Senza titolo

di Dejanira
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***
Capitolo 4: *** III ***
Capitolo 5: *** IV ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Senza titolo

Senza titolo

 

Prologo

 

 

 

What if nothing exists and we're all in somebody's dream?

Woody Allen

 

 

 

 

 

Dicono che gli uomini non possano volare, se non su scintillanti manici di scopa magici o aeroplani babbani o colorate mongolfiere. Ma dicono anche che ci sia qualcosa dopo la morte e che la felicità sia possibile, per questo Hermione Granger aveva buone ragioni per non credere a quella diceria.

Era certa che se qualcuno avesse potuto sentire quello che sentiva lei in quel momento, non avrebbe esitato a ricredersi. Non era esattamente una cosa fisica, del tipo sollevarsi in aria e osservare le macchine su Shaftesbury Avenue dall’alto, era più una sensazione, come sentire il pavimento sotto di te crollare e tu correre correre ugualmente, come se nulla fosse successo.

Non era lei che si era librata in alto, era il resto del mondo che era sprofondato sempre più in basso.

E qualunque fosse la verità, era una sensazione abbastanza definita e vivida per essere, appunto, solo una sensazione. E un’altra delle interminabili certezze che avevano finito col disgregarsi gradualmente di fronte ai suoi occhi c’era anche quella che una sensazione non poteva differire poi così tanto dalla realtà.

Per questo continuava a correre, o volare, che tanto era la stessa cosa.

Non era nemmeno molto sicura che la gente potesse vederla. Insomma, tutti quei maghi e quelle streghe nell’Atrium, che si dirigevano come mosche verso la ricostruzione della fontana dei Magici Fratelli, distrutta e poi ricostruita, come tante altre cose tutt’attorno, distrutta e ricostruita, distrutta e ricostruita.

Come lei. Distrutta, dilaniata, fatta a pezzi e poi rimessa insieme in un assai precario manichino di legno a cui sarebbe presto saltato via un braccio o la testa. Non l’anima, e di certo nemmeno il cuore, perché quelli non c’erano neanche più.

Aveva dovuto guardarsi indietro e raccogliere pezzi di se stessa dal pavimento, ora un dito, ora il naso, ora gli occhi, ora un dente, e per ogni osso che riattaccava c’era un’articolazione che cadeva, e così all’infinito in una macabra e decadente catena di montaggio.

Era un prodotto industriale, confezionato a macchina e lo stesso difettoso, non più un essere umano.

Oltrepassò la fontana e raggiunse gli ascensori, mescolandosi tra i mantelli vaporosi e i cappelli alti di quella gente che la guardava e neanche la vedeva.

Una volta la fermavano per strada, i giornalisti chiedevano che concedesse loro un’intervista e i ragazzini la imploravano che firmasse un autografo, una cosa che non si aspettava le sarebbe mai successa, quando era una ragazzina di undici anni che creava disegni di sola grafite senza metter mano alla matita.

Già da allora, niente acquerelli, niente tempera, niente colore, solo una disastrata e informe massa con tutte le sfumature di grigio.

Il peso del ricordo di se stessa da bambina la schiacciò al pavimento dell’ingresso principale del Minsitero della Magia e ve la lasciò per un infinito lasso di tempo. Solo quando terminò, permettendole di continuare a librarsi su quel terreno in rovina, poté premere il tasto che l’avrebbe portata al Nono Livello – Ufficio Misteri.

Trentaquattro anni sulla carta e mille addosso, la sua impercettibile pesantezza la stupì nel guardarsi allo specchio dell’ascensore, insieme ad altri quattro o cinque volti che avrebbero potuto avere zanne e corna, oppure neanche gli occhi, e lei non avrebbe fatto caso a loro ugualmente.

Lo specchio crudele le rimandò l’immagine di qualcosa che un tempo doveva essere stato vivente, una strana materia solida a forma di ragazza, con un impasto ovale e pallido che ricordava un viso, due schegge di vetro infrante che dovevano essere occhi e un groviglio di rimorsi e pensieri che invece erano solo capelli.

Immaginò di rannicchiarsi in un angolo, di stringersi con le mani le braccia fino a lasciarvi impressi i segni rossastri delle dita, raggomitolandosi, rattrappendosi per intero su se stessa, dentro se stessa, fino a essere risucchiata dal buco nero della sua esistenza; allora l’ascensore si sarebbe fermato, tutti gli altri sarebbero usciti e di lei sarebbe rimasto solo un cumulo di cenere a insozzare la moquette.

Invece l’ascensore si fermò, la voce metallica annunciò “Nono Livello – Ufficio Misteri”, e lei, stretta a se stessa come nella sua visione, uscì dalla cabina insieme ad altre due o tre persone che la superarono senza degnarla di uno sguardo. Le porte dell’ascensore si richiusero, e nel pianerottolo calò il silenzio. Freddo, insostenibile, opprimente, cigolante come un suicida appeso a un lampadario. Allora Hermione pianse, urlò, si gettò a terra e batté i pugni, gridò svariate parole, alcune dicevano “figlio”, altre strillavano “morte”, poche sussurravano “pezzi”, il resto era solo frastuono misto ad assenza.

Riprese il respiro che aveva trattenuto fino ad allora, con le labbra serrata e gli occhi chiusi. Altre due persone la superarono senza degnarla di uno sguardo, le porte dell’ascensore si richiusero e nel pianerottolo calò il silenzio, mentre il fantasma di quell’ennesima visione la abbandonava come si abbandona un vecchio amico.

Serra i denti.

Tira su le maniche.

Caccia giù i rimpianti,

butta fuori le allucinazioni,

ammazza i ricordi,

annienta il tuo respiro.

Sorridi.

- Buon pomeriggio. Sono Hermione Granger, avevo richiesto un appuntamento con l’Indicibile P.J.P-08, ho qui la richiesta, è fissato per le 16:00. –

- Attenda un momento, per favore. –

- Certamente. –

Pausa.

- In fondo al corridoio e poi a destra, seconda porta sulla sinistra. –

- Grazie. –

- Arrivederci. –

 

-

 

P. J. P. stava per Pansy “J” qualcosa Parkinson. Lo 08 indicava lo stadio dell’avanzamento della carriera dell’Indicibile in questione, che nel caso di Pansy era ancora basso data la sua giovane età e i pochi anni di servizio. Nel complesso, era tutta una misura cautelare messa in atto dal Ministero dopo la morte del vecchio Indicibile Broderick Bode. Requisito indispensabile di questa sezione del Ministero era che tutti i suoi impiegati fossero assolutamente anonimi. Per questo, anche all’interno dell’Ufficio stesso, non si usava riferirsi a loro con un nome ben esplicito.

Quella di Hermione non era una richiesta prettamente “ufficiale”. Un incontro con un Indicibile, seppur di stadio non avanzato come Pansy, non era cosa che si otteneva tutti i giorni, e comunque non per gente qualunque. Quella di Hermione era infatti una richiesta “di favore”, che era un modo carino per dire “sono raccomandato, non rompetemi le palle”.

I corridoi erano lunghi, stretti e male illuminati. I candelabri sulla parete si accendevano mano a mano che qualcuno avanzava e si spegnevano nel tratto di strada che si era appena superato; in questo modo, non era possibile vedere ne da dove si provenisse né dove si fosse diretti, una condizione in cui Hermione, attualmente, si sentiva perfettamente a proprio agio.

Seguì le indicazioni che le erano state date, dritto destra e sinistra e arrivò di fronte a una porta in legno di noce, poco lavorata, senza cartelli, tesserini, indicazioni o etichette che potessero chiarire che razza di stanza fosse quella.

Hermione bussò e Pansy disse Avanti, allora lei entrò indugiando sulla soglia.

Mobili e arredamento erano una cosa a cui Hermione non avrebbe nemmeno fatto caso. Giusto per annotazione, tanto per poter riferire poi a un ipotetico amico immaginario se era stata in cimitero o in una fattoria, rilevò pochi fattori essenziali: no finestra, no piante, soffitto basso, pareti scure o sporche, mobili eleganti, sedie alte, più d’una scrivania, no poltrone, no divani, solo librerie, registri, nero nero nero, Pansy, un uomo giovane, sulla trentina, a cui venne chiesto cortesemente di lasciarle sole.

L’altro Indicibile uscì, chiuse la porta, Hermione sobbalzò. Pansy era in piedi, indossava una veste scura, Hermione pensò che gli Indicibili ricordavano i Mangiamorte, si fece avanti, un passo, due, “Accomodati”, “Sì”, “Quella sedia”, “Sì”.

Seduta. Pansy ancora in piedi, braccia conserte, capelli sciolti, leggermente più lunghi di come li ricordava.

- Non ti offrirò nulla da bere – cominciò Pansy.

- Non bevo – replicò Hermione.

- E non mangi, a giudicare dal tuo aspetto – commentò l’altra. – Non voglio aiutarti. –

Suppliche, e tanto di quel dolore da uccidere una persona. Tutto questo in due soli occhi, cupi e annebbiati da qualcosa che non era paura, ma ne aveva tutti i sintomi. Pansy ne provò pietà.

Hermione si tormentava le mani. Se le strofinava, se le stringeva fino a far schioccare le ossa.

- Ho fatto una cosa terribile… - mormorò, ma a voce talmente bassa che Pansy non la udì, intuì soltanto di sentirle ripetere le parole con cui l’aveva asfissiata in tutti quei mesi.

- Sì, lo so. – Calma, pacifica, rassicurante.

- Ho fatto una cosa terribile… -

- Sì, l’hai fatto. – Semplice rilevamento di un dato.

Hermione alzò gli occhi. Si sentiva tanta di quella sofferenza dentro che il suo corpo non riusciva a contenerla. E allora straripava di dolore, una fiumana di angoscia che traboccava dagli occhi e dalla bocca portandosi via anche le poche cose belle, lasciandola prosciugata e mezza vuota.

- Tu… - boccheggiò Hermione, come se l’avessero trafitta con un milione di spilli e per questo faticasse a parlare. – Tu… Malfoy… voi mi dovete aiutare. –

- No – Pansy era risoluta.

- Ho fatto una cosa orribile, lo capisci?. – Pianse. – Mi squarcia in due, mi fa a pezzi. Mi fa sentire solo le cose peggiori. Non c’è più niente di bello, nulla per cui valga più la pena tentare… -

Pansy si lasciò cadere pesantemente sulla sedia, una mano sugli occhi. – Salazar… -

- Niente di bello! – piangeva ancora. – Mi riempie… mi riempie per intero di sentimenti negativi. Non lo capisci, tu, non lo capisci com’è… mi fa desiderare di non aver figli, di non essere sposata. Vorrei che Ronald la smettesse di guardarmi, mi dà fastidio quando mi guarda. Mi dà fastidio quando Hugo mi racconta cosa ha fatto e mi fa vedere i suoi disegni. Mi dà fastidio quando mia figlia mi abbraccia. –

Pansy non la guardava, ma stava a sentire. Non disse nulla perché Hermione non si aspettava che dicesse qualcosa se non “Sì”, quell’assenso sospeso nell’aria tra le loro teste, Mi aiuterai?, Sì, Mi aiuterai?, Sì, Mi aiuterai…?

- Per favore… Pansy, per favore… -

- Vuoi che ti aiuti a morire? – sbottò lei. – Che ti chieda di alzarti in piedi e girarti di spalle, cosicché tu possa chiudere gli occhi e non guardare mentre ti scaglio contro una Maledizione Senza Perdono? –

- No, no… -

- Con i rischi che comporterebbe per me, con il dolore che causerebbe a te, un attimo prima di morire, quando lo rimpiangerai e sarà già troppo tardi? –

- No! – strillò Hermione. Con la manica del mantello cercò di asciugarsi gli occhi, si nascose il viso in entrambe le mani. Passò del tempo.

- Mi sento come se avessi diciott’anni, Pans. –

- Beh, è una buona cosa, no? –

- Voglio sentirmi come se avessi diciott’anni. Quando non c’erano legami, non c’erano vincoli. –

- Divorzia, se è questo che ti crea problemi. Il resto non è una soluzione. –

Hermione scattò in piedi, con tanta violenza che il cuore di Pansy ebbe un balzo.

- Come puoi essere così? – strillò. – Ho fatto una cosa orribile e non riesco a… conviverci. –

Pansy sbuffò, si tirò a sedere, cominciò a rovistare tra scartoffie e schedari. Borbottò qualcosa di confuso.

- Voglio che smetta – spiegò Hermione, seguendola mentre lei faceva avanti e indietro per l’ufficio sistemando ora quel plico di fogli in un cassetto, ora quel registro su uno scaffale.

- Cosa? – sbottò, seccata e intimidita.

- Il ribrezzo. La paura che mi faccio ogni volta che mi sveglio la mattina e mi chiedo quanto tempo mi resta prima di morire. –

- Ascolta un po’, Granger… -

- No, tu stammi a sentire – la interruppe Hermione. – Ho fatto qualcosa di orribile. Essere una strega mi ha portato a fare qualcosa di orribile. –

Pansy sembrava disorientata. – Scusa? –

- Voglio che torni com’era prima – disse Hermione.

Pansy sospirò e radunò alcuni fogli sulla scrivania per infilarli tutto dentro uno schedario. – Prima di cosa? –

- Prima di Ronald, Hugo e Rose. Prima del mio lavoro. Prima della guerra. Prima di te e Malfoy. Prima di… -

Singhiozzò.

- Ai tuoi diciassette anni, insomma – cercò di semplificare Pansy.

- No – uno sfavillo perverso le schiarì gli occhi per un istante. – Prima degli undici anni. Prima di Hogwarts. Prima di quella fottuta lettera. Prima di essere una strega. –

Restò in silenzio ad osservare gli effetti della sua affermazione. Per pochi, misurati istanti l’unico rumore furono e agende e i registri di Pansy, che lei, imperterrita, continuò a sistemare. Tornò a sedersi alla scrivania con l’impressione di aver davanti una folle.

- Non credo di aver capito. –

Sospiro, rinuncia, preghiera. Ti prego, salvami, ti prego salvami salvami per favore salvami.

- Voglio che tu mi cancelli la memoria. –

Ti prego ti prego salvami

- Voglio che ogni ricordo degli ultimi ventitré anni sparisca dalla mia mente. –

Per favore

- Voglio che tu mi innesti nel cervello la convinzione di essere una babbana. Che la magia non esiste. Che tutto questo non è mai accaduto. –

Ti prego

- Affinché io riesca a sopportare la realtà… -

Salvami

- …questo deve essere stato soltanto un sogno. –

A Pansy venne voglia di strapparsi i capelli. Ancora una volta ripeté: - Salazar… -

- Fallo smettere – supplicò Hermione. – Pansy… di’ di sì. –

Mi aiuterai?

Mi aiuterai?

- Granger… -

- Tu lo sai cosa ho fatto. –

Sì.

- Per favore, di’ di sì. Non voglio più… -

Non riuscì a dire più nulla. A dir la verità, fu l’ultima cosa che disse per molto, molto tempo.

Pansy mise mano alla sua bacchetta, soppesandola tra le dita come se non fosse decisa sul da farsi. Hermione non guardava più, non supplicava più. Non ebbe il cuore di alzare il capo mentre la punta della bacchetta di Pansy, diretta contro il suo capo, si illuminava di una luce flebile.

Sì.

 

-

 

 

 

 

N/A

1) Questa è una storia strana, impossibile e contorta. Ci saranno un sacco di sbalzi temporali e flashback, spero di renderli in maniera quanto più chiara possibile.

2) Non penso che avrà molti capitoli, anzi spero pochi, anche perché non sono in grado di portare avanti progetti troppo sostanziosi.

3) E’ una Draco/Hermione. Tra le altre cose. Sempre e comunque. Lo si trova sempre il modo di infilarci dentro questo pairing.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** I ***


I

I

 

 

 

Sette anni dopo

 

 

 

- Salazar, non riesco ancora a crederci! –

Rose Weasley, in piedi e con il naso schiacciato contro il finestrino del treno, si voltò a fissare le facce deludenti dei suoi compagni di viaggio.

Scorpius Malfoy non faceva che giocherellare con un pezzo di carta staccato dall’edizione del Profeta di quella mattina, nel tentativo di creare qualcosa che ricordasse vagamente un cigno.

Albus Potter teneva il mento appoggiato al dorso della mano, con lo sguardo perso oltre le colline e il vento.

Disgustata da quell’overdose di noia, Rose tornò a sedersi accanto a Scorpius, incredula di non essere riuscita a trasmettere agli altri due nemmeno una briciola del suo entusiasmo.

- Beh, non siete contenti? – domandò allora, puntando gli occhi ora su uno, ora sull’altro. Visto che nessuno dei due la degnò di grande considerazione, tolse di mano a Scorpius il suo deforme cigno di carta, stizzita. Poi lo osservò con aria di sfida.

- Di tornare a casa mia per le vacanze estive, come ogni anno? – ribatté incolore Malfoy. – Sì, certo. –

Al sbuffò. Rose incrociò le braccia al petto, affatto soddisfatta.

- No, di tornare a casa tua per le vacanze estive con noi – sottolineò, enfatizzando l’ultima parte. – Questo non capita ogni anno. –

- Già – Scorpius si riprese il suo dubbio cigno, dispiegandolo e ricominciando daccapo. – Mio padre farà i salti di gioia. –

A quell’uscita, perfino Albus si riscosse. – Pensavo avesse detto che andava bene – osservò, guardando cautamente verso Rose, che adesso aveva abbassato e il finestrino e si era sporta fuori, con la testa rossa tutta scarmigliata per il vento.

- Sì, sì, l’ha detto – confermò il ragazzo. – Ah, ma non è per quello che credi. E’ che a lui non piace avere ospiti. –

- Tuo padre è un uomo molto affascinante – intervenne Rose, voltandosi di nuovo verso Scorpius e cercando di individuare in lui le somiglianze col Malfoy che aveva visto per la prima volta a undici anni a King’s Cross.

- Sì, Rose, me l’hai detto qualcosa come un miliardo di volte. Adesso, cortesemente, potresti abbassare il finestrino e metterti composta, mentre ti scopi mentalmente mio padre? Grazie. –

La Weasley storse le labbra in una smorfia, roteando di nascosto gli occhi. Tornò a sedersi ma non chiuse il finestrino.

- Sei odioso – borbottò. – E… volgare. –

- Irritante – aggiunse Scorpius, piegando e ripiegando il suo cigno.

- Fastidioso – convenne Rose con fervore.

- Egoista e presuntuoso. –

- Esatto. –

- Un bastardo. –

- Un vero pezzo di merda. –

- La piantate? – li interruppe Al, scocciato.

Rose e Scorpius tacquero, ma non finirono di lanciarsi occhiate d’intesa; era divertente far imbestialire Albus, lui era così permaloso.

Passò il carrello con i dolci, ma non acquistarono nulla, Rose perché facevano ingrassare, Albus perché a lui non piacevano e Scorpius perché era troppo preso dal suo origami.

- Spero che giocheremo a Quidditch – commentò Rose.

- Fai schifo a Quidditch, cugina – obiettò Al.

- Appunto per questo. Ho l’occasione di giocare mentre nessuno mi vede. Ti pare che mi metterei mai in ridicolo di fronte a tutta la scuola? – Rose lo guardò come se fosse ovvio. – E spero che mi farai vedere la biblioteca di tua madre! – esclamò, questa volta rivolta unicamente a Malfoy.

- E’ una casa, non un parco giochi. Ti diverti con poco, eh? –

- Con poco? – Rose tergiversò. – Tua madre è finita sul Profeta per essersi accaparrata l’unico, vero manoscritto originale di ‘Babbani Che Sanno Troppo’! –

- Che roba è? – chiese Albus. – Sembra il titolo di una raccolta di racconti su malavitosi. –

- E’ un testo fondamentale, invece, ha rappresentato una svolta nel modo di intendere i rapporti tra Mondo Magico e… -

- Rose, taglia – la interruppe Al. In cambio, Rose lo fulminò con un’occhiataccia che non avrebbe fatto piacere a nessuno ricevere.

- E’ un testo da collezionisti. Se non sbaglio, la madre di Scorpius se l’è conteso con Philbert Deverill – spiegò, saccente.

- E chi cazzo sarebbe? –

- Un pezzo grosso del Quidditch, genio – replicò Rose.

- Sì, bah, può darsi – sbadigliò Scorpius, per nulla interessato a quella diatriba tra cugini.

- Comunque sia – Rose zittì con un gesto stizzito della mano qualunque replica da parte di Al. – Mi farai vedere la biblioteca di tua madre, vero? Cioè, non mi aspetto mica che mi faccia toccare quei libri, capisco che sono pezzi di valore inestimabile e… -

Scorpius fece spallucce. – Sarà felice di farteli vedere. Non aspetta altro che qualcuno con cui vantarsi di quanto sia immensamente più ricca e fortunata di te a potersi permettere una collezione del genere. –

- Oh – Rose parve sorpresa, non del tutto sicura che l’informazione appena ricevuta fosse motivo di esultanza. – Ehm… perfetto. –

Il treno fischiò. Rose tornò a guardare fuori dal finestrino, dove si delineava un paesaggio di alberi e colline, e un cielo terso di come non se ne vedeva da settimane a Londra. Provò quasi un senso di vertigine nel pensare che avrebbe trascorso il mese successivo così, con Al e Scorpius, a battibeccare e prendersi in giro, lontano dalla rumorosa casa dei nonni, la Tana, e da suo padre, che era sempre così serio… E dire che una volta aiutava lo zio George a gestire il negozio di scherzi.

Forse sbagliava, ad andare via per l’estate. Non era mai stata tanto a lungo lontana da casa – tranne che per la scuola, ovviamente – e forse, beh, forse suo padre aveva bisogno di compagnia, no? Certo, c’era pur sempre Hugo, però…

- Quando diavolo arriva questo treno? – si lamentò Albus. – La locomotiva di Stephenson era più veloce. –

- Siamo nervosi oggi, eh, Albie? – lo stuzzicò Scorpius, guadagnandosi l’ennesima occhiata truce. – Hai bisogno di una ragazza, amico mio. –

- Di una ragazza molto paziente – precisò Rose.

- Con due gambe molto lunghe e due… -

- Non mi interessano le ragazze – sbottò Al, interrompendo sul nascere il turpiloquio di Malfoy.

- Nel senso che sei gay? – domandò educatamente e angelicamente Scorpius.

Rose ridacchiò. Al lo fulminò con uno sguardo. – No. Nel senso che le ragazze sono tutte stupide oche schizzate. –

Scorpius valutò la frase. – Concordo sullo ‘schizzate’. –

- Ti saltano addosso. Ti si appiccicano contro. Sbavano, guaiscono, leccano… -

- Al, quello è il rottweiler della prozia Muriel – lo corresse Rose, perplessa, tirando fuori dalla borsa un quaderno di appunti e una penna, materiale indispensabile per una futura scrittrice di successo quale lei era.

- Sì, lo spunto l’ho preso da lì – ironizzò il cugino, con noncuranza, facendo storcere il naso a Rose. – Stando seri… non credo che lo sopporterei. –

- Cosa? – s’informò Rose, seriamente interessata a quel tripudio di misoginia.

- Avere qualcuno che ti controlli, che ti sbirci la posta, che voglia sapere dove sei stato e con chi, che gridi al tradimento non appena saluti un altro essere respirante di sesso femminile. Non ho bisogno di una ragazzina che si atteggi a madre di stampo ottocentesco. –

- Che bizzarra visione del mondo – commentò Scorpius. – Ehi, finalmente è venuto fuori un cigno. –

- Sembra un rospo – lo contraddisse Rose, ignorando la delusione dell’amico. – Al, le ragazze non sono tutte così. –

- Lascialo perdere, Rose – intervenne Malfoy, gettando il fallito tentativo di cigno nel contenitore per rifiuti del treno. – Gli ho presentato mia cugina e neanche lei gli è piaciuta. –

- Beh, lei è una un po’… uhm, troppo facile – disse Rose, tentando di essere delicata.

- E’ una troia – disse tranquillo Albus. Poi, come se gli fosse sorto il dubbio di essere stato un pelino scortese, aggiunse: - Oh, senza offesa. –

- Naturalmente, amico – minimizzò Scorpius, per nulla toccato.

- Forse non hai trovato quella giusta – suggerì Rose.

- Mi hai sentito, Rosie? – Albus sogghignò. – Non mi interessa trovare quella giusta. Mi va benissimo così, una volta che le lasci ti additano come stronzo, ci pensano una settimana e poi finisce lì, ti lasciano in pace. L’importante è piantare bene i paletti fin dall’inizio. –

Eccola lì, espressa in tutto il candido splendore di diciassettenne bastardo e scanzonato, la teoria di Albus Potter sull’amore.

- Wow – commentò Scorpius.

- Sei un idiota – decretò Rose nauseata. – E io vado a prendere un po’ d’aria – disse, alzandosi e sistemandosi le pieghe della gonna, studiatamente accorciata. – Con tutto questo maschilismo non si respira. –

Sbatté la porta dello scompartimento con eccessiva energia, avanzando un po’ nel corridoio. Si mise di fronte a un finestrino e guardò fuori.

Ancora una volta, il pensiero andò a suo padre. Pensò che si sarebbe sentito solo. Che non sarebbe dovuta andare, decisamente. Che le aveva dato il permesso di passare le vacanze dai Malfoy con troppa facilità, con troppa… rassegnazione.

Niente contava più per lui.

Dopo diversi minuti, venti o giù di lì, il treno frenò. Albus richiamò Rose nello scompartimento per prendere le sue cose, e lei sul momento si stupì che fosse trascorso tutto quel tempo quando a lei erano parsi appena pochi istanti.

- Viene a prenderci Richard a King’s Cross – disse Scorpius, mentre tirava giù anche il bagaglio di Rose.

- Richard? – chiese Rose confusa.

- Sarebbe il maggiordomo – la informò Al.

- Non è il maggiordomo – disse invece Scorpius. – Era il mio insegnante privato prima di Hogwarts. –

- E come mai ti sta ancora dietro? – chiese Rose, mentre tutti e tre si mettevano in file con gli altri ragazzi per scendere dal treno.

- Perché adesso gli fa da maggiordomo – insistette Al.

Scorpius ci rinunciò.

Dopo averci riflettuto un momento, a Rose venne un’altra domanda. – Avevi un insegnante privato? –

Scorpius si strinse nelle spalle, a lui non sembrava così strano. Tra le famiglie Purosangue era prassi comune che i figli venissero istruiti da un maestro assunto privatamente prima di ricevere la lettera per Hogwarts. Certo, c’erano degli istituti che preparavano i giovani maghi alla scuola vera e propria, ma i suoi erano così tradizionalisti.

Scoprirono che Richard era un signore anziano, alto, distinto e di corporatura sottile. Li accolse con saluti cerimoniosi, e con un fluido movimento della bacchetta fece sparire i bauli da viaggio di tutti e tre; li avrebbero ritrovati a Malfoy Manor direttamente nelle loro stanze, spiegò.

- Sembra uscito da un film sui vampiri – sussurrò Rose ad Albus, che ridacchiò.

Andarono alla fermata della Metropolvere di King’s Cross – perché ovviamente sarebbe stato da barbari materializzarsi nel salotto di casa Malfoy mentre il signore leggeva il giornale e la signora sorseggiava il suo tè, senza contare le innumerevoli barriere che proteggevano le mura – e a turno entrarono nel camino dissolvendosi in un fascio di fiamme verdi.

Arrivarono in un salone grande, con un lungo tavolo al centro. La stanza era illuminata flebilmente da poche candele, sulle pareti i busti di alcuni maghi e streghe con abiti e acconciature d’altri tempi scrutavano i nuovi arrivati dall’alto delle loro cornici in oro intarsiate di zaffiri.

Rose sentì su di sé gli occhi chiari di una strega con un sontuoso vestito dorato e una parrucca sfarzosa sul capo, e anche per i giorni successivi le parve di avere quello sguardo di ferro sempre puntato sulla schiena.

Richard disse che il signor Malfoy non era in casa, e che avrebbe annunciato il loro arrivo alla signora Malfoy, che al momento era in compagnia di un’amica nella sala da tè.

- Credevo che voi Purosangue usaste gli Elfi Domestici – osservò Rose, una volta che Richard fu sparito oltre la porta, nel lungo corridoio di cui, da lì, lei non riusciva a scorgere la fine.

- Oh, no, mia madre non vuole – disse Scorpius.

Rose era sinceramente sorpresa. Forse la signora Malfoy non era la donna altera e fredda che aveva immaginato.

- Anche mia madre diceva che non era giusto che gli Elfi venissero schiavizzati in questo modo – mormorò.

Scorpius rise. – Che hai capito? A mia madre fanno soltanto ribrezzo, non li vuole a vista in giro per casa perché li trova disgustosi. Ne avremo cinque o sei in cucina. –

Okay, era peggio che altera e fredda.

Richard tornò e disse che la signora era pronta a riceverli.

Albus, Rose e Scorpius percorsero allora quel corridoio in cui prima Richard era sparito. La luce filtrava appena attraverso le tende spesse e pesanti, e un riverbero dorato si rifletteva sul pavimento; oltre il vetro, intravide appena che il sole stava tramontando.

La sala da tè era una sala grande due volte il salone principale della casa di Rose, e per quel che capì non era neanche il più grande e bello del maniero. Rose lo trovò comunque gradevole, seppure quel gusto non si confacesse molto ai suoi gusti personali, che le facevano prediligere camere anche più piccole purché molto luminose e piene di fiori.

Questa stanza era un poco più illuminata e calda di quella dove avevano sostato prima; non c’erano i ricchi ritratti dell’altra sala (cosa di cui Rose fu grandemente compiaciuta), ma librerie ricolme di volumi dalle rilegature eleganti, e qualche quadro raffigurante nature morte o paesaggi, soggetti comunque non opprimenti come quei ritratti vittoriani. Al centro della sala, un tavolino circolare, riccamente apparecchiato. Una teiera in argento ancora fumante levitava in aria, facendosi strada tra i lunghi steli di fresie, e in tutta la stanza c’era un vago sentore di vaniglia. Sedute al tavolo, c’erano la signora Malfoy con un’altra strega carina dai capelli scuri che Rose non conosceva.

- Ehi, ciao Pansy – salutò Scorpius, decisamente meno formale di Richard, in un modo che per un attimo Rose pensò stonasse perfino là dentro. – Mamma, Albus lo conosci già. Lei invece è Rose. Te ne ho parlato diverse volte. –

- Buonasera – disse Albus, che era uno che si impressionava molto difficilmente.

Rose balbettò a sua volta qualcosa che ricordò un “Buonasera” o un “Piacere, signora Malfoy”, ma fu talmente indecisa fino all’ultimo su cosa dire che alla fine, facendo un miscuglio di entrambe le cose, mise insieme qualcosa di incomprensibile.

Tanto Asteria Malfoy non ci avrebbe fatto caso comunque. Era molto bella e sembrava molto giovane, forse più di quello che era realmente. Aveva un collo alto, lineamenti gentili, capelli biondissimi, giusto un punto più scuri di quelli di Scorpius, raccolti in alto in un’acconciatura sobria ma elegante, e occhi azzurri e intelligenti.

L’altra strega, che sembrava avere più o meno la stessa età di Asteria, era pallida e gracile, e Rose ebbe lì per lì l’impressione che fosse una persona pericolosa. Senza nessun motivo; solo una sensazione.

- Albus, Albus – sospirò Asteria, alzandosi per venire incontro ai tre ragazzi. Rose l’aveva immaginata più alta, e a dire il vero anche un po’ più minacciosa; invece sembrava una ragazzina. Salutò prima suo figlio con un bacio sulla guancia, poi andò da Al, che con un fare goffo ma non impacciato, una combinazione possibile solo per lui, le strinse la mano. – Sei sempre il benvenuto qui, lo sai. –

- Sì, signora Malfoy – replicò lui. Scorpius, da dietro, pareva seccato, come può esserlo un bambino ansioso di mostrare all’amico la sua collezione di soldatini. Il che probabilmente era vero, solo che al posto dei soldatini Scorpius aveva una bottiglia di bourbon nascosta sotto il letto.

- E così tu sei la famosa Rose Weasley – disse Asteria, e Rose si accorse che era lei a profumare di vaniglia.

- Scorpius mi ha parlato della sua collezione di libri rari – buttò lì la ragazza, dicendo la prima cosa che le passò per la testa, e che in effetti era anche la prima cosa a cui aveva pensato quando Scorpius l’aveva invitata da lui per quell’estate. Ebbe il dubbio di essere stata troppo affrettata o scortese, e invece gli occhi di Asteria si illuminarono.

- Oh, sì, ho qualche pezzo d’antiquariato, nulla di più – cinguettò Asteria, col tono più falsamente modesto che Rose avesse mai sentito.

- E sono sicuro che avrai tutto il tempo per mostrargliela, domani – si intromise Scorpius, tirando Rose per un braccio. – Noi andiamo. Con permesso, mamma – continuò, frettoloso. – Ciao, Pansy – disse poi all’altra strega, che ricambiò con una sorta di sorriso e un cenno di mano.

E poi Scorpius li spinse entrambi verso la sua stanza.

 

-

 

 

Non era una bottiglia di bourbon che Scorpius aveva tanta fretta di mostrare loro, ma due bottiglie di bourbon, una di assenzio e una di vermut.

Quella prima serata la passarono così, seduti a gambe incrociate sul pavimento della stanza di Scorpius, a sorseggiare bicchierini con le guance rosse senza sentire il freddo.

- Quando torna a casa tuo padre? – chiese Rose, le ginocchia al petto e la schiena poggiata contro il materasso. In un sorso buttò giù quel po’ di vermut rimastole nel bicchiere.

- E’ molto impegnato – rispose lui. – Ma ti consiglio di aspettare che mia madre sia via per agire: va a trovare la zia Daphne tutti i venerdì mattina, se vuoi attingere da queste scorte per far ubriacare mio padre e sedurlo fai pure, ne abbiamo per un mese. –

Rose rise, declinando l’offerta di Al che stava per versarle qualcos’altro nel bicchiere.

- Hai detto che fa il Guaritore, no? – chiese ancora Rose.

- Sì, una specie. –

- Il fascino del camice bianco, eh? – Albus le diede una gomitata. – Bevici su e non pensarci, cugina. –

Alla fine non riuscì a dire di no al secondo bicchiere. E neanche al terzo e a tutti quelli che vennero dopo e di cui ormai non teneva più nemmeno il conto.

Scorpius aveva detto che poteva prendere il suo gufo per scrivere a suo padre e a suo fratello, se voleva. Così, quando anche Albus fu crollato sul tappeto accanto a una bottiglia quasi vuota e la testa affondata in un cuscino che aveva tirato giù da letto, e Scorpius si fu addormentato con le braccia conserte e il capo in grembo a Rose, lei sentì il bisogno di scrivergli. Con delicatezza, invitò Scorpius a poggiare la testa su un altro cuscino, e accertandosi di non fare troppo rumore mentre rovistava sulla scrivania alla ricerca di un foglio e di una boccetta di inchiostro, prese una penna d’aquila e cominciò a scrivere:

 

Caro papà

 

Si solleticò il mento con la piuma, chiedendosi se quel “caro” non fosse successivo. Quando mai l’aveva chiamato caro papà?

Così cancellò e riscrisse:

 

Ciao papà

 

Ma questa volta le sembrò una cosa troppo fredda, insomma, tutte le lettere cominciano con un “Caro” assolutamente di convenzione, lo sanno tutti, no?

 

Alla fine la lettera risultava più o meno così:

 

Caro papà Ciao papà Caro papà,

il viaggio è andato bene, Al, Scorpius ed io siamo arrivati a King’s Cross in perfetto orario e il maggiordomo di Scorpius è venuto a prenderci alla stazione. Ho conosciuto la signora Malfoy, ha promesso di farmi vedere la sua biblioteca. Prendeva il tè con un’amica quando siamo arrivati, una strega giovane, mi ha fatto una strana impressione, sai, hai presente come nei film che piacciono a Hugo dove lo riconosci subito il cattivo? Ecco, una cosa del genere Ho appena disfatto i bagagli, penso che andremo a letto presto, il viaggio è stato un po’ stancante e Scorpius e Al hanno intenzione di organizzare una partita di Quidditch per domani. Hugo è tornato intero? Fino a ieri c’erano un paio di Corvonero del sesto che ce l’avevano con lui, penso che sia per via di una ragazza. Pensa, Hugo con una ragazza! (Non dirgli ovviamente che te l’ho detto, potrebbe infuriarsi) Digli pure che te l’ho detto io, dimenticavo che qui nel Wiltshire potrà difficilmente prendersela con me.

Salutami gli zii e scrivimi presto.

Rose

 

Ma era pieni di scarabocchi e cancellature, così la piegò in quattro pensando che avrebbe dovuto farne una copia prima di spedirla, l’indomani.

Infine decise che le due di notte erano un’ora abbastanza tarda perché fosse lecito avere sonno, così si distese accanto a Scorpius, curandosi di far sparire le bottiglie, per previdenza, e si addormentò.

 

-

 

La mattina seguente Rose non giocò la partita di Quidditch con Al e Scorpius; e nemmeno quel pomeriggio, quando i due ragazzi proposero una replica per far sì che partecipasse anche lei. Per tutti i giorni a seguire del suo soggiorno a Malfoy Manor, Rose non giocò una sola partita, dal momento che, data la sua proverbiale incompetenza in fatto di pluffe e scope, era particolarmente semplice inventare una scusa per rinchiudersi in camera a scrivere.

Tutto partì dalla colazione. I signori Malfoy, scoprì, si svegliavano molto presto, per cui quando alle otto Albus, Rose e Scorpius furono in piedi, il signor Malfoy era già uscito e Asteria era in giardino a occuparsi delle sue rose.

Così i tre fecero tranquillamente colazione nella sala; Rose fu felice di scoprire che in pieno giorno il maniero non era così tetro come le era apparso la sera prima. Certo, c’erano pur sempre quelle tende pesanti e l’arredamento eccessivo, ma il complesso non era sgradevole e anzi, avendoci fatto l’occhio, Rose constatò che c’erano una certa armonia e buon gusto nella scelta dei quadri e dei soprammobili.

Dopo la colazione, Scorpius disse a Richard di preparare le scope, e un minuto dopo erano in cortile, con il maggiordomo alle calcagna che urlava di fare attenzione con quella pluffa a non prendere le aiuole della padrona.

La padrona in questione, comunque, non sembrava altrettanto preoccupata. Quel mattino Asteria era radiosa, con i capelli sciolti e un leggero abito color panna, un po’ troppo ricco per i gusti di Rose, ma su di lei calzava benissimo. La signora Malfoy venne incontro ai tre ragazzi, con la sua sfilza di cortesi “Buongiorno” e “Proprio un tempo perfetto per una partita, vero?”

- Anche tu giochi, Rose? – chiese poi, prendendo la ragazza in contropiede.

- Io? Beh, non sono molto brava, ma… -

- Pensavo, - cominciò Asteria, prendendo Rose a braccetto e chiarendo agli altri due che per quella mattina la ragazza era praticamente sotto sequestro – che avrebbe potuto farti piacere vedere la biblioteca. Trovo che di mattina sia ancora più bella, la luce batte proprio da quel lato e stare lì è più piacevole. –

- Oh – Rose, per quanto in imbarazzo, era entusiasta. – Certamente, sì. –

- Perfetto! – esclamò Asteria, con un po’ più energia di quella che Rose si sarebbe aspettata dalla signora Malfoy.

Albus e Scorpius rimasero inermi a guardare le due streghe allontanarsi, convenendo simultaneamente che non era il caso di sprecarsi a preservare Rose da un tristo destino nel quale si era fiondata da sola.

Fu così che Rose entrò nella biblioteca. Asteria ve l’aveva condotta a suon di vanti e aneddoti su quanto le fosse costato radunare tutti quei sacri volumi fino a raccoglierne un numero tale da potersi definire una collezionista.

Asteria, comprese Rose, amava bandire dalla sua vita tutte le cose brutte, circondandosi solo del meglio che il mondo potesse offrirle. Le piacevano i bei vestiti, i fermagli per capelli appartenuti a streghe celebri o a nobildonne purosangue dell’aristocrazia inglese vittoriana, dipinti e opere degli artisti più acclamati al momento e, infine, vecchi libri abbandonati, scovati nelle biblioteche più lerce di Notturn Alley, nelle bettole decadenti da figlie di negozianti che non avevano la più pallida idea di cosa stringessero tra le mani, da sozzi approfittatori assetati d’oro che erano venuti in possesso di manoscritti autentici rubacchiando qua e là.

Asteria li aveva cercati, inseguiti e ben pagati, e ora vantava una delle biblioteche più ricche della Gran Bretagna; un paio di volte, raccontò, impiegati del Ministero stesso o direttori di Musei avevano reclamato il possesso di alcuni libri o altri oggetti che meritavano di essere esposti in una vetrina luminosa a disposizione della comunità e non di una collezionista privata.

- E’ una tradizione di famiglia, un’abitudine che mi ha trasmesso mio padre – disse Asteria, quando lei e Rose si fermarono di fronte a un portone più ricco e pesante di tutti quelli di fronte ai quali erano passati lungo il tragitto. – Ricordo che una volta, quando ero bambina, Bathilda Bath scrisse una lettera a mio padre per chiedergli di poter consultare alcuni testi nella nostra biblioteca. La invitammo a cena, era una strega così deliziosa… peccato per la fine che ha fatto – sospirò alla fine.

Da un mazzo di chiavi, ne scelse una dorata, tra le più grandi. La infilò nella toppa e girò.

- Ecco qui – disse Asteria, ansiosa di vedere lo stupore sugli occhi di Rose, che la riempiva di orgoglio ogni volta che sapeva di essere invidiata per la sua rarissima collezione.

Rose entrò.

La signora Malfoy aveva avuto ragione a volerla portare lì a quell’ora; dalle finestre altissime entrava la luce del primo mattino, e in controluce, con tutti i granelli di polvere che si levavano a mezz’aria, a Rose sembrò di osservare una vecchia fotografia babbana ingiallita dal tempo. I libri erano ovunque. Si arrivava a un punto in cui gli scaffali non erano più sufficienti, così era stata allestita una parete dove interminabili pile di libri stavano accatastate le une sulle altre. Quelli dovevano essere i testi meno importanti, ipotizzò Rose, perché dal lato opposto vi erano scaffali che arrivavano al soffitto, e libri così vecchi che i titoli e gli autori stampati sulle costole delle copertine erano diventati illeggibili.

- Vai pure dove preferisci, tesoro – la esortò Asteria.

Rose fece scorrere due dita sulle copertine spesse, logore, alcune in pelle, altre rivestite di velluto; alcuni testi non avevano addirittura copertina, solo qualche macchia di chissà cosa e un paio di bruciature.

Erano divisi per sezione, a seconda della materia trattata. C’era anche un reparto riservato ai quotidiani d’epoca, copie del Profeta vecchissime che Rose stava bene attenta a non a sfiorare, temendo che le si sbriciolassero tra le mani. E poi raccolte intere di enciclopedie, perfino schedari con vecchie foto, come poté intuire dalle etichette scritte in una grafia vezzosa e decisa che Rose suppose appartenere ad Asteria Malfoy.

- … oh, e questo l’ho acquistato dalla nipote di Armando Dippet, erano anni che mio padre cercava di ottenerlo senza risultati. Questo invece ha una storia particolare, l’ho preso da un vampiro che si era invaghito di mia sorella Daphne, non puoi immaginare la sua furia quando ha scoperto che mi stavo servendo di lei per mettere le mani su quel libro… ah, questo qui è stato un regalo, lo ricordo benissimo, di Perpetua Fancourt in persona a mio padre… puoi immaginare il valore di questo solo volume, Philbert Deverill mi ha tormentato per anni affinché glielo vendessi...

Asteria continuò a illustrare le storie di tutti quei libri, ma Rose non la ascoltava più.

- Io devo tornare a sbrigare alcune faccende, ma tu resta, se vuoi – le disse la signora Malfoy; Rose stentò a credere alle proprie orecchie. – Queste sono le chiavi, ti chiedo solo di chiudere quando te ne vai – aggiunse, e poggiò il mazzo sopra il tavolo dell’angolo lettura.

- Oh, mille grazie, signora Malfoy! – esclamò Rose, adorante. – Lo farò sicuramente! –

Asteria le rivolse un sorriso, l’unico sorriso vagamente gentile che le avesse rivolto dal loro arrivo, e poi se ne andò in un fruscio di seta bianca e in una ventata di vaniglia.

Rimasta da sola, Rose avrebbe tanto voluto saltellare dalla gioia, se solo non fosse stato terribilmente fuori luogo. Asteria le aveva chiarito prima che poteva consultare tutti i libri che voleva, a patto che li trattasse con cura – cosa di cui la donna non dubitava – e che li riponesse al loro posto prima di andarsene. Così Rose cominciò a girovagare tra gli scaffali, trovando perfino il manoscritto originale di ‘Babbani Che Sanno Troppo’, di cui aveva parlato a Scorpius e Al sul treno.

Lo sfogliò con cura, come se stesse maneggiando una bomba a mano, accarezzandone la copertina e le pagine che profumano di quell’odore che solo i libri vecchi, passati di mano in mano e poi lasciati a marcire in qualche libreria polverosa, possono avere.

Lo riposò al suo posto poco dopo, però, perché non se la sentiva di avere su di sé la responsabilità di un testo tanto importante.

Riprese la sua esplorazione, questa volta nella sezione di Pozioni che, immaginò Rose, doveva essere tanto cara al signor Malfoy. Scorpius le aveva accennato qualche volta alla bravura di suo padre in quella disciplina, abilità che purtroppo Scorpius non sembrava aver ereditato.

Si sentì attratta da quella sezione; non poté fare a meno di sfiorare ogni singolo libro poggiato su quello scaffale, di intuirne la pesantezza e l’odore. Il solo pensiero che il padre di Scorpius utilizzasse quegli stessi libri le creava quell’effetto? Possibile?

La sua eccitazione aumentò man mano che avanzava. Oh, no, non c’entrava nulla. Era molto di più.

Rose aveva sentito parlare di libri maledetti confiscati dal Ministero, come quello della vecchina di Bath costretta a camminare con gli occhi sempre puntati sulle righe di quella storia, con innumerevoli disagi. Tuttavia, l’ipotesi che la signora Malfoy fosse riuscita ad appropriarsi perfino di libri confiscati dal Ministero le parve un po’ improbabile. Certo, i Malfoy erano noti per i loro mezzucci non proprio legali con i quali riuscivano a ottenere tutto quello che volevano, però…

La sua attenzione venne attratta interamente da un insignificante e vecchio quaderno accanto a un testo paurosamente voluminoso e accuratamente rivestito, accanto al quale sfigurava decisamente. Eppure Rose lo prese. Era un quaderno semplicissimo, di come ne avrebbe potuti acquistare in quantità industriali al Ghirigoro, con una copertina marrone in pelle e le bordature colorate d’oro. Era rovinata in più punti, e né da un lato né dall’altro vi era scritto alcunché, cosa che insospettì Rose, abituata alla calligrafia spigolosa con cui Asteria etichettava ogni suo pezzo.

Che fosse un quaderno di annotazioni del signor Malfoy? Era plausibile.

Meno plausibile era però l’interesse di Rose per quel libriccino, che superava quello per qualunque altro libro nella biblioteca. Senza pensarci, lo aprì. Il primo foglio era bianco, nel secondo una mano incerta aveva scritto con sbafi e macchie d’inchiostro:

 

Senza titolo

di Mirage Greenhorn

 

Rose aggrottò le sopracciglia.

Era una specie di romanzo, scritto a mano dalla stessa mano incerta e tremante del titolo. Tuttavia, nonostante la calligrafia disordinata, non c’erano cancellature di alcun tipo. Spesso tra un paragrafo e l’altro vi erano spazi vuoti più ampi degli altri, a volte vi erano addirittura intere pagine vuote tra uno scritto e l’altro. Facendo scorrere velocemente le pagine, si accorse che il libro terminava a metà; e che la storia doveva essere lasciata incompleta, perché l’ultima frase diceva:

 

Non ricordava quando avesse stretto l’ultima volta la mano di un uomo; aveva immaginato fosse più fredda, il che era insolito considerato che

 

E la storia terminava lì. Rose chiuse il quaderno, provando una strana forza nello stringerlo tra le dita.

Che il signor Malfoy si fosse messo a scrivere romanzi, le sembrava una cosa assai strana. Non aveva l’aria di uno scrittore.

Più probabile era l’idea che l’autrice fosse Asteria, ma la sua grafia non corrispondeva affatto a quella disordinata del racconto.

Oppure ancora – ed era l’ipotesi più naturale, Rose non comprese perché aveva dato a primo impatto per scontato che l’autore fosse qualcuno di familiare – era semplicemente uno dei tanti testi da collezionista di Asteria, lasciato incompleto dallo scrittore originale.

Il nome non le diceva nulla. Ed era abbastanza sicura di non aver mai letto di nessuna Mirage Greenhorn in nessun libro di letteratura, né magica né babbana.

In ogni caso, il libro era nella sezione sbagliata; avrebbe dovuto farlo notare ad Asteria, quello era lo scaffale riservato ai testi di Pozioni.

Eppure, l’ipotesi di riferire le sue osservazioni alla signora Malfoy non le piacque per nulla; anzi, l’idea stessa di abbandonare quel libro la fece sentire male, piena di rimorsi, come se stesse negando un aiuto al suo migliore amico, come se lo stesse lasciando annegare mentre lei osservava la scena dal sicuro pontile di un battello.

Lo prese, lo nascose sotto il maglioncino e incrociò le braccia, in modo che non si vedesse. Fu una sequenza di azioni del tutto naturale, come mettere il dentifricio sullo spazzolino per lavarsi i denti, non dovette neanche pensarci, le raccomandazioni di Asteria riguardo al lasciare ogni cosa al suo posto non la sfiorarono nemmeno.

Prese le chiavi sul tavolo, si assicurò che non ci fossero domestici nel corridoio e, chiudendo a chiave la porta della biblioteca, sgattaiolò via.

 

-

 

Quell’estate aveva deciso di tornare a far visita ai suoi genitori, recitava l’incipit del romanzo. La prima impressione che aveva avuto quando era tornata era che loro ce l’avessero con lei per averli abbandonati, ma conosceva sua madre e sapeva che prima o poi lei l’avrebbe compresa e perdonata. Così, ce la mise tutta per recuperare se stessa.

Rose accese un’altra candela, perché quella che aveva era ormai quasi del tutto consumata. Dopo aver consegnato le chiavi ad Asteria con un sorriso a rallegrarle il viso e un senso di colpa ad attanagliarle lo stomaco, non aveva fatto altro che pensare al romanzo. Il pranzo era stato servito a mezzogiorno, quando il signor Malfoy non era ancora tornato (“Capita spesso che lo veda solo a cena”, aveva detto Scorpius) e di pomeriggio Scorpius aveva insistito per portare lei e Albus nella città vicina, dove aveva alcuni amici e servivano il vino elfico più buono di tutta la contea.

Erano rincasati così tardi che i signori Malfoy erano già andati a dormire, tanto che ad accoglierli fu un Elfo Domestico che prese i loro cappotti e li accompagnò fino alle scale.

Tornata nella sua stanza, Rose si era gettata nella lettura del libro, che aveva nascosto dentro il suo baule da viaggio. L’aveva terminato nel giro di un’ora, era sempre stata una lettrice vorace e comunque lo scrittore non doveva aver fatto molti progressi nella stesura della trama, perché il romanzo sembrava ancora agli inizi e la vicenda non molto sviluppata. Il contesto era in effetti assai vago, e Rose non poteva non stupirsi del fatto di aver trovato quel libro in mezzo alla collezione di Asteria Malfoy.

Non era avvincente, anzi, a tratti perfino noioso; lo stile pareva più quello di un ragazzino spaventato alle prese con un tema scritto di malavoglia, con idee molto confuse come se non sapesse neanche dove dovesse andare a parare. La narrazione era disorganica, lo stile era discontinuo, alcune volte eccessivamente pomposo per quanto era curato, altre volte superficiale e scialbo. Senza contare i frequenti buchi di pagine, lasciati vuoti quasi di proposito, come se l’autore non avesse avuto idea di come riempirli, per questo Rose faticava pure a seguire il filo logico della vicenda.

Eppure non si staccò da quel libro per tutta la notte. Sfogliò le pagine fino a conoscerne a memoria ogni singola orecchietta, certi passaggi, la macchia giallastra sul bordo di pagina tredici, gli schizzi d’inchiostro che a pagina otto non lasciavano capire se la parola scritta fosse “frustrato” o “sfruttato”.

Non si curò dell’ora tarda, dell’alba che cominciava quasi a sorgere e della candela che si era spenta, perciò, quando aprì il cassetto, con il letto ancora composto visto che non si era distesa nemmeno un secondo, quando ne tirò fuori una penna d’aquila e una boccetta di inchiostro, con le palpebre che quasi le si chiudevano per le mancate ore di sonno, quando aprì il quaderno sull’ultima pagina e cominciò a scrivere, si disse che in fondo aveva tutte le buone giustificazioni per non capire cosa stesse facendo.

 

Non ricordava quando avesse stretto l’ultima volta la mano di un uomo; aveva immaginato fosse più fredda, il che era insolito considerato che era luglio inoltrato e che il caldo di quei giorni aveva perfino svuotato le strade e le botteghe del centro…

 

-

 

 

 

 

Inutili considerazioni:

- Onestamente, non ho la più pallida idea del perché Albus sia venuto fuori così stronzo, le dita hanno battuto da sole le sue parole sulla tastiera e io ho eseguito. Fortuna che con la nuova generazione non si può troppo parlare di Out Of Character, per quanto questo Albus sia comunque leggermente OOC rispetto alla mia visione del personaggio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** II ***


II

II

 

 

 

Il St. Vincent era una sezione distaccata del ben più noto St. Mungo’s Hospital, ma così distaccata che nessuno dei dipendenti della sede principale, se non il direttore stesso e pochissimi altri eletti, ne era a conoscenza. Si trovava nel quartiere di Southwark, in quello che per i babbani era solo un vecchio magazzino chiuso e sequestrato dalla polizia a causa di un incendio in cui gli estintori non avevano funzionato correttamente, causando la morte di un dipendente e due clienti.

Per i maghi, il St. Vincent era un edificio altrettanto in disuso, dal momento che non tutti sapevano che accoglieva il reparto per Malattie Psicomagiche Permanenti, ufficiosamente sottotitolato “Reparto reclusione soggetti tendenzialmente pericolosi con cui la brava e rispettabilissima gente del San Mungo non vuole avere a che fare”.

C’erano sempre due Auror di guardia per ogni ingresso e personale specializzato tenuto a mantenere la totale segretezza riguardo i pazienti ospitati.

Era più comodo così; del resto, nessuno aveva voglia di spiegare a madri, mariti e fratelli indignati come mai assassini pluriomicidi del calibro di Rabastan Lestrange, che avevano massacrato le loro famiglie, non fossero a marcire in una gelida cella di Azkaban ma in un ospedale ristrutturatissimo e con ogni comfort perché, ironia della sorte, il povero vecchio Lestrange, mandato in paranoia da un Dismundo troppo potente, tentava giornalmente il suicidio con grande rischio per la propria incolumità della quale, in tutta onestà, non fotteva nulla a nessuno.

L’edificio era modernissimo e molto luminoso, ma di una luce bianca e artificiale che – ben lungi dal creare un’atmosfera accogliente e riposante per i pazienti, quale doveva essere l’intento – rimandava soltanto l’immagine di corridoi e camere asettiche, con poche finestre e tutte troppe alte e sbarrate perché qualcuno potesse affacciarsi. Una miscela che dava più che altro l’impressione di essere finiti in un luogo alternativo al di fuori della civiltà e della storia.

Il personale era poco ma di altissimo livello; del resto, anche i pazienti erano in numero ristretto. Attualmente, l’ospedale aveva occupate soltanto quattordici delle trenta stanze previste nel progetto, di cui undici occupate da pazienti a tempo indeterminato e tre che sarebbero state liberate nel giro di qualche mese.

- Merlino, in questo posto fa più freddo che ad Azkaban, parola mia – si lagnò un infermiere, accasciandosi su una sedia bianca, come tutto lì dentro. Si accese una sigaretta che gli passò il collega insieme a un accendino babbano e diede un lungo tiro.

- Io dico che non dovremmo fumare qui dentro, Bart – obiettò l’altro, mentre, davvero molto stoicamente, si accendeva una sigaretta a sua volta.

- Malfoy lo fa – osservò il collega, incurante.

- Malfoy è il capo-reparto – disse il primo, che era poco più che un ragazzo con i capelli castano rossicci e gli occhiali.

- Che osservazione del cazzo è mai questa? – sbottò il maggiore tra i due, che comunque non poteva superare i trentacinque anni. – Rilassati, Buckley. Malfoy è qui adesso? –

- Beh, no, ma… -

- E quando il gatto non c’è – disse Bart, che in realtà era Bartholomew, con l’aria e il tono di chi stava profetizzando qualche universale vaticinio, - i topi ballano. –

Buckley, detto “Buck”, aggrottò la fronte. – Adesso sei tu che hai fatto un’osservazione del cazzo. –

Bartholomew si strinse nelle spalle, poi disse qualcosa che suonava come “Frega niente”.

I due infermieri rimasero seduti nel corridoio a fissare la parete, a fumare in silenzio con i pensieri da qualunque altra parte tranne che lì.

- Dovremmo terminare il giro delle diciotto – disse Buck al nulla.

- Che rottura di coglioni – rispose Bart al vuoto.

Bartholomew finì la sua sigaretta e la fece Evanescere, sia la sua che quella di Buck, che non aveva ancora finito e protestò.

- Forza, andiamo. Manca solo questo corridoio – disse Bart, e anche l’amico dovette alzarsi e seguirlo, seppur controvoglia.

Non c’era stanza in quell’ospedale che non fosse illuminata a giorno. Tutto era bianco e pulito e scintillante, e c’era odore di disinfettante e detersivo per pavimenti.

- Cominciamo dalla 27 – disse Bartholomew, e insieme al collega entrò nella stanza.

Le camere dei pazienti erano tutte ugualmente quadrate, ugualmente arredate, con lo stesso vaso di roselline finte sul comodino, con la stessa sedia accanto al letto che nessuno usava, perché questi pazienti di solito non avevano visitatori.

Erano stanze singole, con un letto, appena un armadio e una scrivania squadrati e anonimi. Anche i pazienti lì finivano col sembrare tutti uguali. Cambiava la follia, le allucinazioni, ma per il resto era un unico coro di voci lamentose e visi scavati dalla pazzia e dal dolore. Alcuni pazienti non avevano neanche un nome, perché l’avevano dimenticato e nessuno aveva mai denunciato la loro scomparsa. Li avevano semplicemente trovati al freddo di qualche ponte o addormentati di fronte alle saracinesche abbassate di un negozio babbano, ed erano gli infermieri che li chiamavano ora “Lucy” ora “Jared”, solo per conferire un po’ di umanità a quei corpi rotti che di umano non volevano avere più nulla.

Tutti i pazienti confinati lì avevano tentato il suicidio almeno una volta. La signorina addormentata nel letto della stanza 27 faceva eccezione. Né Bart né Buckley ricordavano di averla mai vista sveglia o parlare.

Bartholomew prese la bacchetta e, come da prassi, mormorò un incantesimo mentre la teneva puntata contro il capo della strega. Semplici incantesimi di routine, più efficienti e più sicuri di pillole e farmaci che, oltre a destabilizzare mentalmente il paziente – più di quanto già non fosse – davano sempre vita a una serie di problemi, proteste e quant’altro.

Buck nel frattempo fece un giretto per la stanza. Accanto al tradizionale vaso di fiori finti – terribilmente kitsch, avrebbe detto sua madre, storcendo il naso – c’erano alcune rose, incredibilmente vere, in un sottile e alto vaso trasparente. Una cosa fantascientifica, là dentro.

- Riceve visite, questa qui? – chiese Buck.

- A parte Guaritori e infermieri? – Bartholomew fece una specie di smorfia. – Non ho mai visto nessuno. –

Finì di mormorare il suo incantesimo e si sedette accanto al letto, osservando il quadrante dell’orologio. Doveva attendere una manciata di minuti per assicurarsi che l’incantesimo non causasse effetti particolari o danni collaterali sul paziente, una cautela nella maggior parte dei casi superflua ma che era sempre meglio mantenere.

- Ha un’aria familiare, ti pare? – fece notare Bart, e osservò il volto smagrito della strega, gli occhi chiusi e le clavicole ben evidenti da sotto la vestaglia.

- Sì, vero? – esclamò Buck, contento. – L’avevo notato anch’io, ha quel non so che che mi ricorda Julianna Lovejoy, bellezza d’altri tempi, quella, cantava “Rebuilding Of The Hearts”, ricordi? Please, rebuild my heart, you broke it down… - canticchiò, ma vedendo l’espressione scettica che Bart aveva messo su, ritenne saggio smettere.

- Non ti riferivi a questo – disse.

- Proprio no – confermò Bartholomew, scuotendo la testa, rassegnato.

Stettero in silenzio. Bart controllò l’orologio da polso.

- Io me la farei – disse, senza alcuna logica, Buckley. – Tu no? –

- Tu ti scoperesti qualunque cosa – replicò perentorio Bart. – E no, non me la farei. Troppo magra. Troppo sciupata. Una donna deve essere formosa, bionda e… -

- Ooh, tipo Celestina Warbeck! – esclamò subito Buckley. Poi, all’ennesima occhiata truce di Bartholomew, aggiunse mestamente, a mo’ di giustificazione: - Mia madre ascolta sempre la radio. –

Bart sbuffò; i minuti previsti erano passati. – Trovati una donna, anziché pensare sempre a tua madre – bofonchiò, facendo leva sulle ginocchia per tirarsi in piedi.

Buck cominciò a dirigersi verso la porta, con una smorfia. – Non scopo da così tanto tempo che penso di aver dimenticato come si fa. –

Bart si bloccò con la mano a mezz’aria a pochi centimetri dalla maniglia, allibito.

- Che stronzata, non è una cosa che si dimentica. E’ come andare in bicicletta. –

- Non ho mai imparato ad andare in bicicletta – ricordò Buck perplesso, appoggiandosi di fianco alla parete.

- Per Merlino, tutti sanno andare in bicicletta, è una cosa naturale. Come… -

- … come scopare – concluse Buck per lui, con aria da intenditore.

- Sì, esatto – convenne l’altro. – Come scopare. –

Terminato il brillante dialogo sui massimi sistemi, Bartholomew aprì di scatto la porta, e poi sobbalzò, facendo bloccare anche Buckley.

Perché la faccia cupa che si era ritrovato davanti era quella del Capo-reparto Draco Malfoy, avvolto in un lindo camice bianco, perfettamente stirato, con la sua solita e naturale compostezza nei modi e nei lineamenti che cozzava decisamente col carattere scorbutico che tutti gli attribuivano.

- Oh – fece Bart, preso un po’ alla sprovvista. Che avesse udito i loro discorsi? – Buonasera, signor Malfoy. –

- ‘Sera – fece anche Buck.

Malfoy aveva un’aria irritata e nera, sull’incazzato andante, come al solito.

- Avete terminato il giro delle diciotto? – domandò, oltrepassando Bart, ancora fermo sulla soglia, ed entrando nella stanza per assicurarsi che fosse tutto a posto. Il suo sguardo indugiò sulla paziente, profondamente addormentata.

- Ehm, sì, è quello che stavamo facendo – spiegò Bart.

Quando si voltò a guardarlo, nonostante la voce sempre ferma, Malfoy pareva perfino più nervoso di prima. – Sono le diciotto e trenta. –

- Sì, signore. –

- Il giro è fissato per le diciotto. –

Bart afferrò Buckley per il camice, tirandolo fuori. – Terminiamo subito, signore – disse, e uscì, chiudendo la porta.

Draco osservò quei due, a suo avviso, incompetenti  andarsene via. Si avvicinò al letto dove dormiva la sua paziente, e si sistemò sulla stessa sedia che aveva occupato prima Bartholomew. La ragazza sembrava immersa in un sonno profondissimo, non c’era singulto che scuotesse quel corpo quasi morto.

Il Guaritore estrasse la bacchetta dalla tasca interna del camice e, puntandola contro il capo della strega, la salutò con il migliore dei suoi sogghigni.

- Buonasera, Mezzosangue. Legilimens.

 

-

 

Quell’estate aveva deciso di tornare a far visita ai suoi genitori. La prima impressione che aveva avuto quando era tornata era che loro ce l’avessero con lei per averli abbandonati, ma conosceva sua madre e sapeva che prima o poi lei l’avrebbe compresa e perdonata. Così, ce la mise tutta per recuperare se stessa.

Aveva pochi bagagli, giusto un borsone in cui aveva infilato dentro più libri che vestiti, come sempre. Lo trascinò fino al piano di sopra, in una stanzetta piccola e scarnamente arredata, unica attenzione che i suoi genitori sembravano averle riservato. Svuotò il borsone e mise tutto sul letto, infilando i vestiti nell’armadio e i libri in ordine alfabetico sulla scrivania. La finestra dava su un viale alberato, con una sfilza di villette a schiera tutte uguali, in uno dei quartieri più tranquilli di Melbourne. I suoi genitori adoravano l’Australia, avevano deciso di trasferirsi lì lasciandola senza un biglietto o una telefonata, nulla. Ce l’avevano con lei. Ce l’avevano con lei perché lei li aveva abbandonati.

Sentì le pareti della stanza stringersi addosso a lei fino ad inghiottirla, così uscì in fretta dalla porta e se la richiuse alle spalle con un tonfo che risuonò per il corridoio, mentre tutti i suoi rimorsi e le paure andavano a cozzare contro il legno.

Sospiro.

Scese in fretta le scale, aveva tenuto solo una borsa con il cellulare e il portafogli. I suoi genitori guardavano la tv in salotto, li osservò dalla soglia chiedendosi se non fosse il caso di salutarli e dire che probabilmente non tornava per cena. Una volta sarebbero stati contenti, esci sempre così poco, dicevano, perché non ti fai degli amici?

Uscì. Nessuno si era premurato di farle avere una copia delle chiavi di casa, ma avrebbe preferito passare la notte in giardino piuttosto che chiedere ai suoi sottolineando quella mancanza di interesse quasi fosse una colpa. Non era colpa loro.

Oltrepassò il cancelletto in ferro e le aiuole di lillà, mentre la strada si frantumava dietro di lei. Non c’era nessuno in giro, se non una folla di gente così poco reale da non dover esistere ugualmente.

Proseguì lungo quella strada inesistente, fino a svoltare l’angolo per infilarsi in un labirinto di viuzze secondarie e vicoli ciechi. Passò per sbaglio su una pozzanghera da cui la scarpa uscì asciutta, e imprecando contro qualche entità a cui non se la sentiva di dare un nome, continuò a camminare.

Il piccolo e isolato pub in cui era diretto si chiamava Mirage, miraggio, e come un miraggio sbucava fuori all’improvviso in mezzo a cedri malati e gatti randagi.

Non prestò attenzione alle insegne, o alle cicche di sigarette gettate nei vasi di fiori all’ingresso, né a tutte quelle altre cose a cui solitamente si fa caso nella vita vera. Entrò e si sedette.

- Un bicchiere di vino bianco, per favore – disse al cameriere senza volto né nome, che la servì in un lasso di tempo troppo breve per poter essere plausibile.

Sorseggiò il vino. Posò il bicchiere.

Poi. All’improvviso.

Luci. Televisione. Partita. Uomini con berretti verdi seduti ai tavolini scalpitando e sollevando i boccali di birra.

Fiori. Ginestre.

Il sole che andava e veniva, e le ombre che si allungavano e si riducevano, e il soffitto che c’era e non c’era, e il cuore che batteva e non batteva.

E poi polvere, tappeto, acqua, bottiglia, gatto, lacuna, orologio, pezzi, quadro, cornice, barca a vela, spilli, santi, genitori, settembre, Australia, pezzi, pezzi ovunque.

Li raccolse e li gettò via.

Le pulsava la testa. E ancora.

Una scarica elettrica mortale, un muro che si abbatteva con soli sospiri, un cadavere di uomo, nero, nero, troppo nero, occhi aperti, visi stanchi, troppi abbracci, troppi disegni, vai a lavoro, torna a casa, abbraccia i tuoi figli, ricorda tua madre, sorridi, sorridi, riordina i libri, tira fuori vecchie foto, questo è il mio migliore amico, questa è la mia scuola, questa è mia figlia, questo è mio fratello morto, questo mio marito e quell’altro il mio amante, sei bella stasera, ho sonno e sono stanca, ingrandisci, non vedo, quanti anni hai oggi?, sono secoli che non ti vedo, ho paura di morire stanotte, io invece ho paura perché non sono morta ieri mattina, quanto cosa?, troppo, troppo poco, torna a casa, torna a lavoro, stenditi sul divano.

Sotterrati.

- Ciao. –

Occhi grigi. Come prima cosa. Il resto era un contorno del tutto trascurabile.

Il ragazzo si sedette e ordinò qualcosa che il barista non gli portò.

- Sei nuova di queste parti? – le chiese, bevendo qualcosa da un bicchiere che non c’era.

- No – mentì. Era molto semplice.

Si raccolse le mani in grembo e cominciò a sfregarsele le une con e altre. Si tirò le dita, fece schioccare le ossa, si graffiò i dorsi fino a sanguinare a forza di passarci sopra le unghie.

Mostra le mani e fai vedere cos’hai fatto.

- Come ti chiami? – chiese la ragazza. Aveva tutto il diritto di chiederlo, per questo lo disse con supponenza. Lui era l’unico che c’era. Gli altri erano solo gente Dipinta.

- Mi chiamo Adam – rispose il ragazzo; sembrava cortese, ma non aveva l’aria di uno che era abituato ad esserlo. Forse si stava sforzando perché lei era la Direttrice lì dentro e doveva obbedirle. – Adam Lyrcoof. –

- E’ un nome orribile – chiarì fin da subito. – Non mi piace. Non credo che lo userò. –

- Va bene – acconsentì Adam conciliante. – Tu come ti chiami? –

- Non hai alcun diritto di chiedermelo! – strillò, come se fosse stata insultata.

Adam sembrò trattenere una rispostaccia. Non era affatto simpatico, lui.

- Va bene – di nuovo. – Ma tu hai il diritto di rispondere. Se vuoi. –

- Puoi chiamarmi Hermione. –

- E’ il tuo nome? –

- Una volta. –

- Nel senso che non lo è più? –

Lei arricciò le labbra e bevette il suo vino. – Non lo è mai stato per te. –

Lui, assurdamente, annuì comprensivo, come se fosse d’accordo. Questo innervosì maggiormente Hermione.

Osservò Adam. Era un pezzo di carne a forma di ragazzo. Nel complesso gradevole. Capelli biondi, un po’ troppo chiari per i gusti di Hermione – lei voleva solo tinte vivaci, perché tutte le cose sbiadite prima o poi sparivano, era solo questione di tempo; da lì comprese che alla fine sarebbe sparito anche lui. Gli occhi erano grigi, e Hermione odiava il grigio. I lineamenti erano banali per quanto erano belli, per il resto aveva tutte le caratteristiche che ci si aspetterebbe di trovare in un essere umano.

- Posso offrirti qualcosa da bere? – chiese educatamente Adam.

- Ho già da bere – ribatté Hermione, come se fosse scemo.

- No, non è vero – lui alzò un sopracciglio, scettico.

Hermione fissò il bancone. Di fronte a lei non c’era niente.

- Scusi? Due Firewhisky per me e la Direttrice – fece Adam al barista.

Hermione si mise le mani tra i capelli. Stava rovinando tutto! Così mandava tutto all’aria!

- No, no, no! – si alzò in piedi. – Non esiste una bevanda del genere. –

- Allora berremo qualcosa che non esiste. Vuoi mettere il piacere di assaporare qualcosa di immaginario con quello di rassegnarsi a un sapore che pregusti già? –

- Allora, - decise Hermione, rimettendosi seduta, con uno sbalzo d’umore fin troppo repentino per una persona normale – il mio Firewhisky saprà di lampone. –

Adam storse il naso, ma alla fine sembrò accettare il compromesso, con molta accondiscendenza e il tono esausto di chi si rivolge a un ragazzino pestifero. – Come ti pare – disse.

Il barista servì loro due bicchieri vuoti in cui Hermione immaginò di sorseggiare un Firewhisky con un improbabile retrogusto al lampone. Adam la imitò.

- Perché sei venuto? – chiese lei. Sembrava preoccupata.

- Avevo voglia di vederti – rispose Adam tranquillo. Dal tono in cui lo disse, sembrava una cosa molto logica, tanto che Hermione quasi non ci cascò.

- Io non ti conosco! – ribatté con forza. – E quelli come te non devono stare qui. Sei un Forestiero. –

Adam rifletté un secondo, come se stesse valutando la prossima mossa. Aveva un modo di fare che a Hermione non piacque affatto, come se la stesse esaminando e volesse cavare fuori da lei qualcosa. Non vedeva che lei andava solo perdendo pezzi?

- Sì, ehm… - tentennò. – Vengo dall’Inghilterra. –

- Non questo – sillabò lentamente Hermione, perché la sua inconsapevolezza la mandava in bestia. – Tu non sei come loro – poi, di fronte all’espressione perplessa di Adam, aggiunse: - La gente attorno. –

- Intendi le persone di Melbourne? –

- Intendo la gente Dipinta. –

Sembrava una cosa importante.

- La gente… - ripeté Adam, confuso.

- Dipinta, sì – Hermione gli riservò un’occhiata torva. – Sembri molto stupido, a volte. –

Adam si sforzò di sorvolare sull’ultima affermazione. – Cos’è la gente Dipinta? –

Hermione finì il suo Firewhisky in un sorso. – Ecco… quelli che non fanno parte di me. Tutti quelli che sono altro da me, e per questo non sono reali, perché non sono me, e io sono l’unica realtà di me stessa. –

Chiaro. Cristallino, davvero.

Adam osservò Hermione, con la fronte corrugata e la schiena dritta, drittissima, come se si aspettasse di vedere sbucare fuori da un momento all’altro qualcuno che potesse rimproverarle una postura scorretta.

- Quello che vuoi dire, allora… - Adam cercò di comprendere quella stravaganza. – Per te, chi non fa parte della tua vita è come se non esistesse? – Hermione non sembrava convinta, semmai irritata da quell’errata semplificazione. – Non ti sembra eccessivamente drastico come atteggiamento? Così rischi di lasciare fuori persone che non fanno ancora parte della tua vita, ma potrebbero, almeno potenzialmente. –

- No – disse nervosa. – No, no, no. Sei confuso. E non capisci. Per questo non mi piace che ti sforzi di farlo. –

- Allora spiegati meglio. –

Hermione sbuffò. – Questa – disse, e si guardò tutto attorno. – Questa è la mia realtà, questa sono io. Non lo vedi? Non te ne accorgi? Tu non sei una persona Dipinta. Io vado a pezzi, e questo mondo va a pezzi con me. Morirai, se resti. –

- Non ho paura – chiarì pacatamente Adam.

- Beh, io sì! – sbottò lei. – Perché tu non appartieni a questo posto. Tu non appartieni a me. Dovresti tornare nel tuo mondo, dove tu saresti il Direttore e io sarei solo una ragazza Dipinta. –

- Non so come tornare – disse lui. – Non conosco il mondo di cui parli. –

- Stupido – lo insultò ancora. Stava diventando un’abitudine. – Tutti hanno un mondo di cui sono Direttori, e gli altri solo comparse sbiadite. Il tuo mondo è la tua visione delle cose. E’ una sola realtà osservata da infiniti punti di vista, tanti quante sono le anime sulla terra. Il tuo punto di vista è la tua realtà, in cui il resto delle persone, non condividendo la tua prospettiva, sono solo Forestieri, che tu puoi Dipingere come meglio preferisci. – Distolse lo sguardo. – Non mi spiegherò meglio di così. –

Adam sembrava sufficientemente soddisfatto, tanto che Hermione ebbe quasi l’impressione di aver sbagliato a dire tutte quelle cose. Però lui era così… vero. Lui la guardava, le parlava, ma non era semplice interazione come succedeva con gli altri, lui era lei. Ma in un modo differente dagli altri, perché tutto lì era lei. Aveva solo il timore che, in qualche distorto modo, anche lui fosse una sorta di Direttore là dentro. Perché? Chi gli dava il permesso di decidere?

- Allora… - questa volta Adam misurò ogni parola con attenzione, come se fosse giunto a un traguardo importante. Non voleva più sbagliare, perché ogni errore lo allontanava da lei. – Insomma, è un po’ come se mi stessi dicendo che siamo nella tua anima – sintetizzò.

Lei si rabbuiò e si richiuse in se stessa. Stava quasi scomparendo. – Stupido – disse ancora, ma non obiettò.

Giocherellò con il suo bicchiere vuotò. Lo pizzicò con le unghie per sentirne il tintinnio, i graffi sui dorsi delle mani ben visibili sulla sua pelle bianca. Adam provò l’istinto di prenderle quelle mani, ma ancora prima che ebbe il tempo di farlo, lei le allontanò raccogliendosele in grembo.

Diveniva sempre più evanescente. Sembrava che stesse cominciando a fondersi con l’ambiente, lasciando intravedere attraverso di sé i profili dei tavolini vuoti e delle tazze abbandonate sul bancone. Adam, d’impulso, cercò di catturare la sua attenzione per mantenerla viva.

- Abiti qui da sola? – chiese frettolosamente. Lei si volse verso di lui, con quel suo viso minuto che era tutto occhi, e lo guardò alcuni secondi, in totale silenzio.

Adam sentì lo sguardo di Hermione nel suo, e poi sul naso, sulla bocca, la camicia col colletto alzato e stropicciato, i capelli scomposti, la curva delle spalle. Tutte cose così poco da lui. Temette che Hermione potesse prendere il controllo della situazione. Cambiarlo a suo piacimento. Se le avesse dato troppo terreno, lei l’avrebbe reso qualcosa che non era, intrappolandolo là dentro.

- Sei in vacanza? – aggiunse ancora, avvicinandosi più a lei, che d’istinto si ritrasse un poco per paura che la toccasse.

Adam pensò quasi che non avrebbe più risposto.

- Sono venuta a trovare i miei genitori – spiegò con voce piatta.

Adam annuì. – Capisco… immagino che siano contenti – disse.

Hermione ancora una volta non rispose, ma un leggero movimento, più un leggero frusciare che le fece cadere una ciocca di capelli oltre la spalla, gli diedero l’impressone di un diniego.

Si era di nuovo chiusa a riccio.

- Perché non vieni a casa mia? – tentò un’ultima volta Adam, disperato.

Hermione soppesò la proposta. Arricciò le labbra. Giocherellò col bicchiere vuoto. Non lo guardò.

- Ci sono dei fiori a casa tua? – domandò, serissima.

Adam, spiazzato dalla domanda fuori logica, esitò. – Beh, non… non mi pare, non credo. – Infine: - No. –

Lei registrò l’informazione con molta serietà, e Adam comprese che stava per giungere un rifiuto.

- E’ così importante? – chiese, stizzito.

Lei gli lanciò un’occhiataccia, segno che non gradiva quel tono irritato. – I fiori danno colore. Non mi piacciono i luoghi vuoti. –

- Per questo vieni qui? – s’informò lui, pensando al chiasso degli altri clienti che sbraitavano improperi e insulti guardando la partita, al continuo rumore di bottiglie e bicchieri, alle innumerevoli facce e voci.

Hermione annuì.

- Possiamo… - Adam cercò d’improvvisare, schiarendosi la voce. – Possiamo raccoglierli lungo il tragitto. –

L’idea sembrò venire apprezzata in particolar modo, perché la ragazza rizzò ancora di più la schiena in un fremito. Guardò Adam e senza parlare disse .

Lui sembrava soddisfatto. – Forza – disse gioviale, un tono che non si addiceva affatto al modo in cui Hermione lo Dipingeva, così come quei capelli scomposti e il colletto stropicciato della camicia. Poi le tese la mano, che Hermione guardò con circospezione, indovinando un significato più latente in quel gesto.

- Ti porto da me – aggiunse Adam, notando che lei esitava.

Vieni con me.

Ti guiderò io.

- Non voglio che sia tu a fare strada – commentò nervosa. – Questo posto sono io. So io dove dobbiamo andare – disse.

Stava prendendo il sopravvento. Quel pezzo di carne a forma di ragazzo, quel Forestiero che era lì, esisteva, che era reale ed era lampante, stava prendendo il sopravvento.

Compreso questo, e degnato Adam di appena un’altra, sospettosa occhiata, Hermione afferrò quella mano.

Lui sorrise, ma Hermione non ricambiò.

Non ricordava quando avesse stretto l’ultima volta la mano di un uomo; aveva immaginato fosse più fredda, il che era insolito considerato che era luglio inoltrato e che il caldo di quei giorni aveva perfino svuotato le strade e le botteghe del centro. Eppure la presa di Adam era salda e forte, tanto che Hermione per un attimo ne ebbe paura. Poi pensò a quanto era facile, lasciare quel locale e lasciarsi guidare, lei che lì dentro era la Direttrice, lei che stabiliva verso che parte le cose dovessero scorrere, quali pezzi mandare in frantumi, quali voci sopprimere.

Fu la cosa più facile del mondo lasciare il Mirage, che totalmente fedele al proprio nome sparì com’era apparso divorato da cunicoli e oscurità.

Hermione non osò guardare cosa si lasciava alle spalle. Raccolsero margherite e ginestre dal ciglio della strada, che in mano a lei appassivano. Eppure continuò a raccoglierle imperterrita, incurante del grigiore che afflosciava i petali dei fiori non appena le sue dita li sfioravano.

Adam la condusse nella vecchia casa all’angolo col tetto azzurro, si mise di lato per farla passare una volta aperto il cancelletto e la seguì sul vialetto ciottolato senza piante e aiuole attorno.

Non le lasciò la mano fino a quando non spalancò le finestre, e Hermione non si dette pace fino a quando la stanza non fu stipata dei fiori appassiti che aveva raccolto venendo lì.

Aveva appena finito di sistemare alcuni steli di margherite dentro un vaso blu scheggiato ai bordi quando Adam la raggiunse da dietro, prendendola per i gomiti e accarezzandole le braccia. Hermione si impose di fare finta di nulla, perché questo non l’aveva deciso lei, e si disse che lui avrebbe smesso se solo lei avesse voluto così. Non poté però continuare a fare finta di nulla anche quando Adam si chinò a baciarle il collo e lei, pur con le mani ancora intente a sistemare quei fiori dai petali sempre più fragili, si sentì scuotere da un brivido stranamente reale, come poche cose lì in mezzo.

Come Adam.

- Smettila – protestò senza muoversi. Ovviamente non servì a nulla.

Adam le posò diversi baci sulla spalla, poi con tutta la delicatezza possibile la fece voltare. Hermione chinò la testa e lasciò che le braccia le cadessero inermi lungo i fianchi, mentre lui non smetteva di toccarla, di accarezzarla, come nessuno faceva più da un pezzo. Come nessuno forse aveva mai fatto. Adam continuò a sostenerla, quasi scuotendola, come a volerle ricordare che era viva, o che poteva ancora esserlo, se solo l’avesse desiderato. Era come un faro, era come un monito impertinente che all’orecchio le sussurrava vivi, e quello stesso orecchio poi lo baciava, come la guancia e la bocca e i capelli, e vivi, vivi, dicevano quelle labbra, e così le diceva anche il cuore, ma lei non ascoltava mai.

Hermione decise che doveva smettere; decise che tutto quello doveva smettere, che era durato abbastanza. Si irrigidì, si fece coraggio e alzò gli occhi su Adam, ma poi accadde l’incredibile.

Senza che lo volesse; senza che l’avesse premeditato, immaginato, anche solo pensato per un istante; prima ancora che potesse deciderlo, che il suo cervello potesse inviare le giuste informazioni alle dita e alle mani.

Si alzò sulle punte, gli poggiò le mani ai lati del volto e lo baciò. Fu un impulso sorprendente, un turbinio irrequieto di emozioni e paure soppresse e scoppiate fuori all’improvviso. Tutto quello che non aveva mai osato fare né desiderare si era materializzato lì a un soffio da lei sotto le sembianze di un ragazzo presuntuoso e impertinente che al tempo stesso non era niente ed era tutta la sua vita.

Fu con attenzione e gentilezza che Adam la spinse verso il divano, senza smettere di guardarla negli occhi. Un contatto che Hermione non riuscì a reggere, perché la Gente Dipinta di solito la ignorava, non esisteva nessuno che la guardasse o parlasse con lei, nessuno che la amasse perché nessuno lì era vero, e lei si era intrappolata in un’esistenza fasulla di echi e ombre.

Nello stesso istante in cui ebbe voglia di gridare o piangere, Adam la fece stendere cautamente sul divano, e ogni cosa passò. Non nel senso in cui solitamente uno spererebbe che queste cose andassero via, come una felicità o un piacere che scacciava via ogni emozione negativa; soltanto passò, come passano le giornate di pioggia e i treni, senza lasciare solchi, senza darsi troppa importanza, solo andando via con la discrezione di una persona sensibile e attenta.

Adam era gentile; le dedicava ogni attenzione, perché quel mondo era il suo, ma mai lei s’era sentita così estranea a se stessa, e mai aveva desiderato con tanto ardore esserlo. Non c’era decisione che stesse prendendo, non era che una marionetta che faceva cose che altre parti di lei le dicevano, che fosse il cuore o l’istinto o la testa non era una cosa importante, e se non aveva importanza era perché qualcuno aveva deciso che non ne avesse. Perché qualcun altro si era preso la briga di dirigere quella trama; e adesso stabiliva dove la bocca di Adam dovesse posarsi, quando Hermione dovesse tremare, in che modo i fiori tutt’attorno dovessero appassire lentamente, fino a consumarsi in cumuli di cenere, segnali di una decadenza che sarebbe stata la condanna di tutto quel falso mondo che lei stava a poco a poco mandando in frantumi.

Ma Adam non si fermò, e lei non pensò neanche per un istante di bloccarlo.

Il resto Hermione lo dimenticò, o lo relegò come un fatto di poca importanza in qualche nascosto scomparto della sua mente, cosicché non potesse più tornarci col pensiero. Aveva deciso che se non poteva più indirizzare gli eventi, poteva non dare loro importanza. Adam voleva qualcosa, e questo a Hermione non piaceva; da lì a poco il suo mondo sarebbe crollato, aveva resistito come aveva potuto, aveva sofferto a lungo, ma adesso tutto stava per finire. Ne vedeva i segnali nei fiori appassiti e nella sua immagine che non si rifletteva nello specchio.

Adam rischiava a stare lì, si disse, e lei comunque non voleva che restasse. Era una presenza inquietante e fastidiosa, e l’avrebbe cacciato via dalla sua mente a forza, se fosse stato necessario, con ogni mezzo.

Perché quel mondo doveva crollare.

Lei doveva crollare.

E non voleva che ci fosse nessuno ad assisterla nella sua rovina.

 

-

 

 

 

 

 

 

NdA

So che la storia ha preso una piega un pelino nonsense, ma tutto sarà più chiaro presto. Sarà che sono contorta io. Al prossimo aggiornamento, che spero non tardi molto.

D.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** III ***


III

III

 

 

Il giorno precedente quello in cui Hermione aveva deciso di farsi trovare morta dal marito sul pavimento del bagno, Hugo compiva nove anni. I suoi genitori e la sorella avevano deciso di dare una festa a sorpresa alla quale avevano invitato tutti gli amici di Hugo, che erano davvero tanti, e per un pomeriggio la casa si era riempita di bambini zampettanti e dell’intero clan dei cugini Weasley. Sia Hugo che Rose avevano ereditato dal padre una natura socievole e incline alla compagnia, per questo a nove anni appena compiuti Hugh era una specie di piccolo trofeo per i suoi compagni, e Rose, che al settembre di quell’anno sarebbe stata incredibilmente Smistata a Serpeverde il suo primo giorno di scuola, aveva già una spiccata inclinazione per feste rumorose con palloncini colorati e torta alle fragole prima, e alcol a fiumi e un mucchio di ragazzi dopo.

Hermione era felice che nessuno dei suoi figli avesse preso da lei quell’indole insicura e introversa che era stata il suo tormento a scuola e che la stava lentamente distruggendo ora. Era felice che Hugo stesse diventando grande e che Rose sarebbe presto andata a scuola, e voleva che suo figlio avesse la migliore festa di compleanno a sorpresa che un ragazzino potesse desiderare.

Così quella sera tardi, finita la festa, dopo aver liberato la cucina dagli avanzi di torta e stuzzichini, dalla carta da regalo stracciata e dai cappellini di carta a cilindro con su scritto “Buon compleanno Hugo”, diede la buonanotte a Rose e baciò ancora una volta Hugo, andò in camera da letto dove Ron già la aspettava, seduto sul letto intento a rovistare tra vecchi album di fotografie, probabilmente preso in un momento di calorosa nostalgia in cui il compleanno di suo figlio doveva averlo gettato, raccolse la sua vestaglia e le pantofole e disse che andava a farsi una doccia.

Andò in bagno, prese un paio di asciugamani puliti e li ripiegò con cura su uno sgabello. Si spogliò, si sciolse i capelli, fece riscaldare l’acqua e poi si immerse nella vasca. Si strofinò i capelli con attenzione, usando tutte le creme e le lozioni di cui si serviva di solito per addolcire i boccoli altrimenti crespi, si asciugò, si rivestì e si specchiò.

Fino a tre giorni dopo il funerale, al quale tra l’altro non si era neanche presentato, Ron non era riuscito a dire cosa fosse successo. Come avesse trovato ore dopo il corpo di Hermione sul pavimento del bagno, irrigidito dal decesso ma bizzarramente profumato per i profumi e gli oli con cui si era cosparsa prima di suicidarsi con un’overdose di medicinali che nessun Guaritore le aveva prescritto; come avesse urlato, pur non sentendosi, con Hermione tra le braccia; come avesse gridato a Rose, corsa in bagno all’atroce stridere di quelle urla, di andarsene e non guardare e chiamare subito aiuto; come non avesse più fiatato o dormito per i giorni successivi, senza neanche avere il coraggio di recarsi al funerale di sua moglie.

Rose era sempre stata convinta che questo fatto avesse in parte determinato il suo Smistamento a Serpeverde. Certo dovevano esserci in lei delle qualità di fondo per spingere il Cappello a prendere in considerazione quella Casa, ma come aveva scritto e riscritto più volte nei suoi diari di quell’anno, il suicidio di sua madre l’aveva gettata in una sorta di adolescenza anticipata, con la rabbia e il desiderio di evadere di qualunque ragazzo di quindici o sedici anni, ma elevata e triplicata da una collera tangibile contro sua madre, perché l’aveva lasciata, e contro se stessa, perché avevo permesso che lo facesse.

Si era seduta su quello sgabello il primo giorno di scuola, in Sala Grande, con tutta la rabbia, la paura e la voglia di straziare qualcosa a suon di graffi e morsi che solo una ragazzina di undici anni la cui madre si era ammazzata poteva avere.

Sentiva che le era stato fatto un torto, che sua madre e che qualcosa di più grande e incomprensibile le avevano fatto un torto, e voleva replicare con un torto a sua volta. Un tempo pensava che a Hogwarts avrebbe fatto di tutto per essere la prima della classe e farsi nominare prima Prefetto e poi Caposcuola, per rendere orgogliosa sua madre; e al secondo anno si sarebbe iscritta ai provini per la selezione delle squadre di Quidditch e avrebbe vinto, per rendere fiero anche suo padre.

Invece arrivò su quello sgabello, con quello stupido vecchio Cappello calato sugli occhi, con una brama insaziabile di distruzione e devastazione. Non si era mai sentita così tanto arrabbiata in vita sua, e quella rabbia diventò vendetta, e quella vendetta diventò ambizione, e tutte quelle cose insieme diventarono Rose Weasley, Serpeverde, mai Prefetto e nemmeno Caposcuola, e assolutamente negata per il Quidditch, perché non le piaceva e non aveva voglia di impegnarsi per vedere se riusciva a stare in sella a una scopa per più di tre minuti di fila.

Il tempo, poi, aveva cancellato quella rabbia, tramutandola in una profonda amarezza. Poteva distinguere con esattezza il giorno in cui era avvenuto il cambiamento. Lei aveva sedici anni e c’era quel Grifondoro, quell’amico di James che suo cugino le aveva presentato. Era un ragazzo più grande e sembrava avere tanta di quella esperienza, perché c’era più di una compagna di classe di Rose che gli andava dietro e lui sembrava in grado di reggere tanto di quel Firewhisky senza crollare a terra o svettare dritto verso il bagno a vomitare.

C’era insomma questo amico di James che in fondo a lei neanche piaceva, c’era il Firewhisky, c’erano i sedici anni e i primi racconti colmi di risatine vezzose delle sue compagne di stanza, e c’era quella madre morta suicida che non aveva voluto accompagnarla al suo primo giorno di scuola, che non aveva voluto aspettare di essere fiera di lei; e poi c’erano tutti quei fattori terribilmente adolescenziali, come le gambe molli e le farfalle nello stomaco e una sorta di gioia e senso di potere nel vedere l’irritazione negli occhi di Scorpius.

La mattina dopo, di tutto quello non c’era più nulla.

C’era solo Rose, a piangere tra le braccia di un Albus insolitamente affettuoso, a chiedersi perché sua madre, sul punto di ingoiare quei farmaci, non avesse pensato che sua figlia era un motivo sufficiente per non mollare.

Come tutto, alla fine anche la rabbia e il dolore erano passati. Era rimasto solo un opprimente cumulo di rimpianti, e una tristezza indicibile che qualche volta, la sera, veniva fuori a tradimento.

- Cosa fai? –

Con la schiena china sul libro che aveva scovato nella biblioteca, Rose sobbalzò e soffocò un’esclamazione, voltandosi di scatto.

Scorpius, angelico e impassibile come al solito, con le mani dietro la schiena, ostentava un’espressione pestifera, sogghignando apertamente.

- Idiota, mi hai fatto prendere uno spavento – borbottò seccata, chiudendo il libro e riponendolo in un cassetto con la massima nonchalance possibile, sperando che quel dettaglio non saltasse all’occhio indiscreto dell’amico. – Dov’è Al? –

- Mia madre l’ha rapito, credo che volesse sbattergli sotto il naso con perfidia la sua collezione di Boccini che hanno giocato nei Campionati degli ultimi centoventi anni. –

Rose si alzò, appoggiandosi di fianco alla scrivania, coprendo il cassetto in cui aveva infilato il libro.

- Tua madre non sembra un tipo da Quidditch – commentò lei.

- Infatti non ne capisce nulla. Le piace solo circondarsi di oggetti rari. Ah, e temo anche che tu ed Al, in quanto figli dei noiosissimi eroi della Seconda Guerra, siate tra questi – aggiunse con sarcasmo. Poi, notando che Rose se ne stava tutta schiacciata in quell’angolo senza motivo, mise su un’aria curiosa. – Che scrivevi prima? –

- Ehm… - farfugliò lei, facendo un gesto sbrigativo con la mano, come a voler dire che non erano cose di grande importanza. – Annotazioni. Niente di eccezionale. –

- Ah, tieni un diario? – fece Scorpius, sorpreso, con un sorrisetto curvo che prometteva disgrazie. – Chissà quante cose inspiegabilmente brutte hai scritto sul mio conto… - disse, lasciando cadere la frase.

Immobile, osservò Rose con quella sua insolente faccetta pacifica; e lei, sospettosa, urlò “Fermo!” ancora prima che Scorpius le si fiondasse addosso cercando di stordirla a suon di solletico.

- Fermo, fermo, Malfoy, per Salazar! - articolò a stentò, cercando di bloccare le sue braccia veloci che saettavano da una parta all’altra cercando di aprire quel cassetto. Lei aveva cominciato a chiamarlo per cognome, cosa che faceva solo quando era parecchio irritata, ma Scorpius non era tipo da farsi intimidire da una tale inezia.

- Malfoy, in nome del tuo putridissimo sangue puro, lascia stare quel libro! – strillò, visto che lui era riuscito a spingerla di lato e ad aprire il cassetto.

Tirò fuori velocemente il presunto diario e Rose subito gli fu addosso, ma lui tenne alto il braccio che teneva il libro e lei, pur con tutti i suoi pizzicotti e saltelli, non riuscì a riappropriarsene.

Scorpius scattò veloce dal lato opposto della stanza, con Rose che gli stava dietro col viso rosso per la rabbia; cominciò a sfogliare qualche pagina a caso, pensieroso.

- Spero proprio di non trovarci nessun verso svenevole per quel Corvonero che ti piace tanto, Daniel, Damien, come si chiama? Sono debole di stomaco, sai. –

Rose riuscì a bloccarlo contro il tavolo, facendo stridere rumorosamente le gambe di una sedia. – Non mi piace nessun Damien – precisò, facendo un balzo per afferrare il libro, ma Scorpius fu più veloce e ne approfittò per farsi da parte, così lei si ritrovò ad acciuffare l’aria.

- Vediamo, vediamo… - cantilenò ancora, camminando all’indietro e posando gli occhi su una pagina a caso. “Mirage non osò guardare cosa si lasciava alle spalle. Raccolsero margherite e ginestre dal ciglio della strada, che in mano a lei appassivano. Eppure continuò…”

Scorpius dovette interrompere la lettura, perché Rose gli saltò letteralmente addosso, rischiando quasi di fargli perdere l’equilibrio. Per questo Scorpius si aggrappò d’istinto a una cassettiera in legno di noce, mentre il libro cadeva con un tonfo per terra. Entrambi si lanciarono a raccoglierlo, col risultato di finire sul pavimento doloranti, perché nell’impeto avevano sbattuto l’uno contro l’altro la testa, ma Scorpius aveva preso per prima il libro. Subito il ragazzo cercò di rimettersi in piedi, ma Rose lo acciuffò per il polso costringendolo a crollare di nuovo a terra. Si sporse su di lui per afferrare il libro, ma in quell’attimo con la coda dell’occhio notò appena che c’era qualcuno sulla soglia.

Il signor Malfoy non sembrava particolarmente impressionato o incuriosito, mentre in tutta calma si accendeva una sigaretta. Aspirò il primo tiro, e pur nel cocente disagio Rose ne approfittò per togliere definitivamente di mano a Scorpius il diario. Lui rispose con un’occhiata truce.

- Avevo sentito dei rumori, pensavo che quel vecchio inutile Elfo avesse fatto cadere di nuovo l’argenteria – spiegò in tutta calma, senza ancora alzare gli occhi sui due.

Imbarazzatissima e col cuore che andava a mille, Rose ebbe la prontezza di nascondere dietro la schiena il diario che, ricordò in quel momento, aveva rubato al padrone di casa lì presente di fronte a lei. Per sua fortuna Scorpius distolse per un istante l’attenzione del signor Malfoy da lei, andando a salutare suo padre che non vedeva dalle vacanze di Natale, giusto il tempo minimo necessario perché Rose potesse infilare in fretta il libro in mezzo a una pila di altri volumi sulla scrivania dietro di lei, avvantaggiata dal fatto che difficilmente Malfoy avrebbe potuto sospettare che Rose avesse scovato e sottratto quel libro dalla biblioteca.

Con quel briciolo di dignità che le era rimasto, si avvicinò al padre di Scorpius.

- Buona… buonasera, signor Malfoy – disse, certa di essere arrossita pericolosamente sulle guance, ma Draco non ci fece molto caso.

- Rose Weasley, immagino – disse soltanto, con un tono di voce talmente piatto che non avrebbe potuto lasciar trapelare la minima inclinazione di sentimento, che fosse disgusto, disprezzo o semplice e formale cordialità. – Suppongo che ci vedremo a cena – disse l’uomo, guardando di nuovo suo figlio. – Buona… continuazione – concluse poi, girandosi e sparendo dal loro campo visivo.

Rimasti di nuovo soli nella stanza, Rose e Scorpius si squadrarono. Lei era ancora leggermente rossa, ma se non altro il cuore sembrava aver ripreso un battito normale.

- Oh Salazar – sillabò la ragazza, vagamente sconvolta. Alzò ancora gli occhi sull’amico, che al contrario non sembrava per nulla toccato. – Certo che è molto caloroso tuo padre – commentò poi.

Scorpius fece spallucce. – E’ difficile che cada ai tuoi piedi così, a prima vista. –

Rose impiegò un attimo in più per capire, poi alzò gli occhi al cielo ma sorrise comunque. – Idiota. Intendevo con te, ovviamente. –

- Non è come sembra. E’ solo quando ci sono degli estranei. Di solito non è così… -

- …glaciale? – suggerì Rose.

Scorpius rise e scosse la testa. – Sul serio, mi vuole bene – disse, e Rose per un istante si sentì quasi turbata da quell’inaspettata constatazione, del tutto normale, in realtà, ma suonava così strano sentire Scorpius parlare di sentimenti.

- Sì – disse dopo un po’. – E’ quello che i genitori fanno, di solito. –

Si accigliò un poco e Scorpius non volle aggiungere null’altro riguardo l’argomento, consapevole che si erano addentrati in un terreno decisamente scomodo. Puntò lo sguardo sulla schiena di Rose, che andava a recuperare il suo libro tenendolo saldamente sotto braccio.

- Non c’era bisogno che lo nascondessi, comunque – disse il ragazzo, più per cambiare discorso che per altro. – Bastava dirlo che era un altro dei tuoi romanzetti da scrittrice in erba – cercò di buttarla sul ridere.

Rose non rispose nulla, lo guardò soltanto per alcuni secondi e poi annuì debolmente.

- E poi… - aggiunse ancora Malfoy, costringendola a rialzare lo sguardo. – Non serve che lo incanti con tutti quei tuoi stupidi incantesimi, non ci sarebbe nulla di male se anche qualcuno leggesse quello che inventi, davvero, non capisco questa tua reticenza nel far sapere agli altri che ti piace scrivere, è una cosa… -

- Quali incantesimi, scusa? – lo interruppe lei, confusa.

Scorpius si bloccò. – Beh… - cominciò – quando ho cominciato a leggere ho capito che l’avevi incantato, sentivo un sensazione sgradevole mentre lo tenevo, e poi insomma, tu hai sempre avuto questo vizio di impregnare i tuoi vecchi diari di incantesimi protettivi per evitare che qualcuno i leggesse – spiegò ragionevolmente.

Rose alzò un sopracciglio. – E tu come lo sai? – sibilò.

Scorpius boccheggiò per un istante, ma poi si riprese. – Ho chiesto ad Al… di fregartene qualcuno, ma non è questo il punto – chiarì in tutta fretta, mentre lei spalancava indignata la bocca. – E’ una precauzione inutile e poi, per Salazar, fintanto che la difesa consisteva in un attacco di Spruzzolosi andava bene, ma questo… dài, è esagerato. –

La guardò con accondiscendenza, con aria da gran savio, e proprio quando stava per voltarsi e andarsene Rose lo richiamò.

- Scusa, ma… che cosa hai sentito esattamente? –

Scorpius ci pensò su. – Ecco… non saprei spiegare, qualcosa di molto spiacevole, comunque, come se ci fosse qualcosa di estremamente sbagliato in quel libro. Di certo se non avessi voluto farti arrabbiare me ne sarei tenuto alla larga – concluse. – Complimenti, molto più di classe che una Spruzzolosi – ironizzò alla fine, uscendo dalla stanza e lasciandola con uno strano presagio.

 

-

 

La bottiglia di vino elfico svolazzò leggera sopra il tavolo e i due calici, che riempì entrambi; poi questi levitarono fino ad andare a posarsi uno fra le dita di Draco, e l’altro sul basso tavolinetto di fronte la poltrona sul cui bracciolo stava appoggiata Pansy. La strega osservò con aria vacua il bicchiere, fino a quando Draco non richiamò la sua attenzione con un colpo di tosse, e allora lei sollevò il capo.

- Da quando siete così amiche tu e mia moglie? – chiese blandamente Malfoy, sorseggiando il suo vino. Pansy fece una smorfia di indifferenza, segno che non era in vena di chiacchiere quel pomeriggio. Facendo ondeggiare mollemente il liquido rossastro nel bicchiere, Draco studiò il profilo di quell’amica di vecchia data, l’unica ad essergli stata sempre accanto fin dal principio e fino all’ultimo. Alla fine Pansy alzò il bicchiere e mandò giù un sorso.

- Intendo, avrai da fare con quel tuo oscuro e tenebroso lavoro al Ministero, no? – continuò, senza suscitare in lei alcuna reazione. Un altro sorso di vino. – Le tue figlie, il tuo marito babbanofilo, e Daphne stessa che già da sola è un bell’impegno… -

Ancora nulla. Silenzio.

- Insomma, perché svolazzi sempre intorno ad Asteria? E’ inquietante. –

Alla fine Pansy si decise a guardarlo, assottigliando gli occhi neri.

- Daphne ce l’ha con me per non ricordo quale motivo, le mie figlie sono state sequestrate da mia madre che credo voglia fare loro il lavaggio del cervello e Terence non è un babbanofilo ma uno studioso delle interrelazioni tra Mondo Magico e Babbano. –

- In gergo, Babbanofilo – insistette imperterrito Malfoy. – Credo che tu sia riuscita a scovare l’unico Purosangue, Weasley a parte, con un così spiccata buona disposizione verso i Babbani. –

- Oh, per favore – Pansy mollò il bicchiere ancora quasi del tutto pieno sul tavolo e andò ad affacciarsi alla finestra di una delle tante sale del maniero dei Malfoy. – Ti sbagli, sai. Anzi, se proprio vuoi saperlo, lui non riesce a spiegarsi come abbiano fatto i Babbani a ottenere invenzioni i cui risultati inspiegabilmente ottimi sembrano quasi frutto di una magia. Come… l’elettricità, ad esempio. –

- Elettro cosa? –

- Lascia stare – Pansy scosse il capo, sovrappensiero. Si voltò a guardare Draco. – Che dice la Granger? –

Draco si lasciò andare contro lo schienale della sua poltrona, con un sospiro. – Non che parli molto, in realtà. Dorme quasi sempre, e quando è sveglia mangia a stento e non dice nulla, se non in casi di estremo bisogno – elencò. – Non è un soggetto entusiasmante dal punto di vista clinico. Non ha sviluppi, grandi sbalzi, neanche reazioni eccessive ai farmaci… è la paziente più tranquilla del reparto. Slitta unicamente tra uno stato di veglia vegetativa e uno di incoscienza. –

Pansy annuì; se l’era sentita ripetere tante volte quelle cose, in tanti pomeriggi come quello. Fissò di nuovo Draco. – Dal punto di vista psicologico? –

Malfoy finì il suo vino elfico, e appellò a sé la bottiglia per riempire il bicchiere un’altra volta. – E’ andata. Sragiona. I suoi discorsi sono privi di senso, le sue azioni immotivate. Non è consapevole di nulla e si impone continuamente di dimenticare, così ogni volta mi ritrovo al punto di partenza, con l’unica differenza che diventa ogni giorno più difficile. –

Pansy tornò alla sua poltrona, sedendosi pesantemente. – Forse, se la piantassi di trasformare ogni tua intrusione nella sua mente in una vera e propria sega mentale… -

- Non sono mica io che decido, fa tutto lei, è la sua testa – si giustificò prontamente Draco, mentre Pansy faceva schioccare la lingua con disappunto e con l’aria di chi la sapeva lunga. – Anche se ultimamente mi sembra che non sia neanche più in grado di fare questo. Ogni cosa che inventa svanisce subito, tutti i suoi scenari sono evanescenti e sfocati, a volte si muove nel vuoto… ha perso il controllo. –

- Significa che è vicina a una svolta – osservò allora Pansy, positiva.

- Significa che è vicina al collasso – ribatté lugubre Draco, versandosi altro vino. – Certo potevi andarci un po’ più piano sette anni fa con quel fottuto incantesimo – disse, guardando Pansy di sbieco.

Lei lo squadrò indignata, gli occhi che mandavano lampi. – Non ci provare… non provare a dare la colpa a me! – strillò, mentre lui roteava gli occhi. – Lei voleva che io le cancellassi la memoria e invece… -

- …e invece l’hai fatta rintanare dentro le sue elucubrazioni mentali, complimenti. E’ prigioniera del suo cervello, e considerato di chi stiamo parlando, non mi stupisce che ci si sia smarrita dentro – rise sarcastico.

Pansy incrociò le braccia al seno, imbronciata. – Avevo paura che se non avessi rimediato subito in qualche modo lei avrebbe fatto sul serio quello che dopo abbiamo solo inscenato. –

Draco emise una leggera risata. – Ah, sì, il teatrino del suicidio con funerale annesso. Un espediente drammatico, struggente, intenso, ricco di pathos, cose che possono venire in mente solo a una donna – borbottò lui, accendendosi una sigaretta. – Mi chiedo come tu ci sia riuscita. –

Pansy scrollò le spalle. – Ce l’ha fatta quella stronzetta babbana di Giulietta, non c’era motivo che non ci riuscissi io. –

- Giulietta chi? – chiese d’istinto Draco, ma poi si ricredette. – Anzi, lascia stare. Un’altra delle fisime babbanofile di Terry, immagino. –

Pansy sorvolò candidamente sull’ultima insinuazione.

- Non provare più a dare la colpa a me. –

- D’accordo, Pansy. –

- Avresti preferito che se ne andasse a zonzo insieme ai Babbani, ignorando il resto della sua vita passata? – disse, mettendosi di fronte a lui, che la guardava impassibile. – Io volevo darle una seconda possibilità, io speravo… -

- Speravi male – sbottò Draco. – Sai che significa impazzire ogni giorno insieme a lei? Non fa che parlare di pezzi, io non riesco più a starle dietro. Sta facendo uscire di senno anche me. –

- Perché tu non riesci a prendere il controllo! – esclamò la strega. – Devi indirizzarla, non puoi sperare che faccia tutto da sola. –

- Non me lo permette, blatera cose assurde a proposito di presidenti e persone disegnate, o quel che diavolo era – si lagnò Draco, chiedendosi se non fosse il caso di farsi portare un’altra bottiglia di vino.

- E’ normale che sia confusa. –

- E’ ammattita, altroché. –

- Sono i possibili rischi di un incantesimo di memoria su un soggetto mentalmente instabile. –

- Il tuo incantesimo le ha mandato in tilt il cervello – le ricordò mellifluo Draco.

- Il mio incantesimo era perfetto! – ribatté piccata Pansy. – E’ lei che ci si è appigliata disperatamente e adesso non vuole uscirne. Io volevo solo che lei… accettasse. Che ricominciasse daccapo – spiegò.

Draco sospirò e si alzò in piedi.

- Se solo… - riprese Pansy. - Se solo voi due aveste sistemato tutto fin dall’inizio, non sarebbe mai arrivata al punto di impazzire così – terminò.

Draco si voltò di scatto, con una smorfia. – Certo, come no. Una relazione con l’avvocato che mi difendeva dalle false accuse del mio zio cattivo? Il Settimanale delle Streghe ci avrebbe ricamato sopra per un mese – borbottò. Ci pensò un poco e aggiunse: - E poi Asteria non se lo merita. Credo che lei pensasse lo stesso di Weasley. –

Pansy alzò le sopracciglia scettica e accennò un sorriso sornione. – A questo avreste anche potuto pensarci prima. Merlino, siete due stronzi. –

Malfoy non fece caso all’accusa. – Non è mica per me che è impazzita così. Ricordi? –

Pansy ricambiò con tono altrettanto polemico. – Credevo solo che essere sposata con Weasley e nel frattempo avere una relazione con Draco Malfoy non aiutasse. –

Malfoy fece spallucce. – Resti per cena? –

- No, Draco, non resto per cena – ribatté lei stizzita. – Fa’ provare me. –

- Provare a fare cosa? –

- Con la Granger. Fammi provare, forse posso esserle più d’aiuto di quanto lo sia tu. Io almeno non me la porto a letto. –

Malfoy roteò gli occhi, seccato. – Te l’ho detto, ha fatto tutto lei. –

Pansy sogghignò, incrociando le braccia e scuotendo leggermente il capo e i capelli scuri. – L’ultima volta che mi hai detto una cosa del genere avevamo sedici anni, stavamo insieme, ed è stato la mattina in cui ti ho scovato con le mani sotto la gonna di Morag MacDougal – gli ricordò Pansy, mentre Malfoy se la ghignava al pensiero. – Mi comprenderai se non ti credo – aggiunse lei.

Sorrisero entrambi. Erano stati buoni amici, ed era una delle poche cose belle dei loro ultimi due anni a Hogwarts.

- Allora – Pansy batté le mani, per riavere la sua attenzione. – Cosa c’è per cena? –

 

-

 

Quella cena rischiava di diventare la più lunga di tutti suoi diciassette anni di vita. Il signore e la signora Malfoy stavano a capotavola, Rose sedeva in mezzo tra Albus e Scorpius, e di fronte a loro c’erano la strega che prendeva il tè con Asteria, la sera in cui erano arrivati, insieme a un uomo giovane dall’aria seria e intelligente che era suo marito e si chiamava Terence Higgs. Poi, compreso che due più due eccome se faceva quattro, Rose intuì che quelli dovevano essere i genitori della stessa Marlene Higgs che, come le aveva detto Lucy che aveva saputo da Roxanne che aveva origliato da Molly, aveva una specie di tresca con Scorpius. Che la voce fosse vera o no, quello era un altro paio di bacchette. La cosa comunque non le piacque.

Passò la fase dei saluti, delle frasi di convenienza e cominciò la serata.

Un piatto a base di pesce, tanto graziosamente decorato che a Rose parve più un soprammobile che una cena, venne servito comparendo apparentemente dal nulla, con un sistema che ricordava un po’ quello con cui venivano forniti i pasti a Hogwarts. Una di quelle raffinate sottigliezze di cui Asteria andava tanto fiera. Rose scoprì che la strega bruna, che in realtà sembrava più amica di Malfoy di quanto non lo fosse di Asteria, era Pansy Parkinson, una vecchia compagna di scuola del signor Malfoy, e quindi anche dei suoi genitori e dello zio Harry, di cui aveva sentito vagamente parlare. Era gentile nei modi e aveva una voce vellutata e bella, tutti dettagli che non si sarebbe aspettata da quel viso spigoloso e pallido circondato da capelli neri legati in un morbido chignon. A dispetto della prima impressione che aveva avuto, Rose la trovò piacevole. Era una presenza delicata e leggera, come una mano che ti si posa all’improvviso sulla spalla, e aveva una severità e un’eleganza che mascheravano in un sorriso un po’ storto una malizia o un sospetto. Sembrava avere una grande intesa col signor Malfoy, e Rose per un attimo si chiese come mai né Asteria né il signor Higgs fossero infastiditi da questo. Forse, ipotizzò, Draco e Pansy erano un po’ come lo erano stati Harry ed Hermione, anche se la cosa le suonava un po’ bizzarra. Era abituata a sentir parlare di Malfoy e dei vecchi Serpeverde in certi termini, e un sentimento e un affetto simili a quelli che aveva visto in casa sua tutti i giorni le risultarono nuovi.

Chissà, magari suo padre e lo zio Harry si sbagliavano, a tal proposito.

- Così tu sei il figlio di Harry Potter – disse Terence, prima di addentare un boccone di pesce. Scrutò gli occhi verdi di Al nello stesso modo in cui prima la gente osservava la cicatrice di Harry. Al abbozzò un assenso senza troppo entusiasmo.

- Ricordo che tuo padre ha giocato contro di me la sua prima partita di Quidditch – continuò Terence, proprio come avrebbero potuto fare Ron o Neville nel ricordare un episodio dei loro anni a Hogwarts. La cosa ad Al parve oltremodo fuori luogo, così come lo era l’idea che suo padre e gli amici dei Malfoy avessero qualcosa da spartire, compresi ricordi. – Ero il Cercatore di Serpeverde prima che mi sostituisse Draco al suo secondo anno – aggiunse, guardando verso Malfoy che sghignazzò un poco al ricordo di come fosse stato felice di sbattere in faccia a Potter, Weasley e la Granger la sua ammissione in squadra, quel giorno in cui Weasley aveva vomitato lumache e Draco aveva chiamato per la prima volta la Granger “Mezzosangue”.

Albus accolse l’informazione con calma. – Sì, beh, mio padre è entrato in squadra al primo anno – disse, servendosi altro pesce, e ripagando con quell’affermazione e con lo sguardo indispettito di Draco Malfoy parecchi anni di scaramucce e battibecchi, ostentando una piccola presunzione che un tempo avrebbe fatto invidia a Malfoy stesso. Albus, Rose e Scorpius non capirono molto bene perché, ma Pansy cominciò a ridacchiare apertamente e non la smise per le sere successive che passò insieme a Draco, in cui non mancò di ricordargli quel breve scambio di battute.

- Ottima la cena – aggiunse poi Al, cordiale, in direzione di Asteria che ricambiò con un sorriso.

Quello fu solo l’inizio.

Il primo passò in fretta, tra gli adulti intenti a discutere di qualcosa che aveva a che vedere con l’ultimo libro che il signor Higgs stava scrivendo e il trio intento a ridacchiare per questo o quel motivo. Il secondo fu interminabile, con tutti una serie di contorni che sembravano sbucare da ogni parte, e il meglio arrivò con un dolce alla frutta per dessert.

- Avete già scelto cosa fare ora che avete preso i M.A.G.O? – chiese con noncuranza Pansy, mentre Al, Scorpius e Rose si scambiavano prima un’occhiata tra di loro.

- Credo che tenterò Medimagia – disse Scorpius, che in realtà non ci aveva pensato molto.

- Credo che diventerò Ministro – rispose imperscrutabilmente Albus, affondando la forchetta nel dessert.

- E tu, Rose? – la esortò Asteria, dopo aver sorriso ad Albus con discrezione, non del tutto sicura che fosse una battuta.

- Potresti prendere Magisprudenza – suggerì Terence, finendo la cena con un sorso di vino elfico. – Con la fama di tua madre, potresti avere successo – disse.

Rose si strinse nelle spalle, non del tutto convinta, e con un vago senso di morsa allo stomaco che le fece rifiutare il dolce. – Non credo. La carriera di mia madre era finita dopo il caso dei Lestrange – replicò, e a parte Albus e Asteria, che continuarono a mangiare tranquillamente, cadde il silenzio.

Pansy buttò giù un bel sorso di vino, Draco si guardò bene dal dire alcunché e Scorpius provò l’impulso di accarezzare la mano di Rose sotto il tavolo, ma non lo fece.

- Perché, cosa è successo? – s’incuriosì infine Scorpius, che di quelle cose con Rose non parlava mai.

Terence si schiarì la voce. – Beh, eri forse un po’ piccolo per ricordare… - cominciò, ma Rose si intromise, interrompendolo.

- Durante un’udienza, mia madre ha ucciso Lestrange -  sbottò d’un tratto. – Lui si era liberato dagli Auror e minacciava di uccidere tutti. Legittima difesa. Fine della storia. –

Con la forchetta si mise a giocare con la fetta di torta di fronte a lei, senza alcuna intenzione di assaggiarla, per quanto sembrasse deliziosa. Albus alzò lo sguardo sulla cugina ma si limitò a un rispettoso silenzio.

- Non lo sapevo – fece Scorpius, quasi imbarazzato per aver tirato fuori un ricordo tanto spiacevole. – Perché non lo sapevo? –

Guardò suo padre, poi Asteria e infine Pansy, ma nessuno sembrava avere voglia di rispondergli.

Toccò infine ad Al riportare la conversazione su un argomento più facile, poi la cena finì, gli invitati se ne andarono e nessuno ci pensò più.

 

-

 

Rose rifiutò l’invito di Al e Scorpius di bere qualcosa e giocare una partita a Gobbiglie. Augurò la buonanotte a entrambi e si ritirò nella sua stanza, ma quando, già in pigiama, uscì dal bagno dopo essersi spazzolata i denti, trovò Scorpius ad aspettarla. Lui inspiegabilmente l’abbracciò e le diede un bacio sulla guancia, poi tornò nella sua stanza a dormire.

Rose si infilò in camera sua e, dopo aver gettato di lato le pantofole, si buttò pesantemente sul letto. Stette immobile alcuni secondi, osservando la fiamma languida delle candele appoggiate sul comodino, poi si sporse di lato e allungò un braccio per tirare fuori dal suo baule poggiato per terra il libro della biblioteca. Lo prese e lo aprì, tirandosi a sedere a gambe incrociate sopra le coperte.

Senza Titolo, di Mirage Greenhorn, recitava ancora la prima pagina. Stessa cosa non poté dirsi del resto del libro perché, come scoprì non appena cominciò a sfogliarlo, alcuni pezzi della storia erano spariti. Ma non nel senso che erano stati strappati via, come temette Rose per un breve istante; si erano semplicemente cancellati, lasciando al loro posto una sfilza di pagine bianche intatte come se nessuno ci avesse mai scritto sopra. Sfogliò ripetutamente le pagine più e più volte, ma senza risultato. Di Adam e Mirage, che lei aveva lasciato nella grande casa azzurra all’angolo, non c’era più traccia. Nulla di tutto quello era possibile, a meno di non accettare l’ipotesi di trovarsi di fronte a un libro incantato. Dopo averci rimuginato sopra la colse un pensiero, che le sembrò molto ragionevole e plausibile, ovvero che quello fosse solo un libro magico e interattivo per bambini, dove il lettore stesso potesse immaginare e scrivere a suo piacimento la storia. Questo avrebbe potuto spiegare perché l’avesse trovato in mezzo ai testi di Pozioni del signor Malfoy. Poteva benissimo essere un vecchio regalo fatto a Scorpius, che Malfoy aveva deciso di tenere per ricordo.

Poi si ricordò che Scorpius stesso aveva avuto in mano il libro senza dar segno di averlo mai visto prima. Certo poteva anche non ricordarselo, ma la sensazione spiacevole che lui sosteneva di aver provato nel tenerlo in mano, quella non sapeva come spiegarsela. Lei non la avvertiva. Anzi, quel libro le piaceva, non tanto per quello che vi era scritto, o che lei stessa poteva scriverci. Le piaceva accarezzarne la carta ingiallita e un po’ stracciata, sentirne quell’odore dolciastro che secondo lei sapeva di fiori appassiti; si stupì nel realizzare che le sarebbe piaciuto perfino dormirci accanto. Comprese che non sarebbe riuscita a separarsene.

Eppure il libro la rifiutava; rifiutava quel che lei aveva scritto. Fece per rovistare di nuovo dentro il baule, alla ricerca di una penna d’aquila e una boccetta d’inchiostro, ma la sua attenzione venne catturata nuovamente dal libro stesso, che cominciò a scriversi da solo.

Rose strabuzzò gli occhi. Prese il libro in mano mettendoselo a un palmo dal naso, incredula.

Non c’era che dire, il libro si stava veramente scrivendo da solo. Stava continuando la sua storia, riscrivendo quella che Rose aveva scelto per lui.

La ragazza avvicinò a sé la candela e cominciò a leggere a voce alta.

- L’uomo seduto sulla panchina all’ombra del faggio, di fronte la fontana, aveva lunghi capelli bruni e un’aria minacciosa, come da morto; anche da seduto si intuiva che fosse molto alto, e Mirage sapeva che la stava aspettando.

Rose aggrottò la fronte. Non aveva mai pensato a un personaggio del genere, né sarebbe mai riuscita a immaginarlo. Estrasse la bacchetta cercando di far Evanescere con un incantesimo quelle disordinate linee d’inchiostro dalla pagina, senza riuscirci. Allora prese la sua penna d’aquila, la intinse nell’inchiostro nero e continuò a scrivere.

L’uomo la fissava con insistenza, sembrava quasi che con una mano avesse appena fatto un cenno sul posto vuoto accanto a lui, come per invitarla ad avvicinarsi. Mirage era sospettosa, e decisamente intimorita, così preferì ignorare quegli occhi di carbone che

Rose si arrestò per intingere di nuovo la penna nell’inchiostro, con un gesto frettoloso, ma non appena il suo sguardo si posò nuovamente sulla pagina ebbe un sobbalzo per la sorpresa, e la penna le cadde di mano schizzando le lenzuola di nero. Rose prese nuovamente il libro tra le mani, scoprendo che un poco le tremavano, mentre si apprestava a ripetere ad alta voce le parole che il libro aveva autonomamente generato, sostituendole alle sue.

- Mirage era sospettosa, e decisamente intimorita, ma non riuscì a ignorare quegli occhi di carbone che la attrassero dolcemente, con un invito sussurrato appena, che le bisbigliava parole incomprensibili all’orecchio; tintinnavano come una poesia.

Non seppe resistere, e confortata dal seducente abbraccio di quei sussurri, si avvicinò a Lui. -

 

-

 

 

 

 

 

 

N/A

 • Di Terence Higgs magari qualcuno si ricorda, ne La Pietra Filosofale ha giocato veramente come Cercatore per i Serpeverde. Mi serviva giusto un signore a caso da piazzare accanto a Pansy, e lui era tra gli studenti canon quello il cui nome mi andava più a genio.

 • Anche Morag MacDougal è un personaggio della Rowling, io l’adoro e prima o poi la tirerò di nuovo fuori, magari in un’altra fanfiction.

 

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Capitolo 5
*** IV ***


IV

IV

 

 

 

Lui era Il Morto.

Glielo sussurrò all’orecchio. Fu allora che Hermione si sedette.

Serrò i pugni sulle ginocchia, pregando che Lui smettesse di guardarla, ma non lo fece.

C’era una fontana di fronte a loro, dove l’acqua scorreva senza intervalli in un pianto infinito. Lui le bisbigliò che in quella fontana scorrevano tutte le lacrime che erano state versate dall’inizio dei tempi fino ad allora, e lì l’acqua non avrebbe smesso mai di scorrere perché non sarebbe mai cessato il dolore sulla terra. Le rivelò che si diceva che bere quell’acqua rendesse felici. Le confessò che non era vero. Che gli uomini di solito inventano maschere interessanti per recitare meglio una tragedia.

La riconobbe subito, e sin dal principio si rivolse a lei chiamandola Direttrice. Lui sapeva. Lui vedeva tutto riflesso nei suoi occhi, o forse riflesso in quella fontana. Le propose di alzarsi e specchiarsi in quelle lacrime. Hermione scoppiò a piangere, ma rimase seduta.

- Come ti chiamano? – chiese lei.

Lui mormorò che lo chiamavano Lester Paul Doghorns. Bisbigliando, le disse che la odiava.

- Mi dispiace – singhiozzò Hermione. – Non so cosa ti ho fatto. Mi dispiace se ti ho ferito. –

Lester rimase immobile mentre la fissava. La testa era leggermente reclinata di lato, come se fosse pensieroso. Ma più che pensieroso, pensò Hermione, sembrava che l’avessero sgozzato e che ora il capo gli ricadesse pesantemente sulla spalla.

Le chiese se conoscesse la morte. Ma Hermione scosse la testa, e Lui ancora una volta la invitò a specchiarsi nelle acque opache della fontana.

- Non posso – rispose Hermione. Con la manica del maglione si strofinò gli occhi per asciugare le lacrime, ma dovette smettere quando si accorse che in quel modo si tirava via la pelle.

Lester le fece notare che andava perdendo pezzi; a quella parola dagli occhi di Hermione sgorgarono nuove lacrime, e la fontana ruggì, mentre il vento accompagnava quel lamento.

Il resto del mondo era sparito. Tutto era avvolto in un magnifico nulla.

Lester prese le mani di Hermione, evitando che si tirasse via altra pelle. Asciugò Lui le sue lacrime, mentre le domandava se sapeva già cosa avrebbe visto nella fontana.

Hermione lo allontanò bruscamente. Lester ripeté la domanda, cattivo.

- Lo so – ammise lei, infine, senza più piangere. – Lo so. Va bene? Lo so. –

Allora Lui argomentò ragionevolmente che non aveva senso avere paura di guardare. Disse che non sarebbe stata libera finché non avesse smesso di evitare quelle acque.

Disse che in quella fontana c’era una risposta.

Disse che era l’unica cosa vera.

Disse che non avrebbe fatto male.

E disse che, se mai avesse dovuto farne, sarebbe stato l’unico male di cui sarebbe mai voluta morire.

Le chiese se aveva paura di morire.

- No – disse Hermione. – Non ne ho mai avuta. –

Lester rispose che Lui invece ne aveva ancora.

Hermione ebbe l’impressione che tutto ruotasse attorno a Lui. Pensò che tutto perdesse di significato senza di Lui, compresi i fiori appassiti, la fontana e gli occhi grigi.

Hermione si sentì improvvisamente sola. La consapevolezza di quella sua condizione la investì tutto a un tratto come una potente scarica elettrica, pervadendola da cima a fondo e annullando qualunque stralcio di forma o materia fosse rimasto in lei. Si sentì vuota come se avesse vomitato fuori tutti gli organi e le viscere. Stava davvero scomparendo.

- Aiutami – lo implorò, sperando che Lui celasse un briciolo di compassione dietro quegli occhi troppo neri.

Lester rispose sottovoce che non voleva.

- Non so a chi altri rivolgermi – supplicò, ma Lui rimase impassibile.

Le ripeté che nelle lacrime di quella fontana c’era l’unica cosa vera. Le disse che piangere per quell’unica vera ragione l’avrebbe salvata.

- Non piango che per me stessa – disse lei. – Non ho nient’altro che mi appartenga. –

Le predisse che alla fine di lei sarebbero rimasti solo pezzi. Hermione avvertì quel presagio negli ululati del vento e nel respiro delle foglie.

Non guardava Lester in viso, ma sapeva che Lui la stava osservando. Da quel momento in poi avrebbe sentito sempre il suo sguardo su di sé, e cominciò a chiedersi se quella morsa che la attanagliava sempre non fosse la mano del Morto che con una carezza la spingeva sempre un po’ più vicino all’orlo del baratro.

Poi Lester sparì. Rimasta sola, Hermione sentì un bisogno fortissimo di tornare a casa, ma una figura sottile tra la nebbia, poco più in là del faggio, catturò ogni suo pensiero.

Era una donna giovane e alta, e Hermione pensò che fosse molto bella. Indossava un vestito bianco e teneva le braccia strette al petto, quasi temesse che il cuore potesse scivolarle via dalla gabbia toracica. Quando cominciò ad avvicinarsi, silenziosa e leggera come una fata, Hermione notò che aveva capelli corvini e occhi neri, ma non come quelli ingannevoli di Lester; erano profondi e limpidi, e mascheravano alla perfezione il loro segreto.

Aveva un viso dai tratti duri e affilati, ma quando parlò la voce di Karina Spysonn sembrò come di velluto.

- Buongiorno. Posso sedermi? –

Non accennò a muoversi fino a che Hermione non avesse dato un suo consenso.

- Arrivi tardi – ringhiò Hermione. – Il Morto è andato via. –

Karina sembrava disorientata, ma si riprese quasi subito. – Come scusa? –

Hermione sbuffò. – Lester Paul Doghorns. Se n’è andato proprio adesso. Se stai cercando Lui, è meglio che tu vada altrove. –

- Oh – Karina non trovò null’altro da dire. Stringeva ancora le braccia al cuore, Hermione la trovò una pratica terribile. – Oh – ripeté di nuovo Karina, ma stavolta sembrava un po’ più sicura. – No, no, non cercavo lui. Stavo cercando te. –

Hermione inarcò un sopracciglio, guardando dubbiosa verso di lei. – Ma davvero? – sembrava ostile e la scrutava con sospetto, nel suo tono c’erano sarcasmo e scherno. Poi il suo sguardo si addolcì impercettibilmente, qualcosa in Karina dovette allentare un poco la sua ritrosia. – Di solito non mi cerca nessuno – spiegò, chiarendo il motivo della sua scortesia.

Karina sospirò, comprensiva. – Sì, è una cosa che posso capire – disse. – Succedeva anche a me prima. –

- Prima? –

- Sì. Poi è cambiato. –

Hermione sembrò riflettere su qualcosa, poi si fece un po’ di lato per lasciare spazio a Karina per sedersi. – Come? –

Karina ringraziò e si sedette. Sembrava indecisa su cosa dire. – Non sono sicura che tu possa capire… - mormorò, quasi a se stessa.

- Non sono stupida – saltò subito alle difese Hermione, mentre l’altra si affrettava a negare dolcemente.

- Oh, non intendevo questo – aveva un bel sorriso, forse perché non lo usava mai. Hermione sapeva che non lo usava mai. – Ti va di fare due passi? – propose.

Hermione guardò alle sue spalle. – Oltre la nebbia? – obiettò. – E’ tutto grigio. –

Karina stese le labbra in un amaro sorriso. – E’ sempre stato tutto grigio. –

Hermione parve decidersi che le andava bene come risposta, anzi le sembrava perfino ragionevole. Si alzò e attese che l’altra lo facesse a sua volta. Poi si incamminarono nel grigio.

- Sai chi sono io? – chiese Karina, mentre Hermione camminava con una strana andatura, con le mani intrecciate dietro la schiena e a piccoli balzi, come una bambina che gioca a saltare le pozzanghere.

Hermione la guardò e sorrise. – Tu sei una di quelle persone che vengono fuori quando finisce l’inverno. Come i bucaneve – disse.

Karina assottigliò gli occhi, portandosi una ciocca di capelli neri dietro l’orecchio. Sembrava perplessa e divertita, e Hermione provò l’istinto di sorridere a sua volta; era da tanto che non faceva sorridere qualcuno, e la cosa le mise addosso una strana euforia.

- Sai, si dice che una volta cacciati dall’Eden, Adamo ed Eva siano stati mandati in un luogo buio e freddo, dove regnava sempre un gelido inverno. Allora Eva si gettò a terra, disperandosi per la sua condizione di condannata a quel gelo perenne, ma un angelo le venne vicino e, dopo aver raccolto una manciata di fiocchi di neve, ci soffiò sopra. Non appena questi si posarono sul terreno, si trasformarono in dei bellissimi bucaneve – spiegò. – Sono simbolo di speranza. –

Karina continuò a camminare. – Non lo sapevo – disse. – E io rappresento questo per te? –

Hermione si strinse nelle spalle con indifferenza.

Karina si accigliò. – Tu lo sei stata, per me. Per un po’, quando ne avevo bisogno. –

Sembrava che volesse attirare l’attenzione di Hermione, ma quella continuava a camminare con lo sguardo basso sulle punte delle sue scarpe, senza il minimo accenno, ma qualcosa in lei lasciava pensare che avesse voglia di sentire il resto della storia. Così Karina continuò.

- Quello dopo la fine della scuola per me è stato un periodo molto brutto – cominciò. – Non mi era rimasto più nessuno. Già prima non avevo molti amici, e quei pochi che avevo o non potevo più vederli o mi avevano voltato le spalle. La gente non credeva che fosse conveniente essermi vicina. Pensa che anche la mia migliore amica per un po’ dovette stare lontana da me, a sua madre non andava giù l’idea che gli altri ci vedessero in giro insieme. Diceva che le avrebbe rovinato la reputazione. –

- Devi aver fatto qualcosa di molto brutto, allora, perché la gente pensasse questo di te – osservò Hermione, recuperando in un soffio tutta la sua naturale curiosità.

Karina fece una smorfia. – Io non la vedevo così. Le persone hanno sempre pensato male di quelli come me, è una cosa a cui si abitua. Io volevo solo quello che vogliono tutti. –

- Essere felice? – suggerì l’altra.

- Salvarmi – sospirò Karina. – Ne avevamo tutti un gran bisogno. –

La nebbia si diradò. Raggiunsero un prato sospeso nel vuoto perché a guardare troppo oltre non si vedeva nulla se non un buio tremendo, che sembrava voler ingurgitare tutto. Quel prato era una piccola oasi intatta dove soffiava una brezza piacevole e i papaveri avevano il colore del sangue. Forse grondavano sangue.

- Continua – la esortò Hermione.

- I compagni di scuola non mi salutavano più, neanche quelli a cui non avevo fatto nulla. Avevo difficoltà a trovare lavoro. Non era una cosa a cui avevo mai pensato, perché mi è sempre stato fatto credere che avrei sposato un uomo ricco e che non ne avrei mai avuto bisogno. Solo che l’uomo ricco in questione, quello che avevo sempre creduto che avrei sposato, era considerato peggio di me. Avevo bisogno di qualcuno che mi risollevasse dalla mia condizione, non che mi ci facesse annegare dentro. Ho dovuto accantonare l’unico appiglio che avevo. –

- Io non l’avrei mai fatto – specificò Hermione, saccente.

Karina sembrò trovare la cosa divertente. – Ah, sì, ce ne siamo accorti, dopo. Sei stata tu ad aiutare quell’uomo. In realtà allora era solo un ragazzo, e anche lui non aveva nessuno. –

Hermione si sedette a gambe incrociate sul prato. Raccolse un papavero, se lo poggiò in grembo ma questo le macchiò il vestito di rosso. Karina si mise accanto a lei.

- Accompagnavo questo amico in un momento difficile, contro la volontà di mia madre, il giorno in cui ci siamo incontrate – continuò. – Allora tu hai fatto la cosa più carina che qualcuno avesse fatto per me in quegli anni. –

Hermione sembrava perplessa. – Vale a dire? –

- Mi hai salutato. –

- Ti ho salutato. Tutto qui? –

- I tuoi amici non lo facevano. Era strano che l’avessi fatto proprio tu. –

- Perché? –

- Non ti ho mai trattato molto bene. Mettevo sempre cattive voci in giro sul tuo conto, anche se non erano vere. Era il modo in cui mi divertivo. Era il solo modo in cui riuscivo a fare in modo che gli altro mi rispettassero. -

- E funzionava? –

- La maggior parte delle volte sì, ma solo con le persone sbagliate. Mi sono circondata di avvoltoi travestiti da buoni amici. –

- Devi essere stata una persona molto sola. – La macchia scarlatta di sangue si allargò sul vestito di Hermione. Il buio, oltre i papaveri, oltre il soffio del vento, avanzava. – Continua. -

- Accompagnavo questo amico in un momento difficile il giorno in cui ci siamo incontrate e tu mi hai salutato. Eravamo fuori dall’aula giudiziaria. Magari non lo ricordi più, ma gli sono state mosse tante accuse i primi tempi, alcune vere e molte ingiuste. Tu invece eri un avvocato, e avevi fama di essere bravissima. E’ stato così che l’hai aiutato. –

Il dito di Hermione si macchiò di sangue non appena spezzò lo stelo di un altro papavero. Lei ritrasse la mano come se l’avesse punta.

Il buio avanzava, e divorava ogni cosa.

- Non abbiamo molto tempo – la esortò Hermione.

- Mi piacerebbe poter tornare a parlare con te, altre volte. Se a te va bene – aggiunse Karina.

- Convincimi con questa storia. Continua. –

Karina la guardò d’uno sguardo che era triste e dolce insieme. La guardava come la guardavano le persone che avevano pietà di lei.

- Tu non ricordi cosa hai fatto, vero? Il motivo per cui sei così. – Continuò a guadarla speranzosa, in attesa di una risposta, di un cenno, di un tentennamento. Sarebbe stato sufficiente.

Hermione continuò solo a raccogliere papaveri.

- Te l’abbiamo detto tante di quelle volte – aggiunse allora l’altra. – Ma tu non ascolti. Non accetti. Se solo una volta, se almeno per questa volta fossi tu, a dirmi cos’hai fatto, piuttosto che lasciare che siano altri a volerti convincere di un’idea… -

Hermione ammucchiò altri papaveri sul suo grembo e sul suo vestito ora rosso. Alzò gli occhi scuri in quelli ancora più profondi di Karina.

- Ho l’anima a pezzi – mormorò, e le lacrime giunsero immediatamente a pungerle gli occhi, aggiungendo altre lacrime alle lacrime, altro sangue al sangue. – Prima o poi il buio mangerà anche me. –

Karina le accarezzò leggermente il braccio. Non seppe cosa fare.

- Sembri molto giovane – le sussurrò allora. – Molto più giovane di come ti ricordo io. –

Hermione tirò su col naso. – Avere paura del buio fa tornare bambini. –

Il buio divorò ogni cosa. Inglobava il cielo nella sua nera gola di morte, eruttava pianti e urla che si perdevano nel vento, e poi divorava anche quello, e i papaveri, e il prato, e l’erba, e ogni cosa lì attorno. Karina prese le mani di Hermione.

- Forse non te l’ho mai detto, ma per un po’, tempo fa, ho pensato che saremmo potute essere amiche – le rivelò in fretta.

Hermione strinse quelle mani, le lacrime adesso le solcavano le guance. Il buio avrebbe fatto fuori anche quelle.

- Passavamo del tempo insieme, ogni tanto – continuò Karina. – Una volta, per il tuo compleanno, ti ho regalato un diario. Era orribile, non avevo neanche intenzione di farti un regalo, mi è solo capitato tra le mani in libreria e ho pensato di regalartelo. Avevo messo dentro un biglietto con un augurio, era abbastanza ridicolo, in realtà, non sembrava neanche un biglietto di buon compleanno. –

Strinse le mani di Hermione con più forza. Il buio spostò l’aria e il vento, e tutto si ridusse a una girandola di azzurro e rosso, come il cielo e il sangue. Al centro del vortice, Karina si rannicchiò sempre più vicina a Hermione. Dovette alzare la voce, quasi urlare, per sovrastare le tenebre e il vento.

- C’era scritto qualcosa riguardo allo riscrivere questa storia, perché forse, insieme, la si poteva rendere migliore – gridò. – Puoi trovare un finale diverso, dimmi cosa hai fatto, tanto non puoi più farci nulla. Ti puoi ancora salvare, se accetti quello che sei, devi solo uscire da questa fottuta ragnatela dentro la tua testa! –

Lo urlò così forte da riempire ogni cosa, e poi il buio mangiò tutto, con ingordigia e ferocia, Hermione sentì che la divorava, la faceva a brandelli, strinse la mano di Karina più forte, ma il buio divorò anche quella, divorò i papaveri. Divorò ogni cosa.

 

-

 

Si risvegliò nel letto della sua camera, nella casa dei suoi genitori, a Melbourne. Tra le dita stringeva ancora un papavero rosso.

Era uno di quegli orari indecifrabili, non c’erano orologi in quella casa e poteva essere piena mattina o primo pomeriggio o solo una notte in cui il sole avesse deciso di sorgere ugualmente.

Si alzò. Aveva le ossa doloranti e quel papavero ancora tra le dita. Lo posò sul comodino accanto a un bicchiere d’acqua, poi scese in cucina.

Doveva essere ora di pranzo. I suoi genitori erano seduti a tavola e non l’avevano aspettata per mangiare. Non avevano neanche apparecchiato per tre, mangiavano il loro tacchino commentando il notiziario senza degnarla d’uno sguardo.

- Vuol dire che farò da sola – borbottò Hermione, andando verso la cucina.

Rovistò nella credenza, negli sportelli, nei cassetti, nella lavastoviglie. Era un brutto vizio quello che aveva sua madre, di spostare sempre gli oggetti, perfino i piatti. Non li trovava da nessuna parte.

- Mamma! – urlò Hermione dalla cucina, gridando forte per farsi sentire. – Dove hai messo i piatti puliti? –

Nessuno rispose. Hermione chiamò ancora, sporse la testa per sbirciare oltre lo stipite e vide suo padre che versava del vino rosso nel bicchiere di sua madre. Brindarono a qualcosa e sembrarono felici.

Hermione non riusciva a credere che la odiassero a quel punto, ma un po’ lì capiva. Tornò in cucina e si sedette a tavola, dopotutto non aveva così fame.

- Oggi ho incontrato una persona – disse la ragazza. Sua madre la fissò dritto negli occhi, aveva un’espressione incolore, ma a Hermione la cosa parve sensazionale comunque. Poi si rese conto che si era seduta proprio davanti alla tv e le impediva di guardare, così si fece un po’ di lato per lasciare libera la visuale. Sua madre non diede segno di aver apprezzato il gesto.

- Mi passi l’insalata, Monica? – disse suo padre; era di buon umore, quel giorno.

Sua madre sorrise e gli passò la ciotola bianca vicino al suo piatto. Continuarono a parlare di politica, suo padre se la prendeva quasi con il giornalista per il servizio che stavano trasmettendo al momento.

Non volevano parlarle. Hermione ne rimase delusa, ma poteva prendersela con loro in qualche modo?

- Credo che… andrò a prendere un po’ d’aria – li informò allora Hermione, ma di nuovo loro fecero finta di nulla, così lei si alzò, rimise a posto la sedia, prese il cappotto dall’attaccapanni all’ingresso e uscì.

Si fermò sui gradini di fronte la porta di casa sua, e lì scoppiò a singhiozzare. La gente Dipinta non si accorgeva di lei.

Quando sentì una mano poggiarsi sulla sua spalla, non ebbe bisogno di allontanare le mani dal viso per sapere che chi si stava sedendo di fianco a lei era Adam Lyrcoof. Ne riconobbe il tocco gentile, un’accortezza che non ci si sarebbe aspettati da quel ragazzo scostante, e quasi si sentì sollevata nel ritrovarlo lì.

- Problemi in casa? – chiese Adam. Non smetteva di guardarla, non avrebbe più smesso.

Hermione, per educazione, si asciugò le lacrime dal volto e si girò a guardarlo negli occhi. Annuì.

- Capita a tutti – commentò Adam. – A me succedeva sempre. –

- Sul serio? – Hermione sembrava più bendisposta dell’ultima volta. – Come hai fatto a superarli? –

- Mi hai aiutato tu – rispose semplicemente.

Erano vicini abbastanza perché Hermione potesse sentire il suo respiro. Le sarebbe bastato spostarsi di un soffio, anche solo un accenno. Non sarebbe occorso altro perché lui la baciasse.

- Credo di stare un po’ più male, rispetto all’ultima volta che ci siamo visti – gli confessò. – Va sempre peggio. I miei genitori non vogliono parlarmi, l’ho capito anche da come mi guardava Lester Paul Doghorns che tutto sta per crollare. –

- Lester chi? – chiese Adam, un po’ confuso.

- E’ tutto già scritto. Sta per finire adesso. Io sto per crollare adesso. Cosa credi che rimarrà di me, dopo? –

Adam non sembrava in grado di rispondere. La fissò scuotendo la testa in un diniego, che poteva voler dire che non ne aveva idea, o che non voleva pensarci, o che non lo riteneva possibile.

Qualunque cosa volesse dire, non ebbe grande importanza per quel che successe dopo. Hermione fu rapida nel poggiargli una mano sulla guancia e baciarlo, e poi lasciare che la sua mano calasse sconfitta sulla spalla di lui. Rimase così aggrappata ad Adam, mentre si baciavano, e lui non fece nulla per abbracciarla o stringerla a sua volta. Fu per generare in lui una sorta di risposta che evidentemente prese a baciarlo con più foga, strofinando la lingua contro quella di Adam con una voluttuosità che lui non le riconosceva, o forse non lo ricordava e basta, perché erano passati molti anni dall’ultima volta che l’aveva baciata per davvero, e il tempo altera i ricordi.

Quando, rassegnata, Hermione si ritrasse da lui, Adam non smise ancora di guardarla, con quegli occhi così grigi, di certo diversi da quelli ingannevoli di Lester, differenti ancora da quelli limpidi di Karina, solo tristemente cupi; ed era in quelli che Hermione più si riconosceva.

- Quando ti stancherai? – le chiese Adam in un sussurro. – Prima o poi dovrai dire basta. Vedi, è tutto qui, dentro la tua testa. C’è questo groviglio assurdo di finzioni che ti sei costruita con cura per fuggire da te stessa, ma c’è anche la verità… è tutto qui, davvero. Dovresti solo tirarlo fuori. –

Hermione si rabbuiò. – Cercate tutti di dirmi la stessa cosa. Ma non capite che non posso, io non posso… -

- Perché no? – sbottò Adam. – Cosa ti serve? Che cosa possiamo fare ancora per convincerti che… -

- Basterebbe una ragione – lo interruppe Hermione. – Una sola. Un motivo per cui tornare. –

Adam tacque un istante. – Beh, ce ne sono diversi… -

- Tu ci saresti? - intervenne ancora Hermione, prendendolo in contropiede. – Staresti ad aspettarmi? –

Quasi per ripagare alla freddezza di prima, quando aveva resistito passivamente al suo bacio, Adam fece per prenderle la mano, ma lei la ritrasse in fretta squadrandolo esigente e cattiva, in attesa della sua risposta.

- Sarò accanto a te quando ti sveglierai – le disse Adam.

- E dopo? – esortò Hermione.

- Dopo cosa? –

- Dopo. Dopo che mi sarò svegliata, che mi avrai fatto i complimenti, che mi avrai dimessa e riportata a casa. Dopo. -

Adam la guardò con occhi indecifrabili. Sembrava volesse dirle qualcosa, qualcosa che Hermione intuiva già.

- Potremo vederci ogni volta che lo vorrai – rispose. Non sapeva neanche se era tutta la verità.

- Vederci – ripeté Hermione scettica. – Vederci – scandì ancora, e questa volta il suo tono aveva una cadenza più cattiva.

- Tu ce l’hai una famiglia – le ricordò Adam, mettendo da parte l’accondiscendenza di prima.

- I miei genitori non vogliono parlare con me. Forse non vogliono neanche ricordare di avere una figlia. –

- Hai una famiglia oltre i tuoi genitori. –

- E allora perché sono qui? – gli urlò contro Hermione. – Perché dovrebbe essere diverso, dopo? –

Adam rimase inerte.

- Lo vedi? Tu non sai niente! – lo accusò. Aveva di nuovo gli occhi lucidi. Da qualche parte, sotto il faggio, la fontana dovette ruggire più forte. – E mi fai stare male – aggiunse in un singhiozzo.

Adam la guardò piangere per diversi minuti. Lei no si lasciava consolare né toccare, ogni carezza la percepiva come una coltellata.

- Hai delle persone a cui tieni, e per me è lo stesso. Stare insieme ti farebbe solo stare male,  abbiamo passato quell’età in cui si può mandare tutto a puttane. -

Hermione si morse le labbra a quelle parole. – Abbiamo passato anche l’età in cui si può essere felici?-

Lo guardava con una strana speranza negli occhi. Sapeva di supplica, negli occhi nascondeva la litania di una vecchia preghiera.

Salvami.

Per favore.

- Mezzosangue… -

- Non chiamarmi così! – strillò Hermione, quasi in preda al panico, mentre scattava a sedere. Teneva i pugni serrati. – Non so cosa significhi, non usare questo nome! –

- Sai benissimo cosa significa, significa che sei per metà babbana e per metà una strega – ringhiò Adam, esasperato da quella follia. – Non fingere… -

- Non so di cosa parli! – lo interruppe Hermione. – Non so cosa intenda tu per “strega”, io non ho fatto niente!

Ti prego per favore salvami.

- Sai benissimo cos’hai fatto, invece – insistette lui. Si avvicinò di due passi per fronteggiarla, lei indietreggiò d’istinto, alla fine lui con uno scatto e un po’ di forza la prese per le spalle, abbassando il capo all’altezza dei suoi occhi.

- Ragiona, ammettilo, e torna a casa. –

Ti prego.

- Mi dispiace – sussurrò Hermione, con gli occhi scuri offuscati dal pianto e la testa bassa per non guardare Adam in viso. Fu con lentezza che alzò lo sguardo, dopo alcuni secondi. Lui la scuoteva ancora per le spalle, le faceva male. – Io non ho fatto niente. Non so chi sei, non so di cosa parli. –

- Non mentire! – urlò Adam. – Devi uscirne, hai capito? La devi smettere di stare così! –

- Non ho fatto niente. –

Per favore.

- Accettare è l’unico modo che hai per salvarti. –

- Uccidimi -  gli bisbigliò allora, in un ultimo tentativo disperato.

Lui, curiosamente, sogghignò. – Lo sai che non posso. Sta tutto qui, il punto. –

- E allora esci fuori dalla mia testa! – gridò disperata, liberandosi con uno strattone dalla sua presa. Lui fu costretto a mollare per non farle altro male.

- Io…  - riprese Hermione, sul punto di continuare la frase, ma qualcosa la bloccò. Si portò le mani alla gola, come se le facesse male o non potesse parlare. Guardò Adam con rabbia, come se la colpa fosse sua. – Io… - tentò di nuovo, ma di nuovo si fermò.

Lui aggrottò la fronte, non capendo cosa le prendesse.

- Smettila! – gli urlò allora Hermione.

- Non sto facendo niente – obiettò Adam, studiandola con interesse.

- Sì, invece, mi stai facendo qualcosa! – gridò di rimando; la voce le morì in gola sull’ultima sillaba. – Sono io la Direttrice, tu sei solo un Forestiero, non puoi decidere! –

- Non ho la più pallida idea di cosa tu stia blaterando, ma qualunque cosa sia ti consiglio di calmarti – cercò di ribattere ragionevolmente lui, allungando un braccio per toccarla. Lei si fece indietro e quasi non inciampò sui suoi stessi passi.

- Io… - balbettò di nuovo, sforzandosi di portare a termine la frase. Niente. – Smettila di controllarmi – sputò allora d’un soffio, ogni sillaba le costava una fatica immensa.

- Te l’ho detto non sto facen… -

- Via! – urlò Hermione, quasi isterica e incredula. Le sue mani stringevano ancora la sua gola. – Va’ via, subito! –

- Senti, dovresti… -

- Vattene via! Vattene via adesso, voglio stare da sola! – ripeté ancora. Lo guardò supplichevole. – Vai via. –

Lui aveva ancora un braccio teso verso di lei. Rimase immobile a fissarla con i suoi incredibili occhi grigi, poi gettò il braccio lungo il fianco. Si arrese.

Hermione si gettò a sedere sui gradini, rannicchiandosi su se stessa. Abbassò lo sguardo, lo nascose tra le braccia, pianse. Quando tornò a guardare di fronte a sé, Adam Lyrcoof non c’era già più.

 

-

 

Rose chiuse il libro.

Era molto tardi e lei aveva sonno, così prese la candela e dalla scrivania la spostò sul comodino. Nascose il quaderno sotto un romanzo babbano di Jane Austen, si sfilò la gonna e la camicia e si infilò la maglietta grigia del pigiama. Qualcuno bussò alla sua porta. Chi diavolo era?

- Un attimo! – disse, con una certa stizza. Si infilò velocemente i pantaloncini e corse verso la porta, rischiando di inciampare sulle scarpe che aveva mollato in mezzo alla camera. Aprì d’uno spiraglio la porta.

- Scorpius – sospirò. Lui aveva una faccia seria e non sembrava mostrare alcun accenno di sonno.

- Sei occupata? – domandò cortesemente il ragazzo, senza accennare a muovere un passo.

- Se dormire è un’occupazione sì, sono terribilmente impegnata – borbottò scocciata lei. Poi però aprì ugualmente del tutto la porta. – Entra – disse infine, facendosi di lato per farlo passare e richiudere senza far rumore. Scorpius mosse qualche passo nella stanza, lo sguardo che vagava ora sui vestiti abbandonati sul letto, ora sul baule che traboccava di libri e indumenti, ora sulla scrivania che recava le tracce di alcune gocce di cera. Si domandò se fosse abitudine di Rose rimanere sveglia a leggere o scrivere fino a notte fonda.

Inizialmente lei fu quasi un po’ in imbarazzo per il disordine, soprattutto perché sapeva che Scorpius era una persona ordinata, sempre nei limiti imposti dalla sua appartenenza al genere maschile, così tolse in fretta i vestiti dal letto e li adagiò su una sedia. Scorpius si sedette sul letto senza troppi complimenti. Lei, alla fine, fece lo stesso, raggiungendolo e sedendosi di fronte a lui a gambe incrociate. Era pur sempre il suo miglior amico, non c’era bisogno di chiedere scusa per essere una disordinata patologica.

- Mi sembrava che non stessi tanto bene, prima – cominciò lui. Guardandolo meglio, Rose notò che somigliava in maniera incredibile a suo padre. Pensò che lei avrebbe voluto somigliare a Hermione anche solo la metà di quanto Scorpius somigliava a Draco, e invece era una strega mingherlina dagli occhi chiari e i capelli rossi, disordinata, festaiola e per giunta Serpeverde. Da sua madre sembrava aver ereditato solo un amore sconsiderato per le parole scritte e i libri.

- Mal di stomaco – inventò di sana pianta, perché non aveva voglia di mettersi a dare spiegazioni. Lui dovette percepirlo subito, e Rose ebbe l’impressione che la cosa un po’ gli dispiacesse; evidentemente, chiedere spiegazioni era invece l’esatto motivo che l’aveva spinto a cercarla.

- E’ vero che stai con Marlene Higgs? – chiese Rose di punto in bianco, un po’ perché voleva cambiare argomento, un po’ perché la curiosità la divorava.

Lui sembrò stupito, ma non lo diede molto a vedere. – Come mai me lo chiedi? –

- Beh, mia cugina Molly, sai, quella del quarto, con i capelli rossi, cioè, lo so che praticamente quasi tutte le mie cugine hanno i capelli rossi, comunque lei… -

- Voi femmine siete così pettegole – la interruppe disgustato Scorpius.

- Io non sono pettegola – si difese Rose. Però lui non aveva negato, cattivo segno, ma non aveva neanche confermato, il che era un bene, o no?

Non parlava mai con Scorpius di ragazze. Sapeva che ne aveva avute diverse, e anche parecchie, ma per quello non c’era bisogno che glielo confidasse lui, bastava fermarsi nel bagno delle ragazze qualche minuto nel cambio tra una lezione e l’altra e subito si faceva una cultura su chi si sbatteva chi nel castello. Non sempre era un bene, soprattutto se, ad esempio, veniva a sapere che la sua compagna di dormitorio si era fatta suo cugino, quel cugino che considerava un po’ come un fratello. Il fatto di per sé non avrebbe avuto nulla di traumatico, se solo non fosse stata costretta ad apprendere tutta una serie di dettagli che avrebbe preferito di gran lunga ignorare, in modo da non doversi sentire in imbarazzo alla presenza di Al per i due giorni successivi.

Con Scorpius era diverso. Non era esattamente gelosia, la sua, era solo che sentiva di poter reclamare su di lui alcuni diritti che non le andava di condividere con altre, quali, ad esempio, poterlo abbracciare senza motivo quando le pareva, accudirlo quando finiva in Infermeria per una caduta dalla scopa, poterlo prendere in giro con Albus facendolo arrabbiare, bere dal suo bicchiere, all’occorrenza scompigliargli i capelli, che era una cosa che lo mandava davvero su tutte le furie, e tante altre minuscole cose che non avrebbe sopportato di veder fare ad altre ragazze.

E quella no, non era assolutamente gelosia. Era… qualcos’altro, che al momento non avrebbe saputo con esattezza come definire, ma non era essere gelosa, lei non era gelosa di Scorpius.

- Quello che è venuto fuori a tavola prima, di tua madre e di Lestrange… non ne sapevo davvero nulla – insistette Scorpius, accantonando l’argomento Marlene, che Rose quasi preferiva a quello appena preso. – Il che è curioso, considerato che lui era lo zio di mio padre – aggiunse.

- Ed è ancora più curioso considerato che c’era anche tuo padre in quell’aula, quel giorno – aggiunse Rose. – Lestrange gli aveva rivolto parecchie accuse, credo, comunque alla fine del processo è risultato innocente, soprattutto dopo che suo zio ha cominciato a ribellarsi e a minacciare tutti di morte – continuò. Non aveva voglia di parlarne, però le sembrava giusto specificarlo.

- Questo lo so – disse Scorpius. – Quello che non sapevo è che mio padre avesse assunto come avvocato tua madre. –

Rose fece spallucce. – Io l’ho sentito dire a mio zio Harry. –

Calò il silenzio. Si fissarono per diversi istanti, mentre la fiamma della candela cominciava a languire.

- Sai… - Rose fu incapace di continuare a reggere lo sguardo, mentre parlava. – Sapere che tua madre si è suicidata perché non era felice credo che sia una delle cose più brutte che possano capitare a un figlio – mormorò.

Quando provò ad alzare lo sguardo trovò che Scorpius la guardava, non sembrava a disagio, lui. Questo le diede il coraggio di continuare.

- Come dire che noi non eravamo abbastanza per renderla felice. Tutta la sua vita era questa, certo c’era il suo lavoro, e devo ammettere che l’uccisione di Lestrange le ha causato non pochi problemi, intanto per la sua carriera, e poi qualcosa è cambiato in lei, dopo… Ma per tutto il resto eravamo solo noi. Papà, Hugo e io. Era il compleanno di mio fratello. Era stata una bella festa. E io non ho mai capito niente, ho sempre pensato che andasse tutto bene tra di noi, anche quando era distante, fredda, mi dicevo solo che era stanca, lei era sempre stanca, o stressata, ma era fatta così, non c’era nulla di strano, no? –

Aveva abbassato di nuovo lo sguardo. Scorpius per un attimo temette che avesse gli occhi lucidi, così le passò con cautela una mano tra i suoi lunghi capelli rossi, e poi sulla guancia, costringendola a guardarlo. Un po’ lo sorprese vedere che Rose non piangeva affatto, anzi aveva uno sguardo ferreo, e la sua voce non era per nulla incrinata.

- Hai idea di cosa significhi sapere che tua madre abbia preferito uccidersi piuttosto che pensare che c’ero io, c’era sua figlia, e che questo sarebbe dovuto essere un motivo sufficiente per non ingoiare quelle pillole? –

Era incredibilmente ferma, e aveva una durezza insostenibile nella voce e nello sguardo. Sembrava più arrabbiata che triste. Non per questo le sue parole fecero stringere di meno le viscere a Scorpius, che continuò ad accarezzarle il viso. Fu un momento strano, un po’ surreale, uno di quegli istanti che Albus avrebbe riassunto con un “e adesso che accidenti sta succedendo?”, solo che era perfettamente chiaro cosa stava succedendo, e Rose ritenne più saggio riscuotersi e scostarsi prima che Scorpius si avvicinasse di più.

Lui allontanò la mano in fretta, e ancora una volta non sembrò imbarazzato. Rose un po’ lo invidiò per questo.

- Senti, se vuoi io posso… - cominciò lui, ma Rose lo precedette.

- Rimani qui a farmi compagnia? – domandò. – Solo per stanotte. –

Rimasero svegli fino a quando non si consumò la candela. Poi, nel buio rassicurante, scivolarono entrambi sotto le coperte, e Rose si sentì serena quando, osservando con occhi spalancati il soffitto, poté trovare conforto nello stringere la mano di Scorpius sotto le lenzuola.

Le sembrò una cosa tremendamente giusta e naturale da fare, senza ripensamenti, senza ulteriori imbarazzi, perché si trattava del suo migliore amico e non c’era nulla di imbarazzante nel volere tanto bene a una persona. Continuò a ripeterselo anche mentre si sdraiava su un fianco, ritrovandosi faccia a faccia con Scorpius, e anche se non poteva esserne sicura in quel buio sapeva che lui non aveva chiuso gli occhi, ma la stava osservando. Ne ebbe conferma dopo, quando Scorpius le strinse un braccio attorno alla schiena, e fu una cosa naturale, naturalissima, cadere nel sonno abbracciata a lui, naturale come respirare, come morire, come vedere i propri sogni infrangersi e ritrovare nei suoi incubi quella madre che non l’aveva amata abbastanza per sopravvivere.

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