Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Note introduttive: cercherò di farla più breve possibile, ma sono
necessarie. L’intera fanfiction si svolgerà in una scuola (Latowidge, presente
anche nel manga): per questa mia trovata geniale, le età dei
protagonisti che nel manga sono giustificate dai mille sbalzi temporali del nostro
amatissimo Abisso, qui sono inesistenti. Motivo per cui le ho dovute adattare.
Ho cercato di mantere delle
linee generali (come il fatto che anche nel manga Vincent e Gilbert si passano
un solo anno di differenza), ma in alcuni casi era impossibile. Per un motivo
simile ho dovuto rendere Ada sorella maggiore di Oz.
Malgrado io non ami molto
inserire troppi nuovi personaggi, qui mi tocca: trattandosi di una scuola con
più di dieci studenti sputati quali i nostri amati protagonisti, mi capiterà
non solo di sparare nomi a casaccio tanto per far numero, ma anche di dover
approfondire un minimo la sfera di quel tale studente-compagno di classe.
Non avranno comunque ruoli
rilevanti, ecco tutto: saranno la mia amata cornice.
Infine, ho cercato anche di
attenermi abbastanza al manga per quanto riguarda il passato dei personaggi:
chiaramente ho dovuto attualizzare e togliere qualche cosa strana come
l'Abisso, o le Catene, i salti temporali e via dicendo. Ma Oz ha sempre il
padre che meriterebbe il ritiro della patria potestà stile ritiro patente, e
Vincent e Gilbert restano adottati (e con parte del loro altresì sfigatissimo
passato).
Infine: non so quanto sarà
lunga la fanfic, ogni quanto aggiornerò ecc. Ma se vorrete seguirmi, ne sarò
felice XD Il rating per ora è arancione, per sicurezza: se la situazione
degenera, verrà cambiato in rosso ù_ù”
Mi scuso per le note
oltremodo lunghe, ma erano necessarie per facilitare la lettura.
Latowidge
Latowidge era un collegio
rinomato.
A chiunque si chiedesse
nella contea, non faceva che rispondere la stessa cosa: Latowidge è la scelta
migliore per i tuoi figli.
Era collocata appena in
periferia, subito fuori dalla città ma non eccessivamente lontana, cosicché i
genitori più apprensivi fossero in grado di raggiungere la scuola facilmente.
Contava di tre edifici: il
più grande era la scuola. Comprendeva le aule per ogni singola materia
insegnata e divisa per corsi. Il primo e il secondo anno utilizzavano le stesse
classi, le terze erano le uniche occupanti delle aule per il loro anno, ed
infine quarte e quinte sfruttavano le medesime classi per le lezioni.
Lo stesso edificio
includeva un'aula magna in cui ogni anno aveva luogo un saggio o uno spettacolo
a chiusura dell'anno scolastico, una sala piuttosto capiente per ospitare
l'annuale ballo di Natale, la segreteria studenti, la sala insegnanti, un
ufficio per ogni docente ed infine una biblioteca ad uso e consumo di tutti gli
studenti.
Tutte le aule, così come le
altre stanze, presentavano un arredamento in legno - elegante ma non pomposo -
e l'attrezzatura migliore per il buon lavoro di docenti e studenti.
Gli altri due edifici erano
i due dormitori, uno maschile e l'altro femminile, con stanze doppie ed ognuno
con un capo dormitorio per ogni anno fra gli studenti.
L'esterno vantava un grande
spazio verde adibito a giardino, trattato con cura meticolosa da più di un
inserviente.
Quanto alla suddivisione
degli studenti, differivano di anno in anno per un particolare della divisa:
un'idea della presidenza, per quel che si sapeva. La divisa bianca, sia per le
ragazze che per i ragazzi, presentava – obbligatoriamente e previsto dal
regolamento – un nastro posizionato sotto il colletto della camicia candida.
Per i ragazzi era sistemato
in un fiocco fine, il nastro corto abbastanza perché l'ornamento non risultasse
troppo femminile; per le ragazze, vi era un'applicazione simile con la sola
differenza che il nastro risultava più lungo, sfiorando spesso la camicia
all'altezza del seno.
Sia gli uni che le altre,
comunque, cambiavano il colore del nastro in base all'anno di appartenenza: il
primo anno bianco, il secondo azzurro, il terzo blu, il quarto di un grigio
fumo, il quinto ed ultimo anno nero.
I docenti erano i migliori
qualificati, assunti direttamente dalle migliori università del posto e,
talvolta, anche di altri Paesi.
In definitiva, l'Istituto
Latowidge era famoso e il luogo d'istruzione ideale.
Ma è sempre un collegio, sospirò mentalmente, alzando lo sguardo
sull'edificio che si stagliava non troppo lontano rispetto a lui.
Ai grandi ed imponenti
cancelli che recavano il nome della scuola, stava fermo e in piedi il classico
nuovo studente destinato ad iniziare la sua vita lì di punto in bianco e non
dal primo anno.
E se state immaginando un
ragazzo depresso, oppure arrabbiato col mondo, che metterà piede lì dentro con
l'intenzione di recitare il ruolo dello sfigato i cui genitori lo hanno mandato
lì a calci nel sedere, beh... c'è una sola cosa giusta in quest'immagine
mentale.
Che non ci stava
propriamente andando di sua volontà.
Ma per il resto, Oz
Bezarius non la vedeva nemmeno così tragica come poteva apparire.
Si stiracchiò,
occhieggiando i propri abiti: gli avevano detto di quanto fosse noto il posto e
di quanto solo i figli di famiglie più o meno altolocate vi studiassero – e
d'altra parte lui era uno di loro.
Ma aveva preferito non
indossare nulla di formale, perché non ci si sarebbe visto, né trovato a
proprio agio. E, benché suo padre avesse ampiamente mostrato la sua totale
disapprovazione per la semplice camicia bianca con sopra un altrettanto
semplice gilet nero, e per i pantaloni al ginocchio – e gli scarponcini
"da contadino" e la cravatta "vergognosamente allentata" –
aveva comunque fatto di testa propria.
La stessa testa che gli
aveva suggerito che farsi venire a prendere all'ingresso da sua sorella non
avrebbe entusiasmato suo padre.
Aveva quindi assicurato
alla maggiore che avrebbe fatto da solo, e che non doveva preoccuparsi: sarebbe
arrivato alla segreteria studenti senza intoppi.
Un'ultima occhiata generale
e, valigia alla mano, varcò la soglia avviandosi per il curato vialetto che
suggeriva la direzione per raggiungere la scuola.
Più o meno a quello che –
ad occhio – gli sembrava il centro del giardino, c'era una fontana, di quelle
che a suo avviso erano più tipiche di una tenuta importante che non di una
scuola.
Ma non era male: da lì il
sentiero guidava ad ognuno dei tre edifici.
Mantenne l'attenzione su
quello centrale, il più grande, nonché la sua meta.
«Un nuovo studente, ne? ♥» sentì chiedere senza preavviso al proprio fianco,
voltandosi istintivamente a guardare.
L'immagine che inquadrò
dopo pochi istanti, gli diede la sensazione di una persona... non proprio
grottesca, ma il giudizio non si allontanava di molto.
Tuttavia, abbozzò un
sorrisetto leggero: «Si nota?» scherzò su, mentre l'altro sorrideva
sottilmente.
Notò che forse era uno dei
rari albini di cui aveva letto sui libri: i capelli chiari, e tuttavia troppo
per l'età giovane che dimostrava, avevano un taglio scalato che sfiorava appena
la base del collo. La pelle chiara, l'occhio che non era coperto dalla frangia
era di un insolito rosso carminio.
Gli abiti che indossava gli
ricordarono più una divisa: scuri, neri, con ricami argentati; parevano quelli
di un qualche ufficiale.
...Non fosse stato per la
bambolina di pezza sulla spalla.
«Abbastanza. Sguardo perso
per il giardino, abiti tutt'altro che simili alla divisa. E anche la valigia mi
ha suggerito che sei un cattivo bambino che rappresenta un nuovo acquisto.»
canticchiò divertito – in un modo del tutto personale, osservò lui.
Lo vide portare una mano in
tasca e allungare il braccio verso di lui, aprendo la mano stretta a pugno con
il palmo rivolto verso l'altro: rivelò ai suoi occhi una caramella avvolta
nella carta arancione.
Oz la prese, l'espressione
che ricordava un cagnolino scodinzolante di fronte ad un biscotto dato dal
padrone. Il suo interlocutore parve trovarlo simpatico.
«E il nuovo studente si
chiama Oz Bezarius, scommetto.» finse di indovinare.
Questo lo sorprese un po’
di più in effetti e, al tempo stesso, gli lasciò il sentore che con ogni
probabilità quell’uomo non era il giardiniere; se lo era, complimenti per la
rete d’informazioni.
Sul momento, comunque,
rimase in silenzio e preferì aprire la caramella e mangiarla piuttosto che rispondere.
Continuò ad avanzare verso l’edificio centrale, l’uomo che proseguiva al suo
fianco con aria tutto sommato divertita e con un passo tragicamente vicino al
saltellare.
Si decise a lasciar stare
quella compagnia inaspettata per il tempo sufficiente a guardarsi intorno,
studiando i tre edifici e le loro disposizioni, così come i sentieri puliti e
privi di erbacce che collegavano quel giardino enorme ai dormitori e scuola.
Quando ebbe registrato
un'immagine complessiva che potesse soddisfare la sua curiosità almeno per il
momento, tornò con gli occhi chiari sull'uomo al suo fianco, che guardava di
fronte a sé e non gli aveva ancora posto nessuna domanda.
Fu dunque Oz a parlare:
«Tutti a scuola sanno il mio nome?» chiese, ironicamente divertito dalla propria
domanda retorica. L'altro parve deciso ad assecondare quel gioco.
«No, no, solo le persone
importanti lo sanno!» lo prese in giro. Sembrò stancarsene subito, però, dato
che in pochi istanti aggiunse: «Occhi verdi, capelli chiari. Così identico alla
signorina Ada, che anche se avessi un cognome diverso non associare le vostre
immagini sarebbe impossibile, no?» lo incalzò.
Oz sorrise: effettivamente
c'era da ammettere che con quell'aspetto fisico, lui e la sorella non potevano
certo fingersi estranei. Non solo avevano entrambi i capelli biondi - forse lei
appena più scuri a seconda della luce, e ovviamente più lunghi - e gli occhi di
un verde brillante. Anche i lineamenti coincidevano come solo quelli di alcuni
fratelli e sorelle potevano fare.
L'unico motivo,
probabilmente, per il quale non venivano scambiati per gemelli, era che Ada
dimostrava fisicamente i due anni in più che li separavano.
Diciottenne - sebbene da
pochi mesi - Ada Bezarius era la più grande dei due figli del casato.
Raggiunse i pochi scalini
che portavano al piano rialzato su cui sorgeva l'edificio scolastico,
osservando il grande portone in legno scuro, intagliato verso l'interno, con
decorazioni non troppo sfarzose.
Rimase qualche istante
fermo sul primo scalino; l'altro, al suo fianco, ridacchiò come chi rivede la
stessa scena per l'ennesima volta. Lo superò, dunque, raggiungendo il portone e
socchiudendo appena una delle due ante, il tanto che bastava da insinuarsi
all'interno oltre la soglia.
Tuttavia, non la varcò
subito, voltandosi ad osservarlo da sopra la propria spalla: «La segreteria
studenti è raggiungibile passando per il corridoio sulla destra.» canticchiò
divertito, l'espressione indecifrabile. Oz stava per dire qualcosa - un
ringraziamento probabilmente - ma l'altro lo anticipò parlando di nuovo:
«Benvenuto, signor Bezarius, attento a non perderti, ne?» aggiunse ed Oz non
seppe dire se l'altro parlasse seriamente o se si stesse facendo beffe di lui.
Annuì, nel dubbio, fermando
l'altro che a quel punto gli aveva dato le spalle e già faceva per entrare: «Ma
il suo nome?» lo interrogò, come se fino ad allora avesse sempre scordato di
chiederlo lungo il breve tragitto fatto. Quello ridacchiò.
«Chissà.» fu l'unica
replica che gli concesse, prima di scivolare all'interno della costruzione
senza chiudere il portone. Spiazzato dalla risposta - o, meglio, dall'assenza
di una vera e propria - Oz si affrettò a seguirlo.
Quando ebbe aperto
abbastanza il portone da passarvi con l'unica valigia che aveva a mano, quello
strano individuo era sparito, ma al suo posto l'ampio atrio dell'istituto
lasciava senza fiato e faceva passare di mente in un istante le domande che Oz
si era posto fino ad un attimo prima.
Spazioso ed impeccabile nel
suo ordine e nella sua pulizia, l'atrio dava una prima impressione di Latowidge
che - com'era stato per la fontana all'esterno - somigliava più ad un villa
molto grande che non ad una scuola. Per quanto fosse un istituto per figli di
famiglie ricche, Oz trovava alcune parti di tutto quel luogo quasi ridondanti.
Il pavimento - in marmo
chiaro, molto simile al color avorio - rifletteva le luci dei grandi lampadari
in stile ottocentesco che si potevano ammirare alzando lo sguardo: grandi e in
cristallo, apparivano fragili quanto bellissimi nelle forme a goccia che
scendevano come addobbi dalla base in metallo che si intravedeva appena.
Poco più avanti rispetto a
lui e rispetto al portone, c'era quello che - non fosse stato abituato ad
ambienti più o meno vicini a quello stile - avrebbe scambiato per uno scherzo,
un elemento volto alla sola volontà di portare lo sfarzo all'eccesso.
Sulla grande scalinata che
si diramava in due più strette - una che saliva verso destra, l'altra verso
sinistra - di fronte ad un grande quadro raffigurante un vessillo che con ogni
probabilità era lo stemma di Latowidge, vi era uno strato generoso di moquette
rossa che ricopriva buona parte della scalinata e per tutta la sua lunghezza.
Probabilmente, si disse
muovendo qualche passo verso la scalinata, entrambe le diramazioni portavano a
due diverse aree della scuola. Quel che era certo, comunque, era che se la
segreteria studenti non lo avesse munito di mappa, non avrebbe avuto vita facile
lì dentro.
Sarebbero state più le
volte in cui si sarebbe perso che non quelle in cui avrebbe trovato l'aula
giusta all'orario giusto - e possibilmente non dopo una settimana di ricerche.
Riuscendo a spostare lo
sguardo dalla scalinata e a portarlo sulla destra individuò il corridoio
indicato dall'uomo che sembrava sparito nel nulla. Scrollò appena le spalle:
non era proprio il caso di cercarlo alla cieca, tanto più che a conti fatti non
aveva altro motivo che la curiosità di scoprirne il nome.
Si obbligò quindi ad
ammirare la scuola dopo - magari quando avesse avuto Ada a fargli da guida - e
si avviò sulla destra, verso l'ormai famigerata segreteria degli studenti.
Per sua fortuna, trovare
l'ampia sala che ospitava le quattro addette ai documenti e agli archivi non
era stato difficile: era bastato andare sempre dritto e controllare le varie
targhette in ottone sulle porte in legno scuro come il portone.
Una volta trovata quella
giusta, come se avesse avuto un cartello con scritto il proprio nome attaccato al
collo, una signora dall'aria cortese gli si era avvicinata riconoscendolo come
Oz Bezarius, il nuovo studente.
Si era presa la briga di
comunicargli la classe di cui avrebbe fatto parte da quel lunedì, e di dargli
l'orario delle lezioni che gli consegnò insieme ad un paio di fogli con il
regolamento e con uno più piccolo con sopra scritti il numero della sua stanza,
il nome del suo futuro compagno di camera, il nome del capo dormitorio a cui
fare riferimento.
Infine, dopo essere sparita
qualche minuto in una stanza adiacente, era tornata con la sua divisa nuova e
ancora avvolta dalla stoffa scura e anonima per proteggerla.
Armato di tutto ciò e
cercando contemporaneamente di non perdersi nulla per strada con tutte quelle
cose in mano - ringraziando come non mai che il resto dei bagagli fossero stati
consegnati direttamente a scuola - si avviò verso il dormitorio dei ragazzi
dove avrebbe vissuto da lì alla fine dei suoi quattro anni di istruzione a
Latowidge.
L'edificio del dormitorio,
una volta raggiunto, non si era rivelato troppo diverso da quello della
costruzione centrale da cui veniva: il portone, del medesimo legno scuro, si
apriva su un atrio forse un poco più piccolo. Anch'esso in marmo chiaro e con
lampadari piuttosto simili, aveva la scalinata - più stretta - spostata
completamente sul lato sinistro. Il resto dell'atrio, altro non era che una
sala comune piuttosto spaziosa per gli studenti che gradivano restare in
compagnia piuttosto che nella solitudine della propria stanza.
Arredata con gusto ed eleganza,
presentava due o tre divani e molte poltroncine. Il camino, addossato alla
parete, rendeva facile immaginare che quella sala comune fosse sfruttata più in
inverno che non in estate. Un grande orologio a pendolo con la base che
poggiava a terra e il legno di mogano finemente lavorato, torreggiava
nell'angolo opposto alla scalinata.
Al suo ingresso, qualche
studente sicuramente più grande di lui si era voltato, probabilmente attirato
dal rumore del portone che si apriva.
Tuttavia, pur avendolo
individuato, nessuno aveva detto nulla; non prima, almeno, di averlo visto
avere seri problemi a salire più di due gradini senza che la divisa, o la
valigia, o i fogli cadessero di mano. O rischiassero seriamente di farlo.
Solo a quel punto uno dei
due - Oz sospettava che fosse stato mosso a pietà, o che volesse evitare una
morte per soffocamento al compagno che si stava letteralmente sbellicando dalle
risate a vederlo in difficoltà - gli fece un cenno leggero con la mano per
attirarne l'attenzione.
«Puoi lasciarlo lì, se ne
occuperà un inserviente più tardi.» gli fece presente.
Oz osservò incerto le
proprie cose, decidendosi magari a lasciare qualcosa, il tempo di individuare
la stanza e tornare a riprenderla.
«Largo, largo, non voglio
beghe se investo qualcunooo!» sentì esclamare, obbligato da quella voce
sconosciuta ad alzare lo sguardo per vedere una testa rossa e dai capelli
arruffati sfrecciare sul corrimano in marmo della scala. Lo vide raggiungere la
fine dandosi un lieve slancio - o così gli parve - e atterrare con un gesto
tecnico che con quello che stava facendo non c'entrava nulla, o comunque
dubitava servisse davvero a qualcosa.
Lo vide fare un inchino
verso il portone, una folla invisibile che fungeva da pubblico immaginario.
«Ed è ancora Noah Keynes a
battere i record di Latowidge! Un salto perfetto, e la folla è in delirio. As
usual.» lo sentì commentare e davvero Oz non poté fare a meno di ridacchiare,
per quanto perplesso da quel tipo a dir poco singolare.
Sentì il ragazzo più grande
che gli aveva consigliato di lasciare lì i bagaglio rivolgersi al rosso con un:
«Keynes, dovresti piantarla di fare l'idiota sui corrimano.»
Mentre quest'ultimo
replicava qualcosa ridacchiando, Oz poté riservarsi di studiarlo un attimo: i
capelli rossi erano scompigliati e appena mossi, tenuti in un vago e
discutibile ordine da una fascia scura posta in una posizione apparentemente
casuale della testa. Gli occhi, di un castano appena più chiaro del nocciola,
erano ridenti ed espressivi; probabilmente erano la parte che più attirava
l'attenzione del volto dalla pelle e i lineamenti abbastanza ordinari, seppur
attraenti.
Ma di certo non era uno di
quei ragazzi che facesse voltare le teste di un'intera sala.
Vestiva, notò Oz, abiti
comuni anziché la divisa. E lo fissava tra il divertito e l'incuriosito.
E lui non se ne era
accorto.
Abbozzò un sorriso
divertito: «Bella discesa.» osservò, non proprio certo del perché l'altro lo
osservasse. Ma quello scoppiò in una risata sinceramente divertita, facendogli
il segno dell'ok alzando il pollice verso l'alto: «Tecnica che miglioro di anno
in anno. Sai com'è, la noia uccide a volte.» commentò con semplicità,
facendogli l'occhiolino complice.
Allungò una mano verso di
lui: «Noah Keynes, piacere.» esclamò cordiale, occhieggiandolo per qualche
attimo e notando la momentanea impossibilità di Oz a stringergli la mano con
tutta quella roba. Ridacchiò, ritirando la propria.
«A dopo la stretta di mano.
Sei quello nuovo, Oz Beza-qualcosa, giusto?» lo interrogò quasi nell'immediato.
Oz, sebbene un po'
frastornato, lo trovava schietto e amichevole; annuì: «Oz Bezarius, sì.»
confermò. L'altro annuì di rimando, segno che aveva capito.
«Bene, mi offro di portare
una valigia al mio nuovo compagno di stanza. Anche perché non ci sono
inservienti che ci fanno da facchini. Prendi nota: ci sono solo quelli delle
pulizie e quelli del giardino. E i cuochi, naturalmente.» spiegò con una
strizzatina d'occhio, agguantando la sua divisa e facendogli strada iniziando a
salire le scale.
Con un'occhiata ai due
nella sala comune che erano tornati alle proprie occupazioni, Oz lo seguì per
l'intera scalinata e poi per una parte del corridoio sulla sinistra nel quale
l'altro si era diretto.
«Mi sembrava un po' strano
che ci fossero inservienti che portano le borse.» osservò divertito. Vide Noah,
che era avanti a lui sì e no di un paio di passi, storcere appena il naso: «E'
solo una cavolata dei più grandi. Sai, lo fanno con le matricole e con quelli
nuovi. Penso sia una cosa da che mondo è mondo, ma questo non la rende meno
stupida.» osservò, non proprio infastidito.
Sembrava più uno
rassegnato.
«Per carità, eh? Io nella
stupidità ci sguazzo sempre volentieri. Ma siamo tutti o più o meno ricchi qui.
Non capisco il senso di mettere le mani nelle borse dei primini.» concluse, e
finalmente Oz comprese il senso del voler far lasciare agli studenti più
piccoli la roba nell'atrio.
«E perché dovrebbero? L'hai
detto tu che siamo tutti più o meno ricchi qui, no?» gli fece notare,
incuriosito e in un certo senso anche perplesso.
Fermandosi davanti ad una
porta che Oz dedusse fosse la loro stanza, Noah lo osservò come a dire:
"porta pazienza, che vuoi farci?".
«Boh, valli a capire. Sarà
che gli fa figo?» si interrogò lui stesso, scuotendo poi la testa ed estraendo
dalla tasca una chiave con cui aprì la porta: «Però tranquillo. Non sono tutti
così, eh?» assicurò ridacchiando e aprendo definitivamente la porta della
stanza.
«Et voilà. Metà del tuo
regno da qui ai prossimi quattro anni!» esclamò fingendosi plateale.
Si guardarono un attimo,
ridendo entrambi, ed entrando poco dopo.
Mentre Noah si richiudeva
la porta alle spalle, Oz si prese il tempo per osservare quella stanza: come
c'era da aspettarsi, solo la metà dove stava Noah aveva dei particolari che la
rendevano personalizzata. La sua metà, in ordine e anonima, consisteva in un
letto dalle lenzuola bianche e pulite ed un copriletto bordeaux, speculare al
letto di Noah - con la differenza che su quest'ultimo pareva fossero passati
una decina di bambini con la voglia di distruggerlo.
Più o meno di fronte al
letto stava un armadio in legno e vicino ad esso Oz riconobbe alcuni scatoloni
con le sue cose, ancora chiusi; più in là, in una posizione tale da essere
illuminata dalla luce che filtrava da una delle due ampie finestre, stava la
scrivania, vuota ed impersonale.
«Visto così fa un po'
spoglio, ma tra poco ci saranno su un mucchio di libri e rimpiangerai lo spazio
che vedi ora.» assicurò con una nota divertita nella voce mentre si buttava di
peso sul proprio letto dopo aver poggiato la divisa del biondo sulla sedia
della sua scrivania.
Oz poggiò la borsa a terra,
andando a sedersi sul proprio letto, l'aria incuriosita mentre continuava a
studiare la nuova stanza, ascoltando di sfuggita l'altro.
«Come mai c'erano così
pochi studenti?» chiese, lo sguardo chiaro che andava su Noah, mentre dondolava
appena le gambe avanti e indietro, in un gesto abituale. L'altro parve pensarci
su qualche attimo, le braccia incrociate dietro la testa.
«Beh, nel fine settimana
siamo sempre meno. Alcuni studenti non abitano tanto lontano da qui, e tornano
a casa. Qui o sono venuti per la fama del collegio, o ce li hanno mandati i
genitori per questo o l'altro motivo. Il primo gruppo, nel fine settimana torna
a casa.» spiegò soprappensiero.
Oz annuì distrattamente:
lui apparteneva senza alcun dubbio al secondo gruppo, perciò difficilmente
sarebbe tornato spesso a casa. Ada, invece, ricordava che a volte lo faceva ora
che ci pensava.
«Tu sei del secondo
gruppo?» chiese, forse non proprio il massimo del tatto a ben pensarci. Noah
non parve prendersela. Al contrario, ridacchiò: «Naah, io e il mio vecchio
andiamo d'accordo. Solo che fa un lavoro che lo tiene fuori di casa, quindi è
inutile.» assicurò. Oz tacque qualche istante: Noah non aveva esattamente
l'aria di un ricco figlio di papà. O, se lo era davvero, si sforzava di
sembrare tutt'altro.
«E che lavoro fa?» domandò,
la curiosità che ormai faceva tutto per conto suo: «Fotografo. Gira un sacco di
posti e secondo me prima o poi si perderà da qualche parte. Ma gli piace, e poi
nessuno dei due ha mai fatto storie sulle cose private dell'altro. Io e Chris
siamo così.» asserì, il sorriso sulle labbra. Dal tono con cui ne parlava, ad
Oz parve abbastanza chiaro che il rapporto fra i due anche se un po' diverso da
quello dei canonici padre-figlio, era buono.
«Te invece? Sei il fratello
di Ada del quarto anno, vero? Lei so che ogni tanto ci torna a casa.» aggiunse,
riportando l'attenzione di Oz sul discorso.
Il biondo annuì, sebbene appena
sorpreso: «Conosci mia sorella?» domandò. Da quel che gli aveva detto Ada, un
aspetto particolare di Latowidge e dei suoi studenti, era che fra i diversi
anni difficilmente c'era un'interazione tale da far sì che qualcuno del quinto
anno - ad esempio - legasse particolarmente con uno del secondo o del terzo.
Essendo divisi anche nelle
aule che frequentavano, c'era una maggioranza di gruppi primo-secondo anno, o
quarto-quinto. Solo il terzo anno era un po' il tramite fra i due gruppi, o per
lo più rimaneva con i compagni di corso.
Spesso - aveva detto sua
sorella - a Latowidge ti sembra di stare in tante scuole diverse quanti erano
le classi e gli anni.
«Non conosco proprio lei,
ma la sua compagna di stanza. Mi ha dato qualche ripetizione e da lì siamo diventati
amici. Qualche volta è capitato anche di chiacchierare con tua sorella.»
spiegò, assumendo un'espressione furba, palesemente divertita da qualsiasi cosa
stesse elaborando in quel momento. Lo fissò sogghignando: «Mica avrai il
complesso della sorella, eh Oz?» lo sfotté.
Oz si imbronciò quasi
istantaneamente, in un cambio d'espressione abituale che spesso assumeva;
oltretutto, quella storia del complesso gliel'avevano sempre messa davanti come
se fosse scontato.
...Beh, magari lo aveva
davvero. Ma solo un pochino!
«Proprio per niente.»
borbottò comunque in risposta a Noah, che scoppiò a ridere: «La tua faccia dice
il contrario, sai signor Bezarius?» continuò a prenderlo in giro. Oz, seduto
sul bordo del proprio letto, si allungò a recuperare il proprio cuscino,
lasciandolo e riuscendo a centrare Noah in piena faccia.
Ci fu un verso indistinto,
soffocato dalla stoffa dell'oggetto, prima che vedesse riemergere il viso di
Noah, il cuscino ora nelle sue mani: «Ti insegno io ad avere rispetto dei
compagni che occupano la tua stanza da più tempo, ragazzino!» lo prese in giro,
restituendo il favore.
La lotta con i cuscini che
avevano improvvisato e che era degna di due mocciosi non era durata molto ma,
come tutte le importanti esperienze della vita, gli aveva dato una lezione
basilare.
Nota numero uno: Noah
Keynes, neo compagno di stanza, non dovrà mai più essere sfidato ad una
battaglia simile.
La sua mira è pessima.
Avevano praticamente messo
sottosopra la stanza - addio ordine dalla sua parte. Quella di Noah era già
disastrata da prima.
Dopo aver più o meno
ripreso fiato e dopo che Oz ebbe sistemato buona parte delle sue cose - Noah
era sparito a gironzolare da qualche parte, giustificandosi con un:
"abituati, io vivo nel mio disordine organizzato" - mancava ancora
un'oretta alla cena.
Non potendo entrare nel
dormitorio femminile (così diceva il regolamento che gli avevano consegnato in
segreteria) e non avendo ovviamente compiti o simili, aveva optato per un
giretto in giardino. Ada l'avrebbe comunque incontrata a cena, con tutta calma.
L'esplorazione dello spazio
verde tutto intorno alla scuola aveva occupato anche più tempo di quanto avesse
previsto: aveva girato più che altro casualmente, incrociando diversi studenti
di diversi anni, quelli che non erano tornati a casa per il weekend e che
probabilmente piuttosto che chiudersi in una stanza avevano preferito
approfittare della bella giornata per restare all'aperto.
Si stava infine avviando
nuovamente verso l’edificio centrale, deciso a darsi il tempo di trovare la
mensa, quando qualcuno che avrebbe potuto portarcelo senza intoppi lo
individuò, agitando appena la mano verso di lui.
«Fratellino!» sentì
chiamare, e non occorreva certo girarsi per indovinare di chi si trattasse.
Nel farlo, comunque, vide
la figura della sorella che gli veniva incontro: poche volte l’aveva vista in
divisa, giacché tornando a casa di solito lo faceva con abiti comodi e mai con
quelli di Latowidge.
D’altra parte, non gli era
nemmeno del tutto sconosciuta: non solo per le studentesse incrociate nel
giardino quel pomeriggio, ma anche perché ricordava quando la stessa Ada,
emozionata per il primo giorno a Latowidge, non aveva resistito e l’aveva
indossata per la prima volta proprio a casa loro.
La gonna bianca, che
copriva una porzione delle lunghe gambe fino a metà coscia, le calze che
celavano alla vista quasi tutto il resto arrivando fin sopra il ginocchio. La
camicia candida, portava sotto il colletto un nastrino le cui estremità
scendevano quasi fino a metà busto, di color grigio fumo, segno distintivo del
quarto anno.
Infine la giacca –
anch’essa bianca – completava la divisa.
«Stavi andando in mensa?»
lo riportò alla realtà la domanda, Ada di fronte a lui. Le sorrise con
dolcezza, assumendo poi subito un’aria spensierata: «Sì, mi muovevo per tempo.
Questo posto è grande proprio come lo avevi descritto, sai?» assicurò,
vedendola ridacchiare sommessamente portando la mano a coprire educatamente la
bocca.
Sembrava felice sua
sorella, in quel luogo.
E lui non poté evitarsi di
sorridere più ampiamente, felice per lei che nel contempo si era voltata
indietro, l’espressione di chi ha dimenticato qualcosa: «Scusami se ti ho
lasciata indietro Karin.» la sentì pronunciare.
Si sporse di lato, facendo
capolino con la testa dal fianco della sorella e cercando con lo sguardo la
“Karin” a cui Ada si era rivolta.
Individuò ormai non troppo
distante da loro una ragazza che, ad occhio, sembrava avere più o meno l’età di
sua sorella: i capelli corvini, leggermente mossi verso le punte, scendevano
sciolti e tenuti in ordine da una fascia bianca, che lasciava libere solo la
frangia e alcune ciocche più corte che incorniciavano il viso dalla pelle
chiara.
Gli occhi azzurri
dall’espressione gentile erano sui due fratelli, il sorriso cortese e gentile
rivolto dapprima solo ad Ada, poi anche Oz appena quest’ultimo rientrò nel suo
campo visivo.
Sorrise più ampiamente:
«Ada, lui è il fratello di cui mi parlavi?» domandò, una nota allegra nel tono
di voce. Vide sua sorella annuire un paio di volte.
La affiancò, rivolgendosi
quindi a Karin, tendendole la mano: «Oz Bezarius.» si presentò senza bisogno
che fosse Ada a farlo per lui. La ragazza gli strinse prontamente la mano:
«Karin, Karin Hamilton. Sono la compagna di stanza di Ada.» replicò gentile.
Allontanate le rispettive mani, la moretta si rivolse ad Ada.
«Allora io ti precedo in
mensa.» disse, spostando poi lo sguardo chiaro su Oz e accennando ad un leggero
inchino con la testa: «Piacere di averti conosciuto Oz, e benvenuto a
Latowidge.» aggiunse allegra, avviandosi verso un corridoio sulla sinistra.
Lui la salutò con la mano,
stile bambino piccolo, l’espressione anche un pelo ebete; Ada sorrise: «Hai già
sistemato tutte le tue cose?» domandò, probabilmente impensierita dal fatto che
quello fosse solo il primo giorno del fratello.
Annuì, battendosi un pugno
sul petto con aria spavalda: «Ovviamente e senza intoppi!» esclamò sicuro di
sé, facendola ridere. Si avviarono dunque entrambi verso la mensa: «Il mio
compagno di stanza dice di conoscerti. Si chiama Noah Keynes.» osservò, mentre
camminavano.
Vide Ada annuire con la
coda dell’occhio: «Oh, sì. È un amico di Karin per la verità, ma qualche volta
abbiamo parlato. Non sapevo fosse il tuo compagno di stanza.» ammise. Facendo
mente locale, collegò le parole della sorella a quelle dello stesso Noah quando
aveva detto di conoscere una compagna di Ada e non proprio Ada stessa.
Annuì quindi, mentre ormai
varcavano la soglia della mensa: il vociare era concitato, mescolato a risate
qua e là. Molti posti erano vuoti, ma spiegò la cosa con la questione del
ritorno a casa del week-end di cui gli aveva già accennato Noah. Mentre
prendevano posto allo stesso tavolo – dopo essere passati a prendere ognuno il
proprio pasto al grande banco dove era possibile servirsi da soli come più si
preferiva – Oz osservò i vari tavoli che vedeva tutti intorno.
«Ada?» chiamò, mentre
ancora gli occhi chiari vagavano per la sala; la sorella, appena sedutasi di
fronte a lui e intenta a spiegare il tovagliolo in cui erano avvolte le posate,
alzò lo sguardo: «Dimmi.» replicò incuriosita.
Oz la imitò, sedendosi a
sua volta, lo sguardo che rimase sugli altri tavoli ancora un po’ fino a
spostarsi definitivamente sulla sorella maggiore: «È vero che anche Gilbert
studia qui?» chiese.
Ada sorrise raggiante:
«Allora anche tu ricordi Gilbert, Oz?» chiese entusiasta. Lui la guardò per un
attimo confuso, senza capire il perché di tanto entusiasmo. Annuì lentamente.
«Perché non dovrei?»
«No, è che quando Gilbert è
andato via avevi nove o dieci anni. Anche lui era convinto che non lo
ricordassi.» spiegò. Le era capitato di incrociare e parlare con Gilbert da
quando studiava lì, dal momento che anche lui era a Latowidge, e il ragazzo si
era detto convinto del fatto che Oz difficilmente potesse ricordarlo.
Oz arricciò appena il naso,
imbronciandosi: «Appunto, era solo sei anni fa. Non è così tanto da non
ricordarlo, Gil è stato da noi per un sacco di tempo, no?» le fece notare,
anche se effettivamente non aveva un ricordo preciso di quando fosse arrivato.
Ada sorrise, felice che lo
ricordasse: «Vero. E poi a te Gilbert piaceva così tanto, ricordo che facesti
un sacco di storie quando se ne andò!» lo prese bonariamente in giro mentre
tagliava con attenzione la carne nel proprio piatto. Oz arrossì appena,
fingendosi indignato dalla cosa – probabilmente nell’assurda speranza che così
l’imbarazzo fosse meno visibile, nella sua vecchia abitudine di esasperare
un’offesa o un’indignazione per nascondere dell’altro – ed esclamando un: «Non
è affatto vero!»
Ada, benché non avesse
certo cambiato idea si limitò a sorridere senza aggiungere altro.
Per contro, Oz sbuffò
decidendo di dedicarsi alla sua cena: conosceva la sorella abbastanza da sapere
che, qualunque cosa avesse potuto dire lui, lei non avrebbe cambiato il proprio
modo di vedere la cosa.
Osservò fuori dalla
finestra, la tenda scura appena scostata dalla mano, il tanto sufficiente a
poter guardare fuori senza dare la possibilità a chi era nel giardino del
collegio di fare lo stesso.
La stanza veniva appena
illuminata dal poco di luce che filtrava da quella piccola apertura, rimanendo
per il resto nella penombra e, in angoli particolarmente lontani dalla
finestra, nella completa oscurità.
Il respiro regolare e quasi
impercettibile risultava, dato il silenzio della camera, un rumore fin troppo
udibile; lo sguardo che fino ad allora era rimasto puntato sul giardino si
scostò, mentre la mano che lasciava andare le tende faceva sì che la stanza
sprofondasse nuovamente nel buio quasi totale.
Avanzò lentamente verso la
poltrona della stanza, sedendosi e rilassandosi contro lo schienale, entrambe
le braccia poggiate agli appositi braccioli.
Sospirò piano, quasi
stancamente.
«C’è odore di qualcosa di
nuovo.» sentì pronunciare non troppo distante da sé, da un punto
particolarmente nell’ombra alla sua sinistra.
«Così pare.» replicò
pacatamente. Un verso stizzito gli diede ad intendere che il suo interlocutore
non apprezzasse la novità, o forse la scarsa attenzione che sentiva nel tono
dell’altro. Sorrise appena, un ghigno in realtà.
«Non è cosa che ci
riguardi. Latowidge vede studenti arrivare e studenti andarsene.»
«Quello è uno studente che
non deve stare affatto qui.»
«Lo consideri una
minaccia?» lo sfotté palesemente, sebbene il tono sembrava rimanere comunque
piuttosto pacato, come poco prima. Un nuovo verso stizzito, simile ad uno
schiocco di labbra che con la scarsa illuminazione non gli era possibile
scorgere con lo sguardo.
Ma dopotutto, non aveva
bisogno di vedere. Erano compagni da molti anni; sapeva “osservare” anche solo
ascoltando.
«Non incrocerà la tua
strada. E nemmeno la mia.» assicurò, concedendosi infine di chiudere gli occhi.
Note
E il primo capitolo si
concluse *faccia ebete*
Non ho note particolari
riguardo il capitolo vero e proprio, giusto una puntualizzazione sul
personaggio di Noah.
Di mia invenzione (a scanso
di equivoci per chi, magari, non è al passo col manga), si sarà notato che
quando parla sembra quasi che io abbia scordato i termini appropriati della
lingua italiana XD
In realtà, come si capirà
poi più avanti, è un tratto “personale” di Noah stesso: si esprime con toni
molto colloquiali rispetto al resto degli studenti che si trovano a Latowidge.
Se vi torna più semplice,
potete considerarlo come uno che parla lo slang, ecco XD
Disclaimer: il personaggi di Marcus e Clifton Lafayette sono di
invenzione dell’autrice Yoko891
Disclaimer: il personaggi di Marcus e Clifton Lafayette sono di
invenzione dell’autrice Yoko891.
Note: ringrazio Yoko per avermi permesso di utilizzare
Marcus. Al contrario di Clifton (che viene e verrà solo nominato per fare
numero XP), Marcus si rendeva necessario poiché il personaggio di Noah nasce
strettamente collegato a lui. Grazie Yoko <3
La
nostra “ordinaria amministrazione” è…
La cena si era svolta più o
meno con una certa tranquillità.
Senza tornare sul discorso
di Gilbert, Ada gli aveva indicato di tanto in tanto alcuni studenti che
conosceva: come poté notare Oz stesso, la maggior parte erano dello stesso anno
della sorella. Fra loro c'era stata Karin Hamilton, la ragazza incrociata
proprio fuori dalla mensa prima di cena: era seduta al tavolo con un'altra
ragazza dai capelli biondi e corti e l'aria irriverente - che Ada gli indicò come
Sally McFinch - e un ragazzo dall'aria pacata e il sorriso gentile, i capelli
scuri e abbastanza lunghi, tenuti in ordine da un nastro blu, che per un
istante aveva scambiato per il fratello di Karin.
Ad un'occhiata più
approfondita, insieme al nome suggeritogli dalla sorella - Clifton Lafayette,
dunque un cognome diverso da quello di Karin - Oz aveva escluso quella
possibilità. Il ragazzo in special modo, aveva detto Ada, era uno studente
piuttosto brillante del suo anno.
L'attenzione di Oz, mentre
lasciava vagare lo sguardo per la sala che andava lentamente svuotandosi, si
soffermò anche su Noah che stava uscendo e che gli rivolse un saluto veloce e
un cenno che stava a segnalare un "ci vediamo dopo".
«Ada, il capo dormitorio
cambia per ogni anno?» domandò incuriosito, cercando quasi di individuare a
occhio il loro - cosa impossibile anche con un numero di studenti ridotto.
Ada sorseggiò l'acqua, per
poi dissentire col capo: «No, è lo stesso per tutti gli anni. C'è anche un vice
capo dormitorio, comunque, in modo che quando sono assenti gli uni, ci siano
gli altri.» spiegò.
Oz annuì, prendendo il
proprio vassoio e allungando una mano verso quello della sorella, aspettando
che lei glielo porgesse per portarlo a posto insieme al proprio. Quando lo ebbe
riconsegnato e fu tornato al tavolo, Ada lo affiancò ed uscirono insieme dalla
mensa.
Camminando per il giardino,
approfittando di avere ancora tempo prima del coprifuoco imposto dal
regolamento, Ada azzardò finalmente alla domanda che aveva evitato di fare appena
si erano visti.
«Oz... come sta papà?»
chiese, il tono quasi timoroso eppure era palese che cercasse di mantenersi
rassicurante, e gentile. Lui sorrise apertamente: «Lavora un sacco come al
solito! Nostro padre non cambia mai, non preoccuparti.» assicurò ridacchiando,
le braccia incrociate dietro la testa mentre camminavano.
«E anche tu stai bene?»
quasi parve incalzarlo. Lui spostò lo sguardo su di lei, una sfumatura di
perplessità nelle iridi chiare. Infine, le sorrise con dolcezza: «Sì. Una
scuola vale l'altra, e poi così posso controllare la mia sorellina, no?»
scherzò su, riprendendo ad avanzare dopo aver rallentato appena alla sua
domanda. Ada non lo affiancò subito.
Lo seguì inizialmente solo
con lo sguardo, preoccupata e dispiaciuta: suo fratello mentiva così
frequentemente e con così tanta naturalezza, eppure lo capiva ugualmente, se ne
accorgeva come se di mentire non fosse mai stato davvero capace.
Sperava che almeno una
delle due risposte non fosse una bugia, che almeno loro padre stesse davvero
bene; e sperava anche che Latowidge avrebbe aiutato a far sì che anche Oz
migliorasse, e non solo per rassicurare lei.
Lo vide voltarsi e
chiamarla, il tono allegro, esortandola a sbrigarsi o l'avrebbe lasciata
indietro: scosse appena la testa, accantonando per un attimo quelle
preoccupazioni e affiancandolo dopo averlo raggiunto nuovamente.
Rientrò in dormitorio, dopo
essersi salutato con Ada all'ingresso di quello femminile dove l’aveva
accompagnata. Avviandosi alle scale aveva trovato più di qualche studente in
sala comune, a chiacchierare per lo più. Si era anche intrattenuto per un po',
fermato da un ragazzo: capelli scuri dal taglio corto e appena spettinato, gli
occhi anch'essi neri, dall'espressione piuttosto apatica.
Si era presentato come Aedan
Shaye, del terzo anno: «Tu sei il nuovo studente, Oz Bezarius.» aveva detto con
un tono tale che al biondo era parso che più che una domanda, fosse
un'affermazione. Aveva comunque annuito, inclinando appena il capo di lato,
incuriosito dal suo essersi avvicinato. L'altro non mutò più di tanto
espressione: «Il capo dormitorio non c'è, ma tornerà lunedì per le lezioni.
Quindi da lunedì sera, devi scegliere un giorno per incontrarlo.» disse.
Sembrava che il suo compito
fosse semplicemente riportare un'informazione affidata da un altro, a giudicare
dal coinvolgimento della sua voce, praticamente inesistente.
«Anche se non ho nulla da
chiedere?» domandò Oz. Dopotutto il regolamento era spiegato nei dettagli su
quei fogli che gli avevano dato nel pomeriggio. Cercò di anticipare la risposta
dell'altro dal suo sguardo o da un eventuale cambiamento d'espressione, che
però non ci fu.
«Come ti pare. Io dovevo
solo riportare il messaggio.» replicò nell'unico modo che Oz non avrebbe potuto
prevedere in alcun modo. Chiunque si sarebbe aspettato che l'altro rispondesse
un secco "sì, devi", o che magari gli assicurasse che non era
obbligato a farlo subito, ma che prima o poi sarebbe stato il caso che si
facesse almeno vedere.
Invece, una replica
totalmente neutra come l'espressione, Aedan si congedò con un cenno leggero del
capo senza aggiungere altro, né aspettare la sua risposta.
Lo vide andare in direzione
delle poltroncine, prendendo posto ad una libera accanto ad un compagno -
probabilmente dello stesso anno - che ridacchiò, rendendo partecipe l’altro del
discorso nato con altri studenti.
Ancora un po' perplesso, Oz
si era dunque davvero deciso ad andare in stanza e aveva quindi salito la
scalinata, seguendo il percorso fatto con Noah e raggiungendo la porta giusta.
Non fece in tempo ad
aprire, comunque, che per poco l’uscio non si aprì direttamente contro la sua
faccia. Lo schivò per un pelo, indietreggiando e sbilanciandosi un poco.
Vide uscirne un ragazzo che
gli ricordò in qualche modo l'uomo che lo aveva accolto nel giardino in quel
modo strambo, al suo arrivo: i capelli di un biondo chiarissimo da sembrare
quasi bianchi, ciò che colpì Oz furono gli occhi di ghiaccio.
Non solo per il colore
chiaro, ma anche per lo sguardo freddo che li animava: indossava abiti pratici,
ma aveva un'eleganza innata. Non era difficile immaginare che fosse di ottima
famiglia e abituato ad una certa compostezza. Lo stesso viso aveva qualcosa di
attraente malgrado l'espressione non fosse proprio l'emblema della cordialità
in quel momento.
A seguire uscì Noah, il
sorrisetto colpevole sulle labbra: «Dai, Marcus, non te la prendere.» cercò di
abbonirlo il rosso, ridacchiando piano.
«Non me la sono presa, le
tue cazzate restano le tue, non fraintendere ogni mio strafottuto
atteggiamento.» sbottò quello, la grazia della sua figura completamente
spazzata via dal momento stesso in cui aveva aperto bocca.
Oz sbatté un paio di volte
le palpebre, sorpreso: aveva la stessa finezza di un giardiniere piuttosto
rozzo, quel tipo. Noah, però, non solo non sembrava offeso ma rideva
apertamente, quasi felice per quella reazione.
«Va bene, va bene. Mi
auguri la buonanotte prima di andartene?» chiese, ed Oz si chiese seriamente se
il suo sogno proibito quella sera non fosse farsi prendere a pedate dal ragazzo
chiamato Marcus. Quest'ultimo sbuffò sonoramente, avvicinandosi e
scompigliandogli appena i capelli: «Buonanotte.» sbottò di malavoglia.
«Buonanotte anche a te,
Marcus.»
«Grazie a quelli che non mi
fai pestare sarà una notte di merda, evita di prendermi per il culo Noah.»
ribatté, la speranza di un qualche barlume di finezza ormai completamente
sparita.
Allontanandosi, Marcus posò
lo sguardo per qualche attimo su Oz, che ricambiò fra il sorpreso e il confuso.
Non gli rivolse la parola, comunque, avviandosi dalla parte opposta del
corridoio.
Oz spostò lo sguardo su
Noah alla ricerca di una spiegazione - o della certezza che tutto ciò fosse in
qualche modo normale - e il compagno di stanza gli sorrise rassicurante,
facendogli cenno di seguirlo dentro.
Una volta entrato e aver
richiuso la porta alle proprie spalle, notò che Noah era già in pigiama; lo
vide buttarsi con aria beata sul proprio letto, affondando inizialmente la
faccia nel cuscino come un ragazzino. Rimase in quella posizione per qualche
tempo, ridacchiando a tratti per chissà quale pensiero - probabilmente,
immaginò Oz, riguardava quel tipo che se ne era andato.
Approfittò comunque di quei
minuti per cambiarsi a sua volta, tirando fuori il pigiama ed indossandolo.
Quando anche lui si buttò di peso sul letto, rilassandosi, Noah sembrava
essersi ripreso psicologicamente abbastanza da articolare una spiegazione.
«Quello è uno del terzo
anno. Marcus dico.» se ne uscì, non l'inizio migliore per capire ma sempre un
inizio. Oz si limitò soltanto ad annuire, incalzandolo a continuare.
«E' un po' sboccato,
l'avrai notato, ma non è cattivo.» assicurò.
Oz sorrise: «Siete amici da
tanto?» domandò, deducendolo dalla totale fiducia che traspariva dal tono
dell'altro. Noah lo guardò per un attimo confuso, poi ridacchiò.
«Marcus è mio fratello.»
disse lasciando di stucco Oz: «Fratellastro a dir la verità, e sua madre e mio
padre neanche sono sposati ancora.» chiarì, spiegandosi meglio.
Oz ci pensò su un attimo:
«Non avrei immaginato che potessi avere un fratello, o fratellastro.» ammise.
Noah lo osservò in
silenzio, il sorriso strafottente che si faceva largo sul viso: «Hai presente
che mio padre è un fotografo, no?» se ne uscì, apparentemente senza nessuna
connessione al resto del discorso. Ad ogni modo Oz fece segno di sì con la
testa.
«Sì, me l'hai detto oggi.»
«E hai presente che questa
è una scuola di ricchi, sì?»
«Beh, sì, direi di sì.»
«Ho l'aria di un figlio di
papà, Oz?»
«Nemmeno di striscio ad
essere sinceri.»
«Ecco!» esclamò l'altro,
come se finalmente avessero centrato il punto, assumendo poi un'espressione
tranquilla, di chi sta per osservare casualmente che forse domani il tempo sarà
nuvoloso: «La madre di Marcus è la metà ricca della famiglia. Papà e io siamo
la metà stupida.» concluse, la faccia da schiaffi che aveva assunto un'aria
troppo ebete per sperare di non scoppiare a ridere.
Parlava della ricchezza e
della stupidità come le due metà di un DNA, una cosa che capita e allora la
prendi con filosofia.
Oz ebbe la sua conferma: il
motivo per cui lui sarebbe andato d'accordo con Noah, era che quest'ultimo era
uno dalla mente decisamente semplice.
In altre parole, era assai
probabile che condividessero la stessa dose si stupidità - in senso buono. Più
o meno.
Scoppiarono a ridere
entrambi, quasi in contemporanea; quando riuscirono a smettere, si guardarono
per un attimo: «Appena possiamo te lo presento meglio.» aggiunse, come se non
avessero mai interrotto il discorso. Oz annuì, rimanendo qualche momento in
silenzio.
Quando si decise a parlare,
aveva lo sguardo rivolto al soffitto, sdraiato sul letto a pancia in su:
«Conosci molti studenti, anche degli altri anni?» domandò, ma sembrava in
realtà una premessa alla domanda vera e propria.
Noah, probabilmente
incuriosito da quella richiesta, annuì: «Non tutti, ma una buona parte.
Soprattutto quelli del terzo e del quarto, perché sto spesso con Marcus o con
Karin.» spiegò.
Oz soppesò qualche istante
se proseguire o meno con la domanda vera e propria: «Conosci un Gilbert?»
Noah lo guardò praticamente
allucinato: «Mica dirai Gilbert Nightray?» se ne uscì, stupito; uno stupore che
Oz non capì, mentre confermava i sospetti di Noah.
«Sì. Intendo Gilbert
Nightray, perché?» chiese, istintivamente sulla difensiva senza nemmeno
accorgersene. L'altro sospirò, come se la sapesse lunga: «Beh, non ci ho mai
parlato di persona. Ma è abbastanza famoso, o meglio lo è suo fratello
Vincent.» assicurò.
Oz, assunse un'espressione
confusa: che lui sapesse, Gilbert non aveva mai avuto fratelli. A meno che,
adottato dai Nightray, non ne avesse acquisiti. Noah parve intuire quella
confusione nell'altro e si limitò a continuare senza chiedere nulla.
«Non so tantissimo su di
loro, ma Gilbert non parla con tante persone. L'ho visto dare davvero
confidenza solo ai parenti che studiano qui, oppure a tua sorella Ada. Non so
se è carattere, tipo che è riservato. Non mi sembra malaccio, pare uno a
posto.» spiegò, tornando con lo sguardo - che si era posato sul soffitto quasi
ad imitazione di Oz - sul biondo: «Perché ti interessa tanto?» chiese infine.
Oz, che aveva ascoltato
quasi pendendo dalle sue labbra, non rispose subito.
«I parenti che studiano
qui?» ripeté, perplesso: «Perché, tutto il casato Nightray è a Latowidge?»
aggiunse, involontariamente ironico.
Noah ridacchiò,
sistemandosi su un fianco, la mano destra a sorreggere il volto: «Più o meno.
Cioè, se oltre ai due fratelli conti pure due delle guardie del corpo di
famiglia e la cugina, sono un bel po' rispetto agli altri che al massimo hanno
un fratello o una sorella, come me e te. Però la cugina mi ricordo che è una
cosa a parte, ha anche il cognome diverso. So che non vanno tanto d'accordo. E
anche se le due guardie del corpo rispondono all'iscrizione con il nome dei
Nightray, tutti sanno che non sono i figli del capofamiglia.» concluse.
Oz, a quel punto, si prese
qualche istante per riordinare le idee, rimanendo in silenzio.
Quando si voltò per
chiedere altro, dopo un bel po' che non parlavano, lo notò: Noah dormiva della
grossa, probabilmente addormentatosi senza che lui se ne accorgesse nemmeno.
Sorrise divertito;
voltandosi su un fianco per mettersi a dormire, si lasciò sfuggire una risata
leggera quando - mettendosi sotto le coperte - notò Noah sdraiato
scompostamente sopra le sue, l'espressione ebete e beata mentre dormiva a bocca
aperta mugugnando qualcosa di indistinto.
«…z? …Oz?» sentì
chiamare, senza la minima intenzione di aprire gli occhi.
Erano così… pesanti. E
lui così stanco, spossato.
«Lascia che riposi. La…
è stata…» cosa? Cosa era stato come?
Quella voce era nuova e
familiare al tempo stesso.
Quella voce era…
«Bella addormentata, ci
svegliamo o no?»
Aprì gli occhi di scatto,
sussultando appena. La prima cosa che rientrò nel suo campo visivo, fu la
faccia sorridente e dallo sguardo iperattivo già di prima mattina di Noah.
Mugugnò qualcosa di
insensato, tentando di girarsi dall’altra parte. Sentì ridacchiare, poco prima
che coperta e lenzuolo venissero tirati via dandogli una spiacevole sensazione
di improvviso cambio di temperatura.
Aprì gli occhi di
malavoglia, cercando con lo sguardo la causa dell'assenza di quel tepore così
piacevole: ai piedi del letto, Noah era di spalle di fronte all'armadio aperto
di Oz.
Recuperò qualcosa appeso
alla stampella e gliela lanciò al volo, sorridente: il biondo la prese più o
meno fra le mani, notando che si trattava dei propri pantaloni. Li osservò
perplesso mentre una camicia pulita e semplice gli arrivava più meno in testa
coprendogli in parte la visuale.
La tirò via, tornando
sull'altro che aveva entrambe le mani sui fianchi e in quel momento ricordava
tragicamente una mamma - o una zia piuttosto ficcanaso.
«Dai, muoviti! E' già tardi
per la colazione sai?» gli fece presente. Ancora mezzo assonnato,
stropicciandosi un occhio e sbadigliando, Oz riuscì a mettere insieme qualche
parola: «Mi sveglierai così tutte le mattine?» chiese a metà fra lo scherzoso e
il preoccupato.
Noah ridacchiò: «Solo nei
week-end probabilmente. Quando abbiamo lezione non mi sveglio io, figurati se
sveglio te!» gli fece presente.
Oz ridacchiò: «E con le
lezioni?»
«Ovvio. Se non mi sveglio,
vuol dire che era destino che io continuassi a dormire! E chi sono io per
oppormi al mio destino?» recitò falsamente melodrammatico, chiudendo le ante
dell'armadio del biondo: «Forza, hai cinque minuti per essere lavato e vestito.
Ho così fame che mi mangerò i tuoi vestiti se non mi fai fare colazione.»
osservò, lo stomaco che gorgogliava quasi a voler sottolineare che lo avrebbe
fatto sul serio.
Oz, recuperati vestiti e la
roba pulita da mettere, ormai sulla soglia del bagno si voltò con aria
eloquente e falsamente arrogante: «Anziché mirare ai miei vestiti potresti
anche scendere in mensa, sai?» ironizzò.
Noah lo guardò con
espressione di chi sa e si diverte alle spalle di uno che non può
nemmeno immaginare cosa lo attende: «Tu non hai mai visto la colazione a
Latowidge, perciò sii grato al fratellone Noah che si immola per proteggerti.»
sottolineò.
«Proteggermi? Non ti
affiderei una piantina!» disse con falsa aria da innocentino.
Noah gli tirò un calzino
appallottolato che Oz evitò chiudendosi velocemente alle spalle la porta del
bagno.
Una decina di minuti dopo -
neanche Noah lo avesse cronometrato - uscivano dal dormitorio maschile e
attraversavano il giardino fino all'edificio centrale e alla mensa.
«Allora, questo grande
pericolo?» lo incalzò Oz, il tono palesemente scettico. Noah lo osservò con un
sorrisetto furbo: «Oz, che esperienza hai con le donne?» se ne uscì senza un
nesso.
Oz guardò davanti a sé, un
po' a disagio. Insomma, se si parlava di come far piacere ad una donna dal punto
di vista del Galateo, si poteva anche fare - non che ricordasse più di quattro
lezioni ma, ehi!, qualcosa la sapeva!
Ma l'esperienza in altri
campi si limitava a quando era un poppante che, come tutti i fratelli minori,
ciarlava a proposito di voler sposare la propria sorella - ciò che, quindi,
fanno quasi tutti i bambini.
«Perché, mi farai lezione
su come diventare un perfetto gigolò?» ironizzò anche per togliersi d'impaccio.
Noah ridacchiò: «Non penso ti sarei molto d'aiuto su quello, ma c'è una cosa
che posso insegnarti sulle ragazze di questa scuola.» assicurò, ormai entrambi
sulla soglia della mensa.
Si fermò lì, indicando
nella sala: «Prova a dare un'occhiata verso i tavoli in fondo.» gli consigliò.
Oz fece dunque capolino con la testa all'interno della sala, affacciandosi per
poter vedere: non ci volle molto per capire a cosa si riferisse il compagno.
In fondo alla sala, appena
staccati dal resto dei tavoli, ce ne erano alcuni in disparte: occupati per lo
più da adulti, di loro Oz fu in grado di riconoscere solo lo strano tipo con la
bambolina di pezza sulla spalla che aveva incontrato al suo arrivo. Al tavolo
con lui stava un uomo che sembrava forse più giovane di un paio d'anni, ma non
di più.
Capelli castani dal taglio
abbastanza sbarazzino, aveva l'aria di uno che si sta rassegnando al fatto che
la vocazione della sua vita è fare il maestro d'asilo - il cui unico bambino è
proprio l'attuale compagno di tavolo.
Occhiali dalla montatura
fina che al momento stava pulendo con l'apposito panno, indossava gli stessi
abiti che aveva l'albino. Il quale, al momento, era appena piegato sul tavolo -
quasi del tutto sgombrato - e fissava intensamente una pallina.
Sì. Proprio una pallina,
neanche questa fosse un uccellino che dovesse spiccare il volo.
Oz cercò di capire cosa mai
potesse aspettarsi dal piccolo oggetto, che vide l'uomo avvicinare la mano
piano, quasi aspettandosi che la pallina scappasse spaventata, dandogli... un
colpetto veloce.
Quella volò via, prendendo
in pieno la testa di un uomo al tavolo accanto che dava loro le spalle. Nel
silenzio della sala - cosa innaturale e che si era formato da un po', ora che
ci faceva caso - vide la persona colpita alzarsi con calma.
Con molta calma.
E in seguito voltarsi
velocemente mentre un libro prendeva il volo - e l'albino lo evitava con
nonchalance e un sorrisetto da far innervosire anche un santo.
«Xerxes Break la mia
pazienza ha un limite.» tuonò glaciale l'uomo lanciatore di libri - così lo
aveva soprannominato Oz, in attesa di conoscerne il nome - guardando male
l'altro che aveva assunto un'aria divertita degna della migliore faccia da
schiaffi che Oz avesse mai visto.
«Quanto sei noioso Rufy.»
si lamentò l'uomo chiamato Break, mentre il biondo temeva seriamente di vedere
l'altro azzannarlo alla giugulare entro breve.
Ma, come si suol dire, il
peggio doveva ancora venire.
In quel momento in cui la
tensione si poteva quasi tagliare con un coltello tanto era palpabile, un solo
ed unico suono riecheggiò nella sala sulla quale era caduto il silenzio.
«Aaaw, litigano di nuovo!»
fu la frase pronunciata con un tono che fu un misto tra una malsana adorazione
per la cosa e uno smielato entusiasmo.
Se non fosse stato così
lontano, Oz avrebbe giurato di aver visto l'uomo che aveva lanciato il libro
con la stessa espressione di chi si chiede silenziosamente per quale motivo Dio
lo odia a tal punto da fargli penare tutto quello.
Mentre Xerxes Break se la
rideva di gusto canticchiando: «Guarda, Rufy, le tue ammiratrici ti amano ~!»
Oz pensò che forse era
solidale a quel tale "Rufy". Break, seppure a suo modo divertente,
sembrava uno di quelli che ti rendono la vita un Inferno.
Non importa come.
Ce la fanno comunque.
Sentì Noah ridacchiare al
suo fianco, mentre lo afferrava per un braccio e lo tirava verso di sé. Oz non
fece in tempo ad alzare lo sguardo interrogativo verso di lui, che uno
scalpiccio proveniente dall'ingresso attirò la sua attenzione: un gruppo di
studentesse appartenenti probabilmente ai primi due anni, si affrettava verso
la mensa.
Oz lasciò che passassero,
tirato di lato dal compagno di stanza; quando furono passate, sentì Noah
sbuffare divertito: «Ti presento il fan club del corpo docenti. Non sai quanto
possono essere letali.» scherzò su, divertito come chi non si stanca mai di
vedere una stessa scena, per quanto ripetitiva.
Oz lo fissò perplesso:
«Stai scherzando?» chiese, anche se sembrava che nemmeno lui riuscisse a
trattenere una risata.
Noah, varcando la soglia,
si limitò a dire: «Aspetta di sentirle sospirare a lezione. Hanno una fantasia
tale che il repertorio di frasi stucchevoli non si esaurisce mai.» assicurò
ridendo e avanzando verso il banco per scegliere cosa mangiare a colazione.
Oz scosse la testa ridendo,
seguendolo nella stessa direzione.
Dopo la colazione si erano
divisi.
Noah aveva accennato ad una
ricerca da finire per il lunedì successivo - o meglio, al dover chiedere a
Karin se poteva aiutarlo a cominciarla dall'inizio, visto che tanto per fare
una cosa diversa si era ridotto all'ultimo - dunque si era avviato verso la
biblioteca.
Così, Oz aveva optato per
farsi un giro e magari vedere se incrociava Gilbert: certo, era probabile che
l'altro fosse tornato a casa con i fratelli. E, di certo, l'avrebbe potuto
scoprire chiedendo in segreteria o magari controllando in dormitorio.
Ma non aveva idea di quale
fosse la stanza dell'altro, né voleva sembrare una brutta copia di un maniaco
ossessivo: non aveva nulla di così vitale da chiedergli. Oltretutto, erano sei
anni che non si incrociavano nemmeno; non sapeva neanche esattamente di cosa parlare.
I ricordi di quando Gilbert era a casa Bazarius erano piuttosto vaghi, e lui
era un bambino praticamente.
Ed inoltre... molte cose
erano diverse, allora.
«Ehi, tu, hai intenzione di
stare lì ancora per molto o posso sperare che tu tolga il tuo sudicio piede
dalla mia tracolla in tempi umani?!» sentì dire, la voce che proveniva dal
basso.
Abbassò lo sguardo sul
terreno del giardino, l'erba che profumava dell'odore tipico di quando viene
appena tagliata.
Seduta in terra, la schiena
contro il tronco dell'albero e lo sguardo puntato su di lui, stava una ragazza
minuta ma dall'espressione palesemente seccata.
I capelli - la prima cosa
che notò dopo lo sguardo dal colore ametista e soprattutto indispettito - erano
castani scuri e parecchio lunghi, legati in due codini alti che le donavano
un'aria sbarazzina e graziosa. Non indossava la divisa di Latowidge: il suo
posto era preso da una camicetta bianca e senza particolari ricami e una gonna
nera che sfiorava il ginocchio.
Oz sbatté un paio di volte
le palpebre.
«Cos'è, oltre che cafone
pure cieco?!» sbottò quella e, finalmente, il biondo individuò il proprio piede
su parte della sua borsa a tracolla. Lo alzò subito, indietreggiando di un paio
di passi e abbozzando un sorrisetto impacciato, la mano che andava a grattare
appena la nuca.
«Mi spiace, non l'avevo
vista.» ammise, il tono a mo di ulteriore scusa. Quella sbuffò, riprendendo tra
le mani il libro poggiato sulle gambe senza una parola.
Oz ridacchiò: era certo di
averla vista imbronciarsi.
Si sedette sull'erba, poco
oltre la borsa; lei spostò lo sguardo lateralmente, su di lui: «Beh?»
«Posso farti compagnia?»
«Non la voglio la
compagnia.»
«D'accordo.» replicò Oz con
tono allegro senza muoversi di un millimetro. Lei sbuffò sonoramente, senza
preoccuparsi certo di nasconderglielo, tutt'altro.
«Cosa vuoi?» lo incalzò,
quasi fosse scontato che volesse qualcosa e che fosse intenzionata a capire
cosa fosse al più presto per poterselo togliere di torno in fretta.
Oz ridacchiò: «Cosa leggi?»
domandò senza rispondere alla sua domanda.
Lei, perplessa
probabilmente dal suo essere così ottuso, spostò lo sguardo sul libro per poi
riportarlo su di lui, l'aria beffarda: «Come occultare il cadavere di quello
che ti si siede vicino con l'intenzione di romperti le scatole.» decretò.
Oz rise, sinceramente
divertito, mentre la ragazza iniziava a maturare l'idea che quel tipo non fosse
tanto normale, o che magari avesse uno spiccato gusto del macabro.
Il biondo, per contro, gli
porse la mano con la chiara intenzione di fare conoscenza: «Oz Bezarius.» si
presentò.
Lei parve sorpresa, ma dopo
un leggero tentennamento strinse la mano - forse ancora sperava che,
accontentandolo, poi si eclissasse: «Alice Lewis.» replicò, burbera. L'altro,
stringendole la mano minuta di rimando, si ritrovò a pensare che fosse carina
malgrado il modo di parlare o l'espressione che ti rivolgeva.
Forse, si disse,
semplicemente non era abituata a fare amicizia?
«Come Alice nel Paese delle
Meraviglie?» chiese - che domanda idiota e scontata.
Anche lei parve trovarla
particolarmente stupida: «Quanti imbecilli ancora me lo chiederanno per il
resto della vita?» sbottò infatti. Oz non parve offeso, però.
«Ma Alice di Carroll è un
bel personaggio.» le fece notare.
Lei alzò il libro,
rivelando proprio quello di cui stava parlando l'altro: «Alice di Carroll è
semplicemente fuori di testa.» commentò.
Oz rise, indicando la
copertina: «Però ti piace no? Altrimenti non lo leggeresti.» osservò acuto,
troppo per i gusti della ragazza. Con un leggero rossore ad imporporarle le
guance, spostò lo sguardo sulle pagine del libro a cui teneva il segno: «Tsk,
rompiscatole.»
«Alice non trattarmi
maleee!» si lamentò falsamente, prolungando la "e" finale come un
bambino.
«Zitto, servo, mi
deconcentri!»
«Ma come servo?»
«Ho deciso che sei il mio
servo, se non ti sta bene levati! Mi stai disturbando!» ribatté lei innervosita
da quel tipo assurdo che di tanta gente proprio lei doveva prendere di mira
quella mattina.
Lui rise: «Oh beh. Se servo è il
modo con cui Alice dice "amico", va bene!» esclamò stupidamente,
rimanendole vicino e passando il resto della mattinata in sua compagnia.
Avevano pranzato insieme,
unendosi al tavolo di Noah e Marcus - che, sebbene fosse sembrato meno nervoso
della sera prima, non era certo meno sboccato, o così Oz aveva notato.
Nel pomeriggio si era
invece separato da Alice; sua sorella Ada si era offerta di mostrargli almeno
come raggiungere i posti principali della scuola, come la biblioteca o
l'infermeria.
Oz aveva però assicurato
alla maggiore di non doversi preoccupare certo delle aule delle sue lezioni: la
comodità di avere un compagno di stanza dello stesso anno era anche quella.
Per i primi giorni avrebbe
seguito Noah per i corridoi molto in stile cagnolino, e alla fine di certo
avrebbe memorizzato i diversi percorsi per conto suo.
Percorrevano ora proprio
uno dei corridoi per raggiungere l'atrio, chiacchierando: «Ah, aspetta.» lo
richiamò lei indicandogli una porta che stavano oltrepassando proprio in quel
momento.
«Cos'è?» domandò lui
osservandola incuriosito.
«La stanza dove si
riuniscono i capo dormitori, i vice capo dormitori e i capoclasse per discutere
di quello che riguarda gli studenti. So che devi ancora parlare con lo studente
a capo del dormitorio maschile, quindi penso che domani lo troverai qui.»
assicurò.
Annuì, riprendendo a
camminare ed informandosi riguardo che tipo fosse questo studente di cui non
solo Ada, ma anche Aedan del terzo anno gli aveva in qualche modo presentato
come qualcuno indubbiamente rigido e severo, seppur disponibile.
Mentre ormai svoltavano
entrambi l'angolo, addentrandosi in un corridoio che si incrociava a quello, la
porta che ai fratelli Bezarius era parsa chiusa, venne aperta ulteriormente,
rivelandosi quindi già schiusa in precedenza.
«Dunque sarebbe lui.» commentò,
atono. Le braccia incrociate al petto, la figura slanciata era poggiata con la
schiena contro il muro, poco distante dalla porta che aveva aperto.
«Sì, si tratta del fratello
di Ada Bezarius, che è nel mio dormitorio.» asserì pacatamente una voce femminile,
le labbra incurvate in un sorriso rilassato, lo sguardo sull'altro.
Il viso voltato
lateralmente e lo sguardo ancora sul corridoio ormai deserto, il ragazzo annuì
impercettibilmente: «Cosa consigli di fare?»
«Per il momento, credo tu
dovresti solamente conoscerlo come tutti gli altri, fratello. Fintanto che
Aedan lo tiene d'occhio, non pensi sia sufficiente?» replicò, nel tono una
sfumatura di bonario divertimento.
Spostò lo sguardo su di
lei, annuendo: «Darò disposizioni ad Aedan perché continui ad occuparsene.»
concluse quindi, aprendo del tutto la porta.
«Credo sia la scelta più
giusta.» assicurò lei.
Quando raggiunsero l'atrio,
la prima cosa che notarono sia Ada che Oz fu un vociare concitato dovuto ad
alcuni studenti che occupavano l'ampio spazio che ospitava l'entrata
dell'edificio.
Sembrava che la loro
attenzione si fosse concentrata principalmente verso il centro, appena dopo il
portone. Incuriosito Oz si avvicinò al gruppo di studenti più vicino, che aveva
l'aria divertita.
Ada lo imitò, riconoscendo
poco lontano Karin, alla quale si rivolse: «Karin, che succede?» domandò, una
nota di preoccupazione nella voce.
L'amica, voltandosi e
riconoscendola ridacchiò sommessamente: «Nulla di allarmante, Ada. I fratelli
Nightray sono appena rientrati con gli studenti andati via per il week-end.»
spiegò con semplicità.
Oz portò istintivamente lo
sguardo verso il centro, dove anche gli occhi di tutti gli altri erano fermi.
«Ti era stato chiesto di
tornare a casa, perché continui a fare di testa tua?»
«Non stressarmi, cugino,
hai fatto il tuo compitino da bravo bambino, non vedo perché mai dovrei tornare
in una casa non mia!»
«Perché per i tuoi comodi
sono altre persone a finire di mezzo, mocciosa!»
«Mocciosa a chi,
sottospecie di cane ammaestrato?!»
«Chi sarebbe il cane
ammaestrato?!»
«Ti do due indizi: ce l'ho
davanti e si chiama Gilbert Nightray!»
«Se sei rimasta alla stessa
civilizzazione dell'età della pietra e non riconosci l'educazione non è certo
colpa mia!»
Oz fissò la scena di un
Gilbert molto diverso da come lo ricordava - l'aspetto fisico poteva essere
simile, con i semplici cambiamenti canonici della crescita, ma il carattere era
senza dubbio più irascibile di quanto lo ricordasse - e di una Alice che, a
quel punto, era chiaro fosse la cugina dei Nightray di cui gli aveva accennato
Noah.
A guardarli discutere così
animatamente - con il ricordo, seppur vago, di un Gilbert timido e piagnucolone
- Oz non sapeva se essere sorpreso, o se ridere di gusto.
Certamente non si era
aspettato di essere chiamato in ballo, né che il primo incontro con Gilbert
sarebbe avvenuto in maniera tanto rocambolesca.
Nei suoi piani, quella
mattina, non aveva considerato Alice evidentemente.
Adocchiandolo chissà come
fra i tanti studenti, la moretta aveva puntato il dito contro di lui: «Servo,
vieni a dare una lezione a questo coso!» aveva quindi esclamato, facendo
voltare in sua direzione non solo il "coso" - ossia Gilbert - ma
anche buona parte dei presenti.
Quanto ad Oz, lui si era
limitato ad indicare perplesso se stesso con il dito, come se non fosse sicuro
di aver capito.
Riportando lo sguardo su di
loro, incrociò quello di Gilbert: gli occhi dorati sembravano aver appena visto
un fantasma. O qualcuno che, poco ma sicuro, non si aspettavano di vedere,
soprattutto non così presto.
«...Oz?» chiamò, il tono
basso, l'espressione stupita.
Note e ringraziamenti
Per quanto riguarda questo
capitolo, l'unica spiegazione che serve credo sia riguardo Alice XD
Per il cognome, ho dovuto
inventarne uno e mi è venuto spontaneo dargli il cognome che coincide con il
nome dell'autore del libro "Alice in Wonderland" (Lewis Carroll)
peraltro citato nello stesso capitolo.
La parentela con Gilbert...
non ho proprio resistito XD
Dovendo e volendo ricreare
l'atmosfera idiota nei loro litigi, ho optato per renderli cugini per poter far
sì che le regole di buona educazione che (teoricamente) dovrebbero aleggiare a
Latowidge non intaccassero il rapporto dei due.
Spero non vi incasini
troppo XP
Innanzitutto un
ringraziamento generale a chi ha letto (commentando e non) il primo capitolo.
Vi ringrazio <3
In particolare, rispondo
alle recensioni di:
LitaChan: ti ringrazio, e sono felice di sapere che mi seguirai
X3 Per quanto riguarda l’ambiente scolastico, senza fare spoiler ti dico solo:
tienilo bene d’occhio XD
artemis89: wow, addirittura catturato, grazie *-* Il nemico
comune X°D Vedremo quanto impiegheranno prima di perire contro la scuola,
allora. Quanto a Noah, non si sa cosa combinerà, ma la certezza è questa:
saranno guai, visto il soggetto XD
Doremichan: è una liberazione sapere che la descrizione iniziale
di Latowidge abbia dato un’idea di come è fatta la scuola. Essendo io una che
predilige l’introspezione alla descrizione, su quest’ultima devo sempre fare il
doppio dell’attenzione XD
Sono contenta che Noah
abbia riscosso tanto successo, cosa che non mi aspettavo affatto sinceramente.
Inizialmente Gilbert non
doveva nemmeno apparire in questo capitolo, ma c’è stato un cambio di programma
XP
Yoko891: riguardo le virgole ne abbiamo già parlato in altra
sede, quindi non mi ripeto anche qui xD
Già, i pochi personaggi per
una trama scolastica sono l’unica vera pecca di questo adattamento. Ma suvvia,
i nuovi personaggi tu già li conosci XD *indica Noah, Aedan, Karin e compagnia
bella*
Break è inquietante, ma
tutti gli altri docenti (o quasi) non sono da meno *muore*
Per Glen e Jack, penso ci
vorrà ancora un po’, ma tu vivi dei miei spoiler, quindi… :3
makotochan: ed ecco il secondo capitolo che attendevi
scodinzolante! E non è quel Noah, GYA. XD
Nel leggere la tua
recensione ammetto che la prima cosa che ho pensato è stata: ah. Ma perché, io
cambio stile da oneshot a longfic?
Forse perché sono l’autrice
non noto il cambio di stile? XD Comunque, spero che anche questo capitolo ti
sia piaciuto. Grazie di seguirmi <3
ShAiW: Ed eccoti accontentata, è apparso anche Gil, per gli
altri Nightray boys ci vorrà ancora qualche capitolo perché appaiano tutti XD
Eeeeh, i due tipi che
parlano saranno avvolti dal mistero ancora per un po’: l’unica cosa che posso
dire, è che non sono gli stessi due ignoti di questo capitolo XP
Bellissimo il tuo “OzGil
OzGil OzGil OzGil” XDD Ora si sono incrociati, staremo a vedere u.u
Per contro, Oz non ne aveva
una meno sorpresa, malgrado fosse perfettamente a conoscenza del fatto che
Gilbert era lì a Latowidge.
Alzò la mano, come a fargli
segno che lo aveva visto e riconosciuto, il sorriso leggero sulle labbra.
«Il mio servo è venduto.»
sentì commentare ad Alice, grato alla schiettezza dell'altra che lo aveva
appena riscosso dalla matassa informe e fin troppo intricata dei propri
pensieri.
Rise, avvicinandosi di
qualche passo: «Scusami, scusami Alice!» canticchiò andando in suo soccorso - o
fingendo di farlo, visto che non ce ne era reale bisogno.
Lei, imbronciata e con le
braccia incrociate al petto, voltò il viso dall'altra parte ostentando una
certa offesa. Oz ridacchiò appena, sentendosi addosso lo sguardo di Gilbert.
Alzò il proprio, dunque,
per cercare di capire cosa ci fosse di strano in lui: poteva spiegarsi la
sorpresa iniziale, ma Gilbert sembrava di fronte al suo peggiore incubo -
certo, da piccolo ammetteva di avere un tantino esagerato quando
giocavano insieme, ma...
«Tutto ok, Gil?» chiese, il
diminutivo che gli sfuggì fra le labbra prima che potesse ragionarci o
fermarsi. Era così istintivo e suonava così familiare che, realizzò, anche
sforzandosi non avrebbe saputo chiamarlo in nessun altro modo.
Fin dai suoi primi ricordi
Gilbert era sempre "Gil".
Lo vide abbozzare un
sorriso leggero: «E' tutto a posto, solo... è davvero una sorpresa.» ammise.
Gilbert sembrava qualcuno
che non era tanto stupito dalla presenza dell'altro in quanto studente di
Latowidge, ma una persona perplessa che non trovava proponibile il fatto stesso
che fosse lì. Pur formulando questo pensiero, Oz scosse la testa: se c'era
qualcuno a cui non voleva fare un torto attribuendogli pensieri certamente non
suoi, era proprio l'altro ragazzo che ora stava nuovamente discutendo con
Alice.
«Comunque il discorso è
chiuso.» sentì dire alla ragazza, mentre Gilbert assumeva di nuovo l'aria
seccata e irritata di prima: «Intanto smetti di chiamarlo "servo".»
«Non vedo perché non dovrei
chiamarlo con il suo nome, tsk!»
«Perché è persino parte di
una famiglia più importante della nostra e della tua, quindi non credo proprio
dovresti, mocciosa viziata!»
«Ma sta zitto, Monnalisa!»
Oz, in tutto quello, si
sentì picchiettare su una spalla; voltandosi, vide Noah che gli faceva cenno di
allontanarsi e seguirlo, dirigendosi verso Marcus poco distante.
Incerto, alternò lo sguardo
fra Noah e Gilbert ancora vicino ad Alice. Lui - probabilmente avendo visto la
manovra del compagno del biondo - annuì impercettibilmente mentre Alice tentava
ben poco elegantemente di piazzargli un calcio negli stinchi.
Oz ridacchiò appena,
annuendo di rimando e seguendo quindi Noah. Raggiunsero insieme Marcus, in
disparte e poggiato contro la parete. Quando li notò avvicinarsi, posò lo
sguardo chiaro su Noah - Oz notò che sembrava seguirne i movimenti in ogni
istante e con estrema naturalezza, come se fosse un compito assolto per tanto
tempo e che, semplicemente, proseguiva anche in quel momento.
Poi, come se avesse
constatato che era tutto nella norma, lo spostò inaspettatamente su Oz; il
biondo soppesò la sensazione che gli dava. Non era esattamente a suo agio, ma
nemmeno quel tipo di soggezione rivolta ad una persona più grande o che inquieta
particolarmente.
D'altra parte, non era da
lui pensare così tanto solo per rivolgere la parola a qualcuno. Tese la mano,
con più naturalezza possibile: «Ciao, l'altra sera eri un po' di fretta,
perciò... Oz Bezarius.» si presentò.
Marcus parve studiarne la
mano con aria neutra; non strinse quella del biondo, ma rispose con un atono:
«Marcus Wellesday-Keynes.»
Pareva una prassi di cui
non gli interessava granché.
Noah stroncò sul nascere il
silenzio imbarazzato che minacciava di crearsi da subito: «Mamma mia che casino
eh? Scusa se t'ho tirato via, Oz, ma meglio che non ti conoscano tutti come
quello che fa il servo di Lewis sai?» ironizzò, prendendolo bonariamente in
giro.
Oz annuì divertito, mentre
Noah si rivolgeva a Marcus, pur mantenendo ancora lo sguardo sulla scena:
«Certo che oggi era pure più movimentato del solito, eh Marcus?»
«Quando mai i Nightray non
fanno casino.» commentò, facendo ridere il fratellastro di gusto: «Però i tipi
come Alice dovrebbero piacerti, no?»
«Convinto tu.» replicò
laconico. Oz notò che Marcus, malgrado il linguaggio più adatto ad uno
stalliere che non ad un figlio di buona famiglia, sembrava utilizzarlo solo
quando proprio era furioso, come la sera prima.
Altro aspetto curioso, era
che non importava quante parolacce dispensasse al mondo: Noah sembrava sempre
scambiarli per complimenti - come facesse era un mistero.
Proprio il compagno di
stanza, ora, batteva una pacca sulla spalla del fratellastro: «Un modo carino
di dire che ti sta simpatica, stai migliorando sai?» lo prese bonariamente in
giro, l'aria spensierata come se non avesse un solo problema al mondo.
Marcus non replicò nulla,
lasciandolo alle sue convinzioni. L'altro, quindi, si rivolse ad Oz con un che
di soddisfatto nel sorriso che gli rivolse: «Possiamo abbandonarti con la
certezza che non ti ficchi nei guai, Oz?» chiese divertito.
Il biondo finse di pensarci
su: «Mah, non lo so... e se mi annoio? Qualcosa dovrò pur fare per occupare il
tempo.» finse di osservare casualmente, gli occhi chiari sull'amico. Noah gli
fece l'occhiolino con aria complice: «Impara, Oz. Si fa casino davvero solo
quando il capo dormitorio non c'è. E probabilmente è già tornato anche lui come
il tuo amico.» gli fece notare, voltandosi e incamminandosi per il corridoio,
levando solo la mano in aria e agitandola appena come saluto.
Marcus si era avviato quasi
subito dietro di lui senza una parola.
Sospirò, stiracchiandosi:
era presto per rientrare già in dormitorio, e supponeva che non fosse una
grande idea andare a cercare Alice o Gilbert al momento. Ada l’aveva persa di
vista nella confusione, invece.
«Oz Bezarius?» sentì
chiamare, voltandosi sorpreso verso la voce alle proprie spalle.
La figura che vide era
sconosciuta: si trattava di uno studente, palesemente più grande. E, Oz ne fu
subito certo, di un altro Paese date le diverse peculiarità dell’aspetto.
I capelli erano chiari,
identici a quelli di Xerxes Break tanto che, se solo i lineamenti non fossero
stati totalmente diversi, avrebbe potuto facilmente pensare ad un parente dato
il colore raro. Leggermente lunghi sia per quanto riguardava la frangia che la
nuca, erano completamente lisci. Gli occhi, appena coperti da qualche ciuffo,
erano dorati e dall’espressione di serio distacco.
In parte, l’aria che aveva
gli ricordava proprio Marcus: un’eleganza innata in qualsiasi gesto, anche il
più semplice come muovere qualche passo verso di lui.
Indossava la divisa del
collegio in perfetto ordine e il nastro nero che si intravedeva sotto il
colletto della camicia lo identificava come uno studente del quinto anno.
Anche se Oz aveva
istintivamente annuito, comunque, nel passargli accanto quel ragazzo –
parecchio più alto di lui, dal fisico slanciato e ben allenato – pronunciò un
leggero: «Scusami un momento.» passando oltre.
Poco dopo fu chiaro che si
stesse dirigendo proprio verso l’atrio; Oz lo seguì, indietro di qualche passo.
Osservò i primi studenti notarlo e farsi più calmi, spostandosi appena. Quando
il ragazzo più grande fu vicino al centro, occhieggiò Alice e Gilbert:
«Nightray e Lewis, non è questo il luogo per dei litigi. Tornate nei vostri
dormitori con calma, per favore.» disse, il tono che non era di rimprovero o
con inflessioni particolari, ma possedeva quella naturale autorità che –
seppure non palesava gli ordini come tali – ti impediva di ribattere comunque.
Il biondo, dalla sua
posizione, intravide sia Gilbert che Alice annuire. Il ragazzo annuì appena
rivolgendosi al resto degli studenti: «E voi, tornate pure alle vostre
attività.» disse in aggiunta, mentre già alcuni scemavano in diverse direzioni.
Dopo qualche istante speso
a controllare che la tranquillità fosse stata ripristinata, Oz lo vide
dirigersi nuovamente verso di lui, fino a raggiungerlo.
«Scusami l’attesa.» disse
solamente, lo sguardo fermo su di lui. Oz scosse la testa, una sensazione
strana nei suoi confronti a cui non sapeva dare un nome preciso. L’altro non
parve notarlo, e se lo aveva fatto non lo dava comunque a vedere. Tese la mano
verso il più piccolo.
«Sirjan Kolstoj. Sono il
capo dormitorio.» si presentò, tono cortese ma non eccessivamente coinvolto.
Dal nome, non fu difficile
confermare la deduzione avuta: certamente quel ragazzo era straniero. Ad ogni
modo, Oz gli strinse prontamente la mano, seppure leggermente impacciato:
«Piacere, Oz Bezarius.» disse.
Sirjan annuì appena: «Aedan
ha avuto l’impressione che non sapessi quando fosse più opportuno incontrarci.
Ho pensato di venire io direttamente.» rivelò.
Prima che Oz potesse
aggiungere qualcosa, Sirjan gli indicò l’uscita dell’edificio centrale, ormai
quasi del tutto sgombra, con un gesto elegante della mano: «Vogliamo uscire e
parlare con calma?» chiese, ma Oz aveva la sensazione, mentre lo seguiva, che
anche volendo non avrebbe potuto o saputo rifiutare.
«E quindi ti ha
praticamente rapito.» osservò tranquillamente Noah, mentre cercava di dare un
senso all’accoppiata “fascia” e “capelli”. Lotta personale che – come aveva
detto ad Oz – affrontava eroicamente ogni mattina. In quel momento, mentre si
guardava con aria critica, parlava ad un Oz in bagno che presumibilmente si
stava lavando i denti.
Almeno a giudicare
dall’incomprensibile: “e Fihrian mi fa riahompanato in dormithohio”, che Noah
con prontezza di spirito aveva tradotto in un “e Sirjan mi ha riaccompagnato in
dormitorio”, pregando Oz di parlare solo quando capire cosa diceva non avrebbe
comportato la conoscenza di lingue morte.
Quando finalmente Oz fu
uscito dal bagno, Noah stava finendo di trafficare con i libri della scrivania
del biondo. Quest’ultimo lo guardò senza capite, mentre l’altro gli metteva
praticamente in mano una borsa.
«E questa?» chiese Oz,
muovendo qualche passo per seguire l’altro già alla porta; aprendola, Noah gli
rivolse un sorriso furbo: «La borsa con i libri che ti servono per oggi. Ma
vedi di non abituarti a questo trattamento, eh?» lo prese in giro uscendo.
Mentre avanzavano per i
corridoi, Noah aveva insistito per non dire nulla sulla prima lezione della
giornata. Anche a mensa, dove avevano mangiato al tavolo con sua sorella Ada,
Alice e Marcus, Noah aveva fatto in modo che nessuno dicesse nulla –
convincendo Ada ed Alice. Quanto a Marcus, lui aveva mangiato senza parlare
molto.
Alla fine, Oz si era dovuto
arrendere al fatto che sarebbe stata una lezione a sorpresa: l’unica cosa che
Noah gli aveva concesso era stato dirgli la materia poco prima che lui, Oz ed
Alice raggiungessero l’aula. Il compagno infatti, aveva ridacchiato con un:
«Spero che ti piaccia la matematica, Oz!» aveva esclamato, varcando la soglia.
L’unico motivo per il quale
Oz non lo aveva seguito subito, era stato che Alice lo aveva trattenuto
tirandolo appena per la manica; voltandosi, le aveva sorriso istintivamente:
«Cosa c’è?» chiese, incuriosito dal gesto più che altro.
Anche se perplesso, Oz
scosse la testa: «No, soltanto Gil.» assicurò. Non seppe dirlo con certezza, ma
l’espressione di Alice a seguito della sua risposta era stata un misto tra il
seccato e il… sollevato, sì.
«Bene.» aveva decretato,
raggiungendo a sua volta l’ingresso dell’aula: «Gilbert è tonto, quindi mi sta
bene. Ma stai lontano da Vincent!» decise. Oz fece per ribattere, ma lei puntò
il dito contro di lui, quasi con fare accusatorio.
«Guarda che è un ordine,
eh?!» ribadì, per poi entrare in classe, lasciando Oz poco distante dalla porta
e abbastanza confuso. Non era la prima a dargli l’idea che Vincent Nightray –
che lui non aveva presente neanche visivamente oltretutto – fosse uno dal quale
bisognasse stare lontani.
O quantomeno, sembrava che
per lui – Oz – dovesse essere quasi una regola in aggiunta alle altre della
scuola che valevano per tutti. Comunque, si limitò a liquidare il tutto con un
sospiro leggero ed una scrollata di spalle, entrando finalmente anche lui in
aula.
Ampia e con i banchi doppi
perfettamente allineati, la stanza era… oh sì, non c’era altra spiegazione.
Quella era sicuramente, senza alcun dubbio, la sala di ritrovo di una setta o
qualcosa di simile.
L’aria di adorazione che si
elevava quasi al soffitto – e dire che bassissimo non era – sembrava esattamente
quella che un branco di adepti della tal religione potrebbe riservare al suo
solo ed unico Dio.
Ebbene: sostituiamo le
studentesse di sesso femminile – escluse un paio, forse, tra le quali militava
Alice – ai fedeli adepti e un uomo che mangia un lecca lecca seduto sulla
cattedra con le gambe accavallate al presunto dio.
Perfetto.
«Benvenuto alla prima di
tante lezioni del professor Xerxes.» sentì mormorare da Noah, che notò seduto
poco distante. Con la mano gli indicava il posto vuoto accanto a sé, che Oz
velocemente occupò. Il professor Xerxes – altresì conosciuto come “il lancia
palline” – sembrava completamente a suo agio, nonché abituato a quella scena.
«Ti avevo vagamente
accennato quanto questi fan club dei vari docenti fossero strabilianti, amico
mio?» sentì osservare a Noah in un modo che ricordava un vecchietto che parla
dei bei tempi andati e di quanto le nuove generazioni siano cambiate.
Non poté non ridere, Oz,
mentre il docente riportava la classe all’ordine – no. Non è una battuta.
«Bene, bene, abbiamo anche
un nuovo arrivo che Keynes si è preoccupato di rapire di già!» canticchiò
allegro. Noah alzò il pugno in aria, non certo per segnalare al docente la sua
collocazione nell’aula, quanto più come un gesto di esultanza: «Ovvio, prof,
tutti i migliori passano da me!» scherzò su, nel tono la consapevolezza di
poterselo permettere con Break.
Quello infatti non lo
richiamò, né altro: scese con un gesto suo malgrado elegante dalla cattedra,
aggirandola per raggiungere la lavagna dove scrisse con caratteri enormi
“Insiemi”.
Noah sbuffò divertito.
Una voce nell’aula, alla
loro sinistra e avanti di qualche banco richiamò quasi annoiata: «Quello è il
programma del primo, signore.» mentre urlettini di sottofondo che pronunciavano
qualcosa come “awww, ha sbagliato di nuovo” arrivavano dai primissimi banchi.
Oz pensò che fosse meglio –
o più salutare? – concentrarsi sulla persona che aveva parlato, ma qualcosa lo
distrasse nuovamente dal suo intento. Al richiamo del compagno – la voce gli
era parsa palesemente maschile – il docente aveva cancellato la lavagna
fischiettando ed ora sulla superficie scura il gesso recitava “Funzioni”.
E un oggetto non
identificato, che poi si rivelò essere un astuccio o simili, era volato contro
Break.
Accompagnato dalla soave
voce che era stato impossibile non riconoscere come quella di Alice: «Imbecille
di uno pseudo professore quello è il programma di terzo, non farci perdere
tempo!» aveva sbottato seccata e irritata per quella che, probabilmente, era
una scena che si ripeteva ogni mattina.
Mentre un coro di voci
offese per tale oltraggio si levava dai primi banchi, Oz si era voltato verso
Noah: «Fa sempre così?» chiese.
«Oh, non ha ancora dato
nemmeno un decimo del meglio di sé, ti assicuro.» disse l’altro senza riuscire
a smettere di ridacchiare sommessamente.
Oz fece appena in tempo a
voltarsi per portare lo sguardo sul docente, per vedere che sì. La bambolina di
dubbio gusto ed origine che dal primo incontro con Break era stata sulla spalla
dell’uomo, parlava.
Oh, se parlava.
E sembrava avere un
repertorio non indifferente di prese per i fondelli oltretutto.
Proprio ora, infatti, aveva
un interessante botta e risposta con il docente: «La piccola Alice si è
arrabbiata di nuovo.» aveva osservato quello casualmente, nemmeno fosse una
novità.
«Alice è sgraziata,
sgraziata, sgraziataaaa! Resterà senza marito, Break?» chiese impertinente la
bambolina.
Vide il docente assumere
un’aria quasi scioccata – ma l’ombra del sorrisetto che persino Oz riusciva a
scorgere, gli suggerì che no. Non era scioccato per nulla.
«Suvvia, Emily.» si rivolse
alla bambola con aria di rimprovero: «Non sta bene distruggere le illusioni di
una giovane fanciulla quando è quasi in età da marito.» le fece presente.
Osservò Alice.
Tornò su Emily.
Sorrise: «Oh beh, magari
quando sono proprio dei casi tanto disperati…» ammise, lo stesso tono casuale
mentre Alice già inveiva e faceva per raggiungere la cattedra per mettergli le
mani addosso – e no. Non per chissà quali intenti osceni da quartiere a luci rosse.
«Eeeh, mi sa che pure oggi
facciamo poco e niente!» sentì gongolare Noah al suo fianco.
Se tutte le nozioni erano
su quel genere sia in quanto a difficoltà che a mole di lavoro, Oz supponeva di
cominciare ad intravedere i tanto decantati lati positivi di Latowidge.
Alla lezione – potevano
davvero definirla tale? – del professore Xerxes, ne erano seguite altre due:
Chimica, a cura del docente Daniel Wayne, e Filosofia affidata ad Alexis
Coleman.
Mai Oz aveva visto due
persone tanto diverse l’una dall’altra a distanza di sole due ore: Daniel Wayne
era stato – nel suo sostituirsi a Break per le proprie ore di lezione – come
essere colpiti in pieno da un cubetto di grandine particolarmente grande.
Oppure, avere uno scontro frontale con un iceberg; sì, il secondo esempio
calzava di più.
Indubbiamente di
bell’aspetto: capelli scuri, neri, dal taglio corto e scalato, appena
disordinato forse. Occhi grigi come il cielo in tempesta, l’espressione più
cortese che riservavano era l’arroganza di chi si astiene dal dire “tu, comune
mortale, non osare respirare la mia stessa aria”, solamente perché il docente
sapeva che sarebbe stato preso per matto.
Anche lui munito del suo
stuolo di fan, il primo “aww” che era volato era stato liquidato con un gelido:
«Un altro verso di dubbia origine e chi lo ha fatto arriverà ad odiare le
reazioni chimiche grazie al sottoscritto.»
Estremamente giovane, era
stato un ex studente prodigio, ed ecco spiegato perché a soli ventiquattro anni
fosse già professore di un istituto come Latowidge.
Dopo le due ore di chimica
dove nemmeno Noah aveva fatto casino, Alexis Coleman aveva dato il cambio al
collega. Capelli biondi e sguardo ceruleo capace di far sciogliere anche la
neve in pieno inverno, era entrato canticchiando una canzoncina tragicamente
simile al famoso motivetto: “London bridge is fallin’ down”, ma con parole
diverse tra le quali Oz aveva sentito più o meno distintamente “pallina”, “vola
e va” e “Rufus”.
Il che, aveva osservato,
lasciava supporre che la canzoncina in questione parlasse dell’episodio a cui
aveva assistito alla colazione del giorno prima.
Dirigendosi a mensa per la
pausa pranzo, Noah aveva insistito col non volergli rivelare nulla degli altri
docenti: «Che gusto c’è se ti rovino la sorpresa?» aveva obiettato al broncio
del biondo.
Così avevano mangiato tutti
insieme – lui, Noah, Marcus e Ada. Alice, invece, chissà dov’era finita – e nel
pomeriggio molti avevano deviato verso la biblioteca, come Noah. Ada, invece,
aveva assicurato di avere del tempo e di non avere urgenza di studiare,
essendosi avvantaggiata in vista dell’arrivo del fratello lì a scuola.
Così, si erano attardati in
mensa, preferendo non uscire in giardino – le nuvole grigie, aumentate già
nella tarda mattinata, minacciavano ora pioggia.
«Ti trovi bene, fratellino?»
chiese Ada con tono pacato, una vena di dolcezza nella voce. Oz, che
picchiettava distrattamente con un dito sul tavolo, annuì sorridente.
«Sì, sì. Noah fa da guida,
con la differenza che rispetto a chi lo fa per mestiere, lui è molto più divertente
quando racconta le cose.» assicurò. Ada rise, una risata allegra.
«Noah è sempre stato così
anche quando Karin me lo ha presentato la prima volta, l’anno scorso.»
raccontò, catturando quasi nell’immediato l’attenzione del fratello: «Noah è
qui dal primo anno?» chiese infatti Oz.
La sorella annuì: «Sì. È
arrivato qui l’anno scorso, regolarmente. Ha sempre avuto l’atteggiamento
spensierato di adesso. È una persona che sa metterti facilmente a tuo agio. Io
non l’ho mai visto giù di morale.» ammise, rallegrandosene.
Oz sorrise come un genitore
orgoglioso del proprio figlio e dei suoi risultati. La sorella proseguì: «Però
non ho saputo subito che Marcus fosse il fratello. Sembra che Noah lo presenti
come tale solo quando la conversazione lo rende necessario.» osservò,
pensierosa. Oz tacque qualche istante, l’espressione simile a quella della
sorella.
«Forse,» azzardò: «è perché
non sono proprio fratelli. A me ha detto che è il fratellastro, e che i
genitori non sono ancora sposati.» ammise.
Ada annuì: «Già, magari è
per questo. Non lo sapevo, quindi mi sembrava strano, ma così ha più senso.»
aggiunse con un sorriso. Il fratello, in ogni caso, preferì non fare altre
domande riguardo il compagno di stanza.
Noah non aveva mai
accennato a nessun problema riguardo l’unione di suo padre e la madre di
Marcus; e, ora che ci faceva caso, non aveva nemmeno fatto domande ad Oz sulla
propria famiglia.
Era stato come se l’unica
informazione utile ed interessante fosse che aveva una sorella e che, sapendolo
già , non ci fosse stato bisogno di fargli altre domande.
Forse, si era detto, non
c’è davvero un motivo per cui non lo presenta subito come fratello.
Se anche c’era, comunque,
sentiva che forzarlo a spiegarglielo con domande pressanti era un torto che per
nessuno motivo avrebbe voluto rivolgere a qualcuno. Men che meno a Noah.
«Fratello?» sentì la
voce di Ada, appena ovattata.
Cercava quasi di
allontanarsene ma, al tempo stesso, qualcosa gli diceva di tendere a quella
voce. Tuttavia, le sue gambe non davano cenno di volersi muovere.
Né le sue braccia.
Né alcuna parte del
corpo che sentiva intorpidito.
«Gli dia tempo,
signorina. I… stanno ancora…»
Cosa? Chi stava facendo
ancora cosa?
«Oz?»
Era Ada, sì. Senza alcun
dubbio.
«Oz…?»
Piangeva?
«Oz?! Fratello!»
Perché non riusciva ad
alzarsi da lì?
Perché Ada…
Si sentì scuotere, anche
abbastanza forte.
Intontito dalla classica e
familiare sensazione di torpore del primo risveglio, Oz sbatté un paio di volte
le palpebre, mettendo a fuoco l’anonima superficie in legno di un tavolo.
Il viso, prima poggiato
alle braccia incrociate sul suddetto ripiano, si alzò appena cercando di
focalizzare dove si trovasse.
Ma, anziché trovare il
resto di una stanza – qualunque essa fosse – incontrò un altro viso dall’aria
preoccupata. Non ci volle molto perché lo identificasse con quello di Gilbert.
Quasi riscosso dal sonno
solo in quel momento, sbatté nuovamente le palpebre come se lo avesse
accarezzato il dubbio che l’altro fosse qualcosa di molto simile ad un
miraggio.
Quando fu ormai ovvio che non
era così, poté lasciare spazio alla sorpresa: «Gil?» chiamò, il tono
leggermente basso e arrochito per il sonnellino fuori programma che aveva
fatto.
L’altro, sospirò
palesemente sollevato: «Come pensavo stavi solo dormendo.» mormorò, la
preoccupazione che sfumava velocemente in quell’unica frase. Oz lo osservò
interrogativamente.
Aveva pensato che
instaurare un discorso con Gilbert sarebbe stato molto più complicato, in
qualche modo: invece sembrava che, da casa Bezarius, l’altro non se ne fosse
mai andato.
Sorrise con la sua solita
indole spensierata – a volte anche piuttosto fuori luogo, come non mancavano di
ricordargli: «È successo qualcosa?» chiese, inclinando il capo lateralmente, di
poco.
Gilbert lo osservò come chi
è fortemente combattuto tra il prenderti a sberle e mettersi lì con la santa
pazienza a spiegare un concetto affrontato almeno dieci volte: «Ho incrociato
Ada entrando in mensa, che mi ha detto che ti eri addormentato al tavolo. Ha
detto di non volerti svegliare e mi ha chiesto se potevo farlo io quando fossi
andato via.» spiegò sbrigativo.
Oz lo osservava senza
cogliere il motivo di quella preoccupazione e Gilbert parve leggergli nel
pensiero.
«Ti agitavi nel sonno.
Parecchio.» chiarì in un borbottio burbero.
Oz, l’espressione inizialmente
sorpresa, sorrise apertamente: «Gil si è preoccupato per me!» canticchiò,
allegro. Vedere Gilbert che arrossiva e mutava la sua espressione da burbera ad
agitata, gli suggerì che in fondo, era sempre lo stesso.
Anche se il cognome era un
altro, e non viveva più con loro.
Sorrise – istintivamente –
con una certa nostalgia a quella considerazione ora così evidente davanti ai
suoi occhi. Decise di essere magnanimo e cavarlo d’impaccio: ma solo in
occasione dell’essersi ritrovati. Poi poteva tornare a divertirsi con le sue
reazioni esagerate – chissà se vedendo i gatti piangeva ancora!
«Ti ringrazio. Non ricordo
benissimo il sogno, ma…» lasciò in sospeso.
Vecchio vizio, vecchia
abitudine.
Di nuovo bugie.
Istintive, naturali.
«Non lo ricordi?» lo
interrogò quasi sospettoso Gilbert.
Scosse la testa con un
sorriso allegro: «Molto vagamente.»
Mezza verità.
«Solo le sensazioni,
forse.»
Verità; come il sentirsi
soffocare, il sentirsi impossibilitati a muoversi.
Fermi per l’ennesima volta
ad un punto di non ritorno; forse, non voleva tornare indietro. Probabilmente –
ma cosa gliene dava la certezza, poi? – sapeva cosa ci avrebbe trovato, indietro.
Sicuramente non gli sarebbe
piaciuto.
Sicuramente, non gli
piaceva già ora.
«Sai, sono rimasto un po’
sorpreso, Gil.» ammise, dondolando appena le gambe nell’ormai solito gesto
meccanico. Se indicasse nervosismo o l’incapacità di stare fermo, non era dato
saperlo.
«Per cosa? Per Alice?»
chiese automaticamente l’altro. Oz scosse la testa ridendo: «No, non proprio,
anche se non pensavo ora avessi tanti parenti!» ammise palesemente divertito.
Ed era quasi certo di aver
intravisto Gilbert imbronciarsi, anche se solo per un attimo.
«Comunque no, non proprio
per Alice.» aggiunse, riprendendo il discorso. Toccò a Gilbert guardarlo
confuso, stavolta.
«Allora cosa?» lo incalzò
infatti.
«Gil, tu… ricordavi ancora
il mio nome?» chiese, quasi ingenuamente, lo sguardo sincero – e Dio solo
sapeva se questo non era raro. Non guardava Gilbert, vergognandosi di quella
domanda e della debolezza che, con essa, si era concesso. Proprio lui che
cercava di non mostrarne: almeno non dove Ada potesse vederle, e
preoccuparsene.
Ma Gilbert, che chissà
perché e in quale modo aveva sempre avuto la risposta adatta quando ancora
viveva a casa Bezarius, non fece domande. Né si mostrò perplesso da una richiesta
oggettivamente così stupida, o di poca importanza.
Sorrise semplicemente:
«Certamente. Anche tu ricordavi il mio, no?» replicò come se fosse la cosa più
ovvia del mondo, una delle rare promesse che fai da bambino e riesci a
ricordare, mentre tutte le altre cadono inesorabilmente nel dimenticatoio.
Ridacchiò, il fare
impacciato nascosto dietro la risata leggera.
«Oh, Bezarius junior.»
sentì dire, poco distante da sé senza aspettarselo affatto. Motivo per il quale
il sussulto, seppur lievissimo, c’era stato.
Voltandosi appena, incrociò
una figura poggiata al muro e vicina al loro tavolo: chissà da quanto era lì,
poi. Lo osservò come se cercasse nel registro della memoria dove lo aveva già
visto.
Capelli biondi, lunghi e
tenuti comunque sciolti, malgrado forse non fosse granché pratico: la frangia,
leggermente lunga, sfiorava gli occhi senza tuttavia coprirli.
Fu impossibile non
concentrarsi su di essi: dissimili, di diverso colore. Dorato uno, carminio
l’altro.
La sorpresa che si dipinse
sul volto di Oz fu sincera davvero, stavolta, mentre l’altro si avvicinava fino
a giungere alle spalle di Gilbert. Poggiò una mano sul tavolo, con eleganza,
sorridendo proprio al biondo.
Non gli porse l’altra,
tuttavia.
«Vincent Nightray. Non ti
spiacerà se ti rubo mio fratello, vero?»
Note e ringraziamenti
Note particolari non ne ho,
se non che forse ci sarà qualche errore non corretto.
Ho voluto lasciarvi il
terzo capitolo perché domani vado in vacanza (finalmente) e non tornerò prima
del 9 agosto ^^
Passiamo ora ai
ringraziamenti.
Makotochan: drogata! XD come già ti accennai, il rapporto che lega
Noah e Oz per ora (o sospetto, tragicamente, anche in futuro) è la stupidità
intrinseca. Non escludo che possa unirli qualcos’altro in futuro, ma… Marcus è
amabile, lo so, ringraziamo tutti Yoko per averlo creato <3 *ama*
Eccoti accontentata,
comunque: Vince è apparso! XD
Doremichan: non abituatevi alla velocità di postaggio, è un
incantesimo che non so quanto durerà! XD *anche se questo, forse, non dovrebbe
dirlo l’autrice* Carissima, è sempre un piacere leggerti fra le recensioni
<3
Sei il mio personale
riscontro sull’IC, che ho sempre il dubbio di non mantenere del tutto, o non
mantenere affatto. Come Alice, che devo dire è stata istintiva, più che studiata
XP
Per quanto riguarda la fama
di Vincent, come anche il perché Oz debba essere tenuto sotto controllo,
verranno spiegate ma penso non nei prossimi capitoli. Ma chissà, magari mi
prende la follia XD
LitaChan: ti ringrazio dei complimenti <3 Come ho già detto,
per Marcus ringraziamo Yoko. Quando a Noah, continuo a stupirmi del suo
successo XD *fa un metaforico pat pat a Noah* In virtù di questo, però, ho
accarezzato l’idea di dargli un ruolo che non sia la semplice guida/compagno di
stanza di Oz.
Quindi chissà, vedremo ^-^
ShAiW: santo cielo creo dipendenza XD
Spero seriamente che il
capitolo sia stato abbastanza interessante anche se, da autrice cattiva, non ho
approfondito molto questo loro primo incontro XP
Quanto a Noah e Oz, sì,
decisamente solo da amici: in caso contrario, temo Oz morirebbe presto per mano
di terze persone XD
Ti prego, non unirti al
Docenti Fan Club di questo capitolo: sono odiose! Magari creane un altro ù.ù
Yoko891: Questo capitolo deve averti ispirata particolarmente
<- sinceramente parlando: manco un po’ XD
Sarà che ci sto facendo
attenzione (se questo terzo sarà uno scatafascio, sai in quali condizioni
versavo mentre scrivevo e correggevo XD). Sono contenta che Alice sia in un
buon IC <3
Per gli autografi, suvvia:
lo sai che per te ho sempre tempo u.u
Un ringraziamento speciale,
infine, a quella santa donna della mia docente di giapponese.
Sensei, se non ci fossi tu
a farmi lezione in facoltà con la marionetta, come avrei mai potuto giostrarmi
Emily a lezione? <33
«Vincent Nightray. Non ti spiacerà
se ti rubo m io fratello, vero?»
Oz lo osservò confuso, ma
annuì istintivamente. Vide l’altro sorridere, un incurvarsi di labbra che non
sapeva definire con esattezza: se fosse di scherno – sembrava la cosa più probabile
– o semplicemente divertito, non era possibile dirlo.
Gilbert aveva inclinato
appena il capo indietro, pur non avendo realmente bisogno di guardare l’altro
per riconoscerlo. Assunse un’espressione indecifrabile: «Vince…?» chiamò, per
attirarne l’attenzione.
Vincent abbassò lo sguardo,
il sorriso sempre sulle labbra: «Gil, puoi venire con me?» disse, senza dare
ulteriori spiegazioni.
Oz – non ne era certo –
notò una sfumatura di panico, quasi, nello sguardo di Gilbert. La stessa
sfumatura che, qualunque cosa la causasse, lo aveva portato ad alzarsi con un
movimento appena frettoloso, quasi non volesse far aspettare troppo il minore.
«Sì, va bene, arrivo
subito.» mormorò, fissando l’altro che tornò con lo sguardo su Oz: «Piacere di
averti conosciuto, ci si vede per i corridoi.» disse con semplicità, avviandosi
alla porta con passo tranquillo, fermandosi poco oltre la sogli in attesa del
moro.
L’attenzione di Oz fu
riportata su Gilbert proprio da quest’ultimo: «Scusalo. Probabilmente avevo
promesso di aiutarlo in qualcosa e l’ho dimenticato.» buttò lì con un
sorrisetto appena impacciato. Oz annuì, l’incurvarsi di labbra più ampio e
allegro dell’amico: «Non scappi mica dalla scuola.» lo prese bonariamente in
giro.
Gilbert annuì
impercettibilmente, per poi avviarsi alla porta e raggiungere Vincent.
Oz li osservò allontanarsi
finché non sparirono dalla sua vista uscendo definitivamente dalla mensa; con
un sospiro leggero – e forse ancora mezzo assonnato – si alzò stiracchiandosi,
decidendosi ad uscire anche lui: per quanto fosse una fregatura, i compiti non
si facevano da soli.
Ed era meglio che li
consegnasse fatti, a Break. Sia mai che inventasse metodi di tortura, nel tempo
libero.
Dopo la prima settimana di
studi in quella scuola, pur dovendo ancora incrociare uno o due docenti del suo
corso a causa di un paio di lezioni saltate, Oz era certo di una cosa:
all’ottima preparazione dei docenti, lì, si accostava una follia dilagante.
Passi per il professor
Xerxes, che faceva lezione con una marionetta sulla spalla, tirava gessi con il
preciso intento di prenderti in pieno e insinuava sottilmente dalla cosa
più banale alla più infame delle calunnie.
Gli uomini cinici, al
mondo, esistono; così si era detto Oz.
Passi per un uomo dal
sorriso gentile e il temperamento costantemente allegro come il professor
Coleman: certo, cantava che il ponte di Londra cadeva affondando con la stessa
allegria di un bambino a cui piazzano davanti le caramelle, ma in fondo non era
male. Almeno insegnava senza traumatizzarti l’esistenza – se escludiamo,
appunto, la “canzoncina del buongiorno”, come l’aveva chiamata Noah.
E sì, c’era Daniel Wayne,
che se avesse potuto avrebbe volentieri dato fuoco a tutti loro ogni volta che
volava un fiato fuori posto – di solito, aveva comunque notato Oz, si
arrabbiava quando erano apprezzamenti nei suoi confronti. Chissà perché, poi.
Il povero Reim Lunettes
sembrava un uomo costretto a lavorare là dentro perché – era l’unica
spiegazione – nella vita precedente doveva aver accumulato una quantità tale di
peccati che glieli facevano scontare tutti ora e con gli interessi. In effetti,
il docente di Letteratura era sicuramente il più normale ed incline alla
professione di insegnante. Non odiava gli studenti, non minacciava di
scioglierli con l’acido – non che fosse accaduto, ma ormai Oz si aspettava di
tutto – ed era cortese ogni volta che un alunno aveva una difficoltà.
Di Charlotte Baskerville,
poteva dire poco: era arrivato con un abbondante se non catastrofico ritardo
alla sua lezione e il loro massimo dialogo era stato un “mi scusi il ritardo”,
la cui frase di risposta era stata un “prego, si accomodi pure in biblioteca e
alla prossima lezione”.
Forse giusto la nota di
follia nel suo canticchiarlo era un po’ parsa strana; ma almeno non gli aveva
tirato nulla, né fatto intendere che in un momento di noia vivisezionarlo
sarebbe stato un dilettevole passatempo.
Fatte queste premesse, era
impossibile preoccuparsi davvero di un'ennesima lezione, benché non conoscesse
ancora il docente di Storia; anche per questo ora si avviava in aula, insieme a
Noah e Alice, l'aria ancora un po' assonnata e tipica di chi fa le stesse cose
ogni giorno, seguendo la sua abituale routine.
Occhieggiò Alice - che
ancora mangiucchiava un toast sopravvissuto alla colazione in mensa - senza
farsi notare: non le aveva parlato del breve incontro con Vincent Nightray, e a
quanto pareva nemmeno il più grande ne aveva fatto parola. Lo aveva dedotto dal
fatto che la castana era tranquilla e non aveva accennato a nessuno dei cugini
per tutta la settimana.
A distrarlo fu una pacca
leggera di Noah, sul quale spostò lo sguardo chiaro, vedendolo fargli
l'occhiolino con un leggero cenno del capo ad Alice; Oz non capì esattamente
cosa quello sguardo dovesse significare, ma non aveva senso chiedere
spiegazioni ora, per di più incuriosendo la moretta.
«Allora, la prima settimana
è stata troppo traumatica?» lo interrogò l'amico, osservandolo. Oz scosse la
testa: «No, anzi. Solo sembrava...»
«Un posto più serio.»
concluse Noah per lui, ridacchiando: «Lo so, è questo il bello.» aggiunse.
Alice, al loro fianco, fece
schioccare le labbra con fare infastidito; entrambi la osservarono incuriositi.
«E' solo pieno di idioti.»
sbuffò, Noah che cercava di non scoppiare a ridere, Oz che lo imitava. Era
stato fin troppo chiaro che Alice odiasse a morte il professor Xerxes e che lui
trovasse nel prenderla in giro un divertimento intrinseco del quale non poteva
fare a meno.
In effetti, ad essere
proprio sinceri, Oz si chiedeva ancora se ci fosse un docente con il quale
Alice andasse un minimo d'accordo. Al momento solo Coleman sembrava avvicinarsi
a tale privilegio.
Quando furono in aula,
presero posto in quelli che ormai erano i posti fissi: Noah e Oz, come sempre,
tendevano ad occupare insieme un banco della fila centrale. E spesso era verso
gli ultimi - si dormiva meglio, e sì. Noah Keynes passava molto tempo a
dormire.
Alice invece sedeva sempre
vicino alla stessa ragazza, che inizialmente Oz non aveva notato: alta quanto
Alice, c'era qualcosa che gliela ricordava in qualche modo, anche se non era
una somiglianza eccessiva come quella di due sorelle.
Noah aveva sopperito alla
sua mancanza di informazioni - cosa che ormai sembrava essere la sua
occupazione principale: gli aveva detto che si trattava di uno dei servitori di
casa Nightray, di Vincent per essere precisi. Noah non aveva ancora capito se
le sedeva accanto perché era una delle poche della casata con cui Alice andasse
d'accordo, o se lo faceva perché dovesse tenerla d'occhio per conto della
famiglia.
Oz era rimasto perplesso:
non capiva perché mai i cugini o gli zii dovessero tenere d'occhio Alice.
Certamente la compagna era un po' impulsiva - e manesca - ma non cattiva, di
questo il biondo era certo.
«Oz» lo chiamò Noah,
attirando la sua attenzione e distogliendolo dalle sue considerazioni: «se vuoi
un consiglio, per le prossime due ore cuciamoci la bocca.» avvisò con una
risatina nervosa. E detto da Noah, di seguire una lezione, rasentava il
ridicolo.
Oz comunque annuì incerto:
«Il professore è così severo?»
«Abbastanza, ma più che di
lui devi preoccuparti della professoressa di Musica e Arte. Sono fratello e
sorella, e ti assicuro che lei te le fa scontare una per una.» disse annuendo
convinto - e risultando un po' buffo, in verità.
Non ci era voluto molto
perché il docente entrasse in aula.
Oz, benché lo vedesse per
la seconda volta, rimase nuovamente colpito dal suo aspetto - e, se solo non
fosse stato un ragazzo, avrebbe capito del tutto il perché dell'esistenza del
suo fan club.
Non erano solo i capelli
lunghi e lisci, di un rosso particolarmente scuro e lasciati per di più sciolti
ad attirare l'attenzione. Né gli occhi di un castano-rossiccio non ben definito
che si posavano fissi e penetranti su qualsiasi cosa, pur mantenendo
un'espressione di freddo distacco - forse era uno dei punti che lo rendeva
affascinante?
Oz supponeva che ciò che
attirasse di più l'attenzione, nel docente di Storia, fosse il portamento: di
connaturata eleganza, stava dritto guardando sempre avanti a sé, a testa alta.
Lasciava trasparire una certa arroganza e l'assoluta convinzione che non ci
fosse nulla che potesse davvero interessarlo. Indossava, per di più, abiti
diversi da quelli che aveva visto indossare a Break e Reim, e che Oz aveva
inizialmente creduto la divisa per i docenti.
Convinzione venuta meno
quando aveva visto Daniel Wayne con abiti tutti suoi, Alexis Coleman vestire di
bianco come gli studenti, o con colori piuttosto chiari che con la divisa nera
non c'entravano nulla.
Rufus Barma, aveva abiti
che ricordavano ad Oz ambienti di festa o di alta società, comunque. Di
sicuro,fasciavano il corpo del docente
rendendolo attraente alla popolazione femminile.
Oz aveva supposto che si
trattasse di un uomo serio e che non amava perdere troppo tempo, ed
effettivamente la sua ipotesi era stata confermata: si era infatti seduto
dietro la cattedra prendendo il registro e facendo l'appello.
Non era stato un elencare
dei nomi frettoloso, ma con il giusto tempo perché ogni studente potesse
rispondere: finito con quello, aveva domandato ad Oz a quale punto del
programma di storia fosse arrivato con i suoi precedenti studi.
Il biondo aveva scoperto di
essere indietro di un paio di decenni, non di più e Barma aveva semplicemente
pronunciato un: «In tal caso questo pomeriggio lei sarà impegnato con me, alle
quattro in quest’aula.» dopo il quale non aveva aspettato repliche - segno che
non aveva scelta, il biondo, oltre l’eseguire.
La prima immagine che aveva
avuto di Rufus Barma in mensa, era stata quella di un uomo con ben poca pazienza:
immagine che durante la lezione non poteva essere più smentita.
Il docente, infatti, aveva
tenuto la lezione con il completo silenzio degli studenti; la sua pecca era che
sembrava annoiarsi a morte di trattare qualsiasi avvenimento o periodo storico,
e trasmetteva quella flemma anche a loro.
Così accadeva che uno
studente, perplesso da alcuni punti, gli si rivolgesse con un: «Professore, ma
la rivolta che scatenò la guerra e fu dimenticata, come si concluse?»
Rufus Barma, che trovava
più interessante e divertente picchiettare con la matita sulla cattedra
piuttosto che spiegargli l'intera rivolta, osservava in maniera distaccata il
povero alunno di turno e il massimo della sua risposta era un'unica parola.
«...strage.» diceva. E non
seguiva altro, se non la voce di un alunno incaricato di leggere dal libro
l'argomento del giorno.
Comunque, pensava Oz, non
era male.
Alla fine delle normali ore
di lezione, l'unica docente che non aveva ancora conosciuto era la sorella di
Rufus Barma; a mensa aveva chiesto qualche chiarimento a Noah, che ormai
sembrava aver dimenticato il suo proposito di fargli conoscere tutti i docenti
solo durante le ore di lezione.
O magari si era stancato di
fare il misterioso - e delle pressanti domande del biondo, che sapeva essere una
piaga se voleva. E senza nemmeno impegnarsi troppo.
Oz sperava soltanto che non
stesse facendo un'eccezione per questa donna solo per la sua presunta
pericolosità: la cosa poteva, in quel caso, rivelarsi inquietante.
«Hai detto che insegna
Musica e Arte?» aveva quindi domandato a Noah mentre mangiavano, al tavolo con
loro Ada - che parlava con Karin, Sally e Clifton in quel momento - e Marcus,
che stranamente a quella richiesta aveva alzato lo sguardo dal piatto prestando
un minimo di attenzione.
Noah annuì: «E il galateo.»
«...il cosa?»
«Baciamano, parti dalla
forchetta di destra... cose così. Il Galateo. Insomma, tu che sei figlio di
buona famiglia non per caso, dovresti avere pure un'infarinatura, no?» spiegò
alla meno peggio Noah.
«E come fa a fare tre
materie da sola?» lo interrogò Oz, lasciando stare quel che restava nel suo
piatto del porridge e prestando attenzione al compagno: «Le fa a rate.» se ne
uscì Noah con espressione seria.
«Stai scherzando?»
«No, no. Cioè, le buone
maniere te le rifila sempre; non sai che palle: "Keynes, potrebbe
gentilmente smettere di sedersi come se dovesse mungere una mucca?".
Scusami tanto, se non dormivo su un letto di piume e mangiavo con sei forchette
diverse quand'ero un ragazzino.» sbottò indispettito, facendo ridacchiare Oz.
«Poi il resto del corso è
diviso a metà, perché non tutti suonano uno strumento. Tipo a me al massimo
puoi affidare un campanellino, ma oltre chiedi troppo. E allora tiene corsi di
Arte la mattina, e di Musica il pomeriggio.» concluse la spiegazione.
Oz annuì, pensandoci su;
Noah parve pensarci solo in quel momento: «Ah, già! E te che farai?» chiese. Il
biondo rimase qualche istante in silenzio.
«Penso musica. Qualcosa me
l'hanno fatta studiare a casa.» ammise. Noah schioccò le dita, in un gesto
classico di chi ha mancato l'obiettivo di poco: «Peccato! Sarà l'unico corso
che facciamo divisi.» affermò. Oz lo guardò stupito: «Fai arte?!»
«Te l'ho detto che al
massimo suono il campanello!» ricordò: «E poi scusa, cos'è quell'aria sorpresa?
Non mi credi capace?» insinuò, l'aria offesa.
Oz ridacchiò, specie quando
Marcus, inaspettatamente, parlò: «Sicuramente Bezarius non potrebbe mai pensare
che la tua grazia da bisonte ti sarebbe d’intralcio nel fare l'artista, Noah.»
se ne uscì ironico.
Il fratello s'imbronciò,
guardandolo: «Questo non è carino da dire, sai?»
«Paragonarti a un bisonte
non è un complimento? Mi fai crollare una certezza...»
«Maaarcus!» si lamentò
Noah, allungando infantilmente la vocale mentre Oz, Ada e gli altri tre
ridevano di gusto e l'albino si limitava ad ignorare le proteste del minore.
Dopo il pranzo, Oz era
andato in giardino per un pisolino; aveva pensato di chiamare Alice e passare
il tempo con lei, ma non l'aveva trovata. E non aveva visto molto Gilbert in
giro, supponendo che fosse impegnato con le lezioni.
Aveva quindi deciso di
approfittare dell'ombra e dell'aria fresca per far passare le ore che mancavano
alla lezione supplementare con Rufus Barma.
Si stava giusto guardando
intorno - Noah lo aveva detto: la posizione strategica dell'albero era il punto
focale per un buon riposino! - quando una voce già sentita, anche se non
esattamente familiare lo aveva chiamato.
Voltandosi, sotto un albero
non troppo distante riconobbe il capo dormitorio - Sirjan, giusto?
Attirandone l'attenzione,
ora gli faceva cenno di avvicinarsi; Oz si diresse quindi verso di lui,
rimanendo lì in piedi, a pochi passi di distanza. Seduto sull'erba, la schiena
dritta poggiata contro il tronco, una gamba era stesa e l'altra piegata. Aveva
un libro fra le mani, ma Oz non riuscì a leggerne il titolo da lì.
Sirjan alzò lo sguardo su
di lui: «Ti rubo del tempo, chiedendoti di sederti?» domandò, il tono pacato.
Oz scosse la testa, la sensazione di soggezione sempre presente: per quanto non
fosse tipico di lui provarne, con Sirjan era qualcosa di istintivo.
Si sedette al suo fianco
sull'erba, e il più grande riportò silenziosamente lo sguardo sul libro; Oz lo
imitò per riflesso.
«Cosa leggi?» domandò quasi
per prassi.
«L'Immoraliste.»
replicò atono, segnando il punto in cui era arrivato mentre Oz sbirciava sulle
pagine cercando di essere meno indiscreto possibile; scorse delle parole
francesi: «Conosci il francese?» chiese, nel tono una sfumatura a metà tra
curiosità e un leggero stupore.
Sirjan, osservandolo dopo
aver chiuso il libro, incurvò le labbra in un sorriso appena accennato: «Tra le
altre lingue, sì.» commentò.
Se lo avesse detto chiunque
altro, avrebbe potuto pensare che fosse particolarmente arrogante malgrado
fingesse di nasconderlo: invece, non sapeva esattamente perché, su Sirjan
sembrava una componente particolare del suo carattere, ma non un vizio
spiacevole.
Abbozzò un sorriso di
rimando: «E' noioso?»
«Non eccessivamente
avvincente. Curioso, in qualche modo.» replicò il più grande. Prima che Oz potesse
fare altre domande, lui stesso lo anticipò: «Riesci a seguire le lezioni?»
«Sì, tutte. Una compagna di
mia sorella mi ha anche offerto ripetizioni, se serviranno. E tra poco Barma mi
aspetta per mettermi in pari col programma.» concluse.
«Hai studiato
privatamente?»
«Già.»
«La studentessa di cui hai
accennato, ho ragione di supporre che si tratti di Karin Hamilton del quarto
anno.» lo sorprese Sirjan. Lo osservò perplesso.
«Come lo sai?»
«Sono in contatto con il
capo dormitorio femminile, e so che Hamilton spesso aiuta gli studenti più
giovani. Credo sia nella sua indole, o che si diverta.» concluse con
naturalezza.
Oz annuì: la sensazione
che, effettivamente, gli aveva dato quella ragazza era quella di una persona
gentile di natura. Uno di quei tipi che non saprebbero fare del male nemmeno ad
un mosca.
«C'è un motivo per cui mi
hai chiamato?» domandò Oz per spezzare il silenzio che si era creato - e che
aveva la sensazione fosse lo stato che aleggiava in maniera permanente intorno
a Sirjan.
Non sembrava uno di molte
parole, anche se era un tipo diverso da Marcus, che a malapena sentiva parlare
a pranzo o a colazione.
Sirjan sembrava dare corda
solo a discorsi che lo interessavano particolarmente.
«Sembravi vagare senza
meta. Ho pensato che potesse interessarti avermi a tua disposizione per il
tempo che hai prima della lezione con Barma.» replicò con l'espressione di chi
la sa lunga, ma si limita a darti informazioni in base alla domanda che fai,
senza andare oltre.
Oz non comprese del tutto
la frase, ma non fece domande in proposito; preferì sfruttare la possibilità.
«Tu e Aedan siete amici?»
se ne uscì senza un vero motivo: era semplicemente la prima cosa che gli era
venuta in mente. E il moro, in effetti, non lo aveva più incrociato nemmeno per
i dormitori.
«Non esattamente. Mi aiuta
nelle questioni del dormitorio.» replicò Sirjan: «Perché?»
«Così. Quando ci siamo
parlati sembrava venire per conto tuo, e poi quando ci siamo conosciuti l'hai
nominato dicendo che ti aveva riferito più o meno cosa ci eravamo detti.»
spiegò Oz, facendo mente locale.
Vide Sirjan sorridere
nuovamente in quel modo appena accennato: «E questo ti ha fatto pensare fossimo
amici?» indagò.
Oz si ritrovò a rispondere
sulla difensiva, appena imbronciato: «Che c'è di male?» borbottò. Fu quasi
sicuro di sentire uno sbuffo con cui l'altro stava camuffando un leggero
ridacchiare.
«Parliamo, ma non spesso e
delle stesse cose come fanno gli amici di vecchia data. Ma considerando che
tipo è Aedan, forse potresti definirmi suo amico per quel poco che ci diciamo.»
ammise, criptico.
E bastava quello, per
svegliare la curiosità di Oz; si sporse appena in avanti, come per guardarlo
meglio: «In che senso?» domandò.
«Aedan Shaye nasce guardia
del corpo e studia qui solamente per quello. L'unico motivo per il quale avanza
di anno come gli altri studenti è che ha una preparazione superiore ai
programmi di studi del collegio da quando è entrato.» spiegò, lo sguardo che
restava puntato davanti a sé, senza soffermarsi su nulla in particolare.
«Nasce guardia del corpo?»
«Ci sono famiglie così. Non
hanno il patrimonio delle casate importanti, ma spesso succede che abbiano
un'antica tradizione di esperti in quel campo. I figli vengono istruiti
nell'autodifesa fin da bambini. Aedan ha iniziato molto presto per quel che ne
so: armi bianche, difesa corpo a corpo. E ha un'istruzione fuori dal comune per
la sua età: al primo anno dava del filo da torcere agli studenti diplomandi.»
concluse con un sorrisetto divertito.
Oz era sorpreso: quel
ragazzo, forse anche perché avevano parlato ben poco, non gli era sembrato
qualcuno così. Inoltre, quel tipo di vita a lui così estraneo suonava strano.
«Perché studiare tanto se
poi doveva venire in un collegio?» chiese senza capire.
«Perché da quando gli è
stato affidato il suo protetto, se così vogliamo chiamarlo, quel ragazzo è
diventato incapace di concentrarsi su qualcos'altro. Lui non segue le lezioni,
è solo presenza fisica.» ironizzò.
Oz tacque, pensieroso;
forse sbagliava, ma gli sembrava un modo di vivere piuttosto triste. Di certo,
quell'Aedan doveva avere un'abnegazione invidiabile. O qualcosa di simile.
Rimasero in silenzio per
una buona porzione di tempo, e quando Sirjan ruppe il silenzio, fu dopo aver
dato un'occhiata all'orologio da polso.
«Credo sia ora di avviarti
dal professor Barma.» gli suggerì. Imitandolo nel controllare l'orario, notò
che mancava poco all'inizio della lezione supplementare.
Si alzò, dandosi qualche
pacca sui pantaloni per togliere i pochi fili d'erba rimasti addosso: «Grazie
della chiacchierata, ci... vediamo in giro.» salutò, dopo qualche attimo di
incertezza. Si era voltato per avviarsi, ma si sentì trattenere per una manica,
senza strattoni.
Si voltò perplesso,
abbassando lo sguardo su Sirjan.
«Ho dimenticato di dirti
una cosa riguardo il regolamento che l'ultima volta mi era passata di mente.»
rivelò, l'espressione di seria autorità come quando lo aveva incrociato
nell'atrio.
«Le stanze dell'ultimo
piano dell'edificio scolastico sono vietate. Non entrarci, sarei costretto a
fare rapporto a chi di dovere, ed è sempre un compito che preferisco evitare.»
concluse.
Il tono era quello a cui
Oz, già dalla prima volta, aveva trovato difficoltà dire di no. Annuì
meccanicamente e l'altro gli lasciò la manica, incurvando leggermente le
labbra.
«Ci vediamo, allora.»
replicò solo in quel momento al suo precedente saluto.
Oz si avviò, la sensazione
assurda e immotivata che ci fosse qualcosa che non andava.
La lezione supplementare
con Barma era stata senza infamia e senza lode - ma certamente noiosa.
La storia di per sé non lo
appassionava particolarmente e la flemma -nonché assenza di voglia di spiegare - di Rufus Barma non era d’aiuto.
Dopo un'ora e mezza lo aveva congedato, dandogli appuntamento per la stessa ora
e lo stesso giorno della settimana seguente.
Quando Oz era uscito
dall'aula dove si era tenuta quella lezione, aveva trovato Noah ad aspettarlo,
seduto per terra e con la schiena poggiata alla parete, nel bel mezzo di uno
sbadiglio da record.
Avevano girato senza un
luogo particolare dove dirigersi, chiacchierando. Noah sembrava appena più
accigliato del solito, cosa strana a cui Oz non era abituato. Anche se forse,
parlare di abitudine quando si conoscevano da così poco, non era esatto.
«Tutto bene?» aveva chiesto
istintivamente. Inizialmente l'altro aveva assicurato che era tutto a posto,
col solito sorrisetto che sfoggiava quasi ventiquattro ore su ventiquattro.
Alla fine, mentre
prendevano posto anticipatamente in mensa - ancora semivuota - non era più
riuscito a trattenersi: «Oh e va bene, ce l'ho con Marcus.» borbottò, incapace
di tenerselo per sé.
In un momento di
perplessità, ad Oz venne da sorridere: per quanto lo avesse già inquadrato in
quel senso, puntualmente Noah riusciva a mostrarsi più sincero di quanto già
non fosse apparso fino a quel momento.
«Con Marcus?»
«Sì, perché è antipatico.»
se ne uscì, infantilmente imbronciato e offeso: «Non è vero non sono
affidabile. Certo, non sarò l'esempio di buone maniere e non sarò mai il primo
del corso della Barma. E sì, non ho la stessa eleganza di Marcus quando
cammino, e corro per i corridoi. E dormo in biblioteca. E faccio le scivolate
sui corrimano. Ma questo non vuol dire che non posso riuscire in qualcosa di
raffinato come e meglio di voi figli di papà!» concluse, incrociando le braccia
al petto e gonfiando appena le guance, proprio come un bambino.
Oz rise, non riuscendo
proprio ad evitarselo: un po' per l'elenco di abitudini che contraddiceva in
partenza la sua protesta, un po' per quell'offesa ostentata e che non era
granché tipica di lui - o almeno, non degli aspetti di Noah che aveva visto.
Infine, rideva perché
l'altro era onesto, talmente tanto che non era neanche capace di tenere per sé
quell'infantile indignazione, anche se magari poteva andare a discapito della
sua immagine - di cui sembrava curarsi meno del minimo necessario.
«Cosa c'è di divertente?»
lo interrogò, fissandolo. Oz cercò di calmare il riso prima di rispondere: «E'
che non mi aspettavo che anche tu sapessi offenderti.»
«Certo che mi offendo!»
sbottò l'altro, portando entrambe le braccia sul tavolo; si imbronciò
nuovamente: «Per le cose che dice Marcus mi offendo eccome.» aggiunse in un
borbottio.
«Rivalità tra fratelli?»
tirò ad indovinare Oz.
Noah scosse la testa,
individuando il fratellastro che faceva il suo ingresso in mensa: «Al
contrario. Proprio perché non c'è rivalità fraterna tra noi mi offendo.»
replicò, non chiarendo di molto la cosa in realtà.
Oz stava per aggiungere
altro, che Marcus li raggiunse: non si sedette, tuttavia. Si limitò ad un cenno
ad Oz, spostando poi l'attenzione su Noah.
«Stasera finisco un
progetto, quindi ci vediamo domani.» disse semplicemente, l'aria effettivamente
un po' scazzata come chi, di finire quel progetto, ha la voglia sotto le
scarpe.
Noah perse il cipiglio
offeso nello stesso momento in cui la frase finì: «Non ceni?»
«Ho mangiato un boccone
prima.» si limitò a dire il maggiore.
Oz vide il compagno di
stanza sospirare, come un bambino la cui attesa per qualcosa di importante è
stata resa inutile. Il broncio, quello che Noah sembrava assumere in maniera
naturale - diverso da quello di poco prima, ostentato volutamente - tornò sul
suo viso.
«Va bene, allora ci vediamo
domani a colazione.» borbottò.
Oz non seppe se essere
sorpreso o aspettarsi il gesto di Marcus: optò per osservarlo, semplicemente,
mentre portava una mano fra i capelli di Noah, senza aggiungere molto altro.
«Buonanotte.» pronunciò
solamente, allontanandosi dal tavolo.
Quando fu uscito di nuovo,
Noah si alzò: «Vado a prendere la cena, se ti accontenti delle mie scelte
prendo anche per te.» assicurò con un sorrisetto.
Oz annuì, un po' perplesso,
osservandolo andare verso il bancone in fondo alla sala.
Perché accidenti fosse lì
quando, non più tardi di poche ore prima, il capo dormitorio stesso gli aveva
espressamente comunicato il divieto di recarvisi, non lo sapeva.
Doveva forse maledire la
sua curiosità, i pessimi scherzi, il tempismo fuori luogo e chissà cos'altro.
Dopo cena Noah aveva
insistito per andare in biblioteca a portare qualcosa a Marcus, rivelandosi più
apprensivo di una madre in certi casi; ovviamente, il sottile dettaglio che non
si potesse portare in biblioteca del cibo - sempre ammesso che Marcus non fosse
nella sua stanza - non era nulla per Noah Keynes.
Oz aveva pensato di cercare
Ada, ma a metà strada era stato fermato da niente di meno che Vincent Nightray;
assicurando che andavano nella medesima direzione - dopo aver sostenuto di aver
visto Ada poco prima - si era detto disponibile ad accompagnarlo per fare due
chiacchiere.
Erano saliti ai piani
superiori, seguendo il percorso più breve che conduceva alla biblioteca.
La conversazione con lui
non era stata chissà quanto particolare: c'erano stati commenti sui docenti, su
come Oz si trovasse. Avevano appena accennato a Gilbert - ah, Gil è a casa
Nightray richiamato da nostro padre, ma tornerà tra oggi e domani - e qualche chiacchiera sull'altro fratello,
Elliot.
«Forse lo conoscerai al
corso di Musica.» aveva commentato Vincent. Oz lo aveva trovato una compagnia
tutto sommato piacevole, confuso sempre più dalla raccomandazione di Alice.
Non sembrava pericoloso.
«Ah, ma quest'area non è
vietata?» chiese, riconoscendo la scala che portava all'ultimo piano.
Vincent lo guardò
perplesso: «Non ci sono aree vietate a scuola. Ovviamente gli alloggi dei docenti
e i loro uffici, se non sei accompagnato da loro.» osservò.
Oz lo fissò perplesso: «Ma
il capo dormitorio ha detto...»
«Kolstoj? Strano che si
confonda proprio lui, che conosce a memoria il regolamento.» disse, e Oz era
quasi sicuro di aver sentito una sfumatura canzonatoria in quell'affermazione.
Mentre aspettava che
Vincent prendesse quel che gli serviva da un'aula - ho pensato non avessi
fretta, torno subito, ok? - si era poggiato alla parete lì in corridoio.
Quando si era accorto di
essere arrivato davanti alla porta di una stanza diversa, addirittura in un
differente corridoio, aveva sbattuto le palpebre un paio di volte senza capire.
Come ci era arrivato,
esattamente?
«Meglio che me ne vada
prima di...»
Non andartene!
Si fermò sul posto, gelato
da quella voce che sembrava rimbombare per tutto il corridoio, anziché
provenire da una stanza precisa. Si guardò intorno istintivamente, senza
trovare nessun altro.
Se Vincent Nightray era in
vena di scherzi - perché era palese che fosse uno scherzo stupido - non aveva
voglia di farlo divertire. Mosse qualche passo indietro.
Aspetta, aspetta!
Di nuovo. E non vedeva
nessuno; mosse qualche passo in avanti, verso la porta chiusa di fronte alla
quale si era ritrovato, come un sonnambulo che passa da un posto all'altro
senza ricordare di averne percorso la distanza che li separa.
«Chi c'è?» chiese, nel tono
una nota seccata. Era quasi evidente che, chiunque fosse l'artefice di quello
scherzo mal riuscito, fosse nella stanza da prima o vi fosse arrivato in qualche
altro modo.
Magari erano due aule
comunicanti.
«Vattene.» sentì sibilare.
Non andare via!
Scosse la testa, confuso:
dicevano di rimanere, poi di andare via. Sarebbe stato logico andarsene, ma le
gambe - fastidiosamente pesanti senza un motivo preciso - non collaboravano con
l'impulso di voltarsi e allontanarsi.
Allungò dunque la mano fino
alla maniglia, posandovela e facendo una leggera pressione per abbassarla e
aprire la porta. Non durò molto, appena un istante di vuoto.
Poi, il dolore alla testa più
acuto e insopportabile che avesse mai provato; qualunque istinto di gridare
avesse, il dolore era così pressante da mozzargli il fiato prima ancora che
potesse lasciar uscire la voce.
Non riusciva a muovere un
passo, a lasciare la maniglia, quasi non sapeva più definire i contorni, la
vista fastidiosamente offuscata.
La cosa che percepì più
nettamente quando la testa ormai sembrava dovesse letteralmente spaccarsi in
due, fu uno strattone che lo fece indietreggiare, permettendogli finalmente di
mollare la presa sulla maniglia.
Riconoscere la figura fra
lui e la porta non fu proponibile; la forte differenza fra il dolore acuto
protrattosi fino ad un istante prima e la totale assenza di rumori di quel
momento, gli aveva causato un giramento di testa tale che l'ultima cosa che fu
in grado di cogliere fu qualcuno - probabilmente la figura che non aveva messo
a fuoco - che gli evitava il brutale contatto con il pavimento mentre cadeva
svenuto.
«Tieni quel ragazzino
lontano da qui.» sibilò furiosa la voce al di là della porta.
Aedan, Oz alla meno peggio
tra le braccia, occhieggiò la superficie lignea senza particolare espressione,
eccezion fatta per una sfumatura irritata, forse.
«Non sono questi i patti a
cui sei sceso.»
«Conosce i suoi patti! E
quello lì non deve avvicinarsi a noi!» sibilò ancora.
Seguì il silenzio, mentre
Aedan portava lo sguardo su Oz, privo di sensi; occhieggiò poi il corridoio,
caricandosi il biondo in spalla e alzandosi per portarlo altrove.
Avviandosi verso le scale,
sposto lo sguardo verso la porta.
«Non chiamarlo più qui da
te.» mormorò piano, inudibile quasi. Non ci fu risposta.
Nessuna udibile, almeno.
Note
Olè, in ritardo ma
santifichiamo tutti la giornata con i parenti di Ferragosto che mi ha fatto
sfornare il capitolo in quattro ore XD
Per quanto riguarda questo
capitolo, la nota riguarda il nome di Reim: c'era anche la versione
"Liam", ma io non ho ancora capito quale sarebbe quello ufficiale e
quale la ri-adattazione dell'anime o delle scan. E siccome a dire "Liam
Lunettes" io mi inceppo la lingua, ho deciso che sarà Reim <3 *ama
quell'uomo*
Un grazie a tutti coloro
che leggono, in particolare a:
Doremichan: ...scriverò una Guscio x Tartaruga, lo giuro XD
Per quanto riguarda la
Monnalisa, è semplice: la mia demenza mi porta a battute simili che
puntualmente rifilo al pg di turno. Insomma, mi esce naturale e di getto XD
Sono felice di aver mantenuto l’IC anche quel capitolo *sospira sollevata* Per
quanto riguarda Noah e Marcus… kukuku (si sarà notato da questo capitolo?) c’è
qualcosa che nascondono, vedremo se ti aggraderà quando uscirà fuori ù.ù
Quanto a Vincent, ho in
programma di mantenerlo più IC possibile, perciò si suppone rimarrà sempre il
nostro amato psicotico con manie ossessivo-compulsive XD
LitaChan: nyaaa, felice che ti sia piaciuto anche il precedente
capitolo <3
Purtroppo ammetto che Oz è
la mia maggiore preoccupazione ogni sacrosanto periodo in cui appare – e lo
tratto da protagonista, il che è drammatico.
Non so mai se lo sto
tenendo IC, maledetto :° *sbatacchia Oz*
Non ho praticamente fatto
apparire Gil qui *-*” Spero che non sarò odiata per questo XD
Agito: sono un po’ in ritardo, ma ecco il nuovo capitolo ^^
Ti ringrazio per il tuo parere sull’IC, si fa quel che si può come si suol dire
XD
E mi togli un gran peso con
il commento riguardo Noah e Marcus: loro, come gli altri nuovi personaggi che
ci sono, ero restia ad utilizzarli se non fosse stato per la trama che mi
richiedeva parecchi personaggi – che Pandora non mi ha fornito a sufficienza XP
Spero tu possa apprezzare
anche questo capitolo e grazie per i complimenti alle altre fanfic ^^
makotochan: …tu sei folle XD *muore sulla recensione*
Contenta del tuo entusiasmo
per Vincent, spero continui anche nelle sue apparizioni di questo capitolo ù_ù”
Quanto ad Adam, dubito di
far apparire l’uomo nero e cattivo qui. Ho già tanti danni che girano per
questa scuola (basti vedere la descrizione dei docenti di questo capitolo XD)
fra prof e persone-ignote-di-cui-ancora-non-conoscete-l’identità.
E lo so che mi odi per quei
pezzi in cui non capisci nulla: ma lo sai che io mi diverto <3
I primi rumori che riuscì a
cogliere, arrivarono alle orecchie che Oz non era ancora pienamente cosciente.
Attutiti e vaghi, non avrebbe saputo determinarne né la direzione da cui
provenivano, né la distanza.
Sicuramente qualcuno aveva
bisogno di spostarsi ripetutamente, perché c'era un rumore di passi dalla
cadenza sempre uguale che era ora più vicino, ora più lontano; le voci erano
poche, e basse abbastanza da non essere riconoscibili.
«Aedan lo ha portato qui.»
«Sta aspettando fuori.»
«Il capo dormitorio ha
detto...»
Gli arrivavano discorsi
diversi che non avevano un senso logico per lui, ancora in fase di risveglio.
Si concentrò sulla sensazione di qualcosa stretta nella propria mano: sembrava
un'altra mano.
Poi, si sentì sfiorare la
fronte delicatamente: «Dovresti andare a riposare, l'infermiera dice che ha
solo perso i sensi.» percepì e, forse per la sua familiarità, riconobbe la voce
come quella di Ada. La mano che stringeva la sua rafforzò la presa.
«Non dormirei comunque. Tu
sembri stanca, vai pure. Rimango io.» assicurò.
«Ma Gil...»
«Insisto, Ada.» troncò il
debole tentativo dell'altra.
Riconosciute due delle
persone presenti, si sforzò di aprire gli occhi: non voleva che Ada si
preoccupasse, tanto meno che lo facesse Gilbert. Inizialmente nessuno dei due
notò Oz aprire gli occhi lentamente, cercando probabilmente di mettere a fuoco
la stanza.
Ad accorgersene, fu
qualcuno che inizialmente non riuscì a focalizzare: un paio di occhi distaccati
lo osservavano. Poco dopo, nel campo visivo di Oz rientrò anche Break Xerxes.
«Oh, il signorino Oz si è
ripreso!» osservò, Rufus Barma al suo fianco che si limitava ad alzare gli
occhi al cielo.
Alle sue parole, Ada e
Gilbert spostarono immediatamente lo sguardo su di lui, entrambi preoccupati. La
sorella fu la prima a sorridere, il sollievo evidente sia nell'incurvarsi di
labbra, sia negli occhi chiari: «Fratellino...» mormorò, osservandolo. Oz le
sorrise.
«Il capo dormitorio sarà
lieto di sapere che stai meglio.» disse Break, facendo deviare su di lui
l'attenzione del biondo. Gli tornò in mente tutto insieme: la chiacchierata con
Sirjan, il divieto che gli era stato dato, la chiacchierata con Vincent, la
porta, la voce, il dolore alla testa.
Una figura che non aveva
fatto in tempo a mettere a fuoco: «Dove...?» accennò a chiedere, guardandosi
intorno.
«In infermeria» rispose
subito Ada, con tono pacato: «Shaye ti ha trovato svenuto in corridoio e ti ha
portato qui. Poi siamo stati avvisati dai capo dormitorio.» spiegò brevemente.
Oz annuì appena, ancora stordito. Aedan lo aveva solo trovato o era anche la
persona che non aveva visto bene prima di svenire?
«Ora sto bene.» assicurò
alla sorella con un sorriso rassicurante: «Vai a riposare, Ada.» suggerì. Lei
parve incerta, sulle prime; Gilbert, che aveva taciuto fino a quel momento,
annuì appena.
«Stai tranquilla, rimango
io.» aggiunse alle parole del biondo.
Ada sorrise,
tranquillizzata: «Va bene. Mi raccomando, riposati d'accordo?» disse, una lieve
sfumatura di preoccupazione ancora presente nel tono di voce. Oz annuì, il
rossore appena diffuso sulle guance quando l'altra si chinò appena sfiorandogli
la fronte con le labbra.
Quando fu uscita, il biondo
notò che la porta era stata lasciata aperta: non essendo troppo distante da
essa con il letto, non fu difficile per lui notare Aedan sulla soglia, in
silenzio. Fece per dire qualcosa – invitarlo ad entrare per chiedergli
spiegazioni probabilmente – ma l’altro scosse appena la testa.
«Parleremo quando sarai
uscito.» disse solo, ed usò quella stessa frase come congedo, in aggiunta un
leggero chinare il capo. Oz abbassò la mano che aveva alzato istintivamente
verso il ragazzo come ad enfatizzare il bisogno di parlargli, l’aria delusa.
Gilbert sembrò notarla
senza sforzo e strinse impercettibilmente la presa sulla mano di Oz, che non
aveva ancora lasciato; il biondo alzò lo sguardo, sorridendo quasi subito
sebbene in maniera leggera e non col solito ampio incurvarsi delle labbra. La
sua attenzione fu poi riportata sui docenti dalla voce di Barma.
«La presidenza le
giustifica un’assenza per domani, signor Bezarius. Ne usufruisca per rimettersi
in sesto.» riportò solamente, il tono senza particolari inflessioni.
Intonazioni che, nel pieno
del suo spirito di animatore di feste mancato, Break Xerxes aggiunse per proprio
conto: «Mi raccomando, non peggiorare eh, signor Bezarius?» se ne uscì, il
finale un palese scimmiottare l’altro docente. Oz sperò che fosse un augurio di
pronta guarigione anche quello.
Quando entrambi i
professori furono usciti – c’erano voluti una decina di minuti in cui Xerxes
aveva avuto il bisogno psico-fisico di fare l’idiota per dire due cose in croce
all’infermiera – Oz si lasciò ricadere con la testa sul cuscino, con un
sospiro.
Fu allora che si accorse
della mano di Gilbert ancora nella propria. Alzò lo sguardo sul moro, che lo
osservava: «Cosa ci facevi con Vincent?» fu la prima cosa che gli chiese.
Nessun “ero preoccupato”,
nessun “sicuro di stare bene?”; Oz si imbronciò: «Tu cosa fai con i compagni di
scuola, Gil?» chiese, una punta di ironia nella voce. Lo vide scuotere appena
la testa, senza spostare però lo sguardo da lui.
«Oz, dico sul serio. Non è
bene che tu vada in giro con lui.»
«Ma l’amore familiare è
proprio una prerogativa dei Nightray, o è Vincent che si attira addosso
l’odio?» se ne uscì, spontaneo. Insomma, da quando era lì sia Gilbert che Alice
– gli unici altri due Nightray o parenti del biondo che aveva incrociato – non
avevano fatto altro che dirgli di non avvicinarsi a lui.
Senza un motivo; almeno gli
avessero dato quello – e fosse stato valido.
Tacquero entrambi per
diversi istanti, Oz fissando il più grande, Gilbert mantenendo lo sguardo sul
materasso, quasi stesse cercando la risposta alla domanda dell’altro.
Il biondo sospirò,
rilassandosi contro il cuscino: lo capiva che Gilbert era semplicemente
preoccupato.
Con ogni probabilità sia
lui che Ada erano stati avvertiti del suo crollo nel corridoio da Aedan o da
uno dei due docenti rimasti fino al suo risveglio. E, non per essere cattivi,
ma faticava seriamente a decidere chi dei tre avesse più tatto.
«E’ solo» riprese, anche se
avrebbe dovuto forse esordire con uno “scusami”, ma ehi, parliamo di Oz
Bezarius: «che da quando sono arrivato, non ci sono stati che divieti. E
nessuno di voi mi ha dato una spiegazione anche solo vaga. Tu ed Alice mi avete
detto di stare lontano da Vincent Nightray come se fosse un pazzo assassino, ma
il motivo? Noah lo stesso, ha solo accennato ad una “cattiva reputazione” e
tanti saluti.» borbottò.
Insomma, la cosa più
crudele che Vincent gli aveva fatto fino a quel momento era stata accompagnarlo
in giro per l’edificio scolastico.
«E anche Aedan e Sirjan.
Loro mi dicono che un’area della scuola è vietata, poi Vincent mi dice che non
ce ne sono, di aree vietate nella scuola. A parte alloggi e uffici privati dei
professori. A chi dovrei credere, Gil?» lo interrogò infine, lo sguardo chiaro
sul moro.
Mentre lo aveva lasciato
parlare, Gilbert aveva alzato appena un sopracciglio sentendo nominare Noah:
era probabile che fosse lo stesso di cui gli aveva accennato Ada, il compagno
di stanza di Oz.
Ma cosa ne sapesse questo
Noah della “cattiva reputazione” di Vincent o cosa intendesse per “cattiva
reputazione”, questo non lo sapeva e non lo immaginava. Non era certo per
motivi come “è una cattiva compagnia” che voleva tenere il fratello minore
lontano da Oz.
Scosse appena la testa: di
cosa intendesse questo fantomatico Noah, si sarebbe preoccupato quando ce ne
sarebbe stato bisogno – anche se sperava non accadesse. Non era cosa per lui.
«Prometto di dirti la
verità, ma ora riposati.» disse solamente rivolto al più piccolo, spostando
altrove lo sguardo.
Cos’era, una presa in giro?
«Gil…»
«Per favore, Oz.»
insistette, stringendo la presa sulla mano – da quanto teneva la sua? – quasi
ad enfatizzare la sua richiesta: «Te lo dirò, ma non adesso.» promise di nuovo.
Oz tacque, muovendo appena
la mano in quella dell’altro, che allentò la presa per permettergli di
sistemarsi nel letto.
Lo lasciò coricarsi come
preferiva – su un fianco, dandogli le spalle come quando da bambino si
arrabbiava con lui.
«’notte.» gli sentì
pronunciare prima che cadesse di nuovo il silenzio.
Gilbert sospirò; voleva
solo che Oz aspettasse, che gli desse tempo.
Il tempo necessario per
inventare una bugia.
Il giorno dopo Oz aveva
passato l’intera mattinata tassativamente in infermeria come Rufus Barma gli
aveva consigliato – o meglio, comunicato.
Era stato di una noia
mortale: tutti avevano lezione, perciò non c’era nessuno oltre l’infermiera che
potesse costituire una compagnia. Una donna cortese e gentile, ma pur sempre
impegnata e in età avanzata: per quanto Oz tendesse a chiacchierare anche coi
muri quando si impegnava, non poteva certo passare il tempo a parlare di
uncinetto e punto croce.
Era da poco scattata
l’ultima ora di lezione, quando la porta dell’infermeria si era
inaspettatamente aperta: alzando istintivamente lo sguardo dal libro che aveva
racimolato – gli occhi dolci da cucciolo sperduto avevano un certo ascendente
sulla povera infermiera – Oz si sorprese di incontrare la figura di Aedan.
Non indossava la giacca
della divisa, quindi era totalmente visibile la camicia bianca. Con la mano
sinistra teneva la manica destra arrotolata sopra il gomito e Oz poté
intravedere solo in quel momento un taglio piuttosto profondo che sanguinava e
delle bende srotolate alla meno peggio, probabilmente proprio dal moro.
L’infermiera gli si era
subito fatta vicina, l’aria preoccupata.
Aedan vi aveva risposto con
uno sguardo non troppo coinvolto – e Oz si chiese, con un taglio sanguinante
che probabilmente faceva anche male, come fosse possibile – e un semplice: «La
ferita si è riaperta.»
Cosa, peraltro, che la
donna poteva vedere da sola.
La sentì sbuffare
leggermente, ma più rassegnata che seccata: «Shaye, ti avevo detto che era
meglio tu evitassi le lezione per non urtare col braccio da qualche parte.»
osservò con un’accennata severità nel tono, facendogli cenno di prendere posto
su uno dei letti liberi mentre andava a prendere l’occorrente.
Aedan spostò lo sguardo sui
suddetti letti, riconoscendo allora la figura di Oz che sorrise lievemente di
rimando.
Benché senza ricambiare il
sorriso, Aedan si diresse verso il letto accanto a quello del biondo
prendendovi posto; Oz notò che teneva il braccio più o meno sopra le gambe,
come se preferisse sporcarsi i pantaloni che macchiare le lenzuola.
Sorrise con più
convinzione, spostando poi l’attenzione sul braccio senza dire nulla.
Fu Aedan a riportarlo
bruscamente alla realtà: «So che hai delle domande. Le puoi fare, se vuoi.»
disse. Oz, non aspettandoselo, lo guardò incerto prima di abbozzare un
sorrisetto e portare la mano a grattarsi appena la nuca: «Non hai detto che
avremmo parlato appena fossi uscito da qui?» lo incalzò.
Aedan lo fissò, senza
cambiamenti di espressione troppo evidenti: «Tu non segui le regole.» fu la
spiegazione che diede e che – ad essere sinceri – seccò un poco Oz.
Sapeva molto di ironia,
quella frase dell’altro.
Non disse nulla comunque,
vedendo riapparire l’infermiera con le bende e il disinfettante necessario.
Osservò in silenzio tutta l’operazione finché non ebbe fasciato di nuovo il
braccio di Aedan con garze pulite, assicurandosi di non stringerle troppo
causandogli fastidio o dolore.
Si alzò, quindi, andando a
mettere a posto il tutto probabilmente e lasciandoli soli.
Seguì ancora del silenzio,
visto che Aedan non sembrava intenzionato a cominciare un discorso.
Fu Oz, come era
prevedibile, a rompere quella fasi di stallo: «Chi ti ha detto che ero lì?»
chiese, riferendosi chiaramente al corridoio dove Aedan lo aveva trovato. Il
moro alzò finalmente lo sguardo su di lui, ponderando una risposta.
«Nessuno. Ero lì e ti ho
visto.» rispose, più sincero di quanto Oz si aspettava, francamente.
«Mi hai visto svenire?»
«Ti ho visto deambulare,
fermarti e poi svenire.» lo corresse.
Oz si sentì confuso per un
attimo; in sostanza, allora, Aedan doveva aver sentito la stessa voce che lui
ricordava – un po’ a fatica e troppo vaga per attribuirla a qualcuno.
«Perché eri lì?» chiese
dunque, provando a cambiare domanda per capire qualcosa in più che già non
sapesse lui stesso. Aedan lo osservò, nuovamente, facendo una pausa breve prima
di rispondere.
«Dovevo essere lì.» fu la
replica che fece istintivamente alzare gli occhi al soffitto ad Oz. Che razza
di risposta era “dovevo essere lì”? Era vaga quasi quanto un banalissimo ed
infantile: perché sì.
«Risponderai così a tutte
le domande che ti farò?» sbottò ironicamente, osservandolo quasi offeso, come
se Aedan lo stesse volutamente prendendo in giro pur avendo capito che il
biondo cercava conferme nelle sue risposte.
Ma il moro scosse la testa:
«Dipende dalla domanda che mi fai. E questo è il modo di rispondere che
conosco.»
«Vago e inconcludente?»
«Essenziale.» lo corresse.
Oz non poté trattenere uno
sbuffo divertito: quell’Aedan era parecchio strano, ma diceva cose tali con
un’espressione talmente convinta che ti passava subito il sospetto che lo
stesse facendo di proposito. Anche se forse, qualche volta, era davvero così.
«Come te lo sei fatto?»
chiese, indicando il taglio ora coperto dalle bende.
«Non posso dirtelo.»
rispose semplicemente il moro, osservando prima la fasciatura e poi tornando su
Oz che lo fissava perplesso e incuriosito al tempo stesso: «Perché non puoi?»
domandò.
«Ci sono cose che non posso
dire.» fu la facile e immediata risposta.
«Dipende da te?»
«No, dagli ordini che ho.»
concluse, cogliendo impreparato Oz. Gli tornava in mente il discorso fatto con
Sirjan a proposito di Aedan e del fatto che fosse una guardia del corpo che
faceva lo studente a Latowidge senza averne davvero bisogno e solo per
affiancare il suo protetto.
Non riusciva a capire del
tutto, però, il bisogno di avere guardie del corpo. Capiva che Latowidge
pullulasse di figli di buona famiglia, ma non capiva quale fosse il grande
pericolo in un collegio. Eppure, non era solo Aedan; dalle parole di Noah, era
parso chiaro che anche i Nightray ne avessero.
Si disse che preferiva di
gran lunga la situazione sua e di Ada, che erano studenti normali, senza
nessuno che li controllasse ogni secondo e gli rimanesse appiccicato.
«Sirjan mi ha detto che sei
una guardia del corpo.» se ne uscì: «Te l’ha detto la persona che proteggi, di
stare lì nel corridoio dove mi hai trovato?» azzardò.
Aedan parve pensarci su,
come se il fatto che Sirjan avesse parlato di lui e di cosa faceva non fosse
stato previsto. La cosa comunque non sembrava certo turbarlo profondamente:
probabilmente, si disse Oz, era qualcosa che se anche usciva allo scoperto, non
era problematica agli occhi dell’altro.
«Non me lo ha detto Ethan.»
disse, rivelando anche il nome della persona a cui faceva da guardia del corpo:
«me lo ha ordinato Sirjan.» aggiunse.
Ora Oz poteva concedersi di
mostrare del tutto la sorpresa a quell’uscita.
Avrebbe avuto senso se
fosse stato il “padrone” che Aedan serviva, ad ordinarglielo: ma che fosse
Sirjan, per quanto capo dormitorio, perdeva un senso logico. D’altra parte, era
quasi sicuro che se avesse chiesto chiarimenti ad Aedan, questi non glieli
avrebbe forniti.
«Fai tutto quello che ti
ordina?»
«Se non va contro gli
ordini di Ethan, che hanno la precedenza.» replicò.
Oz si sentiva in qualche
modo seccato da quell’atteggiamento, anche se effettivamente non lo riguardava:
ma l’essere così sottomessi ad ordini degli altri, era una cosa che lui non
avrebbe mai sopportato e non capiva in quale modo potesse farlo qualcun altro,
in questo caso Aedan.
Spostò lo sguardo dal moro,
senza sapere esattamente cosa dire: supponeva che quello fosse un argomento sul
quale in nessun modo si potesse trovare un punto d’accordo.
Ciò che però non ricordava
del discorso di Sirjan era il fatto che Aedan avesse un’intelligenza
sviluppata; alla quale, a giudicare dalla frase che gli rivolse in seguito, era
sinonimo di ottimo intuito.
«Non chiederti il perché. È
una cosa che non potresti capire.» disse, il tono quasi secco, come se quella
domanda gliel’avessero rivolta molte volte e tutte quelle che aveva risposto
non fosse stato capace di spiegarsi.
«Sei qui solo per eseguire
gli ordini di Sirjan o di questo Ethan, quindi? Di essere uno studente non ti
interessa nulla, per questo Sirjan dice che non ti circondi nemmeno di amici?»
«Gli amici non mi servono.»
fu la risposta che diede, come se fosse ovvio.
«E Sirjan?»
«Gli servo.»
«E non ti infastidisce che
sia solo questo?!» sbottò, fissandolo senza capire come potesse parlarne così,
come se non importasse.
Parve seccare Aedan, quella
domanda; Oz non ne era certo, ma gli sembrava di aver visto quell’espressione
costantemente neutra accigliarsi appena.
«Cosa ti insegnano come
prima cosa?» se ne uscì il moro. Oz, senza capire, mormorò un “parlare”
piuttosto dubbioso.
«E cosa ti dice più spesso
la tua famiglia?» lo interrogò di nuovo, come se gli stesse pazientemente
insegnando un concetto che avrebbe dovuto apprendere già tempo prima.
Oz tacque, facendo mente
locale per un attimo: aveva una situazione tutta particolare, lui, e non
ricordava bene sua madre che era venuta a mancare parecchio tempo prima. Ma
Ada, che da sorella maggiore aveva assunto anche un po’ la figura materna, la
ricordava chiaramente.
«…che mi ama.» borbottò, le
parole d’affetto della sorella che più di una volta erano state basilari,
necessarie a dir poco.
«Io ho imparato a
combattere. E poi mi hanno detto: “la tua vita non vale nulla”.» fu l’aspra
replica di Aedan mentre si alzava, e se ne andava.
L’indomani Oz era tornato a
frequentare le lezioni come stabilito.
Noah era andato a prenderlo
in infermeria la mattina, ed Oz gli era stato grato di non aver fatto domande.
Conoscendo la natura curiosa di Noah, era certo che se aveva taciuto era stato
per un qualche riguardo verso di lui.
Rufus Barma, primo docente
di quella mattinata di lezioni, gli aveva fissato un incontro per sostituire
quello mancato il pomeriggio prima, dopodiché la lezione era stata né più, né
meno apatica della norma.
Il che diventava
problematico quando, a seguire, avevi lezione con Xerxes: la sonnolenza che ti
eri portato dietro dalla tua stanza e che aveva avuto il controllo su di te per
tutta la lezione di Barma, infatti, veniva traumaticamente spazzata via dal
docente albino e dalle sue lezioni tutt’altro che calme e rilassanti.
Fortuna voleva che
l’insegnante avesse una sola ora con la classe di Oz quel giorno, e che alla
sua materia seguissero due ore di filosofia – non che quella fosse una materia
che ti faceva sbellicare dalle risate, ma Coleman aveva il potere di renderla
divertente anche quando il suicidio era una soluzione rosea, piuttosto che
ascoltare certe teorie.
Anche quel giorno il
docente non si era smentito; l’argomento della lezione – Zenone – era l’insieme
di teorie più astruse e inverosimili che Oz avesse mai sentito fino a quel
momento.
Ma Achille che non riusciva
a superare la tartaruga le batteva tutte (1): da qualsiasi punto di vista la
osservasse, Oz non lo riteneva possibile. Così Coleman, dall’alto della sua
indole folle, aveva insistito per dare la dimostrazione pratica della
teoria. Ciò aveva comportato che lui – impersonando una tartaruga che per
avanzare saltellava -obbligasse Oz a
fermarsi ad una certa distanza tutte le volte, in quanto sfigatissimo Achille
del caso, per spiegare il tutto alla classe.
Alla fine delle due ore di
lezione – tra le quali c’era stata la pausa di quindici minuti canonica – Oz si
ripromise di non chiedere mai più spiegazioni al professor Coleman utilizzando
l’espressione: “non è possibile”.
Quando lui, Noah e Alice
uscirono dall’aula, quest’ultima stava “sottilmente” prendendo in giro Oz per
la scenetta a cui la sua domanda aveva dato vita.
Fu Noah ad interromperli –
anche se era il primo a riderne divertito: «A questo punto, Oz, io ed Alice ti
salutiamo.» se ne uscì. Oz lo guardò perplesso e Noah ridacchiò picchiettando
piano sulla sua testa, fingendo di bussare.
«Ohi, “arte” e “lezioni
separate” ti dicono qualcosa?» lo apostrofò divertito.
Oz fece la linguaccia:
«Spiritoso.» ribatté, interrotto su una qualsiasi possibile aggiunta dalla voce
di Alice, che si era fermata poco dietro di loro. Voltandosi, la vide di fronte
ad un’altra ragazza: del loro stesso anno, era quella che Oz aveva sempre visto
sedere accanto ad Alice a lezione. I capelli chiari e a caschetto erano
lasciati sciolti a sfiorare quasi le spalle; gli occhi, di cui non riusciva a
definire il colore da lì, erano apaticamente puntati su Alice che le parlava
seccata.
«Almeno ai corsi diversi
lasciami in pace!» sbottò irritata.
L’altra, vide Oz, non
replicò lasciando che Alice le desse le spalle e, sorpassando Noah, proseguisse
lungo il corridoio.
Quando Oz notò entrambi –
Noah che aveva seguito la castana quasi subito – sparire in un altro corridoio
dopo aver voltato l’angolo, tornò con gli occhi chiari sulla figura della
ragazza, che sembrava fissare il punto in cui era scomparsa Alice, come incerta
se seguirla o meno.
Le si avvicinò,
l’espressione amichevole come il tono con cui le si rivolse: «Sei un’amica di
Alice?» chiese, deducendo la cosa più ovvia che si potesse ipotizzare dai suoi
atteggiamenti in aula.
Lei posò lo sguardo su di
lui, come se lo avesse notato solo in quel momento, senza espressione
particolare – gli ricordava Aedan, a ben pensarci – esordendo infine con un:
«Tu chi sei?» al quale Oz ridacchiò.
Le porse la mano: «Oz
Bezarius, anche io sono amico di Alice, anche se lei mi chiama “servo”.»
ammise.
La ragazza alternò lo
sguardo dalla mano tesa del biondo al suo viso; non la strinse: «Echo è una serva,
anche se tu la chiami "amica".» disse solamente, facendo per voltarsi
e andarsene. Oz, sorpreso e incuriosito, la seguì quasi subito.
«Aspetta, piccola Echo!»
chiamò, con quel nomignolo astruso tirato fuori sul momento da chissà dove.
L'altra si fermò voltandosi a guardarlo, seria.
«E' Echo.» disse
perentoria.
Ma figurarsi se Oz mollava
così facilmente.
«Echo come?»
«Echo e basta.»
«Dovrai pur avere un
cognome sull'iscrizione!» obiettò, il sorriso ancora ad incurvagli le labbra.
Lei parve pensarci su:
«Echo risulta come Nightray, ma non lo è. E' Echo e basta.» ribadì, concludendo
il discorso diplomaticamente per i suoi standard fino a quel momento.
Oz parve ricollegare
qualcosa tra le sue parole alla presentazione dei Nightray fornita da Noah il
primo giorno e mantenne il sorriso: «Quindi sei una servitrice dei Nightray?»
chiese conferma anche se, mentalmente, sostituiva a "servitrice"
"guardia del corpo". Echo, semplicemente, annuì. Dopo poco, fu lei
stessa a parlare: «Echo deve andare.» fu il semplice congedo dopo il quale si
avviò.
Oz mosse appena la mano in
segno di saluto: «Ci vediamo a lezione Echo!» esclamò, il tono allegro.
Entrò nella stanza,
chiudendosi la porta alle spalle e spostando quindi l'attenzione sulle due
figure presenti; come sempre, trovò lei vicino alla finestra, lo sguardo che
vagava oltre il vetro e il sorriso leggero ad incresparle le labbra.
Dietro la scrivania,
individuò Sirjan: un braccio mollemente poggiato sul bracciolo della sedia,
l'altro sul tavolo. Riconoscendolo appena entrato, incurvò leggermente le
labbra in un sorriso quasi invisibile.
La voce che richiamò il
moro, tuttavia, fu quella della ragazza nella stanza: «Come sta il tuo braccio
Aedan?» domandò, il tono gentile e pacato mentre lo osservava e gli faceva
cenno di sedersi.
Il moro preferì rimanere in
piedi: «E' solo un graffio.»
«Piuttosto profondo se
basta poco perché, pur protetto da una fasciatura, si riapra in così breve
tempo sanguinando tanto da farti guadagnare un breve soggiorno in infermeria.»
osservò Sirjan casualmente.
Ma, Aedan lo sapeva, non
c'erano parole che il più grande pronunciasse per caso. Lo studiò qualche
istante, sulla difensiva.
Di nuovo, la voce femminile
lo costrinse a spostare lo sguardo da Sirjan: «Non c'è bisogno di mentire tra
noi. Sappiamo tutti e tre cos'è successo, dopotutto.» commentò in tono pacato,
lo sguardo sul moro. Indicò il suo braccio: «Non te lo sei forse procurato
proteggendo il più giovane dei Bezarius?» chiese. Aedan annuì appena e Sirjan
si alzò, aggirando la scrivania.
Raggiunta anche lui la
finestra, parlò fissando il giardino fuori di essa: «Ricorda qualcosa?»
«Sembra di no, non da
quanto mi ha detto.» replicò il più giovane.
«Allora di certo rammenta
fin troppo. Ad ogni modo, l'errore è stato mio.» ammise Sirjan.
«Non è certo che ricordi le
voci.» fece notare Aedan. Sirjan lo osservò, un sorriso ironico sulle labbra:
«Per esperienza so che se così non fosse, non ti farebbe domande.» spiegò
semplicemente, spostando lo sguardo sulla ragazza seduta.
«Cosa ne pensi, sorella? E'
Vincent Nightray che dovremmo tenere d'occhio?» domandò. L'altra scosse la
testa, tornando con lo sguardo all'esterno della stanza.
«Non credo, non ancora.
Vincent Nightray conosce ciò che stiamo nascondendo non solo ai Bezarius, ma a
tutte le famiglie dell'alta società se così vogliamo definirla. Ma non conosce
il metodo per raggiungerlo e, oltretutto, non è suo interesse che si venga a
sapere. Al contrario, vuole nasconderlo quanto noi. Pertanto non credo sia
sensato per ora tenere d'occhio lui e credo che Oz Bezarius dovrebbe avere la
priorità.» replicò esponendo il suo punto di vista sulla questione.
Sirjan annuì e tornò con
l'attenzione su Aedan: «Per ora continua a sorvegliare il minore dei Bezarius
allora.» ordinò soltanto.
Aedan lo osservò in
silenzio; optò per tenere la domanda per sé, come tante altre volte in cui
aveva taciuto da quando "lavorava" con e per Sirjan.
Perché proprio quei due
conoscessero la vicenda, i particolari, le persone da cui doveva essere tenuta
lontana, nascosta sotto strati di bugie.
Perché proprio in quella
scuola.
Perché proprio i Kolstoj.
Oz, che si era ripromesso
di coinvolgere Echo nel loro "trio" non appena l'avesse vista a
lezione - anche se probabilmente Alice all'inizio non sarebbe stata contenta -
pensò che sì, se aveva avuto la fortuna di incrociarla quello stesso
pomeriggio, non poteva che essere destino.
Dopo il pranzo passato con
Noah pieno di risvegliati istinti omicidi verso la docente di Arte - ci
manca solo che mi spari "signor Keynes, non tiene il pennello da pittura
in maniera educata" e giuro su Dio che le piazzo insetti nella zuppa! -
un Marcus che sottolineava quanto il fratello fosse rumoroso e una Alice la cui
massima preoccupazione era spolpare il pollo preso per pranzo, Oz aveva deciso
di cercare Gilbert.
Non aveva certo dimenticato
che l'altro gli aveva promesso una spiegazione!
Era stato vagando, per
l'appunto, che aveva visto Echo in giardino da sola.
Sorrise meccanicamente,
avvicinandosi al punto dove era seduta e salutandola con tono allegro. Le porse
la mano per aiutarla ad alzarsi, giustificando il tutto con un: «Andiamo a fare
una passeggiata?» spontaneo come se per loro fosse una prassi e non si
conoscessero sì e no da mezza giornata.
Echo osservò la mano
perplessa, spostando poi lo sguardo nuovamente su Oz: «Perché sei tanto fissato
con Echo?» domandò senza girarci troppo intorno. Il biondo ridacchiò: «Vorrei
esserti amico.» fu la risposta quasi immediata.
La cosa parve spiazzarla:
«E perché?»
«Mmh...» sembrò pensarci su
lui. Sorrise più ampiamente: «Perché sei anche amica di Alice e siamo compagni
di corso e stare tutti insieme sarebbe più divertente.» concluse, come se
fossero motivazioni ovvie e quasi scontate.
«Tu conosci padron Gilbert,
vero?» se ne uscì lei, cambiando totalmente discorso. Oz la osservò confuso per
un attimo, dopo il quale fece cenno di sì con la testa: «Sì, ci conosciamo da
un po'.» rispose, vedendo Echo accettare finalmente la mano rimasta tesa verso
di lei fino a quel momento e alzarsi.
«Se sei amico di padron Gilbert,
allora Echo non può essere sgarbata con te.» fu la spiegazione che diede. Oz
non commentò; gli bastava che avesse accettato, in fondo: «Sai dov'è Gil?»
chiese poi.
Lei scosse la testa ed Oz
assunse un'aria offesa: «Come al solito ti serve e non si trova!» sbottò, senza
lasciare la mano di Echo e avviandosi verso l'edificio scolastico.
Echo guardò la mano che non
veniva lasciata, nuovamente perplessa dall'atteggiamento del biondo: «Perché la
tieni ancora? Echo sa camminare da sola.» puntualizzò.
Oz rise divertito: «Lo so,
ma la tengo lo stesso se non ti spiace, piccola Echo.» fu la risposta quasi
scontata.
«Fa lo stesso. Ed è solo
Echo.»
«Ma piccola Echo è più
carino!»
«E' solo Echo.»
«Uffaaa...» si lamentò Oz,
arrendendosi - ma solo per il momento, ovvio.
Camminarono per un po' in
silenzio, controllando la mensa e l'atrio, proseguendo poi per i posti più
nelle vicinanze. Si dirigevano in biblioteca senza aver ancora intravisto
nemmeno l'ombra di Gilbert, che ad Oz venne in mente.
«Echo» la chiamò, benché
fosse effettivamente al suo fianco: «chiami Gilbert "padrone" perché
sei la sua guardia del corpo o il servitore personale?» domandò incuriosito.
Da quando lui e Gilbert si
erano incontrati a Latowidge, non si erano praticamente mai detti nulla riguardo
a cosa fosse accaduto in quegli anni.
Per quanto ne sapeva Oz,
quindi, tutto poteva essere.
Echo, però, scosse la
testa: «Echo è affidata e serve padron Vincent. Però deve comunque rispettare
anche padron Gilbert e padron Elliot.» spiegò. Oz non trovò riscontri riguardo
quell' "Elliot", ma fu facile supporre che si trattasse del fratello
più piccolo di Gilbert. Magari Noah glielo aveva anche nominato e lui non lo
ricordava.
«Per questo sei qui a
scuola Echo? Per stare affianco a Vincent?» chiese, quasi cercando conferma che
molti studenti non fossero davvero lì per studiare ma solo per proteggere i
veri e propri studenti di Latowidge.
Echo, mantenendo lo sguardo
davanti a sé, annuì: «Per eseguire gli ordini di padron Vincent.» specificò. Oz
tacque, continuando ad avanzare e raggiungendo in breve l'angolo che dava sul
corridoio della biblioteca. Fece per voltarlo, ma l'altra lo trattenne. Si
voltò verso di lei, l'espressione interrogativa sul volto.
«Echo deve rientrare.»
disse lei, il tono apatico.
Oz annuì con un sorriso,
lasciandole la mano: «Ci vediamo a cena, oppure domani!» la salutò allegro,
facendo per avviarsi.
«Oz Bezarius?» si sentì
chiamare da lei, costretto nuovamente a voltarsi verso la ragazza: «Tu non sei
un servitore. Echo pensa che tu non sia come gli studenti normali. Allora
perché mai sei qui?»
«Che cattiva, chissà come
ci è rimasto male quando glielo hai chiesto.» commentò, il tono carico di
un'ironia quasi sadica. Chinò appena il capo, ignorando diverse ciocche di
capelli biondi che andarono a nascondere parte del viso; quasi un attore
nascosto dal sipario al pubblico presente.
Sfiorò il collo della
ragazza tenuta in grembo con le labbra, il tocco e la stretta sulla sua vita in
qualche modo possessivi. Ma non per affetto.
«Sei stata brava, Echo.»
sussurrò. La più piccola rabbrividì appena, il rossore ad imporporarle le
guance.
«Padron Vincent» mormorò:
«ora Echo cosa deve...?»
«Shhht.» la interruppe lui:
«Ora noi resteremo a guardare per un po', Echo.»
Note (e avviso)
Ossia quel "(1)"
che avete trovato alla lezione di Coleman. Giusto una breve spiegazione per
rendere la lezione e la follia di quell'uomo vagamente comprensibili XD
La teoria di cui parlano è
una delle poche di Zenone (o almeno delle poche che si studiano di solito).
"Achille e la tartaruga", sostiene che se la tartaruga parte prima di
Achille, lui per raggiungerla deve prima arrivare dove si trova lei e poi
superarla.
Il problema è che la
tartaruga continua a muoversi, quindi lui non la raggiunge e non la supera mai:
è una cosa che non prende in considerazione la velocità, ma la distanza e i
canoni con cui la si deve percorrere.
Quindi immaginate il
professore che salta e obbliga Oz a fermarsi in mezzo all'aula quando raggiunge
il punto in cui Coleman-tartaruga era prima.
Fine XD
Non chiedetemi perché
mentre scrivo questa longfic mi tornano in mente le lezioni di filosofia di 3
anni fa. Non lo so *si prepara ad essere trucidata con dolore*
Quanto all'avviso avrete
notato già da voi che non pubblico più ogni due giorni ma a intervalli più ampi
(e, per ora, ancora accettabili XD): credo che sarà sempre così, da ora in poi,
perché ricominciano università, esami, lavoro e sport. Ma cercherò di mantenere
aggiornamenti umani (non sarebbe la prima volta che un ficwriter - e nello
specifico io - scrive la notte *-*").
E ora, ringraziamenti <3
Come sempre grazie a chi legge e in particolare a chi recensiona:
Gioielle: mi assumerò le responsabilità di averti reso vitale
chiamare Gilbert “Monnalisa” XD
Dunque, per quanto riguarda
Marcus e Noah, posso dirti che lo scoprirete solo leggendo XP (e non darvi
spoiler è una sofferenza. Io chiacchiero troppo). Quanto a Jack e Glen posso
essere un po’ più indulgente dicendovi che sicuramente appariranno (non fosse
altro che tra i personaggi ho scritto “un po’ tutti” XD).
Per le scene GilOz, ve le
sto facendo davvero penare, lo so y_y E so che il poco che c’è stato qui forse
non vi appaga, ma siate fiduciose ù.ù Per l’IC non sei ripetitiva, a me fa
sempre piacere avere conferma visto che i lettori sono l’unico riscontro ^^ E
per Sirjan… beh, aspetto il tuo giudizio dopo questo capitolo XD
LitaChan: aw, ti ringrazio per i complimenti <3
Noah quando si impegna sa
essere anche più pucchoso di così XD *non sa se sia un bene o un male* E chissà
che con questo capitolo io non ti abbia chiarito un po’ chi è più sincero fra
Vincent e Sirjan X°°D
Per le voci, soffrirete
ancora un po’ ù_ù Se vi consola, però, potete sbizzarrirvi sulle varie
possibilità XD
Musica… Elliot… *divaga
volentieri con lei sbavando* coff. xD
ShAiW: tranquilla, anche se hai saltato il precedente il tuo
parere fa sempre piacere <3
Dunque, dunque… ormai non
mi stupisco più di vedere che tutte considerate canon la MarcusNoah XD E non ci
sono molti complimenti che mi facciano felice come riuscire a far risultare
almeno vagamente simpatico un personaggio che un lettore prima sopportava poco
o magari odiava <3 *felice*
Quanto all’abbondare dei docenti fighi, lo so, lo so… ma è
la Mochizuki che li disegna così, eh, io mi limito a descrivere come li vedo XD
*ghigna malignamente perché essendo l’autrice conosce sviluppi vari* kukuku +.+
Il padrone di Aedan per ora
medito di lasciarlo rimanere un nome e nulla di più (come in questo capitolo);
quanto a Elliot e Reo, pazienta ancora un po’ x3
makotochan: siccome ti conosco da tanto, mi prendo la libertà di
dirti che le tue recensioni iniziano ad inquietarmi x° *paura* comunque lo
sappiamo che Oz è tutto particolare, io non mi sorprendo del fatto che si fidi
(se di fiducia si può parlare) di Vincent XD *lei non si stupisce di nulla
ormai*
Sono contenta che ti
piaccia Rufus, perché tengo particolarmente a quell’uomo *-* Quanto allo
sbadiglio di Noah, suvvia: quel ragazzo nasce per essere scemo anche nelle
scene pesanti XD
Visto che ti era piaciuto
Aedan, confido che l’approfondimento di questo capitolo sia stato di tuo
gradimento ù.ù
Yoko891: wiiiih, le virgole al loro posto! *__* *festeggia* XD
Non so quanto dovrei
preoccuparmi dell’IC di Vincent, considerando che lo muovo senza pensarci troppo
(e quindi si suppone mi venga naturale) ma lo prendo sicuramente per un
complimento almeno come ficwriter *-*
Sapevo che avresti sbavato
su Sirjan e beh, a volte anche possedere gli spoiler non conta ù_ù *specie se
sono su storie di Shichan, che ogni tanto cambia trama* XD
Le lezioni di Break sono il
bene incarnato sulla Terra *muore* e cercherò di descriverne qualcuna di più se
lo spazio e la trama permetteranno, perché sono la prima che si diverte a
scriverle XD
«Shhht.» la interruppe lui:
«Ora noi restiamo a guardare per un po', Echo.»
La più piccola tacque,
limitandosi ad annuire; azzardò a scostarsi dal biondo solo quando vide la
maniglia della porta abbassarsi, segno che Gilbert stava rientrando - dato che
quella era la camere dei due.
Vincent allentò la presa
sulla sua vita, permettendole di alzarsi dalle proprie gambe e sistemarsi
lateralmente mentre Gilbert, varcata la soglia, si richiudeva la porta alle
spalle.
Quando spostò lo sguardo
sulla stanza, incrociò quello di Vincent: le gambe accavallate l'una
sull'altra, un braccio poggiato sulla gamba, l'altro piegato a sorreggere il
volto.
Un sorriso quasi infantile
- così simile al primo che gli aveva rivolto, e a tutti gli altri a seguire - gli
increspava le labbra.
«Bentornato, fratello.» lo
salutò, il tono vellutato quasi. Gilbert sentì un leggero brivido, ma dissimulò
la cosa avvicinandosi e avanzando nella stanza con un: «Grazie.» poco più che
mormorato. Il biondo non si mosse, limitandosi ad osservare i movimenti del
maggiore.
«Eri a studiare, Gil?»
domandò, il tono curioso come quello di un bambino.
Il moro, avvicinatosi al
letto annuì, togliendo la giacca della divisa: «Ho avuto un recupero con
Wayne.» replicò. Vincent ridacchiò: «Non sei proprio bravo a dire le bugie,
Gil, proprio come quando eravamo piccoli. Wayne non dà ripetizioni.» gli fece
notare.
Gilbert lo guardò smarrito
per un attimo: «Puoi chiedere al professore, se non mi credi.» commentò
burbero.
Vincent si stiracchiò,
coprendo uno sbadiglio con la mano: «Non glielo chiederò. Io mi fido di te,
Gil.» disse, una contraddizione con l'appunto rivolto al fratello un attimo
prima.
Il maggiore alzò appena gli
occhi al soffitto, senza farsi vedere e sospirando piano. Vincent era sempre
così: non importava che fosse suo fratello o che lo conoscesse da anni; non lo
capiva, era imperscrutabile e questo a Gilbert non piaceva.
Non era mai piaciuto;
inquietante prima, scomodo poi. Terrificante, a volte.
«Gil, cosa c'è che non va?»
mormorò, molto più vicino senza che lui se ne fosse accorto, visto il tono di
voce ora alle proprie spalle.
Anche questa sua mania di
avvicinarsi silenziosamente senza motivo era una cosa a cui Gilbert non si
sarebbe mai abituato. Si voltò bruscamente, già bofonchiando un
"niente" quando sentì che la propria mano era stata fermata vicino al
fianco da quella del fratello.
Lo osservò confuso, senza
capire, mentre Vincent portava la mano libera all'altezza del colletto della
camicia del maggiore: «Vince, cosa...?»
«Gil, è davvero un bene per
te avvicinarti di nuovo ai Bezarius?» sussurrò, il tono sottile che quasi si
insinuava direttamente nella sua testa. Gilbert sgranò appena gli occhi,
portando la mano che non era tenuta dall'altro ad afferrare il polso che era
praticamente all'altezza del suo collo.
«Questo che significa,
Vince?!» sbottò, nel tono quasi il timore di scoprire l'ennesimo colpo di testa
del minore.
Non sarebbe stata
certamente la prima volta.
Il biondo sorrise, pacato;
lo conosceva, quel modo di sorridere rivolgendo lo sguardo a lui, Gilbert.
Vide il viso del fratello
avvicinarsi impercettibilmente e, per riflesso, allentò la presa sul suo polso:
l'altro non raggiunse mai il volto del moro. Semplicemente, prese il nastro
della divisa tenuto sotto il colletto della camicia e lo tirò appena,
sciogliendo il nodo.
«Non significa nulla,
Gilbert. Solo, mi preoccupo per te.» replicò con naturalezza, allontanandosi da
lui e lasciandogli la mano.
Tirò appena su il nastro
che gli aveva tolto, come per segnalargli l'unico vero motivo dei suoi
movimenti: «Dovresti fare un bagno Gil, sembri davvero teso.» aggiunse poi.
Malgrado il tono non fosse
di scherno, Gilbert non poté fare a meno di sentirsi come se per l'ennesima
volta Vincent si fosse preso gioco di lui.
Echo era uscita dalla
stanza silenziosamente già da prima.
Occhieggiò il corridoio per
essere sicuro che non fosse troppo trafficato. Se non altro, la scelta di
tornare in dormitorio prima di cena era stata abbastanza sensata: solitamente
gli altri studenti approfittavano del pomeriggio - quando non avevano lezioni
di Musica o ripetizioni - per studiare o rilassarsi in giardino finché c'era
bel tempo.
Sospirò appena, facendo
capolino con la testa nel corridoio e percorrendolo per un po' fino a
raggiungere la porta della sua stanza.
L'aprì, scivolando nella
camera e richiudendo subito l'uscio alle proprie spalle; si poggiò contro la
superficie lignea con un sospiro lento, sollevato.
«Noah?»
...Ecco. Oz in camera era
un'eventualità che non aveva effettivamente preso in considerazione.
Alzò appena la testa,
cercando il biondo con lo sguardo ed individuandolo sul proprio letto:
probabilmente, fino ad un attimo prima era sdraiato, magari a riposare viste le
mani che facevano perno sul materasso per tenersi su.
«Scusami, riposavi?»
chiese, il tono con quel sottofondo divertito di sempre, solo appena più roco.
Lo sguardo abbastanza
allarmato di Oz gli suggerì che la penombra della stanza non aveva aiutato nel
suo intento di evitarsi delle domande sul suo stato. Il biondo, d'altra parte,
non era da biasimare: osservando con attenzione il viso di Noah, era stato
impossibile non notare il livido sullo zigomo sinistro che diventava lentamente
più evidente, né il sangue - seppure pochissimo - che usciva da labbro.
Decisamente malridotto.
«Che ti è successo?!»
chiese Oz, alzandosi del tutto e avvicinandosi al compagno, il tono e
l'espressione preoccupati. Noah abbozzò un sorrisetto: «Tranquillo, sto
bene...» borbottò.
Oz assunse un'aria fra
l'arrabbiato e quella sfumatura di preoccupazione di poco prima: «Come può
andare bene con la faccia in quello stato?!» gli fece notare quanto la sua
bugia fosse inutile data l'evidenza.
Lo sentì ridacchiare, ma in
breve divenne un tossicchiare leggero mentre Noah si avvicinava al proprio letto,
sedendovi quasi come fosse una liberazione.
«Va tutto bene, è un po' la
norma.» ammise, lasciando Oz di stucco.
Non era lì da molto, era
vero, e proprio per questo non poteva sapere cosa fosse normale e permesso a
Latowidge e cosa no; ma nemmeno nelle scuole di più basso livello il bullismo
era visto di buon occhio, perciò non capiva come fosse possibile che in una
scuola dove molti studenti avevano persino la guardia del corpo personale
potesse essere "la norma".
«...vado a chiedere del
ghiaccio in infermeria.» decise Oz, avvicinandosi alla porta ma sentendosi
trattenere per la giacca.
Noah ne aveva afferrato un
lembo ed ora lo fissava con l'espressione più seria che gli avesse mai rivolto
da quando Oz lo aveva conosciuto.
«Se vai in infermeria ci
mettiamo tutti nei guai. E non mi aiuteresti.» sottolineò. Tanto bastò ad Oz
per desistere e sostituire l'opzione ghiaccio ad un asciugamano bagnato con
l'acqua fredda nel bagno della loro stanza.
Quando ne uscì, lo porse a
Noah che si lasciò guidare fino al punto del viso offeso, tenendo poi lui
stesso il panno premuto contro lo zigomo.
Lasciando che se ne
occupasse da solo per essere certo di non fargli troppo male, Oz si ritrovò a
guardare le mani di Noah: non presentavano la minima sbucciatura, né erano arrossate
o davano in qualche modo ad intendere che oltre ad averle prese le avesse anche
date.
«Erano tanti?» domandò
prima di potersi zittire.
Noah lo guardò sorpreso,
chiedendosi forse da dove gli fosse uscita quella domanda, fra tante possibili:
«Non più del solito. Non sono mai più di tre o quattro, darebbero nell'occhio.»
replicò semplicemente.
Oz strinse appena i pugni:
«Non li picchi perché ti tengono fermo?» mormorò, la frangia che copriva lo
sguardo. Noah lo osservò, quasi studiandolo prima di dargli una risposta.
Sospirò piano - un leggero
gemito; i bastardi dovevano aver dato un colpo alle costole un po' più forte di
quanto si era aspettato - allungando la mano libera a scompigliargli appena i
capelli.
Quando Oz alzò lo sguardo,
lo vide sorridere con la solita sfumatura allegra negli occhi: «Non picchio con
le mani, ma questo non significa che i miei piedi non siano efficienti.
Comunque, sicuramente ne do meno di quante ne prendo. Ma va bene così.»
commentò.
Oz si sedette a sua volta,
osservandolo in silenzio per un po', Noah che di suo non diceva nulla: era
strano, vedere l'altro silenzioso quando normalmente era quello che spesso li
riuniva anche solo con una battuta particolarmente stupida.
L'altro si accorse dello
sguardo del biondo e lo incrociò volutamente con il proprio, sorridendo: «Cosa
vuoi sapere?» chiese, quasi leggendogli nel pensiero. Oz non se ne stupì
troppo, perché a conti fatti Noah era la persona che viveva più a contatto con
lui a Latowidge. Senza contare che si era dimostrato intuitivo fin dall'inizio.
«Non vorrei farti domande.
Tu non me ne hai fatte.» puntualizzò.
Noah scosse la testa: «Tu vuoi
farmi domande, ma vuoi sdebitarti perché io mi sono astenuto quando sono venuto
a prenderti in infermeria. E' diverso da "non volerle fare". Non mi
piace la falsa cortesia, Oz, quindi fammi tutte le domande che vuoi. Al
massimo, non ti risponderò, no?» gli fece notare, malgrado tutto una sfumatura
quasi divertita nel tono.
Oz abbozzò un sorriso per
riflesso più che per altro: «Hai detto che è la norma. Da quanto...?»
«Tipo da metà dell'anno
scorso.» replicò semplicemente, come se non riguardasse lui.
«Marcus lo sa?» fu, non
sapeva nemmeno lui perché, la cosa che gli venne spontaneo chiedere. Noah
ridacchiò appena, ma somigliava più ad un tic nervoso che non ad un'espressione
di divertimento.
«Lo sa eccome. Ti ricordi
che la prima volta che lo hai visto usciva dalla nostra stanza, con un
linguaggio da stalliere?» disse, ricordo al quale Oz annuì quasi subito: «Era
arrabbiato. Anche quel giorno mi avevano preso di mira, ma avevo appuntamento
con lui e quindi non hanno potuto fare grossi danni.» spiegò.
Oz, facendo mente locale,
ricordava che non aveva effettivamente segni visibili quel giorno.
Noah sospirò: «Si arrabbia
perché non le do indietro. E si infuria perché non gli permetto di pestarli al
mio posto.» concluse.
Il biondo lo osservò,
prestando la massima attenzione alle sue parole; gli sfuggivano ancora molte
cose però.
«Perché fai così? Perché ce
l'hanno con te?» domandò, quasi infantilmente forse. Noah si prese più tempo
per rispondere, pausa durante la quale tamponò un paio di volte lo zigomo.
«Non ti ho mai raccontato
di come siamo diventati fratellastri io e Marcus, vero?» chiese retoricamente,
apparentemente sembrava cambiare discorso. Oz optò per non insistere e lasciare
che parlasse solo delle cose che si sentiva di dirgli, quindi scosse la testa.
«Marcus è di buona, anzi
ottima famiglia. Mio padre e mia madre sono di origini modeste. Mia madre se
n'è andata di casa che avevo, boh... nove anni tipo.» iniziò, l'altro che non
interrompeva volutamente, pendendo dalle sue labbra come se quello fosse un
racconto estraneo ad entrambi.
«Papà ha sempre fatto il
fotografo. Ha conosciuto lei quando fu incaricato di fotografare dei suoi
quadri: mamma faceva la pittrice.» continuò: «Non sto a dirti come si sono
sposati perché è banale e noioso, erano due persone come tutte le altre. Lei
spesso doveva allontanarsi per dipingere cose nuove: voleva girare il mondo ed
erano un sacco giovani anche quando sono nato io, quindi diciamo che è
comprensibile.» ammise, come se mentre raccontava analizzasse per la prima
volta la situazione contemporaneamente al suo narrarla ad Oz.
Che, da parte sua, rimaneva
semplicemente in silenzio a guardarlo ed ascoltarlo.
«Quando i tuoi sono due che
dovrebbero viaggiare entrambi per il lavoro, le possibilità non sono tante. Ti
prendi una balia, uno dei due rinuncia oppure fai crescere tuo figlio dai
nonni.» fece notare.
Oz si chiedeva quale delle
tre opzioni fosse toccata a Noah; lui parve leggergli quella curiosità
dall'espressione che aveva in viso. Sorrise: «Papà prese una pausa e rimase a
casa.» chiarì.
«Però» riprese: «un bambino
non lo può crescere un genitore solo. Se ci sono problemi, come di tipo
economico, non ci puoi fare tanto. Ma non stavamo messi così male. Solo...
mamma è sempre stata una ragazzina egoista. Non è mai cresciuta, e di
sacrificare la felicità degli altri per la sua soddisfazione professionale, non
le è mai interessato. Tutto il mondo, per lei, valeva meno della sua stupida
arte.» disse, le parole più negative e severe che Oz gli avesse mai sentito
pronunciare.
Persino le invettive contro
la docente di Arte, sembravano commenti cattivi ma vuoi l'espressione buffa,
vuoi quel qualcosa di divertito sempre presente nel tono, non erano mai da
prendere seriamente.
Invece, notò Oz, non solo
il tono ma anche l'espressione lasciavano intendere che non c'era nulla di cui
ridere ora. Nulla su cui Noah stesse scherzando.
«Suo marito valeva meno.
Suo figlio, valeva meno.» ricominciò, ridestando l'attenzione di Oz: «E' andata
via che avevo nove anni. Se mi chiedono cosa ricordo di lei, io ricordo una
stronza che quando suo figlio le ha chiesto di restare gli ha voltato le
spalle, ha chiuso la porta e non è più tornata.» concluse, il tono risentito.
Sospirò piano, come se
cercasse lui stesso di ritrovare una certa imparzialità prima di proseguire.
Sembrò calmarsi in poco
tempo: «Papà mi ha cresciuto da solo e poi ha incontrato la mamma di Marcus. Di
suo padre non so molto, però. Comunque si piacciono e allora un giorno papà li
ha portati a casa. Marcus mi ha odiato per parecchio tempo: se diceva
"buongiorno", io e papà veneravamo almeno sei divinità di diverse
religioni ogni mattina.» ammise divertito.
Oz si ritrovò a ridacchiare
sommessamente, senza poterselo evitare: «Comunque ora andate d'accordo.» gli
fece notare. Noah annuì con un sorriso soddisfatto, e Oz non faticava a credere
ed immaginare che per molto tempo quella di piacere a Marcus fosse stata una
missione, per lui.
«Papà da quando sta con
Cecile, la mamma di Marcus, è felice. E anche a me la nuova famiglia piace.
Perciò, siccome sono qui per merito delle loro origini nobili, non voglio
essere di peso o farli vergognare di me.» ammise, un sorriso impacciato che Oz
vedeva per la prima volta.
Noah era sempre sembrato
uno che non si vergognava di nulla.
«Se mi metto a fare rissa,
sicuramente incolperanno me. Non importa anche se dico che non ho iniziato io.
Se mando Marcus a fare rissa, potrebbero non punirlo, ma il nome dei Wellesday
non penso ne gioverebbe. Perciò, le prendo e lascio stare. E ovviamente mi dico
che prima o poi si stancheranno da soli.» aggiunse, come un particolare ultimo
ma non meno importante del resto.
Oz era confuso tra la
sorpresa e l'assurdità della cosa.
«Ma perché dovrebbero
incolpare te?!» chiese, quasi all'improvviso. Noah ridacchiò: «Tu sei un tipo
onesto su queste cose, sennò non me lo chiederesti nemmeno.» esordì senza dare
una vera spiegazione sul momento.
«Perché c'è una gerarchia qui
dentro. Non sembra, e se non lo sai o non ci sei in mezzo non la vedi. Ma se ti
dicono che nelle scuole come questa trattano tutti nello stesso modo, allora
stai sicuro che ti raccontano una balla Oz. Qui dentro più è importante la tua
famiglia, più te la cavi. Specie l'anno scorso, che il capo dormitorio non era
Sirjan. Adesso con lui è un po' più vivibile.» ammise.
Oz, mentalmente,
riconsiderò Sirjan dopo il discorso avuto con Aedan in infermeria.
«Ma io sono di origini
umili e questo non cambia.»
«E questo che significa?!»
se ne uscì, irritato da quel punto di vista che sembrava venire in direttissima
dal Medioevo.
«Forse non ha importanza
per te.» gli fece notare, un sorriso quasi soddisfatto nel constatarlo: «Ma a
molti interessa. E le mie origini, non si cambiano in nessun modo, nemmeno se
Marcus ha un cognome che comprende anche il mio, o se i nostri genitori
risulteranno mai sposati e non solo come coppia che vive sotto lo stesso
tetto.» concluse.
Oz si morse appena il
labbro inferiore: giorno dopo giorno, scopriva cose di Latowidge che la
rendevano sempre più una scuola forse ritenuta fra le migliori, ma a che lui
sembrava quasi invivibile e piena solo di cose assurde e di regole altrettanto
insensate.
Tornò con lo sguardo su
Noah, titubante sul fargli o no la domanda che gli ronzava in testa; gli venne
però spontaneo: «Hai detto che senti tua madre... dopo le prime volte che ti
hanno preso di mira, non hai pensato di andare a vivere con lei e lasciare
Latowidge?» domandò.
Forse era una richiesta stupida,
o banale.
Noah scosse la testa: «Mai.
Non andrei mai a vivere con lei nemmeno per tutti i titoli nobiliari del mondo.
Io ero piccolo e visto quanto l'ho odiata man mano che crescevo, forse sono
quello che se l'è cavata meglio. Ma mio padre, lui era distrutto. E lei non si
è nemmeno mai preoccupata di chiedere come stava o come sarebbe stato se fosse
partita e lo avesse lasciato.» sbottò.
Quell'argomento, era
probabilmente l'unico davvero in grado di far arrabbiare Noah Keynes.
Oz stava quindi per cambiare
discorso con un'altra domanda che spostasse l'attenzione dalla donna, che Noah
lo precedette.
Si strinse istintivamente
nelle spalle: «Non dovrei arrabbiarmi ancora adesso, non se davvero la odiassi
come dico. Ma io rivedo mia madre anche quando lei non mi chiama al telefono e
la mia mente associa la voce ad un viso. La stupida capacità che gli altri
chiamano "dono", di tenere un pennello da pittura in mano e saperlo
usare decentemente per me è una maledizione. E' come se, continuamente, mi
dicessero: tu sei come tua madre.» se ne uscì, cogliendo Oz di sorpresa.
Quell'associazione di idee
tra due persone che probabilmente in comunque avevano solo l'aspetto, o come
nel caso di Noah un'abilità, gli faceva chiudere lo stomaco quasi fino a star
male: «Se puoi smettere... allora perché continui a dipingere?» domandò quasi
istintivamente, senza riflettere.
Noah parve sorpreso dalla
domanda, ma non a lungo.
Tolse l'asciugamano dal
viso, poggiandolo per terra alla meno peggio per non bagnare il materasso.
«Io odio l'arte. Ma tanto
più cerco di allontanarmi da essa, tanto più mi dico... che sono solo questo.
Io sono solo quello che so dipingere. Non so eccellere in nessun'altra cosa che
questa. E allora, anche se mi ricorda mia madre e quello che ha fatto, che ci
posso fare? Anche se mentre dipingo ogni tanto resto imbambolato a guardare un
quadro con la voglia di distruggerlo e rompere la tela, che ci posso fare?»
cominciò, e parlava talmente a ruota libera e le parole erano così sincere e
rassegnate al tempo stesso che anche volendo, Oz non lo avrebbe mai interrotto.
«So che in realtà sono come
lei. Mi spaventa pensare che potrei aver ereditato da lei anche questo, che un
giorno mi sveglierò e farò le valigie e anche io abbandonerò tutto e tutti come
un egoista. Ma... cosa potrei farci, ormai? Siamo già uguali. Abbiamo
già quella stessa passione.» mormorò, zittendosi come se non ricordasse cosa
veniva dopo.
Come se si fosse perso un
pezzo di storia.
«Tu però sei ancora qui.»
disse Oz, senza preavviso, cogliendo di sorpresa l'altro: «Anche se odi tua
madre, dipingi ancora. Anche se sarebbe più facile andarsene, tu sei qui
giusto?» chiarì, osservandolo serio, convinto delle proprie parole.
Noah, dopo un attimo di
smarrimento, abbozzò un sorriso: «Sì, sono qui.» replicò, il tono più
tranquillo, come se l'altro gli avesse appena mostrato una via d'uscita.
Oz sorrise incoraggiante:
essere depresso, non era mai stato da lui e non era adatto nemmeno all'amico.
«Vuol dire che hai una
ragione per rimanere.» concluse.
Noah, quasi
inaspettatamente ridacchiò: «Oh, sì che ce l'ho.» ammise divertito, come se Oz
con quelle parole gli avesse fatto tornare in mente un particolare piuttosto
interessante.
E diciamocelo: Oz Bezarius
e la curiosità andavano a passeggio insieme ogni giorno, praticamente.
«Cosa?» fu quindi l'ovvia
domanda.
Noah si sporse verso di lui
con fare complice, anche se non c'era nessun altro in stanza con loro:
«Modestamente, Marcus ha smesso di odiarmi quando l'ho beccato che mi osservava
mentre dipingevo.» se ne uscì.
Obiettivamente, non c’era
alcun dubbio sul fatto che tutta quell’ansia da parte sua fosse in qualche modo
patetica. Ma, come si soleva dire: l’importante era esserne coscienti.
E, in ogni caso, da quando aveva saputo che Oz avrebbe studiato a Latowidge
incontrandolo nell’atrio, Gilbert aveva messo in conto che di preoccuparsi per
il più piccolo non avrebbe potuto farne a meno.
Quando per molti anni servi
una famiglia e i suoi componenti, l’istinto di proteggerli rimaneva per sempre:
non bastava essere adottati e, improvvisamente, divenire un loro pari. Ed era
probabilmente questo uno dei principali motivi per cui era bastato sentir dire
a Noah – Ada gli aveva proposto di mangiare con loro, visto che Vincent non era
sceso in mensa – che Oz era rimasto in camera dicendo di non sentirsi tanto
bene, perché lui impiegasse ben poco a congedarsi dai compagni per tornare in
dormitorio.
E ora, il respiro appena
velocizzato dal passo svelto, sostava davanti alla porta della stanza del
biondo. La osservò come se dovesse fargli chissà quale confessione mistica,
dopodiché bussò piano, incerto. Il dubbio che Oz stesse già riposando c’era;
non colse nessuna risposta dall’interno.
Bussò appena più forte:
«Oz?» chiamò piano, il giusto perché si sentisse nella stanza.
Ci volle poco perché la
porta si socchiudesse aprendosi verso l’interno e la testa di Oz facesse
capolino, lo sguardo chiaro sorpreso di trovare il più grande lì: «Gil, che ci
fai qui?» chiese infatti.
Gilbert sorrise,
l’espressione innegabilmente sollevata: se era in piedi, non stava troppo male.
Oltretutto, per quel poco che vedeva con la luce del corridoio non era
eccessivamente pallido.
«Riposavi?» domandò. Oz
scosse la testa, aprendo un po’ di più la porta.
«Posso entrare?» chiese
quindi, mentre Oz si scostava già aprendo del tutto l’uscio per lasciarlo
passare. Prima di richiudere, il biondo accese la luce allungando la mano per
raggiungere l’interruttore.
Gilbert sbatté un paio di
volte le palpebre.
«Eri al buio?» osservò,
perplesso. Oz ridacchiò: «Perché, ancora ti spaventa come quando eravamo più
piccoli?» scherzò su prendendolo in giro e notando un inconfondibile rossore
sulle guance dell’altro.
Non commentò per chissà
quale miracolo.
«Come mai se qui, Gil?»
domandò invece, andandosi a sedere sul bordo del proprio letto facendo cenno
all’altro di imitarlo. Gilbert si sistemò ai piedi dello stesso materasso,
portando quindi lo sguardo sul biondo.
«Noah, il tuo compagno di
stanza.» disse inizialmente: «Ha detto che… non ti sentivi bene.» concluse. Oz
sorrise, chinandosi appena in avanti verso di lui.
Gilbert, osservandolo senza
capire, ebbe una sensazione di dejà-vu; strana, fu il modo in cui la etichettò.
Ricordava poco e in maniera piuttosto frammentaria gli ultimi anni a casa
Bezarius e quelli subito dopo, ma la sensazione che fosse un movimento abituale
quello di Oz era quasi una certezza. Prendendo in considerazione il se stesso
di allora, più timido e incerto – e certamente più incapace di adesso – non era
difficile immaginare che Oz usasse quel modo di sporgersi verso di lui quando,
troppo imbarazzato o mortificato, abbassava tanto lo sguardo e il capo da
rendere il viso poco visibile.
Ora, però, era diverso.
Benché lui, in qualche modo, fosse rimasto il Gilbert bambino e ansioso di un
tempo.
«Cosa c’è?» borbottò
fissando Oz di rimando. L’altro ridacchiò: «Ti stai di nuovo preoccupando
troppo, Gil. Vero?» disse in quella che, tuttavia, sembrava una domanda
retorica.
Nel chiederglielo, aveva
portato la mano sulla testa del moro, scompigliando quasi impercettibilmente i
capelli con quel vizio di invertire i ruoli che aveva sempre avuto, come se il
minore dei due fosse Gilbert e non Oz.
Sorrideva, Oz; lui
sorrideva sempre.
Poteva ingannare chiunque:
Noah, che lo conosceva da relativamente poco anche se meglio di qualunque altro
compagno lì a Latowidge. Alice, di cui Gilbert ancora non comprendeva il legame
con il biondo.
Oz mentiva, e lo faceva
bene: lui stesso era stato spesso raggirato e preso in giro bonariamente per la
sua incapacità di distinguere le sue bugie dalla verità.
Non aveva un senso logico,
dubitare adesso fra le tante volte che c’erano e ci sarebbero state: eppure,
l’afferrargli lentamente il polso, senza movimenti bruschi ma con fermezza, fu
un movimento del tutto naturale.
Oz ne fu inevitabilmente
sorpreso e sbatté le palpebre un paio di volte, l’espressione perplessa.
«…Cosa c’è, Gil?»
«Dimmelo tu. Cosa c’è, Oz?»
replicò serio, il tono calmo. Non era arrabbiato, solo confuso.
Oz, per contro, lo era
certamente più di lui: «Non c’è nulla che non va.»
«A parte che stai male?»
domandò, appena più un’insinuazione stavolta. Oz assunse un’aria contrariata:
non gli piaceva quando qualcuno era così guardingo nei suoi confronti.
Significava che le sue
bugie, la sua finzione e il suo “va tutto bene” avevano un falla da qualche
parte, e che lui non la vedeva.
«È solo un malore, Gil.»
Il moro sospirò fra il
rassegnato e il paziente. Fissò l’altro, lasciando che per qualche istante
regnasse il silenzio: «Cosa c’è?» chiese di nuovo, insistente forse.
Oz tacque, spostando lo
sguardo altrove; era inutile continuare a mentire con un Gilbert così
intestardito, anche se parlare non gli andava a genio per niente. Optò per un
compromesso accettabile.
Non era necessario
raccontare tutta la verità.
Ma, per contro, le parole
di Echo non lo avevano lasciato in pace per un attimo: in parte, anche l'aver
ascoltato il racconto di Noah, l'aver visto con cosa l'amico conviveva e come
lo faceva, lo aveva messo quasi a disagio.
La certezza dell'altro
nell'affermare chi fosse aveva scatenato troppe cose alle quali Oz aveva
sempre, vigliaccamente, evitato di pensare.
Cosa fosse in grado di fare
e cosa no, per esempio. Cosa volesse fare, così diverso da cosa si
doveva fare e dagli aspetti che un giovane di buona famiglia dovesse possedere
e dimostrare al resto del mondo. L'aspettativa, ad Oz non era mai piaciuta.
Le speranze che gli altri
riponevano in lui, le aveva sempre ignorate, fingendo di non conoscerle;
fuggire e non essere legati a nessun obiettivo era facile, lo era sempre stato.
Aveva iniziato a scappare
l'ultima volta in cui aveva cercato di rispondere positivamente a quello che ci
si aspettava da lui. Non avrebbe ricominciato.
Anche se significava non
avere alcun punto di arrivo, e improvvisare una vita intera nemmeno fosse un
gioco di cui si inventavano le regole sul momento.
«...Oz?» si sentì chiamare
nuovamente, tornando alla realtà e scuotendo appena la testa.
«Gil... non sono uno
studente normale, io?» se ne uscì, senza un senso logico o un motivo, senza
nemmeno rispondere alla domanda di Gilbert.
O almeno, non direttamente.
Il più grande lo osservò e
per un attimo sentì qualcosa di fastidioso, da qualche parte nella sua testa:
era una scena vista. Era un Oz che conosceva, quello che non lo guardava e gli
faceva domande che apparentemente non stavano né in cielo, né in terra.
Era un Oz che non voleva
rivedere, che poteva persino non piacergli - se solo lui fosse stato in
grado di provare quel tipo di sentimento negativo verso il biondo.
«Cosa vuol dire?» domandò
perplesso.
Ma bastava quella richiesta
semplice e legittima, per far sì che Oz alzasse fra loro lo stesso muro che non
aveva mai fatto avvicinare nessuno negli ultimi anni. Ridacchiò.
E significava sempre altre
bugie, questo.
«Lascia stare, non...»
«Perché quando si tratta di
me sembra quasi che io sia obbligato a risponderti e invece, quando sono io a
volere delle spiegazioni fai sempre così?!» sbottò il moro, fissandolo e
tirando leggermente il polso verso di sé, come ad enfatizzare quanto detto.
Oz alzò lo sguardo su di
lui, d'improvviso irritato senza sapere perché: «Così come?!» replicò,
fissandolo eloquentemente, come se fosse Gilbert a doversi scusare.
Per una volta il moro non
vacillò - così diverso dal passato e dal Gil bambino che si sarebbe certamente
scusato subito, mortificato addirittura: «Così come stai facendo. O menti, o
ridi, o non rispondi e basta. Cosa c'è da ridere dopo avermi chiesto se sei
normale?!» chiese quindi, ma nel tono che avrebbe dovuto essere almeno irritato
quanto il suo, Oz riconobbe la cosa che meno avrebbe voluto notarvi.
Gilbert era di nuovo
preoccupato a causa sua.
«E' solo...!» iniziò
convinto, facendo però il grave errore di soffermarsi col proprio sguardo su
quello di Gilbert. Non era più il bambino che, sebbene più grande di lui, era
facile da raggirare con un bugia ben architettata. E non era nemmeno più il
ragazzino, servitore di casa Bezarius, che si lasciava intimorire da quasi ogni
cosa.
Non era più qualcuno che
lui, Oz, potesse tenere lontano con quel muro invisibile che si portava dietro
da anni.
Spostò lo sguardo: era come
ammettere di essere stato in qualche modo sconfitto, stavolta.
«Perché sono qui a
Latowidge, Gil?» mormorò, il tono un misto di diverse cose, che Gilbert non
riuscì a riconoscere subito del tutto.
«Ma...?»
«E' perché sono di buona
famiglia? O deve esserci per forza un motivo particolare per ognuno di noi?»
continuò Oz, interrompendo qualsiasi domanda Gilbert avesse iniziato a porre.
«E' un collegio normale,
questo? Perché non sembra affatto. Regole che spuntano fuori dal nulla, guardie
del corpo che hanno la mia età e sono convinte che la loro vita non vale niente
se non per proteggere il padrone o chiunque decida di dargli ordini per un
motivo qualsiasi. Servitori che non sembrano nemmeno avere una personalità loro
e che mi dicono che non capisco, e che vengono a chiedermi perché sono
qui, come se...» fece una pausa, l'espressione che si era contratta in un
cipiglio che era un misto tra l'irritato, il confuso e il panico forse.
«Come se non fossi adatto
a starci. Come se... nessuno di loro si aspettasse uno come me qui.» concluse,
vergognandosi di un lato così debole e di esserselo lasciato sfuggire di mano.
Non era da lui lamentarsi,
non era da lui mostrarsi preoccupato, non importava quanto la situazione fosse
grave.
Gilbert aveva ascoltato con
attenzione, cercando di capire dove volesse andare a parare con quelle parole
ma, al tempo stesso, quasi perdendosi.
E la sua ultima frase, ai
suoi occhi era apparsa quasi come un'accusa: perché anche lui, vedendolo a
Latowidge, si era chiesto cosa ci facesse lì.
Forse con meno cattiveria,
sicuramente senza la minima intenzione di smuovere l'animo di Oz a quel modo,
ma ci aveva pensato.
«Gil, cosa mi stai
nascondendo?» se ne uscì il biondo, che in quella pausa in cui era calato il
silenzio aveva osservato il più grande fissare un punto imprecisato, senza
rispondere.
Gilbert portò lo sguardo su
di lui: «Oz, neanche io mi aspettavo che tu venissi a studiare qui.» rivelò in
un mormorio.
Oz, dopo un primo istante
di sgomento che non riuscì a non mostrare, tirò via la mano dall'ormai
indebolita presa di Gilbert: «Perché no?» domandò, nessun tremolio o simili
nella voce.
Il moro sospirò,
lentamente, abbassando appena lo sguardo: «E' solo che... anche Jack--»
«Non voglio ascoltare!» lo
interruppe bruscamente l'altro prima ancora che finisse la frase. Gilbert
tacque, l'espressione mortificata - dopotutto, non cambiava niente, mai.
Oz spostò lo sguardo
altrove, facendo per alzarsi: se era quello il punto, se era di quello che
voleva parlare, allora non aveva niente altro da dire a Gilbert. Avrebbe
riposato e il giorno dopo sarebbe tornato a lezione, lì a Latowidge. Non
importava quanti altri ancora avrebbero chiesto "perché era lì".
Gilbert lo aveva
immediatamente seguito con lo sguardo nel vederlo alzarsi, notandolo barcollare
poco dopo. Gli fu accanto praticamente subito, senza quasi accorgersi di quel
movimento venuto spontaneamente.
In piedi, sorresse il più
piccolo - le mani sulle spalle, per evitargli quel barcollare, la schiena di Oz
appena a contatto con il suo stomaco più o meno.
«Ehi.» chiamò piano,
vedendo l'altro restio a quel contatto muoversi in modo tale da allontanarsi.
Si accigliò, approfittando per una volta di avere più forza del biondo e
facendo pressione con la mano sulla spalla.
Lo voltò in modo tale da
guardarlo in viso, ma non ne aveva realmente bisogno: seppur goffamente, lo
aveva stretto in un abbraccio.
«Non sto dicendo che non
puoi stare qui, o che non ti voglio a Latowidge. Nessuno dice questo, Oz.»
borbottò. L'altro, rimasto immobile in quella stretta così "da
Gilbert", si rilassò lentamente per poi annuire, lasciando affondare il
viso nella stoffa della divisa del maggiore.
Inspirò lentamente, prima
di mormorare un: «Lo so...» il tono che lasciava intendere a Gilbert che, senza
ombra di dubbio, Oz si era imbronciato.
Si concesse un sorriso
sollevato, che Oz non poté vedere.
Nel silenzio della stanza,
la melodia lenta del pianoforte che si trovava a quello stesso piano
dell'edificio scolastico arrivava appena ovattata dalla distanza, ma non per
questo meno bella di quanto fosse.
Seduto accanto alla
finestra che, complice il buio anche all'esterno lasciava una volta tanto le
tende aperte senza il rischio che entrasse troppa luce, mantenne lo sguardo sul
giardino. Il "compagno" - era quasi ironico chiamarlo a quel modo, ma
non lo interessava più di tanto un semplice appellativo - taceva immobile e in
ascolto.
Incurvò le labbra in un
sorrisetto ironico, senza dire nulla comunque.
La melodia durò ancora
qualche attimo per poi avviarsi alla chiusura del brano ed, infine, cessare
ripristinando il silenzio.
Rimase immobile, di suo; fu
l'altro ad alzare appena il viso, spostando lo sguardo su di lui: «E' bella.»
commentò soltanto.
Si concesse uno sbuffo fra
l'annoiato e il sarcastico: «E' una musica di quasi dieci anni fa.» sottolineò,
come se questo ne sminuisse la bellezza. Dall'altro capo della stanza sentì
provenire un ridacchiare poco sommesso.
«E un semplice studente la
conosce?»
«E' un mio vecchio amico.»
ironizzò. L'altro schioccò le labbra e lui non se ne stupì: era sempre stato
permaloso e poco incline ad essere tenuto all'oscuro delle cose.
«Allora chi--»
«Taci.» ordinò
perentorio, benché nel tono non vi fossero sfumature seccate o irritate.
L'altro tacque, sebbene di malavoglia, e il compagno alla finestra tornò a
rilassarsi visibilmente. La melodia, da qualsiasi stanza provenisse, stava
ricominciando.
«Voglio ascoltare quanto
migliorerà fino a quel giorno.» spiegò, anche se l'altro non l’aveva domandato.
Ma sapeva lo stesso che una spiegazione la gradiva sempre.
«E' anche lui un umano
stupido.» fu l'irritato parere che venne dato come risposta.
«A questo proposito» disse,
richiamando a sé l'attenzione dell'altro - solo perché la melodia era stata
interrotta bruscamente dopo un passaggio completamente errato - senza
guardarlo: «voglio che mi liberi di qualcuno che mi sta seccando
particolarmente.» comunicò.
L'altro drizzò le orecchie:
finalmente qualcosa di vagamente interessante.
«Chi?»
«Vincent Nightray.»
Note
Per la vostra immensa gioia
(e per la mia che mi complico la vita, come se la trama fosse poco complessa di
suo *__*") il capitolo finisce così ù.ù
Non ci sono note
particolari per questo capitolo, a parte il mio invito a segnalarmi eventuali
OOC di Oz o Gil perché davvero, muoverli in questo capitolo è stato un parto
>.> (sarà che comincio ad accusare la stanchezza dello scrivere la notte
*come al solito*?)
Passiamo ai ringraziamenti
<3
Yoko891: ...come ho già detto, sull’IC di Gil (e Oz) non sono
molto convinta stavolta x° quindi mi affiderò al giudizio tuo e degli altri
lettori *-*”
Sono contenta per Rufus
<3 E anche che il precedente capitolo sia risultato scorrevole e per questo
piacevole da leggere. Spero che questo lo sia altrettanto X3
Gioielle: come ti accennai in altre sedi… la SirjanAedan no, per
l’amor di Dio *muore ripetutamente* Felice comunque che Aedan susciti interesse
(ai personaggi originali sono sempre affezionata. Le mie creature *coccola*) e
man mano sto cercando di dare spessore anche agli altri, come Noah in questo.
Per le scene GilOz… ce la
posso fare XD Dai che vi ho aggiunto quel-qualcosa-di-non-definito VinceGil XD *non
glielo aveva chiesto nessuno, ma vabbé*
Jack per ora almeno è stato
nominato, non c’era Marcus ma consoliamoci (?) c’era Noah XD
Ti ringrazio di seguirmi
sempre, spero che anche questo capitolo sia stato di tuo gradimento <3
LitaChan: e io non posso che ringraziare ogni commento ^^ come
detto, spero di aver sopperito un po’ almeno alla nostalgia per Noah ù.ù
Sempre gentilissima,
cuccati anche tu l’abbraccio da fan quale sei *-*
Un grazie particolare anche
a chi so che legge fisso (qui o in altre sedi) e mi supporta <3 Ally e Riza,
grazie <3
Capitolo 7 *** Un brano che non gli appartiene ***
Un brano che non gli appartiene
Un
brano che non gli appartiene
Goccia. Forse pioggia.
Cadenza ritmica, come
una stessa nota ripetuta milioni e milioni di volte.
Suono irregolare, poi;
singhiozzi.
Si volta verso destra,
la vista confusa, annebbiata.
«Oz? Sono venuta a
trovarti.» è poco più di un mormorio ma lo sente. Si volta dall'altra parte, e
nel suo campo visivo rientra una ragazza.
Capelli biondi, l'unica
cosa che distingue e che gli serve per capire: Ada.
E, d'altra parte, c'è
una consapevolezza - che non sa da dove viene, ma è lì - che gli suggerisce che
non potrebbe essere nessun altro all'infuori di lei.
Nessun altro viene in
quel posto.
«Come stai, fratellino?»
la sente mormorare di nuovo.
La testa pesante e la
lingua impastata dal sonno e qualcos'altro - di poca importanza, perché non lo
ricorda - non gli concedono altro che un mugolio di assenso che lui avrebbe
preferito tradurre in un saluto.
O in un'offesa.
Chissà perché Ada gli
scatena quelle sensazioni tanto diverse.
Volergli dire che va
tutto bene, e l'attimo dopo desiderare di ferirla.
Non sa perché funziona
così, ma può abituarsi anche a quello. Lui può abituarsi a tutto, ormai.
«Ti annoi un po', vero
Oz?» chiede, quasi lo sussurra come se non fosse certa che l'altro - lui - sia
sveglio o ancora mezzo addormentato.
Mh, eccolo lì: l'istinto
di farle male, di farla piangere. Non deve necessariamente alzarsi.
Sa che basta molto meno
con lei, lo ha assimilato passivamente durante le loro chiacchierate precedenti
a quella.
Ma vuole aspettare,
vuole darle una possibilità. Annuisce, comprendendo dal suo sguardo che attende
una risposta da lui. Lei sorride: quello è un motivo per cui spesso rinuncia
all'istinto avvertito poco prima. Perché il sorriso di Ada gli ricorda un po'
quello della madre.
Parla ancora, lui
l'ascolta: "Oz, ti saluta lo zio Oscar" - e lui annuisce - "Sai
fratellino, ieri Dina ha dormito sul tuo letto. Le manchi, credo" - e lui
annuisce - "Dopo forse passerà Gilbert, sai Oz?".
Ed eccola, quella molla
che spesso non sa proprio trattenere; e allora, pigramente, la lascia scattare.
Forse l'ha cacciata via, sì.
O forse ha di nuovo
detto quella frase che ha il potere di spezzare Ada, come se fosse una cosa
davvero fragile - esattamente quello che è.
Qualcun'altro è entrato
ma non scorge bene chi - maledetta vista appannata.
Goccia, singhiozzo,
singhiozzo, singhiozzo, il suo nome e acqua sul dorso della mano.
«Vattene da qui!»
qualcuno deve aver proprio alzato la voce, a giudicare dal silenzio che scende
poi.
Forse è chi entrato, o forse
è stato proprio lui? Si dice che poi non ha tanta importanza.
Ada sta piangendo di
nuovo.
Si alzò di scatto a sedere,
la fronte madida di sudore e il respiro appena affannato: classici aspetti di
un risveglio improvviso da un sonno agitato.
Inspirò più volte, cercando
di placare il respiro e regolarizzarlo del tutto, mentre una mano saliva ad
asciugare la fronte. Ad un sguardo vago, notò il pigiama fradicio e appiccicato
al corpo; passò una mano sugli occhi, sostandovi come se dovesse ulteriormente svegliarsi.
Era stato un sogno
allucinante, con quella pressante sensazione di voler ferire a tutti i costi
Ada. Assurdo e spaventoso, ecco cos'era: come se qualcosa dentro di sé odiasse
sua sorella - che stupidaggine, si disse.
Il respiro ora più calmo, fece
appena in tempo ad alzare lo sguardo che vide Noah uscire dal bagno: un
asciugamano bianco lo copriva dalla vita fin quasi alle caviglie, mentre teneva
l'altro intorno al collo, un lembo portato ad asciugare i capelli.
Lo fissò sorpreso:
«Porcaccia miseria, Oz, sei bianco come un cencio!» osservò, facendoglisi più
vicino.
Sembrò studiarlo per
qualche attimo: «Tutto ok, sì?» chiese conferma, domanda alla quale Oz annuì
debolmente.
«Sì, sì, ho solo... dormito
male.» mormorò in risposta. Noah storse appena il naso: «Dovresti farti dare
qualcosa in infermeria, Oz. Saranno tre giorni che ti svegli nello stesso stato
e guarda che io non ti prendo in braccio stile Shaye se mi crolli in corridoio,
eh?» ironizzò, ma nella battuta Oz riconobbe un consiglio dato più o meno
seriamente.
Erano effettivamente tre
notti che dormiva uno schifo, ma non aveva accennato ai sogni perché
effettivamente la prima notte non ne aveva fatti - o comunque non li ricordava.
Quello della sera prima era più confuso, ma ricordava dei frammenti e le
sensazioni erano più o meno le stesse di quello che lo aveva svegliato
bruscamente quella mattina.
Sospirò piano, preferendo
cambiare argomento rispondendo con un semplice: «Mh.» per chiudere quel
discorso. Osservò Noah, che si sedeva sul bordo del proprio letto e si
frizionava energicamente i capelli per togliere il grosso dell'acqua.
Erano passate due settimane
da quando lo aveva ritrovato con uno zigomo pesto e aveva poi parlato con
Gilbert - non aveva ben capito come Noah avesse nascosto in che stato fosse, ma
l'aveva fatto bene perché nessuno gli aveva fatto domande quando per qualche
giorno non si era presentato a lezione.
Appena era stato meno
visibile o era stato possibile farlo passare per qualcosa di diverso dal
risultato di una rissa, il compagno era tornato a frequentare normalmente.
«Come stai?» se ne uscì Oz,
tanto per evitare quel fastidioso silenzio che lo portava a concentrarsi sul
quella mezza specie di incubo fatto.
Noah gli sorrise: «Tutto
bene, ho la pellaccia dura. Giusto un po' di fastidio in zona costole, ma è
accettabile e visto la velocità con cui passa magari ho avuto fortuna e non me
le hanno incrinate. Sto migliorando nella difesa, yeah.» se ne uscì. Oz
ridacchiò: ormai aveva rinunciato a rivedere Noah serio come quando aveva
accennato a sua madre.
In parte, pensava, era
meglio così: preferiva di gran lunga quando l'amico era costamente allegro e
ottimista.
«Tu piuttosto» lo riportò
alla realtà la voce di Noah: «parlo sul serio quando dico che dovresti fare
qualcosa. Dormire poco non ti farà bene, a lungo andare.» riprese il discorso
di poco prima. Oz annuì, rivolgendogli un sorriso leggero: «Va bene, se
continua chiederò in infermeria.» promise.
Noah parve soddisfatto e
abbandonò l'asciugamano con cui aveva frizionato i capelli fino a quel momento
sullo schienale della seggiola alla propria scrivania. Si diresse quindi di
fronte all'armadio, aprendolo e iniziando ad indossare la divisa: «Il bagno è
libero, comunque.» comunicò.
«Ti sei svegliato
presto...» osservò stupito Oz, adocchiando la sveglia: un Noah in anticipo di
quasi un'ora rispetto a quando uscivano per fare colazione in mensa non era né
più, né meno di un miracolo. L'altro ridacchiò, lasciando sbottonati i primi
bottoni della camicia - li chiudeva sistemando anche il nastro sempre dopo
colazione, per comodità: «Beh, che c'è? Mica hai l'esclusiva sull'insonnia.» lo
prese in giro, tornando alla propria divisa mentre Oz si chiudeva in bagno con
uno sbuffo divertito.
Le lezioni di quella
mattina erano state relativamente leggere: un'ora di Coleman per iniziare, a
cui erano seguite una di Xerxes e una di Charlotte Baskerville. Dopo
l'intervallo, Wayne li aveva deliziati con una trentina di reazioni
chimiche con la pretesa che le finissero tutte entro l'ora di lezione e dopo
c'era stata l'oasi di salvezza, altresì conosciuta come:
"letteratura" e "Lunettes".
Presto avrebbero fatto
quell'uomo - che non aveva dato compiti quel giorno - santo. Altroché.
Il pranzo era stato più o
meno tranquillo: Ada non si era unita a loro, rimanendo al tavolo con i
compagni di corso per organizzare dei gruppi di lavoro. Anche Marcus non c'era,
il che aveva dato luogo a molte meno battute - visto che il fratello di Noah
era anche quello che ironizzava di più sul compagno di stanza di Oz.
Quest'ultimo aveva
intravisto Gilbert al tavolo con Vincent e, al fianco di quest'ultimo, c'era
Echo immobile ed in silenzio se non rare volte in cui l'aveva vista
interpellata proprio dal biondo.
Alla fine, quindi, si erano
ritrovati a mangiare insieme solo Oz, Noah ed Alice. La presenza di
quest'ultima, comunque, l'aveva lasciato perplesso: non perché non la volesse,
ovviamente.
Ma, quando poco dopo che
avevano iniziato a mangiare Oz aveva notato un paio di persone aggiungersi al
tavolo di Gilbert - ah, quelli. Uno è il terzo fratello, l'altro il
servitore - il minore dei Bezarius si era chiesto perché Alice, cugina di
Gilbert e quindi anche degli altri due, non fosse con loro.
Era un po' che la osservava
di sottecchi, quando Alice batté sonoramente le posate sul tavolo puntando lo
sguardo su Oz: «Se hai qualcosa da dire, dilla e basta!» sbottò innervosita,
probabilmente notando le sue occhiate già da prima.
Sorrise a mo di scusa: «Non
arrabbiarti, Alice.» disse inizialmente, osservandola mettere il broncio e
borbottare contrariata contro di lui e un generico vizio di fissare la gente
come degli imbecilli.
«Alice» ne richiamò
l'attenzione, il tono morbido, come quando si cerca di rassicurare qualcuno
prima di una domanda particolarmente difficile o indiscreta, magari: «come mai
non mangi con loro?» domandò infine, un cenno leggero verso il tavolo occupato
dai Nightray.
Lei lasciò stare quel che
era rimasto nel piatto dell'arrosto, alzando lo sguardo su di lui in un misto
di sorpresa e fastidio probabilmente.
Non si aspettava la domanda
e, a giudicare dall'espressione e dal tono con cui parlò, ne avrebbe fatto
volentieri a meno: «Non mi piacciono.» replicò sbrigativamente.
Oz parve assolutamente
insoddisfatto da quella risposta: «Ma Alice, sono i tuoi parenti.» le fece
notare, come se quello rendesse meno valida e credibile la sua risposta. La
ragazza lo fulminò con lo sguardo, neanche a dirlo: «Non dipende certo da me.
Anzi.» sottolineò, ironica.
Oz lanciò un'occhiata al
tavolo dov'era Gilbert con i fratelli, osservandoli: non conosceva quello che
si era aggiunto dopo che avevano preso da mangiare, ma Vincent gli era parso...
beh, non così invivibile, ecco.
Sbatté un paio di volte le
palpebre quando si rese conto che proprio il biondo stava muovendo la mano in
cenno di saluto in sua direzione: sorrise un po' impacciato, imitando il gesto
in risposta e notando Gilbert voltarsi in sua direzione mentre Vincent gli
diceva qualcosa - probabilmente gli indicava proprio Oz.
Il terzo fratello dava le
spalle al tavolo del più piccolo, impegnato in una conversazione con il
servitore.
Aveva appena notato un
sospiro da parte di Gilbert - pareva rassegnato, più che altro - quando si
sentì scuotere e si ritrovò faccia a faccia con Alice quando si voltò
nuovamente.
«Non ti avevo detto che con
Vincent non dovevi starci?» lo interrogò come un vero padrone che sgrida il
servitore. Oz ridacchiò nervosamente - Noah, notò, li osservava con un sorriso
divertito - gli occhi chiari sulla ragazza: «Ma Alice...»
«Non mi piace!» lo
interruppe lei sul nascere: «Vincent è uno che sembra soltanto una brava
persona. Non lo sopporto, non mi piace e lo odio. Ecco perché non sto al tavolo
con loro e tu che sei il mio servitore voglio che faccia lo stesso. Non stare
con lui, capito servo?!» concluse quello che aveva tutta l'aria di essere un
rimprovero.
Oz la osservò inizialmente
perplesso, perché quello scherzoso "servo" sembrava ora preso sul
serio ma, soprattutto, quella storia di Vincent Nightray stava diventando
assurda davvero.
Stava per rispondere
quando, casualmente, lo sguardo andò a posarsi sul grande orologio della mensa:
non era in ritardo, ma prima della lezione di musica doveva passare in
dormitorio a prendere l'occorrente.
Si alzò, quindi, senza
preoccuparsi di quanto aveva lasciato nel piatto e bevendo il resto dell'acqua
rimasta nel bicchiere. Sorrise sia verso Noah che verso Alice: «Vado prima di
arrivare in ritardo.» disse, aggirando il loro tavolo e allungando una mano per
scompigliare appena i capelli di Alice.
Le rivolse un ampio
sorriso: «Ti prometto che farò attenzione, Alice, perciò stai tranquilla e non
stare imbronciata.» si raccomandò, il tono gentile. Avviandosi all'uscita della
mensa, non poté vedere Alice non più accigliata ma con un broncio che la
rendeva quasi tenera, il rossore appena evidente sulle guance.
«Stupido Oz.» borbottò,
mentre Noah sorrideva in sua direzione: «Vero, però se te lo ha promesso non
infrangerà la parola data, no?» le fece notare.
Lei alzò lo sguardo sul
compagno, non proprio convinta: «Come fai ad esserne così sicuro?»
«Ovvio» se ne uscì,
facendole l'occhiolino: «perché Oz è proprio questo tipo di persona, giusto?»
disse, come se fosse una spiegazione valida.
Alice sbuffò leggermente,
ma annuì.
«E poi, se riesce persino a
fare sciogliere te, Ali--» iniziò, ma concluse la frase con un gemito
dolorante.
Aveva scordato che l'altra
fosse un'esperta di calci sugli stinchi.
Era arrivato nell’aula di
musica con un buon anticipo e ne aveva approfittato per sistemarsi ad un banco
della fila centrale, occhieggiando qualche compagno o compagna che lo avevano
preceduto e in attesa degli altri e della docente.
Quest’ultima non aveva
impiegato molto ad arrivare, dall’alto della sua puntualità; non era la prima
volta che Oz la vedeva – aveva già fatto con lei altre lezioni – ma ogni volta
osservarla era istintivo. Era senza dubbio una bella donna: i lineamenti del
viso erano morbidi e aggraziati, la pelle di porcellana quasi. Gli occhi, di
uno scuro color cioccolato sembravano costantemente rivolti alla controparte
con estrema cortesia – o forse, nel suo caso, era consigliabile definirla
“educazione”, visto il tipo di docente.
I capelli, piuttosto lunghi
e dello stesso colore rosso sanguigno del fratello, erano tenuti in perfetto
ordine talvolta da un chignon ben tirato, oppure in un’elegante acconciatura
che gli permetteva di lasciarli sciolti senza che le infastidissero lo sguardo
o risultassero una pettinatura sciatta e poco consona.
Quello che affascinava Oz –
al di là dell’innegabile bell’aspetto – era la somiglianza con il docente di
Storia: Miranda Barma, sorella gemella di Rufus Barma, sembrava più il suo
alter ego che non una parente.
E non era solamente
l’aspetto fisico, ma anche l’atmosfera che sembrava aleggiare intorno ad
entrambi, con la sola differenza che l’uomo tendeva ad un’apatia quasi
inespugnabile mentre – lo aveva provato il primo giorno – la donna era attenta
al minimo rumore o particolare fuori posto.
Ma per il resto, la
sensazione che contraddirli due volte sullo stesso argomento avrebbe potuto
scatenare una reazione non troppo piacevole, era la medesima con tutti e due.
Come accadeva nella
divisione di molte delle aule di studio, l’intero corso di musica era condiviso
dal primo e dal secondo anno: Oz aveva intravisto in aula Echo, poco prima che
la docente entrasse, ma la ragazza si era seduta ad un banco vicino alle
finestre e di conseguenza aveva evitato di chiamarla.
L’inizio della lezione era
stato piuttosto lento, ma il biondo aveva appreso che era sempre così: la prima
parte delle due ore veniva dedicata alla correzione o allo studio degli
spartiti – a seconda che si trattasse di compiti o di nuovi brani da imparare –
che richiedeva un certo tempo ed era una porzione di tempo terribilmente
noiosa.
Nella seconda parte,
invece, la docente sedeva dietro la cattedra e lasciava che gli studenti si
esibissero nel pezzo precedentemente assegnato e studiato.
Oz non era stato
entusiasta: aveva preso lezioni di pianoforte, era vero, ma non vantava
un’elevata cultura musicale e le poche lezioni fatte risalivano alle basi e non
erano state degne della sua completa attenzione.
Risultato: suonare in
pubblico non era così divertente come potesse sembrare.
Sospirando di sollievo
quando il primo nome si rivelò non essere il suo e in attesa che il compagno
approntasse il flauto traverso da suonare, prese a picchiettare leggermente sul
banco, in maniera distratta.
«Signor Bezarius?» si sentì
chiamare, fermando istintivamente le dita e alzando lo sguardo chiaro. Incontrò
quello della docente, le labbra piene incurvate in un leggero sorriso ironico:
«Sono lieta di sapere che si applica tanto nei miei esercizi da aver assimilato
il ritmo di un metronomo nelle sue stesse dita, ma le saremmo tutti grati se
aspettasse il suo turno per dimostrarci le sue doti nel seguire il ritmo che,
ne sono certa, ci strabilieranno tutti.» lo riprese.
Oz arrossì leggermente,
annuendo mentre dalle ultime file veniva qualche eccesso di risatina.
La docente non parve
preoccuparsene e non aggiunse altro, dando il via al compagno vicino alla
cattedra perché suonasse il brano.
Dopo di lui e altri
studenti, ad Oz era stato richiesto un brano diverso, assegnatogli dopo che
alla prima lezione era parso evidente che il suo livello e quello della classe
non erano omogenei fra loro. Fu senza infamia e senza lode.
Assai diverso dal seguente
- e ultimo - suonato da una primina che Noah non aveva avuto modo di indicargli
o presentargli e che, quindi, aveva conosciuto direttamente al corso. Di una
famiglia di alta levatura, sebbene non pari ai Nightray o ai Bezarius, la
ragazza che ora si stava esibendo con il violino si era presentata come Sharon
Reinsworth.
Decisamente carina - ad
essere sinceri era stata la prima cosa che aveva notato - aveva lunghi e lisci
capelli di un castano chiaro, legati in una coda alta che lasciava libere le
ciocche più corte davanti. Gli occhi, color nocciola, erano sempre sorridenti e
gentili, come il leggero incurvarsi di labbra.
Era nuova anche lei essendo
del primo anno, quindi si erano ritrovati a conversare con una certa facilità,
come se fossero stati vecchi compagni di scuola, probabilmente perché entrambi
nella stessa condizione di adattamento alla scuola e agli altri compagni.
Per quel che ne sapeva era
figlia unica e quindi la sola erede del suo casato; suonava il violino e,
proprio in quel momento, si avviava alla conclusione della melodia lenta e
bellissima che aveva suonato dall'inizio.
L'archetto si muoveva
elegante e leggero sulle corte del violino, tenuto fermo dalla pressione
leggera del mento della ragazza sul legno e dalla mano che ne teneva l'altra
estremità.
Con un ultimo passaggio
dalle note malinconiche, il brano si chiuse; la classe applaudì con un certo
entusiasmo e la stessa docente Barma si rivolse a Sharon con un sorriso
compiaciuto: «I miei complimenti signorina Reinsworth, un'ottima padronanza
delle note e delle pause. Confido di poter contare su di lei per il saggio che
si tiene comunemente ogni anno qui a Latowidge.» concluse.
Oz vide Sharon annuire e
fare un lieve inchino, tornando poi al proprio posto accanto ad Oz.
Pochi minuti dopo, la
docente li congedò qualche istante prima che la campanella segnasse l'effettiva
fine delle lezioni.
Si era attardato con Sharon
dopo la lezione, parlando del più e del meno: lei si era detta disponibile ad
aiutarlo in musica almeno per ciò che riguardava strettamente gli spartiti e la
parte teorica. Il biondo le era grato, visto che di certo non poteva chiederlo
a Noah - date le premesse di saper suonare al massimo un campanello...
Il tempo era volato, tanto
che dalla fine delle lezioni - le quattro del pomeriggio - erano passate quasi
due ore e mezza senza che nessuno dei due se ne accorgesse quasi. L'aveva
accompagnata fino all'ingresso del suo dormitorio, dopodiché era rientrato nel
proprio.
Percorreva ora il
corridoio, nei pressi della sua stanza. Raggiunta la porta, poggiò la mano
sulla maniglia, facendo una lieve pressione per abbassarla e spingendo l'uscio
verso l'interno, aprendo e varcando la soglia.
Rimase in silenzio, notando
Noah già in stanza: sul proprio letto, il compagno di stanza aveva ancora la
divisa scolastica, eccezion fatta per il nastrino - che abbandonava sempre
volentieri appena poteva - e per i primi bottoni della camicia lasciati aperti.
Quasi del tutto sdraiato
sul materasso, sopra di lui stava Marcus, il viso ad una distanza piuttosto
esigua da quello del fratellastro.
Oz sbatté un paio di volte
le palpebre, sorpreso e perplesso - e non a torto.
Noah aveva spostato lo
sguardo su di lui così come Marcus, entrambi immobili; fu il minore dei due a
parlare mettendo fine a quel silenzio che, data la posizione decisamente
fraintendibile sua e di Marcus, era senza dubbio imbarazzante al momento.
«Ohi Oz.» salutò, il tono
un po' impacciato - era vero che Noah non si vergognava di nulla, ma insomma -
il sorrisetto sempre al suo posto sulle labbra.
Oz rimase in silenzio,
senza sapere esattamente cosa dire o se fosse il caso di fare dietro front in
silenzio, o scusarsi per il disturbo e andarsene fingendo di non aver visto
nulla.
Ma dall'alto della sua
ingenuità aveva fatto i conti senza Noah: a lui ci voleva ben poco a togliersi
da quell'impaccio che non faceva proprio parte del suo carattere.
«Direi che è il caso di
chiarire qualcosina, ne?» chiese retoricamente, Marcus che non sembrava granché
turbato dalla presenza di Oz, tanto da non darsi nemmeno la pena di cambiare
posizione e alzarsi.
Oz annuì impercettibilmente
- o forse si era mentalmente detto di farlo ma non lo aveva applicato. Noah
spostò lo sguardo da lui a Marcus, per tornare poi di nuovo sul biondo:
«Facciamo che te lo presento di nuovo.» se ne uscì.
Toccò ad Oz passare lo
sguardo dall'uno all'altro, fissandosi sul compagno di stanza proprio mentre
questi riprendeva: «Lui è Marcus, il mio teorico fratellastro se i genitori
mantengono l'intento di sposarsi e qualcosa di molto più simile a...» indugiò
qualche istante «boh, un fidanzato?» se ne uscì con tutta la naturalezza del
mondo, lo sguardo che sembrava cercare conferma in Marcus - come se fosse
umano, in tutto ciò, non essere nemmeno sicuri di quello.
Oz, perplesso e parecchio
confuso, non disse nulla ma non poté fare a meno di ridacchiare quando scorse
Marcus alzare lo sguardo al soffitto a quella domanda, con l'espressione di chi
è tentato di mettersi a pregare e chiedere al primo Santo che gli presterà
attenzione perché tutto ciò sia toccato proprio a lui.
Noah, forse incoraggiato da
quel ridacchiare di Oz sospirò appena sollevato e Oz lo notò. Stava per aprire
bocca, ma Noah lo precedette: «Non perché non mi fidassi di te!» chiarì subito
riguardo il proprio sospiro. Bofonchiò qualcosa a cui Oz non prestò troppa
attenzione, muovendo appena i piedi aventi e indietro di pochi centimetri, ancora
incerto sul da fare.
Marcus parve capire
l'antifona - o stancarsi della situazione di stallo - e si alzò, Noah che lo
osservava senza capire quasi quanto Oz.
Una volta in piedi accanto
al letto, si limitò ad un: «Ci vediamo giù a cena.» dopo il quale si chinò,
posando le labbra su quelle di Noah in un bacio casto. Si avviò quindi alla
porta, lo sguardo che per un attimo aveva sostato su Oz, ma che quest'ultimo
non era riuscito a capire - sempre che vi fosse un qualche significato.
Dopo che la porta si fu
richiusa alle sue spalle, Oz e Noah tacquero qualche istante: ma Noah Keynes
non era fatto per tacere, men che meno se persino lui era preda di un raro
momento di imbarazzo.
«Ti autorizzo a pensare
tipo: "e meno male che all'inizio Marcus lo odiava".» se ne uscì, il
tono un misto di imbarazzo e divertimento, e quest'ultimo stava già avendo la
meglio sul primo.
Noah si stiracchiò,
l'espressione soddisfatta per quanto cercasse di nasconderlo - se stava
cercando di farlo - lasciandosi ricadere pigramente sul materasso e facendo un
cenno leggero ad Oz di sedersi: «Meglio se ti racconto il resto della storia,
mi sa.» decise.
Quando era rientrato dalla
mensa con Noah, quella sera, era praticamente crollato addormentandosi quasi
subito; si poteva dire che avesse fatto appena in tempo a togliere la divisa ed
indossare il pigiama.
Si era svegliato nel cuore
della notte, però: quei sogni senza un minimo senso logico - non che di solito
i sogni lo avessero, quel fantomatico senso che cercava lui, ma dettagli - lo stavano
seriamente facendo innervosire.
Quasi non aveva più
speranza di farsi una dormita che potesse durare dalla sera quando prendeva
sonno, alla mattina quando suonava la sveglia senza interruzioni.
Aveva occhieggiato Noah al
suo fianco che dormiva della grossa, il lenzuolo scomposto e smosso
probabilmente proprio dal compagno – sebbene involontariamente – durante il
sonno.
Rinunciando subito a
svegliarlo - non lo avrebbe fatto comunque: cos'era, un bambino spaventato da
un incubo? - aveva optato per andare a fare quattro passi nella sala comune al
piano inferiore, probabilmente nella speranza che una camminata gli facesse
tornare il sonno abbastanza perché potesse nuovamente crollare come qualche ora
prima. Perciò, recuperato l'orologio da taschino per occhieggiare l'ora - non
che Sirjan perdesse il sonno per controllare chi dormiva, ma... magari Aedan sì
- era uscito dalla stanza.
Stava avanzando per uno dei
corridoi che portavano alle scale, quando l'aveva sentita: lenta e ovattata,
lontana e coperta dalle mura degli edifici che c'erano di mezzo.
Una melodia per pianoforte.
Non aveva voluto crederci,
lì per lì: di certo, si era detto, il sonno arretrato e la sua mente gli
giocavano dei pessimi scherzi. Infilando la mano nella tasca della felpa
indossata sopra il pigiama, aveva sentito il freddo metallo dell'orologio da
taschino a contatto con le proprie dita.
Prima di potersi rendere
conto di quanto fosse folle e stupido - per non parlare del fatto che era
decisamente contro le regole della scuola - si era ritrovato a percorrere il
sentiero che conduceva dal suo dormitorio all'edificio scolastico.
Entratovi, somigliava ad un
pazzo: ansimando appena per il passo abbastanza sostenuto mantenuto fin lì, si
era mosso per i corridoi interni completamente alla cieca.
Non si stupì, quindi,
quando si ritrovò davanti ad un'aula senza riuscire a registrare subito di
quale si trattasse, poiché non aveva fatto attenzione al percorso.
Alzando lo sguardo,
individuò in breve tempo la targhetta che identificava la stanza come l'aula di
musica.
Tacendo, ascoltava la
melodia che non si era interrotta ed ora era molto più alta e percepibile
grazie alla porta accostata e non del tutto chiusa.
Deglutì a vuoto, muovendo
appena un passo avanti, titubante; alzò istintivamente la mano verso la porta,
sebbene nella sua mente non vi fosse la minima intenzione di spingere per
aprirla o di entrare.
Tanto meno voleva fare
rumore e far sì che l'occupante della stanza, che era certamente anche la
persona che stava suonando, si interrompesse a causa sua.
Sospirò ad un passaggio
particolarmente bello e quasi si tradì sussultando ad una brusca interruzione,
con quel tipico suono grave di quando si posano senza riguardo le mani su un
pianoforte nervosi per l'errore commesso,che spesso si ritiene grossolano.
«Maledizione!» sentì
imprecare dall'altra parte della porta.
Si riscosse, inclinando la
testa il tanto che bastava a dare una sbirciatina all'interno; nello stesso
momento, una seconda voce estranea quanto la prima arrivò all'orecchio di Oz.
«Elliot, così prima o poi
sveglierai qualcuno.» mormorò in tono pacato.
«Non seccarmi anche tu,
Reo!» sbottò l'altro, palesemente innervosito da qualcosa più che dalla persona
che era con lui nell'aula.
Oz riuscì ad intravedere la
figura al pianoforte, illuminata dalla poca luce che filtrava dall'esterno: lo
riconobbe come il terzo dei fratelli Nightray indicato da Noah.
Spostando lo sguardo verso
la persona che si stava avvicinando ad Elliot, vi scorse quella del servitore
visto anche in mensa; lo notò posargli con gentilezza la mano sulla spalla:
«Non è colpa tua.» disse solamente, senza che Oz potesse capire il senso di
quella frase.
Vide Elliot sospirare
profondamente - lo intuì più che altro dal lento alzarsi e abbassarsi del torace
- piegandosi appena in avanti dopo aver chiuso il coperchio del pianoforte e
avervi poggiato i gomiti.
Per quel che riuscì ad
intravedere Oz, aveva portato almeno una mano alla tempia - l'altra, da quella
posizione, non era visibile.
«Non ne posso più. Impazzirò.»
lo sentì lamentarsi frustrato: «Quelle maledette immagini non se ne vanno.
Questo stupido brano che nessuno mi ha mai insegnato è come se si bloccasse
sempre nello stesso punto. Non funziona niente, niente, maledizione!» lo
sentì aggiungere, l'irritazione palese nella voce anche a quella distanza e
anche se non stava urlando.
Vide il moro, in piedi,
sospirare e ritrarre la mano: «Perdere la calma non ti aiuterà, Elliot. E sei
tu che hai composto Lacie, giusto? Perciò--»
Non ascoltò il resto, ritraendosi
dalla porta come se questa lo avesse spintonato via o fosse di colpo divenuta
incandescente.
Indietreggiò fino a
trovarsi più o meno a metà corridoio, lo sguardo confuso, quasi perso: non
poteva essere. Forse solo il nome era simile, sì.
Forse - per chissà quale
caso impossibile - quel ragazzo conosceva qualcuno di nome Lacie e aveva voluto
dedicargli la canzone.
O magari, era un nome
casuale.
Oppure... oppure...
Si voltò quasi di scatto -
per sua fortuna senza eccessivi rumori - sentendosi toccare leggermente il
gomito. Gli occhi chiari, ancora persi nello sguardo incredulo e confuso avuto
fino a quel momento, inquadrarono una figura più bassa di lui.
Una ragazza dall'aspetto
familiare senza che l'avesse mai vista prima: lunghi capelli chiari - non riusciva
a definire il colore solo con la poca luce esterna che entrava dalla finestra -
e lo sguardo gentile rivolto a lui. Davanti alle labbra piegate in un leggero
sorriso cortese, stava il dito indice, facendogli palesemente cenno di non fare
rumore.
Ad occhio e croce, era più
grande di lui: la vide invitarlo a seguirla con un gesto della mano e muoversi
solo quando lui riuscì almeno ad annuire.
La seguì lungo il corridoio
senza una parola: tenne lo sguardo basso sull'orologio da taschino che aveva
estratto dalla tasca senza quasi accorgersene.
Si fermò appena in tempo
per non cozzarle contro quando furono di fronte ad una porta: «Potresti aprire
tu, per cortesia? E' un po' complicato per me.» ammise con un sorriso leggero.
Oz annuì
impercettibilmente, aprendo la porta e lasciando comunque che lei entrasse per
prima e facendo lo stesso quando la ragazza lo invitò con un cenno.
Richiuse la porta alle
proprie spalle.
«Accomodati pure dove più
ti aggrada.» asserì lei, Oz che rimaneva fermo ad osservarla mentre si
avvicinava alla finestra.
Con qualche manovra che a
lui parve un po' complessa e a cui lei sembrava invece abituata, la vide girare
la sedia a rotelle sulla quale sedeva e sistemarsi compostamente, le mani in
grembo.
Oz si sedette dunque sulla
prima poltroncina libera della stanza; rimase in silenzio senza sapere cosa
dire, incapace di concentrarsi su qualcos'altro in quel momento.
Aveva più di una domanda
che gli ronzava in testa e nessuno a cui chiedere. Fu lei a venirgli incontro:
«Qualcosa ti turba?» chiese.
Oz alzò lo sguardo: era
cosciente del fatto che, in quel momento, gli si leggesse tutto in faccia
probabilmente, perciò non si stupì di quella domanda.
Non vi rispose, comunque;
forse quella ragazza gli aveva evitato di essere beccato a spiare o da qualcuno
che potesse controllare che gli studenti non fossero fuori oltre il coprifuoco,
ma non sapeva nemmeno chi era.
«Riguarda Elliot Nightray?»
le sentì aggiungere e si concesse una sorpresa leggera. Lei - se ne era
accorta? - sorrise appena più ampiamente.
«Perdonami, ho davvero
dimenticato le buone maniere.» esordì, dando una leggera spinta alle ruote
della sedia fino a raggiungerlo, posizionandosi di fronte a lui compatibilmente
con la disposizione delle altre poltroncine.
Tese una mano fra loro: «So
che hai avuto modo di conoscere mio fratello, ma di certo è la prima volta che
io e te ci incontriamo, signor Bezarius. Sono Alyster Kolstoj.» si presentò.
Oz registrò l'informazione
collegandola in un baleno alla sensazione di conoscere già quel viso: ora che
ci faceva attenzione e che in più aveva saputo anche il nome e il cognome della
ragazza, appariva a dir poco evidente la somiglianza tra lei e Sirjan.
«Siete...?»
«Gemelli, sì.» replicò con
un sorriso divertito prima che lui potesse finire la domanda.
Tacque, osservandola e
stringendole la mano senza troppa enfasi - notò che era piccola e sembrava
estremamente fragile.
Scosse appena la testa:
sapeva che Alyster era comunque un capo dormitorio, anche se del settore
femminile.
«Sono nei guai per il
coprifuoco, giusto?» incalzò. Non voleva perdere tempo con una ramanzina, o la
spiegazione di una punizione che sicuramente ci sarebbe stata.
La vide riportare con tutta
calma la mano in grembo, nella posizione composta di poco prima.
«Non necessariamente.»
Note
Yay! E con Alyster ho
almeno finito le apparizioni di pg esterni a PH XD *si rende conto di essere
ancora lontana dalla fine*
L'unica nota per questo
capitolo è questa: Miranda Barma *ama quella donna* ho pensato fosse sensato
renderla gemella di Rufus. Questo perché nelle poche tavole in cui è apparsa mi
è sembrato che avessero un tratto del viso quasi identico (magari nel manga è
sua madre XD).
Dunque, ecco spiegato il
perché della parentela *-*”
Altro avviso (brevissimo,
giuro!): è probabile che, tempo qualche altro capitolo per avvicinarmi al
grosso di questa trama, il rating si abbasserà da arancione a giallo.
...magari a voi non fregava
nulla saperlo, ma sempre meglio dire tutto XD
Ed ora, ringraziamenti!
Gioielle: ...mamma che recensione lunga *O* Allora. Sì, la scena
VinceGil era voluta ù.ù” ed è sempre divertente far vacillare le convinzioni
delle lettrici <3 *bastarda*
Per quanto riguarda la
parte di Noah, ci tenevo molto per una serie di motivi (oltre al fatto che è
uno dei pg più “miei”, essendo originale): fra tutti, lui era “il trampolino di
lancio”, perché è il primo di cui faccio l’introspezione fra tutti quelli che
hanno problemi in questa fic (e siccome sono masochista, ce l’hanno quasi tutti
un problema >.>). Quindi lieta che ti sia piaciuta <3
La scena tra i piccioncini,
contenta che sia stata IC XD E Oz, beh, quel moccioso più è triste più è
(relativamente) facile da muovere *-* *sadica*
Ed ecco a te spiegato chi
era a suonare (tanto lo so che ci eravate arrivati tutti al fatto che era
Elliot XD *l’unico che suona in tutto PH, quasi*
Yoko891: nuuu, non devastarti, chiedo perdono çOç *muor*
La parte col lessico
migliore è quella che ho scritto di notte, assonnata e per pura inerzia… il che
potrebbe dare da pensare. Parecchio.
So che vi sto uccidendo con
queste scene di gente senza nome che parla, ma abbiate fede: spiegherò tutto,
lo giuro. *toglie lampada da interrogatorio puntata contro se stessa*
Salvaguarda i tuoi neuroni,
per l’amor di Dio xD
LitaChan: Wiiih *-* Lo ammetto: sentirmi dire che muovo bene
Vincent Nightray mi fa gongolare, c’è poco da fare XD (il che è indice di gravi
problemi mentali, ma soprassediamo, suvvia). Sono contenta che il capitolo ti
sia piaciuto e che, nonostante rispetto agli altri ci fossero più parti con i
sentimenti di mezzo, io sia riuscita a renderli abbastanza chiari senza
impelagarmi in accozzaglie insensate XD
E Oz quando è “meno Oz” è
uno dei miei passatempi prediletti *inserire faccina da fic-writer folle qui*
Quanto a Jack, gioite: non
c’è da aspettare ancora molto almeno per sapere dov’è XD
AliceOfAbyss: piacere di averti fra i lettori <3 Ti ringrazio dei
complimenti, e di seguire la fanfic ovviamente ù_ù (e Break PUO’ *_*)
Spero che anche questo
capitolo sarà di tuo gradimento <3
Era stato talmente sicuro
che l’altra gli avrebbe confermato che era nei guai, facendo seguire alla sua
replica la punizione per aver violato il coprifuoco e – conseguentemente – il
regolamento, che la risposta che invece lei gli aveva fornito con aria quasi
divertita lo aveva completamente spiazzato.
E, a quanto sembrava, anche
la sua aria più che perplessa rendeva ilare Alyster che rise sommessamente, una
mano educatamente portata a coprire la bocca.
Si imbronciò senza quasi
accorgersene: insomma, lui pensava di essere nei guai, non era carino ridere!
«È così divertente?»
borbottò senza proprio poterlo tenere per sé – probabilmente, conoscendo il
soggetto, non vi si era nemmeno applicato più di tanto.
Alyster scostò la mano, la
risata che era andata sfumando ma il sorriso ancora al suo posto: «Scusami,
capisco la sorpresa.» asserì, lo sguardo che si manteneva su di lui.
La vide muoversi, i
movimenti quasi per nulla impacciati malgrado – o così credeva – non fosse
facile spostarsi con l’ingombro di quella sedia su cui stava la ragazza.
Seguendola con lo sguardo la notò raggiungere la porta e accendere la luce
dall’interruttore.
Ora che la visibilità era
notevolmente aumentata, poté notare che i capelli lunghi erano dello stesso
colore di quelli del fratello, ma sembravano quasi più belli – ma era probabile
che fosse la lunghezza a dare quell’impressione.
Ciò che attirò di più
l’attenzione di Oz non fu tanto il viso dalla pelle chiara e dai lineamenti
dolci, né il corpo esile ma ben proporzionato. Gli occhi, notò, erano diversi
da quelli di Sirjan: benché fossero gemelli, quel particolare era diverso.
Malgrado la forte somiglianza tra i due, gli occhi di Alyster non erano dorati
come quelli del fratello, ma di un caldo rosso carminio.
Come quello di Vincent, si ritrovò a pensare senza un vero motivo.
Forse, aveva fatto
quell’associazione di idee solo perché Vincent Nightray era l’unica altra
persona a cui avesse visto quel colore degli occhi. Era indubbio, comunque, che
era la sola cosa che accomunasse il mezzano dei Nightray e la ragazza di fronte
a lui in quella stanza.
Fu proprio la voce di
Alyster, tornata più o meno di fronte a lui, a distrarlo da quelle
osservazioni: «Hai l’aria stanca.» fece notare, semplicemente. Niente più di
una constatazione.
Oz mantenne lo sguardo
chiaro su di lei, come se stesse cercando di scoprire qualcosa al di là delle
parole: «Hai detto che non sono necessariamente nei guai. Da cosa dipende?» la
incalzò invece, acuto.
Era stordito da tante cose,
ma non gli era sfuggita la sua risposta di poco prima.
Lei sorrise quasi ammirata
da quella richiesta: «Dalle tue intenzioni.» replicò pacatamente. Oz si ritrovò
ad alzare appena un sopracciglio senza capire.
«…Cioè?»
«Eri lì per fare qualcosa
di male?» domandò. Gli sembrava assurdo anche il solo pensare di dover davvero
rispondere, ma lo fece forse più per riflesso che per altro: «Beh, no, però…»
«Allora non sei nei guai.»
concluse lei con naturalezza.
Oz si sentì più confuso di prima:
«Ma… ma potrei anche aver mentito!» se ne uscì – non che fosse sua abitudine
mettersi i bastoni fra le ruote da solo, semplicemente era troppo assurdo che
la capo dormitorio che doveva controllare che il regolamento venisse seguito,
si limitasse a credere sulla parola.
Era ovvio che chiunque
avrebbe detto di no, al suo posto, anche mentendo!
Lei però si limitò ad
osservarlo senza capire: «Oh, hai forse mentito?» domandò. Oz si chiese se
potesse esistere una persona tanto ingenua.
«No, ma intendevo dire…»
«Allora, come dicevo è
tutto a posto, giusto?» lo incalzò lei, interrompendolo nuovamente.
Il biondo rimase a bocca
aperta senza nulla da dire – e non era certo frequente che accadesse.
Non capiva se Alyster davvero
si limitasse a credere a quello che le persone come lui – o in condizioni
analoghe – le dicevano, o se desse solo l’impressione di farlo e in realtà
avesse spie ed osservatori sparsi per la scuola.
Ok, forse l’ultima ipotesi
era un tantino irreale.
Decise di lasciar perdere,
poggiandosi contro lo schienale del divano e rilassandosi contro di esso: «Ma
sei davvero la sorella di Sirjan?» si lasciò sfuggire, geneticamente incapace
di pensare prima di parlare o di tenersi qualcosa per sé quando sarebbe stato
il caso di farlo.
Alyster ridacchiò: «Come
mai me lo chiedi?» domandò. Oz spostò lo sguardo da lei alla stanza in
un’occhiata generica e superficiale: «Sapendo che anche tu eri capo dormitorio
pensavo foste severi allo stesso modo.» replicò casualmente. In realtà Sirjan
non gli aveva assegnato punizioni né altro, ma stava praticamente parlando a
casaccio.
Non aveva voglia di
pensare: bastava concentrarsi il minimo indispensabile per una chiacchierata
superficiale come sarebbe stata la loro, in fondo.
«Elliot Nightray è un
ottimo pianista.» se ne uscì la più grande. Oz la fissò, stranito: che cosa
c’entrava con Sirjan?
Forse Alyster lo notò, ma
non mutò più di tanto espressione, limitandosi a rivolgergli un sorriso
gentile: «Credevo tu lo ascoltassi per questo.» aggiunse.
«Non ero lì intenzionalmente.
Non sapevo nemmeno che qualcuno suonasse di notte, a scuola, o che fosse
permesso.» ribatté, l’espressione un misto fra il seccato e l’imbronciato.
Non sapeva nemmeno lui come
definire l’attuale stato d’animo: era indubbiamente sorpreso e confuso, ma
c’era qualcosa di mezzo che non riusciva proprio a capire cosa fosse. Era
simile, molto simile alla sensazione di fastidio e delusione che si prova
nell’essere in qualche modo traditi.
«Capisco.» riprese Alyster,
distraendolo di nuovo: «Posso chiederti, allora, come mai eri lì?» aggiunse.
Oz indugiò qualche attimo,
gli occhi chiari su di lei: «Lo chiedi come capo dormitorio?» fu la risposta –
anche se era una domanda e non la spiegazione che probabilmente la ragazza si
aspettava.
Non parve indispettita, però:
«Te lo chiedo come una persona incuriosita. Non è frequente che qualcun altro
giri per scuola a quest’ora, a parte Elliot Nightray.»
«E a parte te.» osservò il
biondo con un sorriso leggero – non di scherno, ma nemmeno troppo definito in
qualcosa di preciso.
«A volte fatico a dormire.»
ammise: «Ad ogni modo, se credi che la mia sia stata una domanda indiscreta me
ne scuso, e puoi ovviamente rifiutarti di rispondere.» aggiunse, gentile tanto
che il pessimo umore in cui stava lentamente scivolando l’altro non lo avvolse
del tutto ancora.
Si strinse nelle spalle,
quasi sentendosi a disagio per quel modo di fare della più grande: «Ho dormito
male anche io.» borbottò in risposta, affondando le mani nelle tasche della
felpa e tornando a contatto con il freddo metallo dell’orologio da taschino.
Quasi fosse stata una doccia fredda, gli tornò in mente cosa lo avesse attirato
e, subito dopo, tanto turbato.
«Alyster» riprese quasi
subito, come se di punto in bianco avesse una certa fretta e necessità di avere
una risposta: «la melodia che stava suonando Elliot Nightray… ecco…» lasciò in
sospeso una domanda che, pensandoci obiettivamente, era del tutto insensata.
La vide inclinare appena il
capo lateralmente, incuriosita da quell’interrogativo che l’altro non aveva concluso.
Oz deglutì a vuoto – nemmeno fosse sotto tortura, poi – per poi riprendere: «Ho
sentito mentre l’altra persona gli diceva che era stato lui a comporla. L’ha
davvero…?»
«Oh, intendi Lacie?» lo
interruppe lei, deducendo il resto della frase da sola e senza obbligarlo a
concluderla, visto che sembrava abbastanza difficile per lui.
Oz sussultò appena, quasi
impercettibilmente forse: annuì.
L’espressione di Alyster si
fece seria, benché i lineamenti non ne risultarono particolarmente induriti:
«Come mai questo dubbio? Ne ricordi una simile ma di un diverso compositore?»
domandò pacata, osservandolo, senza tradirsi con gesti nervosi o tremolii di
voce.
Segno che non lo chiedeva
per rimanere sulla difensiva.
Oz strinse la presa
sull’orologio da taschino: non stava accusando Alyster di niente e con ogni
probabilità quella poveretta cercava solo di capire il suo discorso che,
obiettivamente, ad occhio esterno doveva sembrare folle e inconcludente.
Tuttavia, la sensazione di essere preso in giro come se ogni persona che gli si
parava di fronte sapesse cose che a lui erano sconosciute, era quasi pressante.
Stava diventando paranoico,
non c’era dubbio.
Non rispose alla domanda di
lei, estraendo l’orologio dalla tasca e facendolo scattare: aprendosi, iniziò
la melodia del carillon che vi era incorporato. Identica a quella suonata al
pianoforte dal minore dei Nightray, solo con un suono ovviamente meno limpido e
chiaro, la sua bellezza e la nostalgia delle note erano le medesime.
Alyster era passata ad
osservare l’orologio, in silenzio, seguendo gli occhi chiari del biondo che
quasi l’avevano accarezzato con lo sguardo.
La ragazza lasciò sfumare
la propria espressione in un misto tra comprensione e dispiacere, approfittando
dell’attenzione di Oz rivolta solo all’oggetto che aveva tra le mani: sembrava
un bambino completamente perso il cui unico punto di riferimento era quella
melodia che ora, suonata da un altro, lo faceva vacillare terribilmente.
«So che non l’ha composta
lui. Anche se dice il contrario, so che non può essere sua.» ruppe il silenzio
il biondo, lo sguardo che però non andò su Alyster. Da parte sua, lei non mutò
la propria espressione, tacendo e lasciando che lui parlasse volontariamente,
senza tempestarlo di ulteriori domande su quell'argomento che evidentemente non
era gradito.
La sua attenzione si spostò
sull'orologio da taschino fra le sue mani, ancora aperto lasciando che la
melodia continuasse a diffondersi nella stanza come unico rumore oltre il
ticchettio del pendolo in un angolo.
Inaspettatamente, fu Oz a
parlare: «Mio fratello ha costruito quest'orologio. Era una cosa che gli veniva
bene e che gli piaceva fare.» disse, sorprendendo un poco Alyster.
«Ha composto anche la
melodia?» fu l'ovvia domanda. Il più piccolo scosse la testa: «Un suo amico.»
replicò soltanto.
Alyster rimase immobile e
in silenzio, inizialmente; l'espressione indecifrabile, si chinò appena verso
di lui sfiorandogli la mano che non teneva l'orologio con la propria: «Non
potrebbe averla insegnata quell'amico al signor Nightray?» domandò.
Oz alzò per la prima volta
lo sguardo dall'oggetto nella propria mano, spostando le iridi chiare su di
lei: «Quando mio fratello ha costruito questo era giovane e lui e il suo amico
non andavano a casa dei Nightray quando erano studenti.» mormorò.
Alyster ritirò la mano,
riportandola in grembo e stringendo appena un lembo di stoffa: si rifiutava di
fare altre domande di cui conosceva già la risposta e che non avrebbero fatto
altro che mettere in difficoltà l'altro.
A che pro, se non otteneva
altro che informazioni di cui sia lei che Sirjan erano a conoscenza?
Perché infierire sul
passato di qualcuno, quando non era necessario farlo?
«Perché?» lo sentì
mormorare, chiudendo di scatto l'orologio ed interrompendo bruscamente la
melodia mentre riponeva l'oggetto nella tasca dov'era rimasto fino a poco
prima.
«Perché la conosce?»
riprese: «Se nessuno può insegnargliela, dove ha imparato? Com'è possibile se
mio fratello Jack... è morto?»
Uscito ad un’ora
decisamente tarda attirato dalla melodia che poi lo aveva portato all’aula di
musica, quando era rientrato dopo una lunga chiacchierata con Alyster, erano
quasi le cinque del mattino.
Non che non fosse stanco,
ma pensare di dormire era impossibile, figurarsi riuscirci.
Rientrato nella stanza in
silenzio e bene attento a non svegliare Noah, si era sdraiato sul letto senza
togliere la felpa visto che era fin troppo sveglio; si era stupito di quanto
accaduto con Alyster.
Aveva sempre rifiutato di
parlare della morte del fratello da quando era accaduto: non che non fosse di
dominio pubblico. Quando si è parte di una famiglia anche solo minimamente in
vista, non si poteva sperare che un avvenimento simile non passasse da bocca a
bocca, finendo per essere una questione pubblica anziché il dolore personale e circoscritto
ai parenti come avrebbe dovuto.
Non aveva mai sopportato le
condoglianze fatte per dovere e non perché sentite: un modo insopportabile di
insinuarsi nel dolore altrui fingendo di comprenderlo, macchiando la memoria di
chi se ne andava e lasciando affondare nella disperazione chi lo piangeva.
Perché non puoi consolare, se non provi lo stesso dolore.
Non si poteva cercare di
risollevare nessuno, se non si sapeva esattamente ogni minima ferita che quel
tipo di sofferenza poteva infliggere.
…Nemmeno a Gil lo aveva
detto.
Lui che adottato dalla
famiglia Nightray per ricongiungersi al fratello di sangue se ne era andato
prima della morte di Jack, benché Oz avesse sempre saputo che Gilbert sarebbe
stato uno dei pochi a poter davvero capire, non aveva mai desiderato affrontare
l’argomento nemmeno con lui.
Strinse appena il lenzuolo
tra le dita: perché proprio con Alyster? O meglio, perché proprio con una
persona che nemmeno lo conosceva, che al massimo poteva sapere di lui i dati
presenti nello schedario dell’archivio scolastico?
Sospirò pesantemente,
seccato.
Tutta quella debolezza,
così caratteristica della sua casata da quando Jack se n’era andato, aveva
promesso di non lasciarla mai più intravedere a nessuno.
Al padre che, da uomo
rigido e austero, era apparso al funerale come qualcuno che aveva passato la
sua vita a testa bassa subendo ogni genere di sopruso. Qualcuno così diverso
dal genitore e dall’uomo che era sempre stato.
A sua sorella Ada, più
grande di lui e più piccola di Jack, una madre improvvisata per Oz e l’unica
figura femminile verso la quale il padre avesse rivolto lo sguardo da anni
prima fino a quel momento, dopo la scomparsa prematura della moglie.
In nessun caso, a nessuno
di loro – si era ripromesso – avrebbe mostrato quanto un fratello poteva
mancare, dopo la sua morte.
Se non era in grado nemmeno
di mantenere quel proposito e quel dolore per sé, come poteva sperare di essere
di sostegno ad Ada?
Se la prima persona che
incontrava – non era importante chi fosse – era in grado di abbattere difese
tenute in piedi per anni, allora che senso aveva?
Non era più importante che
fosse Alyster, che fosse Sirjan o che si trattasse dello stesso Gilbert:
nessuno. A nessuno doveva permettere di sfiorare quella parte che non voleva
più mostrare.
Per quante gentilezze
potessero rivolgergli, per quanta comprensione potessero decantare, aveva
promesso… aveva giurato che—
«Nh… Oz?» sentì chiamare
dalla voce assonnata di Noah al proprio fianco, sussultando appena per la
sorpresa.
Non fu mai così felice di
essere nel buio più completo e ringraziò mentalmente l’abitudine di Noah di
tirare le tende delle finestre prima di andare a dormire.
Nel silenzio e
nell’oscurità, lo sguardo al soffitto, non si mosse: «Mh?» fu l’unico segno che
diede all’altro.
Gli parve di sentirlo
sospirare: «Sei tornato, per fortuna.» fu l’unica cosa che disse e alla quale
non aggiunse nulla.
Né un “buonanotte”, né un
“potevi avvisare che uscivi”.
Solo il sollievo di sentire
che era di nuovo in stanza e che quindi, presumibilmente, non era nei guai.
In breve colse il suo
respiro farsi di nuovo regolare, segno che si era addormentato; si girò su un
fianco, dandogli le spalle e affondando una parte del viso nel cuscino.
Il giorno seguente e quelli
dopo ancora, li aveva passati capendo sempre meno di quello che ascoltava a
lezione.
Molte volte Noah lo aveva
coperto quando, durante le spiegazioni, voltandosi per osservare il compagno
trovava il biondo a braccia conserte sul banco e addormentato.
La notte, vuoi lo stesso
sogno che più o meno tendeva a ripetere sempre scenari analoghi, vuoi il vizio
che aveva preso di non dormire e sgattaiolare all’aula di musica quando
riusciva a cogliere la melodia di Lacie prima di prendere sonno, le ore di
riposo erano drasticamente diminuite.
E lui non era certo un
vampiro, né nulla del genere.
Una delle ultime volte che
era andato ad ascoltare di nascosto la musica suonata da Elliot, aveva
nuovamente incontrato Alyster che quasi ad imitazione della volta precedente lo
aveva di nuovo invitato a seguirla nella stessa stanza.
Avevano parlato meno quella
notte, ma la ragazza si era detta preoccupata per quell’assenza di sonno da
parte del compagno più giovane; Oz aveva inizialmente taciuto, senza sapere
bene come replicare.
«Vorrei chiedere ad Elliot
Nightray come conosce Lacie.» se ne era poi uscito, confessando quell’idea che
già da qualche giorno aveva per la testa ma che, fino a quel momento, non aveva
mai messo in pratica.
Alyster aveva sospirato
appena, lasciando che un sorriso cortese le incurvasse le labbra rivolgendosi a
lui: «Elliot Nightray non è facile da avvicinare.» aveva detto, confondendolo.
Non gli era parso una
persona che tenesse tutti a debita distanza, anche se effettivamente lo aveva
osservato quando era quasi sempre solo con il servitore – di cui ancora
ignorava il nome, oltretutto.
Alyster sembrava aver colto
quella confusione e si era spiegata meglio: «Non è in buoni rapporti con i
Bezarius. Anche Ada, che ne è una compagna d’anno e di corso, non è ben vista
da lui.» aveva rivelato.
Era stato innervosito dalla
cosa: sua sorella era una persona modesta e gentile, difficilmente non piaceva
a qualcuno o faticava a farsi ben volere. Poteva essergli indifferente, forse,
ma addirittura non andargli a genio… – magari non era obiettivo, in quanto
fratello, ma lì per lì non ci aveva pensato.
Aveva sbuffato contrariato,
strappando una risata leggera alla ragazza: «Questo non significa che sia
inavvicinabile.» aveva sottolineato. Oz era rimasto perplesso da quelle parole:
«Ma hai appena detto che non è in buoni rapporti con la mia famiglia.» le aveva
fatto notare.
Lei non aveva dato segno di
ripensarci, come se avesse parlato senza riflettere: al contrario, aveva
semplicemente annuito con un sorriso.
«Non c’è problema. Ci sono
incontri che nessuno può decidere di evitare o meno, non pensi?» era stato il
modo in cui si era congedata, visto che dopo poco lo aveva invitato a tornare a
dormire in modo che l’assenza di sonno non influenzasse la sua salute.
Da quel loro incontro era
passata una settimana e raramente l’aveva incontrata per i corridoi nei cambi
d’aula, senza la possibilità di parlarle.
Quella mattina, aveva
seriamente preso in considerazione di non presentarsi a lezione: aveva sonno e
la stanchezza iniziava ad infierire più pesantemente del solito sul suo fisico.
Una settimana - di più, in
realtà - con i ritmi poco umani che aveva avuto avrebbe distrutto chiunque: lo
stesso Noah gli aveva saggiamente consigliato di rimanere in stanza, offrendosi
di comunicare lui stesso ai docenti il motivo della sua assenza.
Tuttavia, alla fine ci
aveva rinunciato e si era recato a colazione sotto lo sguardo quasi di
rimprovero del compagno di stanza - e suvvia. Era comico anche solo pensarlo,
Noah con l'espressione severa.
Sospirò, entrando
nell'edificio scolastico e attraversando l'atrio con la stessa vitalità di un
bradipo pesantemente assonnato e svegliato in anticipo dal letargo. Intravide
Noah vicino alla soglia della mensa, dove gli aveva chiesto di aspettarlo
quando l'altro aveva annunciato che intanto si avviava, precedendolo.
Lo stipite della porta fu
una sorta di oasi di salvezza: si sentiva così spossato e stanco, che una
qualsiasi superficie a cui poggiarsi era a dir poco bene accetta.
«Che senso ha venire a
lezione così?» sottolineò Noah, forse infantilmente. Oz lo guardò con un
sorrisetto divertito, quasi di sfida: «Non dirmelo. Ti eri preparato per
prendere appunti per me, sacrificandoti ad andare a seguire la lezione di
musica della Barma?»
«...l'ho detto io che stai
benone. L'ho detto, vero?» se ne uscì, facendo ridere il biondo. Certo che Noah
doveva proprio avere un rapporto drammatico con Miranda Barma.
«Allora ho fatto bene a non
darti retta.» lo prese in giro Oz, muovendo un altro passo per entrare in
mensa.
Non seppe se fu la voce –
riconoscibilissima – o la presa più o meno salda attorno alle spalle a
fermarlo. In ogni caso, quando inclinò appena il capo indietro per sincerarsi
di chi fosse, ebbe la conferma di non aver sbagliato rispetto a quando si era
affidato semplicemente alla voce che aveva pronunciato un burbero e quasi
infastidito: «Dovresti dargli retta ogni tanto, invece.»
Sorrise comunque, come se
non avesse colto il rimprovero – considerando il soggetto, era assai più
probabile che lo avesse bellamente ignorato facendo finta di non ascoltarlo –
rimanendo con la testa appena inclinata indietro per poter guardare un Gilbert
dall’espressione tipica di chi ha intenzione di sgridarti ma non ne è capace.
«Gil.» salutò
semplicemente, il braccio del ragazzo attorno alle spalle, la schiena appena a
contatto col corpo dell’altro: «Non sto male.» sottolineò.
Se la sua speranza era che,
a quel punto, Gilbert lo avrebbe lasciato andare si sbagliava: l’altro quasi
non si mosse di un millimetro, se si escludeva il sopracciglio leggermente alzato
in risposta alle sue parole.
Spostò dunque l’attenzione
su Noah: «Lo riaccompagno io in dormitorio, puoi avvisare tu i professori?»
domandò un po’ burbero, nel modo solito che aveva di rivolgersi alle persone
con cui non aveva confidenza – e si poteva tranquillamente dedurre che fossero
molte più di quelle con cui invece parlava liberamente.
Noah rivolse un sorrisetto
furbo ad Oz, tipico di chi alla fine l’ha avuta vinta in qualche modo e annuì
poi all’indirizzo di Gilbert: «Nessun problema, ci penso io. Tu tienilo sotto
chiave, eh?» rispose, agitando appena la mano verso Oz come un bambino per poi
voltarsi ed entrare del tutto in mensa.
Oz si imbronciò, rivolgendo
al più grande un’occhiata eloquente: «Gil, perché devo tornare in…» iniziò, ma
Gilbert lo zittì in uno dei suoi rari momenti di decisione irremovibile.
«Noah mi ha detto che non
dormi decentemente, che esci di notte a volte anche per qualche ora e che
continui a seguire le lezioni. Aspetti di collassare o cosa?» chiese, brusco.
Oz si zittì, indispettito.
Non gli piaceva quando
Gilbert faceva così – ovvio, non era comodo se l’altro cominciava a tenergli
testa e Oz non vi era mai stato abituato, dunque non sapeva come vincere quei
loro “scontri verbali” dove il più grande rischiava quasi di avere la meglio.
«Ho solo dormito poco, Gil,
non ho una malattia mortale.» se ne uscì.
Maledicendo se stesso per
la stupidità che a volte proprio non sapeva controllare, a quanto sembrava.
Sentì la presa di Gilbert
farsi più salda per riflesso alle proprie parole – non tanto forte da
soffocarlo, ovviamente – prima che l’allentasse considerevolmente, lasciando
scendere la mano fino al polso di Oz che prese senza tante cerimonie,
avviandosi verso l’uscita e trascinandoselo dietro.
E dire che lui, più di
tutti, avrebbe dovuto evitare discorsi simili. Lui che aveva passato il tempo
chiuso in una stanza ad osservare suo fratello indebolirsi sempre di più, fino
al momento in cui non era stato più in grado di muoversi, non avrebbe dovuto
ironizzare con tanta superficialità su una cosa del genere.
Lui che ancora aveva nella
mente l’espressione di Jack che tentava di tranquillizzare Oz ed Ada
all’inizio.
Guarirò in fretta,
altroché!, aveva ripetuto fin dalla
prima volta in cui stare al letto si era rivelato molto meno doloroso che
tentare di alzarsi in piedi.
A metà del sentiero che
collegava la scuola al dormitorio maschile, sentì la mano di Gilbert stringere
la propria: alzò istintivamente lo sguardo su di lui, notando che però
continuava a fissare di fronte a sé.
«Gil…?» chiamò – capiva
quando c’erano volte in cui toccava a lui scusarsi. Ma il più grande si limitò
ad aumentare il passo leggermente, raggiungendo l’entrata del dormitorio e
guidandovi il minore all’interno.
Forse bloccato da
quell’assenza di risposta e temendo un po’ – da qualche parte nella sua testa –
che il moro si fosse arrabbiato, non disse altro finché non furono davanti alla
stanza sua e di Noah.
Racimolò la chiave dalla
tasca, facendo scattare la serratura e aspettandosi di essere lasciato lì; ma
Gilbert non era davvero cambiato di una virgola, probabilmente non sarebbe mai
cambiato almeno da quel punto di vista.
Senza lasciare la mano, fu
il primo ad entrare in stanza, sorprendendo il minore e tirandoselo dietro – di
nuovo, nemmeno Oz fosse incapace di muovere un passo senza di lui.
Il moro parlò solo quando
ebbero chiuso la porta alle proprie spalle.
«Non sono arrabbiato.»
esordì, portando Oz a chiedersi se in quegli anni una delle poche cose cambiate
non fosse stata la capacità di Gilbert di leggergli nel pensiero o simili – una
volta quasi impossibile per il più grande. Non senza farsi raggirare con la
stessa facilità di un calzino.
«So che è solo il sonno,
che non hai nulla. Ma sei già svenuto in un corridoio… e non voglio vederti
nemmeno con la febbre solo perché fai sempre finta di stare bene come adesso.»
mormorò.
Nel tono c’era la
preoccupazione tipica del suo carattere gentile, l’indecisione di chi vorrebbe
dimenticare qualcosa ma non osa farlo per rispetto alle persone che fanno parte
dei suoi ricordi, e la paura.
Il timore di vedere
qualcosa ripetersi, qualcosa che non vorresti nemmeno potesse esistere come
possibilità.
Oz non aveva l’abitudine di
rivolgere cattiverie a nessuno, men che meno a Gilbert: ma quella domanda, che
sibilante gli aveva attraversato la mente, sfuggì dalle sue labbra senza che
potesse evitarlo.
«Hai paura che finisca come
Jack, Gil?» mormorò piano, udibile solo per il completo silenzio nella stanza.
Il maggiore sussultò
appena, alzando lo sguardo quasi di scatto su Oz; strinse i pugni.
Oz non lo guardava: gli
occhi chiari erano posati sulla propria scrivania senza realmente vederla, e
sembravano per nulla toccati dalla propria stessa domanda.
Non era possibile. Non era
davvero possibile.
«Perché?! Perché ne parli
come se non ti interessasse, come se non fosse affar tuo o Jack non fosse tuo
fratello?! Perché devi costantemente nascondere tutto persino a me?!» sbottò,
scuotendolo per le spalle.
Infantilmente, il punto era
quello, il succo del discorso tutto lì.
Egoisticamente, non voleva
che mentisse anche a lui.
«Perché non posso essere
preocc—»
«Io non so fare altro che
mentire!» sbottò, il tono improvvisamente più alto, misto tra rabbia, debolezza
e frustrazione: «Cosa vuoi che faccia, Gil?! Non è vero che non mi interessa! E
quando non ti mento, succede questo.» sottolineò con tono quasi
accusatorio.
Gilbert lo fissò
interrogativo e Oz deviò lo sguardo – forse, pensò il maggiore, lui non era…
degno?
«Non posso… conoscere le
tue verità?» soffiò appena, tanto che aveva dubbi sul fatto di essere udibile
all’altro.
Calò un silenzio pesante
per diverso tempo, senza che nessuno dei due facesse particolari movimenti o si
degnasse di dire qualcosa.
Poi, senza un motivo
apparente, senza che fosse possibile capire in quale senso lo intendesse, Oz
mormorò un semplice: «Mi dispiace.»
Se gli dispiacesse per le
parole rivolte a Gilbert, o se si stesse scusando per la scelta di mentire
anche a lui, non era intuibile.
«Non ci sono verità di me
che non conosci già. Solo… » indugiò; “Solo, non sai dei sogni”.
“Solo, non conosci gli
ultimi anni della mia vita”.
“Solo, c’è qualcosa che non
voglio condividere con nessuno”.
C’erano tanti “solo” che avrebbero
potuto concludere quella frase: ma era innegabile che, qualunque avesse scelto
di pronunciare, avrebbe ferito Gilbert. E così era già abbastanza.
Alzò lo sguardo
repentinamente, avvertendo il dorso della mano del maggiore sfiorargli
inaspettatamente una guancia: leggermente, come quando si sfiora qualcosa di
cristallo e si teme di romperla, magari facendola cadere per disattenzione.
Lo vide chinarsi appena,
senza spostare la mano. Oz osservò interrogativamente quei movimenti, finché
Gilbert non fu con il viso più o meno all’altezza del suo: «Non fa nulla, se
non vuoi parlarmene ora.» mormorò, il tono rassicurante che aveva sempre
apprezzato in Gil fin da quando viveva alla tenuta dei Bezarius.
Una carezza così leggera, a
seguire, che ebbe il dubbio di essersela immaginata: «Pensa solo a riposare.
Rimarrò qui per tutto il tempo.» promise.
L’unico rumore che percepisce, è lo scoppiettare tipico
del fuoco: più rumoroso di quello che l’inverno brucia nel camino, più luminoso
di un falò all’aperto.
“Incendio” è la parola che la sua mente elabora quasi con
naturalezza, senza il minimo panico che si dovrebbe avvertire lì, all’altezza
dello stomaco, in una morsa quasi dolorosa mentre non riesci a pensare in quale
direzione sia meglio fuggire.
O chi chiamare, chi salvare.
La mente è completamente lucida, per quanto la sensazione
di essere in un posto in qualche modo estraneo e familiare al tempo stesso sia
quasi palpabile.
Osservare da spettatore, eppure essere cosciente di
trovarsi proprio lì.
Avanza: i passi sono regolari, mossi senza la minima
fretta. Sanno già che direzione prendere, come se avessero vita propria, anche
se non trova la destinazione tra i propri pensieri.
Come se fosse già programmato,
dove andrà.
Sente qualcosa di fastidiosamente umido sulla guancia e la
mano vi si posa meccanicamente: allontanandola in modo che rientri nel proprio
campo visivo, vi ritrova una traccia di sangue.
Non si sente turbato, nemmeno quando abbassando lo sguardo
a terra incontra solo corpi, e sangue e la spada al suo fianco macchiata dal
medesimo colore carminio.
Non c’è panico, quasi un’insana soddisfazione, mentre ancora
cammina sotto l’arcata che lo sta conducendo ovunque abbia deciso di recarsi:
alla sua sinistra, la grande balconata dà sul cortile.
Fiamme alte che bruciano i pochi rami degli alberi che,
più elevati, erano sfuggiti fino a quel momento al loro destino che li vedrà
divenire cenere come il resto delle chiome cui appartenevano.
La spada stride appena a contatto con il pavimento di
pietra, ma non si cura di alzarla subito, quasi ricercando compagnia in quel
rumore; volta l’angolo e per un attimo la luce gli infastidisce la vista.
Nessuno a terra, nessuno tranne un unico, singolo corpo
che visibilmente ancora respira: a fatica, pesantemente.
Avverte il proprio incurvarsi di labbra: mentalmente lo
deride già.
«Povero, stupido essere umano.» è quello che sussurra la
propria voce, ma nel silenzio quasi irreale sembra persino che le parole
possano rimbombare.
Il corpo a terra si muove appena, ma esce un verso
incomprensibile e forse anche strozzato.
Non se ne preoccupa. Non è affar suo.
Si avvicina di un passo: «Perché non imparate mai?»
domanda, come se per un solo istante potesse davvero interessargli la risposta.
«Perché non imparate quando è il momento di non cercare
più la verità?» sente se stesso aggiungere, la spada che punzecchia appena il
corpo, in un macabro gioco per passare il tempo quasi.
Ha la sensazione del proprio sguardo e della propria
espressione che si induriscono.
Il tono che sente – il proprio? – lo è certamente.
«Devo ucciderti, Vincent?»
Dire che la voce aveva
impiegato pochissimo a spargersi, sarebbe stato un eufemismo.
L’unica cosa su cui si
potevano avere dei dubbi, era l’aspetto che si era venuto a sapere per primo:
se fosse stato il fatto che Vincent Nightray era stato ferito nei confini della
scuola, se fosse stato l’allarmante avviso che il colpevole non era stato visto
da nessuno e tanto meno individuato o se la prima voce a girare fosse stata
quella che ad aver dato l’allarme era stato Elliot Nightray.
Oz e Noah lo avevano saputo
da Alice: la mattina seguente all’incidente, Gilbert non si era presentato
infatti e Sirjan e Alyster Kolstoj aveva annunciato la sospensione delle
lezioni almeno momentaneamente.
Oz era stato tentato di
chiedere ad Ada di accompagnarlo in infermeria: al di là delle parole di Alice
riguardo a Vincent e di quanto questi potesse essere o meno qualcuno da
evitare, un compagno fino a quel momento per nulla diverso dagli altri era
rimasto ferito – seppure non fosse nulla di mortale, avevano assicurato i
docenti.
Ma oltre tutto questo, Oz
si chiedeva come stesse Gilbert; forse stupidamente, non sapeva immaginare la
preoccupazione del moro per il fratello minore e voleva vederlo.
Era quasi ironico, che
finissero per restare l’uno accanto all’altro quando un fratello – era stato
così per Jack, ora era Vincent – versava in condizioni non proprio ottimali.
Tuttavia, qualunque piano
avesse in mente Oz, dopo la colazione e l’annuncio dei due capo dormitorio era
stato praticamente bloccato da Aedan sulla soglia della mensa.
Alzando lo sguardo
interrogativamente, aveva scorto quello del moro, indifferente come sempre:
«Dove stai andando?» aveva chiesto.
Oz non aveva nemmeno fatto
in tempo a finire la frase “in infermeria”, che l’altro l’aveva interrotto:
«Alyster ti vuole parlare.» aveva detto soltanto, sorprendendo Oz.
La ragazza si stava
avvicinando in quel momento, e il biondo poté notare Sirjan dietro di lei: ad
un’occhiata più attenta, vide che spingeva lui stesso la sedia a rotelle della
sorella.
L’espressione di Alyster,
tuttavia, sebbene mantenesse i suoi tratti cortesi che l’avevano caratterizzata
dal primo incontro che avevano avuto, lasciava trasparire una nota preoccupata
e l’aria di chi ha urgenza di parlare di un argomento piuttosto serio.
Fu forse quello a
trattenerlo lì quando il primo istinto anche dopo le parole di Aedan era stato
voltarsi e andarsene.
«Scusami, Oz.» esordì
Alyster, osservandolo: «Probabilmente vuoi raggiungere il signor Nightray, ma
ho bisogno di parlarti.» rivelò senza eccessivi giri di parole. Oz alzò appena
un sopracciglio, confuso.
La osservò, cercando di
estrapolare qualcosa dall’espressione o dallo sguardo di lei, ma non vi riuscì.
«Però Alyster, io…» tentò,
interrotto dalla mano di lei che aveva preso la sua.
«Lo so. Ma mi hai detto di
voler chiedere qualcosa ad Elliot Nightray su quella melodia, giusto? Hai detto
che era composta da un amico di tuo fratello, è così?» chiese conferma,
riassumendo cose che si erano detti.
Oz, sebbene appena
infastidito dal fatto che sia Aedan che Sirjan potessero ascoltare quella
“confessione” che aveva fatto solo a lei, annuì.
Lei fece lo stesso.
«Glen Baskerville.» disse
con voce ferma. Oz sgranò appena gli occhi, le mani lungo i fianchi che si
strinsero appena sulla stoffa dei pantaloni: «Cosa…?»
«L’amico di tuo fratello
Jack.» chiarì lei senza mezzi termini: «Era Glen Baskerville, giusto?»
Annuì meccanicamente, ma il
pensiero si fossilizzò su un unico interrogativo: se conosceva già suo fratello
tanto da sapere una cosa come quella, perché aveva fatto domande a lui?
Vide Alyster sospirare piano,
per poi rialzare lo sguardo su di lui: sembrava voler evitare di parlare e al
tempo stesso essere consapevole di doverlo fare comunque.
Sirjan, dietro di lei,
taceva con lo sguardo su Oz, mentre Aedan sembrava più che altro controllare
che i pochi e sporadici studenti attardatisi lì in mensa non cercassero di
cogliere il loro discorso.
«Glen… cosa c’entra Glen
Baskerville, ora?» mormorò senza sapere bene cosa pensare.
«Pensiamo che l’aggressione
a Vincent Nightray sia in qualche modo collegata a lui.» ammise, uno sguardo
veloce al fratello, quasi a giustificare quel “noi” sottinteso nella frase.
Oz assunse un’aria
incredula: «Ma Alyster, Glen—»
«È morto tempo fa?» lo
interruppe Sirjan, il tono non particolarmente toccato dall’affermazione.
Guardò Oz, come se il resto fosse ovvio e lo dicesse a parole solo per farlo
contento.
«Sì, lo sappiamo.»
Note
E fuori altri due pg da far
apparire *-* *sì, praticamente sta facendo il countdown* XD
Vi autorizzo ad odiarmi per
aver fatto apparire praticamente già morti Jack e Glen x° Non so quanto possa
essere consolante, ma non verranno mollati nel dimenticatoio ora che si sa che
fine hanno fatto.
…no, non vi consola vero?
Ringraziamenti
Gioielle: Oz egoista, Oz egoista *festeggia* xD idiozie a parte,
sì, posso confermarti che ci stiamo avvicinando al lato “dark” della storia. O
almeno, quel “drammatico” tra i generi della longfic comincia ad avere un senso
XD
Sono contenta di aver
mantenuto Alice IC e che ti sia piaciuta Sharon (anche se io non la sopporto e
la tentazione di farla sparire dalla circolazione è stata forte *-*”); Miranda
Barma può e basta. Io che scrivo non vedevo l’ora di trattarla XD *se la
sognava da mesi quella battuta*
Finalmente ‘sto benedetto
inciucio MarcusNoah *muor* e suvvia. Marcus è quello che è e Noah io continuo a
dirvelo che è stupido, siete voi che non mi prendete sul serio! XD
E, come ti ho già detto,
non posso che gongolare del fatto che ti piaccia Alys <3
LitaChan: imminente futuro, recente passato, nulla di tutto
questo, sadismo dell’autrice… chi può dirlo cos’era quel sogno? ù_ù *lei
potrebbe, ma ovviamente non lo farà*
E’ sempre un piacere
leggerti tra le recensioni e quanto ad Oz… quel ragazzo non ha self-control.
Secondo me era troppo shockato per fare una scenata XD *e dire che le scrive
lei, le scene, poi*
Elliot è sfigato. Basta
vedere che gli combina la Mochizuki: e chi sono, io, per cambiare il destino di
quel povero pg pucchoso? Che sia sfigato anche da me, suvvia ù.ù
Yoko891: *pulisce la bava* su, su, riprenditi xD
Questo capitolo forse è un
pelo più lungo, per il resto mi sono orgogliosamente mantenuta sempre sulla
stessa lunghezza (è stato casuale, ma farlo sembrare una cosa voluta fa figo!)
v_v
Brava, ama Elliot che quel
povero pg ha bisogno di affetto ç___ç!
Spero di avervi ridato una
dose di Gil in questo capitolo XP
Makotochan: …tu sei malataaaa XD *scuote*
Tralasciando tutti i
commenti VinceGil che mi hai rifilato (tanto ti sfoghi in separata sede,
inutile discuterne in questa risposta x°), Aedan… beh. E’ anche meno sfigato di
quanto avrebbe potuto (lo sai quando mi diverto a traumatizzare i pg originali
<3); quanto Oz e l’etero stai tranquilla: se anche fosse (e non è.
Decisamente no.) piuttosto che con Sharon lo accoppio con una sedia a dondolo
u.u
Amiamo tutti la Barma in
armonia XD E felice ti siano piaciuti i vari risvolti <3
AliceOfAbyss: grazie dei complimenti, nya <3 E… sìììì çOç L’unica
che mi dà soddisfazione e non aveva sgamato fin dall’inizio Marcus e Noah XD
*muor*
Spero che anche questo
capitolo sia stato di tuo gradimento (non c’era Reo, ma strapazzo a dovere
Elliot per compensare xP).
Piano piano dissiperò i
vostri dubbi *ci spera, almeno*
Spostò lo sguardo
alternativamente da Sirjan ad Alyster più di una volta.
Quasi si sentiva ottuso, e
la cosa lo avrebbe in qualche modo infastidito se non fosse stato troppo
occupato a dare un senso alle parole dei due fratelli.
Approfittando della mensa
ormai completamente deserta, Sirjan si mosse verso la panca vicina, lasciando
l’impugnatura per spingere la sedia a rotelle della sorella e prendendovi
posto. Con un cenno, invitò Oz a fare lo stesso.
Il biondo, tuttavia, rimase
in piedi lì dov’era: «Se è una presa in giro… non è divertente.» asserì,
parlando finalmente dopo diversi minuti di totale silenzio. Sirjan alzò appena
un sopracciglio: «Non ho l’abitudine di prendere in giro le persone, men che
meno in momenti simili e su argomenti del genere.» lo riprese, severo malgrado
il tono di voce fosse morbido.
Oz strinse appena la stoffa
dei pantaloni fra le dita in quello che sembrava essere divenuto un tic
nervoso: «Ma lo hai detto tu stesso che Glen Baskerville è morto. E lo so
perché è morto nello stesso periodo di mio fratello. Perciò cosa c’è, a
Latowidge fate resuscitare i defunti?» insinuò con arroganza mista
all’irritazione.
Non era divertente, non lo
era proprio per nulla.
E non capiva perché Sirjan
insistesse su qualcosa di oggettivamente impossibile come quella, né perché
Alyster – e presumibilmente anche Aedan – gli dessero spago.
Sirjan, comunque, non
rispose per le rime: socchiuse gli occhi per qualche istante, come se stesse
cercando le parole. Dopodiché, si alzò nuovamente in piedi dirigendosi verso
Aedan ancora sulla soglia della mensa. Vi sostò il tempo necessario a
pronunciare un: «Riaccompagna tu Alyster, per cortesia.» riprendendo quindi a
camminare del tutto intenzionato – apparentemente – ad andarsene.
Istintivamente, Oz lo
richiamò indietro: il capo dormitorio si voltò, l’espressione neutra come era
sempre stata – o come Oz aveva sempre avuto modo di vederla – con un’unica
eccezione. Gli occhi dorati, che ora erano fissi sul biondo erano severi e
quasi sprezzanti.
Oz sussultò senza poterlo
evitare: mai aveva visto a Sirjan uno sguardo simile, mai rivolto a nessuno,
nemmeno quando era capitato che dovesse sgridare qualche altro studente o
riportare all’ordine un gruppo particolarmente confusionario.
«Una ragione.» lo sentì
dire, riscuotendosi e assumendo un’aria interrogativa, senza capire cosa
intendesse. La voce di Alyster che richiamò Sirjan con un “fratello” fu
sostituita quasi subito dal ragazzo che si spiegò meglio: «C’è una ragione
valida per la quale dovrei perdere del tempo spiegandoti quello che ho detto?
Nel momento in cui ironizzi, vuol dire che non hai intenzione di accettare
un’opinione esterna.» chiarì, lo sguardo che non abbandonava Oz.
Il capo dormitorio mosse un
ulteriore passo verso l’uscita: «Forse, semplicemente non sei adatto. Forse sei
tu, quello che non è degno di conoscere le verità altrui.» concluse,
proseguendo senza più voltarsi e sparendo ben presto alla vista, probabilmente
diretto all’infermeria.
Oz era rimasto senza
parole: al di là del discorso in sé che Sirjan gli aveva rivolto, al di là del
tono che pur essendo di rimprovero manteneva comunque quell’insopportabile nota
neutra come se non gli importasse mai davvero di nulla, il biondo era stato
quasi gelato dalla sua conclusione.
La domanda che Gilbert gli
aveva rivolto, il suo timore di non essere degno di ascoltare la verità di Oz e
di essere meritevole solo di bugie, Sirjan lo aveva decretato qualcosa di cui
lui stesso era “colpevole”. Come se – assurdamente – il più grande avesse
ascoltato di nascosto il discorso fra lui e Gilbert e glielo avesse volutamente
rivoltato contro.
«Oz…?» tentò Alyster,
avvicinandosi a lui. Venne bloccata quasi subito, non tanto dai gesti quanto
dalla replica del biondo: «Non voglio ascoltare.» disse.
Alzò lo sguardo, senza però
portarlo sulla ragazza: «Vado in infermeria.» comunicò soltanto, avviandosi
quasi seguendo i passi di Sirjan fatti per uscire dalla sala. Nel passare
accanto ad Aedan, quest’ultimo non mosse un dito per fermarlo, né disse nulla.
In breve, fu nel corridoio
che portava all’infermeria.
Entrarvi si era rivelato
molto più difficile di quanto aveva pensato: per questioni di discrezione, era
stato permesso l’ingresso solamente ai famigliari o a chi fosse stato
autorizzato da loro.
Quando Oz era arrivato nei
pressi della porta per accedervi, aveva trovato Noah che veniva nella direzione
opposta affiancato da Marcus – che era più probabile avesse accompagnato il
fratello, piuttosto che fosse lì per Vincent.
Il compagno di stanza aveva
spiegato che avevano entrambi accompagnato una Alice piuttosto reticente che
ora era dentro insieme a Gilbert e la servitrice di Vincent stesso – Echo – che
aveva riportato solo qualche graffio superficiale e nulla di allarmante. Ada si
era allontanata poco prima per andare a richiamare il terzo fratello, Elliot
Nightray, mandato a riposare senza possibilità di replica dall’infermiera per
evitare che collassasse a causa della tensione accumulata.
«Io ho preferito non
entrare, non è che li conosco granché di fatto. Però tu sei amico di Gilbert,
no? Vedi te.» aveva aggiunto Noah, lasciando che Oz bussasse alla porta
dell’infermeria.
Da lì, l’esperienza
traumatica non era stata incrociare Gilbert dopo quella specie di discussione
che avevano avuto, né la vista di Vincent Nightray – non solo perché da lì non
lo vide affatto, ma anche perché in ogni caso non era comunque ridotto così
male.
Era stato Elliot Nightray
che con passo marziale e palesemente innervosito aveva raggiunto a sua volta
l’infermeria irritato dalla presenza di Ada Bezarius poco dietro di lui, a
creare confusione.
Quando Ada, individuando Oz
poco più avanti lo aveva richiamato apostrofandolo come “fratello” e era stato
quindi chiaro chi fosse, Elliot aveva assunto un’aria persino più irritata di
prima e aveva affrettato il passo. A nulla era valso il richiamo di Gilbert
dopo che il minore dei Nightray aveva allontanato malamente Oz dalla porta
precludendogli l’entrata.
«Non pensare nemmeno
vagamente di entrare qui dentro.» aveva sibilato Elliot contro un Oz
inizialmente perplesso e poi senza dubbio infastidito da quell’atteggiamento.
L’altro però sembrava non averlo notato, ignorando qualsiasi reazione potesse
provenire dal biondo e avvicinandosi all’entrata dell’infermeria per varcarne
la soglia. Gilbert si era fatto da parte, ma aveva poggiato una mano sulla
spalla del fratello minore: «Elliot…»
«Non mi toccare.» aveva
sbottato quello senza alcun tentennamento in proposito o preoccupandosi di
rivolgersi al fratello maggiore: «Quello lì è un Bezarius, e non c’entra nulla
con noi.» aveva quindi infierito.
Era stata la prima volta
che Oz, prima di poter rispondere lui stesso a tono, aveva visto Gilbert
assumere un’espressione arrabbiata mentre afferrava alla meno peggio per il
bavero il fratello, spingendolo non troppo violentemente ma abbastanza forte da
farlo finire contro lo stipite della porta all’altezza del quale ancora si
trovavano.
Nello stupore generale,
compreso quello del biondo, Gilbert aveva guardato Elliot rabbioso: «Ritira
quello che hai detto e scusati. Adesso.» aveva praticamente ordinato.
Il minore dei Nightray era
stato inizialmente sorpreso e poi confuso: ma non era durata abbastanza da
sostituirsi all’espressione arrabbiata che era tornata al suo posto in breve
tempo. Aveva infine allontanato il fratello in malo modo, con un gesto a metà
fra lo stizzito e il disgustato quasi: «Perdonami fratello. Dimenticavo che eri
e rimani vergognosamente il servo dei Bezarius e non un membro dei Nightray.»
aveva sputato fuori, cogliendo di sorpresa persino Gilbert, malgrado il moro
sembrasse in qualche modo abituato a parole o discussioni simili con Elliot.
Oz non aveva potuto dire la
sua: Elliot Nightray era scomparso oltre la soglia dell’infermeria
rivolgendogli solo un’ultima, breve occhiata quasi d’odio.
A quel punto era sembrato
saggio a tutti lasciare quel corridoio: così Oz si era avviato con Ada verso i
dormitori, preceduto di poco da Noah e Marcus.
Non era servito a molto,
durante il loro camminare fianco a fianco, il tentativo di Ada di convincerlo
che Elliot Nightray era probabilmente solo teso e agitato per l’accaduto e che
normalmente era una persona affidabile e gentile. In alcun modo Oz avrebbe
potuto crederci, non dopo la scena che si era verificata.
Era stato però ancora più
innervosito dal non riuscire a mettere totalmente le parole della sorella da
parte: era vero, certo, che il minore dei Nightray aveva praticamente sostenuto
senza il minimo riguardo alla cortesia e all’educazione il fatto che ritenesse
la famiglia Bezarius poco meno che feccia.
Ma, d’altra parte, era
altrettanto vero che proprio Oz era la persona che poteva essere più incline di
chiunque altro a pensare che Elliot non fosse davvero così. O almeno, non del
tutto.
Lui che lo aveva osservato
di notte suonare una melodia che mandava entrambi in confusione nello stesso
modo, proprio Elliot che non riusciva a dormire – come lui; Elliot che si
sentiva quasi impazzire – esattamente come lui…
Non riusciva a non pensare
che forse, c’era qualcosa che non andava.
Che forse, in un modo che
in realtà non sapeva immaginare lui stesso, c’era qualcosa che doveva capire di
lui per raccapezzarsi con quell’incidente e le parole di Sirjan ed Alyster.
Per questo, quando era rientrato
nella propria stanza – trovandola vuota: probabilmente Noah era da Marcus, a
ben pensarci – aveva tirato nuovamente tutte le tende, concedendosi una dormita
fatta come si doveva.
Non era importante che lo
odiasse e che a sua volta Oz trovasse quell’Elliot molto lontano dall’essergli
simpatico: ci avrebbe parlato e lo avrebbe quindi avvicinato.
Non era importante che
Alyster lo avesse giudicato difficile, specie per lui che era un Bezarius: non
aveva altra scelta in ogni caso.
La teoria era sempre stata
una bella cosa, ma non sempre combaciava con la pratica, né le congetture lo
facevano con la realtà.
Ma Oz Bezarius non si
arrendeva certo così facilmente solo perché di cinque tentativi per avvicinare
Elliot Nightray non solo non ne era riuscito nemmeno mezzo, ma era difficile
giudicare quale fosse andato peggio.
Doveva ammettere, però, che
non era nemmeno tanto facile: le lezioni erano un’occasione improbabile,
essendo loro di due anni diversi e non avendone in comune.
Durante gli intervalli,
poi, Elliot sembrava svanire nel nulla, oppure era in mensa al tavolo con il
suo servitore: in ogni caso, però, non era avvicinabile - non senza attirare su
di te l'attenzione di tutti quelli che erano lì a mangiare, ovviamente.
Alla fine, perciò, aveva
optato per il metodo più diretto - e potenzialmente più letale data la
predisposizione del minore dei Nightray ad avere a che fare con lui.
Fece un sorrisone verso
l'impiegata nella segreteria - diversa da quella che lo aveva accolto il primo
giorno - richiudendosi la porta alle spalle: aveva ottenuto il numero di stanza
di Elliot e Reo Nightray in maniera relativamente facile.
La tattica era sempre la
stessa da anni, dopotutto: sorridi e sii carino, il resto verrà da sé.
Non si diresse subito alla
stanza, comunque, ma preferì dirigersi in mensa a cenare vista l'ora.
Probabilmente non li avrebbe trovati comunque in camera, perciò era inutile
perdere tempo ad andare e tornare.
Dopo aver lasciato vagare
lo sguardo per qualche istante appena arrivato nella sala, individuò il tavolo
dove sedeva Noah: notò che Marcus era al suo fianco, com'era prevedibile. Di
fronte a lui stava Alice e affianco a lei c'era - sorprendentemente - Echo.
Stupito dalla sua presenza,
li raggiunse comunque prendendo posto all'altro lato di Alice. Fu Noah il primo
a rivolgersi a lui: «Ohi Oz.» fu il saluto che gli rivolse, accompagnato dal
solito sorriso allegro che pareva praticamente onnipresente sul suo viso.
Oz sorrise di rimando,
cercando di non badare almeno inizialmente all'atmosfera tesa fra le due
ragazze del tavolo e prestando attenzione al compagno di stanza: «Alla fine
Vincent Nightray non ha nulla di mortale, proprio come avevano detto. Una
ferita, un po' profonda ma lo lasceranno tornare a lezione tra tipo due
giorni.» spiegò, dedicandosi poi con amore ad un boccone del suo doppio
hamburger - insudiciato di un miscuglio di salse discutibili.
«Come lo sai?»
«Agente segreto Keynes
sempre al tuo servizio. Ho abbordato l'infermiera.» disse annuendo convinto.
Occhiata eloquente di
Marcus.
«Ovviamente scherzavo. Ho
solo chiesto al professor Lunettes.» chiarì quasi immediatamente. Oz ridacchiò
divertito, alzandosi per andare a prendere qualcosa da mangiare: neanche due
passi che Alice l'aveva seguito con aria seccata.
Attese di essere abbastanza
lontano dal tavolo per parlarle: «Va tutto bene?» chiese quasi ingenuamente -
perché era ovvia la risposta.
Lei lo degnò di un'occhiata
con la quale si soffermò su di lui per pochi e brevi istanti: «Per niente.
Quella mi sta appiccicata.» replicò, incrociando le braccia al petto.
Oz prese dell'insalata,
passando a setacciare la zona carne: «Intendi dire la piccola Echo?» domandò
quasi casualmente.
Alice lo guardò a dir poco
perplessa: «...la "piccola Echo"? Ma che nome è?!» lo riprese, ma il
biondo si limitò a ridacchiare mentre si appropriava di ben due cotolette
panate.
«E' solo un soprannome,
anche se mi ha detto di non utilizzarlo.» ammise, allungandosi per recuperare
anche dell'acqua e un paio di tovaglioli.
«Sfido io.» lo riprese
nuovamente, sarcastica: «Comunque sì, lei. Davvero degna tirapiedi di Vincent.»
sibilò irritata. Oz sospirò, alzando lo sguardo al soffitto istintivamente:
«Non dirmi che Vincent riesce a farti arrabbiare anche mentre è chiuso in
infermeria.» la prese bonariamente in giro.
Se non gli volò via di mano
il vassoio con tutto ciò che ci aveva messo allo spintone che gli diede Alice,
allora fu sicuro che avrebbe avuto una carriera assicurata come equilibrista
del circo. La guardò stralunato, senza minimamente capire il perché del gesto:
«Ma... Alice...?»
«Che cavolo ci trovi da
ridere, eh?!» sbottò lei arrabbiata, il tono alto senza minimamente
preoccuparsi di iniziare da subito ad attirare su di sé gli sguardi degli
studenti più vicini.
«Perché vuoi a tutti i
costi fidarti di Vincent, perché devi credere alla sua buona fede e non alla
mia?! Perché segui sempre quei due del quinto anno, sparisci, te ne vai in giro
con mio cugino e non credi a me quando ti dico che è pericoloso?! Non permetto
a nessuno di prendermi in giro, o di lasciarmi da sola o di prendermi per
stupida! Non te lo permetto, è chiaro servo?!» si sfogò, il tono alto che aveva
fatto sparire il chiacchiericcio della sala facendola cadere in silenzio
ovattato e carico di sorpresa e curiosità di chi li osservava.
Oz l'aveva osservata per
tutto lo sfogo sorpreso, senza capire cosa avesse fatto esattamente per farla
arrabbiare tanto.
«Alice...» tentò, ma lei
parlò di nuovo interrompendolo: «Non ti voglio ascoltare!» ribatté dandogli le
spalle e iniziando ad allontanarsi.
Avrebbe potuto seguirla,
certo: posare il vassoio sul primo ripiano disponibile, correrle dietro e
scusarsi o chiedere spiegazioni. Ma non lo fece.
Non perché non ci tenesse:
semplicemente perché Echo lo fece prima di lui. E suppose che seguire entrambe,
visto il tipo di rapporto che c'era fra loro, non fosse proprio consigliabile
ora.
Perciò dopo cena era
tornato velocemente in dormitorio, dirigendosi direttamente alla stanza di
Elliot e Reo Nightray senza passare dalla propria: quando aveva bussato, non
aveva risposto nessuno, quindi probabilmente li aveva preceduti.
Aveva preferito non
aspettare davanti alla porta perché, da qualunque punto di vista si osservasse
la cosa, fare le poste a qualcuno davanti alla sua stanza era losco. E dubitava
anche che avrebbe aiutato ad intavolare una conversazione civile con Elliot
Nightray, visti i presupposti dai quali partivano.
Così era tornato in stanza,
dandosi un po' di tempo per essere certo di trovarvi qualcuno.
Spostò lo sguardo sulla
sveglia del proprio comodino, leggendo l'orario: le dieci di sera;
probabilmente ora almeno uno dei due gli avrebbe aperto, giusto?
Racimolò quindi la felpa
dal letto, indossandola sopra la maglia semplice che aveva messo quando si era
cambiato togliendo la divisa: uscì in corridoio, percorrendolo per dirigersi
verso le scale ma proseguendo anziché scenderle verso il piano inferiore.
Controllò di tanto in tanto
i numeri delle stanze, fino ad individuare quello che gli interessava: un
sospiro, mentre una mano nella tasca della felpa si stringeva sull'orologio da
taschino, bussando quindi un paio di volte alla porta con la mano libera.
Non ci volle molto, questa
volta, perché l'uscio si aprisse verso di lui rivelando un ragazzo moro e
dall'apparenza buffa - o così sembrava ad Oz: i capelli neri, scompigliati e
abbastanza lunghi da toccare le spalle erano, insieme agli occhiali dalla
montatura tonda e leggermente spessa, i segni di riconoscimento che aveva
personalmente affibbiato a Reo Nightray.
Quest'ultimo, ancora in
divisa, gli rivolse un'occhiata interrogativa: «Signor Bezarius, giusto?»
disse, prendendo Oz appena in contropiede per la verità. Non ne attese la
risposta comunque: «Serve qualcosa?» aggiunse.
Oz, dopo un attimo di
sorpresa e di silenzio, annuì: «Ah, sì... cercavo Elliot Nightray.» articolò
alla meno peggio. Vide il moro portare una mano a sorreggere appena il mento in
una buffa posizione pensosa - riflesso dell'espressione.
«Elliot adesso non è in
stanza.» rivelò. Probabilmente, senza accorgersene Oz doveva aver assunto un'espressione
delusa, perché Reo abbozzò un sorriso leggero - anche se Oz non lo notò - e
aggiunse: «Vuoi che gli dica qualcosa?» domandò.
Oz alzò lo sguardo,
scuotendo subito la testa: «No, no!» disse quasi frettolosamente - visto quanto
lo amava Elliot, già si immaginava la reazione sapendo che era andato a
cercarlo.
«Anzi, non dirgli proprio
che sono passato, tanto lo cercherò poi per conto mio, ecco, sì.» concluse.
Il primo pensiero quando,
svegliato da un leggero bussare aveva guardato l’orario della sveglia prendendo
coscienza del fatto che erano le tre di notte, fu chi diamine potesse rompere a
quell’ora improponibile.
Guardando lateralmente,
aveva distinto appena la sagoma di Noah dormire della grossa, senza riuscire
davvero a sorprendersene e arrendendosi all’idea che avrebbe dovuto alzarsi
lui.
Malgrado il torpore del
sonno, riuscì a non inciampare – in un particolare slancio di lucidità si
ripromise di minacciare Noah di fargli ingoiare tutta la roba che lasciava in
mezzo – raggiungendo indenne la porta. La socchiuse, affacciandosi leggermente
per vedere fuori.
Di certo, avrebbe reputato
più plausibile trovarsi fuori dalla porta il professor Xerxes in vestaglia,
pantofole e orsetto di peluche sottobraccio che non Reo Nightray come invece
accadde.
Indossava pantaloni
sicuramente appartenenti al pigiama e una felpa un po’ grande per lui: i
capelli erano arruffati – più del solito – l’espressione calma come qualche ora
prima.
«Scusa l’ora.» esordì,
quasi banalmente. Oz scosse la testa cercando di abbozzare un sorriso – era
plausibile che i suoi muscoli facciali si sforzassero anche col cervello in
stato semi comatoso come in quel momento. Ma dai neuroni non poteva pretendere
lo sforzo di articolare una frase coerente.
Comunque, Reo non pareva
aspettarsela: «Pensavo di farmi accompagnare. Puoi uscire adesso?» chiese,
perfettamente a suo agio.
Oz lo guardò perplesso:
«Adesso?» fece eco. Non potevano parlare, per esempio, in mensa – e ad orari
umani?
Reo annuì, per nulla smosso
dalla perplessità dell’altro: «Sto raggiungendo Elliot nell’aula di musica.
Volevi parlargli, giusto?» se ne uscì con tutta la naturalezza del mondo.
Oz decise: quel tipo non
aveva tutte le rotelle al posto giusto.
D’altra parte, però, a lui serviva
di parlare con Elliot Nightray: «Non credo che di notte sia meno irritabile o
più disposto a parlare con me.» commentò, memore dello stato di frustrazione in
cui l’altro versava tutte le notti in cui lo aveva spiato, a volte anche in
compagnia di Alyster.
Reo inclinò appena il capo
lateralmente: «Perché?» chiese quasi ingenuamente. Oz puntò lo sguardo altrove:
«Odia i Bezarius, no?»
«Decisamente.» replicò
senza la minima esitazione il moro, quasi obbligando a Oz a chiedersi se ci
fosse o facesse solo finta.
Qualsiasi replica o
eventuale congettura, però, fu interrotta proprio da Reo: «Elliot ha chiamato
il tuo cognome.» rivelò, criptico.
«…cosa? Quando?»
«Stanotte. Mentre dormiva.»
Trovò il fatto che Elliot
Nightray lo chiamasse nel sonno un misto di molte cose che oscillavano da
“strano” ad “assurdo” a “improbabile” – sicuramente le più quotate. Preso però
dalla curiosità di conoscerne il motivo, sempre che ce ne fosse uno, lasciò Reo
ad aspettare lì sulla porta il tempo di recuperare al volo una felpa e
l’orologio da taschino, dopodiché uscì chiudendosi la porta alle spalle, piano.
Nell’oscurità quasi
completa della stanza, l’unico rumore percettibile dopo che il biondo fu uscito
fu un sospiro.
«Esce di nuovo.» mormorò un
Noah più che sveglio, ricevendo come risposta il solo rumore prodotto dal
fruscio delle lenzuola sotto le quali si era mosso per sistemarsi in modo tale
da dare le spalle al letto di Oz.
Raggiunsero l’aula di
musica in breve tempo, il tragitto percorso quasi in completo silenzio. Se non
avesse saputo che dentro c’era il minore dei Nightray, Oz l’avrebbe considerata
vuota: non proveniva alcun rumore dall’interno, men che meno quello del suono
del pianoforte. Non vi erano luci accese, neanche fioche: la poca illuminazione
era tutta dovuta all’esterno e alle tende non tirate.
Quando lui e Reo entrarono
insieme, Elliot sedeva di fronte al pianoforte come in procinto di
un’esecuzione, ma guardava fuori. Dal momento che il moro non disse nulla per
palesare la sua presenza, Oz lo imitò; in ogni caso, pochi istanti dopo fu
Elliot stesso a voltarsi.
Se la sua espressione fu
più sorpresa, spaesata, irritata o semplicemente passò velocemente per tutti e
tre gli stadi, Oz non seppe dirlo: tuttavia, il minore dei Nightray prima di
prendersela con lui si voltò verso Reo con l’aria di chi non sa da quale
ramanzina o rimprovero iniziare ma sta velocemente risolvendo quel dramma
interiore.
«E questo cosa dovrebbe
significare, Reo?» chiese a metà fra un sibilo e un pessimo tentativo di
ostentare una certa calma. Oz portò istintivamente lo sguardo sul moro, che non
sembrava turbato granché né dal tono, né dall’espressione dell’altro.
«Voleva parlarti.» diede
come spiegazione Reo, Oz che si sentì improvvisamente chiamato in causa.
Elliot, qualsiasi opinione avesse in mente in proposito, non sembrava
intenzionato a cambiare idea; spostò lo sguardo sul biondo, l’aria eloquente:
«Che vuoi?» fu l’unica cosa che gli concesse, senza l’ombra di un qualsivoglia
tatto o la vaga intenzione di farsi perdonare per la sfuriata dell’infermeria.
Oz si accigliò, sentendosi
improvvisamente per nulla invogliato a parlare con quel tizio: assunse un’aria
arrogante, quella che da sempre era sfruttata e rivolta a chi si mostrava fin
troppo superbo per essere trattato con cortesia.
«La canzone che suoni,
Lacie, chi te l’ha insegnata?» chiese, senza girarci troppo intorno visto che
non aveva nessuna intenzione di stare lì più del dovuto. Considerando poi che
Elliot sembrava più che desideroso di vederlo andare via il prima possibile.
Tuttavia, l’espressione del castano mutò nella più sincera sorpresa.
Le braccia che si erano
incrociate al petto, allentarono la tensione perdendo automaticamente la
posizione rigida: «Cosa ne sai tu di Lacie?» lo interrogò, fra il guardingo e
il confuso, probabilmente convinto di non essere mai stato udito o che nessuno
conoscesse quello che lui considerava un segreto.
«Ti ha ascoltato spesso di
nascosto quando suoni la notte.» se ne uscì a sorpresa Reo, il tono pratico e
placido, come se fosse normale spiare la gente ad orari come quelli e, a volte,
anche più tardi.
La reazione di Elliot e Oz
fu comica: a discapito dell'apparente antipatia reciproca, si voltarono
contemporaneamente verso il moro, entrambi con espressione incredula,
esclamando all'unisono un «Che cosa?!»
Si scambiarono un'occhiata,
dopodiché Elliot fu il primo a tornare sul coetaneo: «Se ti eri accorto che ci
spiava perché non me lo hai detto?!»
«Se ti eri accorto che ero
fuori perché non mi hai cacciato?!» se ne uscì quasi subito Oz.
Nuova occhiata fra di loro,
infastiditi entrambi dallo scimmiottare dell'altro - o quello che pareva tale.
Reo, nuovamente, sembrava
per nulla toccato dalla cosa: «Non faceva nulla di male, ascoltava e basta. E
c'era qualcun'altro, vero?» chiese rivolto unicamente ad Oz che, sorpreso, si
ritrovò ad annuire istintivamente.
«Alyster.» disse, senza
specificare il cognome. Elliot sbuffò, ma più del solito fare antipatico, era
uno sbuffo più simile a quelli che si fanno nelle discussioni di poco conto con
un amico di vecchia data: «Alyster, ovvio.» commentò quasi distrattamente.
Oz si accigliò appena: era
stato il primo a non ascoltare Alyster l'ultima volta che la ragazza gli si era
rivolta, ma questo non implicava che lei non gli piacesse, anzi.
«Cos'è, ti è antipatica
anche lei?» chiese, una nota sarcastica che non si era dato troppo la pena di
nascondere, tutt'altro.
Nuovamente, intervenne Reo
visto che Elliot si era voltato dall'altra parte con uno "tsk", per
niente intenzionato a rispondere a quella domanda - o provocazione: «Alyster e
Sirjan hanno dato il permesso ad Elliot di utilizzare l'aula di musica in
qualsiasi momento per esercitarsi.» spiegò brevemente.
Oz inarcò un sopracciglio.
Reo parlava come se suonare di notte fosse normale: con un permesso simile, non
poteva usufruire dell'aula in un'ora del giorno normale?
«L'ho composta io.» li
interruppe la voce di Elliot, sulla difensiva.
Ad Oz non occorreva una
spiegazione per capire che si riferiva al brano che gli aveva sempre sentito
suonare: «Non è vero.» replicò, sicuro.
Il minore dei Nightray si voltò
a guardarlo con aria seccata: «Vuoi saperlo meglio di me?» ironizzò,
fissandolo. Il biondo estrasse l'orologio tenuto nella tasca della felpa dove
aveva anche affondato la mano da quando aveva seguito Reo, come se temesse di
perderlo e cercasse di evitarlo tenendo sempre la mano a contatto con il
metallo dell'oggetto.
Impiegò ben poco a farlo
scattare, lasciando che la melodia del carillon si diffondesse per l'aula vuota
e silenziosa.
Si aspettava quasi che Reo
non facesse una piega, ma avrebbe scommesso su un'espressione stupita da parte
di Elliot, o anche arrabbiata nel caso avesse stupidamente ipotizzato un averlo
copiato a sua insaputa.
Invece, Elliot parve più
che altro preda di quella confusione data dal timore per qualcosa: «...chi te
l'ha dato?»
«Mio fratello.»
«Jack Bezarius? Tuo
fratello era Jack Bezarius?!» esclamò incredulo. Toccò ad Oz, contro ogni sua
previsione, essere stupito. Aveva accennato ad un fratello, certo, ma da uno
che sembrava odiare tanto il suo casato non si aspettava certo la conoscenza
del loro albero genealogico. A prescindere dal fatto che la levatura della sua
famiglia gli imponesse o meno di conoscere quelle altrui.
Senza che Oz se ne
accorgesse Elliot si era alzato, avvicinandosi a lui e le sue mani strinsero le
proprie braccia scuotendolo: «Jack Bezarius era tuo fratello?!» ripeté come se
ora, dalla risposta a quella domanda dipendesse chissà cosa.
Oz annuì, ancora confuso da
quella reazione: vide gli occhi del più grande dilatarsi appena per lo stupore
e poi assumere una connotazione tipica di quando, finalmente, tutto quadra.
«...Che schifo di ironia.»
commentò.
Oz lo osservò, lo sguardo
che si fece nuovamente deciso: Elliot aveva avuto la sua risposta, ma anche lui
ne voleva una.
«Perché conosci Lacie?»
ripeté quindi la domanda, testardo.
Sentì la presa sulle
braccia allentarsi e vide Elliot allontanarsi indietreggiando sui propri passi:
«...la conosco, e basta. Nessuno me l'ha insegnata.» dichiarò, lasciando un Oz
interdetto e insoddisfatto, che si sentì preso in giro.
«Come si può conoscere
qualcosa e non sapere come—»
«Ahi, ahi, signori abbiamo
deciso di svegliare tutta la scuola?» fu la voce canzonatoria che interruppe la
frase del biondo che, come Reo ed Elliot, si voltò istintivamente in sua
direzione.
Sulla soglia, la spalla
poggiata allo stipite della porta e le braccia incrociate al petto, stava
Xerxes Break: espressione divertita, sorrisetto sarcastico, aveva abiti comodi
addosso che non sembravano però né un pigiama, né tanto meno una vestaglia -
quella accompagnata dall'orsacchiotto di peluche nelle preoccupanti ipotesi di
Oz in stato di coma cerebrale.
Tacquero tutti e tre,
fissandolo: se anche Reo ed Elliot avevano il permesso di stare lì, lo stesso
non si poteva dire per il biondo.
Break stesso lo sottolineò
quasi subito, pur rivolgendosi prima agli altri due: «Signor Nightray» esordì,
lo sguardo su Elliot nello specifico «l'arte la divorerà presto se comincia a
perdere il sonno per suonare. Avrà pure il permesso richiesto dalla signorina
Kolstoj, ma io sono un uomo scientifico, l'arte non la capisco.» ammise con
falso tono di scusa, come se fosse cosciente di quella mancanza imperdonabile
ma si fosse rassegnato a non poterci fare nulla ormai.
«In altre parole, se dorme
durante le mie lezioni la punirò comunque ♥!» spiegò con lo stesso tono
con cui normalmente si dava un premio, anziché minacciare ben poco velatamente
di punire qualcuno.
Elliot non disse nulla,
scambiandosi uno sguardo con Reo per poi annuire all'indirizzo di Break: «Sì
signore.» pronunciò solamente, avviandosi all'uscita dell'aula, passando
accanto al docente. Reo, dietro di lui, parve indeciso osservando Oz quasi a
fargli cenno di seguirli.
«Non preoccupatevi,
riaccompagnerò personalmente il signor Bezarius tra poco!» assicurò fin troppo
pimpante per quell'ora di notte. Oz rimase fermo, osservandoli uscire entrambi
e sparire oltre la soglia.
«Bene, vogliamo avviarci?»
sentì dire al docente, che si era rimesso ben dritto in piedi e aveva
ostentando un gesto da perfetto gentiluomo per invitarlo ad uscire e a
seguirlo.
Oz chiuse con un gesto
veloce l'orologio rimasto aperto fino a quel momento, interrompendo la Lacie
suonata dal carillon e portando l'oggetto di nuovo al sicuro in tasca.
Infine, seguì Break.
Oz di certo non si era
aspettato che Break lo riaccompagnasse davvero in dormitorio e subito: se così
fosse stato, non avrebbe avuto senso mandare avanti i due Nightray. Avrebbe
potuto congedarli tutti e tre o, in alternativa, accompagnarli insieme senza
dividerli.
D'altra parte, era stato
evidente solo all'ultimo che il docente non lo stesse conducendo in dormitorio
come si aspettava: più precisamente, era apparso ovvio quando avevano deviato
non verso le scale che conducevano all'atrio dell'edificio scolastico per
uscire, ma verso quelle che portavano al corridoio che dava all'unica e
autentica area privata della scuola.
Gli alloggi personali dei
docenti.
La porta alla quale
rallentarono per soffermarvisi di fronte fu la quarta che Oz contò dalla prima
sulla quale aveva notato una targhetta dal nome noto - quella di Alexis Coleman
per la precisione.
L'alloggio di Xerxes Break,
se lo era aspettato in qualche modo grottesco o almeno eccentrico: non era
facile immaginare un ambiente sobrio accostato all'immagine tutt'altro che
nella norma del docente che si portava una bambola di pezza sulla spalla - che,
a proposito, ora non notava.
Contro ogni previsione, la
stanza in cui erano entrati era a pianta quadrata e costituiva un ambiente
elegante e completamente nella norma: non era una superficie eccessivamente
ampia, ma nemmeno claustrofobica.
Le pareti, in legno scuro
come il mobilio che comprendeva un tavolino al centro, un paio di sedie e
alcuni mobili per lo più posizionati lungo le pareti o agli angoli, erano
interrotte in un solo punto dall'orologio a pendolo che addossato al muro
costituiva l'unico elemento che saltava davvero all'occhio.
Sulla parete immediatamente
di fronte alla porta era collocata una finestra, ora con le tende tirate: sulla
sinistra, una libreria di medie dimensioni e divisa in sei scaffali dava colore
alla sala con le copertine dei volumi che ospitava.
Lungo la parte subito a
destra della porta vi era quello che ad Oz parve uno schedario forse un po'
vecchio stile, dato che era anch'esso in legno.
Dalla parte opposta, notò
una seconda porta: «Quella conduce alla mia camera da letto.» canticchiò Break
mentre si chiudeva l’uscio alle spalle e portava un indice alle labbra nel
classico segno di non fare troppo rumore o di tacere.
«Emily dorme.» specificò -
e Oz suppose che tutto l'arredamento normale servisse a bilanciare le stranezze
caratteriali di cui l'uomo decisamente era fornito.
Ad un suo cenno verso la
sedia, si accomodò prendendovi posto mentre il docente si avvicinava all'unico
mobile che Oz non aveva notato entrando, formato da due cassettoni e un paio di
sportelli che formavano un armadietto di piccole dimensioni.
Break si chinò, aprendo
entrambe le ante e frugando all'interno: ne tirò fuori due tazzine sui
rispettivi piattini e due cucchiaini, che andò a posare sul tavolo. Facendo lo
stesso percorso avanti e indietro, recuperò la teiera e dei biscotti.
Motivò l'assurdità di avere
del thé pronto a quell'ora con un semplice: «Ho sempre la mia scorta di thé
pronto in qualsiasi momento. Non si sa mai chi viene a trovarti!» come se fosse
normale.
Oz lo fissò perplesso,
occhieggiando l'orologio a pendolo della stanza: «...vengono a trovarla alle
quattro meno un quarto di notte?» chiese con il tono di chi non ci crede
nemmeno se gli viene dimostrato scientificamente.
Break versò il thé per
entrambi, accomodandosi sull'altra sedia e bevendone un generoso sorso prima di
degnarsi di rispondere: «Chissà.» disse soltanto.
Oz alzò lo sguardo al
soffitto, stufo: quella sembrava proprio la sera in cui tutti avevano deciso di
eludere le sue domande nei modi più snervanti.
«Allora, signor Bezarius...
anzi, facciamo signor Oz così evitiamo confusione?» insinuò sottilmente ed Oz
non dovette impegnarsi più di tanto per immaginare con chi potesse confonderlo.
Annuì mentre Break faceva
tintinnare appena il cucchiaino contro la tazzina: «Bene, dunque era nell'aula
di musica perché...?» lo incalzò senza troppi giri di parole. Oz osservò il
proprio thé, come se dovesse suggerirgli qualcosa.
Alzò poi lo sguardo, un
ampio sorriso entusiasta sulle labbra: «Elliot Nightray è un pianista
eccezionale, ecco perché. Mia sorella è del suo anno e me ne aveva parlato.
Visto che anche io faccio parte del corso di musica e studio il piano, non ho
saputo resistere la prima volta che ho sentito la musica per puro caso!»
spiegò, nel tono una malcelata ammirazione per il compagno più grande.
Break aveva mutato la sua
espressione prima nello stupito, poi in un palese sarcasmo che non si degnava
comunque di nascondere del tutto qualcosa di molto simile all'irritazione,
seppur latente.
Poggiò la tazzina
sull'apposito piattino, sistemandosi con il gomito sul tavolo, la mano a fare
da sostegno al viso: «Che ragazzino inquietante.» fu la prima replica che gli
rivolse.
Oz sbatté un paio di volte
le palpebre, confuso.
«Il modo in cui menti lo è.
Però è quasi divertente notare come speri che io ci caschi e ti creda come uno
stupido qualsiasi, signor Oz.» lo sfotté apertamente, il tono allegro come se
parlassero di un argomento piuttosto divertente.
Oz si concesse una sorpresa
più accentuata nella propria espressione: fino a quel momento, soltanto Gilbert
si era dimostrato in grado di capire quando mentiva e malgrado ciò spesso
riusciva ad ingannarlo comunque. Ma non gli era mai capitato che un perfetto
sconosciuto al pari del docente se ne accorgesse così facilmente, come se lui -
Oz - non fosse stato mai capace di raccontare frottole.
Probabilmente, Break si
rese più o meno conto di cosa avesse mandato il biondo in confusione.
Ridacchiò, prendendo un biscotto e addentandolo: «Più ingenuo di quanto
pensassi.» commentò senza preoccuparsi di tenerselo per sé.
«Casualmente» riprese, lo
stesso tono di infantile derisione: «ero fuori dall’aula da un po’. Ti servono
delle informazioni dal signor Nightray, ma lui non vuole dartele.» riassunse
quasi canticchiando e snervando Oz.
«Se è così perspicace,
perché sono qui a bere thé?» insinuò, arrogante.
«Ma il thé non l’hai
nemmeno sfiorato.» fece notare l’altro, quasi imbronciato e come se il vero
fulcro della questione fosse quello.
Oz, forse più spazientito
che altro, prese la tazzina e bevve un sorso del contenuto, posandola poi di
nuovo sulla superficie lignea e tornando con lo sguardo quasi di sfida su
Break, come un bambino che fa i capricci per non darla vinta all’adulto.
Break mangiò con tutta
calma il biscotto precedentemente addentato e un altro subito dopo. Si rilassò
quindi contro lo schienale della sedia, le mani intrecciate fra loro e
mollemente adagiate all’altezza dello stomaco: «A metà del primo anno del
signor Nightray, la signorina Kolstoj che sicuramente anche tu avrai avuto modo
di conoscere signor Oz, espose una richiesta al corpo docenti.» iniziò,
mescolando la formalità data dall’appellativo “signor” alla totale noncuranza
dell’etichetta dandogli del tu come se fossero amici di vecchia data.
«Chiese di accordare ad
Elliot Nightray il permesso di usufruire personalmente dell’aula di musica
quando preferiva. A qualsiasi ora, ovviamente tranne quelle in cui serviva per
le effettive lezioni. Permesso accordato ancor prima di metterlo ai voti,
naturalmente.» assicurò con un tono appena stizzito.
Oz fu incuriosito da quella
sfumatura nella voce del docente, degnandolo di un’attenzione degna di questo
nome per la prima volta. Se lo notò o meno, Break non lo diede comunque a vedere.
«Così, il signor Nightray
suona spesso di notte e a orari improponibili. Molti non se ne accorgono, se
dormono già e a quanto pare non è stato il tuo caso.» fece notare, portando
l’occhio libero dall’ostruzione dei capelli sullo studente: «Quindi, quel brano
che suona non è suo, eh?» notò poi con falsa casualità nel tono di voce,
ridestando Oz dal torpore in cui si era ritrovato nell’ascoltarlo, avido delle
informazioni che lo studente più grande gli aveva palesemente negato.
«Come…?»
«L’orologio che avevi.»
spiegò direttamente senza attendere la fine della domanda: «Un oggetto
interessante devo dire, ma non cattura del tutto il mio interesse. Però ti do
un consiglio, signor Oz» concesse, lo sguardo di sa anche troppe cose «Non
fissarti troppo e non far suonare quel gingillo per la scuola di notte. Magari
non sei l’unico interessato al brano di Lacie.»
Quasi contemporaneamente
alla conclusione da parte dell’altro il biondo si era alzato in piedi, la sedia
che aveva grattato a terra nel movimento ben poco aggraziato del biondo:
«Nessuno conosce Lacie, nessuno che è in questa scuola e non ha conosciuto Jack
la può conoscere. Perciò… perciò chi mai dovrebbe essere interessato?!» sbottò,
il solito autocontrollo ostentato in tante bugie e false espressioni di spensieratezza
ora dimenticato chissà dove.
Break non si alzò, né gli
fece alcun cenno di calmarsi e tornarsi a sedere.
Sorrise, semplicemente, un
sorriso di arroganza e consapevolezza: «Il tuo "nessuno" non sembra
poi così vero.» insinuò di nuovo, sottilmente, andando oltre la difesa che Oz
aveva sempre posto tra sé e tutti gli altri.
«Oppure devi convenire con
me che il signor Nightray e io, fossimo anche solo noi due, siamo esulati da
questo fantomatico, infantile e illusorio “nessuno”.» concluse.
Oz uscì definitivamente
sbattendo la porta alle proprie spalle pochi istanti dopo.
Break tornò a rilassarsi
sulla sedia, con sospiro: «Ah, che moccioso problematico.» commentò ad alta
voce in quello che sembrava uno dei suoi classici dialoghi con Emily, benché ora
la bambola non fosse sulla sua spalla come al solito.
«Che adulto assolutamente
infantile.» fu il commento di rimando che gli arrivò all’orecchio. Break
sorrise con furbizia, senza bisogno di voltarsi per sapere a chi appartenesse
la voce: «Detto da uno che non conosce la parola tatto non posso prendere sul
serio il rimprovero.» replicò beffardo.
Non si diede la pena di
voltarsi o girare la sedia per fronteggiare il suo interlocutore, cogliendone i
passi attutiti dalla moquette e lasciando che fosse lui a fare la strada dalla
porta della sua stanza che si era aperta all’uscita dello studente.
In breve tempo, infatti, fu
facile per Break inquadrare la figura ora davanti a sé: abiti comodi ed
informali al posto di quello che sarebbe stato un sensato pigiama data l’ora, i
capelli legati in una coda che impedisse alla maggior parte delle ciocche di
andare ad infastidirgli il volto.
«Non mi fingo amichevole,
Xerxes, al contrario del tuo nauseante buon viso a cattivo gioco.» ribatté un
Rufus Barma dall’aria apatica malgrado le parole abbastanza taglienti.
Break ridacchiò, come se
gli avesse fatto un complimento inaspettato anziché un appunto poco gentile:
«Riesco ad indorare la pillola a differenza tua.»
«Sì, ho notato la profonda
utilità della cosa con il signor Bezarius.» rinfacciò il docente di storia,
fissando l’altro eloquentemente.
«E tu avresti saputo
dirglielo meglio? Figurarsi, professor Barma, me lo immagino proprio: Bezarius,
presente il tuo fratello crepato anni fa? Ecco, tanto per dirtelo, guarda che sei
l’unico imbecille che non sa nulla di lui, praticamente.» lo scimmiottò,
imitandone il tono duro e affilato.
Ridacchiò nuovamente:
«Sicuramente l’avresti toccato fino alla commozione, Ruf.» ironizzò infine.
«Non chiamarmi
"Ruf". Sai che non lo sopporto quasi quanto non sopporto te, Xerxes.»
sibilò, il viso talmente vicino che i nasi si sfioravano. Break ridacchiò,
osservandolo come se la posizione assunta dall'altro fosse una cosa abituale:
le mani poggiate ai suoi lati, sulla parte in legno della sedia per poggiare le
braccia e leggermente piegato in avanti, Rufus aveva avvicinato repentinamente
il viso al suo. Lo sguardo severo come suo solito, le ciocche più corte dei
capelli scivolate in avanti a circondargli appena il viso.
Break si sistemò sulla sedia
non con nervosismo, al contrario con naturalezza: nel movimento, nel suo farsi
leggermente più avanti verso il viso dell'altro per provocazione, le labbra
quasi si sfiorarono.
Lasciò che le proprie
venissero incurvate da un sorrisetto malizioso: «Ma tu mi sopporti eccome,
professor Barma.» insinuò, quell'appellativo formale assolutamente in
contraddizione con l'atteggiamento e la situazione in cui si ritrovavano in
quel momento.
«Hai un'idea della
sopportazione tutta tua, come al solito d'altronde.» rimbeccò Rufus, senza
muoversi di un centimetro o cambiare espressione.
«Oh, andiamo.» lo riprese
Break: «Non puoi pensare davvero di essere credibile visto che vieni al letto
con me.» parlò chiaro, senza nemmeno un vago pudore.
Rufus lo osservò, lasciando
cadere il silenzio per qualche istante. Gli diede quindi le spalle, tornando
sui propri passi verso la porta che dava nella stanza dell'alloggio, quella da
cui era venuto.
«Parola mia, Xerxes, fai
perdere la fiducia nel genere umano.» fu il suo unico commento, mentre
oltrepassava la soglia senza preoccuparsi di chiudersi o meno la porta alle
spalle.
Break ridacchiò, prendendo
la tazza deciso a finire il thé: «Sì, ti raggiungo subito in camera, Ruf.»
Non era stato disposto ad
ascoltare una parola di più, ma convenne mentalmente che andarsene a quel modo
non era stata una mossa intelligente: non sapeva se avrebbe avuto altre
occasioni di parlare privatamente col docente senza destare sospetti
trattenendosi, ad esempio, dopo le lezioni. E, d'altra parte, era ormai ovvio
che Break Xerxes sapesse molto più di quanto insinuasse o rivelasse in merito a
quella faccenda.
Se ciò fosse dovuto al suo
conoscere i Nightray al dir fuori del suo ruolo a Latowidge o a qualche altro
personale privilegio, Oz non lo sapeva. L'unica cosa chiara, ora, era che le
parole del docente sembravano quanto mai vere ad ogni passo che faceva per
allontanarsi dall'alloggio di Break.
Non poteva più sperare che
nessuno sapesse di Jack o di Lacie: Elliot conosceva il brano, Sirjan e Alyster
addirittura insinuavano che dietro l'aggressione di Vincent ci fosse Glen -
indiscutibilmente deceduto anni prima come lo stesso Jack - dando prova di
sapere più di quanto non volessero dare a vedere o intendere.
Troppe cose diverse da
quanto aveva sempre creduto, troppe cose complicate che si aggiungevano a
qualcosa di cui non voleva parlare e che aveva sperato egoisticamente di
dimenticare: convincersi che la morte di Jack era stato qualcosa di naturale
per quanto crudele o doloroso e rimanere fermo a quella convinzione senza che
altri mille fattori andassero a dimostrargli in qualche modo il contrario.
Cosa che, invece, stava
lentamente accadendo: informazioni contraddittorie che non facevano che
confonderlo e nient'altro che estranei.
«Che sguardo triste.» sentì
dire, sussultando al commento inaspettato, il corridoio apparentemente deserto.
Il tono non era stato compassionevole, al contrario quell'unica frase era stata
quasi canticchiata.
Si voltò più volte per
cercare la fonte di quella voce, riuscendo ad individuarla solo quando il suo
possessore fece capolino dall'angolo. Oz osservò sorpreso la figura di Alice
muoversi in sua direzione e fermarsi al centro del corridoio, a diversi passi
da lui.
«Alice?» chiamò, perplesso.
I corridoi della scuola sembravano ormai, per assurdo, più trafficati di notte
che di giorno.
Lei ridacchiò: «Alice»
ripeté «che nome nostalgico, non trovi?» chiese, il tono sfumato di infantile
divertimento, come se stessero giocando.
Oz la osservò senza capire:
non solo per la domanda retorica che gli era stata rivolta, ma anche per
l'abbigliamento di lei che non indossava la divisa così come non si trattava
nemmeno del pigiama.
Un abito chiaro, di quelli
che avresti immaginato ad una festa d'alta società o indossato nella propria
tenuta come si conviene ad una signorina per bene.
Indubbiamente inadatto ad
un corridoio di scuola a ridosso dell'alba: «Sei venuto a giocare con me? Me
l'avevi promesso!» la sentì parlare nuovamente, ritrovandosi ad essere ancora
più confuso dalle sue parole quando per lei sembrava essere tutto più chiaro.
«Alice... saranno quasi le
cinque, ormai.» le fece notare. Lei girò su se stessa, imitazione di una
ballerina immaginaria, come quelle nei cofanetti dei carillon tradizionali.
Un gesto innocente e
allegro come quello di una bambina.
«Non importa, possiamo
giocare, nessuno si arrabbierà con noi!» esclamò sicura, avvicinandosi del
tutto e prendendo le mani di Oz nelle proprie: «C'è il nostro posto segreto,
quello dove giochiamo sempre! Lì non viene nessuno, lo sai, no?» insistette,
tirandolo appena per indurlo a seguirla.
Oz, senza riuscire a capire
esattamente perché Alice d'improvviso si comportasse in maniera così strana, la
seguì lasciandosi guidare da lei. I suoi passi incerti seguivano quelli sicuri
della ragazza che ora lo precedeva di poco, dandogli le spalle e tenendogli
solo una delle mani prese prima tra le sue.
Quando Oz riconobbe il
posto in cui Alice lo aveva condotto, erano ormai a pochi passi dalla porta: la
stessa davanti alla quale aveva perso i sensi una volta, intravedendo una
figura che si era poi rivelata essere quella di Aedan.
Si fermò bruscamente,
tirando quindi Alice involontariamente per l'improvvisa immobilità: «Alice non
entriamo lì.» si lasciò sfuggire fra le labbra, benché lui per primo non
capisse il motivo preciso della propria affermazione. Era più una sensazione
che la reale consapevolezza di non doversi trovare lì.
Lei si voltò, lo sguardo
deluso sul biondo: «Perché? Mi avevi promesso che mi avresti fatto compagnia.»
gli fece notare, nel tono lo stesso broncio che Oz poté notare sul viso della
ragazza.
Fece per replicare, ma lei
lo tirò ancora: «Per favore.» aggiunse, come se d'improvviso dalla presenza di
Oz oltre quella porta dipendesse la sua vita.
«Alice... non possiamo
entrare lì.» tentò, rimanendo fermo e, anzi, quasi ritraendosi invitandola ad
allontanarsi.
Lei gli lasciò
repentinamente la mano, quasi scottata: «Perché?! Perché anche tu vuoi
lasciarmi da sola?!» esclamò all'improvviso, il tono più alto.
Oz la osservò, a metà fra
l'ormai familiare sensazione di confusione e un lieve ma persistente panico che
prendeva lentamente forma: «Io non ti sto lasciando so—»
«Perché preferisci anche tu
Vincent e Gilbert a me?! Sei un bugiardo, un bugiardo, un bugiardo!» strillò,
indietreggiando lentamente verso la porta fin quasi a sfiorarla con la schiena.
Oz fece un passo avanti, per afferrarle un polso e allontanarla, ma tutto ciò
che accadde fu ricevere un repentino e inaspettato colpo in pieno stomaco che
lo sbalzò indietro.
Portò la mano al punto
colpito, il respiro mozzato e gli occhi appena sgranati in un misto di sorpresa
e dolore.
Alzò lo sguardo, cercando
chi poteva averlo colpito - perché era impossibile che fosse stata Alice - ma
qualcosa spinse violentemente la sua testa verso il pavimento.
Sentì un sapore ferroso in
bocca - con ogni probabilità si era morso il labbro nell'impatto improvviso.
«Hai fatto piangere Alice!»
sentì sibilare con rabbia sopra la propria testa, qualcosa - quasi sicuramente
una mano - a tenerlo con la guancia contro il marmo del piastrellato.
«C-Chi...?» tentò, provando
al tempo stesso ad alzare la testa e inquadrare la figura che aveva parlato.
L'unico risultato ottenuto fu sentire la spinta contro il proprio capo farsi
più forte e ferma: «Hai fatto piangere Alice e questo Cheshire non te lo
perdona!» fu l'unica risposta che arrivò o che riuscì a registrare.
Alice, di cui intravedeva
solo i piedi dalla sua posizione, ridacchiava inquietantemente: «Bravo
Cheshire... tu sei l'unico di cui possa fidarmi, l'unico a cui voglio veramente
bene.» asserì, il tono fino ad allora innocente, velato di una sfumatura
maliziosa.
«...Ora perché non me ne
liberi, Cheshire? Di questa persona disgustosa che preferisce altri a me?» la
sentì ordinare, colto di sorpresa.
Perché un cambio tanto
repentino, e perché sembrava totalmente fuori di testa così?
Gli arrivò all'orecchio il
sogghigno di quel tale che lo teneva fermo, Cheshire, ed era certo non fosse un
buon segno cogliere la mano alzarsi - per poi abbattersi nuovamente su di lui.
Con ogni probabilità, la
sensazione che non fosse di buon auspicio si sarebbe tramutata in una realtà
piuttosto dolorosa, se non avesse colto un gelido: «Fermati.»
Chiunque lo avesse
pronunciato, pensò, doveva essere spaventoso; Cheshire si era fermato, la mano
- se lo avesse visto avrebbe certamente trovato più appropriato definirla
"zampa" - a mezz'aria.
Oz, che aveva chiuso
istintivamente gli occhi pronto al colpo, li riaprì lentamente sentendo due
mani afferrarlo per le spalle e tirarlo su: non era il massimo della
delicatezza, ma certamente lo stava allontanando da quel tipo.
Quando riuscì a
focalizzarne la figura, dovette ammettere che l'aggettivo "grottesco"
che aveva sempre associato a Xerxes Break era stato inadeguato: quello lì, quel
Cheshire lo era molto di più.
Dall'aspetto umano ad un
primo e superficiale sguardo, non poteva sembrare ancora così
"ordinario" quando si notavano le zampe artigliate al posto delle
mani, le orecchie dritte da gatto che facevano capolino fra i capelli e la coda
ondeggiante alle sue spalle.
Cos'era, uno scherzo di
Halloween in ritardo di qualche giorno?
Lo sguardo si spostò
casualmente - o forse no - sulla figura di Alice: sembrava indispettita per
l'interruzione, ma in qualche modo anche timorosa. La vide indietreggiare e,
dopo pochi passi, letteralmente sparire, divenendo sempre più trasparente come
un ricordo che sbiadisce pian piano perdendo lentamente i particolari fino a
dissolversi del tutto.
Stava per dire qualcosa, ma
una delle due mani che lo tenevano per le spalle glielo impedì, poggiandosi
sulla sua bocca: «Shhht.» gli sussurrò una voce direttamente all'orecchio verso
la quale si voltò, sorprendendosi di riscoprire Aedan alle sue spalle.
Chi invece aveva fermato
Cheshire avanzava ora dal lato opposto a quello verso cui si era voltato Oz,
oltrepassando lui ed Aedan e rivolgendosi al felino con lo stesso tono con il
quale lo aveva interrotto.
«Qui qualcuno non segue le
regole, e questo mi rammarica.» osservò e, quando fu visibile anche per Oz, lui
vi riconobbe Sirjan.
Un Sirjan diverso da quello
autoritario ma cortese sempre incrociato e, persino, diverso da quello che lo
aveva duramente giudicato in mensa parlando dell'aggressione di Vincent e
dell'incredulità dello stesso Oz.
Lo sguardo che stava
rivolgendo a Cheshire non conosceva nemmeno una sfumatura di cortese
educazione: lo osservava come se fosse l'essere più disgustoso su cui avesse
posato gli occhi.
E, al tempo stesso, con
l'arrogante superiorità di chi sa di essere intoccabile.
Cheshire, sulla difensiva e
soffiando - non fosse stato per la situazione, le analogie sempre più marcate
con un vero gatto sarebbero apparse buffe - ricambiò quell'occhiata con astio:
«Quello non dovrebbe essere qui. Cheshire protegge Alice e quello schifo lì
non deve avvicinarsi! Questi sono i patti, Cheshire li ricorda ma gli esseri
umani lo dimenticano!» ribatté aspramente, le parole di disprezzo rivolte ad
Oz.
Forse avrebbe proseguito,
così come probabilmente Oz avrebbe dovuto sentirsi ferito o almeno offeso da
quegli insulti. Tuttavia, entrambi furono interrotti dal tono di Sirjan, non
meno gelido e carico di disgusto come poco prima lo erano state le sue parole e
i suoi sguardi.
«Se tu sei ancora in questa
scuola è perché ti è stato permesso. Non è un tuo diritto, è la pietà
altrui che te lo consente. Non sei nella posizione più adatta a dettare
condizioni ed esprimerti in quei termini.» esordì, ma non sembrò avesse finito
lì.
Un passo verso Cheshire,
prima di riprendere: «Tu, che non sei umano, non dovresti nemmeno camminare sul
suolo dove siamo noi eppure ti è concesso. I patti? Parli di patti e tu per
primo non ne rispetti. Ma forse, ho preteso troppo: un animale non può
ragionare al pari di un essere umano.» commentò tagliente e impietoso.
Cheshire mosse un passo
indietro, ancor più istintivo di un umano com’era naturale che fosse. Oz lo
vide aprire bocca per parlare, ma la voce di Sirjan lo interruppe: non si alzò
di tono, ma fu come se avesse urlato.
«Non osare ribattere.» gli
sibilò contro, gli occhi ridotti a due fessure che lo osservavano dall’alto in
basso.
Un altro passo verso
Cheshire: «Sono stanco, capisci? Ne abbiamo abbastanza dei vostri capricci e
non sono disposto a tollerare altri disordini in questo posto. Restate al
vostro posto e noi staremo al nostro. Non voglio che altri studenti vengano
feriti, toccati o che semplicemente vi vedano. Soprattutto tu, che mi sembri
soggetto ad un atteggiamento impulsivo e decisamente poco consono. Mi sono
spiegato, o hai bisogno che io lo ripeta, Cheshire?» chiese, osservandolo
eloquente.
Oz vide l’interpellato
appiattirsi contro la porta, fino ad attraversarla come solo un fantasma
avrebbe potuto, sparendo quindi alla loro vista.
La mano di Aedan ancora a
coprire la sua bocca, Oz mugugnò appena per indurlo a toglierla; ma Aedan
guardava alternativamente Sirjan e la porta.
Quest’ultimo fissava il
punto in cui era sparito Cheshire; solo cercando il capo dormitorio con lo
sguardo lo notò: le labbra, strette in un’espressione ostile, erano ora
incurvate leggermente.
C’era sarcasmo, in
quell’espressione e al tempo stesso un disgusto persino maggiore di quello
rivolto al felino.
Voltò le spalle alla porta,
senza guardare Oz né Aedan, a cui rivolse un semplice gesto dopo il quale il
moro allontanò finalmente la mano dalle labbra del più piccolo, aiutandolo a
tirarsi su.
Sirjan sorpassò di nuovo
entrambi, fermandosi pochi passi più avanti: non si voltò, ma parlò dando le
spalle alla porta.
«Cheshire, riferisci un
messaggio da parte mia.» esordì e non sembrava una richiesta quanto un ordine:
«La prossima volta che uno studente di Latowidge verrà sfiorato al di fuori di
quella vostra stanza, farò sparire quella porta.» assicurò.
Solo allora si voltò, ma il
tanto che bastava a guardare la porta da sopra la propria spalla: «E
ovviamente, porta i miei cordiali saluti al signor Baskerville.» concluse,
allontanandosi senza più guardarsi indietro.
Note
In
primis: la frase in corsivo in apertura è del manga Full moon wo sagashite
di Arina Tanemura.
Detto
ciò, sono schifosamente in ritardo ma avevo avvisato, vero? *-*” *come se fosse
una giustificazione*
Lo
so, lo so. Alcuni di voi si sono persi a dare di stomaco in un apposito
sacchetto: perché sì, ho la consapevolezza che sono una delle poche (…o
l’unica?) amante della RufusBreak. Ma non ho resistito ç_ç” *li adora*
Per
il resto, beh, spero che il capitolo sia di vostro gradimento (e ci ho messo di
più, ma è più lungo: mi perdonate? XD) e di aver mantenuto una parvenza di IC
*fissata*
LitaChan:
eh, ho
sofferto a farli morti ma mi si ricollegava a tutto il resto ç_ç *indica
matassa della trama alla sua sinistra* sono contenta comunque che sia risultato
ben giostrato all’interno di quanto rivelato finora <3 E Jack fratello di Oz
è uno dei miei sogni proibiti su PH, ergo era doveroso XD
Per
i tuoi dubbi su Glen e Elliot, ahimé, devo farti attendere ancora un po’, ma
l’intento è far venire tutti i nodi al pettine come si suol dire quindi non
disperate: presto o tardi tutto sarà rivelato u_u
AliceOfAbyss:
come detto,
per Vince aspettiamo anche se adesso almeno sapete chi lo ha aggredito XD
*indica un coso con le orecchie da gatto a caso*
Ma
nu, perché meglio Jack morto çwç? *muor*
Sì,
viva i personaggi stupidi *w* e sono felice che ti piacciano sia Noah che
Alyster <3
Ho
fatto un po’ penare per questo capitolo, ma spero ti piacerà come i precedenti
x3
Gioielle:
sapevo mi
avresti ucciso volentieri per aver fatto Jack già morto u.u ma, come ti ho
detto, avrà comunque un suo ruolo ùwù
Non
posso che ringraziarti per il giudizio su Alyster, e per quanto riguarda la
scena GilOz… lieta che sia risultata sensuale *-*” *tecnicamente è casuale, ma
non diciamolo*
Sì,
l’idea di parallelismo tra Vincent e Jack (ovviamente per il capitolo, perché
molte analogie fra loro non le trovo xD) era voluto e sono felice sia arrivato
sia anche solo in minima parte x3
Il
quartetto Jack-Glen-Elliot-Oz è una cosa talmente intricata che io per
pianificare (che parolone…) i capitoli sto sputando sangue quindi non so
proprio bene come rispondere alle vostre intuizioni. Certo è che il genere
drammatica là negli avvertimenti non è casuale *_*”
Makotochan:
non sono
crudele, è Vincent che non si fa i fattacci suoi e finisce nei guai XP (ma
questo lo capirete poi, forse).Grazie
anche a te per i complimenti su Alyster che, come Noah, sta piacendo più di
quanto avessi immaginato o osato sperare <3
Sapevo
ti sarebbero piaciute le scene col pianoforte, mentre per Oz è un parto ogni
sua parola e il fatto che sia il protagonista non aiuta: ma, il giudizio è
vostro, se vi piace sono contenta e cercherò di farvelo piacere fino alla fine
(anche quando mente XD).
…sarebbe
un miracolo: io non ho mai avuto un tratto distintivo nello stile °A° ma il
complimento è graditissimo ovviamente <3
E
sì, lo so che mi odi: pensa che con ‘sti sogni ne avrete ancora per un po’,
quindi ricorda che mi nutro sempre volentieri del tuo odio ù_ù *baka*
Un silenzio irritante era
caduto e continuava ad aleggiare da quando Sirjan li aveva guidati alla stanza
in cui Oz era già stato altre volte, la stessa in cui il biondo si era
ritrovato a chiacchierare con Alyster a quegli assurdi orari notturni in cui si
incontravano.
Aedan lo aveva sorretto per
un po', i muscoli dell'addome doloranti per i colpi ricevuti da Cheshire:
Sirjan, di qualche passo avanti a loro, non si era mai voltato e li aveva
semplicemente preceduti.
Entrando, nella stanza
avevano trovato Alyster: aveva detto di essersi preoccupata, non trovando
Sirjan in camera e che per questo aveva controllato se non fosse tornato lì per
terminare qualche documento da consegnare il giorno dopo alla presidenza.
Dopo quello, però, non
avevano più aperto bocca: Aedan, già naturalmente silenzioso, si era sistemato
vicino alla finestra, guardando fuori per tutto il tempo benché non ci fosse
nulla da vedere.
Oz, stanco e dolorante era
stato fatto accomodare sul divano, mentre Alyster gli aveva disinfettato più
che altro i punti colpiti sul viso.
Sirjan, infine, si era
seduto dietro la scrivania e non aveva proferito parola.
Erano quindi in quella
situazione di stallo da abbastanza tempo ormai perché il cielo iniziasse a
schiarirsi, fuori, lasciando pian piano sopraggiungere l'alba.
Oz stava per alzarsi deciso
ad andarsene - stanco abbastanza da convincersi di poter rischiare di
addormentarsi anche in piedi e contro una colonna dell'atrio della scuola -
quando Sirjan si sistemò sulla sedia attirando la sua attenzione.
Assunse un'aria pensierosa,
l'indice che sfiorava il labbro inferiore per abitudine: «Aedan.» chiamò, lo
sguardo dorato che si spostava sulla figura del moro che distoglieva in quel
momento, per la prima volta, l'attenzione dall'esterno.
«Torna pure alla tua stanza
in dormitorio. Io e Alyster penseremo ad eventuali provvedimenti per la
sicurezza e te lo faremo sapere.» assicurò, concedendosi solo dopo l'annuire di
Aedan di incurvare le labbra in sorriso lieve ma cortese: «Scusami per averti
tenuto in piedi finora, e scusami con il tuo compagno di stanza per tutto il
lavoro che ti affido.» aggiunse e Oz fu quasi stupito di quanto palese fosse
stato il cambiamento d'espressione, considerando l'umore che sembrava essere
pessimo da quando lo aveva sentito rivolgersi a Cheshire.
Semplicemente, lo sguardo e
il tono gelido di prima che avevano reso Sirjan un'altra persona, sembravano
completamente scomparsi in favore della solita espressione cortese anche se
distante.
Aedan si limitò ad annuire
una seconda volta, prima di uscire dalla stanza.
Quando ebbe richiuso la
porta alle proprie spalle, Sirjan portò lo sguardo su Oz che avvertì su di sé
anche l'occhiata di Alyster, sebbene più discreta. Il più grande sospirò
appena, stancamente: «Preferirei di gran lunga rimandare le spiegazioni a
domani, trattandosi di un discorso complesso e vista l'ora e la stanchezza.
Tuttavia, ho idea che non ne saresti contento.» osservò, rimanendo in silenzio
e in attesa di una conferma da parte di Oz.
Il biondo abbassò per un
attimo lo sguardo, le mani che stringevano appena il tessuto dei pantaloni.
Quando rialzò gli occhi verdi, fu per portarli al proprio fianco, cogliendo la
mano di Alyster sfiorargli con gentilezza la spalla. Incrociò lo sguardo della
ragazza, notando che gli stava sorridendo seppur lievemente: «Puoi chiedere, ti
diremo tutto quello che possiamo dirti.»
«Che, in ogni caso,
significa che non possiamo rivelarti tutto.» fece subito eco Sirjan.
Alyster portò lo sguardo su
di lui, l'espressione tra il preoccupato e il dispiaciuto: «Ma fratello...»
tentò, interrotta dal gemello.
«Ci sono cose che nemmeno
noi conosciamo di Oz Bezarius.» disse Sirjan, lo sguardo che dalla sorella si
spostava sul biondo: «E ci sono cose che lui non può sapere di noi.» decretò,
alzandosi e avvicinandosi alla poltrona di fronte a quella su cui sedeva Oz.
Una volta preso posto lì,
focalizzò la sua attenzione proprio sul biondo: «Questo non ti vieta di fare
domande. Dico soltanto che ad alcune sarò costretto a rispondere in maniera
vaga, o che ad altre non potrò affatto fornirti una spiegazione.» concluse,
tacendo e lasciando il tempo ad Oz di pensare.
Quest'ultimo tacque a sua
volta, ma non parve ragionarci troppo su in realtà: di domande ne aveva, non
aveva bisogno di formularne ora.
«Quel tipo, quello con le
orecchie da gatto... non è umano, giusto? E allora cos'è?» chiese per iniziare,
puntando le iridi chiare in quelle di Sirjan, deciso ad ottenere finalmente
delle spiegazioni - sperando di fare le domande giuste.
Notò lo sguardo di Sirjan
indurirsi appena, o così parve: sembrava davvero che quel tipo, chiunque fosse,
non gli andasse a genio.
«Quello è Cheshire.»
esordì, pronunciandone il nome, il tono di voce che malgrado la palese
antipatia per il felino manteneva un'inaspettata inclinazione neutra: «Credo
che la spiegazione più semplice su cosa sia preveda come risposta
"spirito".» aggiunse, Oz che era in parte sorpreso e in parte no; che
Cheshire non fosse umano era stato piuttosto chiaro dall'aspetto fin
dall'inizio.
Sirjan riprese: «Ci sono
spiriti e spiriti, ma credo che affrontare questa spiegazione alle cinque del
mattino, dopo una notte insonne e un'esperienza come la tua non sarebbe né
utile, né salutare. Dunque, a meno che non sia un punto focale per le
spiegazioni che vuoi, eviterei di approfondire.» spiegò.
Oz tacque, lasciando cadere
il silenzio tra loro. Alyster non aveva aperto bocca se non all’inizio e Sirjan
sembrava per una volta davvero intenzionato a rimanere a sua completa
disposizione. Il biondo sospirò appena, alzando nuovamente lo sguardo su
Sirjan: «Perché ce l’ha con noi di Latowidge?» domandò, serio.
Sirjan sospirò a sua volta,
ed Oz ebbe la sensazione di aver fatto una domanda scomoda; tuttavia, l’altro
rispose ugualmente: «Non è una questione di studenti della scuola, in realtà. O
almeno, non reputo Cheshire qualcuno che apprezzo particolarmente, ma devo
dargli atto del fatto che non è mai stato violento finora.» premesse.
Oz, per ovvi motivi,
faticava a crederlo: «Il problema» riprese Sirjan «credo sia nella singola
persona. Tu, per essere completamente sinceri.» ammise.
Oz assunse un’aria
sorpresa: «Ma non lo avevo mai incontrato prima!» obiettò.
Sirjan lo osservò qualche
istante in silenzio, per poi portare lo sguardo verso la finestra: «Non è
esattamente di quel che hai fatto a Cheshire che dovresti preoccuparti.»
consigliò.
«Ma ti dico che non gli ho
fatto niente!»
«Appunto.» confermò Sirjan,
spiazzando il più giovane: «Quello che cerco di dirti è che Cheshire è solo un
custode. Probabile, pertanto, che in quanto tale esegua ordini più che prendere
iniziative proprie.» osservò in quello che, a giudicare dall’espressione
stupita di Alyster in quel momento, era un pensiero involontariamente espresso
ad alta voce che normalmente Sirjan avrebbe tenuto per sé.
«E questa persona chi è?»
domandò – prevedibilmente – Oz.
Sirjan alzò lo sguardo su
di lui: «Non posso dirtelo.» replicò, ed Oz parve risvegliarsi a quella risposta
che non ammetteva repliche. Per un attimo, gli era passato di mente
l’ammonimento iniziale di Sirjan e aveva di conseguenza dimenticato che c’erano
domande alle quali il capo dormitorio non avrebbe risposto.
Rimase in silenzio, di
nuovo: con ogni probabilità, Sirjan non avrebbe risposto nemmeno se avesse
domandato a cosa o chi Cheshire faceva da custode.
Optò quindi per un’altra
richiesta: «Quella ragazza… non era Alice, vero?» chiese, lo sguardo non più su
Sirjan che, invece, aveva portato gli occhi dorati quasi a studiarlo.
«No, non era Alice Lewis.»
replicò, Oz che si rilassava impercettibilmente senza rendersene conto lui
stesso. Almeno fino a quando non si rese conto di cosa la risposta potesse
effettivamente significare.
Se Cheshire era uno spirito,
era probabile che anche quella ragazza così simile ad Alice lo fosse; inoltre,
non aveva negato nemmeno di chiamarsi proprio “Alice”, e lo aveva definito
addirittura un nome nostalgico.
«Quella ragazza cos’è?»
domandò quindi, trattenendo impercettibilmente il respiro: se Sirjan avesse
risposto con “spirito” a quella domanda, avrebbe significato che Alice – che
fosse o meno il suo nome non era importante ora – doveva necessariamente essere
morta.
«Non posso risponderti.»
«Perché no?!» sbottò Oz,
alzandosi in piedi istintivamente e senza preavviso; Alyster gli posò
gentilmente una mano sul braccio, guidandolo a sedersi di nuovo: «La signorina
Lewis sta bene.» assicurò «E la sua salute non dipende dalla ragazza che hai
incontrato.» lo rassicurò, intuendone la preoccupazione.
Oz si sedette nuovamente,
calmandosi e sentendosi in un certo senso a disagio: non capiva come ci
riuscisse, ma Alyster sembrava leggere con facilità ogni sua espressione.
Al di là di un suo
probabile – ed ormai innegabile – intuito, però, Oz temeva che fosse dovuta
anche al fatto che con lei si ritrovava ad abbassare inevitabilmente la
guardia.
Scacciò quel pensiero,
concentrandosi nuovamente su Sirjan, scoprendo che sembrava non aver mai
distolto lo sguardo da lui.
«Hai altre domande?» chiese
il più grande, ancora tranquillo; Oz ci pensò su, come se trovare domande che
il capo dormitorio non potesse eludere fosse divenuta una vera e propria sfida.
Parve trovarla, o almeno
essere convinto di averlo fatto: «Prima hai detto a Cheshire che non volevi più
sentire di studenti che avevano avuto a che fare con lui… a chi è successo?»
chiese, osservandolo deciso ad ottenere una risposta, non importava quanto vaga
sarebbe stata.
Meglio del silenzio,
comunque.
Non gli sfuggì l’occhiata
che Sirjan rivolse ad Alyster prima di rispondere, ma si impose di mantenere
l’attenzione sull’altro: «Non hai saputo tu stesso di un’aggressione avvenuta
ultimamente?» fu la semplice ed incalzante risposta che gli fornì.
Oz per un attimo fu
spaesato da quelle parole che non si era aspettato; poi, fu colto da un
collegamento improvviso che, una volta formulato gli parve così ovvio da
sentirsi uno stupido a non averci pensato da solo.
«Vincent?!» esclamò
incredulo, notando Sirjan annuire. Ancora sorpreso Oz parve riflettere quasi
febbrilmente: «Ma tu mi avevi detto che c’entrava Glen Baskerville.» gli fece
presente.
Il silenzio cadde nella
stanza, come se Sirjan stesse cercando le parole più adatte per fare chiarezza
su quel punto; contrariamente a quanto Oz si aspettava, però, non fu la voce di
Sirjan a riempire il silenzio della stanza. Al contrario, furono gli inattesi
rintocchi del pendolo all’angolo, al primo dei quali Oz sobbalzò appena, non
aspettandoselo.
Sirjan sospirò, portandosi
una mano a massaggiare le tempie; si rivolse quindi al biondo: «E’ una
questione lunga ed estremamente delicata» esordì «che non è il momento di
affrontare ancora. Men che meno alle sei del mattino, dopo una notte come
quella passata.» spiegò, il tono pacato ma palesemente stanco.
«Oltretutto» riprese «non
ho l’autorità per decidere se dirtelo o meno.» ammise, rivolgendo di nuovo
un’occhiata alla sorella. Questa volta ad Oz venne spontaneo girarsi a
guardarla, ma non vide altro che il solito sorriso gentile che la ragazza gli
aveva rivolto dal primo istante in cui si erano visti: «Sirjan ha ragione.
Abbiamo tutti bisogno di riposare.» consigliò con dolcezza.
Oz annuì – era così
familiare la sensazione che provava nei confronti di Alyster, da non riuscire a
fare a meno di fidarsi di lei – riportando l’attenzione su Sirjan quando questi
parlò.
«La prima volta che te l’ho
accennato, l’avevo detto nella prospettiva con cui si dà un consiglio.» iniziò,
l’espressione seria: «Te lo dico nuovamente, come un ammonimento stavolta.»
chiarì, alzandosi ed avvicinandosi alla scrivania e poggiandosi al bordo.
Portò lo sguardo su Oz:
«Stai lontano da quell’area della scuola, Oz Bezarius.» pronunciò. Oz, alzatosi
a sua volta per avviarsi alla porta, abbassò istintivamente lo sguardo pur
annuendo.
Aprì l'uscio,
oltrepassandone la soglia e facendo per richiuderselo alle spalle, quando sentì
qualcosa tenerlo aperto. Voltandosi, notò che Sirjan teneva la maniglia
dall’altra parte, tirando leggermente verso di sé.
Oz lo guardò
interrogativamente senza capire, lasciando la maniglia dal proprio lato;
Sirjan, dall’altro, la socchiuse di poco: «Volevo solo consigliarti di farti
una bella dormita e di riprendere le lezioni dopodomani. Buonanotte.» disse, Oz
che sorrise appena augurandogli la buonanotte a sua volta.
Si stava voltando per
andarsene, quando la voce di Sirjan lo raggiunse di nuovo: «Ah, signor
Bezarius» disse «se mi costringerà a farle di nuovo presente quel divieto, la
prossima volta il mio sarà un ordine.»
Dire che lo spostamento
dalla stanza in cui aveva parlato con i fratelli Kolstoj al dormitorio era
avvenuto per pura forza di inerzia sarebbe stato dire poco. Inspiegabilmente,
aveva sentito la stanchezza arrivare tutta insieme e aveva tirato un sospiro di
sollievo quando – il sole appena sorto – aveva messo finalmente piede in
camera.
Aveva aperto e richiuso la
porta piano, in modo da non svegliare Noah – era ancora presto, ancora più se
si considerava il personalissimo fuso orario dell’altro.
Date queste considerazioni,
quindi, non poté non stupirsi di trovare il diretto interessato sveglio e
seduto alla scrivania.
In divisa.
Con un libro e l’aria di
uno che sta studiando.
Il primo pensiero fu di
avere le allucinazioni, e il secondo di aver dimenticato un compito in classe
fissato per quel giorno – unico motivo di disperazione che poteva indurre Noah
a studiare a quell’ora.
Per la terza ipotesi era
troppo stanco, quindi rinunciò a formularla.
Avanzò fino a raggiungere
il letto, sedendovi e godendosi una leggera ed iniziale sensazione di benessere
nella zona degli arti inferiori. Si voltò quindi ad osservare Noah di spalle:
«Noah, sei sveglio?» chiese, il dubbio lecito; Noah dormiva ovunque e
nelle posizioni più astruse.
«Sì che sono sveglio.»
replicò, il tono abbastanza reattivo. Oz si tolse le ciabatte con le quali
aveva vagato per tutta la notte: «Sono le sei.» osservò, ancora perplesso.
«Lo so, ho l’orologio sulla
scrivania.» disse l’altro senza muoversi più di tanto dalla propria posizione.
Oz abbozzò un sorrisetto
dei suoi – forse, complice la stanchezza, se Noah si fosse voltato avrebbe
riconosciuto senza sforzo una sfumatura incerta in quell’incurvarsi di labbra.
Nel mentre, spostandosi sul
letto, Oz raggiunse il comodino sul quale depositò l’orologio da taschino:
«Come mai studi a quest’ora?» chiese, riuscendo ad imprimere una nota divertita
nel tono. Vide le spalle di Noah alzarsi e abbassarsi appena più lentamente e
dedusse che si fosse trattato di un sospiro: «Perché alle quattro e mezza di
notte ho rinunciato a cercare di addormentarmi.» replicò, chiudendo il libro e
sostituendolo ad un quaderno.
Oz inclinò appena la testa
di lato, senza capire: era chiaro comunque che Noah avesse notato la sua
assenza, se era sveglio da tanto. Vedendolo rimanere ancora di spalle, Oz
immaginò che stesse leggendo appunti sul quaderno: si tolse quindi la felpa,
deciso a saltare le lezioni in favore di una bella dormita.
Si stava infilando sotto le
coperte quando il compagno si rivolse a lui, senza guardarlo: «Reo Nightray
aveva qualcosaa di così improrogabile da dire di non poter aspettare di vederti
oggi a mensa?» chiese, il tono poco curioso - e per questo così poco da Noah.
Oz sbatté un paio di volte
le palpebre, sorpreso dalla domanda: «Scusa, ti abbiamo svegliato?» chiese,
senza rispondere a quella che gli era sembrata una domanda piuttosto retorica.
Solo allora Noah si voltò,
rivelando un'espressione fredda che non gli si addiceva affatto: «Sì.» disse
semplicemente, come se ormai non gli importasse comunque. Oz, al contrario, ne
fu dispiaciuto: non voleva che il suo continuo uscire di notte creasse problemi
a Noah.
«Scusami.» esordì dunque,
sorridendogli: «Non mi ero accorto di fare tanta confusione. Ci starò più
attento.» promise, e se aveva voglia di aggiungere qualcos'altro non gli fu
possibile.
«Io ci ho pensato.» se ne
uscì Noah «Mi sono davvero impegnato a capire che bisogno hai di uscire quasi
ogni notte e perché i Nightray sembrano essere diventati la tua ossessione.»
spiegò, fissandolo. Oz sgranò gli occhi, incredulo.
Non solo Noah non era mai
stato tipo da fare domande riguardo quello che faceva, ma non era mai sembrato
così... infastidito.
«I Nightray non sono la mia
ossessione.» rimbeccò, in qualche modo scosso dall'atteggiamento del compagno
di stanza. Noah, per contro, gli rivolse un'occhiata che sembrava sottolineare
la completa assenza di fiducia in quelle parole, consci entrambi del fatto che
non si trattava della verità.
«Esci la notte per spiare
Elliot Nightray. Direi che posso permettermi di chiamarla ossessione. Quando
sei a pranzo con noi, spesso finiamo a parlare di Vincent. Hai persino discusso
con Alice per questo. Se mi sbaglio, smentiscimi.» lo sfidò senza scostare lo
sguardo dal biondo, sempre più confuso.
Qual'era il punto della
questione? Cosa voleva che dicesse, Noah?
«Io... ho solo bisogno di
sapere una cosa da Elliot Nightray, tutto qui. E con Vincent ho parlato solo
qualche volta.» obiettò Oz sulla difensiva.
Noah tacque qualche
istante, quasi studiandolo: «E devi chiederglielo di notte.» sottolineò,
palesemente ironico. Oz colse quella sfumatura e si accigliò: «Che problema
c'è, si può sapere?» tagliò corto.
Notò - ne fu certo - che
Noah si era accigliato a sua volta e che quello sguardo distaccato così
inadatto a lui aveva vacillato per un istante: «Il problema è che non capisco
se ti stai impegnando a diventare un animale notturno o se ti comporti da
stupido rischiando di ficcarti nei guai e collassare di nuovo nel corridoio per
un motivo che non sia il masochismo!» sbottò, la calma innaturale ostentata
fino a quel momento che sfumava velocemente dal suo viso e dal tono di voce.
«Beh, beato te, ok?» sbottò
Oz di rimando: «Almeno c'è una sola cosa che non capisci ed è una cosa senza
importanza!»
«Non è affatto senza
importanza!»
«E comunque non sono affari
tuoi, se è per quello!» aggiunse Oz.
«Come se tu fossi capace di
distinguere le cose importanti degli altri. Non riconosci nemmeno le tue!»
sputò fuori Noah.
Oz rimase senza parole, non
sapendo davvero cosa rispondere; quella non era forse una frase pronunciata con
il preciso intento di ferire o - comunque - insinuare qualcosa?
Noah scostò lo sguardo
lateralmente, ma Oz non pensò minimamente ad analizzarlo per capire se il
compagno di stanza avesse capito di aver esagerato o meno. Noah si morse il
labbro inferiore, alzandosi poi dalla sedia.
Raccattò malamente libri e
quaderni, mettendoli confusamente nella cartella e sistemandosela in spalla:
«Sai cosa? Hai ragione.» se ne uscì, portando Oz a spostare lo sguardo - e
l'attenzione - su di lui.
Noah, avvicinatosi alla
porta, indugiò con la mano sulla maniglia: «Non sono affari miei. Tu sei Oz
Bezarius, dopotutto. Sei una celebrità, no? Ti conoscevano già tutti, quindi
sicuramente i Nightray o chi diavolo per loro sono molto più adatti ad essere
la tua compagnia. Addirittura potranno permettersi il lusso di preoccuparsi.»
osservò sarcasticamente.
Oz strinse i pugni,
l'istinto impellente quanto improvviso di mollarne uno a Noah: che diamine si
era messo in testa quello stupido tutto ad un tratto?!
Come conseguenza
prevedibile di quelle parole e dell'assenza di una replica qualsiasi di Oz,
Noah non aggiunse altro. Semplicemente interpretò il silenzio come la presa di
coscienza da parte del biondo del fatto che a pensarci bene quella era la
verità.
Si chiuse la porta alle
spalle, senza che Oz muovesse un muscolo.
Era riuscito a prendere
sonno quasi subito: non per menefreghismo ma perché probabilmente - ed era
comprensibile - il suo corpo si rifiutava di rimanere sveglio a pensare ancora.
Di conseguenza, dopo
l'uscita di Noah dalla stanza, Oz aveva impiegato poco a cadere in un sonno che
si era rivelato profondo fin da subito.
Quando si era poi
risvegliato, la sveglia sul comodino indicava le cinque del pomeriggio; non se
ne stupì particolarmente, considerando le premesse con le quali aveva chiuso
gli occhi.
Con tutta calma era andato
al bagno, dandosi una rinfrescata e indossando abiti semplici, quasi smessi. Di
quelli che usava per casa, e puntualmente rischiavano di fargli guadagnare
un'occhiata di disappunto o un richiamo.
Aveva tentato di leggere,
pensando che poteva non essere male recuperare le cose che aveva perso e che
poteva ritrovare sul libro di testo, ma il tentativo non aveva avuto grande
successo quando si era reso conto di avere la mente occupata da troppe altre
cose per poter sperare che il pensiero potesse focalizzarsi anche su una
qualsiasi materia.
L'idea di mangiare gli
aveva sfiorato la mente, ma era effettivamente poco intelligente: se si dava
malato e poi gironzolava per la scuola, qualcuno avrebbe avuto da ridire
probabilmente.
Perciò si era detto che la
cosa migliore da fare era aspettare la cena; come conseguenza, si ritrovava a
rimuginare da almeno mezz'ora sugli avvenimenti dell'ultima notte.
Prima lo scambio con Elliot
che sapeva - era così ovvio che fosse così - qualcosa a proposito della
melodia dell'orologio ma che non voleva dirgliela.
Poi l'incontro con Break e
la conversazione che era stata strana e spiazzante, per certi versi; le parole
di Sirjan e la sua strana predisposizione a non tacergli almeno le cose che
aveva il permesso - o la voglia - di dirgli.
Ed in infine il litigio con
Noah - ed era bene che a tutto ciò non aggiungesse il pessimo incontro con
quella presunta Alice e Cheshire, o non ne sarebbe più uscito.
E, per contro, non che
rimuginare sul resto fosse molto più sensato.
I due o tre colpetti alla
porta che lo distrassero certamente – non ci voleva un grosso sforzo ad
intuirlo – non appartenevano a Noah, che non era nemmeno sicuro sarebbe tornato
lì a dormire. Si alzò dal letto senza fretta, raggiungendo la porta con un
atono “eccomi” e aprendo.
Nel riconoscere Gilbert,
l’espressione imbronciata che Oz ormai classificava come quella imbarazzata o a
disagio di un tempo, assunse un’aria stupita: non si era aspettato la visita e
– doveva ammetterlo – pur trattandosi dell’unico membro dei Nightray che
davvero conosceva, era quello con cui aveva finito con l’interagire meno per un
motivo o per l’altro.
Non che si aspettasse
Elliot, per carità – e qualcosa gli diceva che non aspettarsi Vincent fosse un
bene.
Aprì maggiormente la porta
per permettergli di entrare e quando Gilbert varcò la soglia, Oz notò che aveva
un vassoio della mensa con sé; il più piccolo richiuse l’uscio, raggiungendo
Gilbert prima e il letto poi, sedendo sul bordo: «Tutto bene?» domandò, facendo
cenno al moro di sedersi.
Gilbert con un sospiro
leggero poggiò il vassoio sul comodino replicando un: «Non dovrei chiederlo io,
visto che eri tu ad essere assente?»
Oz ridacchiò appena:
«Giusto. Sto bene, avevo solo bisogno di una dormita.» assicurò.
«Lo so.» ammise Gilbert
«Sirjan mi ha detto che ha fatto le sei del mattino a parlare con te e
Alyster.» concluse.
Oz lo osservò – non senza
un minimo di stupore: pensava che Sirjan non lo avrebbe detto ad anima viva,
fingendo che non ci fosse mai stata alcuna chiacchierata. Anche se era
probabile che Gil non avesse la minima idea di quale fosse stato l’oggetto del
discorso.
Abbozzò un sorriso leggero
e mesto, senza quasi rendersene conto: «Vuoi chiedermi qualcosa, vero?» domandò
con semplicità come se fosse decisamente ovvio e, contrariamente a quanto ci si
aspetterebbe, la cosa lo lasciasse indifferente. Per contro, invece, lo
irritava: sembrava come se ultimamente – o almeno nelle ultime ventiquattro ore
– tutti avessero qualcosa da domandare e pretendessero delle risposte da lui
che era, per assurdo, quello che ne sapeva meno di tutti.
«Sì, in effetti.» confermò
Gilbert – non poteva aspettarsi nulla di diverso, no? – scoprendo il vassoio
rimasto fino a quel momento celato da un panno bianco che rivelò una merenda
abbondante.
«Hai fame?» fu la domanda
che Gilbert gli rivolse: l’unica, alla quale seguì un lieve e gentile
incurvarsi di labbra. Non poté non stupirsi, Oz, mentre ricambiava
istintivamente quel sorriso con uno di sincera gratitudine.
Gil era diverso: lui –
inspiegabilmente, a volte – capiva sempre e comunque in un modo che stupiva Oz
ancora a distanza di anni, e che faceva venir voglia di comunicare un “grazie”
anche senza bisogno di pronunciarlo.
Annuì, quindi: «Sì, un
sacco.» ammise il biondo e, quasi a confermarlo, il brontolio dello stomaco
arrivò puntuale; Gilbert sorrise più ampiamente, una sfumatura divertita mentre
passava il piatto con qualche sandwich ad Oz.
Il biondo lo prese dopo
essersi sistemato meglio e lo poggiò sulle proprie gambe: afferrò quindi uno
dei panini e lo addentò, affamato.
«…che nostalgia.» mormorò
senza un apparente senso logico; Gilbert lo osservò infatti confuso, senza
capire. Oz parve accorgersene, mentre mandava giù il boccone: «Era tanto che
non succedeva. Tu che mi porti il vassoio con la merenda, intendo. È un po’
nostalgico pensare a quando eri a casa.» ammise, chiarendo anche la propria
precedente affermazione.
Gilbert si prese qualche
attimo, forse per studiare il minore o per ponderare una risposta esatta – se
c’era. Infine sospirò appena, impercettibilmente quasi: «Ti manca Jack?» chiese
a bruciapelo, leggendo fra le righe; non per ferire, ma perché sapeva bene che
dare ad Oz la possibilità di mentire era stupido. Con una domanda secca, era
più facile che l’erede dei Bezarius si arrendesse a parlare altrettanto
chiaramente.
Da parte sua, a quella
domanda inaspettata Oz aveva sussultato leggermente, senza portare inizialmente
lo sguardo su Gilbert; cosa che poi fece, l’espressione imbronciata e quasi
offesa: «Io stavo dicendo che ho nostalgia di te.» puntualizzò, come se Gilbert
avesse peccato di disattenzione.
Il più grande lo osservò –
un lievissimo rossore, perché era pur sempre Gil: «E del periodo in cui c’ero
io.» fece notare; quando era ancora a casa Bezarius, Jack era vivo. E per
quanto ricordasse, era già stato adottato dai Nightray quando Jack aveva
iniziato ad ammalarsi o a stare così male da essere costretto al letto.
Oz portò il sandwich tenuto
fermo a mezz’aria sul piatto: «Sì.» mormorò «Ora possiamo cambiare discorso?
Per favore, Gil.» aggiunse, l’espressione concentrata sui panini. Gilbert
tacque, portando poi una mano a raggiungere il piatto allontanandolo dal biondo
e riponendolo sul vassoio sotto lo sguardo perplesso di Oz.
Quindi, sebbene un po’
titubante si sdraiò sul letto orizzontalmente, le gambe piegate e i piedi che
toccavano comodamente terra. Infine, lo sguardo che puntava ostinatamente il
soffitto, prese la mano del minore intrecciando appena le proprie dita con le
sue. Allo sguardo sorpreso di Oz, rispose con un burbero: «Era così, no? Che
facevamo una volta.» borbottò.
Capì a cosa si riferiva, e
sorrise ampiamente imitandolo e stendendosi al suo fianco: come quando il
Gilbert fifone di una volta si spaventava e capitava che dormissero insieme;
era stato un gioco da bambini e una bugia a fin di bene dire a Gilbert che quel
semplice contatto bastava perché andasse tutto bene, e non ci fosse nulla di
cui aver paura.
Che bastava così poco a
dare molto più coraggio di quanto non si possedesse nella realtà.
Di certo non risolveva i
problemi, ora quanto in passato, ma… non era così male.
«Vincent sta bene ora?»
domandò Oz, piegando il viso lateralmente per guardarlo; Gilbert rimase con lo
sguardo puntato verso il soffitto – probabilmente ancora imbarazzato – e annuì:
«Sta bene, oggi è tornato a lezione, ma se l’è presa più comoda di quanto
davvero servisse.» assicurò, nel tono una nota di rimprovero tipica di un
fratello maggiore che fece sorridere Oz.
Un sorriso che si spense,
lasciando spazio ad un'espressione più seria prima che chiedesse: «Gil, tu cosa
ricordi di Glen Baskerville?»
Gilbert portò lo sguardo
stupito su Oz, non aspettandosi la domanda; parve pensarci su, ma Oz non
avrebbe saputo dire se l'altro stesse riordinando le idee o se stesse valutando
se rispondere o meno.
«Non ricordo granché, per
la verità. So di... averlo incontrato quando ero ancora al servizio dei
Bezarius. Ricordo che... c'era anche Vincent, o almeno mi sembra. Ma è tutto
confuso. Se mi sforzo, per assurdo ricordo anche meno.» pronunciò, una nota
infastidita per quella situazione scomoda. Oz si sentì colpevole: ricordava che
Gilbert aveva avuto un'amnesia - non conosceva i particolari, sapeva solo che
era stata la conseguenza di un incidente - ma egoisticamente quando era bambino
per lui si era risolto tutto nel sapere che il moro si ricordava ancora di lui.
Tuttavia, non aveva mai
pensato al fatto che ci fossero ricordi che Gilbert poteva non aver ancora
recuperato.
«Comunque» riprese Gilbert
distogliendolo dal suo flusso di pensieri: «vediamo se quel poco che ricordo
può esserti utile.» aggiunse, con quella gentilezza tipica di lui.
Oz tacque, soppesando la
cosa: non poteva davvero fargli domande troppo dirette, come "sai chesembra Glen abbia preso il vizio di aggredire
studenti servendosi di un gatto umano?".
«Glen era... un compositore
famoso?» domandò invece. Almeno poteva avere una certezza riguardo le poche
spiegazioni che Elliot si era degnato di fornirgli.
Glbert lo guardò perplesso,
ma non fece domanda: «No. Non si occupava di musica, al di fuori della sua
formazione da ragazzo, credo. Se ha composto qualcosa, probabilmente fu per
passatempo personale, ma non per lavoro.» replicò.
Oz tacque, stringendo
inconsciamente la mano di Gilbert che ancora teneva nella propria; quali
risposte erano bugie e quali verità?
Si stiracchiò, allungando
le braccia verso l'alto e alzandosi per sgranchirsi un po' le gambe:
«L'esecuzione è migliorata.» commentò Reo, mentre Elliot spostava lo sguardo
dal pianoforte a lui, l'espressione pensierosa.
«Sì, ma non è ancora
perfetta.» rimbeccò il castano, puntiglioso. Reo sorrise divertito, senza darsi
troppo la pena di passare inosservato all'altro; e, da parte sua, Elliot lo
notò senza sforzo assumendo un'aria seccata - che Reo interpretava a modo suo,
senza prenderla come il monito che probabilmente avrebbe dovuto scorgervi.
«Che c'è di così
divertente?» chiese infatti Elliot, il tono fra lo spazientito e il burbero.
Reo scosse la testa: «Notavo che ricerchi la perfezione in maniera piuttosto
determinata.» affermò. Elliot sbuffò appena, portando lo sguardo sul
pianoforte: «La musica è perfezione.» commentò - una di quelle cose
profonde che, visto il carattere un po' rozzo del ragazzo, non ti saresti
aspettato.
«Capisco. Tutto lo sforzo
per la perfezione nella musica va a discapito del buon carattere.» osservò Reo
con fare interessato e con naturalezza - come se non avesse sottolineato che
Elliot lasciava a desiderare dal punto di vista del modo di porsi.
«Eh?!» protestò infatti il
castano: «E' così che dovrebbe parlare un servitore al suo padrone?!» ribatté,
fissandolo indignato.
Reo ricambiò lo sguardo,
pacato: «Capisco. Sono un fallimento e preferisci che qualcuno al mio posto si
occupi di tutto assecondandoti. Ti auguro buona fort–»
«Va bene, va bene, scusa!»
lo interruppe Elliot - era sempre così con Reo.
«Ci sono cose che davvero
non cambiano mai.» sentirono commentare, voltandosi verso l'ingresso ed
incrociando con lo sguardo la figura di Alyster avanzare verso di loro, le mani
che con gesti fluidi e meccanici guidavano la sedia a rottelle dove sedeva.
Reo le sorrise, chinando
appena il capo in sua direzione, mentre Elliot la osservò per un attimo
sorpreso: «E' raro vederti qui se non per le ronde.» commentò. Alyster sorrise:
«Non è male esercitarsi di tanto in tanto anche nelle aule come questa,
giusto?» replicò pacatamente.
Elliot tacque, osservandola
come se sapesse che c'era qualcos'altro che la ragazza avrebbe voluto dire.
Alyster tuttavia si dirigeva semplicemente al pianoforte vicino al quale stava
ancora il castano: quando la ragazza raggiunse lo strumento allungò la mano a
sfiorare i tasti bianchi delicatamente, pur senza esercitare su di essi
abbastanza pressione perché emettessero qualche suono.
Elliot sospirò, accomodandosi
al suo fianco sedendo sull'apposito sgabello, senza dare spiegazioni; e,
malgrado ciò, Alyster parve capire lo stesso a giudicare dal sorriso dolce che
gli rivolse.
«E' un po' che non suoniamo
a quattro mani, non è vero?» chiese, nel tono una nota nostalgica.
Elliot mantenne lo sguardo
sui tasti , pur avendo colto perfettamente le sue parole: «Incrociarti da sola,
qui e con del tempo a disposizione è diventato praticamente impossibile da
quando sei capo dormitorio del settore femminile.» le fece presente, ma aveva
più il tono di una constatazione che non di un rimprovero.
E, d'altra parte, lei non
parve prendersela; spinse un tasto bianco, lasciando che il suono emesso
vibrasse nell'aria: «E' vero.» disse quando il Sol suonato venne inglobato
totalmente dal silenzio.
Suonò un altro paio di
tasti, senza dare comunque l'attacco di un brano vero e proprio.
Se Elliot era stato confuso
dalla cosa, non fece in tempo a chiedere che la ragazza stessa gli fornì la
spiegazione che probabilmente cercava: «Mi sono sorpresa quando ho trovato la
prima volta il signor Bezarius ad osservarti a quell'ora notturna.» ammise, il
tono era inconfutabilmente divertito.
Reo pareva condividere
quello stato d'animo, al contrario del castano: «Perché mai gli hai permesso di
rimanere?» chiese, palesemente infastidito.
Alyster abbandonò lo
strumento con lo sguardo per poterlo portare sul ragazzo: «La prima volta ci
avevo pensato. Ma converrai con me che la cosa era interessante: nessuno gira
per la scuola a quell'ora, e non davanti all'aula di musica. Anche ammesso che
fosse stato attirato qui dalla musica, doveva essere sveglio già da prima. E
certamente non faceva una passeggiata di piacere: quando si soffre d'insonnia,
penso si rimanga comunque nella propria stanza nella speranza di dormire prima
o poi, non credi?» concluse quella lunga spiegazione.
Elliot, tuttavia, non
pareva granché convinto e con un gesto a metà tra la stizza e lo scetticismo la
esortò a continuare.
«Ho deciso di aspettare. Se
si fosse trattato di un caso isolato, era inutile metterlo sotto pressione con
l'ipotesi di una punizione. Poi, però, ho notato che continuava a venire: mi ha
colpita, tanta dedizione. Specie considerando gli orari a cui solitamente
suoni, e specie se consideriamo che non ti aveva mai parlato e che la maggior
parte delle volte il giorno dopo era presente nonostante la sicura mancanza di
sonno.» concluse.
Sorrise, fissandolo ancor
più divertita: «Potremmo anche dire che l'ho trovato affascinante. Dovresti
essere felice come musicista, di avere una persona che perde il sonno pur di
sentirti suonare, no?» aggiunse.
Elliot scostò lo sguardo,
imbarazzato probabilmente da quella evenienza a cui non aveva affatto pensato,
lasciandosi prendere troppo la mano dalla sua antipatia verso il casato
Bezarius.
Alyster ridacchiò e,
sebbene attento a non farsi notare per evitare inutili discussioni, Reo le fece
eco. La ragazza suonò una nota, senza proseguire, quasi avesse toccato un tasto
affidandosi alla pura casualità: «Pensai che forse, Oz Bezarius aveva tentato
di riaddormentarsi. Ma che qualcosa, che aveva a che fare con te o con la tua
musica, lo avesse tormentato al punto tale da farlo arrivare fin qui solo per
ascoltarti, o forse anche per parlare.» spiegò, anche se Elliot non aveva
effettivamente chiesto nulla.
«Quando l’ho visto la prima
volta lì, davanti alla porta socchiusa… sembrava un ragazzino terrorizzato,
sai? Forse lo metti in soggezione. Anche se quello che vorrebbe sapere da te
gli sta molto a cuore.» concluse, criptica.
Reo aveva prestato particolare
attenzione alle sue ultime parole e lo stesso Elliot non aveva potuto farne a
meno, sebbene sorpreso: Oz Bezarius gli era sembrato nulla più che un ragazzino
probabilmente viziato e comunque parecchio saccente. Il tipo di persona che –
casato a parte – non sopportava e basta.
Non riusciva proprio a
pensarlo come qualcuno che potesse trovarsi in soggezione in presenza di
un’altra persona, anzi.
Spostò lo sguardo sul
pianoforte: «E cosa dovrebbe stargli così a cuore di una melodia che suono al
pianoforte?» borbottò, ancora non del tutto convinto.
Alyster, tuttavia, pareva
già soddisfatta da quella semplice reazione: «Forse nulla. Ma potrebbe stargli
a cuore una melodia che suona in un carillon della sua famiglia, e che sente
suonare da un completo estraneo.» concluse.
Elliot la osservò
stupefatto, ma Alyster aveva già iniziato a suonare.
Scostò lo sguardo dalla
finestra, una sfumatura seccata quasi impercettibile nello sguardo.
Portò gli occhi scuri a
studiare la stanza, come se non fosse costantemente rinchiuso lì dentro; non
impiegò molto ad individuare la figura di Cheshire, che in un angolo buio –
come al solito – restava indipendente e per i fatti suoi. Doveva ammettere che
dare nell’occhio come il felino aveva fatto non era una cosa che gli andasse a
genio, né tanto meno era il suo modo di agire solito.
Tuttavia, doveva anche
considerare che – in qualche modo – l’approccio di Cheshire, per quanto privo
di discrezione, sicuramente aveva fatto sì che almeno per un po’ al giovane dei
Bezarius passasse la fantasia di avvicinarsi a quel luogo.
Accavallò le gambe,
voltandosi completamente verso di lui: l’altro parve notarlo senza sforzo e lo
scrutò, guardingo.
«Non ascolti più?» lo
interrogò il felino, sulla difensiva. Glen mantenne un’aria piuttosto apatica,
senza spostare lo sguardo nuovamente fuori dalla finestra, in direzione
dell’ala dell’edificio dove sapeva essere l’aula con gli strumenti musicali.
«La persona che sta
suonando adesso non mi interessa.» commentò semplicemente, Cheshire che assunse
un’aria indispettita: «Nessun umano dovrebbe.» sottolineò perentorio e con
disprezzo nel tono di voce.
Glen gli lanciò uno sguardo
distaccato: «Elliot Nightray conosce più cose di me della maggior parte degli
umani che vivono in questa scuola. Forse anche più del dovuto. E tuttavia,
proprio per questo, è una pedina estremamente facile da manovrare.» sottolineò
quasi casualmente.
Ma il lieve incurvarsi di
labbra, al quale corrispose un sogghignare leggero anche da parte di Cheshire,
avrebbe potuto lasciar intendere – se solo ci fossero stati spettatori oltre
agli spiriti, in quella stanza – che non c’era nulla di casuale in quelle
parole.
Come aveva ipotizzato, la
sera precedente Noah non era tornato in stanza a dormire.
Era indubbio che fosse
rientrato, ma era altrettanto probabile che lo avesse fatto dopo la mezzanotte
o prima dell’alba: la sua divisa e l’occorrente per le lezioni di quel giorno
non era più in stanza e, tuttavia, Oz non lo aveva sentito entrare per
prenderle.
Deduceva quindi che l’altro
avesse approfittato di un momento in cui di sicuro il biondo dormiva.
Durante il giorno lo aveva
incrociato solamente in mensa e non al tavolo dove si solito sedevano con Alice
e, a volte, Ada. Noah era distante, ad un tavolo occupato solo da lui e Marcus:
quest’ultimo aveva osservato Oz al suo ingresso in mensa, ma non aveva detto
nulla né fatto cenni particolari.
Era indubbio che sapesse
della discussione, così come era ovvio che Noah avesse chiesto a lui di
ospitarlo. Ed era probabile, conoscendo Marcus, che avesse deciso fin
dall’inizio di tenersene fuori visto che non erano affari suoi.
Noah non aveva alzato
nemmeno lo sguardo dal piatto, e un moto d’irritazione per quel comportamento
di cui ancora non capiva la causa aveva spinto Oz ad allontanarsi per raggiungere
il tavolo dove era Ada.
Di Alice nemmeno l’ombra;
né lì, né dove sedevano i Nightray.
Aveva evitato per scelta di
lamentarsi con la sorella, anche perché sarebbe stato di ben poca utilità:
aveva seguito quindi le lezioni di Miranda Barma nel pomeriggio, sedendo
accanto a Sharon.
E se all’uscita da
quell’ultima lezione giornaliera non aveva subito uno shock, avrebbe potuto
resistere a tutto in futuro: Elliot Nightray, schiena poggiata al muro e
braccia incrociate al petto, senza Reo nei paraggi a quanto pareva, si era
diretto verso di lui appena l’aveva visto uscire.
«Possiamo parlare?» aveva
chiesto – cioè… da quando Elliot Nightray lo aspettava all’uscita da una
lezione come se fossero amici di vecchia data che non vedevano l’ora di passare
del tempo assieme?
Perciò, colto appena e per
pura fortuna il saluto educato di Sharon che si congedava, si era ritrovato a
seguire Elliot, cosa che continuava a fare nel completo silenzio anche in quel
momento.
Non senza essere ancora
piuttosto perplesso.
Oz occhieggiò il corridoio,
praticamente deserto, decidendosi a parlare: supponeva che non servisse girarsi
tutta la scuola prima di poter chiedere di cosa volesse l’altro da lui.
Si fermò, dunque, alzando
lo sguardo sulla schiena di Elliot, che sembrava non essersi accorto di non
essere più seguito dal più giovane: «Di cosa devi parlarmi?» chiese Oz, vedendo
l’altro fermarsi e voltarsi a quella domanda.
Non sembrava entusiasmato
dall’idea di parlare lì, a giudicare dall’occhiata che rivolse al corridoio:
tuttavia si voltò, tornando sui suoi passi fino ad essere ad una distanza
abbastanza esigua perché non dovesse alzare troppo la voce.
«Non eri tu che volevi
parlare con me?» gli fece notare, e ad Oz parve che Elliot si stesse tenendo
sulla difensiva, come se nemmeno lui fosse così certo di voler davvero
affrontare quella conversazione che cercavano – senza risultati decenti, per
ora – di instaurare.
Il biondo sospirò. Visto
che l’altro pareva tenerci tanto a fare il pignolo, allora lo avrebbe
assecondato: «Vero. Ma se hai la stessa voglia di rispondermi dell’ultima
volta, posso anche evitare di fare domande.» replicò – non era il massimo
sprizzare arroganza da ogni gesto e parola, visto l’apparente buona fede di
Elliot nell’andare lì e mettersi a disposizione delle sue domande. Ma stiamo
pur sempre parlando di Oz Bezarius: gli veniva naturale, quell’atteggiamento.
Elliot si accigliò appena,
ma fu palese il suo sforzo di volontà di non rispondergli subito a tono e
portare pazienza – chissà quante ore aveva passato Reo a prepararlo
psicologicamente per portarlo ad una mansuetudine così poco tipica di lui.
«Tenta la fortuna.» lo
rimbeccò ironicamente – insomma, Reo non poteva fare miracoli a quanto pareva –
lasciando alui la parola. Oz lo fissò
in maniera eloquente, con un sorrisetto sfacciato ad incurvargli le labbra.
Stava per aprire bocca
quando Elliot spostò lo sguardo verso la finestra del corridoio: «Non ho
scritto io Lacie. Anche se è la versione ufficiale, in effetti.» ammise.
Oz, tralasciando il fatto
che il castano facesse tutto da solo, si ritrovò a sospirare: in parte quella
conferma era confortante, in parte aveva la sensazione che ci fosse qualcosa
che non volesse davvero sapere di tutto quello.
Rimanere nell’ignoranza gli
avrebbe certamente permesso di credere quello che più gli faceva comodo: come,
ad esempio, che l’avesse ascoltata da Glen in persona quand’era bambino o
chissà quale altra congettura che avrebbe potuto fare.
«Non posso comunque
aiutarti più di tanto.» riprese, burbero – probabilmente la scelta della parola
“aiutare” non lo metteva esattamente a suo agio – lo sguardo chiaro ancora
insistentemente puntato verso la finestra: «Conosco quello spartito da che ho
memoria. Lo suono con la stessa attenzione che si utilizza per camminare, praticamente.»
spiegò.
«…Quindi quasi nulla.»
«Quindi,
meccanicamente.» lo corresse, come se l’ipotesi di non fare attenzione a come
suonava la reputasse un’offesa o una provocazione – anche se in effetti,
ridotto ai minimi termini, il senso era quello.
Oz non commentò oltre – lo
avrebbe fatto in casi normali, ma si era probabilmente reso conto del fatto che
la pazienza dell’altro non avrebbe avuto la meglio ancora a lungo.
«Non ricordo affatto di
averla scritta.» riprese: «Ma so anche per certo che nonmi è stata insegnata dalla stessa persona
che mi ha fatto da maestro per il pianoforte.» asserì, improvvisamente serio.
Lo notò anche il biondo, tant’è che l’espressione arrogante di poco prima era
sfumata velocemente, lasciando il posto ad una attenta.
«Forse l’hai sentita da
qualche parte.» tentò Oz. Che l’avesse imparata da solo e dal nulla era
l’ultima opzione – e quella che faceva acqua da tutte le parti, oltretutto.
Era semplicemente assurda.
«Impossibile. Io e Reo non
siamo certo rimasti nell’ignoranza senza fare niente, che credi?» lo interrogò,
decidendosi finalmente a riportare lo sguardo su di lui: «Abbiamo cercato in
tutti i modi possibili. Abbiamo guardato su ogni documento o libro che
riportasse dati sui compositori e le loro melodie. Non c’era niente.»
disse, nel tono una sfumatura della stessa frustrazione che doveva aver provato
già più di una volta.
Fu Oz ad abbassare lo
sguardo: a quanto pareva, la melodia di Lacie era un argomento che nessuno dei
due trattava volentieri, sebbene per motivi diversi.
«Ad ogni modo, ho poi
scoperto di chi fosse.» se ne uscì, quando Oz non si aspettava più nient’altro.
Alzò infatti repentinamente lo sguardo, sorpreso.
Nemmeno il loro fosse stato
un gioco, fu Elliot a puntare il proprio altrove: «So che è stata composta da
Glen Baskerville. Lui era l’unico che avrebbe potuto verosimilmente
insegnarmela. Però…» indugiò, puntando con decisione gli occhi azzurri sul
biondo.
«Però io Glen Baskerville
l’ho–– »
Non seppe precisamente come
fosse possibile, ma Elliot sarebbe stato pronto a giurare che nella sua testa
c’era una voce. Famigliare, sicuramente già sentita, eppure troppo estranea
ancora per essere facilmente collegata ad un volto.
Gelida e superba: non
c’erano altri aggettivi per descriverla che calzassero quando quelli.
Taci, ragazzino.
«Elliot?» chiamò Oz,
fissandolo perplesso. Il castano non rispose, l’espressione che solo per un
istante era stata dolorante, come quando per un motivo o per l’altro hai una
fitta da qualche parte del corpo.
Forse fu sciocco, da parte
sua, ma ad Oz venne istintivo guardarsi intorno: non avrebbe saputo dire chi si
aspettasse – quel Cheshire, oppure Aedan o Sirjan che sembravano apparire dal
nulla in situazioni come quella – ma il corridoio era deserto.
E ad ogni modo, se anche ci
fosse stato qualcuno, Oz non avrebbe potuto prestarvi troppa attenzione
distratto dall’impatto – improvviso e anche piuttosto brusco – della sua
schiena contro il muro.
Emettendo un gemito sia di
sorpresa che per il contraccolpo aveva istintivamente chiuso gli occhi. Li
riaprì, avvertendo una presa sulle sue spalle, non faticando ad ipotizzare che
appartenesse ad Elliot e trovando conferma nell’individuarlo proprio di fronte
a sé.
«Si può sapere che ti è
preso?!» sbottò, e non a torto. Non gli sembrava di aver detto qualcosa che
giustificasse quella reazione; vide Elliot alzare la testa, tenuta inizialmente
chinata. Incrociò gli occhi azzurri, lo sguardo superbo di chi ti guarda come
se tu non valessi niente.
«Elliot…?» tentò di nuovo
Oz, mentre le labbra del castano si incurvavano in un sorrisetto arrogante:
«Più sciocco di quanto credessi.» sentì mormorare all’altro, il tono diverso da
quello usato fino a quel momento per parlare con lui. Sembrava più profondo e
più… freddo.
Oz sentì la stretta sulle
spalle intensificarsi appena, iniziando quasi a far male.
«Per quanto questo
ragazzino sia facile da controllare, non ho interesse nel parlare a lungo con
te.» esordì, quasi annoiato. E la prima frase confermò ad Oz che qualcosa non
andava.
«Stai diventando seccante.»
continuò Elliot – no, non Elliot. Chiunque fosse quel tizio – mantenendo lo
sguardo su di lui: «Non amo le persone che mettono il naso nei miei affari. Non
le ho mai amate.» ammise.
Oz lo guardò di rimando, ma
l’altro anticipò qualsiasi sua negazione: «Resta fuori da questa questione. Un
vecchio spartito non cambierà nulla. Per quanto la curiosità che non porta da
nessuna parte sia prerogativa di voi Bezarius» riprese, e Oz avrebbe potuto
giurare di aver colto una sfumatura diversa nel tono a quelle parole «se
continuerai a metterti in mezzo, dovrò farlo anche io.»
Oz deglutì a vuoto, senza
sapere bene nemmeno lui perché: era solo che quelle parole, e quel tono di voce
che sembrava non appartenere affatto ad Elliot, facevano venire i brividi.
Erano una minaccia palese, e al tempo stesso un avvertimento.
Non osava pensare che,
chiunque fosse, quella persona stesse cercando di proteggerlo. Tuttavia, era
chiaro che preferisse evitare qualsiasi altro futuro contatto con lui.
«Chi sei?» chiese – la cosa
più sciocca ed insensata, quando la sua preoccupazione avrebbe dovuto essere
niente più che annuire per farsi lasciare, e andarsene da lì.
Vide l’altro tacere, in un
primo momento – forse sorpreso da una richiesta così stupida.
La presa su una delle
spalle si fece più leggera, fino a sparire totalmente, la mano che si poggiava
contro il muro: il viso di Elliot si fece più vicino, spostandosi lateralmente
con la chiara intenzione di raggiungere il suo orecchio.
«Tu chi pensi io sia?» lo
sentì chiedere, le labbra che avevano appena sfiorato il lobo. Rabbrividì, per
un motivo che non aveva ben chiaro e che non voleva nemmeno conoscere al
momento. Avrebbe perso di vista quello che davvero voleva sapere.
«Sei… Glen?» azzardò. Non
sapeva dire perché avesse pensato proprio a quel nome: forse glielo aveva
suggerito il suo accennare allo spartito – anche se avrebbe potuto evincerlo
dalla coscienza di Elliot che stava palesemente controllando senza sforzo – o
per l’apparente familiarità che sembrava avere per lui l’atteggiamento dei
Bezarius.
Sentì il respiro dell’altro
solleticargli il collo, ma nessuna risposta. Ed un sibilo, poi.
«Non costringermi a farti
del male.» fu l’ultima cosa che gli sentì dire.
Almeno prima che un Elliot
piuttosto perplesso rientrasse nel suo campo visivo, confuso dalla vicinanza
che probabilmente non ricordava come fosse stata raggiunta.
«…che diavolo succede?!»
sbottò, allontanandosi – il viso che stava prendendo una colorazione rossastra.
Oz lo fissò perplesso dal cambiamento repentino.
Sembrava che tutto in
Latowidge cercasse di dimostrargli che la sua considerazione quando era appena
arrivato riguardo un anno scolastico che si prospettava normale fosse stata
totalmente errata.
Lo notò portarsi una mano
alla tempia, ma non seppe dire se per la confusione o per un possibile mal di
testa.
«Cosa ho fatto?» chiese,
nel tono era palese l’irritazione e di nuovo Elliot sembrava sulla difensiva.
Oz tacque, vagliando bene cosa fosse il caso di dire; specialmente, cosa
potesse effettivamente raccontargli che gli evitasse di essere considerato dal
castano completamente fuori di testa.
E sì, il “mi hai parlato di
argomenti mistici” non era proprio da persone sane probabilmente.
A quel punto sorrise:
perché di mentire era ancora capace. Non c’era nulla di difficile, per lui.
Doveva solo fare quello che
faceva sempre.
«Mi stavi dicendo di Lacie.
Hai avuto un giramento di testa?» chiese, facendo lui per primo il finto tonto,
come se davvero non sapesse che altro pensare.
Elliot lo osservò, cercando
probabilmente di capire se fidarsi o meno, ed Oz ebbe di nuovo la pessima
sensazione che le sue bugie non funzionassero più. Invece, il castano lo smentì
nel momento stesso in cui sospirò: «Non so altro, a parte quello che ti ho
detto.» borbottò.
Oz lo imitò, sospirando –
supponeva di non poter pretendere di più.
Annuì, dunque,
allontanandosi dal muro ora che aveva possibilità di movimento per potersene
andare. Con un “grazie” gli aveva voltato le spalle per avviarsi, quando si
sentì chiamare proprio da Elliot.
Voltò appena solo la testa,
osservandolo da sopra la spalla: il castano lo fissava come se dovesse
rimproverarlo di qualcosa.
«E ringrazia Alyster! Fosse
dipeso da me, non ci sarei venuto da un Bezarius.» sbottò, antipatico quasi per
propria scelta. Oz rise, facendogli poi la linguaccia prima di scappare via
voltando l’angolo.
Era ridicolo.
Lo sapeva anche da solo,
non serviva che lo sottolineasse nessuno, va bene?
Si rendeva conto di aver
fatto una sfuriata contro Oz senza motivo – d’altra parte il biondo non era certo
obbligato a fare rapporto stile soldato per tutto ciò che faceva.
E per la cronaca, non era
stata colpa sua nemmeno se la sfiga lo amava da quando aveva messo piede a
Latowidge ed era nato il nuovo sport del “pestiamo Noah”. Né se i soliti che lo
prendevano di mira – e che lui aveva abilmente imparato ad evitare il più
possibile – lo avevano incrociato proprio quando a lui girava male.
Solitamente lui non
reagiva: aveva imparato che quando non lo faceva durava meno e che picchiare
con i soli calci non era male, parava abbastanza e dava a loro la soddisfazione
di sottometterlo.
Quanto bastava perché se ne
andassero senza causargli mai danni tali da spedirlo in infermeria come
avrebbero potuto benissimo fare.
Non subiva a quel modo per
paura; non per la paura degli altri, almeno. Né per il timore dei pugni, o dei
calci – e perché no, a volte anche delle ginocchiate, perché in rissa valeva
tutto davvero.
«Cos’è, Keynes, il fegato
t’è uscito tutto insieme?» domandò beffardo un ragazzo, la divisa che lo identificava
come uno del quarto anno.
Ora, analizziamo la
situazione: erano quattro e l’avevano preso un pessimo momento. E aveva fatto
per questo la cazzata di reagire – dandosi del mentecatto l’attimo dopo, perché
lui era così: lui pensava sempre dopo.
E no, vedere uno dei loro
cadere a terra quando normalmente il loro massimo era sporcarsi le suole delle
scarpe non doveva aver fatto molto piacere agli altri tre.
Ci aveva impiegato quanto,
a ritrovarsi tenuto fermo da due e picchiato dall’altro, una manciata di
secondi?
Al momento, ad ogni modo,
lo avevano mollato lì per terra, sfottendolo come al solito.
Aveva il respiro affannato
e aveva la sensazione che stavolta le sue costole qualcosina l’avessero sentita
arrivare con i colpi. Gli pareva di distinguere anche il sapore del ferro
tipico del sangue in bocca.
Alzò gli occhi sul ragazzo
che aveva parlato, cercando di metterlo a fuoco magari.
«Impara a stare al tuo
posto, Keynes. Non vedi che è più doloroso, quando ti ribelli?» continuò,
ironico.
«Dai, Chad, poveretto.
Quello se non ha una tela e un pennello non sa fare altro!»
«E che ti aspetti da uno
che entra solo perché il fratello è ricco? Keynes, non è che la prossima volta
ci combatti con i colori a tempera?» lo sfotté.
Si alzò da terra, non senza
un leggero sforzo – di magie e robaccia dell’occulto che facessero recuperare
le forze come nei libri di fantasia non ne conosceva ancora, anche se ci stava
lavorando su, eh? – lasciando che un sorrisetto gli incurvasse le labbra.
Mosse qualche passo, seppur
barcollante, verso uno dei tre: «Deve essere… divertente.» mormorò piano,
l’avanzare davvero poco stabile. Il più vicino, verso il quale Noah si stava
dirigendo, lo guardò stranito: «Cos’è, non t’è bastata Keynes?» sbottò
irritato.
«Deve essere… proprio divertente.»
ripeté, osservandolo in piedi, di fronte a lui: «Pestare il povero plebeo che
si abbassa a fare una cosa squallida come dipingere.» chiarì di cosa stesse
parlando.
I tre si lanciarono
un’occhiata piuttosto confusa.
«Dimmi un po’, fottuto
stronzo» riprese, caricando il pugno e dandogli un cazzotto in pieno viso,
colpendo il bersaglio senza difficoltà a causa della sorpresa dell’altro: «fa
male il pugno di un plebeo che dipinge?!» sbottò, il tono alto e rabbioso.
Non era da Noah,
arrabbiarsi, alzare il tono della voce.
Non era da Noah picchiare
con i pugni, quelli che aveva sempre evitato di usare a costo di avere la
peggio anche quando a prenderlo di mira era uno solo.
Non era da Noah sfogare la
frustrazione e tutto quello che aveva con sé contro una persona, a quel modo.
Picchiando con i pugni,
facendo cadere a terra e dando calci, su calci, senza badare a dove colpisse o
ai gemiti di dolore. Nemmeno agli altri due immobili, nemmeno alla propria voce
che gridava chissà cosa, senza senso.
«Fa male, pezzo di merda,
fa male vero?! E quant’è umiliante, eh?! Quanto cazzo è umiliante che proprio
io ti stia riducendo uno schifo, quanto?!» gli urlò contro, l’ennesimo calcio
che centrava l’altro in pieno stomaco.
Uno degli altri due si fece
avanti nel tentativo di fermarlo, ma quello che ottenne non fu altro che un
pugno – già il secondo – mentre Noah lo fissava con la stessa rabbia mal celata
di poco prima.
«Questa è la mia arte,
quella che prendete tanto per il culo. Non è più divertente, ora?!» sputò
fuori, mentre il tizio appena colpito e l’altro ancora in piedi cercavano di
recuperare l’amico dolorante a terra per svignarsela.
Non gli sarebbe stato
facile, se soltanto Noah non si fosse sentito chiamare e voltandosi non si
fosse ritrovato Oz che veniva verso di lui.
Sbatté appena le palpebre –
udiva i passi dietro di sé allontanarsi, ma all’improvviso sentiva addosso così
tanta stanchezza e parti doloranti che davvero non aveva la forza di andargli
dietro.
Se raggiunse il muro fu
solo per la possibilità di poggiarsi contro di esso che sicuramente invogliava
a muovere qualche passo in più nonostante le gambe gli stessero imprecando
contro.
Vi poggiò la schiena,
rilassandosi completamente fino a scivolare seduto, stanco. Oz lo aveva
seguito, l'espressione preoccupata, dimentico della discussione avuta perché
davvero, lo aveva visto una sola volta tornare da una rissa, ma non così
malridotto.
Si chinò di fronte a lui,
osservandolo inizialmente in silenzio: «Vado a chiamare qualcuno.» decretò, per
sua scelta - sembrava quasi una replica di quando lo aveva sorpreso in stanza.
Noah allungò una mano,
raggiungendo per un soffio la sua manica mentre Oz faceva per alzarsi: «Nh...
lascia stare.» mormorò stanco e sebbene Oz ritenesse folle non portarlo in
infermeria o chiamare qualcuno, lo assecondò ugualmente.
Si sedette dunque al suo
fianco, in silenzio, cogliendo la mano di Noah lasciare la sua manica; sospirò
piano, la preoccupazione ancora evidente nello sguardo che gli rivolse: «Che...
è successo, per farti arrabbiare così?» chiese, incerto.
Era raro che Oz fosse
titubante - e che lo fosse proprio con il compagno di stanza - tuttavia la
discussione non era stata affatto chiarita e un Noah come quello che aveva
visto non invogliava affatto a fingere che nulla fosse accaduto e che avessero
semplicemente avuto un dibattito su cose banali.
Osservandolo, notò che
l’altro aveva socchiuso gli occhi, rilassandosi appena.
«Tutto. Ero nervoso già...
da prima.» mormorò in risposta, una piccola pausa causata da un fitta leggera
in zona costole: «Perché abbiamo discusso, perché ero nel torto... almeno penso
di esserlo stato almeno in parte. E questa cosa della pittura... non sopporto
quando la deridono. Non lo sopporto davvero.» concluse quella sorta di
spiegazione, resa più lenta da sospiri leggeri e piccole pause nel parlare.
Per Oz fu istintivo
abbassare lo sguardo, cercando col proprio le mani del ragazzo: le nocche erano
arrossate e sbucciate in un punto con cui aveva visto Noah colpire più di una
volta uno dei tre ragazzi di prima.
«Di solito le tue mani non
sono mai nemmeno arrossate.» fece notare, parlando quasi sottovoce come se
dovesse regolarsi in base al tono di Noah. Quest'ultimo aprì gli occhi,
spostando lo sguardo sulle mani per qualche breve istante: «Perché non ho mai picchiato
con le mani.» replicò.
Oz parve confuso: aveva
capito che Noah in qualche modo le dava, oltre che prenderle, ed istintivamente
aveva immaginato che colpisse con i pugni come facevano tutti. Era invece
evidente a questo punto che l'altro colpisse più che altro con i piedi.
Non capiva perché. Da
qualsiasi punto di vista lo osservasse, sembrava solo uno svantaggio, salvo che
l'altro avesse qualche abilità innata - cosa che supponeva non fosse in
possesso di qualcuno che si professava pacifista per natura.
Forse Noah intuì la sua
confusione dal silenzio, visto che non poteva averlo fatto dallo sguardo avendo
gli occhi chiusi. Oz lo vide sorridere leggermente, di qualcosa che somigliava
molto all’autocommiserazione.
Qualcosa che Oz avrebbe
riconosciuto sempre fin troppo facilmente – era sua compagna da un po’, a ben
pensarci, e probabilmente proprio per questo non sapeva ignorarla più, quando
la vedeva.
«Vuoi ascoltare una storia
patetica, Oz?» sentì chiedere a Noah in un mormorio, annuendo piano ed accompagnando
quel cenno ad un “sì” semplice, senza altre aggiunte.
E ascoltò in silenzio,
mentre Noah parlava di nuovo di sua madre, non tanto di come se ne era andata
quanto di quello che gli aveva lasciato e che lui fin dall’inizio si era
imposto di non volere.
Quell’odore di colori ad
olio che lo rilassava, quella tela su cui lasciava scivolare la mano in un
abbozzo che poi – sebbene inizialmente senza senso – sarebbe divenuto qualcosa;
che non era importante cosa sarebbe diventato, perché la sola idea di creare
lo elettrizzava e lo calmava al tempo stesso.
Oz ascoltò in silenzio i
pensieri di un bambino che erano stati custoditi gelosamente, mai detti a
nessuno, mai al padre per non ferire, mai a Marcus per non sembrare debole. Il
senso di impotenza e quello di abbandono, quello di rabbia e frustrazione. E la
paura, la presa di coscienza: il timore che tutto quello che odiava –
quell’arte che lui non aveva chiesto, né mai desiderato in vita sua e che
invece gli era capitata tra capo e collo – potesse scivolargli dalle mani.
La consapevolezza che
bastava poco, bastava farsi male alle mani seriamente abbastanza perché la
conformazione delle stesse cambiasse al punto che il suo tratto avrebbe fatto
altrettanto.
Oz ascoltò come Noah aveva
capito che avrebbe potuto sfogare la rabbia contro un muro, rompendosi le mani
o colpendo fino a farle sanguinare; di come avrebbe potuto liberarsi di quello
che tanti chiamavano dono e di come il compagno non avesse mai avuto il
coraggio di fare davvero.
«Patetico davvero, ne?» riprese
dopo qualche minuto di silenzio seguito alle sue ultime parole e dopo il quale
Oz non aveva saputo esattamente cosa dire.
Il biondo spostò lo sguardo
su di lui: «Non lo trovo patetico.» disse, il tono sincero.
Non pensava affatto a Noah
come ad una persona debole o degna di compassione, nemmeno ora che lo vedeva
fare un gesto come quello di alzare appena la mano che sembrava più malconcia
delle due, portandola vicina al viso quasi a controllare i danni.
«Io probabilmente… mi sono
nascosto dietro all’odio per la pittura. Forse cercavo solo… di odiare mia
madre più che potevo. E’ stata una vendetta davvero stupida, la mia. Alla fine,
non ho mai avuto davvero il coraggio di smettere di dipingere.» mormorò, il
tono un misto di troppe cose perché ci si potesse concentrare nel riconoscerne
una in particolare.
«Penso che sia normale. In
fondo a te piace quello che fai, no?» tentò Oz; non era proprio il tipo di
persona capace di consolare, né nella posizione più adatta per farlo. Eppure
che altro avrebbe dovuto dire, o come altro avrebbe dovuto comportarsi in quel
momento per fare “la cosa giusta”?
Noah, lo sguardo ancora
sulla mano portata vicino al viso, strinse quest’ultima in un pugno.
«Forse è solo perché mi
sono convinto di non valere niente senza la capacità di disegnare.» replicò,
asciutto.
E Oz si alzò in piedi,
fissandolo arrabbiato – con quell’espressione testarda che aveva sempre assunto
da che si avesse memoria di lui – e aspettando che l’altro alzasse lo sguardo
su di lui.
«Tu sei Noah anche senza
disegnare o dipingere! Sei il Noah che mi ha tirato fuori dai guai, quello che
lascia in giro i calzini con cui presto lo strozzerò durante il sonno! Sei
quello che si arrabbia con me, sei lo stupido che mi copre a lezione quando
dormo, sei… sei soltanto lo stupido Noah Keynes di sempre e non certo perché
sai sporcare un foglio col carboncino!» sbottò, lasciando sorpreso il compagno
che malgrado tutto non poté non ridacchiare.
Anche quando Oz lo guardò
male.
Noah tossicchiò appena –
ridere nelle sue condizioni non era proprio granché – osservandolo: «Non
pensavo si consolassero così le persone.» lo prese bonariamente in giro –
apparentemente di nuovo il solito Noah di sempre.
Oz sorrise divertito a sua
volta, senza riuscire a tenergli più di tanto il muso: «Per quelli come te
basta e avanza.» ribatté, falsamente arrogante.
«Ah già.» riprese Noah,
come se avesse ricordato qualcosa solo in quel momento: «Scusami. Per la
sfuriata dico.» chiarì.
Oz voleva dirgli che in
fondo non importava, convinto del fatto che lo sfogo di Noah fosse stato
causato dal nervosismo provocato da quei ragazzi e dalla frustrazione di non
poter reagire per i motivi di cui lo stesso Noah gli aveva parlato. Tuttavia,
proprio il compagno di stanza lo precedette nel parlare: «Non erano davvero
affari miei.» iniziò «e ti assicuro che normalmente non sono ficcanaso.
Solo...» indugiò, come se gli costasse fatica o dovesse dire qualcosa di
particolarmente difficile.
Portò una mano a
scompigliare i propri capelli, che già da soli erano tutto tranne che in
ordine: «Insomma. Io non ho proprio tanta esperienza con le amicizie, ecco.» se
ne uscì, e suonava così assurdo visto il carattere solitamente amichevole del
ragazzo.
Oz lo guardò stranito
infatti: «Eh?» pronunciò perplesso.
Noah sbuffò: «Io non ho mai
avuto mezze misure, ecco. O sono conoscenti, oppure c'è Marcus.» bofonchiò, ed
Oz si chiese se il rossore che intravedeva sul viso dell'altro fosse dovuto ai
colpi ricevuti o all'imbarazzo. Per il bene dello stesso Noah, evitò di
chiedere, lasciando che proseguisse: «Sono uno che non ha amici stretti, detta
proprio in soldoni. Quindi sono un tantino iperprotettivo mi sa. Tipo fratello
maggiore non richiesto.» proseguì.
Non guardava Oz, mentre parlava, ma un punto imprecisato
di fronte a sé. Non c’era nulla lì, solo alberi, eppur sembrava quasi che Noah
vi leggesse le parole da pronunciare.
«Non
si tratta di… intransigenza da parte mia.» mormorò, riprendendo il discorso:
«Solo che… non ci riesco. Quando le persone si attaccano alle altre, è quasi inevitabile
farle stare male. Anche se non vuoi, giusto? Vorrei essere completamente
sincero con loro. Vorrei essere maturo abbastanza da saper instaurare
un’amicizia facilmente. Una di quelle… una di quelle dove tu per gli altri ci
sei sempre, e viceversa. È solo che quando si tratta di me, o dei sentimenti
delle altre persone… non ci riesco. Sembra quasi che mi blocchino, e non riesco
a fare più passi avanti. E ho iniziato a pensare che forse era meglio lasciar
stare. Che anche solo conoscenti andassero bene. Per questo, ora che ho
qualcosa di più simile a un amico… faccio un casino.» concluse quella che probabilmente, secondo lui, era
una spiegazione esaustiva.
E malgrado la situazione,
le condizioni non proprio ottimali di Noah, quanto avvenuto con Elliot e i
pensieri quasi pressanti che riconducevano ormai sempre più spesso alla melodia
"Lacie", Oz rise. Divertito, come se non avesse un solo problema al
mondo al momento.
E Noah s'imbronciò,
incrociando le braccia al petto - con un po' troppa foga a giudicare dalla
faccia che fece - offeso: «Ma certo, ridi pure, prenditi gioco di me mentre ti
dico cose che non ho mai confessato a nessuno approfittando del mio
agonizzare!» fece la vittima, fissando il biondo di sottecchi.
«E la domanda corretta
sarebbe come ha fatto a ridursi così signor Keynes.» sentirono chiedere,
voltandosi entrambi - per quanto possibile - verso la voce.
Probabilmente dei due fu
Noah ad imprecare mentalmente quando riconobbe la figura di Rufus Barma -
altrettanto possibile era che Noah lo facesse più per riflesso verso il cognome
Barma che non per la presenza dell'uomo in sé.
Lo videro entrambi
avvicinarsi, l'espressione apatica di sempre nemmeno fosse il suo carattere
distintivo, il passo calmo nonostante col diminuire della distanza le condizioni
di Noah apparissero chiare. Si limitò a fissarlo, anche quando gli fu a pochi
passi.
Il ragazzo alzò lo sguardo,
abbozzando il solito sorrisetto colpevole: «Se le dico che giocando a mosca
cieca ho sbattuto contro un albero mi crede?» tentò, e Oz si chiese perché
mandare un tentativo nel cesso di propria iniziativa con una scusa così irreale
- anche se magari, trattandosi di Noah...
Oz vide Rufus sorridere, un
sorrisetto fra il sarcastico e qualcosa di così vicino al sadico che quasi
quasi l'idea di una lezione con Miss Barma non era male.
«Non nego che la tentazione
di fingere di crederle solo per vedere se è capace anche di esultarne mi
dilania.» commentò, l'ironia palese anche per i muri: «Tuttavia, essendo qui
già da un po' e sapendo perfettamente come sono andate le cose, lo reputerei
un'ingiusta offesa alla sua intelligenza signor Keynes.» continuò.
Noah non disse nulla, e lo
stesso Oz; Rufus, passato lo sguardo dall'uno all'altro, parlò di nuovo: «Sarà
dunque il caso di dirigersi in infermeria?» esortò gli altri due.
I compagni si lanciarono
una semplice occhiata: no, nessuno dei due teneva particolarmente a scoprire il
livello massimo di pericolosità di Rufus Barma quando qualcuno osava obiettare.
Avevano accompagnato Noah
in infermeria, Oz che - nonostante Noah lo superasse in altezza tanto da
rendere la posizione scomoda - l'aveva sostenuto lungo il tragitto. Muoversi
con Rufus che camminava davanti a loro si era rivelato provvidenziale: gli
studenti che si erano fatti di lato in corridoio, fissandoli sorpresi o
preoccupati, si sarebbero certamente fermati a chiedere. Almeno nel caso dei
più sfacciati ed impiccioni. Invece, complice la presenza del docente di
Storia, avevano raggiunto l'infermeria senza essere fermati o tartassati di
domande.
Lo avevano lasciato alle
cure dell'infermiera - Oz aveva sentito qualcosa muoversi all'altezza dello
stomaco, quando la donna aveva delicatamente poggiato la mano sulla spalla di
Noah, guidandolo ad uno dei letti più riparati da occhi indiscreti, mormorando
gentilmente un «Signor Keynes, non può farmi visita troppo spesso...»,
comprensiva.
Quante volte Noah finiva
lì, magari da solo?
Nel momento stesso in cui
il compagno gli faceva segno di andare tranquillo, Oz sentì la mano del docente
posarsi sulla sua spalla, facendogli intendere che era il caso di uscire. Anche
se non del tutto convinto, lo seguì.
Una volta fuori
dall'infermeria e lontani da essa, quasi vicini al corridoio che portava poi
agli alloggi dei docenti, Rufus si voltò ad osservarlo. Oz inizialmente non
disse nulla, osservandolo a sua volta incuriosito: aveva interagito ben poco
col docente e non si era fatto ancora un'idea precisa.
«Il signor Nightray ha un
interesse particolare per lei, ho notato.» se ne uscì, in qualche modo
pungente. Lì per lì Oz non capì a cosa si riferisse, almeno finché l'altro non
aggiunse: «Oppure oggi è il giorno dedicato alle risse e il signor Nightray
aveva un conto in sospeso con lei.» sottolineò.
Oz assunse un'aria
infastidita: colta l'allusione, gli sembrava decisamente fuori luogo che
venisse da un docente.
«Ha l'abitudine di
controllare da vicino alcuni studenti o si limita a seguirli indistintamente?»
ribatté, arrogante e ironico. Non gli piaceva quel modo di fare.
Rufus, quando normalmente
un docente si sarebbe risentito di quell'uscita, sorrise: un incurvarsi di
labbra sarcastico e di superiorità, di chi ha la situazione completamente sotto
controllo e ne ha piena coscienza.
«Che ragazzino
insopportabile.» commentò Rufus: «E dire che potrebbe tornarti utile, l'essere
stato seguito.» ironizzò. Oz stava prendendo in considerazione di congedarsi
quando Rufus, ancora il sorriso sulle labbra, mantenne lo sguardo in quello
dello studente.
«Non eri tu, a voler sapere
di Glen Baskerville?» chiese a bruciapelo.
Oz sgranò appena gli occhi,
sorpreso; non rispose subito, mordendosi istintivamente il labbro inferiore.
Rufus sembrò non essersi aspettato alcuna risposta, perché proseguì senza che
Oz avesse confermato o smentito le sue parole: «C'è qualcosa di Glen Baskerville
che può interessarti, e che non sai. Vuoi ascoltare?» domandò.
Oz parve riscuotersi a
quelle parole e lo fissò guardingo: «Mi aspetto che ci sia qualcosa da dare in
cambio, no?» insinuò lui stavolta, ancora senza preoccuparsi di poter risultare
poco rispettoso.
E il sorriso appena più
ampio di Rufus gli confermò di non essere nel torto.
«Mi piace chiamarlo scambio
di informazioni.» replicò, avvicinandosi di qualche passo: «Io ti dirò cose di
Glen Baskerville che non sai. Tu farai lo stesso.» spiegò.
Oz si sentì confuso: lui
non sapeva praticamente nulla di Glen.
«Voglio sapere della sua
morte.» specificò Rufus, e Oz abbassò lo sguardo: non che di quello sapesse
molto di più, però...
«L'unica cosa che so della
sua morte, è che fu...»
«Un suicidio, questo lo so.»
lo interruppe Rufus quasi annoiato: «Quello che voglio sapere è cosa c'è
dietro. Perché mai uno come Glen Baskerville avrebbe dovuto suicidarsi?»
Note
...un parto, veramente.
In estremo ritardo perché
lezioni e esami non vanno mai d'accordo con la velocità di aggiornamento di una
fanfiction.
Sta diventando poi davvero
difficile dosare le informazioni da mettere in ogni capitolo ç_ç"
Che altro dire, spero che
la lunghezza del capitolo non sia di disturbo per nessuno: nel caso, chiedo
venia é_è
Come accennato, ho cambiato
rating (da arancione a giallo) e avvisi (da Yaoi a shonen-ai, perché scrivere
di quei due a manina mi ha fatto capire che non arriverò mai ad una lemon...
nun ce la posso fa XD).
A tutti coloro che vorranno
continuare a seguirmi, grazie di cuore <3
E un ringraziamento
speciale a bakasaru, per avermi spiegato da artista quale è l’importanza della
conformazione delle mani nel tratto di chi disegna, così da aver potuto
approfondire Noah <3
Infine, la frase ad inizio
capitolo è di Full Moon wo Sagashite di Arina Tanemura; mi scuso inoltre
per un errore nei disclaimer del precedente capitolo. In quel caso la frase d’apertura
era di Shinshi Doumei Cross y_y” *pignola*
Makotochan: se Sirjan ti ha fatto paura, mi chiedo se ti avrà
inquietata anche Noah o meno X°D *si diverte* Rufus e Break credo ancora di
essere l’unica che abbia avuto cuore, fegato e neuroni di accozzarli insieme ma
ehi, per una volta voglio abusare del mio potere di ficwriter! XD Per quanto
riguarda Vincent, ora almeno puoi stare tranquilla: come hai letto, sta benone
u.u (quello non muore manco se lo ammazzi! [cit.] XD)
Per la sua apparizione
dovrai ancora pazientare, ma ritornerà sulle scene più str… più vincent
che mai XD
Gioielle: visto, donna di poca fede? Questo capitolo è persino
più lungo XD
Ti ringrazio per i vari
complimenti sull’IC (Oz, Alice e Reo), perché ammetto che io continuo a non
saperli giudicare da me, quindi un riscontro da parte di chi legge è sempre
apprezzato ù.ù E che dire… ho paura a chiederti se ora la tua confusione sul
“MonnaOzElliot” è peggiorata o no XD
Break è un personaggio che
adoro muovere: lui parla senza fregarsene molto di ferire o no le persone, e
non se ne pente. Lo trovo divertente ma no, non ho idea di come faccio a
muoverlo, lo ammetto x°
Felice che anche a te sia
piaciuta la parentesi RufusBreak *-* Riguardo l’apparizione della Volontà
dell’Abisso, beh… mi ero ripromessa o no di far almeno apparire tutti? XD E sì,
il masochismo è mia prerogativa.
Come hai potuto vedere (o
almeno spero si sia capito dalla mia narrazione °-°”), la porta non collega
all’Abisso e non ci sono Chain qui XP
Infine, ti ringrazio per il
giudizio su Sirjan <3 E lo so: Break in quell’abbigliamento è il sogno
proibito di molti v_v
Yoko891: guarda, io ormai ringrazio il cielo che pensiamo e ci
piacciono le stesse cose. Ho bisogno di fan della RufusBreak *-*/Per i periodi alla Shichan tremo un po’ in
questo capitolo: ahimé, lo scrivere a spezzoni fra treni e lezioni non è
granché visto che già di mio tendo a periodi scritti un po’ così ^^”
Felice di riuscire a
mantenere l’IC, e mi spiace per Volontà dell’Abisso e felino connesso *muore*
Per l’apparizione di Glen,
sto andando per gradi: dai che prima o poi ve lo faccio vedere come si deve! XD
AliceOfAbyss: grazie dei complimenti e grazie di seguirmi
innanzitutto <3
E direi che è normalissimo
non vedersi facilmente la RufusBreak, non essendo affatto una coppia canon XD
Si può dire che io abbia scelto volutamente di azzardare, nello scrivere di
loro, ma sono contenta di aver avuto riscontri positivi da chi legge x3
Lieta – come detto alle
altre – di mantenere l’IC, cosa che spero di continuare a fare! Un po’ in
ritardo ma il seguito c’è, spero quindi di leggerti ancora fra le recensioni ^^
Un grazie anche a LitaChan,
che ha commentato in separata sede per problemi con le recensioni xD
«Perché mai uno come Glen Baskerville avrebbe dovuto suicidarsi
Lentamente, sbiadisce
È così che funziona? […]
persino noi che dovremmo esserci fatti una promessa,
ci passiamo accanto senza notarci.
«Perché mai uno come Glen Baskerville avrebbe dovuto
suicidarsi?»
Mentre quella domanda si perdeva nel corridoio, Oz non
avrebbe saputo dire quale sensazione provasse con precisione.
Sicuramente fastidio, perché era stanco di persone che
continuavano a fare domande su domande; in più, la cosa si acuiva nel momento
stesso in cui a porre quei quesiti era Barma. All’inizio l’apatia di quell’uomo
mista al quasi totale disinteresse verso tutti lo aveva incuriosito e quasi
divertito; almeno finché non si era accorto che quell’aria neutra che veniva
meno solo con Xerxes – che avrebbe esaurito anche la pazienza di più santi
insieme – non era indice di pacatezza o riservatezza, quanto di uno sprezzante
e sarcastico menefreghismo che apparentemente nessuno riusciva a far venire
meno.
Oltre a quello, però, c’era dell’altro: qualcosa, in
quella domanda, che lo confondeva più profondamente di quanto sarebbe stato
normale aspettarsi.
La prima cosa pensata era stata cosa cavolo doveva
saperne lui del perché Glen Baskerville avesse deciso di suicidarsi.
D’altra parte, però, nella sua mente si era fatto
prepotentemente avanti un dubbio quasi sicuramente immotivato eppure pressante;
un dubbio suscitato dal riaffiorare di un ricordo. L’immagine di una lapide con
il nome di Jack Bezarius e, non troppo distante, quella di Glen Baskerville.
Maggio suo fratello, marzo il suo migliore amico.
Lo stesso anno e la sciocca sensazione che le morti
fossero collegate.
Scosse la testa: un suicidio e una morte per malattia
– seconda all’altra cronologicamente – non avevano di certo nulla a che
spartire.
Strinse appena i pugni: «Che vuole che ne sappia io.»
borbottò all’indirizzo di Rufus che inarcò appena un sopracciglio fissandolo.
Oz dedusse che, a quel punto, lui potesse andarsene; fece quindi per girarsi ed
avviarsi.
«Non così in fretta, Bezarius.» lo richiamò il docente
affiancandolo in breve.
Oz mantenne lo sguardo di fronte a sé, testardamente,
continuando ad avanzare nel corridoio.
«Ha parlato di scambio e io non ho l’informazione che
vuole, perciò non c’è altro, no?» parlò chiaro, senza fermarsi. E ad un certo
punto, poco prima di raggiungere l’angolo che lo avrebbe portato all’atrio, gli
parve di vedere distintamente Rufus Barma sparire dal suo campo visivo,
rimanendo indietro come se avesse effettivamente deciso di lasciar perdere e si
fosse fermato.
«Se non ti interessa il diario di Jack» insinuò,
infame e sarcastico, la mano sinistra che teneva il libricino vicino al volto
fissandolo con noncuranza: «allora no, non c’è altro.» concluse.
Nello stesso istante in cui, istintivamente, Oz si era
voltato verso di lui; l’espressione stupita e confusa – per l’ennesima volta
nel poco tempo trascorso da quando avevano lasciato Noah in infermeria –
alternando lo sguardo da Rufus al presunto diario.
E non c’era da biasimarlo, se gli risultava difficile
immaginareche Rufus fosse un amichetto
del bosco di Jack al punto che quest’ultimo gli desse in custodia il suo
diario.
Vide Rufus sorridere: un incurvarsi di labbra
arrogante e soddisfatto che non gli piacque per niente.
«Sono una persona che non ama particolarmente scendere
a patti, ma quando ho un interesse particolare per qualcosa posso anche fare
un’eccezione.» disse, muovendo qualche passo in avanti per raggiungere Oz, ora
immobile nel corridoio.
«Ovviamente non sono di natura magnanima al punto tale
da dirti cosa so e sospetto di Glen Baskerville senza nulla in cambio, ma…»
lasciò in sospeso, porgendogli il libricino: «Prendilo e leggilo. Di sicuro
qualcosa che voglio sapere ti verrà in mente.» assicurò.
Attese che Oz prendesse l’oggetto tra le mani per
poterlo superare avanzando nel corridoio, il biondo che fissava la copertina
verde scuro che in basso a destra recava le iniziali J.B. dorate e appena
scolorite.
Le domande erano tante, nella sua testa: perché
proprio in mano a Rufus e come, tanto per cominciare.
Perché ora, perché dopo lo strano comportamento di
Elliot, perché non prima.
Perché un diario, tragicamente simile ad una presenza
costante del fratello che però, materialmente, non c’era più.
Perché proprio legato a Glen Baskerville e alla sua
morte.
«E quando ti verrà in mente, sentiti pure libero di
passare nel mio ufficio.» aggiunse la voce di Barma, poco prima che il docente
voltasse l’angolo.
Perché proprio a lui, che di Jack sentiva la mancanza,
la presenza, il ricordo.
Perché, e basta.
Aveva lasciato passare dei giorni interi da quanto
Rufus Barma gli aveva consegnato il diario: rientrando in stanza lo aveva
sistemato dapprima sul comodino, lanciandogli occhiate ogni due minuti fino ad
apostrofarsi da solo come paranoico. A quel punto si era deciso a chiudere l’oggetto
nel cassetto del comodino, dove lo aveva poi lasciato per giorni rimandandone
la lettura con le scuse più assurde.
Fra esse, probabilmente una delle più nobili era stata
andare a trovare Noah; ci era andato per la prima volta il giorno dopo averlo accompagnato
in infermeria, per informarsi sulle sue condizioni.
Com’era prevedibile, lo aveva trovato imbronciato e
soprattutto annoiato: Noah non era proprio il tipo di persona che amasse stare
ferma, men che meno in un letto dell’infermeria. Quando era entrato aveva visto
il compagno di stanza guardarlo come l’unica salvezza nel mezzo del compiersi
dell’Apocalisse e per quante preoccupazioni Oz avesse avuto prima di andarlo a
trovare, un ridacchiare sommesso era stato quasi d’obbligo.
Malgrado l’occhiata quasi assassina che gli aveva
rivolto Marcus quando aveva oltrepassato la soglia dell’infermeria, salvo poi
abbassare la guardia un minimo nel riconoscerlo – ma Oz ne era certo: almeno
una delle prossime vite l’aveva già persa così.
Come aveva appreso, Noah non era proprio grave per
fortuna, ma una settimana in infermeria non gliel’avrebbe tolta nessuno a causa
di un paio di costole incrinate – con enorme disappunto del ragazzo.
Oz non gli aveva parlato del diario un po’ per scelta,
un po’ per la presenza di Marcus con il quale non era in confidenza a tal
punto; gli aveva fatto compagnia, chiacchierando del più e del meno, dopodiché
era ritornato in stanza ogni volta che gli aveva fatto visita, compresa la
prima.
Oltre il tempo passato con Noah, comunque, aveva
trovato un certo numero di scuse abbastanza valide – a suo dire – per rimandare
la lettura: stare con sua sorella per esempio, passando il tempo libero di
entrambi a chiacchierare placidamente degli argomenti più blandi e disparati.
Era capitato spesso che incrociasse Alice, ma la
castana sembrava essere ancora arrabbiata con lui, motivo per il quale se anche
incontrava lo sguardo di Oz portava il proprio altrove con gesti ed espressioni
di stizza.
Ne aveva parlato anche con Gilbert, quando chiedendo al
moro aveva saputo che per quel week-end Alice sarebbe tornata a casa e che
forse vi si sarebbe trattenuta per parte della settimana in via del tutto
eccezionale.
«Come mai, è successo qualcosa?» aveva chiesto,
preoccupato nonostante la discussione, consapevole di essere in parte in torto
come era stato per il litigio con Noah.
Probabilmente anche Alice, sebbene a modo suo, era
preoccupata per lui.
Gilbert, con un sospiro, aveva assicurato ad Oz che
non era successo nulla di eclatante. Solo – aveva aggiunto – la famiglia di
Alice aveva qualche problema.
Oz non aveva fatto domande, ripromettendosi di
chiarire con la ragazza non appena fosse tornata a Latowidge.
Di motivi per non tirar fuori quel libricino dal
cassetto del comodino ne aveva trovati tanti – addirittura studiare… - ma ora,
in stanza senza far niente da almeno mezz’ora, sembrava averli esauriti.
Forse per questo con uno sbuffo si decise ad
allungarsi verso il cassetto, aprendolo e tirando fuori il diario.
Tornando seduto, di nuovo la prima cosa che catturò la
sua attenzione furono le iniziali in basso a destra; il carattere corsivo in
cui erano scritte era semplice e chiaro, tanto che sebbene consumate dal tempo
risultavano ancora leggibili.
Se lo rigirò un paio di volte fra le mani, decidendosi
infine ad aprirlo in un punto abbastanza casuale delle pagine un po’ ingiallite
in corrispondenza dei bordi.
Nel portare lo sguardo su di esse, ebbe la sensazione
spiacevole di vuoto allo stomaco: Rufus non aveva mentito, quella era senza
alcun dubbio la scrittura di Jack. La riconosceva non solo perché ricordava
perfettamente la calligrafia del fratello, ma perché rispetto all’indole di chi
scriveva era sempre stata particolare.
Jack era vivace, spensierato, chiacchierone e a volte
un po’ casinista; la sua grafia invece era pulita e ordinata, perfettamente
leggibile come se vi avesse dedicato particolare cura e attenzione.
Gettò un’occhiata alla data sulla pagina aperta
casualmente, in alto a sinistra: 13 Gennaio dell’anno in cui era morto. A
quell’epoca Jack sapeva di essere malato, e probabilmente anche che… non
sarebbe vissuto ancora a lungo.
Oz rabbrividì, stringendo appena la presa sul diario.
Ammetto che il
dolore si è fatto non indifferente.
Soprattutto in
alcune parti del corpo che probabilmente sono le più malate,
a volte le fitte
sono acute abbastanza da zittirmi.
La mia fortuna è
che non solo Ada e Oz ma anche Gilbert e Vincent,
anche se figli
adottivi dei Nightray, vengono a trovarmi.
Non c’è proprio
alcuna possibilità che io possa deprimermi,
finché ci sono
loro.
Se poteva scommettere di ricordarsi di Gilbert,
altrettanto non poteva dire di Vincent.
Non che fosse davvero importante, comunque: era
normale, essendo fratelli, che a volte anche Vincent si fosse recato alla
tenuta dei Bezarius. Magari persino Elliot, o Reo, o entrambi ci erano stati.
Chissà, forse anche Alice.
Chissà Jack quanto dolore sentiva, mentre sorrideva
davanti a loro assicurando di stare bene.
Fece scorrere diverse pagine, voltandole casualmente e
più per volta; 24 Febbraio.
Ho detto a Glen che
il dottore mi ha comunicato chiaramente
che la malattia è
ad uno stadio tale che non esiste alcuna possibilità di guarigione ormai.
Non lo ha dato a
vedere, ma credo che… fosse triste.
Sono troppo
presuntuoso a credere una cosa simile?
Oz sbatté un paio di volte le palpebre: lui di Glen
aveva ricordi piuttosto vaghi, un po’ per l’averlo incontrato da bambino, un
po’ per il fatto che Glen passava il tempo con suo fratello Jack e non con lui
e Ada.
Eppure, lui ricordava Jack felice e un Glen se non
proprio sorridente quantomeno tranquillo, di quella calma che si ha in presenza
di una piacevole compagnia, ancor più se fidata come il tuo migliore amico.
Dunque non faticava a credere che Glen potesse aver provato tristezza nel
sapere una cosa simile.
Però Jack… sembrava temere di sbagliare.
E – a giudicare da quello che continuava a leggere dal
diario – suo fratello temeva per il dispiacere che avrebbe provato il padre,
per la tristezza di Ada e per i pesi che sarebbero gravati sulle spalle sue, di
Oz.
Ma la morte, quella sembrava quasi passare in secondo
piano.
Faceva male tutto quello: il diario, le parole di Jack
e la consapevolezza di quali sentimenti si celassero dietro il suo “guarirò
sicuramente!”.
15 Marzo.
Io ho ucciso il mio
migliore amico…
Passi, porta che venne aperta e richiusa sbattendo.
Fretta di scappare, e il diario gettato sul letto.
Si era chiuso nella biblioteca dell’istituto,
prendendo un paio di libri e sistemandosi ad un tavolo; la speranza era stata
quella di distrarsi leggendo.
Certo, sicuramente andare da Noah sarebbe stato più
costruttivo e parlare molto più d’aiuto, ma non solo era fermamente convinto
che vi avrebbe trovato di nuovo Marcus – praticamente si allontanava solo per
le lezioni e nemmeno per tutte in realtà – ma era anche certo di avere una
faccia tale che Noah si sarebbe preoccupato o peggio, avrebbe fatto domande.
E, per lo stesso motivo, aveva preferito non andare
nemmeno da Gilbert o Ada.
Anche l’attrattiva della biblioteca però non era
durata a lungo: quando si era reso conto di aver riletto per la sesta volta la
battuta clou di Edgar, aveva deciso di arrendersi chiudendo il libro e
registrandolo come preso in prestito.
Era quindi uscito dalla biblioteca con il libro in
borsa, senza un’idea precisa di cosa fare.
Contro ogni logica, si era diretto verso l’aula di
musica dove la notte aveva trovato Elliot a suonare; non aveva alcun senso,
dopo quanto accaduto proprio in presenza del minore dei Nightray, ma quando il
suo cervello aveva elaborato questa considerazione, i suoi piedi lo avevano già
condotto davanti all’aula in questione.
Non sbirciò subito dentro, quasi temesse di essere
scoperto e perdere quindi l’occasione di tornare sui propri passi come ogni
persona sana di mente probabilmente avrebbe fatto.
Tuttavia non lo fece, rimanendo fermo in mezzo al
corridoio, non sapendo esattamente cosa fare: quello che lo convinse più o meno
in maniera decisiva, fu la melodia per pianoforte che sentì grazie alla porta
socchiusa e non chiusa completamente.
Era bella, ma qualcosa gli suggeriva che non fosse
Elliot a suonare: il minore dei Nightray suonava senza alcuna imperfezione,
almeno a livello tecnico, proprio come gli arrivava la melodia in quel momento.
Però si fermava mille volte, per un errore che vedeva solo lui molto spesso,
nella costante ricerca della perfezione assoluta.
Invece il suono che gli arrivava in quel momento era
fluido, senza la minima interruzione come se l’esecutore stesse suonando senza
alcun pensiero ad influenzarlo, per il solo ed unico piacere della musica in sé
che dalle proprie mani si diffondeva per la stanza e giungeva – sebbene più
attutita – fino al corridoio.
Forse anche questo lo spinse ad avanzare quei pochi
passi che servivano a raggiungere la porta e sbirciare all’interno dell’aula.
Quasi gli venne da sorridere, nel riconoscere Alyster
seduta al piano, le mani che sapientemente sfioravano i tasti suonando, gli
occhi che seguivano lo spartito posto sul leggio senza alcuna difficoltà
apparente.
Notò comunque che, effettivamente, la musica non era
eccessivamente complessa: la composizione che Alyster suonava era semplice, di
andamento moderato.
Più che la difficoltà che si poteva incontrare
nell’eseguirla, attirava l’attenzione per il tipo di musica di cui si trattava;
Oz era certo di aver sentito poche melodie che potessero vantare al tempo
stesso forza, speranza e tristezza.
Eppure, mentre l’andamento e le mani di Alyster sui
tasti rallentavano, il biondo – ormai quasi del tutto nell’aula – dovette
ammettere che di quelle poche, quella suonata dalla ragazza era sicuramente
degna di farne parte.
Accolse il silenzio come se non se lo fosse aspettato,
quasi infantilmente avesse pensato che quella composizione non avesse una fine;
rimpianse di aver probabilmente sentito solo la parte finale di uno spartito
sicuramente più ampio.
Vide dalla sua posizione le spalle di Alyster alzarsi
e ad abbassarsi in un sospiro lento e profondo, dopo il quale si voltò per
osservare chissà cosa incontrando inevitabilmente lo sguardo di Oz.
Lui abbozzò un sorrisetto imbarazzato, portando la
mano a grattare leggermente la nuca in un gesto impacciato dall’essere stato
colto in flagrante – con un’espressione anche un po’ persa probabilmente.
La vide sorridergli e ricambiò con uno più ampio,
avanzando di qualche passo verso di lei.
«Non ti avevo mai sentita suonare.» ammise.
Alyster spostò lo sguardo per qualche breve istante
sul pianoforte, per poi tornare su di lui: «Elliot monopolizza l’aula.» scherzò
su, il tono divertito a palesarlo. Oz fece uno sbuffo divertito, e lei portò
una mano a sfiorare lo spartito.
«Come mai passavi di qui? Cercavi Elliot?» domandò,
tornando a guardarlo; Oz gettò un’occhiata generale all’aula, sebbene non fosse
certo la prima volta che la vedeva, e dissentì col capo.
Fece tuttavia una pausa, prima di aggiungere una
qualsiasi risposta verbale.
«Non lo so, ma non credo.» disse.
Vide Alyster inclinare appena il capo lateralmente,
come se stesse osservando meglio qualcosa che ad un primo sguardo non aveva
riconosciuto. Oz, accortosene, preferì per una volta non dover rispondere ad
una sua domanda – che, considerando gli standard della ragazza, sarebbe
sicuramente andata a parare su qualcosa di cui non voleva parlare.
«Tu invece, ti esercitavi?» domandò quindi,
anticipandola.
Lei sorrise con gentilezza, indicandogli con un cenno
leggero del capo una porta più piccola rispetto a quella d’ingresso dell’aula,
situata in un angolo e che Oz non aveva mai notato prima.
La fissò infatti incuriosito: «Cosa c’è lì?» chiese
quasi subito.
«È una stanza insonorizzata. Serve quando qualcuno
vuole esercitarsi da solo e l’aula è occupata.» spiegò: «Di solito lì si
esercitano i violinisti, o chi suona strumenti a fiato come flauto e
clarinetto. Raramente il violoncello.» aggiunse.
Oz guardò con interesse la porta anonima, ovviamente
senza riuscire a carpire alcun suono dall’interno.
Non era davvero necessario chiederle chi vi fosse, e
comunque Alyster lo disse senza che lui lo domandasse: «Sirjan si sta
esercitando, allora ho pensato di suonare un po’ mentre aspettavo.» concluse.
Forse non avrebbe dovuto stupirsene e farlo dava quasi
l’impressione che pensasse a Sirjan come un essere strano che non faceva le
cose che abitualmente occupavano la giornata degli altri studenti, ma lo
sguardo del biondo sembrava un po’ sorpreso, un po’ incredulo.
E, a quanto pareva, la cosa suscitava l’ilarità di
Alyster che portò una mano a coprire le labbra mentre ridacchiava sommessamente
dell’espressione del più piccolo.
Oz la imitò, prima di occhieggiare nuovamente la porta:
«Come mai si esercita? Deve esibirsi da qualche parte o è solo un compito della
Barma?» domandò, recuperando una sedia poco distante per sistemarsi accanto
alla ragazza.
Non che avesse dimenticato quali pensieri lo avessero
obbligato a rinunciare alla lettura, ma forse chiacchierare era la soluzione.
«Oh, è vero, forse tu non ne sei al corrente perché è
il tuo prima anno a Latowidge.» osservò Alyster, sistemandosi leggermente sullo
sgabello del pianoforte: «Ogni anno festeggiamo la fondazione della scuola, che
ormai risale ad almeno un secolo e mezzo fa.» spiegò, catturando quasi subito
l’attenzione di Oz.
«In occasione di questo anniversario le lezioni sono
sospese e tutta la scuola si riunisce nell’aula magna per assistere ad
un’esecuzione musicale. Ogni anno vengono scelti dalla professoressa Barma gli
studenti di musica più talentuosi e loro si esibiscono per tutta la scuola in
memoria del fondatore.» concluse, con un sorriso.
Oz assunse un’aria interessata e vivace – cosa che
probabilmente non era stato negli ultimi giorni.
«Tu e Sirjan siete stati scelti?» chiese entusiasta,
nemmeno la cosa riguardasse lui sul personale anziché i due fratelli. Alyster
scosse leggermente la testa: «Solo Sirjan. Per il pianoforte c’è uno studente
molto più bravo di me che conosciamo entrambi, non credi?» chiese con una nota
divertita nel tono di voce, riferendosi palesemente ad Elliot.
Il biondo si imbronciò appena, ma non durò a lungo:
«Quindi Elliot suonerà il pianoforte. E gli altri strumenti?» domandò,
accennando con lo sguardo alla porticina oltre la quale era Sirjan.
«Mio fratello suonerà il flauto traverso.» rivelò:
«Per il violino credo si tratterà di Karin Hamilton del quarto anno.» aggiunse,
mentre Oz focalizzava nella propria mente il viso della compagna di stanza di
sua sorella che aveva conosciuto e di cui anche Noah gli aveva parlato qualche
volta.
«Ci sarà anche una cantante solista, Keira Nightingale
del quinto anno, una mia compagna.» concluse.
Oz tacque qualche istante; ripensando al minore dei
Nightray, gli tornarono in mente le parole di saluto – era un saluto quello,
più o meno, no? – di Elliot di qualche giorno prima.
«Grazie.» se ne uscì infatti senza un motivo
apparente, tanto che Alyster lo guardò interrogativamente. Oz le sorrise
apertamente: «Per aver convinto Elliot a parlare con me.» chiarì quindi.
E lei rise, una risata leggera senza alcuna intenzione
di prenderlo in giro ma di semplice e puro divertimento: «Oh, credo che sarebbe
venuto ugualmente. Ho solo velocizzato i tempi.» ammise, addolcendo lo sguardo
nel posarlo su Oz: «Ad ogni modo prego, se ti è stato utile.» aggiunse.
Mentre il più giovane taceva, sbirciando lo spartito
sul leggio, Alyster allungò una mano verso la sedia a rotelle lì di fianco al
pianoforte; gesto che attirò l’attenzione di Oz, inizialmente senza che potesse
capire il motivo di quel movimento.
Almeno fin quando la ragazza non ebbe accostato la
sedia allo sgabello dove era, facendo leva con le mani sui punti dove poggiava
solitamente le braccia per issarsi dallo sgabello quel minimo che serviva a
muoversi poi lateralmente, per passare su quel mezzo che le permetteva di
avanzare pur senza camminare.
Oz fece per allungare una mano verso di lei, per
aiutarla, ma lei si limitò a sorridergli aggiungendo un semplice e pacato: «Non
preoccuparti, ce la faccio.»
E allora Oz l’aveva guardata meglio in quel movimento
che probabilmente per l’altra era qualcosa di quotidiano e usuale. Aveva
guardato il corpo esile issarsi poggiando solo sulle braccia che sembravano
fragili come tutto il corpo della ragazza davanti a lui.
E gli occhi chiari erano inevitabilmente scesi sulle
gambe e aveva provato una sensazione strana e spiacevole; una sorta di tuffo al
cuore, qualcosa che si agitava all’altezza dello stomaco e un profondo
dispiacere, forte tanto da attanagliare le viscere.
Quelle gambe, che in un movimento di tutto il corpo
avrebbero dovuto quantomeno oscillare per lo spostamento del busto, erano
rimaste completamente e orribilmente immobili.
La vide sedersi compostamente, concludendo quello
spostamento e deglutì; lei lo osservò, quasi studiandolo, forse intuendo
qualcosa o forse no.
«C’è qualcosa che vuoi chiedermi?» domandò, quasi
incalzante.
Oz mosse le labbra, come per pronunciare qualcosa, ma
non uscì alcun suono; e abbassò lo sguardo, incapace di dare voce ad una
domanda che persino lui nel massimo picco di superficialità che poteva
raggiungere avrebbe ritenuto crudele.
Da quanto le tue gambe sono così?
«Ecco con chi parlavi, Alyster.» sentirono pronunciare
poco distante, voltandosi entrambi nella stessa direzione e riconoscendo Sirjan
che usciva dalla saletta, il flauto traverso fra le mani.
Oz gli rivolse un sorriso leggero – probabilmente
perché gli era grato: l’atmosfera in presenza di Alyster era sempre
estremamente rilassata e serena, ma prima era stata tesa e pesante.
Stonava così tanto che era tranquillizzato ora
dall’aggiunta di Sirjan, di cui apprezzava l’inconsapevole tempismo.
La ragazza, da parte sua, aveva ridacchiato appena:
«Pensavi parlassi da sola?» chiese divertita, mentre il gemello si accostava
alla sedia a rotelle.
Lo vide rivolgerle un sorriso gentile, non senza
stupirsene un minimo: non che Sirjan riuscisse ad arrivare ai livelli di apatia
di Aedan ad esempio, ma anche lui era stato spesso in grado di mantenere un’espressione
distaccata e neutra in situazioni dove – secondo Oz – davvero era impossibile.
Non gli era quindi capitato spesso di vederlo
sorridere a quel modo, nemmeno ad Alyster.
Oz vide il capo dormitorio spostare quindi lo sguardo
dalla sorella a lui e inclinò appena la testa lateralmente, in attesa. La voce
di Sirjan non tardò ad arrivare: «Dovevi esercitarti al piano?» chiese
accennando allo strumento che fino a poco prima aveva suonato la gemella.
Oz scosse la testa: «No, stavo solo… vagando.» replicò,
senza entrare troppo nello specifico.
In realtà, sebbene l’intento iniziale non fosse
quello, ora che aveva i fratelli Kolstoj lì l’idea di chiedere a loro dello
strano fenomeno avvenuto con Elliot gli sfiorava la mente, ripetendosi in
maniera anche fastidiosa.
Ma non era sicuro di poter prendere il discorso, né
che Sirjan si sarebbe di nuovo detto disponibile a rispondere alle sue domande
– sempre che l’altro le avesse, delle risposte. Supponeva che non fosse
infallibile e che ci fossero cose che nemmeno lui poteva sapere.
«Come va lo studio dello spartito?» sentì chiedere ad
Alyster nel contempo, lo sguardo sullo strumento musicale in questione. Sirjan
iniziò a riporlo accuratamente nella custodia con l’interno di velluto blu
scuro.
«C’è ancora un’imperfezione che non ho trovato il modo
di correggere. Probabilmente nel pomeriggio chiederò ad Elliot di provare
insieme.» pronunciò lui, controllando con precisione maniacale che il flauto
fosse riposto correttamente per poi richiuderne la custodia.
Alyster aveva semplicemente annuito ed ora aveva
riportato lo sguardo su Oz: «Tornando al discorso di prima, sono contenta che
tu abbia avuto risposte da Elliot e che abbia chiarito almeno parte dei tuoi
dubbi.» disse, sincera.
Oz abbozzò un sorriso: non aveva voglia né la capacità
di dirle che non era chiarito granché. E che, anzi, forse la situazione si era
persino complicata rispetto a prima, per l’intromissione di quel qualcuno che
sembrava Glen ma che pensare nel corpo di Elliot come uno spirito maligno era qualcosa
di assurdo da ogni punto di vista.
«Recentemente hai parlato con Elliot Nightray?»
domandò Sirjan, il tono tornato serio come era abituale coglierlo, l’attenzione
totalmente su Oz.
Come se… sapesse.
Istintivamente sulla difensiva, il biondo annuì senza
aggiungere nulla verbalmente. E in quella pausa che sembrò in qualche modo
forzata, ad Oz sembrò che Sirjan stesse valutando qualcosa; almeno a giudicare
dallo sguardo che, pur non essendosi scostato dalla figura del più piccolo,
sembrava non guardarlo davvero.
Sirjan sospirò, visibilmente: e quella fu l’ennesima
prova per Oz.
I gesti del capo dormitorio non erano mai palesi:
analogamente alla sorpresa di poco prima nel vedere chiaramente il sorriso e la
dolcezza rivolti alla sorella, lo stesso si poteva dire per l’aria che il più
grande aveva ora.
Come se si fosse rassegnato a dover dire qualcosa che
avrebbe gradito tenere per sé ancora per un bel po’.
«Hai l’aria sperduta, più che altro.» fu il commento
diretto e conciso di Sirjan, al quale Oz sgranò appena gli occhi. Si aspettava
qualcosa di diverso – anche se cosa non lo sapeva nemmeno lui – ma non che
l’altro cercasse di leggere le sue espressioni o i suoi atteggiamenti.
…Non sembrava esattamente il tipo che potesse
interessarsene, insomma.
Oz portò lo sguardo sui tasti del pianoforte, evitando
quello di Sirjan in maniera piuttosto evidente.
«Hai detto che… Cheshire è uno spirito.» mormorò, come
se cercasse di prendere tempo per formulare bene la domanda. Alzò quindi il
viso, puntando gli occhi chiari in quelli dorati dell’altro: «Ce ne sono
altri?» chiese, quasi a bruciapelo stavolta.
Sirjan si soffermò ad osservarlo, senza rispondere
subito.
Oz nella sua personale visione era semplicemente il
nuovo arrivato da tenere d’occhio i primi periodi; fin troppo presto si era
rivelato un ragazzino sotto molti punti di vista problematico.
Aveva dovuto mettergli al seguito Aedan nel momento
stesso in cui era apparso chiaro che qualcuno in quella scuola non gradiva la
sua presenza ma che, al tempo stesso, qualcosa spingesse per averlo lì e
portarlo ad interagire proprio con quel qualcuno.
E, per i suoi gusti, la necessità di uno come Aedan ad
osservarlo costantemente mantenendosi nell’ombra era stata evidente fin troppo
presto.
Anche per questo lo aveva avvicinato e, sempre per lo
stesso motivo, non aveva gradito che il biondo si fosse a sua volta attaccato
tanto – o così pareva – a sua sorella Alyster.
La cosa lo aveva portato – ed era raro che accadesse –
a giudicarlo senza l’obiettività che lo caratterizzava: non che avesse fatto
gesti particolarmente antipatici nei suoi confronti, ma gli era bastato poco
per giudicarlo superficialmente solo un ragazzino che si piangeva addosso.
Fondamentalmente, era solo un moccioso.
Abbozzò un sorrisetto enigmatico: a quanto pareva, al
momento era chiamato a rispondere a quello sguardo che sembrava aver preso la
decisione più importante e difficile che Sirjan era convinto il biondo non
avrebbe mai preso.
Scegliere la verità con la consapevolezza che ti
distruggerà.
Senza certezza che ti rialzerai.
«Sì, ce ne sono altri.» replicò, sincero.
«Anche lo spirito di Glen Baskerville?» chiese, senza
distogliere lo sguardo, come se avesse collegato la possibilità di avere una
risposta degna di questo nome da parte del più grande al non interrompere il
contatto visivo con lui.
Come se dimostrasse di poter ricevere le verità di cui
Sirjan era a conoscenza.
«Anche Glen Baskerville.» replicò il capo dormitorio,
risposta alla quale seguì un sospiro da parte di Oz, quasi sollevato – anche se
non c’era davvero motivo per esserlo.
«L’ho incontrato, credo. Glen, intendo.» ammise, quasi
avesse il bisogno di raccontarlo a qualcuno e si fosse trattenuto fino a quel
momento: «Lui… ha detto di non ficcare il naso in cose che non mi riguardano.
Tu sai di cosa parlava… vero?» aggiunse, osservando il maggiore.
Alyster, che fino a quel momento aveva taciuto,
occhieggiò il fratello con un velo di preoccupazione nello sguardo; Sirjan, da
parte sua, si sedette sullo sgabello del pianoforte.
«Per quanto ricevere questa risposta può averti
stancato, rimarrà la stessa. Nonmi è
permesso dirtelo.» rispose inizialmente, osservandolo quasi per scrutarne la
reazione: «Con gli spiriti di questa scuola, pochi per nostra fortuna, ci sono
dei patti.» iniziò poi a spiegare, benché il biondo non avesse chiesto nulla.
E in effetti, ora che Sirjan lo dichiarava
apertamente, ad Oz tornò in mente che l’unica volta che aveva visto il più
grande interagire con Cheshire o Aedan farlo per conto dello stesso capo
dormitorio, avevano entrambi fatto riferimento a dei patti a cui erano scesi e
che almeno Cheshire non stava rispettando col suo attaccare gli studenti.
«Potremmo definirli metodi di convivenza civili.»
riprese Sirjan: «Si può evitare che loro si rendano visibili a tutta la scuola
creando il panico e noi gli assicuriamo la tranquillità. Nessuno li disturba, e
loro non disturbano noi.» concluse in una spiegazione breve ma tutto sommato
chiara.
Oz tacque, in ascolto e Sirjan si sentì autorizzato a
continuare senza dover rispondere a qualche domanda: «In realtà tu non dovresti
sapere nulla di loro, come tutti gli altri studenti. Ma visto che il primo
contatto che hai avuto con Cheshire è stato anche colpa sua, ho evitato di
segnalarlo.» concluse.
«Segnalarlo?» fece eco Oz, l’aria perplessa.
Sirjan annuì: «Alle persone a cui io ed Alyster
rispondiamo.» chiarì almeno in parte.
Oz si prese qualche attimo per riflettere sulla cosa:
che ci fosse qualcuno al di sopra di Sirjan gli sembrava l’altro lo avesse
detto. Supponeva però che non gli avrebbe rivelato di chi si trattava, dunque
era persino inutile chiederlo.
«Questo qualcuno si occupa di tenere a bada questi
spiriti?» optò quindi rispetto alla domanda che gli era venuto spontaneo fare e
che aveva archiviato.
Sirjan scosse la testa: «Lo ha fatto, prima di noi.
Ora ci trasmette solo come prendere il suo posto.» replicò.
Fece una pausa, nella quale lasciò vagare lo sguardo
sulla parte di pianoforte che ora celava i tasti.
«Inoltre, chi c’è stato prima di noi era molto più
comprensivo.» aggiunse.
Oz inclinò appena la testa lateralmente, senza capire:
«In che senso?»
«Verso gli spiriti. Da questo punto di vista, io non
sono decisamente la persona più adatta a questo ruolo.» ammise, con un
incurvarsi delle labbra sarcastico.
Il biondo vide Alyster, accanto al fratello, lasciar
sfumare lo sguardo dalla solita tranquillità che la contraddistingueva al
dispiacere; per un discorso già affrontato altre volte e che sapeva bene dove
andasse a parare.
«Per questo hai… eri così arrabbiato con Cheshire
quella volta?» azzardò Oz, osservandolo.
Sirjan alzò lo sguardo su di lui – un paio di occhi
decisi, senza la minima esitazione. E, al tempo stesso, occhi di qualcuno
conscio di non pensarla nel modo giusto, ma che non cambierà idea.
«In quell’occasione era anche perché aveva violato i
patti. Ma più in generale, io e gli spiriti non ci piacciamo. Io… non riesco a
vederli come esseri deboli, al contrario della maggior parte delle persone.»
replicò, il tono in qualche modo secco.
Probabilmente se ne accorse, perché quando parlò di
nuovo la voce era di nuovo pacata, ma non neutra come al solito – forse in
virtù del fatto che stava esprimendo un’opinione sua che non fosse
influenzabile né da ruoli, né da regole.
«Non importa cosa succede o cosa succederà anche a me,
la mia opinione rimarrà sempre la stessa. Non conta il fatto che io protegga la
loro identità: i defunti hanno finito il loro tempo. I morti non tornano in
vita. Se hanno rimpianti, se non hanno vissuto come avrebbero voluto, se sono
stati infelici o insoddisfatti... non è una questione che riguarda chi è ancora
in vita. Io non riesco ad avere pietà per loro.» concluse.
Brusco, con una totale assenza di tatto, specialmente
davanti ad Oz – considerando che Sirjan sapeva di suo fratello.
Forse crudele, probabilmente cinico.
Ma Oz non seppe cosa dire per contraddirlo; solo,
abbassò lo sguardo.
Lui lo sapeva, cosa significava: l’ombra di un defunto
che aleggia su di te.
Doveva dare atto del fatto che, effettivamente, era
lecito che un docente si irritasse se i suoi studenti dormivano alle sue
lezioni o non vi prestavano comunque attenzione. Soprattutto, se Oz avesse
avuto la capacità di staccarsi dal proprio corpo o cose simili e guardarsi in
quel momento, avrebbe provato un senso di solidarietà verso il docente in
questione.
Perché effettivamente non doveva essere granché
stimolante vedere un’espressione a metà fra l’ebete e l’assenza totale degna di
una persona momentaneamente sotto l’effetto di droghe di cui magari ignoravi
anche l’esistenza.
Eppure, al di là di ogni considerazione obiettiva,
quando si ritrovò davanti alla faccia una Emily rantolante che chiamava il suo
nome in maniera che non avrebbe potuto definire in altro modo se non
inquietante, Oz dovette ammettere che non mandare un accidente al professor
Xerxes era fuori discussione.
Specie dopo essersi ritrovato a farsi salvare in
corner da una caduta dalla sedia da Noah.
«Finalmente il signor Bezarius ci presta attenzione!
Brava Emily ♥» canticchiò il docente, il sorriso falsamente cortese e
sollevato sulle labbra.
Oz lo guardò male – come uno può guardare chi ti ha
appena fatto rischiare un infarto precoce, ad esempio – ringraziando con lo
sguardo Noah che gli lasciò il braccio che aveva afferrato per evitargli la
caduta e sistemandosi di nuovo sulla propria sedia.
Break sembrava aver colto perfettamente lo sguardo, e
d’altra parte Oz non si era esattamente impegnato a nasconderlo.
«Oh, uno sguardo minaccioso!» esclamò con tono
canzonatorio, che si estese al sorriso ma non agli occhi: lo sguardo che gli
stava rivolgendo il docente era qualcosa che Oz si prese la libertà di
interpretare come una minaccia sul genere di “rispondimi, signor Bezarius, e ti
dimostrerò che al mondo ci sono visioni molto peggiori di Emily”.
Motivo per il quale decise intelligentemente di
tacere.
Break batté appena sulla cattedra per richiamare
l’attenzione: «Ora che abbiamo finalmente l’attenzione di tutti, ho tanti
annunci da fare!» trillò contento – un grugnito suggerì ad Oz che poco lontano
Alice stava imprecando contro il docente.
«So che molti di voi saranno tristi per questo, ma»
pausa ad effetto made in Xerxes Break: «le lezioni saranno sospese per un po’.»
annunciò. Ed Oz poteva quasi giurare di aver sentito Noah al proprio fianco
soffiare qualcosa di molto simile ad un “grazie a Dio”.
Poco dopo un sospiro affranto dai banchi davanti gli
ricordò che c’era un fan club pronto a struggersi per questo.
«La professoressa Barma mi ha chiesto di ricordare a
chi parteciperà al concerto per la Fondazione della scuola di concordare con
lei gli incontri. E poi che tutte le lezioni saranno ferme, tranne le sue
♪» aggiunse.
Il “grazie a Dio” di Noah, se solo fosse stato
pronunciato in quel momento anziché prima, probabilmente si sarebbe perso tra
le imprecazioni.
Era poco ma sicuro che il compagno avrebbe preferito
dieci pagine di funzioni, piuttosto che ore in più con la Barma.
Oz notò una studentessa dei primi banchi alzare la
mano: «Professore, perché le lezioni della Barma non si interromperanno?»
domandò.
Break ridacchiò – e l’eco di Emily non faceva
presagire nulla di buono: «Perché si occuperà delle lezioni in vista del Ballo
che si terrà prima delle feste natalizie!» esclamò come se fosse ovvio, oltre
che una notizia assolutamente esaltante.
Un tonfo al suo fianco rivelò ad Oz che Noah aveva
picchiato – anche se non troppo forte – la testa contro il banco, forse nella
speranza di svegliarsi da quello che alle sue orecchie suonava come un incubo.
Sorrise appena divertito, perché non farlo era
impossibile.
«Oh, e mi raccomando di fare i bravi bambini questo
periodo che non ci vedremo e di ricordavi di dire a mamma e papà che la
settimana dopo il concerto per la Fondazione ci sarà il ricevimento con gli
insegnanti.» aggiunse con tono su di giri – e poco mancava che iniziasse a
danzare in circolo con la bambolina fra le mani.
Colse un sonoro sbuffo provenire dal banco di Alice,
alla quale rivolse uno sguardo e un sorriso leggero; notandola ignorarlo,
dedusse che doveva ancora essere arrabbiata con lui per la questione di
Vincent.
«E se non lo dicessi a casa?» provocò il docente,
fissandolo con espressione arrogante.
Break le sorrise: «Ovviamente lo dirò io ai tuoi
famigliari, signorina Lewis ♥» assicurò, quasi amorevole.
Mentre la campanella suonava e l’insegnante li
lasciava liberi, Oz fu certo di aver visto Alice mimare un conato di vomito a
quel tono che Break le aveva rivolto.
«Cinque minuti di pausa.» decretò la professoressa,
spegnendo la musica che fino a quel momento aveva animato l’aula.
Nei soliti abiti eleganti ma non eccessivamente
laboriosi o inadatti all’ambiente scolastico e i capelli legati nell’ordinato
chignon, aveva concesso quella pausa con un battito di mani chiaro che era
riecheggiato nell’aula utilizzata.
Noah al suo fianco si lasciò scivolare sulla prima
panca libera: «Oz, ti prego, uccidimi.» implorò, fissando un punto dritto di
fronte a sé, il resto della classe che scemava chi al bagno, chi verso le altre
panche perdendosi in chiacchiere.
Oz sorrise, sedendosi affianco a lui: «Perché ti hanno
pestato i piedi?» domandò, tirando ad indovinare.
Noah lo fissò allucinato: «… A parte che è più plausibile
che io pesti i piedi a qualcuno. Ma no. Senti, perché devo esercitarmi a
ballare se al ballo ci verrò per un incontro romantico col buffet?» ironizzò,
fissandolo eloquentemente.
Oz ridacchiò appena: «Non lo so, perché?» chiese,
curioso di sentire l’uscita dell’altro in proposito.
«Ecco, non lo so perché! Qualcuno lassù evidentemente
mi odia! E sì, magari non sarò proprio stato un bravo bambino, ma se questo è
Babbo Natale che porta rancore giuro che gli avveleno le renne quest’anno.»
sibilò – suscitando in Oz una risata vera e propria.
«Che spirito natalizio…» commentò per prenderlo in
giro.
«Si chiama “istinto di sopravvivenza”, Oz. Ma non mi
stupisco, il tuo fa cilecca ogni tanto.» replicò di rimando.
Oz lo fissò con falsa arroganza: «Non sono io che ho
passato una settimana in infermeria, sai?» gli fece notare. Noah fece
schioccare le labbra, in un gesto di stizza come se fosse davvero offeso.
Oz gli picchiettò la testa con un dito, lasciandogli
intendere che non era affatto credibile: «Dai, ti procuro delle polpette per le
renne se vuoi.» riprese il discorso di poco prima.
Noah spostò lo sguardo su di lui, l’espressione furba:
«Sapevo di poter contare su di te, socio. Le renne e il ciccione non avranno
scampo.» assicurò.
Non si poteva essere così scemi.
«Ricominciamo.» li richiamò alla realtà Miranda Barma,
rientrata dopo gli ultimi studenti tornati dal bagno.
Noah, ancora seduto per terra, alzò gli occhi al cielo
– era una sorta di disperazione la sua, Oz ne era quasi sicuro.
«Signor Keynes, visto l’entusiasmo che vedo nel suo
sguardo e che mi commuove per l’amore del ballo che vi leggo, vuole venire qui
al centro per cortesia?» lo incalzò.
Noah non si mosse; l’espressione della sua faccia non
era terrore probabilmente solo perché il suo orgoglio si era opposto al
manifestarla.
«Signor Keynes, non era una richiesta, malgrado
suppongo lo sia sembrata.» gli fece presente la docente e Noah si alzò,
strascicando appena i piedi nell’avvicinarsi a lei.
La donna lo squadrò da capo a piedi, valutandolo:
«Parola mia, signor Keynes, dovessi basarmi sulla sua postura per decretare la
sua natura umana, non ci metterei nemmeno un lembo di abito sul fuoco.»
commentò, il tono placido ma palesemente sarcastico.
Noah mordicchiò il labbro inferiore ma non disse
nulla.
«Dunque, vediamo» esordì poi, iniziando a girargli
intorno. Picchiettò contro la sua schiena con la mano: «Schiena dritta.» lo
riprese, aspettando che il rosso eseguisse.
Gli posò le mani sulle spalle, tirando appena perché
si sistemasse petto in fuori e spalle dritte come voleva lei. Seppur
riluttante, Noah eseguì il movimento.
Lei, con un gesto assolutamente neutro del dorso della
mano, diede un colpetto alla base dei suoi reni: «Un minimo di portamento,
grazie.» lo corresse, occhieggiando le gambe dalla posizione alle sue spalle.
Vi soffermò lo sguardo con aria critica: «Per l’amor
del cielo signor Keynes, la danza è un’arte e dovrebbe essere qualcosa che
anche lei è in grado di figurarsi abbastanza facilmente, credo. Potrebbe non
avere una posizione delle gambe come se dovesse affondare una zappa nel
terreno?» lo esortò con tono critico.
Noah voltò la testa quanto bastava a guardarla: «Per
favore, non mi faccia pensare a dipingere e al ballo come la stessa cosa.
Potrei perdere l’ispirazione per il resto della mia vita.» commentò, suscitando
la risatina di qualcuno, tra cui Oz.
La docente lo fissò in silenzio, occhieggiando poi gli
altri presenti e soffermandosi sul biondo: «Signor Bezarius, noto che trova la
battuta piuttosto divertente. Se è così gentile da raggiungere il suo compagno
al centro, potremo godere tutti dell’ilarità generale.» disse.
Oz, con un sospiro rassegnato – ormai aveva capito che
“amico di Noah” e “non detestato dalla Barma” erano due concetti che non
potevano esistere nella stessa persona.
Avanzò quindi fino a raggiungere il compagno e la
professoressa, fermandosi al centro.
Lei lo guidò di fronte a Noah, dopodiché si rivolse al
resto della classe: «Fate bene attenzione, il signor Keynes e il signor
Bezarius si sono proposti volontari per mostrarvi la posizione esatta di
partenza.» fece presente.
Noah aveva palesemente mostrato di avere qualcosa da
ridire su quel “volontari”, ma Oz gli aveva saggiamente pestato un piede: ci
mancava solo che per punire l’ennesimo commento del rosso la Barma decidesse di
vestirli da dame.
«Bene. Signor Bezarius, lei farà la dama.» decise,
osservandolo con l’aria di chi non ammetteva repliche. Oz non disse nulla,
muovendo un passo verso Noah che lo guardava tra l’incredulo e chi si sente
tradito.
Miranda Barma si posizionò dietro il biondo.
«Bene, se non altro non dovrò manipolarle la schiena
per farla stare vagamente dritto.» commentò dopo aver occhieggiato le spalle
dell’altro: «Ora, signor Keynes, passi la mano destra intorno alla vita del suo
compagno.» ordinò.
Noah fissò Oz, senza muoversi: «Ciò vuol dire che
posso risparmiarmi il baciamano, deduco.» commentò, portando il braccio dietro
la schiena di Oz, circondandogli la vita alla meno peggio.
L’altro cercò di non ridere, più che altro.
La docente li osservò: «Ora, la mano libera a
sostenere la mano della dama.» disse, aspettando che Noah eseguisse.
Sospirò come chi si vede costretto a ripetere per
l’ennesima volta la stessa cosa: «Signor Keynes, educazione e cortesia vogliono
che se anche la dama con cui si danza non piace la si deve trattare con il
massimo riguardo. Perciò, a meno che il signor Bezarius non abbia qualche
malattia contagiosa direi che può tenerlo più vicino a sé.» gli fece presente.
Quando fu soddisfatta almeno in parte della posizione
iniziale dei due, la docente fece partire la musica: un valzer dei più comuni.
Noah mosse un primo passo non proprio convinto, mentre
Oz lo seguiva; poteva facilmente immaginare il disagio e le imprecazioni
dell’altro: essendo di famiglia medio locata, era quasi ovvio che non gli fosse
mai capitato di dover partecipare a qualcosa di vagamente simile ad un ballo e
che di conseguenza non avesse mai imparato.
Né sentito la necessità di farlo, oltretutto.
Per questo Oz non ebbe cuore di sottolineare che i
suoi piedi non erano di gomma e che quindi le sei volte di seguito in cui
glieli aveva pestati non erano passate inosservate; non lo aveva fatto presente
all’altro anche per tutti gli “scusa” che Noah era stato capace di bofonchiare
nell’arco di un valzer.
Probabilmente quello era un nuovo record a tutti gli
effetti.
Aveva optato per la solidarietà di cui solo un amico
vero poteva essere capace, e alla fine della lezione gli aveva proposto di
sgattaiolare in mensa a chiedere una cioccolata calda.
«L’unica cosa che mi fa tornare speranza nella vita è
il pensiero che non dovrò mettere in pratica tutto questo, quel giorno.»
commentò Noah soffiando sulla tazza piena del liquido scuro e fumante.
Oz ridacchiò: «Non sei andato così male.» gli fece
presente, un po’ sincero un po’ solidale.
Noah lo fissò eloquentemente: «Tu dov’eri, che lezione
hai visto?» ironizzò, sorseggiando poi la cioccolata con aria beata.
Oz non disse nulla, imitandolo e lasciando cadere il
silenzio. Rimasero così per un po’, la mensa quasi totalmente deserta a
eccezione di alcuni studenti che avevano avuto la loro stessa idea.
Quando Oz era quasi a metà della cioccolata, fu Noah
ad parlare: «Ah, una cosa.» iniziò, classico richiamo dell’attenzione quando ci
si è ricordati qualcosa all’ultimo minuto.
Il biondo portò gli occhi chiari su di lui, segno che
lo stava ascoltando, esortandolo perciò a continuare.
«La lezione. Che rimanga fra noi.» continuò Noah, in
un maniera abbastanza confusa perché Oz si sentisse autorizzato a chiedere: «In
che senso?»
Vide Noah incurvare le labbra in un sorrisetto fra il
complice e l’impacciato: «Che io e te abbiamo ballato insieme. Evitiamo che
arrivi alle orecchie di Marcus, ne?» gli chiarì la cosa.
E dato che Oz non pensava Marcus avrebbe fatto chissà
che particolari storie trattandosi di lui – a torto, ma questo il biondo non lo
sapeva – e che l’uscita di Noah era stata assolutamente priva di malizia,
scoppiò a ridere.
La settimana che era seguita era stata quasi
sicuramente quella che aveva messo più alla prova Noah Keynes in due anni di
scuola.
Oz aveva azzardato a chiedere se non fosse stato
abituato a quel periodo pre natalizio, visto che l’altro era a Latowidge dal
primo anno. Noah però aveva spiegato che l’anno precedente era stato esentato
dalle lezioni perché con la gamba rotta – e non per colpa delle risse quella
volta, ma per un incidente – e che quindi era scampato a quel supplizio.
Grazia divina che non si era ripetuta quell’anno e che
da quella prima lezione li aveva visti dirigersi dalla Barma tre volte a
settimana per tre ore pomeridiane ogni volta.
E andavano avanti ormai da una decina di giorni quando
all’ultimo incontro la docente li aveva avvisati che avrebbero fatto una pausa
per qualche lezione, dal momento che era occupata con gli ultimi preparativi
per il concerto.
Contrariamente a quanto Oz si era aspettato, in
occasione dell’evento in questione non sarebbero stati presenti tutti i
genitori: vi era invitata tutta la scuola, la cui presenza degli studenti era
“particolarmente consigliata” – che nel linguaggio specifico di Rufus Barma
significava “sarà il caso che non mi costringiate a inventare una punizione per
coloro che non verranno” – e i maggiori beneficiari dell’istituto.
«Di solito» aveva spiegato Noah a pranzo qualche
giorno prima dell’evento: «si tratta proprio di famiglie particolarmente
benestanti. Una volta mi pare di aver capito che se ne occupassero anche i
Bezarius e i Nightray, no?» gli aveva chiesto conferma.
Oz ricordava grosso modo che tra i motivi di assenza
del padre qualche volta c’era stato anche quel concerto; tuttavia dopo la morte
di Jack, Zai Bezarius aveva evitato contatti di quel tipo per diverso tempo e
dunque non vi era stato più chiamato a prendere parte.
Aveva quindi annuito verso Noah: «Dei Nightray non so
nulla però.» aveva ammesso.
Noah, con un’alzata di spalle, aveva continuato:
«Hanno avuto dei problemi, ma non so quali. E poi i beneficiari sono pochi lo
stesso. Come rappresentanti dei Barma ci sono i magnifici due del corpo
docenti. Lo stesso per Wayne.»
«…Wayne? Quello di chimica?» aveva chiesto Oz
incredulo, rischiando di strozzarsi con lo stufato.
«Esatto. Nonpare proprio il tipo da famiglia ricca, eh?» aveva ridacchiato Noah,
dandogli poi qualche altro nome dei beneficiari che – come premesso proprio dal
rosso – non si erano rivelati una quantità esagerata.
Per questo, nell’avviarsi verso l’aula magna dove il
concerto avrebbe avuto luogo, Oz non si aspettava troppi volti sconosciuti.
Era stato comunicato agli studenti che per l’occasione
ci si sarebbe dovuti presentare in abiti consoni all’evento; Oz aveva dunque
indossato dei pantaloni scuri e semplici e una camicia bianca con sotto il
colletto lo stesso nastro che era parte della divisa – si era richiesto
quell’unico particolare degli abiti che indossavano ogni giorno per mantenere
quel tratto distintivo.
Sopra la camicia, una giacca nera lunga fino a metà
gamba per alcuni, al ginocchio per altri; i ragazzi erano risultati vestiti in
maniera molto simile, almeno a giudicare da Noah con il quale si era avviato fino
all’aula magna e dagli studenti incrociati nel mentre.
Le ragazze invece avevano indossato abiti eleganti e
per lo più lunghi, ma non tutti uguali: nessuna ne aveva indossati di neri, ma
avevano compreso una vasta gamma di colori.
Vi erano blu notte e colori pastello soprattutto:
nell’arrivare all’ingresso dell’aula magna Oz aveva riconosciuto all’entrata
sua sorella Ada in compagnia di alcuni compagni di anno. Con lei c’erano Sally
McFinch, l’abito sul verde chiaro e – i capelli lunghi ordinatamente legati da
un nastro blu e dall’abito nero – Clifton Lafayette.
Ada indossava un abito rosa pallido e sorrise quando
vide il fratello.
Il suo agitare la mano però fu rivolto anche a
qualcuno dietro di loro: nel voltarsi, Oz intravide il nucleo della famiglia
Nightray, che per ovvi motivi erano arrivati insieme.
I due fratelli, Vincent e Gilbert – probabilmente,
pensò Oz, Elliot doveva essere insieme agli altri che prendevano parte al
concerto come musicisti – vestivano nero ed entrambi avevano i capelli raccolti;
Gilbert aveva cercato di raccoglierli in un nastro blu, ma la maggior parte
delle ciocche davanti gli erano sfuggite.
Vincent invece aveva raccolto i capelli biondi in una
coda più alta, con un nastro bordeaux.
Entrambi alzarono una mano all’indirizzo di Oz e gli
altri, Vincent con un sorriso entusiasta per il concerto, Gilbert con un
incurvarsi di labbra meno visibile, ma cortese.
Con loro c’erano Echo, un abito sul blu e i capelli
raccolti con un fermaglio a forma di farfalla che lasciava comunque le ciocche
ai lati del viso libere ed Alice, l’abito sul rosso non troppo acceso e i
capelli acconciati nelle solite due code.
Oz rivolse un cenno anche a loro due, che Echo
ricambiò con un leggero e rispettoso chinare del capo, mentre Alice distoglieva
lo sguardo con aria seccata e passava accanto al gruppo salutando a malapena
Noah.
Il biondo si era voltato con l’intento di fermarla –
era passato già troppo tempo da quando avrebbero dovuto chiarire quella lite
nata per colpa di entrambi – ma si era sentito fermare gentilmente per la
spalla.
Nel voltarsi, individuò come autore del gesto Vincent:
«È davvero molto arrabbiata perché è tornata ieri da casa. Ti consiglio di
aspettare un pochino.» mormorò, con fare quasi complice.
Oz abbozzòun
sorriso leggero, lasciando stare l’idea di seguire la castana e rivolgendosi al
biondo: «Tu stai bene?» chiese, riferendosi alle ferite su cui lo aveva già
rassicurato Gilbert, comunque.
Vincent annuì, per poi rivolgersi ad Ada.
Gilbert rimase invece fermo lì, preferendo non unirsi
al gruppo e rimanere qualche passo distante, vicino ad Oz.
«Prima ti cercava Alyster.» gli disse, osservandolo.
Oz annuì, l’espressione incuriosita, ma non ebbe
bisogno di chiedere nulla intravedendo alle spalle di Gilbert la ragazza che si
avvicinava a loro.
Indossava un abito lungo che le copriva le gambe e a
malapena lasciava intravedere i piedi poggiati sulla piccola pedana della sedia
a rotelle; di un bordeaux che si intonava agli occhi carmini, le fasciava il
corpo esile.
Sorrise sia ad Oz che a Gilbert, rivolgendosi a
quest’ultimo per primo: «Grazie per prima.» pronunciò, il tono cortese.
Gilbert scosse appena la testa: «Figurati.» replicò,
occhieggiando poi Oz.
«Mi cercavi?» domandò il biondo, lo sguardo chiaro su
di lei che annuì: «Ho pensato che potesse farvi piacere assistere al concerto
vicini al palco.» rivelò, muovendo appena la sedia a rotelle per avanzare verso
Ada e gli altri che chiacchieravano ancora fra loro.
La sorella di Oz la notò per prima e le sorrise
ampiamente: «Alyster, ciao. Sirjan si sta preparando con Elliot e gli altri?»
chiese, portando anche l’attenzione degli altri sulla capo dormitorio.
Vincent prese gentilmente una sua mano, mimando un
educato baciamano e sorridendole; lei ricambiò con la gentilezza che la
contraddistingueva e annuì all’indirizzo di Ada: «Sì, mio fratello è con gli
altri partecipanti.» confermò.
Rivolse poi loro lo stesso invito esteso ad Oz qualche
attimo prima, che fu accolto di buon grado e con entusiasmo. Attesero quindi
solo l’arrivo di Marcus – che Oz vide arrivare insieme ad Aedan e il ragazzo
che aveva già visto interagire una volta con il moro ma di cui gli sfuggiva il
nome – dopodiché entrarono nella sala.
Gilbert aveva arbitrariamente scelto di spingere la
sedia a rotelle di Alyster e Oz li affiancava; Noah chiacchierava con Marcus
mentre Aedan e l’altro ragazzo – Ethan, gli aveva ricordato il rosso – si erano
divisi da loro quasi subito.
Il brusio della sala animava l’ambiente, ma non era
fastidioso: sul lato sinistro della prima fila di posti vicino al palco vi
erano visi adulti che Oz rimandò ai benefattori dell’istituto mescolati a
quelli più familiari del corpo docenti.
Il lato destro, libero, fu quello verso cui li
condusse Alyster: probabilmente aveva facoltà di invitarvi chiunque ritenesse
opportuno, perché nessuno dei docenti prestò particolare attenzione al loro
gruppo.
Individuarono Aedan seduto al primo posto dopo i
docenti – nello specifico accanto a Wayne – con al proprio fianco Ethan.
Accanto al moro si sistemò Marcus, le braccia
incrociate al petto e neanche a dirlo dopo di lui sedette Noah che – per motivi
che rimasero ignari finché non furono quasi tutti seduti – pretese al proprio
fianco Ada. Dopo di lei sedettero Sally e Clifton, al quale seguì Vincent.
Come ci si poteva aspettare, il biondo fece sedere
Gilbert alla propria destra e dopo il moro si sistemò in silenzio Echo.
A quel punto, Oz e Alice si guardarono, entrambi in
piedi e con Alyster che per forza di cose sarebbe rimasta sulla sedia a rotelle
dopo l’ultimo posto.
Alice sbuffò, prendendo posto accanto ad Echo e
fissando lo sguardo di fronte a sé, le braccia incrociate al petto; con un
sospiro, Oz le si sedette affianco e Alyster rimase ferma dove Gilbert l’aveva
sistemata sotto sua richiesta.
Dopo pochi minuti, videro una donna salire sul palco:
indiscutibilmente avanti con l’età ma dall’aria gioviale e in piena salute,
l’abito di un celeste pallido e i capelli in alcuni punti con i segni dell’età
avanzata legati in un chignon ordinato.
Attese che il silenzio scendesse nella sala, dopodiché
rivolse a tutti un sorriso gentile e cortese: «In quanto preside dell’istituto
Latowidge, voglio innanzitutto dare il mio benvenuto ai tutti i presenti a
questo concerto in occasione della fondazione della scuola, che vanta una certa
età. E’ addirittura più anziano di me.» fece notare, suscitando un accenno di
risata divertita generale.
«Un ringraziamento particolare ai nostri ospiti e ai
docenti che si sono impegnati perché come ogni anno fosse possibile organizzare
questo evento che è occasione di svago per gli studenti e per ricordare tutti
insieme una data importante.» continuò, allungando poi una mano verso i posti
che ospitavano gli insegnanti.
«Pregherei la professoressa Miranda Barma, docente di
Musica che si impegna particolarmente ogni anno per la buona riuscita di questo
concerto, a salire sul palco per presentare i suoi alunni.» chiamò poi,
iniziando lei un applauso educato al quale si unirono tutti i presenti.
La docente chiamata si alzò dal proprio posto,
raggiungendo la donna sul palco e sorridendole cortesemente, prendendo poi la
parola.
«Ringrazio la preside Cheryl» disse come prima cosa,
rivolgendosi alla sala: «Come ogni anno, gli studenti scelti per
quest’occasione sono fra coloro che nella mia materia hanno ottenuto i migliori
risultati e hanno effettuato un percorso didattico di grande levatura.» prese a
spiegare, come piccola e doverosa premessa.
«Il brano di quest’anno è stato composto da uno
studente promettente, che per analoghi motivi è stato scelto anche come
esecutore. Le parole sono state invece adattate, con il suo consenso, dalla
cantante solista.» concluse la spiegazione.
Fece una breve pausa in cui lanciò un’occhiata al
sipario alle sue spalle, da cui probabilmente ricevette il cenno di conferma
che le serviva per passare alla presentazione; il tendaggio rosso scuro prese
ad aprirsi da entrambi i lati, rivelando un pianoforte nero a coda e due leggii
accanto ad esso a prendere possesso del palco.
«Passo dunque a presentarvi i quattro studenti che
eseguiranno il brano. Al pianoforte, per il quarto anno, Elliot Nightray.»
chiamò, sistemandosi lateralmente mentre il ragazzo entrava.
In abiti scuri molto simili a quelli di Oz ma con la
giacca appena più lunga, avanzò sul palco voltandosi verso il pubblico quanto
bastò ad un inchino leggero del busto per poi andare a sistemarsi al pianoforte
mentre l’applauso sfumava.
Miranda Barma riprese la parola: «Al flauto traverso,
per il quinto anno, Sirjan Kolstoj.» chiamò.
Il capo dormitorio avanzò dallo stesso lato da cui era
entrato Elliot: il portamento elegante e la giacca stavolta più corta – appena
oltre i fianchi – ma comunque nera, aveva il proprio strumento fra le mani.
Sotto il colletto della sua camicia, Oz poté notare che il nastrino non era del
colore dell’anno di Sirjan, ma bordeaux.
Gli venne spontaneo credere che fosse quasi per
richiamare il colore dell’abito della sorella, che sedeva sorridente al fianco
del biondo.
Oz lo vide sistemarsi dietro il primo leggio a seguito
del pianoforte, dopodiché riportò lo sguardo sulla docente.
«Per il violino, del quarto anno, Karin Hamilton.»
chiamò.
Poco distanti da lui, Sally applaudiva un poco più
forte degli altri e con una certa soddisfazione come se lei e l’amica fossero
la stessa persona; Clifton applaudiva educatamente, ma aveva un sorriso dolce
sulle labbra.
La mora imitò Sirjan ed Elliot, sebbene salì dal lato
opposto: fece un inchino verso la sala, il violino e l’archetto fra le mani.
Vestiva un abito sull’indaco, i capelli raccolti in una treccia morbida. Si
sistemò sull’ultimo leggio, poco distante da Sirjan.
Infine, l’insegnante chiamò la cantante: «Voce
solista, per il quinto anno, Keira Nightingale.» concluse, allontanandosi dal
palco per tornare al proprio posto mentre l’ultima studentessa entrava dallo stesso
lato da cui aveva fatto il suo ingresso Karin.
Era l’unica dei quattro che Oz non conosceva: i
capelli castani sfioravano le spalle, sciolti. Gli occhi erano chiari anche se
da lì non poteva definire con esattezza il colore e il corpo era fasciato da un
abito azzurro pastello.
Per ovvi motivi non aveva strumenti con sé.
L’applauso per lei scemò e i ragazzi si scambiarono
un’occhiata, probabilmente volta a segnalarsi l’un l’altro di essere pronti.
Nel silenzio carico di attesa e aspettativa della sala,
si vide Sirjan accostare il flauto al viso e l’apertura in cui incanalare il
fiato alle labbra fin quasi a sfiorarne il freddo metallo. Un suono limpido si
sentì chiaro nel silenzio della sala, dando il via alle prime note da solo,
seguito né dal violino, né dal pianoforte.
Oz sgranò gli occhi: erano state poche note, era vero,
ma aveva ascoltato quella canzone troppe volte ormai per non riconoscerla. Da
Elliot, durante le notti passate a spiare come un bambino, a volte anche con
Alyster; e dall’orologio, lasciato nella stanza insieme al diario che occupava
con le sue pagine i suoi pensieri molto più di quanto non desiderasse,
angosciandolo.
E le note che partirono dal pianoforte di Elliot – lo
sguardo era attento sullo spartito, eppure Oz era certo che il minore dei
Nightray avrebbe potuto suonare anche ad occhi chiusi e ottenere comunque la
perfezione che costantemente ricercava – accompagnarono la voce chiara di
Keira, che aveva riempito l’aria quasi in contemporanea ad esse.
La canzone, come la melodia sulla quale si basava, era
triste: le parole rimandavano ad un tempo perduto con la consapevolezza che non
sarebbe ritornato, ricordato da una figura che cambiava nell’immaginario
personale di ognuna delle persone che ascoltava.
Il ricordo triste a cui ci si aggrappava, a
prescindere da quanto potesse distruggere chi lo richiamava continuamente,
convinto della sua azione benefica senza accorgersi che si insinuava nell’anima
e nella mente come il veleno più letale di tutti.
Oz socchiuse gli occhi, ascoltando in silenzio, senza
più curarsi di cosa era accanto a lui.
Dopo la prima strofa, sentì il violino aggiungersi
agli altri strumenti, mentre il flauto traverso ancora taceva.
Portate d'argento per i ricordi,
per i giorni passati,
cantando le promesse
che il domani può portare.
Al pianoforte e al violino, insieme alla voce di Keira, si
era aggiunto infine anche il flauto che ora stava eseguendo un duetto solo con
il pianoforte.
Elliot e Sirjan suonavano in perfetta armonia, come se
le menti e i sentimenti fossero un unico strumento musicale che suonava nel
silenzio della sala che sembrava quasi vuota.
La voce di Keira riprese a cantare, e ad Oz parve
quasi ironico che persino quella canzone parlasse di ricordi, quando la sola
musica bastava a risvegliarne fin troppi, indesiderati e sperati al tempo
stesso.
Il desiderio di non dimenticare una persona
importante, e la paura del dolore che la realizzazione di quel desiderio
certamente comporterà.
Il vuoto riempito da un nodo alla gola, e la
sensazione di qualcosa inevitabilmente scivolata fra le mani.
Non si guardò attorno, Oz, ascoltando l’esibizione;
forse per una strana forma di masochismo, o magari perché era semplicemente
normale che accadesse, seguiva l’immagine di un Jack sorridente nei suoi
ricordi.
Non uno in particolare, uno più felice di altri o più
vivido; solo, suo fratello.
Mentre l’espressione si rilassava, e la maschera
andata indebolendosi – prima la melodia, poi Glen, poi il diario – calava pian
piano, pericolosamente.
Non scompariva ancora, perché non succedeva mai
davvero.
Ma il dolore era lì.
E non c’era più un sorriso a nasconderlo, in quel
momento.
La tua vera voce è nel mio cuore,
più dolce della disperazione,
eravamo lì
Violino, pianoforte, canto.
Voce limpida, parole struggenti.
Melodia lenta, violino che esprime tristezza.
E ancora corde che suonano speranza, e pianoforte che
le lascia affondare nella malinconia.
E poi silenzio, e pianoforte che tace, e violino che
riparte e affianca note di un flauto che più chiari delle altre e scandite come
il ticchettio di uno orologio da taschino inglobano tutti quei sentimenti
concentrati lì.
In quel nodo che non si vuole sciogliere.
Ricordi diversi di una stessa persona; ricordi di due
persone diverse, con sentimenti diversi e ruoli altrettanto dissimili.
Entrambi vaghi, quando si vorrebbe averli limpidi e
chiari lì davanti agli occhi chiusi.
Il tempo che aveva agito da una parte, e un’amnesia
come scherzo di cattivo gusto dall’altra.
Espressioni di dolore differenti, mentre le parole
sfumavano in un addio quasi ironico, in quel momento.
«…Oz,
stai bene?» sentì chiedere, al proprio fianco.
Si
voltò verso quella che era indiscutibilmente la voce di Alice; se solo fosse
stato un altro momento, un’altra occasione, Oz avrebbe potuto mostrarsi
incredulo del fatto che l’amica gli stesse rivolgendo la parola senza alcuna
traccia di rabbia nel tono.
Con
espressione preoccupata, come se non ci fosse stato tra loro alcun litigio.
«Oz?»
chiamò di nuovo Alice, il tono sinceramente preoccupato, senza più dare importanza
all’orgoglio o agli screzi.
Il
biondo la osservò con l’espressione di un bambino perso, impaurito da quello
che vede e che ascolta: un’espressione che a nessuno aveva permesso di
guardare.
Inclinò
il capo indietro, poggiandosi del tutto alla spalliera delle poltroncine su cui
sedevano, portando un braccio a coprire gli occhi lasciando visibile solo un
sorriso mesto.
«No»
mormorò piano, il tono che non si poteva descrivere con esattezza a parole:
«No, Alice. Non mi sento bene.» aggiunse debolmente, nella voce una sfumatura
di scherno verso se stesso.
Lo scherno verso la propria stessa debolezza, che
Alice in qualche modo conosceva e che rispettò.
Non disse nulla, tornando con lo sguardo sul palco
mentre la canzone volgeva quasi al termine; prendendo una mano come una
promessa tra bambini, senza alcuna malizia, con la voglia di comunicare che c’è
qualcuno lì per te.
Finché non verrai.
Finché non chiuderemo gli occhi.
«Gil, ti senti bene?» soffiò Vincent, lo sguardo sul
fratello che aveva portato una mano alla tempia.
Un gesto fin troppo secco e veloce per passare
inosservato al minore dei due, che si era chinato quasi subito verso il moro.
L’espressione dolorante, Gilbert scosse appena la
testa.
Nel momento stesso in cui aveva avuto qualcosa di molto
simile ad un flash e aveva cercato di aggrapparvisi e trattenerlo – la
sensazione che fosse importante era stata pressante e insistente tanto da
ordinarglielo quasi violentemente – un mal di testa lancinante lo aveva
colpito.
Una fitta improvvisa e forte, che ora rimaneva in
maniera più vaga ma ugualmente dolorosa.
«Gil?» lo richiamò, ancora vicino a lui, quasi
cercasse di capire dall’espressione del fratello lo stato in cui versava.
Gilbert aprì un occhio, puntandolo su Vincent e
cercando di abbozzare un sorriso per quanto possibile: «Sto… Sto bene, non
preoccuparti. Ora passa.» mormorò, per rassicurarlo.
Era solo una fitta, come quelle dei primi tempi in cui
aveva tentato di ricordare, prima di arrendersi a farlo.
Sarebbe passata.
Passava sempre, e non lasciava niente dietro di sé.
La musica sfumò, dopo le ultime parole cantate da
Keira; quando ci fu il silenzio completo, dopo pochi e brevi istanti l’applauso
fragoroso degli studenti accolse il concludersi dell’esibizione.
Mentre il pianoforte suonava le ultime note
dell’esibizione, vicino all’entrata della sala in cui si svolgeva qualcuno
guardava il palco.
I lunghi capelli scuri, l’abito chiaro e le mani
portate a coprire il viso in lacrime.
Accanto a lei, una figura invisibile al resto dei
presenti – come lo era lei stessa: i capelli biondi e lunghi, legati in una
treccia morbida.
Abiti informali, pantaloni comodi e una semplice
camicia; gli ultimi indossati.
Portò lo sguardo chiaro su di lei, andando a sfiorarle
la spalla con il gesto gentile di chi vuole proteggere qualcosa di fragile e
prezioso.
Il sorriso mesto sulle labbra, non si chinò verso di
lei, limitando a quel tocco il loro contatto: «Anche se non mi rispondi mai,
vorrei davvero sapere… ti piacerebbe questa versione, Lacie?» sussurrò.
Lei, scossa ancora da un pianto silenzioso che nessuno
poteva ascoltare, lentamente scomparve.
Sbiadendo, come i sentimenti lontani e i ricordi
seppelliti chissà dove, chissà perché.
La mano a mezz’aria dove prima era lei, lo sguardo che
accarezzava il nulla che c’era al posto della sua figura, Jack sorrise con
quell’incurvarsi di labbra triste.
Tornò a guardare il palco e chi davanti ad esso si
lasciava sopraffare.
«Già.» mormorò piano: «Sei ancora arrabbiata con me,
vero?» sussurrò.
E, lentamente, spariva.
Note
Non ho nemmeno il coraggio di scusarmi per l’immane
ritardo, anche se avevo avvisato x°
No, vabbé, perdono ;__;
Passiamo alle note sennò non si finisce più; sono
apparse anche Cheryl Rainsworth e Lacie, yay XD E persino Edgar della serie
“Holy Knight” che c’è anche nel manga e che Oz legge *muore*
Poi, chiarimenti e citazioni. La frase in apertura è
della opening di Gundam 00 (Hakanaku mo Towa no kanashi).
La
canzone utilizzata per il concerto della fondazione è “Everytime you kissed
me”, ossia la versione cantata di Lacie (presente nel secondo OST di Pandora
Hearts): l’inizio è fatto con la musica del carillon, che per esigenze di trama
e strumentali ho sostituito al flauto suonato da Sirjan.
Infine, qualora qualcuno
volesse figurarsela meglio, il brano suonato da Alyster nell’aula di musica è
“Roaring Tides” (Clannad OST).
Mi pare di aver detto tutto,
quindi passo ai ringraziamenti!
Litachan: grazie di seguirmi sempre ;_; *si sente ripetitiva* E
Rufus stile Piton nooo XD Già c’è Gilbert che per colpa mia è stato sostituito
all’immagine della Monnalisa XD
Contenta che siano arrivati i
sentimenti di Noah, visto che ci tenevo particolarmente <3
Gioielle: non risponderò esattamente punto per punto, ma tanto a
quelli posso chiarirti in separata sede XD
Grazie del commento
innanzitutto (mi piacciono i commenti-papiro, mi stai viziando XP) e mi
inquieta che malgrado io ti abbia disilluso a proposito, tu continui a flashare
una SirjanAedan/AedanSirjan x°°
Mi dispiace tanto che non ci
sia per ogni capitolo spazio GilOz, ma purtroppo è il dramma di avere una
ventina di personaggi da giostrare x° Cercherò di impegnarmi per non deludere
il vostro lato fangirl, lo giuro!
Come sempre, felice che ti
piaccia Alyster.
C’è stato qualche chiarimento
in più su Jack, e spero di aver lasciato intendere un po’ di più anche il modo
di pensare di Sirjan anche se presto l’introspezione toccherà anche a lui XD
Spero che questo capitolo sia
stato di tuo gradimento ^^
Yoko891: olé, questo capitolo dovrebbe renderti abbastanza
felice se non altro per le apparizioni di Sirjan XD
Non sono molto convinta dell’IC
di Oz stavolta, ma spero bene e rimango in attesa del tuo riscontro donnaH ù.ù
…E spero di non aver
devastato nessuno con le parti di diario di Jack. *si angolizza un attimo*
E una cosa che solo tu puoi
capire: ma Wayne di famiglia ricca? XD *crepa*
Grazie dei complimenti e di
seguirmi <3
Makotochan: tu che ami l’accoppiata cazzona Noah/Oz, ti ordino di
amare i loro siparietti durante le lezioni XD
Scherzi a parte, spero che ti
siano piaciuti visto il tuo interesse per loro come coppia di scemi.
Ti ringrazio per i commenti
sullo stile, i tuoi sono sempre un po’ poetici in effetti XP
E sì. C’era dell’ElliotOz in
quella scena: non tanto perché pairing della fanfic, quanto perché l’autrice lo
voleva, punto. XD
Fiamma Drakon: innanzitutto, benvenuta fra chi ha il fegato di seguire
tutto ciò XD
Ti ringrazio per l’aggiunta
ai preferiti e di aver deciso di seguirla – oltre che per i complimenti ^^
Spero che anche questo
capitolo possa essere di tuo gradimento X3
In chiusura, un grazie anche
a chi mi commenta in separata sede e chi ha aggiunto alle seguite o hai
preferiti e quindi deduco la legga. Grazie davvero <3
Capitolo 12 *** Lui che non rivolge lo sguardo verso di me ***
Prova a cogliere qualche suono oltre un rumore meccanico e continuo nel
silenzio altrimenti completo della stanza
Lui che non rivolge lo sguardo verso di me
From my reflection,
I want perfection.
Prova a
cogliere qualche suono oltre un rumore meccanico e continuo nel silenzio
altrimenti completo della stanza.
Qualche
attimo prima poteva giurare di aver distinto qualche voce, anche se non era
stato in grado di riconoscerle.
Interrompe i
pensieri nel cogliere la porta che si apre: si sforza di aprire gli occhi,
trovando inizialmente qualche difficoltà, sentendo le palpebre pesanti.
Chiunque
fosse entrato, probabilmente aveva colto qualche movimento da parte sua; sente
dei passi avvicinarsi.
«Oz…?»
Si sforza di
aprire gli occhi, riuscendovi: la vista inizialmente non chiara si focalizza
sulla persona al proprio fianco, non impiegando troppo nel riconoscere la
figura di Ada.
E, dietro di
lei, Gilbert Nightray.
Sbatte appena
le palpebre, quasi a metterli meglio a fuoco e vede spuntare un sorriso timido
sul viso della sorella: «Fratello, come ti senti?» la sente chiedere.
Sospira
piano, chiudendo gli occhi qualche secondo: «Mi… gira la testa.» pronuncia, il
tono flebile.
Ada, accanto
a lui, si siede: Gilbert, qualche passo indietro, rimane fermo.
Sposta lo
sguardo su di lui, Oz, e gli sorride: «Gilbert, com’è andato il concerto?»
domanda.
Non ricorda
esattamente cosa è successo verso la fine, come se si fosse addormentato e non
sapesse chi può averlo portato lì dov’è adesso – che suppone sia l’infermeria
della scuola, forse.
Magari ha
avuto un colpo di sonno, pensa.
Gilbert non
risponde: «Il concerto?» gli fa eco invece, ripetendo la domanda.
Lui annuisce
appena: «Sì, ricordo Sirjan che suonava e… quella ragazza, la compagna di
Alyster Kolstoj. Aveva finito di cantare, ma… poi?» mormora confuso.
Ada assume
un’espressione strana, lo sguardo che devia dal fratello.
Il biondo guarda
Gilbert, ma non riesce ad intravederne gli occhi, così come sono coperti dalla
frangia in quel momento; l’amico tace.
Non gli
sembra di aver fatto una domanda così difficile e si sente quasi in ansia per
quell’assenza di risposta.
«Gilbert?» lo
esorta infatti.
Il moro, per
riflesso, sentendosi chiamare alza lo sguardo e l’espressione che gli vede in
viso ad Oz non piace affatto; è simile allo sguardo che ogni tanto gli rivolge
anche Ada, e che lo fa andare in bestia e gli fa venire voglia di alzarsi e urlarle
cose che possono ferirla.
Quello
sguardo non gli piace: somiglia troppo alla pietà.
«Ti ho fatto
una domanda.» fa notare al moro, il tono che è strano ma non ancora
eccessivamente rabbioso: Ada, tuttavia, probabilmente ormai quasi fiuta le sue
reazioni nell’aria, perché lo guarda preoccupata, allarmata quasi.
Questo gli fa
rabbia.
Vede Gilbert
avvicinarsi, e allungare appena una mano verso il viso del biondo, esitante,
come se temesse di fargli male.
Oz non
allontana la mano che si protende verso di lui, né fa nulla per evitare quel
contatto del dorso delle dita di Gilbert – un po’ fredde al contatto con la
guancia, in verità.
«Oz, forse
dovresti riposare.» mormora piano, con lo sguardo addolcito e preoccupato e
confuso insieme.
Lo odia
quello sguardo.
Lo odia da
morire.
E non si
accorge nemmeno di quando esattamente stringe la sua mano intorno al polso del
moro, e stringe parecchio quasi per obbligarlo a piegarsi verso di lui –
sfortuna vuole che sia debole per riuscirci, ma l’intento è ugualmente palese.
Si sente
urlare, sente la propria voce rabbiosa all’indirizzo di Gilbert.
Sente se
stesso pronunciare parole orribili, alle quali l’altro inizialmente sgrana gli
occhi, poi abbassa lo sguardo, poi si morde il labbro inferiore in quel tic
nervoso che ha sempre avuto fin da ragazzino.
Sente dolore
alla gola ad un certo punto, probabilmente è quando grida veramente troppo.
E Gilbert
ancora evita il suo sguardo.
E lui lo odia
ancora di più.
«Ohi, Oz.» colse quasi contemporaneamente a quando la
figura di Noah rientrò nel suo campo visivo.
Richiuse qualche istante gli occhi, intontito dal
sonno – e da Noah che lo smuoveva mettendo a dura prova la stabilità del suo
stomaco di prima mattina.
«Ho capito, mi sveglio, mi sveglio…» mormorò, pur di
mettere fine a quel movimento che a breve gli avrebbe fatto venire il mal di
mare nonostante fosse solo sul letto della propria stanza.
Sentì Noah ridacchiare, anche se gli parve di
cogliervi una sfumatura appena più nervosa del solito: «No, ma non siamo in
ritardo, è domenica.» lo rassicurò, lo sguardo ancora su di lui.
Oz aprì gli occhi in maniera definitiva, andando ad
osservare il compagno: effettivamente notò che indossava abiti da camera, un
paio di pantaloni semplici e un maglione che lasciava intravedere il colletto
di una camicia bianca.
«Ma se è domenica…» iniziò Oz, il resto intuibile,
tanto che il compagno lo precedette: «Avrei evitato di svegliarti, ma ti stavi
agitando di nuovo in quel modo un po’…» toccò a Noah lasciare in sospeso.
Si guardarono rimanendo in silenzio, entrambi consci
solo in parte di cosa l’altro volesse dire o stesse pensando.
Oz notava solo in quel momento che da almeno una
settimana quei sogni che gli avevano procurato l’insonnia sembravano aver
deciso di dargli un minimo di tregua; per contro, Noah sembrava impacciato un
po’ dal disagio dell’argomento – che era anche stato in qualche modo oggetto
del loro litigio – un po’ preoccupato per il fatto che quel sonno agitato fosse
ricominciato.
«Strano?» concluse infine Oz per lui.
Noah, sedendosi sul bordo del letto del compagno
scosse la testa: «Non proprio. Preoccupante, più che altro. E poi chiamavi dei
nomi nel sonno, e ho pensato che non era qualcosa di piacevole.» ammise lui.
Il biondo ne fu in parte perplesso: «Nomi?» domandò
infatti, ora con la massima attenzione alle parole dell’altro, che annuì.
«Ti avevo già sentito altre volte. Di solito nomini
tua sorella Ada per lo più.» rivelò, lasciando però intendere che stavolta era
stato diverso, almeno in parte: «Ma prima hai chiamato anche Gilbert Nightray.
E quasi urlato qualcosa che assolutamente non ho capito, ma eri parecchio
arrabbiato.» concluse.
Oz cercò di fare mente locale sul sogno che aveva
fatto: aveva ancora abbastanza chiara la rabbia a cui lo stesso Noah aveva
accennato, e anche la figura di Gilbert – quella di Ada un po’ più vaga a dir
la verità.
Ma gli sfuggiva cosa potesse aver urlato contro
Gilbert.
E non ebbe molto modo di concentrarsi per ricordarlo,
sentendo la mano presumibilmente di Noah che gli scompigliava energicamente i
capelli: alzando lo sguardo chiaro sull’amico, lo vide sorridere apertamente e
fargli l’occhiolino con fare complice.
Non poté non ricambiare, prima ancora che Noah
parlasse: dopotutto l’altro era stato il primo con cui aveva parlato, il primo
che gli si era rivolto da pari, senza preoccuparsi di niente di superfluo e
fidandosi solo di quanto Oz gli diceva.
«Non starti a preoccupare, so io cos’hai! Lo stomaco
reclama la colazione!» affermò con certezza.
Occhieggiando l’ora, Oz non poté dare torto al brontolio
che riempì la stanza scatenando poi l’ilarità di entrambi.
«Eccoli lì!» gli indicò Noah, puntando il dito in una
direzione precisa non appena lui ed Oz ebbero varcato la soglia della mensa.
Non era piena, specie non come il resto della
settimana: sia perché alcuni studenti partivano regolarmente per il week-end,
sia perché erano scesi ad un’ora più tarda rispetto a quella solita della
colazione.
Seguendo l’indicazione dell’amico, Oz individuò un
tavolo occupato, riconoscendovi la coppia che meno di tutte credeva potesse
interagire – o almeno, non in due e da soli. Non avevano proprio nulla da
dirsi, ecco perché.
Noah probabilmente pensò la stessa cosa, almeno a
giudicare dal ridacchiare sommesso che si lasciò sfuggire per poi iniziare a
dirigersi verso di loro: «Se non fosse che mi fido ciecamente di entrambi,
potrei anche ingelosirmi di un Marcus e una Alice che fanno romanticamente
colazione da soli.» osservò divertito, senza crederci nemmeno per un istante
che la situazione tra i due potesse anche solo vagamente definirsi “romantica”.
Oz gli pungolò il fianco con il gomito,
scherzosamente: «Lo sapevo che sotto sotto ti piaceva Alice e che eri un tipo
geloso.» disse falsamente serio, con l’aria di chi la sa lunga.
Noah lo fissò qualche istante, il ridacchiare che era
andato sfumando, lasciando il sorriso divertito sulle labbra: «Beh, sul fatto
della gelosia ci hai preso in pieno.» sottolineò con tutta la naturalezza del
mondo ed Oz si ritrovò a guardarlo sorpreso, mentre Noah lo occhieggiava con la
coda dell’occhio.
«Ovviamente, che resti fra noi. Marcus ha già troppi
punti di forza rispetto a me senza sapere che rasento davvero il ridicolo sul
livello di gelosia che ho nei suoi confronti.» si raccomandò, una mano che
istintivamente era andata a grattare distrattamente la nuca nell’ormai classico
gesto impacciato di quando Noah non era esattamente a suo agio.
Oz avrebbe volentieri insistito su quel punto per
stuzzicare un po’ l’amico – vendetta personale per delle prese in giro subite –
ma l’altro aumentò appena il passo verso il tavolo.
Lo vide circondare con le braccia le spalle di Marcus,
che dalla sua posizione non li aveva visti arrivare: in un gesto apparentemente
fraterno, o complice fra amici, Oz vi riconobbe quello che Noah gli aveva detto
– in maniera discutibile e con una spiegazione non degna di questo nome quale
“ah, oltre che mio fratellastro è anche il mio ragazzo”.
Si concesse un’ultima risatina divertita prima di
raggiungere il tavolo a sua volta.
«Buongiorno.» salutò sia Marcus che Alice, andando a
prendere posto vicino a quest’ultima, mentre Marcus si limitava a lanciargli
un’occhiata e poi un breve cenno del capo, tanto per dare ad intendere di
averlo visto e sentito.
Alice invece ricambiò il saluto a bocca piena, facendo
sorridere Oz mentre occhieggiava cosa il tavolo offriva quella mattina per
colazione.
Mentre ponderava se servirsi o meno delle uova, si
ritrovò a pensare che il concerto aveva avuto un lato positivo dopotutto, anche
se non sembrava – tant’è che nessuno vi aveva più accennato dalla sera
precedente.
Avrebbe dovuto ringraziare Noah e gli altri per
questo: alla fine dell’esibizione si erano ritrovati con un Gilbert che tornava
in stanza accompagnato da Vincent, lamentando un mal di testa piuttosto forte
tanto quanto improvviso.
Per contro lui non aveva particolari dolori fisici;
tuttavia, non si poteva nemmeno parlare di umore in maniera generica, tanto
questo era precipitosamente calato a picco: la canzone, basata sulla melodia di
Lacie, insieme al recente ritrovamento del diario del fratello, era stato
quello che molti tendevano a chiamare “mix letale”.
Non era stato in grado nemmeno di fingere più di tanto
che tutto andasse bene, ed aveva tenuto la mano di Alice meccanicamente,
proprio come si sarebbe fatto con la propria àncora di salvezza.
Senza alcuna malizia, senza curarsi di qualche vago
commento che era stato fatto da chi li aveva visti uscendo dall’aula magna in
cui si era tenuto il concerto – qualcuno comunque doveva aver guardato gli
interessati in maniera eloquente, perché Oz ricordava chiacchiere sommesse che
si erano spente in breve.
E lei, semplicemente, non aveva lasciato la sua mano
fino a quando non era stato lui ad allentare appena la presa: con gentilezza
tutta sua, comprensiva nonostante non avessero avuto modo di chiarire quella
discussione che avevano avuto.
Eppure adesso sembrava non ci fosse mai stata: come
se, senza reale bisogno di parlarne, Alice avesse capito; o, semplicemente,
avesse messo tutto da parte, colpita dal fatto che anche uno come Oz che
sorrideva sempre e si comportava come se non avesse un solo problema al mondo
potesse avere momenti come quello che c’era stato la sera prima.
Forse Alice aveva colto la fragilità meglio di tanti
altri; Oz si era quasi convinto del fatto che la sincerità della ragazza, a
volte forse un po’ rozza o fin troppo schietta, fosse riuscita quasi ad
influenzarlo, rendendo riconoscibili le sue bugie o i suoi falsi sorrisi.
Almeno alcuni, almeno per lei.
«…Per questo il nostro è un mondo difficile.» sentì
pronunciare di fronte a sé, ridestandosi dai suoi pensieri e puntando lo
sguardo su Noah di cui aveva riconosciuto la voce.
«Eh?» chiese perplesso, senza capire.
Noah lo fissò con l’aria saccente che ogni tanto
tirava fuori per atteggiarsi, anche se non era granché tipico di lui e lo
faceva solo quando voleva prenderlo amabilmente per i fondelli: «Niente, dicevo
una frase a casaccio. Tanto comunque non mi ascoltavi.» rivelò, tornando a
inforchettare la sua porzione di pancetta.
Oz lo fissò in modo piuttosto eloquente, ma
un’eventuale replica fu interrotta da un: «Testa d’alga, voglio mangiare in
pace.» da parte di Alice.
Deviando lo sguardo nella stessa direzione in cui era
indirizzato quello della castana, notò Gilbert – con l’aria di chi stava
seriamente ponderando di strozzare la propria cugina, alla faccia dei legami di
sangue – in piedi lì vicino al loro tavolo ora.
Lo guardò incuriosito dalla sua presenza lì, notandolo
peraltro sprovvisto anche lui della divisa: aveva l’aria un po’ stanca, ma
sembrava almeno ad occhio che il mal di testa della sera precedente fosse
quantomeno migliorato.
Il biondo gli rivolse quindi un sorriso, salutandolo
con un “buongiorno” al quale Gilbert replicò con un incurvarsi di labbra
leggero ma visibile.
«Più tardi e nel pomeriggio hai da fare?» domandò il
moro, senza girarci troppo intorno e con fare un po’ rigido: conoscendolo,
pensò Oz, probabilmente era dovuto al fatto di trovarsi davanti a persone con
le quali non aveva grande confidenza.
E per uno come Gilbert era una situazione piuttosto
seccante, in qualche modo, che lo portava costantemente a rimanere sulla
difensiva.
Oz scosse la testa: «No, visto che non abbiamo
lezione.» dichiarò, l’espressione incuriosita ancora presente sul suo viso.
Parve quasi intuire il disagio di Gilbert, riuscendo a trovarvi un motivo
quando il più grande riuscì ad articolare – guardando con grande interesse il
piatto della colazione di Noah, che era il più vicino – un: «Devo fare dei giri
in città, puoi venire?» appena borbottato.
Sorpreso dalla cosa – o forse più dal fatto che
Gilbert non lo avesse preso da parte per chiederglielo, conoscendolo – Oz
annuì, l’incurvarsi delle labbra che assumeva una connotazione divertita;
d’altronde, con tutto l’affetto che poteva avere per Gilbert, stuzzicarlo era stato
e rimaneva comunque uno dei suoi passatempi preferiti.
Nonché una fonte di divertimento non indifferente, a
suo avviso.
Così come era arrivato, con un leggero cenno agli
altri presenti – e ignorando Alice che stava iniziando a sbraitargli contro –
Gilbert si allontanò in favore dell’uscita, forse avendo già fatto colazione in
precedenza.
Seguì il silenzio, riempito solamente dalle
argomentazioni di Alice contro il cugino, che si conclusero con uno sguardo che
parlava da solo e che venne puntato su Oz.
Il quale si voltò verso di lei, sorridendole con
dolcezza e portando una mano a scompigliarle appena i capelli in un gesto da
fratello maggiore che ad Alice non aveva mai rivolto fino a quel momento: «So
che lo dici perché sei preoccupata per me, ma… Gilbert è il mio migliore amico
da tanti anni. Se ha bisogno di una mano, non posso dirgli di no. » spiegò,
osservandola.
«Però prometto di tornare per tempo, così ceniamo
tutti insieme, va bene?» domandò, la promessa nelle sue parole sincera.
Le arruffò giocosamente i capelli, rivolgendole un
sorriso gentile,
che aveva preso l’abitudine di riservarle sempre.
«Non preoccuparti Alice! Devo andare dal mio migliore
amico,
ma questo non significa che non tornerò più!
Prenderemo di nuovo il tea insieme, promesso.»
Era tornato altre volte.
Poi, all’improvviso, un giorno non era tornato più.
«Alice, ti sei arrabbiata?» sentì chiedere ad Oz, la
mano calda che ancora sostava sulla sua testa.
Arrossì appena, imbronciandosi… per poi mordergli con
un movimento veloce la mano, come avrebbe fatto un animale scontento
dell’atteggiamento del proprio padrone.
In una scena anche piuttosto comica, Oz ritirò la mano
con espressione dolorante lamentandosi del morso ricevuto, mentre Alice
indispettita voltava il viso dall’altra parte.
«Tsk, non prenderti certe libertà, schiavo!» lo
rimproverò, mentre Noah rideva divertito senza nemmeno far finta di essere
solidale col dolore dell’amico e Marcus assumeva un sorrisetto dalla sfumatura
simile a quella della risata del fratellastro – con la sola differenza che Noah
ti contagiava, Marcus sembrava semplicemente godere della forma dei denti di
Alice sulla mano di Oz, niente di più.
«Alice è cattivaaaa.» si lamentò il biondo, allungando
volutamente la vocale per enfatizzare la propria protesta riguardo il morso.
Alice invece si ripeteva che era giusto; si ripeteva
che non erano la stessa persona… no?
Dopo la colazione, che era durata un po’ più del normale
potendo prendersela comoda quella mattina, Oz era tornato in stanza – non prima
di aver mollato uno scappellotto più che giustificato a Noah.
Almeno il compagno di stanza avrebbe smesso – forse – di
trovare divertenti certe battutine idiote come quella che aveva sentito il
bisogno di esternare quando avevano quasi finito di mangiare.
«Ohi Oz, ci stavo pensando da qualche giorno.» aveva
esordito dopo un po’ che erano in silenzio Noah – ed Oz dopo avrebbe dato
ragione a quello che aveva sentito dire a Marcus una volta, ossia che Noah
Keynes quando pensava era il male –
fissandolo come se ci fosse qualcosa che gli sfuggiva, ma che a giudicare
dall’espressione seria per i suoi standard lo impensieriva abbastanza.
«…Sarà mica che esci con tutti e tre i Nightray?» se ne
era quindi uscito.
E sì, lo scappellotto si era abbattuto implacabile sulla
sua testa per mano di un Oz sportosi sopra il tavolo della colazione.
Ed ora si avviava verso l’ingresso dell’edificio
scolastico, venendo dal dormitorio dove era andato a cambiarsi per poi
incontrarsi con Gilbert: uscire non era un’idea malvagia.
In primis, non ricordava nemmeno più l’ultima volta che
era riuscito a fare una chiacchierata degna di quel nome con Gilbert: da quando
era a Latowidge, complici diverse lezioni e impegni, non c’era stato modo ad
eccezione di quando il più grande era andato a portargli da mangiare in camera.
Quanto a prima, beh… si erano praticamente ritrovati lì a
scuola, non c’era esattamente un “prima”.
Scosse la testa, lasciando rilassare i lineamenti del viso
per poi distendere le labbra un sorriso: per nessun motivo voleva rendere quell’uscita
qualcosa di deprimente, perciò aveva deciso che avrebbe tenuto lontano
qualsiasi pensiero negativo.
Il concerto, il diario chiuso nel cassetto del comodino,
Cheshire, Glen Baskerville, tutto.
Come se non ci fosse affatto. Almeno per un giorno.
«Gil!» chiamò il più grande quando lo individuò davanti al
portone designato come punto d’incontro: notò che anche lui si era volentieri
liberato della costrizione della divisa, optando per pantaloni scuri e
supponeva un maglione, invisibile sotto il cappotto nero che arrivava a metà
gamba.
Quando Gilbert alzò la mano in segno di saluto lasciando
intendere di averlo individuato a sua volta, Oz poté notare ormai a pochi passi
dall’amico che le mani erano coperte da guanti grigi.
Oz lo affiancò, rivolgendogli un sorriso entusiasta
probabilmente per l’uscita in procinto di cominciare; Gilbert ricambiò,
avviandosi verso il cortile e quindi il cancello che delineava il territorio
scolastico dividendolo dalla strada che portava in città.
Per una parte iniziale del tragitto tacquero entrambi, il
disagio lieve ma intuibile: un classico quando per molto tempo non si incontra
qualcuno e, benché quando ciò avviene si avrebbero mille cose da dire, si
mantiene un silenzio quasi di stallo.
Alla fine comunque, Oz era pur sempre Oz: non era proprio
da lui far cadere il silenzio e lasciare che aleggiasse troppo a lungo.
«Allora, dove andiamo?» lo incalzò con tono incuriosito,
osservandolo, l’espressione e il modo di fare come quello di un ragazzino che
si entusiasma per ogni piccola cosa – e magari al momento era, più o meno,
proprio così.
O almeno fu il pensiero che fece Gilbert portando gli
occhi dorati sul più giovane, notandolo col busto leggermente piegato in avanti
e le mani dietro la schiena, in quel suo tipico atteggiamento di innocente
curiosità di quand’erano bambini.
Dal cappotto marrone lungo come il proprio, si intravedeva
appena la sciarpa chiara attorno al collo; gli rivolse un sorriso, di quelli
gentili che erano in accordo soprattutto con il carattere del Gilbert che Oz
ricordava sempre a casa sua: «Vere e proprie commissioni, ne ho solo un paio.
Tu dove vorresti andare?» domandò, il tono calmo e rilassato, senza troppa
fretta.
Quasi a rifletterlo, i passi si susseguivano con andatura
moderata anche dopo averli condotti fuori dal cancello.
Oz spostò l’attenzione di fronte a sé, sulla strada,
portando un indice vicino al mento con fare pensoso: «Mh, vediamo…» mormorò
quindi, chiudendosi per qualche istante nel silenzio, facendo mente locale.
«Dolci. Voglio fare merenda con dei dolci.» iniziò quindi:
«E andare alla piazza! In mattinata c’è il mercato, vero? Ah, e poi voglio
passare in un negozio di cui mi ha parlato Alyster. Dice che ci sono un sacco
di spartiti anche per i principianti. E poi…» proseguì, suscitando un
ridacchiare divertito nell’altro.
Quando lo colse, fermò per un attimo quell’elenco che
sembrava non fosse finito ancora, osservando Gilbert interrogativamente: «Che
ho detto?» chiese infatti.
L’amico scosse la testa: «Sembri solo entusiasta come un
bambino.» lo prese bonariamente in giro; parole alle quali Oz gonfiò appena le
guance esibendosi in uno dei suoi bronci migliori.
Aumentò il passo, in un chiaro tentativo di mostrarsi
offeso – e, conseguentemente, mandare in crisi Gilbert come ai bei vecchi tempi.
Intento in cui riuscì in un batter d’occhio, neanche a
dirlo: il più grande lo aveva affiancato quasi subito con poche e brevi
falcate.
«O-Ohi.» lo aveva richiamato infatti, mentre ad Oz sorgeva
spontaneo un sorriso che non prometteva nulla di buono: «Sono offeso.» decretò
con falso tono che non ammetteva repliche di sorta.
Ciao, Gilbert, ben tornato nel terrorismo psicologico
firmato Oz Bezarius.
Ti era mancato, eh?
«Ma…» tentò di replicare Gilbert, la mano che si posò
sulla spalla del biondo con la chiara intenzione di fermarlo, senza però poter
finire la frase. Nel portare lo sguardo sull’amico, Oz aveva notato
l’espressione di Gilbert in quel momento, e nonostante i buoni propositi non
era proprio riuscito a non scoppiare a ridere appena voltato un angolo che
immetteva in una strada principale.
Cosa che, per ovvi motivi, aveva bloccato sul nascere
qualsiasi protesta a cui Gilbert volesse dare voce un attimo prima, lasciando
spazio dapprima alla confusione e in un secondo momento alla consapevolezza di
essere stato – di nuovo – fregato dalla stessa persona di sempre.
«Non è divertente!» ribatté infatti – già, si disse Oz,
rispetto al Gilbert di una volta questo sembrava perdere le staffe per le cose
stupide molto più facilmente e per contro avere maggiore sangue freddo laddove
una volta al massimo si sarebbe lasciato andare al pianto o alla fifa.
Ma questo non significava certo che il biondo lo trovasse
meno divertente, anzi.
Gli rivolse un sorrisetto infame, di falsa innocenza,
tipico di una volta: «Per me sì.» replicò con faccia tosta.
Gilbert parve indignato dalla cosa e lì lì per pronunciare
qualche protesta, ma Oz lo superò di qualche passo, voltandosi verso di lui e
proseguendo camminando all’indietro in modo tale da riuscire a vedere Gilbert
nel contempo.
«Arrenditi Gil, passeranno anni prima che io smetta di
divertirmi alle tue spalle.» gli consigliò canticchiando, come se poi fosse lui
quello che poteva permettersi di dargli quel consiglio.
Come se poi lo stress che Gilbert accumulava da bambino
non fosse in gran parte colpa proprio degli scherzi continui ad opera del
giovane Bezarius.
Toccò a Gilbert imbronciarsi – solo che nel suo caso
quell’espressione lo rendeva più che altro buffo, e di certo Oz non avrebbe
smesso di sfotterlo solo per quello – rinchiudendosi nel silenzio, forse
ostentando lui offesa ora.
Il biondo ridacchiò, tornando a camminare come si doveva,
dandogli di nuovo le spalle: avanzarono per diversi minuti per la strada, in
silenzio, forse l’uno seguendo l’altro.
Poi, finalmente, Oz parlò: «Era da un bel po’, eh?»
pronunciò, mantenendo lo sguardo davanti a sé, benché parlasse chiaramente con
l’altro; Gilbert inizialmente lo fissò senza capire, appena accigliato –
probabilmente ancora con una sfumatura di rancore per la presa in giro di
prima.
«Che non avevamo un battibecco così, sulle cose stupide.
Che ti offendevi, mentre mi divertivo alle tue spalle. È un po’ nostalgico,
vero?» continuò Oz, spiegando meglio cosa intendesse, forse cosciente che
altrimenti non sarebbe stato facile da capire.
Gilbert rilassò l’espressione, forse solo un po’ stupito:
Oz non era mai stato tipo da fossilizzarsi su ricordi nostalgici. Per sua
stessa ammissione una delle ultime volte che avevano parlato, lui incarnava
quel tipo di ragazzino che quasi gioca a fare l’adulto. Sosteneva lui stesso
che voleva vivere come venivano le cose, così, che si sarebbe limitato
all’accettazione.
Non tanto per passività, quanto perché – come lui stesso
aveva detto a Gilbert – una volta che qualcosa è successo, aveva pronunciato,
anche opponendosi nessuno ti darà qualcosa per tornare indietro nel tempo e
cambiare l’accaduto, no?
Perciò, memore di quelle parole, non poteva non stupirsi
almeno un poco per quel modo di fare che aveva assunto ultimamente il biondo.
Legato al passato e ai ricordi ad esso collegati.
Come se…
«Ehi, che fai?» lo interrogò Oz con un sorrisetto
divertito – non ne era certo Gilbert, ma a lui parve anche forzato – quando il
più grande lo affiancò insinuando appena le dita fra i capelli biondi, scompigliandoglieli.
Guardando altrove e con tono burbero, l’unica spiegazione
che Gilbert gli fornì fu un: «È colpa tua, che parli come se dovessi andartene
via domani e questa fosse l’ultima volta che riusciamo a parlare.» gli fece
notare, sottolineando forse volutamente una nota seccata in merito a
quell’ipotesi.
Oz lo guardò stupito, anche se durò poco; sostituì subito
quell’espressione ad una sorridente, grata – di nuovo, notò Gilbert,
ritraendo la mano.
E quasi contemporaneamente al suo riportarla al
proprio fianco, Oz vi si aggrappò scherzosamente:«Gil ha imparato
a fare il figo ~» lo
prese in giro, neanche a dirlo, osservando con una certa soddisfazione mentre
un lieve rossore gli imporporava le guance di Gilbert e questi spostava lo
sguardo verso un negozio a caso, borbottando qualcosa di incomprensibile.
Portò la mano a coprire la bocca, momentaneamente
impegnata in uno sbadiglio da record: non si smentiva mai, ogni volta che
mangiava troppo, irrimediabilmente finiva con l’essere intontito almeno per la mezz’ora
successiva. Per quello, e per la camminata fatta nella mattinata per il
mercato, sostavano ora in piazza, approfittando dell’aria non troppo gelida
considerando che erano ormai in pieno inverno.
Delle due commissioni che Gilbert aveva da fare – mandare
una lettera a casa Nightray e ritirare un paio di libri ordinati tempo addietro
– avevano provveduto ad entrambe prima di avventurarsi nel mercato dal quale
erano usciti solo quando la fame si era fatta sentire.
L’entusiasmo di Oz era stato contagioso fin
dall’inizio e dopotutto, proprio come lui, anche Gilbert non aveva avuto molte
occasioni di andare ad un mercato.
Forse l’unica eccezione risaliva a quando faceva parte
della servitù di casa Bezarius, ma per il resto le sue possibilità in quel
senso erano cessate nel momento in cui era ufficialmente diventato un Nightray,
facendo sì che il mercato di città diventasse un luogo non consono a lui – a
detta del Duca Nightray, quantomeno.
C’era da aggiungere poi che Oz aveva mantenuto fede a
quanto detto quando, recandosi a ritirare i libri, erano passati davanti alle
bancarelle all’inizio del mercato: «Ora che ci penso, siamo vicino a Natale
quasi, dovrei iniziare a fare i regali.» aveva osservato.
E le buste contenenti pacchetti ora ai piedi del
biondo parlavano per lui.
«Quanti te ne mancano ancora?» domandò Gilbert,
accennando alle suddette buste con l’aria di chi sì, festeggia il Natale, ma
non concepisce né il perché di tanti regali, né soprattutto l’entusiasmo
dell’andare a farli col risultato di girare per ore nei negozi – e
conseguentemente farsi saltare i nervi.
Forse lui era di parte perché non sapeva mai dove
mettere le mani, quindi meno regali aveva da fare e meglio era.
«Vediamo…» soppesò Oz: «Ho trovato già qualcosa per
Alice e Noah, quindi con loro sono a posto.» iniziò, facendo mente locale.
«Per Ada so cosa prendere, poi ci passerà un altro
giorno. Avevo una mezza idea di un regalo a Marcus, ma la sensazione che me lo
tirerebbe dietro mi fa desistere.» ammise con un ridacchiare leggero e divertito,
mentre Gilbert aveva la visione di un Marcus Wellesday che lanciava pacchi
regalo dietro un Oz in fuga.
«Per Aedan non ho un’idea neanche vaga.» rivelò con un
sospiro quasi teatrale; Gilbert alzò un sopracciglio perplesso: «Aedan? Intendi
Shaye, quello che sta sempre con Sparrow o che lavora con Sirjan?» domandò.
Oz annuì, e nello stesso momento si rese conto che
agli occhi di Gilbert doveva essere nuova quanto strana l’immagine del più
giovane amico di Aedan al punto da fargli un regalo di Natale.
Il biondo abbozzò un sorrisetto: «Mi ha dato una mano
ad ambientarmi all’inizio. E… con i compiti per recuperare il programma.»
spiegò – e non era una bugia, se per “ambientarmi” si intendeva un Aedan che
quasi gli ordinava di andare ad incontrare Sirjan, e se con “compiti” si
implicava cercare di sopravvivere alle stranezze di cui Latowidge sembrava
essere piena zeppa.
In quel caso sì, Aedan era stato quasi vitale, ma questo a Gilbert avrebbe
evitato di spiegarlo.
«Quindi in realtà,» riprese Oz «si tratta più di un
pensiero che non di un regalo vero e proprio. Ma non ho idee lo stesso, non so
cosa gli piace e cosa no.» concluse, e dopo poco parve abbandonare il tentativo
di pensare a qualcosa e scegliere la via del “aspetterò con ansia che
l’ispirazione scenda su di me come un velo divino”.
«A parte Aedan poi hai finito?» chiese Gilbert,
occhieggiando i pacchetti troppo numerosi perché fossero solo quelli di Alice e
Noah.
Oz sorrise furbo, scuotendo la testa: «No, ho già
fatto anche per Alyster e Sirjan. Ma mi manca il tuo ovviamente, non posso
fartelo se siamo insieme.» gli fece notare, divertito dallo scostare lo sguardo
altrove di Gilbert, accompagnato da un burbero quanto scontato «Non c’è
bisogno.»
«Quando andrò a prendere il regalo ad Ada» riprese Oz:
«prenderò anche quello per Jack. Poi avrò finito.» aggiunse.
Calò un silenzio in cui Gilbert non volle e
probabilmente non ebbe nemmeno il coraggio di chiedere nulla, anche se una
domanda – o forse era da definirsi semplicemente pensiero – gli era venuta quasi
spontanea.
Chissà da
quanto tempo Oz a Natale portava un pacchetto che nessuno avrebbe mai scartato
su una tomba.
Nessuno dei due provò a sbloccare quella situazione di
stallo creatasi come la mattina, quando si erano incontrati per recarsi in
città: Oz dondolava infantilmente i piedi avanti e indietro, colpendo appena di
tanto in tanto il bordo della fontana dove erano seduti con il tacco delle
scarpe.
Gilbert, invece, guardava semplicemente di fronte a
sé.
«Lavoro davvero troppo, addirittura ho le allucinazioni
e vedo le sgradevoli facce dei miei studenti anche quando sono lontano da loro ♪» sentirono pronunciare e
sebbene il tono canticchiato e le parole decisamente sgarbate non lasciassero
troppi dubbi su chi fosse ad aver parlato, si voltarono entrambi a cercare la
figura in questione.
Nel caso di Gilbert, probabilmente si rifiutava psicologicamente
di credere di aver indovinato di chi si trattasse.
Tuttavia era chiaro che il Destino non amava il
maggiore dei Nightray: fu ovvio quando sia lui che Oz videro Xerxes Break
avanzare in loro direzione.
Con accanto Rufus Barma, che aveva la stessa
espressione di chi si chiedeva – di nuovo – perché Dio lo stesse punendo in
questo modo, con un collega come Break appeso infantilmente e come una
ragazzina al suo braccio.
«Ti do un indizio Xerxes: li vedo anche io, e non ho
mai sofferto di allucinazioni.» gli fece presente, il tono ironico, mentre a
sua volta portava lo sguardo su i due studenti.
Oz li fissò entrambi di rimando, rivolgendogli il
sorrisetto strafottente già sfoggiato una volta sia con l’uno che con l’altro:
«Non è carino sentir dire da un professore che le facce dei suoi studenti gli
risultano sgradevoli.» osservò casualmente, senza alzarsi, Gilbert al suo
fianco che sospirava.
Sapeva per esperienza che con Xerxes non c’era
speranza: se lo ignoravi, non ti mollava.
Se lo provocavi, nemmeno.
In sostanza, fin quando si sarebbe divertito, era
probabile che il docente non li avrebbe lasciati stare – salvo che tentassero
la fuga con qualche scusa, ma Gilbert non avrebbe mai messo la mano sul fuoco
in merito ad un loro successo.
«Oh, oh, signor Bezarius, che cattivo.» commentò
falsamente toccato dalle parole del biondo: «Ma in fondo lei mi tratta male,
quindi la parola “sgradevole” si adatta abbastanza, giusto?» canticchiò, mentre
lo stesso Gilbert notava Barma alzare gli occhi al cielo.
Forse era quella la loro speranza: se anche Barma non
aveva alcuna intenzione di stare lì a far divertire il lato infantile di Break,
avrebbero potuto sfruttarlo per defilarsi – e Gilbert non aveva dubbi sul fatto
che Barma avrebbe gradito passare oltre fingendo di non averli visti. Di certo
non era, fra gli appartenenti al corpo docente, quello che amava gli studenti
più di tutti al punto da passarci un pomeriggio insieme.
Proprio no.
Dunque Gilbert si alzò, spostando l’attenzione su
Break per qualche breve istante, portandola poi definitivamente su Oz: «Abbiamo
ancora qualche commissione da svolgere. Con permesso.» si rivolse educatamente
come da prassi ad entrambi i professori, le parole che chiaramente suggerivano
al biondo di prendere le sue buste e andarsene con lui senza fare troppe
domande.
Sorprendentemente, Break non disse nulla per
trattenerli; anzi, si voltò verso Rufus, l’espressione divertita – sadicamente
divertita – dando poi voce ad uno smielato: «Rufus, non sei commosso? Il signor
Nightray è cresciuto, ora cerca di restare da solo con la sua dolce metà, non
ti fa tenerezza? ♥»
insinuò, guardando quindi Gilbert con gli occhi amorevoli di una madre – e
c’era da capire cosa fosse più inquietante.
Se Break con uno sguardo amorevole nei suoi confronti,
o il fatto che il suddetto sguardo fosse quello di una madre anziché quello di
un padre.
In ogni caso, l’effetto fu immediato: Gilbert divenne
indiscutibilmente paonazzo, balbettando qualcosa di indistinto che fu coperto
dalle parole di Rufus – dopo un colpo che casualmente aveva incontrato la testa
di Break, che era ora occupato ad imbronciarsi comunicando il suo “dolore per
la freddezza di Rufy” ad Emily.
«Buon proseguimento.» fu il suo congedo rivolto ai due
studenti prima di dargli le spalle e portarsi dietro anche Break.
Oz agitò la mano come un bambino in segno di saluto –
non aveva certo dimenticato il colloquio con Rufus Barma e quanto ne era
conseguito, ma non voleva dare a Gilbert motivo di preoccuparsi inutilmente.
«Piuttosto» prese il discorso: «pensavo che Xerxes e
Barma si odiassero. Almeno dall’ultima volta che li ho visti insieme in mensa,
e poi Barma sembra mal sopportare un po’ tutti. Non pensavo andassero insieme
in città.» ammise, incuriosito dalla cosa.
Gilbert, il rossore ancora in parte visibile e una
mano portata dietro la nuca in un meccanico gesto di disagio, commentò
istintivamente: «Probabilmente le voci che circolano sul fatto che stanno
insieme sono vere.» disse.
Oz divenne la personificazione della sorpresa: «Eh?!»
esclamò, fissando Gilbert, il quale al momento si stava probabilmente
maledicendo per l’indiscrezione.
«Così dicono, ma non so niente di preciso. Xerxes non
è molto discreto, comunque.» commentò, riferendosi al docente appeso al braccio
di Barma senza preoccuparsi troppo di cosa la gente potesse pensare della cosa
– anche se era comprensibile: Break sembrava a malapena preoccuparsi di se
stesso, quindi…
«Però» obiettò Oz pensandoci su: «Barma non sembra
amante delle indiscrezioni.» osservò, vedendo Gilbert annuire. Anche se,
dovette ammettere il biondo, era pur vero che per quanto infastidito, Rufus non
se lo era scrollato di dosso nemmeno in loro presenza.
O si era arreso o, a conti fatti, non lo faceva per
scelta.
«Strano comunque che tu lo senta da me per la prima
volta.» sentì dire al più grande, voltandosi verso di lui con espressione
interrogativa: «È quasi in cima alla lista di pettegolezzi che fanno le ragazze
della nostra scuola.» chiarì poi, con l’aria di chi da quei pettegolezzi
cercava di tenersene lontano il più possibile – e che probabilmente ne era
toccato in prima persona in qualche modo.
Oz sorrise in un modo che a Gilbert ricordava fin
troppo bene l’infanzia e cose come essere appeso casualmente ad un albero o
simili: «Che c’è?» domandò infatti sulla difensiva.
Oz si avvicinò a lui di qualche passo.
«Cosa dicono su di te, Gil?» domandò infatti; Gilbert
si ritrasse nemmeno il biondo lo avesse minacciato con qualche arma, dopodiché
gli aveva dato le spalle allontanandosi con un: «Proprio un bel niente.»
«Eddaaaai, dimmelo Gil!» lo pregò Oz ridacchiando,
seguendolo mantenendosi di proposito qualche passo dietro di lui.
L’altro lo ignorò in maniera piuttosto palese, non
facendo altro se non accrescere i sospetti del più giovane; si erano
allontanati un po’ dalla piazza, e complice l’orario successivo al pranzo le
vie risultavano meno affollate, al contrario dei ristoranti in cui gli era
capitato di gettare un’occhiata attraverso i vetri che davano sulle strade.
Oz aumentò un po’ il passo, affiancando Gilbert: «E va
bene, non dirmelo, ma smetti di fare l’offeso.» lo riprese bonariamente,
sbirciando il viso dell’altro.
Sembrava più vicino all’esasperazione tipica di quando
veniva preso in giro che non seccatura o offesa vere e proprie.
Oz tacque, vedendolo sospirare e rilassarsi appena –
segno che aveva imparato a riconoscere, anche se quando erano ancora a casa
Bezarius per lui era sinonimo di “Gil sta abbassando la guardia” e quindi che
sì, stava per averla vinta di nuovo.
«Uffaaa» si lamentò il biondo: «lascia perdere quello
che dice Xerxes.» lo riprese Oz, come se i ruoli sul maggiore e il minore d’età
fossero invertiti.
Portò entrambe le braccia ad incrociarsi dietro la
testa, continuando a camminare: «Tanto che Gil non mi ama nel profondo lo
sappiamo tutti.» aggiunse in falso tono melodrammatico, fermandosi poi notando
che Gilbert era rimasto indietro di qualche passo lasciando che Oz lo
superasse.
Sempre nella stessa posizione, si voltò verso di lui,
notando che stava immobile, gli occhi non proprio visibili a causa della
frangia: «Gil?» lo chiamò, perplesso.
Quando il moro alzò lo sguardo puntandolo su di lui,
Oz vide sul suo viso un’espressione che non vi aveva mai scorto prima di
allora: era arrabbiata, frustrata.
Da cosa, non lo capiva, ma non ci fu davvero bisogno
di fargli domande.
«Non hai alcun diritto di rimproverarmi una cosa
simile!» gli sbottò contro, così improvvisamente e in maniera talmente diversa
dal suo solito modo di fare, che Oz istintivamente si ritrovò a sciogliere la
posizione delle braccia e portarle lentamente ai propri fianchi senza quasi
accorgersene, incapace di distogliere lo sguardo dall’altro.
«Non dirlo mai più!» aggiunse Gilbert, senza calmare
quel tono che dell’impronta placida e gentile di sempre non aveva nulla al
momento; se solo non fosse stata immotivata ai suoi occhi in quel momento, Oz
avrebbe potuto azzardare di scorgervi ansia per qualcosa che non riusciva
proprio ad identificare.
Non si spostò nemmeno quando sentì le mani di Gilbert
stringere la presa sulle sue spalle, il viso più vicino senza che il biondo si
fosse accorto dell’avanzare dell’altro verso di lui: «Non me ne sono andato per
mia volontà quella volta. Ho continuato a tornare in quella casa, sempre,
continuamente, ogni volta che potevo. Non era solo per Jack, maledizione, era
anche per te!» parlò, e lo faceva palesemente senza pensare troppo, incapace in
quel momento di dosare le parole e le cose da dire come invece era solitamente
tipico di lui.
«Quando ho saputo della morte di Jack… sarei voluto
tornare per rimanere, ma non potevo più. Ma questonon significa che io non mi sia preoccupato! E da quando sono a
Latowidge, sapere di te solo da Ada, perché eri ancora chiuso in quella casa…
Non sai niente di cosa ho pensato quando ti ho trovato nell’atrio di quella scuola!
Non sapevo nemmeno che pensare, pensavo che… in tutti gli anni che sono passati
pensavo che tu fossi stato completamente sommerso dalla morte di Jack.» rivelò,
la stretta che si faceva ancora più forte sulle spalle di Oz.
Il biondo chiuse appena un occhio, per riflesso,
sentendo un leggero dolore dovuto proprio alla forza che Gilbert stava mettendo
nella presa.
Ma il moro non l’allentò comunque, quasi non avesse
colto quel cambiamento nell’espressione del più giovane.
«Tu invece… sembrava che stessi bene.» commentò,
abbassando il tono, l’espressione che mutava in una mesta mista ad una
sfumatura di rabbia ancora presente.
«Tu sorridevi. Proprio come quando ero ancora il tuo
servitore.» pronunciò, e ad Oz per un attimo parve un’accusa, pur sapendo razionalmente
che non lo era davvero.
«Ho pensato che non sapevo più nemmeno chi avevo
davanti. Avevo immaginato di tutto ma non che tu fossi in grado di sorridere
come se non fosse successo nulla. E ho capito che probabilmente stavi mentendo
e mi ha fatto rabbia.» quasi ringhiò l’ultima parola: «Sembra che tu non riesca
a fidarti di nessuno, né di chi conoscevi prima, né di conosci da quando sei a
Latowidge. Anzi.» si interruppe un attimo, fissandolo per qualche istante e
abbassando lo sguardo deviandolo dal viso del biondo sul quale era stato
puntato per il resto del tempo.
«Sembra che tu non riesca a fidarti soprattutto
delle persone che ti conoscono da prima.»
«Smettila.» pronunciò Oz, fermando qualsiasi possibile
aggiunta da parte dell’altro. Le braccia ora abbandonate lungo i fianchi, lo
sguardo fisso a terra, l’espressione seria: «Di cosa mi stai accusando?»
mormorò piano.
Forse a quelle parole Gilbert si ridestò da qualsiasi
stato lo avesse portato a parlare a quel modo quando in casi normalinon lo avrebbe fatto.
O, semplicemente, si rese conto di quel qualcosa che
già una volta, in passato, gli aveva suggerito di tacere anche quando i dubbi e
le paure erano tanti.
Il cuore di mio
fratello,
è qualcosa che non
riesco più a capire,
aveva detto Ada:
tuttavia so che se
cercassi di osservarlo,
sicuramente finirei
per tradirlo.
Per questo lascio
che si mostri
solamente quando lo
lascia intravedere.
Ma anche lui, Gilbert, non era più quello di allora.
Quello che in un momento simile si sarebbe scusato,
prendendosi anche le colpe non sue oltre che le proprie.
Egoisticamente non avrebbe voluto lasciar scappare Oz da
quella conversazione ora che aveva avuto l’occasione di parlarne – anche se
aveva sempre pensato di farlo in maniera più pacifica e meno opprimente per il
biondo.
Tuttavia era egoista forse, ma non stupido.
Sospirò, senza dire nulla, allentando anche la presa sulle
spalle di Oz; una mano si allontanò, tornando al proprio fianco, immobile.
L’altra invece andò dietro le spalle dell’altro, attirandolo a sé, insinuandosi
poi fra i capelli biondi sulla nuca.
Un abbraccio indubbiamente goffo, neanche a dirlo.
«Ti sto accusando di essere stupido.» replicò burbero:
«Non sono più un bambino. Sono in grado di addossarmi i problemi delle persone
che mi stanno a cuore.»
Forse più tardi Oz lo avrebbe preso in giro per
quell’atteggiamento, ma tutto sommato sarebbe andato bene comunque.
Alice sospirò annoiata, fissando per la quarta volta
la stessa riga del libro che aveva davanti.
Noah, di fronte, la spiò di sottecchi ma non commentò:
non aveva avuto il minimo dubbio nemmeno per un attimo sul fatto che Alice si
sarebbe annoiata a fargli compagnia mentre studiava – lui stesso che avrebbe
dovuto essere concentrato stava per addormentarsi, quindi…
Tuttavia quando la ragazza gli aveva chiesto di sua
sponte di fargli compagnia non si era sentito certo di dirle di no: in primis,
l’apprezzava. Alice era una persona che gli era simpatica, e alcuni suoi
atteggiamenti lo divertivano.
Sembrava un po’ una bambina, o così aveva notato
quando si era soffermato ad osservarla, specie quando era con Oz; inoltre, era
convinto che la richiesta fosse stata dovuta anche all’assenza del compagno di
stanza in questione.
«Vuoi che facciamo una pausa?» le chiese quindi
gentilmente, alzando lo sguardo dal libro e incontrando in breve quello di lei.
Alice lo fissò: «Hai finito?»
«Macché.» commentò lui, stiracchiandosi con ben poca
eleganza allungandosi sulla sedia. La sentì sbuffare e ridacchiò appena: «Se
vuoi possiamo fare davvero una pausa comunque. Servirebbe anche a me.» ammise,
occhieggiando il libro di matematica quasi schifato.
Vide Alice alzarsi e sistemarsi appena la divisa con
gesti veloci e meccanici: «Vado in mensa, ti porto quello che trovo.» borbottò
burbera e un po’ scontrosa.
Tuttavia Noah non riuscì proprio a prendersela per
quello, avendo imparato quantomeno a riconoscere i rari sprazzi di gentilezza
gratuita di Alice; si limitò quindi a sorriderle annuendo, tornando poi agli
esercizi.
Lei bofonchiò qualcosa, uscendo nel corridoio e
avviandosi verso la mensa.
O così avrebbe voluto fare, se solo voltando il primo
angolo diretta alle scale qualcuno non l’avesse chiamata; si voltò, cercando la
fonte della voce nel corridoio e trovandolo vuoto.
Inarcò un sopracciglio, perplessa, facendo per
voltarsi e proseguire.
Alice!
Tornò a guardare dalla parte opposta a quella verso
cui si stava dirigendo, l’aria palesemente infastidita: di nuovo, il corridoio
sembrava deserto.
Chiunque fosse, non era affatto divertente.
Alice! Alice,
vieni!
Non era razionale, ma muovere nuovi passi in direzione
della voce fu del tutto istintivo.
Destra, scale, sinistra; il nome che riecheggiava nel
completo silenzio.
Almeno fin quando, così com’era apparso dal nulla,
scomparve inghiottito dalla calma del corridoio quando era praticamente a metà;
osservò lo spazio confusa.
Colse una risata, dietro di sé: vicina, divertita dal
suo smarrimento. Lo avvertiva chiaramente come se fosse stata lei stessa a
ridere a quel modo.
Si voltò di scatto, quasi convinta che come poco prima
non vi avrebbe trovato nulla: invece si stupì di avere una figura così vicina.
Un abito bianco, capelli chiarissimi tanto da sembrare del medesimo colore
della stoffa.
Un vestito elaborato, il cui unico colore era una
fiore rosso al petto.
Un sorriso di insano e immotivato divertimento, e un
viso perfettamente identico al proprio; sgranò gli occhi sorpresa, non
potendolo evitare, muovendo qualche passo indietro.
«Chi sei?!» la interrogò nell’immediato, sulla
difensiva.
L’altra rise per quella reazione: «Dicono che si
soffre, quando le persone amate non ci riconoscono. A me però viene da ridere,
in questo caso.» osservò, beffarda.
Alice la guardò male: «Perché dovrei riconoscerti se
non ti ho mai vista prima?!» sbottò, senza staccarle gli occhi di dosso.
La vide portare con un gesto elegante la mano a
coprire la bocca, ridendo in maniera udibile: «Bugiarda, bugiarda!» esclamò,
girando con grazia su se stessa come se ballasse.
Scomparve alla sua vista, ed Alice capì dov’era solo
quando ne colse la voce di nuovo alle proprie spalle: «Alice è un bugiarda…»
sussurrò.
«Non ti sei mai riflessa nell’acqua, Alice?» la
interrogò, un mormorio basso vicino all’orecchio dell’altra. La castana fece
per spintonarla via, ma era già sparita per tornare al suo posto di fronte a
lei, dov’era prima.
«Non ti guardi mai allo specchio, Alice?» domandò
ancora, osservandola con l’aria divertita di chi conosce la risposta e trova un
passatempo di tutto rispetto prendersi gioco dello smarrimento e della
confusione altrui finché anche gli altri non arrivano alla medesima soluzione.
Si avvicinò, i passi lenti: «Ti sei dimenticata di me,
sei cattiva.» si lamentò infantilmente «E dire che io non mi sono mai
dimenticata di te. Ho ricordato io, per te.» sussurrò quasi a volerla mettere
al corrente senza essere udita da orecchie indiscrete e, al tempo stesso,
insinuarle il dubbio e il senso di colpa.
Alice si accigliò, ringhiandole quasi contro un: «Tu
cosa ne sai, dei miei ricordi?»
La vide muoversi con passetti più piccoli, in un ritmo
che probabilmente rispecchiava una melodia presente solo nella sua testa,
perché non erano movimenti prevedibili come dei normali passi.
La notò girare ancora una volta su se stessa,
iniziando a spazientirsi del tutto: «Sto parlando con te!» tuonò contro di lei;
e lei rise, sparendo per l’ennesima volta alla sua vista.
«Io so tutto di te. So quello che ricordi e quello che
hai dimenticato. Quello che hai voluto, e quello che hai rifiutato. So chi hai
amato, chi hai odiato, chi ami ora e chi odi ora.» sussurrò alle sue spalle,
una mano che le aveva cinto la vita e l’altra che era salita a prenderle il
mento.
Non c’era niente di sensuale in quel movimento, né
malizia: era solo qualcosa di inquietante, paragonabile ad un animale che
striscia e si insinua persino negli abiti.
Come quel tono che penetrava fin dentro le ossa e la
testa, in ogni fibra del corpo, lasciando dietro di sé un senso di paura e
disgusto.
«So anche chi è colpevole e chi innocente. Ricordo
ogni lacrima che hai versato. Io di te conosco tutto Alice, e tu una volta
conoscevi tutto di me. Non vuoi che te lo dica?» chiese poi, lasciando in
sospeso per qualche istante.
«Non vuoi che ti dica chi era per te Jack Bezarius?»
sussurrò, una provocazione.
O una tentazione, forse.
La castana diede uno strattone, liberandosi della
presa senza incontrare poi molta resistenza; la fissò con un misto di
sentimenti nello sguardo, alcuni anche in forte contrasto fra loro.
A giudicare dal sorrisetto soddisfatto che l’altra le
rivolse, comunque, doveva esserci anche ciò che si era prefissata di scatenare
in Alice.
Le bastò un solo passo per esserle vicina abbastanza
da dover solo allungare la mano per sfiorarle una guancia: «Io posso dirtelo se
vuoi. Perché io e te siamo la stessa persona.» confermò infine quanto,
guardandola, poteva essere il sospetto più fondato di tutti.
Alice, l’espressione fra l’offeso e l’indignato,
allontanò la mano con uno schiaffo, osservando la figura davanti a sé sparire
lentamente.
Abbassò lo sguardo per qualche istante, prima di voltarsi
e tornare sui suoi passi, allontanandosi di corsa da quel corridoio per andare
a rifugiarsi nella sua stanza, dimentica anche di Noah che l’aspettava in
biblioteca.
Scese velocemente le scale da cui era venuta, sparendo
a sua volta.
Dopo le parole che gli aveva rivolto, all’inizio era
stato difficile sperare di non dover rientrare in dormitorio in breve per la
situazione creatasi.
Invece, malgrado tutto e benché avessero passato un
buona parte del tragitto fino al bar nel completo silenzio limitandosi a
camminare l’uno di fianco all’altro, Oz si era dimostrato contento di
continuare l’uscita come doveva essere all’inizio.
Certo, un velo di qualcosa che ora quantomeno lo
impensieriva era presente, com’era ovvio che fosse, ma non era stato nulla che
non potesse almeno essere messo in secondo piano parlando degli argomenti più
disparati, come l’esame in più di storia che Oz avrebbe dovuto sostenere per
testare di aver effettivamente recuperato la parte di programma in cui aveva
manifestato lacune a causa del trasferimento al secondo anno.
Dopo la tanto agognata merenda al bar avevano fatto
qualche giro vago, decidendosi comunque a rientrare abbastanza presto sia per
il buio che con l’inverno calava molto prima, sia perché l’aria aveva iniziato
a rinfrescarsi al punto da giustificare a breve la neve che certamente
avrebbero avuto in occasione del Natale.
Avevano varcato la soglia del cancello di Latowidge, e
percorso il sentiero che conduceva all’edificio che ospitava la mensa,
desiderosi entrambi di rifugiarsi nel calore accogliente della sala che
sicuramente sarebbe stata già riempita dal chiacchiericcio di alcuni studenti.
Ebbero conferma quando entrarono in mensa, notando già
parecchi tavoli occupati; Gilbert vide Vincent fargli cenno dal tavolo dove di
solito mangiavano, notando con lui anche Elliot, Reo ed Echo.
Augurò quindi una buona cena ad Oz, abbozzando un
sorriso lieve anche a mo’ di scusa, accennando a sua volta ai fratelli al
tavolo.
A quel punto, Oz si mosse automaticamente verso il
tavolo dove entrando aveva notato Noah e Marcus; dopo aver preso la propria
cena ed essersi seduto da un po’, chiese di Alice che non si era ancora fatta
vedere.
Noah gli spiegò quindi che nel pomeriggio avevano
studiato in biblioteca e che lei si era allontanata dicendo che sarebbe passata
dalla mensa e poi tornata, specificando che non vedendola arrivare era andato
prima lì in sala e poi nel dormitorio femminile dove aveva chiesto di lei ad
una ragazza che gli aveva aperto – dal momento che l’ingresso nel dormitorio opposto
al proprio era severamente vietato.
La ragazza si era assentata il tempo necessario
probabilmente ad andare e tornare dalla stanza della castana: quando gli aveva
di nuovo aperto, aveva detto che Lewis lamentava di non sentirsi troppo bene e
che non sarebbe scesa.
«Strano» commentò però Noah: «non sembrava stare male.
Che abbia mangiato troppo quando è scesa da sola?» ponderò abbastanza
ingenuamente forse.
Oz si disse preoccupato, tuttavia convennero insieme
che non sarebbe stato possibile né di grande utilità passare dal dormitorio
femminile per chiedere altro; specie considerando che in ogni caso
difficilmente avrebbero potuto parlare a quattr’occhi.
Mangiarono quindi con calma, parlando del più e del
meno, lasciando che ad un certo punto la conversazione si soffermasse
sull’incontro tra genitori e insegnanti del giorno seguente.
«Il mio vecchio è a dir poco esaltato. E non so se è
un bene.» commentò Noah pensoso, salvo l’impietoso commento di Marcus: «Non è
un bene nemmeno se preghi perché lo sia di fronte a una stella cadente e lo
ripeti per dieci volte di seguito anziché tre.»
Oz lo trovò a suo modo divertente – nulla di vagamente
simile al rassicurante, ma spiritoso almeno sì.
Osservò pigramente Noah e Marcus battibeccare – più il
primo con se stesso che non con la partecipazione attiva di Marcus – finché
quest’ultimo non decretò con tutta la tranquillità del mondo che sì, lui stava
andando a dormire e no, nulla lo avrebbe separato dalla calma della sua stanza.
Oz annuì, augurandogli la buonanotte, processo che
ripeté quando vide Noah seguirlo quasi subito.
Solo, il compagno di stanza attese che Marcus fosse
abbastanza lontano per chinarsi sul tavolo verso di Oz: «Non far caso al suo
cattivo umore. È per l’incontro di domani. Non ama mio padre, ma in confronto a
come tiene in considerazione sua madre si può dire che abbia un’adorazione per
il mio vecchio.» disse, lasciando ad intendere senza difficoltà che tipo di
rapporto potessero avere Marcus e sua madre.
Oz fece appena in tempo a vedere il compagno di stanza
sparire fuori dalla mensa – non
aspettarmi, stasera mi fermo da Marcus, aveva detto – che si sentì
picchiettare appena sulla spalla.
Voltandosi, si ritrovò a guardare Vincent.
Abbozzò istintivamente un sorriso leggero: «Ciao.»
pronunciò, vedendo l’altro ricambiare con espressione cordiale.
«Ciao, finito di mangiare?» chiese il più grande,
aspettando la sua risposta piuttosto che sbirciare direttamente il piatto
dell’altro. Oz annuì, dando un’occhiata piuttosto fugace al tavolo verso il
quale aveva visto Gilbert dirigersi quando erano entrati lì, e notandolo vuoto.
Probabilmente gli altri avevano finito e se ne erano
già andati.
«Allora ti dispiace se ti chiedo di parlare un
attimo?» sentì domandare all’altro, osservandolo per qualche istante perplesso
a quella sorta di invito. Tuttavia non aveva motivi per non stare almeno ad
ascoltarlo, dunque si alzò semplicemente in una muta risposta alla sua domanda.
Vincent pronunciò un: «Grazie.» guidandolo quindi
fuori dalla sala. Da lì deviarono verso l’esterno prima e verso il dormitorio
poi, camminando senza troppa fretta.
Cosa strana, però, Vincent non accennò a nessun
discorso, almeno fin quando non furono abbastanza vicini al loro dormitorio: a
quel punto, anziché dirigersi direttamente verso l’ingresso deviò leggermente
sulla sinistra, motivandolo con un «preferisco parlare fuori, in sala ci sono
orecchie indiscrete e non mi va a genio.»
Per questo Oz lo aveva nuovamente assecondato.
Voltando appena un angolo dell’edificio però, il
biondo si ritrovò a cozzare contro il muro in maniera anche abbastanza violenta
e una mano alla base del collo che aveva spinto forte e vi sostava in qualche
modo minacciosa.
Aprendo gli occhi che istintivamente aveva chiuso, si
ritrovò a fissare quelli dissimili di Vincent, il cui viso si era avvicinato e
mostrava un’espressione diversa da quella affabile che gli aveva visto
indossare come una maschera ogni giorno.
«C’è una cosa che credo non capirai mai, se non te la
dico in questo modo, perciò perdona i modi bruschi. Senza rancore, ok?» gli
disse, per un attimo l’ombra del sorriso divertito di sempre di nuovo ad
incurvargli le labbra.
Oz lo osservò, sentendo che la mano sul collo per ora
non stringeva ne aveva intenzione di farlo.
Dunque sorrise di rimando, con lo stesso sorriso
arrogante che aveva rivolto a Break e a Rufus Barma quando si era ritrovato a
confrontarsi con loro e che sembrava ormai tipico di quando qualcosa minacciava
di oltrepassare quel muro tutto sommato ancora spesso che restava quasi sempre
fra sé e gli altri.
Vincent forse ne fu piacevolmente stupito, perché
pronunciò un divertito: «Complimenti, nemmeno una piega di fronte alla
rivelazione di un Vincent per niente amichevole e sorridente. Ti ha avvisato la
mia adorata cugina, suppongo.» disse, fingendo il commento casuale.
Oz sorrise appena più ampiamente: «Anche, ma non
l’avevo ascoltata a dire il vero. È solo che sono abituato alle maschere.»
commentò con un eccesso di superbia forse.
Se ne era accorto, Oz.
Sarebbe stato il colmo il contrario, se proprio lui
che indossava una maschera non fosse stato in grado di riconoscere quella degli
altri.
«Touché.» disse solamente Vincent, prima che quel
sorriso leggero scatenato dalla curiosa reazione di Oz sparisse una seconda
volta.
«Te lo dico sperando che sia l’unica volta che dovrò
farlo.» riprese senza lasciargli il tempo di far spaziare nuovamente
l’argomento: «Gil è tutto per me.» pronunciò, quasi cogliendo di sorpresa Oz.
Che c’entrava esattamente Gilbert?
«Lui è la persona più importante. Non ho bisogno di
altri, se c’è Gil. E nemmeno lui ha bisogno di altri che non sono io. Tu non
sai niente di noi, né di me né di lui.» continuò, l’espressione seria quanto Oz
non gli avrebbe attribuito mai dovendo scommetterci su: «Chiunque tenti di
allontanarlo da me, chiunque lo renda triste diventa un mio nemico in quello
stesso istante.» proseguì Vincent, stringendo appena la presa sul collo del più
giovane, quanto bastava a palesargli maggiormente la sua presenza sottolineando
al contempo la situazione in cui versavano.
«Perciò vattene, non immischiarti. Gilbert non haalcun bisogno di te.»
Oz si ripromise di uccidere Noah nel sonno non appena
gli fosse capitata l’occasione.
Perché, davvero, non era proponibile farsi svegliare
come l’altro aveva fatto quella mattina: come gli aveva accennato, aveva
dormito da Marcus senza rientrare nella stanza che condivideva con Oz.
Quest’ultimo lo aveva reputato un bene in realtà: non
avere nessuno in stanza dopo quella specie di incontro con Vincent gli aveva
permesso di non doversi preoccupare di non far scoprire niente a Noah.
Aveva persino cercato di riflettere sulle parole del
più grande, cercando di dare un senso alla sua richiesta di allontanarsi da
Gilbert; più che altro aveva tentato di comprendere in quale modo e perché Vincent
sembrasse ritenerlo un pericolo per il moro.
Vi aveva rinunciato comunque quando malgrado tutto,
avendo passato tutto il giorno fuori, aveva sentito le palpebre iniziare a
farsi pesanti.
Ora, poteva capire che Noah fosse entusiasta – cercava
di obbligarsi a non pensare da cosa
derivasse l’aria soddisfatta del compagno a dirla tutta – ma era fuori da ogni
concezione umana che tale entusiasmo dovesse trasformarsi in un risveglio
traumatico per lui.
Insomma: andava bene tutto, ma la prossima volta che Noah
decideva di imitare un assalto dall’alto sul suo letto con lui sopra,
svegliandolo più per l’involontaria gomitata nel fianco che non per l’aver
smosso il materasso, Oz gli avrebbe fatto mangiare i calzini che lasciava in
giro uno per uno.
Ed per la cronaca: erano tanti.
Sbadigliò, mentre si avviavano nell’atrio dove già
altri studenti erano andati a prendere i propri genitori intervenuti per i
colloqui.
«Mamma mia Oz, su con la vita!» lo spronò Noah, al
quale rifilò un’occhiata eloquente a cui il compagno ridacchiò.
Decise di lasciar perdere la questione risveglio.
«Come mai non sei con Marcus? Pensavo che i vostri
genitori venissero insieme.» disse Oz, riferendosi alla loro condizione di
fratellastri – anche se visto il resto tendeva un tantino a dimenticarsene.
Noah, le mani in tasca, scosse la testa: «No, beh,
oggi no. Nel senso, non sono ancora ufficialmente sposati, quindi ognuno segue
il colloquio del proprio figlio.» spiegò brevemente, l’aria comunque
tranquilla.
«Com’è la madre di Marcus?» chiese incuriosito anche
dal commento di Noah la sera precedente prima che se ne andasse con il
fratellastro dalla mensa.
«Mh… beh, a me piace. Meglio della mia sicuramente.»
replicò, senza soffermarsi comunque a parlare della propria madre: «Cecile è
brillante, ed è simpatica. Ma Marcus non ci va tanto d’accordo.» aggiunse,
ripetendosi riguardo l’ultimo punto.
L’attenzione del biondo però era stata catturata da
qualcos’altro.
«La madre di Marcus si chiama Cecile?» domandò,
sorpreso come se fosse la prima volta che sentiva quel nome.
Noah annuì: «Sì, ma non ricordo il cognome da non
sposata. Perché?» chiese perplesso, occhieggiando il compagno di stanza al
proprio fianco.
Questi sorrise con dolcezza e qualcos’altro che Noah
non seppe cogliere con precisione, ma non diede altri segni di particolari
cambiamenti.
«No, è solo un po’ nostalgico. Cecile era anche il
nome di mia madre.» rivelò, e l’utilizzo del passato bastò a Noah per capire
che non era il caso di fare domande, anzi, sarebbe stato meglio cambiare
discorso.
«A me piacciono gli incontri come questo. Vedendo i
genitori ti spieghi un sacco di cose su come sono i figli. Per esempio l’anno
scorso, vedendo il padre di Sirjan e Alyster, ho capito perché lui è così
rigido. Lei mi sa che ha preso da sua madre invece, perché il padre non sorride
così tanto come lei.» osservò, probabilmente riportando alla mente la figura
del genitore in questione.
Oz ridacchiò, immaginandosi un Sirjan adulto, burbero
e baffuto magari.
«Oh, e il padre di Aedan?» domandò incuriosito e preso
dal discorso.
«Sai che non me lo ricordo chi è? Forse l’ho visto di
sfuggita senza sapere che era lui. Comunque considerando il figlio, non penso
sia tanto tenero pure lui.» cercò di analizzare per farsi un’idea.
In effetti, pensò Oz, alla luce del ruolo di Aedan di
guardia del corpo e del modo di pensare di se stesso e della propria salute che
sembravano avergli inculcato, era quasi certo che il padre di Aedan non fosse
un tipo che potesse stargli simpatico.
Nel frattempo avevano raggiunto l’atrio, gremito di
studenti con le divise in perfetto ordine e tanti adulti tutti insieme, cosa a
cui a Latowidge non erano affatto abituati.
«Io sono curioso anche di vedere tuo padre, Oz.
Com’è?» chiese Noah, l’entusiasmo di un ragazzino nella voce.
Il biondo parve pensarci su qualche attimo mentre con
lo sguardo cercava la sorella: «Mio padre, beh, lui è…» iniziò, ma fu
interrotto da una voce che chiamava Noah e alla quale dopo qualche istante il
ragazzo rispose con un «Ohi!»
Quando si voltò per vedere a chi avesse risposto, Oz
intravide un uomo che non faticò assolutamente a riconoscere come il padre del
compagno di stanza pur vedendolo per la prima volta. Non tanto per l’aspetto
prettamente fisico: l’uomo, sul metro e ottanta, aveva un fisico abbastanza
slanciato ma nulla di eclatante mentre Noah non era proprio altissimo.
I capelli erano lunghi, di un biondo cenere e tenuti
in ordine da una coda bassa che poggiava morbidamente sulla spalla sinistra;
gli occhi forse erano chiari e avvicinandosi Oz riconobbe il colore come
azzurro.
Quello che somigliava al figlio in maniera
impressionante era il modo di sorridere che entrambi avevano.
Oz aveva seguito Noah nel suo avvicinarsi al padre, e
non poté non ridere apertamente quando Keynes senior fermò l’abbraccio-assalto
del figlio con uno scappellotto dietro la testa.
Seguito da un: «Sei una capra in matematica!» al quale
Noah aveva assunto un’espressione che era dapprima un tentativo di far pena al
padre e che si era poi trasformata in un sorrisetto strafottente.
«Pa’, in confronto a com’eri te in matematica avrò un
premio alla fine dell’anno.» lo prese bonariamente in giro, tanto che per un
attimo – precisamente mentre il signor Keynes malediva senza celarlo troppo il
proprio figlio dandogli dello sciagurato – Oz si era chiesto chi fosse il
figlio e chi il padre.
O se, piuttosto, non fossero solo fratelli.
«Oh, tu devi essere Oz, il compagno di stanza di
questo tipo assolutamente irrecuperabile.» riprese il signor Keynes notando Oz.
«Eddai pa’!» lo riprese offeso Noah, senza peraltro
essere preso granché in considerazione – volutamente – dal padre. Questi invece
si rivolse nuovamente ad Oz, allungando una mano verso di lui.
«Piacere, Christopher Keynes, il padre di Noah.» si
presentò; Oz andò a stringere prontamente la mano con la propria, il sorriso
che gli salì spontaneo alle labbra: «Piacere mio, Oz Bezarius.» pronunciò a sua
volta, anche se sembrava che Noah avesse parlato di lui e che quindi non ce ne
fosse bisogno.
Trattenersi a parlare con il padre di Noah fu una delle
cose che Oz fece più volentieri mentre aspettava in quel punto Ada, che in
breve li raggiunse poco dopo Marcus e sua madre – il primo sembrava di umore
alquanto discutibile, mentre Cecile si era dimostrata abbastanza vicina alla
descrizione di Noah dal poco che Oz aveva potuto evincere.
A distrarli dalle chiacchiere senza importanza che
stavano facendo in attesa che anche il signor Bezarius li raggiungesse, proprio
il richiamo di questi verso la propria figlia li portò a spostare tutti insieme
lo sguardo nella direzione da cui era venuta la voce.
Zai Bezarius, i capelli biondi che divennero visibili
quando tolse il cappello, aveva un portamento e un’espressione fiera e un po’
severa, ma che Cecile commentò come “cortese ed educata” prima che il diretto interessato
li raggiungesse del tutto.
Ada lo baciò sulle guance con un sorriso timido tipico
dei suoi, mentre Oz chinò appena rispettosamente il capo; avevano quindi
presentato il padre anche agli altri presenti e Zai si era detto piacevolmente
sorpreso dalla facilità con cui Noah aveva saputo prendere suo figlio.
Aveva poi insistito perché Ada riferisse ai genitori
di Karin Hamilton, la sua compagna di stanza, che aveva avuto modo di conoscere
gli anni passati che dopo i colloqui del figlio maschio li avrebbe incontrati
di nuovo con piacere.
La maggiore dei suoi figli si era quindi allontanata
dal piccolo gruppo per il tempo sufficiente ad eseguire la richiesta del padre
e nel contempo quest’ultimo aveva scambiato qualche parola con i genitori di
Noah e Marcus.
Quando Ada fu di ritorno, Zai si congedò da loro: «Con
permesso, inizierei da mio figlio per gli incontri con i docenti.» disse,
posando una mano sulla spalla di Oz, quasi a guidarlo verso la direzione giusta
e rivolgendosi quindi a lui.
«Vogliamo andare, Jack?» pronunciò.
Oz, un sorriso tra il mesto e il comprensivo sul viso,
annuì appena: «Sì, padre.» senza osare portare lo sguardo sul gruppo da cui si
allontanò con il genitore.
Noah per contro sembrava essersi gelato sul posto,
mentre un’espressione di rassegnazione e preoccupazione si faceva strada sul
volto di Ada.
Forse, pensò Noah, era questo che Oz aveva iniziato a
dirgli prima che si interrompessero per andare incontro a Christopher – mio padre, beh, lui è…
...lui non mi chiama mai con il mio nome.
Note
Iniziamo con i
disclaimer sennò me li dimentico. La frase in apertura è della canzone
“Bodies”, di Robbie Williams.
Poi. Mi dispiace, sembra che io non riesca a fare i
capitoli più corti in modo che risultino magari meno pesanti T_T *si flagella*
Credo che questo sia comunque quello con più shonen-ai
concentrato (fra i riferimenti alla MarcusNoah, quelli alla RufusBreak e le
scene di pseudo-dichiarazioni di Gilbert e Oz x° E la gelosia di Vincent XD);
in parte spero di essermi fatta perdonare almeno un pochino per quanto poco
tratto la GilOz – che sarebbe anche il pairing base, coff.
È che Gilbert mi sta terribilmente scomodo, lo
ammetto, non so muoverlo come vorrei ç_ç”
Comunque, sono apparsi anche Christopher (il papino di
Noah) e Zai *odia* E vi abbandono fino al prossimo capitolo alle vostre
congetture sul perché Zai chiami Oz “Jack” *ammicca preparandosi a ricevere
minacce di morte*
Passiamo ai ringraziamenti
Meimei: nipotah
*A* Addirittura sono riuscita a farti pensare “povero Oz”? Oddio *se lo segna
sul calendario* E ormai mi sono arresa al fatto che Sirjan possa essere odiato,
quindi vai tranquilla ùwù”
Noah sarebbe capace di creare un club per l’uccisione
del grassone, quindi non scherziamoci tanto su: è idiota abbastanza per
prendere la cosa in considerazione XD
Miranda è cattiva tanto quanto è divertente muoverla:
e la scena tra Noah e Oz non voleva essere a sfondo yaoioso, ma credo sia
normale che venga recepita in quel modo *muor*
Grazie dei complimenti, anche se non vorrei far piangere
nessuno T_T *però si sente lusingata*
Spero ti piaccia anche questo capitolo <3
Fiamma Drakon: Rufus
insegnante io lo studierei per una vita come soggetto unico nel suo genere XD
Mi fa piacere trovare nelle recensioni che quello che
io sento rispetto ai personaggi possa arrivare tramite quello che scrivo (Break
più unico che raro nel suo genere, la tristezza di Jack e il resto); ti
ringrazio per i complimenti e di continuare a seguirmi, spero che ti piaccia
allo stesso modo anche questo capitolo 12 ^^
LitaChan (che ormai è una fedelissima XD): grazie <33 Alla parte del concerto tenevo
particolarmente, quindi non posso che essere più che felice e soddisfatta del
fatto che ti sia rimasta impressa e che abbia comunicato qualcosa.
Grazie di seguirmi sempre, ed ecco a te il nuovo
capitolo *-*/
Yoko891: aww.
Sì, sono un’autrice schifosamente di parte sui pg di cui scrive e perciò godo
internamente di aver fatto sì che Alyster ti facesse tenerezza <3 *gode* E
mi dispiace di aver fatto venire voglia di buttarsi dal balcone *gya*
Jack purtroppo non c’è verso: già è normalmente un pg
malinconico nonostante il modo di fare quasi sempre allegro, in Rinnega data la
sua situazione non miglioro molto l’umore che aleggia intorno a lui temo x°
E brava, ama Sirjan che lui ha bisogno di amore.
Ecco il risvolto yaoieggiante u_u olé! *alza pugno in
aria*
Noah era riuscito a distogliere lo sguardo da Oz e suo padre che si
allontanavano solo quando entrambi erano effettivamente spariti dalla sua vista
voltando l’angolo
Quel giorno si
riunirono lì
A quale velocità
dovrei vivere,
per poterti vedere
di nuovo?
Noah era riuscito a distogliere lo sguardo da Oz e suo
padre che si allontanavano solo quando entrambi erano effettivamente spariti
dalla sua vista voltando l’angolo.
Era stato dapprima confuso dal nome pronunciato dal
padre del compagno di stanza: non era davvero riuscito a capire come fosse
possibile scambiare i figli, ma supponeva che potesse succedere e d’altra parte
non aveva esperienza per escluderlo dal momento che a parte la situazione di
fratellastro di Marcus era sempre stato figlio unico.
Tuttavia, la risposta data proprio da Oz aveva tolto
per certi versi parecchi dubbi riguardo la casualità di quell’errore e per
altri aveva invece non solo suscitato stupore nella maggior parte di loro, ma
anche dato la sensazione che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato.
Forse eccedendo, Noah d’istinto l’avrebbe definito
quasi contorto.
Il silenzio era caduto nel gruppetto che avevano
formato, circondato e messo quasi in contrasto al chiacchiericcio di sottofondo
presente nell’atrio in cui si incrociavano studenti di tutti gli anni con i
propri genitori.
A sbloccare Noah dal momento di confusione in cui
versava fu una mano che si posò sulla sua spalla e che si rivelò essere quella
di Christopher; il ragazzo sbatté un paio di volte le palpebre dopo essersi
incantato a guardare un punto fisso, dopodiché si voltò verso Ada.
La ragazza sembrava sulle spine: le spalle erano
appena curve, cosa che si notava fin troppo a causa di un portamento
solitamente dritto e preciso, tipico di chi è abituato a certi ambienti in cui
esso risulta essere canone di eleganza.
Teneva il viso appena chinato, quasi cercando di
nascondersi in un atteggiamento insicuro e di disagio. Lo sguardo evitava
quello di Noah come anche degli altri presenti, sebbene fosse cosciente del
fatto che a breve sarebbe arrivata la domanda di qualcuno.
Per questo, quando Noah prese la parola rivolgendosi a
lei, Ada non se ne stupì davvero nonostante il leggero sobbalzare nell’alzare
lo sguardo verso di lui avrebbe potuto far pensare il contrario.
«Ada» mormorò il ragazzo, lo sguardo ancora piuttosto
confuso portato su di lei: «vostro padre ha…» pronunciò, interrompendosi, quasi
non riuscisse ad individuare le parole giuste per chiedere quello che voleva
sapere o almeno provare a capire.
Probabilmente lei lo intuì o, molto più semplicemente,
non era la prima volta che si trovava a dover far fronte ad una richiesta del
genere; fu palese quando evitò a Noah di costringersi a trovare l’espressione
giusta anticipandolo: «Nostro padre chiama Oz con un altro nome da… un po’.»
pronunciò, quasi vergognandosene, come se fosse colpa sua.
Noah era ancora piuttosto spaesato: «Ma Jack… voglio
dire, Jack Bezarius non è il fratello maggiore tuo e di Oz? Quello che è…
morto?» chiese, cercando di infondere più tatto possibile alla domanda, conscio
che non doveva essere il massimo sentirselo dire.
Ada inspirò, annuendo: «Jack è morto ormai da cinque
anni.» trovò il coraggio di pronunciare, nel tono quella che doveva essere solo
una sfumatura del dolore provato per la morte del fratello maggiore.
«Si è ammalato giovane. Non era cagionevole di salute,
anche se era abbastanza incosciente da prendere spesso il raffreddore. Non si
accorse nessuno che era malato, sembrava… stare bene come al solito.» raccontò,
e Noah si pentì davvero di averglielo chiesto.
Aveva sempre evitato di domandare qualcosa ad Oz,
laddove possibile, proprio per non ritrovarsi una situazione spiacevole come
quella; inoltre non era stato difficile ipotizzare già a suo tempo che la
perdita doveva aver lasciato un segno indelebile in Oz quanto in Ada, e che
parlarne dovesse costare loro molto più di un po’ di forza e di coraggio.
«Papà è stato male quando la mamma è venuta a mancare.
Lei non era grave come Jack, ma non aveva un’ottima salute, e le medicine e il
chiuso non l’avevano aiutata. Lui ha passato moltissimo tempo nel suo studio,
senza uscirne quasi mai. Per un periodo, noi e Jack eravamo gli unici ad
occupare la tavola. Papà non c’era.» mormorò, il tono che non si alzava mai e a
volte rischiava persino di essere troppo basso per risultare udibile.
Noah fece per prendere parola e dirle di lasciar
stare, ma Ada scosse impercettibilmente la testa: «Quando Jack è morto, sembrava
di essere tornati indietro, a quando se ne era andata la mamma. Papà si chiuse
di nuovo nello studio e… non sappiamo perché. Lui però… da quando è uscito,
continua a chiamare Oz “Jack”. Sembra aver completamente rimosso la morte di
mio fratello maggiore.» spiegò, le mani che si torturavano a vicenda mentre
parlava.
Christopher strinse appena impercettibilmente la presa
sulla spalla del figlio, cercando con la mano libera quella di Cecile, che
incontrò la sua quasi nell’immediato.
«Ho provato a dirgli che Oz, in quel modo, avrebbe
sentito tanta pressione su di sé, come di dover rispondere alle aspettative che
papà aveva rispetto a nostro fratello. Che era un bambino, e che sarebbe
rimasto confuso, e avrebbe sofferto per la mancanza di Jack ancora di più. Ho
provato a spiegarglielo, però… però papà…» si interruppe, un singhiozzo che
sfuggì dalle labbra nel discorso concitato.
Fu Cecile, dopo uno sguardo d’intesa con Christopher,
a prendere in mano la situazione circondando le spalle di Ada in un abbraccio
non eccessivamente informale, ma come probabilmente solo una madre e una donna
avrebbe potuto darle.
Noah per una volta ringraziò mentalmente il chiasso e
la confusione che albergavano costantemente nell’atrio dell’Istituto Latowidge,
e che coprirono i singhiozzi di Ada che pronunciava le ultime parole prima di
lasciarsi andare ad un pianto sommesso.
«Papà mi ha chiesto chi fosse Oz! Lui non ricorda più
di aver avuto anche un secondo figlio maschio!» proruppe prima che i singulti
rendessero incomprensibile ciò che diceva.
Non sarebbe stato corretto dire che il resto di quella
giornata era passato normalmente: Cecile si era occupata di calmare Ada più
possibile, rimandando i colloqui che riguardavano Marcus di un poco.
Christopher aveva incitato Noah a lasciare la ragazza
alle cure della donna, e lo aveva guidato verso i vari uffici in cui si
tenevano gli incontri di quel giorno; il figlio lo aveva seguito, sinceramente
abbattuto: come sempre nel suo caso, aveva agito molto prima di pensare a cosa
stava facendo, e ripensando alla delicatezza dell’argomento e al pianto al
quale si era lasciata andare Ada, si era sentito non solo in colpa, ma anche
molto stupido e immaturo.
Era stato un errore su tutti i fronti, quello di fare
una domanda simile: avrebbe invece dovuto sforzarsi di non chiedere nulla,
anche se fingere di non aver sentito lo scambio fra Oz e suo padre era parso
impensabile.
Per questo si era chiuso nel silenzio mentre camminava
di un paio di passi dietro al padre, ma a sorpresa era stato proprio
Christopher a fermarsi e voltarsi verso di lui prima che raggiungessero
l’ufficio che recava il nome di Liam Lunettes, il docente di letteratura.
«Smetti di fare quella faccia.» lo aveva rimproverato,
fissandolo abbastanza severo, anche se non con l’irritazione tipica di un
richiamo serio da parte di un genitore. Noah aveva alzato lo sguardo confuso,
senza capire e Christopher aveva sospirato rassegnato: quel ragazzino, per
quanto potesse crescere nel futuro, sarebbe rimasto sempre un bambino che gli
dava fin troppo da pensare e che si perdeva subito in un bicchier d’acqua.
«Niente faccia da cane bastonato.» aveva ripreso,
guardandolo seriamente: «Certo, è una domanda che ha riaperto delle ferite,
quella che hai fatto. Ma sarebbe stato ancora più stupido far finta di nulla.
Quello che devi fare ora per rimediare è non dimostrargli una compassione di
cui non si farebbero nulla e rimanere lì, presente per quando quei due fratelli
ne avranno bisogno.» aveva detto, con la saggezza di un adulto che Noah spesso gli
rimproverava scherzosamente di non avere, e che l’uomo mostrava solo quando ce
ne era davvero bisogno come in quel momento.
Malgrado quella rassicurazione sul fatto che ci fosse
davvero qualcosa che potesse fare per l’amico, l’umore di Noah non si era certo
alzato alle stelle, e un’innaturale atmosfera di tristezza era rimasta lì
presente fino alla fine dei colloqui.
Anche quando erano andati a salutare i genitori al
momento di ripartire per lasciare Latowidge, sebbene gli avesse rivolto un
sorriso per camuffare l’umore – Oz era lì vicino a loro, con Ada, a salutare il
padre con lo stesso sorriso che gli aveva rivolto quando lo aveva chiamato con
un nome che non era il suo – Christopher e la stessa Cecile non si erano certo
fatti sfuggire il fatto che non fosse il solito sorriso un po’ stupido e sempre
allegro che aveva a casa.
Quando erano rientrati, Noah aveva accampato la scusa
più stupida del mondo per defilarsi, tanto che Marcus aveva alzato gli occhi al
cielo in maniera criptica solo per chi non sapeva dell’accaduto.
Oz, sebbene probabilmente avesse intuito che doveva
essere successo qualcosa, aveva annuito quando il compagno di stanza aveva
detto di non sentirsi troppo bene con lo stomaco e che quindi preferiva
rientrare in dormitorio per primo.
Aveva mangiato in mensa con Ada, giusto qualche
boccone perché la sorella non si preoccupasse – sembrava fosse già abbastanza
in pensiero per lui, e non voleva peggiorare la situazione; le aveva assicurato
che era tutto a posto, perché andasse a riposare seguendo Karin che in quel
momento si era avvicinata per avvisarla che l’avrebbe preceduta in stanza.
«Sono un po’ scombussolato.» aveva ammesso,
rivolgendole un sorriso leggero, ma con l’intento di tranquillizzarla – era
parte della sua capacità di fingere che tutto andasse bene, quella di dosare
persino i sorrisi, adattandoli alla situazione perché non risultassero fuori
posto e fossero credibili.
«Ma sto bene, perciò vai con Karin.» aveva concluso,
osservandola andare dopo qualche tentennamento e lasciandosi sfuggire un grosso
sospiro per poi alzarsi ed avviarsi a sua volta.
Non bussò alla porta quando arrivò davanti alla
propria camera, entrando direttamente e rischiando che Noah gliela sbattesse in
faccia: per fortuna lo riconobbe prima di farlo.
Lo osservò dallo spazio lasciato aperto, sospirando
profondamente, sollevato.
Oz lo guardò contrariato per l’incontro ravvicinato
che si era risparmiato per miracolo: «Sei impazzito?» gli sfuggì prima di
poterselo evitare.
Notò l’altro sbirciare nel corridoio per quanto gli
era possibile senza dover aprire maggiormente la porta: «C’è qualcuno fuori?»
domandò, prudente, mentre Oz iniziava seriamente a temere il fatto che i
colloqui con i genitori non dovessero avere un buon effetto sull’amico.
«Se intendi qualcuno come tuo padre che imbraccia un
fucile dopo la chiacchierata con la Barma no, non c’è nessuno. Solo il tuo
compagno che si è quasi preso la porta in faccia senza motivo e vorrebbe
entrare per obbligare i mocassini della divisa a non trucidargli ulteriormente i
piedi.» replicò ironico, fissandolo in attesa.
Noah gli rivolse un broncio offeso, aprendo la porta
per lasciarlo passare: «Simpatico davvero, ma stavo cercando di non farci
buttare fuori nel caso fosse qualcuno che controllava e faceva la ronda.»
spiegò, facendosi da parte.
E quando Oz fu entrato, capì anche a cosa si riferiva
Noah: fu evidente quando inquadrò la figura di Alice seduta sul suo letto
intenta a sbriciolare biscotti sulla coperta mentre ne mangiava – e non voleva
davvero sapere da dove fossero usciti.
Sentì Noah chiudere a chiave – certo, pensò, proprio
il massimo per non destare sospetti eh? – spostando lo sguardo appunto sul
compagno quando questi riprese posto sul proprio materasso.
«Alice, che ci fai qui? Pensavo fosse vietato anche
per le ragazze venire nel nostro dormitorio.» fece notare il biondo, alternando
lo sguardo tra lei e il compagno di stanza che ora sembrava più rilassato.
Tanto che ridacchiò, sdraiandosi sul materasso con le
braccia incrociate dietro la testa: «Dillo a me che me la sono ritrovata
davanti quando ho aperto la porta mezz’ora fa.» gli fece presente, mentre la
diretta interessata sembrava troppo interessata ai biscotti per prestare
attenzione al problema.
Oz sospirò appena: «Come mai sei venuta, Alice?»
domandò, tornando poi per un attimo su Noah come se avesse improvvisamente
formulato un’ipotesi plausibile sulla situazione: «…Non ho interrotto qualcosa,
vero?» aggiunse inarcando un sopracciglio.
In realtà era chiaro per entrambi che lo dicesse per
punzecchiarlo, senza crederci davvero.
E anche per questo Noah si sentì tranquillo nel
rispondere, non come sarebbe stato se glielo avessero domandato beccandolo in
stanza con Marcus, tanto per dirne una.
«Oh, un sacco di cose. Non è palpabile il romanticismo
che aleggia qui dentro? Non dirmi che non vedi l’amore che sta sbocciando tra
Alice e i biscotti perché allora dovrò arrendermi al fatto che sei negato per
queste cose, Oz.» gli fece eco, tanto per sottolineare il fatto che ci fossero
tante possibilità di un incontro amoroso tra lui ed Alice quante potevano
essercene tra un pinguino e ghepardo – tanto per dire che erano due cose che
non si sarebbero mai incontrate salvo in uno zoo.
Come lui e Alice che prima di attrarsi
sentimentalmente l’un l’altro avrebbero fatto prima a diventare novantenni con
uno stuolo di nipotini insomma – e non comuni ad entrambi.
Oz fece un sorrisetto, scuotendo la testa e tornando
con lo sguardo sulla compagna che ora lo stava ricambiando: «Sono venuta perché
sei sparito tutto il giorno servo. Dovevo rimproverarti.» si giustificò,
fissandolo imbronciata e facendolo sorridere istintivamente.
Inspiegabilmente, anziché continuare il rimprovero,
analizzò la sua espressione e poi si rivolse a Noah con aria piuttosto
soddisfatta: «Tsk, te l’avevo detto! Visto? Sorride!» dichiarò come se la cosa
le valesse la vittoria di qualche premio.
Oz, perplesso da quella uscita cercò un chiarimento
nel compagno di stanza, ma Noah per tutta risposta rivolse un sorrisetto un po’
impacciato ad Alice, limitandosi ad un: «Va bene, va bene, ammetto che avevi
ragione.» di resa.
Alice si alzò quindi in piedi, dando qualche pacca
leggera ai vestiti per togliere le briciole dei biscotti con cui si era
intrattenuta fino all’arrivo di Oz e si stiracchiò; dopodiché, si rivolse a
Noah, in piedi vicino a lui e in attesa, le mani sui fianchi.
«Ebbene?» lo incalzò.
«Ebbene cosa?» ripeté lui perplesso, osservandola
senza capire; la ragazza sbuffò: «Il mio premio. E poi ho dovuto aspettare qui
mezz’ora per la tua incompetenza.» fece presente, come se a quel punto fosse
chiaro che come minimo aveva diritto ad un riconoscimento.
E Noah rise, portandosi a sedere ed allungando una
mano a scompigliarle con dolcezza i capelli – all’inizio non aveva legato
granché con Alice, continuando a rinchiudersi un po’ da solo, un po’ senza
neanche accorgersene in quella sua caratteristica che lo rendeva compagno di
tutti e amico di nessuno – picchiettando infine contro la sua fronte: «Va bene,
va bene, la prossima volta che andiamo in città ti offro la merenda.» promise.
E solo i presenti potevano capire appieno quanto
questo significasse svuotare parecchio le proprie tasche.
Alice parve dirsi soddisfatta nell’allontanarsi per
raggiungere la porta ed uscire; quasi come un improvviso cambio di scena in un libro,
era bastato che lei voltasse le spalle ai due perché calasse il silenzio quasi
completo – entrambi persi nello stesso tipo di pensieri, la mente che andava
all’incontro che c’era stato nel pomeriggio e gli faceva quasi dimenticare di
essere nella stessa stanza.
Per quello Alice si voltò: Noah ed Oz singolarmente
non erano tipi silenziosi, e in coppia si erano guadagnati – almeno fra i
compagni di anno – la fama di “dove senti casino, di sicuro ci stanno Bezarius
e Keynes di mezzo”.
La castana si soffermò dapprima su Noah, arricciando
il naso come se l’espressione ora assente e giù di tono del compagno la
infastidisse come una questione personale; poi passò su Oz e non seppe dire con
precisione di cosa si trattasse, ma qualcosa le chiuse lo stomaco istantaneamente
– e l’incontro con un’altra se stessa si faceva prepotentemente avanti nella
sua testa, e si mescolava confusamente con un sorriso che prometteva di esserci
per un “per sempre” infantile che non poteva esistere davvero.
Forse fu quella confusione proprio lì nella sua testa
– lei che ragionava con semplicità, che si comportava sempre e solo come si
sentiva di fare, istintivamente – che la spinse di qualche passo vicino ad Oz,
lo sguardo che rifletteva lo smarrimento che ultimamente sembrava quasi darle
la caccia, come in un gioco.
«…Alice, va tutto bene?» chiese lui, notandola vicina
e riscuotendosi dal torpore in cui era caduto, osservandola; la vide allungare
una mano verso di lui, ed istintivamente fece lo stesso, più che altro colto
alla sprovvista da quel modo di fare che non era molto tipico di lei.
«Alice?» la richiamò una seconda volta, e quel che poi
uscì dalla sua bocca fu un lamento di dolore dovuto al morso che senza un
motivo preciso la ragazza gli lasciò sulla mano pochi istanti dopo essere stata
chiamata.
Ancora bellamente attaccata a quella mano – non
stringeva eccessivamente, ma i denti si sentivano eccome – lo fissò
infantilmente come un cagnolino che ha morso il padrone per ripicca.
Oz, un occhio appena socchiuso per quel gesto d’affetto
non proprio indolore, le rivolse un: «Ma che ho fatto stavolta?!» con tono
lamentoso al quale lei rispose solo quando, ritenendosi soddisfatta, si staccò
dalla mano.
«Non lo so, mi andava.» disse, avviandosi
definitivamente alla porta e uscendone, lasciando entrambi a guardarsi con
sguardo a dir poco basito senza capire.
Almeno, prima di scoppiare a ridere entrambi.
Quindici,
contò mentalmente.
Era precisamente la quindicesima volta che sentiva
Noah rigirarsi nel letto al proprio fianco, almeno da quando aveva iniziato a
contare – e supponeva ce ne fossero state almeno altre due o tre prima, quindi
figurarsi.
Inizialmente non ci aveva badato più di tanto, ma alla
lunga il fruscio delle lenzuola e i sospiri – o sbuffi – leggeri di sottofondo
erano diventati udibilissimi, in parte anche perché era sveglio e non riusciva
a prendere sonno.
Almeno per una volta non era l’unico, ecco.
Prima che potesse arrivare a contare la sedicesima
comunque, si ritrovò a socchiudere gli occhi e a coprirli quasi subito con il
braccio per ripararli dalla luce che era stata accesa senza preavviso – era
chiaro a questo punto che l’ultimo fruscio di lenzuola udito fosse stato quello
con cui Noah aveva deciso di alzarsi dal letto.
Mugugnò infastidito dalla luminosità improvvisa,
mentre i suoi occhi chiedevano tacitamente a Noah di spingere l’interruttore e
spegnerla di nuovo, possibilmente subito: a quanto pareva però il loro
desiderio non era destinato ad essere esaudito con tanta celerità.
Sbirciando senza esporsi completamente alla luce sul
soffitto, Oz cercò di capire cosa stesse facendo il compagno di stanza,
specialmente quando colse un rumore abbastanza sinistro e che somigliava anche
troppo allo spostamento di qualche mobile.
Ed ad un’occhiata più attenta, notò che effettivamente
il letto di Noah si muoveva inesorabilmente verso di lui, portando solo a due
ipotesi: o Oz stava impazzendo del tutto e vedeva i mobili muoversi – a quel
punto, poteva aspettarsi che a breve ammiccassero in sua direzione con fare
seducente – oppure era Noah ad essere impazzito e a muoverli senza un perché.
«…Noah?» bofonchiò, senza ricevere risposta almeno
finché non vide il bordo del letto del compagno attaccarsi al suo.
L’attimo dopo la stanza fu di nuovo avvolta
nell’oscurità, e l’unico modo in cui Oz percepì l’altro tornare al letto fu il
rumore leggero che fece sedendosi sul materasso e il seguente fruscio delle
lenzuola che venivano spostate e sistemate. Stava per richiamare di nuovo
l’attenzione di Noah, quando fu egli stesso a parlare: Oz, i cui occhi si
stavano di nuovo abituando al buio piuttosto velocemente, poté notare il
compagno sdraiato su un fianco, il viso in sua direzione probabilmente.
«Non ti fa rabbia?» gli sentì chiedere senza motivo
apparente, tant’è che Oz non capì affatto a cosa si stesse riferendo: «Voglio
dire, senti… so che non dovrei nemmeno tirare fuori l’argomento. Non sono
affari miei, però… però diamine, Oz. Tuo padre, lui…»
«Hai parlato con Ada, vero?» lo interruppe, un sorriso
mesto ad incurvargli le labbra; Noah si sentì come quando aveva chiesto ad Ada
cosa stesse succedendo e l’aveva vista scoppiare a piangere dopo avergli dato
delle spiegazioni che a conti fatti non gli doveva.
Si morse appena il labbro inferiore, ma non pensò a
cose come poter tornare indietro e tenere la bocca chiusa: non aveva peccato di
stupidità nel porre di nuovo una domanda scomoda nell’arco delle stesse
ventiquattro ore, al contrario era stato ben cosciente sia di una possibile
reazione dall’altra parte non proprio positiva, sia della sensazione che gli
avrebbe agitato lo stomaco nell’attesa di quella stessa risposta che sarebbe
dovuta venire.
A rendere il tutto appena peggiore di come forse lo
aveva ipotizzato nella sua testa nell’arco della giornata, era stato il modo di
reagire di Oz, che spesso risultava imprevedibile e inaspettato.
Il tono che aveva usato per fargli quell’unica domanda
era stato quello di chi ovviamente se l’aspettava, quasi avesse scommesso su
quanto sarebbe durato il compagno nell’astenersi dal darle voce.
Come se poi, in fin dei conti, Noah fosse esattamente
come tutti gli altri.
Tuttavia – contrariamente a quanto si stesse agitando
in quel momento nella testa del compagno – Oz non aveva pensato negativamente
di lui: in realtà, in quel tono mesto c’era una tacita richiesta di scusarlo.
Era ben cosciente di due cose che assolutamente non
gli avrebbero mai permesso di prendersela con Noah per una domanda simile: in
primis, la propria situazione, che ad occhi esterni non poteva che sembrare non
solo strana, ma qualche volta addirittura grottesca. Proprio per questo, oltre
che per assicurargli il riposo che gli era stato consigliato dal medico, Oz e
Ada avevano sempre evitato di obbligare il padre a presenziare in quelle
circostanze dove loro sarebbero stati più che sufficienti come rappresentanza
della famiglia Bezarius – specialmente da quando entrambi avevano avuto la loro
cerimonia della maggiore età.
Non era uno stupido, Oz: poteva immaginare facilmente
lo stupore che le persone provavano nel sentirlo chiamare con un nome che non
era il suo e la difficoltà che provassero nell’apprendere che il nome con cui
suo padre gli si rivolgeva ogni volta che si incrociavano era quello di un
fratello morto ormai cinque anni prima.
Era lo stesso misto di stupore e difficoltà che lui
stesso aveva provato la prima volta – insieme alla delusione, al dispiacere,
alla tristezza e alla voglia di scappare via.
E poi, c’era Noah: lui che era una persona
trasparente, di quelle che non riuscivano ad arrovellarsi troppo il cervello
sulle situazioni eccessivamente complesse; lui che era sincero, che pur essendo
per sua stessa ammissione qualcuno che non si era mai fatto coinvolgere al
punto da considerare un compagno come un “migliore amico” o un amico stretto
l’aveva comunque preso a cuore tanto da preoccuparsi per lui ogni volta che il
suo istinto – fin troppo sviluppato davvero – gli suggeriva che qualcosa non
andava.
Noah era curioso per natura, e incapace di lasciar
perdere qualcosa che non lo convinceva, o lo confondeva: perciò Oz quella domanda
se l’era aspettata molto prima.
E capiva, in qualche modo, che se era stata ritardata
era stato solo nel tentativo di trovare il modo migliore di formularla e di
pensare ai pro e ai contro del pronunciarla definitivamente ad alta voce.
Perciò non importava se alla fine, detta in quel modo,
poteva sembrare quasi un’accusa – non che non fosse fastidioso almeno un po’,
ma fintanto che non vi scorgeva ostilità avrebbe comunque potuto far finta di
non aver colto quella sfumatura.
«Sì, ho parlato con Ada.» lo sentì finalmente
rispondere dopo diversi minuti in cui non c’era stato che silenzio da parte di
entrambi: «E penso che…» tentò di proseguire, interrotto proprio da Oz.
«Non c’è niente… che io possa fare.» fu il mormorio
basso, quasi inudibile che arrivò da parte del biondo da un punto imprecisato
di fronte a sé: «So cosa stai pensando, o cosa puoi aver pensato quando lo hai
sentito. Che mio padre sia… un uomo grottesco, vero? O con un certo gusto
dell’orrido, o magari che è un pessimo padre, per quello che fa. Va bene anche
se lo hai pensato.» assicurò, come se anziché di una questione seria l’altro
avesse accennato al fatto che suo padre teneva la cravatta fuori posto.
Noah sgranò appena gli occhi, ascoltandolo: fino a
quel momento non aveva mai fatto troppo caso a quando Oz cercava di rifilargli
delle bugie volte nella maggior parte dei casi a non farlo preoccupare per
questioni – secondo il biondo – di poca importanza. In quel momento però, su un
argomento del genere, non solo non capiva come il compagno potesse ostentare
tanta tranquillità come se non fosse che un semplice spettatore di una
situazione che non lo riguardava da vicino, ma con quale facilità mentiva
spudoratamente e accettava tutto senza nemmeno pensare di provare a cambiare.
Per quanto potesse scusarlo dicendosi che forse ci
aveva provato – almeno a giudicare dalle parole con cui aveva esordito – Noah
non avrebbe mai potuto capire: anche lui aveva avuto un periodo in cui non
c’era stato nulla di più importante che vedere suo padre felice. Anche per
quello aveva cercato di tenersi lontano dalla cosa che amava di più fare o, in
seguito, aveva dipinto di nascosto; per lo stesso motivo aveva limitato la sua
rabbia contro sua madre a sfoghi dentro la sua stanza, quando Chris era al
lavoro. Era stato restio a mostrarlo persino a Marcus, quasi nel timore che in
qualche modo suo padre venisse a saperlo.
Ma era altrettanto vero che Christopher non aveva
dimenticato quanto l’accaduto avesse potuto far soffrire altri che non fossero
lui: mai aveva dimenticato di avere un figlio, e mai aveva pensato anche
solo per un attimo di dare priorità a se stesso piuttosto che a Noah.
Per questo lui non poteva capire Oz, come non poteva
capire affatto suo padre: non poteva immaginare il dolore per la perdita di qualcuno;
era diverso sapere che chi se ne era andato era comunque da qualche parte nel
mondo, o nel tuo stesso paese, ed avere la consapevolezza che invece non
avresti potuto rivederlo mai più.
«Perciò mi stai dicendo… che a te sta bene così? Anche
se pensa che tu sia un’altra persona, anche se dovessi fingere per tutta la
vita di essere tuo fratello?» chiese quasi a bruciapelo, nel tono l’impazienza
di chi aspetta una risposta e spera che sia diversa da quella che teme,
desiderando egoisticamente che possa tranquillizzarlo.
«Va bene così da anni ormai.» fu l’unica risposta che
Oz gli diede, la voglia di non fare altro che nascondersi infantilmente sotto
le lenzuola, dormire e risvegliarsi la mattina dopo come se quella
conversazione non ci fosse mai stata.
«…Io non ci riuscirei mai.» sentì dire a Noah prima
che tacesse, voltandosi a dargli le spalle deciso a dormire – o a chiudere il
discorso comunque.
«Lo so.»
A volte si sperava che la risposta arrivasse
provvidenziale a spazzare via i timori, i dubbi o le incertezze, ma purtroppo
non sempre era davvero così che andava.
Da quella chiacchierata notturna era passata quasi una
settimana, in cui sia lui che Oz sembravano aver tacitamente deciso di comune
accordo di fingere davvero che non ci fosse mai stata: la cosa era stata
facilitata anche dal fatto che, approfittando dell’assenza delle lezioni in
quel periodo antecedente al ballo di Natale di cui già si respirava l’atmosfera
per i corridoi in cui le persone si affaccendavano nei preparativi, ad Oz era
stato comunicata la data per il recupero di Storia.
Dopo aver fatto delle lezioni sulla parte di programma
che costituiva la sua lacuna, Rufus Barma lo aveva avvisato che ci sarebbe
stato un esame per consolidare quanto appreso – e non aveva mancato di
rivolgergli un sorrisetto più che divertito nel comunicarglielo e nel vedere
l’espressione non proprio esaltata di Oz.
Infine, proprio il giorno dei colloqui, gli aveva
comunicato che sarebbe stato nella settimana libera a causa dei preparativi del
ballo: a conti fatti, quindi, gli unici docenti impegnati in lezioni o recuperi
erano i due Barma, mentre gli altri si potevano facilmente incrociare per i
corridoi nel mezzo di scene idilliache.
Come, tanto per fare degli esempi, Xerxes Break che
praticamente giocava al tiro al bersaglio con Liam Lunettes e le palline di
Natale che stavano portando nell’atrio che avrebbe ospitato un grande albero di
Natale, o Alexis Coleman che con un voluminoso filo per quello stesso albero
sistemato attorno al collo di Daniel Wayne se lo tirava dietro chiacchierando
con voce allegra.
Oz era stato quindi impegnato a preparare quell’esame,
e di conseguenza Noah aveva passato la maggior parte del suo tempo con Alice e
Marcus; nel caso di quest’ultimo aveva spesso approfittato del fatto che fosse
in stanza da solo nel dormitorio, in modo da ritardare volutamente una
situazione che vedeva lui ed Oz nella stessa stanza senza sapere bene di cosa
parlare. Nel caso di Alice invece, aveva approfittato del primo pomeriggio
libero utile per chiederle di accompagnarlo a fare i regali di Natale –
offrendole la merenda come promesso.
In quel caso, dimostrando un intuito sempre maggiore
di quanto Noah gliene attribuisse, Alice gli aveva chiesto se per caso lui e Oz
avessero litigato di nuovo.
«No.» le aveva assicurato, sincero visto che
all’effettivo non si poteva davvero parlare di un litigio: «Abbiamo dei punti
di vista diversi su alcune questioni, ma penso sia normale. Non preoccuparti
però, non è niente di così grave.» aveva continuato, osservandola arricciare
appena il naso in un’espressione buffa e poco convinta.
«Menti uno schifo, Keynes.» aveva decretato infine
lei; lui si era limitato a ridere.
Ad ogni modo, non era una bugia quella che aveva detto
alla ragazza, e probabilmente era stato anche per quello che nei giorni
seguenti era tornato tutto alla loro presunta normalità.
«Quando tutta questa roba che implica il ballo sarà
finita io sarò l’uomo più felice di Latowidge, se proprio non di tutto il
mondo.» sbuffò Noah, mentre camminavano per il corridoio.
Oz ridacchiò, osservando uno degli ennesimi gruppetti
di ragazze che incrociavano e che pullulavano in ogni angolo della scuola negli
ultimi giorni: si scambiarono uno sguardo che sembrava più che eloquente,
oltrepassandole.
Solo quando furono abbastanza lontani ed ebbero
voltato un angolo, Noah gli si rivolse: «Con chi ci vai al ballo?» chiese, nel
tono la curiosità tipica di lui con una nota di divertimento che avrebbe dovuto
far presagire il peggio ad Oz.
Il silenzio confermò a Noah che Oz non aveva
esattamente pensato a quella questione negli ultimi giorni – anzi,
probabilmente si era anche impegnato a non doverci pensare.
«Lo sai che sono i ragazzi che devono invitare le
ragazze?» gli fece presente, l’aria di chi ha appena deciso che sarai la sua cavia
per i prossimi dieci minuti come minimo; Oz annuì distrattamente: «Lo so, anche
se non capisco perché mai.»
«Lo dici proprio tu che sei abituato alle cene di gala
o almeno dovresti aver partecipato a più di una?» lo rimbeccò il compagno.
Il biondo lo fissò di sottecchi, con un moto di odio
momentaneo, fiutando la presa per i fondelli – che, conoscendo l’altro, si
sarebbe probabilmente protratta fin dopo quel benedetto ballo.
«Oh beh, avrebbe un senso il tuo aspettare ad invitare
una ragazza, se…» lasciò in sospeso, fissandolo eloquentemente.
«…se?» lo incalzò Oz, osservandolo incrociare le
braccia dietro la testa continuando a camminare: «Se sei tu quello che deve
essere invitato. Per esempio, ma lo dico casualmente eh, da uno dei Nightray.»
lo sfotté.
Non diede modo all’altro di dire nulla, anticipandolo
prima che potesse aprire bocca per lamentarsi dell’ennesima presa in giro su
quel versante: «Come tuo amico, compagno di stanza e fan numero uno della tua
vita sentimentale Oz, mi sento in dovere di dirti le mie preferenze.
Francamente non ti riesco ad inquadrare con Vincent Nightray. Insomma, a parte
che è complesso da capire già da solo, siete entrambi biondi. Sai che essendo
uno che disegna ho un certo senso estetico, quindi mi spiace ma lui non mi convince.»
iniziò, facendo tutto da solo, senza curarsi dell’espressione scioccata di Oz,
probabilmente dovuta all’assurdità di quell’ipotesi appena fatta dall’amico.
Che, comunque, continuò imperterrito.
«Di conseguenza rimangono solo Elliot e Gilbert. Non
dico che tu ed Elliot non siate abbastanza ben accostati insieme, e avete dalla
vostra il fatto che tutte le volte che vi ho visti incrociarvi o vi siete presi
a male parole, o avete pronunciato solo frasi sarcastiche e ironiche degne di
essere rivolte al proprio peggior nemico, oppure lui non ha fatto che
sottolineare con un certo impegno quanto detesti la tua famiglia. E tutto
questo è degno di un romanzo in cui i protagonisti prima si odiano, poi si
amano.» fece notare, l’aria di chi si stava prendendo piuttosto seriamente la
formulazione di quelle ipotesi.
Sospirò, con aria melodrammatica: «Comunque, io tifo
per Gilbert. Perciò non tenermi sulle spine: ti ha già chiesto di andare al
ballo con—»
«Seriamente, la puoi piantare Noah?» borbottò Oz,
fissando prima lui per qualche istante, poi portando lo sguardo di fronte a sé;
la sua sfortuna fu che il rossore che, seppur lieve, gli aveva appena
imporporato le guance era risultato più che visibile per Noah.
E fu chiaro dalla risata che l’altro si fece: «Va bene,
va bene, per adesso ti lascio in pace. Ma quando sarai in crisi, senza sapere
cosa fare, e cercherete comprensione e consigli per la vostra relazione
clandestina, torna pure da me. Io ne so qualcosa, mon ami.» se ne uscì, dando un motivo più che valido ad Oz per
rivolgere nuovamente l’attenzione a lui.
«E da quando tu parli francese?» gli chiese
interdetto.
«Non parlo francese infatti. Ma leggo romanzi degni
delle ragazze: non sono mai intellettualmente complicati, il che li rende
adatti a me. A parte quando sono eccessivamente diabetici, o quando non
preferisco leggere libri di arte o favole per bambini.» chiarì, strizzandogli
l’occhio.
Oz decise che non voleva sapere di più su
quell’argomento, dunque cambiò totalmente discorso, allontanandosi dalla questione
romanzi rosa e gusti discutibili.
«A proposito del ballo, tu parli tanto, ma come
farai?» tentò di punzecchiarlo il biondo, per vendetta: «Marcus se ne starà
buono a guardarti andare al ballo con una ragazza?» insinuò, osservandolo con
la coda dell’occhio mentre si immettevano in un corridoio appena più
trafficato.
«Non ho desideri suicidi per il momento, perciò ho
dovuto trovare qualcosa che potesse soddisfare le tre richieste principali per
quella serata.» replicò Noah nel massimo della tranquillità, suscitando a quel
punto la curiosità di Oz.
«Sarebbero?» lo interrogò infatti.
«Facile: non mettere al corrente tutti il mondo della
nostra situazione non proprio fraterna, trovare una dama che non mi chieda di
ballare ogni due secondi, e far sì che la suddetta dama non scateni l’ira di
Marcus che porterebbe o al tentato omicidio di lei, o al mio andare in bia…» si
interruppe, come se avesse detto davvero troppo stavolta.
«Ok, questo non vuoi saperlo. Comunque, ho trovato una
compagna che fa al caso mio.» proseguì Noah, proseguendo con il nome senza che
ci fosse bisogno per Oz di chiederlo: «Alice.» concluse il compagno.
Ed effettivamente, supponendo che la ragazza
difficilmente si sarebbe staccata dal buffet, poteva anche darsi che per Noah
fosse stata la scelta migliore – ma nessuno avrebbe tolto dalla testa del
biondo il fatto che solo pensarli come una coppia fosse allucinante.
Né nessuno lo avrebbe distolto dall’idea precisa che
Marcus non sarebbe stato contento comunque, nemmeno trattandosi di Alice il cui
rapporto con Noah sembrava quello di due bambini che si facevano i dispetti
ogni tanto per noia, più che qualsiasi altra cosa anche di poco più profonda.
Fu Noah ad attirare nuovamente la sua attenzione,
picchiettando appena con un dito contro la sua tempia: «Quindi, come la
risolverai visto che Alice viene con me?» domandò, il sorriso sempre presente
ad incurvargli le labbra, stavolta senza quella sfumatura di divertimento quasi
sadico.
Oz ci pensò su, riportando lo sguardo sul corridoio
mentre si avviavano per la rampa di scale che conduceva all’atrio: «Avevo
pensato di invitare Sharon, all’inizio.» ammise, trovando l’approvazione del
compagno nel suo annuire.
«Però lei va con Xerxes Break.» aggiunse, nemmeno
avesse notato che, oh, avevano forse lucidato le scale recentemente?
Noah invece ne fu – com’era anche prevedibile – più
che sorpreso, tanto da fermarsi con un: «Eh?!» che distava di poco dallo
scioccato. Oz ridacchiò, decidendo che magari quello poteva essere il preludio
della vendetta che certamente avrebbe architettato ai danni di Noah per le
prese in giro appena subite.
«…Senti, mi distruggi delle certezze dicendomi così
senza darmi una spiegazione. Ero convinto che la relazione di Xerxes con Barma
che è ormai di dominio pubblico almeno a livello di pettegolezzo fosse cosa
assodata. Tipo che a breve si sposavano, roba così.»
«Esagerato.» lo rimbeccò Oz, agitando appena una mano
con fare tipico di chi ritiene la cosa altamente improbabile – anche se doveva
ammettere di aver pensato lo stesso di quella presunta relazione tra Barma e
Xerxes solo per vedersela poi praticamente confermare davanti agli occhi quando
li aveva incontrati in città con Gilbert.
«Anche io ci sono rimasto quando me l’ha detto. A
parte la storia di Barma, più che altro è il fatto che lei è una studentessa e
molto più giovane.» riprese il biondo, gli ultimi gradini che venivano scesi
raggiungendo finalmente l’atrio: «Ma Sharon mi ha spiegato che lui è legato
alla sua famiglia da tanti anni, da quando lei era ancora piccola. Credo, per
quello che ho capito, che il rapporto tra loro sia più simile a quello di un
fratello e una sorella con una certa differenza d’età, che non altro. E
ufficialmente lui ha spesso presenziato al suo fianco, per questo credo si
ripeta la stessa cosa.» concluse, esprimendo ad alta voce il pensiero che aveva
fatto dopo la chiacchierata con la ragazza.
Noah annuì, dando segno di aver capito e anche di
essersi in parte tranquillizzato – seriamente, Oz credeva fosse più per la
conferma che il rapporto Barma-Break di cui era probabilmente fan fosse salvo
che non per aver saputo che non c’erano rapporti fra un quasi trentenne e una
quindicenne.
«Quindi, escludendo Sharon?» lo incalzò nuovamente
Noah, tornando all’attacco.
Oz sbuffò, raggiungendo la mensa: «Ma non lo so!»
sbottò – e prese nota mentalmente di non stuzzicare mai più l’interesse di Noah
Keynes.
«Se ti interessa, ad Alyster non lo puoi chiedere, lei
va con il fratello.» asserì.
«…Non lo avrei chiesto comunque ad Alyster. Anche
perché pensavo la invitasse Elliot.» ammise – in realtà non aveva formulato
quel pensiero per chissà quale atteggiamento rivelatore avesse scorto nel
minore dei Nightray, quanto più per l’aver notato che la ragazza sembrava
essere una delle poche che almeno riusciva a non irritarlo e a non farsi
rispondere male da lui.
Oz sospirò, individuando il tavolo dove di solito
sedevano in gruppo, individuandovi già Marcus ed Alice – e non si guardavano
con amore, motivo per cui il biondo li indicò a Noah affrettando il passo: «Mi
sa che per il momento è meglio andare a mangiare. Anche perché nel pomeriggio
devo fare il ripasso per l’esame.» asserì, un sorrisetto un po’ preoccupato, se
si sapeva scrutarlo bene.
Cosa che Noah per forza di cose ormai si stava
abituando a fare: «Con chi fai il ripasso?» domandò curioso.
«Con Aedan.»
Si lasciò andare contro lo schienale della sedia,
l’aria di un uomo distrutto, sospirando.
Lasciò cadere le braccia al lato del corpo, cercando
di rilassarsi e sbirciando in un secondo momento la persona sul letto di fronte
a lui che sembrava fresca come una rosa.
Non era la prima volta che vedeva Aedan senza la
divisa, anzi era forse la persona che più aveva visto con abiti diversi
all’interno di Latowidge: spesso si era ritrovato a pensare di averlo
incrociato più volte con altre vesti che non con quelle richieste. Ricordava di
averne anche parlato con Alyster, che si era spiegata dicendo semplicemente che
essendo Aedan una guardia del corpo prima che un vero e proprio studente, ad
eccezione delle lezioni gli era consentito girare per i corridoi con abiti più
comodi.
Ed effettivamente, a ben pensarci giacca e camicia non
doveva essere proprio il massimo della comodità per certi movimenti; forse
proprio per questo non gli sembrava una cosa nuova, il fatto che ora non
indossasse la divisa, specie poi considerando che erano a studiare in
dormitorio.
…Già, studiare.
Quando si era reso conto che non gli avrebbe fatto
male avere qualcuno che lo aiutasse con il ripasso, si era chiesto chi potesse
essere d’aiuto: era stata Ada a consigliargli di chiedere ad Aedan, sostenendo
che se si parlava di studio sicuramente lui era uno dei più indicati.
Non sapeva esattamente come o perché Aedan avesse
accettato – specie considerando il fatto che non si allontanava mai da Ethan
Sparrow se non per qualche specifico lavoro da fare per Sirjan, a detta di Noah
– ad ogni modo ne aveva approfittato.
Ma nessuno gli aveva detto quanto professionale
potesse diventare Aedan Shaye quando si trattava di studiare o far
studiare terze persone; oltretutto, cosa anche inspiegabile almeno secondo i
canoni di studio di Oz Bezarius, non sembrava stancarsi praticamente mai.
Era vero, il biondo non poteva vantare di essere
dedito allo studio a tutte le ore del giorno e della notte, specie poi in
materie che lo annoiavano terribilmente, ma Aedan era qualcosa di allucinante
davvero.
Erano su quei libri da almeno due ore, e sembrava ci
si fosse appena messo, lo sguardo e l’espressione che non tradivano la minima
stanchezza: al punto che Oz, fino a quando l’attimo prima l’altro non aveva
pronunciato la parola “pausa”, aveva seriamente temuto che sarebbe morto prima
di arrivarci, a fare l’esame.
Per lo stesso motivo, quando sentì la porta della
stanza dov’erano aprirsi – quella di Aedan più precisamente, scelta perché
sicuramente meno soggetta a visite improvvise – fu grato a chiunque fosse per
la semplice consapevolezza che la pausa si sarebbe protratta un po’ più a
lungo.
Fu un po’ spiazzato dal veder entrare qualcuno che non
riconobbe subito, ma che a quanto pareva non aveva trovato la stessa difficoltà
nel riconoscere lui; richiudendosi la porta alle spalle e volgendo lo sguardo
verso l’interno, assunse un’aria un po’ sorpresa nel trovarvi qualcuno, forse
aspettandosi che Aedan fosse in giro.
Comunque la sorpresa non durò granché, quasi subito
sostituita da un sorrisetto: «Bezarius.» salutò con naturalezza, nemmeno si
conoscessero bene e si vedessero tutti i giorni.
Aedan alzò lo sguardo dal libro, portandolo in
direzione del nuovo venuto: a giudicare dall’espressione, era qualcuno che
andava e veniva dalla stanza dell’altro come voleva – Oz non ci credeva quasi,
ma gli era sembrato di scorgere sul viso di Aedan un impercettibile mutamento,
anche se non avrebbe saputo definire con precisione cosa esprimesse in quel
momento.
Poi, prima che il moro pronunciasse un saluto, Oz
ricordò finalmente di chi si trattava: glielo aveva indicato Noah, ma non
avendogli mai rivolto la parola e non capitando spesso di incrociarlo per la
differenza di anno, Oz lo aveva rimosso.
«Ethan… Sparrow, giusto?» tentò, osservandolo e
vedendolo annuire mentre si liberava della giacca della divisa, poggiandola
sullo schienale della sedia alla propria scrivania.
«Fate come se non ci fossi, eh?» si raccomandò,
recuperando un libro e portandosi vicino al letto sul quale sedeva Aedan: nel
passargli accanto, portò una mano a scompigliare i capelli del compagno di
stanza in un gesto che sembrava essere abituale, quotidiano.
Aedan lo seguì con lo sguardo finché Ethan non si fu
seduto a sua volta sul letto, sistemandosi in una posizione comoda per leggere:
quando la ebbe trovata, sembrò far caso all’occhiata di Aedan e alzò appena una
mano in sua direzione.
«Tranquillo, tranquillo, è tutto a posto. Sono rimasto
con Marcus in biblioteca finora.» assicurò, rispondendo ad una domanda che
Aedan non aveva posto e che Oz si chiedeva come potesse l’altro averla intuita
senza segnali evidenti.
Ma era assai probabile che nessuno capisse Aedan
meglio di Ethan Sparrow, nemmeno Sirjan che sembrava in qualche modo abituato a
relazionarsi con lui lavorandoci assieme in alcune occasioni; e per contro ad
Aedan sembrò bastare quella rassicurazione ed Oz poté giurare di averlo visto
rilassare appena le spalle.
Immaginò solo in quel momento che doveva aver chiesto
a qualcuno di tenere d’occhio Ethan per lui, o che avesse acconsentito ad
aiutarlo nello studio rinunciando al poter controllare il compagno da vicino
solo sapendolo in un posto non a rischio – con Marcus, in questo caso.
Forse, pensò in quel momento, Aedan si preoccupava
molto più di quanto non desse a vedere e la sua professionalità come guardia
del corpo non era data dal semplice senso del dovere che provava nei confronti
del protetto in quanto tale.
Quasi a confermarglielo, arrivò la scena più astratta
del mondo che mai avrebbe attribuito alla figura di Aedan Shaye: lo vide
poggiarsi sul materasso, distendendosi in buona parte rispetto alla posizione
seduta di poco prima, e lasciare che la testa si appoggiasse proprio sulla
gamba di Ethan.
Quest’ultimo, alzando per pochi istanti lo sguardo dal
libro che nel contempo aveva aperto in corrispondenza del segno cartaceo tra le
pagine, fece un sorrisetto senza dire nulla, lasciandolo fare.
Oz sbatté appena le palpebre, in un misto tra
curiosità e sorpresa in parte: Aedan non era mai stato uno che dava
l’impressione di ricercare il contatto fisico, eppure con il compagno di stanza
pareva quasi un bisogno – ben celato e per nulla esagerato o paragonabile a
quello di una persona con dimostrazioni di affettività o pensiero “normali”,
per così dire, ma un gran passo avanti se si considerava l’indole taciturna e
indifferente dell’altro.
Già… magari Aedan non era poi così male.
«…so?» sentì arrivare solo la fine della frase che
Aedan doveva aver rivolto a lui, visto che lo stava guardando.
Portò una mano a grattarsi distrattamente la nuca,
abbozzando un sorriso: «Scusa, non ti ho sentito.»
«Nel 1254, cos’è successo?» ripeté la domanda l’altro,
lasciando ad intendere che la pausa era finita; Oz tacque, cercando di far
mente locale: «Ehm… la morte dell’allora signore di Revelle?» tentò, non
proprio sicurissimo a dirla tutta, ma l’annuire di Aedan lo tranquillizzò.
Lo vide porgergli il libro: «Se hai domande puoi
farne.» disse, laconico come al solito, ma disponibile; Oz prese il libro dalle
sue mani, occhieggiando la pagina in cui erano. Le scorse in avanti, ricercando
a colpo d’occhio date o avvenimenti che ricordava meno o non ricordava affatto.
Dopo qualche tempo in silenzio, ne intravide una:
«Ecco, nel marzo del 1476…»
«La caduta del regime di Konrad Bishop ad opera di
Jean Vilian, quattro notti.» si fece sfuggire Aedan scioccando un Oz incredulo
che lo fissò.
«…Non dirmi che sai tutto il libro così.» lo pregò, il
tono a metà fra l’ammirazione e la disperazione – se fosse stato davvero in
grado di ricordare così tutte le date, ci sarebbe inequivocabilmente stato
qualcosa di ben poco umano in lui, o non si spiegava.
Aedan però annuì: «Quasi tutte. Le più importanti
almeno.» replicò con semplicità, come se fosse ovvio, ed Oz si chiese se tutte
le guardie del corpo erano così e, nel caso, se non fosse stato il caso di
procurarsene una, possibilmente con il suo stesso aspetto e da mandare a
sostenere l’esame con Barma al suo posto.
Ma giusto così, tanto per stare sicuri.
«…Gennaio 1715.»
«Formazione del governo che stabilisce la
collaborazione delle cinque casate ducali più potenti.»
«Agosto 1532.»
«Colpo di stato dell’allora governatore del territorio
della capitale, Raymond Raine. »
«Novembre 1612.»
«Te la sei inventata, l’unica data di quel periodo è
il 1610 per il cambio di sede della capitale da Revelle a Sabrié.» ribatté
Aedan, fissandolo eloquente.
E a quel punto, ad un’uscita simile, Oz si arrese
all’evidenza che almeno per la Storia Aedan Shaye avesse davvero una memoria
mostruosa e fuori dall’umana concezione.
«Alla buon’ora.» sentì pronunciare con tono stizzito
mentre richiudeva la porta alle proprie spalle; ridacchiò senza nemmeno
controllare da chi fosse venuto il rimprovero, visto che non era la prima volta
e dunque non c’era davvero di vedere per indovinare.
Oltretutto, aveva subito proprio in quell’istante una
sorta di agguato consistente in una sedicenne che gli si buttava letteralmente
addosso – e lui immancabilmente la assecondava, portando una mano a
scompigliarle i capelli: «Vince, Vince, sei arrivato finalmente!» esclamò lei,
mentre il biondo andava a prendere posto sul divanetto dell’ufficio in cui si
era recato.
Charlotte Baskerville lo osservava, le braccia
incrociate al petto, poggiata al bordo della cattedra: i capelli lasciati
sciolti e tenuti in ordine lateralmente solo da alcune forcine, scendevano per
lo più sulle spalle adagiandovisi morbidamente.
Aveva ancora indosso gli abiti che solitamente usava
lì a scuola, durante le lezioni o semplicemente per girovagare nei corridoi le
poche volte che le capitava di farlo: aveva l’espressione di chi non ha proprio
tutta la pazienza a propria disposizione, indispettita da qualcosa o da
qualcuno.
Nel caso attuale probabilmente da entrambi e tutte e
due le cose avevano come medesima causa Vincent Nightray: «Dovevi essere qui
venti minuti fa.» gli fece presente, per quanto cosciente di quanto fosse
inutile in realtà. Da quando si era ritrovata a dover collaborare con lui al di
fuori di occupazioni prettamente scolastiche, aveva imparato che quel ragazzo
raramente era puntuale e ancora più raramente stava davvero ad ascoltare quanto
gli veniva detto, a meno che non rientrasse nella sfera dei suoi interessi
personali.
E i rimproveri più o meno velati di certo non erano
fra quelle poche cose che ascoltava.
«Lo so, sono stato trattenuto.»
«Come al solito, d’altronde.» insinuò lei fissandolo
in maniera piuttosto eloquente, il cipiglio severo che si rilassava appena
risolvendosi in un sospiro rassegnato: tirare la corda con Vincent Nightray non
si era mai dimostrato utile allo scopo, qualunque esso fosse.
Lo osservò sedersi con tutta calma sul divanetto di
fronte a lei, la ragazzina che lo seguiva sistemandosi senza troppi complimenti
in braccio a lui, attirata dal biondo stesso come se fosse la prassi – e,
effettivamente, lo era.
«Allora, cosa c’era di tanto urgente, Lotti?» domandò
lui, abbandonando ogni formalità che le rivolgeva durante gli orari scolastici,
al di fuori di quegli incontri.
«Ho saputo della brillante iniziativa verso Oz
Bezarius. Pensavo che fosse chiaro senza doverti fare degli esempi che cosa
potesse fargli sorgere dei dubbi e cosa invece potesse lasciarlo nell’ignoranza
come ci servirebbe facesse.» gli fece notare, il tono palesemente sarcastico.
Vincent, il sorriso per nulla mutato, al momento
sembrava più interessato alla ragazza di cui cingeva la vita e che stava
giochicchiando con una ciocca di capelli biondi; la vide imbronciarsi: «Non è
stata Zwei a parlare.» chiarì subito, volendo sottolineare che la sua fedeltà
nei confronti del biondo non era vacillata nemmeno per un secondo, al contrario
di quanto potesse sembrare.
«A dire tutto è stata quell’odiosa di Echo.» pronunciò
poi in un sibilo infastidito, guardandosi le mani; Vincent sorrise appena più
ampiamente, una voluta sfumatura maliziosa nell’incurvarsi di labbra mentre la
mano che non cingeva la vita della ragazza andava a prenderle in mento,
obbligandola ad alzare lo sguardo.
«Echo è stata cattiva. Dovrei punirla?» domandò, in un
gioco che Charlotte trovava piuttosto inutile se non per la nota di sadico
divertimento che assumeva tutte le volte.
Quando era entrata in contatto con Vincent Nightray e
la sua servitrice in quel modo, le era stata presentata come Echo: presto era
stato però chiaro che ci fosse qualcosa di strano, di particolare. Non ci era
voluto molto perché finisse con l’incrociare anche Zwei.
Perché esattamente ci fossero due personalità così
marcatamente distinte, o da cosa fossero causate, erano cose che Charlotte non
aveva mai avuto modo di scoprire; doveva però anche ammettere di non essersi
impegnata più di tanto nell’investigare. Ai fini dei loro scambi di
informazioni o della loro cosiddetta “collaborazione”, non era una cosa che
aveva necessariamente bisogno di sapere.
Dunque, semplicemente se ne era tenuta fuori.
Più palese era stato il modo molto diverso con cui
Zwei ed Echo si approcciavano a quel Vincent; senza contare poi che, a dispetto
di quanto si potesse credere dalla totale assenza di pudore e scrupoli da parte
di Zwei, era una personalità scomoda da gestire.
Non che Echo fosse molto più incline a parlare senza
il permesso del suo padrone, ma Zwei era totalmente ingestibile da quel punto
di vista.
«Sì, puniscila, Vince! Trattala male! Perché non la
feriamo, Vince?» la sentì quasi canticchiare quelle parole, l’eccitazione nel
tono al pensiero di cosa esse riflettessero palese.
Zwei era ingestibile perché animata più da follia e
crudeltà che non da altri sentimenti. Quello che non capiva era il continuo e
perpetuo assecondarla di Vincent, come se non temesse minimamente che questo un
giorno avrebbe potuto portare lui stesso a perderne il controllo di cui
disponeva invece ora.
«Mh, non posso proprio Zwei.» replicò costernato, una
falsa cortesia: aveva imparato che Vincent Nightray non era mai sincero.
…Probabilmente proprio per quello erano in grado di
lavorare decentemente insieme per quel che gli serviva: erano perfettamente
coscienti di nascondersi la maggior parte delle cose e di mentirsi a vicenda
senza mai rivelare completamente all’altro le proprie intenzioni, ma erano
altresì certi che sulle cose davvero importanti non mentisse nessuno dei due.
«Perché no, Vince?!» esclamò l’altra, il tono appena
più stridulo e irritato per quella negazione.
Lui se la strinse addosso, il viso vicino al suo:
«Perché se ferissi Echo, ferirei anche Zwei, no?» sussurrò maliziosamente da
quella scarsa distanza.
«Se avete finito di fare i vostri comodi, non ti ho
chiamato nel mio ufficio per lo sfogo dei tuoi ormoni adolescenziali, Vince.» lo sfotté, sottolineando quanto
potessero farsi i loro comodi altrove senza farle perdere tempo.
Lui rise infantilmente, rivolgendo lo sguardo verso di
lei: «Non essere gelosa, Lotti.» la prese in giro, rischiando qualche istante
dopo che un blocco di fogli dall’aria non leggerissima si abbattesse sulla sua
testa – se non accadde fu solo perché si spostò prontamente lasciando che
affondassero nella parte superiore della poltrona.
«E tu non chiamarmi Lotti. Tanto più che non mi
interessano i ragazzini.» aggiunse, un sorrisetto malizioso che stavolta partì
come una chiara provocazione da parte sua anziché dal biondo.
Prese posto sul divanetto di fronte a lui, un tavolino
basso fra loro sul quale poggiò quello che sembrava un fascicolo bello pieno.
Vincent vi rivolse la sua attenzione, senza
rispondere: «E quello?» la interrogò subito, un’occhiata curiosa ai fogli che
da quella posizione era impossibile sbirciare.
«Quelli sono i compiti che devo correggere, lascia
perdere.» replicò l’altra: «Piuttosto, non sarà che ti è passato per la testa
che minacciare poco velatamente Oz Bezarius non era esattamente il massimo per
tenerlo all’oscuro delle cose per il tempo utile?»
«Non vedo perché. Tanto, da accordi, prima o poi lo
scoprirà lo stesso.» replicò lui annoiato, l’interesse per il fascicolo sparito
appena scoperto di cosa si trattasse.
«Non va bene per niente! Se ti sto assecondando è solo
perché Bezarius è l’unico che può mettermi in contatto con quello lì. Ma questo
non significa che puoi fare come ti pare, visto e considerato che abbiamo un
accordo.» gli fece presente, irritata.
Vincent, una mano che sfiorava appena la pelle sotto
il bordo della camicia della divisa di Zwei, sorrise appena, enigmatico:
«L’odio di una donna è proprio pericoloso.» osservò casualmente, ritrovandosi
un attimo dopo con Charlotte protesa verso di lui dopo aver facilmente aggirato
il tavolino, una lama vicino al suo collo con la stessa espressione che se gli
stesse porgendo una caramella.
Il sorriso che le incurvava le belle labbra connotava
quella nota di divertimento che solitamente era più tipica di lui che non di
lei: «Hai ragione, l’odio di una donna è pericoloso. Perciò vediamo di far sì
che non te ne attiri troppo addosso, mh?» sussurrò.
Lui la osservò per un attimo piacevolmente sorpreso,
guardandola poi tornare dritta e recuperare i fascicoli di compiti da poggiare
in cattedra, dandogli le spalle.
«Vedi di ricordartelo, l’accordo che abbiamo.» disse,
aprendo la porta in un tacito invito ad andarsene: «Non mi importa cosa dici o
fai a Bezarius. Ma non prima che mi faccia incontrare con Jack.» chiarì, mentre
Vincent alzatosi e assicuratosi che Zwei rimanesse lì – almeno finché non fosse
tornata Echo – aveva raggiunto la porta.
Si chinò appena verso di lei: «Se me lo dici in questo
modo, professoressa, di certo non potrò proprio far finta di averlo
dimenticato.» osservò con falsa innocenza, varcando poi la soglia e
richiudendosi lui stesso la porta alle spalle.
«Tsk, ecco perché odio i ragazzini.» sbottò lei,
allontanandosi.
Aveva lasciato che Noah andasse avanti, dal momento
che si era preparato prima di lui: alla fine, caso aveva voluto che avesse
dovuto recuperare l’esame proprio il giorno del ballo, dunque la mattinata
l’aveva praticamente spesa in compagnia di Rufus Barma – e suvvia, se lo
sarebbe volentieri evitato.
L’esame era stato fissato per le dieci del mattino, ma
Noah gli aveva consigliato di andarci con largo anticipo e lo aveva
accompagnato nel caso in cui non ci fosse stato nessuno, per tenergli
compagnia.
Di certo non c’era la folla lì presente, ma erano una
decina di studenti: tra questi, Oz non aveva faticato a riconoscere Echo,
scoprendo che anche lei avrebbe dovuto fare quell’esame – trattandosi si una
servitrice, aveva ipotizzato Noah, probabilmente partiva svantaggiata rispetto
alla maggior parte degli studenti che invece aveva avuto una certa istruzione
anche prima di Latowidge.
Era stato in quell’occasione che Oz aveva chiesto alla
compagna di andare al ballo insieme; a sorpresa, Echo aveva accettato – in
realtà più che altro non aveva rifiutato, ma fondamentalmente per Oz il
significato era il medesimo.
Perciò a quel punto non aveva più avuto un vero e
proprio motivo per non andare e attardarsi; avanzava ora per il sentiero
esterno che collegava i dormitori all’edificio centrale in cui non solo l’atrio
ma anche le sale più grandi avrebbero ospitato l’evento.
L’unica pecca probabilmente era proprio quella, quel
tratto esterno, per quanto breve: la neve ultimamente era caduta con più
frequenza, quasi a voler sottolineare la presenza imminente di un bianco
Natale, facendo sì che ci fosse ancora più euforia fra gli studenti – e, c’era
da dirlo, di qualche insegnante.
Aveva comunque raggiunto l’entrata che dava sull’atrio
abbastanza facilmente, avendo anche la fortuna di trovare un momento in cui non
stesse nevicando.
L’appuntamento con Echo era stato per le otto meno un
quarto, vicino al grande albero che da un paio di giorni occupava un angolo
dell’atrio, finalmente completato; così, quando entrò varcando la soglia, non
faticò molto a ritrovare quel punto.
Vi si diresse, notando quanto probabilmente la maggior
parte degli studenti fosse già nell’altra sala in attesa dell’inizio ufficiale
del ballo fissato per le otto; con un’occhiata poté quindi facilmente
indovinare di essere arrivato per primo rispetto ad Echo – in un certo senso
soddisfatto, dopotutto per quella sera era il cavaliere e doveva essere un
gentiluomo impeccabile.
Si mise quindi vicino all’albero, così da poter
facilmente osservare l’atrio e al tempo stesso essere individuabile per Echo
senza grossi sforzi: sentiva il vociare arrivare dalla sala attigua, e provò ad
immaginare come potessero averla sistemata per l’occasione; a detta di Noah,
facevano sempre le cose in grande in occasioni come quella.
Si voltò, sentendosi toccare la spalla, non trovando
nessuno dietro di sé: per un attimo, qualcosa dentro di lui quasi gli impose di
inquietarsi per quello.
Era diventata una strana e non proprio benvoluta
prassi, il fatto che ogni qual volta avesse una sensazione insolita questa
dovesse necessariamente concretizzarsi in un fenomeno che di normale aveva poco
– in compenso una volta su due almeno si rivelava abbastanza pericoloso però.
Si voltò nuovamente, imponendosi di non farci caso:
doveva essere un po’ di suggestione e niente di più, dal momento che aveva
controllato e non c’era niente.
O quantomeno lo pensò e se lo ripeté mentalmente fino
a che non ebbe la sensazione che quel tocco ci fosse sul serio sulla spalla:
l’idea di ignorarlo gli attraversò la mente, ma che lui fosse sempre stato tipo
da darla vinta alla propria curiosità non era mai stato un mistero per nessuno,
tanto meno per se stesso.
Quasi sperò di non trovare nulla.
Invece, non senza sorpresa, si ritrovò ad osservare
una ragazza: i capelli lunghi e scuri, lisci, la cui frangia le copriva appena
il viso e l’abito bianco e semplice, nulla di elaborato che potesse far pensare
di primo impatto alla partecipazione ad un ballo più o meno ufficiale come era
quello.
Non era certo di conoscerla, a dire il vero: gli dava
la sensazione tipica di qualcuno che sicuramente da qualche parte hai già
visto, ma al tempo stesso non trasmette la familiarità delle persone con cui
parli ogni giorno.
Avrebbe potuto pensare facilmente ad una compagna di
corso con cui però non aveva mai avuto modo di parlare, perché avrebbe
facilmente spiegato la cosa: tuttavia non poteva farlo.
Il fatto stesso che lei fosse non esattamente
corporea, almeno a guardarla e a discapito del tocco che poteva giurare di aver
avvertito sulla spalla, gli suggeriva che si trattasse di quel qualcosa che era
stato uno degli ultimi argomenti di conversazione con Sirjan.
Lei rimase immobile ad osservarlo per diversi istanti,
dopo i quali non fece altro che muovere le labbra, come per dire qualcosa,
senza che però Oz riuscisse a cogliere alcun suono preciso.
Assunse un’espressione quasi di scusa, senza nemmeno
rendersene conto, e lei allungò una mano a cercare di sfiorare o prendere le
sue – non avrebbe saputo dire con esattezza quale fosse il suo intento.
Fu strano: non riuscì ad afferrargliele davvero – cosa
che convinse quasi del tutto Oz di avere davanti proprio uno degli spiriti
menzionati da Sirjan e Alyster – ma la sensazione di essere sfiorato da
qualcosa, qualcosa senza un nome preciso, la ebbe ugualmente.
Come un tocco, ma non un tocco vero e proprio;
qualcosa che né nella sua testa, né tanto meno a qualcun altro avrebbe saputo
spiegare decentemente.
«Chi…?» tentò con cautela, la sensazione che avrebbe
potuto facilmente spaventarla con un qualsiasi gesto involontario che lei
avrebbe potuto interpretare come una minaccia forse; si diede dello stupido, in
un primo momento: non era proprio normale stare a preoccuparsi di fare del male
a qualcosa che non riusciva nemmeno a toccare propriamente.
Vide lo sguardo di lei farsi persino più malinconico
di quanto non fosse apparso già al primo sguardo.
…Si aspettava cosa da lui? Forse che la riconoscesse?
«Ah, io… non ricordo bene. Ci siamo già… incontrati?»
tentò, osservandola, una mano che istintivamente si era allungata un po’ in sua
direzione.
Lei la osservò, quasi stesse decidendo se fidarsi o
meno; tuttavia, fece appena in tempo a guardarla rivolgere la sua attenzione a
qualcosa che si trovava oltre le sue spalle, prima che sparisse completamente
in brevissimo tempo.
«Che fai?» sentì pronunciare alle proprie spalle,
voltandosi velocemente e inquadrando la figura di Echo che lo osservava;
sorrise istintivamente: «Piccola Echo!»
«Ho detto che è Echo e basta.» grugnì lei
immediatamente, facendolo ridacchiare.
«Guardavo l’albero, deve essere quello a cui ho visto
lavorare Coleman e Wayne!» replicò, il sorriso subito al proprio posto,
rivolgendo uno sguardo più attento a lei.
Indossava un abito carino, un po’ più sbarazzino di
quelli che aveva visto indossare alle dame più adulte di qualche festa a cui la
sua famiglia era stata invitata: era di un bel blu, non eccessivamente scuro e
riprendeva il nastro che le legava i capelli più corti lasciando invece libere
le ciocche che già normalmente le incorniciavano il volto.
«Che carina ~!» canticchiò, osservandola arrossire
divertito e porgendole il braccio da bravo cavaliere: «Andiamo?» chiese, il
tono cortese un po’ per gioco, un po’ per reale gentilezza, aspettando che
l’altra – un po’ impacciata, ma immaginava fosse normale visto che
probabilmente non era abituata – accettasse il suo invito per avviarsi dapprima
verso la sala, e poi varcarne la soglia entrandovi del tutto.
Lo osservò entrare in sala con la ragazza al servizio
dei Nightray, lo sguardo chiaro che aveva accarezzato con nostalgia e dolcezza
la figura del più giovane prima che sparisse dal suo campo visivo.
Solo allora, sicuro dell’assenza di persone nell’atrio
si spostò dal proprio nascondiglio – anche se definirlo tale era comunque in
qualche modo sbagliato: pochissime persone li vedevano, specialmente se non
desideravano essere visti. Era anche per quello che gli era permesso rimanere
in quella scuola, dopotutto.
Bastava non rompere il patto che c’era.
Fu seguito quasi subito da una figura più minuta, in
quel momento tutta presa a giocare con la sua treccia: lui la lasciava fare,
per nulla infastidito, rivolgendole anzi uno sguardo accondiscendente; e
pensare che Alice non era affatto pericolosa, quando si riusciva a non farla
agitare.
Sospirò appena: il vero problema era la presenza di
luoghi in quell’istituto in cui lui non potesse assolutamente recarsi.
«Jack, Jack, balliamo anche noi quando comincia la
musica?» chiese lei, abbandonando la treccia che era stata il suo
intrattenimento fino a quel preciso istante, portandosi davanti al biondo
saltellando appena tra un passo e l’altro.
Lui le sorrise nuovamente, annuendo: «Certo Alice, se
ti fa piacere, balleremo anche noi.» le assicurò con dolcezza. Lei sorrise
raggiante, suscitandogli un moto di tenerezza nell’osservarla.
«Sì, balliamo!» ripeté nuovamente, quasi a dare ancora
più enfasi alla questione, neanche fosse la cosa più importante del mondo – e a
pensarci seriamente per un attimo, si disse Jack, probabilmente era davvero
fondamentale per lei.
«Ehi, Jack» si sentì chiamare una seconda volta:
«Persino quella lì si è fatta vedere, eh? Non senti più confusione da qualche
giorno?» chiese, il tono divertito come se fosse per una festa a simile a
quella che stava per iniziare nella stanza accanto.
Il biondo portò lo sguardo sul punto in cui poco prima
aveva visto apparire e poi scomparire Lacie, lo sguardo ora preoccupato: «Credo
sia perché anche gli altri lo sentono.» sussurrò a se stesso, senza che Alice
lo udisse.
«Comunque, ho davvero una brutta sensazione.» aggiunse,
stavolta udibile anche per lei, che danzava con l’aria nell’atrio mentre la
musica nell’altra stanza iniziava a suonare.
Entrati nella sala principale del ballo, erano
ammutoliti entrambi, ritrovandosi a fissare a bocca aperta come dei bambini che
si meravigliano per ogni cosa la grande sala.
Seppure i lampadari elaborati e la grandezza
dell’ambiente fossero entrambe cose a cui erano abituati vivendo in
quell’istituto, altrettanto non poteva dirsi dell’atmosfera che si respirava ad
ogni passo.
Le prime cose che erano saltate all’occhio erano state
alcune decorazioni natalizie, non eccessive né troppo abbondanti nella
quantità, ma belle e di una certa eleganza.
Per lo più si trattava di nastri rossi che
richiamavano uno dei classici colori natalizi, e solo in alcuni punti sporadici
– spesso in corrispondenza delle finestre più grandi – si scorgeva qualche
vischio; alle pareti erano state accostate lunghe tavolate con tutti i cibi
possibili ed immaginabili, mentre in altre due più piccole erano state organizzate
le bevande più varie, con più di una persona a servirle.
Probabilmente, fu il primo pensiero di Oz quando fu in
grado di scostarsi mentalmente dallo stupore che aveva colto sia lui che Echo,
l’effetto di meraviglia generale era in gran parte dovuto agli occupanti della
sala: se anche gli abiti degli uomini e dei ragazzi non differivano molto tra
loro se non per modello, essendo tutti per la maggior parte di colore nero e
spezzati nel monocolore solo dalla camicia bianca o, in casi più rari, da accessori
minimi come cravatte, nastri, foulard o fiori all’occhiello, le ragazze
offrivano uno spettacolo assai più vario.
Data la possibilità come in occasione del concerto
svoltosi quello stesso mese, avevano dato sfoggio di una vasta gamma di colori
nei loro abiti: quando Oz aveva iniziato a guardarsi intorno alla ricerca dei
compagni e li aveva individuati insieme a formare un gruppo abbastanza
numeroso, la cosa gli era parsa quasi più evidente.
Aveva invitato Echo a raggiungerli con lui,
indicandoglieli, e si erano diretti appunto verso di loro.
Il primo a notarli era stato Noah, che Oz aveva già
visto con il suo abito quando era uscito dalla stanza e che notò essere di poco
diverso da quello di Marcus – comprensibile se si provava a supporre che fossero
stati entrambi scelti da Cecile.
Pantaloni semplici e neri, camicia bianca – per una
volta, anche nel caso di Noah, tenuta in ordine dentro i calzoni – e giacca
scura poco più lunga della vita; sia Noah che Marcus avevano optato per un
nastrino sotto il colletto della camicia, simile a quello che erano abituati a
portare per la divisa, nero per entrambi.
Con loro c’erano Alice, in un abito rosso non
eccessivamente elaborato ma abbastanza elegante per l’occasione, i capelli
tenuti in due code come ogni giorno, ma adornate con due nastri della stessa
tonalità dell’abito.
Subito dopo, Oz riconobbe la sorella: Ada aveva i
capelli ordinati in un chignon elaborato e ornato di un fermaglio dal tema
floreale, sul lillà, in ripresa del colore dell’abito, appena più chiaro
dell’accessorio. Le fasciava il corpo rendendo giustizia alle forme e lasciando
le spalle scoperte: portava dei guanti corti e gli rivolse un sorriso nel
vederlo.
Accanto a lei stavano la sua compagna di stanza Karin
Hamilton, in un abito di un blu appena più chiaro di quello di Echo, i lunghi
capelli corvini legati in una treccia e tenuti su in un chignon meno elaborato
di quello di Ada ma ugualmente elegante che le lasciava scoperto il viso
sorridente; era affiancata da Clifton Lafayette, i cui capelli scuri erano
legati in una coda bassa e ordinata da un nastro blu scuro, l’abito di poco
differente da quello degli altri ragazzi in sala, la giacca solo appena più
lunga tanto da arrivare leggermente sopra il ginocchio.
Teneva il braccio semi piegato, nella classica
posizione che permetteva alla sua dama – Karin, suppose senza doversi impegnare
troppo per indovinare – a poggiarvi la mano come la ragazza al suo fianco stava
facendo.
«Ton-ton, so che ti chiediamo un grandissimo sforzo,
ma essere uomo per una volta? Stai arrossendo come una ragazzina!» sentì
qualcuno sfottere Clifton e, spostando lo sguardo, intravide anche Sally
McFinch.
I capelli corti erano lasciati sciolti, ordinati da
una fascia sul verde chiaro in tinta con l’abito lungo poco oltre le ginocchia
e quindi più simile a quello di Echo; Clifton in quel momento le rivolse
un’occhiata eloquente, mentre Karin ridacchiava sommessamente divertita e
interveniva a fare da piacere tra l’amica e il proprio cavaliere: «Sally, non
stuzzicarlo.» la pregò gentilmente.
Oz sorrise divertito, spostando lo sguardo verso il
resto della sala: vicini all’orchestra che si stava evidentemente organizzando
per l’inizio della serata ormai prossimo, intravide Rufus e Miranda Barma che
parlavano e non troppo distanti da loro lo stesso facevano Xerxes Break e
Alexis Coleman.
Poté individuare facilmente anche Daniel Wayne, che
era accanto alla preside Cheryl.
Stava per passare in rassegna un’altra parte della
sala quando sentì una voce familiare più vicina di quanto non l’avesse notata
poco prima: «Buonasera.» colse, voltandosi e ritrovando Alyster ormai in
prossimità del loro gruppo.
Sulla sedia a rotelle, alle sue spalle stava Sirjan,
che rivolse loro un cenno leggero del capo; indossava lo stesso abito che gli
avevano visto al concerto, quando aveva suonato: l’unica differenza era data
dal nastro sotto il colletto della camicia, color ghiaccio. Ancora una volta,
poté notare facilmente Oz, dello stesso colore dell’abito della sorella,
semplice e senza particolari disegni sulla stoffa, che le fasciava il fisico
esile lasciando in parte scoperte le spalle laddove non nascoste dalle bretelle
a fascia.
Teneva i capelli legati in una treccia morbida,
adagiata sulla spalla sinistra e sorrideva con gentilezza come sempre: «State
tutti benissimo.» si complimentò con il gruppo in generale.
Oz le sorrise di rimando, ricambiando il complimento,
mentre Noah azzardò a farsi più vicino a lei facendo un inchino di tutto
rispetto e prendendole con delicatezza la mano, mimando un bacio sul dorso
senza tuttavia sfiorarlo con le labbra, come buona educazione imponeva.
Alyster sorrise divertita, portando la mano libera a
coprire appena la bocca nell’atto: «La professoressa Barma sarebbe molto fiera
se ti vedesse.» commentò, bonariamente scherzosa, e Noah ridacchiò facendole
l’occhiolino dopo che fu tornato dritto.
Oz le si rivolse, approfittando di un attimo di
silenzio generale: «Hai già incrociato Elliot?» domandò, più per curiosità che
per necessità di incontrare l’altro.
Lei scosse la testa, occhieggiando nei dintorni: «Non
ancora, ma penso arriverà a breve insieme ai fratelli.» replicò, alzando appena
una mano in un cenno di saluto che, seguendo la direzione in cui era rivolto,
Oz e il resto del gruppo poterono intuire fosse diretto ad Aedan che entrava in
quel momento nella sala al fianco di Ethan.
Fu così che Noah e Marcus si congedarono dal gruppo
per dirigersi a salutarli – Ethan, gli aveva detto Noah, era una delle poche
persone che potesse azzardare a definire amico di Marcus.
Quasi nello stesso momento, Alyster e Sirjan fecero lo
stesso e il loro posto, quasi fosse stato un accordo, fu preso da due dei
Nightray.
Gilbert e Vincent si erano infatti avvicinati al loro
gruppo riconoscendoli: un po’ ad imitazione del concerto anche loro vestivano
gli stessi abiti ed entrambi avevano i capelli legati in una coda bassa come
Clifton; nel caso di Vincent era più ordinata e legata da un nastro rosso,
mentre per Gilbert i capelli che sfuggivano al nastro blu erano di più, ma non
per questo davano un’impressione di disordine.
Vincent sorrise loro ampiamente, tanto che dentro di
sé – non lo espresse al resto del mondo perché proprio non era il caso di
rovinare e rovinarsi la festa – Oz si ritrovò a pensare che il mezzano dei tre
Nightray doveva avere fra le sue molte qualità innate la faccia di bronzo.
Apprese poco dopo che si trattava del cavaliere di sua
sorella per quella sera – si impegnò tanto a mascherare la sorpresa, ma non fu
certo di riuscirci e nulla mise definitivamente a tacere la vocina che
martellante, nella sua testa, gli ripeteva qualcosa come: “vendetta personale”
e “tu ti avvicini a mio fratello, io mi avvicino a tua sorella”.
Era stato difficile far mantenere la calma, quando era
successo.
All’inizio probabilmente se ne erano accorti in pochi,
ma dai più vicini ai più distanti dal punto in cui era accaduto – in
un’inquietante somiglianza con il classico effetto domino – diverse teste si
erano voltate fra il vociare e alcuni toni che colti di sorpresa erano stati
più spaventati di altri.
Oz non era tra i più vicini, ma a fargli capire che
qualcosa non andava era stato vedere Aedan che veloce era sfrecciato verso la
porta principale, sparendovi oltre.
Cercando nelle immediate vicinanze, a quel punto non
era stato troppo difficile individuare uno spazio vuoto tra la folla; era quasi
riuscito ad avvicinarsi quando Gilbert lo aveva raggiunto, palesandogli la sua
presenza con un braccio attorno alle spalle.
«Gil, che succede?» aveva chiesto, non proprio
allarmato dal momento che non sapeva di cosa si trattasse, ma con una sfumatura
di iniziale preoccupazione nel tono.
Lui l’aveva guardato, l’espressione seria, incerto se
rispondere o meno; poi l’aveva sospinto leggermente verso la porta, senza
dargli possibilità di muoversi nella direzione opposta e quando erano stati
quasi fuori si era chinato verso di lui.
«Alyster si è sentita male.» aveva pronunciato.
Non gli era stato possibile vederla subito, e si erano
anche chiesti come fosse stato possibile portarla in infermeria visto che dalla
porta principale né lei né Sirjan erano usciti.
Fuori dall’infermeria, quando l’avevano raggiunta,
avevano trovato Noah e Marcus, che probabilmente avevano accompagnato Ethan per
ricondurlo dov’era Aedan.
E, poco distanti, Elliot e Reo.
Aedan era uscito dall’infermeria solo dopo una ventina
di minuti, ma il fatto che avesse assicurato a tutti loro di tornare ai
dormitori o alla festa a seconda dell’opzione che preferivano, aveva
tranquillizzato tutti loro che erano lì ad aspettare.
Alyster rimase al letto per il mese seguente.
Note dell’autrice
Un parto.
Questo capitolo mi ha
succhiato via l’anima. E sappiate che mi sono obbligata a finirlo entro marzo
e_e *anche perché il ritardo si sarebbe protratto fino alla morte altrimenti*
Che dire? La frase in apertura
è dell’anime “5 centimetres per second”, carino da vedere se avete voglia di
deprimervi profondamente alla comoda cifra di soli tre episodi (ma a me è
bastato il primo 8D)
Pian piano vi rifilo
informazioni, anche se dosarle è sempre un problema; è apparsa anche Lotti-san
*A* *festeggia*
E ci provo a scollinare
dalle 16 pagine di capitolo ma niente, mi vengono e me ne accorgo che è sempre
troppo tardi XD
Ho provato anche a gettarvi
qualche scena shonen-ai qua e là, visto che più andremo avanti, più avrò talmente
tanta roba nella trama da gestire che sarà un pelo più difficile 8D
Vogliatemi bene lo stesso,
ne?
Ringraziamenti
makotochan: ahimé sì, Oz non ha lo
spirito da fangirl, ma come ci siamo già dette in separata sede, Noah
sopperisce la mancanza XD *muor* Gil ha imparato a fare il figo… sarà, ma io
ridevo come una scema, e dire che sono io a scrivere 8D
Quella lì che trattava così
Alice, è la Will of Abyss, che non mi metto a spiegarti con precisione qui chi
sia, ma per quanto riguarda “Rinnega il tuo nome” al momento è un presunto
spirito con le sembianze e il nome di Alice stessa 8D *attenta a non
spoilerare*
Christopher e Noah sono
un’arma impropria contro Marcus fondamentalmente e sono troppo stupidi insieme,
come si è visto XD In questo capitolo sono stati un pelo più seri – per la
serie: i miracoli avvengono ogni tanto – e qualcosa si è capita anche del
perché Zai scazza i nomi dei figli come se sbagliasse marca di assorbenti (??)
Spero ti abbia soddisfatta
il capitolo ùwù
Gioielle: del rapporto Gil-Oz abbiamo
largamente già discusso, quindi non starò a ripetermi qui. Non posso che
dichiararmi soddisfatta che lo sforzo di accozzarli insieme in tutti i modi che
la mente dell’autrice possa concepire siano stati di tuo gradimento XD Gilbert
pseudo-seme era un mio sogno proibito, lo ammetto: più che altro, povero,
sembra che faccia il seme solo per questioni di fisicità causa Abisso (nel
manga)! Diamogli una possibilità! XD
La scena Marcus-Noah, o
quantomeno l’accenno, è giusto che venga intesa senza essere commentata u_u;
quanto a Vincent e Oz sì, è quella di cui ti avevo accennato.
In conclusione ho una sola
cosa da dire: se temevi che fosse solo l’inizio dell’angst che ho intenzione di
propinarvi beh, ci hai azzeccato in pieno *ammicca*
Fiamma Drakon: Break E’ una fidanzatina
appiccata al suo uomo! *muore* XDDD
La Volontà si è aggiunta (e
qui è pure riapparsa), perché mi ero ripromessa di mettere dentro tutti i
personaggi di PH, fosse stato anche solo per comparsa, non potendo dare a tutti
un ruolo di peso. Certo, se la Mochizuki smettesse di sfornarne io non dovrei
lambiccarmi il cervello per cercare di inserire anche i nuovi con scarsi
risultati, ma vabbé XD
Felice che ti sia piaciuto
il precedente capitolo e spero che anche questo sia stato di tuo gradimento – e
che la questione Zai-Oz-Jack sia un pelo più chiara soddisfacendo la tua
curiosità <3
Gweiddi at Ecate: innanzitutto, ti
ringrazio per i tanti complimenti. Pensare che tendi a non lasciare recensioni
ma che la fanfiction in qualche modo ti abbia spinta a farlo è già di per sé un
grosso traguardo per me.
Per quanto riguarda la presenza di Lotti, come detto anche
su ho rimediato XP Doveva arrivare il suo momento, tutto qui u.u
Che
dire se non un continuo grazie per riscontrare l’IC, per la trama che ti ha
presa, per gli interrogativi per i quali non attenterai alla mia vita (XD), per
dire che ti suscita emozioni quello che scrivo e non ultimo per amare Noah, che
più di altri personaggi originali è stato una scommessa a quanto pare ben
riuscita.
Spero
che anche questo capitolo possa appassionarti allo stesso modo <3
Nel mese durante il quale Alyster era rimasta in infermeria dopo il
primo malore durante il ballo, c’era stato un via vai continuo, seppure
sempre delle stesse persone
Poi,
il tempo siferma
As years go by
I race the
clock with you
But if you
died right now
You know that I'd die too
Nel mese durante il quale Alyster era rimasta in
infermeria dopo il primo malore durante il ballo, c’era stato un via vai
continuo, seppure sempre delle stesse persone.
Le volte in cui Oz vi si era recato
aveva avuto modo di incrociare Elliot e Reo che ne uscivano, Keira Nightingale
del quinto anno che aveva partecipato al concerto, Ada accompagnata da Karin e
Gilbert, che però si limitava spesso ad una visita di passaggio che
durava il tempo utile ad informarsi con cortesia della sua salute senza
però fermarsi mai troppo a lungo.
Probabilmente era dovuto al fatto che non avevano la
stessa confidenza che la ragazza aveva invece con Elliot, il quale –
così gli aveva detto lei stessa in una delle prime visite – si
tratteneva sempre abbastanza a lungo da parlare un po’.
Ovviamente, ad eccezione degli impegni assolutamente
improrogabili, Sirjan viveva praticamente dentro
l’infermeria, Aedan che lo sostituiva per quanto riguardava le ronde e
tutto ciò che concerneva strettamente la disciplina; solo i documenti
erano lasciati al capo dormitorio.
Per il resto, Oz sapeva per certo che anche Noah era
andato a trovarla per il semplice fatto che spesso erano andati insieme; una
delle volte in cui però era andato da solo, Alyster lo aveva sorpreso
con una richiesta.
«Ci sono delle cose delle quali ti vorrei
parlare.» aveva esordito la ragazza, il sorriso pacato
sempre al suo posto, il corpo esile che vestiva una vestaglia sopra la camicia
da notte, coperto fino alla vita dalle lenzuola bianche e pulite, il viso un
poco pallido, ma tutto sommato sano.
«Forse Sirjan non condividerà, ma credo…
sia il caso di parlartene. Sto solo anticipando di un poco il momento in cui ti
avremmo raccontato comunque la cosa.» aveva proseguito, le dita delle
mani intrecciate in grembo: «Sono cose che non dovresti sapere. E alcune
regole mi impediscono di raccontarti i dettagli.
Però ci sono cose, anche che non ti riguardano personalmente, ma che
riguardano solo me e mio fratello, di cui…
vorrei parlarti. Che vorrei tu ascoltassi.»
aveva poi detto, osservandolo per studiarne la reazione forse.
Oz e la curiosità erano una cosa sola, ma a
spingerlo ad annuire non era stato solo quello: era stata la profonda fiducia
che in relativamente poco tempo aveva sviluppato nei confronti di Alyster, era
stata l’espressione gentile e la parola di conforto che ogni volta lei aveva
trovato il tempo di rivolgergli.
Era stata quella sensazione che intorno alla ragazza
aleggiasse tanta gentilezza quanto qualcosa di più spesso e
impenetrabile che non era mai riuscito a decifrare.
Lei aveva sorriso, ma in maniera diversa: sollevata,
grata quasi.
«Voglio parlarti della mia famiglia e di quello
che fa da generazioni, Oz.»
I Kolstoj non erano mai stati una di quelle famiglie
il cui nome è presente nei registri di secoli e secoli prima; rispetto a
molte altre casate avevano una storia più breve, ma fin da quando figuravano
in società il loro compito era sempre stato lo
stesso: non si seppe mai saputo se si fossero staccati da un ramo principale
con un altro nome, o se avessero avuto origine dal matrimonio di un membro di
una famiglia conosciuta con un qualche straniero.
Tuttavia, era pressoché impossibile fra le
casate ducali maggiori che il loro nome non fosse più che conosciuto:
tra queste, i Kolstoj erano stati chiamati in vari modi nel corso del tempo.
Ci fu un periodo in cui li chiamarono Recorder, “coloro
che registrano”; il nome subì diverse variazioni nel tempo,
si notava dalle informazioni che dal passato erano rimaste, spesso ad opera
degli stessi capo famiglia in carica. Furono chiamati per un breve periodo
“gli informatori”, nome abbandonato e ripreso solo più
avanti, per poi essere mantenuto in modo più o meno
definitivo e stabile.
Il ruolo del capofamiglia era un ruolo estremamente complesso nel suo genere: la famiglia dei
Kolstoj, di generazione in generazione si occupava sempre della stessa cosa,
ossia quello che veniva definito all’inizio “segreto di
società”; le casate nobili più in vista, e nella
fattispecie le cinque casate ducali maggiori, intersecavano le loro storie e le
loro esistenze in una maniera tale che come in ogni ambiente di alta
società denso di falsità e menzogne, non erano rari incidenti che
avrebbero gettato la reputazione di chiunque in una fanghiglia così
densa da non permettergli alcuna risalita.
Per sopperire a questi incidenti e perché venissero messi tutti completamente a tacere senza lasciare
traccia, si ricorse a qualcosa di molto simile a dei “depositari”
delle informazioni.
Questi erano i Kolstoj.
Generazione dopo generazione
il capofamiglia si faceva carico delle vergogne peggiori delle altre casate,
con l’obbligo di non rivelarle a nessuno e mantenere una posizione di
assoluta neutralità: suo compito era di agevolare una soluzione al
problema più semplice e discreta possibile, facendosi fautore
dell’equilibrio fra le casate maggiori.
Ogni informazione sarebbe stata registrata nella
persona stessa del capofamiglia, che avrebbe portato i segreti di cui era a
conoscenza nella tomba, ad eccezione del suo successore, l’unico
autorizzato a conoscere quanto accaduto fino a quel momento.
La successione – così fu deciso dal primo
capofamiglia – avvenne sempre per età: qualora anche ci fosse
più di un figlio e possibile erede, questi sarebbe stato scelto sempre
attraverso quel parametro. Dunque ogni primogenito, già dalla sua
nascita, sarebbe stato destinato a prendere il posto
di suo padre.
La prima eccezione si ebbe nella seconda generazione
della famiglia: il primogenito Maximilian morì assassinato che era
appena ragazzo e il suo posto fu quindi preso dalla
secondogenita Lilith.
La seconda, fu nel caso della
quinta generazione: i figli del capofamiglia di allora erano gemelli. Sebbene
l’uno fosse nato di qualche secondo prima dell’altra, non si poteva
parlare di maggiore età fra loro.
Fu deciso perciò che la decisione sarebbe stata
presa più avanti con l’età, basandosi sull’indole e
le attitudini dimostrate da entrambi; tuttavia, nonostante non fu resa pubblica fino alla cerimonia di maggiore età
a quindici anni, la decisione era stata presa già l’anno precedente
in un modo tale che se fosse stato scoperto, probabilmente ci sarebbero stati
diversi disaccordi in proposito.
Benché fosse in potere del capofamiglia
cambiare alcune regole interne della famiglia qualora lo ritenesse strettamente
necessario, quella della successione era rimasta intaccata per ben cinque
generazioni.
All’età di quattordici anni, Sirjan
Kolstoj chiese di essere l’erede del ruolo di
suo padre.
«Sirjan,
Alyster, non correte!» sentirono esclamare poco
dietro di loro; il ragazzino si fermò per voltarsi indietro, cercando
con lo sguardo la figura della madre che li aveva richiamati. Allo stesso
tempo, sua sorella lo raggiunse affiancandolo, la risata leggera e cristallina
che si levava nell’aria mentre si fermava a sua volta.
«Non
preoccuparti, madre!» assicurò lui di rimando, voltandosi quindi
all’indirizzo della gemella e allungando una mano verso di lei, che la
prese prontamente rivolgendogli un sorriso allegro.
«Ti accompagno dove vuoi! C’è un posto che
preferisci, Alys?» domandò osservandola; lei parve pensarci su
qualche istante, con grande attenzione: «Andiamo al fiume, fratellone?» propose quindi, l’espressione incerta. Sirjan le sorrise, l’aria divertita, spostandosi di qualche
passo ed esibendosi in un perfetto inchino con tanto di baciamano.
Rialzò
lo sguardo furbo su di lei, che sorrideva divertita: «Certo
che sì. Ogni tuo desiderio è un ordine.»
affermò.
Allora, Alyster camminava ancora; all’età
di undici anni, lei e Sirjan erano due bambini la cui massima preoccupazione,
come tutti i loro coetanei, era cosa fare nei pomeriggi assolati come quello in
cui andarono insieme al fiume.
Situato vicino alla tenuta estiva dei Kolstoj, il
corso d’acqua non era particolarmente capiente o conosciuto: scorreva
attraversando delle parti di verde incontaminato, con vegetazione non troppo
estesa che rischiasse di far smarrire la strada.
Quel pomeriggio, con l’ingenuità tipica
di un bambino, Sirjan aveva pronunciato una promessa che, pur non potendolo
sapere allora, avrebbe continuato a mantenere anche in futuro: i desideri della
sorella, il suo stare bene, sarebbero diventati la sua personale priorità.
Forse anche per questo qualche anno dopo sarebbe stato
lui stesso a prendere il posto del padre quando ancora
non era stato deciso chi vi fosse più adatto fra lui e la sorella.
La giornata al fiume fu divertente: passarono quel
pomeriggio sul prato, con i piedi per un po’ nell’acqua del fiume;
Sirjan rischiò di farsi male quando per prendere un paio di frutti
dall’albero cadde – per fortuna da
un’altezza misera, scivolando mentre scendeva per tornare a terra.
Avrebbe potuto piangere come il bambino che era, ma
per un motivo che sarebbe stato chiaro solo qualche anno dopo, il viso
preoccupato della gemella aveva fatto sparire ogni possibile dolore, o
l’aveva reso qualcosa di assolutamente irrilevante in quel momento.
Era stato importante soltanto ridere della propria
goffaggine, lasciare che Alyster gli togliesse sollevata qualche foglia
depositatasi fra i capelli e prendesse fra le mani quel frutto accennando anche
lei ad una risata leggera che scacciasse via la
preoccupazione.
Il resto, a distanza di una decina d’anni quasi,
Sirjan nemmeno lo ricordava più.
Quando Alyster cominciò a stare male, non
sembrò nulla di grave.
Non sarebbe stata la prima volta che, con un virus
influenzale nell’aria, si ammalava per prima; era capitato anche in
passato che la febbre fosse anche molto alta, o che le causasse qualche leggero
dolore alle ossa dovuto alla spossatezza soprattutto.
Anche quella volta la febbre pian piano scese fino a
sparire del tutto, ma rimase quel doloroso senso di torpore ai muscoli; a quasi
quattordici anni, le gambe di Alyster Kolstoj si bloccarono a livello muscolare
abbastanza da impedirle di camminare.
La notizia della sciagura che aveva colpito la
famiglia si sparse in fretta in società; tuttavia nessuno si
presentò alla tenuta per sincerarsi della salute della figlia femmina
che era andata peggiorando in modo così drastico
e terribile per una bambina che non aveva ancora fatto il suo ingresso in
società.
Le parole che vennero
indirettamente rivolte alla famiglia Kolstoj furono parole degne
dell’ambiente delle classi agiate di cui erano entrati a far parte con
quel loro particolare ruolo: malelingue che strisciavano sotto forma di
pettegolezzi insinuandosi nei posti più angusti, raggiungendo
l’udito anche di chi non avrebbe voluto ascoltare.
E dire che anche il figlio maschio deve ancora
affrontare la cerimonia di maggiore età: sarà segnato dal destino
toccato alla sorella., erano stati i commenti spietati che si erano
riversati su di loro, riempiendo le mura di casa.
Sirjan sviluppò un rifiuto categorico nell’apparire
in pubblico, giurando dalla prima volta in cui sentì quei commenti che
mai si sarebbe sottoposto alla cerimonia senza la
sorella.
Disse parole forti per un ragazzino della sua
età.
Disse cose che andavano contro l’educazione
ricevuta e la posizione per generazioni prima i suoi antenati avevano faticosamente conquistato.
Disse per la prima volta qualcosa con la rabbia e
l’odio che si addicono ad un adulto.
Le pronunciò davanti all’unico
aristocratico che in casa Kolstoj mise piede senza mentire, riversando su di
lui quel disgusto che una cerchia di nobili aveva provocato, facendone il capro
espiatorio.
…Ma
quell’aristocratico non si voltò come tutti gli altri.
«Ci è giunta voce
della malattia che ha colpito vostra figlia.» sentì dire al
giovane esponente che era probabilmente venuto fin lì per farsi
portavoce della propria casata in vece del capofamiglia.
Lo aveva osservato guardingo da quando aveva messo piede lì; i capelli lunghi tenuti
ordinatamente in una coda bassa legata da un nastro nero, il mantello che
copriva le vesti e che non aveva tolto ancora di un colore piuttosto tenue.
L’espressione di chi trova quella
formalità qualcosa di non troppo utile e che se la risparmierebbe
volentieri.
Come tutti gli altri.
Falso.
Ipocrita.
Opportunista.
Di certo anche lui era lì per cortesia, per non
inimicarsi la famiglia Kolstoj.
Di certo anche lui avrebbe rivolto parole disgustose a
sua sorella.
«Sono qui, in rappresentanza di mio padre. Si scusa per
non essersi presentato di persona, un impegno lo ha
trattenuto. » gli sentì spiegare.
Prevedibile, proprio come aveva pensato.
Perché gente come quello… era lì?
«Ci tiene a comunicarvi che di qualunque cosa
necessitiate, sarebbe ben disposto ad esservi di
aiuto.» aggiunse, voltandosi poi in direzione dello stesso Sirjan,
probabilmente sentendosi osservato.
Mentre il padre del più giovane ringraziava e
lo pregava di riferire le proprie parole al padre, il ragazzo continuava ad osservare il figlio, attirando infine l’attenzione
del capofamiglia che si sentì quindi in dovere di presentarli.
«Questo è mio figlio Sirjan.»
iniziò, distratto dalla porta che veniva aperta
da una cameriera lasciando entrare Alyster, la camicia da notte sostituita da
abiti consoni a ricevere un ospite, i capelli legati in una treccia che
poggiava morbidamente sulla spalla.
Sulla sedia a rotelle da cui non si sarebbe potuta
alzare mai più.
«Lei invece è Alyster.» concluse il
padre, lo sguardo di un genitore che scambierebbe volentieri il suo posto con
il figlio pur di non vederlo in uno stato simile.
Sirjan non aveva smesso di guardarlo male nel momento
stesso in cui l’ospite aveva posato il proprio sguardo sulla gemella; se
soltanto avesse pronunciato parole che potessero in qualche modo offenderla, o sottolineare in maniera vagamente sgradevole la condizione
in cui versava ora, giurò a se stesso che non gli sarebbe importato
nulla dell’etichetta.
Lui l’avrebbe protetta: non importava a che
prezzo.
Lo vide inginocchiarsi davanti alla sedia a rotelle
della sorella, un ginocchio a contatto con il pavimento, l’altra gamba
piegata; la osservò in silenzio, quasi studiandola e Sirjan si
ritrovò a fare un passo avanti quando notò il disagio di Alyster iniziare ad essere visibile.
«Mi dispiace, per la vostra condizione.»
gli sentì dire.
Affiancò la sorella, guardando quel tipo senza
nemmeno l’ombra del rispetto che l’etichetta imponeva nei confronti
di un ospite: «Non c’è niente di cui dispiacersi.»
sbottò nell’immediato, senza avvertire lo sguardo di Alyster che
si spostava apprensivo su di lui.
«Smettete di venire qui,
voi e le altre famiglie. Di mia sorella non vi importa,
e non fate altro che rivolgerle parole che non pensate. La trattate come non
fosse normale. Allora potete anche andarvene se è per questo che vi
siete scomodato a venire.» replicò
affilato, il tono che tremava appena per la rabbia e l’incapacità
– a tredici anni – di ferire con le parole come si potrebbe fare
con delle lame, senza movimenti superflui e con accuratezza.
Piuttosto gli si rivolgeva goffo come chi in un duello
mortale impugna la spada per la prima volta nella sua vita.
E quel tipo taceva.
E lo fissava come se non valesse nulla.
«Non sarete voi, piuttosto, a considerare vostra
sorella una debole?» lo apostrofò, atono.
Sirjan avvampò, un po’ di rabbia un
po’ di frustrazione: «Come…?»
«Perdonatemi, comunque, se ho dato
quell’impressione.» riprese l’altro interrompendo ogni sua
possibile replica.
E gli sorrise: un incurvarsi
di labbra di chi ha trovato qualcosa di divertente che ha finalmente eliminato
la monotonia delle sue giornate e quasi promette docilmente di riempirle almeno
per un po’.
«Sirjan!» lo richiamò il padre, ma
il giovane alzò una mano, come a far segno che non era accaduto nulla di irreparabile, lo sguardo che rimaneva su Sirjan,
l’espressione immutata.
«Siete ancora piuttosto immaturo, ma in qualche modo
divertente. Quando sarete cresciuto, forse potremmo
anche trovare un punto d’incontro.» lo apostrofò
provocatorio e criptico al tempo stesso.
Sirjan tacque, fissandolo ancora piuttosto irritato da
quel comportamento, osservandolo anche mentre suo padre lo conduceva via da
quella stanza in cui rimasero lui e la sorella.
«Perdonate mio figlio, è molto scosso per
la sorella.» si scusò l’uomo una volta nel corridoio.
«Meglio di molti altri aristocratici, glielo
assicuro.» fu il giudizio che Rufus Barma diede quella volta.
«Cosa?! Conoscete il
professor Barma da così tanto tempo?» la
interruppe Oz, osservandola sorpreso.
Alyster accennò ad una
risata leggera, appena più flebile del solito, ma udibilissima e divertita
come lo erano state altre.
«Sì. Il professor Barma è un vecchio
amico di famiglia. Mio fratello all’inizio non lo aveva visto di buon occhio, ma… Barma è meno terribile di quanto
sembri, davvero.» assicurò, ma dallo sguardo di Oz probabilmente
capì che per il ragazzo immaginarlo era difficile.
E in effetti, evincerlo solo da quel che di Rufus
Barma si vedeva in una classe non era facile – e
in realtà dipendeva anche dal fatto che le condizioni in cui Alyster lo
aveva conosciuto erano particolari, e che la ragazza era piuttosto incline a
dire un po’ di tutti che si trattava di persone “meno terribili di
quanto sembrasse”.
Oz ridacchiò appena: «Scusa Alyster, ma
è un po’ difficile.» ammise sincero, e lei sembrò
apprezzarlo, senza prendersela.
«Lo so. Però dico davvero, quando ti racconto di
un Rufus giovane e gentile. Forse sarà cambiato
con il tempo, ma per me e Sirjan è stato una figura importante. Mio
fratello lo aggredì, ma allora era vero che molte delle persone che
vennero a parlare con mio padre per la mia malattia lo fecero solo per falsa
cortesia.» pronunciò, forse la cosa
più severa che il biondo le avesse mai sentito dire.
Rimasero in silenzio per diverso tempo, in cui lui si
limitò a lasciar vagare lo sguardo un po’ ovunque
nell’infermeria, mentre lei aveva diretto il proprio
fuori dalla finestra che si trovava abbastanza vicina al suo letto e
aveva preso ad osservare qualcosa del giardino che forse ne aveva catturato
l’attenzione.
Che spostò nuovamente su Oz quando ne
avvertì le iridi chiare su di sé: «Non voglio che ti fai problemi con me, Oz. Se vuoi chiedermi qualcosa,
fallo senza sentirti a disagio.» lo
rassicurò, rimanendo quindi in attesa.
Lui si guardò le mani, che giocherellavano con
il bordo dello sgabello su cui sedeva durante le visite come quella: «Non
voglio chiederti qualcosa che ti metta a disagio.» rivelò sincero;
anche prima lo era stato spesso anche senza averne l’intenzione con
Alyster ma ora che stava male, o che sembrava comunque più debole del
solito, a maggior ragione mentirle gli sarebbe
sembrato in qualche modo meschino.
La vide sorridergli gentile ed
incoraggiante al tempo stesso, e fare un cenno leggero del capo, come a
spronarlo a non preoccuparsi di una cosa simile.
E a quel punto non avrebbe avuto più motivo di
negarle quella domanda istintiva che gli era venuta in mente mentre
l’altra raccontava l’episodio in cui un Rufus
Barma poco più che adolescente aveva interagito per la prima volta con i
Kolstoj.
«Alyster, tu… non eri spaventata?»
le chiese, con quanta più calma gli riuscì, per non far apparire
quella domanda come una richiesta di frettolosi chiarimenti.
Lei inclinò appena la testa lateralmente:
«Da cosa?» chiese infatti; Oz
soppesò qualche istante come porre la domanda in maniera più
chiara.
«Pensavo al fatto che tu… mi sembri
felice.» esordì poi: «Quando sei
con Sirjan, ma anche con altre persone. Con Aedan, o con Elliot, o anche con me
tu sorridi sempre. E mentre raccontavi, sembrava che da bambina tu fossi
più spaventata da quanto Sirjan potesse arrabbiarsi che non dal fatto di
non poter più camminare.» chiarì
del tutto cosa intendesse con la domanda precedente.
Alyster assunse un’aria sorpresa, ma non
negativamente, tanto che quasi subito lasciò che un sorriso addolcito le
incurvasse nuovamente le labbra.
«Non ero spaventata, ma solo perché non
mi rendevo probabilmente nemmeno conto dell’entità di quanto mi stava succedendo. Forse all’inizio, non lo
avevo nemmeno capito davvero.» ammise: «Perciò
all’inizio, la mia preoccupazione maggiore era che qualunque cosa mi
fosse successa alle gambe, potesse davvero essere un problema per tutte le
persone che mi circondavano, proprio come dicevano i pettegolezzi a quel tempo.
Non solo Sirjan, ma anche i nostri genitori.»
continuò, spiegandogli chiaramente e passo passo
quali preoccupazioni le avessero riempito la testa in quel periodo.
Fece una pausa, lo sguardo che sostava su Oz, come a
sincerarsi che avesse capito prima di proseguire: «Mio
fratello è la persona che amo di più al mondo. Essere gemelli
faceva già sì che ci fosse un legame particolarmente forte, ma Sirjan per me è stato tutto. È stato
quella persona a cui affidarsi, quel qualcosa che ti
proteggeva e che io stessa volevo proteggere. Suona un po’ come nei
libri, ma è stato davvero la mia forza.» spiegò con la
dolcezza nel tono di voce, lo sguardo che mostrava un amore incondizionato, che
ad Oz ricordava più quello che spesso veniva
attribuito ai genitori nei confronti dei figli che non a due fratelli.
«Sirjan è stato quel qualcosa che non è
cambiato mai. Non era importante cosa succedesse alle mie gambe, cosa succedesse al mondo che c’era intorno. Sirjan non
cambiava mai, lui era sempre lì. Anche se… in un certo senso, io
sono stata egoista. Anche se più di una volta gli ho detto che non
doveva rinunciare alla sua vita per stare sempre e solo con me, speravo che non
andasse via. Non volevo la sua infelicità, ma istintivamente io
desideravo che rimanesse.» rivelò, sincera e pacata,
come se avesse fatto i conti con quella parte di sé già diverso
tempo addietro e ormai avesse accettato la parte di sé che era stata
egoista, in modo tale da non stupirsi più quando faceva la sua comparsa
come in quel momento.
«In ogni caso, lui non ha mai abbandonato il mio
fianco. Ed è anche giusto che io mi senta un po’ in colpa nei suoi
confronti. Non per autocommiserazione, né per un atto di masochismo.
Solo, ho pensato di dover sacrificare anche io
qualcosa per lui. Perciò va bene così.»
concluse, con un sospiro leggero.
Oz si chiese se non l’avesse stancata già
troppo, per quel giorno; occhieggiò l’orario, facendo mente
locale: Sirjan non arrivava mai prima di una certa ora, e notò che
mancava una mezz’ora abbondante ancora.
Aedan era sicuramente occupato a dare una mano al capo
dormitorio e dunque era difficile che venisse; allo stesso modo, Alyster gli
aveva detto che Elliot era passato in mattinata.
Tornò con lo sguardo su di lei, deciso ad
aspettare per non lasciarla da sola.
Semmai vi era stato il dubbio che la malattia che
aveva colpito le gambe della figlia dei Kolstoj potesse aver indebolito gli
arti inferiori solo per un periodo di tempo che
potesse essere più o meno lungo, ben presto fu evidente invece che di
qualunque malore si trattasse fosse destinato a rimanere permanente, impedendo
così di nutrire una qualsiasi speranza di recupero sull’utilizzo
degli arti.
La madre, a detta delle signore che spesso popolavano
i salotti riempiendoli di chiacchiere concitate e pettegolezzi, aveva
affrontato quell’avvenimento nefasto con forza e dignità.
Aveva fin da subito assistito la figlia in tutto:
molti sostenevano che fosse stato fatto non solo per amore verso la bambina, ma
anche per fa sì che il tutto non gravasse sul marito e sul figlio, che
era apparso a quel punto l’unico possibile erede del compito del capofamiglia
dei Kolstoj.
Contrariamente a quanto era stato lasciato trapelare
tuttavia, non era stato ancora deciso affatto: nonostante le condizioni fisiche
di Alyster avessero reso certamente più difficile l’assoluzione
del compito che avrebbero dovuto ereditare, era per
contro anche vero che sembrava lei dei due quella che possedeva un’indole
tale da potervi meglio assolvere in futuro.
Ma Alyster era ancora una ragazzina: una quattordicenne
che aveva a malapena preso coscienza del fatto che non
avrebbe camminato mai più, che aveva sentito su di sé la
pressione di ingiuste accuse su un futuro in cui non sarebbe stata altro che un
peso; aveva visto suo fratello arrabbiarsi a quel modo per qualcosa che la
riguardava, quel suo senso di protezione farsi estremamente più elevato
di quanto non fosse mai stato e soprattutto lo aveva visto in piedi.
In una posizione tale per cui, passo dopo passo, sarebbe potuto andare via senza tornare mai
più.
Alyster lo aveva visto nascondere il sorriso che di
Sirjan le era sempre piaciuto tanto, per far spazio all’espressione di un
adulto che sul viso ancora caratterizzato dai lineamenti morbidi aveva stonato
terribilmente.
Aveva visto sparire quel sorriso, così come la
possibilità di credere in un infantile “per sempre”.
E solo allora, da quando non era più stata in
grado di camminare, Alyster aveva pianto.
«Sirjan,
cosa c’è?» sentì chiedere al padre.
Lo
osservò, in piedi nel suo studio, di fronte alla scrivania dietro la
quale spesso aveva giocato senza permesso insieme ad
Alyster.
Strinse
appena la stoffa all’altezza dei pugni, le braccia lasciate lungo i
fianchi.
«Padre,
voglio essere io il tuo erede.» disse, deciso; sua sorella non avrebbe
potuto farcela da sola, ma se lui si fosse fatto carico almeno di una cosa
delle tante gravose che rischiavano di ricadere sulle spalle di Alyster,
avrebbe potuto proteggerla almeno da quel qualcosa per quanto in suo potere.
Dietro la
porta, Alyster ascoltava, le mani di sua madre poggiate
sulle spalle per dare conforto e dire con un sorriso e un po’ di calore che
sarebbe andato tutto bene.
A quattordici anni, Alyster Kolstoj capì che il
mondo non sarebbe stato più quello che aveva potuto osservare.
A quattordici anni, Sirjan Kolstoj promise che almeno
una parte di quel mondo l’avrebbe protetta lui.
Il racconto di Alyster riprese, raggiungendo
finalmente la parte che – a suo avviso – il fratello aveva taciuto
fino a quel momento ma che, arrivati a quel punto, lei riteneva giusto che Oz
sapesse.
«Ti ho raccontato tutto questo perché tu
capissi il ruolo che abbiamo io e Sirjan, per eredità della nostra
famiglia.» fu la sua premessa, per essere anche sicura che il biondo fin
lì avesse capito.
Oz annuì: «Praticamente
tu e Sirjan conoscete alcune cose riguardanti le famiglie dell’alta
società e avete il dovere di tenerle per voi, giusto?»
ripeté, riassumendo quanto detto e compreso finora.
Alyster annuì: «A volte anche andargli
incontro, e fornirgli la soluzione più discreta possibile.»
aggiunse alle parole del più giovane. Lo osservò quindi per
qualche secondo, in silenzio, come soppesando per un’ennesima volta se
fosse davvero il caso di parlargliene.
Infine, sospirò: «Ascoltami bene, Oz. Tu sai che Gilbert e Vincent Nightray sono stati
adottati dal casato e non sono i figli naturali del Duca e sua moglie,
vero?» chiese, lasciando Oz inizialmente perplesso,
sebbene annuì meccanicamente a quella domanda che era stata quasi
retorica.
«Il Duca e sua moglie avevano un primo figlio, Elliot,
e accolto come unico altro bambino in casa Reo, che divenne il suo servitore
personale. Poco dopo l’arrivo di Reo, trovarono Vincent. Il quale
continuava a parlare di un fratello maggiore: fu la mia famiglia ad occuparsi di cercarlo e risultò che Gilbert era
stato accolto dai Bezarius. Tra le due famiglie non corre buon sangue, ma si trovò
facilmente un accordo, e Gilbert fu adottato insieme a
Vincent dai Nightray.» riassunse la storia, dando ad Oz anche qualche
particolare in più.
Fece una breve pausa, probabilmente per riordinare le
varie informazioni di cui era in possesso, scegliendo accuratamente quali
rivelare e dosando le parole.
«Questa storia la conoscono un po’ tutti:
non è un mistero la loro adozione. Ma
c’è… un’ombra, sul casato dei Nightray, di cui è a conoscenza solamente il Duca e la mia famiglia.
Tra la nascita del loro unico figlio naturale e l’adozione degli altri
due, c’è stato qualcosa di mezzo. Qualcosa che nelle famiglie
altolocate non è motivo di vanto. I Nightray ne sarebbero stati
screditati, se si fosse venuto a sapere ed è per
questo che si è trovato il modo di insabbiare tutto.»
continuò, l’espressione – nonostante i lineamenti
rimanessero comunque morbidi e non eccessivamente tesi – seria.
Attese, quasi si aspettasse una domanda o volesse in
ogni caso dargli il tempo di assimilare quanto gli stava dicendo; il biondo per
contro pendeva dalle sue labbra, combattuto tra la naturale curiosità
che era una sua caratteristica quasi peculiare, e la perplessitàmista ad un
accennato senso di colpa al pensiero che stesse ficcando il naso nella storia
della famiglia di Gilbert quando non avrebbe dovuto, o sarebbe stato il caso di
chiedere al diretto interessato anziché lasciare che glielo
raccontassero terze persone.
Tuttavia, le parole di Alyster, proprio perché
pronunciate dalla ragazza apparivano impossibili da
ignorare: non era mai stata, né aveva dato modo di pensare che lo fosse,
una persona volta al pettegolezzo.
E se addirittura andava contro il ruolo del fratello e
della sua famiglia, rivelando segreti che avrebbe
dovuto tacere per dovere, doveva esserci qualcosa che davvero necessitava di essere comunicata a lui, Oz.
«Di cosa si trattava?» si decise quindi a
chiedere, gli occhi chiari che non si spostavano dal viso della ragazza,
cercando forse di evincere qualcosa della risposta prima che questa venisse pronunciata.
«Un figlio illegittimo, Oz.»
replicò lei, il tono pacato.
Il biondo assunse un’aria confusa senza poterne
fare a meno: «Aspetta, aspetta un attimo.» disse, lasciando ad intendere senza troppe difficoltà di aver perso il
filo.
«I Nightray hanno un figlio, ossia Elliot rimane. Dopo
di lui non ne nascono altri, ma Vincent e Gilbert
vengono adottati. Ma prima di questo, era nato un
figlio tra il Duca Nightray e qualcuno che non era sua moglie?»
cercò in qualche modo di riepilogare.
Alyster annuì, ed Oz
sgranò gli occhi con l’avvenuta conferma di aver capito bene:
«E questo figlio chi sarebbe?» chiese di getto, senza pensarci
troppo su.
La ragazza scosse appena la testa: «Questo non posso dirtelo. Però Oz,
qualcuno lo aveva scoperto. Nessuno sa come, perché questa persona non
ha mai interagito con me o mio fratello, né con nostro padre. E anche se
lo avesse fatto, non avrebbe avuto alcuna conferma o informazione da parte
nostra.» assicurò, ribadendo le
“regole” sotto le quali la sua famiglia viveva.
Oz aggrottò le sopracciglia, come se gli stesse sfuggendo qualcosa da un po’.
«Credo che questa persona l’abbia scoperto dai
Baskerville. In passato avevano dei rapporti di amicizia non indifferenti con
il casato dei Nightray. Ho fatto un’ipotesi,
ma… non è nulla di più. L’ho fatta per mio conto,
anche se Sirjan sa che ho studiato la cosa per qualche tempo. Non ne abbiamo
mai parlato direttamente, ma non ha mai smentito la mia teoria le poche volte
che vi ho accennato.» spiegò, come per
premettere che non necessariamente quello che stava per dirgli poteva
corrispondere a verità.
Oz annuì, fattosi a sua volta serio: non
avrebbe saputo dire esattamente perché, visto che
non si trattava di qualcosa che le parole, il tono o l’espressione di
Alyster gli avevano suggerito esplicitamente, ma aveva la sensazione che ci
fosse qualcosa di cui preoccuparsi.
E che corrispondesse in qualche modo a ciò che
secondo la ragazza doveva essergli rivelato nonostante tutto,
“regole” comprese.
«Il Duca Nightray ha un figlio illegittimo da una donna
che non è sua moglie e si rivolge ai Kolstoj per nascondere il suddetto
figlio e fare in modo che il tutto passi sotto silenzio. L’allora
capofamiglia dei Baskerville, supponendo che fossero amici, lo aiuta. Non so se
disinteressatamente o meno. È plausibile che il figlio dei Baskerville,
Glen, lo sapesse o lo avesse scoperto. Non era uno sprovveduto, anzi era
persino più brillante del padre. A quel punto, la persona in questione
lo scopre da Glen. Io credo da solo, non penso che l’erede dei Baskerville
glielo avrebbe detto di sua sponte. Anche perché credo che non se ne interessò mai più di tanto.»
concluse.
Anche se dal tono usato ad Oz
parve che avesse lasciato in sospeso qualcosa, quasi ripensandoci
all’ultimo minuto e decidendo di non dirla nonostante avesse preso in
considerazione di farlo.
La guardò interrogativamente e forse lei ne
comprese il motivo.
«Alyster, puoi dirmi chi era questa persona che
pensi abbia scoperto tutto da Glen?» domandò comunque più
esplicitamente Oz, in modo che la richiesta fosse chiara ed
Alyster non potesse eluderla.
«…Tuo fratello Jack, Oz. Lui incontrò il
figlio illegittimo del Duca Nightray.»
replicò lei.
Sentì bussare alla porta dell’ufficio, lo
sguardo che alzandosi dai documenti che stava controllando incontrò
quello della sorella, poco distante dalla scrivania dietro la quale sedeva lui
– suo padre aveva insistito, una volta accordata la successione del
figlio maschio al ruolo di famiglia, perché prendesse dimestichezza fin
dal giorno dopo quella decisione.
Era stata data disposizione che entrambi apprendessero
in fretta, l’uno per succedere al padre, l’altra per poterlo supportare
nelle questioni più semplici e alla sua portata.
Dall’altra parte della porta li raggiunse la
voce della governante annunciare una visita; Sirjan pronunciò un neutro
“avanti”, interrompendo la lettura del documento che aveva
sottomano.
La donna avanzò, con un inchino rivolto ad entrambi: «Signorino, Jack Bezarius richiede un
colloquio privato con voi.» comunicò.
Lui e Alyster si scambiarono un’occhiata, prima
che Sirjan annuisse: «Fallo accomodare. Anche
qui andrà bene.» pronunciò,
vedendo entrare pochi minuti dopo il biondo, primogenito dei Bezarius –
così diceva il fascicolo sulla sua famiglia, già visionato tempo
addietro all’inizio di quella loro istruzione.
Aveva l’aria di chi fa davvero una visita di
cortesia ad un amico di vecchia data, notò
Sirjan quando poté osservare il primo di una lunga serie di sorrisi
spensierati che l’altro gli rivolse a mo di saluto.
Nulla di irrispettoso, anzi:
a Sirjan diede la sensazione di qualcosa di molto sincero – e non la
provava da anni nei confronti dei figli di buona famiglia con cui si era
ritrovato ad interagire.
Tuttavia, era diventato qualcuno incapace di fidarsi
ciecamente come avrebbe potuto infantilmente fare qualche anno prima, Sirjan;
era ora il tipo di persona che arrivava al punto, senza girarci troppo intorno
– ombra della schiettezza e della sincerità di un ragazzino di qualche tempo fa – e che voleva solamente svolgere
il suo lavoro, ed essere poi lasciato libero di agire come preferiva.
Lui il cui ruolo imponeva più regole di quanto
sembrasse e tra di esse alcune delle più difficili da rispettare –
non tradire la fiducia di chi ti affida informazioni che non rivelerebbe ad
altri, aiutare con quanta più discrezione possibile, fingere di
dimenticare e invece ricordare tutto come su un
registro che non finisce mai le pagine – voleva sempre liberarsi del
lavoro prima possibile.
Quella volta, Jack si rivolse prima ad Alyster che non a
lui: le si avvicinò, rivolgendole lo stesso
sorriso con il quale era entrato, senza che l’espressione subisse alcun
mutamento quando notò la sedia a rotelle; non ci fu la minima traccia di
compassione nel suo sguardo, ma semplicemente fece un inchino educato come
l’etichetta imponeva.
E ridacchiò, con fare quasi impacciato:
«Ero venuto qui deciso ad impormi più
possibile per sapere la verità, ma così non penso proprio di
riuscirci.» dichiarò confondendo un poco entrambi i fratelli.
Al chiarimento su cosa intendesse richiesto da Sirjan,
Jack Bezarius rispose con la gentilezza che lo contraddistingueva – come
avrebbero entrambi compreso a breve – che: «Mi
aspettavo un uomo burbero e severo, magari anche un po’ cattivo. Ma se i
miei interlocutori sono due fratelli dall’aspetto tanto carino, come
faccio a fare la parte dell’uomo senza scrupoli che vuole sapere qualcosa
ad ogni costo?»
Oz aveva ascoltato con attenzione per tutto il tempo
in cui Alyster aveva parlato e raccontato vari episodi che riguardavano il passato
suo e di Sirjan.
Prima che parlasse anche di suo fratello Jack, Oz
aveva ragionato a proposito di cosa la ragazza aveva detto del fratello: Sirjan
purtroppo aveva dato poco modo di farsi comprendere appieno. Oz avrebbe potuto
addirittura giurare di aver avuto occasione di studiarne il carattere solo due
volte: per la precisione quando lo aveva visto interagire con Cheshire in
quello che era stato – fortunatamente – l’unico incontro
avuto con il felino fino a quel momento, e il conseguente chiarimento avuto
quando si era trattenuto nella sala in cui il più grande e Alyster
lavoravano come capo dormitori.
Nel primo caso, l’impressione avuta del ragazzo
era stata quella molto distante da quanto un primo sguardo aveva potuto
suggerirgli: se, infatti, al suo arrivo a Latowidge Sirjan gli era parso il
classico studente più grande pacato e con
quell’aura un po’ particolare che sapeva farti stare al tuo posto
pur senza bisogno di un rimprovero esplicito da parte del ragazzo, in
quell’occasione era stato diverso.
C’era stato un Sirjan che della gentilezza,
anche solo quella rivolta agli altri per buona educazione e cortesia, non aveva
nulla negli atteggiamenti e nelle parole; una persona che aveva provato
disgusto e che, quando gli era stato chiesto il motivo per quel fastidio e
quell’irritazione mal celati, aveva dimostrato un’attitudine
abbastanza distante dalla comprensione.
Se fosse dovuto a episodi passati con i cosiddetti
“spiriti” sulla linea di Cheshire o alla semplice non accettazione
di qualcosa di così diverso, Oz non aveva saputo dirlo.
Eppure, dalle parole di Alyster, era in qualche modo
sembrato tutto molto più complesso, come se facesse parte di un gioco:
sovvertire le parti, mischiare le carte in tavola.
Il Sirjan dei ricordi che lei aveva condiviso con il
biondo era stato dapprima un ragazzino come tanti altri, un bambino allegro e
anche piuttosto vivace che giocava a fare l’adulto galante per divertire
la sorella; si era lentamente trasformato come in una metamorfosi: dapprima il
fratello che sorrideva alla caduta da un albero perché istintivamente
per lui il sorriso della gemella era la cosa più importante, poi il
quattordicenne che chiedeva di essere sottoposto alla pressione di un ruolo
troppo gravoso per la sua giovane età nel timore che ricadendo sulla
sorella avrebbe potuto rivelarsi un carico troppo oppressivo per lei che
già doveva combattere con la presa di coscienza
di non poter camminare.
Ed infine era diventato un adulto che l’aveva
affiancata non per obbligo né per giocare a fare l’eroe dei
romanzi famosi come Holy Knight:
perché Oz non aveva potuto azzardare giudizi fino a quel momento sul
capo dormitorio, ma una cosa sapeva riconoscerla ed era apparsa evidente fin da
subito molto chiaramente.
Lo sguardo di Sirjan quando si posava sulla figura di
Alyster era lo stesso che a volte aveva visto rivolgere a suo fratello Jack,
spesso verso Ada: quello di una persona che guarda la cosa più preziosa
che ha, quella che a tutti i costi vuole proteggere da tutto e da tutti.
L’espressione di Sirjan, spesso imparziale come
la natura del suo ruolo nella famiglia, si velava di una dolcezza
insospettabile probabilmente; non sembrava avere occhi né attenzioni per
nessuno che non fosse Alyster, forse in modo iperprotettivo o che qualcuno
avrebbe anche potuto definire inadeguato, ma lui non sembrava curarsene.
E, semplicemente, le voleva bene più che a
chiunque altro.
Proprio per quello, nonostante Alyster si fosse
incolpata dell’averlo privato di una parte della vita che l’altro
avrebbe potuto fare, Oz era più convinto che
nemmeno una volta Sirjan avesse pensato alla sorella come ad un peso o come ad
un compito che gli era stato affidato e che doveva portare a termine per
diligenza.
Quando Alyster aveva finito di raccontargli
quanto poteva dirgli riguardo quel segreto che concerneva la famiglia Nightray,
compreso il loro incontro con suo fratello Jack, era caduto un silenzio che
durava anche in quel momento.
Oz si era soffermato a
riflettere – non solo su Sirjan, ma anche sul resto – cercando di
riordinare le idee più possibile.
Perché Alyster, che aveva esordito dicendo che
non erano stati sicuri di potergliene parlare, gli
aveva invece raccontato molto più di quanto Oz avrebbe anche solo potuto
sospettare?
Doveva esserci qualcosa che forse solo lui poteva chiarirle,
o che poteva scoprire per loro; e tuttavia se anche
avrebbe potuto pensarlo di Sirjan, Alyster non gli era parsa qualcuno che
potesse rivelare qualcosa per proprio tornaconto – quello gli faceva
tornare in mente il dialogo avuto con Barma quando era entrato in possesso del
diario di suo fratello Jack, ancora al sicuro nel cassetto del suo comodino.
Interruppe quel flusso di pensieri solo quando
sentì la ragazza tossire e portò lo sguardo su di lei, notando
che la mano che normalmente sarebbe salita a coprire le labbra per riflesso e
buona educazione si era fermata a mezz’aria.
Probabilmente, pensò Oz, il colpo di tosse era
stato troppo repentino.
La osservò con cipiglio preoccupato, facendo
per alzarsi ed avvicinarsi un po’ di più
in modo da aiutarla qualora ne avesse bisogno; Alyster però scosse
appena quella stessa mano rimasta a mezz’aria, inspirando profondamente
un paio di volte e riuscendo a calmare il colpo di tosse.
«Non preoccuparti.» gli assicurò
accennando ad un sorriso leggero e che ad Oz parve un
po’ debole: «La febbre mi fa venire la tosse da quando ero
bambina.» aggiunse, forse per tranquillizzarlo.
Lui annuì, più per dar cenno di aver
capito che perché rassicurato: «Alyster, se vuoi riposare puoi dormire, io ho comunque qualcosa da fare con
me. Oppure se vuoi posso andare.» le disse, non
volendo proprio stancarla più del dovuto visto che sembrava già
abbastanza indebolita di suo, sebbene rispetto ai giorni precedenti avesse
preso un po’ più di colorito.
La vide scuotere leggermente la testa in senso di
diniego, in un gesto appena accennato: «No, c’è…
ancora qualcosa di cui vorrei parlare con te.» ammise, osservandolo.
Il tono sembrava tornato serio come all’inizio
di quella sequenza di rivelazioni, ma velato stavolta anche dalla preoccupazione;
prese il silenzio di Oz per un incitamento a continuare e così fece:
«Oz, ci sono delle cose di cui… vorrei che ti occupassi.»
iniziò, lasciandolo in un primo momento perplesso.
Ma non chiese nulla, per non interromperla e lasciarle
il tempo di spiegarsi meglio.
«Quello dei Nightray non è il solo segreto che
in un modo o nell’altro riguarda anche te. O, meglio,
che ha riguardato Jack. So che Rufus ti ha fatto avere il suo diario, e…»
«Sai del diario?!»
la interruppe senza riuscire a frenarsi; lei lo osservò mantenendo la
sua caratteristica pacatezza, come se si fosse aspettata quel genere di
reazione.
Dopodiché chinò leggermente il capo: «Sì. Mi dispiace, il diario… lo avevamo
io e Sirjan. Non volevamo tenertelo nascosto, solo non sapevamo se poterlo
affidare a te già da quella volta in cui parlammo fino
all’alba.» spiegò ed Oz, facendo
velocemente mente locale, non poté quasi credere che già da
allora fosse in mano loro.
«Ti chiedo scusa, hai il diritto di arrabbiarti se
vuoi. Io e Sirjan speravamo di non doverti coinvolgere, speravamo entrambi che
dopo l’aggressione di Cheshire non succedesse più
nient’altro, e che tu non venissi messo in mezzo
a qualcosa che non ti appartiene. Però dopo hai
persino incontrato Glen Baskerville e… abbiamo capito che tenerti
all’oscuro di tutto ancora a lungo poteva essere pericoloso per te. Anche
per questo te lo sto raccontando.»
confidò, la sfumatura preoccupata che rimaneva nello sguardo rivolto al
più giovane.
Oz sentiva i pensieri affollare la mente e
accavallarsi l’uno all’altro, alcuni collegandosi fra loro facendo
un minimo di chiarezza come nell’esitazione di Sirjan nel parlargli di
qualcosa sulla quale poi aveva soprasseduto quella famosa notte, altri farlo
affondare ancora più in basso verso il punto che avrebbe segnalato il
panico classico di quando le cose che non sai generano inevitabilmente paura.
«Come sapevate di… Glen
Baskerville?» chiese, quasi boccheggiando; troppe cose gli sfuggivano in
quel momento, per poter ostentare un atteggiamento
sicuro. Non capiva come potessero sapere cose delle quali lui stesso aveva
dubitato pur avendole vissute in prima persona.
«Mio fratello ti ha parlato di una sorta di patto che
vige tra noi e gli “spiriti” che sono qui a Latowidge. Gli viene permesso di restare qui, giacché la maggior
parte delle persone non li vede e i pochi che potrebbero farlo non vi riescono.
Quando non vogliono essere visti, sanno nascondersi molto meglio di quanto
ognuno di noi possa credere.» spiegò quasi lentamente per scelta,
perché le rivelazioni che stava dispensando ad
Oz non lo confondessero più di quanto non stessero già facendo.
«Loro, in cambio, devono mantenersi lontani dagli umani
e non avere contatti con loro. Persino Sirjan li incontra solo quando succedono
episodi come quello di Cheshire nei tuoi confronti, che però sono sempre
stati rari. Al contrario di quanto si possa credere per i luoghi comuni, gli
spiriti non hanno così tanta voglia di entrare in contatto con noi.» spiegò.
Oz avrebbe avuto da ridere su tutto quello: se si
contava Cheshire, Glen Baskerville tramite Elliot – da quanto aveva
capito a questo punto poteva praticamente esserne
certo – e la ragazza intravista prima del ballo quando era in attesa di
Echo, a quanto pareva gli spiriti non amavano mostrarsi ma avevano una certa
predilezione per lui.
Anche se due incontri su tre
erano stati sostanzialmente per minacciarlo e fargli passare un brutto quarto
d’ora.
«Sirjan li vede?» domandò poi
scioccamente, come si rese conto un attimo dopo aver pronunciato la domanda.
Alyster annuì: «Da molto tempo. Forse
anche per questo non li… ama particolarmente.»
replicò, nella voce un’inclinazione breve ma che Oz colse
ugualmente anche se per pura fortuna.
Gli parve un po’ tristezza e un po’
preoccupazione, e per quanto aveva imparato a conoscere la ragazza,
azzardò nella sua mente l’ipotesi che fosse dispiacere.
Alyster sembrava decisamente
capace di provare pena anche per spiriti un po’ violenti come Cheshire.
«Anche tu?» domandò Oz, visto che di questo non poteva essere altrettanto sicuro
come nel caso di Sirjan; Alyster annuì una seconda volta, piano, come se
dosasse persino i movimenti: «Ma ho iniziato a vederli solo recentemente.
Mi sono fatta un’idea del perché, ma in fondo non è
importante.» liquidò la questione e con
la sensazione che fosse perché non volesse parlarne, Oz decise di non
chiedere altro e di lasciare che la ragazza proseguisse con il discorso.
«Comunque» riprese
infatti: «quando Glen Baskerville è entrato in contatto con
te, è stato attraverso qualcun altro, per di più uno studente. Il
patto che hanno con noi implica che un utilizzo del
loro seppur lieve potere possa essere sentito, in modo che lo si possa bloccare
prima che crei problemi. Quella di Glen Baskerville è stata a conti
fatti una possessione. Agevolata inconsapevolmente da Elliot, ma lo è
stata comunque. Sirjan l’ha sentita, ma è stata per un lasso di tempo breve abbastanza perché lui arrivasse
quando tu stavi già tornando indietro illeso. Non ti ha seguito, ed
è andato direttamente alla fonte.»
concluse quella spiegazione.
«Alla fonte?» ripeté perplesso Oz,
che pure non si era perso una sola parola.
Alyster annuì con un sospiro leggero: «Il
luogo dal quale solitamente Glen Baskerville non si allontana mai.»
replicò.
Ad un certo punto della visita, Aedan era passato in
Infermeria, ma si era trattenuto poco: il tempo necessario a chiedere ad
Alyster come stesse, e a comunicarle un messaggio da parte di Sirjan. Avrebbe
ritardato, occupato da un incarico ricevuto direttamente dal padre. Mandava a
dirle anche che la madre sarebbe arrivata a scuola nel pomeriggio, per
occuparsi di lei personalmente.
Alyster aveva annuito, ringraziando Aedan.
Quando il ragazzo fu nuovamente uscito, Oz
tornò ad osservarla, non sapendo se il discorso
avuto fino a quel momento potesse considerarsi concluso oppure no; il dubbio
sparì quando Alyster richiamò la sua attenzione, ottenendola
immediatamente.
«Finora ti ho parlato anche come membro della
famiglia Kolstoj, Oz.» iniziò «Però
c’è una cosa che vorrei dirti da amica. Forse sarò un po’
troppo diretta, e ti sembrerò indiscreta, ma… posso?» domandò, rimanendo in attesa.
Oz annuì quasi subito, un po’ sorpreso da
tutta quella titubanza da parte di lei, che a quel suo cenno del capo parve
sollevata: «Io non so se tu hai incontrato qualcun altro come Glen e
Cheshire, oltre loro. In ogni caso, se è
successo o succederà, ricordati cosa ha detto
Sirjan, perché su una cosa aveva ragione: per quanto tristi e soli, gli
spiriti sono e restano tali. Indipendentemente da cosa abbiano fatto in vita, il loro tempo è finito. Ma tu, Sirjan, gli
studenti… avete tempo.» disse e ad Oz
parve, a prescindere dalla figura esile di Alyster che gli aveva sempre
comunicato una sensazione di fragilità, che le parole da lei pronunciate
racchiudessero una forza incredibile.
«Qualsiasi cosa ti possano
dire, tu sei vivo, Oz. Devi ricordartelo.»
concluse.
Oz non avrebbe saputo dire perché, tuttavia nel
momento in cui tra loro calò nuovamente il silenzio, sentì lo
stomaco chiudersi completamente; somigliava ad una
sensazione simile a quando per la sorpresa faceva un buffo salto, in
realtà metaforico perché fisicamente non era possibile.
Fu qualcosa di sgradevole, però, anche se Oz
non seppe spiegarne il motivo.
Si limitò ad annuire, ritrovandosi poi a
parlare istintivamente, quasi senza rendersene conto o facendolo in ritardo: «Ascolta, Alyster. Quando starai meglio,
pensavo… di imparare anche io a suonare
“Lacie”. Però, se lo chiedessi ad
Elliot, lui la prenderebbe sicuramente male.» osservò,
ridacchiando sommessamente.
«Mi daresti una mano tu?» aggiunse quindi
il biondo.
Lei gli rivolse un sorriso che ad
Oz sembrò straordinariamente familiare, ma prima che la ragazza potesse
rispondere entrambi furono distratti da un bussare sommesso allo stipite della
porta e, voltandosi, la voce del nuovo venuto li raggiunse prima ancora che
potessero inquadrarne la figura, che riconobbero entrambi come quella di
Elliot.
«Interrompo qualcosa?» buttò
lì, Oz non seppe dire se ironicamente o meno; si chiese, piuttosto, se
fosse lì da molto e avesse aspettato ad
interromperli o se fosse semplicemente arrivato in quel momento.
Alyster gli sorrise,
scuotendo la testa e invitandolo ad entrare: il castano si mosse quindi dalla
soglia dove stava sostando, avvicinandosi a loro e fermandosi ai piedi del
letto della ragazza. Portò gli occhi chiari sul biondo ed Oz tacque, quasi in attesa.
Non sapeva ancora dire se tra lui ed Elliot ci fosse
la remota possibilità di un rapporto decente o se l’odio del
più grande per i Bezarius avesse già pregiudicato fin
dall’inizio quell’eventualità.
Ma era destinato ad essere
sorpreso: Elliot, dopo quella che parve una pausa per soppesare al meglio le
parole da pronunciare, si imbronciò appena – l’espressione
classica di quelle persone che, impacciate, cercano piuttosto di apparire
burbere.
«Dovrei parlare con Alyster, ti dispiace
lasciarci soli per un po’?» domandò, la frase più
educata che gli aveva rivolto dalla prima volta che si erano parlati
probabilmente.
Forse scombussolato in parte proprio da questo, Oz
annuì rivolgendosi quindi ad Alyster mentre si alzava dallo sgabello sul
quale era rimasto per tutto quel tempo. Le rivolse un sorriso, assicurandogli
che sarebbe ripassato o quella sera o il giorno seguente magari.
Fece quindi per dirigersi verso l’uscita, sentendosi
comunque richiamare dalla ragazza: voltandosi con metà busto quanto
bastava a poterla vedere, poté notare che Elliot aveva
già preso posto sullo sgabello che aveva occupato lui.
«Oz, riguardo quello di cui ti ho parlato»
esordì, il biondo che si aspettava una raccomandazione sul tenerlo per
sé – non ne avrebbe parlato comunque, ma sarebbe stato
assolutamente normale sentirsela rivolgere – e fu quindi sorpreso nel
sentirla aggiungere: «se dovesse succedere di nuovo… vai a parlarne
con Xerxes Break.» concluse, l’espressione
che mal celava una vena di preoccupazione.
Sebbene incredulo, decise di annuire solamente ed uscire, lasciandoli parlare come Elliot gli aveva
chiesto.
Si diresse lungo il corridoio che conduceva
all’atrio, occhieggiando una volta arrivatovi il grande orologio che
segnava quasi l’ora di cena: si mosse quindi lateralmente, puntando alla
mensa, sentendosi fermare dopo nemmeno due passi da una mano che si era posata
sulla sua spalla.
Voltandosi si ritrovò di fronte ad un Gilbert
appena ansimante: «…Hai corso, Gil?» domandò
perplesso, osservandolo annuire.
«Non proprio. Ti ho intravisto da fuori, volevo
fermarti prima che entrassi in mensa.»
rivelò il moro, occhieggiandolo mentre Oz si voltava completamente verso
di lui in modo da essergli esattamente di fronte.
«Come mai?» chiese riguardo al bisogno di
fermarlo: salvo che ci fosse qualche cosa di pericoloso – e ne dubitava, a meno che nel concetto di “pericoloso” non si
includesse la possibilità che Alice ogni tanto cercasse di tirare qualche
piatto contro il cugino Vincent – non vedeva il motivo di tenerlo fuori.
«Volevo chiederti come sta Alyster.»
replicò l’altro, osservandolo.
Oz tacque, non cogliendo appieno perché dovesse
chiederglielo in separata sede, ma lasciò perdere
pensando a dargli una risposta: «…Non te lo so dire.» ammise
inizialmente, abbassando impercettibilmente lo sguardo.
Gilbert non chiese niente, quasi avesse intuito che la
replica vera e propria doveva ancora essere formulata:
«Mi sembra che stia bene. O almeno, meglio di un mese fa. È ancora
debole, però, e ha ancora la febbre.»
rivelò il biondo.
«Dunque si può
dire che sia stazionaria, giusto?» fece eco a quelle sue parole, come a
volerle in qualche modo riassumere; ma qualcosa, nel debole e poco convinto
annuire del più giovane gli suggerì che doveva esserci
qualcos’altro.
Stava ponderando il modo migliore per chiederglielo
ma, per una volta e stupendolo non poco, Gilbert non dovette chiedere;
nonostante Oz non fosse incline a parlare di cosa lo preoccupasse, nemmeno
quando le domande in proposito si facevano pressanti – soprattutto in
quel caso, forse – parlò di sua spontanea volontà.
E nel momento in cui si sentì tirare appena per
il braccio e abbassando lo sguardo poté notare che si trattava della
mano di Oz che con due dita aveva afferrato la manica della divisa per tirarla
appena e richiamarne quindi l’attenzione, Gilbert capì
definitivamente che di qualunque cosa si trattasse, non era nulla di buono.
«Gil, secondo te, non… significa nulla vero? Il
fatto che ultimamente alcuni sorrisi di Alyster siano… un
sacco simili a quelli di Jack. Non significa niente di particolare,
giusto?» mormorò.
Gilbert non seppe cosa rispondergli.
Vedendo il biondo uscire dall’infermeria, si
voltò verso Alyster: «Andare da Xerxes?
Sicura che si possa definire consiglio?» ironizzò Elliot riguardo la frase che aveva appena sentito rivolgere dalla ragazza ad
Oz Bezarius.
Lei abbozzò un sorriso lieve, poggiando la
testa al cuscino e rilassandosi finalmente contro di esso.
Elliot storse il naso: «Non dovresti sforzarti
meno possibile?» la interrogò, nel tono una nota di rimprovero;
lei si limitò a non mutare espressione.
«Quando mi vedono stanca, Oz e Noah si
preoccupano di più.» fu la spiegazione piuttosto semplice e
sommaria che riferì lei; Elliot fece schioccare
le labbra, incrociando le braccia al petto: «In situazioni come questa
dovresti preoccuparti di te stessa, non di quanto le persone possano stare in
pensiero. Non sono mica dei bambini.» gli fece
notare, schietto.
Lei non se la prese affatto,
anzi cercò di sorridere un po’ più ampiamente.
Lui, osservandone l’espressione, si
riscoprì incapace di tenere la propria dura e severa intatta.
Scivolò via come una maschera, lasciando spazio ad
uno sguardo preoccupato: «Sta… peggiorando?» mormorò.
E ad Alyster fece tenerezza, quell’Elliot
preoccupato e tornato un po’ bambino che era così raro da vedere.
Sospirò lentamente: «Ho mentito ad Oz. Anche se non gli ho risposto, si può dire che
io non sia stata totalmente sincera con lui.»
ammise, socchiudendo gli occhi e rilassandosi.
«Mi faresti un favore, Elliot?» chiese
quindi, senza dargli una risposta vera e propria, nemmeno dovesse dargli la
dimostrazione pratica di quanto aveva appena detto di
aver fatto con Oz; il castano si limitò ad annuire in silenzio, lo
sguardo su di lei.
«Oz mi ha chiesto di aiutarlo ad
imparare “Lacie” al pianoforte, per suonarla. Potresti aiutarlo? Ci
tiene davvero.» assicurò. Se anche Elliot
avesse voluto chiedere perché mai dovesse toccare a lui quel compito
ingrato, fu anticipato dalla ragazza: aprì gli occhi, spostando lo
sguardo – e l’attenzione di Elliot – sulla propria mano,
adagiata in grembo.
Aggrottò appena le sopracciglia, rimanendo
accigliata per qualche tempo prima di tornare a rilassare l’espressione.
E, infine, un sorriso mesto.
«Che succede?» chiese Elliot, ma
barò. Barò perché sapeva cosa stava succedendo: era
nell’aria, era quasi palpabile, come una cortina di un odore
terribilmente sgradevole che non si riusciva a far passare nemmeno aprendo le
finestre.
Era forse uno dei pochi a saperlo già da
qualche tempo, a sapere un po’ tutto –
com’era iniziata, come proseguiva e come sarebbe finita.
Anche se chiudeva gli occhi e fingeva di non vedere.
Anche se spesso non ascoltava, e fingeva di non
sentire.
«Non riesco più… a muovere le mani
bene.» soffiò lei con un tono tale che il castano non
riuscì a fare nulla di più sensato che mordersi appena il labbro
inferiore in un gesto di frustrazione.
«Da quanto?» sibilò, non per essere
aggressivo verso di lei; e Alyster parve capirlo.
«Da un po’.» disse soltanto.
Più di qualche compagno di Alyster, nelle due
settimane che seguirono, ebbe modo di vedere la madre dei fratelli Kolstoj
attraversare i corridoi, in special modo quello che collegava
l’infermeria alla mensa quando faceva qualche pausa allontanandosi dalla
figlia per mangiare.
Era parso strano che la donna mangiasse dalla mensa,
ma il mistero si era risolto brevemente nel momento in cui era stato chiaro che
dovendosi recare lì comunque per il cibo della figlia, era sensato che
anche lei ne usufruisse.
Si allontanava da Alyster solo durante le visite dei
compagni, almeno alcune, approfittando forse del fatto che non fosse sola; il
padre dei due fratelli era invece capitato più di rado, ma aveva fatto
ugualmente visita alla figlia, sincerandosi delle sue condizioni, costretto a
ripartire subito.
Oz aveva limitato le proprie visite, ritenendo
più giusto – dopo averne parlato anche con Noah ed
Alice – lasciare che Alyster passasse più tempo con i genitori ed
il fratello che non costantemente accerchiata da qualche compagno.
Tuttavia persino per la ragazza era diventato
impossibile ormai nascondere le proprie condizioni a chi l’andava
a trovare: perciò anche se Elliot si guardò bene dal riferire la
loro conversazione, il fatto che Alyster Kolstoj si stesse aggravando divenne
presto qualcosa di quasi risaputo nella scuola.
Nessuno osava parlarne ad alta voce, né a
trattare quell’indiscrezione come un pettegolezzo tra i tanti
dell’istituto: somigliava ad un rumore di sottofondo
quasi impercettibile, un po’ come quello della pioggia, che se non ci si
presta particolare attenzione passa praticamente inosservato.
Probabilmente in larga parte era per rispetto: i due capo dormitori erano entrambi stati sempre
ineccepibili nei confronti degli altri studenti, pertanto anche gli anni
inferiori avevano sviluppato nei loro confronti rispetto ma anche affetto;
inoltre c’erano davvero poche carogne tali da azzardare a trattare quella
notizia senza delicatezza quando nei corridoi si sapeva di poter incrociare
Sirjan.
Se, nel mezzo di uno scambio sull’argomento che
riguardava la sorella il ragazzo veniva intravisto, le
voci cessavano nascondendosi in un rispettoso silenzio; una volta Oz aveva
assistito proprio alla scena, e se ne era accorto: Sirjan non era uno stupido,
aveva anzi colto perfettamente il discorso.
Sembrava solo troppo stanco e preso da cose ben
più importanti per fermarsi ad intimare di
smetterla; inutile sottolineare quanto, dal malore durante il ballo, fosse
rimasto lontano dalla sorella per il tempo necessario a quei compiti che non
poteva evitare di svolgere.
Nonostante Aedan si fosse sobbarcato di una buona
parte di impegni minori, c’erano cose che solo i
Kolstoj potevano fare; ma, ad eccezione di quelli, Sirjan era rimasto sempre
con lei, spesso assistendo anche alle visite di alcuni di loro.
«Sirjan?» mormorò, attirando
nell’immediato l’attenzione dell’altro che alzò subito
lo sguardo dal libro che leggeva rimanendole accanto: «Dimmi.» disse, osservandola.
Alyster, sdraiata e coperta, gli rivolse un sorriso
leggero: «Ti si stancheranno gli occhi se leggi così
tanto qui che c’è poca luce…» gli fece notare
con la stessa premura che gli aveva sempre riservato, come se non ci fosse
nulla che non andava.
Lui occhieggiò il libro, chiudendolo qualche
istante dopo sistemando il segno alla pagina cui era arrivato, posandolo poi
sul comodino affianco al letto della sorella. Lei mantenne il sorriso,
parlandogli nuovamente: «Hai l’aria stanca.» osservò,
una sfumatura di preoccupazione nella voce.
«Non tanto. Tu però dovresti riposare, Alys.» si premurò lui, scostandole una ciocca di
capelli dalla fronte.
Ebbe la sensazione che volesse ridacchiare, lei, ma
che fosse fin troppo faticoso metterlo in pratica: «Mi mancava, questo
nomignolo.» ammise, con dolcezza.
Lui la osservò, abbozzando un sorriso leggero:
«Ti ci chiamo ancora, bugiarda.» la prese bonariamente in giro, la
mano che sostava delicatamente vicina alla fronte di lei.
Alyster fece uno sbuffo leggero, un accenno di risata
probabilmente, dopo il quale seguì una pausa.
Di quanto, Sirjan non avrebbe saputo dirlo: «Mi manca anche un po’ il periodo di quando
eravamo bambini. Sorridevi un po’ di più.»
disse con nostalgia.
«Non è cambiato niente, da quando eravamo
bambini.» la riprese lui, accondiscendente: «Sei
ancora la mia sorellina. E io sono
sempre…»
«Il fratellone per il quale ogni mio desiderio
è un ordine.» lo prese in giro con affetto; lui sorrise appena
più ampiamente, annuendo.
«Vuol dire che posso esprimere un
desiderio?» domandò dopo qualche minuto in cui erano rimasti
fermi, in silenzio e senza aggiungere nulla. Sirjan annuì, rimanendo in
attesa, lo sguardo su di lei senza metterle alcuna fretta, lasciando che
articolasse la domanda con i suoi tempi: «Rimani qui a dormire con me,
Sirjan?» diede quindi voce alla sua richiesta.
A Sirjan ricordò di quando erano bambini, e
spesso era capitato che la sorella sgattaiolasse prima in camera sua, poi nel
suo letto, spaventata dalle cose più insignificanti a volte – i
tuoni, o un mostro che aveva proprio scelto il suo letto per nascondersi.
Annuì, semplicemente, perché non glielo
avrebbe mai rifiutato anche se non fosse stata malata
come in quel momento: «Certo. Dormi pure tranquilla, rimarrò qui
per tutto il tempo.» assicurò.
Si sporse quindi verso di lei, andando a sfiorarle la
fronte con le labbra, in un gesto dolce che non avrebbe potuto rivolgere a
nessun altro oltre a lei: «Cerca di riposare.» pronunciò un
sussurro, il tono morbido e conciliante.
Aprì gli occhi, le palpebre appesantite dal
sonno e cercò la fonte di quel fresco piacevole che sentiva.
Le ci volle un po’ per mettere a fuoco la stanza
dell’infermeria e suo fratello, le braccia incrociate sul materasso,
lì affianco a lei, e la testa posata su di
esse.
Dormiva placidamente, i
lineamenti del volto rilassati.
«Non dorme profondamente, perciò parliamo
piano, vuoi Alyster?» sentì pronunciare e, alzando lo sguardo,
riconobbe la figura davanti a sé anche se il
ricordo che conservava di lui risaliva a qualche anno prima.
Più in là, vicino all’ingresso,
una luce soffusa – o quello le sembrava – le suggerì che non
era solo: lo osservò cautamente, richiamando alla memoria i tratti di lui che ricordava perché il loro combaciare
con quelli che vedeva la portasse alla giusta conclusione.
Così fu: «È la prima volta che
riusciamo a parlare dopo tanto tempo, Jack.» pronunciò, il tono
che sarebbe stato comunque flebile di suo se anche lei non si fosse comunque
sforzata di parlare piano come consigliato dal biondo.
I capelli legati nella lunga treccia morbida, i
vestiti semplici e da camera che doveva aver indossato quando era venuto a
mancare nella propria stanza, Jack Bezarius sedeva compostamente sul bordo del
letto opposto a quello cui poggiava Sirjan. O almeno, era la posizione che aveva,
anche se chiaramente non vi era alcun contatto fra lui e il materasso.
Annuì in sua direzione, sorridendole gentile
come la prima volta che si erano incontrati anni prima: «Tuo
fratello è sempre stato molto più facile da chiamare. Ha una
spiccata sensibilità e mi ha visto sempre, fin da quando sono venuto qui una volta morto.» ammise, posando lo sguardo per
qualche istante su Sirjan che giaceva addormentato senza il minimo sentore di
cosa stesse accadendo attorno a lui.
Alyster annuì impercettibilmente: «Se ne è sempre lamentato. Non gli piace vedere cose che
non dovrebbe.» spiegò, quasi a scusarlo
della sua condotta e spesso delle sue parole riguardo gli spiriti come Jack;
quest’ultimo non sembrava essersela affatto presa, perciò non
trovò necessario rispondere a quelle scuse implicite.
«Sei stata forte, oggi. A dire quelle cose ad Oz, nonostante la situazione. Ti ringrazio, di esserti
preoccupata di mio fratello per tutto questo tempo.»
disse sincero, osservandola con gratitudine.
Lei scosse appena la testa: «Oz è perso, senza di te.» mormorò, il tono di chi ha
notato qualcosa ormai da molto tempo.
«Temo che sarà così anche per Sirjan.
Vorrei che… Oz capisse davvero quello che ho voluto dirgli. E vorrei
anche che lui e Sirjan riuscissero ad aiutarsi a vicenda su questo.» ammise poi.
Jack la guardò con dolcezza, con lo sguardo che
un genitore potrebbe rivolgere ad un figlio vedendolo
star male, sia anche per una cosa in sé banale: «Dunque te ne eri
accorta da abbastanza tempo da decidere cosa dirgli.» sottolineò
lui, ma non in maniera negativa.
Alyster sorrise mestamente: «La mia non è
una malattia che guarisce. La migliore delle ipotesi
è quando ti logora lentamente e ti permettere di vivere più di
quanto non faccia quando invece deteriora il corpo in maniera fulminea.» pronunciò, il tono non esattamente incolore,
ma come di chi ha preso ormai coscienza di qualcosa il cui svolgimento non
dipende da lei.
«Lo sapevamo tutti. Io, mia madre, mio padre… e
anche Sirjan.» aggiunse: «Jack, chi c’è vicino alla
porta?» domandò quindi, non spaventata ma
istintivamente sulla difensiva; il biondo, anche volendo, non avrebbe mai
potuto sgridarla per questo.
Sapeva cosa si provava, sapeva
quanta paura si potesse avere in un momento simile: era un terrore così
personale, incontrollabile e carico di mille altre cose – la tristezza,
la preoccupazione, il rimpianto – che rendeva mostruose anche le cose
più normali nella propria quotidianità.
Le sorrise rassicurante: «Si tratta di Lacie. Lei è stata la
prima di noi a sentirlo. Forse è perché siete due ragazze, o
perché in qualcosa vi somigliate. È probabile che siate due anime
abbastanza affini.» concluse, spostando lo
sguardo sulla ragazza che rimaneva in disparte lì all’entrata
dell’infermeria.
«Si è agitata al punto tale che il giorno
del ballo si è persino mostrata di sua
spontanea volontà a mio fratello.» la informò il biondo,
l’incurvarsi di labbra che assumeva una connotazione quasi dispiaciuta.
«Mi dispiace di avervi agitati
in quel modo.» si scusò Alyster, osservando a sua volta la sagoma
di Lacie che riusciva solo ad intravedere da lì. Jack scosse la testa: «Non scusarti, non è colpa tua. È solo
che quando una vita si sta spegnendo… lo sentiamo. Tanto più forte
quanto più l’anima di quella persona è simile in qualche
modo alla nostra. Ma non è colpa tua.»
ripeté per tranquillizzarla.
Non avrebbe mai voluto essere lì per dirle
quello, essere lì come presagio di una morte certa.
Eppure, per contro, aveva sentito quasi il dovere di
raggiungerla e parlarne prima che il suo tempo si esaurisse, trasformandosi in
eternità; perché era difficile, terribilmente, e quando si amava
profondamente qualcuno che si doveva lasciare indietro, diveniva qualcosa che
sembrava quasi impossibile.
Allungò una mano per accarezzarle i capelli,
almeno simbolicamente, ancora per un po’: «Gli hai detto tutto
quello che volevi dirgli?» domandò con
dolcezza.
Sapeva che sarebbe stato ugualmente doloroso:
l’unica cosa che poteva cercare di fare, era renderlo per lei meno…
spaventoso, in un certo senso.
«Credo di sì.» mormorò piano, lo sguardo sul viso del fratello.
«Posso darti del tempo fino a domattina, se vuoi. Non
devi necessariamente andare via ora.»
tentò Jack, osservando entrambi alternativamente.
Ma Alyster scosse una testa: «So che
c’è un tempo predefinito.» replicò.
«Il tuo scade all’alba.»
rimbeccò Jack, non per essere duro, ma perché era una di quelle
verità che non c’è modo di rendere meno sgradevoli:
«Un’ora in più, sempre che non si svegli anche prima
dell’alba, non sarebbe un problema.» aggiunse per spiegare meglio cosa intendeva.
Ma, nuovamente, Alyster scosse la testa: «Io non
credo che… riuscirei a parlare di nuovo senza piangere, Jack.» fu
la risposta completamente sincera che gli diede.
Abbassò appena lo sguardo e per la seconda
volta da quando aveva pianto da bambina alla scoperta della malattia che
l’avrebbe accompagnata per il resto della sua vita, Alyster si
lasciò sconfiggere di nuovo da quel qualcosa molto più grande di
lei che aveva sempre minacciato di allontanarla dalla persona per lei
più importante.
Jack assunse un’espressione di dispiacere misto ad una profonda tristezza, mentre portava la mano a
sfiorarle la guancia, sentendola più consistente sotto i polpastrelli
che non avrebbero dovuto essere in grado di toccarla affatto.
Non riusciva ancora a sentire le lacrime che ora le
rigavano le guance, ma una sensazione di leggero calore che doveva appartenere
alla pelle chiara permaneva lì sulle dita: «Mi
dispiace…» mormorò piano la cosa più banale del
mondo.
Perché non esistevano parole adatte, quando
qualcuno moriva.
La vide sussultare appena a causa di un singhiozzo:
«Jack, se anche io diventerò uno
spirito…»
«Non riesco a provare pena per loro.»
«…Sirjan finirà con l’odiare
anche me?» pronunciò, il tono incrinato.
Dalla paura di un’idea dolorosa che può
diventare molto più di un’idea e concretizzarsi
dando finalmente forma al tuo incubo peggiore.
Jack portò la mano a carezzarle i capelli con
affetto, come se fosse stata sua sorella, proprio come Ada.
Per difenderla, da quel dolore.
Almeno un po’.
Almeno all’inizio, che ironicamente coincideva
con la fine; la vita, aveva un senso dell’umorismo davvero di cattivo
gusto.
«Non ti odierà,
Alyster. Qualunque cosa tu diventi, in qualunque posto finirai, qui dove siamo
noi o altrove… Sirjan non sarebbe mai capace di odiarti. Ti vorrà
sempre bene. Sarai sempre la sorellina che ha protetto con tutto se stesso fin
da piccolo. Sarai sempre il motivo per il quale è diventato quello che è. Piangerà per te, perché sei stata e
rimani importante, Alyster.» la rassicurò, mentre piangeva.
«Jack…» mormorò piano, ancora
scossa, e le ossa che le provocavano dolore per quella malattia che sussulti
non ne prevedeva senza infierire sul corpo: «se dobbiamo morire e dire
addio, allora perché diventiamo spiriti che possono rimanere nel luogo
in cui i vivi che amano soffrono la loro scomparsa?» articolò a
fatica.
«Perché non scompariamo e basta, Jack? Questa
è… una punizione?»
Jacknon
disse nulla: le sussurrò uno “shhht” per calmarla, e le
posò un bacio leggero fra i capelli.
Pioveva quella mattina.
Quando Oz svegliandosi vide che Noah nel letto accanto
al suo non c’era nonostante fosse domenica e, poco dopo, notò un
biglietto per lui che lo avvisava di scendere.
Quando si vestì velocemente con la sensazione
di una morsa allo stomaco e un brutto presentimento vecchio di cinque anni; era
scuro il cielo che intravide dalla finestra del corridoio che percorse per
raggiungere le scale.
Lo stesso che fu più chiaro e ampio quando
percorse quel tratto all’aperto che portava all’edificio centrale,
bagnandosi.
Pioveva quella mattina.
Quando l’istinto gli disse di dirigersi in
infermeria e davanti vi trovò un Elliot che non lo aggredì e un
Reo che poggiava la mano sulla spalla del castano; quando Gilbert
abbassò lo sguardo vedendolo arrivare, mentre Noah sfregava un punto del
viso – che Oz non identificò subito come gli occhi – con la
manica, Marcus al suo fianco.
Il cielo era scuro fuori dalla finestra che dava su
quel corridoio illuminandolo ben poco, e il rumore della pioggia in sottofondo
era fastidioso mentre Oz chiedeva cosa fosse successo senza volerlo davvero
sapere.
Era nell’aria, lo riconosceva.
Era l’odore di qualcosa che non
gli sarebbe affatto piaciuta.
Pioveva quella mattina.
Quando un fastidioso nodo si era formato nella sua
gola, quando lo sguardo aveva cercando istintivamente il pavimento; mentre
Sirjan usciva dalla stanza osservandoli tutti senza guardare nessuno e un
attimo dopo era lì a dare un pugno talmente forte al muro che Oz aveva
giurato quasi di aver sentito le ossa rompersi.
Il cielo era scuro, ma fu illuminato da un lampo a cui seguì un tuono, mentre Oz pensava che in
qualche modo quella pioggia stesse dando una mano a Sirjan e al tempo stesso si
stesse burlando di lui: mentre illuminava quel corridoio in cui veniva mostrata
l’espressione di chi della vita, persa la persona più importante,
non sa che farsene e trova il dolore fisico una pallida ombra di quello che
c’è dentro e che lo sta consumando ad una velocità che di
umano non ha niente.
Illuminava il corridoio mentre qualcuno, di farsi del
male, cercava di impedirglielo – e il tuono copriva un po’ la voce,
che non era come le urla, era più bassa, ma era
molto peggio.
Pioveva quella mattina.
Mentre Oz osservava Aedan
disobbedire per la prima volta nel cingere con le braccia il corpo di Sirjan
non in un abbraccio ma in quel tipo di stretta che ti inchioda
le braccia lungo i fianchi e ti impedisce di ferire qualcuno, o magari te
stesso.
Quando Sirjan gli ordinava
di lasciarlo andare, in preda a qualcosa che non era rabbia, non era furia; era
solo disperazione.
Il cielo fuori era ancora
scuro, mentre Aedan gli rispondeva: «Mi dispiace, non posso.»
Si illuminò con un lampo, qualche istante dopo; ma
poi il cielo fu di nuovo scuro mentre Aedan si addossava la colpa di
pronunciare le parole che Sirjan non voleva sentire.
«Anche se ti
distruggi… Alyster non c’è più da nessuna parte.»
Pioveva quella mattina.
Forse la pioggia aveva
lavato via un sacco di cose – sembrava che solo il dolore fosse una
macchia particolarmente coriacea – perché a distanza di due giorni
ad Oz sembrava di non ricordare granché di
quella mattina.
Non ricordava nemmeno se
era andato a lezione, né se aveva incrociato qualcuno, né come
fosse tornato in stanza dove era chiuso da quella domenica appunto.
Il cielo fuori era scuro anche
quel giorno – non aveva ancora smesso di piovere salvo qualche ora con
meno acqua e meno umidità – mentre Oz iniziava a chiedersi se
continuando a lasciare aperto quell’orologio da taschino non avrebbe
finito per esaurirsi la carica.
“Lacie” suonava
in quel momento di un rumore metallico, ma immutata nella melodia che la
contraddistingueva, mentre Oz guardava fuori: non sapeva nemmeno che ore erano.
Assurdo. L’orologio
aperto, ma lui non sapeva nemmeno se era mattina, pomeriggio, o sera.
«Noah»
chiamò mentre lo sguardo incontrava, in giardino, la figura di Sirjan
che incurante della pioggia era di nuovo fuori a guardare per terra senza che
ci fosse nulla da vedere: «secondo te si può impazzire per il
dolore?»
Noah non rispose.
La risposta era
dolorosamente “sì”.
Note
In primis, i disclaimer
perché poi potrei sclerare e dimenticarli.
La frase in apertura
è della canzone “Until the day I die” degli Story of the
Year.
Parliamone: so che molti di
voi vorranno uccidermi, ok?
Mi rendevo conto, mentre
scrivevo, di stare prolungando i momenti con Alyster viva fino a ponderare di non farla morire affatto.
Ma la trama è questa, mi sono detta, e alla fine
perdendo un po’ d’anima l’ho scritta.
Mi scuso se il capitolo risulta pesante perché troppo incentrato sui Kolstoj,
ma fin dall’inizio avevo avuto in animo di includere nello stesso
capitolo qualche flash sul loro passato e la spiegazione del ruolo della loro
famiglia; Alyster sarebbe dovuta morire nel 15.
Ma francamente, mi sembrava di allungare la pappardella.
Purtroppo sono di fretta e
dall’università, quindi scusatemi se non rispondo alle recensioni
nella maniera solita x°
Un grazie
per le recensioni a Yoko891, makotochan, Flamma Drakon, Gweiddi at
Ecate, Gioielle.
Un grazie inoltre a LitaChan che so continua a seguirmi
nonostante, povera, sia sommersa di impegni.
Grazie
anche a makotochan e Talpina Pensierosa per aver espresso un
voto a favore di Rinnega per il concorso di EFP sui migliori personaggi originali. Ne sono stata davvero lusingata <3
E ovviamente, grazie anche
a chi legge soltanto e continua a seguirmi.
Capitolo 15 *** Un passo avanti - qualcosa si spezza ***
What about now
Un passo in avanti – qualcosa si spezza
What
about now?
What
about today?
What
if you're making me all that I was meant to be?
What
if our love never went away?
What
if it's lost behind words we could never find?
Anche a distanza di un mese
abbondante, il ricordo della morte di Alyster era ancora vivido in molti di
loro.
Dalle persone che l’avevano
conosciuta più superficialmente, solo come il capo dormitorio femminile, a
quelle che invece erano state più coinvolte, amiche.
Il funerale, anch’esso ormai
lontano nel tempo di quasi trentatre giorni, era stato straziante.
Tutta la scuola aveva
osservato il lutto, e su richiesta della stessa famiglia Kolstoj, la funzione
funebre era stata celebrata proprio a Latowidge.
Le disposizioni, sembrava
fosse stato Sirjan a darle nonostante la presenza dei genitori.
La pioggia che li aveva
tormentati come nella scena drammatica di un libro la mattina della morte di
Alyster e i giorni successivi e che pareva aver scelto di dargli un po’ di
pace, quel giorno si era invece prepotentemente riaffacciata sul terreno della
scuola.
Nonostante questo, le persone
erano rimaste ugualmente all’aperto mentre un sacerdote recitava i passi dei
testi sacri adatti all’occasione.
Non erano in molti fuori;
aveva saputo – in un secondo momento – che Sirjan aveva richiesto
esplicitamente la presenza solo di alcuni di loro, senza coinvolgere tutti gli
studenti in un dolore che molti di loro, con tutte le migliori intenzioni del
caso, non avrebbero potuto condividere.
Per tutta la durata della
cerimonia, lo sguardo di Oz non aveva mai abbandonato la bara in legno scuro
adagiata nel terreno.
Prima che arrivasse,
tuttavia, aveva avuto modo di scorgere visi, o cogliere saluti; non ce l’aveva
fatta a rispondere a molti di essi, o forse addirittura aveva distolto
l’attenzione dal terreno dove si era fissato ancor prima dell’arrivo della
bara, solo per inquadrare la figura di Sirjan.
Seguito dai genitori e con
gli abiti da lutto come tutti loro, avanzava diversamente dal padre e dalla
madre senza l’ombrello.
Il signor Kolstoj sorreggeva
sia quello, sia la moglie, attaccata al suo braccio e singhiozzante già da
prima che giungessero lì.
Oz era certo della presenza
di Alice e Noah, giunti con lui, e di Marcus che aveva silenziosamente
mantenuto la sua posizione al fianco di Noah per tutto il tempo.
Sapeva che ad un certo punto
era arrivata Ada, che aveva preso posto al loro fianco, accompagnata da Karin:
Clifton e Sally, solitamente insieme le due, non li avevano raggiunti.
In breve, Oz sapeva che anche
Gilbert era arrivato, perché aveva sentito Ada rivolgergli un saluto che aveva
impiegato fin troppo poco tempo a tramutarsi in un singhiozzo.
Elliot e Reo li aveva visti
anche troppo chiaramente quando erano andati a rivolgersi ai Kolstoj nelle
condoglianze di rito.
Aedan, non aveva mai lasciato
il fianco di Sirjan, né aveva diminuito la distanza di due o tre passi che
c’era fra loro per dargli conforto: la sua figura era rimasta immobile e
silenziosa per tutto il tempo, sotto la pioggia senza ombrello come molti di
loro, rispettosa di un dolore addirittura palpabile.
Forse, c’era stato qualche
professore, magari alle loro spalle, ma Oz di questo non era certo.
Nessuno di loro si era mai
rivolto la parola per tutto il tempo in cui, sotto la pioggia, erano rimasti
lì.
Mentre il sacerdote
pronunciava sentite parole di rito, Oz guardava per terra senza riuscire né a
mutare espressione, né a distogliere lo sguardo dalla terra.
Persino Alice, che
inizialmente forse per istinto gli aveva preso la manica per dargli un minimo
di conforto, lo aveva lasciato quando aveva notato la totale mancanza di
reazione.
Anche a distanza di un mese,
Oz ricordava di non aver provato la rabbia solitamente dettata dall’impotenza
di fronte a qualcosa più grande di te.
Né quella tristezza empatica
nel sentire i singhiozzi e le parole strozzate della madre di Alyster, stretta
nell’abbraccio del marito.
Oz non aveva guardato Sirjan,
se non una volta sola: quella in cui aveva visto che l’altro, come lui,
guardava per terra con lo sguardo di chi non riesce a crederci.
Anche con la verità ad un
palmo dal naso, anche con parole di commiato per un defunto che risuonano
vicine alle proprie orecchie, anche con il pianto di tua madre accanto a te.
Oz sapeva come ci si sentiva.
Ad essere forti né per reale
forza interiore, né per la nobiltà d’animo che ti obbliga a resistere per
essere di supporto agli altri; Oz conosceva quella forza che è dettata da
niente di più che non sentire nulla.
Sei solo, semplicemente,
vuoto.
A combattere perché il magone
non spezzi la tua buona volontà che ti sta aiutando a non piangere.
Sei semplicemente lì, e non
c’è niente.
Né dolore, né speranza, né
rabbia.
Solo disperazione.
La vita era proseguita
ugualmente.
Per quanto fosse certo che
Sirjan lo trovasse insopportabile, Oz ben presto aveva dovuto ammettere che per
quanto difficile ed innaturale – soprattutto all’inizio – la vita stava
continuando anche senza Alyster lì con loro.
Se avesse affermato che
trovava difficile fare le cose che faceva prima ora che la compagna più grande
non c’era più, Oz era convinto che avrebbe mentito: non perché non le volesse
bene, ma perché sapeva già che per quanto il dolore potesse essere grande, una
realtà crudele rimaneva sempre la stessa, dividendo lui, Sirjan e tanti altri come
loro da quelle persone che non avrebbero mai potuto rivedere.
Loro respiravano.
Alyster e Jack non più.
«Forza, adesso basta.» sentì
pronunciare in corrispondenza di una poderosa pacca sulla schiena che lo fece
tossicchiare; voltandosi, non fu difficile riconoscere Noah che aveva un
cipiglio indecifrabile in quel momento, ma che Oz supponeva di non sbagliare
definendolo deciso, quasi rinvigorito.
Noah portò lo sguardo su di
lui: «Non posso dire che “so quant’è difficile”. Ma che non ho intenzione di
farti vivere come un vegetale per un altro mese sì. Forza, alzati.» lo esortò
nuovamente, gli occhi castani dritti nei suoi, la mano tesa in avanti.
Oz guardò prima quella, poi
il compagno, con espressione sorpresa.
Abbozzò un sorriso e fece per
dire qualcosa, ma di nuovo l’altro lo anticipò: «Non provare a rifilarmi che
“va tutto bene”. Potrei appellarmi al mio istinto materno e prenderti a sberle,
Oz. Non sono così stupido. O
insensibile.» dichiarò in una sottile minaccia.
Sbuffò quindi appena quando
notò che l’altro non si decideva e fece di testa sua, prendendogli il polso e
tirandolo appena verso di sé costringendolo ad alzarsi.
Ottenuto quanto voleva, prese
a muoversi in direzione dell’edificio scolastico, mentre la prima delle due
campanelle che suonava segnalava agli studenti di affrettarsi con la colazione
per dirigersi alle lezioni.
Oz si ritrovò a farsi tirare
come un ragazzino che fa i capricci; gli occhi chiari abbandonarono la mano di
Noah per andare a cercarne il viso, che data la posizione però non riusciva a
vedere.
«Noah… posso camminare anche
da solo, sai?» gli fece notare, con una sfumatura di ironia leggera. L’altro
non annuì, non si voltò, né si fermò.
Si limitò solo ad un: «Ovvio
che lo so.» dopo il quale allentò la presa sul polso solo per far scivolare la
propria mano a prendere quella del biondo. Non si trattava di quella stretta
significativa, di quell’intrecciarsi di dita più tipico degli innamorati.
Ad Oz non sembrò altro che la
stretta di qualcuno che cerca di farti forza, a prescindere dal vostro legame.
Si lasciò sfuggire un sospiro
lieve, che forse Noah sentì, vista la replica che parve rivolgere proprio a
quel suo gesto.
«Nessuno pretende che tu non
stia male.» fu la frase con la quale esordì mentre, entrato nell’edificio
scolastico, lo guidava verso la classe del professor Wayne per le prime due ore
di chimica: «Nessuno se lo aspetta da te. Noi sappiamo che tu, Shaye e Elliot
Nightray eravate i più vicini ad Alyster dopo suo fratello. Sappiamo che forse
continuerete a stare male ancora per un sacco di tempo anche se non lo
dimostrate o lo date a vedere in maniera diversa.» continuò, voltando il primo
angolo che portava alle scale.
Probabilmente, visti i pochi
studenti ancora intenti a salirle, la maggior parte si era già sistemata nelle
aule.
«Va bene se stai male, Oz. Va
bene anche se decidi di stare male quando nessuno ti vede e se con noi cerchi
di comportarti come sempre. È… un modo per andare avanti, o per provarci. Va
bene anche se deciderai di chiuderti in camera quando non ci sono e piangere
come un bambino. Però…» indugiò, a pochi passi dalla classe la cui aula era già
chiusa.
Si voltò a fissarlo, negli
occhi la preoccupazione e la solita sincerità che – nonostante fosse
prerogativa di Noah da quando lo conosceva – Oz si sorprendeva sempre di
ritrovare in maniera così limpida.
«Però Oz, non è colpa di
nessuno se Alyster non c’è più.» disse e tacque per qualche istante in cui
quelle parole raggiunsero la mente del biondo come se fosse la prima volta che
le ascoltava.
Sgranò appena gli occhi
chiari, in maniera quasi impercettibile, ma lo fece.
«Né tua, né di Sirjan. Né di
nessun altro. Era una malattia e… nessuno di noi, o di voi poteva fare niente.
Perciò dovresti smettere di comportarti come se invece fosse dipeso da te.
Sentiti triste per la sua morte, ma non addossartene la colpa. E credo che
dovresti dire anche la stessa cosa a Sirjan, tu che ci parli di più.» lo sentì
concludere, senza sapere cosa rispondere.
Vide e sentì la mano di Noah
posarsi sulla propria testa e scompigliarne energicamente i capelli, prima di
un: «Andiamo, che Wayne ci ammazza se siamo in ritardo.» dopo il quale Noah
aprì la porta dell’aula, mentre la seconda campanella iniziava a suonare.
Osservandolo, lo vide
ridacchiare dopo aver esordito con al posto del solito “buongiorno” «E anche
stavolta, miracolosamente, Noah Keynes è salvo!» che fece voltare e ridere
diversi compagni, di cui colse alcune repliche divertite ed ilari.
E mentre si intervallavano in
aula, poco distanti da lui, frasi come: «Ti sei salvato pure stavolta, Keynes,
che razza di fortuna!» oppure «Prima o poi Wayne ti beccherà e non te la farà
passare tanto liscia!» o ancora «Noah, io tifo per te tutte le mattine ormai!»
Oz sorrise.
Un sorriso lieve, non di
quelli soliti che gli incurvavano le labbra facendoti pensare che al mondo
andasse tutto a meraviglia o che nella vita di certe persone i problemi non
esistessero.
Ma era pur sempre un sorriso,
che ancora non sapeva esprimere la gratitudine che nella sua testa era andata
formandosi come unico pensiero alle parole del compagno, ma che sarebbe
cresciuto pian piano fino a diventare capace di dimostrare quel sentimento
senza necessariamente bisogno di dire a voce “grazie”.
Sente un rumore fastidioso sul comodino, ma lascia che
si ripeta incessantemente come fa ogni momento del giorno e della notte.
Odia gli orologi e tutto ciò che ha la stessa
monotona, irritante cadenza dei secondi che passano.
Le lenzuola del letto lo coprono fino alla vita.
Le braccia, sono mollemente lasciate inermi lungo i
propri fianchi.
Davanti a sé, c’è una parete bianca, con un armadio
incolore sulla sinistra e – se si volta – può vedere una finestra che fa
entrare luce in quella stanza.
Ma di guardare fuori non ha voglia.
Di stare lì, non ha voglia.
Nella stanza non c’è nessuno: Ada è uscita, a parlare
con quell’uomo che ogni tanto passa a trovarlo ma che in realtà sospetta vada
lì solo per sua sorella.
Non gli piace affatto quel tipo. Sua sorella è solo
una bambina, dopotutto, sotto quell’aspetto.
Scuote la testa, pensa di nuovo ad Alyster.
…O forse non vuole davvero pensarci e la sua testa si
sta prendendo gioco di lui.
Fa eccessivamente male pensarci.
Fa male sia al cuore, dove c’è una morsa che rischia
di farlo scoppiare, sia allo stomaco dove una stretta analoga gli contorce
quasi le viscere – è certo di non esagerare, checché ne dicano!
Non possono capire!
Loro che non hanno mai perso nessuno non possono
capire, non capiranno mai!
Fa male persino alle mani, perché una perdita simile
gli fa così rabbia che stringe i pugni, fa sbiancare le nocche e poi le unghie
affondano nella carne, nei palmi delle mani fino a ferire.
Vede qualcuno entrare di corsa, guardare le mani
sporche di sangue allarmata.
«Signor Bezarius! Signor Oz, la smetta di stringere!»
gli impone la ragazza al suo fianco – com’è il nome? Miranda Barma.
Non la sopporta, quella lì.
Dal modo in cui tratta i compagni, suoi studenti, al
modo in cui gli si sta rivolgendo.
«Signor Bezarius, si sente bene?» domanda, insistente.
Così insistente da essere terribilmente irritante.
È ovvio che non sta bene, lei dovrebbe saperlo, anche
se al funerale di Alyster non c’era.
Ma no, lei è estranea a cose simili vero? Magari non
le interessa nulla nemmeno del fatto che una sua studentessa sia morta.
Le persone così… gli danno davvero il voltastomaco.
«Stia zitta… zitta, zitta, zitta, zitta, ZITTA!» si
sente urlare, vede la propria mano afferrarle di scatto il braccio e stringerlo
più forte che può, fino a farle male.
Continua mentre si divincola.
Continua mentre smaniosa cerca qualcosa per chiamare
qualcuno.
Continua mentre la porta si spalanca.
E stringe, stringe, stringe sentendola dar voce a dei
lamenti di dolore.
Stringe finché non la allontanano.
E allora…
Spalancò gli occhi, alzandosi
di scatto a sedere.
Respiro affannato, occhi
sgranati per lo spavento, mano sul petto quasi a voler calmare il fiatone
rumoroso che riempiva la stanza, in contrasto con il respiro regolare e appena
percettibile di Noah poco più in là.
Inspirò diverse volte,
sentendo qualche goccia di sudore scivolare lungo la tempia e lungo il collo.
Portò un braccio, in
corrispondenza della manica, ad asciugare la fronte riscoprendola madida di
sudore; mentre il respiro andava lentamente regolarizzandosi, portò lo sguardo
in direzione della finestra, scostando le tende quanto bastava per sbirciare
fuori senza che troppa luce eventualmente svegliasse Noah.
Il chiarore fuori era leggero
e lo indusse quindi a portare lo sguardo sull’orologio sul comodino di Noah
che, tuttavia, a causa della figura del ragazzo a coprirlo in buona parte non
riuscì a scorgere.
Si alzò, quindi, riuscendo
infine a vedere l’ora: le cinque meno un quarto del mattino.
Sospirò, sentendo il compagno
di stanza rigirarsi nel letto durante il sonno.
Racimolò una felpa sulla
sedia della propria scrivania, indossandola. Nonostante il clima fosse ormai
sensibilmente migliorato ora che si affacciavano a Marzo quasi, alle cinque del
mattino l’aria era ancora abbastanza pungente.
Mise dei calzini e le scarpe
con cui era arrivato lì a Latowidge il primo giorno, dopodiché sgattaiolò fuori
dalla stanza, attento a non far rumore nel richiudersi la porta alle spalle.
Non sarebbe riuscito a
riaddormentarsi e piuttosto che passare più di un’ora rigirandosi nel letto
guardando il soffitto, tanto valeva andarci.
Lì dove stava la lapide –
ufficiosa, chiaramente – di Alyster.
Il percorso fu breve, dal
momento che a quell’ora tutta la scuola dormiva. Per i corridoi, così come per
il sentiero esterno che doveva percorrere per arrivare a destinazione, non aveva
incrociato nessuno.
Come aveva immaginato l’aria
era fresca, un po’ pungente anche se non ai livelli di quella invernale, ma
abbastanza da portarlo istintivamente a sfregare le mani su e giù in
corrispondenza delle braccia.
Forse, vedere in lontananza
la figura di qualcuno quando fu ormai in zona quasi, non lo sorprese davvero;
in realtà, una parte di lui sapeva che in un qualche momento della giornata in
cui non era visibile a tutti, Sirjan doveva passare del tempo lì da solo.
Ma in ogni caso, uno stupore
leggero da farlo rallentare lo colse ugualmente quando lo riconobbe.
Un po’ come la prima volta
che si erano incrociati, Sirjan sedeva per terra sull’erba fresca e umida della
rugiada mattutina: indossava qualcosa di pesante sopra quelli che probabilmente
erano i pantaloni del suo pigiama e poggiava la schiena al tronco dell’albero
che Oz aveva notato anche durante la celebrazione dei funerali, sebbene di
sfuggita.
Forse anche i capelli erano
un po’ inumiditi, notò Oz, e lo sguardo si perdeva in avanti.
Era fin troppo facile intuire
che non vedesse altro che la lapide, ed Oz fu incerto se tornare o meno sui
propri passi; tuttavia, per quanto perso nella contemplazione di quella lastra
di pietra, Sirjan rimaneva pur sempre la persona che si occupava della gestione
del rapporto con degli spiriti lì a Latowidge.
E doveva aver trovato facile
accorgersi della presenza di un essere umano, nella fattispecie di Oz.
Il biondo lo vide voltare il
viso verso di lui, l’espressione di una persona stanca, che non dorme quanto
dovrebbe forse anche se non a livelli da star male fisicamente, e svuotata.
Tuttavia, non senza sorpresa
da parte del più giovane, questa mutò nell’ombra di un sorriso cortese, mentre
una mano gli faceva cenno di avvicinarsi.
I piedi quasi si mossero da
soli, in sua direzione, avvicinandolo fino ad essere a pochi passi da lui.
«Buongiorno.» fu il pacato
saluto che Oz si sentì rivolgere e che meccanicamente ricambiò: «Buongiorno.»
Vide Sirjan mantenere lo
sguardo calmo su di lui: «Un po’ mattiniero.» gli fece notare, ma non come un
rimprovero, né come una domanda guardinga di quelle che era solito porre.
Oz cercò di abbozzare un
sorrisetto: «Un po’. Tu invece facendo il capo dormitorio mi sa che sei
abituato alle alzatacce.» commentò, cercando di trovare un motivo che non fosse
l’ovvio quanto inopportuno “non riesci a dormire perché pensi a tua sorella?”.
La risposta di Sirjan a
quell’osservazione si concentrò in un semplice e leggero annuire, dopo il quale
calò nuovamente il silenzio fra loro; lo sguardo del più grande tornò sulla
lapide poco distante e quasi fosse consequenziale, anche quello di Oz fece lo
stesso, come guidato dall’altro.
Per quanto tempo nessuno dei
due parlò, il biondo non fu in grado di calcolarlo, né pensò di farlo.
Di sicuro non fu troppo a
lungo, a giudicare dal fatto che quando la voce di Sirjan lo richiamò alla
realtà, il cielo si era sì schiarito ma non completamente da far supporre che
fosse già l’alba.
«Ho ragione di credere che
Alys ti abbia già rivelato diverse cose.» esordì, senza portare tuttavia lo
sguardo sul più giovane: «Fin dall’inizio si è presa a cuore tutta la questione
che ti riguarda. Perciò credo che… nel momento in cui si è resa conto di stare
davvero male, lei ti abbia chiesto di parlare o abbia trovato il modo di farti
sapere qualcosa che voleva comunicarti.» continuò, Oz che non disse nulla,
limitandosi a deglutire a vuoto.
E fu allora che Sirjan voltò
appena il viso, portando la propria attenzione sul suo interlocutore: «Non
posso dirti “dimmi cosa vuoi sapere e te ne parlerò”. Nonostante io abbia
scelto di diventare l’erede di mio padre per evitare un peso a mia sorella,
quel ruolo è ormai mio. Anche se Alyster non c’è più, non vuol dire che di
punto in bianco abbandonerò quello che la mia famiglia fa da fin troppi anni
ormai.» chiarì, nel tono quella nota di austera cordialità e osservazione del
proprio dovere che Sirjan aveva sempre mostrato di avere fin dal primo giorno.
Oz annuì lentamente, segno
che stava seguendo ciò che l’altro diceva e che probabilmente era anche in
grado di capirne le ragioni in qualche modo.
Ma toccò nuovamente a Sirjan
stupirlo, perché ricevere un aiuto da Alyster era sempre stato non qualcosa di
scontato, ma qualcosa che potevi aspettarti; lo stesso, nonostante le sue
intenzioni non fossero cattive, non si poteva dire del suo gemello.
Eppure, Sirjan sorrise. Un
incurvarsi di labbra leggero e conosciuto, quello che di solito mostrava la sua
pacata educazione rivolta a tutti e nessuno in particolare; in quel momento
tuttavia Oz fu certo di iniziare a capire il tipo di somiglianza – oltre quella
fisica – che aveva sempre accomunato i fratelli Kolstoj.
In quel sorriso, sebbene in
maniera certamente più lieve, vi era una traccia della stessa gentilezza con la
quale era solita sorridere Alyster.
Probabilmente, l’espressione
del biondo rifletté esattamente ciò che aveva avuto modo di notare e
altrettanto probabile era che Sirjan lo avesse in qualche modo intuito; non
smorzò il sorriso, mantenendo gli occhi chiari sul ragazzo.
«Nonostante questo» riprese
«ciò che è in mio potere dirti, te lo dirò. Avevo pensato questo, il giorno del
funerale, quando ti ho osservato.» ammise.
Oz si concesse un’occhiata
sorpresa, alla quale Sirjan si lasciò sfuggire fra le labbra uno sbuffo
divertito. Non era una risata, non vi era nemmeno paragonabile – e d’altra
parte, non era plausibile forse che il ragazzo sorridesse parlando di quella
cerimonia – ma era molto più di quanto Oz gli avesse mai visto fare in maniera
genuina, senza il retrogusto amaro di una risata sarcastica o di disprezzo come
era stato in quell’unico incontro con Cheshire.
«Posso chiederti se ti
sorprende di più che io abbia deciso di parlarti o il fatto che lo avessi
deciso da un mese a questa parte?» chiese, quasi ilare per quanto la situazione
gli permettesse. Oz scosse la testa: «Nessuna delle due cose. O meglio, mi
sorprende che tu voglia darmi informazioni che per tutto questo tempo ti sei
rifiutato di darmi ma… era per il fatto del funerale.» ammise, quasi
lasciandoselo sfuggire, incapace di tacerlo.
«Ero convinto… insomma, ti ho
guardato quel giorno e sembrava che a stento tu… riuscissi a vedere Alyster.»
mormorò, sentendosi in parte colpevole per stare riportando a galla le immagini
di quel giorno e non riuscendo a pronunciare “la lapide”, sostituendovi il nome
della ragazza.
«Proprio come te.» fu la
replica che gli fece nuovamente alzare lo sguardo.
«Nemmeno tu riuscivi ad
alzare lo sguardo da mia sorella. Proprio come il giorno in cui non sei
riuscito ad alzarlo da Jack.» gli fece presente, con tono pacato, quasi ad
addolcire quella che altrimenti sarebbe stata niente più di una frase dolorosa.
Oz sgranò gli occhi: «Jack…
tu eri…?»
«Sì.» annuì Sirjan: «Sia io
che Alyster eravamo presenti al funerale di Jack. Ma non abbiamo avvicinato né
te, né tua sorella quella volta. Portammo le condoglianze direttamente a tuo
padre, accompagnati dai nostri genitori.» spiegò senza entrare nei dettagli,
anche perché non c’era molto altro da dire.
«Mi è tornato in mente quando
ti ho visto. E, come Sirjan anziché come erede dei Kolstoj, ho pensato… che se
ci fossero delle circostanze non chiare sulla morte di Alyster» riprese, una
pausa di qualche istante fissando Oz direttamente negli occhi: «o se, in ogni
caso, in futuro si capisse che la sua morte è legata a qualche altra cosa poco
chiara sebbene non ne sia stata la causa, vorrei saperlo. Non ho dubbi sul
fatto che farei di tutto per scoprirlo. In ogni modo possibile, persino il più
meschino. E odierei sapere che qualcuno con la capacità di aiutarmi a scoprire
qualcosa non lo fa.» concluse.
Oz non seppe dire se a quel
modo Sirjan gli stesse semplicemente spiegando cosa lo portava a parlare con
lui ora come non aveva mai fatto, o se stesse cercando di punirsi e farsi
perdonare per aver taciuto fino a quel momento.
In realtà, egoisticamente non
volle pensarci; la sua testa era già così piena di domande, ricordi e
confusione, da non necessitare un interrogativo che per ora poteva mettere da
parte.
Sirjan a quelle parole non
aggiunse altro, dandogli il tempo di assorbirle, comprenderle e decidere se
chiedere qualcosa o meno. Oz ne approfittò interamente, chiudendosi nel
silenzio e cercando di riordinare nella propria mente le parole già udite da
Alyster e le informazioni che contenevano – cercando di non farsi sopraffare
dal più semplice e doloroso ricordo di quell’ultima chiacchierata con lei.
«Alyster mi ha detto… che se
avessi avuto dei dubbi, avrei dovuto rivolgermi a Xerxes Break. Non ho avuto
modo di chiedere precisamente per quale motivo» disse, mordendosi il labbro
inferiore in qualche istante di pausa: «ma non capisco.» ammise infine.
Sirjan, osservandolo in
completo silenzio per coglierne ogni parola, abbassò impercettibilmente lo
sguardo: si rendeva conto che quel ragazzino stava per fare una domanda di cui
si sarebbe pentito.
Quasi lo avvertiva nell’aria
ancora frizzante che precedeva l’alba.
Si rendeva persino conto del
male che gli avrebbe fatto – perché anche volendo, qualsiasi domanda alla quale
avrebbe risposto non glielo avrebbe risparmiato – e comprendeva forse per la
prima volta la difficoltà di quello che la sua famiglia faceva.
Mantenere segreti non era
difficile.
Sopportare il peso delle loro
conseguenze lo era molto di più.
Si preparò quando lo rivide
alzare lo sguardo: «Sirjan, quante persone sono invischiate in questa
situazione? Ogni volta… sembra uscir fuori un nome nuovo. Forse è proprio una
di quelle domande a cui non puoi rispondere, però… però Alyster mi ha parlato
di voi, di Barma, di Xerxes Break, dei Nightray, dei Baskerville e di spiriti
come Cheshire. Mio fratello… è solo morto di malattia. Che cosa c’entrano tutto
questo e tutte queste persone?» chiese, l’espressione di chi sta per impazzire
senza mai trovare una soluzione, una risposta.
Sospirò.
Non conosceva altro modo che
quello, purtroppo.
«Barma ti ha dato il diario
di tuo fratello Jack. Non te lo sto chiedendo, lo so perché Rufus me lo ha
detto subito dopo avertelo consegnato.» spiegò, per un attimo l’ombra del
Sirjan erede dei Kolstoj che riemergeva: «Dalla tua domanda posso immaginare
che tu… non lo abbia letto completamente. Alcuni nomi che cerchi, sono proprio
in quel diario, scritti dallo stesso Jack. E sono grosso modo le informazioni
che Barma e Xerxes Break hanno collaborando con noi. Chiaramente, non sono a
conoscenza di tutto quello che sa la mia famiglia.» gli fece presente,
l’espressione seria anche se non in un certo senso rigida com’era stato in
passato.
Vide Oz annuire
impercettibilmente e proseguì.
«Posso accennarti solo ai
nomi che sono sul diario di tuo fratello, dal momento che sono cose che
leggeresti e verresti comunque a sapere da solo. Oltre questo, hai altre
domande?» chiese, probabilmente prima di iniziare a sciorinare l’elenco di
presunti nomi.
Oz quasi non gli diede tempo
di finire di pronunciare quella domanda: «Barma mi ha dato il diario dicendomi
che leggendo avrei capito qualcosa sulla morte di Glen Baskerville che a lui
interessa. Ma… io so solo che è morto prima di Jack, per cui…»
«Rufus ti ha detto questo?»
lo interruppe Sirjan, l’espressione quanto mai seria.
Oz annuì colto alla
sprovvista.
Vide Sirjan portare una mano
vicino al volto, l’aria di chi sta velocemente soppesando pro e contro di
qualcosa; alla fine di quel teorico processo, lo sentì distintamente sospirare.
«Non ricordo di avertene parlato
o meno, perciò forse mi ripeterò. Glen Baskerville si è suicidato, e ti
assicuro che non aveva motivi “ufficiali” per farlo. Per questo molti
suppongono che si sia trattato di qualcosa che non comprendeva problemi di alta
società o che potessero emergere facilmente. Il motivo preciso, è qualcosa che
nemmeno io so. L’unico che potrebbe parlarne è Glen, ma immaginerai tu stesso
che non si tratta di qualcuno facile da avvicinare. E personalmente, non ho
interesse nel farlo. Non sono un investigatore, il mio compito è solo mantenere
celato quello che mi affidano in termini di segreti ed informazioni.» spiegò
più chiaramente possibile.
Oz, prestando la massima
attenzione, sembrò ricordarsi di un episodio accaduto ormai mesi prima;
probabilmente l’unico contatto con Glen Baskerville, se aveva ragione di
credere che fosse lui.
«Quindi lo spirito di Glen è
qui?» domandò a bruciapelo; senza scomporsi particolarmente, Sirjan annuì: «Sì.
Ma ti assicuro che il pessimo carattere che aveva in vita non è affatto cambiato
dalla sua morte. Inoltre è uno spirito che ricerca la solitudine. Ho ragione di
credere che tu sia stato l’unico che abbia avvicinato.» assicurò.
L’espressione che Oz assunse,
probabilmente tradì i suoi pensieri.
O forse, Sirjan li aveva
semplicemente messi in conto nel momento stesso in cui aveva deciso di
parlargli con franchezza.
«Il consiglio che voglio
darti, è di non cercarlo. Glen Baskerville intendo.» lo ammonì: «Temo di poter
essere quasi certo del motivo per cui ti abbia avvicinato a suo tempo. E cioè,
devi aver fatto qualcosa che lo ha disturbato. Non è un bene mettersi contro
gli spiriti in generale, perciò evita se puoi.» gli suggerì, nel tono quella
sfumatura di gentile preoccupazione che aveva sempre dimostrato di avere verso
gli studenti, tra i quali Oz non aveva mai fatto eccezione, anzi.
Era forse la persona che si
era sentito rivolgere quel tipo di raccomandazioni più spesso.
Il biondo annuì, senza fare
domande, e Sirjan abbozzò lo stesso sorriso di prima a quel cenno.
«I nomi.» esordì poi, dopo
aver sbirciato l’orologio da taschino sotto gli occhi di Oz, che gli rivolse
ancora una volta completa attenzione.
«Ho letto il diario
abbastanza volte da essere più o meno certo di non dimenticarne nessuno. Le
persone che lì vengono nominate sono… quasi tutte persone che conosci. Alcune
le abbiamo tenute d’occhio da quando sono qui a Latowidge, te compreso. Posso
dirti che finora non hanno dato modo di farci pensare che stessero
architettando qualcosa, ma non sono nemmeno così ingenuo da credere che se lo
stanno facendo non siano più che in grado di nasconderlo. Anche perché ad
occuparci di questa questione siamo sempre stati solo io, Rufus, Alyster, Aedan
e Xerxes Break.» fu la premessa che fece, ed Oz non seppe davvero dire che ciò
che Sirjan cercava di comunicargli era di stare attento a tutti i nomi che
avrebbe di lì a poco pronunciato, o se invece al contrario gli stesse
suggerendo di non doversi preoccupare di tutti come se tramassero alle sue
spalle.
«Le persone menzionate da
Jack sono Charlotte e Glen Baskerville. Lei è stata una servitrice di Glen per
anni e non ha mai completamente accettato l’amicizia con tuo fratello. Tutti e
tre i fratelli Nightray: anche se non so dirti quanto Gilbert ricordi dopo
l’amnesia che sostiene di aver avuto. E… c’è qualcuno, fra le persone a te
vicine, Oz. Qualcuno che volente o nolente non ti sta dicendo la verità. Ma il
suo nome, non posso dirtelo.» dovette ammettere, per quanto le sue intenzioni
fossero buone.
Si alzò, così senza preavviso
che Oz sussultò involontariamente.
Fece per dire qualcosa,
vedendolo togliere qualche filo d’erba rimasto sui pantaloni e in procinto di
andare via, ma il maggiore lo interruppe.
«Ma ti dirò questo.»
aggiunse, quasi volesse farsi… perdonare, per la mancanza del nome?
«So che sarà doloroso. Ma
cerca di arrivare in fondo a quel diario, è l’unica cosa che non può mentirti
dal momento che è stata scritta dallo stesso Jack, e che non ha restrizioni su
cosa può rivelarti e cosa no, come invece ho io. Ti consiglio di andare da Xerxes
Break, ma dopo averlo letto e solo quando avrai domande precise da porgli. Lui
cercherà di metterti alla prova, ti farà sudare quelle informazioni: anche con
parole crudeli o subdole insinuazioni. Ma se riesci a dare a lui e Barma quello
che vogliono, o ad entrare nelle loro “grazie”, sono alleati preziosi se
davvero hai deciso di andare in fondo a questa storia.» continuò, quando mai
aveva parlato così a lungo e rivelato così tanto.
Lo vide fissare il proprio
sguardo nel suo, e non seppe dire cosa aspettarsi ancora.
«Non importa quanto le
domande e le risposte che avrai ti porteranno vicino a Glen Baskerville. Non
cercarlo, Oz. Non è detto che torneresti indietro. Scopri di lui solo quello
che ti è davvero strettamente necessario e se ti avvicina nuovamente tramite
Elliot Nightray, vattene. Sarebbe persino meglio se, per allora, tu non
rimanessi affatto da solo con lui. Chiederò ad Aedan di aiutarti in questo.»
assicurò.
Oz sentiva la stessa
sensazione che probabilmente dovevano provare i margini di un fiume prima che
il corso d’acqua straripasse.
Aveva il sentore che non
sarebbe riuscito a fare chiarezza su quella situazione nemmeno ordinando tutto
su degli schemi per delle intere settimane.
«Lacie.» lo sentì pronunciare
e fu certo di essersi perso un pezzo, quello che collegava quell’unica parola
al resto del discorso.
«Eh?» balbettò infatti di
rimando, fissandolo oltremodo confuso.
«Lacie non è solo il nome di
uno spartito, Oz. Ricordatelo.» concluse, più vicino di quanto Oz lo ricordasse
e riuscisse effettivamente a vederlo mentre inspiegabilmente la vista si faceva
pessima.
«Lacie, chi…?» tentò di
articolare, ma perse i sensi prima di concludere quella domanda così
importante.
«Sembra… essersi calmato per fortuna.»
«State bene, Miranda?»
«Sì, non preoccupatevi.»
Se fosse sveglio coglierebbe tutto quello, ma in
realtà sente solo voci e suoni indistinti intorno a sé, in quell’istante prima
della totale perdita di coscienza.
«Grazie dell’aiuto, signor Kolstoj, il suo sangue
freddo è stato provvidenziale.»
«Anche se il metodo per addormentarlo non è molto
consono.»
…Kolstoj?
È Alyster? No. Signore.
Allora è Sirjan.
Ha una sensazione molto vaga, di una mano che scosta
qualche ciocca dalla fronte.
Ma non è sicuro di stare sognando o di essere sveglio.
Come non è sicuro che non sia la sua immaginazione, a
fargli avvertire il respiro lieve di qualcuno vicino all’orecchio, come se
stesse per sussurrargli qualcosa.
Deve cercare di sentirla.
Deve provarci, deve ascoltare, perché sembra che sia
così importante…
Gli scostò i capelli dalla
fronte, osservandolo con la stessa espressione preoccupata che aveva rivolto
sempre e solo ad Alyster, il viso abbastanza vicino al biondo.
Abbastanza da far sì che un
sussurro fosse più che sufficiente.
«…Cerca di accorgertene in
fretta, Oz.»
Calciò l’aria, annoiata, la
schiena poggiata contro la parete: si stava annoiando da morire, a dirla in
maniera semplice e concisa.
La mattina – tanto per
cambiare, violando il regolamento interno dei dormitori che teoricamente impediva alle ragazze di
entrare in quello maschile e viceversa – aveva deciso di passare a prendere
Noah e Oz per andare a lezione insieme.
Lei non era stata depressa
tanto quanto Oz, e in realtà non capiva davvero fino in fondo cosa portasse il
biondo a dilaniarsi a quel modo; non voleva essere assenza di sensibilità nei
suoi confronti. Semplicemente, quando si era soffermata a pensarci, si era resa
conto di non avere un riscontro per poter cercare di capire Oz. Figurarsi
Sirjan – ma di Kolstoj in realtà non gli interessava molto.
Quando si impegnava a cercare
di ricordare, a farlo davvero quando magari era sola in stanza, non faceva
altro se non riproporre alla sua testa dei ricordi che dire vaghi avrebbe
significato osservarli da un punto di vista ottimista e procurarsi l’emicrania.
Il risultato migliore che
aveva ottenuto era stato ritrovare la sensazione di qualcosa che si perde: ma
di certo, non avere presente cosa fosse, quando fosse successo e come, non ti
permetteva di poter dire “so cosa si prova”.
Oltretutto, aveva lasciato
perdere in ben poco tempo.
Affogare nei ricordi,
letteralmente, non era cosa per lei: dopotutto, con la sua vita attuale non
stava male, perciò non aveva mai capito l’utilità di sforzarsi a recuperare
qualcosa che tanto non torna comunque. Più specificatamente, non capiva
quell’idiota di suo cugino.
Gilbert ne aveva fatto una
vera e propria malattia, anche se non era stato sempre così.
Ora non ricordava con
precisione tutti i particolari di quando erano più piccoli, ma era sicura che
per Gilbert non fosse mai stato proprio di vitale importanza ricordare.
Anche solo prendendo come
punto di riferimento il loro ingresso a Latowidge, Alice era quasi certa che il
moro avesse sempre vissuto abbastanza tranquillamente in casa Nightray, felice
di aver ritrovato il fratello e di possedere una famiglia.
Non aveva memoria di un
Gilbert così ansioso di ricordare anche il minimo dettaglio, che addirittura
arrivava ad investigare e a chiedere a suo padre – lo avrebbe volentieri preso
a pedate quando all’ultima riunione, per colpa sua, la cena si era protratta
per quasi un’ora andando avanti a discussioni sull’argomento.
Sembrava diventata
un’ossessione; quasi quasi, paradossalmente, si ritrovava più in Vincent che se
ne fregava altamente: lui, fintanto che aveva ritrovato Gilbert, sembrava
vivere in pace con il mondo.
Strusciò la punta della
scarpa sul pavimento, tanto per fare: Noah le aveva detto, quando era andata a
prenderli – oltre il solito: «Tu mi farai cacciare via, maledizione.»
imbronciato – che Oz non si sentiva troppo bene e che quindi aveva deciso di
non andare a lezione per quella mattina.
Mi sa che mi sono raffreddato, ma vorrei evitarmi la
febbre, aveva asserito Oz quando lei
non contenta delle spiegazioni di Noah aveva insistito per affacciarsi alla
loro stanza.
Ed effettivamente il biondo
era al letto, coperto fino alla vita e un po’ pallido. Ma la cosa continuava a
puzzarle lo stesso.
E comunque ora che le lezioni
erano finite e Noah era stato letteralmente rapito da Marcus, lei si annoiava.
Tanto.
Troppo.
E lei odiava la noia.
«Maledetto servo, questa
gliela farò pagare.» borbottò imbronciata tanto che se Oz l’avesse vista in
quel momento sicuramente avrebbe commentato con uno dei suoi stupidi “waaah,
che carina Alice con il broncio!”.
Uno di quei commenti
imbarazzanti che, sebbene gli valessero spesso calci agli stinchi, continuava a
fare per chissà quale vena masochista del suo carattere.
«A~lice!» sentì pronunciare e
non le piacque. Per nulla.
Si voltò comunque in
direzione della voce che l’aveva chiamata e sperò davvero che quello che le
veniva incontro non fosse il cugino Vincent; purtroppo non sempre la speranza
era destinata a realizzarsi, a quanto pareva.
Notò che l’altro, mentre le
si avvicinava, sorrideva con quell’incurvarsi di labbra che l’aveva sempre
irritata pesantemente in tempi così brevi da chiedersi se fosse davvero
possibile, a volte.
Non si mosse, più che altro
si irrigidì appena sul posto, serrando la mascella: non doveva insultarlo,
almeno finché l’altro non gliene dava motivo. Lo mal sopportava, certo, ma
quando Vincent assumeva l’espressione di chi ha appena ottenuto di farti
passare dalla parte del torto ed è quindi consapevole di avere il coltello
dalla parte del manico beh, in quel caso arrivava proprio ad odiarlo.
Dovette alzare appena lo
sguardo, inclinando il capo indietro quando lo ebbe direttamente di fronte –
maledetta differenza d’altezza – e rimase in attesa.
Perché suo cugino non
l’avvicinava mai senza un motivo.
«Buongiorno.» la salutò, il
sorriso cordiale quanto il tono, gli occhi dissimili fissi su di lei.
«’giorno.» fu il suo massimo
impegno che si tradusse, tra l’altro, in un saluto abbastanza secco. Lo sentì
ridacchiare e sentì che i suoi buoni propositi, costruiti con tanta fatica, si
sgretolavano in una manciata di secondi.
«Sei sempre arrabbiata quando
parliamo. Devo ritenermi particolarmente sfortunato, cugina?» gli sentì
chiedere e non poté evitare ad un sorrisetto sarcastico di incurvare le proprie
labbra.
«No Vince» replicò, e non
serviva sottolineare quanto poco lo chiamasse Vince «è proprio che parlare con te mi mette di cattivo umore.» lo
provocò – lo aveva detto che i buoni propositi erano andati per altri lidi, no?
Vincent rise, di nuovo:
«Alice non è per niente carina con me.» osservò, quasi casualmente, ed Alice si
chiese quale fosse il problema di Vincent e Break con la sua presunta mancanza
di femminilità.
Fu comunque distratta
dall’ulteriore avvicinarsi di lui, che la sorprese: lei e il cugino non si
erano mai particolarmente amati, né lontanamente piaciuti.
Il biondo, fin da quando per
la parentela che li legava avevano iniziato a frequentarsi da bambini, si era
sempre dimostrato antipatico verso di lei.
No, forse “antipatico” non
era il termine esatto; forse si trattava più di essere…
…meschino, formulò mentalmente.
In ogni caso, se c’era stato
uno dei tre fratelli che più degli altri due aveva sempre mantenuto le distanze
facendoglielo volutamente pesare, quello era sempre stato Vincent. La guardava
in un modo diverso dalla voluta distanza mantenuta per etichetta da Elliot, e
diverso anche da quel particolare tipo di timidezza di cui era preda Gilbert
allora.
Era… quella sibillina
distanza di chi si diverte alle tue spalle osservandoti da lontano come si
farebbe con un giocattolo particolarmente divertente in quel momento.
O con una preda che hai
puntato e malgrado gli sforzi non riuscirà a fuggire.
Quando accennò ad arretrare –
inutilmente, dato il muro alle sue spalle – Vincent era così vicino che i loro
corpi quasi si sfioravano; lei deglutì a vuoto: non era tipo da farsi mettere
facilmente in soggezione, tanto che non si era mai preoccupata del fatto che il
cugino avesse preso il pessimo vizio di mettergli alle calcagna Echo per
controllarla.
Fastidio, certo, ma mai
inquietudine.
Eppure ora, quello sguardo
non le piaceva per nulla, molto meno del solito.
Le metteva i brividi.
«Sai, Alice, è un peccato che
io non ti piaccia. Perché a me la mia cuginetta piacerebbe anche, se non mi
trattasse sempre così male.» mormorò, il tono caldo e una mano che aveva
sfiorato con fare distratto una ciocca dei capelli castani, legati.
Lei indurì lo sguardo, e fece
per articolare un “ma figurati!”, ma fu gelata dallo sguardo che Vincent le
rivolse. O forse no.
Probabilmente, ciò che
davvero la fece irrigidire lì dov’era, terrorizzata, fu che quello sguardo ebbe
una corrispondenza. Nella sua mente, nello stesso istante in cui vide di fronte
ai propri occhi quello di Vincent che si era chinato verso il suo viso.
Occhi che non si potevano
confondere con quelli di qualcun altro: e in quel momento, quelli che vedeva e
quelli che erano nella sua mente, in uno di quei ricordi che non si era mai
data la pena di riportare a galla, dicevano la stessa identica cosa.
Vorrei tu sparissi dalla faccia della terra, per sempre.
«Mi irrita terribilmente.» lo
sentì mormorare ancora più piano ma ugualmente udibile, vicino al suo orecchio
quasi: «Ti guardo, Alice, e mi irrita. Perché sei lì, e ti comporti come se
avessi il diritto di essere felice… e tu lo sai, che non ce l’hai.» sussurrò.
Alice sussultò, sgranando
appena gli occhi, il cambio di espressione invisibile a Vincent data la
posizione.
«E mi irrita anche quel
ragazzino. Bezarius.» sembrò sputare veleno su quel nome: «Lo circondate come
se fosse Dio. Come se fosse Jack.» e
quel nome la fece rabbrividire e, anche senza ricordi degni di essere definiti
tali, le fece provare un dolore all’altezza del petto che – si disse – doveva
somigliare molto a quello che Oz aveva sentito davanti alla tomba di Alyster.
«Ma sai» vide la propria
ciocca scivolare fra le dita del più grande, mentre il viso e lo sguardo
tornavano visibili: «vi state illudendo. Tu e Gilbert. Quel ragazzino non è Jack, e voi non lo riavrete indietro.
Nessuno di noi può farlo tornare indietro. Lo state insultando. Continuando a
fingere che quell’insulso ragazzino possa prendere il suo posto.» continuò il
tono invariato per tutto il tempo.
Fino a quel momento, quando
strinse la ciocca tirandola appena con tutte le intenzioni di farle male, e lo
sguardo si riempiva di rabbia quasi cieca.
Le sfuggì un gemito fra le
labbra, le mani che istintivamente venivano portare a quella di Vincent per
liberarsi della presa.
«Proprio tu che hai insultato
la memoria di Jack a quel modo, tu che sei così bugiarda. Non meriti di stare qui,
non meriti di stare con quel bamboccio, di essere felice. Sei soltanto una
disgrazia, niente più di una ragazzina che nessuno voleva. Se tu fossi morta,
saremmo stati tutti più felici!» sbottò con rabbia.
«Smettila, smettila!» gridò
lei, la voce che riecheggiò nel corridoio deserto.
E lui la lasciò.
Si allontanò lentamente di
qualche passo, il viso che si era contratto in una smorfia quasi furibonda che
era tornata tranquilla, sorridente com’era sempre.
Non si diede nemmeno la pena
di guardarsi intorno.
«Alice, Alice… lo sai come
funzionano gli specchi?» se ne uscì, senza un senso logico. Non attese la sua
risposta: «Ti restituiscono la stessa immagine che hanno davanti. Sai… forse io
potrei diventare il tuo specchio, Alice.» pronunciò, il tono morbido e quasi
conciliante, per nulla affine alle parole che stava pronunciando.
Si voltò, per andarsene come
se nulla fosse, ma la castana si mosse addirittura prima di rendersene conto
lei stessa; allungò una mano, riuscendo ad afferrargli la manica della divisa.
Lui si limitò ad osservarla
da sopra la spalla, senza nemmeno degnarsi di voltarsi totalmente.
Sul suo viso ritrovò
l’espressione di una bambina persa, che non sa a cosa credere e che vede in te
qualcosa di simile all’unica speranza che ha di capire.
Anche se tu non sei affatto
la sua speranza.
«…Che vuol dire quello che
hai detto?» la sentì chiedere.
E di quello smarrimento, ne
fu profondamente soddisfatto.
«Vai a chiederlo all’altra
Alice, se ci tieni tanto.»
Quando aveva ripreso
conoscenza, si era ritrovato nella propria stanza, con Noah che era intento a
prepararsi. Registrando grosso modo quanto accaduto, compreso l’aver perso
conoscenza in giardino ed essere stato presumibilmente riaccompagnato in stanza
da Sirjan, si era sorpreso del fatto che notandolo sveglio Noah gli avesse
rivolto un sorriso, piuttosto che un rimprovero per l’ennesima uscita notturna
– o presunta tale, considerando che quella volta era quasi l’alba.
Poi era stato tutto più
chiaro quando Noah aveva parlato: «Sirjan ti ha riportato in stanza, ha detto
di averti trovato addormentato su un divanetto giù in sala.» gli aveva spiegato
brevemente, soffermandosi poi ad osservarlo mentre Oz mentalmente ringraziava
il più grande e ripercorreva velocemente il discorso che avevano fatto.
«Ti senti bene, Oz? Sei un
sacco pallido.» gli aveva chiesto Noah, ed Oz aveva in parte colto la palla al
balzo: «Mh, non tanto a dire il vero…» aveva mormorato.
Si sentiva scombussolato,
persino lo stomaco non sembrava al massimo della propria forma.
Noah gli aveva scompigliato
piano i capelli – dopo che Alice, bussando alla loro stanza aveva insistito per
entrare a vedere come stesse – per poi uscire e raccomandarsi con lui di
riposare per il resto della giornata e che lui e la ragazza lo avrebbero lasciato
in pace fino a sera, senza fare avanti e indietro dalla camera.
Era ora l’ora di pranzo, e il
massimo che lui era riuscito a fare era stato stare sdraiato al letto fissando
il soffitto, limitando al lavarsi l’unica attività degna di nota.
Aveva ripensato alle parole
di Sirjan, cercando di darvi un ordine, provando a stabilire cosa avesse la
precedenza su cosa. Per quanto dopo l’ultima lettura il pensiero non lo
entusiasmasse particolarmente, continuare il diario di Jack sembrava l’opzione
più logica.
Ma anche presa coscienza
della cosa, la sua mano non aveva avuto nessuna intenzione neanche vaga di
allungarsi fino a raggiungere il cassetto del comodino, né di aprirlo e ancor
meno di estrarne il diario in questione.
Sospirò nello stesso istante
in cui, senza nemmeno un bussare a precederlo, sentì pronunciare dall’altra
parte della porta un: «Sto entrando, Oz.» in cui riconobbe la voce di Gilbert,
stupendosi quando lo vide socchiudere l’uscio quanto bastava ad entrare. Il
biondo, che aveva fatto perno sul gomito per tirarsi su a sedere, lo guardò
interrogativamente mentre l’altro lasciava che la porta si richiudesse alle sue
spalle.
Quando poi Gilbert riportò lo
sguardo su di lui abbozzando un sorriso, Oz pronunciò istintivamente un: «Che
ci fai qui, Gil?» che ne tradì in parte la sorpresa.
La quale, probabilmente, si
ridimensionò in poco quando entrambi – Oz dopo averci riflettuto per qualche
istante – pronunciarono contemporaneamente: «Noah.»
Oz ridacchiò mentre si
sistemava a sedere, mentre il sorriso di Gilbert lasciò intravedere una
sfumatura divertita; il più grande prese posto sul bordo del letto occupato.
«Come stai?» gli chiese,
studiandone il viso con discrezione. Oz gli rivolse un sorriso leggero ma
gentile: «Sto meglio, dopo essermi riposato.» assicurò.
Gilbert non lesse alcuna
bugia, in quella risposta; tuttavia, allungò una mano a sfiorargli la fronte,
scostando leggermente una ciocca di capelli, l’espressione del viso pacata,
quasi rassicurante: «Non intendevo solo fisicamente.» rivelò, lasciando perfettamente
intendere a cosa si riferisse.
Oz abbozzò un sorriso
indecifrabile, quasi perfettamente a metà fra il mesto e quella connotazione
che un nome preciso non lo aveva, ma che era tipica di Oz quando cercava di
nasconderti qualcosa su come si sentiva: «Sto meglio.» pronunciò piano.
«Non è vero.» ribatté
praticamente subito Gilbert, ma senza che sembrasse un vero e proprio
rimprovero.
Oz abbassò lo sguardo:
«Allora perché me lo chiedi?» domandò.
Gilbert, dopo qualche
istante, ritirò la mano rimasta protesa in avanti: «Perché ultimamente menti in
maniera meno credibile. Ed è più facile così, piuttosto che se rimani in
silenzio.» fu la sua replica, dopo la quale non parlò nessuno dei due, finché
Gilbert non riprese la parola.
Aveva osservato Oz a discapito
del fatto che forse si fosse notato poco o non si fosse notato affatto: aveva
guardato il biondo al funerale di Alyster al quale anche lui era stato
presente. Il tipo di dolore che aveva visto negli sguardi di Sirjan, Elliot ed
Oz era stato così diverso e così simile in tutti e tre, da fargli provare
inconsciamente un tipo di soggezione tale che aveva sentito quasi l’obbligo di
abbassare il proprio.
Con la sensazione, quasi, di
non avere il diritto di essere lì; e – Oz non aveva potuto notarlo – si era allontanato
prima della fine della funzione. Non per un motivo particolare, ma perché era
successo di nuovo, come al concerto.
Una fitta che sembrava
volergli dividere la testa a metà, e immagini vaghe, veloci. Dolorose.
Di qualcuno scomparso in
maniera simile ad Alyster… diversi anni prima.
Vincent… perché doveva
morire proprio una persona come Jack?
E la sensazione di dolore e
angoscia di quel giorno, anche se i ricordi non erano ora niente più che flash:
«… Mi sono ricordato di Jack. Anche se solo un po’. Perciò non dirmi che stai
bene, Oz. Non devi… dimostrare nulla, e—»
«Forse dovresti andare via,
Gil.» lo interruppe, lo sguardo basso coperto anche in parte dalla frangia.
Gilbert sgranò gli occhi a quelle parole, senza capire.
«Ma Oz…»
«Io non so se è fra le cose
che ricordi, però stavi spesso con me nella stanza di Jack, quando venivi a
trovarlo.» esordì, interrompendolo nuovamente. Gilbert fu certo di scorgere, in
quel momento, un sorriso che non gli piacque affatto.
Era lo stesso che aveva visto
sul viso di Oz quando, dopo la riunione fra genitori ed insegnanti, aveva
sentito per caso il biondo mentre parlava con la sorella nell’atrio, osservando
l’ingresso appena oltrepassato dal padre che andava via.
Ada… papà sarà tranquillo,
ora che ha visto suo figlio ed è tornato a casa?
Era l’espressione che faceva Oz quando aveva per un motivo
o per l’altro la certezza di non essere accettato. O di essere la vergogna di
qualcuno.
Strinse appena il pugno
libero, l’altra mano che sorreggeva il peso del corpo proteso appena in avanti.
Cosa significava quel “forse
dovresti andare via”?
«Penso che a te faccia male,
Gil. Stare qui adesso che io sono al letto. Non ti ricorda Jack?» gli sentì
chiedere, ritrovandosi a sussultare e sgranare appena di più lo sguardo.
«Ma che stai dicendo?»
chiese, incredulo, continuando a fissarlo e notando che a quelle parole, anche
fisicamente, Oz parve chiudersi ancora di più su se stesso.
Lo sguardo rimaneva basso,
spostato lateralmente con il preciso intento di non incrociare il suo; e persino
il corpo sembrava volesse allontanarsi, come se Gilbert potesse bruciarlo o
fare chissà cos’altro di materialmente impossibile.
«Insomma, magari non te ne
accorgi perché non lo ricordi, però… è così no? Quindi forse non ti fa bene. Lo
so, di somigliare a mio fratello. Non preoccuparti se lo hai pensato, va bene.
Lo so perché anche mio padre… lo ripete in continuazione.» mormorò, sciorinando
spiegazioni incomprensibili e che non c’entravano nulla, ma che soprattutto
Gilbert faticava a seguire.
Non voleva ascoltare.
Non voleva vedere Oz in
quello stato, di nuovo – era già successo una volta, in uno dei pochi ricordi
stabili che aveva, prima di lasciare casa Bezarius.
«Va bene se adesso, mentre
sei qui, lo fai perché ti senti in colpa o perché ti hanno portato dai Nightray
nel periodo in cui poi Jack è stato male… non mi fa arrabbiare. Se ti preoccupi
così tanto perché temi che quello che è successo a lui succeda anche a me. Se—»
«Adesso basta.» sibilò,
interrompendo Oz che portò lo sguardo tra lo stupito e il perplesso su di lui,
facendo per ribattere, ma venendo anticipato da Gilbert.
La voce gli tremava di rabbia
– proprio a Gilbert, che non si arrabbiava mai.
«Stai dicendo che sono qui
per cosa, per pietà? O per il senso di colpa verso tuo fratello?» lo interrogò,
il tono accusatorio.
«Stai cercando di dirmi che
secondo te, sto scontando l’essermi sempre accusato di non esserci stato nel
periodo in cui Jack era malato attraverso di te, ora? Stai dicendo che ti sto usando,
Oz?» alzò lo sguardo, puntando gli occhi dorati nei suoi: «Stai veramente
pensando una cosa del genere?!» tuonò, alzando la voce all’improvviso – proprio
lo stesso Gil timido che in passato parlava con tono che era a stento udibile.
E per contro, l’espressione
che assunse il biondo fu altrettanto inusuale, l’aria di chi non ne poteva più
di quello che vedeva, o che sentiva, o addirittura che pensava.
O di tutte e tre le cose
insieme – proprio lui, che aveva sempre sorriso a tutto, anche quando una
persona dovrebbe fare tutto tranne che sorridere.
«Non sto dicendo che mi stai
usando, solo—»
«E invece è proprio quello
che stai dicendo!» alzò la voce, aggredendolo quasi, il corpo maggiormente
proteso in avanti e Oz che quasi lo imitava nemmeno fosse il suo riflesso nello
specchio.
«Tu non lo sai cosa vuol
dire, Gil!» sbottò il più giovane, senza dargli tempo di interromperlo
nuovamente: «Non sei tu che vivi nell’ombra di tuo fratello! A Latowidge non
sei “il fratello di”, non continuano a guardarti come se fossi un fantasma e
tuo padre ti chiama con il tuo nome!» alzò i toni.
«Io non so nemmeno chi è il
mio vero padre!»
«IO VORREI NON SAPERLO!»
gridò, sentendo qualcosa raschiare violentemente la gola mentre il tono si
spezzava a metà quasi, come chi… sta per piangere.
Gilbert era rimasto imbambolato.
A guardare davanti a sé
quell’Oz che non aveva mai visto.
Boccheggiò appena, lo sguardo
praticamente fisso sul biondo, come se avesse appena detto qualcosa a cui non
volesse in alcun modo credere.
Con la mano cercò quella di
Oz, o il polso, o il braccio – solo, necessitava di un contatto, per avere la
certezza che la risposta sarebbe stata reale.
«Non… stai dicendo che non
vorresti esistere, vero, Oz?» mormorò pianissimo, cercando lo sguardo
dell’altro col proprio.
Oz non lo guardò.
E questo lo mandò in
paranoia; tirò appena la sua manica: «Oz, non era quello che intendevi, vero?»
chiese, il tono appena più udibile.
Riuscì a scorgere Oz mordersi
appena il labbro inferiore, prima di articolare un: «No, Gil.» che però non
riuscì a convincerlo totalmente.
Perché per un sacco di tempo,
precisamente proprio dalla morte di Jack forse, aveva temuto che ogni giorno
fosse quello in cui per un motivo o per l’altro – disperazione, solitudine,
dolore o chissà cosa – Oz gli avrebbe detto che non ce la faceva.
Che, semplicemente, non ce la
faceva più.
Strinse la presa,
estendendola al polso.
«Oz?» lo chiamò, tirandolo
appena: «Oz… guardami un attimo.» lo esortò, stringendo la presa ulteriormente.
Quando però il biondo si
voltò a guardarlo finalmente, Gilbert era molto più vicino di prima e lo
fissava con la stessa espressione di chi non ha alcuna intenzione di perdere la
persona più preziosa che ha. Anche se, egoisticamente, dovesse andare contro i
desideri di quella persona per assecondare solo i propri.
«Gil…?» mormorò piano, quasi
in un soffio.
«Non andare via.» fu la
replica che gli sentì bisbigliare, la presa sul polso che si allentava perché
la mano scivolasse via, cercando la sua in maniera più appropriata, finché le
dita non si intrecciarono a quelle del biondo – sensazione di dejà-vu, di
quello stesso anno e in quella stessa stanza.
«Prometti che non andrai via,
Oz.» sussurrò, mentre poggiava la fronte alla sua.
Oz sentì qualcosa, lì allo
stomaco, che non riuscì a decifrare o che forse in parte ignorò.
Non poteva esserne certo, ma
ebbe la sensazione che quel qualcosa fosse dovuto alle labbra di Gilbert che si
posavano sulle sue mentre socchiudeva gli occhi lentamente, la mano che
stringeva la sua.
11 Febbraio
Glen è passato a trovarmi, questo pomeriggio.
Non credo che… stia bene.
L’ho trovato pallido, e anche se ti guarda sembra che,
con la mente, sia altrove.
E non posso che preoccuparmi.
Mi sento… terribilmente in colpa verso di lui.
Mi sento egoista abbastanza da non avere il diritto,
di definirmi il suo migliore amico come fatto finora.
Non più.
Non si chiese perché Gilbert lo stesse facendo.
Né perché lui stesse
rispondendo, non solo alla stretta della sua mano, che nel caso di Gilbert era
sempre stata un po’ “tipica” – di qualcuno che vuole assolutamente farti sapere
in qualche modo che è lì per te, e ci resterà.
Non si chiese nemmeno, anche
se sicuramente lo avrebbe fatto poi, quale fosse stato il momento in cui aveva
pensato per la prima volta a Gilbert né come il servitore di quando era
bambino, né come il proprio migliore amico.
Quando, esattamente, l’altro
avesse fatto lo stesso.
Né quando, in sostanza, erano
giunti alla conclusione che un bacio non sarebbe stato… una colpa, in fondo.
Anche se li avrebbe resi non
più “amici”; nel bene o nel male.
19 Febbraio
Mi chiedo se faccio bene.
Pur essendomi reso conto di cosa Glen stia per fare,
non ne ho parlato a nessuno.
Nemmeno con lui.
Non tocchiamo mai l’argomento, quando siamo insieme.
Lui si limita a fissare fuori dalla finestra e stare
in silenzio,
per la maggior parte del tempo.
Solo ogni tanto mi dice: «Jack, quanto rimarrai ancora?»,
ma lo fa sempre senza guardarmi.
La mia risposta non cambia mai.
«Finché vorrai, Glen.»
Non so chi dei due stia mentendo di più, fra noi.
Lo sentì allontanarsi, pur
rimanendo ad una distanza minima.
Lo avvertì dal respiro del
moro contro le proprie labbra, più che dal vederlo o meno – specie perché
teneva gli occhi chiusi, più che sicuro di essere arrossito. E, con ogni
probabilità, che Gilbert avesse fatto lo stesso.
Lo sentì trattenere appena il
respiro, ad un certo punto, e la cosa lo indusse ad aggrottare appena le
sopracciglia, facendo per aprire gli occhi.
Desistette, quando si sentì
posare un bacio sulla fronte.
«Non andrai via, vero Oz?»
colse quindi, nuovamente in un sussurro.
Scosse impercettibilmente la
testa, formulando una domanda che riuscì a rivolgersi forse per pura fortuna,
sentendosi in fondo un po’ meschino, forse: «…Quanto rimarrai al mio fianco,
Gil?»
23 Febbraio
Oggi Gilbert e Vincent sono
passati a trovarmi.
Gilbert è gentile come
sempre,
e mi preoccupa sapere che
potrebbe sentirsi in colpa, in futuro.
Però, mi solleva sapere che
fra qualche anno,
sarà sicuramente uno degli
amici più fidati di Oz.
Mio fratello, che per colpa
mia soffrirà molto più di Ada.
Nostro padre, dopo la morte
di nostra madre,
è divenuto schiavo della
disperazione.
Temo che dopo la mia morte,
non sarà più in grado di
vivere come prima, come ora.
Tutto ricadrà su mio
fratello, eppure…
Egoisticamente, non riesco a
far altro che sorridergli,
promettendogli che guarirò.
Io sono… una persona
orribile.
«Finché vorrai, Oz.» lo sentì
mormorare.
Fu certo di riuscire persino
a cogliere una sfumatura impacciata, dovuta probabilmente al gesto appena
compiuto.
Mosse appena il pollice, sfiorando
con esso il dorso della mano con cui ancora teneva le dita intrecciate, come
per dire che non era arrabbiato, che andava tutto bene.
«Mh…» mormorò in risposta,
anche se una vera e propria non era.
Avvertì le proprie labbra
incurvarsi in un sorriso, quasi indipendentemente dalla sua volontà, come se
non si trattasse di qualcosa decisa da lui.
«Gil, ascolta…» riprese, la
mano libera rimasta posata sul materasso fino a quel momento che salì a
prendere un lembo della manica dell’altro fra le dita, quasi per richiamarne
l’attenzione o, al contrario, per distogliere la propria da quanto stava per
dirgli: «riguardo Jack, lo so che non mi stai usando.» assicurò.
«Lo so.» ripeté, volendo
essere certo di essere sincero e che l’altro capisse.
Si sentì rivolgere di rimando
le stesse parole da lui appena pronunciate, mentre – il Gilbert di una volta
non avrebbe avuto tutto quel coraggio – il viso del moro rientrava nel suo
campo visivo, lo sguardo fisso nel suo.
«Lo so. Ti conosco abbastanza
da sapere che non… penseresti una cosa simile di qualcuno.» mormorò, un sorriso
leggero e gentile sulle labbra.
Oz ne abbozzò uno a sua
volta: «Di qualcuno forse. Di Gil no.» chiarì, per un attimo l’ombra del
solito, sfacciato Oz.
Non si diede il tempo di
ascoltare la replica di Gilbert, andando a poggiare la fronte contro la sua
spalla.
Finché vorrai.
…Da allora, sembravano parole
terribilmente facili da rendere false.
15 Marzo
Glen è morto.
Ed è come se lo avessi
ucciso io.
Sentendo la presa
sulla propria manica farsi più serrata, sul momento Gilbert si limitò a passare
un braccio attorno alle spalle di Oz.
Ma
fu proprio per quello che cogliere un sussulto leggero fu più facile.
E
ancor più semplice fu avvertire la sensazione che qualcosa non andasse: «…Oz, va tutto bene?» soffiò, non avendo bisogno di
alzare il tono.
Lo vide scuotere la testa,
senza ricevere però una risposta a parole.
«Oz, ma cosa…?» iniziò,
lasciando in sospeso il resto della domanda piuttosto intuibile, abbassando lo
sguardo quanto sarebbe teoricamente bastato per guardare in viso Oz.
Ma il biondo rimaneva fermo,
ad eccezione di un nuovo scuotere la testa, strusciandola appena contro la
stoffa; Gilbert poté avvertire le spalle irrigidirsi e a quel punto non ebbe
bisogno di chiedere.
Vide Oz andargli incontro,
abbracciarlo senza una parola.
Non esitò a ricambiare
l’abbraccio del dodicenne, sentendolo in breve irrigidirsi dopo aver sussultato
– pur cercando di trattenersi, così gli sembrava.
«Padron Oz?» tentò,
incerto.
«…Non sono più il tuo padrone, Gil.» lo sentì mormorare,
ritrovandosi a sorridere, soffiando un “è vero” più a se stesso che non a lui.
«Che succede?» chiese, osservandolo ma vedendo niente più
che la testa bionda appena scossa, cogliendo la fronte strusciare contro la
propria spalla.
Poi,
un singhiozzo non trattenuto e braccia minute che si stringevano alla vita.
«Gil… Jack non c’è più.» aveva mormorato.
Strinse appena
l’abbraccio.
Dei
ricordi che aveva, quello in cui Oz pianse per la prima volta
incontrollatamente davanti a lui non sarebbe mai svanito, probabilmente.
Note dell’autrice
Questo
capito mi ha uccisa, ok? Uccisa.
Non
finiva più, maledizione. *il momento in cui un’autrice inizia adodiare la sua fanfic*
Comunque,
passiamo alle segnalazioni, avvisi e ringraziamenti di sorta *srotola lista*
Disclaimer: la canzone in apertura è
“What about now?” di Chris Daughtry (si ringrazia Litachan per il passaggio
stile mercato nero dell’amv GilOz con questa canzone XD). Che vanta ben tre
significati nel capitolo (tié XP), ossia: “come l’amore per la sorella avesse
cambiato Sirjan e ora dopo la sua morte lo cambi di nuovo”, “come fra Gilbert e
Oz sta succedendo qualcosa che avevano capito anche i muri ma loro due nisba” e
“le parole che Glen e Jack non si sono mai detti”.
Sono
brava con le citazioni, eh? *rotola*
Avvisi:
avviso che
il 16 di Rinnega ritarderà con la pubblicazione per due motivi
principali. Primo, sono ancora in fase sessione estiva d’esami e scrivo quasi
solo di notte o durante le pause XD Vedendo quanto sono lunghi i capitoli, sono
certa capirete da voi :3
Secondo: a Luglio “Rinnega” compie
un anno <3 Per cui ho pensato ad un capitolo speciale, che verrà steso prima
del 16 e presentato come oneshot a se stante (essendo oltretutto
comico-demenziale, sarebbe osceno metterlo dentro rinnega XD).
Ringraziamenti
Gioielle:
io sapevo che ti avrebbe uccisa, ma che ti avrebbe addirittura fatta
piangere non lo avrei detto, giuro °_° *momento di senso di colpa* in ogni caso
sono contenta che, nonostante la devastazione, sia stato di tuo gradimento.
Ammetto poi che riguardo Sirjan, tu mi dai un
riscontro che non potevo che adorare: ho cercato, in questo capitolo, di
mostrare “l’altra metà” del cambiamento di Sirjan, e il fatto che così come si
era in un certo senso irrigidito per proteggere la sorella, nel momento in cui
Alyster è venuta a mancare quella rigidità non c’è più o è comunque minore.
Spero che la cosa te lo possa far apprezzare
ugualmente <3
Quanto alla SirjanAedan, sapevo che l’avresti
flashata e dunque leggerlo nella tua recensione non è stata una novità XD Credo
di averti detto (tramite questo spazio o in separata sede) quale sia la
controparte shonen-ai di Aedan ma ehi, chi sono io per impedirti di avere
flash? XD
Infine, spero che la dose di GilOz sia stata
apprezzata e per il figlio illegittimo dei Nightray, pazientate ancora un po’:
non so quando, ma sarà tutto chiaro prima o poi XD
Makotochan:
lo so, di averti devastata e so che in questo capitolo non avrò fatto di
meglio molto probabilmente x°
Che dire? Fa sempre piacere vedere che il mio stile
non annoia chi legge ma anzi – contrariamente a quello che purtroppo vedo io
grazie alla mia pesante autocritica/auto devastazione XD – riesce a trasmettere
quello di cui vorrei fare portavoce i personaggi.
Come accennato, la questione del figlio dei Nightray
rimarrà aperta ancora per un po’, e temo che la chiacchierata con Sirjan che Oz
si è fatto in questo capitolo abbia aperto qualche altra parentesi – e forse lo
ha fatto anche il diario di Jack, o i pezzi qui riportati. Consolatevi tutti
con una cosa: prima o poi finirò i misteri da introdurre e ci si avvierà solo
alla loro scoperta e soluzione XD (il che, sappia telo, io per prima spero
avvenga presto).
E avverrà per un motivo preciso: ossia, che io
stessa sto iniziando a perdere il filo *fissa inquietata il quaderno pieno di
appunti di Rinnega, malgrado il quale si perde comunque spesso qualcosa per
strada*
Fiamma
Drakon: ti
ringrazio dei complimenti e di continuare a seguirmi <3
La
parentesi dei gemelli è stata una sofferenza anche per me che ho scritto e,
anche se avevo quasi messo in conto che dopo il 14 Alyster sarebbe “sparita”
per forza di cose, scrivendo il 15 è stato davvero inevitabile mantenerla
ancora lì, come una presenza non proprio effettiva ma che aleggia lì ugualmente.
Spero
che per voi che leggete non sia stata troppo pesante, o indesiderata :3
Infine,
un ringraziamento a chi so che ha problemi nel recensire, ma legge (o chi mi
commenta in diretta XD): LitaChan, Yoko891 e Gweiddi at Ecate.
E
naturalmente, a tutti quelli che leggono, e aggiungono la fanfiction fra
preferiti, da ricordare e seguiti <3
Capitolo 16 *** C'è una cosa che desidero mostrarti ***
C’è una cosa che desidero mostrarti
C’è
una cosa che desidero mostrarti
Nice to meet you, my pain.
Nausea.
Un profondo senso di nausea,
lo stomaco quasi contorto da essa.
Odore fetido.
Qualcosa di pesante, impastato
nonostante sia liquido, che scivola fra le dita.
Sinuoso. Si appiccica e al
tempo stesso ti dà quella sensazione di qualcosa che non riesci ad
afferrare.
Sfuggente, un po’ come
il vento.
Un po’ come la vita.
Rosso. C’è rosso
ovunque.
Un profondo, inquietante ed intossicante rosso scuro che macchia il pavimento,
allargandosi come una macchia di colore ad olio sulla tela candida.
L’inconsapevolezza di
toccare qualcosa che non dovresti vedere.
Che non dovresti sfiorare. Non
ancora.
Per te c’è tempo.
Un volto affascinante: pelle
candida e perfetta, lineamenti nobili e virili, labbra perfette,
naso perfetto; le palpebre nascondono gli occhi come in un gioco –
chissà che espressione celano.
Abiti regali, scuri, eleganti.
In un cupo presagio di morte,
forse.
Sembra dormire, le mani dalle
dita affusolate mollemente a contatto con il pavimento di moquette scura, bordeaux – che tuttavia, va scurendosi, si impregna e
puzza, puzza da morire.
Non proprio da morire.
Odora di morte.
Odora di morto.
Le dita della piccola mano si imporporano di sangue, non colpevoli; lo sguardo la
inquadra, la nota.
Quella lama che trafigge il
petto.
«Cosa…? Padrone! Padron Glen! Padron Glen!»
urla atterrite di fronte ad un’immagine inattesa.
Alzi lo sguardo perché
non capisci, allunghi una mano minuta macchiata di sangue non tuo.
Quella cameriera si avvicina,
tasta il polso e spera chissà cosa, e quando inorridisce
lascia andare la mano del padrone come se toccarla l’avesse bruciata.
La mano cade a terra inerme.
Il sangue schizza un
po’.
Ne senti il calore e la
pesantezza, quasi, sulla guancia e chissà perché solo in quel
momento lo pensi.
C’è un uomo morto
lì a terra.
C’è un uomo morto
in una pozza di sangue, trafitto da una spada.
C’è un uomo
morto, e tu sei macchiato di quel sangue che è ovunque, ti circonda, ti
bagna le vesti, ti macchia il corpo.
Orrore.
Paura.
Terrore.
Qualcuno è morto…
e tu sei lì.
Qualcuno entra, lo senti
perché tanti passi si affrettano per il corridoio e si fermano
d’improvviso in quella stanza; non alzi lo sguardo, incatenato alla
figura di Glen Baskerville che giace senza vita.
Ma qualcuno nota te.
«Elliot, vieni
via!»
«Allora
vado.» pronunciò rivolto a Noah, occhieggiandolo.
L’amico,
steso sul materasso, annuì dopo uno sbadiglio che aveva coperto
all’ultimo minuto con la mano: «Va bene, io invece farò
violenza al letto.» comunicò con fare scherzoso, al quale Oz sorrise divertito.
«Potevi
dormire prima, avrei trovato il modo di passare il tempo, sai?» lo prese
bonariamente in giro, meritandosi il lancio di un calzino – ormai non si
stupiva del fatto che ne avesse sempre a portata di mano, considerando il caos
umano che gli abiti di Noah rappresentavano lì nella stanza.
«Maledetto
ingrato, e io che ti ho fatto compagnia fino
all’ora della tua scappatella!» lo rimbeccò fingendosi
profondamente offeso, tra l’altro senza risultare più credibile
ormai.
Oz
gli fece la linguaccia: «Sai che affare, vado a parlare con Break.»
gli fece presente, ricordandogli che sì, visto cosa andava a fare
avrebbe di gran lunga preferito rimanere a dormire
lì, specie considerando che era mezzanotte e che non prevedeva una
chiacchierata breve.
Noah
alzò le spalle: «Io non ho ancora capito
perché Break ti chiede di andare da lui a quest’ora. Ok, lo
sappiamo che non è un docente normale, e lui non fa molto per
nasconderlo tra l’altro, ma i colloqui si fanno o prima o dopo le
lezioni.» osservò anche con una certa logica, tale almeno da far
apparire quell’intervento abbastanza serio per
essere di Noah.
Peccato
l’aggiunta.
«…Mica
ti svenderai per un voto in più a matematica?!»
se ne uscì fingendo panico nel tono di voce.
Il
calzino fu brutalmente lanciato indietro al suo proprietario, nel tentativo di
prenderlo in un occhio volendo – con nessun risultato, purtroppo.
«Guarda
che quando torno voglio dormire, non avere degli
incubi!» rimbeccò Oz perché sì, sognarsi di sedurre Break
sarebbe stato un trauma irreversibile.
«Comunque
è perché non si tratta di argomenti scolastici
suppongo.» aggiunse, anche se era superfluo perché ne aveva
parlato a Noah.
Dopo
quanto avvenuto con Gilbert – sì, beh, a parte il bacio ecco
– e dopo aver parlato con Sirjan soprattutto, si era reso
necessario parlare con Xerxes Break o Rufus Barma.
Dal momento che con Barma sembrava esserci ancora quella specie di accordo secondo il
quale Oz sarebbe dovuto tornare da lui appena avesse avuto un’idea
più precisa sul contenuto del diario di Jack che si riallacciasse alla
morte di Glen Baskerville, aveva preferito puntare su Break.
Lo
aveva fermato a fine lezione con la scusa di un chiarimento sulla stessa, e
aveva quindi accennato al vero argomento della conversazione.
Era
stato in quel momento che Break aveva assunto un’espressione piuttosto
interessata, molto diversa da quella semplicemente scanzonata – o da
faccia da schiaffi – e aveva detto che avrebbe preferito parlarne a
quattr’occhi in un posto più consono. E gli aveva dato appuntamento per quella sera, ad un orario in cui era
piuttosto ovvio che nessuno girasse per i corridoi.
Uscire
senza farsi notare da Noah sarebbe stato impossibile, perciò Oz aveva
trovato più sensato dirgli direttamente cosa andava a fare, anche se
aveva accennato ad una chiacchierata su degli
“affari di famiglia”, senza raccontargli tutti gli avvenimenti per
filo e per segno.
Questo
dopo aver osservato che se anche fosse uscito senza farsi beccare, Noah avrebbe
potuto seriamente minacciarlo di fargli ingoiare gli ormai famigerati calzini
se lo avesse scoperto al rientro o simili, magari
alzandosi per andare al bagno durante la notte.
E a
parte la minaccia di quegli indumenti, Oz aveva semplicemente pensato per una
volta… di voler mentire il meno possibile. Almeno a Noah, almeno per
questa volta, in un personalissimo modo di ringraziarlo riguardo quanto gli
aveva detto per cercare di farlo reagire alla morte di Alyster.
«Ah
Oz, a proposito» ne richiamò l’attenzione Noah, facendogli
alzare lo sguardo in sua direzione: «per questo mio silenzio riguardo
questo fugone notturno lo sai, vero, che vorrò un dettagliato resoconto
degli ultimi avvenimenti con Gilbert Nightray?» gli fece notare con un
sorriso furbo.
Oz,
che non se lo era minimamente aspettato, si
ritrovò ad arrossire prima di imporsi di non farlo e apparire naturale:
«Con Gil? Che…?» tentò di
dissimulare, ma Noah aveva un vantaggio.
Su
certe cose aveva troppo intuito.
«Per
favore, cosa credi che guardi io quando siamo a colazione?»
«…Marcus
e il tuo piatto?» azzardò Oz, facendo ridacchiare l’altro.
«Anche
sì, ammetto che l’accoppiata Marcus-bacon
sono il mio primo pensiero la mattina in mensa, ma oltre a quello osservo te, caro mio. Te e Nightray e senti, parliamone. Mi aspetto da una
mattina all’altra che tubiate come colombi. Perciò non rifilarmi
un “non so di che parli”, perché non vuoi sapere cosa
succede quando mi impegno per scoprire qualcosa che mi
interessa.» consigliò tra il divertito, il divertito e il
divertito.
E l’estremamente
divertito, sì.
«Sento
di avere un moto d’odio nei tuoi confronti, sai Noah?»
osservò in maniera falsamente casuale, rivolgendogli un sorriso
palesemente costruito. L’unica risposta del compagno fu agitare una mano
come se stesse scacciando un insetto, quasi a dirgli “va bene, va bene, vai che ne riparliamo quando torni”.
Oz
sospirò rassegnato, uscendo e richiudendosi la porta alle spalle.
Noah
era una dannata pettegola, ecco cos’era.
Raggiunse
la porta dell’alloggio di Break e tacque, senza bussare subito.
Personalmente
avrebbe preferito l’ufficio del docente come luogo d’incontro, ma
aveva dovuto dargli ragione quando l’altro aveva fatto notare che sarebbe
apparso più sospetto un ufficio con le luci accese a quell’ora di
notte che non un alloggio privato. Sospirò, bussando finalmente e
ricevendo quasi subito un “avanti” in
risposta.
Aprì
la porta, entrando velocemente e richiudendosela alle spalle.
Break
si era degnato di aspettarlo con abiti consoni e non in pigiama almeno, cosa
che pensava potesse essere vista come un buon punto di partenza: non aveva le
vesti dei docenti con cui il biondo era abituato a vederlo, ma qualcosa di
inaspettatamente sobrio.
«Rimani
sulla porta, Oz?» lo prese bonariamente in giro mentre prendeva
posto su una poltroncina dall’aria piuttosto comoda, facendogli segno di
imitarlo e indicandogli quella libera di fronte a lui. Sebbene Oz si fosse
quasi convinto che andando a parlare con Break vi avrebbe trovato anche Rufus
Barma, questo non era avvenuto almeno apparentemente.
Si
sedette.
«Sirjan
mi aveva accennato che probabilmente saresti venuto.» chiarì
subito, senza troppi preamboli, sporgendosi verso il tavolino basso che
c’era fra loro: esso ospitava un vassoio con due tazzine, una teiera con
del tè e un piccolo bricco di latte. Accanto a quest’ultimo quella
che era senza dubbio la zuccheriera. Vicino alla teiera, un piattino che
conteneva una generosa porzione di biscotti.
«Prego,
prego.» lo esortò Break con quel sorrisetto tipico che aveva anche
a lezione, e che Oz dal loro ultimo colloquio aveva osservato spesso, giungendo
ad una conclusione che in un primo momento non era
stata altrettanto ovvia.
Il
motivo per cui Break leggeva attraverso le sue bugie così facilmente,
era che mentiva molto più di lui.
Break
mentiva sempre.
«I
biscotti sono tuoi, eh. Io mi limiterò alle
caramelle.» aggiunse, portando un lecca lecca
alle labbra, quasi ad enfatizzare le proprie parole.
«Allora»
esordì quindi mentre Oz si stava versando del tè:
«cos’è che vorresti chiedere?» disse, il tono che non
appariva frettoloso. Come se avessero, anzi, tutto il tempo del mondo.
Oz
tacque, quasi prendendo tempo: c’erano diverse cose che avrebbe voluto chiedere, anzi, così tante che non
erano altro che una matassa ingarbugliata nella sua mente.
«Sirjan ha parlato di tante cose. Per esempio… di Glen Baskerville e
mio fratello.» rivelò, portando gli occhi chiari sul docente:
«Lei cosa sa?» domandò quindi.
«Più che ai Bezarius, all’epoca i Baskerville erano legati ai
Nightray. Ho idea che tuo fratello fosse proprio un’eccezione. Il livello
sociale della sua famiglia e di quella di Glen erano molto diversi, e furono
davvero in pochi a non stupirsi di quell’amicizia, sai?»
replicò Break. Aveva l’aria di qualcuno che raccontava una storia
banale e noiosa.
Nonostante
la cosa non lo entusiasmasse, Oz tacque: non sembrava una grande idea mettere
fretta all’altro, soprattutto considerando che era lui a volere delle
informazioni da Break, fino a prova contraria.
«Glen Baskerville ha studiato qui esattamente come tuo fratello, ed è
qui che si sono conosciuti. Avvicinare Glen non era cosa da tutti: il signorino
era selettivo a dir poco, o più semplicemente a suo avviso nessuno era
alla sua altezza. Un ragazzino irritante, come te per certi versi Oz. Se la sua
fosse arroganza o meno, nessuno lo sapeva dire con certezza. Baskerville non ti
permetteva di conoscerlo tanto da scoprirlo. Però Jack divenne una sorta
di eroe qui a scuola: “quello che parla con
Glen”, lo chiamavano. È stato così per mesi.» dichiarò divertito, il parlare un po’
impastato dal lecca lecca tenuto in bocca durante
tutto il discorso.
Oz
parlò prima che l’altro riprendesse: «…conosceva
Jack? A scuola intendo.» domandò
perplesso e anche un po’ incredulo, suscitando un’espressione in
Break che somigliava molto al sadico divertimento – sebbene mascherato da
ingenuo interesse.
«Eravamo di anni diversi, ma lo avevo ben presente. Diciamo che scordarsi
uno come Jack era difficile.» commentò
con falsa casualità.
Benché
l’istinto di chiedere a Break aneddoti dei tempi scolastici di Jack fosse
estremamente forte – quasi quanto la pressante
curiosità di cosa fosse capace di fare Xerxes Break studente
considerando l’adulto che era ora – Oz si impose di non
interromperlo per una cosa simile, concentrandosi sulle rivelazioni che aveva davvero bisogno di conoscere.
«Ha
detto che i Baskerville erano legati ai Nightray?» domandò,
rimuginando su quanto ascoltato fino a quel momento, nonostante Break
l’avesse soltanto accennato.
Lo
vide mordicchiare il lecca lecca,
giochicchiandoci, e tacque in nervosa attesa.
Break
sembrava intenzionato a parlare ai propri ritmi, incurante della fretta o della
curiosità del suo allievo: «Sì, i
Baskerville e i Nightray erano legati. O meglio, i due
capofamiglia si conoscevano da anni e avevano qualche affare in comune. Non
immaginare due famiglie che fanno crescere i propri figli insieme nello stesso
giardino a giocare, però. Ad avere legami,
peraltro di tipo strettamente amministrativo, erano solo il padre di Glen e
quello dei nostri Nightray preferiti.» comunicò quasi ammiccante, ed Oz ebbe la pessima sensazione che ci fosse qualcosa che
Break sapesse e che stesse insinuando.
Si
disse che era paranoico, perché tutto ciò che era successo con
Gilbert – cioè, “tutto”, non che fosse accaduto nulla
più di quel bacio! – era avvenuto nella sua stanza e non
c’era modo che Break lo potesse aver scoperto, o visto.
Sospirò,
cercando di darsi una calmata, ricordando che il docente aveva fatto quel tipo di insinuazione già quando si erano incontrati per
caso in città, accompagnati lui da Gilbert e l’altro da Rufus
Barma.
«Dimmi,
Oz» riprese il docente, allungando una mano a prendere la tazzina del tea
per berne qualche sorso, distogliendo il più giovane da quelle
congetture inutili: «hai letto il diario di Jack, o no?»
domandò a bruciapelo, lo sguardo penetrante dell’unico occhio
visibile puntato su Oz.
Quasi
ad impedirgli di sfuggire alla domanda.
Oz
non si era minimamente aspettato la cosa, anche se
considerando il rapporto che sembrava esserci fra Xerxes e Rufus, avrebbe
dovuto immaginare che il docente di Storia avesse detto qualcosa
all’altro.
Strinse
impercettibilmente i pugni: «Non tutto.» borbottò sulla
difensiva, mentre Break continuava a bere tea totalmente a suo agio.
«E
quali parti hai letto?» insistette, sebbene velatamente.
«Fino a quando Jack accennava alla morte di Glen Baskerville. Saltando
alcune parti però.» chiarì. Aveva
letto saltuariamente, quasi casualmente in realtà.
Forse
perché ogni volta che aveva iniziato, andare avanti pagina dopo pagina – giorno dopo giorno, respiro dopo respiro di
suo fratello – era stato troppo difficile e troppo doloroso.
Come
se ogni parola scritta d’inchiostro fosse stata una goccia del sangue di
Jack, ed ogni pagina un prezioso minuto della sua vita
che veniva mangiata da una malattia.
«Allora
ti sarai chiesto…» indugiò, una pausa voluta, lo sguardo che
si posava su Oz serio. Senza la derisione che normalmente lo caratterizzava e facendolo
risultare quasi… inquietante, a suo modo.
Gelido, per certi versi: «“mio fratello era forse un
assassino?”» recitò come se avesse raggiunto la battuta
chiave del protagonista di quella favola che fiaba per bambini decisamente non era.
Oz
alzò lo sguardo di scatto quasi, l’espressione basita e
arrabbiata: «Jack non era affatto un assassino!»
esclamò subito, senza la minima esitazione, eppure con un’evidente
traccia di panico nel tono.
«Ovviamente.»
replicò Break con calma quasi palpabile, snervante: «Persino
io non potrei considerare Jack Bezarius un assassino se anche lo vedessi nell’atto
di uccidere. Tuo fratello era così buono
che non potevi fare a meno di pensare che sarebbe morto giovane. E non vuole
essere un’ironia di dubbio gusto, la mia.»
chiarì, atono.
Sembrava
che d’improvviso, avesse non perso interesse in quello scambio di informazioni – anche se in realtà il docente
era l’unico a darne per ora – ma che avesse perso quella vena di
intrinseco divertimento nel dosarle quasi con crudeltà.
«Ma se non era un assassino» riprese con estrema
tranquillità: «perché Jack Bezarius si considerava alla
stregua dell’omicida del suo migliore amico?» ipotizzò, ma
falsamente. Era più che evidente che avesse già la risposta: si
capiva dal modo in cui aveva posto la domanda, e dal fatto che non stesse più
guardando in direzione di Oz ma il proprio lecca lecca.
«Sai
com’è morto Glen Baskerville?» domandò quindi,
alzando pigramente lo sguardo sul suo allievo.
Oz
non riuscì a nascondere nulla, non ci riusciva
da quando aveva messo piede lì dentro, come se l’alloggio di
Xerxes avesse chissà quale facoltà particolare o influenza
precisa su di lui.
Perciò
nemmeno in quel caso riuscì a fingere di non essere interessato –
non che fosse nelle sue intenzioni – e soprattutto di non essere in
qualche modo smosso dall’eventualità di addentrarsi in qualcosa
che fino a quel momento aveva cercato di capire.
Esattamente
come un tassello mancante; gli tornarono in mente le parole di Sirjan – Break cercherà di metterti alla
prova, tu prendi da lui le informazioni che ti servono, ma per il resto stai
lontano da ciò che riguarda Glen Baskerville e che non ti serve.
Ma era
difficile: come poteva riconoscere cosa gli potesse servire e cosa invece fosse
superfluo senza ascoltare tutto indistintamente?
E una
volta che l’avrebbe ascoltato… non avrebbe certo potuto dimenticarla
a proprio piacimento.
Scosse
la testa in risposta alla domanda di Break, che a quel
cenno sembrò ritrovare interesse e quel suo sorrisetto irritante che
tornò ad incurvargli le labbra.
«Il
professor Barma ha detto che si è suicidato.» rettificò Oz,
chiedendosi l’attimo dopo che cosa ci fosse da ridacchiare, visto che Xerxes qualcosa sembrava averla trovata.
«Rufy
è veramente privo di tatto, eh?» scherzò su, in maniera
totalmente inopportuna vista la serietà del momento: «Posso
dirti qualcosa di più, ma sarebbe un po’ noioso. Facciamo un
gioco, ne Oz?» se ne uscì cogliendolo
alla sprovvista nonostante gli avvertimenti del capo dormitorio.
Lo
fissò quasi incredulo, sebbene riuscì a
mascherarlo almeno sul momento.
«Facciamo una domanda a testa. Se tu non rispondi alla mia, io posso
scegliere di non rispondere alla tua. Che ne dici?»
propose, anche se era fin troppo evidente che non gli lasciava davvero scelta.
Era un patto disonesto – perciò, a quanto pareva, era fatto
apposta per uno come Break.
Almeno
per come aveva avuto modo di inquadrarlo fino a quel momento.
«Cosa vuole sapere?» chiese quindi, un broncio
involontario visibilissimo sul viso giovane.
Break
sorrise, ma non di un sorriso genuino: «All’inizio ho pensato che
il tuo interesse fosse dovuto da una sorta di senso di
impotenza. Insomma, il fratello minore che indaga sulla morte del fratello
maggiore. Però ho anche pensato che in fondo Jack è morto di
malattia, e mi sono detto “non è un po’ strano che un semplice
sedicenne indaghi sulla morte del fratello senza motivo, considerando che per
quanto ne sa è stata naturale?”»
ripeté la domanda come se stesse rimuginando per la prima volta su tutto
quello ad alta voce, come se Oz non fosse lì.
«Chiederti
chi ti ha insinuato il dubbio sarebbe sprecare una domanda, perché
è qualcosa a cui posso arrivare da solo.»
chiarì, guardandolo in maniera quasi subdola.
«Perciò
dimmi, signor Bezarius» disse, tornando a quel “signor” come
se la domanda fosse ufficiale solo ora: «perché ti
interessa tanto tutta questa vicenda di Glen Baskerville?»
Oz
tacque, valutando quanto sinceramente dovesse rispondere; tuttavia, prima
ancora di arrivare ad una decisione, si ritrovò
già a parlare con completa franchezza. Non perché avesse deciso
di cambiare atteggiamento, né tanto meno perché Break gli
ispirasse completa fiducia – decisamente no.
Semplicemente…
Break aveva qualcosa che lui, Oz, voleva.
E se
questa era la prova a cui Sirjan aveva accennato, lui
l’avrebbe superata ottenendo le risposte che voleva.
Dopotutto
poteva anche avere senso: una verità per una verità.
Si fece strada sul viso del biondo il sorrisetto spesso e
volentieri arrogante che non faticava ad irritarti, quello con cui quasi per
abitudine aveva preso a rapportarsi al docente: «Forse perché da
quando sono qui ho visto più stranezze che cose normali. Guardie del
corpo che mi seguono, capi dormitorio che nascondono
il passato scabroso delle famiglie dell’alta società, spiriti non
completamente umani che mi attaccano senza un perché dicendomi di
andarmene, ed altri umani che mi avvicinano al solo scopo di confondermi. Qui
tutti sembrano sapere tutto di me, ma perché? Senza contare le persone
reali, vive, che mi chiudono in un angolo minacciandomi e oltre
tutto questo… cosa farebbe lei se Glen Baskerville la contattasse
di persona, dicendole di non ficcare il naso?» chiese, ma era retorica la
domanda.
Nonostante
ciò, Oz vi diede risposta, il sorriso furbo e che ostentava anche
più sicurezza di quanto non avrebbe dovuto: «Le viene esattamente voglia
di ficcanasare.» concluse.
Break
lo fissò, l’espressione persino buffa mentre osservava Oz; si
sciolse quasi subito in una risatina divertita delle sue, proprio di quelle che
le senti e ti chiedi che cosa ci sia da ridere esattamente.
«Risposta
soddisfacente.» gli concesse, recuperando una caramella e scartandola con
tutta calma: «Ora tocca a te fare la domanda.» gli ricordò,
quasi a voler sottolineare che lui era uno che
rispettava le regole di quel loro insensato gioco improvvisato.
Era
conveniente, pensò Oz. Dopotutto, vincevano entrambi qualcosa.
«Voglio
sapere di Glen.» ripeté, pur immaginando che chiedere fosse una mera formalità visto quanto fosse già
chiaro l’argomento che gli interessava.
Break
non indugiò oltre.
«Glen
Baskerville fu trovato morto nella sua stanza.» iniziò: «A terra, in una pozza di sangue. Non fosse stato per
quello e per la spada che lo trafiggeva, sarebbe sembrato placidamente
addormentato. Un’immagine quasi poetica, ne?» osservò,
ripensandoci riguardo la caramella e portando una mano
a raggiungere uno dei biscotti, al solo scopo di rigirarselo tra le dita mentre
continuava a parlare, senza mangiarlo.
«Si
sarebbe potuto pensare ad un assassinio, se soltanto
la spada non fosse stata proprio quella di Glen Baskerville. E se Jack Bezarius
non lo avesse praticamente confermato.»
concluse, addentando finalmente il biscotto.
Oz
– era ormai più freddo che caldo, il tea nella sua tazzina –
guardò il docente con l’espressione di chi è lì lì per dire qualcosa ma si sta trattenendo, forse
per prendere tempo.
Tacevano
entrambi ormai da diversi minuti, quando Oz pronunciò un
«Cosa?» che fece alzare lo sguardo annoiato di Break, che
gli lanciò un’occhiata interrogativa: «Cosa confermò
mio fratello?» chiarì il biondo, rimanendo in attesa.
Per
quella che gli parve l’ennesima volta, l’espressione di Break si
trasfigurò: le labbra sottili si incurvarono in
un sorriso che mescolava soddisfazione e senso di vittoria quasi.
Per
che cosa, Oz non riuscì ad indovinarlo.
«Quando
dissero a Jack della morte di Glen, tuo fratello fu enormemente addolorato,
certo, ma non sembrò affatto sorpreso. O
meglio: non era sorpreso.
Perché Jack lo sapeva già, che Glen sarebbe morto. Fu una
conferma così palese che dissipò anche
il più piccolo dubbio possibile. Salvo che Glen Baskerville vedesse il
futuro, cosa chiaramente impossibile, poteva esserci solo un modo di conoscere
con precisione quando sarebbe morto al punto tale da non stupire con il suo
decesso nemmeno il suo migliore amico. Quell’unico modo, era decidere di
suicidarsi.» chiarì, alzandosi in piedi
per aggirare il tavolino e farsi più vicino alla poltrona dove sedeva
Oz.
Quando
gli fu alle spalle, parlò nuovamente: «Sai chi trovò Glen
Baskerville?» domandò, le mani poggiate allo schienale della
poltrona.
Si
chinò appena in avanti, il volto affiancato a quello di Oz,
infantilmente.
«Chi…?»
fece per chiedere il giovane, ma Break lo
anticipò.
«Elliot
Nightray.»
Sospirò
rumorosamente, abbandonando definitivamente l’idea di concentrarsi sul
libro che teneva aperto sulla scrivania. Se non altro perché dubitava
che si sarebbe rivelato molto utile rileggere per la
decima volta cosa aveva segnato l’anno del 1716, visto che non arrivava a
fine frase senza perdersi di nuovo in pensieri suoi.
Si
chinò in avanti, andando a poggiare la fronte sulla scrivania, fissando
le proprie gambe alla ricerca di chissà cosa che potesse dargli un
minimo di concentrazione o di voglia di studiare.
Aveva
passato da solo qualche ora la traumatica fase dell’imprecazione verso se
stessi e la propria stupidità: era passato dall’argomentazione
secondo cui era assolutamente fuori questione che un servitore baciasse il
proprio padrone a quella per cui doveva essere del tutto impazzito –
questo perché si era ricordato che, tecnicamente, non era più il
servitore di Oz.
E
alla fine, dopo quasi due ore che si era messo
lì con il preciso intento di studiare Storia per il giorno successivo,
era di nuovo fermo a guardare un
punto a caso dei suoi pantaloni.
«La
crisi del 1716 è così drammatica e difficile, fratellone?»
domandò con tono divertito Vincent, una mano poggiata sulla scrivania.
Gilbert gli rivolse un’occhiata di sbieco, sospirando nuovamente e
imbronciandosi senza nemmeno rendersene conto, un po’ come quando erano
bambini – ma questo il moro non lo ricordava probabilmente.
«Ah, quindi c’è stata una crisi? Perché nella riga che
sto rileggendo da due ore ancora non lo
accenna.» borbottò come se fosse colpa del libro.
Persino
uno come Vincent non poté non stupirsi di quella risposta: Gilbert era
sempre stato riflessivo, e su quello non c’erano dubbi, ma era pur vero
che suo fratello trovava una soluzione più o meno
a tutto. Vi pensava molto, forse anche troppo per lo standard di Vincent, ma
mai al punto da ridursi a quel modo: soprattutto, suo fratello una volta messo
sui libri era una specie di mostro.
Non
lo distraeva mai nulla.
«Come
rileggi la stessa riga da due ore?» gli fece infatti
eco il biondo, lo sguardo su di lui.
Fu
chiaro che la situazione era piuttosto grave quando in
risposta ci fu il rumore sordo della fronte di Gilbert contro la scrivania
– un colpetto leggero, più significativo per il gesto in sé
che non per la sua entità.
«Gil?»
tentò nuovamente Vincent, sempre più perplesso.
Gilbert
alzò finalmente la testa, chiudendo il libro e arrendendosi definitivamente,
per poi incrociare le braccia sulla scrivania e posarvi il mento; a Vincent
ricordò un episodio di quando erano bambini, anche se non lo disse.
Era
successo quando erano da poco entrati ufficialmente a far parte della famiglia
Nightray.
Rientrando
nella stanza che in quel periodo condividevano – si era categoricamente
rifiutato di dormire da solo e soprattutto lontano da Gil – aveva trovato
il fratello proprio come in quel momento lì, a distanza di anni: chinato
sulla scrivania, sospirante e con il broncio. O forse sarebbe stato più
appropriato dire che aveva l’espressione corrucciata di chi continua a
ripensare allo stesso problema senza riuscire a trovarvi una soluzione
adeguata.
«Fratellone,
che è successo?» aveva chiesto a Gilbert quella volta,
osservandolo preoccupato, perché non lo aveva mai visto così e
soprattutto non riusciva a capire cosa gli passasse per la testa.
«Ho
litigato con Elliot.» aveva borbottato, senza spostare lo sguardo sul
biondo, ma anzi evitando quello indagatore del minore affondando la faccia fra
le braccia.
«Non
capisco perché, ma sembra odiarmi davvero.» aveva mormorato
afflitto, e Vincent gli aveva posato una mano fra i capelli rivolgendosi a lui
con un sorriso gentile, anche se il moro da quella posizione non lo aveva
visto. Ma, poiché si trattava di Gilbert, di
certo lo aveva comunque percepito dal tono con cui Vincent aveva parlato.
«Non è colpa tua, fratellone. Tu sei gentile con Elliot. Alla fine
gli piacerai, sono sicuro.» aveva detto.
Poi
era andato a parlare con Elliot e il più piccolo, in un modo o
nell’altro, si era calmato quanto bastava perché
quell’espressione sul viso di Gilbert si ripetesse rarissime volte
– con soddisfazione di Vincent: la chiacchierata con Elliot, allora, era
evidentemente servita al suo scopo.
Ebbene,
in quel momento Gilbert sembrava tornato il ragazzino che non sapeva come
avvicinare il suo nuovo fratello minore.
«Vince?»
si sentì chiamare, riscuotendosi da quel pensiero, riportando
prontamente lo sguardo e l’attenzione sul moro, con un sorriso dei suoi:
«Dimmi Gil.»
«Stavo
pensando» disse Gilbert quando fu certo di avere l’attenzione del
fratello: «tu… non trovi che sia un
po’ strano?» esordì, l’aria quasi colpevole, come se
temesse le proprie stesse parole, e stesse ancora ponderando se fosse davvero
il caso di pronunciarle o meno.
Vincent
attese pazientemente, fin troppo abituato ad ogni
sfaccettatura del carattere del maggiore; Gilbert era così: rimuginava,
rimuginava, si colpevolizzava, ma alla fine parlava sempre. Se lo concedeva solo
con lui, e Vincent lo sapeva bene.
Per
questo non temeva mai che il moro potesse nascondergli qualcosa – magari
ciprovava,
certo, ma non ci riusciva mai molto a lungo.
«Cosa?»
domandò quindi.
«Che
non ricordiamo quasi niente fino a poco prima dell’entrata a
Latowidge.» replicò, portando esitante gli occhi dorati sul
fratello.
Vincent,
con un sorriso bonario, sospirò: non era la prima volta che a Gilbert
prendevano quelle mezze crisi d’identità sul perché non
ricordassero delle cose, sul perché avessero quell’amnesia.
Su
quello, era vero, non era stato sincero con Gil: non gli aveva detto che ad
avere l’amnesia era solo lui, non gli aveva mai detto che i propri
ricordi erano pressoché intatti. Ma aveva un
buon motivo per farlo.
Suo
fratello era già… stato male una volta.
Non occorreva affatto che succedesse di nuovo.
«Forse è un po’ strano, ma non mi sembra così grave.
Alla fine, crescendo ci si dimentica comunque di episodi di quando si era
bambini. A noi è solo successo prima. Per i nostri veri genitori, se
avessero voluto ci avrebbero trovati facilmente, da
quando siamo parte di una delle famiglie ducali più famose Gil. E per il
resto, se ci fosse stato qualcosa di veramente importante, trauma o non trauma, penso che l’amnesia avrebbe risparmiato quei
ricordi, no? Insomma, io di te mi ricordavo, dopotutto. Un legame come quello
fraterno non si dimentica facilmente, o comunque noi siamo stati fortunati. Se
ci fosse stato qualcun altro così importante, non credi che ce ne
saremmo ricordati?» spiegò fluidamente,
come se fosse stato un pensiero articolato così tante volte da renderlo
ormai proprio.
Gilbert
sospirò: ammirava il fatto che Vincent fosse
così certo della cosa. Lui, invece, si ritrovava costantemente pieno di
dubbi.
Ad
esempio, perché ricordava Oz ma non il periodo a casa Bezarius?
Gli
unici ricordi degni di tale nome in proposito erano sostanzialmente tre: quello
riaffiorato al concerto a Latowidge – che più che un vero e
proprio frammento di passato Gilbert avrebbe piuttosto definito “vago flash”,
il ricordo da poco affiorato di un Oz più giovane che gli diceva della
morte di Jack e infine il ricordo molto vago di un sorriso gentile e di una
mano che gli scompigliava i capelli, che supponeva
appartenessero entrambi allo stesso Jack.
Ma per
il resto, non sapeva nemmeno distinguere se si trattasse di veri e propri
ricordi, o di nozioni acquisite col tempo: Ada, per esempio, o Oscar Bezarius,
o lo stesso Zai.
Li
ricordava a prescindere, o il fatto di averli incontrati poi in società
aveva risvegliato in lui la sensazione di conoscerli?
Non
lo sapeva, e quell’incertezza lo stava facendo impazzire.
Jack
avrebbe dovuto essere importante. Il tempo con Oz avrebbe dovuto esserlo.
Eppure
perché… non ne aveva praticamente
memoria?
«Ultimamente
ho ricordato una cosa.» se ne uscì dopo diversi minuti di
silenzio, facendo trasalire Vincent. Non per le parole inaspettate, quanto per
il chiaro significato dietro di esse che il biondo vi leggeva: Gilbert stava
iniziando a ricordare, il che significava che qualcuno o qualcosa stava
facilitandogli il compito.
«Credo sia un ricordo di quando non ero già più a casa
Bezarius. Mi chiedevo… so della morte di Jack, ma non riesco a ricordare
il momento in cui l’ho saputo. Ho solo delle immagini vaghe di Jack al
letto, di un Jack sorridente, quindi… quindi ho visto Jack stare male. Ma allora perché non ricordo con precisione? Se sono
cose così importanti, perché lo sono e perché Jack
è stato importante per noi, perché solo delle immagini?
Perché non ricordi interi, precisi?» ragionò
ad alta voce, mentre Vincent in silenzio cercava di comprendere quanto fossero
supposizioni del fratello e quanto, davvero, fosse riemerso dalla sua amnesia.
«Gil,
cos’hai ricordato che ti ha smosso
così?» chiese, premuroso, il sorriso più leggero ma
presente.
«Quando
Oz… è venuto a dirmi che Jack era morto.» mormorò:
«Forse è perché eravamo in una situazione simile a quella,
e mi è tornato in mente, non lo so.» aggiunse, un rossore leggero
che gli imporporò le guance ma che – a giudicare dalla mancanza di
reazione di Vincent – non fu troppo evidente probabilmente.
L’espressione
del biondo si era fatta più seria, quasi fredda, forse approfittando del
fatto che in quel momento Gilbert non lo stesse
guardando.
Ma
presto la sostituì con l’ennesimo incurvarsi di labbra, di quelli
che si sarebbero potuti definire enigmatici: «Era questo che intendevo,
Gil.» se ne uscì in risposta, non molto
chiaro. Ma non tardò a spiegarsi: «La
vicinanza di Oz Bezarius ti sta creando problemi e nient’altro. Da quando
lo abbiamo incontrato al rientro a Latowidge, hai più spesso il mal di
testa, sei confuso, e hai queste immagini che ti vorticano in mente e ti fanno
stare male.» commentò, Gilbert che alzava
lo sguardo su di lui dapprima sorpreso, poi perplesso.
«Forse
dovresti allontanarti un po’?» buttò lì, con tono
casuale.
La sentì ridere, ma non somigliava affatto alla risata gentile di una ragazza
per bene.
Era sguaiata, maligna; di chi
ha tutte le intenzioni di farti del male, e nel momento in cui ha la consapevolezza
di esserci riuscito, ne gode internamente e completamente.
«Non dirmelo, non lo
sapevi?» lo canzonò, sibillina.
«Proprio tu, che vuoi così bene a Jack non lo sapevi? Oh, forse non
te lo hanno detto perché non sei stato un bravo
bambino, Gilbert.» proseguì, lo sguardo su di lui.
Gilbert strinse i pugni, le
mani che tremavano.
«O forse» riprese:
«perché conosci il suo assassino,
Gilbert. Lo sai per colpa di chi è morto Jack?»
insinuò, crudele.
«Smettila! Jack era malato, era soltanto malato, non è colpa di nessuno!» le gridò contro Vincent, al proprio fianco.
Gilbert continuava a tremare,
e a guardarla.
E riusciva solo ad odiarla ogni volta che parlava.
Anche ora che rideva, di una
risata acuta e penetrante – di nuovo: «Questa è la
verità che hanno detto a Gilbert?» chiese, retorica, osservandolo.
Ma l’espressione mutò dal sadico
divertimento alla freddezza, all’odio.
«Ti proteggono, ti proteggono, non fanno altro che proteggerti. Ti trattano
bene, perché sei il figlio dei Nightray, ora. Ti odio, ti odio, ti odio, ti odio. È tutta colpa tua, se Jack
è morto, è solo colpa tua! Se fossi andato più spesso a
trovarlo, se ti fossi preso più cura di lui, Jack sarebbe guarito.
È colpa tua! Sei un assassino, un assassino, UN ASSASSINO!»
«SMETTILA!»
«G-Gil…!»
sentì pronunciare e inorridì quando vide la propria mano stretta
attorno al collo del fratello, che teneva le proprie sul polso del maggiore nel
tentativo di allentare la presa. La sciolse immediatamente, allontanandosi di
qualche passo da Vincent, spaventato dal proprio stesso gesto.
Lo
osservò tossire, gli occhi sgranati mentre il fratello minore riprendeva
fiato, il volto appena arrossato dalla sua presa di poco
prima.
«Io…
io…» borbottò, completamente nel panico, le immagini di quel
ricordo che non sapeva collocare ancora lì, nitide nella sua mente e
spaventose.
«Gil,
sta tranquillo, va tutto bene…» mormorò Vincent, facendo per
avvicinarsi, una mano appena protesa in avanti verso il fratello. Gilbert la
colpì istintivamente prima ancora di rendersi conto del proprio stesso
gesto, allontanandola da sé.
A
quel punto, non era chiaro se l’espressione più spaventata fosse
la sua o quella di Vincent; di certo quella del biondo fu quella che
tornò prima ad uno stato vicino alla calma, o
ad un tentativo di somigliarvi.
«Gil…
cos’hai visto?» chiese così a
bruciapelo che se soltanto Gilbert non fosse stato tanto sconvolto, avrebbe
trovato piuttosto sospetta tutta quella certezza nel porgli quella domanda.
Era
chiaro che Vincent fosse praticamente sicuro che il
fratello avesse visto qualcosa, come se si fosse sempre aspettato che prima o
poi qualche ricordo sarebbe tornato a galla, e che fosse solo questione di
tempo.
Gilbert
tacque, rifiutandosi di rispondere, scuotendo la testa – e Vincent
capì che stava succedendo di nuovo, mentre l’immagine di un
Gilbert più piccolo si sovrapponeva a quella del fratello.
Il
Gilbert del suo ricordo si portava le mani a sorreggere la testa, chiudeva gli
occhi e rannicchiato in un angolo continuava a
ripetere “non è vero”.
Il
Gilbert di ora… quanto sarebbe durato prima di precipitare nuovamente in un
principio di follia che lo aveva già fatto sprofondare anni prima?
Vincent
lo abbracciò, stringendolo possessivamente: «Andrà tutto
bene.» mormorò vicino al suo orecchio.
«Va
già tutto bene Gil. È stato solo un
momento, ora ti passa. Non pensarci più.»
continuò, il tono basso e conciliante – non avrebbe permesso che
succedesse di nuovo, a costo di fare in modo che Oz Bezarius si allontanasse da
quella scuola, anche con mezzi meschini.
Gilbert
tacque, le parole del fratello udibili, ma che non lo raggiungevano del tutto.
Nella
sua mente si ripeteva, sovrapponendosi continuamente,
la stessa frase.
Quella
di quel ricordo, era davvero Alice?
Fece
capolino con la testa da dietro l’angolo dove
stava nascosta, controllando che non ci fosse nessuno nel corridoio in cui si
stava immettendo.
Accertatasi
che fosse completamente deserto, si mosse in avanti, rivelando la figura nella
sua interezza: aveva indossato degli abiti che di femminile avevano poco, optando per quelli piuttosto che per il pigiama. Erano
vestiti semplici, quasi smessi e che poco si adattavano all’ambiente di
una scuola come Latowidge; la maglia, inoltre, era evidentemente più
grande della sua taglia.
Alice
di solito non girava in piena notte per la scuola, non tanto per il rispetto
delle regole, quanto per due motivi precisi: innanzitutto, aveva delle
abitudini di vita a loro modo sane, e che ricordavano
un po’ quelle di un bambino. Mangiava alle ore dei pasti e dormiva
durante la notte – cosa che ogni persona normale avrebbe dovuto
effettivamente fare.
Secondo,
ma non meno importante, quando aveva saputo che poteva succedere che o i capo dormitorio o i professori facessero delle ronde per
controllare, un fatto era stato chiaro per lei: un conto sarebbe stato
incrociare Sirjan Kolstoj – doveva ammettere che una cosa di ciò
che dicevano le oche nella sua classe era vera, e cioè che Kolstoj era
innegabilmente di bell’aspetto.
Un
conto sarebbe stato incrociare il docente di Matematica e no, incontrare nel
pieno della notte Xerxes Break era tutto
tranne che un suo sogno proibito.
Anzi,
era certa che sarebbe somigliato molto più ad
un incubo – incubo che come minimo l’avrebbe perseguitata per
almeno una settimana, altroché.
Il
motivo per cui, quindi, aveva interrotto la sua sana routine di nove ore di
sonno filate, era stata quasi banale: la sera
precedente aveva visto Oz sgattaiolare verso l’edificio scolastico ad
un’ora improponibile, in cui lei era sveglia per puro caso. E
ricollegarlo al discorso che tempo addietro le aveva fatto Noah, riguardo la sua preoccupazione per le piccole fughe notturne del
biondo, aveva completamente acceso la sua curiosità.
Perciò,
anche se non era proprio certa che avrebbe trovato Oz
in giro a quell’ora quella sera, era riuscita ad uscire senza essere
beccata e a dirigersi lì.
Quando
però era stato chiaro che del biondo non c’era nemmeno
l’ombra… le era venuto istintivo dirigersi in quel corridoio.
Quello dove aveva incrociato quella ragazza identica a lei, forse nella speranza
di vederla nuovamente per chiederle chi diamine fosse – non era affatto soddisfatta della risposta che aveva
ottenuto l’ultima volta, ed era stata troppo sorpresa per contestarla.
Sbuffò,
notando che non sembrava davvero esserci nessuno, né compagni o
professori, né quella tizia.
Si
mosse praticamente subito, quasi correndo, non più
attenta a cose come non fare rumore o al non farsi vedere; quando però
voltò l’angolo, chiunque fosse era sparito. O così parve;
dovette ricredersi quando sentì una risata leggera, cristallina.
«Di
nuovo alle spalle, maledet—»
sbottò voltandosi di scatto, ma zittendosi quando i suoi occhi
registrarono la figura che la guardava divertita.
Fu
immediatamente chiaro che non si trattava della stessa persona, ma allo stesso
tempo Alice fu certa che fossero due entità molto simili: non sentiva
odori particolari, avevano entrambe una figura quasi eterea e davano la
sensazione di qualcosa che non potesse essere toccato.
Tuttavia,
le loro immagini erano profondamente diverse: la ragazza che ora stava davanti
a lei aveva i capelli lunghi e scuri, lisci e gli occhi chiari, azzurri. Il
vestito che indossava era palesemente estivo, e quello di una ragazza molto
semplice, non appartenente all’alta società o comunque di un rango
piuttosto inferiore rispetto a quello medio lì all’istituto.
La
pelle era diafana e senza imperfezioni, i lineamenti delicati che ad Alice
ricordarono un poco Alyster Kolstoj: si chiese, per un attimo, se quella
delicatezza fosse della stessa natura della compagna più grande da poco
scomparsa.
Poi,
notò, il sorriso le incurvava le labbra e la risata cristallina di poco
prima si ripeté nuovamente; Alice si imbronciò:
«Che cavolo hai da ridere?» rimbrottò, osservandola con le
braccia incrociate al petto.
La
vide portare una mano a coprire le labbra, per poi girarle intorno –
Alice non amava particolarmente quando qualcuno lo faceva – compiendo un
intero giro.
Dopo
di esso, si allontanò da lei, ma sembrava quasi invitarla a seguirla: invito che non si fece rivolgere una seconda volta. Era
anche una questione di orgoglio, visto che quella
lì continuava a ridere.
Tuttavia
non andarono lontano: non avevano percorso neanche metà corridoio, che
l’avanzata come la risata si interruppero
bruscamente, lo sguardo della ragazza che guardava oltre Alice.
La
castana allungò una mano nell’esatto momento in cui quella
sconosciuta spariva; perplessa, sobbalzò quando avvertì una voce
alle proprie spalle.
«Ti
prego di scusarmi, è andata via per causa mia, temo.» sentì
pronunciare, voltandosi nell’immediato.
Sentì
mancare un battito, distintamente, in un punto del petto preciso.
Davanti
a lei stava un ragazzo la cui figura era sbiadita nella propria mente, ma di
cui era sicura di sapere qualcosa. Poi, lo ricordò: era la figura che
anche Oz gli riportava alla mente, quella su cui per tutto quel tempo aveva
indagato.
«…Jack?»
soffiò pianissimo, osservandolo quasi con timore.
L’altro
non si era probabilmente aspettato che l’altra conoscesse il suo nome e
quindi la sua identità, perché assunse un’aria sorpresa che
sciolse quasi subito in un sorriso gentile, annuendo.
Allungò
una mano verso di lei, prendendo la sua ed effettuando
un perfetto baciamano da gentiluomo: «Non pensavo conoscessi il mio nome,
Alice.» osservò.
«Non
pensavo che quelli come te potessero toccarmi.»
fece lei di rimando, sulla difensiva; bastò a Jack per capire che il
motivo per cui Alice conosceva il suo nome fosse diverso da quello che lui
aveva appena ipotizzato.
«Dipende
da spirito a spirito.» spiegò semplicemente: «Alcuni di noi,
come la ragazza di prima, non riescono.» aggiunse.
Alice,
sebbene senza avvicinarsi né ritrarsi, come se
lo stesse ancora studiando e valutando, annuì leggermente: «E da
cosa dipende?» indagò. Jack si limitò a sorridere, senza
sentirsi offeso da quella domanda: «Da molte
cose. Di solito anche da quanto e quante persone pensano a noi, o pregano, ma dipende molto anche dai sentimenti che abbiamo.
Se sono forti, oltre a tenerci in questo luogo ci permettono contatti leggeri.
Naturalmente, ci sono cose che non possiamo fare come se fossimo vivi.» chiarì, pronunciando quel “vivi”
con estrema dolcezza, facendo sussultare Alice.
La
castana scosse appena la testa, cercando di frenare il battito del cuore,
innaturalmente velocizzato: non aveva corso, e non era nemmeno particolarmente
spaventata, eppure qualcosa nella figura del fratello di Oz –
perché di lui si trattava – le metteva addosso
inquietudine e felicità al tempo stesso. A cosa fossero dovuti quei due sentimenti tanto diversi e la
confusione che scatenavano mescolandosi, non avrebbe davvero saputo dirlo.
«Tu
sei il fratello di Oz, vero?» domandò, retoricamente, tanto che
non attese la risposta pur notando l’annuire dell’altro:
«Quella ragazza…?» aggiunse invece, riferendosi a quella che
era sparita poco prima.
«Sta per sparire, credo. Definitivamente.» replicò, ma non con
la tristezza di chi sta per separarsi da qualcuno: «I sentimenti che la
portano qui sono di natura diversa dai miei, o da quelli di altri come noi che
sono in questo luogo. Lei è rimasta finora perché qualcuno
pensava ininterrottamente a lei… e forse un pochino anche perché anche io volevo vederla.» ammise infine, osservando il
punto in cui era scomparsa.
Alice
cercò di sbirciare sul suo viso, alla ricerca di un qualche particolare
che le rivelasse qualcosa in più, ma non lo trovò.
«La
conosci allora.» osservò soltanto, basandosi su quanto detto da
lui.
Jack
sorrise appena più ampiamente, e annuì:
«Eravamo compagni di scuola, qui. Io e Lacie.»
Perché
lo avesse seguito, Alice non avrebbe saputo dirlo con precisione.
Sapeva
soltanto che nel momento in cui Jack aveva proposto di spostarsi dal corridoio,
le era venuto completamente naturale assecondarlo; era come se qualcosa, in un
punto imprecisato del suo corpo, sapesse che era la cosa giusta da fare.
Se
fossero ricordi stipati nella sua mente, se fosse il corpo che istintivamente
si muoveva o se fosse il cuore che ancora batteva velocemente, Alice non lo
capiva.
Ritrovarsi
sola con lui però aveva in un certo senso risvegliato qualcosa che, con
ogni probabilità, c’era ancora e per assurdo già da molto
tempo prima: era un miscuglio senza una vera forma, fatto di dolcezza, di
felicità e di nostalgia. Di completa fiducia, ma anche di timore.
Era
qualcosa che, un po’ come tutte le cose che riguardavano il passato di
cui non aveva memoria precisa, Alice non riusciva a spiegare con le parole,
fossero queste pronunciate ad alta voce o solo nella propria mente.
Jack
era una presenza particolare: era qualcuno che sentiva di dover ascoltare e che
nascondeva qualcosa.
Avevano
parlato di cose che Alice non aveva mai saputo, e di cui non si era mai
interessata prima; degli spiriti, per esempio. Di Lacie, nello specifico, e di
altri il cui nome era un mistero su cui non aveva indagato. Forse il biondo
glieli avrebbe anche detti, se lei avesse chiesto, ma
ad Alice non interessavano.
Era
probabile che comunque li avrebbe dimenticati.
Lacie,
secondo quanto spiegato da Jack con le parole semplici e gentili che si
rivolgono ad un bambino, era una presenza
“leggera”. Era qualcuno che si trovava in questo luogo senza sapere
perché.
«Non sempre gli spiriti conservano il ricordo della propria vita. Alcuni
dimenticano, specialmente chi non ha nulla che lo trattenga fra i vivi.»
aveva spiegato: «Lacie non è qui perché ha qualcosa da
fare. È probabile che stia finalmente per tornare nel luogo in cui dovrebbe
stare.» aveva aggiunto.
«Parli
dei rimpianti, e delle questioni in sospeso e quella roba lì?»
aveva domandato Alice, guardandolo, basandosi solo su alcune cose che aveva
letto – più racconti fantastici che non studi in proposito.
Jack
aveva sorriso, una sfumatura genuinamente divertita: «Qualcosa
del genere. Lacie più che dal rimpianto era animata dalla tristezza e
dal dispiacere, credo. Ma con il tempo, lo ha
dimenticato. L’oggetto di quei suoi sentimenti… ora non è
più tra voi.» era stata la risposta, che
a dire il vero Alice non aveva capito completamente.
Eppure
Jack aveva catturato totalmente la sua attenzione, quasi come se le stesse
raccontando una favola.
«Non
ti dispiace che sparisca?» gli aveva chiesto, ingenuamente e senza alcuna
malizia.
Lo
sguardo di Jack si era fatto triste. Era stata la prima cosa che aveva notato,
e che per la prima volta le aveva fatto rimpiangere di aver aperto bocca senza
riflettere; se ne era stupita: lei aveva il vizio – perché
difficilmente poteva considerarsi un pregio – di aprire bocca incurante
di quanto le proprie parole potessero ferire, o essere comunque brusche.
Ma
non le era mai capitato di pensare: “non avrei
dovuto dirlo”. Con Jack era la prima volta.
«Mi
dispiace perché sono egoista.» fu l’inizio della risposta
che catturò nuovamente la sua attenzione: «So
bene che essere bloccati qui non fa bene, a quelli come me e come Lacie. I
sentimenti che ti inchiodano senza permetterti di fare
un passo in avanti e lasciarti la vita alle spalle… non sono mai sentimenti
positivi.» mormorò piano, come se fosse un segreto solo fra lui ed
Alice.
Alice,
osservandolo, si chiese se una persona così potesse davvero essere
animata da sentimenti negativi.
«Tu…
non mi sembri una persona cattiva.» diede subito voce a quel pensiero, il
broncio leggero come se Jack avesse offeso in qualche modo lei. Lui la
osservò, l’espressione un po’ sorpresa forse, ma le sorrise
comunque.
«È
un po’ difficile da spiegare.» ammise: «Quando parlo di
sentimenti negativi intendo negativi per noi. La tristezza,
il rimpianto, la solitudine. A volte anche la rabbia, purtroppo.» si spiegò meglio, ma non avrebbe potuto
immaginare la domanda a bruciapelo che seguì quel chiarimento da parte
sua.
«Per
te il motivo è Oz?» chiese Alice, nello sguardo la sfumatura
decisa e per certi versi autoritaria che era tipica di lei, come se per un
attimo i ruoli si fossero invertiti, e il bambino a cui
spiegare pazientemente le cose fosse stato Jack.
Lui
ridacchiò piano, di una risata nervosa e imbarazzata: «Sono un
fratello troppo protettivo, secondo te?» domandò di rimando,
rispondendo quindi anche alla sua domanda e portando una mano dietro la nuca in
un gesto impacciato che Alice riconobbe facilmente, perché tipico anche
di Noah.
«Beh,
hai tutte le ragioni di preoccuparti.» se ne uscì in quella che
non era propriamente una premessa rassicurante: «Oz
è uno stupido e un testardo. Attira i guai, e soprattutto le persone
ambigue. Come Vincent, ad esempio. O anche quel pagliaccio feticista delle
bambole e Anna dai capelli rossi.»
proseguì infastidita – volendo soprassedere sulla risata spontanea
che Jack cercò di trattenere agli epiteti rivolti a Break e Rufus.
«Quando
ha bisogno di aiuto non lo chiede mai, e si pianta in
faccia quel sorriso stupido che ormai non convince più nessuno. E lo fa
come se credesse davvero che io e Noah non ce ne accorgiamo. E insomma, se ne
accorge persino quello scemo di Gilbert, quindi ho detto tutto. Dice bugie a non finire, e io odio le bugie. E alla fine,
quando poi le cose vanno male, sorride di nuovo anziché piangere!» sbottò arrabbiata, stringendosi le ginocchia
al petto come se i poveri arti fossero in qualche modo colpevoli.
Poi,
quando ormai chiunque si sarebbe aspettato una sequela di insulti
a concludere il tutto, l’espressione della castana si addolcì
appena: «Però… ultimamente è cambiato un po’.
Non è tanto, e ancora sorride dicendo bugie
effettivamente. Ma l’Oz che è arrivato qui
all’inizio, quando ti sorrideva non comunicava nulla. Era solo
un’espressione vuota come ce ne sono un sacco. Oz adesso… sorride
davvero. È solo una volta ogni tanto, ma quando guardi la sua
espressione, adesso riesci almeno a capire se sta bene o se sta
male. Si sta impegnando, credo. Piano piano… sta migliorando.»
mormorò, suscitando in Jack un sorriso dolce mentre gli occhi verdi
erano fermi sulla sua figura.
«E poi ora tuo fratello è il mio servitore. Perciò, che faccia
cose sbagliate o cose giuste, ci sono comunque anche io
a proteggerlo. E anche Noah: è un po’ scemo, ma non è male.
Poi un giorno se vuoi te lo presento.» aggiunse
con aria saccente.
Aria
che mutò in una sorpresa e quasi spaesata quando si sentì
sfiorare le guancia e, voltandosi verso Jack, si rese
conto che era proprio una mano del biondo a toccarla.
Il
contatto non era né particolarmente caldo, né freddo: era
tristemente come se non ci fosse, ma allo stesso tempo abbastanza palpabile per essere percepito. Leggero, come se Jack stesse sfiorando
qualcosa di prezioso.
Le
sorrise, grato e gentile; senza un motivo logico,
Alice pensò che fosse l’unico modo in cui Jack Bezarius sapesse
sorridere.
«Alice è diventata una ragazza buona e forte. Sono contento.» mormorò piano, con dolcezza.
La
castana non seppe definire, stavolta, la sensazione che ebbe: seppe solo che
Jack e Oz, per un momento soltanto, si erano sovrapposti nella sua mente e
davanti ai suoi occhi. E che sentiva di voler piangere.
Ancor
prima di rendersene conto, tuttavia, gli occhi si erano fatti pesanti a tal
punto che tenerli aperti non era diventato più
possibile.
Prima
di chiuderli del tutto, sprofondando in un sonno improvviso e pesante,
formulò un solo pensiero incoerente.
Il
sorriso di Jack – e di Oz? – non era vero che poteva essere solo
dolce e gentile.
Il
sorriso che gli si addiceva di più era… quello triste che riusciva
ad intravedere in quel momento, come un’ombra
sfocata.
Jack
la osservò, l’espressione dispiaciuta: «Scusami
Alice.» sussurrò.
«Pensavo
che le avresti raccontato la verità.» lo interruppe una voce pacata, impersonale. Non doveva davvero alzare lo sguardo
per capire di chi si trattasse, ma lo fece ugualmente trovando facilmente
conferma nella figura che inquadrò, e che si stava avvicinando con passo
lento.
«E io pensavo che mi avresti fermato molto prima,
Sirjan.» replicò con gentilezza, con il tono di un fratello maggiore;
dopotutto, il legame con i gemelli era stato di poco differente.
Sirjan
gli rivolse un sorrisetto divertito: «Non stavi
dicendo nulla che sia mia competenza nascondere. Che vuoi farci, mi sto
rammollendo Jack.» osservò falsamente
casuale. Il biondo vi lesse diverse cose, nel tono e nella frase, ma non
domandò nulla.
Sarebbe
stato superfluo chiedergli come stava.
«Credo ti si addica di più. Quando si ha un’indole gentile,
essere severi è molto più difficile.»
commentò, con un sorriso complice.
Sirjan
si chinò in avanti, prendendo Alice fra le braccia, ma rimanendo in un
primo momento inginocchiato alla stessa altezza di Jack, che era seduto: «Ti sta bene che Oz scopra da solo la verità?
Ti sta bene anche che Alice non si ricordi di te?» domandò a bruciapelo,
lo sguardo significativo e puntato negli occhi verdi
del più grande.
Jack
sospirò piano, lentamente.
«Che
sono un codardo, ce lo insegna anche la storia. Alice
è… diventata più forte. Nei miei ricordi è una
bambina estremamente fragile, da difendere quasi da
ogni cosa che la circondava. Credo che sia così anche perché non
ha ricordi. In questo, lei e Gilbert sono simili ma diversi. Lui si
colpevolizza perché non ricorda, e non avere memoria lo paralizza a
volte. Alice invece riesce a guardare avanti, anziché indietro. Ed
è… un dono, secondo me. Io che sono qui per il passato, so quanto
sia importante riuscire a non essere completamente inglobati da esso.» parlò piano, udibile per Sirjan nel silenzio
che li circondava.
Il
ragazzo tacque, osservandolo.
Non
ripeté la domanda per sollecitare una sua risposta riguardo ad Oz.
«Mio fratello… se lo incontrassi, probabilmente starebbe molto, molto
più male di come starà quando avrà scoperto la
verità. Per una volta, Sirjan, una sola… vorrei non essere egoista.
Lo sono stato nei confronti di mio padre, e di Oz. Ho preteso che il primo mi
capisse pur sapendo com’era fatto, e ho caricato le spalle del mio
fratellino delle aspettative perdute di mio padre, del
dolore di Ada e di quello che ero. Sono stato egoista nei confronti di Glen, e
ora lo sono persino con Lacie, aspettandomi un perdono che lei non è
nemmeno cosciente di dover dare. Per questa volta, nonostante parlargli è una cosa che desidererei fare…
vorrei cercare di agire per il suo bene, non per il mio.» concluse, lo
sguardo sul viso di Alice che – Sirjan ne era certo – non vedeva
davvero la ragazza.
Come
si fosse arrivati ad una cosa del genere, Oz non se ne
capacitava.
Nemmeno
ora, mentre erano nel pieno di un vero e proprio litigio – per altro, nell’atrio
dell’edificio scolastico, dove di certo non dovevi discutere se non
volevi che almeno mezza scuola sapesse i fatti tuoi.
Lui e
Ada non litigavano mai.
Un
po’ perché erano sempre stati molto legati e perché
andavano d’accordo fin da piccoli, un po’ perché lei per lui
era stata sempre come una figura materna oltre che quella di una sorella
maggiore.
Ada
aveva un carattere così mite, almeno quando erano insieme e per la
maggior parte del resto del tempo, che era piuttosto difficile discutere
aspramente con lei. E Oz non si era certo mai impegnato
in tal senso.
Ada
era stata… una fiaba raccontata per far addormentare un bambino
spaventato da un incubo; si era presa cura di lui, lo
aveva affiancato ripetendogli che sarebbe andato tutto bene. Specialmente dopo
la morte di Jack.
Già,
suo fratello.
Il
motivo per cui ora stavano alzando la voce per la
prima volta l’uno contro l’altra.
Oz a
dire il vero non avrebbe mai voluto dirle di essere entrato in possesso del
diario di Jack, né delle cose in cui si stava immischiando
guidato da esso. Le aveva chiesto durante la colazione se sapeva dove fosse
Elliot, nel momento in cui non aveva notato il minore dei Nightray – in
verità non c’era ancora nessuno dei tre – in mensa.
Gli
era parsa una domanda come tante altre, che non suscitasse chissà quale
dubbio; ma evidentemente, per Ada c’era stato qualcosa, perché lo
aveva guardato come se Oz le avesse appena chiesto di dirle dov’era il
loro peggior nemico.
«…Come
mai vuoi parlare con Elliot?» era stata la domanda che aveva sostituito
la semplice risposta con una locazione che Oz si era aspettato.
L’aveva guardata stupito, e forse quello l’aveva tradito.
O
magari, ad averlo smascherato era stata la propria risposta: «Devo
chiedergli una cosa che riguarda il periodo in cui Jack c’era ancora.»
Ammetteva
che non fosse certo la cosa più intelligente da dire, ma era pur vero
che potevano essere milioni di cose quelle che voleva
chiedere: poteva riguardare Gilbert, ad esempio, o poteva riguardare lo stesso
Elliot. E dal momento che erano di anni diversi,
sarebbe suonato strano usare la scusa dello studio, persino del pianoforte
– considerando che non aveva fatto chissà quali progressi,
insomma.
Ada,
se possibile, l’aveva guardato persino più preoccupata di quando
gli aveva posto la domanda: «Lascia stare.» gli aveva detto, lasciandolo in parte perplesso e in parte…
irritandolo.
Ora
non era nemmeno libero di chiedere di suo fratello? Ora anche Ada si comportava
come se Jack fosse un passato troppo lontano per essere ancora rivangato o
ricordato?
Non
avrebbe saputo dire cosa fosse meglio: se quello, o suo padre che si era
convinto della non esistenza di un figlio minore perché in lui era
convinto di avere in realtà di nuovo il suo amato primogenito vivo.
Il
risultato, comunque, era lo stesso.
Nonostante
fossero coscienti di stare praticamente dando
spettacolo – non che urlassero così forte, ma due fratelli che
discutevano animatamente nell’atrio, sebbene con toni ancora controllati,
attiravano l’attenzione comunque.
Non
si accorse nemmeno dei Nightray che arrivavano in quel momento, probabilmente
diretti alla mensa per fare colazione, né di Gilbert che nello specifico
aveva avvicinato Noah ed Alice, imitato poi dai
fratelli.
«Che
sta succedendo?» aveva chiesto perplesso a Noah, che sembrava combattuto
fra l’intervenire e il non immischiarsi in quello che ormai era decisamente un affare di famiglia.
«Ti giuro Gilbert, non ci ho capito nulla nemmeno io. Stavamo mangiando tutti insieme, Oz ha chiesto di Elliot ad Ada, e quando le
ha detto che lo cercava per chiedergli una cosa di quando il fratello era vivo
hanno iniziato a discutere.» riassunse brevemente, lo sguardo che
continuava ad alternarsi fra i due fratelli poco distante e il suo
interlocutore.
Gilbert
parve spaesato e cercò lo sguardo di Elliot, che non sembrava meno
perplesso di lui: «Cosa deve chiederti?»
chiese confuso, ottenendo in risposta un’occhiata altrettanto dubbiosa.
«Non
ne ho la più pallida idea, non ne so niente.» disse sincero il
minore, ma se Gilbert avesse voluto replicare, lo scambio tra Ada e Oz glielo
impedì totalmente.
«Insomma,
qual è il problema?! Non sai nemmeno cosa gli
devo chiedere!» obiettò Oz, testardo,
fissandola.
Ada
sembrava spaventata. Se dal fratello che non aveva mai litigato con lei
così bruscamente, o se dall’idea che sapesse qualcosa di cui lei
era già a conoscenza, Oz non poteva dirlo.
«Dico soltanto… che non è necessario! Neanche Jack
avrebbe—»
«IO
NON SONO JACK!» fu l’esclamazione che fece tacere non solo Ada, ma
che zittì anche il leggero brusio che aveva iniziato a diffondersi
nell’atrio.
Gilbert
non riusciva a staccare gli occhi da Oz.
«Ci sto provando, va bene? Ci sto provando da anni! Tu non hai nemmeno
un’idea vaga di quanti tentativi io stia facendo, ma non importa quante
volte provo, non riesco ad assomigliare a Jack più di così, va
bene?! Non ci riesco!»
continuò, incapace di fermarsi.
Non
avrebbe voluto dirlo, e non avrebbe dovutodirlo.
Anche
Ada era stata male. Anche lei soffriva come lui; per contro, però,
c’erano cose che lei non poteva capire.
«Mi dispiace se lui non avrebbe voluto, o se non lo avrebbe fatto e mi
dispiace se pensi che lui si sarebbe comportato in un altro modo e se quindi ti
aspetti che io faccia lo stesso. Ma io non sono Jack Bezarius, sono soltanto
Oz!»
Mentre
si allontanava dall’atrio, e qualche docente – ignaro di quanto
accaduto e appena giunto placava il chiasso che si era alzato richiamandoli
all’ordine – qualcuno seppe che quel “soltanto” aveva
più significati di quanto potesse sembrare.
Corse.
Non
importava quanto fosse vietato, considerando che i docenti erano verosimilmente
tutti a colazione.
Voleva
solo allontanarsi.
Dalla
mensa, da sua sorella, da Gilbert, da Latowidge.
Da
tutti quelli che avevano visto o conosciuto Jack e che inconsciamente
continuavano a paragonarli.
Non
importava che fosse istintivo, voluto, in buona fede.
Era
solo stanco di sentirselo dire persino dove era scappato per non ascoltarlo
più dalle labbra di suo padre – perché era quella la
realtà, anche se non l’aveva detta a nessuno.
Sapere
di andare a Latowidge era stata una liberazione:
lontano dalle mura di casa Bezarius, impregnate di ricordi
e aspettative, sarebbe stato meglio. Era stato convinto, quando aveva varcato
il cancello, che lì sarebbe andato tutto bene.
Come
nelle favole che Ada raccontava quando erano bambini, finché lui non si
addormentava placidamente permettendole di andare a dormire a sua volta.
Ma Oz
lo sapeva, perché ogni tanto fingeva solo di appisolarsi e poi
sgattaiolava fino alla camera della sorella; Ada, ogni tanto, piangeva da sola.
E la
mattina andava a svegliarlo con un sorriso e gli occhi rossi e un po’
gonfi.
Voltò
un angolo a caso, bloccandosi quando lo riconobbe.
Era
il corridoio in cui Sirjan gli aveva vietato di andare e in cui una volta era
stato salvato per un pelo da Aedan.
Abbassò
lo sguardo, indeciso sul da farsi.
Nella
sua mente, le parole di Sirjan erano ancora chiare come se il più grande
le stesse pronunciando in quel momento lì, di fronte a lui.
Non avvicinarti a Glen
Baskerville più dello stretto necessario.
Quello
era molto più dello stretto necessario, e persino più del limite
consentito, ma… alle parole di Sirjan, in quel momento, si sovrapponevano
altre parole.
Quelle
di Rufus – perché mai Glen Baskerville
avrebbe dovuto suicidarsi? – e soprattutto quelle di Break, che da
qualche sera prima continuavano ad invadergli i
pensieri, nonostante si fosse sforzato di ricacciarle indietro e archiviarle da
qualche parte lasciando che svanissero da sole col tempo.
Xerxes
Break ti metterà alla prova.
Quella
lo era sicuramente.
«Ah, Oz, prima che te ne
vada.»
lo aveva interrotto, facendolo
voltare
quando era ormai in
prossimità della porta.
«Dai ascolto
al tuo capo dormitorio.
Sarebbe davvero un grosso
problema,
se ti imbattessi nello spirito
di Glen Baskerville la prossima volta.»
Glielo
aveva detto di proposito.
Break
sapeva perfettamente che in un modo o nell’altro lui, Oz, sarebbe finito
nuovamente lì.
E
sapeva anche che una parte di verità poteva scoprirla solo facendo
domande direttamente a Glen Baskerville – non pensò a quanto
potesse essere pericoloso, considerando il primo e unico avvertimento che lo
spirito gli aveva dato tramite Elliot.
Fissò
di fronte a sé, nel punto in cui una volta aveva già visto quella
stessa porta che ora stava prendendo forma davanti ai suoi occhi come in un
gioco di prestigio.
Si
aspettava persino Cheshire, ma… non arrivò nessuno.
La
porta era lì, ferma, chiusa e non si sentivano né voci, né
rumori.
Era
un invito ad andarsene, o ad entrare?
Probabilmente,
solo Glen potrebbe rispondere.
Scosse
la testa, muovendo un passo in avanti e poggiando la mano sulla maniglia.
Inaspettatamente
non accadde nulla di strano o pericoloso; semplicemente la porta si
aprì, lasciando intravedere quella che sembrava una stanza buia, vecchia
e abbandonata da tempo.
Ne
varcò la soglia, deglutendo.
E
chissà perché, non si stupì affatto
di sentire l’uscio richiudersi alle proprie spalle, sebbene senza colpi
violenti, ma anzi come se qualcuno l’avesse socchiuso per lui.
E solo quando riportò lo sguardo davanti a
sé, intravide la figura che non aveva mai visto, ma che sospettava non
potesse essere confusa con nessun altro: ne conservava un ricordo vago, anche
piuttosto annebbiato in un certo senso.
Ma
tutto nella persona che era placidamente ed elegantemente seduta sulla vecchia
poltrona, accanto alla finestra dalle tende tirate, sembrava dire che si
trattava di Glen Baskerville.
Dalle
movenze affascinanti, al viso perfetto, al cipiglio austero, agli occhi scuri
che annoiati ma penetranti si posarono su di lui.
Vi
sostarono poco, e quando tornarono alla piccolissima porzione di vetro non
nascosto dalle tende, la voce di Glen riempì il perfetto silenzio che
era aleggiato fino a quel momento.
«Toglimi
soltanto una curiosità.» esordì tediato dall’argomento
o forse – più probabile – dal proprio interlocutore:
«Per quanto mi applichi, mi sfugge se la tua sia stupidità o mero
istinto masochista.» concluse scortese,
nonostante il modo di parlare impeccabile.
Oz si
morse il labbro inferiore, senza rispondere.
Sussultò
impercettibilmente quando gli occhi freddi di Glen tornarono su di lui:
«Io credo sia stupidità.» concluse,
come se avessero disquisito per ore e fossero finalmente arrivati alla
risposta.
Non mi piacciono,
le persone che ficcano il naso
nei miei affari.
Non riuscì a dire nulla, come paralizzato sul
posto, mentre di nuovo lo sguardo di Glen lo abbandonava per passare ad altro,
l’espressione comunque annoiata.
«Jabberwocky.»
chiamò semplicemente, senza nemmeno voltarsi.
Oz
non seppe quando la stanza era mutata attorno a lui, distorcendosi quasi e
assumendo sembianze che di una stanza non ricordavano nulla, somigliando
più ad una dimensione piena solo di buio e
nient’altro.
Seppe
solo che qualcosa brillò nell’oscurità, che un verso
gutturale e grottesco ne riempì il silenzio, e che il dolore improvviso
al braccio si tradusse in un liquido denso che sentì a contatto con la
propria mano quando istintivamente la portò all’arto colpito.
Ed
infine, che Glen Baskerville stava sorridendo.
Note
Voglio morire. Questa è la frase che una ficwriter arriva a pronunciare in un momento di
disperazione, che può essere dato da vari fattori. Nel mio caso,
dall’immondo ritardo causa esami XD
Soprassediamo
e arriviamo al dunque.
La
frase in apertura (Nice to meet you, my pain)
è presa da un’immagine trovata per il web, tra l’altro a
sfondo Durarara!!
Mi
è piaciuta tanto che alla fine l’ho inserita come citazione di inizio capitolo *sisi*
Qui
non si vede la fine degli intrippi mentali della
trama, ma almeno avete visto l’inizio di qualche chiarimento XD
Passo
a rispondere alle recensioni:
Gioielle:
ogni volta
che tu tessi le lodi di Noah io vado in brodo di
giuggiole, ne sei consapevole, sì? XD
Purtroppo
ci sono volte in cui posso muoverlo fino alla nausea e volte in cui mi sparisce
totalmente (il lato negativo di aver messo troppa gente collegata alla trama
base 8D). Quanto alla tua analisi di Oz, posso solo dirti di continuare ad
analizzare, perché qualsiasi cosa io dica
finirei in un modo o nell’altro per spoilerare
qualcosa XD
Come
avrai visto, Oz ha fatto esattamente l’opposto di quanto detto da Sirjan
all’inizio: per quanto riguarda la persona vicina ad
Oz che si suppone nasconda qualcosa… no, non mi posso sbilanciare, ma
diciamo che qualche indizio vago è stato lasciato recentemente, e non
dico altro XP
Il
rapporto Sirjan-Oz è uno di quei rapporti che
si è sviluppato da solo: all’inizio non dovevano
affatto ritrovarsi così vicini, ma temo che con Alyster a fare da
“collante” alla fine fosse inevitabile.
Ti
ringrazio molto per i complimenti su Vincent (è uno di quei pg che
scrivo di getto, ma poi ho mille ripensamenti sul suo IC) e per la scena GilOz,
che so aspettavate tipo tutti da almeno 10 capitoli XD
Sul risvolto, come il rating stesso dice, non sarà approfondito
più di un certo limite (leggasi: niente lemon). Più che altro,
penso di poter impazzire se inserisco pure più romanticismo oltre alle
beghe di trama che mi ritrovo 8D
Yoko891:
donna, tu
risollevi il mio ego. *annuisce*
Ti
ringrazio per i complimenti riguardo l’essere riuscita a portare la trama
di ph (con dovuti accorgimenti per forza di cose), inquesta AU. Era uno dei miei
obiettivi, e sapere di esserci riuscita quantomeno finora mi ripaga dei mal di
testa che mi stanno venendo quando nel mezzo di una scena mi rendo conto di
sputtanare qualcosa che avevo già scritto – sì, succede
perché è tutto troppo intrippato.
Felice
che la GilOz
tanto attesa ti sia piaciuta, e della tua predilezione per Sirjan ormai
sappiamo tutto tutti quanti XD
Grazie
anche per i complimenti allo stile e tranquilla, sei perdonata
anche se commenti ogni due capitoli <3
Makotochan:
sì,
io ti ucciderò andando avanti così, ormai si è capito XD *patpat*
Vorrei
poter dire, in merito anche alla tua recensione al 15,
qualcosa come “visto? C’era una scena VinceGil!”,
ma considerando come si è svolta, non so quanto fosse adatta a
conciliare il cuore di una fangirl XD
Mi
ha fatto particolarmente piacere il commento riguardo la
descrizione dei sentimenti: purtroppo per me è sempre estremamente
drammatico descrivere i luoghi. Faccio fatica come autrice e come lettrice e
questo comporta che non mi ci sia mai applicata troppo prima di Rinnega, anche
perché è questa la prima esperienza di longfic
che faccio. Perciò sapere di riguadagnare terreno con le descrizioni
introspettive mi fa piacere <3
Il
lato oscuro di Oz è solo all’inizio (o almeno credo). So soltanto
che il moccioso mi sta dando delle grane non indifferenti *non capisce mai
quando lo tiene IC e quando no*
Prendo
nota e ti riconfermo per il fan club di Noah, eh? ù.ù
Fiamma
Drakon: ammetto
che, arrivata a rispondere alla 4^ recensione, non mi aspettavo che il dialogo Sirjan-Oz piacesse a tal punto. Temevo quasi di
appesantirvi, ma d’altronde non ci posso fare granché. Sono
esattamente 15 (o possiamo dire 16?) capitoli che vi riempio di
interrogativi e iniziare a spiegare serve. E di solito il personaggio a cui tocca l’ingrato compito ci rimette sempre, ma
sono lieta che – a quanto pare – non sia stato così :3
Non
saprei dire, infine, se la situazione stia migliorando: posso dirvi solo di non
riporre troppe speranze, ma di leggere capitolo per capitolo
– finché vorrete seguirmi – e prenderne quel che ne viene.
È un modo carino per dire che le beghe non son finite XD
Bacinaru: la tua recensione mi ha tolto dieci minuti di
autonomia cerebrale. Perché non importa che io sia l’autrice e che
ami questa longfic nel bene e nel male: non è
umano (in senso buono eh!) leggerla in due full immersion. Cioè,
è troppo persino per me che l’ho scritta X°D
Hai
tutta la mia ammirazione, oltre che gratitudine ovviamente <3
Sono
felice che la parte di Alyster sia stata chiara nei sentimenti che venivano espressi: come scrissi già una volta mi sa,
ci tenevo particolarmente. Tengo a tutto, scontato dirlo, ma parti come i
sentimenti di Alyster che rimangono leggeri e quasi taciuti per 13 capitoli, condensati in uno solo temevo non rendessero
l’idea, ma per fortuna ero in errore :3
Ti
ringrazio per i complimenti sullo stile, e spero che anche questo capitolo sia
stato di tuo gradimento ^^
NatsuVIII:
felice di
leggerti in recensione <3
Gilbert
dorme un po’ da piedi, ma c’è da dire che povero, Oz non
è proprio facile come persona da capire XD Vincent e il suo lato
bastardo imperano tanto per cambiare, ma sia mai che
questo in un modo o nell’altro dia anche una scossa a Gilbert (ormai
ribattezzato Monnalisa in sede di recensione xD)
Zai
è il personaggio che io più odio in tutto Pandora Hearts, e ho
idea che non si faccia molta fatica a intuirlo dal ruolo che gli ho dato anche
qui. Vedremo se combinerà ancora altri danni, o se basta così.
Spero
che anche questo nuovo capitolo ti sia piaciuto :3
Infine,
un grazie a tutti coloro che hanno letto e recensito
“Ciak, si gira!”: FiammaDrakon,
makotochan, NatsuVIII, nacchan, Gioielle, Yoko891, bacinaru
e Meimei <3
Capitolo 17 *** La verità che continui a cercare ***
Già
La verità che continui
a cercare
All’improvviso,
ho sentito un tremendo bisogno di piangere.
Sbatté un paio di volte
le palpebre, cercando di focalizzarsi non sul dolore che sentiva
all’arto, ma su quello che riusciva a distinguere in quel buio che gli si
parava davanti e che lo circondava.
Il sangue non sembrava uscire
in maniera così copiosa da far pensare ad una
ferita molto profonda o che potesse mettere in pericolo il braccio; tuttavia ne
usciva abbastanza da lasciar intendere che non fosse nemmeno un graffio che ci
si procura accidentalmente nella vita di tutti i giorni per distrazione.
Oz puntò lo sguardo di
fronte a sé e sulla figura di Glen Baskerville in piedi, ora che la
poltrona – come tutto ciò che fino a poco prima era stato nella
stanza – sembrava essere sparito.
L’uomo pareva completamente
a suo agio: lo sguardo freddo sul ragazzino di fronte a lui, alzò una
mano portandola a sfiorare qualcosa in un punto impreciso sopra la propria
spalla. Qualcosa che Oz non riuscì a distinguere subito, come se i suoi
occhi avessero ancora bisogno di abituarsi all’oscurità che senza
preavviso era calata lì.
Quando però
riuscì a scorgere con più chiarezza la figura dietro Glen,
rabbrividì: enorme rispetto alla persona dietro la quale si trovava, non
c’era nulla di umano. Somigliava – se proprio Oz avesse dovuto
descriverlo accostandolo ad una figura conosciuta
– ad un grifone di quelli che si vedevano nelle illustrazioni dei libri
antichi, spesso anche di ambientazione medioevale.
Gli occhi brillavano di una
luce sinistra e, così gli sembrava, maligna; tuttavia, Glen carezzava
proprio in quel momento le piume poco sopra il becco, come se quel bestione
fosse un animaletto domestico come un altro.
«Quello…?»
fece per chiedere Oz, senza riuscire a trovare qualcosa di razionale o
conosciuto nell’esistenza di una creatura simile.
Glen non perse il sorrisetto
divertito che aveva assunto all’apparizione di quella creatura, alla
quale rivolse uno sguardo veloce: «Jabberwocky. Una figura che mi
affianca ormai da diversi anni.» si
limitò a dare come unica spiegazione.
«Creatura affascinante,
non trovi?» lo incalzò quindi, come se all’improvviso e a
dispetto dell’indole sempre dimostrata nei confronti del biondo, avesse
avuto voglia di fare conversazione per passare un po’ di tempo.
Oz scelse saggiamente di
tacere per il momento: aveva la sensazione che, se avesse detto qualcosa di
particolarmente sgradito a Baskerville non solo non avrebbe avuto le risposte
che cercava, ma avrebbe rischiato molto più di
un taglio al braccio.
«Sai, devo ammettere che
sei dotato di una dose di sfortuna particolarmente abbondante.» riprese
Glen in tutta tranquillità, lo sguardo che era sulla creatura chiamata
Jabberwocky.
«Seguito dagli spiriti,
affiancato da persone che mentono e le poche sincere ti lasciano… come la
figlia dei Kolstoj.»
«Sai di Alyster?»
«Differentemente da
quanto sei portato a credere non sei il centro dell’esistenza di nessuno.»
lo interruppe freddamente portando lo sguardo scuro su di lui per una manciata di secondi, il tempo necessario ad estendere
quella freddezza anche agli occhi.
«Le cose accanto a te si
evolvono a prescindere dalla tua – perdonami – mediocre vita. E, se
proprio vogliamo esprimere un concetto chiaro e preciso, è certo che
siano più gli spiriti che non gli umani ad avvertire una vita che si
spegne. Al livello spirituale, certamente.» concluse.
Il tono era atono, per certi
versi forse anche annoiato, riflettendo la tediosità di un argomento che
viene spiegato per l’ennesima volta ad un
allievo particolarmente tonto o privo di intuito.
Oz in tutto quel discorso
trovò il tempo di formulare in un angolo della sua mente un pensiero che
non aveva granché a che fare con il discorso che il moro stava facendo
in quel momento: Glen Baskerville più parlava, meno gli piaceva.
Soprattutto, iniziava a chiedersi come fosse stato possibile che quella persona, di indole così cupa e diversa da quella di
Jack, fosse considerata da suo fratello addirittura il proprio migliore amico.
Tacque, tuttavia, e tenne per
sé quel pensiero; supponeva infatti che non
sarebbe stato particolarmente gradito.
«Dunque»
riprese Glen: «hai intenzione di trattenerti per molto, ancora?» lo
incalzò.
Parve che il poco interesse
nel fare due chiacchiere si fosse nuovamente spento
del tutto in lui. Oz assunse un cipiglio deciso: non era andato ad infilarsi in una presunta tana di spiriti –
peraltro abbastanza violenti – per noia o per fare da compagno di
chiacchiera a Glen Baskerville assecondandone i capricci del momento.
Anzi, se lo sarebbe volentieri
risparmiato se il problema fosse stato solamente quello.
«Quanto basta a
chiederti di mio fratello.»
«Non avevo sottolineato nel nostro primo ed unico incontro che non
gradisco affatto che ci si immischi nei miei affari?» sottolineò
Glen guardandolo.
Oz deglutì, ma
cercò di non farsi intimorire: «Sì,
ma sei l’unico che sembra possa darmi delle risposte. Il diario di mio
fratello lo dipinge come un assassino… ma non credo che sia tutto
lì. Ed in ogni caso Jack era mio fratello. Non
sono soltanto affari tuoi.» azzardò.
Non seppe cosa di quello che
aveva detto avesse attirato l’attenzione di Glen, ma fu chiaro dal
mutamento nel suo sguardo che doveva aver detto qualcosa di relativamente
importante.
Il moro tacque, per un lasso di tempo che ad Oz parve eccessivo, complice lo stato
di ansia misto ad aspettativa – e una certa dose di inquietudine e
soggezione – che lo animava in quel momento.
«Attento alle domande che poni.
Jabberwocky ti ha ferito una volta e ti assicuro, non esiterà a farlo di
nuovo.» gli fece presente, nel tono qualcosa di indecifrabile.
Oz, però, fu abbastanza attento da capire che
in quel monito vi era un permesso di parlare che sebbene riluttante, Glen gli
aveva accordato.
Sorpreso, cercò quasi
febbrilmente il modo migliore di chiarire i propri dubbi tramite lo spirito che
forse meglio di chiunque altro tra i vivi aveva conosciuto suo fratello.
«Jack…»
«…non era affatto un assassino. Non lo è mai stato e,
se anche fosse vissuto a lungo, non lo sarebbe mai diventato.»
chiarì in maniera quasi brusca il moro.
Oz, nonostante tutto se ne
sorprese: se c’era una cosa certa era che Glen
avesse dimostrato dal primo istante in cui gli aveva parlato tramite Elliot,
era il pessimo temperamento e il carattere assai discutibile che aveva. Se
questo fosse peggiorato dopo la sua morte o fosse sempre stato così Oz
non lo ricordava, ma dubitava seriamente – vedendolo e parlandoci ora
– che in vita fosse stato un uomo affabile, cortese e sorridente.
Questione di sensazioni.
«Allora perché
dice di averti ucciso?» chiese Oz a bruciapelo, portando gli occhi chiari
a fissare direttamente quelli scuri di Glen, cercando di non vacillare. Questi
aggrottò le sopracciglia, come se qualcosa per un attimo gli fosse
sfuggito.
«Perché tuo
fratello era uno stupido.» commentò laconico; di primo impatto,
dava persino l’impressione di stare insultando la memoria del suo
migliore amico. Ma ad Oz sembrò – non
sapeva bene perché, visto che non poteva certo vantare chissà
quale conoscenza di Glen Baskerville – che fosse uno “stupido”
bonario.
Come se non fosse stato
davvero un insulto pronunciato con cattiveria o con il chiaro intento di
offendere.
«Aveva la pessima abitudine di
colpevolizzarsi di ogni minima cosa che gli accadeva intorno. Sarebbe stato
capace di dire che quel giorno nevicava perché svegliandosi
aveva posato a terra il piede destro anziché il sinistro.»
chiarì senza che fosse richiesto.
Se non si fosse trovato nel
completo buio dove l’unica cosa visibile oltre Glen era quel grifone
gigante e se solo non avesse avuto la sensazione che muovendo un dito in
maniera errata gli si sarebbe potuto avventare contro
chissà cosa, magari Oz avrebbe anche ridacchiato.
Jack era… esattamente il
tipo di persona che Glen con quella frase aveva descritto con ironia bonaria.
«Non nego che nella mia morte
sia implicata la sua presenza. Ma in termini
strettamente fisici… io ho ucciso me stesso. Nessun altro è
colpevole di nulla.» concluse.
Oz cercò di analizzare
meglio che poté quelle sue parole; cercava di capire se ci fosse
qualcosa di preciso che avrebbe dovuto cogliere, quasi dovesse
obbligatoriamente esserci un indizio che potesse rivelargli più di
quanto non facesse la frase pronunciata.
«Perché ti
sei… tolto la vita?» chiese con cautela, quanta più
poté almeno.
Glen incurvò le labbra
nel sorriso sardonico che gli aveva già rivolto in precedenza: «Manchi
completamente di tatto, giovanotto.» lo apostrofò – e in
quel “giovanotto” sembrava esserci
più derisione per un’infantilità che aveva colto, piuttosto
che l’affetto dell’amico di tuo fratello che ti ha visto crescere.
«Ed io, peraltro, non sono
tenuto a risponderti. Quello che cercavi da me non era forse la conferma
dell’innocenza di tuo fratello? L’hai avuta. Ora vai, dunque. La tua presenza non è richiesta; e,
dopotutto, non è questo un luogo che si addica ai vivi.» concluse, l’espressione che – chissà
perché e dovuto a cosa poi – era tornata annoiata, priva di
interesse per qualsiasi cosa.
Oz si morse il labbro
inferiore.
Non poteva ancora andare via,
per quanto fosse pericoloso tentare la sorte con Glen e il suo presunto
animaletto da compagnia.
«Io non ho mai dubitato di
Jack. Sono stato stupito da quello che ho letto dal suo diario, è vero,
ma non ho mai pensato di mio fratello che fosse una persona cattiva. Lo
conoscevo e… e so che non avrebbe mai potuto uccidere nessuno. Quel
diario è… triste. Terribilmente. Ma non
solo per la malattia di cui Jack parla. È triste per Gilbert e Vincent,
anche se non so bene cosa temesse mio fratello. Era triste per me e la nostra
famiglia. E… sembrava triste per te.»
azzardò.
Sembrava, o così Oz
aveva colto, che nel parlare di Jack Glen tendesse ad ammorbidirsi quel tanto
che bastava a non minacciarlo né a tentare di allontanarlo con la forza.
Per cui sperava che, almeno
così, avrebbe avuto il permesso di continuare a parlare quanto serviva
per riuscire almeno a capire; notò Glen guardarlo con la coda
dell’occhio, e interpretò il suo silenzio come un invito a
proseguire, almeno per il momento.
«Jack si accusava di molte cose
nei tuoi confronti. Di averti mentito, o di pretendere troppo. Io non ho idea
di cosa intendesse, ma se c’è una cosa
chiara è che… Jack ti considerava esattamente come se anche tu
fossi stato della famiglia. Nonostante ti descriva come qualcuno di rango
superiore ai Bezarius, come una persona distante… tu eri il migliore
amico di mio fratello. Jack stava morendo. E una delle ultime cose che ha
scritto in un diario che forse pensava sarebbe andato
perso dopo la sua scomparsa… è stata la data della tua morte.»
continuò, facendo una breve pausa.
Nemmeno per lui era facile
parlare: condividere qualcosa di Jack, era stata una cosa che non aveva mai
fatto. Da quando era morto, di suo fratello in casa non si era praticamente più parlato.
Troppo presto un Oz bambino
aveva imparato che “non doveva parlare del fratellone davanti a
papà”; lentamente la morte di Jack era rimasta solo nella sua
testa, e giorno dopo giorno si era quasi torturato
ricordando tutto ciò che poteva del periodo in cui il primogenito dei
Bezarius era ancora vivo.
Lo aveva fatto da solo:
né con Ada, che avrebbe potuto ampliare la gamma di ricordi di cui
disponevano, né con Gilbert che non aveva più visto per diversi
anni.
Jack era stato un tesoro estremamente prezioso la cui esistenza era stata taciuta e
soffocata nella propria testa per tanti anni: un po’ per paura, un
po’ per il dolore.
Un po’ –
egoisticamente e infantilmente – per il timore che parlandone, quel
ricordo potesse svanire.
«Perché qualcuno
come te doveva…?»
«Solo perché non
ti viene data risposta, non significa che la domanda
non sia chiara.» lo interruppe Glen, freddamente ma apparentemente
abbastanza propenso a parlare. O a non cercare di farlo azzannare.
«Avvicinati.»
comandò, osservandolo e rimanendo in attesa.
Oz deglutì, senza
alcuna certezza che eseguire fosse la cosa giusta da fare; si avvicinò,
lentamente, senza distogliere lo sguardo dal moro.
Si fermò quando fu a
pochi passi da lui, in silenzio: Glen tacque a sua volta, osservandolo.
«Quando pensi a Jack,
quali sentimenti ti animano?» domandò
quasi a bruciapelo e, complice che fosse l’ultima domanda che si sarebbe
aspettato, Oz rimase imbambolato quasi.
«Non voglio una risposta ovvia.
Una verità per una verità.» lo anticipò
l’altro, ed Oz abbassò lo sguardo.
«…Sono arrabbiato.»
se ne uscì: «Quando penso a Jack
c’è… ci sono così tante cose che mi rendono debole,
da farmi rabbia. Ma soprattutto perché lui?
Era… giovane. So che razionalmente non è giusto pensare che la
morte per qualcuno sia “dovuta”e per qualcun altro no. So che
è così. Eppure Jack era giovane, era sempre stato bene e
all’improvviso, senza un motivo, una malattia lo porta via senza che
nessuno possa fare nulla. È così… frustrante. E so che
anche se non l’ho trovato giusto e vorrei vederlo… Jack non
c’è più. Proprio come Alyster, lui non c’è
più da nessuna parte. Non c’è nulla che io possa fare, non
esiste un modo per incontrarlo, non importa quanti anni io aspetti. C’è
solo quello che ricordo e fa solo male.»
pronunciò, il tono basso, che forse nonostante il suo impegno tremava un
po’.
Svelarsi a Glen non era
geniale.
Nulla gli garantiva che quella
risposta andasse bene, né che ci fosse effettivamente una
“risposta giusta”; a maggior ragione, non aveva nessuna sicurezza
che ora, toccato dal suo discorso Glen avrebbe risposto alla sua domanda
– sempre ammesso che ne avesse mai avuta l’intenzione.
Avvertiva il suo sguardo,
senza però una sensazione particolare con esso: non avvertiva freddezza
né dolcezza, non c’era irritazione ma nemmeno benevolenza.
«Non c’è
solo il ricordo.» lo corresse: «Quando
pensi a Jack, lo ricordi. Da quel punto in avanti, c’è soltanto la
tua disperazione.» aggiunse, tacendo qualche
istante.
«Una disperazione così
buia che un abisso qualsiasi non reggerebbe il confronto. Quella è una
delle due possibilità per chi rimane in vita. L’altra,
perché tu lo sappia, è dimenticare ogni giorno quello che la
causa, ricordandolo forse in un anniversario di morte finché persino
quell’unica volta perderà di significato.» concluse, forse cinicamente, ma Oz sentì di capire in
qualche modo cosa intendesse.
Glen si mosse, dunque,
ripristinando la distanza fra loro come se non avesse mai chiesto al biondo di
avvicinarsi a lui; si sedette – su cosa, con tutta
quell’oscurità, Oz non avrebbe saputo dirlo – e portò
nuovamente la mano a sostenere il volto.
Sospirò, e ad Oz parve stanco quasi; Jabberwocky era fermo ed immobile,
come se la lontananza del suo presunto padrone significasse per lui
l’immobilità assoluta.
«Io non avrei potuto
dimenticare. Non vi ero riuscito, con Jack sarebbe stato un tentativo
altrettanto inutile.» spiegò senza riserve, almeno in quel caso: «Per
contro, la disperazione di cui entrambi siamo ancora a conoscenza era stata mia
compagna già abbastanza a lungo perché io ritenessi impossibile
convivere da solo con essa ancora per molti anni.»
aggiunse infine con un sospiro leggero che sfuggì appena fra le labbra,
i capelli scuri che coprivano parzialmente il volto ora.
Oz lo osservò e
parlò prima che il buon senso o qualsiasi altra cosa potessero fermarlo.
«Prima di Jack avevi
già perso…» voleva dire “qualcuno”, ma il
collegamento mentale – benché non confermato da nulla in
realtà – fu istintivo, totalmente: «…Lacie era una
persona?» sputò fuori quasi, in un misto di sorpresa,
consapevolezza e qualcosa di contrastante con tutte le sensazioni che aveva
avuto da quando stava fronteggiando Glen.
La prima cosa di cui prese
coscienza il biondo, fu la propria schiena che cozzava violentemente contro la
parete – o almeno supponeva che fosse quella.
In sequenza, dopo di essa, ci fu il fiato caldo e pesante di Jabberwocky pericolosamente
vicino al suo corpo e il gelo dello sguardo di Glen addosso mentre lui perdeva
fiato per un istante a causa del contraccolpo e tossiva l’attimo dopo.
«Non tornare mai più in
questo luogo. La prossima volta non ti sarà risparmiata la vita.» pronunciò Glen, glaciale, senza scostare lo
sguardo da lui.
«Non lascerò che nessun
altro interceda per te una seconda volta: né il patto di non aggressione
agli umani con l’erede dei Kolstoj, né altro. Non avvicinarti mai
più a questo posto. Giacché non sei Jack, per me la tua vita non
ha il minimo valore.»
Richiuse la porta, facendogli
cenno di accomodarsi dove preferiva.
Sirjan mantenne per qualche
istante lo sguardo sul docente, prima di eseguire e sedersi su una poltroncina;
Break lo imitò in breve, mentre Rufus Barma rimaneva in piedi, lo
sguardo sul ragazzo.
Sirjan non attese di essere
incalzato né altro, e parlò direttamente, il tono calmo che lo
aveva sempre contraddistinto: «Mi dispiace per l’ora tarda, ma ho
pensato fosse importante abbastanza da comunicarvelo il
prima possibile.» esordì, suscitando quasi subito la
curiosità di Break.
Sirjan solitamente non aveva
mai rapporti così urgenti sugli studenti, perciò quello poteva
considerarsi un episodio più unico che raro; annuì leggermente,
per incalzarlo a proseguire.
«Non vengo come capo
dormitorio.» aggiunse il più giovane, destando stavolta anche
l’attenzione di Rufus. Se Sirjan non veniva come tramite fra gli studenti
e i docenti, significava che l’unico altro ruolo che poteva ricoprire in
quel momento era quello di erede dei Kolstoj.
Barma tacque: aveva idea che
averlo lì in quella veste non fosse proprio una cosa di cui essere
lieti. Conosceva quel ragazzo da abbastanza tempo da intuire che non fosse per
complimentarsi con loro, quel colloquio richiesto quasi frettolosamente.
«Arriverò velocemente al
punto. Le cose stanno andando in un modo tale che, fra poco, rischio di essere
costretto ad intervenire.» chiarì da
subito il soggetto principale della questione, senza aspettare cenni o altro,
ma proseguendo per proprio conto.
«Non mi
interessa se cercate la verità per vostro diletto o altro. Dal momento che è ben difficile ottenerla non mi
preoccupa, e d’altronde nulla nelle regole della mia famiglia mi impone
di far sì che le persone non cerchino di scoprire qualcosa. Io devo
custodire delle informazioni. Diciamo quindi che, in linea di massima,
finché rimanete in una posizione “innocua”, i vostri
movimenti non mi interessano.» spiegò
più chiaramente possibile.
Break sorrise, un incurvarsi
di labbra fra il divertito per aver smosso addirittura l’erede dei
Kolstoj e quello di chi è stato beccato in flagrante con un infantile
“ops” a palesarlo.
«E quindi sei qui
perché…?» lo incoraggiò a proseguire, anche sfacciatamente
da un certo punto di vista.
Sirjan puntò lo sguardo
su di lui, mentre Rufus sospirava appena seccato – quell’idiota di
Xerxes non avrebbe mai imparato a fare l’adulto a suo avviso.
«Sono qui perché
state sfruttando uno studente, l’unico che ho
l’obbligo di allontanare dalla verità peraltro, per i vostri
comodi. Vi sto avvisando che, se doveste continuare, io non potrò
intercedere per nessuno e dovrò mettermi di mezzo.»
replicò, serio.
Break fischiò
d’ammirazione: «Oh-oh,
questo sì che è preoccupante. Non ti ho mai visto intervenire
come Kolstoj, non ho avuto questo piacere lo ammetto.»
commentò, ma non sembrava davvero preoccupato, né prenderlo
troppo seriamente.
Sirjan accigliò appena
lo sguardo, più che infastidito come se gli sfuggisse qualcosa del suo
interlocutore.
Il docente mantenne lo sguardo
su di lui, con la stessa espressione quasi beffarda: «Lungi
da me infierire sull’argomento o manipolarlo, Sirjan, ma non sarà
che stai prendendo Oz in simpatia? O sotto la tua ala protettiva? Perché
vedi, mi sarei fatto un’idea in proposito.»
buttò lì quasi casualmente, Rufus che abbassava lo sguardo verso
di lui come se non capisse per primo dove l’altro stesse andando a
parare.
Sirjan stesso non mutò
particolarmente espressione, limitandosi ad un: «Sarebbe?»
«Sarebbe che in fondo a te,
delle sorti di Oz Bezarius, non è mai interessato granché. Non
è un’accusa, bada bene: dopotutto tu non sei la balia di nessuno,
il ruolo è un altro e non hai l’obbligo di proteggere qualcuno che
continua ad immischiarsi nella verità che devi
nascondere, giusto?» incalzò, ma non ne attese la risposta –
era chiaramente una domanda retorica.
«Dunque mi stupisco di questo
improvviso, mh… attaccamento? Riguardo? Chiamalo come preferisci. Mi sono
fatto l’idea che forse ti senti in dovere perché Alyster lo aveva
preso in simpatia. Ma è solo una supposizione,
chiaramente.» aggiunse l’ultima constatazione quando, in un
movimento veloce e quasi impercettibile, Sirjan lo aveva bloccato sulla
poltrona, la mano pericolosamente vicina al collo del docente.
Il ginocchio faceva perno su
un lato della poltroncina, e il corpo era proteso in avanti;
l’espressione del viso, nonostante i lineamenti non fossero sfigurati
palesemente da rabbia e irritazione, risultava
inquietante: se Oz l’avesse vista, di certo gli avrebbe ricordato quella
spaventosamente disgustata e piena d’odio che aveva intravisto quando
Sirjan aveva fronteggiato Cheshire.
Break non mosse un muscolo,
non mutò espressione a sua volta, né ritrattò quanto
detto.
«Non mi stupisco che
dall’alto della tua indole meschina, piuttosto famosa aggiungerei, osi
mettere di mezzo il nome di mia sorella. Ti consiglio di non farlo una seconda
volta. Ti piaccia o meno, qui ho più potere di
te, signor professore. E ti ricordo anche che, nonostante tu faccia finta di
nulla, devi a me di avere ancora almeno un occhio funzionante. O quasi.»
mormorò piano, il tono gelido.
Rufus non si mosse per
fermarlo: sapeva a cosa Sirjan alludeva – all’incidente di qualche
anno prima con Cheshire, in cui Break aveva quasi perso entrambi gli occhi, uno
dei quali era salvo solo grazie all’intervento
di Sirjan in quell’occasione. Anche se, comunque, la vista di Break da
quell’unico occhio stava peggiorando considerevolmente col passare del
tempo.
«Quindi, lascia che io concluda il monito per cui sono venuto a quest’ora.»
riprese il più giovane senza muoversi dalla sua posizione attuale: «Smetti
di ficcanasare. O, se proprio ci tieni, smetti di usare Oz Bezarius. Ci siamo
intesi?» pronunciò, spostandosi quindi e
tornando in posizione eretta, senza sedersi di nuovo però.
Break, l’espressione
indecifrabile, incurvò labbra in un sorriso che risultò
più seccato che altro: «Ecco perché odio i ragazzini
saccenti.» commentò solamente, ma Sirjan parve leggervi la
risposta che voleva sentire.
Si mosse quindi verso la
porta, senza aggiungere altro, facendo per uscire; fu Rufus a fermarlo: «A prescindere da quello che facciamo, quel ragazzo
finirà in mezzo alla verità che tanto vuoi allontanare da lui,
non importa quanto impegno ci metterai. Lo sai, vero?»
lo interrogò.
Sirjan si voltò: «Se succederà, sarà perché ci
arriverà da solo. Perché ti assicuro che né Jack né
Glen Baskerville, sono interessati a metterlo in mezzo ad una questione che
è morta insieme a chi vi era invischiato. E non
si tratta né di un segreto di Stato, né di qualcosa che potrebbe
salvare o distruggere il mondo. È solo il segreto di due persone, forse
tre, che ormai non ci sono più. Si tratta solo di far soffrire o meno le persone che sono rimaste in vita.» fece
presente, parlando chiaramente, sincero come per il suo ruolo era in poche
occasioni.
Abbozzò un sorrisetto
enigmatico: «Ma questo istinto di protezione, non pretendo
che voi lo capiate. Buonanotte.»
pronunciò, richiudendo la porta dopo essere uscito.
Era da poco passata
l’ora di cena, quando Oz si alzò dal tavolo dove aveva mangiato
con la solita compagnia: anche se Noah non aveva preso il discorso a tavola,
era quasi certo che avesse raccomandato ad Alice e Marcus di non toccare
l’argomento “litigio” mentre erano a cena.
Aveva apprezzato la premura e
aveva mangiato tranquillamente, parlando di argomenti leggeri e ridendo di uno
dei tanti aneddoti del suo compagno di stanza – supponeva che non si
sarebbe mai annoiato ad ascoltare le imprecazioni dell’amico contro la Barma, perché aveva
una fantasia tale che non suonavano mai ripetitive.
Aveva cercato di non guardare
verso Ada, al tavolo con i compagni di anno; piuttosto aveva tenuto
d’occhio, sebbene con discrezione per evitare di farsi notare proprio dalla
sorella, Elliot.
Al tavolo con i fratelli e Reo
come al solito, aveva aspettato che si alzasse e che
varcasse la soglia della mensa. E ora, si era appena congedato da Noah e gli
altri – devo dire una cosa ad Elliot, ci vediamo dopo in stanza Noah, aveva detto,
uscendo quindi anche lui.
Si mosse veloce, occhieggiando
nell’atrio per ritrovare la figura del più giovane dei Nightray,
riuscendo fortunatamente ad inquadrarlo prima che
sparisse fuori dalla porta dell’ingresso principale.
«Elliot!»
chiamò per attirarne l’attenzione, riuscendovi senza
difficoltà; il castano si voltò, l’aria interrogativa che
assunse forse un’aria perplessa quando
notò chi l’aveva chiamato. Si fermò comunque – meglio
che voltarsi e tirare dritto fingendo di non averlo sentito, almeno… -
rimanendo in attesa, Reo al suo fianco.
Oz li raggiunse, rispondendo
con un sorriso all’incurvarsi di labbra amichevole
di Reo; passò lo sguardo su Elliot che, una mano sul fianco, sembrava in
attesa di qualsiasi cosa Oz dovesse dirgli per poter tornare alle proprie
occupazioni.
Il biondo tentennò: «…hai
un po’ di tempo?» borbottò. Non che fosse particolarmente a
disagio con Elliot – l’ultima volta che avevano parlato non era
andata così male, perciò forse potevano avere un rapporto almeno
da civili compagni di scuola.
Elliot parve sulla difensiva,
come se non capire dove Oz volesse andare a parare lo facesse sentire in
qualche modo vulnerabile: «Stavo andando a prendere gli spartiti per
tornare a suonare nell’altro edificio.» replicò, lasciando
che il biondo valutasse se quanto doveva dirgli
avrebbe richiesto più o meno tempo da essere compatibile con la cosa.
Oz
sembrò pensarci su qualche istante, dopodiché rivolse
all’altro uno sguardo deciso: «Posso venire ad ascoltarti?»
chiese, con l’agitazione di un bambino che emozionato chiede di poter
osservare da vicino un suo beniamino – sebbene celata nella voce: aveva
pur sempre una dignità da difendere, con Elliot.
La reazione di Elliot fu
inaspettata, almeno per lui: sgranò appena gli occhi dalla sorpresa,
nonostante ci fu un palese tentativo di non darlo a vedere. Dopodiché
– Oz fu certo di scorgerlo complice l’illuminazione del giardino
dell’istituto – ci fu un rossore imbarazzato leggero ad imporporare le guance del castano.
Assunse però quasi
subito un’espressione seccata, stizzita, voltandosi dall’altra
parte: «Tsk, fai come ti pare se hai tanto tempo da perdere!»
sbottò, iniziando ad avviarsi.
Oz rimase fermo per qualche
attimo, stupito, cercando quasi una conferma in Reo che sorrise con fare
complice prima di avviarsi al fianco di Elliot, invitando il biondo a fare lo
stesso con un cenno del capo.
Aveva ascoltato Elliot
suonare, per quanto non lo sapeva.
Ma, dal
momento che guardando dalla finestra le luci dei dormitori risultavano
quasi tutte spente, Oz aveva supposto che si fosse trattato di ore. Almeno due.
Era rimasto in silenzio, senza
dire nulla ad Elliot; aveva atteso seduto vicino alla
finestra dell’aula di musica, il gomito poggiato al davanzale, lo sguardo
fuori che non aveva osservato nulla di particolare.
Aveva ascoltato ogni brano che
il castano aveva suonato, quasi tutti senza imperfezioni; aveva ascoltato Lacie, dapprima suonata da sola e poi a
quattro mani – cosa che lo aveva portato a spostare l’attenzione e
lo sguardo verso il centro della stanza, dov’era il pianoforte, per
notare Reo seduto al fianco di Elliot che suonava con lui.
Se ne era un po’
stupito, perché non sapeva né aveva sospettato che anche Reo
suonasse il piano: tuttavia l’effetto che ottenevano
insieme era bello, e piacevole all’udito.
Perciò ora ascoltava,
ancora in completo silenzio, la melodia che insieme stavano
facendo giungere al termine.
Fu solo quando le note si interruppero sfumando nel silenzio della stanza e il
sospiro di Elliot fu l’unica cosa che le seguì che Oz
parlò; con un sorriso ammirato, si rivolse a Reo: «Sei bravo, non
sapevo suonassi anche tu.» esternò la considerazione fatta
mentalmente.
Reo stava per dire qualcosa,
probabilmente un ringraziamento per il complimento di Oz, ma
Elliot lo interruppe parlando per primo.
«Insomma, cosa
c’è?» se ne uscì, agitato a quanto
si coglieva dal tono di voce appena impaziente: «Non penso proprio che tu
sia venuto qui per ascoltarmi suonare due ore di fila.» commentò
eloquente.
Solo per essere smentito pochi
istanti dopo; Oz abbozzò un sorrisetto, l’indice che sfiorò
la guancia in una movenza un po’ infantile ed
impacciata: «A dire il vero a me piace ascoltare quando suoni.»
fece presente, come se avesse pensato che fosse ovvio e si fosse invece
ritrovato a dover spiegare qualcosa che dava per scontata.
Ciò che accadde dopo fu
una reazione prevedibile, ma anche la condanna a morte dell’orgoglio di
Elliot Nightray; il castano arrossì, anche se non vistosamente
abbastanza da essere visibile. Imbarazzato, ribatté con uno sgarbato: «Non
prendermi in giro, nano!» rivolto ad Oz.
Il biondo lo fissò
dapprima sorpreso e poi, cercando di trattenere una risata.
Senza un vago successo, tra
l’altro.
Ma la vera rovina di Elliot,
fu che nel momento in cui Reo aprì bocca fu
chiaro da che parte stava: e non era quella dell’erede dei Nightray.
«Perdonalo Oz, Elliot si imbarazza facilmente quando si complimentano riguardo il
pianoforte.» fece, placido, neanche fosse la madre del castano e ne
stesse scusando l’indole burbera; l’interessato non fece in tempo a
dire nulla, che il biondo lo precedette: «Oh, davvero? Ma
non dovrebbe sentirsi in imbarazzo! È una sua peculiarità, no?» fece eco, rivolgendosi al moro come se Elliot non
fosse nemmeno presente nella stanza.
«Concordo, ma sai, è di indole timida.»
«Più che timida,
è un po’ scorbutico… o dici che è per nascondere la
sua anima gentile e fragile?»
«Mh… è un punto di
vista interessante. In effetti, quando era piccolo e Padron Gilbert
era appena arrivato a casa, Elliot per ammirazione lo trattava veramente male.»
«…Ma che modo di ammirare sarebbe?»
«Credo si tratti
di—»
«La volete piantare?!» sbraitò Elliot, interrompendoli bruscamente
e dando uno scappellotto – neanche tanto leggero – ad Oz, lanciando
invece un’occhiataccia a Reo che, con perfetta calma e compostezza
accompagnate da un sorriso leggero commentò con un: «Elliot,
questo non è un po’ eccessivo?» indicando il punto colpito
dal castano.
Mentre Oz si massaggiava la
parte lesa, Elliot riempiva la stanza con la sua voce decisamente
poco soave, rivolgendo al servitore un: «Mi sfotti con quel nano biondo e
poi vieni a dire a me che sono eccessivo?!»
Reo ridacchiò, senza
replicare – cosa che, effettivamente, non fungeva da calmante sul
castano.
Elliot fece schioccare le
labbra in un verso stizzito, tornando su Oz: «E
quindi? Hai anche litigato con tua sorella perché dovevi parlarmi e lei
non voleva, giusto?» tirò in ballo, senza
la minima parvenza di tatto che fu accolta da un sospiro del moro al suo
fianco, senza commenti stavolta.
Oz sgranò appena gli
occhi, quasi lo avesse dimenticato, sfruttando la
musica di Elliot per trascurare almeno un po’ il discorso che avrebbe
voluto affrontare con lui.
Nonostante la mente fosse
piena ancora della voce e delle parole di Glen Baskerville, questo non gli
aveva permesso di accantonare completamente il discorso fatto con Break e
soprattutto la rivelazione che il docente gli aveva fatto volutamente.
«Ho parlato con una
persona.» iniziò, prendendola un po’ alla larga forse, ma
nemmeno lui sapeva esattamente come porre la domanda. Ma
capì un po’ dall’occhiata di Elliot – mentre questi si
sedeva nuovamente incrociando le braccia al petto – un po’ da solo,
che tirarla per le lunghe di certo non lo avrebbe ben disposto, né
avrebbe agevolato il discorso o lo stesso Oz.
Perciò sospirò,
come a cancellare quelle prime parole e a ricominciare da capo.
«Elliot, vorrei parlare
con te di Glen Baskerville.» disse, il tono deciso a non lasciar perdere il discorso anche se l’altro si fosse
dimostrato ostico nel portarlo avanti. Gli occhi chiari si soffermarono su di
lui, quasi a volergli dare il tempo di assimilare l’argomento e al tempo
stesso spiandone la reazione.
Contrariamente a quanto si era
aspettato forse, Elliot non fece nulla di particolare: tacque, ricambiando lo
sguardo come se fosse in attesa del resto del discorso per
poter decidere se rispondere o meno. Reo lo guardava portando l’attenzione ora su uno, ora sull’altro.
«E cos’è che
vorresti sapere da me? Non sono né un lontano parente, né
qualcuno che ne abbia studiato la storia come se fosse
un personaggio famoso.» gli fece notare, una nota stizzita nel tono di
voce che usava per parlare in quel momento. Oz non deviò lo sguardo,
rimanendo serio: «Ma sei stato tu che lo hai trovato.»
rimbeccò.
Sapeva che non era il modo
migliore di prendere l’argomento; immaginava che, se davvero Elliot lo
aveva trovato da bambino, la cosa doveva essere stata a dir poco
traumatizzante.
Un ragazzino che trova un
cadavere in una pozza di sangue sarebbe stato uno spettacolo discutibile
già per un adulto, figurarsi nel caso del castano. Però Oz aveva
perso la lucidità per analizzare le situazioni, per pensare ad una qualsivoglia strategia che potesse portargli
più informazioni possibili.
Era solo stanco e,
infantilmente, voleva trovare presto delle risposte.
Voleva solo sapere che suo
fratello, come aveva sempre creduto d’altra parte, era un ragazzo normale
che era morto sì in giovane età, ma senza essere messo in mezzo a
nulla di strano.
Dopodiché,
egoisticamente, di cosa fosse accaduto a Glen Baskerville o al perché si
fosse ucciso non era interessato; se non sfiorava in
qualche modo la memoria di suo fratello, allora non era nulla che lo
riguardasse.
Anche la questione degli
spiriti che sembravano dimorare a Latowidge, avrebbe perso di
importanza se soltanto non avesse più volte finito con
l’incrociarli nella ricerca della verità.
Elliot non gli sbraitò
contro. Assunse un’espressione che Oz non gli aveva mai visto, piuttosto:
un sorriso leggero, mesto e amareggiato come se avesse ricevuto una grossa
delusione e stesse deridendo se stesso per essere stato così sciocco da
credere a quel qualcosa che ora si rivelava tutt’altro.
«Alla fine, quindi, non sei
diverso da tutti gli altri. Anche tu vieni,
incuriosito chissà perché dall’idea di un ragazzino che
trova un cadavere. Pensi che sia stato divertente, immagino, o almeno degno di
attenzione. Allora va bene, ti accontento. Tu e la tua schifosa
curiosità.» esordì, parole dure e
piene di disgusto.
Probabilmente, pensò
Oz, molti adulti allora dovevano aver indagato sulla cosa sottoponendo Elliot
allo stesso racconto per chissà quante volte.
Però voleva chiarire che
ciò che voleva sapere, non era quello che Elliot stava certamente
immaginando in quel momento.
«Vuoi sapere cosa, mh? Quanto sangue
c’era? Molto. Più di quanto tu possa immaginare sul cadavere di
una persona. O vuoi sapere com’è morto materialmente?» lo
incalzò, senza però dargli tempo di rispondere ponendo domande a
sua volta: «C’era una spada. Si è trafitto con una spada,
ecco com’è morto ed ecco il perché di tutto quel sangue. E
se vuoi sapere com’era, era come qualsiasi altro defunto sulla faccia
della terra: era pallido, era immobile e sembrava che dormisse. Ma questo tu
non dovresti forse saperlo meglio di me?» insinuò, forse
crudelmente a giudicare anche dalla mano di Reo che andò a posarsi sulla
sua spalla in un tacito monito riguardo le sue parole.
«O forse vuoi sapere
com’è stato trovarlo? È stato uno schifo. C’era
puzza, avevo la nausea, ed era uno spettacolo che mi sarei risparmiato a dir
poco volentieri, ecco com’è stato!» sbottò, alzandosi
in piedi istintivamente, quasi ad enfatizzare le
parole.
Oz aveva abbassato lo sguardo,
e le prime parole che scivolarono fra le labbra suonarono probabilmente
incoerenti con la sua decisione a volerne sapere di più.
«Ti chiedo scusa.»
pronunciò, il tono basso che risultava udibile
solo per il silenzio che aveva nuovamente riempito la stanza dopo le ultime
parole dell’altro: «Hai ragione. So meglio di te che aspetto ha una
persona morta. E so che vederlo da bambini non è
affatto divertente.» aggiunse, come a fargli notare che anche nel
suo caso se lo sarebbe volentieri risparmiato.
Anche se la situazione di Jack
era stata molto diversa, di certo meno traumatica visivamente.
«Però
io non volevo ficcanasare su questo.» chiarì Oz, portando
nuovamente lo sguardo su Elliot, sincero: «Quello che volevo chiederti
è… come mai lo hai trovato proprio tu, ad esempio. Di tante
persone che probabilmente lo circondavano, come la servitù, lo hai trovato
tu. In casa Baskerville.» puntualizzò.
Era strano che proprio il
figlio minore dei Nightray trovasse morto l’erede di un’altra
famiglia in un giorno qualsiasi; il problema era che qualsiasi altra
supposizione sfiorava il surreale.
Elliot era un ospite abituale
dei Baskerville? Difficile. Non c’erano bambini della sua età che
lo giustificassero e dubitava che Glen avesse l’indole tipica di chi ama
giocare con un ragazzino tanto più piccolo di lui.
Glen si era ucciso con i
Nightray in casa? Bizzarro. Dubitava si fosse suicidato per qualunque cosa
avesse portato la famiglia di Elliot alla tenuta dei Baskerville quel giorno,
perciò era difficile che fossero stati loro la
causa scatenante. E – ma era qualcosa di azzardato, perché non
conosceva Glen a tal punto – era sconveniente togliersi la vita con degli
ospiti quando appartenevi all’alta società.
Significava fare
volontariamente della propria morte uno scandalo.
Elliot era lì per puro
caso? …sembrava assurdo pensare ad una
casualità da qualche tempo a quella parte.
Non esternò tutte
quelle ipotesi che aveva fatto, ma rimase in attesa di
una risposta da parte dell’altro; il castano, per contro, sembrava
confuso. Come se non si fosse aspettato quella fra
tutte le domande possibili, e come se non sapesse nemmeno bene come rispondere.
Alla fine sospirò,
portando una mano a scompigliare leggermente la zazzera castana, in un gesto
che Oz non gli aveva mai visto fare – insomma, era molto più da
Noah che da Elliot, tanto per essere chiari.
«Io non è mi ricordo
granché di Glen Baskerville a dirla tutta. Ero un bambino. Mi ricordo
solo che non era proprio raro che andassimo alla loro tenuta. Qualche volta era
il padre di Glen a venire da noi, ma in quei casi il figlio non c’era
mai. Anche quando siamo andati da loro, l’ho incrociato pochissime volte
e ho un ricordo molto vago. Perciò non è che
avessi chissà quale profondo rapporto con lui. Per la verità
erano i nostri padri che avevano a che fare l’uno con l’altro.
Questioni amministrative suppongo.»
spiegò, un po’ a disagio, il tono di voce quasi stanco.
Oz ne fu colpito
perché quel tipo di stanchezza, gli ricordò in qualche modo la
propria: non di tipo fisico, quanto più l’essere stanchi di una
situazione e di qualcosa che evidentemente – sebbene non la stessa
– affliggeva Elliot da tempo sufficiente a rendere la cosa mentalmente
spossante.
«Semplicemente è
successo. Sono entrato in quella stanza… non so perché. E
c’era Glen Baskerville steso per terra in un
pozza di sangue e la spada che non so cosa fosse, forse un cimelio di famiglia,
che aveva procurato la ferita. Non mi ricordo granché più di
questo.» concluse Elliot, asciutto, lo sguardo
su un punto impreciso del pavimento.
Oz tacque a sua volta,
cercando di fare ordine nella propria mente innanzitutto.
Se era davvero tutto lì… allora non c’era modo di venirne a capo: Glen
Baskerville era stato chiaro, non avrebbe detto nulla di più e anzi ad
un prossimo incontro non sarebbe andata di lusso come quel primo che
c’era stato. Altri – viventi – non sapevano nulla.
E Jack non era di certo
interpellabile.
…Se avesse sostenuto di
non averci mai pensato, alla possibilità che Jack potesse essere uno
spirito esattamente come si era rivelato Glen, Oz avrebbe mentito; però
lui cercava volutamente di non prendere la cosa in considerazione. Non si
trattava di mancanza di affetto verso suo fratello, piuttosto il contrario
forse.
Parlare con Sirjan era stato
quasi illuminante per quanto triste e in una situazione tale – dopo la
morte di Alyster – in cui avrebbe dovuto fare più male che altro.
Sirjan, per quanto di certo
avrebbe desiderato riavere la sorella con sé, aveva continuato ad
affermare di non desiderare nuovamente rivederla se avesse significato fare di
lei uno spirito. Questo perché gli spiriti erano animati da sentimenti
che li incatenavano quasi; e il pensiero che fossero
qualcosa dalla quale non avrebbe mai potuto difendere Alyster nemmeno volendo,
era qualcosa di insopportabile per lui.
Oz si era ritrovato
perfettamente d’accordo: immaginare Jack costretto a vagare ancora fra i
vivi, afflitto dalla tristezza o dal dolore, era qualcosa di molto simile ad un
incubo. Specie per chi come lui, nonostante tutto, conservava il ricordo di un Jack che sorrideva con dolcezza com’era solito fare
alle persone a cui voleva bene.
«Ho incontrato Glen
Baskerville.» disse, senza sapere bene nemmeno lui perché.
Non alzò subito lo
sguardo su Elliot e Reo: era cosciente del fatto che a chiunque
quell’affermazione sarebbe suonata assurda. Probabilmente anche a lui
stesso, se non l’avesse vissuta in prima persona. Il silenzio aleggiava
nella stanza senza che nessuno dei tre dicesse nulla; quando Oz alzò lo
sguardo per capire quale reazione ci fosse stata dall’altra parte –
derisione, incredulità, sorpresa – vide le mani di Elliot tremare
leggermente. Di rabbia, pensò, ma dovette ricredersi.
Lo sguardo che il castano gli
rivolse, infatti, Oz lo definì istintivamente “perso”; come
se avesse appena smentito le certezze dell’altro.
«Che significa che
hai… incontrato Glen Baskerville?» chiese Elliot, cauto.
Oz si rese conto che,
effettivamente, poteva sembrare che la frase si riferisse al passato, quello in
cui Glen era vivo e non uno spirito.
Si demoralizzò,
perse coraggio.
Ma, inaspettatamente, Elliot
parlò nuovamente – dal tono e dallo sguardo sembrava non crederci
nemmeno lui: «Tu… lo hai visto di recente.» mormorò
come se dirlo ad alta voce potesse avere chissà quali ripercussioni. Oz
cercò di capire in base a cosa lo stesse
affermando, ma non vi riuscì del tutto; tuttavia annuì
lentamente.
Elliot sembrò
sciogliersi in un sospirò prolungato: portò una mano sulla
propria fronte, e ad Oz parve ancora più stanco
di prima.
«Da quanto lo incontri? Questa
è stata la prima volta?» chiese, senza
portare lo sguardo su di lui per il momento.
Oz scosse la testa: «La seconda. La prima è stata quando eravamo in
corridoio e ti ho detto che avevi avuto un mancamento o qualcosa del genere.» rivelò.
Elliot lo fissò basito
stavolta: «Che cosa?!» esclamò «In
quell’occasione è apparso Baskerville?!» chiese, brusco. Oz,
pur sapendo che non fosse la cosa ideale da dirgli visto il panico dilagante,
si lasciò sfuggire istintivamente: «Più che apparso ti
ha… mh, posseduto?» ipotizzò.
Elliot mutò
l’espressione in quella di chi sta seriamente per esplodere: «Senti
un po’, ma tu lo sai cos’è il tatto?!»
sbottò fissandolo.
«No, ma sono in
compagnia, fidati!» ribatté a tono il
biondo, riferendosi chiaramente all’altro.
Elliot stava per replicare a
sua volta quando Reo li interruppe con uno scappellotto ad
entrambi: «Smettete di litigare, questo è un discorso serio.»
disse, passando lo sguardo dall’uno all’altro. Oz si
massaggiò la testa – nonostante il colpo non fosse stato
fortissimo, chiaramente – ed Elliot sospirò seccato.
«Ascolta» prese la
parola Oz prima di essere battuto sul tempo dal
più grande: «perché Glen dice che per lui parlare tramite
te ed avere il controllo sulla tua mente è più facile che con
chiunque altro?» domandò forse a bruciapelo, e senza il minimo
tatto come aveva sostenuto il castano. Però, per come erano
andate le cose e a giudicare dalle sue parole, Elliot era l’unico a
sapere qualcosa in più e di conseguenza Oz non poteva permettersi di
avere scrupoli nel fare domande.
Elliot parve colpito dalla sua
richiesta e alla fine sembrò cedere: «Ti dirò quello che vuoi
sapere, ma tu dovrai fare lo stesso.» pose come condizione, alla quale Oz
acconsentì con un cenno del capo, l’espressione seria.
Elliot sospirò: forse,
non era facile nemmeno per lui.
«È perché la mia
menta è predisposta, diciamo così. O almeno credo.» esordì
il castano: «Dopo averlo trovato in quella stanza… per molto tempo,
crescendo, ero riuscito a rimuovere quelle immagini quasi completamente. Poi,
senza un motivo particolare, una notte ho sognato qualcosa di strano.» proseguì mentre Oz, alla parola “sogno”,
trasaliva impercettibilmente.
«Sembrava il classico
incubo da ragazzino, di quelli che non hanno molto senso
a dirla tutta. Un edificio che andava a fuoco, qualcuno che urla nella stessa
stanza in cui ti trovi e la sensazione che siano posti
e voci che non conosci, ma che nel sogno sembrano di importanza vitale. Nulla
di anomalo insomma.» spiegò. Fece una
pausa, cercando con occhi il viso di Oz.
Il biondo taceva,
l’attenzione su di lui.
«Però
poi» riprese Elliot «è diventato un sogno frequente. Anche
troppo. E con il passare del tempo si aggiungevano particolari del ricordo che
avevorimosso.
Il sangue una volta, la spada un’altra. E infine Glen Baskerville.
All’inizio non mi parlava, non mi si rivolgeva mai. Era come spiarlo
senza essere visti. Poi però mi guardava sempre più spesso, senza
dire nulla. E un giorno, alla fine, mi ha chiesto: “Hai intenzione di
ficcanasare ancora per molto, ragazzino?”.» si interruppe,
tornando a cercare chissà quale espressione rivelatrice sul viso del
biondo. Ma a giudicare da quella che assunse lui, non
la trovò.
«Se stai pensando che
sia pazzo, fai come vuoi, l’ho pensato anche io
e non l’ho ancora escluso del tutto.» dichiarò sulla
difensiva: «Tuttavia questa è la risposta alla tua domanda di
qualche mese fa.» aggiunse.
Oz ne fu confuso:
«Quale domanda?» chiese infatti.
«Come e perché conosco
il brano di “Lacie”. Anche se la risposta “lo conosco e
basta” che ti avevo dato non era poi tanto una bugia,
come vedi.» ammise con un sorrisetto ironico ad increspargli le labbra.
«Eh?!
Vuoi farmi credere che… che lo hai sognato?!»
esclamò Oz dopo qualche istante di silenzio, incapace di trattenersi.
Elliot annuì, lasciando
vagare lo sguardo per la stanza; Reo, rimasto in piedi fino ad
allora si sedette accanto al castano, dov’era stato per suonare a
quattro mani con lui. Nonostante sapesse tutto essendo rimasto al suo fianco
per tanti anni, il moro lasciava che fosse Elliot a parlare: non solo per i
loro ruoli sociali e perché la questione riguardava l’altro di
persona, ma anche perché era la prima volta che – in un modo o
nell’altro – Elliot trovava il coraggio di parlarne con qualcuno
che non fosse lui.
«Puoi non crederci, te
l’ho già detto.» ribadì il
castano, ma Oz volle interromperlo subito: «Ci credo. È strano,
ma… ci credo.» disse, forse persino troppo
partecipe per il modo in cui era abituato a trattare con l’altro.
Tant’è che Elliot ne fu stupito.
«E in
base a cosa?» chiese infatti, com’era prevedibile
probabilmente. Oz non rispose subito, ma solo per trovare il modo più
corretto di spiegarlo: «Perché… questa cosa di fare sogni
strani succede anche a me da quando sono qui.»
confidò, anche se non proprio sicuro. Anche per lui si trattava della
prima volta in cui ne parlava.
«Sono diversi dai tuoi,
e in realtà potrebbero non essere nulla di
strano, però…» indugiò, quasi si aspettasse di essere
interrotto, cosa che però Elliot non fece né sembrava
intenzionato a fare.
«Però sembrano tutti
collegati fra loro. E in ogni caso, anche lasciando stare questa cosa, io Glen
l’ho visto. Non potrei non crederti.» fece
presente.
Elliot annuì, e ad Oz sembrò – ma non poté esserne certo
– che l’altro avesse sorriso leggermente.
«Cosa ti ha detto
Baskerville quando lo hai incontrato?» domandò Reo,
inaspettatamente dato il silenzio quasi completo che c’era stato fino a
quel momento da parte sua. Oz spostò lo sguardo su di lui: «La
prima volta di non impicciarmi dei suoi affari.» replicò,
iniziando dalla cosa più semplice.
«Cosa che avresti dovuto
fare, decisamente.» commentò Elliot con
fare quasi brusco: «Ma qualcosa mi dice che ovviamente tu non hai seguito il consiglio.» aggiunse,
battendo sul tempo il biondo, che assunse un broncio leggero.
«Non potevo. Non è colpa
mia se metà della storia di Glen Baskerville si incrocia
a quello che voglio sapere.» ribatté nuovamente a tono. Elliot non
fece domande in proposito – mentalmente si disse che le avrebbe fatte in
breve però: «E la seconda volta? Quando
è stata e cosa ti ha detto?» chiese
invece.
«Dopo il litigio con
Ada, e—»
«Cosa?!Ma parliamo di ieri mattina!» lo interruppe
Elliot alzando appena il tono di voce. Oz sospirò: «Avevo bisogno
di sapere la verità.» mormorò, abbassando lo sguardo verso
il pavimento.
Elliot forse intuì la
delicatezza dell’argomento in cui si stavano addentrando; non lo
incalzò né altro, lasciando che si prendesse il suo tempo come
aveva fatto lui a sua volta: «Voglio sapere
perché mio fratello era convinto di aver ucciso il suo migliore amico se
in realtà Glen si è suicidato. Voglio sapere perché, a
distanza di anni, le loro morti si stanno intersecando in questo modo.» rispose infine Oz.
Elliot aggrottò appena
la fronte, cercando di collegare le cose: sapeva che Jack Bezarius e
Baskerville erano stati amici, ma non aveva mai sentito parlare di accuse per
la morte di quest’ultimo. Pensò che al momento non fosse comunque
qualcosa di cui doversi impicciare.
«Ti ha dato le risposte
che ti servivano?» chiese invece, osservandolo; istintivamente, Oz
portò una mano al braccio colpito da Jabberwocky, che era andato a farsi
medicare il giorno prima – con non poche difficoltà: spiegalo tu
all’infermiera perché ti sanguina un braccio a quel modo.
«Non del tutto, a dire
il vero.» ammise: «Qualcosa di vago. Come
il fatto che, materialmente, Jack non c’entra nulla in tutta questa storia.
Ma allora “non materialmente”
c’entra qualcosa invece?» diede voce al dubbio che aveva avuto fin
da subito. Elliot rimase in silenzio, come se anche lui stesse soppesando la
questione: in effetti, in questo stato supponeva fosse ovvio che –
nonostante i vari moniti ricevuti – quel ragazzino continuasse a cercare
un “contatto” con Glen, non curandosi di quanto potesse rivelarsi
pericoloso.
«Ha detto chiaramente di non
tornare. Che, dal momento che non sono Jack» gli
scappò un incurvarsi di labbra di troppo, seppur quasi impercettibile e
di certo non divertito dalla cosa «la mia vita per lui non ha alcun
valore.» riportò.
Elliot lo guardò con
fare indagatore, sospettoso quasi. Oz, accorgendosene, ricambiò con uno
sguardo incuriosito.
«C’è
qualcosa che non va.» se ne uscì Elliot senza una spiegazione
logica: «Ti ha minacciato di morte, praticamente.
O comunque ha lasciato intendere che non farebbe nulla se cercandolo tu finissi
nei guai. Cosa c’è da sorridere?» chiese
diretto, senza tanti inutili giri di parole.
Oz sussultò; non si era
minimamente accorto di aver sorriso, e pertanto quella domanda era apparsa
– scioccamente – come se il castano gli avesse letto nel pensiero o
qualcosa del genere.
Oz si vergognò della
risposta, sebbene non le diede voce immediatamente.
Abbassò lo sguardo, mortificandosi per il pensiero formulato.
«Glen… non vede Jack in
me. Vede suo fratello minore, che con lui non ha nulla a che fare. Non ricerca
in me alcun tratto di lui, al contrario sembra quasi cercare più
differenze possibili per far sì che nulla di quello che vede in me glielo ricordi. Come se per lui Jack fosse stato una
persona unica, che non può essere sostituita da nessuno
anche se questo qualcuno gli somiglia.» ammise, parlando
sinceramente come forse non aveva mai fatto con nessuno dalla morte del
fratello.
Elliot non replicò
subito.
Quando lo fece,
l’espressione era seria e sembrava quasi dura ma Reo – fin troppo
abituato ad intuire dalla sua espressione quello che
spesse volte il castano non diceva – vi lesse anche una sfumatura di
dispiacere forse; ma questo, lo sapeva, non avrebbe impedito all’altro di
pronunciare parole che sarebbero certamente state simili ad una ramanzina.
«Ti stai lasciando illudere da
qualcosa che non esiste. Te ne sei accorto, vero?»
pronunciò duramente.
«Ti stai aggrappando a
parole che Glen Baskerville non ha pronunciato né per rincuorarti,
né per farti sentire protetto.»continuò, severo: «Non
leggere nulla di questo, perché se c’è una cosa su cui
Baskerville è stato sincero nei tuoi confronti è che della tua
vita, come di te, non gli interessa nu—»
«Smettila!»
sbottò Oz, lo sguardo basso e i pugni chiusi; alzò però
quasi subito gli occhi verdi sull’altro: «Credi che non lo sappia?! Sto solo dicendo quello che mi ha detto,
e la sensazione che mi ha dato! Che problema c’è se penso che sia
l’unico che finalmente non vede su di me l’ombra di qualcun altro?!Cosa importa a te se anche mi
lascio prendere in giro da una mia convinzione, visto che da quando mi conosci
non hai fatto altro che dire “odio i Bezarius qui”, “odio i
Bezarius là”?!»
«Infatti
non mi interessa! Vai pure a farti ammazzare per quel che me ne importa, ma
sarà una morte idiota! Ma forse sarebbe degna
di te!»
«Non parlare di morte
come se ci scherzassi su, non ho certo detto che vado
a suicidarmi!»
«Invece è precisamente
quello che rischi di fare! Pensi che non mi sia accorto che hai intenzione di
tornare da Glen Baskerville? Certo, forse è per la verità che vai
cercando, ma ti assicuro che tu ci vai per lasciarti coccolare da quello sdegno
che hai colto nelle sue parole e che hai voluto scambiare per la gentilezza di
dirti che tu sei tu e basta. E allora, hai davvero bisogno che qualcuno te lo
dica, pezzo di deficiente?! Non è forse ovvio
che tu non sei e non puoi essere altri che te stesso?!»
sbraitò Elliot, alzatosi in piedi nell’impeto del discorso.
«Ma tu cosa cavolo vuoi
da me?! E se anche fosse?!
Saranno pure affari miei, cosa—» fece per
replicare Oz, interrotto da uno schiaffo che Elliot gli diede in pieno viso e
che, essendo inaspettato, colpì il biondo in pieno.
Oz si portò una mano
sulla guancia offesa, dove si stava spargendo il rossore dovuto al colpo.
«Mi irriti
e basta! Me lo sogno ogni cazzo di notte, e tu non stai nemmeno provando a
resistere un minimo alla prospettiva di abbandonarti ad
una bugia o a qualcosa che vedi solo tu! Se non riesci nemmeno ad avere
coraggio abbastanza da mettere la tua vita davanti alla prospettiva di un
po’ di respiro di fronte alla sofferenza, come pensi di arrivarci alla
verità per cui ti stai distruggendo da solo, eh?!
Se non sei in grado di fare nemmeno questo, forse allora saresti dovuto davvero
morire tu al posto di tuo fratello!» gridò quasi, praticamente.
Oz non disse nulla.
Sentì solo Elliot che
si allontanava, un pugno che colpiva sonoramente lo stipite della porta, e la
mano di Reo che si posava appena sulla sua spalla prima di allontanarsi
seguendo il castano.
Oz non era tornato
subito al dormitorio.
Avrebbe significato seguire
Elliot, e non aveva voluto; il tempo era trascorso, mentre aspettava nella
stanza dove avevano discusso, in maniera quasi ovattata.
Il silenzio aveva nuovamente
avvolto ogni cosa, e il biondo era tornato a sedersi quasi senza accorgersene:
rivolto alla finestra, aveva poggiato la fronte contro il vetro freddo,
socchiudendo gli occhi.
Era rimasto in quella
posizione a lungo – non sapeva quanto, ma era tanto – e ad un certo punto, senza un motivo preciso, si era
semplicemente alzato.
Pur non avendo
l’orologio da taschino con sé in quel momento, aveva potuto
supporre che fosse ormai tardi abbastanza. L’aria all’esterno
– aveva dovuto percorrere il solito vialetto per passare
dall’edificio centrale in cui erano, al dormitorio – era fredda,
come altre volte l’aveva sentita sulla pelle
quando si era mosso in piena notte ad orari improponibili.
Spinse il portone verso
l’interno, aprendo quanto bastava per entrare.
Quando ebbe richiuso alle
proprie spalle e si fu voltato verso l’interno, Oz vide una figura fra le
poltroncine, vicina al camino acceso di un fuoco in procinto di spegnersi
lentamente.
Il ragazzo – logico visto che erano nel dormitorio maschile – era voltato
verso di lui, come se avesse aspettato di vedere qualcuno apparire sulla
soglia; Oz non poteva esserne certo, ma poiché erano potenzialmente solo
due le persone che poteva aspettare, suppose che fosse lì su richiesta
di Sirjan.
Aedan, seduto, lo osservava:
gli rivolse un cenno leggero col capo, invitandolo con un gesto della mano a
sedersi su una delle poltroncine libere.
Oz avrebbe
voluto andare in stanza, infilarsi sotto le coperte e dormire fino a
tardi approfittando dell’arrivo del fine settimana. Non aveva davvero
voglia di parlare, men che meno con Aedan; nulla contro di lui, ma considerando
che spesso altri non era che il messaggero di Sirjan,
supponeva che anche in quell’occasione non fosse diversa. Per un attimo
pensò che forse, sebbene gli sfuggisse ancora come, Sirjan era venuto a
sapere del suo incontro con Glen.
Rimase in silenzio, immobile
dov’era, forse nella speranza che il moro distogliesse lo sguardo al suo
muto rifiuto. Ma Aedan mantenne l’attenzione su
di lui, e alla fine Oz si arrese. Avanzò fino a raggiungere il posto a
sedere indicatogli dall’altro, dove prese posto:
affondò con schiena e testa nel cuscino morbido della poltrona, e
tacque, le mani mollemente poggiate sulle ginocchia.
Si era aspettato che, a quel
punto, Aedan iniziasse subito a riportare un eventuale rimprovero o messaggio
del capo dormitorio – gli era parso di capire che il moro non amasse
particolarmente perdere tempo con dei giri di parole
– ma così non fu.
Aedan, semplicemente, rimase a
sua volta immobile e in silenzio a guardarlo. Le mani sui braccioli, rimase
così per un po’ mentre Oz – sempre più perplesso
– attendeva che parlasse, finché non capì che forse l’altro
si aspettava che fosse lui a parlare.
Per dire cosa, non ne aveva
idea.
«Aedan, c’è
qualcosa che devi dirmi?» ruppe infine il ghiaccio, confuso. Aedan, senza
mutare espressione come suo solito, scosse la testa.
«Quindi
non ti manda Sirjan?» domandò Oz senza capire.
«Sirjan non c’entra. Sono
venuto ad aspettarti perché volevo.»
replicò l’altro, sorprendendolo. Era la prima volta, infatti, che
Oz sentiva usare da Aedan l’espressione “volere”.
«Tu e Sirjan, vi ho
guardati.» esordì nuovamente il moro inaspettatamente: «Vi
somigliate.» chiarì, anche se Oz non riuscì a cogliere dove
l’altro volesse andare a parare.
«Io e Sirjan? Non credo di
somigliargli granché a dire il vero.» buttò lì in risposta, con un sorrisetto leggero – anche se di
sorridere non aveva voglia.
«All’inizio non molto.
Ora però sì. Specialmente quando fai quella faccia lì.» spiegò, indicando l’espressione di Oz
in quel momento. Il biondo suppose che si stesse riferendo a
quell’incurvarsi di labbra forzato e,
improvvisamente, lo colse una consapevolezza.
Era qualcosa che era rimasta
una sensazione sopita per molto tempo, che gli era costantemente sfuggita l’attimo prima di riuscire a darle un nome e una
forma. Aveva colto in Aedan – nel suo atteggiamento – qualcosa che
aveva già visto, ma che non poteva esattamente definire familiare.
Ed ora, senza apparente motivo,
aveva finalmente capito cos’era.
Aedan aveva la stessa
sensibilità e mentalità, per certi versi, di un bambino: i
concetti, le opinioni e quella capacità di cogliere i sentimenti altrui
erano puri, istintivi. Aedan capiva le cose nella loro semplicità di fondo.
Per lui non c’erano
dubbi sulla maggior parte delle questioni che affrontava; capì che
contrariamente a quanto aveva sempre pensato, Aedan non eseguiva qualsiasi
ordine per mancanza di una volontà propria, ma per completa fiducia in
Sirjan – e, supponeva, in quell’Ethan Sparrow.
Allo stesso modo quindi, il
suo mettere la propria vita in secondo piano in confronto a quella dello stesso
Ethan, forse non era scarsa considerazione per se stesso, quanto
più… un affetto incondizionato nei confronti dell’altro.
«Tu non piangi mai?»
se ne uscì il moro.
Ok, rettificò
mentalmente Oz in quel momento, a volte Aedan aveva anche le uscite
“scomode” tipiche dei bambini, oltre a tutto il resto.
«Alla mia età sarebbe un
po’ imbarazzante, no? E poi adesso come adesso non c’è
qualcosa di preciso per cui vorrei piangere, quindi…»
rimase sul vago, a disagio per quella domanda.
Ma il moro lo sorprese
nuovamente quando parlò; spostò lo sguardo dalla figura
dell’altro, portandolo verso una delle finestre presenti lì in
quella fungeva quasi da sala comune per gli appartenenti al dormitorio.
«Serve un motivo
preciso, quando si vuole piangere?» chiese, ingenuamente come un bambino
che non sa nulla del mondo.
Oz alzò quindi
istintivamente lo sguardo su di lui, ironicamente proprio ora che Aedan aveva
fatto l’esatto contrario. Era perplesso e stupito da quella domanda che, nonostante di primo impatto non sembrasse particolarmente
sensata, aveva insinuato silenziosamente il dubbio in lui in quel momento.
Serviva? C’era qualcosa
di “necessario” per poter dire “ora
piango”?
«Io credo che vada
comunque bene.» riprese Aedan senza preavviso, senza che avesse mai
parlato così a lungo di sua sponte, dando un parere personale su
qualcosa che sembrava toccarlo in qualche modo, chissà perché.
«Penso che a volte venga solo
voglia di piangere senza alcun motivo. Guardi fuori e vedi qualcosa che pensi somigli a qualcos’altro che hai visto quando non
stavi bene, o qualcosa non andava. E ti viene voglia di piangere, magari
perché lo avevi fatto anche quella volta o forse proprio perché allora non lo avevi fatto.»
proseguì, senza mai guardare il biondo mentre parlava.
Si spiegava con parole
semplici, elementari e in qualche modo sembrava ripetersi come se il
vocabolario che possedeva fosse limitato; eppure colpiva tutto molto più
che se lo avesse detto con parole più complesse o ricercate.
«Credo che non sia molto
importante, il perché. Va bene anche se ora
piangi per qualcosa di poca importanza e la usi come scusa per sfogare
qualcos’altro. In un modo o nell’altro, l’importante è
arrivare a non avere più la forza nemmeno di tenere gli occhi aperti.
Quando ti sveglierai andrà meglio.»
continuò.
Oz era rimasto
in silenzio, ma non riuscì a tenere per sé un: «Stai
parlando di piangere senza controllo e senza motivo apparente?» confuso,
ma anche speranzoso in un modo contorto che non avrebbe potuto spiegare.
Era come se aspettasse che
Aedan, rispondendo affermativamente alla sua domanda,
gli desse il permesso di essere debole almeno per un po’.
Se ne vergognò.
Ultimamente sembrava niente
più che un ragazzino che si lagnava in continuazione
senza fare alcun passo avanti; forse, Elliot non aveva torto.
«Non fa nulla se il motivo non
è apparente o chiaro per gli altri. Tu lo sai perché ridi, o
perché piangi, perché ti arrabbi o perché reagisci in un
modo piuttosto che in un altro. E agli altri, in fondo, non interessa sapere
tutto di te. Ad alcuni potrebbe bastare vederti stare bene.»
Sirjan si era allontanato,
dopo quelle parole.
Il fatto che Aedan avesse
dichiarato di voler parlare da solo con Oz di una cosa lo aveva
inizialmente impensierito – o forse, più che altro,
incuriosito – ed aveva voluto controllare.
Ma, nel momento in cui aveva
colto il significato di ciò che Aedan stava pronunciando, si era
allontanato per non interferire; benché fosse probabile che il moro
avesse colto la presenza di qualcuno, allenato com’era per il ruolo che
ricopriva, doveva aver ritenuto inutile smascherare la sua presenza.
Nel muoversi verso
l’edificio centrale – avrebbe approfittato della ronda,
controllando che anche Nightray fosse rientrato dalle sue sonate notturne
autorizzate per dar tempo a quei due di finire di parlare – qualcosa
aveva catturato la sua attenzione.
Non aveva faticato a capire di
cosa si trattasse: l’aveva seguita, con passo sicuro, e aveva infine
raggiunto la persona in questione – malgrado tutto,
nel suo caso Sirjan non avrebbe potuto definire Jack semplicemente
“spirito”, nonostante la sua natura fosse ormai quella.
«Non è molto
tipico di te lasciare che io ti segua quando vuoi parlarmi.» lo riprese,
ma con tono morbido; Jack sorrise come un ragazzino beccato in flagrante mentre
rubava la marmellata dal barattolo, cosa peraltro non proprio fuori dagli
schemi per il biondo e il suo carattere.
«Scusami, è che è
un po’ imbarazzante forse. Faccio la figura del fratello maggiore
iperprotettivo.» ammise, il tono un po’
impacciato che avrebbe fatto tenerezza a chiunque in quel frangente. E
d’altra parte, chi meglio di Sirjan poteva capire quel lato di Jack?
«Vuoi parlare con Oz,
mh?» tirò ad indovinare – non che
ci volesse un grosso sforzo.
Jack però ne parve
comunque sorpreso, qualche istante prima di sorridere nuovamente: «Non ti
si può nascondere proprio nulla, quando si tratta degli accordi che
abbiamo vero?» disse, una sfumatura particolare del tono che però
l’altro non commentò.
Abbozzò un sorriso
leggero invece: «No, sei solo tu che sei particolarmente prevedibile
Jack.» gli fece presente, tranquillizzato ulteriormente dalla risata
leggera in cui l’altro si sciolse.
«Hai il permesso di parlare con
lui. Tuttavia ci sono cose che non puoi dirgli, specialmente riguardo una precisa questione.» aggiunse, serio nel suo ruolo
che ancora manteneva.
Jack lo osservò,
rivolgendogli un incurvarsi di labbra gentile, molto simile a quello che gli
aveva riservato quando lo aveva incontrato per la prima volta insieme alla
sorella: «Ogni concessione ha le sue regole,
giusto? Dimmi Sirjan, qual è la questione a cui
non vuoi che accenni?» domandò Jack, il tono pacato e lo sguardo
chiaro sul ragazzo.
Questi portò il proprio
sul viso di Jack, la serietà e la severità che lo avevano sempre
distinto in qualche modo nel suo adempiere ai propri doveri – condivisi o
meno che fossero.
«Il figlio illegittimo dei
Nightray. Oz non deve sapere che si tratta di Alice Lewis.»
Note
Quante maledizioni mi state
lanciando in questo momento? ;D *bello che almeno ne
è consapevole*
Io so che sono molte, ma so
anche che sono piene di amore <3 (ma anche no).
Teoricamente (non è un caso che sia sottolineato e corsivo XD) da qui in poi man
mano dovrebbero venire i nodi al pettine come si suol
dire; sto cercando di dosare comunque le rivelazioni perché non vorrei
proprio che dopo avervi fatto soffrire 16 capitoli con
inghippi della trama tutta la spiegazione risultasse poco
“graduale”.
Spero di riuscire
nell’intento (voi non lo sapete, ma sono io quella che vorrebbe chiarire
tutto e subito più di chi legge XD).
La frase in apertura è
del manga yaoi “Doushitemo
Furetakunai” di Yoneda Kou <3
Passo alle risposte alle
recensioni :3
Bacinaru: spero che la tua vita non sia finita al precedente capitolo, innanzitutto
XD come vedi Oz è ancora vivo, e a quanto pare Elliot non è un
assassino (ma perché, qualcuno ci aveva
creduto? LOL *bastarda*)
Per la questione Lacie-Jack
dovrete pazientare – salvo tragedie (che con me tutto è
possibile), dovrebbe essere tutto o quasi nel prossimo capitolo o giù di
lì <3
Ti ringrazio per i complimenti
sull’IC, che per me è un dramma perpetuo. I riscontri da parte di chi legge sono quindi sempre un piacere e qualcosa di
istruttivo :3
Mi dispiace di aver impiegato
tanto con questo aggiornamento, e spero quindi di
farmi perdonare con il capitolo e che possa piacerti come i precedenti <3
NatsuVIII: Noah e i calzini, io ho paura seriamente che voi lettrici ne farete un fan club XD
Incontrare Break CON Rufus
sarebbe la gioia di una yaoi fan girl, ma non di Oz a
quanto pare. Poi devo dargliene atto: mi sbucasse Break di
notte da un corridoio penso che non vivrei abbastanza per raccontarlo XD
*inquietata*
Gil in crisi è un mio
sadico divertimento e tale rimarrà – dovrò pur sfogare il
mio stress di autrice no? XP
Quanto ad Oz è
finalmente esploso ma che non si illuda: per lui
c’è ancora da patire (come è giusto che sia, è il
protagonista u.u)
Spero che questo capitolo ti
sia piaciuto :3
Fiamma Drakon: Noah è un fanboy. Uno
yaoi fanboy. E in quest’affermazione è
racchiusa l’essenza di ogni cosa che fa e di ogni idiozia che dice XD
Ringrazio anche te per l’IC, come detto anche sopra a bacinaru :3 Sono contenta che le parti un po’
più corpose – come la seconda con Gil e Vince, o quelle con molte
spiegazioni o dialoghi lunghi – non risultino troppo pesanti. Non sempre
riesco a calibrare il modo in cui tramite i personaggi do informazioni sulla
trama, quindi è un bene che non vi risulti di
difficile lettura <3
Ecco infine quel che Glen ha
fatto ad Oz (secondo me, gli è andata di lusso xD)
Spero sia stato di tuo
gradimento :3
Meimei: dai che tanto lo so che ami
Noah uwu
La parte che ti interessa (leggasi: Lacie) è ormai alle porte, per
la tua immensa felicità XD Jabby è
amore. Il mio sogno proibito è riuscire a inserire la scena di Jack che lograttinizza senza farla apparire
completamente fuori luogo in Rinnega XD (impresa ardua, vista
l’atmosfera tutt’altro che allegra di ‘sta fic XD).
Attenderò gli altri
tuoi scleri sul presente capitolo XD
Un grazie infine anche a chi so
che legge a parte, o che mi commenta in separata sede :3
«Non voglio che gli riveli che la figlia illegittima
dei Nightray è Alice Lewis.» pronunciò Sirjan, lo sguardo
su Jack mentre gli accordava il permesso di stabilire un contatto con il
più giovane dei Bezarius, ma gli proibiva di pronunciare di fronte a lui
quella verità che andava nascosta.
Chissà perché, poi.
Jack tuttavia si limitò ad
incurvare le labbra con quel fare gentile e accondiscendente che rivolgeva a
Sirjan ogni volta che avevano occasione di interagire.
«Hai
la mia parola. Questo argomento non sfiorerà le
mie labbra in presenza di Oz.» assicurò al più giovane, di
cui colse un sospiro impercettibile; lo incuriosì, come una sfumatura
nuova colta per la prima volta.
Anche Sirjan dovette notare la rinnovata attenzione di Jack,
e inarcò appena un sopracciglio: «Cosa c'è?» chiese infatti, diretto. L'altro ridacchiò sommessamente,
divertito.
«Sembri
più stanco, dell'ultima volta. Uhm, in positivo, intendo.» si corresse subito, perché non sembrasse un
rimprovero. Sirjan non parve convinto, però: mise le mani in tasca
– cosa ben lontana dall'etichetta che esibiva sempre alla perfezione
– poggiando la schiena al muro.
«Cosa c'è di positivo nel sembrare più
stanco del solito?» domandò infatti,
perplesso.
Jack portò una mano dietro la nuca, in un gesto
meccanico che anche in vita aveva fatto spesso. O almeno, a Sirjan era
familiare.
«Forse mi sono espresso male.» iniziò il
biondo: «Non è che sembri più
stanco. Forse, è l'impressione che ho perché stavolta non lo stai
nascondendo, differentemente dalle altre in cui ci siamo visti.» si corresse Jack, lo sguardo chiaro sull'altro.
Sirjan sbuffò, assumendo un'espressione che – lo avesse visto
qualcuno – avrebbe fatto crollare l'opinione generale dell'intero
istituto: un'aria seccata, ma non di quelleche rivolgeva a Cheshire nei loro
(fortunatamente) rari incontri.
Era un misto dell'irriverenza di un ragazzo giovane, e di
quel fastidio dato dal dover mostrare sempre una facciata perfetta per il perfetto mondo in cui si vive. La
stanchezza per la finzione, mescolata al fastidio per il doverla calare anche
solo un minimo per respirare.
«Tch, quindi mi stai
dicendo che sono diventato uno smidollato. Non c'è nulla di simile ad un complimento in queste parole, sai Jack?» lo
apostrofò, come se fosse lui il maggiore e il biondo il più
piccolo da riprendere.
«Posso farti una domanda, Sirjan?»
domandò Jack, eludendo quella domanda retorica
che di risposte non aveva bisogno. Sirjan mantenne l'attenzione su di lui a
quelle parole: «Quale?» lo incalzò.
«Se sai che scoprire di Alice non sarebbe certo un
pericolo per Oz, allora come mai tanto affanno per nascondere la cosa?»
chiese a bruciapelo, stupendo forse un poco il suo interlocutore. Kolstoj era
stato convinto che Jack, in quanto spirito, sapesse.
O, in caso contrario, che potendo osservare i vivi quanto i morti – in
special modo quelli di Latowidge – lo avesse capito da solo. Ma la domanda smentiva quel pensiero, sorprendendolo.
«Davvero non lo hai capito da solo?»
indagò infatti.
«Più che non averlo capito, diciamo pure che ho
un'ipotesi di cui però non ho conferme.» chiarì il biondo,
sincero. Nella condizione in cui era, non aveva motivi per mentire, tantomeno a
Sirjan che era a conoscenza di molte più cose rispetto a lui.
Il più giovane sospirò piano, quasi con voluta
lentezza.
«Diversi
motivi. In primis, poiché custode dei segreti di tutte le famiglie, il
mio compito in quanto Kolstoj è appunto far
sì che certe cose non si sappiano. Questa è fra le tante. I
Nightray non ne sarebbero affatto entusiasti.»
fu la premessa a cui l'altro diede voce: «Puoi immaginare da te che
sarebbero in molti a porsi delle domande. I tre fratelli Nightray che studiano
qui per esempio. Senza contare la stessa Alice: non ho da rivelare molti
dettagli in proposito, ma quella ragazza sembra non serbare alcun ricordo. Per
lei la condizione di Lewis, cugina dei Nightray, è la normalità.
Non sospetta minimamente di esserne la sorella minore, seppur illegittima.» continuò, spostando lo sguardo fuori dalla
finestra che era l’unica fonte di luce e solo grazie alla luna, il cui
leggero bagliore non era offuscato dal cielo nuvoloso che ultimamente
sovrastava l'istituto.
«Inoltre,
sai bene anche tu dell'odio di Vincent Nightray per Alice. È una catena
destinata a spezzarsi, se una sola delle informazioni trapelasse e giungesse
all'orecchio di qualcuno dei diretti interessati. Caso vuole che Oz sia molto
legato ai principali protagonisti di questa storia: Alice e Gilbert, innanzitutto.
E se legati a quest'ultimo, si è inevitabilmente a contatto con Vincent.
Inoltre, ho infine avuto modo di notare che tuo fratello sembra in qualche modo
anche abbastanza vicino ad Elliot. Capirai quindi da
solo che non posso lasciare che scopra nulla. Né potrei mai fare
affidamento su una sua promessa di tacere.»
aggiunse, facendo forse la figura della persona malfidata.
Ma Jack non parve
pensare che fosse per scarsa fiducia, non in senso strettamente offensivo
almeno.
«...Tuo fratello ha la
sfortuna di essere un amico leale. Per questo non posso dirgli nulla, ed
è questo che lo mette nei guai.»
pronunciò infine Sirjan, dopo qualche istante in cui aveva mantenuto il
silenzio.
Jack socchiuse gli occhi, limitandosi ad
un sorriso leggero che l'altro sbirciò fugacemente, senza commentare.
«Piuttosto, Sirjan» riprese il biondo, cambiando
argomento: «qualcuno si è appena allontanato dopo averci sentiti parlare, o aver sentito almeno te farlo. Non
è da Sirjan Kolstoj permettersi distrazioni simili.»
gli fece notare, prendendolo bonariamente in giro. L'altro,
ancora nella medesima posizione, socchiuse gli occhi con tutta calma.
«Avevo
notato la sua presenza, e so di chi si tratta. È qualcuno già a
conoscenza di tutti gli argomenti che abbiamo toccato, pertanto non era
necessario preoccuparsene.» disse semplicemente.
Strinse appena gli occhi, aprendoli lentamente in quella
sequenza tipica del risveglio.
Mosse leggermente una mano, ritrovandosi a sfiorare qualcosa
che non era stoffa: abbassando lo sguardo, notò che erano senza dubbio
capelli. Mise lentamente a fuoco la figura che per una
manciata di secondi non sembrò altro che un'ombra indistinta; in
un secondo momento – mentre, chiunque fosse, alzò la testa per
posare lo sguardo su di lui – ne riconobbe i tratti peculiari: capelli
neri, occhi dorati.
Associare le due cose a Gilbert fu istintivo ed immediato.
«Gil...?»
mormorò, il tono impastato dal sonno che evidentemente gli impediva
ancora dei ragionamenti coerenti. Il moro gli sorrise
accondiscendente, aspettando che Oz si tirasse su a sedere. Così fece il
biondo, poggiando la schiena al cuscino fra sé e la testiera del letto.
Parve confuso, mentre guardandosi intorno
riconosceva la sua stanza: «Aedan è venuto a bussare alla mia
porta.» iniziò a spiegare anche se Oz non aveva ancora posto la
domanda, intuendo forse quell'interrogativo prima che l'altro gli desse voce.
«Aedan?» mormorò Oz. Impiegò poco
a ricordare il discorso affrontato con Shaye nella saletta, soli vista l'ora;
le parole dell'altro lo avevano incredibilmente smosso, e si era sfogato fino a
crollare esausto lì dove erano. Era plausibile pensare che Aedan fosse
andato a chiamare Gilbert perché si occupasse di lui.
Se ne vergognò un po'.
«Ha
detto che ti avrebbe portato su personalmente, se Sirjan non avesse avuto
bisogno di lui. Ha chiesto a me di accompagnarti in stanza.»
riportò l'altro fedelmente. Il biondo gli rivolse un sorriso, uno di
quelli soliti, forse solo meno smagliante a causa del
torpore che ancora lo avvolgeva. Con esso, in breve, sopraggiunse l'imbarazzo:
il ricordo del bacio era ritornato prepotentemente e senza il minimo preavviso.
Infantilmente, Oz pensò che non fosse affatto
corretto tutto quello.
Per contro, Gilbert sembrava un servitore conscio di aver
tradito il proprio padrone e che attendeva la punizione che immancabilmente si
sarebbe abbattuta su di lui. Il che era quasi allucinante, non fosse stato che
era proprio da Gilbert un atteggiamento simile.
«Uhm, Noah?» buttò lì, cercando di
non prolungare quel silenzio scomodo che si era venuto a creare. Gilbert parve
lieto di cogliere la palla al balzo: «Mi ha
aperto quando ti ho riportato in camera. Vedendo che non rientravi, stava per
venire a cercarti. Ha detto che sarebbe stato da Wellesday per stanotte.» replicò, chiamando Marcus per cognome –
in effetti, pensò Oz, non avevano quasi mai interagito. Suppose che
anche Marcus chiamasse praticamente tutta la scuola
per cognome; non sarebbe stato affatto sorprendente scoprire che si rivolgeva
con familiarità solamente a Noah e forse a Ethan, che aveva appreso
essere uno dei pochi esseri umani che Marcus Wellesday considerasse amic--- beh.
Magari “compagni meno odiosi degli altri”,
sì.
«Ho capito.» disse Oz ritrovandosi a fissare
l'altro perplesso quando questi, senza il minimo preavviso, assunse
un'aria serissima, protraendosi in avanti come se dovesse rivelargli una
questione della massima urgenza ed importanza.
«Oz, dobbiamo parlare!» esclamò infatti quasi frettolosamente, come se temesse di
dimenticare la cosa da riferire se non le avesse dato voce ora, subito. Il
biondo rimase in silenzio quasi ad incalzarlo visto
che, di qualunque cosa si trattasse, sembrava premergli particolarmente.
Gilbert, deciso, proseguì: «Riguardo al ba--»
o meglio, probabilmente l'idea era di continuare sull'onda di quel cipiglio determinato
improvviso. Peccato che avvampando l'effetto non fosse
esattamente quello.
Quell'arrossire, peraltro, lasciò bene intendere ad Oz quale argomento l'altro stesse cercando di tirar fuori;
si sentì in imbarazzo più in risposta al timido disagio del moro
che per altro.
Rivedendo in quell'atteggiamento il preludio di un blocco
psicologico al quale il più grande era stato soggetto fin da quando si
conoscevano, decise di prendere in mano la situazione: si schiarì appena
la voce, forse anche nel tentativo di allentare un minimo la tensione.
Era difficile di punto in bianco affrontare il discorso:
Gilbert aveva diciannove anni, e certamente non la viveva esattamente come lui,
che a sedici anni poteva vantare le poche esperienze avute esclusivamente con
una controparte femminile. Peraltro, mai nulla di serio – e non che
fossero così numerose o intime. Era pur sempre nell'alta società,
dove i rapporti con gli altri erano sotto lo stretto controllo di precise regole:
eri molto più soggetto allo scandalo, rispetto ad
un normale adolescente.
Inoltre, Oz aveva studiato in casa, prima di andare a
Latowidge. Non era esattamente il massimo per potersi dire uomo di mondo.
Se anche avesse messo tutta questa questione da parte, il
disagio era comunque presente.
Gilbert era stato il migliore amico – di qualche anno
più grande – che dall'infanzia era stato sempre
presente finché non era andato via. Servitore, confidente, quasi
fratello; spalla su cui piangere quando c'era stata una perdita dolorosa,
compagno nei giorni spensierati che avevano preceduto
quell'avvenimento.
Poi tanto tempo senza vedersi o essere in contatto, se non
tramite i racconti di Ada e le lettere nei periodi scolastici in cui non
tornava neanche nel week-end.
Ora, all'improvviso, passava dal lento ricostruirsi del
rapporto di amicizia e lealtà reciproca al ruolo di... non sapeva bene
come definirlo. Non si erano poi dichiarati o che. E non aveva nemmeno un'idea
precisa sul significato di quel bacio.
Sospirò; si stava arrovellando il cervello su
discorsi troppo complicati, quando Gilbert sembrava – dal suo colpo di
tosse – in attesa di una sentenza di morte: «Non
hai fatto nulla di male. Perciò smetti di guardarmi come se dovessi
punirti da un momento all'altro.» se ne
uscì, forse nel modo che più gli si addiceva, data la sua indole.
Non voleva essere superficiale in merito all'accaduto, ma
per contro non voleva nemmeno che ci fosse una costante tensione fra loro da
lì in avanti. Forse pretendeva troppo, o una situazione irreale data da
una visione infantile.
Gilbert però parve capire: come sempre era stato,
come quando in passato ad Oz non era servito
pronunciare chissà quali discorsi per arrivare al moro, per fargli
comprendere esattamente cosa volesse dire. Gilbert aveva sempre fatto tutto da
solo, in quel senso, circondandolo con la gentilezza tipica di lui, che nei
confronti del biondo non era mai venuta meno nemmeno a distanza di anni.
Oz se ne accorse quando sentì una mano del moro
spostare qualche ciocca bionda dalla sua fronte, per posarvi un bacio leggero;
alzando appena lo sguardo, lo notò ancora rosso in viso sebbene meno
rispetto a prima – e d'altra parte era lui, ora, ad
essere arrossito maggiormente a quel gesto inaspettato.
«Che ore sono?» domandò d'istinto Oz mentre
seguiva docilmente la leggera pressione delle mani di Gilbert che, sulle sue
spalle, lo guidavano per farlo sdraiare.
«Quasi le tre del mattino.» rivelò,
rimboccandogli le coperte. Ad Oz venne istintivamente
da sorridere; quelli erano i momenti in cui si sentiva come se fosse tornato
bambino e Gilbert badasse ancora a lui come un servitore e al tempo stesso un
fratello avrebbe dovuto fare.
La sola differenza, era quella sensazione di calore
probabilmente fittizia che coglieva sulla pelle, lì dove il moro aveva
posato le labbra. Tacitamente, si disse che per lui quella era una risposta
sufficiente ai dubbi o alle perplessità che aveva. O almeno, per ora
bastava.
«...Dovresti dormire anche
tu.» gli fece notare, un broncio leggero e una sfumatura di rimprovero
nel tono. Gilbert sorrise.
«Tornerò in stanza non appena ti sarai addormentato.»
assicurò: «...domani parleremo di tutto
quello che vuoi, Oz. Di Ada, o di Elliot... o di qualsiasi altra cosa.» aggiunse, quel tono di preoccupazione che suo
malgrado, quando si trattava del biondo, non era mai in grado di nascondere
completamente.
Oz non poté obiettare a quella premura e a quella gentilezza tanto familiari.
Differentemente da quanto accadeva negli ultimi tempi, prese sonno facilmente.
Si sentì sfiorare una guancia, e nel pieno del
dormiveglia diede per scontato che non potesse trattarsi di altri se non
Gilbert. Non era nelle condizioni migliori per formulare pensieri complessi, ma
confusamente un angolo della sua mente si chiedeva, in effetti, come mai il
moro fosse lì.
Man mano che prendeva coscienza, riaffiorava infatti il ricordo di un Gilbert che gli assicurava di
rimanere, ma solo fin quando l'altro non si fosse addormentato; si era quindi
trattenuto fino a quel momento?
Aprì lentamente gli occhi, mentre una considerazione
più sensata prendeva forma: forse Gilbert era semplicemente venuto a
svegliarlo. Avrebbe potuto effettivamente pensare a Noah, ma dubitava che
l'altro lo svegliasse in maniera così delicata, a dirla tutta.
Quando mise a fuoco la figura che vedeva sopra di sé,
ebbe quasi la totale certezza di stare sognando: i capelli biondi, la cui
frangia – se la persona si fosse chinata maggiormente verso di lui
– avrebbe potuto sfiorargli una guancia erano familiari. Gli occhi verdi
che con gentilezza lo abbracciavano tramite il solo sguardo, inconfondibili.
Le labbra incurvate in quel sorriso dolce che gli aveva
sempre rivolto... che faceva quasi male.
«...Jack?»
riuscì a chiamare stupidamente, con un filo di voce.
Non poteva essere che un sogno, se Jack ora gli sorrideva
comprensivo annuendo, come a dire “sono
tornato”.
La mano sinistra del più grande si avvicinò
con lentezza e un certo timore ingiustificato, fino ad
insinuare leggermente le dita fra i capelli del fratello minore; per un attimo
sembrò stupirsene lui stesso, come quando un gesto ci è mancato
per così tanto tempo che lo si riscopre nel momento stesso in cui lo si fa
o lo si riceve nuovamente.
Quella sorta di apparente disagio non durò a lungo:
la mano calda di Jack si mosse in breve con più naturalezza in un vero e
proprio scompigliargli i capelli, movimento al quale Oz socchiuse gli occhi
infantilmente, quasi.
Tutto gli era mancato terribilmente: quel gesto, quel modo
di fare, quell'attenzione anche nelle dimostrazioni d'affetto, come se persino
quelle potessero ferire.
Nonostante avesse formulato come primo pensiero
un razionale “deve trattarsi di un sogno”, fu del tutto istintivo
alzarsi di scatto con un colpo di reni e accertarsi di quella presenza
sporgendosi verso di essa, alla ricerca di un contatto.
Di un abbraccio, ad essere
completamente sinceri.
Ma persino Oz, nel suo sperare in quella conferma fisica,
non riuscì a non stupirsi quando il proprio capo finì col
poggiarsi al petto del più grande, che sentì lasciarsi sfuggire uno sbuffo divertito poco prima di circondarlo a sua volta
con le braccia.
«I tuoi abbracci sono sempre stati un po' un agguato,
in effetti...» fece notare con tono bonario nel
suo essere canzonatorio; Oz strinse appena gli occhi, godendosi quella
sensazione a lungo proibita dall'assenza dell'altro.
Per un attimo sperò infantilmente che la morte di suo
fratello fosse stata un sogno e che quella fosse la realtà. Anche se lo
sapeva, che non era davvero così.
«Oz?» lo chiamò Jack, il tono calmo; il
minore rispose a quel richiamo con lo stringersi dell'abbraccio che non
sembrava intenzionato a sciogliere, nell'ingenua convinzione che così ci
fossero più probabilità di mantenere
“in equilibrio” quel momento, senza permettergli di sbiadire
portandosi via Jack.
Questi sospirò impercettibilmente, intuendo forse i
pensieri che affollavano la mente del fratello.
«Sono
felice. Mi mancavi tanto, fratellino.»
mormorò con dolcezza, sincero. Forse si stava dimostrando codardo,
pronunciando parole simili come se dovesse rendere il tutto meno difficile,
mascherando da fiaba con lieto fine la realtà a
cui avrebbe dovuto dar voce in breve.
Nonostante volesse fare tutto tranne che causare dolore ad Oz, non poteva rischiare che l'altro prendesse nel verso
errato quella possibilità di incontrarsi; non poteva permettersi e
permettergli di credere che sarebbe potuto accadere in ogni momento, o che si
sarebbe protratta a lungo quella situazione. Dopotutto era lui, Jack, ad aver
approfittato della facilità di uno spirito di
insinuarsi nei sogni di una persona particolarmente vicina.
Sentì Oz strusciare appena la testa contro di lui,
esattamente come faceva da bambino, e ne fu intenerito; al tempo stesso,
però, capì che il motivo di quel gesto era che l'altro si era
perfettamente reso conto della precarietà di quel momento.
«Mi
dispiace non poter rimanere a lungo. Di non poter tornare. Forse... non avrei
nemmeno dovuto mostrarmi ora, ma avevo bisogno di parlare con te, Oz.» aggiunse, abbassando appena lo sguardo ma riuscendo
a far rientrare nel proprio campo visivo niente più che il capo del
fratello minore.
Non durò molto, tuttavia: colpito e riportato in un
certo senso alla realtà dalle parole di Jack,
Oz si scostò allentando l'abbraccio quanto bastava per poter alzare il
viso verso l'altro.
Ritrovò il sorriso che Jack aveva sempre, sempre
rivolto a lui e ad Ada.
«Anche
tu mi sei mancato. Mi manchi, Jack.» mormorò come prima cosa,
aggiungendo solo in un secondo momento: «Anch'io devo chiederti delle
cose.»
Non riuscì a frenare il fiume in piena che il
pronunciare quella frase aveva scatenato; troppe volte aveva
desiderato poter chiedere la verità direttamente a Jack senza poterlo
davvero fare.
«Jack,
continuano a chiedermi di te, della tua morte... Mi hanno dato il tuo diario, e
mi hanno chiesto di leggerlo. Hanno detto che vi avrei trovato anche la
verità su Glen Baskerville, e Sirjan ha anche detto che ci sono persone
in questa scuola, che mi mentono. Persone che conosco. Poi ho incontrato
Cheshire, e Glen, e...» continuò,
incapace di fermarsi, bloccato da un dito di Jack che gli sfiorò appena
le labbra suggerendogli di tacere, sebbene senza alcun rimprovero nello
sguardo.
«So
che hai incontrato Glen. So più o meno ogni
cosa. Ho continuato ad osservarti a lungo...»
fece una piccola pausa, lasciandosi sfuggire un sorrisetto che Oz riconobbe
immediatamente come di quelli impacciati che il fratello ogni tanto mostrava in
momenti di particolare disagio: «Mi hanno detto già che sono
troppo protettivo anche ora.» ammise in aggiunta, infatti, facendo
sorridere anche Oz.
Non era cambiato nulla, sembrava quasi che il tempo –
fermatosi – avesse ripreso a scorrere, semplicemente.
«Mi hai osservato... quindi sei sempre stato a
Latowidge?» chiese, acquisendo in un secondo momento quella
consapevolezza.
L'espressione sul viso di Jack assunse quasi una
connotazione colpevole.
«Mi
dispiace non averti mai avvicinato in maniera diretta. Ma Sirjan ha detto una
cosa molto saggia e giusta: il mio tempo, quello mio e di Glen, si è concluso. Sarai stanco di sentirtelo dire ormai,
ma... credo che tu, Oz, debba vivere senza il fantasma di tuo fratello che
puntualmente torni da te a ricordarti solo la parte dolorosa del passato.» disse lentamente, dando quasi l'impressione di stare
scandendo le parole.
Oz tacque, mordendosi appena il labbro inferiore: lo capiva,
ma allo stesso tempo non voleva capirlo affatto.
Jack gli diede qualche istante, consapevole di aver
pronunciato una verità dura per l'altro, come per se stesso; dopo un
silenzio che minacciava di protrarsi ancora a lungo, riprese la parola: «Nonostante io sia a conoscenza del fatto che tu abbia
parlato con Glen, non mi è stato possibile essere lì o ascoltare
cosa vi siate detti. Anche se conosco Glen forse troppo bene per non riuscire ad immaginarlo.» ammise con un sorriso lieve.
Oz rimase in silenzio, lasciando che fosse l'altro a
parlare.
«Immagino che abbia innanzitutto scongiurato
una mia implicazione nella sua morte.» rivelò, cercando conferma
nel fratello. Oz annuì lentamente: «Jack... tu e Glen...?» lasciò in sospeso, non sapendo bene come
esprimersi mantenendo un minimo di riguardo nei confronti dei sentimenti del
maggiore.
«Vuoi sapere se ci siamo mai incontrati come spiriti?»
domandò, anticipandolo e facendolo quasi sentire a disagio per la
curiosità che ora – differentemente da come era
in qualsiasi caso – gli pareva terribilmente fuori luogo.
Si limitò ad annuire nuovamente.
«No,
mai. Il contratto che vincola Glen a Latowidge è diverso dal mio o da
quello di altri spiriti che sono qui. Si tratta... di scelte diverse che si
fanno. Inoltre io sono giunto qui più tardi,
rispetto a lui.» spiegò, accorgendosi forse di non essere
chiarissimo per qualcuno che non conosceva il modo di rapportarsi degli
spiriti, non essendo uno di loro.
Sorrise con uno sbuffo leggero, divertito quasi:
«Aspetta, cercherò di spiegarmi meglio.»
bloccò sul nascere qualsiasi dubbio del minore «Io ho scelto
Latowidge solo nel momento in cui Ada prima e tu dopo siete giunti qui. Ma non
vi sono vincolato: vi giro per mia scelta, perché si tratta di un luogo a cui diversi aspetti del regno dei vivi mi legano. Mio
fratello e mia sorella, e il mio aver frequentato il medesimo istituto.» spiegò con maggiore chiarezza, paziente.
Oz pendeva dalle sue labbra, immagazzinando ogni minima
informazione: «Glen è vincolato a questo
luogo. Vediamo... se Sirjan è il tramite tra vivi e morti, Glen lo
è tra morti e vivi. Sirjan fa sì che nessuno studente si imbatta negli spiriti di Latowidge e Glen lo stesso.
Entrambi cooperano per il quieto vivere, diciamo così.»
continuò, anche se Oz al ricordo di Jabberwocky dubitò seriamente
che uno come Glen potesse puntare alla coesistenza pacifica. Anche se doveva ammettere di essere stato lui a violarne per primo il
territorio, in quel caso.
«Per
il tipo di ruolo che ha, Glen è confinato in un luogo privo di spazio e
di tempo, in un punto imprecisato di Latowidge e allo stesso tempo in una
dimensione completamente estranea alla tua. Vi risiede con Cheshire, per il
semplice fatto che questi è uno spirito inquieto che sfugge facilmente
al controllo. Glen gli garantisce qualcosa, che non ho bene appreso a dire il
vero, ed in cambio Cheshire gli tiene lontano i
ficcanaso. Ma è un tipo irruento, e Sirjan non
lo ama per questo. Tempo addietro attaccò anche Xerxes Break. Se non ci
fu un caso di uccisione, devono tutto a Sirjan e Glen lo sa. Per questo, a
maggior ragione, cerca di calmare Cheshire. Immaginerai, se hai visto
Jabberwocky, che non fatica molto in questo compito.»
concluse, con una nota di sottile ironia.
Ma Oz era stato colpito da altro, e
più precisamente dalla parte riguardante Break.
«Xerxes
Break è stato attaccato da Cheshire? Perché?» domandò, lo sguardo che non abbandonava nemmeno per
un istante Jack. Questi si sorprese appena: aveva creduto che Break, insieme a
Barma e a quel loro tentativo palese di scoprire la verità tramite Oz
piuttosto che tramite gli spiriti, avesse parlato di quell'episodio a suo
fratello.
«Break si era avvicinato fin troppo a qualcosa a cui Cheshire fa la guardia. È qualcosa su cui non
potrò darti dei dettagli, ma Cheshire fu
fermato e quasi annientato completamente da Sirjan. Anche se persino lui
subì qualche danno. Ad ogni modo, Xerxes perse completamente la vista da
un occhio, e ha seriamente rischiato di perdere l'altro e la vita. Sirjan era
furibondo: minacciò di recidere completamente il contratto che
consentiva agli spiriti di dimorare lì. Credo che poi abbia trattato con
Glen la cosa, ristabilendo le condizioni del loro patto.» concluse il
racconto riguardo quell'episodio, mentre nella mente di Oz si delineavano maggiormente i ruoli e le figure del capo dormitorio
e di Glen.
Jack tacque per dargli tempo di assimilare quelle
informazioni, aspettando un gesto del fratello per proseguire con il vero
motivo per il quale ora era lì con lui.
Quando Oz annuì, l'espressione meno confusa, Jack gli sorrise.
«C'è una sola verità che posso mostrarti Oz. Ma la mia
speranza è che sia sufficiente ad allontanarti da tutto ciò che
di sovrannaturale c'è a Latowidge, e dai segreti che non hai davvero
bisogno di sapere per vivere senza dubbi la tua vita.» pronunciò,
una nota di palese preoccupazione nel tono di voce.
Oz ne fu un po' stupito, e si sentì in colpa senza
effettiva ragione – per il momento.
«Di quale verità stai parlando?»
domandò in un mormorio, la voce che tremò per un istante.
«Della mia morte e di quella di Glen.»
pronunciò Jack.
Era stata una sensazione stranissima, quella di avere
l'istinto di stringere gli occhi mentre la stanza veniva
inghiottita nel buio e, riaprendoli, ritrovarsi in un luogo completamente
diverso.
Differente sì, ma non sconosciuto: si trattava infatti dell'atrio di Latowidge, senza il minimo dubbio.
Jack era al suo fianco, e nessuno sembrava averli minimamente notati. I volti
che Oz vedeva erano tutti estranei, nonostante la divisa scolastica fosse
quella e non lasciasse il minimo dubbio sul fatto che si trattasse di studenti
esattamente come lui.
Cercò una qualsiasi conferma sul viso di Jack, il
quale gli sorrise leggermente, posandogli una mano
sulla spalla e chinandosi appena verso di lui; l'altra mano, indicò un
punto davanti ad Oz: «Guarda lì.» esortò.
Il minore spostò lo sguardo nella direzione indicata
dall'altro, e sgranò appena gli occhi stupito:
più avanti a loro, un Jack sedicenne – alto più o meno come
Oz, i capelli più corti legati in un codino anziché nella
familiare treccia, l'espressione spensierata che avrebbe mantenuto anche da
adulto.
Camminava accanto ad un ragazzo sicuramente della stessa
età, ma che sembrava molto più maturo dagli atteggiamenti che
mostrava: portamento elegante e privo di difetti, serioso e in qualche modo
anche altezzoso. I capelli neri e lisci sfioravano appena il viso con le
ciocche più lunghe, la pelle chiarissima gli conferiva un fascino non
indifferente nonostante fosse ancora nel pieno dell'adolescenza e lontano
dall'essere un uomo fatto e finito. Gli occhi ametista, aveva un atteggiamento
ben diverso dal Jack al suo fianco, che camminava
chiacchierando divertito di chissà cosa, le braccia incrociate dietro la
testa con fare ben poco nobile.
Nonostante le differenze che saltavano a dir poco
all'occhio, quel giovane Glen non sembrava affatto
infastidito dal comportamento del biondo e viceversa; a stupirsi e commentare
molto di più erano i compagni che li notavano.
Il Jack al fianco di
Oz, ridacchiò divertito: «All'epoca Latowidge, o almeno il suo
lato pettegolo, era diviso in due fazioni. Quella che non capiva come potessi
sopportare un altezzoso arrogante come Glen, e quella che non capiva come Glen
potesse accompagnarsi ad uno scemo privo di pudore
come il sottoscritto.» commentò, e Oz colse chiaramente nel tono
un affetto smisurato per il migliore amico e per la situazione che ricordava piacevolmente.
«Eravate amici già a quest'età?»
domandò Oz incuriosito, per un attimo dimentico del motivo per il quale
l'altro gli stesse mostrando tutto quello. Non aveva mai avuto modo di chiedere
al fratello alcune cose: in passato aveva sempre sentito parlare di Glen quando
Jack tornava a casa per i week-end o per le vacanze, e più avanti forse
il moro era anche capitato a casa Bezarius, almeno una volta. Ma a livello di avventure scolastiche, non c'era stato modo
di parlarne granché, anche per la differenza d'età fra loro.
«Glen
si è arreso ad avermi fra i piedi a metà del primo anno. Quindi sì, eravamo già amici. Vieni.» lo incalzò, muovendosi con naturalezza verso
il se stesso di quel ricordo – era a quel punto ovvio che non potesse
trattarsi di altro.
Oz lo seguì senza fiatare, spostando lo sguardo sul Jack a lui coetaneo che parlava con Glen guardando
l'amico anziché in avanti. Cosa che non si rivelò molto
intelligente, visto che in pochi istanti il biondo
urtò contro una studentessa, con l'unico risultato di ritrovarsi
entrambi a terra – specie considerando che l'altra era arrivata di corsa,
probabilmente di fretta per una lezione o qualcosa del genere.
Jack, mugolando dolorante, spostò lo sguardo davanti
a sé notando solo in quel momento contro chi era andato a sbattere;
probabilmente la riconobbe di vista, ma non la conosceva di persona visto come le si rivolse: «Scusa, va tutto bene?» chiese,
portando una mano a grattarsi la nuca un po' in imbarazzo per l'accaduto.
Glen aveva osservato la scena come qualcuno che si aspettava
prima o poi qualcosa del genere, specie visto che
l'amico probabilmente camminava spesso senza fare caso a dove andava.
La ragazza sembrava anche lei della loro età,
notò Oz: capelli castani piuttosto lunghi, gli occhi di un castano
caldo. Era piccolina, dal fisico minuto, ma sorrise impacciata verso Jack senza
la minima traccia di arrabbiatura per l'accaduto.
«S-Scusami tu, correvo senza guardare dove andavo...» mormorò quasi frettolosamente, imbarazzata
anche lei. Jack le sorrise più apertamente, mentre Glen si chinava
leggermente e porgeva la mano proprio alla ragazza: «Non
scusarti, se anche avesse battuto la testa, l'ha così dura da non
arrendersi a guardare dove va anche dopo un anno che glielo faccio notare.
È quindi probabile che non se la sarebbe rotta
comunque.» commentò, ironico tanto che Jack si imbronciò.
La ragazza, con lo stesso fare impacciato rivolto al biondo,
accettò la mano e l'aiuto ad alzarsi bofonchiando un'ennesima scusa
verso Jack; questi fissò Glen: «Gleeen, sei cattivo! E se mi fossi davvero fatto male?» commentò offeso, o cercando di apparire tale
vista la sua totale incapacità di arrabbiarsi col moro, già
comprovata l'anno precedente.
Glen sbuffò appena, rassegnato, allungando quindi la
mano verso l'amico: «Se non ti va bene allora le
nostre strade potrebbero anche dividersi qui, sai Jack?» lo
stuzzicò.
Non rideva, né faceva alcun gesto che desse ad
intendere che non stesse parlando seriamente. Tuttavia, sia lo Jack che
prendeva la sua mano alzandosi e borbottando qualcosa del tipo “figurati se
ti do questa soddisfazione” sia quello al fianco di Oz
sembravano aver capito, da chissà cosa, che quella dell'altro era una
bonaria presa in giro.
Oz si chiese in che modo si potesse arrivare ad avere
un'amicizia tanto profonda da interpretare persino espressioni che non venivano mostrate.
Analizzò con più attenzione il volto della
ragazza che si era scontrata con Jack, e notò due cose: somigliava vagamente ad Alice – i capelli soprattutto,
anche se il modo di fare era totalmente diverso e lei sembrava molto più
fragile dell'amica, anche da un punto di vista fisico – ma soprattutto
gli ricordò quello spirito che aveva incontrato una sola volta, proprio
nell'atrio di Latowidge.
Si voltò verso Jack, aprendo la bocca per dire
qualcosa ma venendo anticipato da un: «L'hai
riconosciuta, vero? La ragazza che hai visto come spirito.»
disse, il tono che Oz non riuscì a decifrare con precisione.
«Come lo sai?» chiese istintivamente,
osservandolo stupito.
Jack tornò con lo sguardo sul se stesso di quel
ricordo: «Lacie non interagisce con gli spiriti.
Lei... vaga, senza quasi rendersi conto di dove va. È legata al mondo
dei vivi dalla paura e dalla tristezza. Spesso smarrisce persino la strada, si
ritrova in mezzo ai vivi e si spaventa. Se uno spirito è mosso da
emozioni instabili, potrebbe anche arrecare danno agli esseri umani.
Solitamente, la seguo. A volte da lontano, perché ci sono dei momenti in
cui anche la mia presenza la spaventa.» spiegò, il tono un misto tra la preoccupazione e il dispiacere. Era
evidente che erano stati amici a lungo, e che non fosse certo idilliaco non
essere riconosciuto dalla ragazza o essere addirittura temuto da lei.
Però
un attimo il minore immaginò che la stessa cosa potesse accadere con
Alice, con la quale aveva instaurato un legame che forse non si poteva
paragonare a quello di anni fra Jack e Lacie, ma che lui reputava ugualmente
importante.
Sarebbe stato… triste.
Si distrasse nel notare che lo scenario sembrava incupirsi
lentamente e al tempo stesso sbiadire; suppose che in breve sarebbe cambiato,
così com'era stato dalla stanza in cui si era risvegliato a quell'atrio
di diversi anni prima.
«Lacie era di origini più umili sia di me che di Glen. Però, anche se
all'inizio sembrava intimidita, alla fine diventammo amici. Lei era importante,
sia per me che per Glen, e noi lo eravamo per
lei.» pronunciò Jack.
Ad Oz sembrò che
in quelle parole ci fosse più il rimpianto che qualsiasi altro
sentimento.
Quando fu possibile mettere nuovamente a fuoco ciò
che aveva davanti e che lo circondava, Oz si chiese se non ci fosse qualcosa di
sbagliato, poiché ad un primo sguardo era
chiaro che si trovavano ancora nell'atrio, vicini all'ingresso stavolta.
Voltandosi però, fu evidente che quello doveva essere
un ricordo diverso: il luogo era infatti addobbato a
festa, in un modo non molto diverso da come lo era stato quel Natale a cui Oz
aveva preso parte per la prima volta.
Molti studenti attendevano le proprie dame, altri le avevano
appena incontrate; il clima di festa era palpabile, e gli abiti tutti diversi
fra loro sia per colore che per modello –
differentemente dalla divisa di tutti i giorni – lasciavano intuire che
il Ballo di Natale fosse una tradizione di molto precedente anche all'arrivo di
Vincent o Gilbert, che erano al loro ultimo anno a Latowidge.
Prima che potesse chiedere qualsiasi cosa, Oz fu distratto dalla voce simile e per certi versi non proprio
uguale a quella del Jack a cui era abituato; voltandosi, inquadrò il biondo
di quel ricordo: i capelli ormai lunghi oltre la metà della schiena e
già legati nella treccia a cui era abituato, i lineamenti e la voce
innegabilmente più adulti, ma non ancora definitivamente fuori dal
periodo adolescenziale.
Tra l'altro, in quel momento la voce si stava esprimendo in
un lamentoso: «Ahi, ahi, ahi» - che Oz non
riusciva a capire se fosse dolorante o divertito, per assurdo – dovuto al
fatto che una ragazza in abito da sera stava tirando la povera treccia e il
relativo padrone al seguito, l'aria arrabbiata.
«Lottie, Lottie,
non arrabbiartiii!» implorò
infantilmente Jack, mentre a dir poco stupito Oz si voltava verso il fratello
al proprio fianco.
«Charlotte
Baskerville? La mia docente?!» se ne uscì
come se non avesse la forza di crederci, in maniera forse anche un po' comica.
Jack ridacchiò, annuendo: «Proprio lei.
Esattamente come Echo è a Latowidge come servitrice di Vincent, Lottie aveva lo stesso ruolo per Glen.»
spiegò brevemente, mentre Oz tornava con lo sguardo sulla scena che non
avrebbe mai potuto immaginare da solo.
Charlotte Baskerville doveva aver certamente infranto
qualche cuore a scuola: i capelli lunghi erano legati in un ordinato ed
elegante chignon da un fermaglio floreale sul bordeaux,
che riprendeva il colore dell'abito da sera. Le spalle erano scoperte , l'abito non troppo gonfio nella parte inferiore le
scendeva abbastanza fluidamente lungo i fianchi, esaltandone la figura snella.
Le scarpe, com'era norma, non si vedevano e le mani erano coperte non oltre il
polso da dei guanti fini; il viso, forse appena truccato senza il minimo
eccesso, era incorniciato da due ciocche lasciate libere dall'acconciatura.
Nella semplicità di un abito privo di particolare lavorazione, era
splendida. Jack, in quel momento trascinato, non era comunque da meno: camicia
bianca appena visibile sotto la giacca nera formale che arrivava poco sopra al
ginocchio, e pantaloni neri con scarpe del medesimo colore. Anche se non
avresti mai pensato a Jack accostandolo ai colori scuri, nell'eleganza
dell'occasione il nero gli donava esaltandone la figura slanciata, i capelli
– al momento nella presa di Lottie – che
nel loro colore dorato quasi risaltavano sulla stoffa scura.
Finalmente la ragazza sembrò fermarsi, smettendo di
trascinarsi dietro Jack – peraltro Oz non aveva potuto non notare i
risolini divertiti degli altri studenti che li avevano notati, come se quella
fosse una scena abituale ormai.
Lasciata finalmente la treccia e permesso a Jack di tornare
in posizione eretta, non più costretto a seguire la ragazza, Lottie si voltò verso di lui con espressione ancora palesemente
arrabbiata.
«Perché non me lo hai detto?!
E non dirmi che non lo hai notato finora, perché nemmeno tu sei così
stupido Jack. Cos'era, lealtà verso Padron Glen?!»
lo incalzò irritata.
Jack, le mani leggermente alzate quasi in segno di resa,
abbozzò un sorriso leggero: «Lottie, non è questione di notare o di lealtà
verso Glen. In realtà non ne ho mai parlato direttamente con lui,
quindi... non pensare che volessi nasconderti nulla, per favore.» ammise, il tono calmo sebbene con una nota di
dispiacere, probabilmente per quella situazione che si era creata o si stava
creando.
Lottie
non sembrava convinta da quella risposta: «Ma tu
sei con lui tutto il tempo! Cos'è, è divertente sapere dei miei
sentimenti per Padron Glen, Jack? Se scopro che mi stai prendendo in giro– »
«Non è affatto
così.» la interruppe bruscamente Jack, lo sguardo che si era fatto
serio all'improvviso mentre una mano aveva afferrato, pur senza gesti bruschi,
il polso esile della ragazza. Gli occhi verdi erano puntati su di lei, mentre
parlava.
«Non
mi sarei mai preso gioco dei tuoi sentimenti Lottie e
questo lo sai bene. Non trovo affatto divertente
né vedere i tuoi sentimenti non ricambiati, né nulla del genere.
È vero che mi ero accorto di questa cosa, forse persino prima di Glen,
ma... è un altro, il motivo per cui non ho affrontato il discorso con
nessuno. Perciò...»
«E
quale sarebbe questo motivo, sentiamo. Lacie ti aveva chiesto di non dire
nulla? Per questo non ti sei potuto nemmeno fidare di me? Sai perfettamente che
sono consapevole del mio ruolo di servitrice dei Baskerville, e che non avrei
mai osato esternare questi sentimenti, eppure– »
«Sono stanco!» sbottò Jack abbassando lo
sguardo pur senza alzare il tono di voce, conscio probabilmente che potessero
esserci orecchie indiscrete ad ascoltare quel discorso visto
che erano nell'atrio dopotutto.
Oz poté notare lo sguardo di Lottie
farsi confuso, come se improvvisamente le fosse sfuggita un'informazione
di vitale importanza per quel discorso.
La ragazza osservò Jack, senza capire:
«Stanco?» ripeté, il biondo che sembrava non riuscire ad
alzare nuovamente gli occhi chiari su di lei.
«Già.» confermò: «Stanco di
dover... di dovermi preoccupare esclusivamente dei
sentimenti degli altri.» sussurrò. A cosa si riferisse,
Oz non lo comprendeva ancora del tutto. Ma il tremore delle mani di Jack lungo
i fianchi, era qualcosa di impossibile da ignorare.
La voce di Lottie che rispondeva,
lo sguardo ammorbidito rispetto alla rabbia ostentata fino a quel momento, si
affievolì sempre più finché Oz non fu del tutto incapace
di cogliere anche solo una delle parole che sembrava rivolgere al Jack di fronte a lei. Capì che era l'intero
ricordo a sbiadire, ed automaticamente portò lo
sguardo su suo fratello ancora fermo al suo fianco.
Il più grande manteneva gli occhi chiari sulla scena,
a cui poteva assistere come un ospite speciale
già a conoscenza delle battute degli attori che lui aveva vissuto in
prima persona.
«Ero davvero infantile, in un certo qual modo.»
pronunciò dopo un silenzio che ad Oz era
sembrato interminabile. Non lo incalzò chiedendo cosa intendesse,
perché Jack aveva l'aria di chi avrebbe comunque saziato la sua
curiosità senza bisogno di porgli altre domande.
«Lottie
aveva rivelato i sentimenti che nutriva per Glen solo a me. Ma
per la persona immatura che ero a quel tempo, rifiutai di condividerli per
paura che schiacciassero i miei o, che al tempo stesso, li portassero alla
luce. Lasciai credere a Lottie che il motivo di quel
turbamento erano dei sentimenti per Lacie che non
avevo mai confessato, ma... immagino che, a lungo andare, abbia comunque capito
a cosa mi riferissi davvero.» parlò quasi stancamente, come se un
peso invisibile all'improvviso lo stesse schiacciando.
Oz si chiuse per qualche istante in un silenzio meditabondo
che Jack non spezzò, lasciandogli tutto il tempo di cui aveva bisogno.
Alla fine alzò lo sguardo su Jack per una manciata di secondi prima di portarlo poi nuovamente davanti
a sé, in attesa che un nuovo ricordo andasse formandosi: «Io non
credo che fossi totalmente dalla parte del torto.» pronunciò quasi
a sorpresa. Né una domanda, né un giudizio: una
constatazione fatta un po' seguendo la verità, un po' seguendo l'affetto
verso il fratello.
Quella sensazione di essere schiacciato dai sentimenti
altrui senza poter dar sfogo ai propri, e la volontà al tempo stesso di
voler nascondere quelli che si reputano solo segni di debolezza, Oz la
conosceva.
In maniera forse ipocrita, osservarli su Jack lo aveva
portato istintivamente a pensare che nel cedere ogni tanto... non ci fosse
nulla di male, che fosse del tutto umano e comprensibile.
Aveva pensato, osservando quel fratello più giovane e
vicino alla sua età in un ricordo di anni prima, che fosse quasi
legittimo.
«Eri
solo spaventato. Lo so, perché... sono spaventato anch'io.» mormorò con un filo di voce, ammettendolo ad
alta voce e sinceramente per la prima volta.
Quando alzò lo sguardo sulla figura di Jack fu per il: «Non è sbagliato quello che
dici. Ma le mie furono parole crudeli, probabilmente.» che aveva pronunciato, al quale era seguito un sussurro che Oz
aveva colto per pura fortuna – o così credeva.
«Come le bugie rivolte al mio unico, migliore amico.»
Oz sussultò dopo che l'ultima immagine del ricordo
del ballo fu sbiadita del tutto, lasciando il posto ad
un'oscurità inconsistente prima di prendere di nuovo forma.
Il sorriso che aveva intravisto sul viso di quel Jack più giovane, rivolto ad un Glen nel cui
sguardo era passato un guizzo di preoccupazione per l'amico, era identico a
quello che Oz aveva sempre, sempre rivolto a chi lo circondava.
Quell'incurvarsi di labbra che racchiudeva la convinzione di
riuscire a mentire nascondendo la verità, e la fragilità di chi
poteva spezzarsi da un momento all'altro.
Strinse i pugni, lo sguardo sul corpo di Oz che sotto le
lenzuola continuava ad agitarsi nel sonno, nonostante i vari tentativi di Noah
di scuoterlo e svegliarlo.
Era rientrato per cambiarsi con calma per uscire,
approfittando del fine settimana; quando aveva notato in
un primo momento quell'agitarsi non si era preoccupato eccessivamente,
attribuendo il tutto ad un sogno o simili. Ma i
lamenti si erano fatti più frequenti, perciò aveva pensato di
svegliare il compagno di stanza: solo allora si era accorto del sudore freddo
che gli imperlava la fronte. E nonostante lo avesse scosso e chiamato diverse
volte, Oz non aveva dato il minimo segno di risveglio.
Probabilmente suonava assurdo dire che la cosa lo aveva
mandato nel panico. Ma il punto era che Oz aveva avuto
altre volte un sonno così agitato da svegliarsi urlante, e soprattutto
il sonno di una persona poteva essere pesante ma mancava poco che Noah quasi lo
buttasse letteralmente giù dal letto.
Senza contare che il sudore freddo – aveva notato in
secondo momento che non si trattava unicamente del volto, ma che il pigiama
aderiva leggermente al corpo, bagnato da quello stesso sudore – poteva
stare a significare anche un malore.
Fu per quello che decise di aprire la porta, e allontanarsi per rivolgersi
all'infermeria o al capo dormitorio se lo avesse trovato più celermente;
uscendo in fretta e furia, tuttavia, poco mancò che la porta cozzasse
contro qualcuno che evidentemente si stava dirigendo verso la loro stanza, o
semplicemente camminava nel raggio d'apertura della porta.
«Ehi!» sentì sbottare il povero mal
capitato, chiunque fosse: «Guardare prima di aprire la porta come un
folle non ti farebbe male, Keynes!» aggiunse, non proprio l'esempio della
cortesia, mentre Noah faceva mente locale e riconosceva la voce. Confermò
l'identità del suo interlocutore portando lo sguardo su di lui ed incrociando quello ceruleo di Elliot Nightray.
Notò fugacemente Reo al suo fianco, ma non vi si
soffermò più di tanto; considerando che il castano indossava
abiti con cui di solito Noah lo aveva visto uscire dall'accademia, il suo
cervello e lo stato abbastanza precario in cui normalmente esso versava avevano
portato ad un farfugliare incomprensibile.
Quando se ne rese conto, allungò una mano a prendere
il polso di Elliot, tirandolo appena verso di sé e la porta della
propria stanza. Lo lasciò praticamente sulla
soglia, la spiegazione: «Oz sta male e non riesco a svegliarlo! Continua
a scuoterlo, io vado a chiamare Kolstoj o chi per lui!» che fu praticamente mezza urlata mentre già si allontanava
di corsa.
Perplesso, Elliot fu anticipato da Reo che entrò
prima di lui, passandogli di fianco.
«Jack, perché continua ad
essere buio?» domandò confuso, notando che lo scenario che
già altre volte era mutato per mostrargli dei ricordi non prendeva una
forma definita. Il più grande si guardò intorno per qualche
istante, prima di dare una risposta.
«Probabilmente
il tempo a nostra disposizione si sta avvicinando alla fine. È probabile
che qualcuno stia cercando di svegliarti; forse, è già
mattina.» dichiarò, il tono un misto di
tante cose che Oz credeva di riconoscere, risultando magari arrogante.
Avvertiva il peso della separazione che si avvicinava, della consapevolezza che
dopo quella volta forse non lo avrebbe davvero rivisto. Magari Jack non avrebbe
più potuto avvicinarlo, forse il patto con Sirjan glielo avrebbe
impedito. Oppure chissà, quella di parlare con lui poteva essere la
famosa “questione in sospeso” di cui si leggeva nei libri, e allora
Jack sarebbe andato semplicemente in un posto lontano e inconsistente, che non
si vede e non si può raggiungere.
«C'è
un'ultima cosa che posso mostrarti, nel tempo che ci rimane. Credo che sia la
più importante, perché tu possa capire.»
risuonò nuovamente la voce di Jack, mentre la sua mano raggiungeva quella
di Oz e la prendeva gentilmente, cercando di rassicurarlo il più
possibile.
Il più giovane strinse la presa di rimando, puntando
lo sguardo di fronte a sé: per una volta, dopo tanto tempo, sentiva che
qualsiasi cosa si fosse parata davanti ai suoi occhi non avrebbe dovuto
guardare altrove.
E vide di nuovo una scena farsi sempre più chiara,
acquistando senso.
Non era Latowidge, questo fu chiaro, ma
Oz riconobbe ugualmente quel luogo – non senza stupirsene: una stanza in
penombra che conosceva fin troppo bene si era delineata di fronte a loro. La
camera di Jack, del periodo in cui il fratello era sempre più
frequentemente costretto al letto; istintivamente, Oz gli strinse ancora di
più la mano, come se fosse un appiglio per non sfuggire alla
realtà.
Il Jack del ricordo era
a letto, gli abiti informali di una persona malata: era più pallido, e
la stanchezza si notava sul volto nonostante gli occhi verdi non avessero del
tutto perso quel guizzo brillante che li aveva sempre caratterizzati. Il
lenzuolo e la coperta lo coprivano fino alla vita, mentre la schiena poggiava
su due guanciali sistemati in modo che la posizione da seduto non lo stancasse
ulteriormente.
I capelli biondi erano legati in una treccia, ma molto
più morbida, data l'intimità della propria stanza; gli occhi
passavano dalle proprie mani – l'una vicina a quello che Oz riconobbe
come il diario del fratello, l'altra posata sulla copertina dello stesso
– ad un punto preciso della stanza, vicino alla
finestra.
Anche Oz deviò la propria attenzione in quella
direzione, e sussultò impercettibilmente notandovi la figura di Glen in
piedi che aveva ormai imparato a riconoscere. Tuttavia non avrebbe davvero
saputo dire chi, tra Jack e Glen, fosse la persona malata: il moro aveva lo
sguardo spento, era ugualmente pallido, e sembrava guardare fuori dalla
finestra come se non ci fosse nient'altro al mondo degno della sua attenzione
più di un giardino visto chissà quante volte.
Il Jack in quel ricordo
non azzardava a spezzare il silenzio che pesantemente gravava nella stanza;
l'espressione mesta si mescolava ad una carica di senso di colpa.
Oz si chiese se non fosse stato quello il giorno in cui suo
fratello aveva scritto sul suo diario di considerarsi un assassino, nonostante
non avesse commesso alcun reato in vita.
«...Jack?» sentì
chiamare il nome del biondo da Glen, in un tono basso appena percettibile.
L'altro voltò appena la testa verso di lui, rispondendo con un:
«Dimmi, Glen.» poco più alto di un mormorio.
Oz vide il Glen di quel ricordo alzare appena la testa, ma
continuare a guardare fuori.
Era quasi certo che in realtà non vedesse nulla.
«Non era un incidente.» decretò quasi
freddamente. Eppure, al tempo stesso, nel tono con cui pronunciò quelle
poche parole ad Oz parve di cogliere disperazione e
rabbia, di quelle che ti logorano e non ti lasciano scampo.
«Lacie è stata uccisa.» aggiunse il moro.
Mentre quella pesante accusa riecheggiava nella stanza e nella mente di Oz,
questi spostò istintivamente lo sguardo sul
Jack che nel suo letto di morte prossima stringeva appena la copertina di un
diario.
«Glen... c'è una cosa che devo dirti.»
mormorò piano, trovando chissà dove il coraggio di alzare lo
sguardo su di lui esattamente mentre il moro portava il proprio sul suo
migliore amico.
«Io...
sto morendo Glen. Non c'è possibilità che io... possa rimanere
con te ancora a lungo.» pronunciò.
Mentre l'immagine di due persone consumate dalla solitudine
e dal dolore spariva come gli altri ricordi avevano fatto fino a quel momento,
Oz fu certo di sentirla.
Una voce che si scusava disperatamente.
Era la voce di Jack.
«...Jack!»
pronunciò, boccheggiando appena come se gli fosse mancata l'aria,
svegliandosi di soprassalto; una mano verso l'alto, gli occhi chiari spalancati
inquadrarono in breve la figura di Elliot che sopra di lui l'aveva
probabilmente scosso fino a quel momento.
Quando quel pensiero divenne concreto nella sua testa,
scattò con rabbia verso di lui, afferrandolo malamente per il colletto
della camicia.
«Perché mi hai svegliato?!
Perché... perché mi hai...?!»
«Datti una calmata!» sbottò quello di
rimando, afferrando il polso del moro in una presa salda e costringendolo a
lasciarlo andare. Oz fu per un attimo perso, e confuso.
Rimase con la mano a mezz'aria, in parte protesa verso
Elliot – solo allora notò Reo dietro di lui – senza sapere
esattamente cosa fare o come muoversi. Cosa credere.
Poi, quasi violentemente, l'immagine del diario stretto tra
le mani di Jack nell'ultimo ricordo lo fece voltare verso il comodino: senza la
minima attenzione alle lenzuola, o al pigiama che gli aderiva addosso a causa
del sudore, aprì malamente il cassetto in cui aveva nascosto il diario
dalla propria vista per molto tempo.
Recuperatolo, lo sfogliò febbrilmente, senza curarsi
degli sguardi confusi e increduli dei due Nightray nella stanza. Temette quasi
di perdersi qualche pagina per strada a causa dell'impazienza, dell'urgenza
improvvisa di sapere quello che aveva voluto ignorare per molto tempo.
Poi, la trovò.
La pagina di diario scritta dopo la morte di Glen
Baskerville.
Non sono mai andato fiero di aver mentito a Glen,
anche se dirlo il giorno del suo funerale
può sembrare ipocrita.
Dopo la morte di Lacie, Glen è sprofondato nella
disperazione;
guardava il mondo con gli occhi di chi vede qualcosa di vuoto e
completamente inutile,
e lo disprezza.
Ma al tempo stesso,
Glen non era mai stato in grado di abbandonare il mondo
dov'era stata Lacie.
"La felicità è scomparsa"; credo
fosse questo che pensava..
Ma sosteneva che in un parte del
suo cuore, c'era una piccola speranza ancora.
Lo ha detto una sola volta, a voce.
Sussurrava, per la verità.
«Jack, tu sei una speranza piccola come la fiamma di
una candela.»
Sapevo che Glen non avrebbe resistito,
alla disperazione di perdere anche lasperanza a cui si aggrappava
per non cedere al dolore che lo stava logorando;
e pur sapendolo, gli ho detto che non sarei vissuto ancora a
lungo.
...Non mi importa se pensano di me
che sono un egoista, un assassino, un eroe, o chissà cos'altro.
Io ho mentito a Glen su molte cose,
compreso il tipo di sentimento che avevo:
non ero davvero felice, quando osservavo lui e Lacie.
Ma non l'ho fatto per eroismo, né sono qualcosa di
anche solo vagamente simile ad un martire.
Io credo che a volte si possa, o si debba mentire;
logorarsi, e restare a guardare.
Anche quando la felicità degli altri non coincide con
la nostra.
Credo che sia semplicemente... sì.
Credo solo che sia anche questo un modo di amare qualcuno.
Come la decantata metafora letteraria di un puzzle, Oz
vedeva le parole di quella pagina unirsi ai ricordi osservati in quel sogno in
cui suo fratello era stato nuovamente una presenza tangibile al proprio fianco.
Jack non era mai stato innamorato di Lacie.
In un modo persino più profondo di quanto fosse
accaduto ad Oz nei confronti di Gilbert, il legame che
aveva unito Jack a Glen era mutato in maniera univoca; il biondo si era
riscoperto a provare un amore che con il tempo era diventato tante e troppe
cose diverse – quello per il migliore amico prima, per un fratello poi,
ed infine per una persona dalla quale si vorrebbe ricevere egoisticamente tutto
forse.
Jack era stato confuso, spaventato da quel sentimento che
aveva infine scelto di soffocare totalmente. Nonostante non avrebbe mai voluto
mentire alla persona per lui più importante, lo aveva fatto per
garantirne la felicità. Tuttavia Oz capiva anche che Jack non si era mai
idealizzato per quello.
Capiva che suo fratello aveva rinunciato non solo per la
felicità di Glen, ma anche per la paura che – al pensiero di
essere allontanato se si fosse esposto – lo paralizzava.
Il legame tra suo fratello e il suo migliore amico era stato
forte, per certi versi incomprensibile dall'esterno. Era qualcosa che
probabilmente nemmeno i diretti interessati avrebbero potuto spiegare con
chiarezza; allo stesso modo, la morte che li aveva uniti ancora una volta
– date non troppo distanti, e l'apparente dipendenza l'una dall'altra
– non aveva alcuna verità da rivelare forse.
Jack non era morto a causa di Glen, e Glen non era morto a
causa di...
«Lacie è stata uccisa.»
«Io... sto morendo Glen.»
Oz sgranò appena gli occhi, ignaro dell'espressione
di Elliot che si era fatta preoccupata, nonostante il castano non avrebbe di certo voluto darlo a vedere. Il biondo,
però, iniziava a preoccuparlo: non aveva detto nulla dopo quello scatto
nervoso con cui lo aveva afferrato per il colletto ed
ora aveva l'espressione di chi non riesce a credere a quello che vede –
la conosceva bene, Elliot, la sensazione di terrore di fronte ad una
verità da cui si vuole distogliere lo sguardo.
Allungò istintivamente una mano, posandola sulla
spalla di Oz per scuoterlo appena, con un'insospettabile delicatezza. Il
più giovane, quasi fosse stato riportato alla realtà, alzò
lo sguardo su di lui pur senza lasciar sfumare la sensazione di confusione ed incredulità che lo animava.
«Glen Baskerville...»
soffiò appena, tanto che Elliot non sarebbe stato certo di aver sentito
bene se solo fosse stato appena più lontano da lui.
«Glen Baskerville ha... scelto di morire.» aggiunse ancora incredulo.
Contrariamente a quanto chiunque avrebbe potuto pensare,
sembrava a quel punto ovvio il motivo del suicidio, la ragione che sfuggiva a
tutti – perché l'erede dei Baskerville aveva sempre avuto tutto
agli occhi di chi lo osservava. E invece gli erano state portate via le uniche
cose che aveva desiderato, senza che lui potesse fare
nulla.
Impotente contro un omicidio.
Impotente contro una malattia.
«Bezarius, non capisco cosa stai dicendo.»
pronunciò Elliot, il più garbato possibile: si rendeva conto che
l'altro era di poco lontano da uno stato di shock, e non sarebbe stato di certo
l'ideale scuoterlo maggiormente.
«Io... devo incontrare Glen ancora una volta.»
mormorò Oz: «Devo... devo assolutamente riferirglieli.»
«Cosa?» fece eco Elliot istintivamente, senza
soppesare più di tanto la domanda.
Oz tacque, la frangia che copriva appena lo sguardo, tanto
che i due Nightray non avrebbero saputo dire che espressione avesse mentre
stringeva il diario.
«I sentimenti di Jack.»
Note dell'autrice (ancora viva)
Ebbene sì, ogni tanto resuscito dalle mie ceneri 8D
Nonostante io sia stata brutalmente boicottata (esami,
esami, esami, e fatemi pensare... esami?), il 18 ha
visto la luce – spero senza mietere vittime fra i lettori x°°
Non ho ancora fatto un calcolo ben preciso (che
probabilmente farò in occasione di Rinnega 19), ma non siamo proprio
lontanissimi dalla fine. Diciamo che ci stiamo avviando, cosa che forse era
intuibile dal minimo di chiarezza che man mano acquistano tutte quelle
questioni che avevo disseminato prima XD
La frase in apertura è del telefilm “Brothers & Sisters”.
Passo a rispondere alle recensioni! <3
FiammaDrakon:
come hai sottolineato,
Sirjan è un personaggio in continua evoluzione in un certo senso.
Siccome è un original inserito, non credevo
nemmeno io che alla fine avrebbe avuto un ruolo simile. Tra l'altro, spesso mi
sorprendo anche io nello scoprire che un determinato
atteggiamento gli si addice XD Credo che il suo avere tanti lati
“nascosti”, sia dovuto al fatto che è stato tante cose diverse,
molte delle quali influenzate (nel bene) da Alyster <3
Elliot è amore. Di conseguenza, renderlo ancora
più amore appena se ne ha la possibilità
è doveroso u_u tra l'altro adoro i battibecchi
a tre con Oz e Reo, fin dalla prima volta che la Mochizuki
li ha anche solo accennati, quindi appena posso ne piazzo uno *_*”
Aedan era l'unico a cui vedessi
bene addosso quel ruolo in quel momento: tanto per cambiare non era
pianificato, ma è a conti fatti forse l'unico personaggio (battendo
persino Noah) che possiede quell'ingenuità e quella semplicità
che si ritrovano solo in un bambino.
Per la questione di Alice, dovrete pazientare, ma è
tutto molto vicino! XD
Nuit:
innanzitutto lasciami dire grazie e
complimenti per la pazienza di riscrivere la recensione XD (ho notato che hai
dovuto farla di nuovo).
I tuoi complimenti mi lusingano davvero: sono contenta che
lo stile, le vicende narrate e l'IC dei personaggi siano di tuo gradimento, e
ti ringrazio in special modo per il giudizio sui pg originali che temevo potessero
non risultare graditi all'inizio. Riguardo il ruolo di Alice in quanto figlia illegittima e al legame
suo e di Gilbert con Jack senza lo zampino dell’Abisso a fare casini,
dovrete pazientare, ma come ho detto in risposta a Flamma, non tantissimo XD
Infine sì: Break e Rufus non hanno concezione della
parola “tatto”. Fortunatamente, Sirjan sa giostrare bene la cosa XD
Ti ringrazio infine, per la segnalazione che ha permesso a
questa longfic di essere aggiunta fra le Storie
scelte. E' stata una piacevole sorpresa, ed una grande
soddisfazione <3
Spero che anche questo capitolo sia stato di tuo gradimento!
AcchanBaka:
tu devi essere partecipe dell'immensa
difficoltà che io ho avuto nel descrivere Jabberwocky inquietante, dopo
che in altre sedi l'immagine ricorrente che ho di lui è quella di un
grifone formato caricatura che fa la faccia beata mentre Jack lograttinizza (e non dirò
altro oltre il fatto che in quella stessa sede, Jack lo chiama “Jabby”XD).
Detto ciò, ti ringrazio per i vari complimenti alle varie scene (che ho già commentato nelle altre due
risposte, e che è superfluo ripetere) e per quelli allo stile. Ci sono
periodi in cui, come sai, mi scervello per cambiare lo stile che puntualmente
mi sembra troppo pesante; ma suvvia, se non vi lamentate voi che leggete,
suppongo che sia accettabile XP
Ed ecco finalmente in questo capitolo l'incontro che
aspettavi. So che soffrirai come un vitello, sì 8D *patpat
Capitolo 19 *** La me stessa che non voglio ricordare ***
La me stessa che non voglio ricordare
La me stessa che
non voglio ricordare
Tu starai sempre
con me, vero?
Sentendo
quelle parole, Elliot ebbe bisogno di inspirare profondamente e fare appello a
tutta la propria pazienza: di testardi ne aveva incontrati molti finora, ma –
parola sua – Bezarius li batteva veramente tutti. Anche chi era mosso
dall’orgoglio o spinto dal desiderio di vendetta prima o poi,
irrimediabilmente, veniva fermato dal buon senso di fronte ad una situazione
pericolosa. Al contrario, Oz era mosso da sentimenti teoricamente più deboli,
ma nemmeno l’eventualità di essere ferito anche in maniera piuttosto seria
sembrava preoccuparlo o costituire un impedimento per lui.
«…Elliot?» tentò il biondo, preoccupato dell’improvviso e
totale silenzio che aveva sostituito il naturale sbraitare dell’altro che si
era aspettato. Tuttavia, la sua preoccupazione non era destinata a durare a
lungo: uno scappellotto si abbatté implacabile sulla sua testa, e ad esso seguì
la voce di Elliot in risposta all’istintivo «Ahi, ma perché?!» sfuggito ad Oz.
«Mi
snervi!» sbottò l’altro ad alta voce: «Ogni volta che parliamo finisci col
blaterare a proposito di Glen Baskerville, come se non ti avessi già fatto
capire come la penso sulla faccenda. Me lo fai apposta?!»
Oz
rimase per un attimo imbambolato a quelle parole; fino ad allora, a dire il
vero, non ci aveva mai badato ma quello che diceva Elliot era vero. Da quando
aveva iniziato a parlare di Glen quasi solo con lui? Ma perché poi? Ci pensò
per la prima volta: forse in parte era stato per la morte di Alyster, l’unica
con cui ne aveva discusso senza sentirsi ogni volta sotto esame.
Forse
era stato anche perché sapere che Elliot, seppur da bambino, lo aveva
incontrato aveva reso il castano qualcuno con cui condividere qualcosa che si
era tenuta nascosta a tutti gli altri. Sì, doveva essere proprio quello il
punto.
Elliot
era l’unica persona per la quale Glen Baskerville non era solo il nome di un
morto o uno spirito che nessun altro aveva mai visto oltre lui.
Si
portò una mano alla nuca con fare un po’ impacciato ed Elliot rabbrividì: non
era mai un bene se uno con la faccia di bronzo di Bezarius faceva il timido.
«Beh,
che c’è?!» lo incalzò, un po’ sgarbato in realtà.
Oz
abbozzò un sorrisetto: «È che non ci avevo mai pensato. Lo avevo…
sempre fatto istintivamente. Però è vero che sono quasi sempre finito a
parlarne con te.» diede voce al ragionamento appena concluso nella propria
testa. Elliot sospirò quasi esasperato, iniziando a perdere il filo: «E quindi?»
«Grazie.»
disse solo Oz, sincero.
Toccò
ad Elliot sorprendersi, ma durò molto meno; portò lo sguardo a vagare per la
stanza e si limitò a mettere su una specie di broncio, limitando la risposta ad
un burbero: «Tch. Non che avessi altra scelta a parte ascoltarti.» proprio
tipico di lui.
«Ad
ogni modo non è questo il punto.» riprese subito il castano, ritrovando una sua
compostezza: «Devi veramente piantarla con questa storia. Anche se hai buone
intenzioni, credi davvero che dopo l’avvertimento che ti ha dato Glen starebbe
ad aspettare che gli spieghi la situazione? Che poi, più che avvertimento
immagino suonasse molto più come una minaccia.» aggiunse non senza una leggera
ironia. Oz si morse nervosamente il labbro inferiore, conscio che Elliot avesse
ragione almeno in parte.
«Lo
so, però…» altro scappellotto: «E questo per
cos’era?!» sbottò portando la mano a massaggiare la parte lesa. Ma Elliot non
sembrava affatto dispiaciuto: «È perché continui a cercare una scappatoia! “È
così, ma…”, “Hai ragione, però…”,
però un corno!» gli sbraitò di nuovo contro.
«Non
ci sarà alcun “se” o “ma” che terrà se andrai di nuovo di fronte a Glen
Baskerville. Ti stai facendo l’idea che quell’uomo sarà preso da un momento di
comprensione, ma è un’idea totalmente sbagliata! Per non dire folle. Una
persona che non ha esitato un solo istante ad uccidersi non ha paura della
morte e non ha nulla da perdere. E tu pensi davvero che uno così avrebbe degli
scrupoli? È già tanto che ti abbia risparmiato ben due volte!» esclamò.
Oz
avrebbe mentito se avesse detto che trovava le parole di Elliot delle idiozie
prive di fondamenta,o che non aveva
sentito una sensazione di paura attanagliargli lo stomaco in presenza di Glen.
Tuttavia, dopo aver finalmente compreso i sentimenti di Jack, non voleva
nemmeno lasciare nulla di intentato.
«Io
non posso rinunciare tanto facilmente.» mormorò «Non dico che hai torto, ma
anche Glen aveva un profondo affetto per Jack. Se gli dico che è un suo messaggio…»
«Sei davvero così ingenuo da credere a quello
che stai dicendo?» lo interruppe Elliot, lo sguardo incredulo su di lui. Oz si
sentì preso in giro, ed assunse un’espressione quasi indispettita.
«Come
puoi essere sicuro del contrario invece?» rimbrottò, fissandolo.
«Cos’è,
hai dimenticato chi ha trovato Glen Baskerville morto?» rimbeccò sardonico
Elliot: «O la parola mia e di Gilbert non basta?!» alzò la voce, iniziando a
perdere completamente quel briciolo di calma mantenuto – chissà come – fino a
quel momento.
«Tu… e Gil?» fece eco Oz, perplesso. Elliot sgranò appena
gli occhi: mai se l’era lasciato
sfuggire con qualcuno. Persino Reo lo aveva saputo molto tempo dopo essere
diventato il suo servitore.
«Ah…quello…» iniziò il castano,
ma Oz non seppe dire se fosse per dirgli cosa intendeva o per smentirlo. In
quell’istante la porta si aprì, rivelando Reo e Noah, il primo rimasto
evidentemente fuori per tutto quel tempo, l’altro con il fiatone. Vedendo Oz
sveglio e con un colorito umano, Keynes si ritrovò fra il felice, il sollevato
e l’imprecazione probabilmente dovuta al polmone perso nella corsa che si era
fatto – e aveva trovato l’infermeria vuota. Maledetta vecchia.
In
silenzio percorse con Reo il corridoio per poter tornare alla propria stanza.
Il moro non aveva chiesto nulla riguardo la presunta conversazione tra lui e il
biondo – di cui certamente doveva essergli arrivato qualche stralcio se era
rimasto per tutto il tempo fuori dalla stanza – né di cosa portasse Elliot a
chiudersi ora in quel silenzio meditabondo.
Nel
mentre, nella mente del castano tornavano di tanto in tanto le parole
pronunciate da lui stesso, quell’ammissione sulla presenza di Gilbert al
ritrovamento del corpo di Glen. Aveva finto di averlo dimenticato, come se il
trauma l’avesse rimosso dalla sua memoria, in un modo simile a quello in cui
Gilbert era stato colpito dall’amnesia qualche anno prima. In quel modo,
evitare di parlarne era stato facile; persino col Duca Nightray, che vantava
non poco ascendente sul suo figlio minore.
Perdonatemi padre, aveva mormorato mortificato,
non riesco a ricordare.
Ma in
realtà non aveva mai dimenticato. E d’altra parte come avrebbe potuto, se
quello scenario tornava a fargli visita in sogno quasi periodicamente?
Entra quasi senza pensare,
senza badare troppo a quale stanza sia – quella casa è immensa, e lui ci entra
per la prima volta. Perciò non fa caso al fatto che si trova nell’ala privata,
dove ci sono le stanze del padrone e della famiglia Baskerville.
Entra, e se fosse un adulto
istintivamente guarderebbe la stanza nell’insieme: ma Elliot dopotutto è solo
un bambino ancora, e dell’accortezza di un adulto non sa nulla. Lui è preso dal
magnifico pianoforte sulla sinistra, e quasi incantato si muove istintivamente
verso di esso.
Sfiora il nero lucido dello
strumento e sorride emozionato come se ne vedesse uno per la prima volta.
«…Elliot?»
è un mormorio così impercettibile che, se solo non ci fosse tutto quel
silenzio, è sicuro che non lo sentirebbe.
Lo sguardo cerca
istintivamente la fonte del richiamo, e non impiega molto a trovarla: è alla
sua destra, un po’ in avanti rispetto al punto in cui si trova lui. È Gilbert,
che lo guarda con un misto di tantissime cose – ma Elliot è solo un bambino
dopotutto, e non è in grado di riconoscerle tutte.
Vede il fratello maggiore, e
se c’è una cosa che capisce è che è spaventato; quello che non coglie è il
desiderio quasi disperato nello sguardo dell’altro.
“Portatemi via.”
“Non guardarmi.”
“Vattene da qui.”
“Non guardarmi, non guardarmi,
non guardarmi.”
Elliot si sente confuso, e
davvero non capisce finché non rientra nel suo campo visivo.
Il corpo senza vita di Glen
Baskerville giace a terra: sotto di lui il sangue ha impregnato la moquette, e
più lui si avvicina quasi ipnotizzato dalla paura che si fa strada in lui, più
Gilbert trema e sembra provare il forte istinto di alzarsi e scappare via.
Ma sono le gambe che non glielo
concedono, che hanno ceduto inchiodandolo lì a terra; Elliot la vede, la
pistola che Gilbert ha tra le mani, e che è troppo grande per lui.
Però Elliot è solo un bambino:
mentre il sangue gli sporca le mani, non pensa nemmeno per un istante che suo
fratello sia un assassino.
«Vorrei
sapere dove accidenti è Elliot.» bofonchiò Gilbert, il passo spedito che
percorreva il corridoio del dormitorio maschile.
«Quando
saprò dov’è Oz lo ridurrò in pudding.»
sbraitò Alice, priva di una qualsivoglia delicatezza, camminando quasi al
fianco di Gilbert che le scoccò un’occhiataccia a quella specie di minaccia.
«Beh,
che hai da guardare?» chiese subito lei sulla difensiva, notandolo: «Niente,
niente.» la blandì scocciato lui, senza la minima voglia di mettersi a litigare.
Oltretutto, avrebbe voluto sapere anche lui dove fosse Oz: specie da quando
Echo – che poi, cosa ne sapeva se in teoria era sempre con Vince? – aveva detto
che ultimamente il biondo era spesso con Elliot.
Cosa
che gli sembrava di aver sentito dire anche ad Ada, recentemente – in tutto ciò
non aveva ben capito nemmeno se lei e Oz si fossero tacitamente riappacificati
o se avessero parlato chiarendosi.
…Non
che fosse geloso, comunque.
«Ohi»
richiamò l’attenzione di Alice, indugiando per cercare le parole adatte a
spiegarsi al meglio senza essere frainteso: «non vieni a casa nemmeno alle
prossime vacanze?» buttò lì. Era un argomento di cui non avevano mai parlato
per scelta di entrambi.
E
dire che sarebbe stato più comodo e del tutto legittimo che ogni tanto tornasse
con loro. Ma Alice non lo aveva mai fatto, finché non era stata praticamente
obbligata. In pessimi rapporti con Vincent – per motivi che ignorava – senza
particolari legami con Elliot, scambiava qualche parola (meno sgarbata del
solito) solo con Reo.
Quanto
al resto, un atteggiamento arrogante e supponente l’aveva sempre
caratterizzata, e resa insopportabile a Gilbert per partito preso quasi.
«…Cos’è, ti hanno fatto il lavaggio del cervello?!» sbottò
Alice fissandolo allucinata dalla proposta; Gilbert tossicchiò: non che potesse
darle torto, viste le premesse del loro pseudo rapporto tra cugini.
«Ho
solo pensato che ogni tanto male non ti fa. Presto andremo quasi tutti a casa,
Oz compreso probabilmente. Considerando che i tuoi rapporti si limitano quasi
del tutto a lui e Keynes, piuttosto che annoiarti qui non sarebbe più sensato?»
fece notare, voltando l’angolo.
Alice
lo imitò e mise su un’aria stizzita: «E che ci verrei a fare? Restare qui
sarebbe lo stesso, stupido idiota.» rispose. Giorni interi con Vincent per casa
e tutti i pasti da consumare con lui?
Piuttosto
si faceva adottare da Break.
«E
allora?!» rimbeccò Gilbert – la pazienza lasciata al corridoio prima forse: «Saresti
almeno in famiglia, idiota!» sbraitò, aumentando appena il passo.
Alice
non lo raggiunse di proposito: quel cretino aveva osare dire qualcosa di
imbarazzante cogliendola alla sprovvista!
Il
moro nel frattempo rallentò, indeciso se proseguire per le scale raggiungendo
il piano di Elliot, o se accompagnare prima la cugina da Oz – sempre che fosse
nella propria stanza.
…Glen!
Chiuse
un occhio per riflesso alla fitta improvvisa alla tempia.
È tutta colpa di Glen!
Si
bloccò, portando una mano alla testa, lasciandosi sfuggire un mugolio di dolore
quasi impercettibile. Alice lo fissò spaesata: «Ohi, che hai adesso?» indagò,
quasi guardinga. Gilbert fece per scuotere appena il capo.
È colpa sua! Se sei così
arrabbiato, allora perché non lo uccidi?!
Impallidì,
boccheggiando appena.
Non
riusciva assolutamente a riconoscere la voce – il dolore alla testa la faceva
arrivare quasi ovattata – eppure era sicuro di conoscere la persona a cui
apparteneva. Era un ricordo vago, tenuto inconsapevolmente sigillato fino a
quel momento, e ancora annebbiato; tuttavia non gli dava una sensazione di
estraneità.
«Ehi,
che cavolo ti pren—»
«Gil?!»
sentì esclamare, e spostando lo sguardo verso le scale individuò Vincent che
con espressione preoccupata si avvicinava a loro, Echo al seguito.
Il
moro intanto si era poggiato leggermente al muro alla propria sinistra,
inspirando nella speranza che qualunque cosa fosse, passasse in breve.
Vincent
gli fu subito accanto: «Ti senti bene?» chiese, nel tono la preoccupazione
evidente.
Gilbert
annuì appena: «È solo mal di testa, una delle solite fitte. Ora mi passa.» assicurò.
Il biondo annuì senza scostarsi, ma spostò lo sguardo su Alice: un’occhiata
penetrante e piena d’odio la colpì come una secchiata d’acqua gelida.
Accusatoria, sembrava minacciarla di fargliela pagare, come se la colpa di quel
malore fosse sua.
Indietreggiò
di qualche passo, borbottando quindi un: «Io vado da Oz.» con sguardo basso,
iniziando ad allontanarsi.
Le
aveva messo i brividi.
Se
per l’occhiata in sé, per tutto l’odio condensato in un solo sguardo o perché
le sembrasse terribilmente familiare nonostante Vincent non gliel’avesse mai
rivolta prima, questo Alice non avrebbe saputo dirlo.
E non
lo voleva nemmeno scoprire; come se a quella sensazione di gelo fosse suonato
un campanello d’allarme nella sua testa.
Non
si prese nemmeno il disturbo di alzare lo sguardo dal libro che stava leggendo
quando sentì la porta del proprio alloggio sbattere nel venire richiusa. Non
c’erano molte persone che entravano a quel modo lì dentro: nello specifico o si
trattava di Xerxes Break in uno dei suoi (numerosi) momenti migliori, o di
Vincent Nightray, come in quel momento.
L’unica
differenza fra i due era che Xerxes era molto più rumoroso. E meno
sopportabile.
Alzò
finalmente lo sguardo sul biondo, notandone l’espressione: era decisamente
furioso, in quel momento.
«Se
hai intenzione di sfogare la tua irritazione sui miei soprammobili, potrei
finire con lo sfogare il mio conseguente disappunto su di te. Giusto per
avvisarti.» disse con tutta calma, tornando con lo sguardo sul libro e
voltandone una pagina.
Vincent
le lanciò un’occhiataccia, ma lei non parve rendersene conto; il biondo affondò
su una poltrona dove spesso faceva i suoi comodi quando – arbitrariamente –
decideva di dover andare a trovare la sua docente.
Né
lui né Charlotte Baskerville, comunque, si erano mai presi la briga di definire
il loro rapporto: Vincent si recava lì probabilmente per pura noia. Si era
scherzosamente definito più volte attratto dalla giovane docente, e aveva fatto
persino più di qualche avance
apparentemente seria. Charlotte, tuttavia, lo aveva sempre respinto: magari in
maniera sarcastica il più delle volte, mentre altre lo aveva lasciato giocare a
fare lo studente innamorato della sua professoressa, ma c’erano limiti
precisamente imposti da lei che a Vincent non era permesso ignorare.
E in
ogni caso, lui non era mai stato davvero serio – e a Charlotte non
interessavano i marmocchi.
Ultimamente,
tuttavia, quel ragazzo non aveva fatto altro che parlarle di Oz Bezarius,
specie in relazione al fratello Gilbert – ma quel brother complex, al contrario, non era affatto una novità.
Inoltre,
ogni volta che Bezarius aveva inconsapevolmente minato all’equilibrio emotivo
di Vincent – che già di suo non era propriamente “stabile” – il giovane si
presentava lì, sbatteva la porta, e poco dopo si slanciava in esclamazioni
rabbiose nei confronti dell’altro studente.
Seriamente,
che ragazzino complicato.
«Quando
finisce la tua crisi di isterismo, fai un cenno.» disse solo, sottilmente
provocatoria. Cosa voluta, neanche a dirlo.
«Risparmiati
il sarcasmo, Lottie.» replicò,
calcando il nomignolo.
La
cosa gli sarebbe costata un libro in pieno viso, se non avesse avuto la
prontezza di alzare un braccio e deviare quindi l’oggetto: «Ti ho già detto che
quel nome non devi usarlo o pronunciarlo. Vedi di stare al tuo posto, o quella
è la porta.» chiarì, fissandolo quasi minacciosa.
Non
che sperasse di spaventarlo, sarebbe stato inutile; ma Vincent aveva un
carattere tutto particolare. Non aveva ancora capito se apprezzasse chi gli teneva
testa o se invece capiva dal tono altrui fin dove potesse spingersi.
Ad
ogni modo il risultato ottenuto era comunque positivo per lei e la sua scarsa
pazienza. Vincent lasciò che le proprie labbra si incurvassero in un sorrisetto
scherzoso e infantile – e falso.
«Allora,
in che modo Oz Bezarius ti avrebbe irritato, oggi?» domandò quasi annoiata dal
ripetersi di una solita, identica situazione. Ma fu costretta a stupirsi e ad
abbandonare il libro concentrandosi su Vincent quando questi rispose stizzito: «Lascialo
perdere, per una volta che non c’entra.»
«Questo sì che è strano.» buttò lì casualmente, studiando l’espressione
dell’altro.
«Si tratta di Alice. Di nuovo, è sempre di mezzo, sempre! Tutte le volte che
succede qualcosa di sgradevole a Gil, lei è sempre coinvolta!» sbottò nervoso –
e Charlotte aveva avuto modo di notare che gli scatti nervosi di Vincent
Nightray non erano esattamente qualcosa da prendere sottogamba. Un po’ come
accadeva con tutte quelle persone che erano sempre calme o che si mostravano
costantemente sorridenti in qualsiasi circostanza; finiva sempre che il loro
perdere quella naturale tranquillità aveva un che di inquietante e – in casi
particolarissimi – di pericoloso.
«Alice,
eh? Che ultimamente è sempre con Bezarius. Buon sangue non mente, sempre
circondati da donne.» osservò, il tono irritato; palesemente non tanto da Oz,
quanto dall’esempio di Bezarius che lei aveva avuto modo di conoscere per anni.
Vincent spostò lo sguardo su di lei, lasciando stare per un attimo la questione
Alice: non era la prima volta che Charlotte si lasciava andare a commenti di
quel genere, ma mai una volta aveva risposto chiaramente a qualche sua domanda
in proposito. Non sapeva bene se fosse una sorta di riguardo, ma aveva quasi
subito eliminato quella possibilità: innanzitutto Charlotte non era proprio di
quelle persone che si curavano di fare attenzione a quello che dicevano per
paura di ferire il proprio interlocutore, inoltre dubitava fortemente che
sapesse che lui e Gilbert erano stati a contatto con Jack Bezarius prima che
morisse.
«Non
ho mai capito cos’hai contro Jack Bezarius, anche se sto iniziando a puntare
sull’opzione di una giovane ragazza abbandonata dall’amore della sua gioventù.»
ammise, in una palese insinuazione in cui poi, in realtà, non credeva nemmeno
lui.
Più che altro, non gli sembrava di ricordare che Jack avesse mai accennato a
Charlotte in quel modo; anzi, non ricordava nemmeno che ne parlasse così
spesso, per la verità.
Era stata solo una questione di nomi già sentiti, quando incontrandola a
Latowidge per la prima volta si era ritrovato a pensare “Ah, lei deve essere Lottie”.
L’altra sembrò non apprezza quell’insinuazione, a prescindere da quanto il
biondo ci credesse o meno; gli lanciò infatti un’occhiata gelida: «Di quel
traditore? Mai.» sibilò a metà fra la
rabbia e il puro disgusto alla sola idea.
Vincent ne fu piuttosto perplesso: aveva conosciuto Jack e non si poteva certo
dire di lui che tradisse abitualmente le persone. Ne fu anche un po’
infastidito, forse: nei suoi ricordi di ragazzino, Jack Bezarius era stata una
persona molto importante, di quelle che rimangono sempre come sono nei tuoi
ricordi, e di cui non vuoi che venga mai detto nulla di male anche se fosse la
verità.
«Se Padron Glen è morto… è stata solo colpa sua.»
aggiunse Charlotte, nel tono del palese risentimento, mordicchiandosi
nervosamente il labbro inferiore. Glen Baskerville sembrava essere sempre
l’unica cosa in grado di scombussolarla e farle perdere quell’aria di arrogante
calma che sembrava ostentare quasi.
«Glen Baskerville si è suicidato.» osservò atono Vincent, neanche dovesse
farglielo notare lui per la prima volta.
Di
nuovo, lei lo guardò con odio – un odio che, con ogni probabilità, non era
davvero rivolto a Vincent.
«Ma
Jack lo sapeva! Jack aveva capito cosa stava per fare Padron Glen e nonostante
questo non ha nemmeno pensato di fermarlo! Ha lasciato che si uccidesse,
nonostante fosse il suo migliore amico! Se non è questo un tradimento, allora
cosa dovrebbe esserlo, eh?!»
Elliot
prima di andarsene con Reo si era raccomandato almeno tre volte di non fare
idiozie – dove “raccomandarsi” nel vocabolario del giovane Nightray collimava
casualmente con “sbraitare” – tanto che Oz si era sentito trattato come un
ragazzino da tenere d’occhio.
Anche
se, effettivamente, non avrebbe potuto dargli torto.
Quando
poi i due se ne erano andati, Noah aveva raccomandato ad Oz di riposare.
«Se
decidi di alzarti» aveva aggiunto «assicurati di trovare Gilbert ed Alice.
Credo che ti stessero cercando, e Elliot magari gli dirà che non stavi bene se
li incontrerà prima di te. Si preoccuperanno.»
Dopodiché
Oz aveva cercato di stendersi e riposare, ma troppe cose gli affollavano la
mente e addormentarsi era diventato in breve pura utopia. A quel punto, si era
detto che tanto valeva andare a cercare i due compagni.
Perciò,
il tempo di sistemarsi e indossare nuovamente la divisa ed era uscito dalla
stanza.
Certo,
in alcun modo si sarebbe potuto immaginare di trovare Alice voltando l’angolo… o almeno di trovare qualcuno che, di primo impatto,
avrebbe preso per Alice. E che, ad un’occhiata più attenta, fosse semplicemente
qualcuno che le somigliava in modo impressionante, come una goccia d’acqua.
Ma al
tempo stesso, ad Oz bastò esserle abbastanza vicino da vederla in volto per
rendersi conto che non si trattava dell’amica; la sensazione nell’osservare
quella Alice era tanto simile e diversa al tempo stesso, una confusa
opposizione tra il desiderio di prenderla per mano e rassicurarla e quello di
allontanarsi più in fretta che poteva.
E –
visti i recenti avvenimenti e le ultime rivelazioni su Latowidge – si era forse
convinto ad optare per la seconda scelta quando quella Alice parve notarlo. La
vide mutare espressione, dapprima in una evidentemente sorpresa di vederlo, e
poi con uno sguardo che sembrava esprimere una certa urgenza mentre si
avvicinava a lui.
Oz si
rese conto dell’effettiva diminuzione della distanza tra loro solo quando si
sentì prendere la mano tra quelle della ragazza. Portò lo sguardo su di esse,
per poi tornare sul suo viso.
Sembrava
quasi che lo avesse cercato ovunque per chissà quanto tempo, preoccupandosi
sempre di più per lui, e che soltanto ora lo avesse finalmente ritrovato.
Oz
assunse un’aria confusa, perplesso da quell’atteggiamento, cercando di restare
all’erta.
«Cosa…?»
«Perché
non sei più tornato?» lo interruppe lei, il tono un misto di ansia, preoccupazione
e speranze disilluse.
«Eh?»
fece eco il biondo, senza capire.
Tornato
dove, esattamente? Lì dove si trovava Glen?
«Avevi
promesso che saresti tornato ancora tante, tante volte. Che saresti venuto a
giocare, e a bere del tea, e che poi saresti rimasto finché avessi voluto…» riprese lei, il tono sempre più dispiaciuto «Però
non sei mai più venuto.» concluse, abbassando lo sguardo.
Le
sue mani guidarono quella di Oz vicino al proprio viso, fino a portarla a
contatto con la propria guancia: «È stata colpa mia? È perché…
sono stata cattiva con Gilbert?»
Fino
a quel momento Oz aveva taciuto, senza riuscire a capire a cosa quella “Alice”
si riferisse. Aveva pensato di dover ascoltare e basta, forse, e poi magari sarebbe… svanita da sola.
Perché
la vera Alice era viva, e quello non poteva essere il suo spirito; ne
conseguiva che Oz sapesse ancora meno come trattarla. Tuttavia, sentendole
pronunciare quel nome non aveva potuto evitarsi un: «Gilbert?», sorpreso di
sentirglielo nominare.
Mai
avrebbe potuto prevedere la reazione che ne seguì: fu conscio che si trattava
di lacrime vere solo quando, rigandole le guance, finirono per bagnare anche la
sua mano.
«Mi dispiace…» prese a pronunciare, scossa da qualche leggero
singhiozzo: «Mi dispiace tanto… non volevo essere cattiva,
ma è stata anche colpa sua.» parlò, il tono simile ad una bambina che è stata
sgridata duramente e fra le lacrime cerca di spiegare le proprie ragioni
anziché ascoltare semplicemente il rimprovero.
Oz le
prestò la massima attenzione però: non aveva idea di quanto le sue parole
potessero essere attendibili o dovessero essere considerate tali, ma se fossero
state parte di quel passato che né Gil né Alice ricordavano?
…Forse entrambi avrebbero voluto saperlo, se gliene fosse stata data la
possibilità.
Fu
per questo che non si ritrasse, nonostante ormai avrebbe dovuto sapere che
restarle così vicino non poteva essere una buona idea. Lo sguardo ancora su di
lei, si ritrovò a pensare per un attimo a quanto quella Alice sembrasse… fragile. Una fragilità che l’altra che aveva
sempre al proprio fianco, quella che lui conosceva, era brava a nascondere e a
mascherare, e che forse in fondo proprio “sua” non era.
Probabilmente,
i ricordi se l’erano portata via lasciando in lei solo quella risolutezza un
po’ sgarbata, ma che lo aveva tirato su nonostante non sfruttasse parole
gentili o tipiche di espressioni di conforto.
“Cos’è
successo con Gilbert?”, aveva pensato di chiederle; tuttavia ci aveva
riflettuto su, bloccandosi sul nascere. Chiunque fosse quella ragazza, era
chiaro che doveva averlo scambiato per qualcuno – o, per quanto ne sapeva,
anche “un altro Oz” non sarebbe stato strano a quel punto.
A
prescindere da chi fosse questa persona, però, lei sembrava dare per scontato
che sapesse di cosa parlava: e non sarebbe stato strano, dunque, se lui avesse
fatto domande in quel senso?
«Perché
ti sei comportata male con lui?» chiese quindi, sperando che suonasse più come
un volerla capire che non come un’accusa: «Volevi farlo arrabbiare?» azzardò
quindi, andando un po’ alla cieca.
Parve
però aver colto nel segno con entrambe le domande, a giudicare dall’espressione
di lei; lo guardava spaventata, e colpevole.
Non
dispiaciuta per Gilbert, quanto più all’idea di essere mal giudicata proprio da
Oz.
Il
biondo non la incalzò oltre, lasciandole il tempo di articolare la risposta,
non volendo causarne né l’irritazione, né tantomeno un’eventuale fuga.
«Quando
non sei più tornato… mi sono sentita così sola.»
mormorò lei in quella che, inizialmente, ad Oz non parve affatto una risposta.
«Nemmeno
Gilbert veniva più da me. Ero sola, e aspettavo, sempre. Ma non tornava più
nessuno. Poi un giorno Gilbert è arrivato… ma a lui
non importava niente!» cambiò improvvisamente tono, facendo sobbalzare Oz a
quella nuova sfumatura rabbiosa e inaspettata, piena di quello che gli sembrava
inequivocabilmente… odio.
«Lui
non era stato solo per tutto quel tempo!» lo accusò, agitata: «Lui era rimasto
insieme a Vincent! E loro due si erano dimenticati di me! Perché solo io dovevo
stare così? Perché loro avevano una famiglia e io no?! È stata colpa loro, se
tu non sei più venuto… hanno portato via anche te!»
alzò il tono della voce, ed Oz fu sicuro di aver visto i vetri delle finestre
in quel corridoio tremare pericolosamente. È colpa tua, tua e di Glen Baskerville!
Quella
frase, che non era stata pronunciata dalla Alice di fronte a lui, ma da una
voce che già una volta gli era arrivata all’orecchio senza che ci fosse nessuno
in vista, lo fece rabbrividire. Allo stesso tempo, sembrò che anche la ragazza
di fronte a lui si fosse momentaneamente interrotta udendola. A meno che non si
trattasse solo di un caso.
Se sei tanto arrabbiato,
allora vai a prendertela con lui…
«Non
era tornato per me…» sussurrò Alice, quasi a voler
spiegare quelle parole che riecheggiavano nel corridoio senza una spiegazione
logica: «Nessuno dei due era tornato per me.» continuò, ed Oz immaginò che si
riferisse a Gilbert e Vincent.
Vai ad uccidere Glen Baskerville,
no?!
«Erano
venuti solo per arrabbiarsi con me… e allora li ho
mandati via!» esclamò scoppiando a piangere, senza più limitarsi alle lacrime
silenziose che c’erano state fino a quel momento, e cogliendo Oz di sorpresa
ancora una volta.
Quella
Alice non l’aveva detto chiaramente, quindi forse era solo una supposizione
errata, ma… sembrava proprio che per la tristezza,
avesse spinto Gilbert a fare qualcosa di orribile.
Anche
se Oz quasi non riusciva nemmeno ad immaginare un Gilbert – specialmente se più
giovane di quello di ora – che si macchiava di una cosa come l’omicidio.
Soprattutto
considerando quanto sapeva della morte di Glen Baskerville, ossia che era stato
suicidio.
È solo colpa di Glen, se Jack
non c’è più! Ed è anche colpa tua!
«Oz!»
si riscosse, sentendosi chiamare e voltandosi in direzione della voce; impiegò
poco a riconoscere la figura di Alice – la solita Alice – che gli si faceva in
contro, l’espressione decisa. L’altra, che fino a quel momento non aveva mai
lasciato le mani di Oz, arretrò di un passo, quasi atterrita da quella nuova
presenza.
Il
biondo spostò lo sguardo dall’una all’altra più volte, finché Alice non fu
abbastanza vicina da allungare la mano fino a raggiungere il polso di Oz,
afferrandolo.
«Allontanati
da lei!» esclamò quasi arrabbiata: «Quella lì non sono io! Non so chi sia, ma
non mi piace!» aggiunse. Oz la osservò un po’ spaesato da quella “doppia
presenza”.
«Ma Alice…» tentò inizialmente, senza poter concludere la
frase; allontanarsi maggiormente, alla vista di Cheshire che si frapponeva tra
loro e l’altra Alice, divenne la priorità.
Istintivamente,
Oz si mise davanti alla castana almeno in parte: sapeva per esperienza che la
presenza di Cheshire non era affatto una buona cosa, mai.
Specie
se, come in quel momento, era palesemente in procinto di attaccarli entrambi,
l’espressione inferocita come se avessero oltrepassato un limite che non gli
era consentito superare.
Oz si
morse appena il labbro inferiore: aveva creduto che Cheshire fosse solo a
guardia del luogo in cui era Glen. Perciò, nell’avvicinare quella “Alice”, non
aveva minimamente considerato la possibilità che potesse rivelarsi tanto
pericoloso.
E il
fatto che ora, lì con lui, ci fosse anche l’amica rendeva l’intera situazione
ben peggiore che se fosse stato solo come la prima volta; tra l’altro, nulla
gli dava la certezza che Aedan o Sirjan sarebbero arrivati, stavolta.
Mosse
lentamente un passo indietro, portando Alice a fare lo stesso, senza
distogliere lo sguardo da Cheshire. Questi, intanto, sembrava irritarsi ad ogni
singhiozzo che sfuggiva tra le labbra della ragazza dietro di lui, che a quanto
pareva tentava di proteggere.
Per
un istante Oz si chiese se il compito di Cheshire nei confronti degli spiriti
non fosse un po’ come quello di Sirjan per i vivi, e se non fosse questo il
motivo alla base di quella non sopportazione che provavano l’uno per l’altro.
«Cheshire
aveva detto che ti avrebbe lasciato stare» sibilò il felino, gli occhi ridotti
a due fessure che restavano puntati sul biondo: «ma tu sei pericoloso! Cheshire
lo aveva detto!» soffiò più forte, rabbioso.
Oz
capì che se non fosse riuscito a calmarlo… no.
Non
avrebbe nemmeno dovuto provarci, ma limitarsi ad andare via subito portando
Alice con sé.
Proprio
la castana, in quel momento, strinse appena la presa sul suo polso: «Oz…» lo richiamò a voce appena più bassa «cos’è quello?»
chiese, riferendosi chiaramente a Cheshire, che forse per la prima volta portò
lo sguardo sulla ragazza dietro il biondo. Parve studiarla, sia con gli occhi
che annusando l’aria; nel farlo, sembrò ad un certo punto turbato da qualcosa.
Tornò
con lo sguardo fermo su Oz: «Cosa hai lì?» sibilò quasi più ferocemente di
prima.
Il
biondo fece, inconsapevolmente, un errore quando si voltò pronunciando un: «Alice,
andiamocene da qui.»
Quelle
parole – o meglio, quel nome – portò al culmine la furia di Cheshire: «Alice è
dietro Cheshire!» gridò con una nota isterica nella voce «Oz Bezarius mente!
Vuole rubare Alice e le cose importanti! Vuole rubare a Cheshire!» continuò,
iniziando ad avanzare pericolosamente.
Oz
soppesò febbrilmente quanto potesse essere saggio dargli le spalle per provare
ad allontanarsi da lì il più velocemente possibile.
Tuttavia
non ebbe molto tempo per valutare razionalmente la cosa: Cheshire scattò,
veloce, con tutta l’intenzione di ferire sia lui, sia quell’Alice che sembrava
considerare falsa in qualche modo.
Oz
stava per spingere l’amica il più lontano possibile quando tra lui e il felino
si fece avanti qualcuno che inizialmente non riuscì a riconoscere e che colpì –
come, Oz non lo vide – lo spirito.
Anche
se non sapeva quanto l’espressione “colpire” potesse essere corretta, appunto.
Cheshire
fu comunque scagliato abbastanza lontano, mentre quel loro improvvisato
salvatore gli si rivolgeva: «Non sai che soddisfazione, dartele di santa ragione~»osservò
con tono derisorio quello che – a quel punto – Oz riconobbe come Xerxes Break.
Il
docente aveva un sorriso ad incurvargli le labbra, un sorriso che Oz avrebbe
definito quasi insano, però: non portava con sé alcun sentimento positivo,
infatti. Solo soddisfazione per la sofferenza altrui, per un senso di
appagamento dato da quella che sembrava in tutto e per tutto una vendetta
personale.
«Professore…?» tentò Oz, senza ricevere risposta
inizialmente. L’attenzione di Break sembrava totalmente su Cheshire, che si
stava rialzando.
Senza
idea del come o del quando, Oz notò che l’altra Alice era sparita.
«Sai,
sto cercando di ricordare il motivo per cui il signor Kolstoj si è sempre preso
la briga di proteggere entità come te.» riprese Break senza curarsi dei due
studenti dietro di lui: «Ma proprio non mi viene in mente altro. Piuttosto, sai
cosa, fantasma di un sacco di pulci?» lo apostrofò con tono di disgustato
sarcasmo, fissandolo ancora con quel sorrisetto che iniziava ad avere
dell’inquietante.
«Mi
torna in mente che oltre alla poca simpatia che già avevo allora per il
sovrannaturale, al nostro primo incontro mi hai portato via anche un occhio.»
continuò, facendo sobbalzare Oz e rabbrividire Alice: «E mi sono chiesto da
allora» proseguì avvicinandosi con tutta calma a Cheshire «non è strano che un
essere di solo spirito tocchi una persona viva al punto da ferirla così
gravemente?» domandò, ma era chiaramente una domanda retorica.
Oz, in quel momento, sembrò trovare risposta a qualcosa che era rimasto a lungo
senza una spiegazione logica nella sua mente: Cheshire gli era stato presentato
come spirito ma, tanto per iniziare, non era nemmeno del tutto umano. E in secondo
luogo, nonostante la sua natura non viva, il contatto fisico non gli era mai
stato precluso – specie in maniera aggressiva, a quanto sembrava.
Ma questo non rispecchiava esattamente l’idea di spirito; e lo stesso Glen,
dopotutto, si era approcciato ad Oz la prima volta attraverso il corpo di un
vivente.
Non era… strano?
«Alla
fine però, sono arrivato ad una risposta.» comunicò con tono improvvisamente –
ed innaturalmente – allegro Break: «Vuoi essere reso partecipe?» quasi lo
canzonò, muovendo verso di lui l’ennesimo passo per avvicinarlo. Cheshire era
sulla difensiva, innervosito da qualcosa di non ben comprensibile, pieno di
quell’agitazione data più dalla paura che dalla non sopportazione di qualcosa.
Quando
Break si chinò verso di lui, il felino fece per muoversi con intento piuttosto
ostile verso di lui, ma di nuovo il docente sembrò anticiparlo: «Ah-ah, io non lo farei.» lo ammonì neanche avesse a che
fare con il bambino più tranquillo del mondo.
«Non
credo proprio, che se tu ferissi ancora qualcuno, il signor Kolstoj sarebbe
propenso a lasciarti libero come sei stato finora. Ed è già così difficile
coprire questo increscioso incidente con il signor Bezarius…»
lasciò cadere, meschino, alludendo a qualcosa di ben preciso. Lo stava
palesemente mettendo in condizioni di non fare altro se non obbedirgli.
«Non
mi mostreresti quel campanello che porti al collo?» chiese quindi con falsa
dolcezza, tendendo la mano in avanti; Cheshire tuttavia sgranò gli occhi, caricando
il colpo con una delle zampe anteriori, del tutto intenzionato ad attaccare
l’albino.
Né Oz
né Alice furono in grado di dire con esattezza come si fosse mosso Break: era
solo stato estremamente veloce, tanto da ricordare un po’ Aedan al biondo che
lo aveva visto all’azione, e sempre contro Cheshire.
Il
docente sembrava aver evitato quell’attacco – forse prevedibile – senza troppe
difficoltà. Ed ora, a qualche passo di sicurezza dal felino sorrideva
soddisfatto.
Alzò
una mano, quanto bastò a far dondolare il campanello che aveva in mano e che doveva
aver chiaramente sottratto a Cheshire prima di allontanarsi da lui; questi
sembrò entrare nuovamente nello stesso stato di isterismo che aveva provocato
Oz stesso poco prima.
Si mosse nuovamente in avanti, verso Break – e nello specifico proprio verso la
mano che teneva l’oggetto rubato – con un verso grottesco che fece rabbrividire
anche lo stesso docente, sebbene non si notasse dall’espressione o simili.
Xerxes
evitò l’impatto diretto, lasciandosi però sfuggire di mano il campanello, che
cadde con un leggero rumore metallico accompagnato dal tintinnio dovuto al
contatto con il pavimento. Il docente fece schioccare le labbra con fare
seccato, imprecando a mezza bocca.
Oz
non seppe precisamente cosa lo portò a farlo, ma si ritrovò ad allungare una
mano verso l’oggetto conteso; forse qualcosa gli suggeriva che prendendolo, o
facendo almeno in modo che non tornasse in possesso di Cheshire, tutto quello
che ancora necessitava una risposta sarebbe stato anche solo un pochino più
chiaro.
Forse,
sperava soltanto che potesse essere così.
Notandolo,
Cheshire cambiò bruscamente direzione, scagliandosi non più contro Break, ma
contro Oz: «Restituitelo!» gridò «Restituitelo a Cheshire!»
«Oz!»
si sentì richiamare da Alice, cercandola con lo sguardo ed individuandola
appena prima che le dita della ragazza si stringessero attorno al campanello,
sottraendolo sia alla presa di Oz, che a quella di Cheshire.
Ci fu
qualche istante di stallo totale, in cui nessuno disse nulla, né mosse un solo
muscolo; poi, in un momento di immobilità totale…
Alice cadde in ginocchio.
Oz le
fu immediatamente accanto, l’espressione preoccupata in viso: «Alice!» la
chiamò «Alice, che hai?!»
«Che…
diamine è questo affare?!» sbottò lei, il tono sofferente e gli occhi chiusi,
quasi nella speranza di alleviare il dolore alla testa che si stava facendo
sempre più forte.
Non
c’erano cambiamenti evidenti in ciò che li circondava – almeno per ora – se si
escludeva l’assenza di Cheshire. Eppure Oz aveva addosso la pessima sensazione
di essere in un posto diverso. Sembrava, per quanto assurdo potesse suonare, di
respirare la stessa aria e percepire la stessa atmosfera che c’era stata in
presenza di Glen.
L’inspiegabile
consapevolezza di essere nel posto sbagliato, in un luogo che non ti
apparteneva e che non avresti nemmeno dovuto vedere; stavolta, però, Oz non
aveva né idea di dove si trovasse, né di come si fosse spostato.
«Siamo
ancora nel corridoio…?» mormorò, più a se stesso che
non agli altri due, venendo interrotto dalla voce di Break che era a pochi
passi da lui, una mano posata contro il muro quasi a sorreggersi.
«Non
è Latowidge.» disse «Non quella che conosci tu, almeno. È molto più simile a
quella che io e Rufus abbiamo vissuto.» chiarì,
affiancando il biondo.
Oz
era però confuso da quella spiegazione: «Quella che avete frequentato da
studenti? Come fa ad esserne così sicuro guardando solo un corridoio?» diede
voce a quella domanda legittima.
Break
portò lo sguardo su di lui, l’espressione divertita e il sorrisetto furbo sulle
labbra, mentre un dito indicava un quadro. Oz, tuttavia, non avrebbe saputo
affermare con certezza se ci fosse già o meno. L’altro però non sembrava aver
bisogno della sua conferma.
«L’ho
accidentalmente fatto sparire durante
il mio terzo anno ♪» ammise tutto tranquillo; Oz non riuscì proprio a
mascherare un’espressione che era un misto tra l’allucinato e il comprensibile
dubbio su quali fossero i limiti comportamentali di Xerxes Break.
«…Seriamente, lei come ha fatto a diventare insegnante?» si
lasciò sfuggire, con quella sfumatura di arroganza che si era sempre ed
inevitabilmente ritrovato ad usare con lui, ricevendo in risposta quel
sorrisetto tipico del docente – che mentalmente stava probabilmente prendendo
in considerazione di tentare di strozzare il caro signor Bezarius e farlo
apparire come un tragico incidente.
Oz
non aggiunse nulla, Alice che sembrava essersi ripresa in quel breve lasso di
tempo: «Va meglio?» le chiese il biondo, osservandola. La ragazza scosse appena
la testa, confusa.
«Che è successo?» domandò, riscuotendosi
poi in un secondo momento: «Oz!» lo richiamò agitata «quel coso, è sparito!»
esclamò poi, portando vicino ad entrambi i loro volti la mano che aveva
afferrato il campanello, che ora non c’era più.
«Abbiamo un altro problema, temo~ » quasi canticchiò
Break, accucciandosi al loro fianco ed indicando giocosamente davanti a loro.
Entrambi spostarono lo sguardo
nella stessa direzione, e Oz ebbe un senso di dejà-vu improvviso: quel luogo,
ovunque fosse, cambiava lentamente davanti ai loro occhi.
Quel corridoio anonimo si
faceva confuso e poi, tornando pian piano più nitido, acquisiva caratteristiche
che ricordavano… un giardino.
Il biondo deglutì a vuoto:
avrebbe potuto azzardare ad indovinare dove fossero, fino a poco prima di
incontrare Glen… tuttavia ora non era più certo che una distorsione dello
spazio di quel tipo indicasse per forza di essere in un ricordo piuttosto che
nella realtà.
Dopotutto era vero che quello
era stato il modo in cui lo scenario era cambiato quando Jack gli aveva
mostrato alcune cose che riguardavano lui e Glen, ma era anche vero che allo
stesso modo era cambiato quello che c’era davanti ai suoi occhi in altre
occasioni.
Volte in cui, ne era certo,
era stata la realtà tangibile di ogni giorno a diventare a quel modo per
assumere poi nuova forma.
«Che cavolo ci trovi di
divertente, idiota di un insegnante?!» sbottò Alice, che evidentemente non si
sentiva affatto a suo agio in quella situazione – come forse era normale
sentirsi, pensò Oz. Erano lui e Break a non essere “normali”, in un certo
senso. Anche se il docente lo era forse ancor meno di lui: almeno Oz aveva
dalla sua il fatto che non fosse una situazione nuova e che ci si fosse in
qualche modo abituato.
«Ma dai, signorina Lewis…» la prese bonariamente in giro Break, prima di
cambiare totalmente espressione, passando da una scanzonata ad una divertita
tanto quanto lo era stata nel ritrovarsi nella condizione di schiacciare
Cheshire poco prima: «se ci facciamo prendere del panico, non finirà bene, e
sarà la volta buona che Rufus mi ammazza. Sempre
nell’ottimistica previsione di sopravvivenza. Che, non avendo idea di dove
siamo o di cosa stia accadendo, è una cosa che non so quanto considerare certa.»
commentò, una certa serietà di fondo nella sua affermazione. Anche se più che
tranquillizzare, da bravo insegnante, rischiava di agitare gli altri due ancora
di più.
Oz abbozzò un sorrisetto
leggero, tornando poi con lo sguardo di fronte a sé: il nuovo paesaggio era
ormai definito, ma era un giardino come tutti gli altri, con nessun particolare
che potesse far intuire ad Oz se fosse o meno un posto conosciuto o visto
almeno una volta.
Questo almeno finché non fu
proprio Break a riconoscerlo, assumendo un’espressione così allibita da
risultare buffa, tanto che il biondo avrebbe ridacchiato se la situazione fosse
stata diversa: «…Ma siamo solo nel giardino di
Latowidge.» se ne uscì.
Oz stava prendendo in seria
considerazione di prepararsi ad un’aggiunta sul genere di “lo so perché a
quell’albero ho appiccato fuoco durante il secondo anno” – visti i precedenti –
quando il fiato gli morì in gola.
Inquadrò poco distanti da loro
tre figure che Break ed Alice, presi ad osservare in un’altra direzione, non
avevano ancora notato; Oz si bloccò per qualche istante, senza riuscire a fare
altro che osservarli, quasi dimenticandosi di respirare.
Poi, allungò appena una mano a
tirare una manica del docente, attirandone l’attenzione: «Non è Latowidge… è solo un ricordo.» mormorò, guadagnandosi
un’occhiata piuttosto perplessa da Break e a dir poco confusa da parte di
Alice.
«Potresti ripetere, signor
Bezarius?» lo incalzò Break, sebbene con il tono di chi ti stava seriamente
prendendo per pazzo.
«Ha capito bene.» ribatté
quasi brusco Oz, indicandogli a quel punto la direzione in cui aveva notato
quel particolare che gli aveva reso tutto più chiaro e verso cui si voltarono
anche gli altri due, proprio mentre Oz spiegava il perché di tanta sicurezza.
«Non potrebbe essere
altrimenti. Se c’è mio fratello… non può essere altro
che un ricordo.»
Note autrice (ancora viva, sebbene data per morta)
Vorrei potermi rallegrare del
fatto che sono passati esattamente 4 mesi – e quindi della mia precisione in
fatto di giorni – ma è un tempo immane.
Non c’è niente di cui rallegrarsi ;__;”
Con questo ritardo immondo, passo
alle comunicazioni di servizio.
Innanzitutto, la frase in
apertura è dell’anime “Uraboku”.
Poooi. La fine di Rinnega si
avvicina (ebbene sì, esiste la parola fine): con questo capitolo 19 concluso,
ne mancano esattamente 3 più un epilogo.
Nota dolente, è che
sicuramente ritarderanno un poco: devo cercare di non far crescere le ragnatele
anche ad un altro progetto. In più, proprio come è stato per il primo anno di
pubblicazione, vorrei festeggiare il secondo con uno special
:3 (anche se non ci sarei arrivata a due anni se non avessi rallentato i ritmi
8D ma queste sono quisquilie).
Dunque in caso che questo
secondo special ci sia, il prossimo capitolo arriverà
un pochino più tardi. Ma non passeranno 4 mesi, confido nelle mie (brevi)
vacanze dagli esami 8DDD
Nuit: sì, i nervi di Sirjan li
stiamo perdendo per strada, ma come dargli torto ormai XD Ma con lui, almeno
fino all’ultimo capitolo, si può star certi di una cosa: c’è sempre qualcosa dietro 8D
Per Alice, ormai ci siamo quasi, abbi fede. Anche se probabilmente è la persona
meno probabile…? *bello che
non lo sa nemmeno lei*
Per Lacie
non si è ancora capito nulla da questo capitolo, mentre invece almeno si è
spiegato il perché dell’odio di Lottie maturato negli anni x°
Anche se all’effettivo, quella donna più che tramare…
assiste a tutto senza muovere un dito, LOL
Anche se in mega ritardo,
spero che anche questo capitolo sia stato di tuo gradimento – anche se è forse
il più corto e con meno chiarimenti di tutti quelli scritti finora…*e dire che avvicinandosi alla fine dovrebbe essere
il contrario*
Capitolo 20 *** La verità, guardala con i miei occhi ***
La verità, guardala
con i miei occhi
Se chiudo gli
occhi, riesco ancora a sentirlo.
Quel pianto che strazia il cuore.
Né Alice né
Break dissero nulla, a quelle parole: entrambi erano coscienti del fatto che Oz
avesse ragione, ma era il modo di approcciarsi a questa consapevolezza, la
differenza fra i due.
Alice aveva abbassato lo sguardo, quasi temesse un po’ l’idea che Jack Bezarius
apparisse di fronte a loro. Sia perché non aveva ancora detto ad Oz di avere incontrato
e parlato con lo spirito di suo fratello, né aveva accennato al senso di
familiarità che in quell’occasione aveva provato – senza saperselo spiegare –
nei confronti di Jack. Sia perché quella stessa sensazione la preoccupava,
quasi la metteva in guardia.
Break, invece, aveva assottigliato il proprio di sguardo, quasi cercasse di
vedere con l’unico occhio che glielo consentiva qualcosa che doveva essere in
avvicinamento. Anche se, contrariamente a quanto si aspettasse, non sembrava
esserci nessuno oltre Jack Bezarius.
Sembrava un pochino più giovane dell’ultimo periodo passato al letto, osservò
Oz. I tratti del viso non erano infantili, e l’altezza era già quella che il
più giovane ricordava, ma Jack sembrava ancora conservare un po’ di quella
spensieratezza che – Oz lo aveva visto, ormai – lo aveva caratterizzato
soprattutto ai tempi della scuola.
Per un attimo fu tentato di provare a chiamarlo, nel dubbio che potesse
sentirlo come in quel sogno che aveva visto; ma non lo fece, quando lo vide
voltarsi indietro con un ampio sorriso, pronunciando un: «Dai Glen, forza!»
esortando l’amico che poco dopo sbucò fuori dagli stessi alberi dai quali era
apparso Jack.
Oz rimase fermo esattamente dov’era, mentre Break sgranava appena gli occhi:
certamente non si era aspettato anche Baskerville, lì.
Alice pareva quella più spaesata, e Oz minimizzò la cosa con la spiegazione più
semplice, ossia che la ragazza non avesse presente di chi si trattasse.
Glen nel frattempo aveva raggiunto Jack che, entusiasta come un bambino il
giorno di Natale, camminava all’indietro mantenendo lo sguardo sull’altro quasi
ad assicurarsi che lo seguisse senza perdersi.
Oz mosse qualche passo verso di lui prima ancora di rendersene conto, e Break
lo fermò afferrandolo senza troppi complimenti per un polso. Il giovane si
voltò in sua direzione, confuso, ma il docente aveva le labbra incurvate in un
sorrisetto sgradevole: non c’era allegria né il suo solito divertimento.
Sembrava invece più che intenzionato a non immischiarsi più di quanto già non
fosse con la sua sola presenza.
«Dobbiamo…» iniziò Oz, interrotto quasi subito da
lui.
«No, signor Bezarius, tupotresti seguirlo. Io di certo non lo
farò e, per quanto io finga di dimenticarlo più spesso possibile, voi siete
sotto la mia responsabilità… ogni tanto.» aggiunse
quasi ripensandoci: «Ed io non ho intenzione di correre dietro a te, che corri
dietro qualcosa che ha l’aspetto di
due defunti. No, decisamente preferisco la merenda che mi attende nel mio
alloggio.» concluse, facendo per guidarlo dalla parte opposta.
Tuttavia aveva fatto un grosso errore di valutazione: credere che Alice Lewis
avesse un minimo di buon senso in più rispetto ad Oz. Invece la castana, quasi
ipnotizzata, si era mossa verso i due che continuavano a camminare verso una
meta per lei ignota.
Break fece schioccare le labbra, seccato, l’espressione decisamente lontana dal
suo standard di ‘sogghigno mentre ti sfotto e tu non lo sai’.
«E io che pensavo che il suo istinto animale funzionasse.» commentò in maniera
piuttosto acida, abbandonando l’idea di poter evitare di immischiarsi e
iniziando a seguirla, lasciando il polso del biondo che a quel punto fu libero
di andargli dietro.
Non dovettero camminare molto e fu presto chiaro che non ci fosse bisogno di
preoccuparsi di non farsi scoprire: Oz capì che quel Jack e quel Glen erano
ricordi, e in quanto tali non avevano la minima percezione di loro tre che non
appartenevano a quel luogo e quel tempo.
Jack e Glen avevano voltato a sinistra – effettivamente Break aveva ragione,
quello non era affatto il giardino di Latowidge: il verde si faceva troppo
folto in certi punti, per essere lo spazio aperto di una scuola – e loro li
imitarono.
Quello che gli si parò davanti, li sorprese. Visto il posto che sembrava
abbastanza incolto, non si erano aspettati di trovarvi una costruzione ad un
certo punto. Sembrava poco utilizzata, anche se ancora in buone condizioni. La
parte esterna soprattutto aveva l’aria un po’ abbandonata, con edera che si
arrampicava sul mattonato; oltre quello, però, le tende – tirate – che si
notavano anche dall’esterno non sembravano particolarmente polverose, segno che
qualcuno doveva passarvi di tanto in tanto.
Per un attimo Oz pensò alla possibilità che si trattasse di una specie di
rifugio o punto in cui riposarsi in quello spazio verde che ora non sapeva
nemmeno se fosse un giardino di una qualche tenuta o chissà cos’altro. Non
diede voce alle sue congetture, perché in quel momento Jack stava dicendo
qualcosa e temeva di non riuscire a sentirla.
«Glen, che posto è?» domandò incuriosito voltandosi verso l’amico che, con
espressione non particolarmente presa dalla cosa, scosse leggermente la testa:
«Non ne ho idea. Non mi spingo in questa parte della tenuta, solitamente.»
replicò pacato, lasciando intendere che si trattasse comunque della proprietà
dei Baskerville.
Oz vide suo fratello assumere un’aria pensierosa: «Uhm…»
mugugnò, voltandosi quindi verso il piccolo edificio e facendo la cosa più
stupida, inutile e degna di lui. Un tentativo di arrampicarsi il tanto che
bastava ad affacciarsi dalla finestra più bassa.
«…Jack, cosa stai facendo?» sentì chiedere a Glen,
come se fosse ormai rassegnato all’idea che l’amico facesse cose assurde per
natura. Il biondo si voltò, l’espressione divertita e le labbra incurvate in un
sorrisetto furbo: «Come che faccio? Indago! Non sei curioso, Glen, di vedere
cosa c’è dentro?» lo incalzò come se fosse impensabile, per lui, non esserne un
minimo interessati.
«Non particolarmente, a dire il vero.» commentò Glen, ma Oz notò che anche lui
si era lasciato sfuggire un sorriso impercettibile. Si vedeva che, più che
l’idea di un posto misterioso, a divertirlo fosse il modo di fare dell’altro
che lasciava libero di agire come preferiva, quasi curioso di vedere come
sarebbe andata a finire.
Jack si limitò a portare lo sguardo verso il moro, in un’ostentata
rassegnazione, decidendo di proseguire con la sua scalata improvvisata; dal
punto in cui si trovavano lui, Break ed Alice, Oz vedeva senza difficoltà ogni
passo di suo fratello… compreso il piede che,
scivolando, minacciò ad un certo punto di farlo cadere a terra. Notò anche che
Glen, per riflesso, aveva allungato una mano e mosso un piede in avanti,
spostamento appena accennato e bloccato quasi subito quando aveva notato Jack
afferrarsi saldamente ad una sporgenza del muro. In quel momento Oz si era
chiesto, tornando con la mente tra le pagine del diario, se nel periodo di quel
ricordo che stavano involontariamente spiando Jack si fosse già reso conto dei
sentimenti per Glen. Al tempo stesso, cercava di capire se il moro ne fosse
davvero all’oscuro, o se avesse lasciato credere a Jack di non essersene
accorto per proteggere il legame che già avevano.
Ma Glen, lì tanto quanto come spirito, risultava per Oz insondabile.
«Jack, dovresti decisamente scendere, prima di rischiare il collo.» sentì il
moro riprenderlo, con le labbra incurvate nello stesso sorriso impercettibile e
divertito – che sperò vivamente non dipendesse dall’eventualità che suo
fratello si spezzasse il suddetto osso del collo.
Il biondo si stava appunto pericolosamente voltando, quando un’altra voce li
raggiunse: «C-Chi c’è?» pronunciò, attutita da qualcosa che si rivelò essere il
vetro della piccola finestra che Jack stava cercando di raggiungere, e che era
oramai a poco meno di un metro da lui. Aveva ancora le tende tirate e sembrava
chiusa esattamente come prima; ma, ad un’occhiata più attenta, si rivelò essere
solo socchiusa, con uno spiraglio di tenda aperto, in cui – con molta
attenzione e un po’ di fortuna – si potevano distinguere una piccola porzione
di viso e un occhio curioso e indagatore.
Probabilmente, nonostante la convinzione con la quale aveva iniziato ad
arrampicarsi, nemmeno Jack aveva davvero creduto che ci fosse qualcuno, fino a
quel momento; forse si era aspettato che ci fosse qualcosa, quello sì, ma non una
persona.
Colto alla sprovvista, aveva iniziato a pronunciare qualcosa che Oz non riuscì
a decifrare e che fu brutalmente interrotto da uno scivolone che fece finire
Jack a contatto – un contatto molto intimo – con l’erba. Glen si era irrigidito
per un istante, salvo tranquillizzarsi quando l’amico, con espressione buffa e
dolorante insieme, aveva preso a massaggiarsi la parte lesa con qualche
infantile lamento.
Oz, istintivamente avvicinatosi, fu certo di cogliere uno sbuffo divertito
provenire dall’erede dei Baskerville. Sbuffo che, a giudicare dalle sue parole,
doveva aver notato anche Jack: «Glen, non ridere alle mie spalle!» lo
rimproverò offeso, forse in procinto di aggiungere altro ma fermato nuovamente
dalla voce che lo aveva distratto pochi attimi prima.
«Chi c’è laggiù? S-Si è fatto male?» chiese, il tono un po’ più alto perché
venisse udito anche da fuori; sembrava che pronunciare quelle poche parole
fosse costato, al padrone di quella voce, un immenso slancio di coraggio.
Jack, che stava palesemente cercando di capire qualcosa di più sul proprietario
di quella voce, parve coglierne innanzitutto la sfumatura preoccupata; per
questo, forse, rise: per sciogliere una tensione non sua, esattamente come –
così sospettava Oz – doveva aver dissolto quell’aura di inavvicinabilità che, a
detta di Break, aveva sempre circondato Glen Baskerville anche ai tempi della
scuola.
Funzionò. Le tende vennero scostate, rivelando un volto minuto ed
un’espressione spaesata, oltre a quella che senza alcun dubbio era una Alice
bambina.
Oz assunse un’aria sorpresa, ma mai quanto Alice che sembrava bloccata lì di
fianco a lui. L’unico che non sembrava particolarmente toccato dalla scena era
Break che, però, parve capire che qualcosa non andava dalla smorfia formatasi
sul viso della studentessa. Tuttavia, quando tornò con lo sguardo sulla Alice
più giovane, tutto sembrò più sfocato: «O la vecchiaia avanza inesorabile»
osservò con ironia «o qualcosa decisamente non va.» concluse con eloquenza.
Oz poté capire perfettamente lo smarrimento dal momento che lo aveva provato
lui stesso, e supponeva che si trattasse di qualcosa a cui sarebbe stato
difficile abituarsi anche per uno come lui.
«Il ricordo sta cambiando, forse.» provò a spiegare, almeno in base alla sua
esperienza, nemmeno così ampia poi. Break lo guardò, un sopracciglio alzato e
l’aria decisamente perplessa: «Sai, signor Bezarius, non credo di voler
veramente sapere perché ne sembri tanto certo e, soprattutto, perché lo dici
come se fosse una cosa assolutamente normale.» sottolineò. Oz capiva di non
poter dare più di tanto torto a quanto detto dall’uomo, perciò si limitò ad una
leggera scrollata di spalle, tornando con l’attenzione sulla ragazza al suo
fianco quando la sentì tirargli la manica.
«Alice…?» la chiamò, una sfumatura preoccupata nel
tono. Sperò di sbagliare, ma gli sembrava che fosse impallidita; ne comprese il
motivo solo quando lei, senza spostare lo sguardo dal punto in cui era stato
Jack fino ad un attimo prima, disse: «Io non ricordo di aver mai conosciuto Jack…»
Fu palese a quel punto il perché di tanto stupore e, sebbene nessuno dei due lo
disse ad alta voce, Oz e Break dovevano aver fatto la stessa considerazione:
era strano che Alice non lo ricordasse, perché quella che avevano visto – la
Alice di quel ricordo – non era così
piccola al punto da dimenticare di aver conosciuto qualcuno. Poi, come una
dimenticanza che torna prepotentemente a farsi spazio nella testa, Oz si rese
conto che Alice – proprio come Gilbert – non aveva memoria del suo passato, o
di parte di esso.
E forse tutto quello stupore si doveva anche al fatto che Oz le avesse parlato
di Jack, una presenza così importante per lui e quasi “fittizia” per lei, che
improvvisamente scopriva quanto preziosa fosse stata in realtà. Il biondo, con
gentilezza, le prese la mano per tranquillizzarla: non era sola, lì.
«Complimenti, signor Bezarius» lo distrasse la voce del docente «a quanto
sembra, la tua teoria era corretta.» osservò. Oz spostò immediatamente lo sguardo
là dove poco prima suo fratello e Glen si trovavano: come aveva immaginato, il
ricordo di prima aveva iniziato a sbiadire per far posto ad un altro. Senza che
se ne accorgessero, erano ora in una stanza: il mobilio non era, almeno a prima
vista, particolarmente antico; la polvere tipica dei luoghi poco utilizzati,
però, gli dava un’aria consunta.
C’era l’essenziale per un piccolo salotto e uno studio messi insieme nella
stessa stanza per mancanza di spazio: un piccolo tavolo, un divanetto, una
libreria modesta ad occupare parte della parete. Due sole finestre avrebbero
dovuto illuminare il posto, ma entrambe avevano le tende tirate e le uniche
fonti di luce erano dunque artificiali; dal punto in cui si trovavano, Oz
vedeva delle scale che collegavano senza dubbio ad un piano inferiore.
«Alice!» sentì chiamare, riconoscendo senza difficoltà la voce di Jack mentre
sentiva la Alice di cui ancora teneva la mano sussultare di fianco a lui;
l’attimo dopo suo fratello appariva proprio dalle scale, ed Oz quasi si era
aspettato di veder comparire subito dietro di lui Glen. Motivo per cui fu
invece così stupito di notare – mentre la Alice del ricordo oltrepassava Break
e abbracciava di slancio il maggiore dei Bezarius – un titubante Gilbert a cui
non dava più di tredici anni, e un altrettanto incerto Vincent, imbronciato.
«Cielo» sentì sbuffare sonoramente Break «cosa faceva tuo fratello, il
badante?» osservò sarcastico, sarcasmo che Oz finse di non cogliere, mantenendo
l’attenzione sulla scena.
La Alice che aveva abbracciato Jack si era nascosta in parte dietro di lui che,
ridacchiando divertito, fece cenno a Gilbert e Vincent di avvicinarsi di più;
mentre Oz li guardava fare come detto dal maggiore, notò Vincent che teneva un
lembo della manica di Gilbert e si perse per qualche istante a pensare quanto
diverso gli sembrasse quel bambino rispetto al ragazzo conosciuto lì a scuola.
Se proprio avesse dovuto cercare un punto in comune, una qualche somiglianza,
Oz avrebbe potuto evidenziare solo il fatto che Vincent sembrasse
particolarmente legato al fratello maggiore già in tenera età – e che già da
allora sembrasse un tipo da contatto fisico, fosse stato anche il semplice
attaccarsi alla manica dell’altro, appunto.
Forse vederlo così titubante portò la Alice del ricordo a credere che dei due
il più affine a lei, quello a cui avvicinarsi per primo, fosse Vincent. Fece un
passo avanti, il tanto che bastò a far sì che non fosse più nascosta dietro
Jack; guardava Vincent, appunto, che era ancora sulla difensiva. Gilbert sembrava
stesse valutando pro e contro, per il momento, senza avanzare né
indietreggiare.
Oz ebbe una strana sensazione nell’osservarlo: ricordava un Gilbert timido, che
si spaventava facilmente ed era spesso in soggezione anche con i coetanei.
Quello che ora osservava, invece, era più che altro guardingo; non sembrava
spaventato. Sembrava che stesse solo decidendo se fidarsi o meno di quella
bambina sconosciuta. Non sarebbe stato tanto strano, se quell’incertezza fosse
stata mista al timore di un estraneo qualsiasi che in passato Oz aveva sempre
intravisto negli occhi dell’amico.
Ma ora c’era solo la sfumatura di cautela di chi analizza una possibile
minaccia; e quello, no, non era da Gilbert.
Che l’averlo conosciuto privo della memoria avesse fatto sì che il Gil amico
che aveva conosciuto fosse stato così… intimamente
diverso dal “vero” Gilbert?
Si voltò verso Alice, quella al suo fianco di cui teneva ancora la mano,
cercando di capire dalla sua espressione se quel ricordo fosse qualcosa di
nuovo come lo era Jack o meno. Mentre cercava di capirlo, gli balenò in mente
una domanda così ovvia che si chiese perché non ci avesse pensato prima, o
perché non l’avesse già posta ai diretti interessati: Alice e Gilbert avevano
entrambi perso la memoria, entrambi da bambini a quanto sembrava.
Era possibile che l’avessero persa contemporaneamente? Se si conoscevano, in
quanto cugini, magari era successo… in un incidente
comune?
«Abbiamo un problema, suppongo.» l’affermazione di Break lo distrasse dalle
proprie ipotesi, portandolo a spostare lo sguardo su di lui, l’aria confusa.
Con la coda dell’occhio il docente lo notò e, abbozzando un sorrisetto
enigmatico, accennò con il capo al punto in cui Oz aveva lasciato i
protagonisti di quel ricordo che stavano osservando.
La scena stava cambiando di nuovo, sì, ma in maniera differente: non sembrava,
come era stato le altre volte, uno scenario osservato attraverso un vetro
bagnato, reso sfocato ma riconoscibile mentre lentamente svaniva. Pareva ora un
vetro che veniva frantumato in mille pezzi, distorcendo l’immagine che si era
osservata fino a quelmomento.
Per un attimo, Oz non seppe come reagire: era un caso, o qualcosa di cui
preoccuparsi?
Era normale, o si trattava di un’anomalia?
Capiva, per la prima volta chiaramente, che quel fenomeno era qualcosa di cui stupirsi; non importava quanta capacità di
adattamento Oz possedesse o avesse sviluppato negli anni, da qualunque parte si
affrontasse la questione, non era normale
assistere a dei ricordi come ad uno spettacolo teatrale, né mai lo sarebbe
diventato.
«Suggerimenti, signor Bezarius?» lo incalzò Break, una mano posata sulla spalla
del biondo e una su quella di Alice, tirandoli istintivamente indietro.
Oz alternò nuovamente lo sguardo fra lui e la scena ormai deformata e indistinguibile:
«…Non lo so.» dovette ammettere infine «Non mi è mai
capitato.»
Come se quell’ammissione fosse stata il compromesso necessario per farli
tornare al luogo a cui appartenevano, il ricordo sparì completamente. Non fu
come Oz ricordava, come svegliarsi da un sogno.
Fu brutale, come se lo stessero spezzando. Un dolore che non riusciva a capire
dove si concentrasse o meno, come se fosse forte in egual misura in tutto il
corpo.
Ebbe la sensazione, ad un certo punto, di aver persino gridato.
Aprì gli
occhi quasi di scatto, riprendendo fiato come se fosse rimasto immerso
sott’acqua fino a svuotare completamente d’aria i polmoni, ora avidi di
ossigeno. La prima cosa che vide fu il volto di Aedan.
L’espressione atona che il moro aveva di solito cambiava solo per una sfumatura
leggera ma percettibile di urgenza, quasi l’altro avesse avuto fretta di
vederlo svegliarsi.
Oz si alzò a sedere, scombussolato: «Alice e…» iniziò, interrotto quasi subito
dallo stesso Aedan, che indicò la sinistra del biondo. Voltandosi vide che la
ragazza e il docente erano lì: lei sembrava ancora scossa, mentre lui era preso
da qualcosa. Seguendo la direzione del suo sguardo, individuò Sirjan: era in
piedi, dando loro le spalle. All’erta, attento ad ogni minimo movimento.
Quando ne individuò il motivo, Oz sussultò e capì il perché di tanta attenzione
da parte del capo dormitorio, oltre che l’interesse di Xerxes e la confusione
di Alice; di fronte a Sirjan, in ginocchio e apparentemente scossa dai
singhiozzi, c’era un’altra Alice. Non era, però, quella bambina del ricordo da
cui erano usciti bruscamente. Era una Alice identica a quella reale, quella che
Oz conosceva.
Solo gli abiti erano diversi, simili a quelli che – così immaginò il biondo –
Alice avrebbe potuto indossare a casa, o comunque lontana da Latowidge e
dall’obbligo della divisa.
Oz cercò lo sguardo di Sirjan, sperando in una spiegazione, ma l’altro
continuava ad osservare la ragazza a terra; non potendo fare altro, anche il
più giovane spostò l’attenzione su di lei, china su qualcosa che non riusciva a
vedere.
«Muoviti meno possibile.» lo raggiunse la voce di Aedan in un sussurro vicino:
«Per tirarvi fuori abbiamo dovuto distruggere il campanello di Cheshire. Lui
sembra sparito, ma è apparsa lei all’improvviso e ha fatto questo caos.» spiegò
e solo allora Oz si rese conto dello stato in cui versava il corridoio. Sul
pavimento c’erano vetri praticamente ovunque: alzando un poco lo sguardo, capì
che provenivano dalle finestre. La maggior parte di esse erano infatti
completamente distrutte.
Una sfilza di domande gli affollarono la mente in un istante: come aveva fatto
una ragazza ora in lacrime a fare quel disastro? Chi era? Perché proprio il
campanello di Cheshire, e perché questi era sparito anziché infuriarsi, specie
considerando l’indole abbastanza aggressiva che aveva dimostrato di avere?
Perché, supponendo che i vetri nel frantumarsi avessero fatto un chiasso più
che udibile, nessuno a parte loro era nel corridoio?
Non sapeva a cosa dare la priorità, e si chiedeva anche se Aedan avrebbe
risposto o rimandato come altre volte aveva fatto. Decise di provare
ugualmente.
«Aedan» lo chiamò in un soffio «cosa è successo esattamente?» decise di fare
una domanda che potesse includere la maggior parte di quelle a cui non sapeva
dare un ordine preciso; il moro, che osservava la schiena di Sirjan, non
sembrava particolarmente intenzionato a rispondere. Oz si stava già arrendendo
all’idea, quando inaspettatamente l’altro parlò: «Eravate bloccati in una
specie di ricordo, vero?» chiese a sua volta, sbirciando Oz con la coda
dell’occhio.
Il biondo annuì piano, in attesa: «Sirjan non mi ha spiegato bene, ma era
qualcosa racchiuso nel campanello di Cheshire. Per tirarvi fuori abbiamo dovuto
romperlo. Voi vi siete svegliati, e lui è scomparso.» spiegò, con quel modo di
parlare tipico di lui, frasi brevi e lo stretto indispensabile.
Oz stava per domandare chi fosse quella ragazza, ma notò un movimento al
proprio fianco; voltandosi in quella direzione notò che Alice si era alzata,
avvicinandosi di qualche passo. Sirjan, nel vederla al proprio fianco le mise
una mano sulla spalla, fermandola con decisione.
«Non è il caso.» la redarguì, criptico. Lei, quasi si fosse accorta solo in
quel momento della presenza del maggiore, lo fissò quasi sfidandolo a fermarla
davvero. Senza cambiare espressione, Oz giurò che l’altro avesse rafforzato
ancora di più la presa.
«Sei stato tu, vero?» li colse di sorpresa la voce della ragazza che ancora si
trovava inginocchiata in mezzo al corridoio, incurante dei frammenti di vetro
su cui poggiava. Solo quando si tirò su, Oz notò che fra le mani reggeva il
campanello di Cheshire, attraversato da una crepa ben visibile, come fosse
stato proprio rotto manualmente a metà. Lei guardava Sirjan, e piangeva.
«Sono stato io.» replicò lui quasi placidamente, cosa che sembrò scatenare il
sentimento opposto nella ragazza; l’espressione fu deformata dalla rabbia, ma
non solo. Sembrava triste, ferita, come se Sirjan avesse appena ucciso
qualcuno.
«Cheshire era… l’unico, l’unico amico di Alice!»
esclamò, riferendosi a se stessa con lo stesso nome della castana trattenuta
dal capo dormitorio. Oz, che iniziava veramente a non capirci più nulla, guardò
prima l’una e poi l’altra. Alice Lewis sembrava aver rinunciato a capire di chi
si trattasse, lasciandosi in balia della confusione più totale.
«Cheshire non ha rispettato il patto, e non era la prima volta.» parlò Sirjan
cautamente, severo come se stesse rimproverando uno dei tanti studenti colto in
flagrante per il corridoio oltre il coprifuoco: «Abbiamo un patto di non
aggressione, e in più di un’occasione lo avevo pregato di rimanere al suo
posto. Già molto tempo fa avrei dovuto aggredirlo, ma in nome dell’accordo che
c’è fra la scuola e voi, ho chiuso un occhio. Ho fatto un errore.» continuò, e per
un attimo ad Oz ricordò il Sirjan visto le prime volte. Freddo, implacabile,
poco disposto a perdonare. Specialmente gli spiriti come Cheshire.
«Cheshire era buono!» esclamò, insistente, la Alice in ginocchio.
Oz non lo vedeva in viso, da dove si trovava, ma fu certo che l’espressione del
più grande dovesse essere mutata radicalmente. Le parole che pronunciò glielo
confermarono.
«Cheshire ha aggredito un docente, causandogli una ferita profonda.» tuonò. Non
stava gridando nel vero senso della parola, ma il tono con cui le si stava
rivolgendo avrebbe fatto gelare il sangue nelle vene a chiunque, con un effetto
maggiore che se avesse urlato: «In quell’occasione fu scusato perché entrambi
erano nel torto e il docente in questione si era spinto troppo in là nei vostri
affari. Il signor Bezarius, poi, è stato ripetutamente aggredito, anche senza
che avesse fatto alcun torto a voi. I patti erano altri, sono sempre stati
altri dalla fondazione perciò dimmi, quanto ancora dovrò fingere di non vedere
quanto poco vi interessa rispettarli? Non ho intenzione di aspettare che
nuociate ancora a qualcuno in maniera irreversibile.» concluse, senza muoversi
di un passo nonostante ad un certo punto – Oz suppose fosse causato dalla Alice
a terra che non sembrava affatto gradire quel discorso – qualche altro
frammento di vetro si fosse staccato dalle finestre, frantumandosi
ulteriormente contro il pavimento.
«Tuttavia» riprese Sirjan «non considero te colpevole di quanto fatto da lui
fino ad oggi. Sei libera di andare, e farò tornare gli studenti in quest’area
senza coinvolgere nessun altro.» aggiunse.
Oz normalmente si sarebbe preso la briga di chiedere ad Aedan cosa intendesse
Sirjan e come avesse fatto sì che gli studenti non si spostassero in quel
corridoio; ebbe però la sensazione che non fosse il momento adatto, e che non
avrebbe comunque ottenuto risposta.
«Cheshire non ha fatto nulla di male!» sentì insistere la Alice a terra e,
proprio in quel momento, la vide portare la propria attenzione proprio sulla
Alice a pochi passi da lui; la mano che non teneva il campanello ormai rotto,
indicava proprio in direzione della ragazza così uguale a lei: «È colpa sua!»
prese a gridare «Se tu non fossi andata via e non ci avessi lasciati soli… è stata colpa tua, tutta colpa tua! Cheshire è
rimasto con me perché tu ci hai abbandonati!» continuò, furiosa, mentre i
singhiozzi che di tanto in tanto le sfuggivano rendevano la scena a metà fra il
surreale e il pietoso.
Quella ragazza, quella Alice, sembrava tanto fragile quanto inavvicinabile.
Nonostante Oz avesse l’istinto di avvicinarla e cercare di calmarla, qualcosa
nel profondo gli diceva che sarebbe stato non solo inutile, ma anche pericoloso
a suo modo: una sensazione simile a quella provata con Glen, ma al contempo
diversa; in cosa differissero, non avrebbe saputo spiegarlo a parole.
«Lewis?» sentì pronunciare, riconoscendo la voce di Xerxes Break – era
indubbiamente lui, il docente al quale Sirjan si era riferito poco prima.
Girandosi in loro direzione, notò entrambi. Alice sembrava terrorizzata, in
quel momento, e Oz si sentì stranamente inquieto: forse perché non aveva mai
visto la castana davvero spaventata
da qualcosa, forse perché poco più in là c’era quella che sembrava un’altra
Alice in lacrime, ma la cosa lo preoccupò.
Vide il docente scuoterla leggermente con una delicatezza che, a dirla tutta,
non gli avrebbe mai attribuito senza averla davanti ai propri occhi.
Alice non lo considerava quasi, l’attenzione totalmente sull’altra ragazza, le
labbra appena socchiuse quasi stesse cercando di articolare qualcosa senza però
riuscirci, come bloccata.
«Perché mi hai lasciata da sola con le cose dolorose?! Perché sei scappata
via?! È tutta colpa tua! Ti odio, ti odio, ti odio!» prese a strillare l’altra,
e prima ancora che potesse rendersene conto, un vetro – come si fosse alzato da
terra Oz non lo sapeva ed era abbastanza sicuro di non voler indagare in quel
momento – passandogli vicino al viso così velocemente da non essere
praticamente visto, gli procurò un taglio superficiale ma fastidioso. Si portò
per istinto una mano al viso, sfiorandolo.
Quasi il taglio fosse stato netto e profondo, Aedan sembrò allarmarsi e lo
spintonò portandosi davanti a lui; Sirjan, allo stesso modo, si voltò verso di
loro con una certa urgenza sia nello sguardo che nella voce: «Portali via,
Aedan!» ordinò senza preoccuparsi di sembrare o meno sgarbato.
Oz, dopo una veloce occhiata alla ragazza davanti al capo dormitorio e ad
Alice, fece per ribattere. Sirjan non gliene diede il tempo e, quasi stesse
rispondendo ad un muto e perentorio ordine letto nello sguardo del più grande,
Aedan si alzò in piedi tirando su il biondo quasi di peso.
«Ma…!» tentò di opporsi, cogliendo però con la coda
dell’occhio che Break stava tirando indietro anche Alice per portarla via o
almeno più lontano possibile: «Quella è pericolosa.» disse solo Aedan,
probabilmente convinto che bastasse come spiegazione.
Prima che voltassero l’angolo, Oz vide soltanto due cose: la maggior parte dei
vetri a terra galleggiavano sinistramente in aria quasi pronti, come pugnali, a
colpire e Sirjan nel mezzo quasi si fosse volutamente posizionato nell’occhio
del ciclone.
Aedan li
aveva guidati lungo il corridoio in cui avevano svoltato lasciandosi il capo
dormitorio alle spalle, e in silenzio li aveva condotti fino alla stanza in cui
Oz era già stato una volta insieme a Sirjan e Alyster mesi prima e che gli era
parso una sorta di ufficio dei due. Non aveva mai indagato allora, né ne aveva
avuto motivo poi, su cosa ci facessero e se effettivamente non ci fossero
niente più che gli archivi studenteschi.
Una volta nella stanza, con il fiato corto visto che li aveva costretti ad un
passo piuttosto sostenuto, tutti e quattro avevano taciuto finché il respiro
non si era regolarizzato; Break aveva fatto sedere un’Alice fin troppo docile
perché la cosa non fosse da imputare allo stato di confusione mentale in cui
certamente versava. Aedan era rimasto fra la porta e la scrivania cui – se non
ricordava male – era solito sedere Sirjan; Oz era in piedi, invece, a ridosso
della poltroncina su cui avevano fatto sedere Alice.
Nel silenzio della stanza, appariva ancora più ovvio l’innaturale quiete che
aleggiava per i corridoi. Per la seconda volta Oz si era chiesto come fosse
possibile che il chiasso che anche solo i vetri avrebbero dovuto provocare
risultasse inudibile: non solo non erano così distanti da poter giustificare la
cosa, ma non era nemmeno plausibile già da prima che il frantumarsi delle
finestre fosse passato inosservato a tutta
la scuola.
«Aedan» aveva richiamato l’attenzione del moro: «Sirjan cosa sta facendo ora,
lì?» aveva domandato senza mezzi termini. Non voleva scuse, in quel momento,
perché iniziava a diventare impossibile anche solo provare a giustificare in maniera normale quel che succedeva a
Latowidge: «Ormai siamo di mezzo alla questione, qualunque essa sia. E a meno
che Sirjan non sia immune al vetro, cosa di cui dubito, o lo hai lasciato lì da
solo perché sei pazzo, o perché sai che starà bene.» aveva osservato,
guardandolo in maniera eloquente.
Aedan non aveva detto nulla, né mutato espressione sul momento; tuttavia, ad un
certo punto Oz era certo di aver visto un’accigliarsi leggero, quello che
avrebbe definito “preoccupazione”. Si era chiesto più volte se Aedan lavorasse
soltanto per Sirjan o se ne fosse amico e, quindi, si preoccupasse per lui.
Quella, finalmente, sembrava essere la risposta.
«Io non ho il permesso di parlarne.» aveva detto infine, abbassando leggermente
la testa. Oz avrebbe voluto provare a spronarlo un poco di più, certo che – dal
momento che considerava Aedan tutto fuorché stupido – avrebbe capito che in
quella situazione fosse più sensato rinunciare ad un segreto, piuttosto che
rischiare che qualcuno si facesse male sul serio. Prima che potesse dire
qualcosa però, la voce di Alice aveva risuonato per la stanza, una nota di
isterismo dato sicuramente dal susseguirsi di troppi eventi che dovevano averla
scossa; era forte, certo, ma nessuno sarebbe rimasto impassibile scoprendo
parte di un passato che non ricordava e sentendosi poi accusare da qualcuno con
il proprio stesso aspetto.
«Non me ne frega nulla, se non puoi parlarne! Quella…
quella ragazza!» aveva detto senza sapere nemmeno lei come chiamarla «Mi
incolpa di cose di cui non sono a conoscenza e non so nemmeno chi sia! Perché
ha la mia stessa faccia?! Perché mi accusa? Cosa vuole da me?! Smettetela di
nascondermelo, se tu e quello lì ne sapete qualcosa dovete dirmelo e basta!»
era esplosa, facendo ad Oz una gran tenerezza.
Alice, che sembrava sopportare bene qualsiasi cosa rimanendo sempre se stessa –
Echo che sembrava tenerla sotto controllo, Vincent che non le piaceva, tornare
a casa che era per lei insopportabile – aveva raggiunto la soglia di qualcosa
che non poteva tenere sotto controllo. Era spaventata, ed era comprensibile, e
in quel momento Oz non aveva saputo cosa fare per farle capire che pian piano
avrebbero districato tutto e ne sarebbero venuti a capo.
Che non necessariamente era qualcosa di pericoloso – lo pensava, probabilmente
sbagliando e troppo influenzato dall’idea di dover considerare pericolose tutte
quelle manifestazioni sovrannaturali, e dal dovervi includere anche suo
fratello.
«Allora» lo aveva incalzato Alice, liberandosi della mano di Break che, forse
solidale ad Aedan, cercava di trattenerla o almeno di calmarla: «vuoi dirmelo o
no?!» esclamò.
Oz era certo di non aver mai visto Aedan abbassare lo sguardo ma, in quel
momento, il moro lo fece: un solo istante, qualcosa di impercettibile, una
frazione di secondo in cui gli occhi avevano cercato quasi spasmodicamente la
porta.
«Non posso parlarne.» aveva ripetuto.
«Tu sei…!» aveva iniziato Alice ma, inaspettatamente,
Aedan aveva portato lo sguardo nuovamente su di lei, duro stavolta: «Proprio
come tu non tradiresti mai la fiducia di una persona vicina per me, io per te
non tradirò la fiducia di Sirjan. È tutto quello che ho da dirti, Lewis.» aveva
pronunciato senza lasciare possibilità di replica. Per la prima volta dopo
l’episodio avvenuto alla morte di Alyster, Oz lo vedeva prendere posizione.
Ad interromperli era stata la porta che si apriva lasciando entrare Sirjan, che
se l’era richiusa immediatamente alle spalle: non sembrava ferito, nonostante
avesse la stoffa della divisa tagliata sul braccio sinistro. A giudicare però
dal fatto che Aedan non cercò nulla per medicarlo, Oz dedusse che si fosse
tagliato solo il tessuto e non la pelle sotto di esso fortunatamente.
Intuendo che ci fosse una discussione in corso, Sirjan si era messo di mezzo.
Capito il problema, con un sospiro si era arreso a cercare un compromesso:
aveva spiegato loro che quella questione era qualcosa che la sua famiglia era
incaricata di tenere segreta per conto di terzi.
«Pertanto» aveva detto «dovrete darmi il tempo di richiedere il permesso al
capofamiglia.» aveva concluso, aggiungendo però il consiglio di pensare
attentamente all’eventualità di chiedere e di conoscere la verità.
«Ve lo consiglio non come appartenente ai Kolstoj.» era stata la precisazione:
«Lo dico come persona. La verità che cercate non riguarda solamente voi o le persone
che avete visto a causa dei ricordi conservati da Cheshire. Perciò credo che
dovreste pensarci bene, prima di decidere.» aveva detto prima di congedarli.
Aedan era chiaramente rimasto con Sirjan, mentre Break si era preso l’incarico
di scortare Alice al proprio dormitorio. Oz ne era rimasto un po’ sorpreso,
perché Xerxes Break non si era mai dimostrato esattamente il tipo di docente
coscienzioso verso i suoi studenti. Evidentemente, però, di fronte ad una cosa
così grande persino lui si ritrovava ad avere un atteggiamento più serio. Anche
se, e di questo Oz era sicuro, la prima cosa che avrebbe fatto dopo essersi
assicurato che Alice fosse al sicuro nel dormitorio sarebbe stata andare a
riferire il tutto a Rufus, confrontandosi con lui sull’accaduto.
Considerando che anche Glen Baskerville sembrava legato alla cosa, di certo i
due non ne sarebbero rimasti fuori.
Oz si era diretto al dormitorio maschile. Tuttavia, anziché andare nella
propria stanza, cambiò direzione ad un corridoio. Sapeva dove andare e sapeva
che non poteva rimandare, non ora, specialmente se Sirjan fosse tornato con il
permesso per raccontare loro tutta la verità. Capì che non poteva lasciare
Gilbert fuori dalla questione, e probabilmente nemmeno suo fratello Vincent;
ma, mentre nel caso del biondo sarebbe stato di certo più saggio lasciare che
fosse Gilbert stesso a parlargliene se l’avesse ritenuto necessario, nel caso
dell’amico – amico?Non era quello il momento di puntualizzare –
era giusto che fosse lui a spiegargli quanto accaduto.
Voltò un altro angolo, immettendosi nel corridoio che ospitava la stanza dei
due Nightray. Come stiamo, oggi? Va un po’ meglio? Si voltò, cercando alle proprie spalle due compagni che potessero essersi
scambiati quelle parole. Quasi dovesse ormai aspettarselo ogni volta, non vide
nessuno.
Inspirò, tornando a percorrere il corridoio nella direzione che stava seguendo. Ha riposato tutta la mattina, credo che
oggi si senta più in forze rispetto al solito. Si impose di non voltarsi, si disse che non c’erano voci, non c’era nulla
di strano. Soprattutto, non c’era nessuno alle sue spalle. Credo che gli piacerebbe vederti. Non
vuoi entrare, Gilbert?
«Oz?» sussultò sentendosi posare una mano sulla spalla; si voltò di scatto,
ritrovandosi davanti proprio Gilbert. Sospirò piano, cercando di togliersi
dalla mente quella voce, mentre contro la sua volontà si sforzava
istintivamente di ricordare a chi appartenesse. Gli sembrava familiare, ma non
riusciva a fare mente locale. Supponeva che venisse da un ricordo, da qualcosa
successa in passato e che gli era tornata in mente ma non riusciva ad
inquadrarla nel proprio passato.
Quando era stato male? Aveva avuto la febbre da bambino e Gilbert era andato a
trovarlo?
Allora la voce doveva essere di Ada, visto che era femminile.
«Va tutto bene? Sei pallido.» sentì dire al moro, le dita che gli sfiorarono la
guancia con il dorso, l’espressione apprensiva. Incurvò le labbra in un sorriso
leggero, annuendo: «Mi hai solo sorpreso. Stavo venendo nella tua stanza.»
replicò.
«Come mai? È successo qualcosa?» domandò il moro, facendosi attento.
Normalmente Oz avrebbe sminuito con un “no, è tutto a posto”, ma non era quello
il caso. Annuì di nuovo, impercettibilmente: «C’è una cosa di cui vorrei
parlarti. Riguarda… il periodo precedente alla tua
amnesia, credo.»
Gilbert
si sentiva estremamente confuso.
Oz gli aveva pazientemente spiegato tutto l’accaduto, compreso il contenuto di
ciò che con Alice e Break aveva osservato, non sorprendendosi del fatto che il
moro non sembrasse ricordare quel primo incontro con la cugina; o meglio,
sosteneva che quello che lui ricordava fosse in circostanze e luoghi diversi.
Soprattutto, gli aveva detto, non era presente Jack quella volta.
L’unica soluzione che gli era venuta in mente, era cercare di confrontare i
propri ricordi con Vincent, l’unico altro presente in quell’occasione che
potesse smentire o avvalorare quanto visto da Oz: «Lo cercherò e chiederò a
lui. Ne riparliamo a cena, va bene?» si era quindi congedato dal biondo.
Vincent non era in stanza, e per quello Gilbert aveva preso a dirigersi verso
la biblioteca una volta abbandonato l’edificio del dormitorio, sperando che suo
fratello per una volta che gli serviva mantenesse il suo hobby di andare a
leggere le cose più disparate – letture che probabilmente faceva solo lui in
tutta Latowidge, e sulle quali Gilbert non aveva mai voluto indagare davvero –
in modo da essere facilmente rintracciabile.
Voltò un angolo, e diede una spallata a qualcuno che non inquadrò del tutto dal
momento che se lo era ritrovato davanti all’improvviso. Fece per scusarsi,
notando che si trattava di Elliot e che sembrava venire proprio dalla
biblioteca: «Elliot, giusto te.» lo incalzò, mentre il minore lo fissava tra
l’imprecazione mentale di chi viene urtato e vorrebbe mangiarti vivo e lo
scombussolato dallo scontro inaspettato.
«Vieni dalla biblioteca? Hai visto se c’è Vincent?» domandò senza perdere
troppo tempo, visto che nessuno dei due si era certo fatto male.
«No, stavo venendo a cercarti.» ammise, recuperando un libro che gli era caduto
di mano. Gilbert se ne stupì inevitabilmente: era ben raro che Elliot lo
cercasse o avesse un bisogno impellente di parlargli o chiedergli qualcosa. Lo
cercava di persona solo se avvertiva la necessità imminente di urlargli contro
per qualche motivo spesso discutibile; in tutti gli altri casi, mandava Reo a
fare da tramite.
Lo vide guardarsi intorno con circospezione, notando qualche studente che
andava o veniva dalla biblioteca passargli accanto: «Vorrei evitare di
parlartene qui. È abbastanza urgente, però. Possiamo spostarci?» lo incalzò con
una certa impazienza, osservandolo.
Proprio perché era raro uno scambio simile tra di loro, Gilbert annuì; alla fin
fine Vincent era sempre nei soliti posti quando non era in stanza, perciò non
sarebbe stato difficile trovarlo in un secondo momento.
Annuì, quindi: «Spostiamoci.» si disse d’accordo, vedendo Elliot passargli
accanto e voltandosi per seguirlo.
Si disse
che avrebbe dovuto iniziare ad avere qualche dubbio quando anziché spostarsi –
cosa assai più logica – nei dormitori o in una delle loro stanze, Elliot lo
aveva guidato per i corridoi fino ad un’ala dell’edificio principale
praticamente dimenticata anche da chi conosceva la scuola come le sue tasche.
Era, notò Gilbert in un secondo momento, nella zona che fin dal primo anno
avevano vietato espressamente, sottolineando che lo stesso regolamento interno
dell’Istituto sconsigliava l’accesso. In un secondo momento – intorno al suo
secondo anno, se Gilbert non ricordava male – addirittura si era cominciato a
punire chi non rispettava quella regola.
Ne conseguiva quindi che quell’ala dell’edificio fosse non solo isolata, ma
avesse anche l’aria più abbandonata e consunta del resto della scuola.
Gli sarebbero dovuti sorgere dei dubbi nel momento in cui Elliot, ligio al
dovere e osservante delle regole, aveva voltato l’ennesimo angolo immettendosi
in quell’area. Invece, spazientito dall’allontanarsi così tanto – cosa a suo
avviso inutile – e in ansia per quel qualcosa di urgente di cui Elliot sembrava
aver bisogno di parlare, non aveva detto nulla limitandosi a seguirlo.
Ora, soli in quel corridoio dove nessuno sarebbe arrivato, si malediva
mentalmente.
Ora, mentre Elliot con sguardo vuoto come se nemmeno lo vedesse davvero lo
inchiodava al muro, si dava dello stupido.
Non voleva reagire picchiando suo fratello minore, che in quel momento nemmeno
sembrava lui; capiva però che, se avesse continuato a stringere così tanto o
avesse fatto movimenti strani, sarebbe stato inevitabile.
«Elliot, lasciami.» intimò per l’ennesima volta, la voce appena spezzata.
«Non essere sciocco.» lo apostrofò l’altro. Fu l’espressione a tradirlo, a far
capire a Gilbert che nonostante lo sembrasse quello non era e non poteva essere
Elliot; gli occhi azzurri, che erano quasi sempre arrabbiati o seccati nel
posarsi su di lui, lo stavano guardando con altezzosità e disprezzo. E, seppure
Elliot avesse sempre cercato di far sembrare tale l’arrabbiatura – spesso anche
ingiustificata – verso di lui, Gilbert dopo anni sapeva anche senza guardarlo
che suo fratello minore non guardava con disgusto le persone, salvo che
avessero fatto qualcosa di veramente grave.
Poteva essere arrabbiato per il suo carattere tranquillo, l’indole remissiva,
il fatto che fosse stato un servitore dei Bezarius prima di essere adottato, ma
in quel modo non lo avrebbe guardato mai.
«Confido» lo sentì riprendere: «che tu abbia ben compreso che non sono il tuo
sciocco e influenzabile fratello minore.» pronunciò. L’espressione di Gilbert
mutò: irritato e forte dell’istinto di protezione che nei confronti dei suoi
fratelli – Elliot compreso – aveva sempre avuto, lo fissò di rimando senza
paura.
Non importava che la posizione al momento volgesse a suo favore, e che Gilbert
fosse con le spalle al muro, quasi completamente impossibilitato nei movimenti.
«Chi sei? Cosa vuoi da mio fratello?» pronunciò, il tono risoluto.
Vide le labbra di Elliot incurvarsi in un sorriso di scherno estraneo al volto
del minore, mai visto negli anni in cui era cresciuto con lui.
«Rispondi alla mia domanda, piuttosto.» lo ignorò totalmente: «Se gli eredi
dell’uomo di cui desideri vendicarti fossero davanti ai tuoi occhi, giovane
Nightray, cosa faresti?»
Gilbert boccheggiò per un attimo, senza sapere bene cosa dire. Si impose di
calmarsi.
Doveva ragionare, doveva capire con chi stesse parlando; poi, solo poi, avrebbe potuto preoccuparsi di come
e perché quella persona – quella presenza
– ce l’avesse con il suo padre adottivo.
«Chi sei?» chiese nuovamente, testardo.
Il viso di Elliot si fece più vicino, fino a deviare lateralmente per poter
parlare a voce bassa ed essere comunque udibile grazie alla scarsa distanza:
«Glen Baskerville.» pronunciò piano, il tono quasi sadicamente divertito.
«E la risposta esatta era: li ucciderei.»
Un parto. Uno stramaledetto parto ;_;! *siprostra*
Credo che persino per chi è abituato ai miei aggiornamenti lentissimi stavolta
sia passato davvero troppo tempo. Sono… 5 mesi? *non ci vuole pensare*
Ad ogni modo, a questo punto siamo a -3 (o -2 + 1, considerando l’epilogo XD)!
Inizia a vedersi la fine, non ci credo nemmeno io ;_;” Confidate che, anche se
con aggiornamenti lentissimi, questa storia vedrà la dicitura “the end” (è già
riassunta, per questo lo posso giurare XD).
Per questo capitolo risponderò ancora in queste note finali, ma dalle prossime
eventuali recensioni risponderò tramite il sistema di EFP – sempre se mi
ricordo 8D *rincoglionita*
Sì, odiatemi pure per la fine del capitolo 3
La frase in apertura è di Kuroshitsuji I.
Vi auguro delle buone feste <3
Fiamma
Drakon: ti ringrazio come
sempre per i complimenti e sì, voi che siete sopravvissuti 19 capitoli senza
capirci un accidente state per essere – finalmente – ricompensati XD
Abbiamo ormai raggiunto il climax, da parte di questo capitolo e negli ultimi
due tutti i nodi verranno al pettine, per la vostra gioia!
Sono contenta che Break risulti IC (su questo capito ho qualche leggera
perplessità, ma attendo il giudizio di chi legge eventualmente XD); spero che
anche questo capitolo sia stato di tuo gradimento (e non troppo confusionario)!
Nuit: non devi
affatto scusarti del tuo ritardo, la recensione non è un obbligo ma un piacere
(per chi la lascia e per chi la legge), non c’è una scadenza. Io piuttosto, con
il ritardo che ho con i capitoli immagino abbiate l’istinto di lapidarmi, tipo
8D
Elliot e la sua uscita per la presenza di Gilbert sono uno dei punti da
“retroscena” di una povera autrice e dei suoi schemini
dei capitoli, che narrerò in separata sede alla conclusione di questa fanfic XD Cheshire e Break nel mio immaginario si odiano e
basta, proprio come cane e gatto – paragone infelice visto che il gatto c’è
davvero, ma passatemi il termine LOL
Spero che quanto accaduto nei ricordi di Jack abbia incontrato le aspettative!
^^