva niente di buono.
Fece per aggiungere altro, ma una figura conosciuta e slanciata, dagli occhi azzurri e i capelli biondi si avvicinò a loro. «Brandon.» lo salutò Brian, prima di squadrarlo e inarcare le sopracciglia. «Perché quella faccia da funerale?»
«Credo di essermi innamorato.» sospirò con ironia e sorrise. «Ho visto un biondo che me l’ha fatto diventare duro con una sola occhiata, ma l’ho perso.»
L’altro fece una smorfia e finse di consolarlo picchiettando una mano sulla sua spalla. «Povero piccolo Brandon alle prese con la sua prima delusione amorosa.» sollevò lo sguardo e scosse la testa in un gesto di rassegnazione, come se volesse far intendere che lui quelle cose proprio non le capiva. Ennesima bugia.
«Ho la sensazione di averlo già visto altre volte, ma non nell’ultimo periodo.»
«Pure visionario.» fece una smorfia e aggiunse: «Lasciatelo dire, sei messo davvero male.»
Brandon però non fece neanche caso alle sue parole, troppo impegnato a far vagare lo sguardo nella pista alla ricerca del suo fantomatico amore. «Capelli biondi e lunghi, pazzeschi occhi azzurri e un fisico da favola.»
«Ti sei innamorato di uno specchio, Narciso?» continuò a prenderlo in giro Brian, ridacchiando con il suo solito fare da arrogante.
«Idiota. Sto parlando seriamente.» replicò sbuffando. «Potrei giurare di aver visto un angelo.»
A quelle parole Michael puntò immediatamente gli occhi verso Brian e, come previsto, lo vide irrigidirsi per la durata di un secondo, ma che bastò a confermare ogni sua teoria. In fondo, poteva mentire a tutti, ma non a lui.
Angelo
. Per Brian c’era solo una persona al mondo in grado di guadagnarsi un soprannome simile, ed era l’unico uomo che avesse mai amato. L’unico per il quale avrebbe sacrificato tutto, e l’unico che l’aveva fatto soffrire e per cui stava ancora soffrendo.
«Be’, va’ a cercarlo allora, invece che spaccare i coglioni a noi con le tue stronzate.» rispose difatti con un tono decisamente meno amichevole, prima di voltarsi verso il bar e ordinare da bere. Alcool, droga e sesso erano l’unica soluzione temporanea per salvarsi da una dipendenza molto più grande.
Michael evitò ogni commento a riguardo e continuò a sorseggiare la sua birra, osservando distrattamente i ragazzi in pista, per poi sollevare lo sguardo verso l’alto. Percorse le scale in ferro ed il corridoio sopraelevato, senza badar troppo alle figure che i suoi occhi incontravano, finché non vide l’impensabile.
Capelli di quel biondo così chiaro da risplendere ogni volta che le luci li colpivano, anche se più lunghi dell’ultima volta in cui l’aveva visto; pelle marmorea, fasciata in una camicia bianca che lo faceva sembrare davvero un angelo; occhi così azzurri da essere notati anche nel buio di una discoteca, e quei lineamenti morbidi che conosceva fin troppo bene, e che l’avevano fatto sempre sembrare più giovane della sua età.
Sembrava una visione, e se possibile era ancora più bello di quando aveva lasciato Pittsburgh.
Sbatté più volte le palpebre, incredulo e stralunato per ciò che i suoi occhi si ostinavano a mostrargli, convinto che fosse solo una stupida visione dettata dai suoi pensieri; ma per quanto li chiudesse e li riaprisse, quella figura non spariva. Continuava a restare lassù, appoggiata al parapetto con l’espressione smarrita di chi cerca qualcosa ma non riesce a trovarlo…e Michael sapeva benissimo cosa, o meglio
chi, stava cercando.
Fu probabilmente quello che lo convinse di non essere pazzo o ubriaco, e le parole uscirono dalle sue labbra incontrollate: «Justin.» mormorò, facendo voltare Brian con un’espressione stizzita sul volto. «Justin è qui.»

«Ma che cazzo stai blaterando?» lo aggredì l’altro.
Michael si voltò e lo guardò dritto negli occhi. «Senti, lo so che non mi crederai e mi prenderai per pazzo, ma è qui.»
«Cos’è…hai visto la madonna?»
«No!» esclamò esasperato. «Guarda, è proprio lassù…» fece per indicare il punto in cui l'aveva visto, ma di Justin non c’era più traccia.
Brian gli lanciò un’occhiata storta e smosse le labbra in una smorfia. «Dammi retta Mickey…» iniziò con quel suo solito tono saccente. «Va’ a casa a fare la mogliettina. Restare così tanto alzato sembra ti faccia male.»
«Ma…» provò a replicare, passando nuovamente lo sguardo in ogni angolo senza riuscire a scorgerlo. Si soffermò per un attimo sull’espressione scocciata di Brian e scosse la testa. «Niente, lascia stare.»
«Bene.» rispose l’altro, scompigliandogli i capelli. «Io vado a controllare che nella Dark Room sia tutto apposto. Vuoi farmi compagnia?» chiese, prima di sorridere e fingere di aver tralasciato qualcosa. «Ah no, scusa! Dimenticavo che sei sposato!» scrollò le spalle ignorando gli sguardi contrariati di Michael e concluse: «Buon rientro a
monogamolandia
Incapace di rispondere, lo osservò allontanarsi con quel suo passo fiero, seguito dagli sguardi eccitati dei presenti, e sospirò sommessamente dandosi del cretino.
Si sentiva patetico per essere andato lì come spalla per il suo migliore amico e tentare di distrarlo, quando l’unica cosa che era stato capace di fare, era stata scacciarlo con le sue stupide visioni.
Era così certo di averlo visto e così felice nel sentir riaccendersi quella fievole fiammella di speranza di rivederli ancora insieme, che non aveva pensato neanche per un secondo a quanto potesse essere assurda quella situazione.
Justin era a New York, non a Pittsburgh; e Brian soffriva già abbastanza per quella consapevolezza, senza il bisogno che lui girasse – e conficcasse a fondo – il dito nella piaga.
Prese l’ultima sorsata di birra e abbandonò la bottiglia sul bancone, prima di avviarsi sconsolato verso l’uscita. Si guardò intorno per un’ultima volta, ancora aggrappato a quella velata e debole illusione, ma non vide neanche l’ombra di quel piccolo artista.
Ma perché cazzo non torni?
Stizzito da un moto di rabbia e delusione, tirò su la zip del maglione con foga e tornò ad immergersi in quel freddo umido di fine autunno, con mille pensieri in testa e neanche uno straccio di soluzione per salvare il suo migliore amico.

***

Note finali:

Ed ecco anche il terzo!
Dal prossimo non sarò affatto così veloce nel pubblicare, ma visto che lo scorso era piuttosto spoglio come capitolo e che questo era praticamente già scritto, ho deciso di pubblicare prima...approfittando 
anche del fatto che oggi: 10 Luglio, quel dio che porta il nome di Gale Morgan Harold III, compie 42 anni portandoli più che splendidamente! E siccome il mio amore per quell'uomo rasenta la follia, mi sembrava più che giusto omaggiarlo, seppur con una cosa minima come questa.

Nello scorso capitolo, il caro Gary Hudson, aveva riscosso qualche parere positivo...e io ogni volta non riuscivo a non sorridere pensando proprio a quello che avevo già scritto in questo...ehm, ehm...qualcosa mi dice che i pareri positivi diminuiranno, ma chissà...tutto può essere! Comunque sia, non c'è poi molto da dire...a parte che gestire tutti i personaggi è una vera faticaccia, specie quando la mia vena "Britin" prende il sopravvento! XD scriverei vagonate di "fluffaggini dolciose" su di loro, ma è bene che mi trattenga dal farlo o sarà come tirarsi la zappa sui piedi. 
Ci tengo comunque a specificare che io ODIO Blake. Non l'ho mai sopportato e mai lo sopporterò. Non potevo soffrirlo quando era un drogato e ancora meno quando è rinsavito...ho pregato fino all'ultimo che Ted se lo levasse dalle palle ma nulla... -.-'' il mio caro contabile ama quel biondo con la faccia da schiaffi, perciò devo tenermelo! Mi auguro che anche questa mia sviscerale antipatia non si noti troppo e...a proposito dell'altra mia antipatia - Michael - chiedo venia, ma ormai nella mia testa il signorino è quello catalogato sotto l'etichetta "dico un sacco di stronzate sempre al momento sbagliato e non mi ricordo mai di tenere la bocca chiusa quando dovrei"...quindi perdonatemi se gli ho fatto fare, come al solito, la figura del coglione, ma è stato più forte di me. XD

Ci tento a ringraziare come sempre Elena, la mia adorata beta che sopporta i miei squilibri mentali; tutte le persone che hanno letto questo capitolo; chi ha inserito la storia tra le seguite, le ricordate o le preferite...ma soprattutto un gigantesco GRAZIE a: mindyxx, oo00carlie00oo, Hel Warlock, silver girl, Katie88, Katniss88, giacale, Thiliol, FREDDY335, TWINDIDO, EmmaAlicia79, Clara_88  per aver recensito lo scorso capitolo

Un bacione e a presto. 
Veronica.

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Capitolo 4
*** Ironic. ***


4.Ironic.

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6x04 – Ironic 
[capitolo betato da Trappy].


“Ironic” - Alanis Morissette



«D’accordo.» esclamò perentorio Jace, bloccandosi in mezzo alla strada col fiatone e le mani puntate nei fianchi. «Adesso mi dici per quale cazzo di motivo stiamo scappando come due ladri!»
Justin si voltò esasperato e tornò indietro di qualche passo per afferrarlo e tentare di trascinarlo via. «Ti vuoi muovere?!»
«No.» replicò l’altro. «Non se non mi dici perché! Sei impazzito per caso?»
«Michael mi ha visto.» mormorò, e quando vide l’espressione confusa dell’altro, sbuffò e aggiunse: «Michael, il migliore amico di Brian. Quello piccolino e moro che era accanto a lui.»
Jace prese a ridacchiare. «Ah, il tuo rivale in amore?»
«Piantala. È sposato.»
«Ciò non toglie che sia sempre stato innamorato di Brian, o sbaglio?» lo punzecchiò con un sorrisetto irritante. «E adesso che l’ho visto, mi spiego tante cose…»
«Cristo, risparmiami!» lo supplicò, alzando gli occhi al cielo dopo aver visto la luce d’eccitazione che era comparsa a illuminare quelli nocciola del suo amico.
«Mi era diventato duro come il marmo.»
Dalle labbra di Justin uscì un mugolo di dissenso. «Grazie per il bollettino, Jace.» lo strattonò per l’ennesima volta e sibilò a denti stretti. «Adesso possiamo andare?!»
«Ma se ti ha già visto, qual è il problema?»
«Conto sul fatto che abbia pensato di avere le visioni. Michael ha sempre avuto una fervida immaginazione.»
L’altro restò a fissarlo in silenzio per un attimo, prima di storcere la bocca e inarcare le sopracciglia. «Taylor, spiegami una cosa.» iniziò, per poi sospirare. «Per quale fottutissimo motivo siamo tornati a Pittsburgh, se stai facendo di tutto per evitare chiunque ti conosca? Se volevi fare una gita, c’erano
migliaia di altri posti da visitare. Tutti sicuramente più interessanti.»
«Non è facile come pensi.» rispose e abbassò lo sguardo. «Io…non ci riesco. Non posso sbucare dal nulla e…»
«Vuoi inviare a tutti una raccomandata per avvertirli del tuo arrivo? Chi cazzo sei, la regina d’Inghilterra?»
«Non è questo!» sbottò, e si passò una mano sui capelli per toglierli dalla faccia. «Non torno qui da più di un anno.»
«Appunto, direi che è l’ora di muoversi. Soprattutto con quel Brian.» si avvicinò a lui e gli scostò un ciuffo biondo dietro l’orecchio. «Tesoro, ascolta. Lo so che non è facile dopo tutto questo tempo, perché credi di non appartenere più a questo posto o che tutti siano andati avanti senza di te. E so anche che se non sei mai tornato è solo perché avevi paura di quel che avresti trovato, ma ormai sei qui…» gli sorrise e gli diede un buffetto sul naso. «Perciò tira fuori le tue palle lisce e incontrali. Sono certo che saranno più che felici di vederti.»
«Gli altri probabilmente sì, ma…»
«Sarà felice anche lui.»
Justin increspò le labbra in un sorriso amaro. «Tu non conosci Brian. Mi avrebbe spedito a calci a New York anche contro la mia volontà, e non avrebbe mai voluto che tornassi se prima non fossi diventato qualcuno. Non è mai neanche venuto a trovarmi e…»
«Tappati quella bocca ora. Non costringermi a farlo con uno dei miei dildo.» lo interruppe, puntandogli l’indice sotto il naso. «È vero, io non lo conosco, ma tanto per cominciare credo che tu sia già diventato
qualcuno, e non lo penso solo io, ma ogni rivista del cazzo e perfino i quotidiani. Praticamente hai monopolizzato ogni inserto d’arte e cultura di questo Paese.» strizzò l’occhio e continuò: «E poi sono sicuro che lui era spaventato almeno quanto te. Da quel che mi hai detto, credo proprio che quel suo ‘non voglio interferire’ fosse una bugia che raccontava a entrambi per non ammettere il terrore di non rivederti mai più, perché non saresti più tornato da lui. Preferiva raccontarsi la cazzata che eravate troppo impegnati e che non dovevate mettervi in mezzo alle vostre cose, piuttosto che confessare quelle paure.» gli circondò le spalle con un braccio e ripresero a camminare verso la jeep. «Se solo le avesse ammesse, poi avrebbe dovuto fare i conti con il fatto che gli mancavi e non sarebbe più riuscito a tenerti lontano. Se fosse venuto a New York, probabilmente ti avrebbe riportato a casa e avrebbe mandato a puttane la tua carriera pur di averti con sé. Si sarebbe comportato da egoista.»
«L’avrei preferito.» borbottò Justin, tirando fuori le chiavi dalla tasca, per poi far scattare la serratura dell’auto. «Avrei preferito che fosse venuto a prendermi.»
«E avresti sacrificato tutto per lui?»
Non rispose subito. Aspettò che entrambi fossero seduti al loro posto e mise in moto. «Come ho detto una volta a una mia cara amica…New York non è il mio sogno di una vita, Brian sì
Jace scosse la testa e sorrise fievolmente. «Devi essere proprio tanto innamorato.»
«Troppo.» ridacchiò appena e inserì la marcia per partire. «Quasi da averne la nausea.»
«Be’, comunque sia, il problema non sussiste più.» scrollò le spalle e lo guardò sottecchi. «Sei uno stramaledetto artista famoso ormai, quindi chi cazzo ti vieta di tornare da lui?»
«Non posso mollare così Gary.»
«Adesso sei tu quello che inventa stronzate per non affrontare le cose.»
Justin sorrise, osservando la strada. «Non sono stronzate.»
«Certo, come no.» sbuffò l'altro, sventolando la mano. «Se continuate così, è ovvio che non vi ritroverete mai. Vi complicate la vita.»
«Non è mai stato facile niente per noi.»
«Ah, su questo non ho dubbi.» lo rimbeccò, scocciato. «Sembra che vi divertiate a rendere le cose impossibili, anche quando sono banali.»
«Domani andrò a trovare mia madre e Molly.» rispose dopo qualche minuto di silenzio. «Una cosa alla volta.»
«Non prendertela troppo comoda, artista da strapazzo.» replicò l’altro con la fronte aggrottata. «Ricordati che non è ancora detto che potrai davvero restare. A meno che tu non molli tutto, ma sei troppo buono per farlo, quindi non ci spero neanche.»
«Proprio tu m’incoraggi a mollare tutto per amore?» rise, lanciandogli un’occhiata storta.
«Considerando che per te questo ‘tutto’ non ha alcuna importanza, e che mi è sempre piaciuto il lieto fine, direi proprio di sì.» fece schioccare la lingua e sorrise. «Il fatto che io preferisca strusciare il mio culo rifatto ovunque, non significa che io non tenga a veder felice il tuo.»
«Se continui così, presto dovrai rifartelo ancora. Te lo sei consumato.»
Jace lo fissò sconcertato e quasi offeso. «A che pensi che serva la chirurgia plastica?»
«Sei completamente pazzo.»
«Parli bene tu. Non hai neanche ventiquattro anni!»
«E tu quanti ne hai? Non me l’hai mai detto.»
«Cafone.» lo apostrofò Jace. «Non si chiedono gli anni a una signora.»
Justin scoppiò a ridere, e ringraziò mentalmente chiunque gli avesse concesso la fortuna d’incontrare quell’amico che gli sedeva accanto.
Ne aveva fatte tante di scelte sbagliate nella vita – a partire dalla sua decisione di andare a New York che, a parte per i soldi, non gli sembrava poi così vantaggiosa – ma quella di portare Jace con sé, era stata certamente una delle poche cose giuste che avesse fatto.
La sua compagnia lo metteva di buonumore e, per quanto a volte fosse decisamente petulante o isterico, averlo vicino significava aver meno tormenti da portare sulle spalle; e mai come in quel momento ne avrebbe avuto bisogno.
Sorrise tra sé e sé, con gli occhi puntati sulla strada e le luci della città che sfrecciavano ai lati. Lanciò un’occhiata verso la direzione in cui sapeva esserci la casa di Brian – quel bellissimo loft che aveva assistito a mille divergenze e altrettante notti d’amore – e sentì lo stomaco attorcigliarsi su se stesso.
Probabilmente non sarebbe mai stato pronto a quel momento; non si sarebbe mai sentito abbastanza coraggioso da affrontarlo, ma non poteva permettersi di attendere oltre.
Un passo alla volta
.
Raggiungere Brian sarebbe stato un po’ come percorrere quella navata su cui non aveva mai messo piede. Arrivare nuovamente a lui sarebbe stato come aver coronato quel sogno, permesso e non concesso che gli permettesse per l’ennesima volta di tornare.
L’aveva fatto così tante volte, e altrettante volte gli aveva concesso di compiere i suoi sbagli – alcuni anche madornali – che gli sembrava quasi impossibile che fosse ancora lì ad attenderlo, pronto a riprenderlo nella sua vita e a concedergli quello stramaledetto cassetto che ancora non era riuscito a prendersi davvero.
Gli sembrava tremendamente improbabile eppure, in fondo al suo cuore, non aveva mai smesso di crederci; non aveva mai smesso di sperare che un giorno si sarebbero appartenuti come si erano promessi.
Sospirò e frizionò i suoi capelli indomabili, cercando un modo per rincontrare tutti, attanagliato dalla paura che non lo vedessero più come il loro piccolo “raggio di sole”, ma come l’artista famoso di New York, o il “nuovo Warhol” come si ostinavano a definirlo tutti.
Poi pensò alle loro telefonate e ai giorni in cui erano passati a trovarlo.
Debbie l’avrebbe sicuramente stritolato in uno dei suoi abbracci, rischiando di soffocarlo e fargli concludere in una bara il suo ritorno. Sua madre avrebbe fatto altrettanto, lamentandosi del fatto che fosse troppo magro, mentre sua sorella avrebbe sicuramente recitato la parte dell’offesa, finché non fosse riuscita più a desistere dal saltargli in braccio e riempirlo di baci e schiaffi. Il suo modo tutto singolare di dimostrargli quanto teneva a lui e quanto le era mancato.
Anni prima non erano stati troppo legati, nonostante si volessero bene, ma da quando era cresciuta e aveva capito com’era la situazione, Molly gli si era letteralmente appiccicata addosso e non perdeva occasione per lamentarsi di quanto poco tempo passasse con lei, per poi ricordargli quando fosse orgogliosa di averlo come fratello.
Se glielo avessero detto a diciassette anni non l’avrebbe mai creduto possibile, eppure quella fastidiosa ragazzina dai capelli lisci e rossicci, i suoi stessi occhi azzurri, la pelle lattea e quelle impertinenti lentiggini sul naso, gli mancava da morire; così come gli mancava Daphne.
In quell’anno si erano sentiti per telefono – non quanto lei avrebbe voluto e spesso si era dimenticato di richiamarla – ed era passata a trovarlo più volte a New York, ma non era più come quando viveva a Pittsburgh.
Non appena le si fosse presentato davanti, non avrebbe potuto giurare che avrebbe fatto finta di niente e l’avrebbe accolto con un abbraccio sorridente. Era quasi certo che uno schiaffo sarebbe arrivato anche da lei, ma era ben disposto ad accettarlo, se ciò significava farsi perdonare.
Avrebbe accettato qualsiasi cosa, se questo gli avesse assicurato che tutto sarebbe rimasto immutato a quando se n’era andato.
Sperava che Michael ricominciasse a stressarlo con le sue nuove idee su Furore, per tentare di convincerlo a dare ancora vita a quel loro prezioso supereroe, come se non fosse già abbastanza impegnato, mentre Ben gli avrebbe sicuramente chiesto di tutto e di più su musei newyorkesi che ancora, ovviamente, non si era neanche premurato di visitare; ed era quasi certo che Ted si sarebbe unito a lui, passando poi a mostrargli qualche articolo che era riuscito a conservare, su cui venivano decantate le sue doti di artista.
Hunter non avrebbe fatto altro che informarsi su quali locali fossero più in voga e gli avrebbe strappato l’ennesimo invito al suo loft per trascorrere qualche nottata di baldoria, immediatamente ripreso dai suoi genitori, mentre per Emmett immaginava di sentirsi riempito da mille domande su quali attori famosi, o vip di ogni genere, avesse avuto la fortuna d’incontrare. Gli avrebbe chiesto certamente anche quali tendenze la facessero da padrone nella Grande Mela e avrebbe concluso riempendogli la testa di gossip su persone che neanche aveva la più pallida idea di chi fossero, conducendolo a una scontata emicrania di dimensioni epocali.
Linz e Mel probabilmente non le avrebbe trovate. Gli mancavano da morire e voleva assolutamente rivedere anche Gus e Jenny Rebecca, perciò si appuntò di ritagliarsi un momento per andare a Toronto.
L’unico punto interrogativo – più grande e spaventoso degli altri – restava sempre e solo lui: Brian.
Non riusciva a immaginare una sua reazione. Non poteva neanche lontanamente provarci.
Nella sua testa si alternavano le possibilità più disparate. Da un improbabile abbraccio, seguito da un bacio, in un assurdo momento di passione e desiderio, ad una molto più reale espressione d’indifferenza da cui, certamente, sarebbe uscito a pezzi.
Picchiettò nervosamente con le dita sul volante e sbuffò appena, per non farsi sentire.
Era inutile arrovellarsi in quel modo, perché per quanto provasse a farsi un’idea nella sua testa, accanto a quel nome, sarebbe stato eguagliato sempre e comunque il vuoto più totale.
Lo conosceva bene – per certi aspetti anche meglio di Michael – ma in quel caso, in quella situazione, che poi era la più importante, quella che avrebbe potuto cambiare ogni cosa, Brian Kinney era,
ironicamente, la persona più imprevedibile di questo mondo.



*'*'*

“9 Crimes” - Damien Rice



Fece scorrere la porta pesante sul carrello e restò ad osservare per un attimo il suo loft illuminato dalla fievole luce azzurra dei neon accanto al letto.
Michael era convinto che non l’avesse sentito, ma alle sue orecchie era arrivato perfettamente il suono di
quel nome.
“Justin è qui”, aveva detto; e per qualche assurdo e stupido motivo, si era aspettato di vederlo nella penombra di quel posto enorme, solitario e troppo silenzioso da quando se n’era andato. Si era illuso di trovarlo lì, ad aspettarlo come tante volte era successo, che sollevava gli occhi verso di lui non appena sentiva il rumore della porta e restava a fissarlo senza dire una parola, prima di sorridergli.
Ma il loft era ovviamente vuoto; Justin era a New York, ed era estremamente stupido da parte sua credere il contrario, soprattutto se pensava che erano ormai sei mesi che non si parlavano.
Sei mesi, cinque giorni e circa sei ore
.
Sorrise fievolmente, ironizzando su di sé e sulle sue stupide illusioni.
Sapeva che non poteva essere possibile, eppure in fondo c’aveva davvero sperato. Era ben conscio che concedersi di crederlo avrebbe solo riaperto quella ferita ostinata a non volersi cicatrizzare, e che si sarebbe fatto solo del male; eppure c’erano giorni in cui lo sentiva necessario. Provava l’insano bisogno di continuare a sperare in quell’amore che aveva lasciato andare, ritenendosi schifosamente patetico, quasi da provare disgusto e rabbia per se stesso, fino a rendersi conto – e arrendersi al fatto – di non poter fare diversamente.
Lui e Justin erano uniti da un filo invisibile quanto impossibile da recidere. Lo sapeva lui, lo sapeva Justin e lo sapeva chiunque li avesse conosciuti; e forse era quello il motivo principale per cui non riusciva a smettere completamente di sperare; forse quella era la risposta a tutti i suoi perché.
Brian semplicemente aspettava il trascorrere di
quel tempo, come poi tante altre volte era successo e, nonostante il suo enorme ego, affiancato dall’altrettanto mastodontico orgoglio, sapeva che avrebbe trovato sempre un posto per quel suo raggio di sole nella sua vita.
Sempre
. Qualunque cosa avesse fatto o detto, Justin avrebbe avuto il suo angolino, perché ormai faceva parte di lui e nessun altro pezzo si sarebbe mai incastrato così bene in quello spazio scavato quasi al centro del petto. Il punto esatto dove batteva il suo cuore.
In fondo, lui lo sentiva ancora.
Per quanto assurdo fosse, si era ritrovato spesso a percepire tracce del suo profumo sul cuscino, nonostante le lenzuola fossero state lavate fin troppe volte perché fosse anche solo vagamente possibile; o si era svegliato di soprassalto durante la notte, convinto di aver udito la sua voce.
C’erano notti in cui s’illudeva di avere il calore del suo corpo al suo fianco, e altrettanti giorni in cui lo immaginava mentre abbandonava la giacca di pelle o qualsiasi altra cosa sulla stessa sedia.
Tornava al loft e gli sembrava di vederlo armeggiare in cucina; entrava nel box doccia, e aveva la sensazione di sentire le sue mani insaponargli delicatamente la schiena; si addormentava e sperava di sentire il suono del suo respiro e la morbidezza dei suoi baci sulla pelle.
Era diventato paranoico forse, ma era anche assolutamente certo che quelle piccole ossessioni fossero l’unico appiglio che gli restava per tenersi ancora la sua vita e non impazzire.
Poi, come se quella tortura in quel momento non fosse abbastanza, sentì il cellulare nella tasca dei jeans pesare come un macigno. Percepiva la sua consistenza premere sulla coscia, quasi volesse costringerlo a prenderlo e comporre quel numero ma, nonostante tutto, decise di ignorarlo e raggiungere il suo costoso tavolino per fumarsi una delle canne che aveva già preparato.
Non l’avrebbe chiamato.
Se solo si fosse concesso di farlo, non gli avrebbe neanche permesso di parlare. Gli avrebbe semplicemente ordinato di fare le valige e portare il suo bel culo immediatamente a Pittsburgh, perché non poteva resistere un minuto di più senza vederlo, senza sentire il suo profumo, o le sue mani e i suoi capelli sfiorargli la pelle; non poteva resistere un minuto di più senza fare l’amore con lui.
Non poteva chiamarlo; non
doveva chiamarlo.
Non dopo che era stato proprio lui a insistere perché partisse e inseguisse il suo sogno; non dopo che lui per primo l’aveva convinto a rinunciare all’altro sogno che stavano per coronare insieme.
Sarebbe rimasto lì, nel suo loft a Pittsburgh, ad aspettarlo nell’ultimo posto che avevano condiviso.
«Patetico.» mormorò, stringendo tra le labbra il filtro, prima di accendere quella canna e inspirare profondamente, così che il fumo potesse risalire fin nel profondo e annebbiargli la mente. «Patetico e ridicolmente romantico
Si lasciò cadere sul suo divano candido e appoggiò la testa al cuscino. Aspirò ancora e soffiò oziosamente il fumo, osservando ipnotizzato quei girigogoli grigiastri che si sollevavano lentamente in aria fino a svanire, dopo averlo trattenuto per qualche istante e lasciarlo a raschiare la gola.
Chiuse gli occhi e si passò il pollice sulla fronte, com’era solito fare ogni volta che si arrovellava tra i suoi pensieri, ormai sempre più difficili da domare e sopportare.
Prese qualche altra boccata e lasciò ricadere il mozzicone sul posacenere, prima di portare l’avambraccio a coprire gli occhi e assopirsi sul divano, come altre notti in cui il ricordo di Justin era così forte e pulsante da non permettergli di riuscire a dormire su quel letto che troppe volte avevano condiviso; in cui si erano abbracciati, baciati e sì…anche
amati.


*'*'*



La fine di quell’autunno, a Toronto, somigliava molto più a un pieno inverno.
Nevicava ormai da parecchi giorni e il vento sembrava non voler mai smettere di sferzare la faccia di ogni cittadino.
Linz calcò meglio il cappello di lana sulla testa di Gus e sistemò la sciarpina rosa di Jenny Rebecca, accertandosi che la gola fosse ben riparata. Fece soffiare il naso a entrambi – ignorando le poteste di Gus che, capriccioso esattamente come suo padre e altrettanto orgoglioso, insisteva per fare tutto da solo – e tenendo per la mano la più piccola dei due, percorse l’ultimo tratto di strada che li separava da casa.
Quando aprì la porta per rifugiarsi nel caldo del salotto, trovò immediatamente Melanie impegnata a terminare di portare giù i bagagli e sistemare le ultime cose prima della partenza. «Bentornati!» li accolse sorridente, per poi baciare sulla fronte entrambi i suoi figli – seppur Gus fosse estremamente contrario a certe smancerie – e sfiorò le labbra di sua moglie con le sue. Lanciò un’occhiata al bambino che trotterellava eccitato per casa come un piccolo uragano e arricciò la bocca. «Ricordami un’altra volta perché abbiamo scelto Brian come donatore?»
Linz le scoccò un’occhiataccia, ma non riuscì a trattenersi dal ridere. Quella piccola peste ogni giorno di più somigliava a suo padre, sia nell’aspetto – che in fin dei conti poteva essere considerata più una fortuna che altro – che nel carattere; e questo, decisamente, non era di buon auspicio.
Come se non bastasse poi – come chiunque del resto, a parte pochi eletti come Mel – sembrava pendere letteralmente dalle labbra di Brian.
Lo ammirava, lo cercava, lo desiderava e avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di guadagnarsi un suo sorriso d’approvazione, o qualche minuto in più in sua compagnia.
Aspettava trepidante la sua telefonata ogni sera e sorrideva per giorni, con gli occhi illuminati dalla felicità, quando sapeva che presto l’avrebbe rivisto.
Ogni volta, proprio come in quel momento, non riusciva a trattenere la frenesia e scorrazzava a destra e a manca, neanche fosse posseduto.
In tante occasioni – soprattutto quando lo vedevano con le lacrime agli occhi dopo ogni saluto – Linz e Mel avevano pensato di fare ritorno a Pittsburgh, sentendosi colpevoli per quella lontananza a cui forzavano il bambino, ma come i loro pensieri correvano ai diritti che in quel paese non li erano riconosciuti, o al ricordo di quei momenti di terrore dopo la bomba esplosa al Babylon, rinunciavano a quell’idea per la paura di dover affrontare ancora un incubo simile e il possibile risultato che in quell’occasione le cose non si risolvessero per il meglio.
«È tutto pronto per la partenza?» le domandò invece. «Se non ci muoviamo, Gus ci farà diventare pazze.»
Mel sospirò. Quel bambino era anche più impossibile di Brian quando si metteva d’impegno. «Sì, è tutto pronto. Dobbiamo solo chiamare il taxi e avvertire gli altri del nostro arrivo. Ha chiamato Michael prima…» sollevò un sopracciglio e rettificò. «Ha chiamato
quattro volte in tutta la mattina. Voleva assicurarsi che gli dicessimo l’ora d’arrivo, così che lui o Brian sarebbero passati a prenderci.»
Linz la guardò per un attimo e annuì. «Ho capito, chiamo Brian.»
«Esatto.» le rispose l’altra. «Non credo di poter sostenere la guida da pensionato di Michael.»
«Perché, quella da formula uno di Brian sì?»
«Non ho ancora perso la speranza che il suo cervello sia riuscito a maturare tanto da farlo diventare un po’ responsabile.» replicò Melanie, e Lindsay le posò una mano sulla spalla come per incoraggiarla.
«Continua a sperare Mel.» la baciò sulle labbra e prese il cordless.
Compose il numero del cellulare del suo migliore amico e attese qualche squillo, prima che quella voce profonda, e decisamente assonnata, rispondesse. «Sai che ore sono?» il solito cafone. Melanie poteva pure continuare a sperare anche per millenni. Brian non sarebbe mai cambiato.
«È quasi mezzogiorno,
bello addormentato. Non dovresti essere a lavoro?»
«No, di tanto in tanto mi prendo una vacanza anch’io. Ci sono i miei
schiavetti alla Kinnetik.» lo sentì biascicare, prima di emettere un sonoro sbadiglio. «La strega cattiva come sta?»
Linz lanciò un’occhiata a sua moglie intenta a tenere a bada Gus e rispose: «È qui che tenta di addomesticare il
mini Kinney, con pochi risultati.» lo sentì ridacchiare e aggiunse. «È proprio tuo figlio.»
«Ricordami di fargli un bel regalo quando ci vediamo.»
«Brian, non devi incitarlo!»
«Perché no?»
Lei sospirò e si massaggiò la tempia con la mano libera. «Lasciamo perdere. Piuttosto, fatti una doccia e vieni all’aeroporto. Tra un paio d’ore siamo lì.»
«Mi prendi per il culo?» le chiese, dopo qualche secondo di silenzio assoluto.
«No. Michael ci ha invitato a trascorrere il Ringraziamento da lui. Dovresti esserci anche tu se non sbaglio. E comunque abbiamo deciso di arrivare un paio di giorni prima, così da trascorrere più tempo insieme.»
«Quello stronzetto non mi ha detto niente.»
Linz fece una smorfia. «Forse perché non lo ascolti quando ti parla. Anzi, direi che ultimamente non ascolti proprio nessuno.»
«Non ci provare.» intervenne perentorio Brian. «Non cominciare anche tu a giocare alla piccola psicologa, perché non è proprio il caso. Ne ho già in gran numero qua a Pittsburgh, uno più penoso dell’altro, e non ho bisogno di una che viene appositamente da un altro Paese.»
«Ma come siamo egocentrici.» lo canzonò lei. «Non vengo certo per
te, mio caro.»
Sentì Brian ridere e inevitabilmente sorrise. «E io dovrei crederci?» le domandò con il suo tono saccente. «Lo so che ti stai struggendo di nostalgia per me, lì in mezzo al nulla, tra le tue cose da lesbica.»
«Tranquillo. Ho una parte molto consistente di te anche qua.» replicò, osservando Gus che s’imbronciava ed incrociava le braccia al petto. «Gus diventa sempre più intrattabile, esattamente come qualcuno di mia conoscenza. E senza la tua influenza tra l’altro! Forse è questo che mi preoccupa di più.»
«Pensa se ci vedessimo tutti i giorni.»
«No grazie. Preferisco lasciarli a Mel certi incubi.»
Brian restò nuovamente in silenzio, e lei avrebbe pagato oro per riuscire a capire cosa gli stesse passando per la mente, poi, come mai avrebbe creduto possibile, quei pensieri si tramutarono in parole: «A me non dispiacerebbe.» mormorò, lasciandola di stucco. «Sì, insomma. Lo so che qua non potreste vivere in pace il vostro romantico e patetico sogno d’amore, imitando la famigliola felice di Settimo Cielo, ma…»
«Ho capito. Sei tu quello che si strugge di nostalgia.»
«Vaffanculo.» borbottò lui, e Linz non riuscì a trattenersi dallo scoppiare a ridere.
Si asciugò poi una lacrima che le era scesa sotto l’occhio, senza neanche rendersi conto di quando aveva iniziato a piangere e rispose: «Dai, alza quel culo e fila a farti la doccia. Non abbiamo intenzione di aspettarti per ore all’aeroporto.»
«Mi fai salutare Gus?» chiese invece lui.
«Solo se mi assicuri di non dirgli niente per far incazzare Melanie.»
Lo sentì mugugnare. «E dove finisce tutto il divertimento?»
«Brian.» lo chiamò, con quel solito tono di rimprovero.
«Ho capito. Fila a fare la doccia.» la scimmiottò. «Dai un bacio ai mocciosetti da parte mia.»
«Ok, a dopo.» lo salutò, per poi riattaccare e riporre il cordless al suo posto. Si voltò verso la sua famiglia e sorrise nel vedere Jenny Rebecca che tentava, seppur inconsciamente, di placare sua madre stringendosi al suo collo, proprio come avrebbe fatto Michael; e Gus che alzava gli occhi al soffitto con una buffa espressione di sufficienza per un bambino di neanche sette anni, terribilmente identica a quella di Brian. «Possibile che devi sempre far arrabbiare la mamma?» intervenne e lui spostò i suoi occhi verde scuro – perfettamente uguali sia nella forma che nel colore a quelli del padre – verso di lei, ancora più scocciato.
«Voglio andare da papà.» borbottò, battendo un piede a terra.
«Papà non ti vorrà se continuerai a fare i capricci.» tentò di spaventarlo Melanie, con scarsi risultati.
«È una bugia.» replicò infatti, e neanche poteva immaginare quanto avesse ragione. Se Brian fosse stato lì, probabilmente lo avrebbe incitato a continuare. Tutto pur di veder Melanie arrabbiata e in difficoltà.
«D’accordo, allora ti lasceremo con i vicini, mentre noi torniamo a Pittsburgh. I bambini cattivi non possono venire.»
«Io non sono cattivo!» protestò isterico. «Voglio andare da papà. Siete voi che siete donne e siete lente!»
A quelle parole Lindsay e Melanie si scambiarono un’occhiata sconcertata. Quell’uscita era sicuramente opera di suo padre, solo che si erano perse il momento in cui gli aveva tramandato certi insegnamenti. «Gus Peterson Marcus.» lo chiamò Linz, aggrottando la fronte.
«E Kinney.» si ostinò a specificare lui, altrettanto contrariato. Voleva sempre rimarcare il suo legame con Brian.
«Sì, come vuoi, signorino Kinney.» borbottò in risposta. «Vedi di comportarti bene, e di non ripetere più certe frasi, altrimenti quant'è vero che Brian Kinney è tuo padre, tu resterai a Toronto, chiaro?»
Gus assottigliò lo sguardo e, se un’occhiata avesse potuto fulminarla, era certa che suo figlio ci sarebbe riuscito. «
Cristallino.» borbottò infine, in una perfetta imitazione del Kinney senior, prima di voltarsi e raggiungere la sua valigia per trascinarla fuori dalla porta.
«Mi verranno i capelli bianchi prima del tempo.» mormorò sconsolata Linz rivolta a Melanie.
«Consolati.» rispose l’altra, baciando sulla guancia la bambina che teneva in braccio. «Tu li avrai bianchi, ma io sarò completamente calva.»



*'*'*



«Per quanto ancora dobbiamo restare chiusi in questa jeep come due ebeti?»
Justin si voltò a guardare Jace e tentò di fulminarlo con lo sguardo ma, vista l’espressione esasperata dell’altro, non ottenne alcun risultato.
Era ormai quasi un’ora che erano fermi nei pressi del vialetto di casa di Jennifer, e ancora non aveva trovato il coraggio di scendere dalla macchina.
Si sentiva un idiota, perché era di sua madre e di sua sorella che si trattava, non di chissà quale sconosciuto – o, peggio, di Brian – eppure le sue gambe si erano cementificate sul sedile e non ne volevano sapere di muoversi. «Ancora un minuto. Magari non c’è neanche.»
«Di certo, se restiamo qui, a meno che tu non abbia una vista a raggi infrarossi, e in quel caso sappi che ti odierei perché potresti goderti la vista di piselli all’aria ogni secondo, non lo sapremo mai.» si sporse per aprire la portiera e gli fece un cenno con la testa. «Perciò ora alza il culo e portalo davanti a quella porta. Suona il campanello e saluta tua madre! Io comincio anche ad aver fame e sai meglio di chiunque altro quanto divento isterico.»
«Non più checca del solito.» commentò Justin, sollevando un sopracciglio.
«Fa poco lo sbruffone e fai quello che devi fare, o ti ci porto a forza.»
Trattenersi dallo sbuffare fu impossibile, così come calmarsi, ma finì comunque per aprire lo sportello e scendere dalla Jeep, seguito da Jace.
Attraversò la strada e, con le spalle irrigidite dall’ansia, raggiunse il portico, per poi sostarvi per qualche momento in preda ai suoi ricordi – come quelli in cui su quelle scale era seduto Brian che l’aiutava con gli esercizi per rimettere in sesto la mano – prima di portare l’indice al campanello e suonarlo con un groppo alla gola.
Attese per qualche secondo, senza ricevere risposta, per poi riprovare ottenendo lo stesso risultato. Né Jennifer, né Molly erano in casa.
Prese un grosso respiro per calmarsi e si voltò verso Jace, sollevando le spalle. «Non ci sono.»
L’altro inarcò le sopracciglia. «Ma davvero? Non l’avrei mai detto.» lo prese in giro, per poi portare le mani ai fianchi. «Allora, dove potrebbero essere?»
«Non ne ho la più pallida idea.»
«Chiamale.» disse, con il tono di chi gli suggeriva la cosa più ovvia del mondo, ma Justin scosse la testa, facendolo sbuffare.
«Non voglio mandare all’aria i loro programmi. Riproverò stasera.»
«Oddio, ma chi cazzo sei? La reincarnazione di Gandhi?»
«Avevi fame no? Andiamo a mangiare qualcosa.» sviò il discorso, tornando sui suoi passi per raggiungere la macchina.
«Già, e so anche dove voglio andare.»
Justin si rimise alla guida, rimuginando sulla frase appena pronunciata dall’altro, e non appena mise in moto, capì il motivo di quel sorrisetto sulle sue labbra. «No. Non provare neanche a pensarci.»
«Oh sì invece, mio caro.» fece schioccare la lingua e ticchettò sul pomello del cambio. «Porta questo gioiellino a Liberty Avenue. Voglio vedere questo fantomatico…com'è che si chiama?»
«Jace,
non andremo a pranzo al Diner. Togliti immediatamente questa idea dalla testa.» pronunciò con voce decisa, ma l’altro si limitò a rinnovare il suo sorriso. Le ultime parole famose.


“The one you wanted” - Howie Beck


Pochi minuti dopo svoltarono l’angolo ed entrarono nella colorata e caotica Liberty Avenue, poi, tra i vari sbuffi di uno e le risatine eccitate e vittoriose dell’altro, scesero dalla jeep e presero ad avanzare verso la tavola calda.
Justin camminava a testa bassa, con qualche ciuffo biondo, sfuggito dalla stretta dell’elastico sulla nuca, che gli accarezzava la faccia, ed entrambe le mani affondate nelle tasche dei jeans chiari e stretti. Borbottava sommessamente qualcosa d’incomprensibile, e ogni suo tentativo di fuga veniva immediatamente troncato sul nascere dalle mani di Jace che si muovevano furtive ad afferrare le maniche, o il cappuccio, del suo piumino scuro.
All’ennesimo tentativo andato storto, Jace si convinse a prenderlo sottobraccio e a trascinarlo con sé, con un passo sostenuto, fino alla vetrata del “Liberty Diner”. «Sei pronto?» gli chiese con un sorriso.
«No.» replicò l’altro isterico. «Ma ho altra scelta?»
«Direi proprio di no, perciò prendi un bel respiro e cerca di non svenire.»
Justin gli rivolse un sorrisetto nervoso e si divincolò dalla sua presa. Ci mancavano solo strani equivoci da spiegare e non sarebbe uscito vivo da lì.
Seguì comunque i suoi suggerimenti e inspirò profondamente, prima di spingere la porta in vetro e immergersi nella confusione di quella piccola tavola calda in cui aveva trascorso alcuni dei momenti più importanti della sua vita.
Rimettere piede là dentro fu come esserci entrato per la prima volta; e come la prima volta, il pensiero principale della sua testa aveva il volto di Brian.
Ricordava perfettamente la notte in cui Michael l’aveva portato lì e gli aveva presentato sua madre, dopo che “il suo pensiero fisso” appunto, lo aveva abbandonato con i suoi amici per correre alla ricerca di qualche bel ragazzo.
Debbie si era presa cura di lui fin dal primo istante, riempendogli lo stomaco e provando a tirargli su il morale. In fin dei conti, si era comportata immediatamente come una seconda madre per lui.
Sorrise a quel ricordo, e l’ansia scomparve lentamente a ogni passo, finché, vedendola impegnata a discutere come al solito con il cuoco, ignorò i borbottii che si erano sollevati fin dal suo ingresso, e raggiunse uno degli sgabelli, aspettando che lei si voltasse.
Sentiva il cuore galoppargli furioso all’altezza della gola, minacciando di guizzare fuori da un momento all’altro, ma l’espressione che si disegnò sul volto di Deborah Jane Grassi Novotny nel momento in cui i suoi occhi si posarono su di lui fu letteralmente impagabile.
Era certo di non averla mai vista tanto sorpresa prima di allora.
Il cipiglio che le solcava la fronte dopo l’ennesimo diverbio si era immediatamente disteso, le labbra si erano schiuse e le sopracciglia le avevano più o meno raggiunto l’attaccatura dei capelli.
Per poco non le scivolò il vassoio dalle mani – a lei che non capitava praticamente mai – e fu costretta ad appoggiarlo sul bancone, incapace di tenerlo per un secondo di più.
Quasi non credesse ai suoi occhi, si avvicinò a lui e allungò una mano verso la sua guancia. «
Topino.» lo chiamò, e solo allora Justin si accorse delle lacrime che minacciavano di scendere e rigare le sue guance truccate.
«Ciao Deb.» le disse semplicemente, con uno di quei sorrisi splendenti per cui si era guadagnato uno dei tanti soprannomi affibbiatogli da quella donna; e si lasciò stringere in un abbraccio soffocante.
«Cristo santo, non mi sembra vero! Sei qui!»
«Alla fine ce l’ho fatta.» rispose, e lei si staccò per circondargli il viso con le mani e riempirlo di baci, stampando segni delle sue labbra rosse ovunque.
«Come stai, splendore?» gli pizzicò una guancia e lo squadrò. «Ma guardati, sei ancora più bello. Anche se…» e lui già sapeva dove voleva andare a parare. «...mangi abbastanza?»
«Sì, Deb. Mangio.» rise, felice e sollevato che niente in lei fosse cambiato. «Anche se mi manca il tuo pollo alla parmigiana.»
Lei si portò una mano al petto, emozionata, ma non riuscì a desistere dalla voglia di abbracciarlo ancora. «Te ne farò quanto vorrai. Non puoi capire quanto io sia felice di vederti! Hai avvertito tutti?»
«No. Sei la prima che incontro.» rispose e abbassò gli occhi imbarazzato.
«Neanche tua madre, né…»
«Nessuno di loro.» la interruppe. «Ho preferito arrivare senza chiamare. Non volevo che qualcuno modificasse i suoi programmi per me.»
Deb si accigliò e piegò le sue labbra, prima di rifilargli uno scappellotto esattamente come avrebbe fatto con Michael. «Sei sempre il solito.» poi sorrise e raggiunse il telefono.
«No, non chiamare nessuno.»
«Tranquillo, dolcezza. Non chiamerò
lui. Quest’incombenza la lascio a te.» replicò, facendolo sorridere, mentre digitava i tasti sul telefono. «Michael, tesoro.» parlò poco dopo. «Vieni al Diner, immediatamente. C’è una sorpresa.» si voltò verso Justin, strizzò l’occhio con un sorriso che le illuminava tutto il volto e, a quel punto, a nulla valsero i tentativi di fermarla.
In pochi minuti infatti, l’ordine era già stato esteso a Ben, Hunter, Molly e sua madre ovviamente. Gli unici che riuscì a tenere lontani da quella tavola calda furono Ted, Blake ed Emmett.
Uno perché lavorava esattamente per l’unica persona a cui non poteva dirlo, e sarebbe stato piuttosto complicato trovare una scusa per sgattaiolare via dall’ufficio; mentre Blake, essendo il compagno del primo, era esattamente nella stessa posizione. Più che altro perché avrebbe dovuto spiegare la situazione a Ted, e tutti sapevano quanto questo fosse poco affidabile in quanto a segreti.
L’ultimo invece era semplicemente risultato irreperibile a causa di un’improvvisa crisi d'identità della sposa – o almeno così era stato riferito da una delle sue collaboratrici – del matrimonio a cui stava lavorando, e non si sarebbe liberato molto presto, a meno che quest’ultima non avesse optato per il suicidio.

Il primo ad arrivare fu Michael.
Quando sua madre l’aveva chiamato, da buon paranoico qual era, aveva immediatamente pensato al peggio.
Era giunto alla conclusione che Debbie volesse trascinarlo in qualche sua strana crociata, perciò si era affrettato a chiudere il negozio e correre al Diner per stroncare qualsiasi idea strampalata sul nascere. Nel momento in cui però varcò la soglia, per poco non svenne.
Restò imbambolato in mezzo al corridoio, con le labbra dischiuse e gli occhi strabuzzati, in una perfetta imitazione della reazione di sua madre.
Gli ci volle qualche secondo per riprendersi e confermare a se stesso di non essere pazzo come aveva creduto la sera prima; e che quindi al Babylon c’aveva visto giusto; dopodiché accennò un sorriso e mormorò, incapace di qualsiasi gesto: «Allora eri davvero tu.»
Justin sorrise. «Sì, ma…non volevo scappare, scusa. Solo che…» balbettò, ma Michael non gli permise di continuare, stringendolo in un abbraccio.
«Lascia stare.» gli sussurrò all’orecchio. «Ho già capito.» gli stampò un bacio sulle labbra, proprio come uno di quelli che avrebbe riservato a Brian, e sorrise. «Sono davvero felice che tu sia tornato. Era ora!» l’altro provò a replicare, ma non gliene diede il tempo. Da perfetto figlio di Debbie, anche lui lo colpì sulla nuca, prima di sgridarlo. «Per quanto cazzo di tempo ancora pensavi di restare a New York senza venire a trovarci, piccolo stronzo?»
«Lo so, hai ragione.» tentò di scusarsi, sollevando le mani.
«Certo che ho ragione!» esclamò, ed un altro colpo schioccò a scompigliargli i capelli. «Non riazzardarti mai più, intesi?»
«Sì,
mammina.» rispose, massaggiandosi la testa. «Mi hai fatto male.»
«Ben ti sta, moccioso.» continuò ad infierire, finché i suoi occhi scuri non si sollevarono ad incontrare quelli nocciola di Jace. «Lui è…» mormorò, lasciando la frase in sospeso.
«Jace.» lo presentò, e quando Michael gli rivolse un’occhiata allarmata si affrettò a puntualizzare: «È solo un amico. Mi ha accompagnato qua.»
«Diciamo pure che ti ci ho trascinato perché te la stavi facendo sotto.» lo rimbeccò il ragazzo, per poi fare un cenno di saluto verso Michael.
«Ah, piacere. Io sono Michael.» rispose l’altro, osservando divertito il suo modo eccentrico di vestire. Talmente vistoso da riuscire quasi a superare Emmett e, conscio di questa constatazione, si avvicinò all’orecchio di Justin, senza farsi vedere, per bisbigliare: «Due Regine nello stesso alveare? Questo è un colpo basso per il povero Emmett.»
«Scommetto venti dollari che si adoreranno.» ridacchiò Justin in risposta.
«Punto la stessa cifra per il contrario. Vedrai, ne uscirà vivo solo uno.» strizzò l’occhio e gli passò una mano sui capelli biondissimi. «Allora artista, che mi dici di New York?»
L’altro scrollò le spalle. «Che vuoi che ti dica? È caotica e sempre viva.»
«Da come lo dici sembra più che tu sia stato in mezzo al deserto del Nevada.»
Justin sorrise. «No, è solo che sono stato piuttosto impegnato.»
«Di pure che Gary ti ha fatto sgobbare come uno schiavo.» intervenne Jace, portando una mano davanti a sé per controllare la manicure.
«L’ha fatto solo per il mio bene.»
«Chi è Gary?» domandò Michael, con un’espressione incuriosita.
«Il mio agente.»
«Il suo
schiavista.» lo corresse Jace, sollevando un sopracciglio e provocando gli sbuffi scocciati del biondo.
«Mi spieghi cos’hai contro Gary?» domandò, torcendo il busto per osservarlo.
L’altro fece una smorfia. «Bah, vediamo. Da dove potrei partire…» portò un dito alle labbra e mugugnò: «Forse perché ti riempie di lavoro, neanche tu fossi un automa? Forse perché ti ha impedito di fare tante di quelle cose che avresti voluto da non essere neanche numerabili? O forse perché ho il sospetto che lo faccia per tenerti lontano da tutto dato che è palesemente innamorato di te?»
«Non dire stronzate.» si accigliò Justin, prima di colpirlo con una leggera pacca sulla spalla.
«Pensala come ti pare.» rispose l’altro. «Io ti ho avvertito.»
«Il tuo agente è innamorato di te?» chiese allora Michael, che nel frattempo aveva ascoltato quel piccolo dibattito incredulo.
«Certo che no.» esclamò il più giovane dei tre. «Sono tutte sue fantasie, solo perché Gary mi è stato un po’ addosso in questo anno.»
«Credimi, non ti è stato addosso come
avrebbe voluto.» commentò Jace, esasperato dall’ingenuità del piccolo artista.
«Ma piantala!»
«Come vuoi.» replicò l’altro e fece finta di chiudersi le labbra con una zip, per poi accavallare le gambe e assumere una posa stizzita.
Justin scosse la testa e sospirò con fare arrendevole, per poi rivolgersi a Michael. «Lasciamo stare. Tu piuttosto? Come stai?»
«Nella norma. Non è cambiato un bel niente da quando te ne sei andato.»
«Non immagini quanto sia un sollievo sentirtelo dire.» gli confessò con un lieve sorriso.
«Credevi che saremmo stati diversi?» ridacchiò Michael. «Noi siamo rimasti qui a Pittsburgh, alla vita di sempre. L’unico che poteva cambiare con New York eri tu, e non posso negarti che l’ho creduto davvero visto che non ti sei fatto vivo per più di un anno.»
«Mi dispiace.» mormorò mortificato. C’erano stati infiniti momenti in cui l’istinto gli aveva suggerito di prendere il primo aereo per Pittsburgh e restare lì per sempre ma, per un motivo o per un altro, aveva sempre finito col rimandare. Solo quando era tornato finalmente di nuovo a casa si era reso conto quanto quel posto gli fosse mancato e di che errore madornale si era macchiato a non avervi fatto ritorno prima. «Immagino che gli altri abbiano creduto la stessa cosa.»
«Non lo so.» si strinse nelle spalle e aggiunse: «Non potevamo parlare molto di te. Eri un argomento tabù.»
«Lui come sta?» chiese allora, con un macigno spigoloso a sfaldargli lo stomaco.
«Vuoi la risposta che ti direbbe lui, o quello che penso io?»
Justin scoppiò a ridere. «La sua risposta la conosco già.»
«Bene, allora la mia è ‘da schifo’.» si frizionò i capelli scuri con le mani e abbozzò un sorriso. «Si comporta come al solito. A occhi esterni è lo stesso Brian Kinney di sempre, ma è dalle piccole cose che ti accorgi che sta recitando. Ho sempre pensato che avrebbe dovuto fare l’attore.»
«Ma non può ingannare te.»
«Non può ingannare neanche mia madre, o la tua, né tutti i nostri amici.» sospirò profondamente e continuò: «Ma ci prova comunque, perché è il solito stronzo orgoglioso e non l’ammetterebbe mai.»
«Mi manca.» sorrise amaramente e perse lo sguardo nel vuoto. «Mi manca anche se è uno stronzo egoista, con la testa dura più del marmo.»
«Probabilmente non ti saresti neanche innamorato di lui, se non fosse stato così.»
Scrollò le spalle e tornò a puntare le sue iridi cerulee in quelle scure dell’amico. «Probabilmente no.» rispose con cristallina sincerità. «Ma sono terrorizzato dal rivederlo, soprattutto per come ci siamo lasciati l’ultima volta.»
Michael guardò l’orologio e disse: «Adesso si starà preparando per andare all’aeroporto. O almeno spero.»
«Aeroporto?» gli fece eco l’altro, allarmato.
«Linz, Mel e i bambini vengono a trascorrere il Ringraziamento da noi. Brian deve andare a prenderli.» vide Justin sospirare di sollievo, e non riuscì a trattenersi dal ridacchiare. «Perché non vieni anche tu?» gli chiese, per poi rivolgersi a Jace. «Ovviamente l’invito vale anche per te.»
Jace gli sorrise, pur mantenendo le labbra serrate, poi lanciò un’occhiataccia a Justin e lo indicò con un cenno di sufficienza, come per dire: “chiedi a lui, perché io non posso parlare”. Era decisamente una persona estremamente permalosa.
«Non so se…» mormorò indeciso l’altro, e Debbie, che aveva origliato tutta la conversazione tra un’ordinazione e l’altra, intervenne immediatamente con il suo tono deciso.
«Non ti azzardare a rispondere con un no.» lo rimproverò. «Zucchero, tu e il tuo amico siete con noi. Fine della discussione.»
Justin sollevò le mani in aria. «Mi arrendo. Saremo presenti.»

Le chiacchiere continuarono anche con l’arrivo di Ben e Hunter, che lo riempirono di domande, fino all’entrata al Diner delle sue tre donne – sua madre, sua sorella e Daphne – che lo sgridarono per una buona mezz’ora, in quella che gli parve un’assurda gara per chi avesse più cose da rinfacciargli.
Jennifer fu comunque la prima a cedere e a gettarglisi al collo per stringere il suo bambino di nuovo tra le braccia e baciare quei capelli morbidi, luminosi e profumati; poi fu il turno di Daphne, che dopo averlo ricoperto di battutine acide, gli concesse un abbraccio e un bacio sulla guancia.
La più dura da far desistere, come aveva previsto, fu Molly, che con la fronte aggrottata e gli occhi cerulei, specchio dei suoi, lo fissava contrariata. Era ovviamente arrabbiata con lui, perché credeva di essere stata messa da parte da quel fratello che adorava con tutta se stessa.
Aveva trascorso mesi ad aspettare di sentirgli suonare il campanello e trovarlo sulla soglia di casa, ma non era mai successo; e aveva passato altrettanto tempo ad attendere una telefonata che arrivava sempre più difficilmente e che si riduceva a brevi banalità.
Perciò, troppo orgogliosa per ammettere quanto gli mancasse e quanto avesse bisogno di lui, decise di farglielo capire rifiutandosi di sentirlo e, all’insaputa di tutti - Jennifer a parte - rifugiandosi da Brian.
Il primo giorno in cui si era trovata davanti alla porta scorrevole di quel loft, Molly non sapeva neanche cosa dire o fare. Aveva bussato senza pensare ed aveva atteso che lui le aprisse.
Brian l’aveva fissata senza nascondere minimamente la sorpresa di trovarla lì, ma gli era bastata un’occhiata per capire il motivo di quell'inaspettata visita e, senza dire una parola, l'aveva lasciata entrare.
Iniziare un discorso fu più difficile del previsto, perché sapeva quanto il compagno di suo fratello fosse restio a parlare di lui e di cose che lo riguardavano ma, se c’era una cosa che l’accomunava a Justin, era certamente la sua testardaggine; per tanto non si lasciò certo scoraggiare dalle prime risposte scorbutiche o dalle occhiatacce, e continuò a recarsi in quel sontuoso loft almeno una volta a settimana, per riuscire a strappare qualche informazione in più su Justin, ma soprattutto per sentirsi meno sola.
Perché Brian, era la persona che, paradossalmente, più le ricordava suo fratello, nonostante fossero completamente diversi sia nell’aspetto, che nel carattere; e perché sapeva che tra loro esisteva un legame così forte e speciale che la vicinanza con quell’uomo le permetteva di illudersi di poter attingere a una piccola parte di quel loro strampalato rapporto e rubare per sé un po’ di Justin.
Alla fine, però, neanche lei riuscì a resistere ai sorrisi che suo fratello le rivolgeva e, con le lacrime ad inumidirle gli occhi, si fiondò su di lui e lo strinse con tutta la forza che le sue braccia esili le permettevano.
Sentire ancora quel profumo e il calore del suo corpo fu una liberazione così grande che desistere dallo scoppiare a piangere come una bambina fu impossibile e, per quanto le costasse doverlo fare, non riuscì neanche a trattenere i singhiozzi.
In fin dei conti, per una volta poteva anche sorvolare, far tacere il suo ego e lasciarsi andare, perché l’unica cosa che contava davvero era che suo fratello fosse finalmente lì con lei.



*'*'*



«Papà!» sentì strillare una vocina alle sue spalle, e quando si voltò in quella direzione, vide una versione in miniatura di se stesso che correva come un pazzo con un sorriso enorme e le braccia spalancate.
«Ehi, campione!» esclamò e si accoccolò appena per accoglierlo tra le sue braccia e sollevarlo. Lo sentì stringersi con forza al suo collo, e il calore emanato dall’infinita dolcezza di quel gesto riuscì a riempire per un po’ il vuoto che continuava a portare dentro di sé. «Ma come sei cresciuto! Diventi sempre più grande e più bello, come il tuo papà.»
«Brian, risparmiaci.» commentò Linz, avvicinandosi insieme a Mel e a Jenny Rebecca stretta tra le sue braccia. «Tuo figlio è già abbastanza vanitoso senza che tu gli dia incentivi.»
«E come potrei dargli torto, è uno splendore.»
«Tu che fai complimenti a qualcun altro oltre te stesso.» mormorò Melanie fingendosi sorpresa. «Questo giorno deve essere annotato sul calendario.»
Brian la fissò con uno sguardo di sufficienza. «È
mio figlio, Melanie. È ovvio che lo sia.» le rivolse un sorrisetto e diede un bacio sulla fronte di JR. «Nonostante la vostra cattiva influenza, Gus è un Kinney.»
«Il nostro peggiore incubo, in poche parole.»
Lui le rivolse una smorfia e tornò a guardare il bambino. «Tranquillo figliolo, adesso che c’è il tuo papà queste streghe non potranno condizionarti ancora con le loro stronz…»
«Brian!» lo riprese Linz.
«
Strampalate idee.» si corresse. «Più tardi, io e te, senza queste zavorre, ce ne andiamo a fare shopping con l’auto figa.»
«Sì!» strillò Gus in risposta. «Andiamo, andiamo?»
«Adesso portiamo le donne a casa.» rispose, prima di prendere uno dei trolley ad avviarsi verso l’uscita.
Melanie lanciò un’occhiata storta a Lindsay, e la bionda sollevò gli occhi al cielo. «Lo so, lo so. Quando torniamo dovremmo fargli un lavaggio del cervello.»
«Comincio a credere ogni giorno di più che siano proprio i geni ad essere sbagliati.» la rimbeccò acida sua moglie. «Ma sei sicura che abbia preso qualcosa da te e che non sia solo figlio di quello lì?»
«Probabile che io sia stata solo un insulso contenitore per cloni.»
«Un nuovo Brian Kinney, forse,
etero.» assunse un’espressione allarmata e aggiunse, prima di raggiungere la jeep: «Penso che niente possa terrorizzarmi di più.»

Quando trovarono la villetta dei Bruckner Novotny completamente vuota, Brian riuscì a stento a trattenersi dall’imprecare almeno un centinaio di volte, solo grazie alle occhiatacce di Lindsay e alle poco velate minacce di morte di Melanie.
Il fatto poi che Michael non avesse telefonato almeno cinque volte in un tragitto che poteva durare al massimo venti minuti, contribuì ad accendere qualche sospetto nella testa dei tre adulti. C’era sicuramente qualcosa di strano nell’aria; e, se si trattava di Mickey, era un’idea strampalata e assurda per cui preoccuparsi seriamente.
«Dove cazz…» Brian si morse la lingua e si corresse. «...
cavolo si è cacciato Mickey?» provò a ridigitare il numero e a inoltrare nuovamente la chiamata ma, come le altre volte, non ricevette nessuna risposta. «Non ci posso credere.»
«Io sto iniziando a preoccuparmi seriamente.» replicò Mel, dondolando la bambina. «Di solito ci asfissia di telefonate finché non ci vede.»
«E se gli fosse successo qualcosa?»
«Linz, non dire cazz
…eresie.» sbuffò. Erano arrivate da neanche mezz’ora e già non ne poteva più di dover moderare i termini. Prima o poi, i bambini avrebbero comunque imparato a usare certe parole, quindi tanto valeva che succedesse subito.
«Quindi che si fa?» sbuffò Mel.
Sua moglie scrollò le spalle. «Immagino che l’unica soluzione sia fare un salto al Diner. Io poi sto morendo di fame.»
«Linz, Linz.» la chiamò Brian con un sorrisetto stampato sulle labbra. «Se non stai attenta,
tuo marito sarà costretto a correrti dietro mentre rotoli per Toronto.»
«Vaffanculo, stronzo.» lo colpì con un pugno sul braccio, ma non appena si rese conto delle sue parole, si tappò la bocca con entrambe le mani.
«Uh, uh. Hai sentito Gus?» rise lui. «La mamma ha detto non una, ma ben
due parolacce.»
«E smettila una buona volta!» lo rimproverò Linz, tappando invano le orecchie del bambino.
Mel scosse la testa e si avviò verso la jeep. «L’ho sempre detto che hai una cattiva influenza sulle persone.» aprì la portiera e si sistemò sui sedili posteriori con Gus e Jenny Rebecca. «Neanche un’ora in tua compagnia e mia moglie non riesce a trattenersi.»
Brian inarcò le sopracciglia e le rivolse uno dei suoi sorrisi spavaldi. «Che vuoi farci, tiro fuori sempre il meglio di chi mi sta intorno.» si mise al volante e girò la chiave nel quadro. «Non possono fare a meno di prendermi come modello di vita e seguirmi come mentore.»
Linz sbuffò, mentre Melanie roteò gli occhi esasperata. «La grandezza del tuo ego è seconda solo alle stupidaggini che dici.»
«Non sono stupidaggini.» ammiccò guardandola dallo specchietto retrovisore ed inserì la marcia. «È un dato di fatto.»


“Mad World” - Gary Jules


Pochi minuti dopo, conditi da imprecazioni trattenute a stento da parte delle due donne a causa della guida non propriamente tranquilla di Brian, giunsero all’angolo di Liberty Avenue.
La manina di Gus corse immediatamente a stringere le dita di suo padre, e gli rivolse un sorriso ricolmo di aspettative e serenità per quel pomeriggio che gli aveva promesso di trascorrere insieme. Loro due da soli.
Brian ricambiò con una semplice carezza sulla testa, incapace di confessare con le parole quanto fosse felice di poter trascorrere del tempo in sua compagnia; perché poter stringere quella mano così piccola nella sua, vedere quegli occhi e quel sorriso ingenuo, avere vicino il piccolo miracolo che lui stesso aveva creato, era qualcosa che riusciva a lenire, levigare e plasmare, tanto da renderlo un po’ più sopportabile, quel senso di incompletezza e di vuoto che non gli dava mai tregua, e che spesso gli rubava il respiro.
Attraversarono la strada correndo e ridendo insieme, per poi voltarsi per prendere in giro le due mamme, prima di spingere la porta di vetro ed entrare.
Le sopracciglia di Brian s’inarcarono incuriosite dalla quantità insolitamente alta di persone riunite nella tavola calda per quell’ora e, prendendo in braccio il bambino con fare protettivo, avanzò di qualche passo fino a raggiungere Ben. «Che diavolo succede?» gli chiese, picchiettando sulle sue spalle larghe, ma non ebbe bisogno di risposte, perché proprio nel momento in cui la sua voce raggiunse le orecchie dei presenti, facendoli voltare, quello che vide dissolse qualsiasi cosa.
Non sentì più il chiacchiericcio sommesso, né la voce di suo figlio che lo chiamava tirandolo per il colletto della giacca. Non si accorse della mano di Linz posata sulla sua spalla come per volerlo sostenere, e ogni persona perse importanza, sparendo dalla sua vista.
Tutte tranne una.
L’unica persona che aveva disperatamente sperato di rivedere, tanto da riprodurre nella sua testa, come in un film, le immagini di un suo eventuale ritorno fino alla nausea; fantasticando su quello che avrebbe potuto fare o dire, o su quello che avrebbe voluto sentire.
Ma la realtà era che non udiva né vedeva più niente, ora che quella chioma bionda che fin troppe volte aveva sognato e desiderato era lì davanti a lui.
La sola cosa che riuscì a percepire, fu il fremito del suo cuore, nel momento in cui quegli occhi cerulei si sollevarono a incontrare i suoi, prima che una ragnatela di crepe si disegnasse sopra quella patina gelata che lo stringeva in una morsa, facendola sgretolare senza alcun suono.
«Brian.» lo sentì mormorare così fievolmente che non sarebbe stato sicuro che l’avesse realmente pronunciato, se solo quel suo fragile cuore non avesse ripreso a battere come un pazzo nel riconoscere la voce del suo padrone. 

*** 

Note finali :
Finito anche questo.
Mi auguro sinceramente che nessuna voglia uccidermi per come ho concluso il capitolo e per farmi perdonare, prometto che non tarderò troppo a farvi sapere come reagirà il caro Kinney, ora che il suo povero cuoricino ammaccato ha ripreso a battere.
Non so come ve lo immaginate voi il loro incontro, se tutto rose e fiori o completamente diverso...in fondo, parliamo della coppia più imprevedibile di tutte, quindi tutto può essere!
Mi rendo conto che sto trascurando un po' Ben e Hunter che, nonostante i loro alti e bassi, sono due personaggi che adoro...solo che mi preme più di tutto affrontare almeno inizialmente il ritorno di Justin e la questione "Britin"...poi prometto che lascerò a tutti un po' più di spazio!  :)
Credo non ci sia molto altro da specificare, quindi posso passare alla questione più importante:
Ringraziamenti!
Un
grazie a tutti coloro che hanno letto il capitolo, a chi ha inserito la storia tra le seguite, le ricordate o le preferite, ma soprattutto grazie a: EmmaAlicia79, ooOOcarlieOOoo, Thiliol, mindyxx, Hel Warlock, Katniss88, FREDDY335, silver girl e Clara_88 che hanno recensito l'ultimo capitolo.

Un bacio e a presto.
Veronica.


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Capitolo 5
*** Sunshine shines again? ***


5.Sunshine shines again?

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6x05 – Sunshine shines again?
[capitolo betato da Trappy]


«Brian.»
Sentir pronunciare il suo nome da quella voce, tramite quelle labbra, fu come ritornare a respirare dopo un’infinità di tempo passata in apnea. Fu come tornare a vivere e percepire il calore diramarsi in ogni angolo del suo corpo.
Justin era davvero lì, come tante volte aveva sognato, e l’unica cosa che gli impedì di perdere i sensi per quell’improvvisa reazione da parte del suo cuore fu la stretta decisa di Gus, e quel suo sgambettare felice dal momento in cui aveva riconosciuto quel ragazzo biondo e simpatico che tante volte aveva giocato con lui.
Brian restò in silenzio, con le labbra schiuse e tutte le parole incastrate a lacerargli la gola. I suoi occhi non abbandonarono quella figura neanche per un attimo, e si sentì fremere quando lo vide alzarsi e muovere qualche passo incerto nella sua direzione.
Come poche volte nella sua esistenza, si sentiva insicuro. Lui che sapeva sempre cosa fare, se ne stava lì immobile come il peggiore dei cretini; e non riuscì a dire o compiere il più misero gesto, neanche quando la persona amata fu a meno di un passo da lui.
Ci pensò suo figlio a toglierlo da ogni possibile imbarazzo, gettandosi al collo di Justin – come in realtà anche lui avrebbe voluto fare – per abbracciarlo con tutta la forza di cui disponeva.
In fondo, Gus gli somigliava anche in quello.
Come lui, era stato immediatamente abbagliato dalla luce emanata da quel raggiante angelo. Si era innamorato del suo sorriso, dei suoi gesti e della sua voce; e tante volte, in quei cinque anni, l’aveva sorpreso ad osservarlo rapito ed estasiato, con quegli occhioni verdi spalancati per lo stupore, o un sorriso istintivo disegnato sul suo volto.
Le sue stesse identiche reazioni.
«Ehi!» Justin salutò con un sorriso radioso quell’impertinente bambino, e lo strinse a sé. «Come stai? È un bel po’ che non ci vediamo.»
Gus lo baciò frettolosamente sulla guancia – quasi se ne vergognasse – sorprendendo le sue due mamme, e prese a torcersi le manine, emozionato. «Perché...» iniziò incerto, per poi lanciare un’occhiata furtiva a suo padre e sganciare la bomba: «...perché non sei più venuto a trovarmi con il mio papà?»
Il sorriso sulle labbra di Justin si spense per un attimo, affievolito dall’imbarazzo dovuto alla domanda. «Ehm…ecco…» cominciò incerto. «Sarei voluto venire, credimi, ma dovevo lavorare e…» si morse le labbra e tornò a sorridere. «…ma ti ho pensato, davvero! E mi sei mancato.»
«Anche a me!» rispose felice, lasciando allentare la tensione che si era formata tra tutti i presenti. «La prossima volta però ci vieni, vero?»
«Certo.» rispose dopo una breve esitazione. «Verrò, te lo prometto.»
«Non si fanno le promesse ai bambini, se non si è sicuri di poterle mantenere.» borbottò Jace alle sue spalle, conquistando l’attenzione di tutti. Soprattutto l’occhiata decisamente poco divertita di Brian, seguita da quella altrettanto fulminante di Justin.
«Tu saresti?» gli chiese infatti Brian, quasi sibilando le parole. «Non mi pare di avere il
piacere di conoscerti.»
«Ah…» balbettò l’altro, intimorito dalla sua espressione. «Mi chiamo Jace. Sono un amico di Justin.»
Brian sollevò le sopracciglia ed il mento, per poi toccarsi i denti con la punta della lingua e sorridere. «Uhm, capisco.»
«Jace è un designer e abita nel mio stesso palazzo.» spiegò Justin, intervenendo in quella strana discussione. «Mi ha accompagnato durante il viaggio.»
«Capisco.» ripeté e protese le mani verso suo figlio. «Andiamo campione, abbiamo un giretto in programma da fare.» lasciò che il bambino si aggrappasse nuovamente al suo collo e si voltò verso Michael. «Tu piuttosto, a che cazz...
cavolo ti serve un cellulare se non rispondi quando ti chiamo?» lo vide guardarsi intorno allarmato e rettificò, con le sopracciglia inarcate. «Sveglia Mickey, sto parlando con te.»
«Ah!» esclamò in risposta. «Non l’ho sentito.»
«Ma non mi dire!» commentò acido. «Porta Mel e Linz a casa con la bambina. I bagagli sono nella mia jeep. Io porto Gus a fare un po’ di shopping.» si voltò verso il bambino e i suoi occhi si addolcirono immediatamente. «Vero, tesoro?»
Gus annuì con un sorriso, per poi gettare l’ennesima occhiata verso quel ragazzo biondo che continuava a fissare suo padre con gli occhi tristi. «Papà, possiamo portare anche Justin?»
Se c’era una persona in grado di mettere in imbarazzo Brian Kinney, quella era proprio il sangue del suo sangue; e tutti se ne resero conto nel momento in cui le spalle dell’uomo s’irrigidirono come mai gli avevano visto fare prima d’allora.
Esitò per un attimo, spostando gli occhi verdi con un movimento fulmineo tra Justin e Gus, per poi piegare le labbra all’interno della bocca e mugugnare. «Credo che sia stanco, e nella macchia bella di papà possiamo stare solo in due.»
La peggiore scusa della terra; e infatti...«Ma io stavo sempre in braccio a lui!» protestò il bambino, mettendolo nuovamente in imbarazzo davanti a quella schiera di persone che seguiva lo scambio di battute nel più assoluto silenzio.
«Lo so, ma sei più grande adesso.»
«Allora prendiamo la jeep!» ripartì all’attacco, e per la prima volta da quando era nato, Brian si chiese perché suo figlio dovesse somigliargli poi così tanto anche nel suo essere ostinato e intelligente da rigirare sempre la situazione a suo favore.
«Gus, non posso venire.» intervenne Justin a salvarlo, con la brutta copia di un sorriso disegnata sul volto. «Ma ti prometto che in questi giorni staremo insieme.»
Gli occhi del bambino s’incupirono e un piccolo broncio spuntò sulle sue labbra. «Quando?»
«Domani.» rispose di getto e si avvicinò per dargli un buffetto sul naso.
Il sorriso tornò a risplendere sul quel facciotto tondo, e insieme a quello, arrivò anche l’ennesima imbarazzante domanda: «Io, te e papà?»
«Ah…» borbottò Justin, muovendo gli occhi in ogni direzione, alla ricerca di una soluzione.
«Certo Gus!» esclamò Linz al suo posto, intromettendosi nella conversazione, lanciando un’occhiataccia a Brian, che ricambiò stizzito. «Domani, tu,
Justin e papà, passerete un bel pomeriggio insieme. Sei contento?»
Neanche a dirlo, il bambino sprizzava gioia da tutti i pori, e nessuno – neanche se si fosse verificata la peggiore delle catastrofi – avrebbe potuto deludere le sue aspettative. Era sempre meglio non far incazzare, non una, ma ben due mamme…lesbiche, per giunta!
«Bene figliolo. Ora che una delle tue mamme ha monopolizzato la vita del tuo papà…» sibilò, con un sorriso tirato e isterico. «…possiamo anche andare a goderci la nostra giornata in santa pace.» rivolse un’occhiata a tutti i presenti e concesse al figlio di salutare Justin, sventolando la sua manina paffuta, prima di voltarsi stizzito e uscire dal Diner, senza neanche provare a nascondere il proprio fastidio.
Nessuno dei presenti avrebbe potuto dare una spiegazione logica e coerente del comportamento di Brian, andato contro tutte le aspettative.
Ovviamente non si erano certo immaginati scene strappalacrime in cui entrambi si dichiaravano apertamente il loro immutato amore, tra baci pieni di passione e dolci carezze, ma neanche avrebbero pensato a una scena tanto sterile di romanticismo e inaspettatamente ricolma di tensione e imbarazzo.
Decisamente, Brian e Justin sarebbero stati sempre fuori da ogni canone.


*'*'*



Inviò anche l’ultimo dei messaggi dal suo preziosissimo Blackberry e ripose al loro posto i cataloghi delle stoffe.
Lavorare continuamente tra matrimoni, anniversari, battesimi e un trilione di altri eventi non era propriamente salutare per la sua autostima, né per il suo povero cuore.
Gettò nel cestino la pubblicità inviatagli per posta e diede uno sguardo veloce alle riviste consegnategli tramite abbonamento.
Si appuntò mentalmente creme da provare e capi firmati da trovare, finché il suo sguardo cadde su un articolo di gossip. Un riquadretto rosso a fondo pagina, su cui spiccava, con un font deciso, un nome che tempo prima gli aveva fatto sentire le farfalle nello stomaco.
A dispetto della sua dichiarazione e degli scandali che ne erano susseguiti, Drew Boyd era stato riammesso a pieno titolo nella propria squadra e, a quel che si diceva in giro, sembrava esser diventato anche migliore di quel che già era. Probabilmente, l’essersi tolto quel peso dal cuore, non aveva fatto altro che liberare la sua mente e concedergli di concentrarsi al massimo nel suo lavoro.
Emmett sorrise appena, accarezzando con lo sguardo i contorni di quella foto, immaginando le volte in cui le sue mani avevano avuto la fortuna di posarsi sul suo corpo statuario, e rivangando alle ore passate insieme che, seppur nascoste e clandestine, gli avevano riempito il cuore.
In un modo o nell’altro, sapeva di essersi innamorato di quell’uomo un po’ rude e borioso, eppure dentro di sé non riusciva a non provare un pizzico d’orgoglio e soddisfazione per esser stato la motivazione di quella confessione.
Proprio lui, Emmett Honeycutt, aveva convinto il celebre Drew Boyd a dichiarare al mondo intero la sua omosessualità; e anche se non c’era stato un lieto fine per quella loro bizzarra storia, poteva comunque ritenersi felice.
Chiuse il giornale e lo lasciò cadere insieme al resto che aveva gettato via, prima d’infilarsi il cappotto e avvolgersi nella sua sciarpa colorata.
Sventolò la mano per attirare l’attenzione di un taxi ed elencò velocemente l’indirizzo del Liberty Diner, da cui aveva ricevuto qualche ora prima una misteriosa telefonata di Debbie.
Osservò distrattamente i contorni già bui della città e le luci dei lampioni che sfrecciavano veloci al lati della strada, finché le prime lampadine colorate appese, non lo avvertirono di essere giunto nei pressi della sua meta.
Pagò il tassista e scese, dirigendosi con passo svelto verso la tavola calda, stringendosi nel suo cappotto per ripararsi da quel dannato nevischio che insisteva per vorticargli intorno. Spinse la porta, accolto dall’abituale campanellino, e fece correre lo sguardo verso il bancone per trovare Deb.
Quella che vide per prima però, non fu la testa arruffata e di un rosso acceso della donna, ma un’altra familiare chioma bionda, inconfondibile nella sua lucentezza.
Le sue labbra si schiusero in una muta sorpresa e le parole gli morirono in gola, quando riconobbe in quella figura familiare un Justin cresciuto e ancora più bello di quanto ricordasse. «Splendore!» urlò, affrettandosi a raggiungerlo. «Oh mio Dio, ma sei davvero tu?!»
Justin lo accolse con uno dei suoi magnifici sorrisi e guizzò in piedi per avvolgerlo in un abbraccio così forte che a Emmett parve di poter toccare con mano i sentimenti che trasudavano da quel gesto. Felicità, sollievo e tanta – forse troppa – nostalgia.
«Come stai?» gli chiese, con una lieve luce negli occhi a tradire la sua commozione.
«Lo chiedi a me? Tesoro, sei tu quello che dovrebbe avere mille storie da raccontare.» gli ravvivò i capelli morbidi con una mano e sorrise amorevolmente. «Io sono sempre rimasto nella gloriosa Pittsburgh.»
«Credo di poterti invidiare.» rispose l’altro con le labbra arricciate.
«Prego?» domandò Emmett con un’espressione di puro scetticismo, ma non ci mise molto a fare due più due. In fondo, aveva trovato il modo di leggere qualcosa sui giornali a lavoro – perché ovviamente al Diner era praticamente impossibile – e da lì era riuscito a capire come le cose non dovessero aver preso la piega più rosea per Justin come persona; contrariamente al suo lato di artista che sembrava aver spiccato il volo e non aveva alcuna intenzione di atterrare. Il suo talentuoso amico aveva coraggio e carattere da vendere, e lo aveva sempre dimostrato, ma insieme a questo suo lato creativo e temerario, si affiancava anche l’altra parte di lui, quella che paradossalmente l’aveva reso ancora più speciale. Justin amava le cose semplici e abitudinarie. Sognava una vita intrisa di normale felicità e non le luci dei riflettori che, con l’andar del tempo, sembravano solo offuscare quella che per natura aveva dentro di sé. Il successo non era mai stato al primo posto tra i suoi desideri, e probabilmente mai lo sarebbe stato. I suoi sorrisi si accendevano quando cucinava nel loft di Brian, durante le cene a casa di Debbie, nel giocare con Gus e Jenny Rebecca, nel dipingere per il solo piacere di farlo ma, soprattutto, quando i suoi occhi cerulei incontravano quelli profondi di Brian. Era sempre stato così, fin dal primo giorno in cui l’avevano incontrato, e l’unico che pareva non essersene ancora reso conto, era proprio il destinatario primario di tutta quella felicità. «Zucchero, New York ha tutto!»
«Tutto e anche di più.» rispose il ragazzo affiancandovi un sospiro. «Tutto tranne la mia famiglia.»
Gli occhi di Emmett si addolcirono, e non riuscì a trattenersi dall’abbracciarlo ancora. Nonostante gli anni, Justin a volte sembrava ancora lo stesso adolescente incasinato e bisognoso di una mano che lo guidasse. «Ma noi ci siamo sempre qui per te, dovresti saperlo!»
Sul viso dell’altro si disegnò un sorriso sincero. «Lo so.» mormorò, e lo invitò a sedersi insieme a un altro ragazzo, decisamente vistoso. «Ti presento Jace.» annunciò poi. «Lui è Emmett, il mago nell’organizzazione degli eventi.»
«Tesoro, così mi lusinghi.» gongolò lui e strinse la mano di Jace. «Anche se, ammettiamolo, non si è mai lamentato nessuno!»
«Justin mi ha raccontato di ognuno di voi.» rispose l’altro, squadrandolo attentamente.
«A tal proposito, gli altri li hai già incontrati?»
«Sì.» annuì il ragazzo con la testa, mentre la frangia bionda ondeggiava seguendo oziosamente i suoi movimenti. «Li ho incontrati qui, tutti a parte Ted e Blake, un’ora fa, ma sono dovuti andar via. Ci vedremo comunque tra due giorni, per il Ringraziamento.»
«Hai già incontrato anche…»
Justin storse la bocca e sollevò le sopracciglia. «Già.»
«E…?»
«Niente.» scrollò le spalle. «Sarei potuto essere anche il più insulso dei conoscenti. Forse sarebbe stato più entusiasta.»
Emmett si sporse verso di lui per posargli una mano sulla spalla come incoraggiamento. «Splendore, lo sai com’è fatto. Brian, l’esternazione dei sentimenti, non sa neanche dove stia di casa.»
Justin abbozzò un sorriso e congiunse le mani sul tavolo. «Immagino sia così.»
«Dagli tempo.» attese che l’altro annuisse, seppur lievemente, e cambiò totalmente il tono della conversazione. «Allora? Che mi racconti dei maschioni newyorkesi?!»
«Che vuoi che ti dica?» ridacchiò più rilassato. «Sono sempre stato impegnato tra le mie mostre e le conferenze.»
«In poche parole, gli unici maschioni che ha visto, sono quelli dei quadri.» commentò Jace sfottendolo. «E le volte che siamo usciti per locali, nessuno era all’altezza del signorino. Il massimo che ho visto è stato qualche ragazzetto abbagliato dalla sua fama, inginocchiato davanti a lui a succhiarglielo in un angolo buio!» inarcò le sopracciglia e lo punzecchiò con il gomito. «Per un attimo ho creduto tu fossi etero.» fece una smorfia schifata e aggiunse: «Poi ho visto il famoso Brian Kinney, e ogni dubbio si è dissipato.»
«Jace, la pianti di elogiare le bellezze di Brian?»
«Gesù, non ti sarai mica innamorato anche tu di quel bastardo narcisista!» strillò Emmett scandalizzato.
«Nah!» negò l’altro. «Oddio, confesso che nella mia testa sono balenati pensieri tutt’altro che pudici, ma il signor Kinney sfila sotto l’etichetta di intoccabile
«Me lo auguro per le tue palle.» commentò Justin, con un’occhiata poco amichevole. Decisamente, la gelosia nei confronti di quello che era stato il
suo uomo non sarebbe mai passata.
«Quindi hai trascorso quest’anno con dei
veri pennelli in mano, e non in senso metaforico?» domandò Emmett.
«Eh già.» rispose l’artista. «Ho passato giornate a dipingere, e all’inizio ero una vera esplosione d’idee, finché anche quello ha perso il suo fascino.» abbassò lo sguardo e sospirò sconsolato. «Io non so cosa mi sta succedendo, ma ho sempre meno voglia di dipingere. Mi sembra che sia qualcun altro a farlo, non mi sento più io.» si passò una mano tra i capelli e concluse: «E quello che mi fa più rabbia è che qualunque cosa faccia, anche la più schifosa e insulsa, non fa che essere accolta da entusiasmo.»
«Tesoro, tutti impazziscono per le tue opere! Non vedo cosa ci sia che non va!» cercò di risollevargli il morale, ma Emmett, in fondo, riusciva a capire cosa significasse quell’espressione stanca e delusa; l’ombra negli occhi di chi non riesce a trovare il suo posto nel mondo e che vede affievolirsi anche l’unica cosa che fino ad allora l’aveva fatto andare avanti. Nel caso di Justin, l’amore e la passione per l’arte.
«A questa gente andrebbe bene anche se io disegnassi un cazzo dritto e ci mettessi sotto il mio nome.» esclamò esasperato. «Per loro sarebbe comunque un capolavoro!»
«E dove sta il problema?» chiese, provando ad incoraggiarlo. «Massimo guadagno con il minimo sforzo…non è il sogno di ogni uomo?»
Justin scosse la testa e sorrise fievolmente. «Emmett, per un artista non è così bello. A meno che tu non abbia venduto l’anima al demonio denaro.»
«Ah certo, voi piccoli Bohémien non date prezzo all’arte!» ricambiò quel sorriso e sfiorò una delle sue guance candide con una carezza. «E comunque un cazzo dritto non è mica qualcosa di brutto!»
Finalmente una risata sincera uscì dalle labbra morbide del ragazzo, e il cuore di Emmett riuscì a sollevarsi un po’; perché voleva bene a quel
raggio di sole, più di quanto mai avrebbe potuto esprimere a parole; perché per quanto sfavillante fosse la fiammella che vantava di avere dentro, niente sarebbe mai stato paragonabile alla luce che Justin era in grado di irradiare anche con un semplice sguardo.
Chiunque lo avesse incontrato ne era stato abbagliato – perfino Brian, abituato a vivere nel buio di una Dark Room, era rimasto incantato e catturato da quei raggi luminosi – e anche lui aveva ormai capito che la sua presenza vicino avrebbe sempre alimentato il fuoco della sua
favolosità.



*'*'*


“Amen Omen” - Ben Harper



Suonare per minuti quel dannato campanello si era rivelato pressoché inutile, dato che l’inquilino – benché fosse in casa – si rifiutava categoricamente di dare segni di vita.
Ormai lo conosceva fin troppo bene, e non sarebbe stata certo una porta chiusa a fermarlo, perciò si fece aprire il portone da un altro degli abitanti del palazzo e richiamò il montacarichi al piano terra.
Michael era deciso a parlare con Brian circa quello che era successo al Diner, e niente – neanche il silenzio del suo migliore amico – l’avrebbe fermato dall’ottenere le sue risposte.
Salì sul montacarichi e premette il pulsante, rimuginando sulle possibili motivazioni che avevano spinto Brian a trattare Justin come un perfetto sconosciuto, quando era
palese che dentro di sé stesse ancora soffrendo come un cane per come quella loro tormentata storia fosse finita.
Non si aspettava certo lacrime e salti di gioia, ma il fatto che neanche un sorriso fosse nato su quelle labbra…be’, quello no. Non era contemplato in nessuna possibilità.
Come se non bastasse, poi, Linz lo aveva chiamato quasi un’ora prima, dicendogli che Brian aveva già riaccompagnato Gus a casa, in perfetto orario, quando solitamente dovevano urlargli dietro almeno cento volte, prima che si decidesse a riportare il bambino dalla madre; pertanto si era affrettato a chiudere il negozio in anticipo e si era diretto verso Fuller Street.
Brian aveva qualcosa che non andava – o meglio, qualcosa che non andava
più del solito – e lui non poteva certo ignorarlo.
Raggiunse il piano e prese a bussare insistentemente contro la porta scorrevole, finché non si rese conto che era già aperta.
Brian e il suo stupido vizio di non chiudere mai!
La fece scorrere spingendo con entrambe le mani e avanzò di qualche passo dentro il loft, in cui regnava il silenzio più assoluto.
Non gli ci volle comunque poi molto per trovare l’oggetto delle sue ricerche: il proprietario di quel meraviglioso appartamento giaceva mezzo addormentato sul divano, con i capelli arruffati e impiastricciati di sudore; la canottiera bianca malamente arrotolata su un fianco e i pantaloni grigi di felpa mezzi calati a scoprire l’elastico dei boxer. Un braccio posato a coprire gli occhi e l’altro ciondolante nelle prossimità di una bottiglia di Jim Beam vuota, abbandonata a terra. Era completamente ubriaco, e non erano neanche le otto.
Si avvicinò scuotendo la testa, completamente rassegnato, e provò a scuoterlo un po’ per farlo svegliare.
Aveva la pelle calda, sudata e appiccicosa; segno che doveva essersi addormentato già da un po’ e che il suo corpo aveva trasudato tutto l’alcool che aveva ingurgitato come il peggiore dei ragazzini.
Sbuffò contrariato e lo riscosse ancora, finché un mugolio scocciato non uscì dalle labbra dell’altro e sulla fronte si disegnò un cipiglio profondo. «Cristo, Brian. Ma quanto hai bevuto?»
Gli occhi verde scuro apparvero attraverso una lieve fessura lasciata dalle palpebre, mentre le guance si gonfiarono a formare un’espressione scocciata. «Il medico dice che per una buona salute si dovrebbe bere almeno un litro e più al giorno.» biascicò a fatica e tentò di alzarsi.
«Di acqua, non di Jim Beam.» lo rimproverò Michael, sorreggendolo per farlo sedere.
«È lo stesso.» replicò, passandosi una mano sulla faccia. Si sentiva un vero schifo.
«Avevo pensato a mille possibili reazioni nella mia testa, ma non che ti saresti ridotto a uno straccio.»
Brian lo guardò sottecchi, fingendo di essere confuso. «Per cosa?» chiese quindi, e l’altro roteo gli occhi scuri.
«Per Justin. Penso tu l’abbia visto che è tornato.»
«Non ho l’Alzheimer. Ancora riesco a riconoscerlo.»
«Credevo ti avrebbe fatto piacere.» mormorò, e vide l’altro sollevare le spalle oziosamente. «Dopo tutto questo tempo, non mi hai ancora detto perché alla fine avete deciso di non sposarvi e un anno dopo vi siete lasciati.»
«Ci eravamo già lasciati quando è partito per New York.» puntualizzò, cercando di mantenere un tono fermo, anche se sapeva che Michael non gli avrebbe creduto neanche per un misero istante.
«Bugiardo.» lo accusò infatti. «Allora? Perché non vi siete sposati?»
Brian sbuffò e si fece forza per rispondere. L’unica cosa che desiderava era una doccia fredda, ma era certo che il suo adorato Mickey non l’avrebbe lasciato in pace almeno fino a quando non avesse esaurito la sua filippica, perciò si stropicciò gli occhi e disse: «Perché non aveva senso. Ci stavamo trasformando in qualcosa per cui poi ci saremmo odiati.» poggiò le braccia sulle cosce e unì le mani. «Perciò lui è partito per inseguire il suo sogno e io ho ricominciato con la mia vita. Niente di più semplice.»
«Ma tu lo amavi davvero. E anche lui…»
«Proprio per questo l’ho lasciato andar via.» borbottò scocciato. Era la cosa più ovvia del mondo, perché mai nessuno riusciva a capirla? «E proprio perché mi ama, ha rinunciato al matrimonio. Non voleva vedermi diventare ciò che non sono, chiuso in una gabbia.» sospirò e fissò Michael con un sopracciglio sollevato. «Noi non siamo e non saremo mai come una coppia di lesbiche, di checche, o peggio, di etero. Siamo
froci
«Io e Ben siamo sposati e ci amiamo.»
Sorrise appena e scosse la testa. Avrebbe potuto ripeterlo fino allo sfinimento, ma nessuno avrebbe mai capito quello che per lui e il suo
raggio di sole era ormai ovvio e assodato. «Ma noi non siamo tu e Ben. Noi siamo Brian e Justin.» attese qualche secondo perché l’altro assimilasse la frase e proseguì: «E per quanto potrà sembrarvi folle, è stato meglio così per entrambi.»
«Comunque non spiega perché in tutto questo tempo tu non sia mai andato a trovarlo, neanche una volta.» continuò a protestare Michael. «L’avresti reso felice.»
«Gli sarei stato solo d’intralcio.»
«Intralcio per cosa? Brian, smettila di dire stronzate.» esclamò l'altro, con un profondo cipiglio a solcargli la fronte e quegli occhi scuri con cui continuava a squadrare attentamente ogni movimento del suo interlocutore. «Justin ti avrebbe voluto là. Una volta è anche crollato a telefono con mia madre, dopo che ti sei rifiutato ancora di andarlo a trovare! E anche Daphne l’ha detto che…»
«Ci saremmo solo fatti male, ok?!» sbottò interrompendolo, stufo di sentirsi ripetere sempre le stesse cose. Era stanco del fatto che tutti si premurassero di intromettersi nei fatti loro; era stanco di dover sopportare le opinioni di ogni fottutissima persona e i continui rimproveri. Sapeva benissimo, senza che ci pensassero gli altri a ricordarglielo, quanto Justin avesse desiderato una sua visita e, checché ne dicessero, anche lui aveva agognato quel momento più di qualsiasi altra cosa al mondo…ma non poteva. Non poteva prendere quello stramaledetto aereo e volare fino a New York, perché era perfettamente conscio del fatto che non sarebbe più stato capace di lasciarlo ancora. Si sarebbe rimangiato ogni stupidissima parola, avrebbe mandato a puttane tutto il lavoro di Justin e l’avrebbe anche trascinato a Pittsburgh, per non lasciarlo andar via ancora una volta. Sapeva di non aver più la forza di fare a meno di lui e anteporre la carriera d’artista alla sua felicità. In fin dei conti, Brian Kinney era un fottuto egoista e, in quel caso, non sarebbe riuscito a prescindere dalla sua natura per il bene altrui. «Sarebbe stato solo un modo per prolungare quell’agonia. Presto avrebbe trovato il suo posto a New York, sarebbe stato sempre più impegnato e non potevo mettermi in mezzo. Ed è stato così, esattamente come avevo previsto.» continuò allora, compiendo un enorme sforzo. «È diventato famoso, si è fatto un nome e non ha avuto più il tempo per pensare al passato e a Pittsburgh. È andato avanti senza voltarsi indietro, ed è giusto così.» si lasciò sfuggire l’ennesimo sospiro, e respirò a fondo per calmarsi. «Perché avrei dovuto tenerlo incatenato a questa stupida città, quando ha New York e il mondo davanti? Sono uno stronzo, ma non fino a questo punto.»
Michael gli rivolse un’occhiata carica d’affetto, e per poco Brian riuscì a reprimere la voglia di colpirlo con un altro pugno. Odiava essere guardato così. «Hai sempre fatto lo stronzo nei momenti sbagliati, e l’unica volta che avresti dovuto tirar fuori il tuo egoismo del cazzo non l’hai fatto. Perché?»
«Hai davvero bisogno che ripeta ad alta voce quelle tre stupide parole? Credo di essermi umiliato abbastanza per oggi.» gli rispose, assottigliando gli occhi.
«Perché lo ami?» domandò Michael, pronunciandole al suo posto, togliendogli quell’incombenza. «Lasciatelo dire Brian, è stato nobile da parte tua, ma a che prezzo?»
«Non pretendo che tu lo capisca e neanche m’interessa.» mormorò con un fil di voce, ormai stufo di quella conversazione. Desiderava semplicemente essere lasciato solo, ma sembrava proprio che le attenzioni degli altri crescessero in proporzione al suo bisogno di solitudine. «L’ha capito lui, e tanto basta.»
«Dimmi la verità. Avevi paura che lui ti avrebbe messo da parte? Per questo l’hai lasciato andare? Credevi ancora una volta che avrebbe finito col rimpiazzarti con qualcuno di più giovane, ora che non ti vede più come un dio?»
Brian sollevò gli occhi per quella trafila di domande ed elaborò una bugia, sperando fosse abbastanza credibile, augurandosi di riuscire a renderla reale, prima o poi. «Cazzate. Se avesse trovato qualcuno capace di andare nella sua stessa direzione, rendendolo finalmente felice, sarei stato contento per lui.»
«Anche voi sapevate andare nella stessa direzione. Solo che di tanto in tanto perdevate la strada.»
«Io e Justin non andavamo proprio da nessuna parte. Giravamo in tondo.»
«Ma eravate felici.
Tu lo rendevi felice.» rettificò Michael. «Non ha mai sorriso a nessuno come ha sempre sorriso a te.»
«Lo so.» ammise l’altro; e concedersi quella piccola verità, non gli provocò altro che una fitta dolorosa al centro del petto.
«Era la tua unica occasione per essere felice.
È la tua unica occasione
«Mickey, falla finita.» lo aggredì. Non voleva sentirne più.
«Preferisci continuare a scappare?!»
«Io non sto scappando!» gridò, alzandosi di scatto in piedi, senza riuscire davvero a capire dove avesse trovato tutta quella forza. La testa gli girava e la nausea continuava a torturarlo, ma non avrebbe sostenuto un minuto di più quella conversazione spinosa. «Sono solo obbiettivo da capire che non poteva andare e che è stato meglio così. Smettetela voi di voler trasformare tutto in un patetico romanzetto rosa! Siete ridicoli.»
«Justin è tornato…»
«E con questo? Cosa cazzo cambia!» esclamò rabbioso. «Sarà tornato per farvi un saluto, prima di ripartire per New York. Ha una sua vita adesso, mettetevelo in testa e piantatela di tenerlo legato a questa cazzo di città e a voi, perché lo state solo soffocando. Lasciatelo libero, Cristo Santo!»
«Non ti è mai venuto il dubbio che magari stesse solo aspettando che tu gli dicessi di tornare?»
«No.» mentì ancora. La realtà era che l’aveva sperato ogni singolo giorno. Aveva
pregato che non si fosse dimenticato di lui e che lo desiderasse con la stessa intensità con cui l’aveva fatto dal loro primo incontro. Lo stesso passionale desiderio che si era acceso nel suo corpo e che continuava a bruciare e a divorarlo ogni giorno.
«Be’, allora non sei poi così obbiettivo come credi.» replicò l’altro con sguardo deciso. «Datti una svegliata, perché sei l’unico a quanto pare a non essersi accorto quanto lui sperasse in una tua cazzo di parola quando vi siete rivisti.» lo rimproverò. «Justin non è come te.»
«Non è neanche come voi.»
«No, ma ti vuole ancora.» rispose con un tono duro, prima di addolcirlo e comunicargli quella verità che, per quanto bella, lo feriva più di ogni altra cosa, perché non poteva goderne. «Ti ama ancora.»
«Mickey…» mormorò stancamente. Non voleva sentire altro, ma il suo migliore amico non aveva ancora alcuna intenzione di finire e lasciarlo respirare.
«No, stavolta ascoltami tu.» l’afferrò per le spalle e lo costrinse a guardarlo in faccia. «È ora di crescere Brian, la parte di Peter Pan lasciala a tuo figlio.» strinse la presa e concluse: «E smettila di aver paura di amare. Non c’è niente di male.»
«Il fatto che io ami in un modo diverso dal vostro, non significa che io ne abbia paura.»
«Ma ne hai di metterti in gioco, perché credi e sei sicuro che tanto prima o poi ti abbandonerà. Be’, lasciati dire una cosa. È certo se continui così, lo perderai di sicuro.» lasciò la presa e lo guardò negli occhi, quasi volesse sfidarlo. «Perciò fatti una domanda…preferisci lasciare che il tempo se lo porti via davvero, o hai intenzione di muovere il culo e provare a essere felice?»
Brian non rispose. Le labbra gli si erano cementificate tra loro e non aveva la forza, né la voglia, di ribattere ancora.
Parlare di Justin e del sentimento che aveva per lui lo svuotava di ogni energia; soprattutto adesso che aveva rimesso piede nella gloriosa Pittsburgh e aveva riaperto anche la più piccola ferita pazientemente tamponata.
Distolse lo sguardo e con quel gesto pose fine a quella diatriba, prima di passarsi una mano tra i capelli arruffati e ciondolare fino al bagno, nel silenzio più assoluto.
Gettò i vestiti a terra e sentì la porta scorrere e richiudersi, segno che Michael se n’era andato.
Fece scorrere l’acqua della doccia e s’infilò sotto, sperando di riuscire a lavare via quell’angosciosa sensazione che gli si era plasmata addosso.



*'*'*


“Fly again” – Kristine W



A mezzanotte passata, Justin camminava costeggiando la fila per l’entrata al Babylon, affiancato da Jace.
Si sentiva un po’ in colpa ad usare le sue conoscenze, ma non riusciva a resistere neanche per un minuto, fermo e buono, ad aspettare.
In tutto il pomeriggio non aveva fatto altro che parlare di Brian, e ascoltare le mille possibili versioni del suo pensiero, espresse da chiunque incontrasse dei suoi amici; con il risultato che andavano tutte nello stesso posto: “Brian non sa esprimere le emozioni”.
E sarebbe stato un ragionamento perfettamente plausibile, se quelle parole le avesse udite quasi due anni prima; prima dell’esplosione del Babylon e di quei suoi due “ti amo”.
Da quel momento aveva capito che Brian – quando
voleva – era perfettamente capace di esprimere i propri sentimenti, il che lo riconduceva drammaticamente alla sua unica grande paura: l’aveva dimenticato. Brian si era dimenticato di lui e del loro amore.
Scosse la testa per cacciar via i pensieri e salutò con un sorriso i buttafuori, prima di immergersi nell’atmosfera buia e sensuale del Babylon.
«Sicuro di star bene?» gli chiese Jace, dopo averlo afferrato per il polso. Aveva la fronte aggrottata e negli occhi la stessa apprensione che aveva visto tante volte in quelli di sua madre. In fondo, in quell’anno e mezzo a New York lui era stato la sua sola famiglia. «Non hai una bella cera.»
«Certo, alla grande.» mormorò Justin, scostando una ciocca bionda dalla faccia, per sistemarla dietro l’orecchio. «Prendiamo qualcosa da bere?»
L’altro annuì, poco convinto, e prese a seguirlo fino al bar.
Si appoggiarono al bancone e attesero il loro turno per ordinare. Afferrarono i rispettivi bicchieri con la mano sinistra e si voltarono contemporaneamente verso la pista, rivolgendosi un sorriso complice.
In tutto il tempo trascorso insieme, avevano acquisito una serie di abitudini e gesti fin troppo simili. Il vivere a stretto contatto ogni giorno, aveva ampiamente influenzato l’uno con i vizi dell’altro, fino a crearne alcuni dal niente; proprio come quello.
Sorseggiarono i loro drink passando lo sguardo in ogni angolo della pista, finché gli occhi nocciola e ridefiniti da un tocco di ombretto viola metallico – in pendant con la camicia – di Jace, incontrarono una persona che, decisamente, non passava inosservata.
Dopo Justin ovviamente, quello a un paio di metri da lui, era il biondo più eccitante che avesse mai visto.
Seguì i movimenti di quel corpo statuario, mentre danzava tra due ragazzi che pendevano letteralmente dalle sue labbra. Lo guardavano con la stessa eccitazione intensa che doveva essersi accesa anche dentro il suo sguardo; e lui sorrideva apertamente di quelle attenzioni, sussurrando chissà quali parole alle orecchie di quei due fortunati.
Sgomitò sul braccio di Justin per richiamarlo e si avvicinò a lui: «Chi è quel dio?» domandò, e indicò l’oggetto del suo interesse con un cenno della testa.
«Chi? Quello biondo?» Jace annuì e sorrise. «Si chiama Brandon.»
«Interessante.»
«Sì, se ti piacciono i tipi come lui.» commentò e storse le labbra. «È la più grande puttana di Pittsburgh. Dopo Brian, ovvio.»
«Te lo sei fatto?»
«No.» prese un sorso del suo drink e si passò la lingua sulla bocca. «Stavo già con Brian quando si è trasferito qua da Atlanta. E comunque non mi è mai interessato.»
Jace assottigliò lo sguardo e lo fissò attentamente. «Sbaglio o scorgo dell’astio nelle tue parole?» sorrise sornione e inarcò le sopracciglia. «Cos’è? Brian si è scopato anche lui e sei geloso?»
«Non se l’è scopato.»
«No?»
«No. È una storia lunga.» tagliò corto, ma non aveva fatto ancora i conti con l’inesauribile curiosità del suo amico. Jace infatti gli prese il mento tra le dita e lo fece voltare verso di sé.
«Hai per caso in programma qualcosa?» gli domandò e, quando l’altro scosse la testa in una negazione, aggiunse: «E allora hai tutto il tempo per raccontarmelo, signorino.»
«Non credo.» sorrise e gli indicò la pista con un movimento secco delle iridi cerulee. «Sta venendo qua.»
Jace lasciò immediatamente la presa e si voltò per verificare le sue parole, ma non fece in tempo a mettere a fuoco niente, che si ritrovò Brandon a meno di un passo di distanza. «Ciao.» sorrise quest’ultimo, mostrando una fila di denti bianchissimi, che risaltavano anche con più intensità grazie alla pelle perfettamente abbronzata.
«Ciao…» balbettò Jace, mentre Justin si limitò a un sorriso appena accennato.
«Non vi ho mai visto da queste parti. Siete nuovi?»
«Io sono di New York, ma lui ha vissuto qui fino a quasi due anni fa.»
Brandon corrugò la fronte. «Davvero?» domandò, rivolto a Justin, con gli occhi accesi d'interesse. «Che strano…più o meno due anni fa mi sono trasferito qua da Atlanta, ma non ho mai avuto il piacere di conoscerti.»
L’artista scrollò le spalle e posò il bicchiere ormai vuoto sul bancone. «Capita.» replicò telegrafico e fece un cenno a Jace. «Io vado di sopra. Ci vediamo lì.»
«Eh? Come?» esclamò confuso. «Aspettami, vengo con te!» si ritrovò poi a dire, seguendolo senza neanche pensarci.
Salì le scale affiancando l'altro e lanciò un’occhiata alle proprie spalle.
Brandon era ancora lì che li fissava stranito, ma con un sorriso che lasciava ben poco all’immaginazione: si stava mangiando Justin con lo sguardo.



*'*'*


“I'm in Miami Bitch” - LMFAO; Lucky Date RMX



«Se hai puntato quel biondino, fossi in te, lascerei perdere…» gli sussurrò un ragazzo, accarezzando appena l’orecchio con il movimento delle sue labbra.
«Perché?» si limitò a chiedere Brandon, ignorando le palesi occhiate interessate che il suo interlocutore insisteva per lanciargli.
«Quella è roba proibita.» sorrise affabile. «A meno che tu non voglia giocarti la possibilità di entrare ancora in questo posto, mi cercherei qualcun altro.»
«Ripeto, perché?»
«Quello è Justin Taylor.» rispose, guardandolo dritto negli occhi. «E solo Brian Kinney può scoparselo.»
«Brian?» domandò, con una sfumatura di stupore nella voce. «Cos’è, il suo fidanzatino?» vide l’altro annuire e scosse la testa. «Andiamo, ma non farmi ridere. Brian non è il tipo da…»
«No, infatti.» lo interruppe l’altro. «Stavano solo per sposarsi…» arricciò le labbra e un guizzo soddisfatto si accese nei suoi occhi, quando sul volto di Brandon le labbra si schiusero per la sorpresa. «…poi però, Justin è partito per New York. È un artista piuttosto famoso.»
«Sì, credo di aver letto qualcosa a riguardo.» corrugò la fronte e riprese a cercarlo con lo sguardo. «E che ci fa qui allora?»
«E chi lo sa!» replicò il ragazzo e scrollò le spalle. «Non so neanche se stanno ancora insieme o meno.»
Gli occhi di Brandon percorsero tutto il soppalco in ferro, invano. Di quello splendore biondo non c’era traccia, ma trovò comunque qualcosa di altrettanto interessante: Brian era appena entrato. «Be’, l’unico modo per saperlo è chiedere…» annunciò poi, e prese ad avanzare nella sua direzione, senza neanche guardare o salutare il ragazzo che gli aveva rivelato tutte quelle impensabili informazioni. «E così, Brian Kinney aveva un fidanzato da sballo, e non me l’ha mai detto…» esordì, soffiandogli le parole all’orecchio, con un sorrisetto ironico.
«Ciao a te, Brandon.» lo salutò Brian, altrettanto sarcastico. Gli rivolse un sorriso storto e passò un braccio sulle sue spalle per condurlo al bar. «Di che cazzo stai parlando adesso?»
«Justin Taylor, ti dice niente?»
«Un Grand Marnier Cosmo.» comunicò al barista, cercando di alleviare quell’angosciante sensazione che l’aveva immediatamente colpito all’altezza dello stomaco, nel momento in cui aveva sentito pronunciare quel nome. Ringraziò il cielo che Brandon non lo conoscesse ancora bene per accorgersi di quanto si era irrigidito e rispose, con un finto tono annoiato: «Bah…giovane, biondo, occhi azzurri.» prese il suo drink e ne sorseggiò un po’. «E allora?»
«Di un po’, è per lui che non hai riscosso la tua vincita quella volta?»
«
Barbie, se hai tutta questa voglia che te lo metta nel culo, basta che tu lo dica chiaramente.»
Brandon sorrise e scosse la testa. «State ancora insieme?»
«Chi?» chiese vago.
«Tu e quell’angelo…Justin.»
«Perché dovrebbe importarti?» temporeggiò ancora, continuando a nascondere la sua reale preoccupazione dietro una maschera di ironica curiosità. «Non diventerò comunque il tuo fidanzatino.»
«Infatti non è per questo.»
«E per cosa allora? Sentiamo…»
«Perché in nome della nostra
salda amicizia...» iniziò Brandon, mentre l’altro si lasciò sfuggire una risata. «…non mi permetterei di scoparmelo se fosse ancora tuo.»
Brian annuì lentamente, e spinse la lingua verso la guancia, con un’espressione assorta, quasi stesse valutando ogni singola particella di quella frase. «Cosa ti fa pensare che si farebbe scopare da te?»
«Kinney, è forse gelosia questa?»
«Non siamo mai stati insieme.» replicò nervoso. Se Brandon stava iniziando quel gioco solo per farlo innervosire o per una delle loro stupide scommesse, doveva cercare il modo di rendere la situazione meno appetitosa possibile…per quanto qualcosa in cui era coinvolto Justin, potesse non essere appetitoso.
«Che strano…» mormorò, aggrottando la fronte. «…a me è giunta voce che ti stessi per sposare.»
Un altro falso sorriso si disegnò sulle labbra di Brian. Stavolta molto più tirato degli altri. «Sai com’è fatta la gente. Quando ha una vita noiosa, inventa storie su quella degli altri per passare il tempo.»
«Il che comporta che per te non ci sono problemi…giusto?»
Brian lo fissò attentamente negli occhi, con le labbra serrate tra loro. Terminò il suo drink con un solo sorso e abbandonò il bicchiere sul bancone. «Ciao, Brandon.» gli sorrise affabile e senza aggiungere altro, si voltò e prese a camminare verso l’uscita.




*'*'*



Nel buio della sua camera, Ted fissava il soffitto rischiarato dalla luce dei lampioni che attraversava le finestre, ascoltando attentamente i respiri di Blake che, a differenza sua, dormiva tranquillamente al suo fianco.
Non era mai stato un tipo troppo sicuro di sé, ma la consapevolezza che gli era arrivata dritta al cervello come un fulmine, quando era rientrato a casa, l’aveva colto di sorpresa e punto sul vivo.
Non riusciva a smettere di pensarci, e non sapeva come trovare le parole per esternare quella semplice quanto importante richiesta all’uomo che amava.
Qualcosa dentro di sé gli suggeriva di svegliarlo immediatamente e di gettarsi a capofitto in una dichiarazione montata così, su due piedi, mentre l’altro lato che si contendeva la sua ragione gli sussurrava di aspettare ancora e di preparare qualcosa di più significativo.
Non avrebbe saputo dire se era solo la voglia di renderlo un momento davvero speciale o meno – in fondo, tra i suoi amici, aveva assistito all’apoteosi della normalità, con Ben e Michael o Linz e Mel, ma anche al gesto più
costosamente
romantico della storia, con la villa che Brian aveva acquistato solo per farsi dire un semplice “sì”, e già questo bastava a mandarlo in confusione – o se la sua era semplice e pura paura di un rifiuto; sapeva solo che voleva legarsi a Blake.
Sbuffò e si girò più volte nelle lenzuola, nel vano tentativo di cercare una posizione migliore per dormire, riuscendo ad ottenere solo un groviglio stretto in cui restare grottescamente incastrato alla stregua di un salame. Imprecò contro se stesso per quel suo essere sempre maldestro e diede uno strattone per liberarsi, terminando il suo movimento con un tonfo sul pavimento.
«Teddy?» sentì mugugnare dalla voce di Blake, seguitò dal leggero strusciare delle lenzuola, dovuto ai movimenti del suo corpo. «Che fai?»
«Niente.» borbottò, arrossendo di vergogna per il suo penoso spettacolo. «Sono solo caduto.»
Il suo compagno ridacchiò. «Sicuro di star bene?» si protese verso di lui, stropicciandosi gli occhi e gli sorrise. «Hai fatto un brutto sogno?»
«No, no.» rispose incerto. «Cioè…solo qualche pensiero.»
Blake sembrò svegliarsi all’improvviso e un cipiglio corse a solcare la sua fronte e incupire l’azzurro delle sue iridi. «Che tipo di pensieri?» lo fissò serio per un attimo e riprese: «Lo sai che Brian non fa sul serio quando minaccia di licenziarti.»
«No, non è per Brian. Lo so che non dice sul serio…»
«E allora cosa?» chiese, con una nota d’apprensione a colorargli la voce. Scese dal letto e si accoccolò accanto a Ted.
Per contro, l’altro abbassò immediatamente gli occhi, sentendosi in imbarazzo sotto l’esame di quello sguardo amorevole. Strinse la presa sulle lenzuola e deglutì rumorosamente.
Avrebbe voluto avere il coraggio di pronunciare quelle tre fatidiche parole, con la stessa sicurezza per cui sentiva che Blake era l’uomo giusto per lui, ma sembrava proprio che ogni lettera gli si fosse fastidiosamente incastrata tra la lingua e il palato e si rifiutasse categoricamente di uscir fuori. «Niente, davvero. Una stupidaggine senza senso.» sorrise mentendo, e si rialzò barcollando.
Risistemò il letto con l’aiuto del suo compagno e tornò sotto le coperte senza aggiungere una parola.
Blake gli si avvicinò, circondandolo in un abbraccio e gli stampò un bacio sul collo. «Qualunque cosa sia…» iniziò, sussurrando ogni parola. «…anche la più stupida, se avrai voglia di parlarne, con me puoi farlo sempre.»
Ted sorrise nel buio e cercò la bocca dell’altro con la sua, per unirle in un semplice bacio. Si sistemò nel suo abbraccio e respirò a fondo il suo odore. «Ok.» bisbigliò poi e riprese a fissare il soffitto, e ad ascoltare il respiro rilassato dell’uomo che aveva ripreso a dormirgli accanto.
Mi vuoi sposare?

Ma le parole echeggiarono solo nella sua mente mentre, con un sospiro sommesso, si augurava di trovare prima o poi il coraggio di dargli anche un suono udibile alle orecchie del suo compagno. 


*** 
Note finali:
Fine anche del quinto capitolo!
Se pubblico un po' troppo spesso ditemelo eh...non vorrei intasarvi il pc con le mie stupidaggini! XD 
Comunque sia...il primo incontro dei Britin è avvenuto...forse qualcuno di voi se lo immaginava diversamente o un po' più significativo...ma io proprio non ce lo vedevo Brian a chiarire i fatti suoi in mezzo al Diner con tutta quella gente ad ascoltare e poi... non sarebbe Queer as Folk senza Mister Meraviglia che si riduce a uno straccio con il Jim Beam almeno una volta per colpa delle sue fisime...XD e l'avevo detto che era un capitolo di transizione, no? 
Prendetelo un po' come la seconda parte del precedente insomma...e quindi come introduzione alla storia...dal prossimo si farà un pochino più sul serio. XD 
Per quanto riguarda Brandon, sono certa che qualcuno lo troverà anche "molto" più "simpatico" dopo questo capitolo. Comunque sia, io sono partita dal presupposto che Brandon non avesse mai conosciuto Justin e che non avesse mai saputo del matrimonio mancato. Che io ricordi non si vede mai lui durante i "festeggiamenti" pre-matrimoniali...quindi, prendetela per buona! XD Mentre per quanto riguarda il piccolo povero Teddy, ancora non è riuscito a esprimersi con il suo Blake...e per come la penso io lo eviterei anche, visto quanto odio quel personaggio, ma Theodore Schmidt lo ama e io non posso prescindere da questo...eeee, va be'! 
Stupidaggini a parte, spero vi sia piaciuto comunque anche se è solo di passaggio e prometto di non tardare troppo con il prossimo, visto che avremo il primo vero incontro-scontro degli adorati Britin...perciò passiamo alle cose più importanti: ringraziamenti!!! 

Un grazie a tutti coloro che hanno letto il capitolo, e che hanno messo la storia tra le seguite, le ricordate o le preferite...e un grazie ancora più grande a: Thiliol, Veronica611, giacale, EmmaAlica79, Katniss88, oo00carlie00oo, FREDDY335, Hel Warlock, susyjames, Clara_88, mindyxx e fritty per aver recensito lo scorso capitolo! GRAZIE DAVVERO.
 
Un bacio e a presto, Veronica.


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Capitolo 6
*** Some things never change. ***


Some things never change.

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6x06 – Some things never change.
[capitolo betato da Trappy]


“You look so fine” - Garbage


Inspirò profondamente, con gli occhi socchiusi per via del fumo e lintento di godersi pienamente la sensazione raschiante nella gola, mentre perdeva lo sguardo oltre lo spesso vetro, tra le luci della città che rischiaravano appena il loft e la sua figura.
Con solo un paio di Jeans chiari addosso, Brian fumava quella che era la seconda canna della serata, da quando era rientrato a casa di umore più che nero.
Non bastava ogni sua conoscenza a girare il dito nella piaga e limprovvisa ricomparsa di Justin a riaprire ogni ferita. Ci si metteva anche Brandon a spargere sale e attentare alla salute dei suoi nervi, e peggio, del suo cuore già abbastanza martoriato.
Non lo conosceva abbastanza bene da prevedere cosa potesse architettare dentro quella sua testa ossigenata, ma qualunque cosa fosse, era ben conscio dal sapere che non gli sarebbe piaciuta neanche un po; specie se pensava che era coinvolta proprio lultima delle persone a cui lavrebbe lasciato avvicinare.
Si appoggiò con lavambraccio al vetro e portò nuovamente il filtro alle labbra per riempire ancora i polmoni di fumo, fino a saturarli, quasi volesse affogare in quella nuvola grigia.
Liberò la scia fumosa attraverso le labbra socchiuse e osservò il suo riflesso sinuoso nel vetro, immaginando di veder quei girigogoli prendere la forma del volto di Justin. Li vide mutare e disegnare i suoi lineamenti e quelle iridi cerulee che lo fissavano.
Fu impossibile desistere dal ricordare le notti trascorse insieme.
Fantasticare sul suono dei suoi passi che si avvicinavano alle spalle quando si svegliava e non lo trovava nel letto. Le sue dita che andavano a massaggiargli le spalle per farlo rilassare. La sua bocca che rubava un tiro dalla canna sorretta dalle sue dita, e quelle labbra che poi correvano a congiungersi alle sue, prima che il mozzicone venisse abbandonato e che lui stesso si lasciasse andare alle attenzioni di quel ragazzino biondo che gli aveva sconvolto la vita, e che lo guidava, senza la minima traccia del timore che gli aveva visto al loro primo incontro, fino al divano, che si bagnava del loro sudore e simpregnava dei loro gemiti e di quellamore che li legava.
Chiuse gli occhi con sofferenza e prese lultimo tiro.
Ricordare quei momenti, era la peggiore delle torture che potessero imprimergli.
Cerano giorni in cui quel dolore si faceva così assordante e insistente, che la nausea per la radioterapia gli sembrava solo uno scherzo. Cerano giorni in cui avrebbe voluto rifugiarsi nel ricordo della sua lotta contro il cancro, per schiacciare il dolore della lontananza di Justin, con ciò che ricordava di quei momenti terribili, quando la sensazione fredda e rassicurante della ceramica del cesso sotto le dita, era una delle poche cose che riuscivano a farlo sentire meglio.
Sarebbe ricorso anche a quello, e avrebbe costretto la sua mente a rivivere quegli attimi, se solo in mezzo a quellinferno, non fosse stato presente quel raggio di sole a sostenergli la testa e scostargli i capelli. Se solo non ci fossero state quelle mani ad accarezzargli la schiena o quelle labbra a baciargli la fronte, le guance, il collo...ogni centimetro della sua pelle, pur di rendere più facile e piacevole quel calvario.
In mezzo a quellinferno, cera sempre stata la dolcezza di Justin, ciò che laveva spinto a stringere i denti e andare avanti. Perché se anche non glielaveva mai detto; e spesso si era ritrovato a pensare che, forse, alla fine dei conti sarebbe davvero morto giovane come aveva sempre detto di volere; se non si era lasciato andare, era soprattutto per quella testolina bionda e impertinente.
Era stato per le volte in cui si era svegliato di soprassalto la notte, e aveva trovato Justin addormentato con la testa sul suo petto e le braccia a circondarlo come se volesse proteggerlo da qualunque cosa e impedire a chiunque di portarlo via. Era stato per le volte in cui aveva visto quegli occhi blu opacizzati e segnati dal pianto. Era stato per le volte in cui, quando non riusciva a dormire, aveva sentito Justin chiamare il suo nome, mentre si agitava nel sonno e le lacrime scendevano oziose a solcargli il viso.
Era stato sì, anche per se stesso, ma soprattutto per Justin; per non lasciarlo solo, per non farlo soffrire più di quanto non avesse già fatto.
Aveva sopportato fin troppo, nonostante la sua giovane età, e non si meritava di patire anche quello. Non lui che con devozione gli preparava quello stramaledetto brodo di pollo – che non avrebbe mai più toccato per il resto della sua vita – o qualche intruglio miracoloso di sua nonna. Non lui che non si lamentava mai del fatto che dal fare sesso almeno quattro volte al giorno, erano passati a trascorrere la sera a sonnecchiare sul letto, o inginocchiati sulle mattonelle del bagno, perché doveva vomitare per la trecentesima volta nel giro di una giornata. Non lui che aveva continuato ad amarlo nonostante il suo caratteraccio, o le volte in cui laveva ferito.
Brian era sopravvissuto per Justin e perché, per quanto gli costasse ammetterlo, dentro di sé aveva chiaro come il sole che non era affatto disposto a separarsi definitivamente da lui. Non era disposto ad andarsene in un posto dove Justin non cera.

Fanculo, piccolo stronzo. Guarda come cazzo mi sono ridotto...
Spense il mozzicone nel posacenere e si avviò verso il letto, ciondolando stancamente. Si lasciò ricadere e inevitabilmente il suo sguardo si posò su quel cassetto che, da quando Justin se nera andato, non aveva più riaperto, se non per nasconderci le uniche tre cose che gli restavano di lui.
Avrebbe dovuto sbarazzarsene tempo prima, invece che lasciarle ad impolverare là dentro, perché sembravano poter urlare la loro presenza ogni minuto che trascorreva in quel posto, ma non ci era mai riuscito.
Un po perché aprire quel cassetto, significava ritrovarsele davanti agli occhi, insieme ai ricordi dei momenti passati con Justin – alcuni splendidi, altri terribili, ma pur sempre insieme – e un po perché, da qualche parte in fondo al suo cuore, la speranza di poter riaprirlo e riempirlo ancora delle sue cose; la speranza di vederlo tornare, non si era mai spenta.
Sì tolse i Jeans e li lanciò in un punto a caso del pavimento, prima di abbandonarsi sul letto e affondare la testa nel cuscino. Sospirò a fondo e fece per infilarsi sotto il copriletto, quando qualcuno prese a bussare insistentemente alla porta.
Mugugnò contrariato, finché nella sua testa balenò la possibilità che a battere il pugno fosse Justin; così, col cuore che gli pulsava in gola, si alzò di scatto e si affrettò a raggiungere la porta. «Jus...» pronunciò, dopo averla fatta scorrere con foga; e per un attimo gli parve davvero di vedere quel sorriso, ma lincantò svanì nel giro di un secondo, lasciando il posto al ghigno divertito di unaltra persona. «...Brandon?!» esclamò sorpreso, deluso e scocciato. «Ma che cazzo sei? Uno stalker?»
Laltro scrollò le spalle e sorrise. «Mi annoiavo al Babylon.»
«E che cazzo ci fai qui?!» sputò rabbioso, aggrottando la fronte.
«Sei impegnato con qualcuno?» chiese e cercò di sbirciare verso il letto, alzandosi sulle punte.
«No...»
«E allora dovè il problema?» cercò di entrare, ma Brian gli si parò davanti, assumendo un sorrisetto che poco celava il fastidio nato da quella visita.
«Il problema, Barbie, è che qui non cè nessun cazzo di Ken disposto a scoparti e, se non ti dispiace, io vorrei dormire. Quindi, fammi il grosso favore di evaporare
Brandon prese a ridacchiare. «Lasciatelo dire, non sei per niente ospitale.»
«Non ho mai voluto esserlo.»
«Non è questo che si diceva da te fino a un po di tempo fa...»
Brian scosse la testa e si passò la lingua sui denti. «Le cose cambiano.» abbozzò un sorriso fulmineo e concluse, prima di chiudergli la porta in faccia. «Perciò, buonanotte riccioli d'oro, e sta attento ai tre orsi mentre torni a casa.»


*'*'*



Portò la mano allo stereo e girò la manopola per alzare il volume, prima di prendere laccendisigari già caldo e accendersi una sigaretta. Abbassò il finestrino e lasciò che il fumo fluisse via attraverso lo spiffero. «Hai intenzione di fumarne ancora molte?» borbottò Jace contrariato.
Justin sbuffò. «Chi cazzo sei, mia madre?!»
«No, ma tu soffri decisamente di attacchi dira.» commentò in risposta laltro, con aria stranita.
«Scusa.» mormorò seriamente dispiaciuto. Prese lultimo tiro e lasciò cadere il resto fuori dal finestrino. «È solo che...»
«Senti, non è perché non voglio aiutarti ma...non credo che restare piantati in macchina sotto casa del tuo bello ti servirà a qualcosa!»
Justin prese a ridacchiare. Erano arrivati da almeno dieci minuti, con tutta lintenzione di smuovere la situazione, ma nonostante le minacce di Jace, non era ancora riuscito a scendere e suonare il campanello. Se poi pensava a quanto era stato sfacciato in passato e a quante volte si era presentato alla porta di Brian senza prima avvertirlo, quella situazione prendeva una piega anche più assurda.
Inspirò profondamente, scostandosi dalla faccia una fastidiosa ciocca di capelli biondi e sorridendo allamico, fece per aprire la portiera, quando il portone del numero sei di 
Fuller Street, venne improvvisamente spalancato.
Trattenere la sorpresa fu impossibile, nel momento in cui in strada fece la sua comparsa Brandon, e sentì qualcosa rompersi dentro.
Aveva sempre provato una particolare gelosia per quelluomo, non solo perché era bello, ma anche per quella strana intesa che si era creata tra lui e quello di cui era innamorato, data lincredibile compatibilità del loro modo di essere e di fare. Per certi versi, Brandon era praticamente un Brian Kinney con i capelli biondi e gli occhi azzurri.
Gli aveva visti insieme a Babylon, e aveva cercato di non sorprendersi della loro breve chiacchierata, ma vedere proprio Brandon uscire dal palazzo in cui viveva laltro...quello no, non se lo sarebbe mai aspettato, né mai avrebbe voluto vederlo.
In qualche modo si era sempre sentito minacciato da lui, e in quel momento ogni paura sembrò materializzarglisi davanti e divenire reale. In fondo, perché mai Brian avrebbe dovuto aspettarlo quando poteva avere chi voleva, anche uno come Brandon?
Con rabbia cieca portò la mano a girare la chiave e mise in moto, ignorando i borbottii di Jace – che in vano cercava di farlo ragionare, nonostante fosse altrettanto visibilmente sorpreso – e partì, schiacciando fino in fondo il pedale dellacceleratore.
Sorpassò due macchine e svoltò bruscamente a destra, in uno stridio acuto di freni e gomme, e gli strilli di Jace. «Ok, ok.» balbettò spaventato, stringendosi con entrambe le mani al sedile. «Jus, rallenta. Ti prego, rallenta!» lo fissò allarmato e aggiunse: «Non ti ho mai detto quanti anni ho, ma questo non vuol dire che io sia abbastanza vecchio per crepare!»
Justin però non sentiva neanche le sue parole. Davanti ai suoi occhi vedeva a malapena la strada, coperta dalle immagini di lui e Brian insieme, confuse a quelli che credeva potessero essere i momenti che, quello che era stato il suo uomo, poteva aver trascorso con Brandon.
Immaginare laltro al suo posto, nei ricordi del loro amore, gli occludeva la gola impedendogli di respirare; e si sentiva bruciare dentro come mai gli era successo prima.
Era sempre stato molto geloso di Brian, fin dallinizio, e per quanto avesse spesso criticato laltro per i suoi stani scatti di rabbia e gelosia, guidati da un probabile “mostro dagli occhi verdi” – come lo chiamava Debbie – in quellistante, fu certo di avere un mostro decisamente peggiore a divorargli il fegato, lo stomaco e qualsiasi altro organo commestibile; cuore compreso.
Inchiodò davanti al loro albergo e parcheggiò alla meno peggio, prima di correre nella loro stanza, come un pazzo, e afferrare con rabbia il proprio trolley.
«Che cazzo stai combinando?» esclamò Jace, dopo averlo raggiunto, osservandolo stranito mentre afferrava le sue cose e le scaraventava malamente nel proprio bagaglio.
«Non lo vedi?!» sbottò, senza neanche guardarlo. «Torno a New York!»
«Oddio, ecco che ci risiamo con un altro dei melodrammi di Justin Taylor. Tesoro, lasciatelo dire, tu hai davvero un problema con i tuoi nervi.»
«Che cazzo ci faccio qui?!» gridò ancora, lanciando a terra una cintura. «Perché cazzo mi sono lasciato convincere a tornare qua, se si è già dimenticato di me?! Perché mi hai permesso d
illudermi così?»
«Justin!» lo chiamò, posandogli una mano sulla spalla per spingerlo a sedersi sul letto e calmarsi. «Non sai se ti ha dimenticato...»
«Ah no? E allora che cazzo ci faceva quello a casa sua?»
«Da quello che mi hai raccontato, scopare a destra e a manca, è sempre stato il suo modo per affrontare la vita. Cè da sorprendersi?»
«Non lo so.» sospirò, distendendosi con la schiena sul letto. «Io non...»
«Jus, ascoltami. Non sai se quello era davvero lì per scop...» iniziò, ma locchiata ricolma dira che gli rivolse laltro, lo convinse a cambiare le proprie parole: «Daccordo, magari è come pensi, ma lhai sempre accettato così, e prima di tornartene a New York su ipotesi interamente create dal tuo cervellino, almeno parlagli e accertati di come stanno le cose.» si distese al suo fianco e prese a fissare il soffitto. «E poi, hai una promessa da mantenere a un bambino...e le promesse ai bambini si mantengono, sempre
La mente di Justin corse a Gus, e al sorriso che si era disegnato su quel faccino dolce. Non poteva andarsene e deluderlo; non poteva fare del male a quel bambino stupendo che aveva visto realmente nascere e a cui aveva dato un nome.
Sospirò profondamente e si girò su un fianco, strisciando sul letto fino a raggiungere Jace e posare la testa sul suo petto. Si lasciò abbracciare e chiuse gli occhi, trattenendo a stento le lacrime. «Daccordo. Restiamo.»



*'*'*



Erano scoccate appena le sette del mattino, quando Gus zampettò giù dal letto e corse fino alla camera in cui dormivano le sue mamme.
Si aggrappò alla maniglia per abbassarla ed entrò, sgattaiolando immediatamente da Linz, per riscuoterla e svegliarla dal sonno. «Mamma, mamma!» la chiamò, e continuò a farlo finché la donna non prese a stropicciarsi gli occhi. «Mamma, quando viene papà? E Justin? Mi devi vestire!»
«Amore, ma che ore sono?» biascicò stordita, finché non si accorse della posizione delle lancette. «Gus, sono appena le sette.»
«Voglio andare da papà! Me lhai promesso!»
«Che succede?» mugolò Mel rigirandosi tra le lenzuola, svegliata dalla voce lamentosa del bambino.
«Voglio andare da papà e Justin.» batté i piedi deciso.
«Tesoro, tuo padre verrà e anche Justin, ma questo pomeriggio.» gli rispose Mel. «Adesso torna a dormire.»
«Non voglio andare a dormire, voglio andare dal mio papà!» strillò più forte, mentre le lacrime iniziarono a riempirgli gli occhioni verdi.
«Gus...» iniziò Melanie, con tono di rimprovero, ma fu fermata da Linz.
«Gus, lo so che vuoi stare con tuo padre, ma lui ha da fare e anche Justin. Ti hanno promesso di passare il pomeriggio con te e lo faranno, ma non se farai i capricci.»
«Ieri papà mi ha detto che posso andare da lui quando voglio!» replicò intestardito. «E io voglio stare con lui. Non lo vedo mai! Io voglio vivere qui con lui, con nonna Deb, Justin e gli zii!»
Sia Mel che Linz sussultarono a quella confessione dettata dallesasperazione. Probabilmente il loro bambino si stava tenendo da un po certi pensieri nascosti dentro, e dal momento in cui era tornato a Pittsburgh, trattenergli era stato impossibile.
Fermare i soliti sensi di colpa dettati dalla loro scelta di essersi trasferite a Toronto e aver allontanato i propri figli dal resto della loro famiglia, fu impossibile, perciò, con un tacito assenso dato da una semplice occhiata, Linz afferrò il cellulare e compose il numero del loft, aspettandosi una lunga serie di imprecazioni da parte di Brian.
«Vivi in un posto dove hai un altro orario, o ti rendi conto che sono le sette del mattino?» sbottò lui infatti, allaltro capo del telefono, dopo innumerevoli squilli.
«Fatti una doccia, e renditi presentabile. Porto tuo figlio da te, altrimenti mi farà diventare matta.»
«E bravo il mio bimbo.»
«A dopo.» mormorò e riattaccò, ignorando il tono soddisfatto di Brian, per poi rivolgersi al bambino. «Fatti bello tesoro, ti porto da tuo padre.»

Quando arrivarono davanti al portone, Gus non stava più nella pelle.
Si alzò sulle punte e premette con forza lindice sul bottone del citofono, impaziente di sentire la voce di suo padre. «Salite.» lo sentì comunicare, attraverso il microfono, a cui seguì lo scatto secco del portone.
Decise di non aver tempo, né voglia, di aspettare il montacarichi, così costrinse Linz a seguirlo di corsa per le scale. Le percorse tutte con un
enorme sorriso sulle labbra, fino al pianerottolo, dove Brian lo stava aspettando a braccia conserte, appoggiato al muro. Vide suo padre accoccolarsi per accoglierlo, e quando si gettò nel suo abbraccio, si sentì sollevare e stampare un rumoroso bacio sulla fronte. Per Gus, non esisteva niente al mondo che potesse renderlo più felice. «Papà!» strillò, e allacciò le braccia intorno al suo collo, respirandone il profumo che sapeva essere quello di un uomo.
«Ciao, campione.» gli sorrise. «Ma...dove l
hai lasciata la mamma?» chiese, e non ebbe bisogno di risposte, perché vide spuntare una Linz piuttosto provata dalle scale.
«Tuo figlio mi vuole morta.» annaspò, salendo gli ultimi scalini.
«Di piuttosto che sei vecchia.» la canzonò lui e schivò appena in tempo il pugno con cui la donna tentò di colpirlo.
Entrarono nel loft, e Brian posò il bambino a terra, così che potesse correre a sedersi sul divano e godersi un film di James Dean che, nonostante la giovanissima età, sembrava già amare.
Brian prese una bottiglia di birra dal frigo e ne offrì una a Linz. «Allora...» esordì poi. «
È tutto ok?»
«Suppongo di sì.» rispose lei, trangugiando una grossa sorsata per riprendersi. «
È solo che non riuscivamo più a tenerlo buono. Gus non riesce a stare lontano da te e...»
«E...» la incoraggiò, sollevando un sopracciglio.
«Ci ha detto che vuole restare qua a Pittsburgh, con tutti voi.» sospirò la donna e lanciò un
occhiata amorevole al figlio, intento a osservare le immagini che si susseguivano sullo schermo al plasma. «Mi chiedo se vivere a Toronto sia davvero la cosa migliore. Gus sembra soffrirne troppo.»
«Non sentirti in colpa. L
hai fatto per il suo bene. Per tenerlo al sicuro dallo schifo che non lo accetta per quello che è.»
«Lo so, ma se questo vuol dire vederlo soffrire perché ha bisogno di te...»
Brian voltò lo sguardo verso il bambino e le sue labbra s
incresparono involontariamente in un sorriso. Ogni volta che i suoi occhi incrociavano la figura del figlio, era come se sentisse allargarsi il cuore, ed era una sensazione che aveva sempre provato fin dal primo istante in cui laveva visto. Forse era quello che tutti chiamavano “istinto paterno”. Un giorno non cera, e poi, come quel frugoletto era entrato nella sua vita, era comparso allimprovviso.«Cercherò di venire a Toronto più spesso. Non solo nel fine settimana.»
«E se tornassimo noi?» azzardò e vide il suo migliore amico voltarsi di scatto. Non avrebbe potuto giurarci, perché Brian era un maestro nel nascondere le emozioni, ma per un misero istante, le era parso di veder accendersi una luce di speranza in quegli occhi scuri. «Se tornassimo a vivere qui...»
«Tuo marito che ne pensa?» domandò in risposta, con tono piatto, sforzandosi di trattenere la gioia che gli era divampata dentro nel momento in cui aveva sentito anche solo accennare a quella possibilità.
«Non ne abbiamo mai parlato bene, ma so che anche lei si è accorta di come sta reagendo Gus e si sente in colpa quanto me.» sospirò e sorrise appena. «Suppongo poi che le tue parole le brucino ancora.»
Brian sollevò le sopracciglia. «Non potevate certo aspettarvi che reagissi con gioia nel sapere che mio figlio si sarebbe trasferito in un altro paese.»
Linz gli si avvicinò e lo baciò sulla guancia. «Devi amarlo proprio tanto, eh?» si lasciò abbracciare e appoggiò la testa sulla spalla di lui. «Attento Brian, di questo passo verrai nominato anche padre dell'anno.»
«Pensavo di esserlo già.» replicò ridendo, e lei gli stampò un bacio sulle labbra.
«Va tutto bene?» ebbe il coraggio di chiedergli.
«Perché questa domanda?» replicò, sciogliendo l'abbraccio. Quando qualcuno – a prescindere da chi fosse – faceva il minimo riferimento all'argomento “Justin”, sentiva l'impellente bisogno di doversi allontanare da tutti.
«Be
, hai promesso a tuo figlio un pomeriggio con Justin.»
«Rettifica.» Brian sorrise sprezzante. «Se ben ricordo,
tu hai promesso a mio figlio un pomeriggio con Justin.» la fissò in silenzio per qualche istante e prese un sorso di birra. «Comunque sia, non cè alcun problema.»
«Sei spaventato?» gli chiese e lui roteò gli occhi scocciato, emettendo un mugugno di fastidio.
«Da cosa?»
«Dal fatto che lui sia qui.»
«Perché dovrei?!» esclamò, con un
espressione stranita.
Linz arricciò le labbra e rispose, con un tono di ovvietà. «Per come sono andate le cose, e perché lo ami.»
«Chi ti dice che lo amo ancora?» replicò saccente. «Perché tutti lo date per scontato?»
«Perché è così, anche se ti ostini a non volerlo ammettere, ami Justin più di qualsiasi altra cosa.» gli si fece nuovamente vicina e lo costrinse a guardarla negli occhi. «Non l
avresti lasciato libero, se non lo amassi così tanto.»
«Stiamo parlando di un anno e mezzo fa. Chi ti dice che non siano cambiate le cose?»
«Il fatto, ad esempio, che sai esattamente quanto tempo è passato da quando se n
è andato...» ammiccò, picchiettando con lindice sul suo petto. «...quando non ricordi neanche il compleanno di tua madre.»
«Non vedo perché dovrei ricordarmelo.» ribatté prontamente, tentando invano di metterla a tacere.
«Oppure da come lo guardavi quando vi siete incontrati. Ti sei pietrificato.» continuò lei, ignorando e mandando in fumo i suoi tentativi di fuga.
«Ero solo sorpreso nel vederlo lì.» scrollò le spalle e inarcò le sopracciglia. «Niente di più.»
«Bugiardo.» lo canzonò Linz. «Comunque sia, libero di continuare a negare la realtà dei fatti a tutti noi, ma non farlo con lui. Digli che lo ami ancora.»
Brian restò in silenzio per un attimo, a sostenere lo sguardo di lei, per poi sospirare e guardare oltre la finestra. «Perché dovrei farlo?» borbottò e si sentì immediatamente avvolgere da un abbraccio.
«Perché ne ha bisogno. Ne ha bisogno lui di sentirlo, quanto tu hai bisogno di toglierti questo peso dallo stomaco.»
L
uomo però non rispose, si limitò a inspirare profondamente e a trattenere laria dentro di sé per qualche secondo, prima di espirare, come se in quel modo potesse gettar fuori ogni preoccupazione. Si allontanò di un poco da Linz e le sfiorò le labbra con le sue, prima di prendere a osservarla intensamente. «Parla con Mel.» mormorò poi. «Tornate a casa.»



*'*'*



«Il bluastro cadavere non ti dona molto tesoro, quindi che ne dici di riprendere a respirare prima di morire per asfissia?» esordì ironico Jace, tra i risolini di Daphne, picchiettando sulla sua spalla.
Justin gli rivolse un
occhiata scocciata e fece una smorfia. «Devo ridere?»
«Non era una battuta. Non scherzo quando dico che non hai una bella cera.» sollevò un lato del labbro e lo scrutò attentamente. «Mia nonna aveva il tuo stesso colorito quando ha tirato il calzino. Santa Lilian, che Dio l'abbia in gloria! Aveva dei foulard di seta favolosi.»
«Grazie, Jace.» commentò l'altro acido. «Ora sì che mi sento meglio. Tu sì che sai come tirare su il morale delle persone!»
«Coraggio Justin! Smettila di fare la checca melodrammatica!» gli disse Daphne, punzecchiandolo sulla spalla.
«Ricordatemi di non portarvi mai più in giro insieme.» replicò, passando gli occhi blu tra i suoi amici. «Piuttosto pranzo a cianuro e cicuta!»
«Che ti dicevo, Daphne?» Jace incrociò le braccia e prese a scrutare l
artista con fare esperto. «Questa è la tipica RDCS
«La che?» domandarono gli altri due all
unisono.
«Reazione da chiappa stretta.» puntualizzò annuendo. «In poche parole ti stai cagando addosso e stringi le chiappe per evitarlo, il che ha come conseguenza sudorazione e sbiancamento della faccia. Il fatto che poi trattieni il fiato, contribuisce a donarti quella tonalità bluastra tipica di un cadavere.»
«Grazie per la diagnosi, Doctor House.» gli rivolse un sorriso tirato e si scostò un ciuffo biondo dalla faccia con fare nervoso. «Pensi di aver finito?»
«Avanti Taylor, rilassati! Non devi mica tenere un discorso per il Golden Globe!»
«No, infatti. Forse sarei meno agitato.» deglutì forzatamente e si stropicciò le mani sudate. «Che ore sono?» chiese poi rivolto a Daphne e la vide roteare gli occhi scuri, prima di ammiccare verso Jace.
«Neanche cinque minuti in più di prima.» replicò saccente. «Justin, datti una calmata. È solo Brian!»
«È proprio il significato di quel solo che stona nella frase.» rettificò lui, sempre più nervoso. Erano arrivati da poco più di cinque minuti al Diner, dopo che Linz l
aveva chiamato per concordare l'appuntamento, e già non ne poteva più di aspettare. I secondi parevano ore. «È proprio perché è lui che mi sento così. Lhai visto come ha reagito quando mi ha visto?»
«Sì, era nervoso e sorpreso esattamente quanto te.»
«Era scocciato, quasi infastidito.»
«Dio, Justin. Possibile che dopo tutti questi anni ancora non hai imparato a decifrare le espressioni di Brian?» gli si fece più vicina e gli sorrise. «Credimi quando ti dico che devi stare tranquillo e che non ti ha dimenticato. Tu non c
eri a Pittsburgh, ma io sì...e so quello che ho visto! Devi solo dargli il tempo di digerire lidea. Non è facile per lui.»
«Non è facile per lui.» ripeté sarcastico. «E a me e ai miei nervi chi ci pensa?»
«Valium e Prozac?» propose Jace, ma dall
occhiata che ricevette capì che non era una buona idea. «Comunque sia, fossi in te comincerei ad asciugarmi quelle mani umidicce e mi darei una sistemata.»
«Perché?» domandò Justin incuriosito.
«Quante Corvette verde bottiglia con la cappotta bianca ci sono a Pittsbugh?»
«Suppongo una. Quella di Brian.»
«Perfetto, allora ti comunico che Brian è appena arrivato.» sorrise furbescamente e fece schioccare la lingua. «Ha appena parcheggiato.»
Se gli avessero tirato un macigno sullo stomaco, probabilmente sarebbe stato molto meglio. Il vuoto che aveva sentito improvvisamente scavargli dentro, non era niente paragonato a quello che aveva provato quando l
aveva rivisto dopo più di un anno.
Era certo che sarebbe svenuto da un momento all
altro, se solo non avesse costretto il suo cuore a regolare i battiti e i suoi polmoni a riaccogliere laria e funzionare correttamente; ed era altrettanto certo di non essere mai stato tanto spaventato in vita sua.
In fondo si trattava di un semplice pomeriggio in compagnia di Gus, e vista la presenza del bambino, forse non avrebbero potuto neanche parlare liberamente. Eppure il solo pensiero di dover trascorrere anche solo qualche minuto con lui, lontano dagli occhi indiscreti di quei pettegoli – perché per quanto gli volesse bene, era quello che erano – dei suoi amici, lo mandava letteralmente in tilt. «Ok, adesso sono davvero agitato.»
«Respira Jus. Respira.» gli prese le mani e le strinse appena. «Respira e inspira. Respira e poi inspira.»
«Jace, non devo partorire!»
«Dalla faccia che ti ritrovi sarei quasi disposto a scommettere il contrario.»
«Sempre più incoraggiante.» sibilò minaccioso.
«Datti un contegno, sorgi e splendi raggio di sole. Il tuo principe è arrivato.» e a conferma delle sue parole, il trillo del campanellino si disperse nell
aria, seguito dal quello della porta che si apriva e si richiudeva.
«Justin!» si sentì chiamare da una vocina cristallina e portando lo sguardo verso quella direzione, vide quel piccolo e bellissimo uragano che rispondeva al nome di Gus, corrergli incontro.
Seppur con un sorriso lievemente tirato per l
agitazione, Justin riuscì ad alzarsi e accogliere il bambino, sollevandolo per abbracciarlo. Lo fece sistemare con le gambe ben salde al suo fianco, così come erano sempre stati abituati a fare e lo riempì di baci sulla fronte e sulle guance morbide. «Ciao Gus! Sei sempre più bello e grande.»
Il bambino sorrise e si voltò un poco verso il padre che era rimasto in disparte a godersi la scena con una punta di malinconia. «Hai visto papà? Justin è venuto davvero!»
Brian sollevò appena uno degli angoli della bocca. «Ho visto.» annuì e si strinse nelle spalle. «Allora...andiamo?»
Justin restò a fissarlo in silenzio ancora per qualche istante.
A occhi esterni, Brian poteva apparire come la persona più tranquilla del mondo, ma dalla linea della mascella squadrata leggermente indurita, dal modo in cui teneva inarcate le sopracciglia e da come i suoi occhi si muovevano, riuscì a capire quanto in realtà fosse nervoso; forse anche più di lui e altro non gli restava che comprenderne il perché.
Non era pronto a giurare che fosse per amore, specie dopo aver visto quel Brandon uscire dal suo palazzo, ma non poteva neanche rimandare ancora per molto. Doveva sapere la verità e se solo le sue paure si fossero avverate, avrebbe “semplicemente” dovuto imparare a sopravvivere senza avere più un cuore.
Si voltò per fare un cenno si saluto a Jace e Daphne e fece qualche passo incerto verso Brian. Riposò il bambino a terra e accolse con un sorriso quella manina piccola e morbida nella sua, quanto Gus gliela porse silenziosamente, concedendo l
altra a suo padre.
Justin lanciò un
occhiata imbarazzata a Brian, ma vedendo gli occhioni brillanti di speranza del bambino, non riuscì a trattenersi dal sorridere apertamente: «Andiamo.»

“Special needs” - Placebo

Nonostante il vento continuasse a sferzare la faccia di entrambi, il sole splendente riusciva comunque a scaldarli.
Continuando a tenere Gus per mano, Brian e Justin passeggiavano fingendo disinvoltura e tentando di distrarsi e allontanarsi dai pensieri che si arrovellavano e avvicendavano nella testa di entrambi, insieme alle preoccupazioni, ascoltando le storie che il bambino si premurava di raccontare con entusiasmo sulla sua vita a Toronto: «Papà, lo sai che la maestra ha detto alla mamma che sono bravissimo e faccio i conti come i bambini più grandi?»
«Lo so, lo so.» gli sorrise lui. «E sono fiero di te.»
«E poi ci hanno portato al museo e ho visto un sacco di cose. E ho fatto tanti disegni, sai?» si voltò verso Justin e saltellò sorretto dalle mani dei due adulti. «Justin, quando vieni a Toronto te li faccio vedere!»
«Non vedo l
ora. Diventerai sicuramente unartista migliore di me.»
«E poi allora anch
io sarò come te e papà? E andremo nei posti tutti e tre insieme?»
«Ah...sì.» balbettò incerto. «Sarai sicuramente bravo come tuo padre.»
«Anche meglio.» continuò Brian, incoraggiandolo.
«E avrò una macchina bella bella, come quella di papà e un castello con i cavalli!»
«Io non ho i cavalli. Solo le scuderie.» rise l
uomo, accarezzando la testa con la mano libera, senza accorgersi di come Justin lo stava fissando stupito dopo le parole del bambino.
C
era solo un castello a cui Gus poteva riferirsi. «Britin...» mormorò allora, facendo sì che quegli occhi verdi si posassero a incontrare i suoi blu. «Non...non lhai venduta?»
Brian scrollò le spalle. «Mi avanzavano abbastanza soldi per poterla tenere senza problemi.»
Justin annuì, come per fargli intendere che aveva compreso e arricciò le labbra. «Ma...non ci vai mai? Cioè, vivi ancora al loft?» si sforzò di chiedergli, lasciando che nel suo cuore nascesse la speranza che Brian si fosse trasferito a Britin, così da potersi augurare che Brandon non fosse in quel palazzo per lui. La gelosia lo stava letteralmente divorando senza pietà.
«No. Vivo ancora al loft.» replicò invece e a Justin parve di sentire il suo cuore tremare. «Non ho toccato niente là. È rimasto tutto come quando l
ho comprata.»
«Capisco.» borbottò, abbassando lo sguardo deluso senza più proferire parola, limitandosi ad ascoltare i racconti del bambino e a sorridergli di tanto in tanto finché non raggiunsero il parco, dove Gus, dopo aver chiesto il permesso al padre, corse a giocare in compagnia di altri bambini, eliminando l
unica flebile barriera che ancora lo teneva lontano dal confronto diretto con Brian.
Si sedettero su una panchina di legno, entrambi con le labbra serrate dal nervosismo e tennero gli occhi puntati sul bambino, fino a quando non fu proprio Brian a rompere il ghiaccio: «Allora, Taylor. Come procede a New York?»
Justin gli lanciò un
occhiata furtiva e si protese in avanti, appoggiando gli avambracci sulla cosce e unendo le mani per torturarsele. «Abbastanza bene. Vorrei solo avere più tempo per me.»
«Il prezzo della fama.»
«Sì, suppongo sia così.» mormorò, fissando un punto a caso davanti a sé. «Forse però ci sono riuscito a ritagliarmi un po di tempo libero.»
«Deb ti ha minacciato di morte?» commentò sarcastico, prima di tirar fuori dalla tasca del cappotto elegante il pacchetto di sigarette per prenderne una e offrirne una seconda a Justin.
«Una cosa del genere.» replicò, afferrando il filtro con due dita e portandoselo alle labbra. «Ma è stato il mio agente ad accorgersi finalmente che ero in procinto di una crisi di nervi. Debbie ha solo contribuito con le sue telefonate per farmi sentire in colpa.»
«Avresti dovuto chiamarla più spesso.» accese la sua sigaretta con lo zippo e lo passò all
altro, fingendo una tranquillità che in realtà non gli apparteneva affatto. Dentro di sé sentiva ribollire la frustrante sensazione di avere al suo fianco la persona che amava, unita al bisogno martellante di baciarlo, che si scontrava con la paura di lasciarsi andare. Era una vera esplosione di sentimenti contrastanti e coincidenti; e non aveva la più pallida idea di come gestirla. «Anche tua madre, Daphne e tua sorella erano piuttosto arrabbiate.»
«Lo so, mi hanno fatto una bella lavata di capo.» si sforzò di sorridere e prese una profonda boccata di fumo, cercando di nascondere i fremiti che lo attraversavano continuamente. «Avrei voluto chiamarle, ma ero sempre di corsa tra una mostra e laltra e...» si mordicchiò le labbra e si sistemò una ciocca di capelli biondi dietro l'orecchio. «...non era così facile.»
«Lo so.» replicò Brian semplicemente; e lo sapeva davvero. Sapeva benissimo cosa significava passare minuti a fissare il telefono, tra la speranza di sentirlo squillare e vederci il nome di Justin impresso sul display, e la voglia di comporlo di propria intenzione quello stesso numero per poter sentire anche solo per un
istante quella voce che gli mancava da morire. Non era stato facile desistere dal chiamare, ma allo stesso tempo era stato ancora più difficile trovare il coraggio di farlo.
«Alla Kinnetik?» chiese, per non lasciar cadere nel vuoto la conversazione.
«Tutto nella norma. Siamo sempre i migliori.»
«Sì, lo immaginavo.» sorrise e l
osservò con la coda dellocchio. «Anche al Babylon sembra che gli affari vadano bene.»
«E tu che ne sai?» domandò sorpreso, con la fronte aggrottata, finché non gli balenarono le parole di Michael nella testa. «Mickey caveva visto giusto allora...»
«Eh già.»
Brian continuò a fissarlo in silenzio, per poi sospirare e costringersi a tirar fuori quelle parole che gli si erano incagliate nella gola fin dal primo momento in cui i suoi occhi avevano incrociato quelli dell
altro. «Per quanto ti fermerai?»
«Ancora non lo so.» ribatté, un po
confuso da quella inaspettata domanda. «Gary, il mio agente, ha detto che proverà a lasciarmi libero almeno fino a Natale.»
«È un bel po di tempo.» mormorò, mentre uno squarcio andava ad aprirglisi improvvisamente nel petto; uno squarcio liberatorio, da cui poté lasciar uscire il suo dolore e le sue paure, per rilassarsi almeno un po
dopo più di un anno passato a torturarsi nel ricordo di qualcosa che temeva di non poter più riafferrare. Un mese. Trenta giorni in cui poter ancora respirare e godere ancora della sua presenza. Aveva paura perfino a crederci.
«Poco meno di un mese, ma mi ha detto di non potermelo garantire. Potrei dover tornare a New York da un momento allaltro.»
«Da come lo dici, sembra quasi una chiamata alle armi.» cercò di suonare ironico, ma quel suo “potrei dover tornare a New York da un momento all'altro”, era stata un
inevitabile pugnalata.
New York. Comincio seriamente ad odiarla quella cazzo di città.
«Non è poi così diverso da una guerra.» sorrise Justin e si sciolse un po
, tornando a respirare regolarmente. «Ancora non ho capito se tutto questo fa per me.»
«Era il tuo sogno.» commentò Brian, posando per la prima volta il suo sguardo sull
altro.
«Le cose non sono sempre come le immagini.» replicò con una scrollata di spalle e vide l
uomo increspare le labbra in un sorriso appena accennato, che pareva avere una punta di amarezza dentro.
«No, non lo sono.» convenne, arricciando la bocca, per poi ridistenderla e percorrerla interamente con la punta della lingua. «Non lo sono quasi mai.»
Justin si perse nei suoi pensieri, mentre con lo sguardo percorreva ogni millimetro dello splendido volto che gli si mostrava davanti. Ancora non riusciva realmente a credere di esser riuscito a incontrarlo ancora; di aver sentito ancora quella voce profonda che era stata capace di fargli provare ogni sorta di emozione.
Guardò a quelle labbra piene, ricordando il momento in cui avevano pronunciato quelle due parole che aveva agognato per cinque lunghi anni. Lo poteva sentire distintamente il loro suono perfetto rimbombare nella sua testa come una cantilena da cui prescindeva la sua felicità.
Ti amo. Ti amo.
Erano ancora lì. Perfettamente intatte come se le avesse appena pronunciate e ancora costringevano il suo cuore a una corsa a rotta di collo, fino allo stremo.
Non riusciva neanche a immaginare cosa avrebbe detto, dato o fatto per sentirgliele ripronunciare anche una sola volta, ed era inutile dire che, il solo pensiero che potesse rivolgerle a qualcun altro, o che qualcun altro si fosse appropriato di quel posto che una volta era suo e che mai avrebbe voluto abbandonare, lo spaccava a metà e lo svuotava completamente.
Non ci volle molto perché quei pensieri si collegassero automaticamente alla notte precedente e alla scena che aveva visto e che l
aveva spinto a decidere di tornare immediatamente a New York; e ci volle ancora meno – che quasi non se ne accorse – perché le sue labbra si muovessero per pronunciare una frase: «Stai con Brandon adesso?»
Brian si voltò interdetto e insicuro su ciò che aveva sentito. «Come?»
«Hai capito.» deglutì e strinse i pugni. «È il tuo compagno, il tuo amante o la tua nuova scopata abitudinaria?»
L
altro non rispose immediatamente. Lo fisso sorpreso, prima di sollevare una delle sopracciglia e lasciarsi sfuggire una risata. «Di che cazzo stai parlando?»
«Rispondi.» pronunciò quasi con rabbia, per poi costringersi alla calma, chiudendo gli occhi per un
istante. «Rispondimi. Per favore.»
«No.» replicò e non gli sfuggì il guizzo di sollievo che andò a illuminare quelle iridi blu chiaro. «Non è la mia scopata abitudinaria, non è il mio amante e...» rise ancora e concluse, decisamente incredulo e divertito. «Cazzo no, non è neanche il mio fottuto compagno. Da dove ti spuntano queste idee, raggio di sole? Non starai esagerando con qualche droga come ogni artista che si rispetti?»
«No, no.» si affrettò a rispondere e non poté non muovere le labbra in uno dei suoi sorrisi luminosi e perfetti, dopo aver sentito quel buffo soprannome pronunciato proprio da lui. Gli era mancato così tanto sentirlo. «È solo che vi ho visti insieme.»
«Io vado al Babylon, lui anche.» scrollò le spalle e aggiunse: «Capita di trovarsi lì.»
«L
ho visto uscire dal tuo palazzo. Ieri notte.»
«Che fai? Mi spii adesso?» rise, dopo averlo squadrato con la fronte aggrottata. «Pensavo ti fosse passata da un po
la fase di stalker adolescenziale
«Avevo solo bisogno di parlarti.» ammise sincero, quasi vergognandosene. «Ma quando l
ho visto, ho abbandonato i miei propositi. Ho pensato davvero che ci fosse qualcosa tra voi.»
«Capisco.» borbottò Brian, annuendo con la testa. «E...cosa volevi dirmi?» chiese, fingendo di non essere troppo interessato, quando in realtà stava scalpitando per saperne di più.
Justin deglutì a fatica e tornò a fissare il selciato, incapace di rispondere.
Avrebbe voluto semplicemente urlare che lo amava ancora e che aveva un disperato bisogno di lui. Che gli era mancato, che non voleva più fare a meno della sua presenza. Avrebbe voluto gettarglisi al collo e baciarlo; respirare il suo odore e stringerlo forte per piangere sul suo petto e sfogare tutta la rabbia e la tristezza per non averlo avuto accanto in tutto quel tempo. Avrebbe voluto fare e dire tante cose, ma come al solito, scelse una sola e chiara frase per riassumere tutto: «Che sei ancora l
unico che voglio.»
Brian nascose dietro un lieve sorriso la sorda esplosione che era gli avvenuta esattamente al centro del petto, quando con estrema semplicità aveva sentito le parole che ogni giorno aveva sperato di udire. L
aveva desiderato così tanto da non crederci quasi più, e invece Justin era lì, davanti a lui che lo guardava con occhi speranzosi e un sorriso timido, opacizzato dalla preoccupazione per la sua reazione. Aveva pregato ogni santo secondo della sua vita perché quel momento arrivasse e finalmente era stato esaudito. «E tu sei ancora il solito patetico ragazzino romantico.»
«Per fortuna certe cose non cambiano mai.» rispose Justin spavaldo, conscio che il sorriso dell
altro e quella sua frase sarcasticamente acida stavano solo a dimostrargli quanto in realtà era felice.
Restarono a fissarsi. Entrambi con un sorrisetto impertinente, quasi di sfida, a increspargli le labbra; e quelle stesse labbra avrebbero voluto unirle in quel preciso istante, per staccarle solo quando non avessero avuto più fiato, se solo il cellulare di Justin non gli avesse strappati e riscossi da quel momento perfetto che erano riusciti faticosamente a creare. «Scusa.» borbottò l'artista e rispose dopo aver sbuffato. «Ciao Gary. Dimmi.»
«Ehi, è morto qualcuno?» rispose l
altro interdetto.
«No, no. Tutto ok. Dimmi.»
«Dal modo telegrafico in cui mi stai rispondendo devo forse dedurre di aver scelto un momento sbagliato?»
Justin lanciò un
occhiata furtiva a Brian e lo vide visibilmente scocciato. «Non preoccuparti. Hai qualche novità?»
«Effettivamente sì. Sembra ci sia qualche riscontro positivo anche per allestire qualche altra tua mostra in Canada, a Ottawa.»
«Ah, fantastico.» commentò atono e privo di entusiasmo.
«Immagino. Dalla voce con cui l
hai detto. Comunque sia, per adesso non dovrebbe essere prevista la tua presenza, quindi la tua vacanza non è rovinata.»
«Ok.» sorrise e riprese a respirare. Aveva trattenuto il fiato temendo di sentirsi dire di dover già rientrare. L
avrebbe ucciso, se solo ci avesse provato. «Questo sì che è davvero fantastico.»
«Molto divertente, Taylor. Arriverà il giorno in cui prenderai sul serio tutte queste persone che ti venerano come un dio?»
«Nah, non credo.» rise e osservò con la coda dell
occhio luomo sedutogli accanto, trovandolo anche più infastidito di prima, a braccia conserte mentre passava lo sguardo in ogni dove e in modo frenetico. «Ti devo lasciare adesso. Ci sentiamo presto, ok?»
«Ok. Ma ricordati i tuoi impegni.»
«Lo farò. Stai tranquillo.» cercò di rassicurarlo e dopo aver attaccato tornò a rivolgersi a Brian. «Scusami. Notizie da New York.»
«Buone o cattive?» si sforzò di chiedergli, anche se non aveva nessuna voglia di sentir parlare di quella città.
«Buone, credo. Il mio agente ha parlato di una personale a Ottawa, o qualcosa del genere.» farfugliò, e quando vide lo sguardo lievemente allarmato di Brian posarsi su di lui, si affrettò a rispondere: «Ma non devo andare. Posso restare qua.»
«Ok.» mormorò semplicemente, mentre dentro di sé aveva sentito distintamente la paura assalirlo ancora. Non poteva vivere così; non poteva vivere con il costante terrore di vederselo portare via in ogni fottutissimo momento. Non riusciva a pensare di poter andare avanti con il timore di poter essere abbandonato ogni volta che provava a concedersi di essere felice con la persona di cui era innamorato. Era meglio troncare la cosa sul nascere...farsi del male subito, quando la ferita che ne sarebbe conseguita, forse non lo avrebbe squarciato del tutto. Forse era ancora in tempo a riabituarsi al malinconico limbo in cui si era rifugiato e rinchiuso quando Justin se n
era andato. Poteva ancora tornare a fingere di vivere e arrancare facendo a meno di lui? «Già, ma adesso appartieni a New York.» si sforzò di dire, anche se ogni parola gli bruciava la gola. «Il tuo posto è là, a conquistare il mondo.» deglutì a fatica, senza avere il coraggio di guardare in faccia il ragazzo al suo fianco e richiamò suo figlio: «Gus andiamo, papà deve controllare un paio di cose alla Kinnetik.»
«Di già?» borbottò il bambino.
«Sì campione, ma ci vediamo più tardi.» gli sorrise appena e fece per alzarsi e andarsene.
«Aspetta.» lo fermò Justin, senza nascondere la delusione nella sua voce. «Che...che significa?»
«Significa che tu hai la tua vita a New York e che io ho la mia qua.»
«Lo so che hai la tua vita qua, ma non vuol dire che...»
«Justin.» lo interruppe, cercando di apparire freddo. «Devo andare. Ci si vede.»
Non avrebbe voluto arrendersi così, né lasciarlo andare...ma lo sguardo freddo che gli aveva rivolto, lo aveva semplicemente lasciato senza forze.
Se c
era una cosa che aveva imparato negli ormai quasi ventiquattro anni della sua vita, è che spesso non si può tornare indietro dopo aver fatto una scelta; che le cose che ti lasci alle spalle non restano immutate ad aspettare un tuo eventuale ritorno, ma vanno avanti, esattamente come tutto il resto.
Non c'è niente di dovuto, né di garantito. Di quello che lasci, resta certo solo il ricordo...e osservando Brian allontanarsi per la mano con suo figlio, capì che probabilmente, non avrebbe ricevuto altro da lui. 


*** 

Note Finali: 
Ok...penso di poter scappare velocemente dal lancio dei pomodori marci! XD 
Forse questo Brian mi sta uscendo anche più ottuso di quanto non sia già...ma prometto di farlo rinsavire al più presto, anche perché, mica posso far impazzire solo i cari "Britin"... è ovvio che io debba riservare qualche sorpresa anche per gli altri! XD 
Scommetto che ci sarà qualcuno che detesterà Brandon anche più di prima, io invece - non chiedetemi perché - mi sto divertendo a scrivere di lui...non ha molto senso, ma mi fa ridere l'idea di veder Brian e "riccioli d'oro" confrontarsi ancora. XD Insomma, tanto per intendersi, per quel che mi riguarda, il caro Brandon non si guadagna lo scettro di "essere più odioso del telefilm"! 
Diciamo che nella mia testolina, Michael e Blake si contendono il secondo posto, mentre al primo...be', al primo non poteva esserci che lui: Ethan Gold
Mi sta talmente sulle balls, che non so neanche se riuscirò a scrivere di lui senza renderlo un perfetto cretino! Quindi è probabile che forse eviterò la sua presenza...o forse no, la utilizzerò per sfogarmi - tipo pungiball telematico - ma una cosa è certa...se mai dovesse esserci,
aspettatevi un Brian Kinney in versione Mike Tyson perché, QUI LO GIURO, se mai quel "cespuglio col violino" dovesse entrare a far parte dell'allegra combriccola di questa sesta serie, riceverà quel tanto desiderato pugno in faccia che ho agognato per tutto il telefilm
C'ho sperato fino alla fine che, oltre che per Michael, ne riservasse uno anche per Ethan...ma nulla, speranze vane... :( e va be'! Ci penserò io, se mai dovesse spuntare la sua chioma ricciolosa e unticcia. 
Ma sorvolando ed evitando di divagare ancora con i miei sproloqui senza senso, so di aver scritto un altro capitolo prettamente "Britin", ma vi prego di avere pazienza, e presto torneranno anche gli altri personaggi - adorati e non - con tutti i loro problemi da affrontare... XD 
Spero comunque vi sia piaciuto anche questo capitolo, nonostante i pomodori che vorrete lanciarmi per il finale! 
Vi comunico che il prossimo capitolo dovrebbe essere previsto per venerdì 5 Agosto [non Luglio come avevo scritto prima XD scusate, sono fusa], dopo di che passerà qualche giorno in più per la pubblicazione, dato che - finalmente - parto per la Grecia! :) 
Ok, direi che posso passare alla cosa più importante: Ringraziamenti
Un grazie a tutti coloro che hanno letto, a chi ha messo la storia tra le seguite, le ricordate o le preferite, ma soprattutto a: 
electra23Katie88Katniss88ThiliolOferliaCuorDiGhiacciosusyjamesmindyxxHel Warlockoo00carlie00ooFREDDY335giacaleasterix_cClara_88 e EmmaAlicia79 per aver recensito l'ultimo capitoloGRAZIE DAVVERO. 

Un bacio e a presto. 
Veronica.


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Capitolo 7
*** I still love you, afterall. ***


7.I still love you, afterall.

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6x07] – I still love you, afterall. 
[capitolo betato da Trappy]



Con qualche “piccola” difficoltà e laiuto di un divertito passante, riuscì a parcheggiare la sua adorata spider in modo più o meno decente e scese facendo attenzione a non sbattere e sciupare il rosso acceso della vernice.
Se solo Brian l
avesse vista, non avrebbe esitato a prenderla in giro e ricoprirla di quei luoghi comuni sulle donne incapaci di guidare che tanto lo divertivano; specie quando si trattava di infierire su di lei.
Era per questo che ogni volta parcheggiava abbastanza lontano dalla Kinnetik e sopportava almeno cento metri di strada sui suoi tacchi vertiginosi e rigorosamente firmati, per raggiungere il suo posto di lavoro. Non voleva certo dare a quel sadico del suo capo un altro motivo per punzecchiarla apertamente durante ogni loro incontro!
Sbuffò contrariata e si affrettò a percorrere la strada illuminata dai lampioni, ticchettando sull
asfalto con i suoi adorati e nuovissimi decollété in vernice nera, ammirandoli attraverso il riflesso delle vetrine, finché non raggiunse la sede della Kinnetik e aprì con le sue chiavi, entrando in quel posto minimalista e di classe, che rispecchiava perfettamente il suo elegante proprietario.
In quei giorni l
azienda era chiusa per via delle vacanze, e le fece un po effetto percorrere i pochi corridoi solitamente pieni di persone che scattavano da una parte allaltra – soprattutto nellultimo periodo, da quando Brian era diventato un tuttuno con quellaura nera e rabbiosa che aveva iniziato a circondarlo da quando il suo raggio di sole aveva preso il volo per New York – in quel momento vuoti e silenziosi; immersi in una penombra che gli donava quel non sapeva cosa di surreale.
Un po
titubante, per via del suo essere sempre così suggestionabile – e forse anche per colpa dei thriller che guardava continuamente sul divano di casa sua, munita di cucchiaio e vaschetta di gelato, come la più triste delle single trentenni della sua città – zampettò fino alla sua scrivania per riprendere il palmare che aveva dimenticato il giorno prima, finché non udì leco di alcuni passi provenire proprio dallufficio di Brian.
Scosse la testa, convinta si trattasse di un
altra sua stupida paranoia, quando udì distintamente il rumore di un cassetto sbattuto. Deglutì a forza e spaventata, afferrò la lampada della scrivania, staccandone la spina, e si preparò a contattare la polizia. Abbandonò le sue adorate scarpe, lanciando loro un bacio e avanzò furtiva fino alla soglia. Sollevò la lampada, pronta a colpire e fece capolino per sbirciare oltre langolo, quando una voce la sorprese alle spalle: «Che cazzo stai facendo?»
Balzò per lo spavento e con il cuore a mille si affrettò a voltarsi e a lanciare la lampada senza neanche guardare il suo interlocutore. Solo grazie alla sua solita sfacciata fortuna e i riflessi pronti, Brian riuscì a schivarla. «Oh Santo Dio!» esclamò lei, resasi conto che chi aveva appena tentato di ammazzare, non era un ladro ma il suo capo. «Che cazzo ci fai tu qui?!»
Brian la fissò stranito e contrariato, prima di superarla e raggiungere la sua costosa poltrona. «Uhm...questa è la mia agenzia, questa è la mia scrivania e questi sono i file della Brown Athletics.» piegò le labbra all
interno della bocca e sbatté le ciglia, per poi concludere con sarcasmo: «Lavoro. Tu che dici?»
«Lavori?» storse le labbra lei. «Il giorno prima del Ringraziamento, tu lavori?»
«Che ci vuoi fare. Sono un capo diligente che vuole avere perfettamente sotto controllo l
andamento della sua proficua azienda.» lasciò ricadere i fogli sulla scrivania e si appoggiò allo schienale, con le mani incrociate sulle gambe accavallate. «Tu piuttosto che cazzo ci fai qui?»
«Ero tornata a prendere questo.» disse e agitò il palmare che ancora teneva ben stretto tra le mani. «L
ho dimenticato ieri.»
Brian annuì e girò la poltrona per avvicinarsi alla scrivania. Poggiò gli avambracci sul bordo e si apprestò a leggere i documenti, quando si accorse che la sua assistente non aveva mosso un passo. Sollevò gli occhi scocciato e stirò le labbra in un sorriso infastidito. «Che cazzo c
è ancora?»
Cynthia scrollò le spalle e sospirò con le labbra arricciate e un
espressione pensosa. Si sedette su un lato della scrivania, ignorando le occhiate contrariate di lui e sorrise. «Allora capo...quale frustrante e insormontabile problema si sta arrovellando nella tua testolina gay?»
«Credo di non aver capito bene...» sibilò, con le sopracciglia inarcate.
«Lo fai sempre
«Agatha Christie, che ne dici di farla finita col mistero e venire al sodo?» piegò la testa di lato e la squadrò con la sua solita espressione sprezzante. «Come vedi sarei un tantino impegnato e vorrei dedicare il minor tempo possibile alle tue stronzate.»
«Vedi, ho ragione.»
«Ma cosa?!»
«Diventi irritabile.» rispose con ovvietà, prima di correggersi. «Cioè...più irritabile del solito, e lavori come un pazzo quando c
è qualcosa che non va.»
«E quindi?» domandò, allargando le braccia e gettando la penna sui fogli.
«Quindi, cosa turba il mio adorato, brillante e meraviglioso capo?»
Brian sorrise, per poi sbuffare con ironia. «Se stai cercando di ottenere un aumento puoi scordartelo.»
«No, ma se vuoi darmelo non rifiuterò.» replicò immediatamente lei. Lavorava da così tanto tempo con lui che ormai sapeva dove andare a parare e come tenergli testa. D
altronde, era proprio per questo suo modo spiccio di essere che Brian si fidava di lei e laveva sempre voluta al suo fianco. «Allora, vuoi dirmi o no cosa ti turba?»
«Niente, Cynthia.» sospirò esasperato. «Adesso potresti farmi il grosso favore di togliere il tuo culo dalla mia scrivania e andare a goderti le tue cazzo di ferie come ogni stramaledetto dipendente di questo posto?»
«Che razzista. Solo perché il mio è il culo di una donna.» si finse offesa e lo vide ridacchiare sinceramente. «Se fosse stato di un uomo non l
avresti schifato così...o forse gli avresti chiesto di posarsi altrove
Lui spinse la lingua contro la guancia e la fissò con il suo classico sguardo furbo e profondo, mentre sul suo viso si disegnava un
espressione divertita. Anche se non lavrebbe mai ammesso, Cynthia sapeva benissimo quanto lui adorasse i loro battibecchi. Esattamente come li amava lei. «Stai cercando di prendermi per esasperazione?»
«Di solito funziona.» ribatté, con una scrollata di spalle.
«Buone vacanze, Cynthia. E non strafogarti di tacchino o non ti entrerà più neanche un tailleur.»
«
Fanculo, Brian.» lo apostrofò, sporgendosi per colpirlo sulla spalla. «Daccordo. Tu non parli, allora lo farò io.» restò a fissarlo per un attimo e si decise a pronunciare quel nome, pronta a subirne anche le peggiori conseguenze. «È per Justin, vero?»
«Esattamente, che ti dice il cervello per farti credere una stronzata simile?»
«Non è il mio cervello che me lo fa credere. È Ted che mi ha detto che è tornato a Pittsburgh.»
Brian assottigliò lo sguardo in un modo decisamente poco amichevole. «Io lo licenzio.»
«Lo dici sempre ma non lo fai mai.»
«Bene, questa volta lo faccio sul serio e licenzio anche te se non evapori immediatamente fuori di qui.»
«Abbaia quanto vuoi, capo. Non riusciresti mai a fare a meno di me e Ted.»
«Questo lo vedremo.» ammiccò lui, e tentò invano di tornare al suo lavoro.
«Allora, vi siete già incontrati?»
«Chi?» chiese con voce esasperata, sollevando gli occhi al soffitto.
«Come chi? Tu e Justin!» esclamò lei, corrugando la fronte, prima di cambiare la sua espressione in una fin troppo entusiasta. «Immagino già la maratona di scopate selvagge in cui vi sarete cimentati. Dio, quanto invidio la vostra attività sessuale.»
«Trovati un bravo uomo, sposati, metti al mondo un paio di pargoli e sfogati con loro invece di fracassare i coglioni a me.»
«Il coglione.» rettificò lei e lui le lanciò un
occhiataccia.
«Grazie per avermelo ricordato.» commentò con velenoso sarcasmo.
«Prego. In fondo è il mio lavoro: colmare le tue dimenticanze.»
Lui sbuffò ancora, per poi lasciarsi ricadere nuovamente contro lo schienale con un sospiro stanco e prolungato. «Non te ne andrai vero?»
«No.»
Brian si leccò le labbra e scosse la testa, prima di sibilare telegrafico: «Sì, l
ho visto e No, non abbiamo fatto una maratona di scopate selvagge. Sei contenta adesso?»
«A dire il vero no.» s
imbronciò Cynthia. «Ho scommesso cinquanta dollari con Ted che appena vi foste rivisti avreste svegliato tutto il vicinato.»
«Bene. Dammi un buon motivo per cui non dovrei davvero licenziarvi adesso?»
«Sempre lo stesso. Perché non potresti stare senza di noi.» incrociò le braccia soddisfatta e riprese: «Quindi niente sesso?»
«No, niente sesso.» sbottò scocciato. «La vuoi piantare di trasformare la mia vita in uno dei tuoi penosi e stupidi romanzetti rosa Harmony?»
«Io non leggo quella roba!» esclamò, e lui sollevò le sopracciglia, lanciandole un
occhiata eloquente. «Ok, a volte. Ma solo perché me li porta mia madre.»
«Certo, certo.» ridacchiò l
uomo e si passò il pollice sulla fronte. «Allora ciao Cynthia. È stato un piacere intrattenere questa frizzante conversazione con te...ora ti puoi gentilmente togliere dalle palle?»
«Va
da Justin e scopatelo come si deve.» rispose invece contro le sue aspettative, lasciandolo di stucco. «Che cè? Che ho detto di strano? Tu usi sempre certi termini.»
«È quasi ora di cena.» mormorò lui, dopo qualche attimo di silenzio. Riordinò i fogli e li gettò in uno dei cassetti. S
infilò il cappotto e sospirò guardando il soffitto, leccandosi le labbra con la punta della lingua. Spostò gli occhi scuri su Cynthia e le disse, con fare arrendevole. «Andiamo a bere qualcosa?»
«Birra, hamburger e patatine fritte che scoppiano di grassi con tanto di salsa, che impiegherò mesi a smaltire e che manderanno a puttane la mia dieta...» elencò fingendosi di pensarci su, prima di sorridergli raggiante. «Certo che sì, capo!»

“My life changed” – William Fitzsimmons

«Quindi, fammi capire...» esordì Cynthia, mangiucchiando lultima patatina ricoperta di ketchup. «Ricapitolando, Justin è ripiombato a Pittsburgh con quel suo amico.»
«Checca.» la corresse Brian, appoggiato al tavolo in legno, guardandosi distrattamente intorno e sorseggiando la sua birra. «È questo che ho detto, non amico
«Sì, ok. Quello che è.» soffiò scocciata lei. Era passata almeno un
ora da quando erano entrati in quel bar, e il suo capo con tutte le sue risposte ambigue, quelle lasciate a metà o terminate con unespressione indecifrabile, le aveva creato una confusione in testa degna del peggiore enigma. «E non minterrompere, altrimenti perdo il filo.» Brian sollevò le sopracciglia e le mani, come per arrendersi e serrò le labbra, così che lei potesse continuare con i suoi sproloqui. «Allora, Justin è tornato con questa checca a Pittsburgh e ti ha detto che forse resterà qui per almeno un mese. Giusto?» lui annuì, con il pollice premuto sulle labbra e lei prese una sorsata di birra, dopo essersi pulita le mani. «Quindi, dove sta il problema? Scopate e amatevi allegramente per un mese e se mai dovrà tornare a New York, deciditi a usare una buona volta quei cazzo di biglietti aerei che mi fai prenotare e che puntualmente getti nel cestino!»
«Non è questo...» soffiò stanco lui, prima di essere interrotto.
«Che c
è? Il meraviglioso Brian Kinney teme la concorrenza?»
«Quale concorrenza?» domandò in un guizzo di spavalderia, con le sopracciglia inarcate.
«La checca. Il suo amico.»
«No. Quello al massimo potrebbe andar bene per Emmett, non è certo il tipo di Justin.»
«E il tipo di Justin sarebbe?» rise lei. «Bellissimo e con charme, anche se più grande di lui. Brillante, sagace e con un
azienda avviata splendidamente?»
«Suppongo di sì.»
«Supponi? Supponi?» esclamò incredula. «Brian Kinney non suppone un cazzo di niente. Brian Kinney è solo e soltanto certezze.» bevve la birra con gli occhi sgranati e si passò una mano tra i capelli biondi. «Se inizi ad avere i dubbi esistenziali anche tu, posso anche tornare a casa e tagliarmi le vene.»
Brian si lasciò sfuggire una risata a prese a giocherellare con la bottiglia. «Che modo triste e poco elegante per andarsene. Tutto quel sangue da smacchiare.»
«E sentiamo, tu che sceglieresti?»
Sollevò uno degli angoli della bocca e ripensò al quel suo stupido “gesto estremo” per i suoi tanto temuti trent
anni. In quel momento ne aveva trentacinque e pensò che se davvero Michael non lavesse fermato, avrebbe perso davvero troppe cose della sua vita. Troppi attimi e ricordi che custodiva gelosamente nel profondo del suo cuore, anche se alcuni spesso sapevano ferirlo profondamente. In fondo non era poi così male la vita anche dopo il “tre-zero”. «Strafatto di alcool e droga mentre mi faccio una sega, mimpiccherei nel mio lussuosissimo loft, con una sciarpa candida di purissima seta firmata. Armani sintende.»
«Che classe, capo.»
«Be
, se le cose devi farle...falle con classe o non farle affatto.» ammiccò e bevve ancora.
«E allora, sempre con classe ovviamente, va
da Justin.» replicò lei, con un tono deciso, quasi lo stesse sgridando. «Potrebbe girare il mondo, ma non troverà mai nessuno che sa dargli quello che puoi tu, perché nessuno sarà mai come te e nessuno potrà mai condividere con lui quello che avete condiviso voi due.»
«Una tragedia dietro l
altra?» ribatté, strusciando svogliatamente la bocca della bottiglia contro la fronte.
«Non fare il melodrammatico. Non ti si addice e poi ti vengono le rughe.»
«L
hanno quasi ammazzato spaccandogli la testa, ha dovuto occuparsi di me per mesi, mentre non facevo altro che vomitare per la radioterapia e gli è esplosa una bomba quasi addosso.» chiuse gli occhi e tentò di respingere il ricordo delle mani di Justin mentre lo accarezzava e si prendeva cura di lui. «Suo padre è un fottuto omofobo che lha cacciato via da casa, il mio era un povero stronzo ubriaco che ha passato gli ultimi anni della sua vita a spillarmi soldi, e quando gli ho detto che sono frocio mi ha detto che avrei dovuto esserci io al suo posto.» sorrise con amarezza e sollevò appena la bottiglia, come se volesse brindare ironicamente alla sua memoria. «Figlio di puttana, ce lha quasi fatta a farmi crepare come lui.» scosse la testa e distese le labbra in un sorriso più sincero, dato dalla soddisfazione di essere ancora vivo e vegeto, nonostante gli infelici auguri di morte dategli da entrambi i suoi genitori dopo aver saputo la verità. «Non sono certo rose e fiori. Bello schifo che abbiamo da condividere.»
«Ma lui ama te e tu ami lui.» insisté lei e gli sventolò la bottiglia davanti agli occhi. «E non provare a dire il contrario o ti caccio questa su per il culo.»
«Che finezza, principessa
«Da quando sei diventato un finocchio educato e schizzinoso?»
«Da quando le lesbiche mi riempono di legnate ogni volta che accenno solo a mezza parolaccia.» fece una smorfia di disappunto e terminò la sua birra. «Non capisco perché poi. Tanto prima o poi mio figlio sarà anche più sboccato di me.»
«Gus è a Pittsburgh?»
«Sì, resterà qui per il Ringraziamento.»
«Sembra che le cose stiano prendendo la piega giusta, paparino innamorato
Brian roteò gli occhi scocciato e le rubò la bottiglia dalle mani, per terminarla con una sorsata. «Non stanno prendendo nessuna cazzo di piega. Tra un mese al massimo tornerà tutto come prima.»
«Cazzo, Brian. Il tuo pessimismo uccide.»
«Sono realista.» rettificò, con lo sguardo assottigliato.
«Chiedigli di restare.»
«A chi?» chiese interdetto. «A mio figlio?»
«A Justin.»
«E togliergli la possibilità di raggiungere la vetta e restarci
nei secoli dei secoli, amen
«Come se gli importasse.» commentò lei con una scrollata di spalle.
«E tu che ne sai?»
«Lo sanno tutti Brian. Tutti meno che te hanno capito che lui non aspetta altro che tu gli dica di tornare.»
«Fammi indovinare.» mormorò, prendendosi il mento tra le dita. «Justin ha parlato con Theodore...e il buon vecchio Theodore ha pensato di far sapere a tutta l
azienda i cazzi del proprio capo.»
«D
accordo, lo ammetto. Ted mi ha dato un aiutino...ma ci sarei arrivata anche da sola!»
«Certo. Neanche un paio d
ore che sono con te e ho già trovato almeno tre buoni motivi per licenziarlo. Dovrei dirlo al resto dei dipendenti che sei una cattiva influenza.»
«Non è vero.» esclamò, ed entrambi indossarono i loro cappotti senza doversi dire niente. Dopo tutti quegli anni sapevano bene quando uno dei loro scontri era ormai giunto al termine. Erano in perfetto equilibrio. «Allora, principe azzurro...sei pronto per andare a riprenderti la tua principessa
«E tu sei pronta per andare a recuperare la tua macchina a miglia e miglia dalla Kinnetik perché non la sai parcheggiare, per poi strafogarti di gelato davanti alla tv come una zitella patetica?» ridacchiò alzandosi per pagare, con un
espressione visibilmente soddisfatta per averla lasciata a bocca aperta e il cuore un po più leggero dopo quella chiacchierata.
«E questo chi cazzo te l
ha detto?»
«Indovina un po
...» le sorrise, sollevando una delle sopracciglia.
«Credo che invece andrò a preparare la lettera di licenziamento per Ted!»


*'*'*



Con lo stomaco chiuso, ed uno strano peso a incombere sulle sue spalle, Justin, dopo aver vagato per ore per la città, senza una vera meta e perso tra i suoi pensieri e gli innumerevoli rimpianti, rientrò nell'albergo.
Si fece consegnare la sua copia delle chiavi e salì fino alla sua stanza, pregando – pur sapendo che fosse pressoché inutile – di essere solo per farsi una doccia in pace e deprimersi sul letto.
Era quello di cui aveva bisogno. Un po
come quando aveva ancora diciannove anni e passava il tempo a rimuginare e oziare nella stanza di Daphne con i suoi sogni erotici in cui lui e Brian scopavano a mezzaria.
Neanche a dirlo però, le sue preghiere non vennero ascoltate.
Ad attenderlo, disteso sul suo letto in accappatoio mentre sgranocchiava patatine, c
era Jace, intento a seguire una di quelle sue penose soap opera.
Lo vide spostare le sue iridi nocciola nella sua direzione e quel suo sguardo caldo si addolcì immediatamente nel constatare le condizioni pietose in cui versava. «Qualcosa mi dice che non è andata esattamente come speravi...»
Justin sollevò le sopracciglia, come per comunicare un “ma dai”, e si tolse la sciarpa e il cappotto, per poi lasciarsi ricadere a peso morto sul letto. Affondò la testa nel cuscino e aspettò che l
altro facesse la sua mossa.
Sapeva che nel giro di qualche secondo se lo sarebbe ritrovato nel letto e avrebbe iniziato a punzecchiarlo con insistenza; e come da previsione, percepì il materasso abbassarsi sotto il peso dell
altro. «Allora? Che ti ha detto il bobo nero
«Mi ha velatamente invitato a togliermi dalle palle e riportare il mio culo a New York.»
«Pensavo che il tuo culo gli piacesse...»
Attraverso i ciuffi biondi, gli occhi blu chiaro di Justin guizzarono a fulminare l
amico. «Vaa farti fottere.»
«Sì, penso che questa sera lo farò quel giretto in Dark Room.» pronunciò distrattamente, come se stesse leggendo la lista della spesa. «Tanto non dovrò controllare che tu non ti accasci sulle scale in preda agli effetti dell
alcool.»
«E perché mai?» mormorò l
altro, con la bocca premuta contro il cuscino.
«Semplice, perché tu non verrai al Babylon.»
«Mi stai esortando a deprimermi e tentare il suicidio nella mia stanza d
albergo?» gli domandò stranito. «So che sarebbe lo stereotipo di morte di un giovane artista, ma mi aspettavo che almeno avresti tentato di fermarmi.»
«E chi ha parlato di suicidio o di restare nella tua stanza d
albergo?»
«E che dovrei fare allora? Andare a svendere il culo?»
«Non ne vedo il motivo...i soldi mica ti mancano, e che io sappia non hai qualche strana dipendenza tipo le slot machines o le corse ai cavalli, quindi non credo finirai presto in rovina.» continuò a farfugliare Jace, con la sua parlantina a mitraglietta, esasperando Justin.
«Quindi...non posso venire al Babylon, non mi posso suicidare e non posso neanche farmi scopare. Che mi resta da fare allora?»
«Non puoi farti scopare da degli sconosciuti, ma puoi farlo con il tuo grande amore.»
Justin si alzò di scatto, puntando gli avambracci sul materasso. «Dico, ma mi ascolti quando parlo? Ti ho appena detto che mi ha gentilmente invitato a tornare a New York!»
Jace gli riservò un
occhiata scettica. «Dimmi un po...da quando vi conoscete, cè mai stata una sola volta in cui hai dato ascolto a quello che ti diceva di fare?»
«A parte quando mi diceva girati, o andiamo a fare la doccia o scopiamo?» l
altro annuì esasperato e lartista perse qualche secondo a riflettere. «Allora no.» rispose infine e vide nascere un sorriso furbo sulle labbra di Jace.
«Giust
appunto. E allora per quale cazzo di motivo dovresti dargli ascolto ora?» sollevò un sopracciglio con ovvietà e non permise a Justin di ribattere. «Quindi, tu vai a farti una doccia veloce, ti vesti e piombi a casa sua. Dovrà ascoltarti per forza. Digli tutto quello che ti tieni dentro da più di un anno e, se neanche allora cambierà idea, almeno non avrai più il rimpianto di non averci provato fino alla fine.»
«Jace, tu non capisci...»
«No, caro il mio artista da strapazzo!» lo interruppe nuovamente. «Tu non capisci che se non fai come ti dico, ti caccio il pomello del letto su per il culo e senza lubrificante.»
Justin si lasciò andare a una risata. «Chi ti dice che non mi piacerebbe?»
«Mi auguro per quel dio che si è preso la tua verginità che non sia così, altrimenti sai che fatica soddisfarti!»
«Credi davvero sia la cosa giusta?» chiese titubante, anche se poteva sentire chiaramente le urla del suo cuore che lo spingevano a correre da Brian.
«Tesoro, cos
hai da perdere?» gli scompigliò i capelli biondissimi e fece una smorfia. «Mi pare poi che la dignità tu labbia persa già da tempo con i tuoi imbarazzanti colpi di testa da adolescente frustrato!»
«Grazie Jace...come incoraggi tu, non incoraggia nessuno.» borbottò con acido sarcasmo.
«Lo so, e ora fila a farti la doccia!» gli ordinò, trascinandolo giù dal letto e spingendolo dentro il bagno.

“After afterall” – William Fitzsimmons

Neanche unora più tardi, Justin se ne stava impalato davanti al portone del numero sei di Fuller Street, dopo che Jace senza tante cerimonie, si era appropriato della sua adorata jeep e laveva scaricato lì.
Sbuffò scocciato, chiedendosi se fosse davvero la cosa giusta da fare, finché un altro degli inquilini del palazzo uscì lasciandogli la porta aperta senza che lui avesse chiesto niente.
Quell
idiota di Jace direbbe che un segno.
Inspirò a fondo e sgattaiolò dentro prima che si richiudesse, ritrovandosi a respirare il familiare profumo che fin dalla prima volta aveva sentito aleggiare in quel posto.
Il suo cuore prese a pulsare con più foga mentre, senza neanche rendersene conto, l
indice corse a premere il pulsante per richiamare il montacarichi. Con la gola secca e deglutendo a vuoto salì e lo indirizzò con qualche esitazione al piano del loft di Brian, continuando a darsi dello stupido, visto e considerato che non sapeva neanche se linquilino era in casa.
Quando il montacarichi raggiunse la destinazione con il classico rumore, pensò che il cuore potesse esplodergli da un momento all
altro, e lo mise ancora più a dura prova nel portare la sua mano a bussare alla porta scorrevole.
Quante volte aveva fatto quel gesto? Quante volte ne erano susseguite scene piacevoli e felici, e quante orrende da strappargli il cuore e schiacciarlo senza pietà...
Quante volte aveva fatto scorrere quella porta con l
idea di rientrare in quella che sentiva davvero come casa propria, e quante ancora laveva lasciata con le lacrime agli occhi e un orribile nodo alla gola.
In quel momento sentiva ognuna di quelle sensazioni amplificata dismisura dalla prolungata assenza a cui era stato costretto; e le cose peggiorarono decisamente, quando nel silenzio riuscì a percepire dei passi avvicinarsi dall
altra parte ed il rumore secco dellingranaggio che iniziò a muoversi.
«Justin...» sentì sussurrare, ma non vide immediatamente la faccia sorpresa di Brian; perché semplicemente non aveva il coraggio di sollevare lo sguardo da terra. «Che ci fai...» lo sentì pronunciare, e fu allora che alzò di scatto la testa e lo interruppe prima che distruggesse ogni sua intenzione con una manciata di parole gettate lì.
«Ti sbagli.» gli urlò quasi in faccia, a pugni stretti.
L
espressione dellaltro mutò da sorpresa a confusa. «Eh?»
«Guardami Brian, io non sono a New York.» si sentì sciocco a pronunciare quelle parole, ma d
altronde non poteva far altro che lasciarle uscire, prima che lo facessero impazzire. Aveva bisogno di urlare che era tornato solo e soltanto per lui. «Sono qui, dannazione! Sono tornato perché è qui che devo stare.» aggrottò la fronte e lasciò fuoriuscire i suoi pensieri come un fiume in piena. «È qui che voglio stare ed è qui che tornerò sempre, dopo tutto. Il mio posto non è a New York, e non appartengo a loro. Per quanto tu ti ostini a dire il contrario, io appartengo a te.» calcò la voce su quel “te”, trattenendosi a stento dal gridarlo come un pazzo e riprese: «Non mimporta quante volte lhai negato o lo negherai, o se mi dici che io sono solo di me stesso, perché la realtà dei fatti è unaltra.»
«Justin, ascoltami...» mormorò Brian, ancora aggrappato con una mano alla porta e con l
altra al muro. Nonostante il suo tentativo di aprir bocca però, non sembrava voler combattere davvero per far valere le sue ragioni. Non aveva il familiare sguardo pungente e deciso; al contrario, sembrava piuttosto stanco.
«No. Non ascolterò le tue patetiche scuse.» replicò Justin deciso. «Non farò finta che vada tutto bene. Che mi vada bene di starmene in quella cazzo di città circondato da cose di cui non m
interessa niente!» si soffermò a fissarlo negli occhi con decisione e per un attimo credette di poter affogare in quel verde scuro e tremendamente profondo. «Lunica cosa che mimporta sapere è se tu mi vuoi ancora almeno un briciolo di quanto ti voglio io.» soffiò infine con un fil di voce, come se con una sola delle sue occhiate, Brian fosse riuscito ad annullare tutta la foga con cui si era fomentato. «Voglio solo sapere se...posso ancora essere tuo.»
Non poteva esserne certo, ma per un solo misero attimo, ebbe la sensazione di veder accendersi un po
di sorpresa mista a sollievo in quegli occhi verdi, e pregò come mai nella sua vita di non essersi sbagliato.
A confermare i suoi pensieri, e ad alleggerirgli almeno un po
il cuore, ci pensò il sospirò con cui Brian si riempì i polmoni, il modo in cui sollevò lo sguardo al soffitto e il sorriso che non riuscì a nascondere piegando le labbra allinterno della bocca. Lo vide premere la punta della lingua a gonfiare la guancia e rivolgergli una delle sue occhiate ambigue, come ogni volta che non voleva dargliela subito vinta dopo una delle sue classiche sparate, lasciandolo un po cuocere nel suo brodo, prima di pronunciare con finto disinteresse e una sola parola, ciò che sperava di sentirsi dire: «Entra.»



*'*'*



Accompagnato ormai dal suono di quella porta che in poco tempo era ormai diventato familiare anche per lui, Jace entrò nel Liberty Diner, con un sorrisetto divertito che non riusciva a cancellarsi dalle labbra per via della caustica espressione che Justin gli aveva rivolto quando laveva letteralmente abbandonato per strada, dopo averlo spinto giù quasi a calci.
Quello che ormai era il suo diventato il suo più caro amico, aveva fegato e spavalderia da vendere in qualsiasi cosa facesse, e spesso si era trovato a tapparsi gli occhi e le orecchie dopo una delle sue sparate davanti a qualche pezzo grosso di New York, senza lombra di un’indecisione nel difendere le sue convinzioni, eppure, nel momento in cui si era ritrovato a fare i conti con i propri sentimenti, il terrore aveva preso il sopravvento.
Nellanno di vita che avevano condiviso, a Jace non era mai stato permesso di pronunciare il nome di Brian...pena la morte; ma in un modo o nellaltro quellingombrante presenza che incombeva su Justin era stata nominata quasi ogni giorno dietro qualche stupido soprannome.
Brian era per il piccolo artista un enorme fantasma del passato, un cardine fondamentale del suo presente e il sogno più agognato per il futuro. Brian per Justin era tutto...e Jace voleva così bene a quel ragazzino troppo bello, troppo artisticamente dotato, troppo biondo...insomma “troppo tutto”, che si era ripromesso di bacchettarlo fino alla fine, per spronarlo a non arrendersi mai, neanche davanti alla peggiore delle difficoltà, e volare a raggiungere il proprio obbiettivo come aveva sempre fatto con tutto il resto.
Ai suoi occhi, Justin era quel fratellino impertinente e coraggioso che gli mancava da morire e che aveva perso tanti anni prima, in un tempo così lontano che a malapena lo ricordava.
Suo fratello aveva la stessa età di Justin, ma non era un artista, non era biondo né aveva gli occhi azzurri. Non era gay – o almeno non che lui sapesse – e non possedeva quella brillante luminosità, eppure era comunque speciale, per il modo in cui si rapportavano, per come lo faceva sentire, per la loro complicità e lintesa perfetta. Esattamente come quella che intercorreva tra lui e Justin.
Per quel fratello avrebbe fatto di tutto e di più, e aveva sopportato per anni le botte di suo padre e il disprezzo della sua famiglia dovuto alla disapprovazione per i suoi gusti sessuali; e avrebbe continuato a farlo per sempre, se solo un brutto incidente non glielo avesse strappato via.
Da quel giorno, Jace non aveva più avuto un solo misero motivo per restare in quel posto che avrebbe dovuto chiamare “casa”, ma che nella sua testa era registrato sotto il nome di “inferno”.
Se nera andato senza mai voltarsi, quasi senza avvertire nessuno; e con nessuno aveva mantenuto un rapporto, ricominciando da capo con la sua vita a New York e una bella maschera sorridente a coprire la sofferenza che in realtà si portava dentro.
Era andato avanti grazie alla sua forza danimo, ottenendo successi su successi, ma senza mai riuscire a togliersi quel peso dallo stomaco, finché una testa inverosimilmente bionda, con un sorriso così abbagliante quasi da ferire gli occhi, si era intromessa nel suo cammino, e tra i fogli che volavano a sparpagliarsi aveva incontrato due iridi blu e un vero amico; unancora di salvezza che aveva a sua volta bisogno di qualcosa a cui sorreggersi per non affondare.
Inspiegabilmente, in quel ragazzo che non assomigliava neanche un po al suo fratellino, Jace aveva trovato il modo di redimersi e riversare quellaffetto fraterno che aveva lasciato accumulare, ormai stantio, che non poteva più liberare e che lentamente lo stava soffocando.
Justin lo aveva salvato dal mostro formato dai suoi rimorsi, ed era lunico a conoscenza della sua storia. In una delle loro tante serate di confessioni alcoliche, era uscito fuori il nome di suo fratello, che non osava più pronunciare da troppo tempo, e dopo che la sua lingua aveva sentito il sapore amaro di ognuna di quelle lettere, non piangere quelle lacrime che si era tenuto dentro per anni, era stato impossibile.
Aveva finalmente rimosso quel blocco opprimente ed era nuovamente rinato.
Suo fratello gli sarebbe mancato per sempre, di questo era ben conscio...ma, da quando Justin era piombato nella sua vita, aveva ricominciato a vivere e respirare anche lui; a ridere e scherzare sinceramente ma, soprattutto, aveva finalmente qualcuno a cui poter donare quellamore e con cui condividere una speciale complicità.
«Ehi, ciao!» sentì esclamare da una voce femminile e squillante, vagamente familiare, che lo riscosse dai suoi pensieri. «Jace, giusto?»
Gli occhi nocciola si spostarono a incontrare la sfavillante figura di Debbie, e un ennesimo sorriso gli increspò le labbra. A Pittsburgh girava gente davvero strana, ma non gli era poi così difficile capire perché al suo caro artista mancassero così tanto. Erano tutte persone così diverse e speciali a loro modo, da riempirti la vita e lasciarti un buco enorme dentro se non le avevi accanto. «Sì.»
«Vieni a sederti. Cosa ti porto?»
«Mi basta un caffè, grazie.» rispose, accomodandosi sullo sgabello.
«Che ci fai da queste parti?» gli chiese, versando il liquido nero. «E dove lhai lasciato il mio topino? Sta bene, vero?»
«Spero di sì.» ridacchiò Jace nel sentire laltro buffo soprannome di Justin. «Al momento suppongo sia ancora impegnato a riprendersi la sua vita...e farà bene a riuscirci!»
«È ancora con Brian?»
Lui annuì, portandosi la tazza alle labbra. «Già. Lincontro di oggi non era finito nel migliore dei modi, ma lo saprai anche meglio di me, Justin non è uno che si scoraggia molto presto.»
«No, direi proprio di no.» replicò convinta e agguerrita con i pugni puntati sui fianchi. «Quel coglione lha trattato male?»
«No, no.» si affrettò a rispondere. Non conosceva affatto quella donna, ma era pronto a giurare che sarebbe partita in quarta alla ricerca di Brian per bastonarlo, se solo avesse saputo che aveva ferito il suo figlioccio biondo. «Solo gli ha detto che il suo posto è a New York adesso.»
«Ha solo una fottuta paura.» sospirò lei, con uno sguardo improvvisamente addolcito. «Brian non è il tipo da dare possibilità allamore e ai sentimentalismi. Prima di Justin non sapeva neanche cosa volesse dire e...lunica volta che lha concessa, be...sai anche tu come è andata a finire.»
«Non deve essere proprio una passeggiata per quei due.»
«Oh credimi, in cinque anni che li ho visti insieme hanno attirato catastrofi come due cazzo di calamite.» scosse la testa e si protese sul bancone, sventolando il suo indice con lunghia laccata di rosso sotto il naso. «Ma hanno sempre avuto le palle più grosse di tutto lo schifo che gli è stato gettato addosso e hanno sempre trovato il modo di mandare a fanculo tutti.» sorrise e masticò con energia il chewin-gum «Superare questo è niente rispetto a tutto il resto.»
«Già, ma le ferite restano. A volte le persone si stancano di dover sempre combattere.»
«Non il mio topino. Lui non si arrende mai.» borbottò quasi offesa, con la fronte aggrottata. «E neanche quellaltro stronzo. Brian ha la faccia come il culo...figuriamoci se cè qualcosa che può stenderlo. Neanche il cancro lha voluto.» rise ancora e sollevò le spalle. «Comunque, lunica cosa che possiamo fare è aspettare.»
«E allora aspettiamo.» gli sorrise lui e terminò il suo caffè.
«Di te invece che mi racconti? Problemi di cuore?»
«Eh?» chiese stupito, con le sopracciglia sollevate quasi a raggiungere lattaccatura dei capelli. «No, no. Che mi prenda un’accidente se mai mi farò incastrare!»
«Che cazzo sei, una versione di Brian Kinney newyorkese?»
«A me piace donare amore in giro, non limitarmi a una sola persona.» ammiccò, sistemandosi il foulard intorno al collo. «Sono un tipo generoso!»
«Questa è la scusa più idiota che le mie povere vecchie orecchie abbiano mai sentito.» replicò lei. «E ti assicuro che ne ho sentite tante.»
«Certo che devi vederne di stranezze qui dentro.»
«Uh, non immagini quante! Voi gay siete un melodramma continuo!»
«Senza neanche un dramma personale, che razza di frocio sei?»
Debbie sollevò le sopracciglia come per voler confermare le sue parole. «Comunque straniero, dove hai intenzione di donare amore, e non dico ‘buco di culo perché sono una cazzo di signora, questa sera?»
Jace la fissò per un attimo sconcertato e scoppiò a ridere. «Suppongo di donare amore, e non dico buco di culo perché sono una cazzo di signorina anch
io, al Babylon. Justin mi ha detto che cè sempre da divertirsi.»
«Mi piaci ragazzo.» sorrise affabile. «Spero tu sia ben conscio che se t’infili nella nostra strana famiglia poi puoi dire addio a privacy e libertà. Sarai costretto a partecipare a tutte le nostre cazzo di cene familiari e guai a te se ti lamenterai se sarai soffocato daffetto.»
«Sarebbe unesperienza da provare.» rise lui pagando e alzandosi per uscire. «Non ho una famiglia da tanto tempo, e forse non lho proprio mai avuta. Credo di poterlo sopportare.»



*'*'*


“The blower's daughter” – Damien Rice



Quel posto non era cambiato.
Nel loft il tempo sembrava essersi fermato a quella mattina trascorsa da più di un anno e mezzo, quando con un macigno sullo stomaco, era strisciato fuori dalle lenzuola e dal calore del corpo di Brian, e si era vestito e trascinato oltre la porta, senza avere il coraggio di guardare nientaltro che non fosse il pavimento di parquet perfettamente lucido.
Respirò a fondo e sorrise, quando i suoi occhi si posarono su ogni angolo di quel lussuoso appartamento, riportando alla mente frammenti dei momenti trascorsi lì.
Avanzò lentamente verso il letto, nel silenzio più totale, quasi temesse di rovinare quellattimo così perfetto e magico, e si soffermò a osservare quella macchia blu notte, spesso presente nei suoi quadri, che nella sua testa si raffigurava come la massima espressione damore: il blu scuro delle lenzuola in cui lui e Brian si erano aggrovigliati e fusi a formare una cosa sola, innumerevoli volte.
Laccarezzò con lo sguardo e proseguì fino al comodino; dove sapeva esserci il suo cassetto: il terzo; e concluse la corsa delle sue iridi cerulee allarmadio; al lato sinistro, quello che Brian aveva abitualmente riservato per lui.
«Non è cambiato niente qui.» esordì, più verso se stesso, per convincersi di quello che i suoi occhi vedevano, che rivolto a Brian.
Luomo allargò le braccia e sollevò le spalle, per poi riprendere a giocherellare con il pacchetto di sigarette che stringeva tra le mani. «Perché avrebbe dovuto essere diverso?»
«Non lo so.» rispose titubante. «È passato parecchio tempo dallultima volta che sono stato qui.»
«Lo so.» sorrise appena. E chi meglio di lui poteva saperlo? Lui che aveva scandito ogni singolo, stramaledetto, istante da quando Justin se nera andato. Contando ogni secondo e inghiottendoli come bocconi amari e spinosi. Chi meglio di lui poteva sapere cosa significava ritrovarsi a respirare lentamente, per cercare di conservare il più possibile lodore della persona che amava intatto tra quelle quattro mura; e guardare a un calendario come alla somma dei giorni che si erano accumulati dalla sua partenza.
«È bello.» mormorò poi Justin, rivolgendogli un sorriso.
«Cosa?» domandò stranito.
«Che sia rimasto tutto uguale anche qui.» ridacchiò appena e scese gli scalini per avvicinarsi a Brian. «Ero terrorizzato dal fatto che, tornando a Pittsburgh, niente sarebbe stato come lavevo lasciato. Invece è tutto com’era
«Lo sai che nella gloriosa Pittsburgh non succede mai niente.»
«Credo proprio di essere davvero felice, per la prima volta, che questo posto sia così. È rassicurante.»
«È patetico. È noioso e ridicolo.»
«È un po romantico.»
Brian scoppiò a ridere e scosse la testa, picchiettando con il pacchetto rosso e bianco sul bancone della cucina. Restarono in silenzio per un tempo incalcolabile, finché le iridi verde scuro di Brian si sollevarono appena a scrutarlo sottecchi, quasi temesse che da un momento allaltro non lavrebbe più visto e capisse che era stato solo un altro dei suoi patetici e tristi sogni.
A dispetto delle sue paure, invece, lo trovò più vicino e spaventato.
Justin aveva lo stesso sguardo incerto e quel falso sorriso tirato della prima volta in cui era stato lì. Era cresciuto, era più bello, ma mai come in quel momento gli parve di rincontrare quel ragazzino inesperto che si affacciava per la prima volta al mondo a cui appartenevano entrambi.
Aveva le spalle irrigidite e le braccia altrettanto intirizzite e abbandonate lungo il corpo. Lo guardava come un cucciolo abbandonato in cerca di una mano che lo guidasse, e non si accorgeva di quanto in quel momento, dietro la sua solita facciata impenetrabile e il sorrisetto sprezzante, si nascondesse la stessa paura.
La paura di sbagliare, di lasciarsi andare e illudersi. La paura di vederlo tornare, di sperare ancora, per poi essere abbandonato di nuovo, pur sapendo di non potergliene mai fare una colpa, perché proprio lui era stato il primo a ferirsi e a spingerlo fuori da quel loft per mandarlo a conquistare il mondo con la sua arte e i suoi sogni, e farsi un nome. Proprio lui laveva incoraggiato – per non dire quasi costretto – ad abbandonarlo, per esser sicuro che riuscisse a ottenere tutto ciò che potesse, anche solo velatamente, desiderare.
E se quello non era amore; se ancora cera qualcuno che osasse dire che Brian Kinney non sapeva amare, o se qualche stupido omofobo potesse ancora ritenerlo abominevole; allora che gli spiegassero cosera davvero quel sentimento che tutti tanto decantavano, perché, e forse peccava di presunzione, lui era certo di non aver mai visto o provato niente di più grande in tutta la sua vita.
Justin era una specie di catalizzatore sentimentale: al suo fianco ogni cosa sembrava concentrarsi e quintuplicarsi. Amore, rabbia, tristezza, gelosia e sì, anche odio. Quando si trattava di Justin, Brian si sentiva esplodere.
Lui che aveva sempre definito i sentimenti come una cosa stupida, ridicola e patetica, adatta solo agli etero o alle lesbiche, ma assolutamente fuori dalla portata dei gay; lui che si era sempre vantato di quel suo essere egoista e superficiale...accanto a Justin, era semplicemente incapace di prescindere da certe emozioni, e non sapeva fare a meno di ciò che aveva sempre ripudiato.
Perso tra i suoi pensieri, lasciò che le sue labbra si piegassero in un fievole sorriso, praticamente invisibile agli occhi di una persona qualunque, ma perfettamente percepibile da chi, anche dellinterpretazione di ogni suo gesto, aveva fatto unarte.
Justin negli anni aveva imparato a leggere tra le righe delle sue parole, ma soprattutto a vedere cosa si nascondeva dietro gli sbuffi, i sorrisi o anche il solo movimento di quegli occhi profondi e di ogni singolo muscolo del suo corpo. Aveva imparato perfino a riconoscere i suoi stati danimo dal modo in cui respirava; aveva imparato fin troppo di lui.
Perciò, anche in quel momento, riuscì a capire che, per quanto si sentisse spaventato, Brian non avrebbe potuto aiutarlo; non avrebbe preso in mano le redini del gioco come la sera in cui si erano incontrati e non gli avrebbe mai fatto un invito esplicito ad avvicinarsi. Per quella volta, doveva essere lui a “stare in piedi da solo e tirare fuori le palle”; doveva essere lui a raggiungerlo.
E lo fece.
Con il cuore incastrato a metà della gola che pulsava come un pazzo, minacciando di abbandonarlo da un momento allaltro, Justin colmò la distanza tra loro, e sollevò gli occhi ad incontrare quelli dellaltro, per andare a sprofondare in quellabisso verde scuro. Così vicino da poterne sfiorare il naso e sentirne il respiro sulla bocca.
Sostenne quello sguardo con decisione, finché non separò le labbra lentamente, con una nota dincertezza, per poi incagliarle tra i denti.
Le mordicchiò appena e respirò a fondo, riempendosi i polmoni dellodore della pelle di Brian, misto a quello del suo dopobarba e dello shampoo; frammenti di quei profumi così familiari, e gli unici che nella sua testa poteva ricondurre alla sensazione di sentirsi veramente a casa e nellunico posto in cui avrebbe voluto essere.
Ovunque fosse, gli bastava percepire quellodore per star bene.
«Mi sei mancato.» mormorò con un filo di voce, come per voler esternare la conclusione ovvia a cui era giunto nel sentir vorticare certi pensieri nella mente, e sorrise a sua volta, nel vedere gli angoli della bocca delluomo di cui era disperatamente innamorato piegarsi verso lalto.
Sapeva bene di non doversi aspettare parole da Brian; e sapeva anche che il guizzo luminoso che si era acceso in quelle iridi verdi nel momento in cui aveva pronunciato quelle parole valeva molto di più di qualsiasi confessione.
E probabilmente fu proprio quella traccia lucente a dargli il coraggio per sollevare una mano e sfiorare con la punta delle dita una guancia perfettamente rasata dellaltro, appagandosi del calore della sua pelle e del modo in cui la testa di Brian si piegò per cercare quella carezza, plasmandosi su quel tocco.
Piccoli gesti, movimenti appena percettibili; passi lenti e misurati da infinita calma, per percorrere la distanza che si era intromessa tra di loro in quel tempo che avevano definito insignificante ma che, a dispetto della loro traballante spavalderia, aveva quasi rovinato ogni cosa.
Respiri trattenuti e occhi che si osservavano attentamente per imprimersi ancora una volta nella testa ogni singola particella del volto che gli stava davanti; per una volta luno di fronte allaltro, in un confronto diverso, senza la fretta di aversi, scortati da quella passione incontenibile che aveva caratterizzato ogni loro incontro.
Justin sentì il proprio cuore accelerare il battito quando la sua mano venne coperta da quella di Brian e le loro dita andarono a intrecciarsi in un incastro perfetto e guidato da movimenti fatti di una complicità disarmante, come se fossero mossi dalla stessa persona.
Perché fin dal loro primo incontro, qualcosa dincomprensibile ma altrettanto resistente si era andato a formare e annodare tra le loro vite. Un filo quasi invisibile e che spesso gli aveva comunque permesso di allontanarsi luno dallaltro e di farsi anche male, ma che in un modo o nellaltro, era rimasto ben saldo a ricordare loro come ritrovare sempre la strada e incontrarsi ancora.
Né Justin, né tanto meno Brian, credevano in cose stupide e patetiche come il destino, eppure quel loro legame così particolare aveva il sapore di qualcosa che andava ben oltre la normale realtà. Un po come loro due del resto, che di convenzionale non avevano assolutamente niente, e forse mai lavrebbero avuto.
Brian mosse il pollice per accarezzare con movimenti circolari il dorso di quella mano più piccola della sua e diafana, dalle dita affusolate e abili, proprio come immaginava dovessero essere quelle di unartista – il suo artista – che lo toccava ogni volta come se fosse una preziosa opera darte, facendolo sentire venerato, appagato e amato, come mai nessuno era riuscito a fare.
Quelle mani sulla sua pelle, avevano lasciato tracce indelebili; si erano tatuate su di lui, gli erano entrate dentro, e avevano scavato con inesorabile lentezza finché, senza neanche rendersene conto, erano arrivate a toccargli il cuore e a scaldarlo per la prima volta nella sua vita.
Justin era lunico a esser stato capace di arrivare così nel profondo e, soprattutto, a esser stato in grado di ricavarsi uno spazio in mezzo al suo enorme ego e a diventare indispensabile.
Per ogni volta in cui laveva cacciato via, per ogni volta in cui laveva ferito e per ogni volta in cui aveva sbagliato, portandolo a tirare su un muro per allontanarlo, quel piccolo raggio di sole aveva sempre trovato il modo di oltrepassare ogni sua barriera, anche se questo aveva significato dover percorrere una strada insidiosa e dolorosa. Justin, in fondo, non si era mai arreso e, alla fine, lo aveva raggiunto.
E in fin dei conti era stato così facile innamorarsi di lui che neanche riusciva a capire quando era successo. Forse fin dalla prima volta in cui laveva visto, oppure dalle sensazioni che aveva provato nel fare lamore con lui – perché Justin aveva ragione. Neanche la prima volta era stato solo sesso. Tra di loro, non era mai stato solo sesso – o nel momento in cui aveva capito che stava rischiando di perderlo, la notte dopo il ballo scolastico.
Non era stato difficile amarlo; era stato difficile ammetterlo.
Era stato difficile – e continuava a esserlo – pronunciare quelle due piccolissime parole, e neanche quelle erano servite a non farli separare, o a togliersi quellorrendo vizio di torturarsi inconsapevolmente a vicenda, o smettere di soffrire per gesti non fatti e parole non dette, guidati da convinzioni assurde.
Niente era mai stato semplice fra loro, a parte innamorarsi luno dellaltro; e probabilmente era stato proprio questo il motivo per cui si erano intrecciati in quel legame ed erano finalmente di nuovo insieme.
In quel loro ostinarsi a complicare le cose si nascondeva linnata capacità di ritrovarsi sempre e comunque; la facilità con cui sapevano rincontrarsi senza smettere mai di amarsi.
Brian ampliò il suo sorriso – colto da quelle consapevolezze – e si protese un poco per far sfiorare la punta del suo naso contro quella di Justin, e avanzò ancora fino a trovare la sua fronte su cui appoggiarsi, come già tante altre volte aveva fatto.
A occhi chiusi si beò della stupenda sensazione che gli davano quei fili biondi quando lo sfioravano delicatamente, e ascoltò il suono del suo respiro confuso con quello dellaltro, insieme al battito sincronizzato dei loro cuori.
Era come se si fossero riconosciuti e avessero ricominciato a pulsare in sincronia, sulla stessa lunghezza donda, come se per funzionare davvero avessero bisogno di farlo insieme.
Cristo, quanto mi sei mancato.
Si riempì del suo odore con un respiro e slegò le sue dita da quelle di Justin per portare entrambe le mani a circondargli il viso e affondare in quella chioma bionda e soffice, per trarlo a sé e far finalmente congiungere le loro labbra in un bacio dolce e appena accennato, come se entrambi sentissero di doversi riabituare lentamente a quella droga chiamata “passione”, che era sempre imperversata tra loro, per cinque lunghi anni.
Ma per quante accortezze potessero prendere, non potevano certo mentire a loro stessi; non potevano nascondere ancora a lungo quella loro natura.
Il calore divampato improvvisamente da quel contatto, insieme ai fremiti che dilagarono in tutto il corpo, non fu che la scintilla destinata a innescare lesplosione.
Perché per quanti anni fossero trascorsi, per quanta distanza gli fosse stata imposta e per quanti ostacoli avessero dovuto superare, il fuoco che li aveva sempre uniti non poteva essere estinto. Poteva essere solo domato e sopito per un tempo limitato e insignificante.
Brian e Justin non potevano stare vicini senza prender fuoco, incendiandosi lun laltro; erano fatti per bruciare e consumarsi insieme, ed era così che sarebbe sempre andata tra loro.

La loro prima volta, Brian gli aveva detto che avrebbe fatto in modo che se la ricordasse per sempre, cosicché, con chiunque fosse stato da quel momento in poi, ci sarebbe sempre stato anche lui.
Ed era esattamente così che era andata.
Justin non avrebbe mai dimenticato quel giorno, la perfezione di quella notte e del modo in cui quelle mani lo avevano accarezzato, come quella bocca lo aveva baciato e la sensazione di averlo dentro di sé per la prima volta.
Da quel momento in poi, Brian cera sempre stato. Nei suoi pensieri, sulle sue labbra con il suo sapore e sulla sua pelle con il suo inconfondibile odore.
Niente era paragonabile a quando faceva lamore con lui; niente era paragonabile a Brian Kinney.
E anche quella sera, nonostante i giorni che li avevano separati e feriti, la complicità dei loro movimenti, non era stata minimamente scalfita o contaminata dalla lontananza. Proprio come il loro amore, non era ingrigita, ma brillava con la stessa intensità di sempre, e guidava le mani di Brian ad accarezzare la schiena dellaltro, lasciandolo pervadere dai brividi, fino a raggiungere il bordo del maglione e sfilarglielo con un gesto secco, insieme alla maglia.
La loro complicità divampava nel modo in cui le dita di Justin liberavano i bottoni della camicia di Brian dallasola, e da come i lembi venivano scostati e abbassati, fino a che la stoffa bianca non andò ad adagiarsi a terra; o nel modo in cui si sorridevano, tra un bacio e laltro, incespicando nei jeans già sbottonati, mentre raggiungevano il letto e si lasciavano ricadere con un tonfo nel blu oceano del copriletto.
Affondare di nuovo le dita luno nei capelli dellaltro e farle correre fino a stringerli. Far sollevare la testa dellamante, con passione, a scoprire il collo per poterlo inumidire di una scia umida lasciata dai baci o dalla punta della lingua; piccoli morsi che costellavano la pelle di marchi rossastri e sospiri trattenuti appena, per poi essere rilasciati, senza nascondere minimamente il sollievo nel sentirsi nuovamente insieme.
Justin portò le braccia a circondare il collo di Brian e lo tirò a sé, per assaporare ancora il gusto di quelle labbra morbide e intrecciare la lingua con quella dellaltro, e sentirne il respiro caldo sulla pelle.
Lasciò che fosse lui a togliere anche lultimo pezzo di stoffa rimasto a dividerli e fu inevitabile sorridere, quando lo vide aprire il quadratino di plastica del profilattico con i denti; così come gli aveva sempre visto fare.
Non cera tempo quella volta per i preliminari, o i loro giochetti sciocchi ed eccitanti; non cera tempo per scherzare, perché dovevano aversi. Dovevano sentirsi nuovamente una cosa sola, al più presto. Percepire ancora il calore emanato dai loro corpi fusi in un unico incastro perfetto; e al diavolo se non si fossero mai più rivisti dopo quella notte...al diavolo New York, larte, gli impegni di lavoro, gli aerei mancati e le telefonate non fatte.
Al diavolo tutto...perché, in quel momento, cera spazio solo per loro due e per la felicità che riuscivano ad accendersi dentro quando erano insieme, quando potevano abbracciarsi e amarsi come solo loro sapevano fare.
Cancellando definitivamente i pensieri dalla mente, Justin portò entrambe le gambe ad appoggiarsi sulle spalle dellaltro e si sollevò un poco per raggiungere la bocca del suo amante e baciarlo ancora. Brian lo guardò intensamente, con gli occhi accesi di languida eccitazione, mentre le sue labbra si erano già increspate in un dolce sorriso. Socchiuse gli occhi e, trattenendo il fiato, entrò dentro di lui, lasciandosi sfuggire un gemito strozzato che andò ad unirsi e mischiarsi nellaria a quelli di Justin.
Brividi di piacere percorsero il corpo di entrambi come scariche elettriche, mentre le loro lingue continuavano a cercarsi e trovarsi, dallunione delle loro labbra, tra spinte e sospiri, gemiti e parole sussurrate appena.
Piccoli morsi, come se volessero divorarsi e vivere soltanto cibandosi luno dellaltro, e di quellamore che li legava saldamente; e affondi più profondi, quasi a voler perdere e distruggere i loro contorni per ricollegare quelle due anime che, ne erano certi, un tempo dovevano aver fatto parte di una sola essenza.
Brian gli accarezzo i capelli, lo baciò sulla fronte e scese lungo il naso e la bocca, fino al collo. Lo leccò per tutta la lunghezza, aumentando la presa delle sue dita, nella foga delle sue spinte, tanto da togliere il fiato a entrambi. Justin spostò le gambe a cingere la vita dellaltro e con le mani si aggrappò alla sua schiena, avvicinandosi per congiungere nuovamente le loro labbra e perdersi in quei baci pieni di passione, fino allorgasmo.
Sudato e con il respiro affannato, Brian si lasciò ricadere sul petto di Justin e lentamente uscì dal corpo del suo amante, mentre con le labbra costellava quelle dellaltro di piccoli baci languidi.
Si sorrisero ancora, sinceri, e sfiorarono i loro nasi, inspirando profondamente i loro profumi nuovamente mischiati, insieme allodore della loro unione, e godendosi il calore che i loro corpi erano finalmente tornati a trasmettersi.
Le mani di Justin corsero ad accarezzare i capelli e il collo dellaltro, prima di scendere sulle spalle e proseguire a sfiorare i muscoli asciutti e sempre perfetti delle braccia di quelluomo a cui doveva tutta la sua vita, trovando il coraggio per ripetere ancora quella piccola frase: «Mi sei mancato.» lo sussurrò e volle dirglielo ancora, e ancora. «Mi sei mancato, mi sei mancato da morire.» e con le lacrime ad annacquargli il blu chiaro degli occhi, respirò a fondo e riuscì a togliersi di dosso anche quelle ultime parole che continuavano ad opprimergli il petto: «Ti amo ancora.» 


*** 


Note finali: 
Fischietto distrattamente e faccio la gnorri... XD 
Ho deciso di anticipare perché mi sono resa conto che nei prossimi giorni sarò davvero incasinata, soprattutto per la partenza, e non volevo rischiare di non avere il tempo per rispondere a tutte le recensioni e andarmene senza aver aggiornato come promesso. 
Stavolta però, note telegrafiche e senza alcun tipo di commento o anticipazione...anche perché non ho la più pallida idea di come interpreterete questo momento molto fluffleggiante...nè di quello che vi aspettate nel prossimo...
Spero solamente vi sia piaciuto almeno un po'! ^^ 
Mi limito perciò a fare la cosa più importante di tutte: Ringraziamenti
Un grazie a tutti coloro che hanno letto questo capitolo, a chi ha inserito la storia tra le preferite, le seguite o le ricordate, ma soprattutto grazie a: Thiliol, electra23, OfeliaCuorDiGhiaccio, Clara_88, FREDDY335, mindyxx, EmmaAlicia79, SusyJM, oo00carlie00oo, giacale, Hel Warlock, Katniss88 e silvergirl per aver recensito l'ultimo capitolo! GRAZIE DAVVERO!
Detto questo posso anche scappare fuori, altrimenti mi lasciano a piedi e almeno posso sfuggire dalla furia di alcune di voi che mi odieranno per questo capitolo, e probabilmente anche di più per cosa succederà nel prossimo! XD 
Tornerò il 14, ma non so ancora quando pubblicherò...prometto comunque di non farvi aspettare troppo
Un bacio e ancora buone vacanze. 
Veronica.

PS. Non so come lo chiamate voi, ma per noi Fiorentini il "bobo nero" è l'uomo nero. XD Sono cretina, lo so.
PPS. La canzone di Damien Rice - che io adoro particolarmente - vale per tutto il paragrafo, fino alla fine. Lo so che è un appunto idiota, ma ho scritto quella parte con questa canzone in loop, quindi ci tenevo a specificarlo. XD

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Capitolo 8
*** Thanksgiving day. ***


8.Thanksgiving day.

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6x08 – Thanksgiving day. 
[capitolo betato da Trappy]


“Fever” – Adam Lambert



Affrettò il passo, spaventato perfino dal continuo frusciare dei suoi pantaloni di nylon arancioni, intento a superare il più velocemente possibile quella zona di parcheggio adombrata.
Odiava andare al Babylon da solo, ma da quando i suoi amici si erano accasati con i loro compagni, non cera stata più loccasione per riuscire a trascinarli lì. Preferivano di gran lunga condurre la vita dei pantofolai; tutti tranne Brian ovviamente, ma non si sognava neanche per sbaglio di chiedere a lui un passaggio, considerando poi che il ritorno non sarebbe mai stato garantito.
Emmett sbuffò scocciato, stringendosi di più nella sua pelliccia sintetica blu, riprendendo a respirare con più regolarità quando la luce dei lampioni tornò ad accoglierlo sotto la sua rassicurante presenza.
Per quanto potesse essere ampiamente definibile checca urlante” – e doveva dire che, a dispetto di tutto, possedeva una discreta potenza vocale e degli acuti da far invidia anche a George Michael o Prince – Emmett aveva assistito a fin troppe aggressioni sulla pelle di persone che conosceva bene, per sentirsi al sicuro perfino lì, nella zona più popolata da omosessuali e transessuali.
Svoltò langolo in tutta fretta, con lo sguardo basso sullasfalto e neanche si rese conto della persona che lo precedeva con un passo più tranquillo, finché non ci sbatté letteralmente contro. «Oh Cristo!» strillò, sobbalzando per lo spavento. «Oddio, scusa!» restò per qualche secondo a scrutare la persona con cui aveva appena avuto il “sinistro pedonale” ed aggrottò la fronte. «Un momento, ma io ti conosco.»
Gli occhi nocciola dell
altro abbandonarono finalmente le proprie scarpe – fino a pochi secondi prima perfettamente bianche e immacolate – per degnarlo di uno sguardo, seppur decisamente infastidito. «Già.» ribatté asciutto, tornando a ispezionare i suoi preziosi mocassini italiani pagati trecentocinquanta dollari e tenuti nel migliore dei modi, prima che un “carrarmato frocio e multicolore” ci passasse sopra.
«Tu sei Jace, giusto?» esclamò ancora Emmett, battendo le mani entusiasta, ignorando limminente crisi isterica che stava per colpire il suo interlocutore da un momento allaltro. «Lamichetto di Justin.»
Jace lo guardò nuovamente sottecchi, con una vena sulla tempia che minacciava dinspessirsi ogni secondo di più, come ogni volta che stava per esplodere. «Esatto.» sibilò e si passò lindice ed il pollice delicatamente sulle palpebre per calmarsi, tentando di non togliere quel tocco di luce donatogli da qualche minuscolo brillantino. Non poteva esplodere con uno dei più cari amici di Justin, eppure, limprovvisa voglia di violenza che lo aveva pervaso al pensiero di poter usare la lingua del suo “investitore” per pulirsi le sue adorate scarpe, era difficile da trattenere.
«Anche tu al Babylon? Sei insieme a Justin? Dovè? Non lo vedo!» lo tempestò di domande, continuando a non sospettare minimamente del pericolo che incombeva su di lui.
«Sì, anchio al Babylon e No, non puoi vedere Justin perché non siamo insieme. Ergo, non cè.» replicò, sempre più stizzito. Neanche cinque minuti da solo con quel tipo e già gli era venuto un gran mal di testa
«Oh, che peccato!» continuò Emmett imperterrito. «Si sente male?»
«Mi auguro di no per lui! O se proprio deve sentire male, almeno che sia per qualcosa di eccitante.»
Emmett rimase per qualche secondo in silenzio a fissarlo con i suoi occhioni azzurri, accentuati dal mascara. «Sta scopando con Brian?» chiese poi, quasi incerto.
«Come vedi sono qui, perciò non posso saperlo. Per mia sfortuna non ho ancora il dono dellubiquità.» ribatté laltro con un sopracciglio innalzato. «In compenso, spero di sì. Avrà le ragnatele in mezzo a quelle chiappe sode.» tirò fuori un fazzoletto dalla tasca del cappotto e si pulì accuratamente le scarpe. «Non capisco proprio come abbia resistito per un anno e mezzo.»
«Un anno e mezzo dastinenza?» gridò scandalizzato Emmett, portandosi una mano davanti alla bocca. Conoscendo i ritmi che il biondino era abituato a tenere con “Mister Meraviglia”, gli sembrava anche più straordinario di tutti e tre i miracoli di Fatima messi assieme. «Ma sei sicuro?»
«A meno che non si sia dilettato con i pennelli, sì.»
«Cristo Santo...il mondo sta davvero andando a rotoli.»
Jace sospirò e gettò il fazzoletto nel cestino. «Eh già. Non ci sono più i froci di una volta...» mugugnò quasi sconsolato. «...adesso fanno a gara a chi inventa più stronzate tipo matrimoni, monogamia o famiglia.» fece una smorfia disgustata e finse di rabbrividire. «Mi chiedo come i loro ormoni non abbiano ancora indetto rivolte degne di quelle parigine!»
«Di un po...» iniziò Emmett fissandolo storto. «...fai per caso di cognome Kinney
«Eh?»
Laltro sbatté più volte le palpebre e continuò a scrutarlo come se avesse tre occhi. «Adesso capisco perché Justin ti adora così tanto.»
«Credo di essermi perso qualcosa...» mormorò Jace sempre più confuso.
«Niente, niente.» replicò sventolando la sua mano, facendo tintinnare i due braccialetti tondi e colorati. «Allora, vogliamo entrare? Passi con me? Conosco i buttafuori.»
Jace gli sorrise per la prima volta. In fondo, quell'Emmett, non era poi tanto male una volta abituati alla sua persona un tantino ingombrante. «La fortuna di essere amici del capo, eh?»
«No, tesoro.» puntualizzò fingendosi altezzoso e sfoderando un sorrisetto furbo, affiancandolo mentre attraversavano la strada. «La fortuna dellessersi scopati la maggior parte dei buttafuori.»
Un guizzò divertito illuminò gli occhi del designer newyorkese, che sorrise più apertamente e scoccò unocchiata dintesa e di piena approvazione allaltro, quando entrarono nel locale saltando la chilometrica fila con un solo cenno di saluto ad uno degli energumeni accostati allingresso. «Daccordo.» esordì più amichevole. «Visto che mi hai fatto entrare, ti offro da bere. Non mi piace avere debiti.»
«Non è necessario. Non abbiamo bisogno di pagare per bere.» rispose Emmett, togliendosi l
ingombrante e vistosa pelliccia blu e mostrando un altrettanto particolare maglia a rete.
«La fortuna dell
essersi scopati anche tutti i barman?» chiese Jace sorpreso e divertito, sfoggiando una decisamente molto più elegante camicia di seta bianca, ornata da fini girigogoli dorati.
«No.» borbottò laltro, arricciando le labbra quasi dispiaciuto, per poi tirar fuori dalla tasca dei pantaloni elasticizzati una carta oro con sovra impressa la dicitura “VIP CARD”. «La fortuna di essere amici del capo.» gli strizzò locchio citando a sua volta le sue parole e si avviò sculettando verso il bancone.



*'*'*


“Pocketful of Sunshine” – Natasha Bedingfield



Era certamente già mattino inoltrato quando riuscì ad aprire le palpebre e mostrare al mondo il verde scuro dei suoi occhi che silluminavano di pagliuzze più chiare se colpiti, come in quel momento, da un fascio di luce proveniente dalla finestra.
Ma ciò che in realtà brillava nel loft, rischiarando ogni cosa attorno, era linconsapevole sorriso appena accennato che increspava le labbra del ragazzo ancora assopito sul divano, in uno strano groviglio di gambe, braccia e delle lenzuola che si era trascinato dietro quando dal letto si erano svegliati e trasferiti per fare lamore, prima sul tappeto morbido e bianco, e infine sul divano.
Durante la notte, Brian si era svegliato di soprassalto, temendo che quello che era successo tra lui e Justin fosse stato solo un altro dei suoi sogni; una stupida illusione. Quando però, facendo correre lo sguardo al calore al suo fianco, aveva visto la chioma scompigliata di Justin e la sua espressione rilassata, si era tranquillizzato, tirando un sospiro di sollievo.
Facendo attenzione a non svegliare il suo amante, si era infilato i boxer ed era sceso dalla zona notte per raggiungere il pacchetto di sigarette ancora abbandonato sul mobile della cucina, e ne aveva accesa una per placare i battiti del suo cuore ancora ferito, mentre ammirava senza la solita malinconia lo spettacolo della sua città illuminata.
Non cera voluto molto comunque, prima che Justin si accorgesse della mancanza del suo corpo nel letto e si svegliasse, stropicciandosi gli occhi per il sonno. Si era sollevato e aveva vagato con lo sguardo per il loft, fino a che non aveva scorto la familiare figura che si stagliava come unombra dai contorni perfetti, davanti allenorme vetrata; resa quasi eterea dalla lieve nuvola di fumo che lentamente si disperdeva a circondarla.
Con passi incerti e dondolanti, laveva raggiunto, coprendosi con il lenzuolo blu notte sistemato a mo’ di toga, e gli aveva cinto la vita in un abbraccio, prima di posare più di un bacio lungo la linea delle spalle.
Brian non era riuscito a trattenere un sorriso compiaciuto e a stento aveva chiuso nella gola i gemiti di piacere nel sentire ancora quelle mani che si muovevano sulla sua schiena e sul suo petto; finché astenersi dal gustare ancora quelle labbra e sentire ancora l’odore ammaliante del sesso era stato impossibile.

Avevano fatto ancora l’amore; lì, distesi sul tappeto, fino a riassopirsi con i loro corpi ancora uniti e risvegliarsi insieme per riaffondare ancora nel limbo del piacere.
Era l’alba quando si erano definitivamente addormentati, abbracciati sul divano; e in quella stessa posizione Brian si era risvegliato, pronto ad ammirare la bellezza marmorea del corpo che giaceva tra le sue braccia.
Si sentiva un po’ patetico, ma era un prezzo che era disposto a pagare anche con gli interessi che ne sarebbero derivati, se significava poter godere di quella sensazione di magnifica leggerezza che era divampata dentro di lui da quando quel raggio di sole aveva rimesso piede nel suo loft.
«Buongiorno,
splendore.» lo prese in giro, imitando Deb, quando lo sentì mugugnare come ogni volta che si svegliava. Justin aprì prima un occhio, poi l’altro e sorrise apertamente. Se c’era una cosa che Brian aveva imparato in quegli anni era che, quando quel ragazzino sorrideva, era anche più accecante del sole. Justin era il suo sole.
«Che ore sono?» biascicò, strusciandosi contro la sua spalla come un gatto.
«Venticinque centimetri virgola cinque a mezzogiorno.»
«È unallusione poco velata alle dimensioni del tuo cazzo e al fatto che sia sullattenti per lerezione mattutina, o vuoi dirmi che mancano venticinque minuti a mezzogiorno?» ridacchiò in risposta.
Brian ammiccò. «Entrambe le cose, ma mi è parso di sentir squillare il tuo cellulare prima. Il che significa che ti stanno dando per disperso.»
«Dici che dovremmo proprio andare al Diner?»
«Se non vuoi che Deb chiami lFBI, indica una squadra di ricerca e si rivolga a qualche trasmissione televisiva per lanciare un annuncio disperato...direi proprio di sì.»
Justin borbottò qualcosa dincomprensibile e lamentoso con le labbra premute sul petto delluomo. «Che palle.» soffiò poi e lentamente si tirò su. Cercò di domare i capelli ribelli e si liberò dal groviglio in cui era incastrato. Si allungò nuovamente verso Brian e iniziò a sfiorare la pelle del collo dietro l’orecchio con la punta del naso e un sorrisetto impertinente.
Era più che ovvio che i suoi programmi non comprendevano affatto il Diner...non il quel momento almeno.
Brian sorrise e gli afferrò la faccia con una mano sola, stringendogli le guance con le sue dita lunghe ed eleganti, prima di farlo avvicinare alle sue labbra e prendere a mordicchiarlo.
Risero e si sorrisero, tra un bacio e l’altro, prima di intraprendere una sciocca lotta fatta di morsi dispettosi, alternati a carezze audaci, col risultato di rovinare l’uno addosso all’altro sul pavimento, tirandosi dietro perfino i cuscini.
Fu Brian ad averla vinta in un primo momento, riuscendo a sovrastare l’altro con il suo peso e bloccandogli entrambi i polsi sopra la testa, prima di iniziare una dolce tortura, fatta di scie umide e lucide con la punta della lingua, a seguire le linee del collo e del petto; ma non riuscì a tenerlo imprigionato per molto, conscio del bisogno che aveva di sentire quelle dita abili vagare in ogni parte del suo corpo.
Si ritrovarono quindi a ruoli invertiti; con Justin che si premurava di far dilagare scariche elettriche e brividi sulla pelle del suo amante, giocando semplicemente con i denti sul suo lobo.
Lo sentì ridere appena e sospirare di piacere, rendendosi nuovamente conto che avrebbe passato la sua intera vita a sentire solo quei semplici suoni, insieme a quello della voce dell’uomo che amava.
Avrebbe passato ogni suo giorno a respirare solo quel profumo; ad ammirare ogni suo movimento, ogni suo vizio. Avrebbe passato ogni istante che ancora gli restava in compagnia di Brian, riempiendosi l’anima di tutto quello che andava a comporre la sua essenza.
Fece scendere una mano ad accarezzargli il petto, superando lo stomaco fino al limite del ventre, sorridendo compiaciuto quando sentì l’altro deglutire, per poi emettere un piccolissimo gemito; ed era pronto a ottenerne altri ben più sonori, se solo il telefono non avesse iniziato a squillare.
Lasciò cadere la testa sconsolato addosso a Brian - che nel frattempo aveva sollevato gli occhi e si era lasciato ricadere a terra con esasperazione - e sbuffò rumorosamente, unendosi alle colorite imprecazioni dell’uomo, sibilate tra i denti.
Justin si scostò da un lato per permettere all’altro di alzarsi e raggiungere il telefono. L’osservò in tutta la sua nuda bellezza e lasciò che le sue labbra piene s’increspassero in un sorriso.
Brian se ne accorse e, solo per un attimo, abbandonò il suo cipiglio contrariato per ricambiare quel sorriso, prima di rispondere: «Pronto?» soffiò scocciato e portò una mano a massaggiarsi la faccia per calmarsi, quando riconobbe la voce del suo migliore amico.
«È da te?» gli chiese semplicemente Michael, senza aggiungere spiegazioni, mentre sua madre borbottava alle sue spalle.
«Arriviamo.» ringhiò e sbatté malamente il ricevitore al suo posto. «La libertà condizionata è finita, raggio di sole.» comunicò poi a un Justin visibilmente divertito. «I malefici carcerieri ti rivogliono nel loro covo.»
«Non potresti chiedere a Furore se può salvarmi?»
«Mi dispiace, ma contro Debbie non basterebbe una bomba nucleare.» fece una smorfia e, dopo essersi infilato i pantaloni della tuta, iniziò a preparare il caffè. «Altro che HIV...è lei il nemico giurato di ogni frocio. Ti si aggrappa alla giugulare e ti succhia la vita. Peggio di un vampiro.»
«Non sapevo che ti dispiacesse farti succhiare...»
«Il cazzo.» lo interruppe, versando una quantità esagerata di granellini bianchi nella caraffa, nellintento di zuccherare. «Non il sangue, e soprattutto non da Deb.»
«Sei crudele.» rise Justin, avvicinandosi a lui, nuovamente avvolto nel lenzuolo.
«Non sono crudele.» mormorò porgendogli una tazza fumante. «Voglio solo farmi la mia sacrosanta scopata mattutina in pace, senza che quel cazzo di telefono cominci a squillare. È un reato forse?» inarcò le sopracciglia e bevve direttamente dalla caraffa, prima di risputare tutto il liquido scuro nel lavabo.
«Era sale, vero?» gli chiese Justin con la faccia schifata, tenendo ancora tra le dita la tazza.
Brian rovesciò il resto nelle condutture, con unespressione disgustata. «Vedi? È colpa di quella strega!» abbandonò la caraffa e afferrò il cartoccio del succo dal frigo. «Mi avrà lanciato qualche maledizione contro, dal momento che si è accorta che ti ho monopolizzato.»
«Va be...in fondo, dovremmo pur farci una doccia prima di uscire, no?» sorrise sornione, prima di abbandonare la tazza, afferrare Brian per lelastico dei pantaloni e trascinarlo fino al bagno, lasciando che il lenzuolo blu scivolasse a terra, scoprendo il suo corpo niveo.



*'*'*



«Secondo me è inutile che te la prendi così.» mormorò Ted, addentando il suo panino col tonno. «Stiamo parlando di Brian e Justin! Che ti aspettavi che facessero, a parte chiudersi in qualche posto a scopare come ricci?»
«Non si parla con la bocca piena.» lo rimproverò Debbie, dopo avergli rifilato uno scappellotto. «E comunque pensavo fossero cresciuti abbastanza da riuscire a tenerselo buono nei pantaloni, almeno per qualche ora!»
Ted, Emmett e Michael, seduti sugli sgabelli dallaltra parte del bancone, si scambiarono occhiate eloquenti, prima che il figlio della donna provasse ancora a rabbonirla. Proprio non laveva buttato giù il fatto che Brian avesse letteralmente rapito il suo “topino”. «Mamma, andiamo! Non si vedono da più di un anno!»
«E che vuol dire?» borbottò, puntando entrambi i pugni sui fianchi. «Che devono recuperare tutto insieme?»
Emmett sollevò le sopracciglia. «Se pensi che erano abituati ad almeno quattro volte al giorno, e che sono stati lontani tutto quel tempo...»
«Fa una media di circa...» Ted ci pensò su un attimo, continuando a masticare e affermò soddisfatto: «Duemilacentonovanta scopate da recuperare, come minimo.»
«Esistono anche altre cose oltre al sesso, lo sapete?» continuò la donna con la sua filippica.
«Vallo a spiegare a Brian!» commentò Emmett, tagliando la sua ciambella e portando il boccone alle labbra. «Comunque ha detto che sarebbero arrivati, no? Abbi fede!»
«Eccoli infatti!» esclamò Michael, indicando con un cenno della testa la vetrina del Diner, davanti a cui i due stavano sfilando. Aspettò che fossero entrati e sorrise raggiante, prima di rendersi conto delle condizioni disastrate in cui vertevano le facce di entrambi. Nonostante la loro proverbiale bellezza, le borse sotto gli occhi non perdonavano nessuno. «Ma che cazz...»
«Avete già recuperato tutte le duemilacentonovanta scopate?» chiese Ted, dando voce ai pensieri di tutti, mentre i due si lanciavano occhiate confuse.
«Cristo. Avevo sentito parlare di mitologiche maratone di sesso!» esclamò Emmett, con la forchetta a mezzaria, per poi ammiccare e tornare a mangiare. «Adesso so da chi derivano certe leggende.»
«Topino!» esclamò Debbie infine, riscuotendo gli ultimi arrivati con il volume decisamente alto della sua voce. «Ma cosa ti ha fatto?!»
«Sicura di volerlo sapere, mamma?»
«Deb, quando hai finito di trattarmi come il mostro cattivo della laguna, mi verseresti una tazza di caffè?» Brian si tolse gli occhiali da sole e i guanti, e si appoggiò al bancone con un sorriso tirato. Ignorando le occhiatacce della donna. «Grazie.»
«Una anche per me, Deb!» intervenne Justin con uno sbadiglio.
«Certo, tesoro.» rispose e con un sorriso posò uno dei suoi rossi baci sulla fronte del ragazzo.
«Tutte tue le attenzioni, raggio di sole.» commentò il bel pubblicitario, ridendo del segno lasciato dal rossetto. «Non tinvidio affatto.»
«Perché a differenza sua, sei un frocio acido e scorbutico, come se ti avessero piantato qualcosa su per il culo!» borbottò lei. «Senza lubrificante!»
«Mi spiace deluderti, ma nel mio culo non cè proprio niente.»
«Accidenti.» replicò Ted. «Questa sì che è una novità! E poi dicono che a Pittsburgh non succede mai niente di nuovo!»
«Theodore...» lo chiamò Brian, continuando a sorridere. «...vuoi usare il giorno del Ringraziamento per essermi grato di averti licenziato
«No!»
«E allora chiudi quella cazzo di bocca.» sibilò con le sopracciglia inarcate, e allargò il suo sorriso sfrontato.
«Maledetto schiavista.»
«Come scusa?»
«Parlavo...dell’‘insalata mista.» sorrise indicando il panino. «Sai, non la digerisco bene! Eppure non riesco a farne a meno. Non ha lo stesso gusto, né il colore senza!»
«Certo, certo.» annuì Brian e portò il pollice a sfiorare la propria fronte. «Be, cerca di abituarti, perché sarà lunica cosa che potrai permetterti di mangiare quando ti avrò ridotto a vivere sotto un ponte.» sorrise ancora e sbatté le ciglia più volte, prima di rivolgersi a Justin, che nel frattempo aveva assistito alla scena ridacchiando. «Direi di andare.» il ragazzo annuì e posò la tazza sul bancone. Brian inforcò gli occhiali da sole e rinfilò i guanti di pelle nera. «Lavete visto anche per troppo oggi.» disse rivolto agli altri e, dopo aver passato un braccio intorno alle spalle di Justin, lo scortò fino alla Corvette verde e lucente.
«Secondo voi tornano a scopare?» domandò Emmett, quasi sconvolto.
«Be duemilacentonovanta scopate non sono poche da recuperare.» replicò Michael. «Un minimo di duemilacentonovanta.»
«Non credo di averne mai fatte così tante, neanche in due o tre anni.» concluse Ted.
Debbie prese le due tazzine sporche e passò uno straccio sul bancone. «Una cosa è certa. Da quanto il topino è tornato, Brian Kinney è risorto e risplende di luce nuova.»
«Amen.» commentò in risposta il figlio, con uno sbuffo sarcastico. «Sembra che tu stia parlando di Gesù Cristo.»
«Perché...cè qualche sostanziale differenza?»
«Effettivamente...» iniziò Emmett. «A parte il look e il fatto che, purtroppo per lui, non sa ancora trasformare lacqua in Jim Beam, più o meno ci siamo.»
«Nel suo letto avviene la moltiplicazione degli uomini.» continuò Ted, sollevando uno degli angoli della bocca in un lieve sorriso.
«Per non parlare dei preservativi!» esclamò laltro in risposta. «Mi sono sempre chiesto dove diavolo li tenesse nascosti!»
«E dei soldi.» aggiunse infine il contabile, terminando il suo panino e pulendosi accuratamente le mani. «Pensate alla Kinnetik.»
Michael sorrise, tra gli sguardi sconvolti che sua madre stava lanciando ai tre amici. «Se non sono miracoli questi! Certo le sue parabole non sono propriamente etiche, però...»
«E voi chi cazzo siete? I Re Magi?» replicò sarcastica la donna.
«Soldi...» pronunciò Ted indicando se stesso, per poi passare a Emmett dopo averci pensato su un attimo. «...droga...» e per finire fece un cenno verso Michael. «...e birra.»
«Facciamo alcool. È più generico!» rispose lultimo tirato in causa.
«Ma che cazzo di problemi avete?» chiese lei al limite dello sconvolto, prima di dare unenergica pulita al bancone con lo straccio, masticando decisa il chewin-gum. «Piuttosto, che avete combinato ieri sera?»
«Cena e film con Ben e Hunter.» replicò immediatamente Michael con una scrollata di spalle.
«Cena e film con Blake.» lo seguì imitandolo Ted.
«Non avevo dubbi.» commentò con ironia, per poi rivolgersi a Emmett. «E tu, tesoro? Quanti bei maschioni hai conquistato ieri sera? Ti ho sentito rientrare tardi a casa.» rise compiaciuta e aggiunse: «Scommetto che qualcuno si è divertito parecchio!»
«Effettivamente...» mormorò con tono vago, giocherellando con uno degli stecchini. «È stata una bella serata.»
Debbie si protese sul bancone, appoggiandosi sui gomiti. «Allora, racconta! Comera il ragazzone?»
«No, no.» rise Emmett, sventolando una delle mani in segno di negazione. «Non è come pensi. Ho passato una bella serata intavolando uninteressantissima chiacchierata.»
«Chiacchierata?!» chiesero sorpresi Ted e Michael, allunisono. «Tu?!»
«Esattamente.» confermò deciso, con un pizzico di vanità.
Gli altri due si scambiarono unocchiata confusa e ripresero a fissarlo come se fosse stato un alieno. «Em, sicuro di sentirti bene?»
«Ehi, voi due.» intervenne Debbie. «Piantatela. Non tutti pensano solo e soltanto a scopare! Può essere piacevole anche una chiacchierata, sapete?»
Il figlio le rivolse unocchiata scettica. «Mamma. Stiamo parlando comunque di Emmett
«E con questo? Non fa mica Kinney di cognome.» ribatté contrariata, prima di riportare la sua attenzione sul colorato single della combriccola. «Allora tesoro, dicci chi è?»
Emmett osservò con attenzione il rosso sorriso di Debbie, prima di passare lo sguardo sui propri amici.
Una parte di sé avrebbe voluto confessare candidamente di aver trascorso lintera serata con Jace. Non cera niente di male in fondo, visto e considerato che avevano davvero solo parlato per tutta la sera, eppure qualcosa bloccava la sua proverbiale lingua sempre in movimento e spesso inopportuna.
Pochissime volte nella sua vita qualcuno lo aveva coinvolto tanto usando solo le parole; soprattutto nellultimo periodo, in cui trascorreva le sue notti al Babylon trovando quasi ogni sera un uomo diverso con cui passare qualche ora facendo esclusivamente buon sesso, anche se decisamente vuoto.
Stavolta invece era stato diverso.
Jace aveva riso e scherzato con lui. Avevano bevuto insieme e parlato del più e del meno, osservando la pista e commentando i presenti, prima di lanciarsi in qualche ballo, al centro di quel vortice di luci colorate.
Si era sentito davvero libero e spensierato. Quel ragazzo sembrava in grado di alleggerirlo da ogni pensiero ed ogni peso. Poteva apparire superficiale, ma per certi versi gli ricordava tanto lo sprizzante e un po frivolo Emmett - senza alcun problema o fantasma con cui combattere, che era stato anni addietro - condito da quella speziata malizia e da quel tocco di charme, tipici di uno come Brian.
Jace era un tipo estremamente sicuro di sé.
Sapeva di essere un bel ragazzo con una classe indiscutibile, e dal suo sguardo deciso sembrava che niente potesse turbarlo o intimorirlo; e se mai qualcosa ci fosse stato, certamente lo nascondeva più che bene.
La vicinanza di quel ragazzo era stata una vera e propria boccata daria fresca, e proprio perché sentiva quella sensazione nuova così personale, ne era “geloso” e non sapeva se condividerla, né come poterla spiegare. «È un segreto!» rispose allora, con un largo sorriso a nascondere il suo turbamento, prima di alzarsi dallo sgabello e controllare il proprio palmare. «Scusate, ma devo proprio andare!» concluse poi, inviando loro un bacio nellaria, per poi sculettare come sempre verso luscita, infilandosi il cappotto.
Debbie, Michael e Ted seguirono la psichedelica figura per tutto il suo tragitto, con uno sguardo attento. Restarono in silenzio per qualche secondo e si scambiarono unocchiata eloquente.
Non cera bisogno di parole.
Emmett aveva qualcosa di strano, e come ogni famiglia che si rispetti, era loro preciso compito ficcanasare a dovere per scoprire cosa stesse nascondendo.



*'*'*



«Quindi...che si fa?» chiese Justin, passeggiando tranquillamente al fianco di Brian per Liberty Avenue, e passando gli occhi intorno a sé, in ogni angolo di quella strada così familiare, per assaporarne ogni particolare.
Aveva agognato per così tanto tempo la possibilità di rivivere quei momenti, fatti delle loro abitudinarie passeggiate, che ancora non riusciva a crederci davvero. Continuava ad essere terrorizzato dallorrendo presentimento che tutto quello fosse solo un sogno e che presto avrebbe finito per svegliarsi nel suo letto a New York.
Spostò lo sguardo su Brian, bellissimo e reale accanto a lui, e gli si fece più vicino, cingendogli la vita con un braccio e lasciando che luomo passasse il proprio sulle sue spalle.
«Lo domandi?» replicò in risposta il bel pubblicitario, con il suo solito sorrisetto spavaldo. «Scopiamo.»
Justin sorrise e scosse la testa. «Non mi riferivo solo a oggi. Come sempre non ci siamo dati neanche il tempo per parlare un po...»
«Cè sempre da preoccuparsi, quando hai voglia di parlare.» mormorò Brian arricciando le labbra poco convinto dalle parole dellaltro, ed inarcò le sopracciglia. «Il tuo pensare non ha mai portato a niente di buono.»
«Brian, sto parlando sul serio.»
«Anchio.» ribatté prontamente, ma quando incrociò lespressione seria di Justin, sospirò e comprese che non era davvero il momento di scherzare. «E va bene...hai detto che potrai restare circa un mese se tutto procede secondo i piani, no?» sollevò le spalle e prese le chiavi della Corvette dalla tasca del cappotto. «Ok, allora quando arriverà quel giorno vedremo.»
«Vedremo
«Esatto. Quando sarà il momento in cui dovrai ritornare a New York, perché tu ritornerai a New York...» scandì bene le parole, per accertarsi che il suo biondo interlocutore avesse afferrato lindiscutibile concetto, e con unaltra distratta scrollata di spalle, aggiunse: «Allora ne parleremo. Non ha molto senso farlo ora.»
Stizzito e spaventato dalle parole delluomo, Justin sentì montare rabbia ed esasperazione dentro. Non poteva permettere che Brian lallontanasse di nuovo. Non era a New York che voleva stare, ma a Pittsburgh insieme a lui. «E se io non volessi tornare là? Hai sentito quello che ti ho detto ieri?»
«E tu hai sentito quello che ti ho detto più di un anno fa?» replicò asciutto, togliendosi gli occhiali da sole. Brian aveva già preventivato una reazione del genere e, per quanto in cuor suo avrebbe voluto accontentarlo e lasciarlo restare, non poteva assolutamente permettere uno sbaglio simile. Justin aveva una carriera da portare avanti, ed era quello che avrebbe fatto, anche a costo di costringerlo e rispedirlo nella Grande Mela legato al sedile dellaereo. «Tornerai a New York e non si discute. Non puoi mandare tutto a puttane.»
«Ho già avuto tutto da quella città.»
«Puoi sempre avere di più.»
«Ma non minteressa e...»
«Justin. Non voglio ripeterlo.» lo interruppe, stavolta con un tono molto più duro. «Non butterai nel cesso tutta la tua carriera. Fine della storia.»
«È la mia vita, cazzo!» sbottò inevitabilmente, stringendo i pugni così forte da far sbiancare le nocche. «Posso decidere di farne quello che voglio!»
«Non erano questi i patti.» replicò irremovibile Brian, aggrottando la fronte.
«Fanculo i patti!» esclamò Justin. «Non voglio tornare in quel posto.»
«Ok, resta alla vecchia e gloriosa Pittsburgh, ma non aspettarti di trovarci anche me.»
«Perché devi essere sempre così stronzo?» chiese con rabbia, passandosi una mano tra i capelli biondi e lucenti per scostare i ciuffi che gli coprivano gli occhi.
«E tu perché devi essere sempre così sordo e cieco?!» ribatté Brian, alzando la voce e inchiodando laltro con il suo penetrante sguardo verde scuro. Serrò le labbra e aspettò che Justin recepisse il messaggio celato nella sua frase; e come da programma, dopo qualche secondo di gelido silenzio, le spalle dellartista si rilassarono e gli occhi blu si addolcirono nuovamente, facendogli riassumere quella sua tipica aria da ragazzino.
Come in ogni loro litigio, Justin aveva avuto il bisogno di fare la sua solita sparata, prima di calmarsi e comprendere cosa in realtà laltro volesse comunicargli. Aveva avuto bisogno di sfogare la sua frustrazione, prima di ascoltare con più attenzione quelle parole e capire che tutto quello che Brian diceva o faceva era, come sempre, solo e soltanto per il suo bene.
Non era per scacciarlo o perché non lo voleva tra i piedi. Perché per quante volte gli avesse detto di andarsene in passato, ormai la fase “sono single, voglio restarlo e scoparmi qualsiasi cosa si muove” era stata superata ed accantonata da un bel pezzo, e Brian aveva già imparato ad ammettere, accettare e convivere con lamore che provava per Justin. Aveva compreso il suo bisogno di quel ragazzino biondo nella sua vita e non avrebbe mai fatto niente per allontanarlo, se non fosse stato esclusivamente per il suo bene.
Nuovamente consapevole di quella verità, con un sospiro sommesso, Justin finì per placare anche la poca rabbia rimasta e mormorò, pur mantenendo uno sguardo triste: «La smetterai mai di sacrificarti per gli altri?»
«Non è un sacrificio.»
«Per me lo è!» esclamò ancora. Non riusciva a sopportare il fatto che ogni dannata volta, Brian dovesse sempre anteporre la sua stramaledetta carriera dartista alla propria felicità; e non abbandonava mai la speranza che prima o poi la piantasse con quella sua stupida crociata e gli dicesse un sincero “resta”.
«Tornerai quando sarà il momento e non è certo adesso.» gli rispose invece, con un tono che non ammetteva repliche, e fu impossibile per Justin desistere dallalzare gli occhi al cielo e sospirare ancora.
«Verrai a trovarmi almeno?»
Le labbra di Brian si schiusero con fare incerto, per rispondere, quando il suo cellulare prese ad agitarsi e suonare nella tasca interna del cappotto. «Pronto...» disse, dopo aver letto un “Linz” lampeggiare sullo schermo. «Ciao figliolo!» esclamò poi; e quegli occhi verdi parvero accendersi e brillare di una luce accecante, mentre un sorriso sincero andava ad increspargli le labbra piene. «Sì...di pure alla mamma che passo a prenderti tra...» guardò il suo costoso Rolex e comunicò: «...dieci minuti.» sorrise più apertamente e lanciò unocchiata a Justin. «Sì, è qui con me. Verrà anche lui. A tra poco.» riagganciò e, dopo aver riposto il cellulare nel taschino, fece scattare la serratura della Corvette. «Andiamo raggio di sole, devo andare a dar sfoggio delle mie qualità di padre perfetto.»
«Brian...» lo chiamò con uno sbuffo scocciato. «Smetti di sviare il discorso. Hai sentito quello che ti ho detto?»
Lui sollevò gli occhi al cielo e si passò la punta della lingua sulla bocca. «Sì, ho sentito...e la mia risposta è sempre la stessa...non voglio interferire o crearti distrazioni, e...»
«Ma perché non la pianti una buona volta con...»
«Non ho finito.» intervenne per bloccare le proteste dellaltro. «Stavo dicendo che non voglio crearti distrazioni mentre lavori, ma se avrai il tempo di prenderti una pausa...» alzò le spalle e piegò per un attimo le labbra allinterno, prima di accennare ad un sorriso. «...Pittsburgh dista unora daereo e nessuno ti vieta di trascorrere qua le tue vacanze. In fondo è anche casa tua. Chi può impedirti di tornare?»
Justin lo scrutò attentamente, nel silenzio più assoluto, come se si aspettasse unaltra clausola in quellennesimo loro patto, che non gli sarebbe piaciuta affatto. Aggrottò la fronte e pronunciò fievolmente: «Vuol dire che posso...»
«Tornare durante le pause...è questo che ho detto.» si affrettò a puntualizzare, per smorzare sul nascere qualsiasi strana idea potesse aggirarsi in quella folle e spettinata testolina bionda. «Non abbandonare tutto e ritrasferirti in pianta stabile. Chiaro?» aspettò che laltro annuisse, seppur con titubanza, ed aprì la portiera della Corvette. «Andiamo, sali. Gus s’innervosisce se arrivo tardi.» sorrise e si mise al volante, rendendosi conto di come la frase appena pronunciata gli riportasse alla mente un Justin appena maggiorenne che, dopo laggressione, mostrava quella stessa identica reazione se non lo aveva vicino. Per qualche strana ragione, Gus somigliava un poanche a lui. «Sai, ha un po i tuoi modi di fare.» gli confessò quindi, ridacchiando.
«E questo ti preoccupa?» domandò il ragazzo, regalandogli uno dei suoi sorrisi luminosi e compiaciuti. Gli piaceva davvero tanto lidea che Gus ricordasse lui al padre.
Brian gli scoccò una strana occhiata e inforcò nuovamente gli occhiali scuri, prima di mettere in moto e partire. «Non immagini quanto.»

Con un minuto esatto di anticipo, dopo una sua classica performance di guida perfettamente spericolata, Brian parcheggiò la Corvette nel vialetto, assistendo compiaciuto alla corsa felice di suo figlio che lo raggiungeva con le braccia aperte - pronto a farsi stringere in un abbraccio - ed un sorriso splendido ad illuminargli il visino dolce e paffuto.
Scese velocemente dall’auto e si preparò ad accoglierlo compiaciuto, quando il bambino si gettò al collo di Justin.
«Justin, Justin.» lo chiamò entusiasta, lasciando il padre decisamente confuso e interdetto. «Ho fatto un disegno! Vuoi vederlo?!» gli chiese speranzoso, dopo aver afferrato la mano del giovane artista con la sua minuscola e morbida, per tirarlo verso casa.
«Certo, certo.» rise il ragazzo, per poi farsi trascinare, senza neanche avere il tempo di salutare Linz a dovere.
Brian scosse la testa, con uno strano sorriso e inserì lallarme, prima di avviarsi lentamente verso la porta dingresso, dove la sua bionda migliore amica lo stava aspettando con unespressione evidentemente divertita. «Evita i commenti.» lavvertì immediatamente ma, come aveva già preventivato, fu tutto perfettamente inutile.
«Sembra che i geni dei Kinney, abbiano un particolare debole per quello dei Taylor.» sorrise compiaciuta, dandogli un buffetto sulla spalla.
«Non mi pare che lamore divampasse tra me e papà Taylor.» rispose lui, riferendosi ai brutti trascorsi con Craig, per confutare in qualche modo la sua teoria.
Linz sollevò le sopracciglia ed arricciò le labbra, come se stesse varando varie ipotesi. «Effettivamente...» mormorò, per poi aggiungere: «...probabilmente è un debole solo per quel Taylor in particolare.»
«Come no.» borbottò Brian, entrando in casa, sperando nuovamente – e invano – che il discorso si esaurisse con quella battuta.
«Sono davvero contenta che sia tornato.»
«Non lha fatto infatti.» rispose con una scrollata di spalle, e quando vide lo sguardo confuso della donna, si decise a spiegare: «Starà qui solo per un mese, al massimo. Poi dovrà tornare alla sua base operativa nella Grande Mela.»
«Un mese non è poco, e magari potresti anche deciderti per farti qualche viaggetto a New York.» lo rimproverò con unocchiataccia. «O magari a Toronto in sua compagnia. Faresti felice anche Gus.»
«Vedremo.» tagliò corto con un sospiro, facendo il suo ingresso nel salotto di casa Bruckner-Novotny, dove il tavolino ed il pavimento erano completamente imbanditi di pastelli, matite e fogli.
Le labbra di Brian sincresparono in un sorriso dolce e sentì il cuore battergli con forza dirompente nel petto, quando tra quel tripudio di pittoresca confusione, i suoi occhi simbatterono nellentusiasmo del piccolo Gus che mostrava i suoi buffi disegni a Justin, spiegandoli accuratamente: «Questa è la nostra casa a Toronto.» disse deciso, indicando quella strampalata riproduzione dal tetto rosso e triangolare e il comignolo storto. «E questo sono io, con le mie mamme, Jenny e il mio papà.» indicò tutti, uno per uno, finché non arrivò ad unaltra figura bionda nel disegno, con due grandi cerchi blu ad interpretarne gli occhi. «E ho disegnato anche te, vicino al mio papà! Vedi?»
«Sì.» sorrise Justin. «È bellissimo sai?» gli disse poi, accarezzandogli la testa. «Che dici...posso tenerlo io questo?»
A quelle parole Gus si gonfiò dorgoglio. «Certo!» esclamò, prima di voltarsi verso i propri genitori e correre da loro. Si allungò verso Brian e si fece prendere in braccio. «Hai sentito papà? A Justin è piaciuto il mio disegno!» gli rivolse un gigantesco sorriso e continuò: «E se lha detto lui, vuol dire che anche io farò i quadri?»
«Be...se lha detto Justin...» ammiccò, strizzando locchio. «...deve essere per forza così. Anche perché ne sono certo, Gus...potrai diventare tutto quello che vorrai.»
Il bambino sorrise felice, prima di passare gli occhi tra suo padre e il biondo artista. «Adesso possiamo andare alla tua casa? È più bella e ha la televisione grandissimissima
«Daccordo signorino.» convenne lui, facendo un cenno a Justin.
«È proprio tuo figlio.» commentò Linz, scuotendo la testa. «Non riesce a stare lontano dalle cose costose, di classe e da megalomani come te.»
«Per fortuna, aggiungerei.» ribatté Brian, inarcando le sopracciglia. «La sua natura lo salverà da te e tuo marito. Non oso immaginare cosa ne verrebbe fuori altrimenti.»
«Molto spiritoso.» lo apostrofò lei. «Comportati bene davanti a tuo figlio...» lanciò unocchiata eloquente e ammonitrice a Justin e sorrise maliziosa. «Tenete le mani a posto e portatelo a casa di Debbie in orario per la cena. Chiaro?»
«Sì, signorina Rottermaier.» la prese in giro luomo, tra le risate di Justin, riuscendo a schivare appena in tempo un debole pugno. «Ci vediamo più tardi.» la salutò, seguito dagli altri due suoi uomini, prima di raggiungere la Corvette e consegnare il bambino a Justin, per farlo sedere con lui, proprio come avevano sempre fatto in passato.


“Hear you me” – Jimmy Eat World


Il primo a raggiungere la porta scorrevole fu Gus, dopo aver trascinato i due uomini in una “gara a chi arriva primo” su per tutte le scale del palazzo, e in cui, ovviamente, lo avevano lasciato vincere.
Brian osservò suo figlio saltellare felice, mentre prendeva in giro sia lui che Justin, e fece girare le chiavi nella serratura per permettere a tutti di entrare nel loft.
Con uno scatto fulmineo, il bambino corse immediatamente allinterno e salì su una delle due sedie bianche, sporgendosi sul tavolo, senza neanche togliersi il cappotto e la sciarpa, pronto ad iniziare il suo pomeriggio di disegni con il giovane e biondo artista. «Justin, Justin!» lo chiamò, agitandosi sulla sedia. «Metti tutto qui!» strillò entusiasta, riferendosi ai colori e ai fogli che aveva insistito per portarsi da casa.
«Piano, campione.» lo riprese suo padre. «Togliti prima questa roba.» gli disse, prendendo a srotolare la sciarpa dal piccolo collo bianco e sbottonandogli il piumino.
«Ehi Gus.» lo chiamò Justin. «Che ne dici se disegniamo sul pavimento?» propose, sapendo quanto Brian tenesse al suo tavolo ellittico e immacolato, e che sarebbe certamente stato in pericolo con un bambino di sette anni e i suoi coloratissimi pennarelli.
Gus annuì felice in risposta e zampettò vicino al ragazzo, mettendosi immediatamente disteso a pancia sotto e aspettando che Justin posasse un foglio bianco davanti a lui. «Che disegno?» chiese in seguito, indugiando sulla miriade di pennarelli a sua disposizione.
«Non so, quello che preferisci.» gli rispose lartista, sedendosi accanto a lui.
«Allora...» iniziò incerto il bambino, inarcando le piccole ciglia scure e facendo sparire le labbra allinterno della bocca, replica del padre. «...disegno me, te e papà!» decise, e prese il pennarello rosa, iniziando a tracciare i primi contorni.
«Attenti al mio parquet, voi due.» brontolò immediatamente Brian, prendendo una bottiglia di birra dal frigo. «Vi tengo docchio.»
«Non fare il padre pallos...ehm...» Justin si schiarì la voce e lanciò unocchiata al mini-Kinney, per sincerarsi che non lavesse sentito. «...noioso.»
«Taylor...» lo apostrofò, fingendosi sconvolto, mentre si avvicinava ai due e si sedeva con loro. «Che cosè questo linguaggio?»
«Ma piantala!» ribatté laltro, lanciandogli contro uno dei pennarelli.
«Justin, mi disegni una casa?» chiese Gus, intento nella riproduzione dei capelli del padre sul foglio bianco.
«Certo.» rispose, prendendo immediatamente i colori giusti ed iniziando a tracciare le prime linee perfettamente dritte, mentre gli occhi scuri di Brian si perdevano nellosservare lespressione assorta che Justin assumeva ogni volta che doveva disegnare; anche se si trattava della cosa più semplice del mondo.
Semplicemente, gli piaceva guardarlo.
Adorava vedere il cipiglio leggero che gli solcava la fronte nivea, e quelle perle blu dei suoi occhi fisse sul foglio e concentrate; o il modo in cui a volte serrava le labbra o le mordicchiava distrattamente. Adorava come piegava di lato la testa per controllare da unaltra angolazione il suo operato; o come i capelli biondi e lisci danzavano davanti alla sua faccia, costringendolo a scostarseli dietro le sue bellissime orecchie a conchiglia. E adorava anche quel suo buffo vizio di premersi il pennarello – o qualunque fosse lo strumento che usava in quel momento per disegnare – sulle labbra, assottigliando lo sguardo e assumendo quella sua eccitante aria pensosa.
Brian avrebbe trascorso ore ad osservarlo mentre disegnava, perché in quel momento Justin gli appariva etereo. Era così bello da sembrare intoccabile, e a volte quasi aveva avuto paura a farlo, perché temeva di rovinare quellaffinità che quel ragazzino riusciva a creare con larte. Solo nei momenti in cui il bisogno di sentirselo addosso era diventato più forte di tutto il resto, si avvicinava a lui e lo strappava dal quel suo strano limbo per farlo ancora suo.
Prese un sorso e inconsapevolmente si ritrovò a sorridere.
Se invece che avere il genio della pubblicità dentro, avesse avuto quello dellarte come Justin, sicuramente avrebbe immortalato su una tela quella scena, e lavrebbe nominata con un titolo che avrebbe richiamato il significato della felicità più semplice e pura; perché per lui, quellimmagine, aveva davvero quel sapore perfetto, e avrebbe anche pregato purché non finisse mai, perché restasse indelebile ed immutata nel tempo; eppure, bastò un brutto ricordo del passato a rovinare tutto.
Improvvisamente la mano di Justin prese a tremare, come tante altre volte gli aveva visto fare, e il ragazzo fu costretto a ritrarla prima di rovinare il disegno con i suoi spasmi e ad afferrarla con quella sana, per mettere in trazione i tendini.
Brian lo vide borbottare qualche imprecazione, così che si avvicinò a lui con uno strano groppo alla gola, e sostituì le sue mani a quella dellartista, per aiutarlo nei massaggi. «Non mi hai ancora detto niente di questa. Come va?»
Justin sbuffò. «Come sempre. Solo che in questo periodo le ho chiesto davvero troppo, e adesso sembra resistere un po meno del solito.»
«Tranquillo...» gli disse, vedendolo nervoso. «...tienila un po a riposo e tornerà come prima.»
«Finisco questo disegno e...»
«Justin.» lo chiamò, con un leggero tono di rimprovero.
«Solo questo.» gli sorrise, gongolando un po per il fatto che Brian si preoccupasse tanto per lui. «Promesso.»
«Daccordo.» sospirò arrendevole, terminando di massaggiargli la mano, prima di passare le dita nei capelli setosi del figlio, in una carezza carica damore. Tornò a sorseggiare la sua birra, e riprese a godere di quellimmagine perfetta, seppur con un po di ansia che, come un dito gelido, gli sfiorava la schiena in tutta la sua lunghezza, impedendogli di sciogliere quellodioso nodo al centro della gola.
Per quanti anni fossero trascorsi, Brian non sarebbe mai riuscito a farsi davvero una ragione per quello stramaledetto incidente; Brian non riusciva ancora a perdonarsi per non esser stato capace di impedire a Chris Hobbs di colpire il suo Justin e di lasciargli addosso una ferita indelebile.
Gli capitava spesso di sentir bruciare quella ferita al centro del petto che si era andata ad aprire nel momento in cui laveva visto crollare, seguita dallimmagine del rosso vermiglio del sangue che andava a insinuarsi tra i fili dorati dei suoi capelli e a macchiargli la faccia, spegnendone il sorriso.
Non ne aveva mai parlato con nessuno, ma gli capitava di avere incubi per quella notte, e qualche volta si ritrovava a fissare il vuoto mentre la sua mente gli riproponeva, traditrice, quella sequenza orribile.
Erano stati forse anche quelli, nellultimo anno, i momenti in cui desistere dal chiamare Justin e correre da lui, era stato davvero difficile. Si svegliava nel cuore della notte, terrorizzato dal fatto che tutto ciò che avevano vissuto dopo lincidente fosse stato solo un sogno, e che nella realtà, Justin era morto da tempo, perché non era riuscito a salvarlo.
Si sentiva i polmoni svuotati, il cuore che sembrava sul punto di esplodere, e la pelle sudata e fredda per lo spavento, finché non si rendeva conto che era lennesimo incubo e si lasciava ricadere sul letto disfatto dal suo continuo rotolarsi e riprendeva a respirare, ripetendosi come un mantra che era tutto a posto, che Justin stava bene e che non doveva disturbarlo.
A volte si chiedeva se una semplice telefonata avrebbe salvato le cose; se per una di quelle notti avesse ceduto e gli avesse detto la verità, invece di continuare a fingere che tutto fosse un idillio, avrebbe cambiato le sorti di quella loro strampalata e minata storia...poi però, gettava uno sguardo distratto all’inserto di cultura di un qualsiasi giornale, e leggendo quel nome tanto familiare seguito da miriadi di recensioni positive, il suo cuore si riempiva a metà tra l’orgoglio e la malinconia, per cui, con un sorriso amaro, abbandonava ogni proposito e si costringeva a tornare alla sua vita.
E si era ormai quasi arreso al fatto che le cose sarebbero rimaste in quel modo, quando quei ciuffi biondi e luminosi, quegli occhi profondamente blu e quel sorriso disarmante, erano ricomparsi all’improvviso sulla sua strada, riattivando il suo cuore ammaccato e gelido che credeva ormai destinato ad essere inutilizzato, e a riempirsi di polvere e ragnatele.
Era stata come una sorda esplosione, come ricominciare a respirare dopo aver passato troppo tempo a soffocare lentamente in apnea; era stato come sentire distintamente il sangue ricominciare a scorrere nelle vene, e scaldare quel corpo ormai gelido, alla stregua di quello di un cyborg.
Justin era tornato, e con lui il suo bambino.
Erano tornati a dargli una speranza che, per quanto borbottasse di non volere, in realtà era la cosa che più agognava al mondo e a cui si aggrappava con tutte le sue forze.
Brian Kinney sperava, sperava eccome.
Sperava di raggiungere quella felicità di cui tutti parlavano, ma che lui era riuscito solo a sfiorare per qualche istante, prima di vederla volare via; sperava di poter tenere con sé gli unici due uomini che aveva davvero amato più di qualsiasi altra cosa nella sua discutibile esistenza, e che occupavano tutto il suo cuore.
Con un lieve sospiro, svuotò la bottiglia con un ultimo sorso e si riavvicinò a suo figlio, in uno slancio d’affetto, per sfiorargli con un bacio la testa ed osservarlo mentre terminava di colorare gli ultimi dettagli di quel suo piccolo capolavoro, tenendo la lingua fuori su un lato, stretta tra le labbra, a dimostrazione dell’impegno che ci stava mettendo. «È bellissimo, sai?» gli confidò poi, passandogli un braccio intorno alla vita.
«È quasi finito!» esclamò il bambino in risposta, prima di chiudere il pennarello – come mamma Mel gli aveva insegnato per non lasciarli seccare – e sventolare il foglio colorato. «Guarda!»
«Ma come Gus, non metti la firma alla tua opera?» gli chiese Justin. «Tutti i grandi artisti lo fanno.»
«Anche tu?» gli domandò in risposta, con gli occhi vispi e incuriositi.
Justin annuì e Brian gli porse un pennarello nero. «Andiamo piccolo Warhol, scrivi il tuo nome.»
«Dove?» chiese lui, squadrando il disegno con attenzione, come se dovesse fare la cosa più importante del mondo.
«Qui.» indicò Justin. «Nell’angolo in fondo a destra. Ti piace?»
Gus annuì sorridente, e si distese nuovamente a pancia sotto, concentrandosi al massimo per non sbagliare neanche una lettera e mostrare a suo padre quanto ormai fosse bravo. «‘Gus’.» pronunciò lentamente per aiutarsi. «‘P’...‘M’...‘Kinney’.» sorrise soddisfatto, per essere riuscito a scrivere tutto correttamente e si voltò verso Brian, con uno sguardo furbo. «Il cognome importante è ‘Kinney’.»
«Mi sembra più che ovvio, campione.» convenne, strizzando l’occhio.
«Fanatico.» sussurrò Justin, attento a non farsi sentire dal piccolo.
«Ha già capito come stanno le cose.» ammiccò, sollevando le sopracciglia e spingendo la lingua contro la guancia. «È intelligente...d’altronde è mio figlio
Justin scosse la testa rassegnato e prese a ridacchiare. «Ho quasi paura di sapere come verrà fuori. Sembra già fin troppo sulla buona strada per replicarti.»
«E questo è un male?»
«Dipende dai punti di vista.» rispose, storcendo le labbra. «Spiegalo a Melanie, se ci riesci.»
«Mamma Melanie si mette sempre a pregare ogni volta che qualcuno le dice che assomiglio a te.» intervenne il bambino, stupendo i due adulti. «Lo fa perché spera che sia così, vero? È per questo che alza gli occhi al cielo e prega tanto?»
Per Justin, trattenersi dal ridere dopo la sorpresa, fu letteralmente impossibile, mentre Brian si sforzò di assumere un’espressione più seria. «Certo tesoro.» rispose, con un ghigno divertito. «E non immagini quanto! Non vede l’ora...»
«Allora m’impegnerò tanto e diventerò come il mio papà.» affermò convinto il bambino, prima di prendere un altro foglio e ricominciare a disegnare, ispirato da chissà cosa.
«Melanie ti strapperà le palle per questo.» sussurrò all’orecchio di Brian, il biondo artista, e l’altro scrollò le spalle.
«Be’...mi auguro le difenderai a costo della vita, perché non ci perdo solo io, stronzetto...» inarcò le sopracciglia e si sporse per baciarlo sulle labbra.
Appoggiò la fronte contro quella dell’altro, trattenendolo per la nuca e facendo vagare le dita tra quelle ciocche bionde, prima di sfiorare il proprio naso su quello di Justin. Sollevò le palpebre, andando incontro all’abisso profondo di quegli occhi blu e non riuscì a trattenere un sorriso beato, reso più sognante dal leggero sospiro che gli sfuggì dalle labbra, quando riprese a baciarlo.
Erano quei semplici momenti di malcelata dolcezza, quelli in cui avrebbe davvero pregato che il tempo si fermasse; quando inconsapevolmente si concedevano di coccolarsi, senza però dirselo apertamente, come se fosse il loro piccolo segreto. Un segreto di cui avrebbero certamente negato l’esistenza, se mai qualcuno avesse provato a pronunciarlo ad alta voce...perché loro erano Brian Kinney e Justin Taylor, e per il resto del mondo scopavano e basta, senza mai confessare che quei gesti, in realtà, erano così pieni di dolcezza e di un’amore talmente grande, che avrebbero potuto spazzare via qualsiasi cosa.
E avrebbe continuato a restare in quella tiepida bolla, dove ogni cosa sembrava perfetta, se solo quel dannato telefono non avesse emesso il suo trillo acuto, attentando alla salute dei suoi nervi per la seconda volta in una sola giornata.
Sollevò gli occhi verde scuro verso l’altro gonfiando le guance, e si alzò per raggiungere il cordless, ciondolando scocciato per il breve tragitto. «Pronto?» rispose ed immediatamente le sue labbra si piegarono in una smorfia.
«Mi auguro per voi due che vi siate astenuti dal fare porcate davanti a Gus, o mi premurerò di staccarvi le palle personalmente...» lo aggredì immediatamente la voce decisa di Melanie. «...a parte questo, datevi una mossa, ci vediamo da Debbie tra mezz’ora.»
Brian si diede una sonora scozzata ai gioielli di famiglia, come ogni volta che il marito di Linz si premurava di lanciare minacce alla sua tanto cara attività sessuale, e biascicò in risposta: «Bestellungen, fuhrer!»
«Attento a quello che dici.» lo minacciò nuovamente lei, con la voce ridotta ad un sibilo. «Ricordati che sono ebrea
«Appunto.» ridacchiò lui e riagganciò prima che potesse protestare.
«Chi era?» gli domandò Justin, quando lo vide riavvicinarsi.
Brian imitò il saluto militare nazista e calcò la voce come se fosse un tedesco: «Kommandant Melanie Marcus.» si sedette nuovamente al fianco dell’artista e si sporse verso di lui per baciarlo. «Ha detto che tra mezz’ora dobbiamo essere da Deb. Pena...»
«Non voglio sentirla.» lo fermò l’altro. «Posso immaginarla e tanto basta.»
«Ehi campione, hai sentito?» si rivolse allora a suo figlio. «Mamma Mel ha detto che dobbiamo andare subito da nonna Deb.»
«Di già?» s’imbronciò il bambino, facendogli intendere che avrebbe decisamente preferito restare solo con loro due.
E come poteva dargli torto suo padre, che attingeva da quegli sporadici e preziosi momenti tutta l’energia di cui aveva bisogno per affrontare quelli in cui la mancanza di Gus e Justin si faceva davvero insopportabile.
Accarezzò ancora una volta i capelli del suo bambino, con uno sguardo profondamente dolce, e si lasciò andare ad un sospiro. «Prometto che domani staremo ancora insieme, ok?»
«Va bene.» mormorò il piccolo, con quella sua vocina adorabile, prima di rimettere nella scatola i pennarelli.
«Sembri quasi più dispiaciuto tu di tuo figlio.» gli fece notare Justin, facendosi più vicino. «Non so chi dei due ha il broncio più grande.»
Brian sorrise amaramente e portò una mano a scostare un ciuffo biondo e ribelle dietro l’orecchio, per poter ammirare meglio quei lineamenti morbidi e perfetti. «Probabilmente sto davvero invecchiando.»
«O forse stai finalmente crescendo.» ribatté Justin, protendendosi con l’intento di appropriarsi di altri baci.
Le loro labbra si ricongiunsero ancora e ancora, tra tanti piccoli schiocchi, prima che il piccolo Gus – perfettamente a suo agio – reclamasse l’attenzione di entrambi e la sua dose di coccole, gettandosi addosso a suo padre in un assalto.
Brian si lasciò ricadere all’indietro ed attingendo a un poco della forza nelle braccia, sollevò il bambino in aria, come se volesse farlo volare.
La possibilità di sentire le risate di Justin, disteso accanto a lui, unite a quelle di suo figlio, era per Brian qualcosa di così prezioso per cui provava davvero la voglia di dire “grazie” in quel giorno di festa; di urlarlo con tutta la voce, più forte di quanto gli fosse possibile...e anche se continuava a percepire dentro al cuore il dolore di vecchie ferite, miste alla paura che, prima o poi, avrebbe perso per sempre quei momenti, un sorriso di suo figlio e uno di Justin bastarono perché ogni preoccupazione e ogni senso dinquietudine svanissero allistante, come nuvole soffiate via dal vento, lasciando solo il posto ad un accecante sole che gli scaldava il cuore.



*'*'*



«Hunter, metti quei salatini sul tavolo.» ordinò Debbie dalla cucina, sbraitando isterica. «E le bibite sull’altro tavolo. Ah, e mi raccomando, il ghiaccio!»
«Che palle!» sbottò il ragazzo, guardando truce la nonna adottiva. «Non siamo al Diner! La pianti di farmi sgobbare?!» lanciò un’occhiataccia a Carl beatamente accomodato sulla poltrona a guardare le ultime notizie alla tv, insieme ad un Emmett stranamente inquieto, e ai suoi genitori che squadravano attentamente quest’ultimo come se gli volessero fare una lastra, e continuò: «Perché non fai alzare un po’ anche i loro culi?!»
«Se usassi le energie che impieghi per lamentarti nel fare ciò che ti ho chiesto, a quest’ora saresti anche tu stravaccato sul divano come loro.» replicò la donna con un sorriso, prima di appioppargli un vassoio di tartine ed una pacca sul sedere come incentivo a darsi una smossa.
«Va bene, va bene.» borbottò lui, procedendo tra gli sbuffi verso la sala in cui era stato sistemato parte del gigantesco aperitivo preparato da Debbie, che, come suo solito, cucinava per un vero reggimento. Lasciò il vassoio sul tavolo e lanciò un’occhiata a Melanie – intenta nel sistemare tovaglioli e bicchieri – prima di chiederle: «Se la uccido, mi difenderai in tribunale?»
Mel scosse la testa ridacchiando. «Non credo ci arriveresti al tribunale, sai?» fece un cenno alle sue spalle, indicando il resto dei presenti e aggiunse: «Provocheresti una crisi emotiva a livello mondiale. Qui tutti dipendono da lei...immaginati il caos. Sicuro di voler correre un rischio simile?»
Hunter sollevò le sopracciglia, soppesando per un attimo le varie possibilità, per poi assumere un’espressione terrorizzata ed affrettarsi a negare con la testa. «No, grazie. Chi li sopporta poi?»
«Appunto.» ribatté con ovvietà, quando il suono del campanello si diffuse per tutta la casa. Si avviò verso la porta e l’aprì, dando il benvenuto a Jace, Ted e Blake. «La casa non è stata difficile da trovare allora!» esclamò, riferendosi al primo dei tre.
«No, no.» sorrise il designer. «Fortuna che ho sempre avuto un buon senso dell’orientamento.» la salutò con due baci sulla guancia e proseguì per raggiungere Debbie e consegnarle la confezione di dolciumi acquistata in pasticceria. «Questa è per la padrona di casa.»
«Tesoro!» lo chiamò con uno strillo che fece sobbalzare tutti; tutti tranne Emmett, che si era gelato sulla poltrona fin dal primo momento in cui aveva udito la voce del ragazzo. «Ma non dovevi!»
«Ho chiesto un po’ in giro e mi hanno detto che era la pasticceria migliore della città.» fece un sorriso spavaldo e aggiunse: «Ho sentito dire che fanno dei cannoli favolosi.»
Debbie gli rifilò uno scappellotto e lo spinse verso la sala. «Va’ a sederti, piccolo succhiacazzi impudente!»
Continuando a ridacchiare, Jace raggiunse gli altri stravaccati sul divano, e li salutò con un sorriso. «Ciao a tutti!» esclamò, passando lo sguardo su ognuno di loro, fino ad incontrare la perennemente evidente figura di Emmett. Gli strizzò l’occhio con fare complice, e solo allora si rese conto di quanto questo fosse più cupo del solito e rigido come un blocco di marmo. Di certo, non era il solito favoloso e sfavillante Emmett; perciò, continuando a sostare con lo sguardo su di lui, si avvicinò con la fronte aggrottata pronto a sederglisi a fianco, incuriosito dal suo comportamento, quando il campanello suonò per la seconda volta.
I suoi occhi abbandonarono il ragazzo per spostarsi verso la porta, da cui un uomo sulla cinquantina, con i capelli cenerini e gli occhi azzurri come il cielo, fece il suo ingresso, accolto da una quantità esagerata di affetto e sorrisi, soprattutto da parte di Debbie.
«Era il compagno di mio zio.» gli comunicò una voce alle sue spalle, che poi riconobbe essere quella di Michael. «Non hai fatto in tempo a conoscerlo, ma so che ti sarebbe piaciuto.»
«Be’, a chi non poteva piacere Vic?» convenne immediatamente Ben, cingendo il marito in un abbraccio. «Era una persona fantastica.»
L’altro fece un sorriso un po’ amaro, con lo sguardo perso nel vuoto a ricordare qualche aneddoto, per poi riportare la sua attenzione su Jace. «Ci ha lasciati tre anni fa.»
«Come...» iniziò il ragazzo, un po’ imbarazzato.
«AIDS.» rispose senza tanti fronzoli. «Era malato da parecchi anni, ma è riuscito a tenere testa a quello schifo per davvero molto tempo.»
«Doveva essere un vero uomo con le palle.»
Michael sollevò le sopracciglia ed indicò con gli occhi la madre, ancora intenta a parlottare con Rodney. «Come pensi che potesse essere con una sorella del genere?» scoppiò a ridere e aggiunse: «Per vivere una vita intera con mia madre, non ti bastano due palle.»
Jace sorrise a sua volta, osservando l’energica donna, come abbagliato da quella sua forza che sembrava letteralmente sprizzare da ogni centimetro del suo corpo ed annuì convinto, prima di gettare l’ennesima occhiata furtiva verso Emmett, sempre più assente.
«Allora, ci siamo tutti?» esclamò Debbie, con la sua voce dirompente.
«No.» comunicarono in coro gli altri, con una voce un tantino esasperata.
«Chi cazzo manca ancora?» replicò lei, guardandosi intorno, finché, resasi conto della stupidità della sua domanda, emise un mugugno infastidito.
«E lo domandi?» borbottò Carl, guardando fuori dalla finestra.
«Li ammazzo.» sibilò Melanie, temendo e pensando al peggio, a cui diede immediatamente voce Ted.
«Staranno mica scopando...»
«Spero di no per le loro palle. C’è mio figlio con loro e non voglio che ne esca traumatizzato!» replicò Linz inviperita, scendendo le scale con in braccio la piccola Jenny Rebecca, dopo aver sentito la conversazione. Raggiunse sua moglie, consegnandole la bambina e si affrettò ad aprire la porta, quando – finalmente – il campanello venne suonato anche dagli ultimi ospiti attesi. «Alla buon’ora!»
Gus fu il primo ad entrare, correndo immediatamente in contro alle loro mamme, entusiasta. Agguantò Linz per il maglione e prese a tirarlo per conquistare la sua attenzione. «Mamma, mamma! Io, Justin e papà abbiamo giocato alla lotta!»
Gli occhi di tutti i presenti guizzarono immediatamente verso Brian, nel gelido silenzio, contornati da espressioni poco amichevoli. «Non quel tipo di lotta.» si affrettò a ribattere allora lui, roteando gli occhi. «Ma perché dovete pensare subito male?»
«Perché si tratta di te e Justin.» replicò acida Melanie, con un sorriso tirato.
Justin si lasciò andare ad una risata e scosse la testa. «Accidenti che bell’idea che avete di me! Sono più responsabile di tutti voi messi assieme.»
«Lo sappiamo, topino.» lo rincuorò immediatamente Deb, con un tono dolce, prima di assottigliare nuovamente lo sguardo ed inacidire la voce, riferendosi al pubblicitario: «Ma, sai com’è, sappiamo anche quanto riesce ad essere traviante una certa persona di nostra conoscenza.»
«Moi?!» esclamò Brian, portandosi una mano al petto e fingendosi sconcertato, ottenendo un pugno sulla spalla da parte di Linz.
«Mangiamo che è meglio.» comunicò la padrona di casa allora, quando il cellulare di Justin prese a suonare.
La mano dell’artista corse immediatamente alla tasca dei Jeans, immaginando che fosse la madre a chiamarlo per ricordargli l’impegno per il pranzo del giorno successivo, ma dovette ricredersi, quando sul display vide un nome totalmente diverso. «Ah...» balbettò, impallidendo per l’ansia. «...rispondo un attimo e arrivo.»
«Certo. Fa pure, tesoro.» gli rispose Debbie, cominciando a riempire il proprio piatto tranquillamente, seguita dal resto della combriccola, eccezion fatta per Brian e Jace che, prima seguirono Justin attentamente, mentre si allontanava per rispondere, poi – senza neanche volerlo – si scambiarono un’occhiata carica della stessa apprensione.
Erano le due persone che lo conoscevano meglio, e ad entrambi non era certo sfuggito quel drastico cambiamento sul suo volto, quando i suoi occhi avevano incrociato lo schermo.
Restarono immobili in mezzo alla stanza, in silenzio, ed ignorando cosa stesse succedendo intorno a loro, troppo presi dall’attesa di quei pochi minuti che assumevano ogni istante di più il sapore di una spiacevole sentenza.
Qualche scambio di battute appena, e Justin lasciò ricadere il braccio, come se fosse privo di forze, chiudendo la comunicazione e voltandosi verso il resto dei presenti, con un’espressione affranta sul volto e passando gli occhi blu – ormai spenti ed opacizzati – prima su Jace, confermando ogni suo presentimento, poi su Brian, sentendo lacrime amare spingere per fare la loro comparsa. «Era Gary, il mio agente...» biascicò con la voce ridotta ad un soffio; e credette di poter svenire da un momento all’altro, quando vide gli occhi dell’uomo di cui era follemente innamorato chiudersi con rassegnazione, nell’attesa che lui terminasse quella frase, come se fosse una pugnalata. Strinse i pugni e digrignò i denti, cercando invano di sciogliere quel fastidioso nodo creatosi improvvisamente nel fondo della gola, per poi costringersi a immettere aria nei suoi polmoni letteralmente svuotati e mormorare a fatica quelle parole gli stavano graffiando la lingua: «...domattina devo rientrare a New York.» 


*** 


Note dell'autrice: 
Rieccomi qua, dopo poco più di un mese con questo nuovo capitolo! 
Scusatemi per il ritardo, ma tra vacanze, matrimoni e università, mi è proprio mancato il tempo!
Sarò brevissima, perché è già tardi e poi non credo ci sia molto da specificare! XD Qualcuno mi odierà...ma io l'avevo detto che non sarebbero state facilmente "rose e fiori" e che sono un po' sadica, no?
Stupidaggini a parte, spero che vi sia comunque piaciuto e che abbiate trascorso delle belle vacanze, perciò passo immediatamente alla cosa più importante: Ringraziamenti!
Un grazie a tutti coloro che hanno letto, a chi ha inserito la storia nelle preferite, nelle seguite o nelle ricordate, ma soprattutto grazie a: mindyxx, electra23, FREDDY335, Hel Warlock, Katie88, SusyJM, EmmaAlicia79, Clara_88, OfeliaCuorDiGhiaccio [a cui devo dire grazie anche per avermi fatto ascoltare "Fever" di Adam Lambert], giacale, silver girl e Thiliol per aver commentato l'ultimo capitolo!
Grazie ancora e alla prossima!
Prometto di essere molto più veloce con la pubblicazione del prossimo capitolo!

Un bacio,
Veronica.


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Capitolo 9
*** Another Goodbye. ***


9.Another goodbye.

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6x09 – Another goodbye.


“Echo” – Jason Walker



«...domattina devo rientrare a New York.»
Ebbene sì, l’aveva detto; e seppur avesse soffiato quelle parole a fatica, quasi sussurrandole, erano arrivate perfettamente alle orecchie di tutti, come un boato assordante o il fastidioso stridio di qualcosa che s’incrina, prima di spezzarsi.
Justin sapeva di aver sorpreso tutti con quell’annuncio; sapeva di aver appena rovinato l’idillio festivo che fino a qualche attimo prima aleggiava tra di loro indisturbato, scaldandoli di felicità e spensieratezza, eppure l’unica persona da cui non riusciva a staccare gli occhi e per cui fremeva nell’attesa di una qualsiasi reazione o un misero gesto, era l’uomo che amava, nonché l’unico che si ostinava a restare in silenzio.
Dopo la notizia un brusio si era alzato, fatto di legittime domande, richieste di spiegazioni e imprecazioni trattenute a stento, eppure le uniche labbra che avrebbe voluto vedersi muovere, restavano perfettamente sigillate tra loro, in una linea dritta e severa, come morte.
E forse quel paragone non era poi così lontano dalla realtà...
Lo si vedeva nella linea delle spalle incurvate o nelle braccia abbandonate a ciondolare lungo il corpo; si percepiva nell’immobilità perfetta dell’espressione del suo viso, ridotto ad una maschera di cera, o in quello sguardo spento che tutto osservava, a parte lui, così come si evita il sole per non essere feriti dalla sua luce accecante.
Sembrava una bambola; una di quelle bellissime bambole algide, che nonostante la loro perfezione, altro non trasmettono che un freddo insopportabile; un burattino a cui erano appena stati tagliati i fili o un giocattolo rotto, scarico, senza quel piccolo propulsore nel petto che gli concede la vita.
Brian si era spento d’improvviso, senza che nessuno si fosse accorto dell’attimo esatto in cui era successo. Se era stato nel momento stesso in cui era squillato il telefono, a causa di un brutto presentimento rivelatosi poi vero, o nel sentire quelle parole, o ancora dopo, quando la sua mente aveva concepito cosa quelle stessero a significare e come si sarebbero tradotte nella sua vita, nessuno poteva dirlo; l’unica cosa certa, era che avrebbe dovuto fare a meno di Justin, di nuovo.
Avrebbe dovuto dirgli ancora quel “ciao” – quel maledetto saluto – che per qualche assurdo motivo aveva sempre più il sapore amaro di qualcosa di definitivo.
Ed era forse stato proprio quello – il ricordare quanto gli avrebbe fatto male, affiancato al pensiero di doverlo sopportare ancora e dalla consapevolezza che forse, questa volta, non l’avrebbe davvero superato – il momento in cui il suo cuore già abbastanza martoriato si era rotto con uno schianto sordo.
Perché quando il cuore si spezza, non è come un bicchiere che si frantuma, qualcosa che si accartoccia o il suono sibilante della stoffa che si strappa. Non è lesplosione assordante e potente di una bomba, né lo schianto di un auto, a cui sussegue lo stridio delle lamiere che si piegano.
Il cuore quando si spezza lo fa silenziosamente; e Brian lo sentì bloccarsi allimprovviso, come tante altre volte gli era successo, e cadere giù, sprofondare risucchiato chissà dove dentro di sé. Come se fosse imploso allimprovviso, senza lasciare alcuna traccia, a parte quel vuoto incolmabile che sembrava pronto a rubare tutto il resto del suo corpo.
Si costrinse a respirare a fatica, senza neanche poter dire per quanto tempo avesse lasciato i suoi polmoni completamente vuoti, e si passò una mano tra i capelli, per raggiungere la nuca e massaggiarla distrattamente.
Se avesse avuto il modo per svanire, Brian lavrebbe usato sicuramente.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di non dover restare un solo minuto di più in quella casa che improvvisamente era diventata troppo stretta; pur di non dover sopportare loppressiva e pungente presenza di tutti quegli sguardi che – ne era più che certo – lo stavano scandagliando a fondo, incapaci di immaginare cosa doversi aspettare.
Stizzito si tolse il cappotto e i guanti, sistemando tutto allattaccapanni, nel vano tentativo di fingere che nulla fosse successo; ed afferrò una delle tartine a caso, prima di sforzarsi di scollare le labbra e infilare a forza qualcosa nel proprio stomaco, ormai accartocciato su se stesso.
«Brian.» si sentì chiamare allora, ma la voce non apparteneva all’uomo di cui era innamorato, bensì al suo migliore amico che, come nella peggiore delle sue previsioni, aveva già assunto quella sua aria tanto preoccupata – fastidiosa e patetica, a sua detta – che detestava da sempre.
«Che c’è?» soffiò scocciato, addentando una seconda tartina.
«Come...» balbettò l’altro incerto. «Non hai...non hai sentito?»
«Sì, Mickey.» commentò caustico. «Ci sento ancora piuttosto bene.» prese in braccio suo figlio e gli allungò una delle tartine che sapeva essere tra le sue preferite. «Adesso possiamo mangiare?» concluse poi, resosi conto delle continue occhiate apprensive di chi gli stava intorno.
A quella richiesta – che sapeva più di ordine – gli sguardi di tutti i presenti finalmente lo abbandonarono, perfettamente consci che, se avessero continuato anche solo per un misero istante in più, avrebbero assistito ad una vera e propria esplosione di rabbia.
Brian riprese lentamente a respirare – seppur continuasse a costargli fatica – e si concentrò nuovamente sul piccolo Gus, finché non si rese conto che un paio di occhi blu – resi liquidi dalle lacrime trattenute a stento – non lo avevano ancora abbandonato.
Justin non si era mosso dalla sua posizione; era rimasto in attesa di qualcosa: un’occhiata, un gesto o una semplice parola da parte sua, che potesse comunicargli qualcosa, ma che, per quanto volesse dargli, pur di alleviare almeno un poco il dolore che sapeva albergare dentro quel corpo efebico, non poteva concedersi.
Se solo l’avesse abbracciato – come poi avrebbe desiderato – sarebbe certamente crollato.
Gli avrebbe detto di non andare, di non lasciarlo di nuovo; gli avrebbe chiesto finalmente di restare, mandando all’aria tutti gli sforzi compiuti fino ad allora da entrambi, venendo meno al loro patto.
Nessuno poteva capire quanto questo sacrificio gli stesse costando. Nessuno, nemmeno Justin; e neanche gli importava se questa sua falsa indifferenza gli sarebbe costata anche una filippica da parte di Deb, o le accuse da parte di chiunque altro dei suoi amici, perché l’unica cosa che davvero contava in tutta quella confusione che si arrovellava sia fuori che dentro la sua testa, era che il futuro del suo Justin fosse salvaguardato da qualsiasi cosa. L’unica cosa che contava davvero, era che i sogni del suo raggio di sole, restassero perfettamente al sicuro.
Per questo semplice motivo, ad un veloce e distratto scambio di sguardi non susseguì altro che il silenzio più totale, nonostante gli fosse perfettamente chiaro quanto quell’ennesimo muro costruito in mezzo a loro potesse ferire Justin e spezzare quelle speranze che sicuramente si erano già accese nel suo giovane cuore; e per lo stesso identico motivo non lo seguì per fermarlo nel momento in cui lo vide voltarsi ed uscire di casa come un razzo, quasi sbattendo la porta, né quando gli sguardi contrariati dei presenti si posarono nuovamente su di lui, quasi a volerlo spronare a fare ciò che secondo loro era la cosa più giusta, ma che Brian sapeva essere la scelta peggiore che potesse fare.
Riabbassò lo sguardo sul ripiano abbondantemente imbandito di cibarie e perse lo sguardo in un punto a caso, inghiottendo perfino il boccone amaro che sentì formarsi sulla lingua quando fu Jace a compiere quel gesto che gli sarebbe dovuto appartenere, e raggiunse Justin.
«Brian...» la voce di Debbie gli arrivò chiara alle orecchie, come l’urlo più forte e fastidioso, nonostante fosse solo un sussurro, ed alzò la testa di scatto per impedirle di aggiungere altro.
«Non sono cazzi che ti riguardano.» sentenziò duramente e la vide sospirare.
«Non lo saranno, ma te lo dico lo stesso...» lo sguardo di Debbie si fece più deciso – forse perché aveva anche già posato le mani sui fianchi e assunto il suo ruolo di mamma – e Brian sollevò gli occhi al cielo con aria scocciata. «...lo so che non vuoi intrometterti, né impedirgli di raggiungere i suoi sogni, ma...»
«Se lo sai, allora non credo ci sia altro da aggiungere.»
«Non ho finito.» esclamò la donna e gli si fece più vicina. «Stavo dicendo...anche se pensi questo, e lo sappiamo entrambi che nonostante sia un coraggioso quanto stupido gesto d’amore, sia la cosa più giusta per lui...» si soffermò ancora una volta e gli puntò l’indice sotto il naso per intimargli di non interromperla ancora. «...ficcati in quella zucca dura che ha anche bisogno di te. Ne ha un disperato bisogno e non credo sia necessario dirti quanto la cosa sia reciproca, perché per quanto tu continui a mettere su questa farsa dello stronzo senza cuore che sta bene anche da solo e non ha bisogno di nessuno, abbiamo avuto ampiamente prova del fatto che è una gigantesca stronzata.»
«Hai finito?» sputò lui acido.
«No, bello mio. Non ho finito neanche adesso.» replicò la donna senza scomporsi, e Brian le rivolse un altro sbuffo infastidito. «E togliti immediatamente dalla faccia quell’odiosa espressione del cazzo, perché non serve affatto né a te, né al topino!» abbandonò il suo cipiglio contrariato e distese le labbra nel suo classico sorriso comprensivo e materno. «Eri diventato così bravo a mostrargli quanto ci tenevi, ed ero così fiera di te...» vide quello che era il suo “figlioccio adottivo” deglutire a fatica il groppo che gli si era annodato in gola e seppe di aver colpito nel punto giusto. «...non dirmi che hai già dimenticato come si fa.»
Brian finalmente la guardò dritta negli occhi, e con quella sola intensa occhiata, Debbie ricevette la sua risposta.
No, che non l’aveva dimenticato.
Come poteva aver dimenticato qualcosa che Justin, con infinita pazienza, si era impegnato ad insegnargli per cinque lunghi anni? Come poteva aver dimenticato qualcosa che era stata la salvezza del loro amore, quando gli era stata donata l’ennesima occasione di poterlo avere al suo fianco, ed aveva finalmente trovato il coraggio di confessarglielo apertamente?
Brian sapeva che quella era una delle cose che, una volta accettate e comprese, diventavano letteralmente indelebili. Era qualcosa da cui non poteva più sfuggire, perché faceva ormai parte di lui; e da se stesso non sarebbe mai potuto scappare, neanche con tutte le proprie forze. Era qualcosa di definitivo, qualcosa da cui non poteva più tornare indietro...e probabilmente, questo non lo spaventava poi neanche più di tanto.
Non gli importava di non essere più lo stesso; di non essere più lo stronzo senza coscienza che scopava qualunque cosa volesse, quando e come lo desiderasse. Non era più quella la vita a cui voleva restare attaccato a tutti i costi.
La vita che desiderava aveva occhi blu e capelli luminosi come il sole. Aveva il sorriso più bello che avesse mai visto, una risata che scalda il cuore, la pelle chiara e morbida; conservava le caratteristiche di un ragazzino e un corpo sottile che andava ad incastrarsi nel suo abbraccio in un modo così perfetto, che al solo pensiero gli faceva male.
La sua vita – lo sapeva già – rispondeva al nome di Justin...solo che, al momento, il suo posto non era al suo fianco...
«Io vado.» borbottò allora, riconsegnando Gus alla madre, con un dolce bacio sulla fronte, per poi infilarsi il cappotto.
Sistemò i costosi guanti di pelle nera e si avviò verso il portone, senza più voltarsi indietro, già conscio delle espressioni e degli sguardi insopportabili che vi avrebbe trovato.



*'*'*


“Find a way” – SafetySuit



Dopo aver saturato i polmoni d’aria con un grosso respiro, Jace aprì il portone ed uscì sul portico di casa Novotny, trovando l’oggetto delle sue ricerche accoccolato su uno degli scalini in legno.
Richiuse lentamente la porta alle sue spalle e si avvicinò con cautela, incerto su ciò che l’avrebbe aspettato di lì a poco.
Justin era sempre stato imprevedibile in questi casi. C’erano stati momenti in cui la rabbia aveva preso il sopravvento e non si era placata fino a quando ogni singolo oggetto presente nel raggio di qualche metro non era stato scaraventato a terra o contro qualche muro; altre volte invece, aveva assistito al suo continuo fumare, perennemente disteso sul letto o sul divano, in uno stato depressivo da far venire i brividi; mentre altre ancora, aveva percepito distintamente il proprio stomaco contorcersi nel vedere tante piccole lacrime lucide che scendevano ad inumidirgli le guance, dandogli l’aspetto di un bambino indifeso.
Quella sera però, Justin sembrava non aver ancora scelto quale “versione di sfogo” adottare, limitandosi ad incrociare le braccia sulle ginocchia piegate e a posarvi il mento; continuando a fissare un punto a caso, con la testa immersa e persa in chissà quali pensieri.
«Ehi...» lo chiamò allora, sedendoglisi accanto.
«Ehi.» rispose secco l’altro, con un filo di voce, senza neanche scostare il proprio sguardo.
«Non ti chiedo ‘come stai’, perché non voglio incorrere in qualche tua maledizione, perciò mi limiterò a chiederti: ‘che cazzo vuole Gary’?»
Justin sbuffò e sollevò appena le spalle. «Vuole che torni a New York.»
«Sì.» commentò Jace sollevando una delle sopracciglia con sarcasmo. «Questo l’abbiamo ampiamente capito tutti quanti, la mia domanda si riferiva al ‘perché’.»
«Perché è uno stronzo.» replicò con poco entusiasmo, e il designer si ritrovò a sbuffare.
«D’accordo, ho capito. Non ne vuoi parlare.»
«Dovrei essere felice...» esordì invece il biondo artista, come se non avesse sentito le parole del suo più caro amico. «...dovrei saltare ovunque per la felicità, perché Gary è riuscito a concludere altri contratti con ben quattro gallerie. Dovrei essere al settimo cielo nel sapere che queste stesse gallerie richiedono mie nuove opere.»
«E invece ti senti uno schifo.» concluse Jace al suo posto, e Justin sospirò ancora.
«Secondo te sono un ingrato?»
«No, sei solo un povero frocio che non ha più uno straccio di vita privata.» replicò caustico, scoccandogli un’occhiata. «Famoso, ricco, ma pur sempre imprigionato in una qualche cazzo di galleria.»
Gli occhi blu di Justin si spostarono ad incontrare quelli dell’amico. Si umettò le labbra, prima di mordicchiarsele, come se stesse valutando le parole giuste da pronunciare, per poi soffiare quasi rassegnato: «Che cazzo dovrei fare allora? Mollare tutto?»
Jace scrollò le spalle. «Solo quello che ti rende felice.»
«Vallo a spiegare a Brian.» rispose l’altro, inarcando le sopracciglia chiare.
«Sei tu che stai con lui, non io.»
«Non credere che questo semplifichi le cose, anzi...»
«Quindi che si fa?» domandò il newyorkese, stiracchiandosi come un gatto.
«Ho molta scelta?» replicò acidamente Justin. «Domani torno a New York e me ne starò inchiodato a quella cazzo di città per chissà quanto ancora, senza poter tornare indietro.»
«Guarda che nessuno ti sta puntando una pistola contro. Vuoi smettere? Fallo.» fece schioccare la lingua ed aggiunse: «Hai spillato abbastanza soldi a quei ricconi con i tuoi scarabocchi per vivere di rendita per il resto dei tuoi giorni, se non ti lasci andare a spese insostenibili da attacchi di depressione.»
«Fantastico.» commentò Justin con sarcasmo. «Proprio una gran prospettiva di vita per uno che non ha neanche ventiquattro anni.»
«E allora che vorresti fare?» chiese Jace, lasciandosi sfuggire una risatina. «Fare il giro del mondo in zattera? Scalare una montagna in infradito?»
«Dipingere.» replicò l’altro, lasciandolo interdetto per qualche secondo.
«E...fammi capire, cos’è che avresti fatto fin’ora?»
Justin scosse la testa. «Non è la stessa cosa. Non voglio dipingere come una specie di automa. Voglio farlo perché è quello che sento il bisogno di fare.»
«L’artista a tempo perso?» ribatté ironico l’altro, beccandosi un’occhiataccia.
«Mi manca sentire quel brivido che ti corre lungo la schiena quando sei davvero ispirato da qualcosa, ed impazzisci se non metti subito con i colori sulla tela ciò che ti è balenato in testa. L’eccitazione di qualcosa che prende forma dentro di te ed esplode, così in un attimo...all’improvviso...capisci cosa?»
«Un...orgasmo
Justin finalmente gli concesse un sorriso, seppur condito da una chiara espressione di rassegnazione. «Sì. Qualcosa del genere.»
«Che vuoi che ti dica piccolo Warhol. È una decisione che puoi prendere solo per conto tuo. Solo tu puoi sapere qual’è la soluzione...devi trovare la tua strada...»
«Grazie, Obi-Wan.» lo canzonò Justin, e Jace fece finta di non averlo sentito.
«Perciò adesso resta solo un piccolissimo problema...» arricciò le labbra e spostò gli occhi nocciola ad incontrare quelli blu dell’artista. «...che combinerai col tuo bello? Hai intenzione di tornare a deprimerti sul divano di casa o farai qualcosa? Non voglio neanche lontanamente pensare di aver fatto quasi quattrocento miglia a vuoto.»
«Guarda che nessuno te l’ha chiesto!»
«Stronzetto ingrato.»
Un altro lieve sorriso andò ad increspare le labbra di Justin. «È che non ne ho la più pallida idea, e questo mi spaventa anche più di dover prendere una decisione per cambiare questo casino...»
«Non avete ancora risolto un cazzo di niente, insomma. Preferirei ritrovarmi la lingua attaccata a quella di una lesbica, piuttosto che dire una cosa simile ma...il sesso non è esattamente la soluzione a tutto, specie quando ci sono invischiati in mezzo quelle cose chiamate ‘sentimenti’.»
«Abbiamo anche parlato. Mi ha detto che non posso rinunciare alla mia carriera, ma che posso tornare qui quando riesco a prendermi qualche giorno di pausa...»
Jace gli sorrise e passò una mano sui suoi capelli biondi per scompigliarli. «Non è andata poi così male allora. Adesso sai che ti vuole...e mi pare che anche il tuo bel culetto possa confermartelo!»
«Quindi dovrei tornare a New York, spaccarmi il culo con i pennelli e le tele e muovermi per tornare a Pittsburgh?»
«Al tuo posto, preferirei spaccarmi il culo in altri modi. Ognuno però è libero di scegliere con cosa dilettarsi. Se i pennelli ti piacciono tanto...»
«Sto parlando seriamente, imbecille.» esclamò l’artista, colpendolo con un pugno sul braccio.
«Anch’io!» replicò Jace, con ilarità, prima di sorridergli. «Stronzate a parte...è la tua vita Justin. Fanne quel che cazzo vuoi.» si sporse verso di lui e posò un bacio sulla sua tempia. «Torneremo a New York domani e poi, che tu scelga di restare con quello schiavista o di stravolgere tutto, per me non fa differenza. Io sarò dalla tua parte...e se pensi di liberarti di me ti sbagli di grosso, frocetto.»
«Ci ho rinunciato molto tempo fa.» rispose il ragazzo, con un tono che in realtà stava solo ad indicare un sincero “grazie”. Dopo di che si passò una mano tra i lunghi capelli biondi e riportò lo sguardo fisso davanti a sé. «L’unica cosa che so, è che voglio passare il Natale a casa, con la mia famiglia.»
«Dovrai davvero sputare sangue allora.»
«Il rosso è sempre stato una costante sui miei quadri.» ribatté deciso; e in quello stesso istante, uno strano brivido gelido percorse la schiena di Jace.
«Cerca di non esagerare, artista da strapazzo.» lo ammonì con fare scherzoso, senza neanche lontanamente immaginare quanto quel rimprovero potesse rivelarsi fin troppo azzeccato. Si soffermò ad osservare l’espressione decisa del suo più caro amico, e fece per aggiungere altro, quando il portone venne aperto, mostrando loro la figura slanciata e perfetta di Brian. «Credo che rientrerò dentro. Fa freddino in questo posto e tutti quei dollari buttati in creme non serviranno a un bel niente se lascio che la pelle si screpoli.» farneticò alzandosi e, dopo aver rivolto un sorriso di gratitudine al nuovo arrivato, rientrò in casa per lasciare i due amanti da soli, a risolvere i loro problemi.
«Ehi.» mormorò Brian, quando sentì la porta chiudersi alle sue spalle; e prese a scendere un paio di scalini.
Justin gli rivolse un lieve cenno con la testa ed abbassò lo sguardo. «Sembra che ti libererai di me anche prima del previsto.»
«Sembra di sì.» commentò atono il pubblicitario e scese anche l’ultimo scalino. Tirò fuori le chiavi della Corvette dalla tasca e si avvicinò al suo prezioso gioiello verde bottiglia.
«Te ne vai?» chiese allora Justin, con un groppo in gola e vide Brian scrollare le spalle con indifferenza, prima di far scattare la serratura ed aprire la portiera, a dare conferma a quella domanda.
Posò gli occhi verde scuro ad incontrare l’immagine rannicchiata di Justin e, dopo essersi maledetto almeno un milione di volte per quello che stava per dire – sapendo che gli sarebbe costato altre lacerazioni e cicatrici – si leccò le labbra con la punta della lingua e soffiò fuori quelle parole che scalpitavano per uscire dalla sua bocca: «Tu che fai? Vieni?»
Justin alzò di scatto la testa, sorpreso da quella richiesta.
Lo fissò per qualche secondo, finché non vide l’uomo che amava sparire dentro l’abitacolo, e finalmente si sollevò da terra per raggiungerlo senza fare domande.
Si sistemò al suo posto ed allacciò la cintura, cercando di rilassarsi e di placare quel senso di malessere che all’improvviso era tornato a farsi soffocante.
Abbandonò la testa contro il vetro e prese ad osservare le luci dei lampioni, senza premurarsi di avvertire il resto delle persone rimaste in casa, certo che avessero già assistito a tutta la scena curiosando dalla finestra.



*'*'*



«Lascia stare tesoro, ci penso io.» esclamò Debbie, togliendo il piatto sporco dalle mani di Jace.
«E dai, volevo dare una mano.» tentò di rispondere lui. «Praticamente hai ospitato in casa uno sconosciuto per la cena del Ringraziamento!»
«Gli amici del
topino, non sono degli sconosciuti.» gli diede una pacca sulla guancia e gli sorrise. «E poi, non te lavevo già detto? Fai parte della famiglia.»
«Condoglianze.» annunciarono all
unisono sia Carl che Emmett. Gli unici ormai rimasti, dopo che il resto degli invitati se nerano andati.
«E voi due, vi ho sentito!» urlò la donna dalla cucina, prima di tornare nella sala. Riservò un
occhiataccia al compagno e al colorato convivente, e si rivolse ancora a Jace: «Tesoro, lasciali perdere questi ingrati. Si lamentano sempre, ma neanche si rendono conto di quanto sono fortunati! Far parte della famiglia ha un sacco di vantaggi.»
«Certo!» convenne Emmett. «Pietanze ipercaloriche che impiegherai
mesi, se non anni, a smaltire. Una vita privata praticamente inesistente, consigli e pareri che ti verranno dati anche se non gli avrai mai chiesti e, ovviamente, una buona dose di schiaffi da parte di Deb.»
Carl si sporse verso di lui e gli strizzò l
occhio complice. «Credimi, fuori dalla porta cè la gente che fa la fila!»
«Avete per caso intenzione di dormire fuori stanotte?» domandò acida lei, con le braccia incrociate. Aspettò che i due negassero terrorizzati e sorrise. «Bene, allora chiudete quelle cazzo di bocche!»
«Agli ordini, comandante.» bisbigliò Carl ad Emmett, stando ben attento a non farsi sentire dalla donna.
«Sapete, in fondo un po
mi dispiace andar via.» ammise Jace, giocherellando con un ciondolo del proprio bracciale. «Non è così male questo posto.» distese le labbra in un sorriso ed aggiunse: «Certo, lo shopping non sarebbe così grandioso come a New York, ma devo dire che la parte frocia della città, non è affatto male. Brian poi ha fatto un gran lavoro con quel Babylon.»
«Non si può certo dire che Brian, quando fa una cosa, non la faccia bene.» rispose Debbie con orgoglio. «Quel ragazzo è nato con il successo cucito addosso.»
«Un po
come Justin.»
La donna annuì sorridendo. «Forse è per questo che s
incastrano così bene.»
«In
tutti i sensi, direi.» commentò Emmett, sollevando il sopracciglio.
Jace si lasciò andare ad una risata, prima di sospirare. «Comunque, da quando lo conosco, non ho mai visto Justin così felice.»
«Brian è sempre stato il sogno più grande della sua vita. Lo ama più di qualsiasi altra cosa al mondo...» Emmett si strinse nelle spalle e sollevò uno degli angoli della bocca, in un sorriso privo di allegria. «...tante volte mi sono chiesto cosa ci trovasse in lui. Brian si è sempre comportato come uno stronzo patentato, così all
inizio ho pensato fosse solo linfatuazione di un diciassettenne per quello che vedeva come un dio...e forse i primi tempi è stato davvero così...» scosse la testa, ripensando a quante ne avevano passate e concluse, incrociando lo sguardo di Jace. «...poi qualcosa è cambiato. Non saprei dire quando, comunque sia da quel momento, tutti abbiamo capito che quei due sono legati da qualcosa che va decisamente oltre lumana comprensione di noi comuni mortali.»
«Il
topino risplende più del sole quando è con Brian, e quel figlio di buona donna, splende con lui.» intervenne Debbie, portandosi una mano al petto.
«Ho visto, e non credo tutti abbiano la fortuna di poter avere al proprio fianco qualcuno che ti fa sentire così.»
Alle parole di Jace, Emmett sentì uno strano brivido attraversarlo e riscuoterlo. Non avrebbe saputo dire perché, ma per un minuscolo istante, dentro di sé aveva forse sentito accendersi la speranza che quel tipo un po
snob, sarcastico ma anche estremamente brillante, fosse proprio quella persona.
Era inutile girarci intorno. Continuava a riflettere su quella loro strana serata, in cui avevano trascorso tutto il tempo conoscendosi e divertendosi nella versione più “normale ed innocente” del termine.
Eccezion fatta per Teddy, Emmett non aveva mai veramente conosciuto qualcuno prima di finirci a letto. Neanche con Drew era stato così, nonostante poi le cose si fossero evolute in tutt
altro modo; per questo forse sentiva qualcosa smuoversi pericolosamente dentro di sé. E sempre forse, quello poteva significare che in quel caso sarebbe stato diverso.
«Be
...ecco...» balbettò allora, quasi sudando freddo. «...magari quella persona è anche più vicina di quel che pensi, no? Magari è qualcuno che non avresti mai pensato.»
Jace lo fissò tra il sorpreso e lo stranito per qualche secondo, prima di sorridergli. «Chiunque sia, spero di scoprirlo presto...» replicò senza alcuna esitazione, ma il lieve sorriso compiaciuto, nato spontaneamente sulle labbra di Emmett insieme ad un
altra fievole speranza, era destinato a morire in quel preciso istante. «...così posso girare ampiamente alla larga e non farmi fregare o incatenare! Non ho certo intenzione di perdere tempo con certe cose. Non fanno per me!»
«Ancora con la storia di
donare amore in giro?» domandò Debbie sarcastica, e quando vide il ragazzo annuire, aggiunse: «Credimi signorino, quando arriverà, non riuscirai a sfuggirgli. Brian Kinney ne è la prova vivente. Quello stronzo ha spezzato cuori per anni ed è sempre stato sfuggevole con chiunque...»
«Finché non è arrivato Justin.» concluse Carl per lei. «Anche se, quando io li ho conosciuti, avevano già la loro
non-relazione
«Be
...sono davvero molto contento per loro, ma io preferisco tenermene fuori il più possibile!» esclamò Jace, sollevando le braccia. Lanciò unocchiata allorologio a muro e si alzò. «E credo sia anche ora che me ne torni in albergo, domattina mi aspettano cinque ore di viaggio e di probabili scatti dira e tragedie greche. Devo essere in forma, e poi non sopporterei di avere le occhiaie.» si avvicinò a Debbie e le stampò un bacio affettuoso sulla guancia. «Grazie di tutto.»
«E di che, tesoro.» rispose lei, pizzicandogli la guancia. «Mi raccomando...torna presto a trovarci, d
accordo?»
«Giusto per chiarire la cosa...ragazzo, ti avverto che non è affatto una domanda, ma un
ordine.» puntualizzò Carl, alzandosi dalla poltrona per stringerlo in un abbraccio.
«Lo avevo immaginato.» rise Jace, prima di spostare l
attenzione su Emmett, che sembrava aver lasciato quella stanza da tempo, con i propri pensieri. «Allora, ci vediamo.» gli disse, facendolo riscuotere. «Ti aspetto a New York appena ne avrai il tempo, per quella sessione di shopping!»
«Ah, sì...certo.» rispose Emmett, un po
incerto. «Torna presto anche tu.»
Il designer lo squadrò attentamente, prima di avvicinarsi a lui ed abbracciarlo. Si avvicinò con le labbra all
orecchio dell’altro, e sussurrò appena, per non farsi sentire dagli altri. «Grazie per la serata di ieri. Mi sono divertito davvero.»
«A-anch
io.» mormorò Emmett, con la tristezza nel cuore, perché ben sapeva che quelle parole non avevano lo stesso significato che avrebbe voluto dargli lui.
Jace sciolse il loro abbraccio e recuperò il suo prezioso ed elegante cappotto targato Roberto Cavalli. «Allora, alla prossima.» annunciò poi, con un sorriso un po
malinconico e, dopo lennesimo cenno con la mano, uscì di casa, lasciando i tre rimasti nel silenzio.
Debbie terminò di riporre in frigo gli avanzi, mentre Emmett si adoperò per dare una veloce spazzata alla sala, mentre tanti pensieri continuavano a susseguirsi nella sua mente.
Ripose la scopa al suo posto ed entrò in cucina per augurare la buonanotte alla padrona di casa, quando la vide fargli un cenno, ed invitarlo a sedersi con lei per una coppa di gelato con panna montata.
Con un sorriso malinconico, Emmett si avvicinò a lei e prese la sua porzione, affondandoci distrattamente il cucchiaino.
«Allora...» iniziò Debbie, prendendo il primo boccone. «...ti piace proprio tanto quel ragazzo, eh?»
«Cosa?!» esclamò lui sorpreso, con il tono di voce più alto del solito. «No, io non...»
«Be
...ti capisco sai? È proprio un bel giovanotto.»
Emmett sorrise appena e annuì con la testa. «Sì, lo è.»
«È più grande di Justin, vero?»
«Sì, compirà ventotto anni il prossimo anno.» rispose e prese a giocherellare con la panna montata. «Ma non dirgli che te l
ho detto. Mi ha fatto giurare di non dirlo a nessuno.»
Debbie sollevò le sopracciglia e piegò le labbra in una smorfia esasperata. «Un
altro maniaco delleterna giovinezza.»
«Così pare.»
«
Splendore, perché quel facciotto triste?» gli chiese la donna, con un sorriso dolce e comprensivo. «Quello che ha detto conta fino ad un certo punto. Hai visto come vanno le cose, no? Guarda Brian...è proprio innamorato perso del topino! Eppure chi cazzo lavrebbe fino a qualche anno fa?»
«Ma non so se è per quello...o solo una sciocca sbandata perché per una volta ho trovato qualcuno con cui poter parlare, e non solo farmi una scopata di qualche minuto.»
«Ti ricorda quello che avevi con Teddy?»
«Forse un po
...ma in modo diverso, perché Jace è diverso da Teddy.»
Debbie gli sorrise. «È
favoloso come te.»
«Anche più di me.» rise Emmett.
«Tesoro...» lo chiamò lei, protendendosi verso di lui per prendergli il mento tra le dita, in modo affettuoso. «...non c
è nessuno più favoloso di te. Forse come te, ma mai di più.»
«Grazie Deb.» sussurrò lui, con gli occhi azzurri splendenti di gratitudine, prima di affondare con decisione il cucchiaino nel gelato, e concedersi a quella dolce e confortante esplosione di calorie.



*'*'*



Ted infilò le chiavi nella toppa, borbottando per il freddo. Si lasciò riscuotere da un brivido e rientrò nel caldo della sua casa, insieme al compagno. «Cristo Santo, si gela là fuori!» esclamò, soffiando sulle proprie mani, prima di togliersi cappotto e sciarpa, e rifugiarsi vicino al radiatore.
«Già...ma non so se era più freddo fuori o in casa di Deb, dopo che Justin ha detto di dover tornare a New York.» commentò Blake, prendendo posto al fianco dell’altro.
«Be
, è normale.» rispose Ted, posando la testa sulla spalla del convivente. «Justin è uno di famiglia, ed era tornato solo da un paio di giorni. Poi cè Brian...» fece una smorfia terrorizzata ed aggrottò la fronte. «...non oso immaginare cosa ci aspetterà in ufficio al rientro dalle vacanze.»
Blake scoppiò a ridere. «Vi conviene rigare dritti e lavorare almeno al doppio delle vostre possibilità.»
«Io direi anche al triplo.»
«La lontananza di Justin lo mette proprio di cattivo umore eh?»
Ted scrollò le spalle. «E chi non lo sarebbe al suo posto? Anche se non lo ammette apertamente, Brian lo ama esattamente tanto quanto Justin ama lui. Quei due si completano, per questo gli è così difficile stare lontani.»
«Chissà come fa...» mormorò Blake.
«Cosa?»
«Justin, chissà come fa a sopportarlo. Insomma, ammettiamolo...Brian a volte è proprio un grandissimo stronzo.»
«Togli pure quel
a volte’.» rettificò Ted, arricciando le labbra. «Dì pure che lo è sempre, anche con tutte le persone a cui vuole davvero bene. Tutte ovviamente, a parte Justin.» sorrise benevolo, innalzando uno degli angoli della bocca e disse: «Fin dallinizio...con quel ragazzino impertinente, non è riuscito a comportarsi da vero stronzo fino in fondo. In un modo o nellaltro lo riprendeva sempre con sé, qualsiasi cosa facesse o dicesse.»
«Tu credi che l
abbia amato fin dallinizio?»
«Be
...sembra una gran cazzata affiancata a Brian Kinney, ma io credo che il suo cuore lo sapesse già che Justin era quel lui. Solo che Brian stesso ci ha messo più di tutti a capirlo. O forse, laveva anche già compreso, ma non voleva ammetterlo.»
Blake annuì e si fece più vicino al proprio compagno, per abbracciarlo e lasciarsi abbracciare. «È triste che debbano essere divisi ancora così.»
«Già.» sospirò il contabile, prima di appropriarsi delle labbra dell’altro, con un bacio. «Fortuna che a noi non capiterà...»
«Certo che no.» rispose Blake con decisione, e Ted percepì un tremolio nel cuore.
Deglutì a fatica e si soffermò ad osservare con decisione gli occhi azzurri del proprio compagno, mentre un sorriso andava ad increspargli lentamente le labbra fini. Sospirò profondamente e si allontanò di un poco. «Blake...» sussurrò con la voce malferma. «...tu, tu mi ami, vero?»
«Teddy...» lo chiamò l
altro con un sorriso dolce. «Che domande fai? Certo che ti amo.»
«Bene.» sorrise impacciato. «Anch
io. Anchio ti amo.» continuò a balbettare ed afferrò una mano di Blake per stringerla tra le sue. «E...ed è per questo che voglio stare con te...»
Le sopracciglia chiare dell’altro uomo andarono ad aggrottarsi, in un
espressione confusa. «Teddy, cè qualche problema...o qualcosa che devi dirmi?»
«Sì!» rispose di getto, per poi ritrattare: «Cioè...no.» alzò gli occhi scuri per farli incrociare con quelli del convivente e cercò di essere più chiaro: «Va tutto bene, ma c
è una cosa che dovrei dirti...cioè, chiederti...»
«Ok.» mormorò Blake, un po
’ incerto e preoccupato, prima di sorridere appena. «Coraggio, dimmi.»
«Ecco...forse ti sembrerà un po
prematuro, o forse no...» farfugliò, mentre la sua mente già vagava al giorno delle nozze e alla loro cerimonia. «Però conviviamo da tempo, e visto che io ti amo, e anche tu mi ami...» lasciò cadere la frase nel vuoto e gli lanciò uno sguardo che pensò essere eloquente, ma che il compagno non afferrò minimamente.
«Teddy, credo di...credo di non aver ben capito cosa intendi.»
«Ok.» sorrise il contabile. «Allora te lo dico apertamente...» respirò profondamente ed intrecciò le dita di Blake alle sue. «...mi...mi vuoi...sposare?»
Gli occhi chiari dell’altro si tinsero di pura sorpresa, mentre le labbra si schiudevano lentamente, senza lasciar uscire neanche un piccolo suono. Theodore continuò a sorridere entusiasta di quella frase che finalmente aveva trovato il coraggio di pronunciare, aspettando fiducioso che l
uomo di cui era innamorato da tempo – e che avrebbe voluto come compagno per la vita – si abbandonasse ad uno slancio di felicità e lo abbracciasse, urlando la risposta che avrebbe voluto sentirsi dire.
«Ted io...» mormorò Blake in risposta, con uno sguardo smarrito. «...io non so davvero che dire.»
«
...devi solo dire .» suggerì laltro che, seppur avesse sentito un lieve timore nascergli dentro, mantenne il suo sorriso pieno di rosee aspettative. «Sempre che tu lo voglia, certo. Ma non vedo perché no, visto che hai detto che mi ami.»
Blake restò qualche secondo in silenzio, con le labbra dischiuse, prima di provare a schiarirsi la gola. «Teddy...» sospirò ed abbassò lo sguardo. «...io sì, ti amo...»
«E allora, che aspetti?»
«Ti amo...» ripeté ancora una volta. «...ma non so se è la cosa giusta.»
«C-Cosa?» balbettò, sentendo distintamente il proprio stomaco contorcersi. «Perché non dovrebbe? Michael e Ben si amavano, così come Linz e Melanie...ed è per questo che l
hanno fatto. Perfino Brian e Justin stavano per...»
«Non so se lo voglio.» lo interruppe Blake, sovrastandolo con un tono più alto di voce e riportando gli occhi a fissare i suoi. «Non so se sono pronto per un passo del genere.»
Ted scosse lievemente la testa, lasciando la presa sulla mano dell
altro. «Io...io non capisco. Perché non...»
«Non lo so Teddy, so solo che...» sospirò sommessamente e si morse le labbra. «Io ti amo, ma...»
«Questo discorso non ha alcun senso. Dici di amarmi ma non vuoi sposarmi?»
«Non si deve sposare per forza qualcuno per amarlo.»
«No, certo che no.» esclamò Ted. «Ma pensavo che tra noi ci fosse qualcosa che...io credevo che tu lo volessi! Credevo che tu volessi impegnarti seriamente con me.»
«Ma noi siamo impegnati in modo serio, però...»
Theodore si passò una mano sulla faccia e rispose con la voce indurita. «Però non vuoi sposarmi.»
«Io, non lo so. Penso di no...cioè...» balbettò impacciato Blake. «...non so davvero se lo voglio. Mi sembra un passo troppo grande...»
«Troppo grande da fare con uno come me. Troppo grande da fare con qualcuno che non ami abbastanza da volerlo.»
«Non è questo...è che...»
«Lasciamo perdere.» intervenne il contabile, mettendo fine alla discussione. Scostò lo sguardo verso il basso e prese un respiro profondo. «Adesso scusami, ma ho bisogno di stare da solo.»
«Ted...» provò a chiamarlo il suo compagno, ma l
altro non sentì ragioni.
«Vado a fare un giro. Non aspettarmi sveglio.» replicò telegrafico, prendendo il cappotto e la sciarpa.
«No.» lo fermò Blake. «Questa è casa tua. Ti lascio da solo.» lo guardò per qualche secondo, intensamente ed in silenzio, e aggiunse: «Teddy, io ti amo...davvero, ma non so se...» scosse la testa e si riabbottonò il cappotto. «Lasciamo stare per adesso...ti lascio tempo per te. Buonanotte.» concluse infine, accennando ad un lieve sorriso, prima di aprire il portone e uscire, voltando le spalle e sparendo alla vista di Ted, così come tante altre volte era successo.



*'*'*


“Here with me” – Dido



Per lennesima volta nella sua vita, muovere un passo dentro quel loft gli costò un dolore immenso, consapevole che presto avrebbe dovuto lasciarlo, senza sapere se gli sarebbe stato concesso di tornarci ancora.
Schiuse le labbra appena, con fatica ed estrema lentezza, quasi gli si fossero incollate insieme, ma non riuscì a pronunciare una sola misera sillaba.
Senza che Brian gli dicesse niente, richiuse la porta e restò imbambolato al suo posto, passando gli occhi in ogni dove, nel tentativo di imprimersi con minuziosa attenzione anche langolo più nascosto di quello che aveva davanti.
«Che combini?» biascicò Brian, riscuotendolo dai suoi pensieri.
«Niente.»
Vide laltro arricciare le labbra per poi storcerle, ed annuire appena, appoggiato al bancone della cucina con lo sguardo vitreo e perso nel vuoto. «Vuoi qualcosa?» gli chiese poi, per rompere quellassurdo muro di ghiaccio improvvisamente cresciuto a dismisura tra di loro, dopo quella telefonata.
«No.» pronunciò Justin, in un sussurro appena udibile. Riusciva a malapena a parlare, figuriamoci se poteva bere o mangiare. Si strinse nelle spalle e tentennò nellavvicinarsi a Brian, con gli occhi fissi a terra. «Io...» iniziò incerto. Sentiva di dover dire qualcosa, ma non sapeva cosa. Perché quella situazione gli sembrava irreale, e nonostante avesse saputo fin dallinizio che lincanto poteva essere rotto in qualsiasi momento e che il richiamo da New York poteva essere innalzato prima di quanto temesse, nella sua testa e nel suo cuore si era illuso del contrario. Si era illuso di poter restare e vivere appieno ogni giorno promessogli, e goderselo fino allultimo istante. «...pensavo di...non credevo di dover rientrare così presto e...»
«Non ha importanza.» lo interruppe Brian, con un tono secco come uno schiaffo. «Lhai detto fin dallinizio, no?» finalmente sollevò lo sguardo, e Justin quasi ebbe paura di quegli occhi spenti e così induriti da sembrar finti. «Potevi tornare a New York in qualsiasi momento, ed è quello che farai.»
«Già, anche se...»
«Niente anche se, Justin.» intervenne ancora, sovrastando la sua voce. «Non sono contemplati i se, lo sai.» il biondo artista annuì, con un po dincertezza, ed abbassò lo sguardo, fissandolo sul parquet perfettamente lucido. Brian si passò la lingua sulle labbra, ricacciando indietro e con forza le parole che avrebbe voluto realmente confessargli, e si schiarì la voce, sostituendole con altre: «Vado a farmi una doccia.»
«Posso venire con te?» si affrettò a chiedere Justin, con un tono supplicante. Non poteva certo permettere che Brian scappasse da lui con la sua solita scusa.
Laltro restò in silenzio per un attimo, prima di voltarsi appena e muovere la testa in un cenno dassenso. «Ok.»
Si spogliarono in silenzio, lasciando cadere disordinatamente i vestiti a terra ed entrarono nel box continuando a tenere le labbra perfettamente sigillate.
Brian ruotò la manopola dellacqua ed il potente getto colpì entrambi, mentre nelle loro teste si accendeva la fievole speranza che potesse servisse a lavare via la graffiante sensazione di tristezza e dolore che gli si era cucita addosso.
Sotto la doccia, Justin poteva piangere liberamente, illudendosi che le gocce dacqua potessero nascondere quelle salate delle sue lacrime agli occhi di Brian, così da continuare a recitare e apparire forte; così da sembrare un appiglio a cui il suo amante potesse appoggiarsi e sostenersi se il male che gli dilagava dentro fosse diventato troppo pesante da sopportare.
Si lasciò spingere contro la parete fredda e scura della doccia, anche se ben sapeva che quel freddo non era niente paragonato a quello che stava dilagando dentro entrambi; né poteva esistere un posto tanto scuro e buio come quella voragine che gli si era nuovamente aperta in mezzo al petto e che sembrava poter mangiare ogni brandello del loro corpo, fino a che non li avesse svuotati e privati di tutto.
Sentì il familiare rumore della plastica che veniva strappata, e con la coda dellocchio riuscì a vedere linvolucro nero del condom raggiungere il pavimento, prima che le labbra di Brian lo conquistassero con un bacio languido posato allincavo del collo.
Si lasciò avvolgere dalle sue braccia forti e voltò la testa per baciarlo, facendo affondare le proprie dita nei capelli lisci e scuriti dallacqua di Brian. Strinse senza troppa forza, quel che bastava per rinnovare la sua presenza sul corpo del proprio amante, e succhiò la pelle delle guance, imperlate da tante piccole gocce dacqua.
I loro occhi sincontrarono per un lunghissimo istante, in cui – senza il bisogno di parole – confessarono i propri sentimenti e tutta quella tristezza che, paradossalmente, riuscì ad unirli più di quanto già non fossero; a stringere di più quel legame annodato tra le loro vite, ormai ridotte ad una sola.
Justin si sforzò di sorridere; e quel piccolo e semplice gesto riuscì a strapparne uno identico alle labbra delluomo, seppur quegli occhi verdi, scuriti dal desiderio ma anche dal dolore, tradissero la realtà dei fatti.
In quel sorriso non c
era traccia di serenità, se non di quella data dal loro essersi reciprocamente grati per i momenti che erano riusciti a concedersi ancora; per quella breve riunione che aveva ricordato ad entrambi cosa significava amare con ogni più piccola parte di sé. Un modo come un altro – un modo tutto loro – per rinnovare la promessa che si erano scambiati quasi due anni prima.
Si baciarono ancora ed ancora, con dolcezza, finché l
abbraccio di Brian mutò in uno più forte, quasi volesse realmente saldare i loro corpi, per non lasciar andar via il suo prezioso raggio di sole, e riaffondare nella solitudine del buio a cui non poteva sfuggire senza la presenza dellaltro.
Justin strozzò a stento un singhiozzo nella gola, e sentì
Brian entrare dentro di lui con rabbia; non perché volesse fargli del male, ma perché quella rabbia era macchiata di disperazione e sapeva che stava divorando il suo uomo pezzo per pezzo, senza dargli un attimo di tregua; perciò, nonostante il dolore fisico, strinse i denti e soffocò la sua sofferenza, sentendosi in parte colpevole per quello che erano costretti a vivere ancora una volta.
Si sentiva la causa di quella tristezza; Justin sentiva che il suo lavoro era la causa di tutto. Se solo non fosse stato unartista, se solo non avesse accettato di andare a New York, se solo non avesse avuto quel dono...
Il suo bisogno di Brian lo portava anche a questo: a rinnegare quellabilità innata; quella preziosa appendice in più, che aveva ricevuto fin dalla nascita, e di cui andava perennemente fiero, tranne quando lo allontanava dallunico uomo che avesse mai amato.
In quel preciso momento, avrebbe anche pregato e scongiurato perché gli venisse tolta, perché la fama lo abbandonasse e fuggisse via il più lontano possibile da lui così da lasciarlo tornare alla sua vecchia vita; al sapore di normalità che tanto gli mancava.
Appoggiò la fronte contro le piastrelle, sorreggendosi con entrambe le mani, e si lasciò sfuggire un gemito, quando Brian affondò con più forza nel suo corpo, beandosi poi di quella scia di piccoli e dolci baci che le labbra del suo compagno si premuravano di lasciargli sulle spalle e sulla schiena, come a volersi scusare se gli faceva male.
Ruotò la testa per quanto gli era possibile, e si riappropriò delle labbra di Brian con foga, per imprimersi in modo indelebile il suo sapore; respirando a fondo per inebriarsi del loro odore mischiato, così da sperare di poterlo conservare finché non si fossero rivisti ancora...
Perché sarebbe successo. Justin lo promise a se stesso.
Giurò nella sua testa che avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di poter tornare a casa il prima possibile; pur di poter correre ancora tra le braccia del suo uomo.


“Echo” – Jason Walker


Quando raggiunse il culmine del piacere, Brian non riuscì a separarsi subito dal calore del corpo di Justin; non riuscì ad allontanarsi e spezzare quel loro incastro perfetto...quel loro abbraccio che formava il posto in cui si sentiva più al sicuro.
Poggiò le labbra lungo la linea delle spalle candide del suo piccolo amante, e leccò qualche goccia con devozione, sentendolo rabbrividire. Respirò sommessamente sulla sua pelle e nascose il viso nellincavo del suo collo pallido, quasi a volersi nascondere per sempre dal resto del mondo.
Restò immobile per qualche istante, con le braccia ancora strette intorno a quel corpo esile, percependo distintamente come Justin si muovesse lentamente a plasmarsi in base ad ogni suo movimento, per restargli attaccato il più possibile; prolungamento del suo corpo e della sua anima.
Gli baciò il collo e lorecchio e, con estrema dolcezza e a malincuore, uscì dal suo corpo, sentendosi immediatamente avvolgere e colpire da un fastidioso gelo. Gettò il profilattico a terra con noncuranza e restò ancora un poco sotto il getto della doccia, tornando a godere della pelle di Justin a contatto con la sua, in un altro dolcissimo e malinconico abbraccio.
«Coraggio raggio di sole...andiamo a dormire.» mormorò poi, con le labbra contro lorecchio dellartista. Chiuse il rubinetto ed aprì la porta del box, prendendo un asciugamano per sé e porgendone un altro a Justin.
Si asciugarono velocemente in religioso silenzio, entrambi persi tra le proprie paure, le preoccupazioni ed i propri fantasmi; prima di ciondolare fino al letto, privi di forze.
Brian si distese nel letto e, senza pensarci, tirò su le lenzuola, coprendosi fino a metà torace; e si voltò su un fianco, dando le spalle a Justin, così che non potesse vedere quanto quell
imminente separazione lo stesse distruggendo.
Il ragazzo per contro, si voltò nella sua direzione e posò una mano sulla schiena ampia, per accarezzarla lentamente.
«Immagino che tu non voglia essere svegliato domani.» sussurrò poi, con un groppo alla gola.
«Dormi, Justin.» gli ordinò Brian, atono, anche se non aveva alcuna voglia di dormire e sentiva insinuarsi fin dentro le ossa la paura di non riuscir neanche a respirare normalmente se fosse stato abbandonato ancora una volta dal suo raggio di sole. «Devi alzarti domattina.»
«Questa volta tornerò presto, te lo prometto.» la voce di Justin uscì in un tremolio incerto, nello sforzo di non scoppiare a piangere, e ogni parola gli feriva la gola.
«Non voglio nessuna promessa. Non farle.» replicò Brian, senza trovare la forza per voltarsi e guardarlo negli occhi. «Ti ho detto come la penso. Perciò concentrati sul tuo lavoro.»
«Ok, allora non prenderla come una promessa, se ti fa sentire meglio, ma ascoltami bene...» strisciò più vicino e lo circondò con le braccia, poggiando la fronte alla sua nuca. «...tornerò.» disse deciso. «Mi hai sentito?» chiese con voce rotta, liberando le lacrime e lasciandole cadere ad inzuppare il proprio cuscino. «Tornerò a Pittsburgh, prima di quanto immagini.»  

*** 

Note finali
Ed eccoci qua anche al nono capitolo. 
Mi scuso per il ritardo e se adesso sarò frettolosa, ma dovrei uscire e se non mi muovo mi scannano immediatamente! 
Ci tengo a specificare due cosine...la prima, è che questa in realtà è solo la prima parte del capitolo che ho dovuto dividere in due, perché altrimenti sarebbe uscito fuori un mattone di dimensioni epiche e vi sareste addormentate sicuramente dopo cinque minuti - considerando poi che non è dei più felici XD - e poi, avrei tardato troppo con la pubblicazione! Spero comunque vi sia piaciuto comunque e che non mi lancerete uova o verdura! XD 
Secondo appunto...la frase sul cuore che si spezza e blablabla, non è interamente farina del mio sacco, ma è ripresa da una frase scritta da Cecelia Ahren! Ok, adesso - e perdonatemi ancora la "fugacità" - penso di poter passare alla cosa più importante di tutte: Ringraziamenti
Un grazie a tutti coloro che hanno letto anche questo capitolo e inserito questa storia tra le seguite, le ricordate o le preferite...
Ma il grazie più grande ovviamente va a: OfeliaCuoriDiGhiaccio, FREDDY335, oo00carlie00oo, electra23, klaudia62, Hel Warlock, SusyJM, mindyxx, Thiliol, silver girl, Katniss88, EmmaAlicia79, Katie88 e Clara_88
Grazie davvero per tutte le bellissime parole che mi avete dedicato! 

Un bacione e a presto. 
Veronica. 

PS: Ho pubblicato senza leggere accuratamente il capitolo, perciò se trovate errori perdonatemi...domani cercherò di revisionarlo al meglio. XD


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Capitolo 10
*** See you soon. ***


10.See you soon.

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6x10 – See you soon.


“Gone away” – SafetySuit



Schiuse gli occhi che lalba era appena iniziata, lasciando filtrare un velo leggero di luce così pallida, da far sembrare lo spazio racchiuso tra quelle quattro mura etereo, quasi magico, come appartenente ad un mondo totalmente separato da quello che lo aspettava oltre la sua soglia.
E forse era davvero così.
Fin dalla prima volta in cui aveva mosso i primi passi su quel parquet chiaro, nel suo cuore spaventato, si era fatta spazio la sensazione di aver dato il via ad un meccanismo che gli avrebbe cambiato totalmente la vita e, di lì in avanti infatti, ogni volta che vi aveva fatto ritorno – che fosse col sorriso, con la rabbia o le lacrime – quella stessa sensazione era sempre rinata dentro di lui.
Per Justin, il loft era diventato una sorta di accogliente nido; qualcosa da cui non riusciva a separarsi; ed anche in quel preciso momento non riuscì a resistere dallo stringersi come un bambino al cuscino, soprattutto quando i suoi occhi chiari incontrarono la schiena di Brian.
Durante tutta la notte non era riuscito ad addormentarsi, e per tutto quel tempo in cui era rimasto pienamente vigile, non aveva sentito muoversi neanche di un millimetro il suo uomo, né aveva percepito un suono provenire da lui, se non quel lieve fischio che emetteva quando respirava, e a cui ormai si era abituato ad ascoltare ogni volta che dormivano insieme, quasi fosse la sua ninna nanna.
Inspirò profondamente, con gli occhi puntati su quella pelle perfetta, lievemente rischiarata dalla luce, ed allungò una mano con nellintento di lasciarci una dolce carezza. Giunse quasi a toccarla con la punta delle dita, ma si bloccò e le richiuse a pugno, quasi si fosse scottato o si fosse già arreso al dover vivere lontano da momenti come quelli.
Si morse le labbra e, con gli occhi divenuti ormai liquidi per le lacrime, scostò con attenzione le coperte e scivolò fuori dal letto, percependo il peso di un gigantesco macigno sullo stomaco.
Col fiato corto e la gola che bruciava nello sforzo di trattenere urla e pianto, prese i pantaloni e li infilò di malavoglia, proseguendo poi con il resto degli indumenti che la sera precedente aveva abbandonato a terra.
Inviò un messaggio a Jace perché lo passasse a prendere con la jeep sotto casa e, dopo essersi avviato verso la porta ed essersi infilato il giubbotto, tornò a fissare Brian attraverso le ante lasciate semi aperte, mentre le lacrime sfuggivano al suo controllo e scendevano lentamente lungo la linea del naso e sulle guance candide.
Ne sentì un paio infrangersi sulle labbra e le leccò via, imprimendosi il loro gusto salato sulla lingua. Strinse i denti con forza per impedirsi di singhiozzare come un bambino, fino a quando non si ritrovò a tapparsi la bocca con il palmo della mano, scosso dai fremiti, mentre si sorreggeva alla porta scorrevole per non crollare e correre verso il letto, alla ricerca di un conforto tra le braccia di Brian.
Con le ultime forze rimaste, si costrinse a chiudere gli occhi e a voltarsi. Aprì la porta con rabbia disperata e, dopo esser avanzato di un passo, se la richiuse alle spalle, per poi appoggiarcisi con la schiena e strisciare per tutta la sua lunghezza, fino ad accoccolarsi a terra ed abbracciare le proprie gambe, immergendovi anche la testa ed abbandonandosi ad un pianto strozzato, certo che Brian non avrebbe potuto sentirlo.



*'*'*


“Please dont go” – Barcelona



Nel momento in cui percepì il rumore della porta scorrevole che raggiungeva il termine del suo percorso, Brian sollevò lentamente le palpebre. Finalmente non era più costretto a fingere di dormire.
Respirò sommessamente e, deglutendo a fatica, si concesse di piangere una sola minuscola lacrima, che percorse leziosa la sua pelle, fino a cadere e bagnare il cuscino, in una macchiolina più scura.
Fissò lo sguardo in un punto a caso e si costrinse a ignorare il suo cuore che, per ogni singolo battito, sembrava potergli urlare di alzarsi da quel letto e correre giù per le scale a rotta di collo, così da fermare Justin e confessargli finalmente quelle dannate parole.
Per favore, non andartene.
Si passò una mano sul viso, come a voler cancellare quei pensieri, e si tirò su, per poi protendersi verso il comodino ed afferrare il pacchetto di sigarette.
Di solito non amava fumare appena sveglio, ma saturarsi i polmoni con il fumo, pareva essere lunica momentanea soluzione per colmare il vuoto che si era creato dentro il suo petto, nel momento in cui il corpo di Justin aveva abbandonato il letto, lasciando solo il proprio calore ed il profumo a ricordargli la sua presenza.
Accese la sigaretta e si appoggiò con la schiena alla testata del letto, lanciando una lunghissima ed intensa occhiata al lato vuoto al suo fianco, e a quelle coperte arricciate sul fondo, immaginando per un brevissimo istante, di vederci Justin beatamente assopito, con i capelli arruffati a coprirgli parte del viso e le labbra lievemente socchiuse, che come sempre sembravano invitarlo ad essere baciate.
Prese una prima boccata, e nel soffiare via il fumo, distese le labbra in un sorriso di scherno per se stesso e per quei pensieri che lo facevano sembrare quella che, fino a qualche anno fa, avrebbe definito una patetica checca innamorata.
Eppure, ogni volta che pensava al sorriso del suo Justin, percepiva distintamente la sensazione di uno strappo sul cuore; una lacerazione che forse non sarebbe stato capace di ricucire – non da solo almeno – e che lo obbligava a respirare con più forza per non impazzire o affogare in quel lancinante dolore.
Ed erano quelli i momenti in cui non si trovava poi più così tanto ridicolo; perché il male che lo colpiva era così fottutamente reale da fargli passare perfino la voglia di schernirsi, o continuare a fingere che fosse tutto perfetto.
Inspirò altre boccate di fumo – una dietro laltra, profonde tanto da togliergli il fiato – finché la sigaretta venne bruciata e consumata fino al filtro, e le sue dita la schiacciarono sul posacenere. Soffiò via lultima nuvola di fumo e si alzò stizzito dal letto, dirigendosi verso le ampie vetrate, incurante della propria nudità. Posò lo sguardo sulla strada sottostante, ed un profondo cipiglio si disegnò sulla sua fronte, quando vide una jeep scura accostare.
Non aveva bisogno di guardare al suo interno per capire che alla sua guida stava Jace, e che avrebbe portato via il suo piccolo artista lontano da Pittsburgh; così come non era necessario che gli spiegassero il motivo per cui Justin aveva acquistato proprio
quella jeep. Era fin troppo ovvio che anche in quel dettaglio si potesse leggere quanto quel ragazzino sentisse la sua mancanza.
Sorrise malinconico; e n
ellistante in cui riuscì a vedere quella familiare chioma bionda e luminosa comparire allimprovviso per poi sparire dentro labitacolo, poggiò il palmo della mano sul vetro, come a voler indirizzare una carezza verso di lui; e mentre qualcosa andava a stritolargli il cuore nellennesima morsa dolorosa, le sue labbra trovarono la forza di separarsi e di soffiare via parole diverse da quelle che vibravano nel suo animo: «Buon viaggio, raggio di sole



*'*'*



Da quando avevano iniziato il loro viaggio, esattamente quasi cinque ore prima, Justin non aveva aperto bocca, se non per dargli un fievole e distratto saluto. Si era limitato ad adagiarsi sul sedile, poggiando la testa al finestrino, ed aveva fissato gli occhi blu chiaro e orribilmente opachi per la tristezza, verso il proprio lato della strada.
Per contro, Jace, non aveva fatto altro che alternare le proprie occhiate tra la strada e la figura rannicchiata al suo fianco, visibilmente preoccupato.
Da quando si erano incontrati, per quante volte lo avesse visto triste o in preda ad un pianto isterico, il designer newyorkese, non aveva mai visto il suo migliore amico tanto spento e apatico come in quel momento. Nel giro di poco più di un giorno, era riuscito a vedere lati ed espressioni sconosciute su quel viso angelico: dalla preoccupazione più drammatica, alla felicità più pura, fino a quella tristezza soffocante.
Superò con la jeep il gigantesco cartello verde che annunciava lormai imminente arrivo nella Grande Mela e, schiarendosi la voce, si decise a parlargli prima che il loro viaggio terminasse, e che quindi Justin si ritrovasse di nuovo immerso nella realtà di essere unartista sulla cresta dellonda. «Allora...» iniziò, lanciando altre occhiate fugaci alla sua destra. «...vuoi passare un attimo da casa, o vuoi che ti porti direttamente in ufficio da Gary?» Justin per contro si limitò a sollevare le spalle, con noncuranza, senza staccare gli occhi dal panorama che sfrecciava ai lati. Jace arricciò le labbra, un po contrariato, e si decise a riprovare: «Senti, se vuoi possiamo fermarci prima a fare colazione e poi...»
«Jace, non m
importa.» sbottò Justin interrompendolo. «Va dove preferisci, ok?»
«Allora penso opterò per il primo ospedale della zona.» ribatté in tono sarcastico il designer. «Mi pare che qui qualcuno abbia proprio bisogno di un calmante!»
Gli occhi blu chiaro di Justin finalmente abbandonarono la strada e si posarono su Jace, decisamente costernati. «Scusa.» mormorò fievolmente. «So che non devo prendermela con te. È solo che...»
«Non volevi tornare a New York.» aggiunse Jace, al posto dellaltro; che annuì, per poi sbuffare e lasciarsi affondare nel sedile.
«Vorrei sapere chi cazzo me l
ha fatto fare di venire fin qui...» borbottò, inarcando le sopracciglia chiare. «...non potevo restarmene alla cara vecchia Pittsburgh?! No, dovevo combinare un casino, come sempre. Bella trovata, Justin Taylor!» proseguì ironizzando sulle sue scelte. «Adesso sono intrappolato qui, ed ho le mani legate.»
«Be
...puoi ancora mollare tutto.» replicò tranquillamente Jace, sollevando le spalle e distendendo le labbra in un sorrisetto furbo. «Tu dimmi di tornare indietro, o di andare chissà dove...e lo farò. Basta solo che tu lo dica...»
Justin ricambiò quel sorriso con uno appena accennato, prima di sospirare e negare con la testa. «Non posso mollare tutti così.»
«Gary se ne farà una ragione...» pronunciò con noncuranza, prima che nella sua testa balenasse la convinzione che aveva maturato in quei mesi, secondo cui il manager si era preso una bella cotta per il piccolo artista. Perciò fece una lieve smorfia e aggiunse: «...almeno credo.»
«Non è solo per Gary. Ho delle promesse da mantenere.»
«Se ti riferisci a quella stronzata fatta a Brian, sta certo che se anche non la manterrai, ti riprenderà nel suo letto molto volentieri.» fece schioccare la lingua e continuò: «E poi, insomma, dopo tutti questi anni saprai come prenderlo per la gola no? E non mi riferisco alle tue doti culinarie.»
Justin finalmente si lasciò andare ad una breve risata. «Non parlo di Brian. Parlo dei proprietari delle gallerie a cui ho già detto
, o agli altri impegni presi.»
«Ripeto: secondo me ti prendi troppo seriamente. Sei un
artista, per la miseria! È un tuo dovere fare i capricci e rendere la vita impossibile al prossimo!»
«Vorresti dirmi dove l
hai sentita questa?»
Jace gli lanciò un
occhiata di sbieco e scosse la testa con rassegnazione. «Tutti gli artisti sono così...solo tu ti dai alla misericordia! Pensa anche a quel...come si chiama...» ci pensò un po su, per poi esclamare: «Sam Auerbach! Lui sì che è un vero artista. Un caprone insopportabile e arrogante!»
Nel sentir pronunciare quel nome, Justin percepì un lungo brivido attraversargli la schiena. Non aveva mai davvero conosciuto Sam, ma sapere come quell
uomo avesse quasi rovinato il matrimonio tra le sue più care amiche, gli era bastato. Decise comunque di non parlarne con Jace, e proseguì nella conversazione: «Quindi dovrei diventare uno zotico incivile secondo te?»
«Già...e sarebbe molto arrapante.» mormorò l
altro, umettandosi le labbra, e fingendo un’espressione sensuale.
«Sei completamente matto.» rise l
artista. «Comunque non ho nessuna intenzione di diventare come quellAuerbach. Neanche se significasse guadagnare milioni di dollari in più. Io sono solo Justin Taylor, non posso essere nessun altro.»
Jace sollevò le sopracciglia, ammiccando. «Be
...non so se sia la sua cafonaggine il motivo di tutto il suo successo, ma in Europa ha davvero fatto faville.»
«Sì, ho letto qualcosa.»
«Chissà perché però ha abbandonato così allimprovviso lAmerica e se nè andato a Milano...» mugugnò Jace, con la fronte leggermente aggrottata. «...insomma, ha rischiato parecchio. In America era una specie di dio, ma in Europa in pochissimi lo conoscevano.»
Justin si ritrovò a deglutire a disagio. Lui conosceva bene uno dei motivi per cui Sam si era allontanato di tutta furia dall
America; e quel motivo rispondeva al nome di Lindsay Peterson. «Lhai detto anche tu, no? È unarrogante...» balbettò quindi in risposta. «...probabilmente voleva semplicemente provare qualcosa.»
«Probabile.» convenne Jace. «Comunque, sembra proprio che farà ritorno nella madre patria.»
«Cosa?!» schizzò Justin, facendo sobbalzare anche laltro. «E perché mai?!»
«Ehi calma. Cos
è tutta questa agitazione?» gli chiese stranito dalla sua reazione. «Non sapevo fossi un suo fan!»
«Non lo sono infatti!» borbottò in risposta il biondo
artista, in preda allansia. Non voleva neanche immaginare la reazione che avrebbero potuto avere Mel e Linz nel venire a conoscenza di quella notizia. «Allora? Dimmi, sei sicuro che abbia intenzione di tornare?»
Jace gli lanciò un
occhiata stranita, per poi rispondere: «Così ha rilasciato in un comunicato alla stampa. Ha detto che non avrebbe preso altri impegni in Europa perché sarebbe rientrato in America. Non so altro.»
«Cazzo...» mormorò Justin, lasciandosi cadere a peso morto sul sedile.
Le sue due amiche avevano superato ormai da tempo la “Crisi Auerbach”, così come si divertivano a definirla tutti loro – oltre allaltro nomignolo, ovviamente molto meno sottile, inventato da Brian – ma conosceva fin troppo bene Melanie, e sapeva quanto rancore fosse in grado di covare anche a distanza di anni; e quanto questo avrebbe potuto far male, se fosse stato risvegliato.
Ciò che lo spaventava di più però, era il motivo per cui Sam, da un momento all
altro, avesse deciso di far ritorno in America. Ovviamente non cera niente a sostenere la sua preoccupante tesi che quel motivo fosse Linz, ma neanche si sentiva di scartarla completamente. Per non parlare del fatto che, a prescindere da quello che lo aveva spinto al suo ritorno, non osava neanche immaginare cosa avrebbe potuto scatenare un casuale incontro.
Era risaputo infatti, che gli artisti americani facessero spesso tappa a Toronto con le loro personali, quindi le possibilità che il disastro avvenisse, non erano poi così remote come si era augurato.
Perso comunque in tutte le sue congetture, Justin non si era neanche reso conto del modo in cui Jace aveva preso a fissarlo da qualche minuto, finché questo non lo riscosse con una delle sue domande a bruciapelo: «Ti sarai mica scopato anche lui? Ma non era decisamente etero?»
«Eh? Cosa?» chiese l
artista, riscuotendosi dai propri pensieri. «No! Cioè, sì!» si affrettò a rispondere e quando si accorse dellespressione dellamico sempre più allucinata, rettificò: «Non me lo sono scopato io.»
«Che significa quel
io?» domandò immediatamente il designer, e Justin si ritrovò ad imprecare mentalmente contro se stesso. «Si è divertito Brian con lui?»
«No...»
«E allora chi?»
«Prometti di non dirlo ad anima viva.» sibilò il ragazzo, puntando un dito contro laltro. «Promettilo sulla tua collezione di mocassini italiani!»
«Oddio. Stai per rivelarmi un segreto di stato?»
Justin fece una smorfia. «Qualcosa del genere.»
«Daccordo, prometto.»
«Jace, ti taglio le palle se te lo lasci sfuggire con qualcuno!»
«Ho promesso!» sospirò esasperato, prima di protendere lorecchio verso lamico. «Allora, dimmi un po questo super segreto.»
Le labbra dell
artista si arricciarono indecise sul da farsi. Le mordicchiò per un po finché, con un respiro profondo, si decise a confessare: «Con Linz. È stato con Lindsay»
«Linz?!» replicò Jace, quasi strillando il nome. «Ma non è lesbica?!»
«Evidentemente sarà diventata etero per qualche minuto, che vuoi che ti dica! Non sono comunque affari che ci riguardano!»
«Be...oddio...» mormorò il designer, aggrottando la fronte. «Un pensierino con quel rozzo ce lo farei anchio. Ma Melanie lo sa?»
«Sì.»
«E sono ancora tutti vivi?»
Justin scoppiò a ridere. Effettivamente se lera sempre chiesto anche lui come Linz e Sam fossero riusciti a scampare alla morte dopo che la verità era stata rivelata. Insomma, Melanie Marcus non era certo ricordata per la sua assoluta calma. A quello ci pensava per tutti quanti il caro ZenBen. «A quanto pare sì.» rispose comunque, prima di sospirare. «Per questo sono preoccupato.»
«Temi che si potrebbe scatenare l
inferno in famiglia?»
«Diciamo che Mel non è una dal perdono facile...e che è meglio non buttare sale su certe vecchie ferite.»
«Vuoi avvertirle?»
«Non so. Tu che dici, dovrei?»
Jace ci pensò su per un attimo, prima di negare con la testa. «Aspetterei ancora un po’ a dare l’allarme. In fondo non sappiamo ancora se lo farà davvero...magari siamo fortunati e cambia idea!»
«Ho sempre creduto molto poco alla fortuna.» ribatté l’altro, piegando le labbra in una piccola smorfia.
«Eppure ne hai avuta parecchia.»
«Dipende dai punti di vista.»
«D’accordo, come vuoi.» sospirò sollevando le mani dal volante, ed indicò con un cenno della testa un cartello sospeso a poca distanza da loro. «Allora Taylor...casa o Gary?»
Justin si morse l’interno della guancia, indeciso sul da farsi, fissando lo sguardo sulle due direzioni stampate in bianco su uno sfondo verde, per poi indicare il lato destro. «Andiamo da Gary.» annunciò in seguito, prima di aggiungere con uno sguardo stranamente deciso: «Vorrei parlargli.»



*'*'*



«Mamma, mamma!» si sentì chiamare da una voce squillante. «Dai, sbrigati!»
Melanie osservò il suo bambino saltellare ovunque mentre pesticciava la neve caduta durante la notte, sorridendo e scuotendo la testa, ormai rassegnata al fatto che non sarebbe riuscita a riportarlo a casa asciutto e pulito.
A stento era riuscita a farlo pranzare e a fargli fare il suo quotidiano riposino pomeridiano, quando il piccolo si era accorto del bellissimo manto bianco che ricopriva l’intera città; fino al momento in cui, le sue ragioni, non avevano dovuto cedere alle richieste di quel bambino bellissimo, quanto terribilmente persuasivo.
E quel particolare, gli ricordava decisamente qualcuno...
«Gus, non correre!» esclamò, cercando di assumere un’espressione di rimprovero.
«Dai, mamma! Corri!» strillò in risposta lui, come a confermare che in realtà non aveva ascoltato neanche una parola di quello che gli aveva detto.
La donna si concesse un lungo sospiro rassegnato e, dopo aver sbuffato, si decise a correre dietro a quella piccola peste, così da riempirsi le orecchie di quelle sue urla felici e delle sue risate che tanto le scaldavano il cuore.
«Vieni qui, piccola peste!» gridò lei, cercando di acciuffare il bambino.
«Tanto non mi prendi, tanto non mi prendi, mamma!» la canzonò lui, prima di bloccarsi all’improvviso, con lo sguardo fisso davanti a sé. Melanie alzò gli occhi, seguendo la stessa direzione di quelli del figlio, fino ad incrociarli con una figura slanciata e familiare che, nel suo cappotto di pelle decisamente costoso, e con gli occhiali scuri inforcati, avanzava con le mani affondate nelle tasche, verso di loro. «Papà!» strillò allora Gus, con la voce colorata di entusiasmo; e prese a correre come un pazzo.
«Ehi.» lo salutò Brian, accogliendolo tra le sue braccia, per poi tirarlo su. «Ma che bel cappotto che hai! Chi te l’ha comprato? Deve avere sicuramente buon gusto!»
«Tu!» esclamò il bambino, stringendosi forte al suo collo.
«E oltre al buon gusto, anche un sacco di soldi.» intervenne Mel, dopo averli raggiunti, con quella sua solita punta di acidità nella voce. «Un cappotto di Hugo Boss per un bambino di sette anni. Non è un tantino esagerato?»
«No, se lo sa portare con classe.» replicò Brian, innalzando uno degli angoli della bocca in un sorrisetto spavaldo. «E dato che Gus è mio figlio, non ci sono dubbi a riguardo. Il sangue non mente, anche quando ci sono due lesbiche in mezzo.»
«Guarda che è figlio anche di Linz.»
Lui scrollò le spalle ed ammirò i lineamenti dolci del bambino, perfettamente identici ai suoi quando aveva la sua stessa età; perché c’era stato un periodo della sua vita in cui, perfino lui, era parso innocente. Gli sorrise, prima di baciargli una guancia morbida e arrossata dal freddo, e riportò l’attenzione su Mel. «Ma Linz è una borghese. Lesbica, ma comunque borghese.»
Melanie sospirò esasperata, e si decise a cambiare argomento, pur sapendo che lo avrebbe fatto innervosire. «Come mai da queste parti comunque?» piegò le labbra in un ghigno furbo ed aggiunse: «Per caso hai improvvisamente deciso di distrarti diventando il padre dell’anno?»
«Io sono già il padre dell’anno.» precisò Brian, scandendo bene le parole. «E poi distrarmi da cosa? Sono in vacanza e comunque la Kinnetik va alla grande.»
«Sto parlando di Justin.» ribatté lei, arrivando dritta al punto. Lo vide piegare le labbra all’interno della bocca lievemente stizzito, ed aspettò che le rivolgesse il suo solito sorrisetto sarcastico, prima di aggiungere: «Non mi sembravi particolarmente rilassato a casa di Debbie.»
«Dimmi Mel, sei mai stata scopata da un uomo?»
Lei lo fulminò con lo sguardo, indicando il bambino con il movimento degli occhi. Attese che Brian lo posasse a terra per lasciarlo andare a giocare con la neve, e rispose, con le sopracciglia inarcate: «No, ma questo che c’entra?»
«Bene.» sorrise lui, spingendo appena la lingua contro la guancia. «Allora posso anche consigliartelo: va a farti fottere
«Che razza di stronzo.» lo apostrofò, incrociando le braccia. «Era solo un modo come un altro per sapere come stai!»
«Se proprio devi compatire qualcuno, va’ a casa del tuo amico Theodore.»
«Teddy sta bene, per fortuna.» rispose acida. «Per una volta sembra che gli vada tutto liscio. Cosa che non posso certo dire di te.» sollevò le sopracciglia e rettificò: «Almeno per quanto riguarda l’amore...visto che per il resto sei il bastardo più ricco e fortunato che io conosca!»
«Che vuoi farci, la fortuna è cieca.»
«In certi casi invece, penso seriamente che la tua faccia se la ricordi benissimo!» sbuffò, assottigliando lo sguardo. «Ci manca solo di scoprire che perfino quella si è presa una cotta per te!»
Brian sorrise ironico. «Be’, direi che non sarebbe certo l’unica.»
«Fortuna per me che ne sono totalmente esente!»
«Ma perché invece di metter bocca nella mia vita non pensi alla tua di famiglia?» sbottò lui improvvisamente. Pochi come Mel sapevano farlo innervosire tanto. «Perché non attingi un po’ alla tua proverbiale oggettività e non ti accorgi di come stanno le cose?»
«E sentiamo professor Kinney, come starebbero le cose?» gli rispose a tono lei.
Lui riacquistò la calma e la sua perfetta espressione da schiaffi, per poi passarsi la lingua sulla bocca, e lasciar increspare le labbra nell’ennesimo sorriso ironico. «Davvero non ti accorgi che Gus non è felice?»
«Gus è felice.» obbiettò Melanie, sempre più furiosa. «È amato. E io e Linz non gli facciamo mancare niente!»
«Già.» annuì lui con sarcasmo. «‘Niente’, a parte la sua famiglia.»
«Che diavolo stai dicendo?»
«Avanti Melanie...sei davvero così cieca da non vedere che Gus è molto più felice qui che a Toronto? O forse non vuoi vederlo, perché significherebbe ammettere a te stessa di aver fatto una gigantesca stronzata quando sei scappata da qui.»
«Io non sono scappata! Io...»
«Sì che l’hai fatto.» l’interruppe lui, sovrastandola con la sua voce. «Tu e Linz ve ne siete andate per paura.»
«Volevamo soltanto vivere tranquille! In una città dove i nostri diritti sarebbero stati riconosciuti...dove non saremmo state trattate come cittadine di seconda classe, o peggio!»
«Certo, ma adesso?» chiese lui, in tono retorico. «Adesso che quella stronzata della proposizione quattordici è finita...adesso che Gus sta cercando di dirvi in tutti i modi possibili che è qui che vuole stare...adesso, come cazzo la metti?»
«La storia della proposizione quattordici sarà anche finita, ma non ci vengono ancora riconosciuti quei diritti che ci spettano dalla nascita! A Toronto invece sì, e...»
«E che ne è stato di quell’avvocato che con il suo patetico idealismo si batteva perché questo avvenisse anche qui?» le domandò Brian a bruciapelo, zittendola all’istante. «E poi chi cazzo se ne frega se c’è qualche stronzo che ancora non ci accetta! È solo della felicità di mio figlio che m’interessa, non dell’approvazione di qualche coglione che si sente in dovere di giudicare.»
Dopo qualche attimo di silenzio, Melanie sospirò sommessamente e lanciò uno sguardo amorevole verso Gus, prima di arricciare le labbra e rispondere: «Wow. Con un’arringa del genere, avresti dovuto fare l’avvocato.»
«Sono molto più bravo a gettare fumo negli occhi, che a difendere la gente.» soffiò in risposta, nel momento in cui comprese di aver fatto centro, e che gli animi si erano finalmente placati. «Comunque sia...» riprese a parlare, spingendo la lingua all’interno della guancia. «...Jennifer è davvero brava nel suo lavoro. Potrà trovarvi una bella casa ad un ottimo prezzo.»
«Brian...» provò a ribattere lei, senza risultato.
«Fatti dare il numero da Ted, quando vi sarete decise.» concluse lui, voltandosi per raggiungere suo figlio; mentre Melanie si ritrovò a stringersi di più nel cappotto, raggelata dalle parole di Brian, più che dal freddo vento dicembrino.



*'*'*



Dopo aver varcato la porta in vetro scorrevole dell’agenzia in cui lavorava Gary, ed esser stato sommerso di complimenti da ogni persona che incontrava – di cui, la maggior parte, neanche conosceva – Justin, affiancato da Jace, raggiunse la porta scura dello studio del suo manager.
Diede un paio di colpi con le nocche, ed attese di essere invitato a entrare: «Avanti.» sentì pronunciare, e spinse sulla maniglia.
«Ciao, disturbo?» esordì, quando gli occhi scuri di Gary si posarono su di lui, riempendosi di sorpresa.
«Ehi, Justin!» esclamò, lasciando ricadere la penna sulla scrivania, per poi fare un cenno di saluto in direzione di Jace. «Non pensavo saresti corso immediatamente qui.»
«A dire il vero...» iniziò Justin, facendo correre gli occhi ovunque nella stanza. «...sono venuto qui perché devo parlarti.»
«Non guardare me.» intervenne il designer, sollevando le mani in segno di resa. «Io non ne so niente. L’ho solo accompagnato.»
Le sopracciglia di Gary si inarcarono a formare un’espressione stranita. «Ok...» pronunciò con voce fievole. «Accomodati e spiegami tutto.»
Sia Justin che Jace presero posto sulle poltrone scure in silenzio, finché l’artista non si umettò le labbra e, intrecciando le dita tra loro, prese a parlare: «Ecco, io volevo ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me in questi mesi. Se non fosse stato per te, probabilmente non sarei arrivato dove sono...» si soffermò per un attimo, e finalmente si decise a guardare Gary negli occhi, trovando in quei pozzi scuri un evidente disagio. «...e ti sono grato anche per questi ultimi contratti che sei riuscito ad ottenere, ma...»
«Ma?» incalzò il manager.
«Ma non credo di voler più andare avanti così.» rispose deciso, con voce ferma.
«In che senso?» domandò Gary allarmato.
«Nel senso che, rispetterò gli impegni presi fin’ora, ma non voglio prenderne altri per adesso.» sospirò profondamente e aggiunse: «Ho bisogno di tempo per me...io, non mi sento più neanche un’artista. Mi sembra solo di essere una macchina che dipinge a comando, senza più ispirazione, senza più passione.» strinse le mani a pugno e, visibilmente dispiaciuto – poiché una parte di sé lo faceva sentire un ingrato – concluse: «Mi dispiace Gary, ma davvero...ho bisogno di tornare a casa per un po’.»
L’altro scosse la testa dopo qualche secondo passato perfettamente immobile. «Justin, il mondo dell’arte non è un gioco. Non puoi ancora permetterti di fare quello che vuoi...è vero, sei sulla cresta dell’onda e le persone sborsano quantità esorbitanti di dollari per i tuoi quadri, ma questo non significa che sei sistemato.» fissò i suoi occhi neri in quelli azzurri del giovane artista e, incrociando le mani alle labbra, continuò: «Non è il momento per prendersi una vacanza. Questo è il tempo che devi sfruttare al meglio, dopo di che avrai tutti i giorni che vuoi da trascorrere a Pittsburgh. Quando le persone saranno disposte a fare anche la fila sotto casa tua per avere un tuo quadro da esporre, allora potrai permetterti di fare ciò che vuoi...»
«Mi pare che la gente faccia già la fila per avere un suo quadro.» intervenne Jace, che fino a quel momento aveva seguito lo scambio di battute con attenzione. «Così come le gallerie. Justin è il più richiesto tra gli artisti emergenti...»
«Esatto.» lo interruppe Gary. «Artisti emergenti. Il che significa che non si è ancora consolidato il suo piedistallo. Se molla adesso, butterà nel cesso tutti gli sforzi fatti.»
«Ma io non riesco più a dipingere come vorrei!» prese in mano una stampa ridotta di uno dei suoi ultimi quadri, poggiata sulla scrivania di Gary, e la sventolò in aria con rabbia. «Questo non sono io!»
«Fino a prova contraria, è stata la tua mano a dipingerla...»
«Ma è solo uno scarabocchio casuale! Terribilmente accademico!»
Gary sollevò le spalle. «I critici non lo pensano affatto. Nessuno lo pensa.»
«Io non voglio dipingere per i critici o la gente.» ribatté Justin, sibilando le parole. «Io voglio dipingere prima di tutto per me, per le emozioni che sento! E adesso non sento niente...sono vuoto
«Non è forse una sensazione anche questa?» replicò il manager, prima di sbuffare. «Ascolta, lavoro in questo mondo da molti anni prima di te e so come va e quanto può essere spietato. Se molli adesso, hai chiuso...lo capisci?» si soffermò per guardarlo attentamente e, piegando le labbra in un sorriso comprensivo, disse: «Hai davvero intenzione di gettare il tuo sogno così? Proprio ora che ce l’hai in pugno?»
«Non credevo che per seguire un sogno dovessi rinunciare a tutto il resto.» ribatté il ragazzo, con tono asciutto. «Non pensavo significasse annullare me stesso.»
«Non è così. Non sarà per sempre così.»
«Che cazzo dovrebbe fare allora?» sbottò Jace, visibilmente innervosito. Se c’era una cosa che proprio non sopportava del lavoro di Justin, era proprio il fatto che dovesse veder sacrificata la sua anima per il solo scopo di ottenere fama e soldi.
«Stringere i denti.» sentenziò Gary. «Dipingere come ha fatto fin’ora...e quel tempo per te che tanto desideri arriverà prima di quel che pensi.» si passò la lingua sulla bocca e picchiettò con un dito sulla scrivania, come se fosse indeciso se pronunciare o meno altre parole; prima di schiudere le labbra e scegliere di parlare: «Voglio essere sincero con te, Justin.» si accomodò meglio sulla poltrona e riprese: «Da quando sei arrivato in questa agenzia, non posso negare che le entrate per noi siano salite alle stelle. Anche il mio capo è letteralmente impazzito per i tuoi quadri ed ha puntato molto su di te...il che significa che, se tu ci molli adesso, metterai l’intera agenzia in una brutta situazione.»
«Ah...quindi è solo una questione di soldi. Solo per il vostro interesse.» commentò Jace, con un tono decisamente acido ed un sorrisetto caustico.
«È sempre una questione di soldi, Jace. In qualsiasi situazione.» scrollò le spalle con noncuranza e disse, rivolto a Justin: «Ho semplicemente voluto metterti al corrente di tutto, prima che tu prendessi la tua decisione. Oltre al fatto che hai una penale da pagare se recidi il contratto prima della scadenza...ma di quello eri già a conoscenza e comunque non sarebbe un problema per te.»
«Quanto brutta sarebbe la situazione?» domandò allora l’artista.
«Abbastanza dal dover fare qualche taglio, suppongo.»
«Licenziamenti?» approfondì, mentre il suo stomaco prendeva ad attorcigliarsi per il senso di colpa.
Gary arricciò le labbra e si prese qualche secondo prima di rispondere. «Forse.» sentenziò poi. «Non saprei dirtelo con certezza. Non è una possibilità da scartare.»
«Praticamente ho le mani legate.» commentò Justin, inarcando le sopracciglia bionde in un’espressione contrariata.
«Non vorrei che tu la vedessi così.» rispose l’altro. «Mi dispiace che tu ti senta così, ma la situazione è questa e io non posso farci niente. Dipendesse da me, ti darei tutto il tempo che vuoi...»
«Certo, come no.» borbottò Jace, roteando gli occhi.
Gary finse di non averlo sentito e si rivolse ancora all’artista. «L’unico consiglio che posso darti, è quello di dipingere.»
«Ma se ti ha appena detto che non riesce più a farlo come vorrebbe, come cazzo puoi chiedergli una cosa del genere?!»
«Jace, calmati.» intervenne Justin, posando una mano sulla spalla dell’altro, per farlo rilassare. Apprezzava questo suo forte senso protettivo, ma quella era una questione che doveva risolvere da solo. Si prese qualche secondo per riflettere e, dopo aver respirato profondamente, chiese: «È necessaria la mia presenza alle mostre?»
«Non sarebbe di certo un male per te ma, a parte quella della prossima settimana qui a New York, a cui sarebbe meglio tu partecipassi, direi di no. Perché?»
«Se io riesco a dipingere abbastanza per sistemarmi per...che so, le prossime mostre fissate...a quel punto potrò prendermi la vacanza che mi spettava?»
«Justin, se non fosse stato necessario, io non ti avrei richiamato qua.»
«Lo so.» replicò, seppur la sua voce non suonasse poi più tanto convinta. «Ma ne ho davvero bisogno Gary. Non ce la faccio davvero più. Mi sento in trappola.»
Il manager si passò una mano tra i capelli lentamente, prima di concedersi un piccolo sbuffo. «Tu cerca di combinare qualcosa con quelle tele. Io cercherò di tenerti fuori dalle mostre.»
«Come hai fatto l’ultima volta?» domandò Jace, con una punta di amarezza nella voce, ricordandogli come, del mese di vacanza promesso, non erano rimasti che un paio di miseri giorni, appena goduti.
«Ve l’ho già detto. Non dipende da me.»
Justin si alzò dalla poltrona, seguito immediatamente dal designer. Si soffermò con lo sguardo sul suo manager, prima di passarlo sulle stampe miniaturizzate dei suoi quadri e mormorare: «Cercherò di farti avere quei quadri presto. Voglio almeno passare Natale a casa.»
«D’accordo.» convenne Gary. «Ci sentiamo per la mostra allora.»
«Ok.» confermò il giovane artista, prima di salutarlo con un cenno ed uscire dallo studio, seguito dall’amico. Percorse un paio di metri del lungo corridoio, e si preparò alla filippica che – ne era certo – Jace gli avrebbe riservato.
«Che diavolo stai pensando di fare?» indagò infatti, puntuale come aveva previsto, l’altro.
«Mi sembra ovvio. Dipingere.»
«Ma se hai appena detto che non riesci a farlo!» esclamò con un’espressione confusa. «Che riesci a produrre solo roba terribilmente accademica
«È la verità.» replicò il più giovane, proseguendo verso l’uscita, fino a raggiungere la propria jeep. «O almeno, lo era.»
«In che senso?» chiese Jace, sempre più stranito.
Justin sollevò gli occhi verso il cielo, incontrando la scia bianca di un aereo che, inevitabilmente lo riscosse dentro, facendolo pensare alla sua Pittsburgh.
Durante tutto il viaggio non aveva fatto altro che pensare alla sua città e alle persone che lo aspettavano lì. Aveva preso la decisione di chiudere per un po
con la sua vita da artista, augurandosi di riuscire a vincerla anche contro Brian, sperando che non si comportasse come uno stronzo e che accettasse di averlo al proprio fianco, ma non aveva pensato alle conseguenze del suo gesto per lagenzia che si occupava di lui. 
Era troppo grato a quelle persone per abbandonarle così, perciò l
unica possibilità che gli restava, era mettere anima e corpo su ogni tela, lasciandosi ispirare da quella nuova sensazione di speranza - ora che finalmente aveva ricevuto una conferma dellamore di Brian - mista alla malinconia scaturita dalla nostalgia di casa che era tornata ad albergare dentro di lui.
Sospirò sommessamente, avvolto da quelle due emozioni, e si voltò verso Jace. «Nel senso che adesso ho un altro motivo per dipingere. Qualcosa che finalmente mi spinge a farlo.» mormorò poi, prima di chiudere gli occhi ed aggiungere con un sorriso luminoso: «La voglia di tornare a casa, da Brian.»



*'*'*



In casa Bruckner – Novotny regnava un silenzio perfetto da quando Hunter era uscito per studiare a casa di un compagno di università, seguito da Ben per una cena con dei colleghi, mentre Mel e Linz erano passate a trovare le loro vecchie amiche insieme ai bambini.
Non era una situazione abituale – in quella casa il caos totale la faceva sempre da padrone – specie negli ultimi giorni, eppure Michael non si sentiva a proprio agio in tutta quella calma.
Dopo aver letto almeno un paio di fumetti, mangiando sul divano un panino poco salutare – per cui suo marito gli avrebbe rifilato una filippica infinita, se solo lo avesse visto – lanciò unocchiata fugace allorologio e decise di andare a farsi un giro.
Scrisse un biglietto per la sua famiglia e, dopo averla attaccata al frigo con una calamita a forma di Capitan Astro, sinfilò il giubbotto ed affrontò la sera gelata di Pittsburgh per raggiungere Woodys.
Nellultimo periodo non aveva avuto troppo tempo per trascorrere qualche serata in compagnia dei suoi più cari amici perciò, trovarsi nuovamente solo in quella colorata via, gli riportò alla mente mille vecchi ricordi che lo fecero sorridere di nostalgia.
La sua vita lo rendeva felice; la sua famiglia anche di più, ma cerano momenti in cui ripensare a tutti gli anni passati su quella strada, tra una bevuta, un incontro interessante, o anche solo la semplice risata in compagnia di Brian, Emmett e Ted per una sciocca battuta, lo lasciavano invadere da una lieve malinconia.
Era stata sempre la stessa routine per anni ed anni: uscivano insieme, ballavano, ridevano e sì...si drogavano e bevevano, finché Brian non trovava qualcuno che poteva intrattenerlo per qualche ora, ed erano costretti ad aspettare i suoi comodi per riportarlo a casa, ovviamente troppo ubriaco o fatto per guidare. 
Erano notti che a volte lo lasciavano con lamaro in bocca, perché Brian si scopava chiunque, ma non concedeva mai questo privilegio a lui, eppure in un modo o nellaltro riusciva comunque ad amarle, perché alla fine la consapevolezza che nessuno di quei tizi significasse qualcosa per il suo migliore amico, lo rincuorava. Sapeva che Brian sarebbe sempre rimasto con lui.
Già...fino a quella notte.
Un po il suo cuore glielaveva già detto che prima o poi sarebbe arrivato quel fantomatico lui, anche se per uno come Brian sembrava impossibile, e anche se una parte di sé aveva sempre sperato che sarebbe stato il suo ruolo...ma non era così che erano andate le cose.
Un ragazzino biondissimo, con un corpo filiforme ed un sorriso accecante, era piombato nelle loro vite, e si era insinuato a poco a poco in quella di Brian.
Allinizio si era convinto che sarebbe stata la solita scopata di una notte e fine dei giochi, eppure – ripensandoci negli anni – avrebbe dovuto capirlo fin dallinizio che sarebbe stato diverso; che quel moccioso avrebbe fregato il Dio dei gay.
Avrebbe dovuto prestare più attenzione a come era cambiata lespressione di Brian nel momento in cui laveva visto; così come avrebbe dovuto accorgersi di come si fosse formato qualcosa tra quei due fin dal primo scambio di sguardi.
Justin Taylor era il nome di quel lui.
Justin Taylor era fatto appositamente per Brian Kinney; e a Michael non era rimasto nientaltro da fare se non ingoiare quel boccone amaro e pensare alla propria vita. Una vita che poi si era rivelata comunque bellissima, e che gli aveva regalato prima Ben, poi Hunter. Una vita che – nonostante la nostalgia del passato che ogni tanto tornava ad abbracciarlo, da inguaribile romantico qualera – valeva molto di più.
Sorrise sincero, soffermandosi ad osservare il tendone rosso che caratterizzava Woodys e, con passo deciso, attraversò la strada fino a raggiungerlo.
Varcò lentrata, salutando con un cenno della testa qualche ragazzo conosciuto, finché scrutando tra i tavoli, riuscì ad individuare Emmett e Ted.
«Ehi ragazzi!» salutò entusiasta, prendendo posto tra loro. Passò lo sguardo da uno allaltro – che nel frattempo gli avevano risposto con un piccolo cenno della testa ed un sorriso appena accennato – ed aggrottò la fronte, stranito dal loro comportamento e da quellaria funebre che aleggiava su entrambi. «Ma...che vi succede?»
«Niente.» sbuffò Emmett, facendo una smorfia schifata. «Solo che questo mondo fa schifo.»
«E adesso diventerà anche più crudele.» borbottò Ted, indicando con un
occhiata la porta da cui aveva appena fatto il suo ingresso Brian. «Non bastava che fosse una giornata di merda...Dio doveva proprio mandarci anche te ad infierire sulle nostre disgrazie?» gli chiese quando fu più vicino, e dal pubblicitario ricevette in risposta solo unalzata di sopracciglia ed uno sguardo di sufficienza.
«Mickey...» chiamò Brian sedendosi sull
ultima sedia libera. «...che ci fai da queste parti senza il maritino?»
«Che fai adesso? Sfoghi la tua acidità su di me per non pensare al tuo
quasi-maritino appena volato a New York?» replicò Michael con un sorriso ilare, ma dallocchiata che ricevette dai tre suoi più cari amici, capì che non era proprio il momento adatto per sfoggiare la felicità della sua famigliola.
«Lo dico e lo ripeto...» mugugnò Emmett, girando oziosamente lo stecchino nel suo Cosmopolitan. «Il mondo è uno schifo.»
Brian inarcò le sopracciglia e si protese verso di lui per dargli una falsa pacca amichevole, tinta del suo onnipresente sarcasmo. «Cos
è tutto questo pessimismo, Martha Stewart dei gay
L
altro posò il suo sguardo azzurro su di lui con fare scettico e, dopo aver preso un sorso del cocktail rosa shocking, rispose: «Ti interessa davvero, o mi stai solo prendendo in giro?»
Il bel pubblicitario sollevò le spalle. «Lo sai che sono sempre disposto ad ascoltare i drammi altrui...»
«Perché ti fa sentire meglio?» sibilò acidamente Ted, e Brian gli sorrise.
«Esattamente.»
«Bene. Ignorerò le tue egoistiche parole e fingerò che tu me l
abbia chiesto per puro interesse e affetto...» riprese a parlare Emmett. «...e ti dirò che, per la mia solita e proverbiale fortuna in amore, ho finito per prendermi una bella cotta per un uomo che non mi ricambierà mai
«Vedo che continua a piacerti vedere il tuo cuore in un cassonetto.» commentò Brian, a cui seguì la domanda di Michael.
«Di chi si tratta?»
«Di Jace.» replicò Ted per l
altro, così da accelerare i tempi. Era certo che il suo migliore amico avrebbe “allungato il brodo” partendo dalla preistoria, o con qualche aneddoto della zia Loola.
«Chi?» domandò allora Brian, fingendo di non ricordare affatto il ragazzo.
«L
amichetto del tuo Justin.» ribatté il contabile, con una punta di soddisfazione nella voce; a cui laltro rispose con lennesima occhiata di sufficienza.
Michael, sorpreso, si protese verso Emmett. «Perché non c
i hai detto niente?» chiese, per poi continuare: «Eri strano...ma non pensavo fosse per questo. E poi, lui lo sa?»
«No.»
Brian ordinò una birra ed iniziò a giocherellare con uno degli stecchini presi dal tavolo. «Di certo non combinerai niente se pensi di poterglielo comunicare con la telepatia. Vuoi che ti scopi?
Diglielo
«La fai facile tu.» commentò sarcastico il più giovane dei quattro. «Non hai mai ricevuto un rifiuto in vita tua. Non sai quanto possa far male.»
«Ti sbagli.» replicò l
altro con noncuranza, così da dare poca importanza alle sue parole. «Justin mi ha detto no, la prima volta che gli ho chiesto di sposarmi.»
«Ha fatto...
cosa?» chiese, con il tono di voce più alto di almeno unottava, Emmett, scambiandosi occhiate incredule con Michael.
«Oddio.» intervenne Ted, trasformando poi la sua espressione sorpresa in una più ironica. «Credo di sentirmi meglio. Allora anche Brian Kinney ha le sue grane in amore...c
è ancora un po di giustizia in questo mondo!»
«E sentiamo, Theodore...» sibilò in risposta il pubblicitario in tono caustico, avvicinandosi a lui per dargli un buffetto dispettoso sul braccio. «...com
è che hai ripreso a bere? Quali atroci dispiaceri hai deciso di annegare nellalcool? Hai forse visto la tua immagine riflessa?»
«Ah-ah.» finse una risata l
altro, prima di prendere un sorso della sua birra. «Sappi che te lo dico solo perché non sei certo messo meglio di me, visto che ti ritrovi un fidanzato che vedi più sulle riviste che dal vivo...» Brian gli rivolse un sorrisetto nervoso, e lui si decise a proseguire: «Ho chiesto a Blake di sposarmi.»
«Teddy, ma è fantastico!» esclamò Emmett. «Sia chiaro, il ricevimento lo organizzo io! E non voglio niente...sarà il mio regalo di nozze!» batté le mani entusiasta, ma quando si trovò davanti all
espressione da funerale di Ted, arricciò le labbra e, con un po di indecisione, chiese: «Perché...ci saranno le nozze, vero?»
Il contabile scosse la testa, prima di trasfigurare le sue labbra in una smorfia di sofferenza – e un tantino ridicola, a detta di Brian – per piagnucolare: «Ha detto no!» si gettò verso il suo capo per un po di conforto, e per poco non rischiò di schiantarsi a terra, quando questultimò indietreggiò allimprovviso, in un guizzo contrariato.
«Ricaccia immediatamente indietro quelle penose lacrimuccie da lesbica e tieniti lontano dal mio cappotto.» sibilò Brian, aggrottando la fronte e schivandolo come se avesse la peste. «Non voglio certo rischiare che quelle inutili perdite di cloruro di sodio annacquato possano rovinare il tessuto di questa meraviglia.»
Ted gli rivolse unocchiataccia e commentò: «Sai sempre essere di conforto tu.»
«Faccio del mio meglio.» replicò laltro con uno dei suoi soliti sorrisetti.
«Ma perché ti ha detto no?» domandò allora Michael, stranito dalla situazione. «Insomma, Blake ti ama.»
«Anche Justin ama Brian.» intervenne Emmett, prima di voltarsi verso di lui. «E a tal proposito...com
è che ti ha detto no?»
Brian scrollò nuovamente le spalle. «Credeva l
avessi fatto solo perché mi ero spaventato con la bomba al Babylon.»
Gli altri tre sollevarono contemporaneamente le sopracciglia, come a confermare i dubbi del piccolo artista; poi, fu Michael a riprendere la parola: «Ma Ted non è Brian.»
«No, direi proprio di no.» ribatté prontamente il pubblicitario, dopo aver rivolto uno sguardo attento a Ted, osservando ogni minimo particolare del suo aspetto.
Il contabile ricambiò quell
attenzione con lennesima occhiata caustica, prima di tornare mogio e mugugnare: «Non lo so che gli è preso. Ero convinto anchio che mi amasse e volesse passare il resto della sua vita con me...»
«Non c
è bisogno di sposarsi per questo.» replicò Brian, quasi infastidito da quelle parole. «E di certo, una stupida firma, su un altrettanto stupido foglio, non ti assicurerà che starete insieme felici e contenti come una coppia di lesbiche per il resto della vostra patetica vita.»
«Smetterai mai di essere così stronzo?» borbottò Emmett.
«E perché mai? È il mio fascino.» replicò l
altro, piegando le labbra in un sorriso furbo.
«Stupidaggini a parte, mi scoccia ammetterlo ma...Brian ha ragione.» Michael posò una mano sul braccio di Ted per confortarlo ed aggiunse: «Essere sposati non è certo una garanzia a prova di qualsiasi cosa.»
«Fatto sta che non lo saprò mai...» sospirò il contabile, prima di bere ancora. «Ricordate? Mi ha detto
no
«Aspetta ad arrenderti...magari cambia idea come Justin.» replicò Michael, e l
altro si sforzò di sorridergli.
«O non lo farà, e tu potrai tornare al Babylon ad affogare il tuo dolore nell
alcool e a rendermi ricco.»
Gli occhi degli altri tre si posarono per l
ennesima volta su Brian, stizziti; dopo di che, Emmett chiese, rivolto verso Michael: «E tu? Che tragico melodramma personale avresti da sottoporci?»
«Io?» replicò il negoziante sorpreso e a disagio.
Ted si protese immediatamente verso di lui ed assottigliò lo sguardo in modo minaccioso. «Trova immediatamente un motivo per cui lamentarti e dire che la tua vita fa schifo, o vattene allistante! Non hai alcun diritto di stare al nostro tavolo altrimenti!»
«Ehm...» mugugnò Michael preso alla sprovvista, passando gli occhi ovunque alla ricerca di una risposta.
«Allora?» incalzò Brian, ed il suo migliore amico fece una smorfia preoccupata.
«Che Hunter ha bocciato l’ultimo esame?» tentò, balbettando le parole; ed i suoi amici si alzarono dal tavolo – come risposta indignata alle sue parole – lasciandolo solo come unidiota e con il conto da pagare.


*'*'*


“Shattered” – Trading Yesterday



Era ormai notte fonda quando, dopo aver salutato gli altri, Brian fece ritorno alla sua adorata Corvette ammirandone, mentre si avvicinava, le linee sinuose e quel colore lucido ed elegante; sorridendo appena e ripensando allo sguardo stupito di Justin quando laveva visto arrivare al Diner per la prima volta, su quel bolide depoca...
Al quel tempo – doveva ammetterlo – quellacquisto era stato una sorta di sfizio; una distrazione per concentrarsi su qualcosa che non fosse il pensiero del suo raggio di sole tra le braccia di un altro...eppure, nonostante tutto, era stato perfino divertente notare il modo in cui quegli occhi blu chiaro si erano spostati sottecchi e curiosi nello squadrare il suo prezioso gioiellino verde.
Justin aveva sempre dimostrato di avere un gusto fine ed un occhio di riguardo per certi “dettagli”, esattamente come lui; e forse, ripensandoci col senno di poi, quell’acquisto poteva essere visto anche sotto la luce di una sorta di dispetto nei suoi confronti. Uno sfogo infantile, certo, ma che per qualche secondo – quando quelle pupille scure, parzialmente nascoste da quei ciuffi dorati, si erano ridotte per lo stupore – gli aveva concesso una piccola soddisfazione.
Scosse la testa, con un sorriso amaro e lo sguardo malinconico, mentre nella sua mente riaffioravano vari ricordi legati a quei due sedili in morbida pelle chiara; e con un piccolo sbuffo, entrò nellabitacolo, per poi girare la chiave e far rombare il potente motore nel silenzio della notte.
Ingranò la marcia ed imboccò la strada di casa finché, allimprovviso e senza neanche riuscire a spiegarsene il motivo, si trovò a percorrere una via totalmente diversa, ma che al contempo conosceva perfettamente.
Costeggiò il marciapiede illuminato dalla luce gialla dei lampioni, rallentando in modo progressivo, fino a quando lauto non raggiunse una breve scalinata bianca, con un portone del medesimo colore.
«Ma che cazzo sto facendo qui?» borbottò tra sé, lanciando unocchiata verso una delle finestre che mostrava linterno di una delle stanze, completamente immersa nel buio.
Si prese qualche altro secondo per osservare, e nel posare lo sguardo su quegli scalini candidi, fu inevitabile ricordare gli sporadici momenti trascorsi lì insieme a Justin, quando lo aiutava con gli esercizi per la mano, o quando semplicemente lo aveva accompagnato da sua madre.
Non aveva mai messo piede oltre quella soglia, eppure – forse per il semplice fatto che quel piccolo genio aveva vissuto lì – sentiva quel posto stranamente familiare.
Un altro sorriso amaro si disegnò sulle sue labbra e, dopo aver preso un respiro più profondo degli altri, fece per ringranare la marcia ed andarsene, quando una luce lo sorprese accendendosi.
Voltò di scatto la testa, e in quello stesso momento, ogni sua ipotesi di fuga venne resa vana dal suono di una voce familiare che chiamò il suo nome: «Brian? Brian, sei tu?»
Sul portico si stagliava la figura filiforme di Jennifer, avvolta in una camicia da notte candida e di seta, che la copriva fino alle ginocchia. Lo osservava stupita ed insicura allo stesso tempo, probabilmente domandandosi se ciò che i suoi occhi le stavano mostrando, non fosse solo una stupida visione.
La vide accostare la porta e muovere un paio di passi verso lauto, stringendosi con entrambe le mani i lembi della vestaglia, per proteggersi dal freddo. Scese i primi scalini lentamente e si avvicinò allo sportello. «Grazie a Dio sei tu!» esordì sospirando, mentre il finestrino si abbassava. «Mi hai fatto prendere un colpo, lo sai?»
«Non c
è il tuo baldo cavaliere a proteggerti?» mormorò Brian, ticchettando le dita sul volante, senza trovare il coraggio di guardarla negli occhi.
«No, Tuck è fuori città per lavoro. Siamo solo io e Molly.» gli sorrise lei, prima di porre quella domanda a cui Brian sapeva di non poter sfuggire ormai; e a cui, oltretutto, neanche sapeva come rispondere: «Che ci fai qui?»
Lui arricciò le labbra, abbozzando un sorrisetto sarcastico. «Mi sono perso.»
«Ti va di entrare?» gli domandò allora lei, e Brian non poté che notare quanto le sue doti di attore – o bugiardo che dir si voglia – facessero letteralmente schifo nel momento in cui si trovava a fronteggiare un Taylor, o comunque qualcuno che, in un modo o nellaltro, aveva fatto parte di quella famiglia.
Ovviamente, Jennifer non aveva creduto neanche per un secondo a quella sua facciata di strafottente indifferenza, perciò si ritrovò a mugugnare un assenso, e a scendere dall
a sua adorata Corvette, per poi seguirla fin dentro casa.
«Bel posto.
» commentò, osservandosi distrattamente intorno, prima di fare il proprio ingresso in cucina.
«Mi prendi in giro?
» rise lei di gusto. «In confronto a casa tua, o al castello di cui mi ha parlato Justin, questa è una catapecchia.»
«È accogliente.
» borbottò lui in risposta, e la donna non riuscì a fare a meno di sorridere ancora. Suo figlio aveva decisamente ragione: vedere Brian in difficoltà, era uno spettacolo imperdibile.
«Vuoi qualcosa da bere?
» gli chiese. «Un thè, una camomilla...» si voltò verso di lui ed incontrò il suo sguardo scettico. «...o forse è meglio un goccio di bourbon.»
«Adesso si ragiona,
mamma Taylor.»
Jennifer aprì uno degli sportelli della vetrina, ed afferrò una bottiglia di Jim Beam vuota per metà. Ne versò due dita in due bicchieri e ne porse uno a Brian.
«Hai sentito Justin?» chiese poi, diretta.
«Vedo che hai gusto.
» ribatté invece lui, indicando la bottiglia, in modo da sviare la domanda.
«Ogni tanto mi concedo qualche piccolo piacere...
» mormorò, e dopo aver preso un sorso di quel liquido ambrato, sorrise furba. «...e la testardaggine di mio figlio, non è certo nata a caso. Da qualcuno lha ereditata, perciò...»
«No.
» rispose Brian, certo di non avere scampo. «Non lho ancora sentito.»
A quella confessione, Jennifer abbassò lo sguardo dispiaciuta.
«Io gli ho parlato per appena un paio di minuti. Non è neanche passato di qui prima di tornare a New York.»
«Justin è fatto così. Non ama particolarmente i saluti della partenza.
»
«O forse non li ami tu...e non facendolo con te, si è reso conto che fa molto meno male andarsene senza salutare nessuno.
» commentò lei, senza alcuna traccia di rimprovero nella voce.
«Vero anche questo.
»
«Pensi che tornerà presto?
»
Brian terminò il suo bicchiere con una sola sorsata e lo appoggiò sul tavolo, chiudendo gli occhi mentre il liquido gli scorreva nella gola, bruciandola.
«Non lo so.» mormorò poi, fissando un punto a caso. «In quello che fa non esistono orari o tempi.»
Jennifer abbozzò un sorriso senza allegria.
«È sempre stato così bravo, ma non credevo che sarebbe arrivato così in alto.»
«Io sì.
» confessò candidamente lui. «Hai messo al mondo un genio.»
«E tu l
hai aiutato a crescere e a ricominciare a vivere...» replicò lei, con un groppo alla gola. «...se non fosse stato per te, non so che avrei fatto. Forse non sarebbe neanche più qui e...»
«Ma non è successo.
» la interruppe. Non voleva neanche lontanamente pensare alla possibilità di una realtà in cui non era riuscito a salvarlo da quel pavimento scuro di quel dannato parcheggio. «Lui cè, quindi non pensiamoci più.»
La donna annuì, regalandogli uno sguardo dolce e ricolmo di gratitudine.
«Hai ragione, ma non ti ringrazierò mai abbastanza.»
«Non serve. Non l
ho fatto né per te, né per me...né per nessun altro.»
«Lo so. L
hai fatto solo per Justin.» convenne lei, e Brian sollevò le sopracciglia, come a voler dare ovvia conferma alle sue parole. «Comunque sia, te lho già detto una volta e, anche se ti sembrerà strano, la mia idea non è mai cambiata...» gli sorrise sinceramente, e un brivido corse a solcare la schiena di lui, nel constatare quanto in quel momento Jennifer somigliasse al suo raggio di sole. «...mi sarebbe davvero piaciuto essere tua suocera.»
«Una gran bella suocera.» replicò Brian, assumendo la sua classica espressione ilare.
«Stai per caso cercando di comprarmi?»
Lui piegò le labbra allinterno della bocca, ed innalzando una delle sopracciglia, rispose: «No mamma Taylor, ho solo un debole per le bionde.»
Jennifer rise e restò a guardarlo per qualche secondo, prima di avvicinarsi. «Vieni qua.» sussurrò appena, per poi alzarsi sulle punte e circondargli le spalle ampie in un abbraccio; in cui lo sentì irrigidirsi di sorpresa.
Da quello che le era sempre stato raccontato da suo figlio, sapeva che Brian non era tipo da smancerie e dimostrazioni daffetto troppo dirette. Lui era fatto a modo suo; ed aveva anche un modo tutto suo di dire e fare le cose.
Si aspettò pertanto di sentirsi immediatamente allontanare ma, a dispetto di quelle sue previsioni, percepì i muscoli della schiena larga dell’uomo lasciarsi lentamente andare – rilassandosi – per poi sentirlo poggiare il mento sulla sua spalla, e stringerle la vita così da ricambiare il suo gesto daffetto.
Brian respirò profondamente, trovando nel profumo di Jennifer qualche traccia di quello di Justin.
Non avrebbe saputo dirne il motivo, ma sentì distintamente un nodo stringersi nella gola e qualche lacrima pizzicargli gli occhi.
Forse per lodore fresco del detersivo che era sempre stato abituato a sentire sui vestiti puliti di Justin, o quello dello shampoo che percepiva tra i capelli; forse per lidea di essere stretto da colei che aveva dato vita alluomo di cui era innamorato, e a cui, come lui, era legata da un filo invisibile e indistruttibile...
O forse più semplicemente perché in quell
abbraccio poteva sentirsi realmente amato e accettato per quello che era – a prescindere da tutto quello che aveva sempre fatto o detto – esattamente come con il suo Justin.



*'*'*


“See you soon” – Cold Play



Da quella strana notte – in cui linaspettato abbraccio di Jennifer era riuscito a calmare almeno di un poco il suo malessere – erano passati due giorni, che Brian aveva trascorso in ogni loro singolo attimo in compagnia del suo bambino, sia per godersi fino allultimo della sua compagnia e del suono della sua risata, sia per non pensare al suo Justin, da cui ancora non aveva ricevuto né una chiamata, né un messaggio...probabilmente troppo impegnato con il lavoro per farlo; o almeno questo era ciò di cui si era convinto e che, per quanto gli facesse male, aveva accettato.
Il tempo dei saluti però era nuovamente arrivato, insieme a quella consumante sensazione di malessere che lo colpiva ogni volta che doveva allontanarsi da Gus; perciò respirò a fondo, nel tentativo di infondersi un coraggio che in realtà non aveva, ed afferrò la manina calda di suo figlio – così piccola e soffice rispetto alla sua, che quasi sembrava sparire nel suo palmo – e a testa alta, per non vederne gli occhioni verdi lucidi di lacrime, si avvicinò svogliatamente allauto dove Michael e Ben stavano ancora caricando i bagagli.
«Fatto.» affermò Ben, dopo aver sistemato anche lultimo. Chiuse il portellone e si sfregò le mani con un sorriso amaro dipinto sul volto. Michael accanto a lui non parlava, né accennava a volerlo fare. Si limitava a tenere gli occhi bassi, quasi volesse scappare da quella situazione imbarazzante e soffocante di tristezza a cui ogni volta erano obbligati.
«Ok.» mormorò Mel, tenendo in braccio Jenny Rebecca. «Allora, ci rivediamo per Natale?»
«Certo.» si scrollò Michael. «Dovete venire assolutamente. Altrimenti, mia madre chi la sopporta!» si avvicinò per baciare la sua piccolina sulla fronte, e accarezzò affettuosamente Gus sulla testa.
Come per riflesso incondizionato, il bambino strinse più forte la mano del padre e si accostò maggiormente a lui, quasi volesse nascondersi dentro al suo corpo. «Non voglio andare a Toronto.» piagnucolò poi.
«Tesoro, dobbiamo andare a casa.» gli rispose Linz, accoccolandoglisi davanti
«Casa mia è qui!» strillò pieno di rabbia. «È qui con papà!»
Brian ingoiò a fatica il nodo amaro stretto nella gola e sollevò il figlio per baciarlo sulla fonte. «Ci vediamo presto, Gus.» cercò di tranquillizzarlo, quando in realtà anche lui avrebbe voluto tornare a essere solo un bambino per poter piangere, strillare e battere i piedi. Gli faceva così male lasciarlo andare; ogni volta era come se gli strappassero con la forza un pezzo di sé. «Venti giorni al massimo e saremo di nuovo insieme. Faremo un sacco di cose, te lo prometto.»
«Non voglio andare via.» ribadì e strinse più forte la presa sul collo e sul cappotto di Brian.
Luomo non riuscì a desistere dallaccarezzargli la testa dolcemente e, senza neanche rendersene conto, rivolse uno sguardo supplichevole a Linz, quasi le stesse dicendo: “non portarmelo via”.
«Cerco di liberarmi prima questanno. Così resteremo più tempo.» provò a tranquillizzarlo allora lei, stringendosi nelle spalle e soffrendo per quellorrenda sensazione che le bruciava in mezzo al petto...perché era così triste ogni volta dover allontanare quelle due anime che sembravano incastrarsi così bene nel loro abbraccio.
«È ora di andare.» soffiò Melanie, quasi le costasse pronunciare quelle parole e Linz si avvicinò a Brian per prendere Gus.
«No!» strillò più forte il bambino, aggrappandosi con tutte le forze a suo padre, finché fu proprio lui a lasciarlo andare.
«Gus, ascolta.» gli disse dolcemente, quando fu tra le braccia della madre. «Se non sono troppo impegnato con il lavoro, cerco di venire a Toronto il prossimo fine settimana, ok?» tra le lacrime che scendevano copiose, il bambino annuì, tirando su con il naso e Brian gli sorrise accarezzandogli una guancia. Si sporse per baciarlo sulla testa e vi sostò per qualche secondo, respirando il profumo dellinnocenza tra quei capelli castani; unaltra delle sue tante eredità. «Chiamami appena arrivi a casa, ok?» aspettò che il figlio annuisse ancora e si sforzò di sorridere più sinceramente. «Intanto io vado ad appendere il tuo capolavoro.»
«Torneremo presto.» cercò di rassicurarlo Linz, dopo averlo baciato sulle labbra e Brian annuì appena, incapace di non collegare quella stessa promessa a quella dellaltra persona che neanche due giorni prima se nera andata. Sembrava un circolo vizioso in cui, ogni fottuta volta, le persone che più amava erano destinate ad allontanarsi da lui. Lui che era sempre stato il primo a volerlo fare, era quello che era sempre rimasto a Pittsburgh, mentre guardava gli altri andarsene.
Salutò con un cenno della testa Melanie e baciò Jenny, prima di accendersi una sigaretta e – dopo aver concesso un ultimo sorriso a suo figlio – voltarsi senza dire una parola per raggiungere la Corvette.
Non voleva vederli andar via; se ne sarebbe andato via prima, così che potesse illudersi ancora per qualche attimo che, se mai li avesse cercati, sarebbero stati sempre lì.
Ingranò la marcia e partì sgommando alla volta del suo loft; per poi entrarci stancamente, come se ogni passo lo prosciugasse dellenergia vitale.
Richiuse la porta scorrevole alle sue spalle e simmerse nel silenzio assordante della sua casa, che fino a qualche giorno prima era illuminata da un raggio di sole, e resa ridente e chiassosa da una vocina argentina.
Per un attimo immaginò di vederli ancora lì, impegnati a disegnare sul pavimento, sporchi di pastelli colorati; e non avrebbe neanche avuto il coraggio di arrabbiarsi se avessero macchiato il suo pregiato parquet, per quanto era felice di essere circondato dalla loro confusione.
Avrebbe preso una birra dal frigo e sarebbe rimasto ad osservarli ammirato, mentre dentro si sentiva esplodere di gioia per quei sorrisi ed il suono delle loro risate.
Immaginò di vedere Gus sollevare lo sguardo e rivolgergli il sorriso più bello che potesse fare, prima di sollevarsi da terra e corrergli incontro; ed immaginò anche Justin che losservava felice, con quel suo sguardo blu luminoso, mentre si alzava e lo raggiungeva per regalargli uno dei suoi baci.
Li avrebbe stretti entrambi a sé e avrebbe respirato a fondo il loro profumo, fino a saturarsene i polmoni e inebriarsi la mente. Avrebbe annullato se stesso per riempirsi di loro e dellamore che sapevano rivolgergli.
Forse, sarebbe stato anche capace di sussurrare un “ti amo”; anzi due...
Uno soffiato allorecchio di Justin, laltro pronunciato strofinando il suo naso con quello di Gus...perché era quella la realtà. Lui li amava; li amava da morire e avrebbe dato tutto, ogni più microscopica briciola di sé stesso per poterglielo dire...per tenerli per sempre con sé.
Ma la realtà era anche fatta di un loft solitario; e mentre vide svanire quella fantasia perfetta, emblema della sua felicità più rosea, permise a una lacrima di lasciarsi cadere dallangolo dellocchio lungo la sua guancia.
Scosse la testa, come per scrollarsi di dosso il dolore e avanzò a passi lenti, fino al divano, dove il disegno di suo figlio e di Justin giaceva indisturbato.
Lo prese con delicatezza tra due dita e si lasciò sprofondare tra i guanciali bianchi e soffici, perdendosi in quei colori vivaci; scavandoci dentro alla ricerca di una traccia dei suoi due infiniti amori e provare a trattenere un po di loro per sé...così da sentirsi un po meno solo. 

*** 

Note finali

Here i am...di nuovo! 
Ebbene sì, sono tornata ad infestare questo fandom con un capitolo che manco mi piace, ma che era necessario per spargere indizi qua e là, tanto per dare una piega alla storia. XD 
In pratica - come avrete visto - non succede niente di che, solo un paio di precisazioni e qualche lacrimuccia. 
Premetto che neanche questa volta ho avuto il tempo di rileggere il capitolo, perciò se trovate errori...perdonatemi! Ho saputo che tra una settimana avrò un esame intermedio - di cui io manco sapevo niente. Come al solito cado dalle nuvole! - e mi sono ritrovata a dover studiare dieci capitoli indigeribili in meno di una settimana! Fantastico! 
Insomma, per farla breve, non volevo farvi aspettare ancora...quindi ho terminato il capitolo e l'ho messo su NVU...senza guardare ad eventuali orrori sparsi nei paragrafi!
Detto questo, ci tengo anche a dirvi che mi dispiace se la parte della discussione tra Justin/Jace/Gary risulta un tantino confusa e un po' incoerente dal punto di vista di Justin, ma ora come ora non potevo spiegare bene le cose...lo farò nel prossimo capitolo, o almeno spero risulterà comprensibile! XD 
A questo punto posso passare alla parte più importante, prima di strisciare verso i libri! -.-'' 
Ringraziamenti-time: Un grazie a tutti coloro che hanno letto questo capitolo, arrivando fino in fondo senza addormentarsi - ed ammetto che non era affatto facile! - grazie a chi ha inserito la storia tra le seguite, le preferite o le ricordate...ma soprattutto GRAZIE a: mindyxx, SusyJM, FREDDY335, electra23, klaudia62, Thiliol, Giohs, oo00carlie00oo, asterix_c, silver girl, Clara_88, OfeliaCuorDiGhiaccio ed EmmaAlicia79 per aver commentato lo scorso capitolo! *w* Grazie davvero
Quindi vi saluto e piagnucolo verso la scrivania. -.-'' 

Un bacione e alla prossima. 
Veronica.

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Capitolo 11
*** Old routine. ***


11.Old routine.


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6x11 – Old routine.



«È davvero un piacere conoscere di persona un talento come lei, signor Taylor!»
Quelle parole arrivarono a Justin come un eco lontano, ma in qualche modo riuscirono a riportarlo alla realtà. Abbandonò i propri pensieri – che da molti giorni ormai avevano sempre lo stesso nome e lo stesso bellissimo volto – e si costrinse a prestare attenzione allo sconosciuto che gli sostava davanti e gli sorrideva entusiasta.
Impose alle proprie labbra di piegarsi in un sorriso pressoché credibile e strinse la mano che gli era stata porta. «La ringrazio.» si limitò a rispondere poi, biascicando le parole, ormai troppo stanco anche per pensarne altre.
Non riusciva a fingere così bene; non quando ogni suoi pensiero era totalmente catalizzato a miglia e miglia di distanza, mentre la sua speranza era riposta in un cellulare che non squillava. O meglio, squillava anche troppo, ma non mostrava mai sul display l’unico nome che avrebbe voluto vedere.
Da quando se n’era andato, il silenzio era tornato a dividere lui e Brian come un muro invalicabile. Né lui era riuscito a chiamarlo, né l’altro l’aveva mai fatto.
Un soffocante silenzio che era andato ad unirsi al senso di vuoto in cui si sentiva sprofondare lentamente ogni giorno di più, come se la mancanza dell’uomo che amava lo stesse snaturando; come se gli stesse togliendo tutto.
Si sentiva sempre più stanco, a malapena si riconosceva; eppure la speranza di poter tornare al più presto alla sua città natale non si era mai affievolita.
Era solo quella che lo spingeva ad andare avanti; a riprendere in mano i propri pennelli ogni giorno, a colorare le tele e presenziare a tutti quegli stupidi eventi a cui Gary lo costringeva a partecipare.
Non era quello che desiderava per sé, ma il suo sogno e la voglia di non deludere nessuna delle persone che avevano sempre creduto in lui – Brian in primis – lo spingevano ad andare avanti e a desistere dal mandare tutto all’aria.
Era sempre stato un tipo caparbio, anche nelle situazioni che sembravano esser impossibili da superare. Non si era mai arreso; non si era mai dato per vinto, e alla fine il premio più grande non era stato tanto l’aver ottenuto il risultato, quanto vedere il sorriso e una luce orgogliosa negli occhi di coloro che per lui contavano di più.
Era soprattutto per loro che stringeva i denti e sopportava, proprio come in quel momento: un pomeriggio che avrebbe preferito passare ovunque, meno che lì, in mezzo a centinaia di sconosciuti con cui era costretto ad intrattenersi, tra Jace che gli lanciava occhiate insofferenti e Gary che lo controllava a vista.
Si passò una mano tra i capelli e fece un cenno di saluto allo stesso – sconosciuto – signore distinto con cui aveva appena intrattenuto non sapeva neanche che tipo di conversazione. Si stropicciò gli occhi che sentiva bruciare, sotto le palpebre che si facevano sempre più pesanti e sospirò stancamente, finché non si rese conto delle occhiate contrariate che Jace gli stava lanciando.
«Credi di poter tenere gli occhi aperti...» gli domandò proprio lui, assottigliando lo sguardo. «...o devo procurarmi un pennarello per disegnarteli sulle palpebre?»
Justin sorrise fievolmente e si stiracchiò un poco. «Sono solo un po stanco.»
«Uhhhm. Grazie per l
informazione, Taylor. Non se ne sarebbe accorto nessuno. Un vero maestro nel nascondere le cose.» commentò laltro con sarcasmo.
«Non ho dormito molto stanotte.»
«Lo so bene. E grazie a te non sto dormendo neanche io!» ribatté Jace, con un tono sempre più acido, atto a nascondere la reale preoccupazione che da giorni lo assillava. «Tu e i tuoi stramaledetti barattoli di vernice che sbatacchi ovunque. Al piano di sotto cè gente che vuole dormire, nel caso tu non lo sapessi.» incrociò le braccia al petto e continuò la sua filippica, nonostante fosse nato nella sua testa il sospetto che il bellartista non lo stesse più ascoltando. «E giuro che ti chiederò i danni se mi verranno le occhiaie e...Justin, mi stai ascoltando?»
Ormai perso tra stanchezza e nostalgia di casa, Justin fu colto di sorpresa dal tono improvvisamente alto dell’altro, e si scosse spalancando gli occhi. «Eh? Sì, certo.»
«Non ti prendo a sberle solo perché ho intenzione di chiamare Debbie.» sospirò Jace, scuotendo la testa con rassegnazione. «Ci penserà lei per me.»
«Non oseresti...» tentò di minacciarlo il ragazzo, ma la voce gli uscì più fievole del previsto. Era davvero a pezzi.
«E allora dormi la notte, invece di fare il pazzo!» riprese a rimproverarlo, per poi passargli un braccio sulle spalle. «E adesso andiamo a far imbambolare qualche riccone con le tue opere.»
Justin gli sorrise con gratitudine, consapevole di quanto dietro a quei rimproveri o alle critiche si nascondesse in realtà pura preoccupazione, dettata da quella sorta di affetto fraterno che caratterizzava la loro solida amicizia. Circondò la vita di Jace con un braccio e, facendosi forza, si apprestò a ravvivare il sorriso sulle sue labbra e a perdersi in altre chiacchiere con chi sa ancora quanti sconosciuti e probabili compratori, sforzandosi di distogliere i propri pensieri da quel cellulare che si ostinava a giacere immobile nella sua tasca.



*'*'*



A trecentosettanta miglia di distanza anche qualcun altro si prodigava nel rigirare tra le proprie mani il cordless del lussuoso ufficio in cui era rinchiuso da ore.
Brian osservò i tasti attentamente, arricciando le proprie labbra in una continua battaglia con se stesso; indeciso tra premerli ed avviare quella dannata telefonata o meno.
Fece per scostare il pollice sul primo numero quando, dopo aver dato una fugace occhiata all’orologio, si decise a riporre il cordless sulla propria piattaforma con uno sbuffo scocciato e a lasciarsi sprofondare contro lo schienale della poltrona in pelle scura.
Incrociò le mani in grembo, dandosi mentalmente dell’idiota – perché mai, Brian Kinney, si era ridotto così, alla stregua di una patetica checca, prima di quel famoso incontro con il suo raggio di sole – e piantò gli occhi verso il soffitto, fino a quando non riuscì a scorgere con la coda dell’occhio due presenze familiari che sostavano in modo ridicolo sulla soglia, stringendo dei fascicoli tra le mani.
«Sareste così gentili da spiegarmi che cazzo ci fate impalati lì come due idioti?» borbottò acido, fulminando sia Cynthia che Ted con lo sguardo.
«Controllavamo il campo di battaglia.» rispose il suo contabile, passando gli occhi in ogni angolo dell’ufficio, prima di dare una gomitata a Cynthia. «Ad esempio, quel tagliacarte è piuttosto inquietante.»
Brian aggrottò immediatamente la fronte, contrariato. «Dico, vi ha dato di volta il cervello?»
«Anche la lampada è considerata un oggetto contundente, no?» mugugnò però Cynthia, ignorando completamente il proprio capo e continuando il suo strano scambio di opinioni con Ted.
«Se è per questo potrebbe lanciarci dietro anche lo schermo del pc.» ribatté l’altro, già impaurito dalle sue fantasie, quando Cynthia sospirò con fare teatrale e gli diede una pacca sulla spalla.
«Coraggio Ted, è per una buona causa.»
«Sappi che ti ho voluto bene.» ribatté lui, continuando a non prestare attenzione a Brian, la cui espressione si stava facendo sempre più livida di rabbia.
«Anchio.» annuì la donna, con unespressione affranta. «Anche se ti ostini ad indossare quei boxer orrendi.»
«Ehi, ma...» provò a protestare Ted, aggrottando la fronte, ma la voce innervosita del Boss echeggiò in tutto lo spazioso ufficio.
«Si può sapere che cazzo vi prende?!»
Cynthia sobbalzò ed artigliò le mani con forza al braccio del collega. «Ecco si è arrabbiato.»
«Non solo, vi licenzierò anche seduta stante se non mi dite immediatamente cosa cazzo sta passando nelle vostre teste marce.»
«Secondo te morde?» provò a sussurrare il contabile, ma non lo fece abbastanza piano perché Brian non lo sentisse.
«Theodore...» sibilò infatti, assottigliando lo sguardo e lasciando presagire che se non avesse ricevuto immediatamente una risposta soddisfacente, avrebbero di certo passato un bruttissimo quarto d’ora.
«È solo che...» tentò allora l’altro uomo, sbrodolando le proprie parole con estrema cautela. «...avevamo solo paura ad entrare qui, ecco.»
«Sì, insomma...» intervenne Cynthia, con la sua proverbiale mancanza di tatto. «...Justin se nè andato e tu sei diventato intrattabile!»
Con quella scomoda verità, gli occhi di Brian divennero immediatamente due pozzi scuri di rabbia; tanto penetranti e pungenti che entrambi i suoi dipendenti indietreggiarono di un passo, spaventati dalla possibilità di essere inceneriti sul posto. «Vi do cinque secondi per portare il vostro culo lontano da qui.» sibilò Brian, scandendo bene ognuna di quelle parole.
«Te lavevo detto che si sarebbe incazzato!» esclamò la donna, spingendo Ted verso il corridoio per sfuggire a quellira.
«Cynthia!» tuonò subito dopo Brian, facendola sussultare ancora.
«Eccomi!»
«Le cartelle che avevate in mano.»
La donna titubò per un attimo sul da farsi, finché non si decise a poggiare quelle stesse cartelle su un tavolo dell’ufficio, restando a debita distanza dalla scrivania. «Eccole.»
«Ma che cazzo ti dice il cervello?! Portale qui!» sbottò nuovamente lui, digrignando i denti.
«Non ho marito, né figli...» mugugnò lei, stringendosi i fascicoli colorati al petto.
«E mi auguro per loro che non li avrai mai.»
«...ma sono comunque troppo giovane per morire.»
Brian sollevò una delle sopracciglia. «Su questo potremmo discutere.»
«Ma proprio tu parl...» si azzardò a ribattere lei, punta sul vivo e nuovamente combattiva così come era sempre stata, almeno fino a quando non si accorse dell’espressione visibilmente stizzita sul volto del proprio capo. «...ok...lascio le cartelle e me ne vado, ho capito.»
«Ottimo.» sentenziò lui, per poi richiamarla: «Ah, Cynthia...chiamami Theodore.»
Lei annuì immediatamente, per poi affrettarsi ad uscire dall’ufficio.
Brian tornò a rilassarsi sulla propria poltrona, massaggiandosi la radice del naso con l’indice ed il pollice, prima che quella ritrovata quiete fosse interrotta dalla voce di Ted. «Eccomi, volevi dirmi qualcosa?»
«Entra e chiudi la porta.» sbuffò, accarezzandosi distrattamente la fronte con un dito.
«Mi devo preoccupare?»
«Fa come ti dico e chiudi quella cazzo di porta!» sbottò allora Brian, sollevando gli occhi al cielo con esasperazione.
«Ok, ok.» si affrettò a rispondere il contabile, per poi eseguire l
ordine ed avvicinarsi alla scrivania al cenno del pubblicitario. «Allora? Che...che cè?»
«È tutto ok?» chiese semplicemente l
altro, sospirando appena le parole.
«Oh, sì. Hanno telefonato quelli della Brow Athletics e con il pagamento è tutto in regola come previsto, mentre quelli della...»
«Non stavo parlando di lavoro. Stavo parlando di te.» lo interruppe, lasciandolo interdetto, prima di puntualizzare. «Di te e Blake.»
Ted si soffermò a fissare il proprio capo con uno sguardo a metà tra il sorpreso e lo scettico. «Mi stai davvero chiedendo come vanno i miei problemi sentimentali?» domandò poi, ma nel momento in cui vide quegli occhi verde petrolio roteare nuovamente, sollevò le mani in segno di resa. «Ok, ok. Be, a dire il vero non so neanche io cosa risponderti. La verità è che non lo so. Cerco di non pensarci e non abbiamo ancora parlato...»
«Hai bisogno di qualche giorno di riposo?» si affrettò a chiedere, così da portare al termine quella confessione che sembrava prolungarsi più del dovuto; o meglio, più di quello che Brian fosse capace di sopportare.
Sapeva bene che Ted era quel tipo di persona che non si stanca mai di lamentarsi di tutti i suoi problemi, ed aveva perfino iniziato a pensare che tutte quelle “condivisioni” a cui aveva partecipato durante la sua disintossicazione, l’avessero anche peggiorato...eppure, nonostante la sua petulanza ed il suo essere sempre così melodrammatico – quasi ai livelli della regina del dramma, Michael Novotny – rappresentava senza ombra di dubbio un membro fondamentale e completamente affidabile della Kinnetik, nonché – per quanto gli costasse ammetterlo – un vero amico.
Era per questo motivo che gli aveva porto quella domanda.
Era il suo modo per chiedergli se avesse bisogno o meno di aiuto, o se avesse solo bisogno di tempo per sé e per pensare.
«No, figurati.» gli rispose però Ted, con un mezzo sorriso di gratitudine.
«Ted...ricordi? Se fai qualche casino, io ti uccido.» puntualizzò immediatamente, così da poter nascondere le reali motivazioni di quell’interessamento dietro la propria preziosa agenzia.
«Lo so, e so di quel che parlo. Non ti metterei mai in qualche guaio.» lo rassicurò l’altro, fingendo di credere a quella scusa. «Il lavoro mi aiuta a stare meglio e non pensarci.»
«Dovrai affrontarlo prima o poi.»
«Anche tu.»
Brian restò interdetto per qualche secondo da quella risposta, finché non vide nel sorriso amichevole di Ted la risposta al suo interrogativo. Come era ovvio che fosse, si stava riferendo a Justin.
Consapevole di questo, trattenne a stento uno sbuffo e mise su la sua classica faccia di bronzo, dietro cui nascondeva ogni sentimento, preoccupazione o pensiero, e finse di non aver capito: «Anche io, cosa
«Non l
hai ancora chiamato, vero?» chiese allora Ted, in tono retorico. «E non fare quella faccia. Sai benissimo di chi stiamo parlando.»
Gli occhi verde scuro rotearono ancora in un
espressione scocciata, così da darsi il tempo per trovare una via di fuga: «I file dellIconic sono pronti?» tentò allora, sviando il discorso, ma dopo tutti quegli anni insieme era ovvio che non gli avrebbe creduto.
«Senti, se non vuoi parlarne con me, va bene...ma dammi retta per una volta: chiamalo. Sono certo che ne ha bisogno.»
«Theodore...» sibilò Brian minaccioso, ed il contabile sollevò entrambe le mani.
«Sì, sì. Te li faccio avere sulla scrivania tra due ore.»
«Unora. Al massimo.» rettificò il pubblicitario con un sorriso sadico sulle labbra.
«È sempre un piacere lavorare per te.» ribatté Ted con un tono acido, proseguendo poi col borbottare qualcosa di incomprensibile mentre raggiungeva la porta e la richiudeva alle proprie spalle, lasciando Brian nuovamente immerso nel silenzio del proprio ufficio, affiancato dal rumore odioso ed assordante di tutti i suoi pensieri insistenti.


“Delicate” – Damien Rice


Dopo qualche minuto trascorso da solo, Brian non era ancora riuscito a cancellare le parole di Ted dalla propria mente. Per quanto tentasse di concentrarsi su altro, qualsiasi cosa sembrava ricordargliele ed amplificarle fino a farle diventare così insistenti da risultare fastidiose.
Con uno sbuffo prese a giocherellare con la preziosa stilografica nera ticchettandola sulle proprie morbide labbra, mentre i suoi occhi si fissarono nel vuoto, finché la mano libera, probabilmente mossa da quella martellante sensazione divenuta insostenibile, raggiunse il cordless e premette in modo frenetico tutti i numeri di quella sequenza così familiare, ed un suono cadenzato raggiunse le sue orecchie, seguito da un rumore secco.
Aveva risposto.
«Brian.»
Nel sentire il suo nome pronunciato da quella voce il suo cuore ebbe un sussulto, prima di cominciare a pompare come un pazzo, come se avesse appena corso una maratona. Sentì il fiato venirgli meno, mentre la mano prese inspiegabilmente a tremare, eppure in qualche angolo profondo di sé, trovò la forza di parlare: «Ehi...» biascicò appena, per poi schiarirsi la voce. «...come...come procede nella Grande Mela?»
Il silenzio che seguì quella domanda non durò che qualche secondo, ma a Brian parvero ore, a causa della paura che lo attanagliava ogni volta, quando Justin era lontano da lui. La paura che prima o poi potesse dimenticarlo e cancellare tutto quello che avevano vissuto.
Respirò a fondo, stringendo con più forza le dita sul cordless, finché tutti i suoi timori vennero immediatamente dissipati dalla voce del suo piccolo e bellissimo artista che, con un filo di voce tremante, confessò candidamente: «Mi manchi.»
A quelle parole un lieve sorriso spuntò sul viso di Brian, dopo di che tornò a rilassarsi sulla poltrona e a chiudere gli occhi immaginando che Justin fosse ancora lì al suo fianco.
In fondo laveva sempre saputo che quel ragazzino impertinente era sempre stato molto più bravo di lui ad esprimere i propri sentimenti e, a dirla tutta, se era arrivato ad esserne capace lui stesso, lo doveva solo e soltanto a Justin e alla pazienza con cui glielo aveva insegnato.
Ogni volta, con una semplicità disarmante, Justin trovava il modo di dirgli le parole che aveva bisogno di sentirsi dire, come se inconsapevolmente potesse capire anche a distanza ogni sua preoccupazione; e si sentiva perfino patetico per questo, ma gli capitava di pensare che certe cose accadessero semplicemente perché quel moccioso luminoso come il sole...fosse stato creato apposta per lui.
«Va tutto bene, raggio di sole.» sussurrò lentamente, con il cuore più leggero, nonostante la nostalgia di lui.
«Torno presto.» rispose Justin, azzeccando ancora le parole esatte.
«Lo so.» sussurrò Brian con dolcezza, prima di schiarirsi nuovamente la voce ed assumere un tono più autoritario. «Ora però torna a lavoro.»
«Ok...ma tu non guadagnare troppo, eh.» gli rispose semplicemente e, nel momento in cui lo sentì ridere, seppur in modo appena accennato, Brian si sentì riempire di calore, quasi fino ad esplodere.
«Nah! Giusto qualche milione.»
Justin rise ancora, e il bel pubblicitario provò il desiderio di non separarsi più da quel telefono, così da poter sentire ancora quella risata cristallina che riusciva a fargli tremare il cuore.
Gli impegni di entrambi però non avrebbero permesso una cosa del genere; e Brian se ne rese conto nel momento in cui la spia rossa sulla piattaforma del cordless prese a lampeggiare, informandolo di un’altra chiamata posta in attesa. «Devo andare anch’io.» si sforzò di dire allora, e sentì Justin annuire.
«Ti amo.» gli confessò poi, sempre con la sua proverbiale semplicità, per cui Brian non poté far altro che sorridere e sentirsi davvero leggero. «Ciao.»
Qualche altro secondo di silenzio ed il suono acuto della chiamata che veniva interrotta lo raggiunse, lasciandogli una piccola fitta di malinconia a bruciare nel petto.
Brian si morse delicatamente le labbra e riaprì gli occhi, tornando a quella realtà in cui Justin era troppo lontano perché lui potesse ricambiare quelle sue parole con un bacio, uno sguardo o un abbraccio.
Prese un respiro profondo e, aprendo il primo cassetto della scrivania, gettò un lungo sguardo a quella foto che custodiva gelosamente all’insaputa di tutti.
Erano semplicemente loro due, in una delle tante cene a casa di Debbie; una sera come un’altra, ma allo stesso tempo speciale perché erano felici.
Per un attimo, Brian provò una sciocca invidia per “quel se stesso” che ancora aveva la possibilità di stringersi a quel corpo filiforme, abbracciandolo da dietro e respirando il profumo di quei capelli biondissimi.
Sorrise del modo in cui in quell’immagine stringeva a sé Justin, neanche avesse il bisogno di rimarcare che si appartenevano, nonostante il fatto che tra loro non fossero mai esistiti catene o “lucchetti alle porte”.
Si passò la lingua sulle labbra ed attardò ancora lo sguardo sul sorriso del suo raggio di sole, accecante così come era sempre stato; o forse anche di più, perché come tutti gli ricordavano sempre, Justin sorrideva maggiormente quando si trattava di loro due.
Il tempo di un ultimo sospiro, e finalmente si decise a separarsi da quella foto, non senza prima aver sussurrato quelle maledette parole che gli esplodevano dentro, ma che ogni volta gli si incagliavano nella gola: «Ti amo anch’io.»



*'*'*



«Sono a casa!» esclamò Melanie mentre rincasava dal lavoro, facendo echeggiare la propria voce per tutto l’ingresso. Si tolse il cappotto, rabbrividendo per colpa dello sbalzo termico tra la sua accogliente casa ed il gelo di Toronto, e raggiunse la cucina con la fronte aggrottata per non aver ricevuto risposta.
Si passò una mano tra i capelli che portava ancora corti, sempre più interdetta, finché notò il post-it giallo lasciatole da Linz attaccato allo sportello del frigorifero.


Sono fuori con JR. Torno presto. Gus ha fatto i capricci come al solito ed è rimasto in camera sua, vedi di parlarci tu. Ti amo. L.”


Con gli occhi ancora incantati sul foglietto, Melanie si ritrovò a sospirare.
Da quando erano rientrate a Toronto, Gus non le aveva ancora perdonate per averlo nuovamente allontanato da Pittsburgh, ma soprattutto da suo padre.
Era sempre stato difficile gestire la mancanza che il bambino manifestava nei confronti di Brian, ma in un modo o nell’altro erano sempre riuscite a fargli tornare il sorriso sulle labbra e, anche se di tanto in tanto riprendeva a piangere o a fare i capricci, almeno erano solo brevi episodi separati l’uno dall’altro, e non uno continuo che sembrava non voler arrivare ad una fine.
Andava a scuola malvolentieri, non rivolgeva la parola a nessuna delle sue mamme se non per lo stretto necessario mantenendo sempre il suo broncio e, cosa peggiore, terminava ogni telefonata con Brian con un pianto disperato in cui lo pregava di andarlo a prendere insieme a Justin e di tenerlo a Pittsburgh con sé.
Sia lei che Linz erano arrivate al punto in cui non sapevano più dove mettere le mani, e neanche le parole che Brian rivolgeva al bimbo – e che di solito riuscivano a calmarlo – sembravano essere poi più così convincenti.
Con uno sbuffò scocciato, Melanie accartocciò il post-it per poi gettarlo, prima di salire le scale e raggiungere la stanza del bambino. Aprì la porta e lo trovò come sempre immerso tra i disegni, solo che quella volta non aveva i pastelli in mano, bensì il cordless e l’agenda di Linz. «Tesoro che stai facendo?» domandò allora, facendolo sobbalzare.
«Niente.» si affrettò a rispondere lui, cercando di nascondere l’agenda dietro di sé.
Melanie gli si avvicinò e gli occhioni verdi di Gus si inondarono di paura e nervosismo. «Che ci fai con l’agenda della mamma?» chiese con un tono contrariato e incrociando le braccia al petto. «Quante volte ti abbiamo detto di non prenderla?» proseguì nella sua filippica, ma il bambino non sembrava disposto ad ascoltarla. «Gus, guardami e dimmi che stavi facendo.»
«Cercavo il numero di Justin.» borbottò lui sommessamente, resosi conto che la pazienza di “Mamma Mel” stava venendo meno.
«Di Justin? E perché?»
«Perché voglio andare a da lui. Se voi non volete portarmi da papà, allora io vado da lui.» rispose deciso, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime rabbiose.
«Gus ma che stai dicendo?»
Il bambino tirò su con il naso e strinse con più forza il cordless al petto, quasi temesse che glielo portasse via. «Io non ci voglio stare qui.»
«Amore, non puoi chiamare Justin per queste cose. Lui non può portarti con sé e poi te l’abbiamo già detto tante volte che faresti arrabbiare papà.»
«Ma perché?» piagnucolò lui, con il labbro inferiore che tremava e le guance rigate dalle lacrime. «Papà mi lasciava sempre stare con lui.»
«Perché non vuole che nessuno lo disturbi mentre lavora. Justin deve dipingere, non deve essere distratto.»
«Anch’io faccio i disegni e Jenny viene sempre a darmi noia!»
Melanie si lasciò sfuggire una piccola risata. «Non è la stessa cosa, tesoro. E poi pensaci, se a te da noia che qualcuno venga a disturbarti mentre disegni, non pensi sia lo stesso anche per Justin?»
Gus abbassò lo sguardo dispiaciuto e gonfiò le guance. «Ma io e lui possiamo disegnare insieme.»
«Quando siete a casa di tuo padre.»
«Infatti, io voglio tornare a Pittsburgh da papà e Justin!»
«Tesoro...» sussurrò lei, accarezzandolo sulla testa con dolcezza. «...ma Justin non è a Pittsburgh.»
«E perché?» domandò immediatamente lui, sorpreso da quella notizia. «Papà è più felice quando c’è Justin.»
Melanie sorrise a quelle parole, trovandole così vere. Perfino un bambino che non sapeva niente dell’amore era riuscito a vedere quanto Brian fosse diverso dal momento in cui Justin era al suo fianco. «Lo sappiamo.» convenne allora, mentre il suo sorriso diveniva più triste. «Ma come tutti ha anche lui degli impegni. Lui è tornato a New York.»
Il bambino restò in silenzio per qualche secondo, visibilmente scombussolato da quella notizia, mentre nella sua testa avanzava un’ipotesi che poi tramutò candidamente in parole: «E allora papà sarà triste senza Justin, quindi io devo stare con lui.»
«Gus, ascoltami...»
«No, io devo andare da papà!» esclamò, stavolta con preoccupazione; ed il cuore di Melanie venne stretto da una morsa nel notare come – anche se in modo diverso – perfino in questo Gus somigliasse a Brian. Anche suo padre aveva il “vizio” di occuparsi dei problemi di tutti, seppur lo facesse nell’anonimato, non l’avrebbe mai ammesso e soprattutto la considerasse quasi un’offesa se qualcuno glielo faceva notare.
«Tesoro, torneremo presto a Pittsburgh. Neanche una settimana e saremo lì.» provò a rabbonirlo, ma quel piccolo broncio sembrava non voler abbandonare il volto del figlio. «E poi non ti dispiacerebbe lasciare i tuoi amichetti a scuola?»
«No! Voglio papà e Justin!» replicò lui, sempre più deciso. «Gli amici ce li avevo anche a Pittsburgh!»
Un altro sospiro di rassegnazione uscì dalle labbra di Melanie finché, scuotendo la testa, si ritrovò a fare l’impensabile per un’inguaribile ed agguerrita orgogliosa come lei. «Passami il cordless.»
«Perché?» domandò il bambino.
«Devo fare una telefonata importante.»
Gus la guardò storta per qualche istante, fino a che non si decise a darglielo, seppur con uno sbuffo contrariato.
Melanie lo baciò frettolosamente sulla fronte e, componendo un numero quasi con disgusto, si allontanò di un poco verso il corridoio. Pochi secondi ed una voce profonda e familiare, quanto irritante, la raggiunse dall’altra parte del telefono. «Pronto?»
«Non hai idea di quanto mi sia costato fare questo numero, perciò vedi di non fare lo stronzo.»
Per qualche secondo ci fu solo silenzio, poi Brian si decise a pronunciare il suo nome con una buona dose di contrariata sorpresa: «Melanie?»
«Già.» replicò secca lei. Ancora non poteva credere di aver realmente chiamato lui per chiedergli aiuto. «Non m’importa quale importantissimo contratto milionario tu stia seguendo o con chissà quale cliente altrettanto milionario tu sia, perché tuo figlio ha una crisi isterica peggiore del solito e...»
«Passamelo.» la interruppe, con tono sicuro.
«Eh?» replicò lei sorpresa, e dall’altra parte riuscì a percepire distintamente uno sbuffo scocciato.
«Sei diventata improvvisamente sorda? Ho detto passamelo
«Pensavo ci volesse di più per convincerti.» rispose, dando voce ai suoi pensieri. Era partita col piede di guerra, pensando che avrebbe dovuto superare una delle loro solite discussioni per convincerlo a lasciar perdere la Kinnetik per occuparsi di suo figlio, ma evidentemente aveva sbagliato i propri calcoli.
«È mio figlio, Melanie.» ribatté lui, con una semplicità così disarmante che non ebbe bisogno di altre spiegazioni. Magari Brian all’inizio non era stato proprio come il padre dell’anno, ma per quanto le costasse ammetterlo, col tempo, anche grazie a Justin e a tutte le difficoltà che insieme erano riusciti a superare, Brian si era trasformato in un padre decisamente migliore, che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di veder sorridere quella sua fotocopia in miniatura che era il figlio.
Da quando aveva imparato ad amare e a lasciarsi amare; da quando la parola “famiglia” non gli suonava poi così tanto disgustosa, Brian Kinney era diventato davvero un buon padre per Gus; o almeno lo era per quello che la lontananza gli permetteva di essere.
«Lo so.» rispose allora lei, lanciando un’occhiata al bambino che aveva ripreso a disegnare e sentendosi realmente in colpa per la prima volta, come se con il suo comportamento non solo avesse ferito Gus, ma anche Brian impedendogli di essere padre, così come avrebbe voluto. Si morse ancora le labbra e, rivolgendosi a suo figlio, disse con un sorriso: «Gus, vieni qui. C’è papà a telefono.»
Gli occhioni verde scuro del bambino si spalancarono di sorpresa, prima che un sorriso splendido gli illuminasse il viso e le corresse incontro felice, saltellando per prendere il cordless. «Passamelo, passamelo!»
Con un nodo alla gola, la donna gli porse il ricevitore. «Tieni.»
«Papà!» esclamò Gus entusiasta, per poi tornare nella sua stanza e lanciarsi sul letto.
Melanie si avvicinò alla soglia di qualche passo, per poi appoggiarsi allo stipite della porta e respirare a fondo, così da lasciar dissipare quella strana sensazione annodata dentro di sé.
Vedere come quel broncio fosse scomparso immediatamente nel momento in cui il suo bambino aveva sentito la voce di suo padre, la portò a pensare alle proprie scelte, così come alla discussione avuta giorni prima con Brian. Le sue parole tornarono pungenti a rimbalzarle in testa, ed il tarlo del dubbio le si insinuò sempre più a fondo, facendole capire che forse, quella vita a Toronto, era la soluzione più sicura, ma non quella che li avrebbe resi tutti davvero felici.



*'*'*



Guardandosi al grande specchio di quella che era la sua nuova bellissima casa da circa due anni ormai, James Hunter Bruckner Novotny sorrise soddisfatto al suo riflesso.
Finalmente era riuscito a superare anche quell’ostico esame che aveva interrotto la sua sequenza di risultati positivi, e si sentiva trasformato. Era fiero di quello che era diventato, e lo era anche del fatto che finalmente stava davvero riuscendo a ripagare tutti gli sforzi compiuti dai suoi genitori adottivi per allontanarlo dalla strada.
Se qualche anno fa avessero detto a James Hunter Montgomery che la sua vita sarebbe cambiata a tal punto, probabilmente si sarebbe fatto una grossa – e amara – risata, prima di tornare sul bordo del marciapiede nel tentativo di trovare qualcuno disposto ad accettare le sue prestazioni in cambio di qualche centone.
Invece, a dispetto di tutte le sue previsioni, la vita che per prima gli aveva negato l’amore genitoriale, era stata capace di restituirglielo perfino con gli interessi, dandogli la possibilità di incontrare due persone come Ben e Michael che, per quanto a volte fossero apprensivi o terribilmente noiosi, erano pur sempre la sua famiglia e lo amavano davvero.
Insomma, in fin dei conti aveva una vera famiglia che, seppur decisamente fuori dalle righe, lo amava; degli amici che tenevano sinceramente a lui e finalmente perfino una vera istruzione che in fin dei conti gli piaceva e anche tanto.
Sarebbe potuta essere una vita perfetta, se solo non fosse stato per quella singola macchiolina nera, eredità del suo passato, che continuava a portarsi dentro e che non l’avrebbe abbandonato mai.
Nonostante i controlli a cui si sottoponeva con Ben risultassero sempre positivi, e che la sua carica virale fosse realmente bassa, quelle tre lettere messe in fila lo spaventavano ancora a morte.
L’HIV continuava ad essere un incubo presente nella sua vita; tanto reale e così spaventoso che spesso si ritrovava a svegliarsi di soprassalto la notte.
Gli capitava di sognare quel virus maledetto – quella pena che avrebbe dovuto scontare per tutta la vita – soprattutto nei periodi in cui aspettava i risultati degli esami medici. Sognava l’arrivo di quella “bestia” – così come la chiamava lui – a portargli via prima Ben, per poi tornare in seguito anche per lui. Sognava perfino la sofferenza di Michael rimasto solo e sentiva addosso l’impotenza di non poter fare niente per lui; per dargli un po’ di conforto.
Erano quelli i momenti in cui le cose sembravano prendere una brutta piega, poiché inevitabilmente i suoi pensieri andavano anche ai figli che non avrebbe mai potuto avere, e forse anche all’amore che non avrebbe mai trovato, perché temeva che nessuno si sarebbe potuto innamorare di un infettato.
Quando quella parola balenò nella sua mente, Hunter strinse le mani al lavabo e scosse la testa come per volerla scacciare, prima di aprire il rubinetto con un gesto secco e sciacquarsi la faccia.
«Ehi dormiglione, non sei ancora pronto?» la voce di Ben lo sorprese facendolo scattare. Afferrò l’asciugamano con gli occhi mezzi chiusi e si tamponò il viso, prima di lanciargli un’occhiata furba, cancellando definitivamente ogni pensiero negativo o preoccupazione, così da non mettere in allerta i propri genitori.
«Potrei partire da casa anche mezz’ora dopo di te. Arriverei comunque prima, caro il mio vecchietto.»
Ben sorrise ed incrociò le braccia. «Accidenti, siamo già in vena di battutine a quest’ora e a stomaco vuoto?»
«Proprio perché sono a stomaco vuoto, sono in vena di battutine acide.» ribatté Hunter, lanciandogli in faccia l’asciugamano appena usato, per poi dirigersi verso la propria stanza.
«Ehi...che ti costava metterlo al suo posto?» tentò di rimproverarlo il padre, ma era ancora troppo felice del risultato del suo ultimo esame per arrabbiarsi con lui.
Consapevole di questo, Hunter gli rivolse una falsa smorfia annoiata. «Smetterai mai di lamentarti per tutto? Stai diventando peggio di tuo marito, lo sai?»
«Cosa avrei fatto io?» intervenne l’altro padre chiamato in causa, salendo le scale con in mano la cesta dei panni.
«Ecco l’altro vecchio. Attento a non farti male alla schiena con quella.» ironizzò, indicando con un cenno della testa la pila di panni che stava trasportando. «Sai, alla tua età...»
Michael assottigliò lo sguardo con fare minaccioso. «Moccioso, perché invece di borbottare non lo fai tu?»
«Perché io sono troppo giovane per sprecare il mio tempo con certe cose.» ribatté con un sorrisetto, infilandosi i Jeans e la felpa. «E devo correre a nutrirmi per affrontare una nuova e proficua giornata universitaria per il mio gran bel cervello superiore.»
Gli occhi scuri di Michael rotearono fingendo un’espressione scocciata. In realtà riusciva a malapena a nascondere quanto era fiero di suo figlio e, non appena lui non era nei paraggi, ne approfittava per gongolare come un matto. «Smetterai mai di vantarti per aver superato quell’esame?»
«Considerando il voto che ho preso...» mormorò, arricciando poi le labbra come se ci stesse riflettendo su. «...e nel caso vi fosse sfuggito, vorrei ricordarvi che è stato il massimo.» sorrise, vedendo entrambi i genitori sollevare lo sguardo verso il soffitto, e aggiunse: «E soprattutto visto il fatto che in tutto il nostro corso solo io e Danny ci siamo riusciti...» si soffermò ancora per qualche secondo e concluse ancora con un sorriso spavaldo: «Be’ no, penso proprio che non smetterò mai di ricordavi quale onore è avere un figlio geniale come il sottoscritto.»
«Andiamo Einstein.» sospirò Ben, passandogli un braccio attorno alle spalle. «Vai a fare la tua colazione ipercalorica.»
«È inutile che ci provi.» replicò Hunter, scendendo per primo le scale seguito da entrambi i genitori. «Non riuscirai mai a farmi sentire in colpa per le schifezze che mangio, e soprattutto non riuscirai mai a farmi ingurgitare quella merda salutista che continui a cercare di propinarmi.» raggiunse il tavolo ed afferrò la sua scatola di cereali al cioccolato, versandone una quantità esagerata nella sua ciotola con un sorrisetto quasi sadico. «Grassi saturi, a me!»
Ben sospirò con rassegnazione ed aprì i giornale per controllare le ultime notizie, sorseggiando il suo frullato di un poco invitante verdolino pallido, mentre per Michael iniziò la sua giornaliera guerra per la conquista della scatola di cereali, prima che Hunter riuscisse a terminarla senza lasciargli neanche una briciola.
Ed era proprio questo che Hunter amava di più della sua vita: la quotidianità spensierata delle loro giornate. Le risate con cui iniziavano la mattina, fatta di scherzi idioti e battutine acide; i sorrisi soddisfatti della propria famiglia quando li rendeva fieri di lui e la cena fatta di altrettante risate, scherzi e battute, prima della classica riunione al Liberty Diner, o da Woody’s; e anche se non lo avrebbe mai ammesso, perfino cene e pranzi a casa di nonna Debbie lo rendevano felice.
A quel pensiero, Hunter non riuscì ad impedire alle proprie labbra di distendersi in un sorrisetto divertito e, per quanto tentò di nasconderlo prendendo una nuova cucchiaiata di cereali, ai suoi attenti ed impiccioni genitori non sfuggì affatto. «Che hai da ridacchiare adesso?» chiese infatti Michael che, inutile dirlo, dei suoi due padri era il più petulante curioso.
«Che ti frega?» ribatté lui, mostrando la lingua con una smorfia.
Michael prese uno dei cereali e glielo lanciò contro. «Mi frega dal momento che in quella testolina potresti anche organizzare qualche strana pazzia.»
«Chi? Io?» si finse sconvolto, prima di voltarsi verso l’altro genitore. «Ben, diglielo tu a tuo marito che sono un angioletto.»
«Sì, angioletto.» commentò Ben in risposta con sarcasmo, ripiegando con cura maniacale il giornale. «Vedi di muoverti a finire il tuo pastone o farai tardi.»
Hunter gli rivolse l’ennesima smorfia scocciata e prese l’ultimo boccone di cereali, prima di alzarsi ed andare a lavarsi i denti per poi recuperare il piumino e le chiavi del lucchetto per la bici, ed avviarsi verso la porta con noncuranza.
«Ehi, principino!» lo richiamò Michael con un lieve tono di rimprovero. «Sbaglio o quella è la tua ciotola?»
«Sì...e allora?»
«Pensi che ci vada da sola nel lavabo?»
«No.» rispose con una scrollata di spalle. «Contavo che ce la portassi tu. Esci per ultimo e hai il compito di casalinga in questa casa!»
«Cosa?» domandò sorpreso, cercando con lo sguardo un aiuto da parte del marito, che contrariamente alle sue aspettative, si stava semplicemente sforzando per non ridere. «E da quando sarebbe così?»
«Da quando fai la mamma chioccia!» Hunter gli rivolse un sorriso furbo ed aprì la porta di casa. «Cioè da sempre!»
«Aspetta di tornare a casa stasera, signorino. Te lo faccio vedere io chi è mamma chioccia.»
«Sì, sì...certo. A stasera!» lo liquidò semplicemente, uscendo di casa seguito da Ben e recuperando insieme a lui le biciclette, prima di raggiungere la strada ed inforcarle.
«A che ora pensi di tornare stasera?» gli chiese il padre, affiancandolo.
«Al solito. Finite le lezioni resto con Danny in biblioteca e per cena sono a casa.»
«Uhmmm.» mugugnò l’uomo con un espressione fintamente sorpresa. «Hai deciso di fare proprio sul serio, eh?»
«Perché? Avevi qualche dubbio?»
Ben non gli rispose immediatamente, ma gli rivolse un sorriso benevolo. «No.» gli disse poi. «Certo che no. Nessun dubbio.»
Hunter ricambiò quel sorriso e continuarono a pedalare affiancati, in silenzio ma sereni, finché non giunsero al solito incrocio in cui, come ogni mattina, presero direzioni diverse salutandosi con un altro sorriso.


Giunto ormai in prossimità della propria università, Hunter tornò a sedersi sul sellino e rallentò la corsa per evitare di travolgere qualcuno. Varcò i cancelli e si diresse verso il parcheggio per biciclette dove, come sempre, Danny lo stava aspettando avvolto dalla scia di fumo della sua immancabile sigaretta.
Inchiodò sgommando di lato e scese dalla bicicletta, per poi legarne la ruota con la catena.
«Sei in ritardo.» lo informò immediatamente il ragazzo, prendendo l’ultima boccata di fumo per poi schiacciare il mozzicone a terra.
«Le mie mammine stamattina erano più loquaci del solito.» si scusò Hunter, con un sorriso divertito. Danny in fondo sapeva tutto – davvero tutto – di lui.
Si erano conosciuti per caso nei primi giorni di corso, e ancora per puro caso aveva scoperto che anche lui faceva parte di una “famiglia arcobaleno” – così come la definiva Danny – con la sola differenza che lui aveva due mamme.
Da lì avevano iniziato per gioco a chiamare “mammine” Ben e Hunter, e “papini” le madri di Danny, dopo essersi raccontati aneddoti famigliari in cui avevano constatato quanto paradossalmente i genitori di Hunter – soprattutto Michael – somigliassero più a due chiocce iperprotettive, rispetto all’altra coppia.
Ed era stato proprio il fatto che Danny vivesse una realtà simile alla sua, che aveva spinto Hunter a fidarsi e ad aprirsi piano, piano con lui, fino a trovare anche il coraggio di confessargli del male che albergava nel suo corpo.
Non era stato certo facile, ma era stata come una liberazione e, seppur all’inizio il ragazzo avesse manifestato un’ovvia sorpresa – più per il fatto di esser venuto a conoscenza di ciò che la madre l’aveva costretto a fare, che per l’HIV – aveva finito con lo scrollare le spalle tranquillamente e con un sorriso gli aveva confessato che anche alcuni amici delle loro madri vivevano la medesima situazione, e che comunque non significava che fosse ancora realmente malato, poiché non era affetto da AIDS.
Dopo quella confessione non erano più ritornati sull’argomento, ma senza dirglielo apertamente, Danny si era più volte offerto di accompagnarlo in ospedale durante i controlli, e soprattutto aveva sempre mantenuto il segreto, perfino con la propria famiglia.
Insieme avevano conosciuto tante altre persone e formato un bel gruppetto, di cui faceva parte anche la storica fidanzata dello stesso Danny, ma con nessuno di loro, Hunter, era riuscito ad aprirsi tanto quanto con lui e, anche se contava di riuscirci prima o poi, la realtà che stava vivendo al momento gli andava più che bene.
«I miei papini invece, stamani avevano un diavolo per capello.» ribatté Danny, facendo una smorfia. «Periodo di spese. Quando arrivano le bollette si trasformano in due iene...ed ovviamente la colpa ricade sullo stronzo di turno e sul mio computer che, secondo loro, sta acceso ventiquattr’ore su ventiquattro.»
«Il tuo computer sta acceso ventiquattr’ore su ventiquattro.» puntualizzò Hunter, con ironia, mentre si avviavano verso l’entrata.
«Sì, ma loro non sanno neanche accenderlo, quindi come fanno a saperlo e accusarmi di questo?»
«Fidati di me, quando vogliono incolparti di qualcosa, hanno più risorse di quel che credi!» ribatté sbuffando e ben ricordando a quali assurdi sotterfugi era in grado di ricorrere Michael quando voleva rigirare la frittata a suo favore.
«Sono due serpi.» borbottò Danny in risposta, e fece per aggiungere altro, quando si rese conto che Hunter – come ogni mattina del resto – si era incantato a fissare la struttura della piscina coperta. «Perché non vai e t’iscrivi ai corsi? Eri bravo, no?» gli disse allora, e lo vide scuotersi dai suoi pensieri per voltarsi verso di lui.
«No, non m’importa e poi non vorrei rischiare.» replicò con franchezza e senza il bisogno di spiegazioni, visto che Danny era già a conoscenza dell’episodio del liceo.
«Che io sappia il nuoto non è uno sport di contatto, e quello che ti è successo è stato solo un caso isolato.» si sistemò la tracolla sulla spalla ed ammiccò. «Fossi in te riproverei.»
«Se mi dovessi anche solo tagliare...»
«Dovresti avere la sfiga tremenda di trovare proprio un persona altrettanto sfigata che si è tagliata in quel momento o che ha una ferita aperta...senza contare poi che la piscina non è una pozzanghera. Non infetteresti nessuno, soprattutto perché la tua carica virale è bassa
«Non si può mai sapere se...» ritentò di nuovo, ma Danny lo interruppe ancora una volta.
«Sì che si può. Si chiama statistica
«Le statistiche hanno un margine d’errore.»
Danny roteò gli occhi scocciato. «In una piscina olimpionica dove non è detto che dovrai per forza spargere il tuo sangue come una bistecca ambulante?»
«Non sei divertente.»
«No, infatti. Sono solo realista.» replicò, posandogli una mano sulla spalla per fermarlo. «Ascolta...ogni volta che passiamo di qui è la stessa storia. T’incanti a fissare quella cazzo di piscina. Ti manca nuotare? Vai e torna a gareggiare.»
Hunter sbuffò e riprese a camminare. «Non sono più neanche in forma.»
«Stronzate. Non hai mica ottant’anni! In forma ci puoi sempre tornare e poi vai quasi ogni giorno in palestra e neanche fumi come una ciminiera come me, quindi che problemi hai?»
«Una cosa chiamata HIV.»
«Che non mi pare faccia affondare la gente o impedisca loro di nuotare, giusto?»
Hunter tentò di replicare, ma dopo l’occhiataccia rivoltagli da Danny decise di lasciar perdere. Quel ragazzo era anche più cocciuto di lui. «Ci penserò.» borbottò allora e vide le sopracciglia dell’altro inarcarsi.
«Dici sul serio o mi prendi per il culo per farmi stare zitto?»
«Questo non te lo dico.» sorrise in risposta, ed accelerò il passo salendo i pochi gradini, così da concludere la discussione. Lanciò un’ultima fugace occhiata a quella gigantesca struttura bianca e per un attimo tornò ad immaginare la fresca sensazione dell’acqua che gli scivolava addosso in una bracciata, o l’adrenalina precedente al tuffo dalla piattaforma.
Era inutile negarlo, il nuoto e le gare gli mancavano davvero. Erano state la prima cosa in cui era riuscito a strapparsi una vera soddisfazione e che l’avevano fatto sentire rinato, eppure la brutta storia capitatagli ai tempi del liceo era ancora una ferita fin troppo viva per essere dimenticata o almeno accantonata.
Ogni volta che ripensava a quei bei pomeriggi passati ad allenarsi, tornavano anche le occhiate di disgusto e paura che gli erano state rivolte, neanche fosse stato un appestato.
Non voleva rischiare di rivivere ancora quel momento, e forse, perché questo non si verificasse ancora, doveva davvero dire definitivamente addio al nuoto.



*'*'*


“Sleeping with ghosts” – Placebo



Il Natale era ormai alle porte.
Meno di una settimana lo separava da quella festività e, da quando aveva fatto ritorno nella Grande Mela – soprattutto dopo la breve telefonata ricevuta, che Jace senza alcuna spiegazione, aveva capito essere da parte di Brian – Justin si era rinchiuso nel suo loft tramutandosi in una specie di cyborg eremita che trascorreva le sue giornate a dipingere, fatta eccezione per le occasioni in cui Gary era piombato personalmente a trascinarlo fuori da lì per farlo presenziare a qualche evento.
Per giorni e notti intere, Justin aveva inzuppato tele di colori, sfogando tristezza, rabbia e speranza per riempire quel bianco candido e rigido, dando vita a quello che era stato definito – e accolto con approvazione – dai critici come un nuovo periodo, che manteneva i caratteri cupi del precedente, ma che sembrava poter sfociare in una via duscita, grazie a degli schizzi di colori vivaci che riuscivano a rompere il buio.
Nessuno però era riuscito a spiegarsi il reale motivo di questo cambiamento; nessuno ovviamente tranne Jace, che ben sapeva a cosa era dovuto.
Lui sapeva che quella “via d’uscita” profumata di speranza aveva un nome e un cognome: “Brian Kinney”; sapeva che dal momento in cui, finalmente, le cose tra i due sembravano essersi almeno chiarite – che l’amore, da parte di entrambi, non era mai finito – Justin non pensava ad altro che non fosse l’idea di tornare a farsi stringere da quelle braccia.
Eppure, nonostante quel lieve barlume e quella consapevolezza, Jace proprio non riusciva a togliersi di dosso quella brutta sensazione che gli era nata dentro da quando avevano fatto ritorno nella “Grande Mela”.
Non riusciva ad essere ottimista come Gary, né entusiasta come i galleristi e i critici d’arte...perché lui non vedeva Justin come un’artista; lui vedeva Justin come il suo più caro amico, ed assisteva in silenzio al suo progressivo spegnersi.
Lo vedeva annullarsi, assopirsi. Vedeva con chiarezza quella luce naturale di cui sapeva risplendere, traballare e affievolirsi sempre di più, come mai era successo prima di allora.
Era come se, per imprimere la sua arte sulla tela, Justin attingesse alla propria energia vitale e se ne privasse fino a svanire.
Gli occhi blu splendenti erano ridotti a due pietre opache e vitree, stanche e segnate da ombre scure; la pelle aveva assunto un pallore malsano e le guance si erano scavate e sciupate lentamente, insieme a quelle labbra solitamente rosee e piene, ormai screpolate e perennemente statiche in una linea dritta e severa, su cui solo sporadicamente si accennava il disegno di un sorriso.
Justin aveva smesso di mangiare; di questo Jace ne era certo.
Ed era certo anche del fatto che dormisse appena, solo quando crollava sul pavimento per la stanchezza, senza neanche avere la forza per raggiungere il letto.
Non staccava mai gli occhi dai suoi quadri e non impegnava le sue mani per altro che non fosse il dipingere, concedendosi una pausa solo per farsi una doccia e mangiucchiare qualcosa quando lui lo sgridava e lo costringeva; o quando era la sua stessa mano ad imporgli con forza di smettere, tremando come un’ossessa o straziandolo con i crampi.
Ma quello che più lo angosciava e gli metteva tristezza, era il motivo per cui il suo più caro amico si era ridotto così. Non perché avesse perso la voglia di vivere, o perché fosse depresso...bensì perché era affondato in uno strano tunnel che gli imponeva di lavorare a ritmi impossibili, per poter far ritorno al più presto nella sua città natale, tra le braccia del suo uomo...soprattutto dopo la telefonata da lui ricevuta.
«Jus, ti vuoi fermare un attimo?» gli chiese con un sospiro, avvicinandosi a lui. Da ore ormai lo osservava dipingere e non l’aveva degnato neanche di una parola.
«Non posso.» replicò telegrafico l’altro, con gli occhi blu incollati alla tela.
«Hai mangiato?»
«Eh?» mormorò distratto. «Ah sì, sì.»
Jace aggrottò la fronte contrariato. «Cosa hai mangiato? È tutto intatto in cucina.»
«Ho mangiato. Jace, per favore, ho da fare adesso.»
«Prenditi una pausa. Stai crollando, non te ne accorgi?»
«Sto benissimo.» rispose Justin, più nervoso. «Devo finire questi. Prima lo faccio, prima torno a Pittsburgh. Non voglio mancare per Natale e se dipingo abbastanza quadri, forse riesco anche a prolungare la mia permanenza là.»
«Se non ti riposi non arriverai neanche a domani, te ne rendi conto?!» replicò con un tono più severo, nel vano tentativo di riuscire a farsi ascoltare, ma per quanto Justin restasse sordo alle sue parole, la sua mano non era del suo stesso avviso.
Come capitava sempre più frequentemente da qualche giorno infatti, le dita allentarono improvvisamente la presa sul pennello ed iniziarono a tremare. Era come se il grande sforzo a cui Justin le aveva costrette dal suo rientro a New York, queste glielo stessero facendo ripagare con crampi sempre più frequenti e più dolorosi.
«Fanculo!» imprecò il biondo artista, stringendosi la mano quando il pennello cadde sul pavimento, macchiandolo di schizzi blu.
«Lo vedi? Stai esagerando.» lo rimproverò ancora Jace.
«Vaffanculo anche tu.»
«Hai intenzione di mandare a fanculo anche il resto del mondo, o credi di poterti almeno prendere una pausa?»
«Non posso, io devo...»
«Sì che puoi.» lo interruppe rabbioso. «Non solo puoi, ma devi. La tua mano non ce la fa più. Non lo vedi?»
Justin per la prima volta si degnò di guardarlo, e Jace non poté far altro che constatare quanto i suoi occhi blu fossero anche più infossati e stanchi di quel che temeva.
«Non hai del lavoro da sbrigare?!»
«No.» replicò secco. «Ricordi? Sono in
vacanza
«Perché non trovi qualcosa da fare?» ribatté Justin, piegandosi per raccogliere il pennello; peccato che la sua mano fosse ancora in vena di capricci e che si ribellò ancora al suo controllo, facendolo infuriare ancora di più.
«Perché ce l
ho già.» commentò in risposta Jace, con un sorriso caustico. «Badare ad un ragazzino nevrotico che non è capace di farlo da solo.»
«Io
so badare a me stesso.»
«Ah, lo vedo.» borbottò lui, indicando la mano su cui ancora non aveva ripreso il controllo. Fece per aggiungere altro, ma il telefono di casa prese a squillare e, sul display della piattaforma apparve il nome di “Gary”.
«Rispondo io.» mormorò Justin, afferrando il ricevitore. «Pronto?»
Jace sbuffò contrariato.
Quando era Gary a chiamare non erano
mai buone notizie. O meglio, lo erano per la carriera di Justin, ma questo significava anche mille altri impegni che, ne era certo, avrebbero sfiancato il giovane artista o lavrebbero portato sull’orlo di una crisi di nervi.
«Sì, certo.» lo sentì mormorare, scostandosi una ciocca di capelli biondi dal viso.
«No, ok. Penso di farcela...sì, ciao.»
«Che succede ancora?» gli domandò immediatamente, quando lo vide riattaccare.
Justin scosse la testa, ma dal modo in cui fissava il vuoto era chiaro che per lui non fosse affatto una buona notizia. «Gary mi ha chiesto di andare ad un evento stasera. Non ho capito di cosa si tratta. So solo che passerà a prendermi verso l
e otto.»
«Sta scherzando...spero.» sibilò Jace, incrociando le braccia. «Non gli sembra di averti schiavizzato abbastanza? È proprio
necessario che tu partecipi ad unaltra delle sue stronzate?»
Justin si passò una mano tra i capelli e finalmente riuscì a raccogliere il pennello da terra. «Senti Jace, non lo so. L
unica cosa che so è che voglio finire questo.» indicò il quadro non ancora terminato e si morse le labbra. «Ma soprattutto voglio tornare a casa...e se questo significa stringere i denti e sgobbare per ancora un paio di giorni, lo farò.»
«Questo non è
sgobbare. Questo è portarti allo sfinimento!» esclamò Jace, prenda di un attacco di rabbia. «E vuoi sapere perché? Perché quello stronzo di Gary di cui ti fidi tanto, lo fa apposta per non farti tornare indietro.»
«Non dire cazzate, Jace. Lo fa solo per la mia carriera.»
«Sì, certo.» commentò il designer, in tono acido. Era la prima volta che si sentiva così arrabbiato nei confronti di Justin; anzi, a dirla tutta, non si era mai davvero arrabbiato con lui da quando lo conosceva, e questo gli faceva anche più male. «Sai che ti dico?! Fai un po
quel che cazzo ti pare! Continua a dargli retta, dipingi fino a svenire...almeno Natale lo passerai in ospedale invece che a Pittsburgh!» gli diede un ultimo sguardo, sentendo il proprio cuore creparsi nel momento in cui si rese conto del dispiacere che riempiva gli occhi azzurri di Justin e, stringendo i pugni con forza fino a sbiancare le proprie nocche, raggiunse la porta ed uscì di casa, incapace di restare ancora a guardarlo distruggersi senza poter far niente.


Dopo più di un paio d’ore trascorse a passeggiare a caso per le vie di New York, Jace decise di sedersi in una delle panchine di Central Park, affondando il mento nella sciarpa e le mani nelle tasche.
Sospirò, giocherellando con i piedi con un sasso, mentre i suoi pensieri ancora vagavano al primo e unico vero litigio avuto con Justin.
Era così abbattuto per l
accaduto che neanche la sua solita cura infallibile – lo shopping sfrenato – sembrava poter funzionare. 
Era passato perfino davanti ai negozi della 5
th avenue, ma nessun brivido aveva solcato la sua schiena, ed aveva osservato le vetrine senza il minimo interesse.
Male,
molto male.
Emise l
ennesimo sospiro ed afferrò il cellulare ultramoderno con lintenzione di chiamare Justin, così da potersi scusare con lui prima di tornare a casa, quando questo prese a trillare, mostrando sul display un numero sconosciuto alla propria rubrica. Jace aggrottò la fronte, cercando di ricordare se avesse mai visto prima quella sequenza di numeri ma, non riconoscendola, si decise a rispondere: «Sì?»
«Eri stato tu a dirmi che potevo chiamarti, ricordi?»
In un primo momento restò interdetto per il suono di quella voce. Raramente gli capitava di sentirne una femminile all
altro capo del telefono. «Daphne?» chiese poi, visibilmente sorpreso, e quella stessa voce gli confermò le sue supposizioni con una breve risata cristallina.
«Indovinato.» rispose poi, prima di tramutare il suo tono in uno scocciato, velato di esasperazione. «Hai per caso la più pallida idea di dove si sia cacciato quello che un tempo era il mio migliore amico?»
«Justin? Dovrebbe essere in casa.»
«No, non c
è. Ho provato a chiamarlo quattro volte.»
«Hai provato al cellulare?»
«Sì, ma non starei chiamando te se mi avesse risposto.»
«Vero anche questo.» replicò lui, ridacchiando per la stupidità della sua domanda. «Senti, Daph...l
ultima volta che lho visto era in casa...» sentì un suono provenire dal proprio cellulare e, soffermandosi per controllarlo, si accorse di unaltra chiamata in attesa. «...ma credo che non ci sia, visto che mi sta chiamando anche la donna delle pulizie. Come minimo non le ha lasciato le chiavi. Di nuovo.» le disse in seguito, scuotendo la testa. «Rispondo a lei e ti richiamo più tardi, ok?»
«Ok! A dopo!» convenne la ragazza, con la sua inconfondibile voce trillante. «E se trovi quell
idiota, picchialo selvaggiamente da parte mia.»
«Sarà fatto, ciao!» la salutò e premette il tasto per accettare l
altra chiamata. «Sì?»
«Signor Wilson!» strillò la donna, con il suo inconfondibile accento sudamericano.
«Maria, ma quante volte devo dirti di chiamarmi solo
Jace?» borbottò lui, senza prestare troppa attenzione alle parole sconnesse della donna. «E poi che hai da urlare tanto?»
«Il signor Taylor! Il signor Taylor!»
«Il signor Taylor, cosa?!» ribatté lui, mentre il sangue iniziava a gelarglisi nelle vene. Maria era una persona stupenda, un po
troppo apprensiva forse, e che spesso faceva di una sciocchezza un vero dramma, ma da quando si conoscevano non laveva mai sentita così agitata.
«Sta male. Lui sta male. È a terra e
non muove.» balbettò lei, faticando a gestire il proprio inglese con il respiro rotto. «Non si muove.»
A quelle parole Jace scattò immediatamente in piedi come una molla e percepì il proprio stomaco attorcigliarsi in una stretta dolorosa. «Chiama un
ambulanza e calmati.» scandì, con un groppo alla gola, rendendosi conto di quanto quelle parole le avesse pronunciate soprattutto per se stesso e per quel suo cuore che improvvisamente sembrava essersi bloccato. «Sto venendo lì.»



*'*'*


“Running up that hill” – Placebo



Brian varcò la soglia del loft massaggiandosi la fronte.
Da qualche ora il mal di testa non gli dava più tregua ed era uscito dalla Kinnetik prima del solito, per raggiungere immediatamente casa e provare a rilassarsi con una dormita.
Dal momento in cui Justin aveva fatto ritorno a New York, il sonno non era più arrivato tranquillo, e riusciva a mettere in fila a malapena tre o quattro ore senza stupidi incubi a torturarlo.
Con uno sbuffò lanciò la ventiquattrore sul divano, per poi abbandonarvici anche la costosa giacca. Si tolse le scarpe, abbandonandole in mezzo al loft e si gettò sul letto, per poi sistemarsi supino e prendere a stropicciarsi le palpebre con lindice ed il pollice, sperando di riuscire ad assopirsi. Respirò a fondo e fece per alzarsi e prendere una delle sigarette, quando qualcosa lo sorprese infrangendosi a terra con un rumore secco.
Brian aggrottò la fronte infastidito, finché quel fastidio si tramutò in una strana ed inspiegabile angoscia, nel momento in cui riconobbe loggetto a terra.
Poggiato dalla parte del vetro – ormai frantumato – verso il pavimento, stava uno dei quadri di Justin; anzi...il quadro di Justin.
Non aveva bisogno di voltarlo per sapere che quello era il primo quadro che gli aveva dedicato: quello che lo ritraeva nudo nel letto del loft, quando ancora la sua tecnica non era quella perfetta; quando ancora poteva disegnare per ore ed ore senza dover fare i conti con il dolore alla mano; quando ancora era poco più di un ragazzino innocente, eppure anche così naturalmente bravo nel sesso, tanto da inebriarlo fin dalla loro prima volta.
Si sedette sul bordo del letto ed allungo una mano per afferrarlo, lasciando cadere altri frammenti di vetro. Lo voltò verso di sé e sfiorò quella figura delineata a lapis con il pollice. «Justin.» sussurrò con filo di voce, mentre una sensazione fredda gli si insinuava dentro.
Gli aveva parlato pochi giorni prima ed era certo che stesse bene.
Doveva essere per forza così.
E allora perché quell
improvviso brutto presentimento? 

*** 

Note finali

Come vedete sono ancora viva! 
Sì, lo so che vi ho fatto aspettare un milione di anni per un capitolo che poi è anche quello che in assoluto mi piace di meno, per ogni tanto sono necessari, anche se rallentano un po'! Spero non vi sarete addormentate a metà. XD 
Premetto che manco stavolta sono riuscita a rileggere il capitolo per bene.
Lo farò in seguito, con più calma, ma se voi trovate qualche errore, non esistate a dirmelo che mi fate un favore! XD Sono pigra, lo so!
Non c'è molto da dire, se non che ho tolto molto "britin" per dare spazio ad altre vicende che comunque non posso lasciare in sospeso...penso sia chiaro però che dal prossimo capitolo qualcosa cambierà
Ah, per quello che è successo a Brian nell'ultima parte del capitolo, be'...io non sono una che crede in cose come il destino o simili, ma una volta mi è successa una cosa simile. In breve mio cugino - a cui sono molto legata - ha fatto un incidente in moto, e più o meno in quel momento una foto di noi due che avevo appesa al muro è caduta da sola. 
Probabilmente sarà stata solo una coincidenza, ma è stato piuttosto inquietante! A voi è mai capitato? 
Coooooooomunque, tralasciando certe cose, mi pare ovvio di dover passare alla cosa più importante: Ringraziamenti! 
Un grazie a tutti coloro che sono arrivati alla fine di questo capitolo senza addormentarsi, a chi ha inserito la storia tra le seguite, le preferite o le ricordate, ma soprattutto grazie a: silver girl, mindyxx, electra23, Katie88, SusyJM, Thiliol, klaudia62, FREDDY335, EmmaAlicia79, agrumi e OfeliaCuorDiGhiaccio per aver recensito l'ultimo capitolo
Grazie davvero
Mi scuso ancora per l'attesa e prometto di metterci un po' meno con il prossimo. 

Un bacio e a presto. 
Veronica.

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Capitolo 12
*** Together again. ***


12.Together again.


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6x12 – Together again.



New York non gli era mai piaciuta davvero.
Fin dal primo giorno in cui vi aveva messo piede, quando era ancora un bimbo di appena sei anni, tutto quel caos assordante, quelle luci che non si assopivano mai e la fretta con cui sembravano vivere i suoi cittadini, l’avevano spaventato.
Non capiva cosa tutti ci trovassero di tanto eccitante e spesso rimpiangeva il suo tranquillo paesino sperduto tra le nevi del Montana, nonostante il fatto che quel posto così caotico gli avesse concesso più occasioni, conoscenze e gratificazioni di quante se ne sarebbe mai aspettate.
Gary era cresciuto nel caos della Grande Mela, ma in tutto quel tempo non si era mai abituato a viverci, né era mai riuscito a sentirla come casa propria.
Tante volte aveva pensato di andarsene, anche se lì era iniziata la sua carriera, e sempre lì era nata la sua fama come agente. Per anni aveva guardato l’azzurro del cielo attraverso le ampie vetrate dell’ufficio, osservando le scie bianche degli aerei e sognando di volare altrove, fino al giorno in cui una figura sottile, candida e dal sorriso luminoso, era piombata nella sua vita e l’aveva rischiarata come un lampo di luce.
Era bello Justin Taylor; era bello in un modo tutto suo, come mai ne aveva visti prima. Attirava le persone con quel suo disarmante sorriso che mozzava il fiato e scaldava il cuore; incantava con una semplice occhiata di quegli occhi blu chiaro, ma profondi come un abisso, mentre quei fili dorati e luminosi dei suoi capelli formavano una cornice perfetta a quella che sarebbe stata la descrizione esatta del volto di un angelo.
L’aveva semplicemente stregato e, da quel giorno, New York non gli era parsa poi più così tanto invivibile. In un modo o nell’altro aveva imparato ad apprezzarla al fianco di quel ragazzino e a godersi di più ogni minuto vissuto in quel caos.
Sorrise, ripensando a quanto la sua vita fosse cambiata dal momento in cui aveva conosciuto Justin, e fece scorrere la rubrica del cellulare fino a quel nome, per poi premere il tasto verde ed avviare la chiamata.
Il classico suono cadenzato echeggiò per circa un minuto, finché uno acuto arrivò alle sue orecchie ed annunciò il collegamento alla segreteria telefonica.
Stranito da quella mancata risposta tentò una seconda volta, componendo però il numero del loft, ma neanche in questa occasione ebbe successo. «E adesso dove si è cacciato?» mormorò allora, aggrottando la fronte e ripercorrendo la rubrica, stavolta alla ricerca di un altro numero: quello di Jace.
Di nuovo quel classico suono, ma in quel caso bastarono pochi squilli per far sì che una voce lo raggiungesse sorprendendolo per il suo tono decisamente agitato: «Proprio tu! Che cazzo vuoi?!»
Gary restò interdetto per qualche secondo. Controllò di non aver sbagliato, dando una veloce occhiata al display, e disse: «Jace?»
«Chi vuoi che sia!»
«Ma che ti prende?» domandò aggrottando la fronte e sforzandosi di mantenersi calmo. «Stavo cercando Justin comunque. Sai dov’è?»
«Sì.» annunciò l’altro duramente. «È in ospedale, a causa tua.»
«Che cazzo stai dicendo?» mormorò, con il fiato reso corto da quella rivelazione.
«Hai capito bene.» lo sentì sibilare, come se avesse pronunciato le parole a denti stretti. «Lo sto raggiungendo adesso e ti consiglio caldamente di stare alla larga. Se solo ti dovessi vedere, potrei non rispondere di me.»
«Dov’è ricoverato?» domandò però l’uomo, ignorandolo completamente.
«Hai sentito quello che ti ho detto?»
«Sì, ma non m’interessa. Sono il suo agente e...»
«Certo.» lo interruppe Jace, con tono acido. «Ciao Gary.» lo salutò poi, quasi con ironia, prima di riattaccargli in faccia senza dargli possibilità di replica.



*'*'*


“Here nor there” – Andy Stochansky



Per la prima volta nella sua vita si sentiva davvero troppo patetico.
Aveva perso il conto di tutte le volte in cui lo avevano definito “checca isterica”, o quelle in cui il suo caro amico Brian lo aveva apostrofato come ridicolo e patetico, appunto; ma per quante volte sentisse arrivare quelle parole alle orecchie, non gli aveva mai dato veramente peso.
Stavolta però era diverso, perché non era una voce esterna ad urlarglielo, ma una interna che martellava nella sua testa e che proprio non poteva ignorare.
Non aveva mai capito come funzionassero tutte quelle stronzate sulla coscienza o sul subconscio, ma era decisamente certo che il suo doveva essersi risvegliato da solo, tutto insieme, e lo stava assillando da giorni.
Una vocina fastidiosa che rimbalzava nella sua mente ogni volta che si trovava a fissare il cellulare con i suoi occhi azzurri accesi di speranza; ogni qual volta che quello stesso stramaledetto telefono emetteva il classico trillo acuto per avvertirlo di una chiamata, ma sul display non compariva mai il nome che avrebbe voluto.
Patetico. Emmett si sentiva un coglione patetico che continuava a sperare in una chiamata da parte di Jace.
Aveva avanzato mille ipotesi nella testa: sapeva bene che il designer si era preso un periodo di vacanze per seguire Justin a Pittsburgh, ma si era ritrovato anche a pensare che non avesse il tempo di chiamarlo perché si era deciso a rientrare prima a lavoro ed era troppo impegnato. Si era anche detto che probabilmente doveva sistemare alcune sue faccende, e che la vita di New York era così caotica da non lasciarlo respirare; ne aveva immaginate davvero tante, ma nessuna di queste era stata abbastanza convincente da togliergli l’idea che, semplicemente, Jace non lo chiamava perché non voleva farlo.
In fondo perché avrebbe dovuto?
Avevano trascorso solo una serata al Babylon insieme, perché si erano trovati per puro caso e perché si erano recati lì da soli. Erano stati bene – o almeno lui lo era stato davvero – ma non c’era un vero motivo per cui poi avrebbero dovuto sentirsi ancora, anche se si erano scambiati i numeri.
Probabilmente l’invito di Jace a New York per una sessione di shopping era stato solo un modo carino di dire, ma in realtà non ci pensava proprio a trascorrere un pomeriggio in sua compagnia; forse quella sera gli era bastata e anche avanzata.
A quel pensiero Emmett emise un sospiro e controllò ancora una volta il suo caro cellulare. Ovviamente, non c’era nessuna chiamata.
«Emmett Honeycutt, stai diventando incredibilmente patetico.» si disse, con tono di rimprovero. «Non ti chiama? Chi se ne frega!» fece per riporlo, quando un’altra idea gli balenò in testa.
Magari Jace stava pensando la stessa identica cosa.
Neanche lui lo aveva mai chiamato in tutto quel tempo, quindi poteva credere che fosse lui a non avere alcun interesse a risentirlo o vederlo.
Arricciò le labbra indeciso e spostò le dita sui tasti fino a raggiungere quel numero in rubrica. Un altro sospiro e premette con decisione il tasto verde, inoltrando la chiamata.
Uno, due, tre...anche più di trenta squilli susseguirono, ma non ricevette alcuna risposta.
Sbuffò sconsolato tornando ad osservare il piccolo display con uno sguardo triste, quando qualcuno lo fece sobbalzare pronunciando il suo nome. «Emmett!» si sentì chiamare da una voce squillante alle sue spalle e, nel momento in cui si decise a voltarsi con una mano sul petto, certo di non essere morto dinfarto, ebbe davvero paura che il suo piccolo cuore non potesse reggere alla sorpresa.
Di tutte le persone a cui la sua mente aveva pensato, quella lì davanti a lui, non era stata neanche calcolata tra le ultime.
E invece era lì; con i suoi capelli lunghi, di un biondo luminoso, gli occhi celesti e così chiari come due acquamarine ed un sorriso appena accennato e decisamente imbarazzato.
«Sierra?» pronunciò Emmett un po turbato e lievemente a disagio. Dopo che Drew aveva fatto il suo coming out non laveva più vista e non aveva saputo più niente di lei. In cuor suo si era sempre sentito un po in colpa, soprattutto perché quella donna era stata una delle poche persone davvero gentili con lui e che non laveva giudicato o disprezzato per il suo essere – così “vistosamente”, sempre a detta del suo caro amico Brian – gay. Si era sentito un vero schifo quando gli aveva parlato del suo Drew e di come fosse il suo eroe, ben sapendo che la stesse tradendo; e si era sentito anche più in colpa, nonostante sapesse che fosse la cosa più giusta per tutti, quando finalmente il famoso giocatore di football si era deciso a rivelare la sua vera identità e a rompere con lei, insieme a tutti i suoi sogni.
Proprio per questo motivo, tirare fuori il coraggio per parlare, insieme alla voce, davanti a quegli occhioni tanto limpidi, fu davvero difficile, ma in qualche modo si sentiva in dovere di dirle qualcosa. «Come...» balbettò. «...come stai?»
«Bene.» affermò lei con convinzione, allargando il suo bel sorriso. «E tu?»
«Un po impegnato ma bene.» le rispose, sollevando uno degli angoli della bocca.
«Ho saputo che come organizzatore di eventi hai fatto davvero tanta strada. Infatti la scorsa settimana ero ad una festa organizzata proprio da te.»
«La festa degli Smiths?»
«Esatto.» confermò lei. «Julia è una mia cara amica e devo dire che è stata molto entusiasta di quello che hai fatto...e pensare che è anche una dai gusti piuttosto difficili!»
«Oh, non dirglielo, ma lho notato.» si portò una mano alla bocca come se stesse per rivelarle un segreto di importanza mondiale e bisbigliò: «Avrà cambiato idea sulle composizioni per almeno venti volte, per non parlare poi dei colori tema che voleva usare. Roba passata di moda da anni!»
Sierra scoppiò a ridere ed Emmett sentì il cuore alleggerirsi un po
. «Hai ragione!» convenne la donna. «Julia è incontentabile e ogni tanto ha delle idee discutibili! Le voglio davvero bene, ma credo che abbia fatto proprio bene a rivolgersi a te per organizzare il suo party! Pensavo di trovarti lì però, ma non ceri.»
«Oh no, avevo un rinfresco per un matrimonio di cui occuparmi.» rispose di getto, ma se ne pentì quando rifletté sulle parole appena pronunciate. Doveva occuparsi anche del matrimonio di Drew e Sierra, ma non era mai avvenuto perché lui non se l
era sentita di aiutarla e perché poco dopo la loro storia era finita. «Ho lasciato una mia fidata collaboratrice a controllare che tutto procedesse per il meglio.» si affrettò ad aggiungere, ma quando finalmente trovò il coraggio di guardarla negli occhi, non trovò traccia di rancore.
«Sta
tranquillo, Emmett.» disse infatti, come se gli avesse appena letto la mente. «È tutto ok. Non ce lho con te...non sono arrabbiata nemmeno con Drew.»
«Sierra, ti giuro che mi dispiace davvero tanto. Non avevo il diritto di rovinare...»
«Non hai rovinato niente, piuttosto hai portato alla luce la verità. La vera rovina sarebbe stata se io e lui ci fossimo davvero sposati. Sarebbe stata una bugia.»
«Ma tu lo amavi...» mormorò lui allora, con un filo di voce.
Sierra annuì. «Sì, è vero...ma amavo qualcuno che non mi amava come credevo. Drew mi voleva davvero bene, questo lo so...ma non poteva amarmi davvero. Ero qualcosa come una cara sorella per lui, non la persona da amare.»
«Lhai più rivisto?»
«Non nell
ultimo periodo. Sai...lui non frequenta più le nostre vecchie amicizie e, a dire il vero, molte di queste ho scoperto essere totalmente false e di convenienza, nel momento in cui ci siamo lasciati.»
«Mi dispiace.» ripeté mesto Emmett e lei gli sorrise.
«A me no, per questo. Almeno ho capito da chi ero circondata. Credo di sapere di chi mi posso fidare adesso.» gli posò una mano sul braccio e si sporse appena per guardarlo dritto negli occhi. «Emmett, stai tranquillo. Io sto bene, davvero.»
Lui abbozzò un sorriso. «Limportante è questo.»
«Tu l
hai rivisto?»
«A parte che sulle riviste, in tv o sui cartelloni pubblicitari?» commentò con tono ironico. «Togliendo quelli, no. Non ci siamo più sentiti né rivisti.»
«Pensavo foste rimasti in contatto visto che...» sollevò le sopracciglia ed arricciò le labbra con una lieve punta di disagio. «...insomma, lha fatto anche per te. Credo che Drew ti amasse.»
«No, non credo.» negò in risposta Emmett, con un sorriso amaro. «Lui era nuovo nel nostro
gaio mondo. Penso mi volesse bene, ma non credo mi amasse davvero. Era come un diciassettenne...un bambino in un parco giochi. Drew non mi poteva amare, doveva fare le sue...esperienze
«Capisco.» annuì lei. «Ma non ti piacerebbe rivederlo?»
«Non lo so.» rispose sinceramente, con una scrollata di spalle. «Penso di sì.»
Sierra restò un po in silenzio; sembrava intenta a pensare qualcosa, poi gli disse: «Senti Emmett, hai impegni per capodanno?»
«Ah...» borbottò lui, colto di sorpresa. «Dovrei vedere l
agenda ma...in che senso?»
«Un
altra mia amica era alla ricerca di un organizzatore di eventi per la sua festa. Julia ovviamente aveva pensato di darle il tuo numero, ma quando ha chiamato ci hanno detto che eri pieno dimpegni fino ai capelli.» gli sorrise apertamente e si lasciò andare ad una breve risata. «So che approfittare della tua conoscenza per scavalcare altri clienti non è carino ma, mi chiedevo se potessi trovare un po di tempo per noi e se potessi anche presenziare alla festa.»
Emmett osservò con attenzione quegli occhi chiari, così ricchi di speranza proprio come li ricordava. Avevano la stessa luminosità di quando gli aveva parlato del suo matrimonio e proprio per questo motivo una lieve fitta lo colpì al petto. Era inutile dire quanto si sentisse in debito e in colpa con lei. «Be
...» iniziò allora e prese il proprio palmare dalla tracolla. «...posso vedere di spostare qualcosa e...» premette con la pennina sullo schermo e concluse: «Posso essere da te in questa settimana per parlare dei primi accorgimenti. Che ne dici di...dopodomani?»
«Sarebbe perfetto!» esclamò lei, prendendogli le mani nelle sue. «Ti ringrazio, Em! Ci stai salvando la vita!»
«Ti prometto che sarà il party più favoloso che Pittsburgh abbia mai visto e, già che ci sei...perché non estendi linvito a tutte quelle arpie che ti hanno voltato le spalle? Le faremo verdi dinvidia!»
Sierra scoppiò a ridere. «Ecco, non saprei. Tu credi che sarà la cosa giusta visto che...be
, ci sarà anche Drew.»
«Drew?!» chiese Emmett, quasi strozzandosi con la sua stessa saliva.
«Sì, è per questo che ti ho chiesto di presenziare anche al party.»
«Perché lo fai?» le chiese dopo qualche secondo trascorso ad osservarla. «Perché stai facendo questo per me...dopo che io...»
«Non lo so.» replicò lei e a lui parve una risposta sincera. «Io voglio ancora bene a Drew, davvero...e ecco...tu sei sempre stato così gentile con me. So che hai anche rifiutato la mia offerta perché non volevi proseguire con quella farsa. Drew mi ha detto che hai chiuso con lui dopo e io...sì insomma, lho apprezzato. Soprattutto quando ho visto quante persone mi hanno voltato le spalle. E allora ho pensato che...»
«Hai pensato che avrei voluto rivederlo?»
«Qualcosa del genere, sì.» ammise con un po dimbarazzo.
Emmett prese un respirò più profondo e le sorrise.
Non sapeva se era davvero pronto a rivedere Drew, visto che dopo quellultima loro chiacchierata non laveva più incontrato, se non su qualche immagine o su uno schermo. Non sapeva se era il momento per farlo, visto il modo in cui già si sentiva scombussolato per via di Jace, ma era certo che non poteva rimangiarsi la parola data e rinunciare al lavoro. «Organizzerò il party.» le disse quindi. «Ma non assicuro la mia presenza per la festa. Ci penserò su.»
«Ok.» convenne lei comprensiva e gli regalò l
ennesimo sorriso. «Grazie comunque Emmett. Adesso devo proprio andare, ma mi ha fatto davvero piacere incontrarti.»
«Anche a me.» replicò sincero. «A dopodomani, allora.»
Sierra annuì entusiasta e lo salutò con un cenno della mano, prima di andarsene.
Emmett la seguì con lo sguardo, incapace di non pensare a quanta forza dovesse nascondersi in quello scricciolo biondo che era stata capace di incassare il colpo basso ricevuto con dignità e maturità, mentre le sue aspettative venivano infrante sotto il peso di una grande bugia.
Si ritrovò ad invidiarla un po’ per tutta quella energia e, gettando ancora un altro sguardo al display sul cellulare, si decise a riporlo nella borsa e a smetterla con le sue congetture mentali.
Per quanto facesse male, i veri problemi erano altri e lui ne aveva affrontati tanti.
Una chiamata non ricevuta non era la fine del mondo.



*'*'*



Terrorizzato. Completamente terrorizzato.
Dal momento in cui aveva concluso la telefonata con Maria, il terrore puro si era impadronito di lui e a malapena era stato in grado di alzare la mano per chiamare un taxi e indicargli la via da raggiungere.
Per tutto il tragitto che lo separava dal palazzo in cui vivevano sia lui che Justin, Jace aveva avuto il cuore incastrato a metà gola, e quasi si era sentito morire nel momento in cui, una volta raggiunta la destinazione, la stessa Maria gli aveva detto che il 911 era già arrivato a soccorrere Justin e l’aveva trasportato fino all’ospedale più vicino.
Gli sembrava di rivivere un vecchio incubo che mai l’aveva abbandonato davvero. Si sentiva catapultato anni addietro, quando al centro di ogni suo pensiero, ad alimentare le sue paure, c’era la sorte del suo fratellino.
Anche in quell’occasione temeva che il cuore potesse scoppiargli da un momento all’altro, ed anche allora non appena era riuscito a raggiungere l’ospedale, si era gettato in una corsa folle attraverso quei corridoi bianchi, come una trottola impazzita, badando appena alle persone che lo circondavano e che rischiava di travolgere, fino a che non era riuscito a trovare qualcuno in grado di dargli un attimo di pace e qualche notizia.
Dal poco che era riuscito a sentir trapelare dalle persone che lo avevano scortato fino all’ospedale, Justin, qualunque cosa avesse avuto, non sembrava essere in serio pericolo, eppure nonostante quello, proprio non riusciva a calmarsi e a darsi pace.
Diede una fugace occhiata all’entrata sotto di lui, attraverso le ampie vetrate, e si rese conto di come i paparazzi e giornalisti avessero già iniziato ad appostarsi lì davanti in attesa di qualche scoop. Era più che certo che, nel giro di qualche ora, sarebbe diventata una situazione invivibile.
Justin era una stella in ascesa; aveva incuriosito migliaia di persone con la sua arte ed aveva attirato anche di più l’attenzione su di sé proprio per il suo essere così schivo ed impenetrabile.
Nessuno conosceva Justin Taylor come persona. Nessun giornalista era stato in grado di strappare informazioni personali a quel brillante genio che sembrava essere apparso dal nulla tra i grattacieli della Grande Mela; come per magia.
Sapevano che era nativo di Pittsburgh e, ovviamente, non aveva mai nascosto la sua omosessualità, proprio perché ne andava orgoglioso. Aveva confessato di aver frequentato l’istituto delle belle arti della sua città e qualche piccola informazione era saltata fuori circa un – non meglio specificato – “incidente” avuto anni prima.
Ma erano tutte informazioni di poco conto, o inutili frammenti che non portavano da nessuna parte; una biografia totalmente scarna, come se tutto il suo passato, Justin l’avesse abbondantemente avvolto e nascosto con cura dietro un alone di spessa riservatezza.
C’era chi addirittura considerava la sua identità fittizia, che neanche il suo nome fosse reale. Tutti erano attratti da quel ragazzino bello come un angelo, ma schivo ed inafferrabile come l’aria.
Justin parlava di sé solo con i suoi quadri; si faceva conoscere solo con l’arte.
Era come se la sua sola identità fosse solo quella d’artista e che non avesse fatto altro per tutta la vita; come se non avesse un passato.
Tutto questo mistero lo rendeva ancora più interessante e giornalisti e paparazzi, invece di arrendersi davanti a quel muro bianco che trovavano sempre sulla loro strada, non facevano altro che fomentarsi maggiormente, spinti soprattutto dalla gente comune e dai critici d’arte, il cui interesse sembrava allargarsi a macchia d’olio con una velocità impressionante.
Ovunque andasse era un successo, ma era sempre anche un buco nell’acqua per quanto si trattava del saperne di più su di lui. Sembrava che la fama non stesse scalfendo neanche un po’ la facciata dietro cui nascondeva la sua persona; e Jace era più che certo che non ci sarebbero mai riusciti, se solo questo incidente non si fosse verificato.
Si era aperta una piccola falla su quel muro candido, ed era ovvio che nessuno si sarebbe mai lasciato sfuggire lo scoop del momento.
Con uno sbuffo preoccupato, Jace afferrò il cellulare. Fece per premere un tasto, quando si accorse della chiamata persa che neanche aveva sentito.
Nel vedere il nome di Emmett, l’agitazione scemò per un breve istante concedendo alle sue labbra di distendersi in un breve sorriso, prima che la realtà tornasse a colpirlo e a ricordargli che non poteva perdere tempo.
Raggiunse la rubrica, ripromettendosi di richiamarlo più tardi, e scorse veloce al numero di Jennifer. Pochissimi squilli e riuscì a sentire la sua voce. «Pronto?»
«Jen.» la chiamò senza salutarla, cercando di non farsi riprendere dall’agitazione. «Dovresti venire subito a New York?»
«A New York?» gli fece eco lei, confusa.
«Sì, il prima possibile. Si tratta di Justin.»



*'*'*



Quel giorno in ufficio sembrava proprio non voler passare.
Non mancava che qualche minuto all’orario in cui tutti i suoi dipendenti se ne sarebbero tornati a casa, ed il lavoro da sbrigare sembrava accumularsi sempre di più.
Chissà, forse era davvero giunto il momento di assumere altro personale, ma in quel momento era davvero l’ultimo dei suoi pensieri.
La mente di Brian già vagava all’attimo in cui avrebbe riaperto la porta del suo loft e l’avrebbe trovato ancora una volta vuoto e freddo, esattamente come l’aveva lasciato quella stessa mattina, dopo essersi svegliato di soprassalto da un sogno con Justin, che l’aveva reso intrattabile per il resto della giornata.
Prese a giocherellare con il tagliacarta, battendone la punta sulla scrivania, con un ritmo che neanche lui conosceva finché, stanco anche di quello e senza alcuna voglia né intenzione di restarsene lì ad ammuffire ancora, si alzò dalla sedia con un gesto secco e carico di frustrazione ed afferrò il proprio costoso cappotto nero.
Si sistemò la sciarpa al collo ed infilò le ultime cose nella ventiquattrore, insieme a qualche fascicolo che si ripromise di controllare a casa per impiegare il tempo, accompagnato da un bicchiere di Jim Beam, quando la porta in vetro del proprio ufficio venne aperta senza alcun avvertimento.
Solo Cynthia o Ted si azzardavano ad entrare senza bussare – e non pensare che un tempo lo aveva fatto anche Justin, fu impossibile quanto doloroso – perciò non si voltò neanche, aspettando di sentire una delle loro voci.
Quella che però giunse alle sue orecchie, non apparteneva a nessuno di loro due: «Ehi...disturbo?»
Brian si voltò interdetto, certo di conoscere fin troppo bene quel tono, ma anche incredulo dal saperlo lì. «Ciao Blake.» pronunciò in seguito, quando le sue ipotesi si rivelarono esatte, per quanto assurde.
«Ciao Brian.» replicò laltro, passandosi una mano sui corti capelli biondi, per poi accennare ad un sorriso. «Cercavo Teddy.»
«Be...Teddy non cè in questo momento.» rispose lui con tono secco, chiudendo la propria valigetta. Il fatto di essere così sorpreso da quella visita, non era certo servito a cancellare il fastidio ed il senso di frustrazione per il sogno su Justin, né per lavere davanti la presenza di Blake. In fondo non laveva mai nascosto che quel tipo non gli era mai andato troppo a genio, nonostante il fatto che, alla fine dei conti, si era sempre tenuto da parte nel momento in cui Ted aveva deciso di tenerlo nella sua vita. «Posso lasciargli un messaggio da parte tua, o magari mi fai il grosso favore di andartene e non presentare più la tua faccia qui?»
Gli occhi azzurri di Blake si accesero di vera sorpresa. «Cosa? Io...ecco, non credo di aver capito.»
«Ti prego. Non fare lingenuo con me.» sbuffò Brian scocciato, dopo aver sollevato gli occhi verso il soffitto. «Sai Blake, ti preferivo di più quando ti drogavi...almeno non eri tanto ipocrita da mettere su quella faccia da agnellino piccolo e innocente. O forse era il tuo cervello ad essere talmente andato da non permetterti di farlo.»
«Continuo a non capire.»
Il bel pubblicitario piegò le labbra allinterno della bocca e sollevò le sopracciglia, prima di rivolgergli uno dei suoi sorrisi storti e ironici. «Ok, allora te lo spiegherò con paroline molto semplici.» spinse la lingua verso la guancia ed aggiunse: «Non mi sei mai piaciuto, né quando eri un povero drogatello, né adesso che ti spacci per consulente contro le dipendenze.»
«Io non mi spaccio per...»
«Ma non è un mio problema.» lo interruppe, tornando serio e scrollando le spalle. «Alla fine non sono io che ti scopo, ma Ted...il che significa che la scelta è la sua.»
Blake aggrottò la fronte, sempre più confuso da quelle parole. «Infatti, quindi non capisco dove sta il problema.»
«Il problema, caro Blake...sta nel fatto che questa è già la quarta volta che gli fai del male e non ti preoccupi minimamente di prenderlo a bastonate.» snocciolò con noncuranza, allargando le braccia. «Purtroppo per lui, Theodore è un coglione e ti ha perdonato sempre...ed io lho sempre lasciato fare. La vita è la sua, il cuore anche e se gli piace vederlo sbriciolato non mi riguarda affatto.»
«Quindi?»
«Quindi, se sei qui per implorare il suo perdono e ricominciare per lennesima volta...prego, fa pure. Ted tornerà tra poco dalla banca.»
«Bene...»
«Non ho finito.» lo interruppe ancora. «Fa pure, per lultima volta.»
«Come?» domandò laltro, con unespressione stranita.
«Hai capito benissimo.» ribatté Brian. Non lavrebbe mai ammesso, ma da quando Ted aveva confessato loro di come erano andate le cose con Blake, quellex tossico gli era piaciuto sempre meno. «Questa è lultima volta che farò finta di niente...se mai dovesse succedere ancora, se non sarà lui stesso a farlo, sarò io a prenderti a calci in culo e a spedirti il più lontano possibile da qui. Sono stato abbastanza chiaro?» lo fissò negli occhi con durezza ed un cipiglio di puro disprezzo andò a segnargli la fronte. «Per quanto sia idiota, è unidiota che non si merita di soffrire, anche se spesso e molto volentieri avrei voglia di prenderlo a schiaffi per quanto è imbranato o per quanto si rende ridicolo.»
«È il tuo modo di dirmi che gli vuoi bene e che non vuoi che nessuno lo ferisca?» gli chiese l’altro, ancora un po’ interdetto, ma con un sorriso che spingeva sulle sue labbra per nascere.
Brian roteò gli occhi. «È il mio modo per dirti quello che penso di te, e che se mai ci dovesse essere unaltra situazione simile non perderò loccasione di rispedirti da dove sei venuto.»
«Io amo Teddy.»
«Lo vedo...» commentò caustico il pubblicitario, sollevando le sopracciglia.
«È stato solo un momento dinsicurezza e paura...ma sono pentito. Non avrei mai voluto farlo soffrire ancora e adesso sono certo di quello che voglio e di quale sarà la mia risposta.»
Brian scosse la testa e si lasciò sfuggire una breve risata ilare. «Purtroppo per me, so già che il caro Theodore ti riaccoglierà a braccia aperte.» si leccò le labbra e tornò a fissarlo. «Come ti ho detto, lessere un perfetto idiota è parte integrante di lui...quindi sei avvertito Blake, questa è lultima volta che ti lascio fare.»
«Ok.» annuì il consulente debolmente, ma con uno strano senso di gratitudine che gli dilagava dentro. Per quanto Brian Kinney fosse rinomato per essere un terribile stronzo era ovvio che dovesse tenere davvero molto ai pochi che avevano il privilegio di essere considerati suoi veri amici. «Devi volergli proprio bene. Ted sarebbe felice di saperlo.»
«Theodore non verrà mai a saperlo...anche perché non centra proprio niente con quello che dici tu.» ribatté immediatamente, come se fosse stato punto sul vivo. Oltre ad essere un terribile stronzo, era anche rinomato per il suo orgoglio e lego mastodontico. Era ovvio che non avrebbe ammesso una cosa del genere neanche sotto tortura...considerando poi che, per confessare al suo Justin di amarlo, cera voluta addirittura una bomba. «Nonostante tutte le sue infinite stronzate è un ottimo contabile e il suo cervello mi serve integro e funzionante. Non me ne faccio niente di una povera checca depressa per amore.» portò ancora una volta le sue labbra a piegarsi dentro la bocca e scrollò le spalle. «Tutto qui. Se rappresenti un pericolo per la Kinnetik, devo provvedere a toglierti di mezzo.»
«Certo...per la Kinnetik.» annuì Blake, senza credere ad una parola. Quella scusa che aveva messo su su due piedi faceva acqua da tutte le parti. Ormai anche lui aveva imparato a conoscerlo un po. «Vado ad aspettare Ted.» gli disse poi e, prima di uscire, si voltò ancora verso di lui. «Ah Brian...grazie.»
«Non capisco per cosa e neanche minteressa, ma prego.»



*'*'*



Se c’era un motivo per cui Cynthia non aveva mai desiderato figli, contrariamente alla maggior parte delle donne del mondo, era proprio perché non aveva la più pallida idea di come gestirne uno, specie quando questi si trasformavano in degli adolescenti esagitati che scorrazzavano a destra e a manca come uragani in preda alla pazzia.
Non capiva quel loro continuo urlare come squilibrati e non riusciva neanche a spiegarsi perché una ragazzina di circa quindici anni, con i capelli rossi come il fuoco ed un paio di occhi blu chiaro che le erano – per qualche assurdo motivo – fin troppo familiari, se ne stava davanti a lei a gesticolare come se fosse preda di qualche demonio e le chiedeva di vedere Brian.
Brian Kinney, il suo acidissimo ed intrattabile capo che in quel preciso momento sembrava una donna nel bel mezzo del suo ciclo mestruale.
Si era mantenuta a debita distanza dal suo ufficio per quasi tutto il giorno, se non per casi speciali in cui era stata costretta a raggiungerlo, con il terrore che la scaraventasse fuori da una delle finestre; e adesso non aveva alcuna intenzione di rischiare ancora, soprattutto per dar ascolto alle richieste di una ragazzina che era certa di non aver mai visto prima, anche se la sensazione che somigliasse a qualcuno d’importante la stava assillando.
«Devo vedere Brian!» strillò ancora questa, lasciandola basita per la sua energia. «È una cosa importantissima!»
«Tesoro.» tentò nuovamente lei, cercando di salvarla dalla sorte terribile che le si sarebbe sicuramente abbattuta addosso se solo avesse tentato di varcare quella soglia. «Il signor Kinney è molto impegnato in questo momento e non può essere proprio disturbato.»
«Ma io lo conosco bene! Devo vederlo e devo parlargli!»
«Se lo conosci tanto bene, perché non l’hai chiamato direttamente?» indagò, con il suo solito fare da pettegola impicciona.
«L’avrei fatto, se solo rispondesse al suo dannatissimo telefono! È stata mamma a farmi venire qui!»
Nel sentire la parola “mamma” Cynthia si autoconvinse che la ragazzina dovesse essere una dei pargoli di qualche parente che Brian ovviamente detestava, perciò s’impuntò maggiormente sulle sue ragioni, sperando di evitare una Terza Guerra Mondiale. «Mi dispiace ma non...» non fece però in tempo a terminare la frase, che l’arrivo di Ted con la sua faccia sorpresa, le impedì di proseguire.
«Molly?!» la chiamò e la ragazza dai capelli fulvi si voltò immediatamente verso di lui. Se perfino Theodore la conosceva, allora non doveva appartenere alla “prole di Satana”.
«Teddy! Meno male che sei qui!» esclamò lei, andandogli incontro. «Devo parlare subito con Brian. Si tratta di Justin!»
«Justin?» gli fece eco Cynthia, con un’espressione in faccia come quella di chi ha appena visto un fantasma.
«Cynthia...» la chiamò Theodore con un sospiro esasperato, già consapevole di ciò che aveva combinato la sua amata collega. Brian l’avrebbe sbranata nel giro di un secondo. «Questa è Molly, la sorellina di Justin.»
«Oh cazzo.» fu il commento di lei, soprattutto quando quella ragazzina le sorrise e le mostrò un sorriso gemello di quello del fratello.
«Te l’avevo detto che lo conoscevo bene!»
«Potevi dirmi subito di essere la sorella di quell’angelo!» piagnucolò la donna. «La mia fine è vicina!» aggiunse poi con fare melodrammatico, nel momento in cui si ritrovò a pensare a quello che le avrebbe fatto Brian se avesse scoperto che aveva impedito alla sorella del suo grande amore di vederlo.
«Puoi giurarci.» borbottò Ted e fece finta di non vedere l’occhiataccia che gli lanciò la collega subito dopo, mentre accompagnavano Molly fino all’ufficio di Brian.
Cynthia allungò una mano per afferrare la maniglia, quando questa venne aperta dall’altra parte, mostrando un Brian già impeccabilmente pronto per uscire.
«Ma che cazzo...» imprecò il pubblicitario nel trovarsi i tre davanti, finché i suoi occhi elaborarono un’immagine precisa e il suo cervello riconobbe Molly in quella bella cascata di capelli rossi. «E tu che diavolo ci fai qui?!» esclamò aggrottando la fronte. «Non ho proprio il tempo di giocare con te. Tornatene a casa, prima che alla tua cara mammina venga un infarto!»
«Razza di buzzurro! Hai idea della fatica che ho durato per venire fin qui?!» strillò in risposta lei e Cynthia non poté fare a meno di strabuzzare i suoi occhi azzurri nel sentir pronunciare la parola “buzzurro”.
Buzzurro a Brian.
La ragazzina aveva un gran fegato e a quel punto non c’erano più dubbi: era una caratteristica intrinseca nel gene dei Taylor.
Brian assottigliò lo sguardo e restò a fissarla con quella sua classica aria che in genere non prometteva niente di buono. Spinse la lingua all’interno della guancia e sollevò le sopracciglia. «Bene.» commentò asciutto. «E adesso prenditi l’energia che ti resta e va’ a casa.»
«Sai una cosa? Ti facevo più sveglio da quel che mi avevano detto di te!» ribatté lei con sicurezza. «Forse la vecchiaia ti sta facendo perdere colpi.»
«Attenta Molly.» la ammonì Ted, tentando di tamponare i danni. «Stai rischiando grosso...»
La ragazzina però sembrò non prestargli il minimo ascolto e proseguì imperterrita «Secondo te perché sarei qui?»
«Non so.» scrollò le spalle Brian. «Forse per lo stesso motivo per cui mi hai invaso casa nell’ultimo periodo? Perché sei una zecca molto fastidiosa?»
«No!» strillò Molly, isterica. «È per Justin, deficiente!»
L’uomo restò in silenzio per qualche secondo a scrutarla con attenzione. A dire il vero, era comunque sempre Justin il motivo per cui se l’era ritrovata più volte a girovagare nel loft – o meglio, per la mancanza che la piccola Taylor aveva di lui – quindi non capiva cosa ci fosse di diverso in quell’occasione; eppure, nonostante l’ormai familiare espressione da schiaffi che quella ragazzina insolente metteva su durante una delle loro discussioni, in quegli occhi blu – fin troppo simili a quelli di quello che era stato un altro ragazzino insolente nella sua vita – si nascondeva qualcosa. «Che cazzo significa?» domandò allora e lei sembrò calmarsi, prima che quegli stessi occhi si inumidissero di lacrime.
«Ha chiamato Jace da New York.» mormorò con un groppo alla gola. «Justin si è sentito male. L’hanno ricoverato. Io...io non so cos’è successo. Non ho capito.» si soffermò ancora e riuscì a leggere chiaramente in quegli occhi color verde petrolio il terrore vero. «Sapevo solo di dover avvertire te.» concluse poi e, senza pensarci su, si aggrappò con una mano ad i lembi del costoso cappotto, alla ricerca di un appiglio e di conforto.
Intanto Brian non aveva mosso un solo muscolo e sembrava aver smesso anche di respirare. Continuava a fissare Molly con gli occhi sbarrati e le labbra schiuse. Lo sguardo era duro, ma anche carico di paura e, dal momento in cui aveva udito quelle parole, il suo corpo si era rifiutato di rispondere ai suoi comandi.
Justin si è sentito male. L’hanno ricoverato.
Nella sua testa non c
era altro che il pensiero di Justin, più doloroso, martellante e forte di sempre. Aggressivo, quasi soffocante, e lo avvolgeva in una morsa alla gola.
Justin – il
suo Justin – stava male e lui non era lì.
«Molly.» la chiamò Ted, cercando di capire di più. «Cos’è che ha detto Jace? Cosa ha detto precisamente
«Io non lo so.» piagnucolò lei, lasciandosi riprendere nuovamente dal panico. «Ha parlato con mamma e le ha detto di andare a New York. Io sono corsa qui!» lanciò un’occhiata a Brian ed aggiunse: «Dovevo dirtelo! Anche la mamma ha pensato...»
«Cynthia.» mormorò il pubblicitario interrompendo la ragazzina, riscossosi dallo stato catatonico in cui era caduto. Fece per dire altro, ma non ne ebbe il bisogno.
«Prenoto immediatamente un jet privato.» lo anticipò la donna, digitando qualcosa sul suo palmare.
Brian annuì. «Theodore.» chiamò poi, e il contabile accennò ad un sorriso.
«Ci pensiamo noi qui. Se c’è qualcosa ti chiamerò immediatamente. Tu vai.»
L’altro annuì ancora una volta ed attardò lo sguardo sull’amico, come per volergli rivolgere un muto ma sincero ringraziamento. «Chiama tua madre.» comunicò poi con fare telegrafico a Molly. «Dille che tra meno di venti minuti siamo sotto casa a prenderla.»
Lei fece un cenno di affermazione e compose il numero di Jennifer per avvertirla, mentre Cynthia, contrariamente, ripose il palmare nella tasca del bel tailleur e si riavvicinò al proprio capo. «Ti sta già aspettando un’auto qui fuori per portarti fino all’aeroporto. Il jet sarà pronto per quando sarete lì.»
«Ottimo.» replicò lui, per poi afferrare Molly per un braccio e trascinarla all’uscita. Poco prima di varcare la soglia però, si fermò e si voltò appena verso i propri fidati collaboratori. «Grazie.» annunciò, sorprendendoli per poi spostare l’attenzione su Ted. «Ah, Theodore. Nel tuo ufficio c’è Blake che ti aspetta. Non fare cazzate.»
Il contabile restò ad osservarlo sbalordito per quell’ennesima frase, mentre usciva con passo deciso dalla Kinnetik; un po’ per il nome che aveva sentito, ma anche – o meglio, soprattutto – per quell’ultima parte.
Non fare cazzate; gli aveva detto.
E Ted sapeva benissimo che quello era un altro dei discutibili e strani modi di Brian Kinney per incoraggiarlo e fargli capire che, comunque, sarebbe stato dalla sua parte.



*'*'*



Blake girovagava da minuti nell’ufficio di Ted, muovendo gli occhi per quelle mura e avvicinandosi a ciò che lo attirava per osservarlo meglio.
Era la prima volta che vi entrava da solo e nelle altre occasioni in cui era passato a trovarlo, non aveva mai prestato davvero attenzione ai suoi oggetti.
Eppure si compiacque di vedere quanto anche nelle piccole cose e nel suo ordine il contabile sapesse parlare di sé e del suo modo di essere. Gli piaceva vedere una copia della loro adorata Traviata presente anche lì, sull’elegante scrivania di legno scuro, perfettamente pulita; tre semplici cornici posizionate a formare un piccolo ed astratto triangolo su un lato, dove erano immortalati la sua famiglia, i suoi più cari amici e lui stesso...l’uomo che Ted amava e che avrebbe desiderato sposare, se solo non fosse stato tanto sciocco e codardo.
Sospirò sommessamente e sfiorò con le dita la morbida poltrona scura su cui Ted trascorreva chino intere giornate, brillando nel proprio lavoro e compiacendosene, pur lamentandosi puntualmente di quel capo tanto competente quanto arrogante e fascinoso.
Sorrise appena, ripensando ai tanti piccoli momenti in cui avevano riso insieme delle varie disavventure a cui doveva sottoporsi da quando lavorava per la famosa e prestigiosa Kinnetik, ed una piccola fitta di nostalgia andò a colpirgli il cuore.
Era stato uno stupido. Aveva una vita perfetta, una relazione felice...e invece di provare a renderla più salda e accrescerla facendo un passo avanti, si era tirato indietro e l’aveva rovinata, ferendo anche l’uomo di cui era innamorato da anni.
Si maledisse ancora e ancora, e quasi si spaventò per la sorpresa di sentir aprire la porta, troppo immerso nei suoi pensieri per accorgersi che Ted era già arrivato. Lo fissò in silenzio per qualche secondo ed abbozzò un sorriso. «Ciao.» lo salutò.
«Ciao.» rispose l’altro, senza troppo entusiasmo, richiudendosi alle spalle la porta in vetro. «Brian mi ha detto che mi cercavi.»
«Sì, infatti.» confermò, ripensando alla precedente conversazione con il padrone della Kinnetik. «Sai, non è poi così male anche sul lavoro...forse un po’ più brusco del solito, ma...»
«Blake, io avrei del lavoro da sbrigare. Brian è dovuto partire per New York adesso e non possiamo permetterci di dormire.» affermò, cercando di non assumere un tono troppo duro e di non sembrare troppo scortese. Eppure nascondere il disagio provato dal momento in cui l’aveva rivisto, non era affatto facile; così come non lo era evitare di pensare alla ferita che ancora gli bruciava dentro per quel rifiuto. «Quando il boss è presente è un vero inferno, ma quando non c’è è anche peggio. Mandare avanti la baracca senza di lui non è facile, quindi se devi dirmi qualcosa, fallo.»
Blake abbassò lo sguardo dispiaciuto. «Sì, certo...scusami...hai ragione.»
«Scusami tu, io non volevo sembrare scortese...» si affrettò ad aggiungere Ted. «... è solo che quando si saprà che Brian non c’è si scatenerà il putiferio. Alcuni dei nostri clienti non vogliono neanche provare a trattare se non c’è lui. Temono tutti di non essere serviti nel migliore dei modi.»
«Be’...capisco. Brian è sempre stato una garanzia per loro.»
«Appunto.»
«Non voglio farti perdere altro tempo, quindi sarò breve.» iniziò Blake, sollevando finalmente gli occhi azzurri ad incontrare quelli scuri dell’altro. «Mi dispiace. Mi dispiace davvero tanto Teddy per come ho reagito...mi sono comportato da idiota. Sono scappato proprio quando non avrei dovuto, ma mi sono spaventato.»
«Questo l’ho capito Blake.»
«Davvero?» chiese speranzoso l’uomo.
«Sì, ma mi ha aiutato anche a pensare. Forse non avrei dovuto metterti fretta...» sollevò le spalle e sospirò. «... forse non era davvero il momento giusto, però...»
«Ci ho pensato anch’io Teddy.» lo interruppe Blake, non riuscendo a trattenere un sorriso di sollievo. «Ci ho pensato davvero in tutto questo tempo e ho capito che ho sbagliato e che in realtà dovremmo farlo. Io ti amo e tu ami me, perché non dovremmo?» si avvicinò a lui e gli prese le mani tra le sue. «Scusami, scusami.»
Ted però non riuscì a sorridergli e sciolse quel loro legame, allontanandosi di un passo. «Blake, ascoltami.» disse. «Per una parte di me è un vero sollievo sentirtelo dire, ma...quando ho pensato al perché mi hai risposto così, be’...sono giunto alla conclusione che forse non è davvero la cosa giusta da fare.»
«In che senso?»
«Forse non siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Se lo fossimo stati, sempre forse, tu avresti risposto immediatamente ‘sì’, senza ombra di dubbio...» sospirò ancora e stavolta fu lui ad abbassare lo sguardo. «... il fatto è che ci sono troppi ‘forse’ in mezzo e sono confuso.»
Blake scosse la testa ed aggrottò la fronte. «Teddy, io davvero non ti capisco...»
«Non mi capisco nemmeno io.» ammise il contabile e finalmente trovo la forza di risollevare lo sguardo. Dopo tutte quelle difficoltà che avevano affrontato insieme, glielo doveva; gli doveva il coraggio di guardarlo negli occhi, mentre pronunciava quelle parole. «Credo di essere io, adesso, ad aver bisogno di tempo per pensare.»



*'*'*



New York.
Fin dal momento in cui aveva sentito quel nome pronunciato da un altoparlante dopo il loro atterraggio, aveva iniziato a provare una sorta di repulsione per quella città.
Per anni ed anni era stata il suo obbiettivo; per giorni aveva desiderato dare il suo addio alla gloriosa Pittsburgh per raggiungere la Grande Mela e costruirsi lì la sua nuova vita, eppure anche quando era stato ad un misero passo dal raggiungere quell’obbiettivo, la sua città natale lo aveva preteso per sé ed incatenato ancora.
Con il passare del tempo poi, New York non era diventata altro che l’ombra di un vecchio desiderio ormai svanito e, per quanto provasse a ricordare a tutti che alla prima occasione se ne sarebbe andato, nessuno ormai gli credeva più; perfino lui, non ci credeva più.
Ed il motivo – inutile negarlo – era che da quando quel ragazzino testardo come un muro era entrato di prepotenza nella sua vita, aveva smesso di provare quel desiderio di scappare; una voglia che lo aveva accompagnato per anni ed anni, ma che – ancora neanche era riuscito a capire come – si era dissolta come neve al sole; come neve riscaldata dal suo raggio di sole.
Si sarebbe fatto tagliare le palle piuttosto che ammetterlo ma, alla fine dei conti, aveva iniziato ad essere davvero felice.
Era felice di svegliarsi al mattino e di trovare quel corpo sottile e niveo addossato contro la sua schiena, con le lenzuola scure attorcigliate alle gambe ed un respiro leggero e regolare che lo cullava, soffiandogli delicatamente sulla pelle; era felice di respirare quel profumo buono e familiare, e lo era anche di più nel momento in cui, sollevando le palpebre rese pesanti dal sonno, scorgeva quella figura angelica beatamente addormentata.
Non l’avrebbe davvero ammesso – non poteva ammetterlo, perché in fondo, era sempre lui: Brian Kinney – ma lo rendeva felice anche solo saperlo vicino, lì per lui; baciarlo e stringerlo a sé o sentire la sua voce e la sua risata.
Semplicemente Brian era felice di avere Justin al suo fianco; una felicità che gli era stata portata via, proprio dal richiamo di quella città che aveva dimenticato.
New York si era presa Justin; e stavolta non solo per lo stupido capriccio di un ragazzino immaturo che cercava in tutti i modi di attirare la sua attenzione.
Justin si era costruito una vita e una vera fama tra quei grattacieli enormi. Aveva iniziato a brillare anche in mezzo a quel caos e si era inevitabilmente allontanato da lui.
«Andrà tutto bene.» la mano di Jennifer si posò delicata sulla sua e il tono dolce e premuroso con cui aveva pronunciato quelle parole, lo distolse per un po’ dai suoi frustranti pensieri. «È sempre mio figlio.»
«Lo so.» replicò lui semplicemente, continuando a fissare la strada dal finestrino, in attesa di poter finalmente scorgere l’ospedale. Restare immobile ed impotente nell’attesa, lo stava facendo impazzire.
«Non dovrebbe mancare molto.» riprese la donna, come se – esattamente come il figlio – avesse imparato a leggergli nel pensiero.
Brian spostò lo sguardo su di lei, trovando sulle sue labbra un sorriso tirato e negli occhi una luce di forte speranza.
Una parte di sé aveva sempre ammirato quella donna risoluta, con forza e grinta da vendere; una vera madre – quella che lui non aveva mai avuto – che sa amare il proprio figlio a prescindere da quello che è.
Si sforzò di abbozzare un sorriso, ma non fu proprio certo che non assomigliasse più ad una smorfia che altro, mentre di quanto i suoi nervi fossero tesi, se ne rese davvero conto nel momento in cui il cellulare di Jen prese a squillare, facendolo sobbalzare.
Il nome di Jace comparve sul display e la donna rispose subito, inserendo poi il vivavoce, così che anche Brian e Molly potessero sentire. «Pronto?»
«Jennifer, ascoltami. Davanti all’entrata dell’ospedale c’è un macello.» l’avvertì con un tono piuttosto infastidito. «Ci sono giornalisti e fotografi ovunque!»
«Quindi? Che facciamo?»
«Fatevi portare sul retro. Vi faranno entrare da un’altra porta.»
«Ok.» confermò lei, con voce più ansiosa. «Ma Justin? Sai qualcosa?»
«No. Non mi dicono niente. Stiamo aspettando tutti te.»
Brian diede una fugace occhiata all’esterno e, tra la confusione delle persone che vagavano ovunque, spesso con una macchina fotografica in mano, riuscì a vedere la sagoma dell’enorme ospedale. «Ci siamo, Jace.» comunicò allora, per poi dare indicazioni all’autista.
«Brian?» il ragazzo sembro sorpreso, poi aggiunse quello che parve essere un vero sospiro di sollievo. «Grazie a Dio, ci sei anche tu! Vi aspetto all’entrata.»
«Ok.» riconfermò Jennifer, chiudendo la chiamata, per poi osservare la quantità esorbitante di giornalisti appostati fuori dall’ospedale.
«Cazzo. Ma quanti sono?»
«Molly!» la riprese immediatamente la madre e Brian non riuscì a trattenere un sorrisetto.
«Scusa mamma.» pronunciò mesta. «Ma hai visto quanti sono?!»
«E non promette niente di buono.» mormorò il pubblicitario, aggrottando la fronte. «Questi stronzi non ci lasceranno respiro!»
«Brian!»
«Scusa mamma Taylor.» si affrettò ad aggiungere, con un altro breve sorriso.
Nel frattempo l’auto riuscì a compiere una gimcana tra le persone e a raggiungere il retro dell’ospedale. Brian s’impose per pagare e, tra i vari borbottii, scesero tutti e tre guardandosi freneticamente intorno per individuare Jace.
«Eccolo!» esclamò poi Molly, indicando una figura che si stava sbracciando sulla porta come un forsennato.
Con una breve corsa lo raggiunsero e lui si dimostrò essere nuovamente sollevato nel constatare con certezza anche della presenza di Brian, come se quello avesse appena cambiato tutte le carte in tavola; come se la stessa salute di Justin fosse legata a lui. «Eccovi! Andiamo, dobbiamo raggiungere un altro padiglione.»
«Insomma vuoi spiegarci che cazzo è successo?» chiese Brian, mentre si avviavano verso il reparto in cui era ricoverato il biondo artista.
«Non lo so neanch’io con certezza. Avevamo litigato e sono uscito di casa. Mi ha chiamato Maria, la nostra colf, per avvertirmi che Justin stava male.»
«Litigato?» indagò Jennifer.
«Ma tu e Justin non l’avete mai fatto. Che è successo?» rincarò Molly.
Jace grugnì rabbioso, ripensando ai motivi della loro diatriba. «È successo che il tuo caro fratello è un coglione che lavorava a ritmi impossibili. Abbiamo litigato per questo e per colpa di...» si soffermò per un attimo e chiamò proprio quel nome nel momento in cui riuscì a scorgerlo davanti all’entrata del reparto. «Gary!»
«Siete arrivati.» replicò il manager, mostrandosi piuttosto nervoso.
«Allora? Saputo qualcosa?»
«Secondo te?» rispose frustrato. «Non dicono niente e, da una parte è una fortuna, visto il casino che si è creato qua sotto, però è davvero snervante.»
Brian si guardò intorno, finché non vide un gruppo di infermiere. Gli si fece più vicino, ignorando le occhiate ammirate che queste avevano iniziato a lanciargli e chiese: «Scusate. La madre di Justin Taylor è arrivata. Possiamo parlare con un il medico?»
«Oh sì, certo!» si affrettò a rispondere una, afferrando la cornetta per comunicare con l’interno del reparto. «Sarà subito da voi.»
«Grazie.» si limitò a rispondere, tornando poi sui suoi passi.
«Ok, forse sei davvero geniale come dicono.» mormorò Molly. «Io non c’avrei mai pensato ad una soluzione tanto semplice.»
«Perché sei una donna e ti lasci prendere dalle crisi di panico.»
«È per caso un commento puramente maschilista quello che hai fatto?»
«Puoi giurarci, mocciosa.»
Jennifer sospirò esasperata. «Piantatela voi due. Siete peggio dei bambini. Quasi mi sembra di avere tre figli, invece di due.» lanciò un’occhiataccia a Brian, e non riuscì a trattenere un lieve ma dolce sorriso per quello che aveva appena detto.
Lui ricambiò quel sorriso, sforzandosi d’ignorare l’ansia per quella dannata attesa che era ritornata per torturarlo. Spostò poi lo sguardo sulla grande porta bianca e finalmente la vide aprirsi, mostrando loro un uomo avvolto nel proprio camice.
«Mi scusi, sono la madre di Justin Taylor.» intervenne immediatamente Jennifer. «Come sta? Posso vederlo?»
«Salve.» rispose questo, con un sorriso cortese. «Justin sta bene, ma ci sono delle cose di cui vorrei parlarle. Mi segua pure.» fece per voltarsi e rientrare nel reparto, ma quando vide che anche gli altri lo stavano seguendo, fu costretto a fermarsi, seppur a malincuore, per rispettare il protocollo. «Aspettate, voi siete?»
«Questa è mia figlia.» rispose Jennifer, passando un braccio sulle spalle di Molly ed il medico annuì, spostando poi la propria attenzione verso i tre uomini.
«Io sono il suo agente.» si presentò Gary.
«Sono un suo amico.» rispose in seguito Jace ma, nel momento in cui si accorse dell’espressione mortificata sul volto dell’uomo, comprese che non gli era ancora concessa l’entrata. «Immagino che questo non mi permetta di entrare, giusto?»
«Non ancora. Almeno fino a quando non verrà portato in reparto, mi spiace.» gli disse, sinceramente dispiaciuto, per poi rivolgersi a Brian. «Lei chi è?»
Lui schiuse le labbra, indeciso sulla sua risposta, ma la voce di Gary lo anticipò sorprendendo i presenti a conoscenza del reale ruolo di Brian nella vita di Justin. «Un amico.»
«Ma che cazzo...» commentò Jace stizzito, e fu subito afferrato per un braccio dal manager.
«Ci può scusare un minuto?» chiese poi, rivolgendosi al medico e allontanandosi di qualche passo per parlare con tutti gli altri.
«Che cazzo ti prende adesso? Cosè questa storia?» lo aggredì immediatamente il designer, visibilmente arrabbiato per quella sua infelice uscita. «Cazzo, ma non lhai ancora riconosciuto?!»
«So benissimo chi è.» gli confermò l’altro in tono pacato. «Ma penso tu abbia visto la quantità di giornalisti appostati là fuori.»
«E con questo?! Brian è...» tentò di protestare, ma Gary lo interruppe.
«Quelli sono qui perché cercano il loro dannatissimo scoop, e è probabile pensino che Justin sia stato ricoverato per aver abusato di qualche droga o schifezze del genere, ma pagherebbero oro per avere una qualsiasi altra notizia riguardante la sua vita.» aggrottò la fronte e si passò una mano tra i capelli scuri. «Credi davvero che i presenti qua dentro se ne starebbero zitti e buoni se venissero a sapere chi è Brian? Non so in che mondo vivi, ma qui siamo a New York, nel caso tu non te ne fossi ancora accorto e la gente non si fa i fatti suoi, specie se si tratta di qualcuno di famoso!»
Jace lo fissò con astio. «E allora? Se sapessero di Brian saprebbero solo la verità! Justin ha bisogno di lui.»
«Justin non ha mai voluto parlare della sua vita privata ed io intendo rispettare questa sua volontà.»
«Non mi pare che sia un segreto che mio figlio sia gay, signor Hudson. Quindi non vedo dove sia il problema.» intervenne Jennifer, già nervosa per la piega che stava prendendo la conversazione.
Gary spostò lo sguardo prima su di lei, per poi farlo saettare ad incontrare quello degli occhi verde scuro del bel pubblicitario.
Non riusciva a capire cosa stesse pensando; sembrava quasi impassibile, ma da quel poco che Justin gli aveva raccontato di lui, era pronto a giurare che stesse macchinando qualcosa.
Prese un lungo respiro e tornò a spiegare la situazione: «Non è questo, ma il fatto che lui non abbia mai accennato alla sua passata relazione con Brian.» tornò a fissare il diretto interessato per sondare la sua reazione e, per un breve attimo, ebbe la chiara impressione che, se non avesse dosato con attenzione le proprie parole, quelluomo bellissimo lavrebbe sicuramente ucciso con le proprie mani. «Se non lha fatto...» esitò per un istante e aggiunse: «...avrà avuto i suoi motivi ed intendo rispettarlo.»
«Che diavolo stai cercando di insinuare?» l
aggredì di nuovo Jace. «Lunico motivo per cui Justin non ha mai voluto parlare di Brian, è perché era preoccupato che questo potesse provocargli grane con il lavoro!» indicò una delle grandi vetrate che dava sullentrata principale e disse: «Temeva che quegli squali là fuori arrivassero fino a Pittsburgh per scavare nel suo passato e stravolgessero sia la vita di Brian che quella delle persone che ama! Temeva che scoprissero troppo sullaggressione e che magari andassero a scavare nella sua relazione con Brian e la descrivessero per quello che non è e non è mai stata! Che fraintendessero tutto! Era terrorizzato dal fatto che tutto questo potesse portare guai alla Kinnetik!» riprese fiato per un attimo e gli puntò il dito contro a monito. «Justin non ha mai voluto nascondere Brian, cercava solo di proteggerlo! Perciò, non ti azzardare mai più a...»
«Jace, lascia stare. Ha ragione.»
La voce profonda di Brian arrivò alle orecchie del designer come una stilettata. Sconvolto da quelle parole si voltò verso di lui e tentò di protestare, non riuscendo a comprenderne il perché: «Ma...»
Il pubblicitario scosse la testa e si passò il pollice sulla fronte. «Se questo è quello che vuole Justin, allora non cè neanche bisogno di discutere.» spostò lo sguardo su Gary e si accigliò, trattenendosi a stento dal piantare un pugno in mezzo a quella faccia. Justin era sempre stato un ingenuo in queste cose, ma Jace caveva visto giusto: il “caro” manager non desiderava un rapporto puramente lavorativo con lartista. «Lo vedrò più tardi, quando tutto sarà più tranquillo. Limportante è che stia bene e...»
«Ma che stai dicendo?» gli domandò Jennifer, guardandolo stupita ed oltraggiata, come se quelle parole l’avessero personalmente ferita. «Puoi scordarti che io finga che tu sia solo un amico di mio figlio! Non posso proprio farlo, non dopo quello che hai fatto per noi.» incrociò le braccia al petto e l’osservò irremovibile. «Non posso farlo, sapendo quello che rappresenti per Justin e soprattutto quanto lui ha bisogno di te! Per quel che mi riguarda quei giornalisti possono tutti andare a farsi fottere!»
«Mamma!» esclamò la figlia, stralunata dalla reazione di Jennifer.
«Scusa tesoro, ma Brian e tuo fratello hanno l’incredibile capacità di esaurire la mia pazienza con le loro decisioni.» gli lanciò l’ennesima occhiata ammonitrice, probabilmente riferendosi alla loro travagliata storia ed al matrimonio mancato, e si voltò verso il medico. «Dottore, lui può entrare.»
«Signora, aspetti...» provò a fermarla Gary, senza alcun risultato. Justin in fondo, da qualcuno doveva aver pur preso la propria determinazione, simile a quella di un treno in corsa.
«È il compagno di mio figlio.» annunciò infatti lei, traboccante d’orgoglio e senza prestare la minima attenzione al resto dei presenti.
«Ah...» mugugnò il medico, stranito dalla vicenda che gli si era appena presentata davanti agli occhi, per poi fare un cenno. «Sì, certo. Seguitemi.»
Brian scosse la testa ed affiancò Jennifer. Osservò la sua espressione determinata e si lasciò sfuggire un sorriso nel riconoscere in quei lineamenti quelli di Justin, e quel suo buffo modo d’imbronciarsi quando gli riserbava una delle sue classiche e famose sparate. «Grazie mamma Taylor.» sussurrò poi, con un tono canzonatorio.
Jennifer gli rivolse un’occhiataccia. «Un giorno poi mi spiegherete perché con voi due deve essere sempre tutto così difficile.»
Il pubblicitario si lasciò andare ad un sorriso più sincero, mentre quella dannata tensione andava ad allentarsi, nonostante il pessimo rapporto che continuava a mantenere con i corridoi bianchi e spogli degli ospedali.
«Ok.» disse il dottore, fermandosi poco prima della porta di una camera con tutti gli avvolgibili abbassati. «Justin è qui e sta ancora dormendo.»
«Adesso può dirci che è successo?» chiese Molly, impaziente.
«Si è trattato di un esaurimento. Justin ha davvero esagerato con il lavoro. Dalle analisi risultano valori sballati e mi chiedo quanto tempo fa abbia fatto un pasto come si deve. È dimagrito e stressato.»
«Ma si rimetterà presto no? Non ci sono conseguenze...»
«Certo, si rimetterà, sempre che riprenda a mangiare regolarmente e si dia anche dei limiti con il lavoro.» rispose l’uomo, facendo tirare finalmente a tutti e tre un vero sospiro di sollievo. «L’unica cosa di cui volevo parlarle e che...ho guardato la cartella clinica di suo figlio e ho visto dell’operazione...»
«Preferirei che dell’aggressione non trapelasse nulla.» lo ammonì Jennifer.
«No, certo che no. Non è certo quello il problema.» rispose lui. «Il fatto è che Justin ha sbattuto la testa cadendo.»
Brian sentì il sangue gelarsi nelle vene ed un vecchio incubo mai realmente sopito riaffiorare nella sua mente. Di nuovo il rumore secco della mazza che lo colpiva tornò a rimbombargli nelle orecchie e dovette respirare più a fondo per calmarsi. «C’è stato qualcosa, dovuto alla caduta?» chiese poi pronunciando quelle parole a fatica.
«Pare di no, almeno dalla T.A.C.» rispose il dottore con professionalità, nonostante avesse scorto perfettamente il terrore che aveva solcato quegli occhi verde scuro. «Ha riportato solo una piccola ferita poco sopra il sopracciglio, ma consiglio di tenerlo comunque d’occhio, soprattutto quando dorme. Dovreste svegliarlo ogni ora almeno per i primi giorni.»
«Teme che non si risvegli?» si azzardò a chiedere Jennifer.
«No, no. Sembra stare bene, ma è solo una procedura di sicurezza. Non voglio fare dell’allarmismo, è solo una precauzione.»
«Ok, non c’è problema.» rispose Brian. «Possiamo vederlo adesso?»
«Sì, certamente.»
«Vai tu intanto.» gli disse Jennifer, decisa a lasciagli un po’ di tempo da solo con il figlio. Ormai aveva imparato a conoscere Brian ed era certa che ne avesse davvero bisogno. «Io devo parlare ancora un attimo con il dottore per la dimissione.»
Lui le rivolse prima uno sguardo sorpreso, poi comprese il motivo del suo gesto e la guardò con sincera gratitudine, prima di stringere la mano sulla maniglia della porta.


“Fix you” – Coldplay


Per qualche secondo la sua mente viaggiò ancora indietro, ricordando in un flash un vecchio passato in cui era rimasto a vegliare su quel raggio di sole ogni notte, senza avere mai neanche tentato di varcare la soglia che li separava, fermato dal suo orgoglio e dalla sciocca convinzione di non aver bisogno di nessuno.
All’epoca, anche se sentiva chiaramente la presenza di quello squarcio doloroso al centro del petto, mai avrebbe ammesso quanto ci fosse di Justin in quella ferita.
Le cose però erano cambiate, senza che lui potesse davvero controllarle. Gli erano sfuggite di mano, e da uno stizzito “Che cazzo ci fai qui” era passato ad un “Dove cazzo sei”; dallo scacciarlo via e dirgli che lui non credeva nell’amore, era arrivato a sussurrargli di amarlo e di volerlo sposare, fino a sacrificare tutto per lui, pur di vederlo felice e senza alcun personale rimpianto.
Dalla prima volta in cui aveva sostato dall’altra parte di un vetro d’ospedale erano cambiate così tante cose da non riuscire neanche a tenerne il conto, e solo una costante era rimasta immutata: Justin.
Adesso però a fermarlo non c’erano più le sue sciocche questioni d’orgoglio, né i suoi dogmi. Non aveva paura di ammettere di tenere a qualcuno; non aveva paura di ammettere che Justin contava più di qualsiasi altra cosa...
Spinse su quella maniglia con decisione e mosse il primo passo oltre la soglia.
Il cuore prese a battergli furioso all’altezza della gola, prima di esser inghiottito da questa, nel preciso momento in cui i suoi occhi si posarono sulla figura minuta che giaceva sul letto, avvolta dal bianco candido delle lenzuola.
I lunghi capelli biondi, spanti casualmente ed arruffati sul cuscino, risaltavano come tanti piccoli raggi; una corona dorata e luminosa sotto cui la pelle di Justin sembrava esser fatta di pura porcellana. Le morbide palpebre che Brian amava baciare, ancora chiuse, terminavano nelle lunghe ciglia chiare che ombreggiavano la piccola porzione di pelle sotto gli occhi, già resa lievemente più scura dai segni della stanchezza, mentre le labbra dischiuse e rilassate, svettavano nel loro roseo colorito.
Justin dormiva beato, muovendosi appena nel petto per il ritmico e lento respiro, e per un attimo ancora a Brian tornò in mente quel ragazzino appena diciottenne che già era stato costretto a fare i conti con la morte ed a scamparne per un puro miracolo.
Della determinazione e della forza che scaturiva da quegli occhi blu chiaro non c’era alcuna traccia; si mostrava solo un ragazzo indifeso, bello come un angelo, e mai come allora Brian sentì dentro di sé il desiderio di proteggerlo.
Certo, l’aveva fatto innumerevoli volte – alcune anche senza rendersene conto – e gli aveva insegnato tanto per affrontare la vita, ma a volte tendeva a dimenticare che quello davanti a lui non era che un ragazzo di ventitré anni e non un uomo. Dimenticava la sua età per la maturità che aveva sempre dimostrato; si scordava quanto in realtà potesse aver bisogno di un aiuto, solo perché continuava a voler risolvere tutto da solo e a non chiedere mai niente a nessuno...
E anche in quell’occasione, l’unica vera motivazione per cui si era ridotto così, era proprio perché, come al solito, aveva voluto strafare.
Justin era sempre stato più maturo della sua età sì, ma anche lui aveva i suoi stupidi colpi di testa; anche lui prendeva decisioni sciocche, mosse dall’istinto e, anche lui aveva bisogno di qualcuno che sapesse tenergli testa e a cui potesse anche appoggiarsi e sostenersi.
Justin sapeva camminare da solo, aveva una strada da percorrere ed era anche perfettamente indipendente, proprio come lo era sempre stato lui, e questo lo rendeva più orgoglioso che mai...ma come tutti, aveva bisogno di qualcuno con cui poter gioire dei propri successi; qualcuno di cui gli importasse davvero, una persona per cui rientrare a casa con il sorriso...
Justin, semplicemente, aveva bisogno di Brian al suo fianco, non come persona a cui riferirsi o da idolatrare, ma come complemento della sua vita. Due pezzi che riescono anche a stare in piedi da soli, terribilmente diversi, ma allo stesso tempo componenti perfetti di un’unica entità.
E questa consapevolezza fu come una scarica al cervello per Brian.
L’aver finalmente capito che la sua presenza non avrebbe davvero interferito con la vita di Justin, ma ne sarebbe stato solo il pezzo mancante; esattamente come lo stesso Justin lo sarebbe stato per lui.
Con un sospiro si avvicinò a letto, maledicendosi per come quelle guance morbide e chiare si erano scavate per via della stanchezza o per quel cerotto bianco posto sul sopracciglio a nasconderne la ferita; e non riuscì a trattenere la propria mano quando questa si mosse per sfiorare l’artista in una carezza.
Le punte delle sue dita sfiorarono l’epidermide lattea, tracciando il contorno della guancia, risalendo per la tempia fino a raggiungere una di quelle ciocche dorate che lasciò scivolare distrattamente tra l’indice ed il pollice.
Fece per ripetere il gesto, quando vide il petto di Justin sollevarsi in un respiro un po’ più profondo dei precedenti, come se i suoi polmoni avessero percepito la sua presenza e cercassero di riempirsi del suo profumo.
Le palpebre tremarono per qualche secondo, prima di sollevarsi e mostrare le due perle blu che fino ad allora avevano nascosto. Brian sorrise nel momento in cui queste s’incontrarono con il suo sguardo ed anche un altro lieve sorriso andò ad increspare le labbra morbide dell’artista.
«Ehi...» mormorò il pubblicitario, passando una mano tra i capelli di Justin.
«Sto sognando?» gli rispose il ragazzo, spostando appena la testa per godere di più del tocco dell’uomo.
«No.» lo rassicurò Brian. «Sei sveglio e sei un perfetto coglione.»
Gli occhi blu chiaro, ancora appannati dal sonno, si spostarono lentamente per tutta la stanza. «Dove...dove sono?» domandò poi, inarcando le ciglia chiare.
«In ospedale. Hai avuto un esaurimento.»
«Ah...» si limitò a commentare, ancora confuso. «Non ricordo niente. Solo che...che stavo dipingendo, credo.»
«Forse avresti fatto meglio a mangiare qualcosa, invece che giocare con i pennelli, non credi?» disse in tono retorico ed ironico Brian; e a Justin non sfuggì che si trattava di un rimprovero.
«Mi dispiace.»
«Resti comunque un perfetto idiota.»
«Lo so.»
Brian avvicinò una delle sedie al letto e si tolse il cappotto. Si sedette il più vicino possibile e prese a giocherellare distrattamente con una delle mani di Justin; così piccole al confronto con le sue, ma le cui sottili dita sembravano esser state fatte apposta per potersi infilare tra le sue. «Come ti senti?» domandò poi, cercando di nascondere almeno un po’ l’apprensione dietro un tono disinvolto.
«Indolenzito e sfinito.» rispose Justin, dopo averci riflettuto un attimo.
Brian sorrise sornione e sollevò le sopracciglia. «Allora non c’è da preoccuparsi, dovresti esserci ormai abituato da anni.»
Le labbra dell’artista si piegarono in un sorriso, divertite dal riferimento dell’uomo alle loro ormai famose e sfiancanti performance tra le lenzuola; poi socchiuse le palpebre e voltò la testa verso il pubblicitario. «Sai? Quando ti ho visto ho creduto davvero fosse solo un sogno.» si leccò le labbra e sorrise ancora. «‘Ci vediamo nei tuoi sogni’...ricordi?»
«Qualcosa di vago.» borbottò Brian, pur ridacchiando di quel vecchio aneddoto; se solo all’epoca avesse potuto immaginare quanto si fosse sbagliato...
«Sicuro che non sto sognando?»
«Raggio di sole, non è che l’ospedale ti trasforma in una lesbica paranoica?»
Justin rise. «Ok, non è un sogno.»
«No, altrimenti non saremmo certo in una stanza che puzza di disinfettante, ma a scopare su qualche spiaggia caraibica.»
«Sempre così romantico.» commentò l’artista in tono canzonatorio, continuando a tenere gli occhi chiusi e quel lieve sorriso sulle labbra.
«Faccio del mio meglio.»
Continuarono a guardarsi – occhi verde scuro incantati da quelli blu – in un silenzio perfetto che non aveva minimamente il sapore d’imbarazzo, ma quello di un’intimità rassicurante, come se avessero improvvisamente creato una bolla tra loro ed il resto del mondo; come se si fossero rifugiati in un mondo fatto apposta per loro, dove nessuno avrebbe potuto raggiungerli.
Si sorrisero vicendevolmente, entrambi consapevoli di quella realtà, e fu proprio per quella bellissima sensazione ritrovata che Brian si decise a parlare: «Ti voglio a casa con me.»
Sei semplici parole, pronunciate piano, ma che parvero rimbombare nella stanza come un eco infinito; una frase che alle orecchie di Justin sembrò una melodia netta, breve, ma bellissima, tanto da togliergli il fiato e lasciarlo incredulo per un breve istante.
Credette perfino di non aver sentito bene; che quello fosse davvero solo un sogno, ma nell’intensità con cui quegli occhi verde petrolio lo osservavano, capì di non essersi sbagliato.
Non era solo un’illusione. Brian aveva finalmente pronunciato quelle parole che per mesi e mesi aveva sperato di sentirgli dire, così tanto da non contarci più.
Avevano finito per trasformarsi in un desiderio vecchio e sbiadito, troppo lontano dalla realtà e troppo doloroso per essere ricordato; un po’ come quel loro mancato matrimonio.
Qualcosa però si era smosso nell’ostinato Brian Kinney; qualcosa che gli aveva improvvisamente ricordato che si vive una volta sola e che di rimpianti è meglio averne pochi o non averne affatto, soprattutto se a causa di convinzioni che non hanno né capo né coda.
Qualcosa gli aveva ricordato che qualche volta si deve reclamare per sé quel che si vuole; che può esserci la necessità di un minuscolo gesto egoistico, pur di esser felici; e Justin sapeva che quel qualcosa era la vecchia paura di perderlo, che era tornata a fargli visita e a dargli finalmente una scrollata. «Devi sempre aspettare che succeda qualcosa per dirmi che mi vuoi con te?» gli domandò allora con un sorriso.
Prima l’aggressione, poi l’arrivo di Ethan, il cancro, perfino una bomba ed infine il suo esaurimento con conseguente ricovero.
Brian era sempre stato un perfetto, inguaribile incapace con i sentimenti e questo non sarebbe mai cambiato neanche tra miliardi di anni o mille vite. C’era sempre voluto molto più di una bella scossa per smuoverlo.
«‘Certe cose non cambiano mai’.» lo citò infatti il pubblicitario con un sorrisetto. «L’hai detto anche tu, no?»
«Già, ma perfino i gatti hanno solo sette vite...e io sono già un bel po’ avanti con i jolly consumati.» emise un falso sospiro sconsolato e sollevò gli occhi. «Finirò per crepare bello e giovane come ogni artista che si rispetti.»
Brian gli tirò una lieve pacca sulla fronte. «Ma sta’ zitto, James Dean dei poveri
«Sei solo invidioso perché tu ormai non puoi più morire giovane
«Dì la verità, stronzetto, vuoi per caso consumare tutti insieme i jolly rimasti?»
Justin gli sorrise, mostrandogliene finalmente uno di quelli luminosi che gli era valso il soprannome affibbiatogli anni prima da Debbie. «Sono troppo stanco per discutere con te.»
«Allora riposati.» rispose Brian, accarezzandogli ancora una volta la fronte chiara. «Mi servi rigenerato per quando torneremo a casa. Ho intenzione di scoparti come si deve.»
Justin restò ad osservarlo ancora per un po’. Le palpebre si stavano facendo sempre più pesanti, ma non voleva chiuderle e addormentarsi. Brian gli aveva detto di volerlo con sé, ma era ancora troppo spaventato.
Una minuscola parte di sé continuava a temere che, se si fosse assopito anche solo per qualche secondo, tutto quello che si erano detti sarebbe svanito. «Non ho sonno. Non voglio dormire.» pronunciò allora, dandosi mentalmente dell’idiota per come la sua voce era apparsa incredibilmente infantile.
Brian però gli sorrise ed accostò appena le proprie labbra a quelle di Justin, in un dolce bacio, prima di sfiorare la punta del naso contro la sua. «Dormi.» gli ordinò poi. «Non vado da nessuna parte.» e a quel punto il piccolo artista, chiudendo gli occhi lentamente e increspando le labbra piene in un sorriso beato, comprese che l’uomo di cui era innamorato l’aveva capito ancora una volta, senza il bisogno di parole.
«Torniamo a casa.» fece poi in tempo a sussurrare, prima che il sonno arrivasse ad avvolgerlo nel suo abbraccio. 




"...Lights will guide you home,
and ignite your bones,
and i will try to fix you."



*** 

Note finali

No, come vedete non sono morta...almeno non per ora! XD Tra un po' non so se sarà lo stesso, visto che ho degli esami da dare, ma sorvoliamo! 
Mi dispiace aver tardato tanto, ma sono stata davvero tanto incasinata in questo periodo! Perdonatemi! :( 
Purtroppo sono ancora di fretta, quindi dovrò salutarvi frettolosamente...non so se questo capitolo vi è piaciuto ma, è un po' come se fosse la "fine" della prima parte di questa ipotetica sesta stagione. 
Come vedete Justin torna a casa, questo però, come insegnano i cari CowLip non è sempre sinonimo di tranquillità...e poi c'è ancora la situazione di Ted e Blake da risolvere, Emmett con Jace, ma anche un ipotetico ritorno di Drew ad "aleggiare" così come quello di "Auerbach" per Mel e Linz, che a loro volta sono ancora a Toronto con Gus e JR a cui badare; Gary non è ancora sparito e con lui neanche Brandon, per non parlare di Hunter o delle sue "ziette" - come le chiamerebbe Brian - Michael e Ben. 
Insomma, ne ho anche fin troppe da risolvere, quindi altrettante da scrivere
Intanto però spero vi siate godute questo capitolo, e spero di poter far arrivare il prossimo tra Natale e Capodanno, visto che parte del prossimo parlerà anche del 25 Dicembre
Farfugliamenti a parte credo sia l'ora di passare alla parte più importante di tutte: 
RINGRAZIAMENTI!
Un gigantesco grazie a tutti coloro che sono arrivati fin qui a leggere, a chi ha inserito questa storia tra le seguite, le preferite o le ricordate...ma soprattutto grazie a: mindyxx, SusyJM, electra23, Thiliol, Clara_88, giacale, silvergirl, EmmaAlica79, Katie88, Gojyina e Erikioba per aver recensito! :) Grazie davvero

Detto questo devo proprio salutarvi e scappare! 
Spero davvero vi sia piaciuto anche questo capitolo! :) 

Un bacione e a presto. 
Veronica.

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