Red Eyes.

di Black Calipso
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Blood. ***
Capitolo 2: *** Charlotte. ***
Capitolo 3: *** Red hair, blue eyes. ***
Capitolo 4: *** Truth. ***
Capitolo 5: *** Waiting. ***
Capitolo 6: *** Alone (?). ***
Capitolo 7: *** Love (?). ***
Capitolo 8: *** Oops, i did it again. ***
Capitolo 9: *** My fucking brother Brian. ***
Capitolo 10: *** Guilty. ***
Capitolo 11: *** Killer. ***
Capitolo 12: *** I love you. ***
Capitolo 13: *** Blood x2. ***
Capitolo 14: *** The End. ***



Capitolo 1
*** Blood. ***


Non trovo le parole per introdurvi questo mio racconto.
Ci tengo solo a precisare che il nome del protagonista è dedicato al protagonista di "Edward mani di forbice".
Pubblicherò nuovi capitoli più assiduamente possibile, tempo permettendo.
In alcuni metterò anche una piccola introduzione, per interagire con voi lettori, rispondere a qualche vostra domanda ecc.

Buona lettura,
Black.

Ps. Spero di ricevere anche molte vostre recensioni, mi fa molto piacere leggere il vostro punto di vista, critiche e commenti, per potervi rispondere :).
Ringrazio tanto in anticipo chi mi accontenterà

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Red Eyes. { Capitolo 1. "Blood." }

- Eddy? Eddy? Dov’è il mio piccolo bimbo? -
Edward, il mio bambino. Non è mai stato un bambino semplice, fin dalla sua nascita. Ha qualcosa di diverso, qualcosa di.. pericoloso.
Quasi tutte le notti sogno la prima volta che lo presi in braccio, sporco e piangente.
Il dolore mi attanagliava le viscere, ma quando il dottore mi porse la mia creatura, tutto si trasformò in pura gioia. Almeno per pochi secondi.
Tra i gemiti, aprì le sue tenere palpebre. Fu quello il momento in cui capii che c’era qualcosa di tremendamente sbagliato in lui.
Rosso. Sprofondai nel colore vermiglio dei suoi occhi, mentre il mio cuore palpitava di paura.
Scrollando il capo fui risucchiata nel presente, uscendo dal mio sogno ad occhi aperti.
Ormai erano passati quattro anni. Quattro anni di difficoltà, di indifferenza, di silenzio.
Il mio bambino, la mia creatura, non aveva mai parlato. Non avevo mai avuto la gioia di sentirgli dire mamma.
Non avevo mai avuto la gioia di vederlo sorridere.
Era chiuso in se stesso, sembrava che niente e nessuno potesse strappargli un sorriso.
Nel suo viso da bambino, c’era solo la profonda indifferenza di un adulto. Ormai mi ero rassegnata ad avere un figlio avvolto nel nulla. Volevo tirarlo fuori dal suo perenne stato di indifferenza, ma non sapevo come fare. Dov’era la gioia spensierata caratteristica di ogni bambino? Dov’erano incastrate le sue parole?
Entrai in cucina, lo vidi.
Con la sua camminata sicura stava ponendo una sedia sotto la dispensa, salendoci sopra.
- Edward no! Scendi da là, è pericoloso. - dissi tranquilla, avvicinandomi. Edward mi guardò con sguardo inespressivo, un velo di cattiveria nei suoi occhi rossi.
Un brivido mi corse lungo la schiena.
Era da molto tempo che non rabbrividivo davanti a mio figlio.
Continuai ad avvicinarmi, con un finto sorriso sulle labbra.
Si allungò verso lo sportello del mobile, e lo aprì.
Richiusi lo sportello con una mossa veloce, prendendolo in braccio. Le sue manine candide si strinsero in un pugno.
I suoi occhi brillarono di una luce nuova.
Poi, all’improvviso, una nebbia nera apparve intorno a lui.
Rimasi immobilizzata, tremando.
- Ed..ward.. -
Sangue. Sangue ovunque. Schizzi sui muri, sulla cucina, sul viso del mio bambino e sul mio corpo.
Sgorgava dal mio petto, senza freni.
Caddi a terra in ginocchio, gemendo.
Edward mi accarezzò il viso sporco di rosso, con un gesto terribilmente dolce.
Il suo sorriso fu l’ultima cosa che vidi, prima di cadere a terra ed essere avvolta da un tepore caldo e dolce.

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Capitolo 2
*** Charlotte. ***


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{ Capitolo 2. "Charlotte" }

5 anni dopo.
- Hey tu! Come ti chiami? Sai sono nuova di qua, non ho amici! Sai, i miei genitori sono in Paradiso e io sono sola! Ma a me non interessa, io sono una bambina forte, ormai sono grande! Sai, io ho otto anni, tu? Ohhh hai i capelli chiarissimi! Come fa un bambino ad avere i capelli così chiari? Sono biondi, quasi bianchi! Sei per caso un vecchio nano? Ma no, non hai le rughe! Forse sei un elfo sei… Ohhhh -
Una bambina dai capelli rossi indicò il viso del ragazzino davanti a lei, meravigliata.
- Tu sei un angelo! - disse applaudendo con le piccole mani. - Gli angeli hanno gli occhi rossi, come i miei capelli! - disse con vocina dolce, sorridendo allegramente.
Si mise a gambe incrociate davanti al silenzioso bambino che nemmeno la guardava, preferendo fissare un punto fisso a destra, in basso.
- Ma tu non parli mai? - sussurrò la bambina, prendendogli una piccola manina bianca, con la sua.
Il bambino si ritrasse, lasciandole la mano.
La bambina la riprese, testarda.
Questa volta il bambino non si ritrasse. Il suo calore, i suoi capelli, il suo interrogatorio gentile e incuriosito non gli avevano dato fastidio.
Lei era diversa. Lei non era scappata. Lei aveva i capelli rossi e lo credeva un angelo, o un vecchio nano, o un elfo. Sempre meglio di un mostro.
Scostò lo sguardo dal suo abituale punto fisso e incontrò i suoi occhi.
Sprofondò nel suo azzurro, e lei nel suo rosso.
- Edward. - sussurrò il bambino, con voce roca di uno che non parla molto spesso.
- Charlotte. - rispose la bambina, con un dolce sorriso.
Amici.

8 Anni dopo.
- Edward, maledizione, fallo. -
Due ragazzi, sopra un letto piccolo e corto.
La ragazza guardava in cagnesco il ragazzo sotto di lei, disteso.
Il ragazzo ricambiava il suo sguardo senza espressione, in silenzio.
Chiunque sarebbe scappato di fronte a quei suoi occhi profondamente rossi e inespressivi. Ma lei no.
Lei, seduta sopra di lui, con le ginocchia ai lati del suo corpo, poggiava le mani sul suo petto, fissandolo.
I suoi mossi capelli rossi si sparpagliavano sulle sue spalle, disordinati.
Il suo corpo iniziava già ad assumere le forme di una donna, sotto la sua felpa enorme e i suoi jeans stretti.
Sbuffò, scocciata, stanca di aspettare una cosa che probabilmente sarebbe avvenuta quando meno se l’aspettava (come sempre), e non a comando, come lei desiderava.
- Charlotte, non posso sempre sottostare ai tuoi sciocchi desideri. -
Una voce. Profonda, calda. Non era una voce che si sentiva rimbombare tanto spesso in quel deprimente orfanotrofio. Uscì da quelle labbra sottili e morbide, da quel petto di un uomo adulto, da quel corpo tanto affascinante e pericoloso.
Tutte le volte che la piccola donna sentiva quella voce, il suo cuore palpitava e un sorriso spontaneo si disegnava sul suo visino tondo.
- Non sono sciocchi desideri.. - sussurrò, ancora persa in quel dolce suono.
- Si che lo sono. -
Il ragazzo si mise a sedere, trovandosi a pochi centimetri dal suo viso.
Senza tanti complimenti, la prese sotto le ascelle e se la tolse di dosso senza fatica.
La ragazza rimase interdetta, ma cercò di nasconderlo come meglio poteva.
- Muoviti Charlotte devi andare a conoscere i tuoi nuovi genitori, gli ennesimi. - disse Edward, alzandosi dal letto, provocando uno stridio di molle.
Ancora, quella voce, quel nome che solo pronunciato da lui aveva un valore.
- Ohh, Ed, quanto dureranno questi? – disse allegramente la ragazza, seguendo il ragazzo fuori dalla stanza, saltellando.
- Cerca almeno di farli durare un po’ più degli ultimi, tanto per non umiliarli. -
- Dici che 3 ore è stato un po’ poco eh? -
Edward annuì in silenzio, per oggi aveva parlato abbastanza.
Arrivarono nell’atrio, a passi lenti, scendendo 4 rampe di scale.
Charlotte non aveva mai confessato ad Edward il vero motivo per cui era così terribile con i genitori che volevano adottarla. Lei affermava semplicemente che non voleva lasciare l’orfanotrofio perché voleva tenere d’occhio il ragazzo, che senza di lei si sarebbe chiuso nel suo fottuto mondo e sarebbe stato fottutamente solo.
La verità è che lei si sarebbe sentita sola. Lei senza di lui non era nulla. Lui era il suo tutto. Senza, le sarebbe mancata l’aria.
Charlotte sorrise timidamente ad Edward, mentre entrava in presidenza, dove avrebbe incontrato i suoi nuovi genitori. Arrossì leggermente fissandolo fino a che la porta non si chiuse completamente.
Edward rimase immobile per alcuni secondi, poi si avviò di nuovo verso le scale, a passi veloci.
Chissà quanto sarebbero durata quella povera coppia speranzosa di adottare una bella bambina dai capelli rossi e il viso dolce. Chissà quanto sarebbe durata l’illusione che proprio quella piccola donna fosse un tenero angelo, pronto a riempire la loro esistenza di gioia.
Chissà quanto ci avrebbero messo a caricarla in macchina e riportarla all’orfanotrofio, esasperati.
“Chissà.. chissà se non lo facessero. Chissà se fossero quelli giusti per lei. Chissà se non la vedessi più. Chissà se.. decidesse di non tornare.
Forse avrei dovuto esaudire il suo sciocco desiderio. Regalarle, forse, il mio ultimo raro sorriso.”

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Capitolo 3
*** Red hair, blue eyes. ***


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{ Capitolo 3. Just a smile. }

Charlotte si girò.
Dietro la scrivania, la preside, una vecchia signora con un naso orribile, piena di macchie sulla pelle e capelli biancastri che gli ricordarono vagamente quelli di Edward.
Davanti al tavolo, seduti, due persone la fissavano sorridendo.
- Ciao Charlotte. - sussurrò una donna bellissima e affascinante, con un sorriso meraviglioso che le increspava le labbra.
- Ciao Charlotte. Noi siamo Emy e James. - disse l’uomo accanto a lei, mentre con delicatezza prendeva la mano della donna, con un gesto dolce e fluido.
Charlotte rimase pietrificata. Entrambe le facce che aveva davanti non potevano avere più di 28 anni.
Erano entrambe bellissime e giovani. Niente a che vedere con i vecchi idioti che fino ad ora si erano presentati per lei all'orfanotrofio. Ma la cosa più stupefacente di tutte era che la faccia femminile era sovrastata da una chioma rossa e fluente. Rossa, proprio come la sua. Lo stesso identico colore. Come era possibile?
La piccola donna strinse i pugni e fissò la preside, che sorrideva sotto le rughe che le coprivano il volto.
Charlotte si sentì svenire. I sorrisi della preside erano ancora più rari di quelli di Edward.
La maschera di rughe aprì la bocca e parlò con la sua vocina flebile e antipatica.
- Mia cara Charlotte, ti presento i tuoi zii. -
Charlotte aprì la bocca, in un gesto di pura sorpresa.
“Cosa? I miei zii? Ma.. io non ho zii.. io non ho nessuno..”
- Sappiamo quello che stai pensando Charlotte. Perché non siamo venuti a prenderti prima? Ma c’è una spiegazione, te lo giuro. - Aveva parlato la giovane donna, guardando la ragazza con sguardo triste, in apprensione.
- Si Charlotte. Emy era la sorella di tua madre. Quella sorella. -
Quella sorella. La sorella di cui sua madre le aveva parlato solo un paio di volte. La sorella odiata dall’intera famiglia, ripudiata e cacciata via.
Si ricordava a malapena della sua esistenza, e non aveva mai sperato in una sua comparsa.
Sua madre l’aveva descritta con i toni più duri e terribili possibili, dicendole che era solo una lurida puttana. A sei anni una bambina non può sapere cosa sia una puttana, ma più tardi lo capì.
Emy doveva aver fatto qualcosa di terribile a sua madre, ma non aveva la minima idea di cosa fosse.
La preside guardò l’uomo con sguardo indagatore. In che senso quella sorella?
Ma subito scostò lo sguardo. Non le importava nulla. Senza quella maledetta ragazzina tutto l’orfanotrofio avrebbe ricominciato a respirare. Ormai non sperava più di levarsi di torno anche il suo compagno di scorribande dagli occhi rossi, ma da solo sarebbe diventato completamente innocuo. Senza Charlotte si sarebbe rinchiuso di nuovo nel silenzio che aveva riempito le sue giornate prima della sua venuta. La vecchia donna riprese a sorridere a questo pensiero, tranquilla e in silenzio.
- Beh Charlotte.. Qualunque cosa ti abbia detto.. è una bugia. - sussurrò la donna dai capelli vermigli, abbassando lo sguardo dalla ragazza.
Bugie. Il mondo di Charlotte era pieno di menzogne, da quando si alzava la mattina a quando chiudeva gli occhi la sera. Mentiva a se stessa e gli altri mentivano a lei, senza poter far nulla per cambiare la sua triste situazione.
- Bene. Ora dimmi due cose. Uno, perché non sei venuta prima. Due, perché dovrei crederti. -
“E tre.. perché dovrei preferire voi a Edward.”
- Saprai tutto Charlotte, te lo giuro. - sussurrò l’uomo, alzandosi.
Abbracciò la ragazza con una stretta possente, troppo confusa anche per spingerlo via.

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Capitolo 4
*** Truth. ***


Volevo approfittare di questo spazio per ringraziare chi sta continuando a leggermi e chi mi ha recensito (continuate !).
E un grazie speciale a chi mi ha seguito dalla mia pagina Facebook
♥.

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{ Capitolo 4. Truth. }

Singhiozzi rimbombavano in quella fredda stanza.
Charlotte stringeva la vita di sua zio, assaporando la dolce consapevolezza di non essere più sola al mondo, escluso Edward. - James.. lasciala respirare.. - sussurrò Emy, alzandosi e prendendo le spalle dell’uomo con delicatezza.
A passi lenti si sedettero di nuovo, tornando a guardare la ragazza dal basso.
Le mani candide e affusolate dei Emy presero da dentro una borsa nera un pacchetto di fazzoletti, ed estrattone uno, asciugò dolcemente le guance luccicanti di James come meglio poteva. Porse a Charlotte il pacchetto, attendendo una mossa che non venne mai.
La ragazza non era in grado di muoversi. Guardava dritto davanti a sé con gli occhi appannati da due grosse gocce decise a lottare per cadere giù, confusa, spossata, come se le avessero tirato un sasso in testa.
Non era la nuova acquisizione di una famiglia il problema. Era la consapevolezza che adesso il suo posto era con loro, che non si sarebbero arresi alle sue bravate cattive e al suo caratteraccio, che il legame che li univa era un legame indissolubile, di sangue. Qualunque fosse il motivo per cui quella coppia tanto affiatata non era venuta a prenderla prima non poteva spezzare questo filo d’acciaio.
Solo un nome rimbombava nella sua mente.
Edward.
- Signora preside.. – sussurrò Emy, riponendo il pacchetto di fazzoletti nella borsa - Vorremmo parlare con Charlotte da soli, se non le dispiace. -
Lo sguardo della vecchia donna si spense. La curiosità la stava logorando. Ma si ricompose subito, annuendo, uscendo dalla stanza a passi lenti e silenziosi.
La porta si chiuse con un tonfo sordo, che sembrò rimbombare come un’esplosione in quel silenzio assordante. Dopo un minuto buono, James si decise a parlare.
- Charlotte, io ero.. fidanzato con tua madre. L’avevano deciso i nostri rispettivi genitori quando eravamo a malapena adolescenti. Come succede spesso con i matrimoni combinati, non l’amavo minimamente. Era tutto quello che non volevo in una donna. Era immatura, frivola, dispotica. Mi trattava come se fossi un trofeo su un piedistallo da far vedere alle sue sciocche amiche. -
Charlotte incontrò lo sguardo di quell’uomo con i capelli neri e gli occhi azzurri. Belli, affascinanti, profondi. Ci si perse per alcuni secondi, cercando di assimilare le verità che le stavano cadendo addosso.
Non aveva mai avuto grandi rapporti con la madre, per questo non soffrì molto alla sua morte. Era sempre fuori casa, la lasciava spesso sola con una balia, nella sua lussuosa casa in campagna.
Crescendo scoprì quale era il vero problema di quella giovane donna sempre nervosa e assente.
Lo scoprì quando la polizia li buttò fuori di casa a 8 anni, lei e la servitù, per i notevoli debiti accumulati. Il gioco e l’alcol avevano divorato quella piccola triste madre, riducendola in uno stato di miseria. Una settimana dopo si tolse la vita con una corda, impiccandosi ad un albero di un parco di periferia, davanti agli occhi della figlia, che non si rese affatto conto di cosa stesse accadendo.
Agli occhi della bimba la madre stava giocando a fare il pendolo. Agli occhi del passante che un’ora dopo trovò il cadavere e, sotto di esso, una bambina che rideva, era una vera tragedia.
I ricordi di Charlotte furono interrotti dall’intervento di Emy, che proruppe con una risata amara.
- Si, era sciocca e frivola. Non ti amava, ma eri suo e solo suo, anche se qualcun altro l’aveva deciso per te. -
James annuì, con lo sguardo perso nel vuoto.
- Poi.. poi incontrai Emy, un anno dopo il nostro fidanzamento. Non ero mai riuscito a incontrarla perché studiava in Francia, da brava figlia di una famiglia con notevoli possibilità finanziarie. Ma quando mi apparve davanti, una gelida sera di Natale, iniziai davvero a credere che la mia situazione già disperata, stesse diventando ancora più terribile. Mi innamorai di lei a prima vista, come nei film. - Il viso dell’uomo si increspò in un sorriso amaro, incontrando lo sguardo dell’amata.
- Il colpo di fulmine fu corrisposto amore mio. La prima volta che ti vidi rimasi folgorata. - rispose lei, sorridendo.
- Incominciammo una relazione segreta, che durò circa 3 mesi. Poi, tua madre.. ci scoprì. - continuò James, tornando a guardare Charlotte.
- Puoi immaginarti il resto. - sussurrò Emy, con una smorfia.
Si, Charlotte poteva. Se li immaginò, soli e odiati dalle loro famiglie, a cercare un posto dove iniziare una nuova vita, con un’unica ricchezza nelle mani, il loro amore.
Nella mente della ragazza apparve un dubbio. Fissò di nuovo gli occhi di James, così tanto familiari.
Una risata uscì dalla sua gola. Pronunciò queste parole, velate di ironia, con sguardo spento e un sorriso sulle labbra.
- Credo proprio che mio padre non sia morto a causa di un mix di droga e alcol prima della mia nascita come mia madre ha sempre affermato, dico bene? -

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Capitolo 5
*** Waiting. ***


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{ Capitolo 5. "Waiting" }

Edward sedeva sul suo piccolo letto, attendendo. Era passata un'ora ormai.
Non si aspettava che tornasse a salutarlo.
Non si aspettava mai nulla da lei, il carattere di Charlotte era troppo imprevedibile.
Stringeva le mani in pugni, tanto stretti da fargli male.
Chiuse quei suoi occhi dannati e si distese sul letto, accompagnato dall'abituale stridio di molle.
Flash. Flash nella sua mente. Ricordi felici, con la sua migliore amica.
Quella creatura dai capelli rossi e il sorriso permanente sulle labbra morbide.
Quella creatura che si era imposta nella sua esistenza, credendo di essere in compagnia di un angelo silenzioso.
Quella creatura così fragile alla sua vista, così ignara e ingenua.
Riaprì gli occhi, portando una mano davanti al viso, aperta, a venti centimetri di distanza.
La fissò, con un sorriso strano sulle labbra.
La mano venne offuscata da una nebbia nera, che apparve attorno alla sua superficie, aleggiando.
Strinse di nuovo la mano in un pugno, e la nebbia scomparve veloce come era apparsa.
“Charlotte, non ho mai avuto il coraggio di dirtelo.
Gli angeli non hanno gli occhi rossi.”

James guardò negli occhi Charlotte, perdendosi nel suo sguardo vuoto, senza vie di uscita.
- I tuoi nonni ti hanno nascosta per tutto il tempo prendendo tutte le precauzioni possibili. Tua madre ruppe il fidanzamento quando eri stata concepita da circa tre mesi. Passò i restanti sei in una dependance della villa in città per non farsi scoprire dai genitori, con solo una domestica a sostenerla durante la sua gravidanza. Una volta nata, scoprirono il misfatto. Ti fecero crescere per otto anni in una lussuosa casa in mezzo al nulla. Tagliarono i soldi alla figlia, facendola poco a poco annegare nei debiti, a causa dell’alcol e il gioco.
Ti chiederai come dei genitori possano fare una cosa simile ad una figlia. Io credo perché non aveva voluto abbandonarti alla tua nascita. Ha voluto prima nasconderti per permetterti di nascere e poi ha voluto tenerti, per permetterti di vivere.
Alla morte di tua madre, ti hanno cambiato cognome e abbandonato in questo squallido orfanotrofio, dopo aver donato una cospicua somma per il silenzio della preside. Una volta ti chiamavi Johnson, il cognome dei tuo nonni e di tua madre. Adesso, Wilson. Ma il tuo vero cognome è Lewis. Charlotte Lewis. E si, sei mia figlia. -
La ragazza poggiò la schiena al muro.
Capì finalmente, molte cose che non aveva capito quando era ancora una bambina.
Capì il dolore della madre e l’assenza dei nonni che non aveva mai visto.
Capì perché non era mai stata in città negli anni vissuti con la madre.
Ma capì anche un’altra cosa che le faceva scoppiare le tempie dal dolore e dalla pietà. Capì perché quella donna nervosa e assonnata, con i lunghi capelli rossi sempre in disordine, la voce perennemente alta e fastidiosa la fissava sempre negli occhi. Perché erano i suoi occhi. Gli occhi per i quali si sarebbe anche uccisa. Gli occhi per i quali aveva partorito quella stupida creatura. Gli occhi per i quali aveva sofferto gli ultimi otto anni della sua esistenza. Gli occhi dell’unica persona che aveva amato in vita sua. James, suo padre.
- Abbiamo saputo della tua esistenza tre mesi fa, solo perché entrambi i tuoi nonni sono morti. - sussurrò Emy, con sguardo triste.
- Charlotte, non pretendo che tu mi creda o mi voglia bene. Vorrei solo che tu provassi a darmi la possibilità di averti con noi, di recuperare tutti gli anni persi. So.. bene che non li recupereremo mai. Sono andati, perduti. Ma voglio mia figlia piccola mia, ti hanno tolto a me per troppo tempo. -
Quell’uomo così bello e possente stava mostrando tutta la sua debolezza.
Accanto a lui, Emy tratteneva a stento le lacrime.
Poteva capire il dolore dell’uomo, ma il suo no.
Perché la sorella di una donna che la odiava, doveva volere con sé sua figlia? Cos’altro non sapeva? La risposta arrivò da sola, senza bisogno di chiederla.
Emy alzò lo sguardo e sussurrò: - Sono cinque anni che provo ad avere un bambino. Ne ho persi tre. Aborto spontaneo. Non permetterò a niente e nessuno di portarmi via te Charlotte. Sei sangue del mio sangue, e anche se non ti ho dato alla luce io ma mia sorella, tu sei mia figlia. E ti voglio con me, con noi.. -

Edward sentì il portone principale aprirsi, due ore dopo l’ultimo sguardo di Charlotte.
Si alzò dal letto di corsa, andando verso la finestra. Vide due chiome rosse entrare nel sedile posteriore di un’utilitaria grigio chiaro.
Un uomo stava portando un borsone nero enorme che buttò nel bagagliaio.
Salì anche lui in auto e mise in moto.
Il ragazzo chiuse gli occhi e poggiò la fronte nel vetro della finestra.
Emise un lungo sospiro e strinse i pugni.
Vetri, schegge, piume, lenzuola strappate volavano per la stanza.
Rumori assordanti di distruzione aleggiarono in tutto l’orfanotrofio.
Su quella piccola stanza che ancora profumava di lei, calò l’oscurità totale.
Nero impalpabile, con al centro, due fari rosso vermiglio.

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Capitolo 6
*** Alone (?). ***


Approfitto di questo spazio per augurare a tutti i miei lettori un Buon Natale! Il capitolo 7 verrà pubblicato dopo Natale, mi prendo una piccola pausa :)
Spero, dopo le feste, di ritrovarvi più buoni e più grassi (pranzone, cenone aahh *çç*).

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{ Capitolo 6. "Alone (?)." }

Fumo. Fumo grigio usciva dalla sua bocca.
Una canottiera bianca e dei pantaloni sportivi, addosso ad un ragazzo con gli occhi chiusi e la sigaretta in bocca, accompagnata da due dita affusolate che la stringevano ai lati.
Aspirò profondamente e si portò una mano sul petto. Lei, lei maledizione. L’aveva lasciato solo. Un mese di nulla, cazzo.
Dov’era, cosa faceva, perché.. perché era andata via così, senza nemmeno un saluto?
Con una smorfia Edward aprì gli occhi. Spense la sigaretta nel posacenere posto nel comodino accanto al letto.
Quegli occhi che fissavano il nulla davanti a loro erano marroni.
Anonimi, naturali, semplici, banali.
Il ragazzo si alzò dal letto e si diresse verso una porticina in un lato della stanza buia. Un bagno piccolo e stretto apparve alla sua vista.
Davanti ad uno specchio, si tolse delle lenti a contatto. Ecco il segreto della sua nuova vita sociale.
Colori da attaccare agli occhi. Colori che nascondessero la sua diversità. Colori che celassero la sua vera natura.
Dopo “l’incidente” nel quale tutti i mobili, i vetri e la porta della sua vecchia stanza erano andati a pezzi senza una spiegazione plausibile, tutti i professori iniziavano ad essere seriamente terrorizzati dalla sua presenza. Per ridurre la “pressione visiva” che il ragazzo metteva al corpo insegnanti con i suoi “dannati occhi rossi” la preside gli aveva imposto di indossare delle lenti a contatto colorate.
Nascosti gli occhi, il mondo intero si inginocchiò ai suoi piedi. Le ragazze erano sempre in piena fibrillazione quando lo vedevano passare e i ragazzi erano gelosi del suo successo che per di più Edward sembrava non apprezzare, o meglio, lo disgustava.
L’unica persona che l’accettava per quello che era, non era più con lui.
Ormai era passato più di un mese dalla sua partenza. Nessuna lettera, nessuna telefonata, nulla di nulla. Perché? Perché i genitori adottivi non l’avevano rispedita indietro dopo aver subito da lei ogni tipo di affronto e cattiveria? Perché.. perché l’aveva lasciato solo?
Perso in quei pensieri, al bussare di qualcuno alla porta, sussultò.
Scosse la testa e camminando a passi svelti, abbassò la maniglia e si scontrò contro il sorriso di una ragazza dai capelli neri come l’inchiostro e gli occhi verdi.
- Ciao Edward.. - sussurrò lei, con voce dolce e suadente. - Ciao, Blair. - disse il ragazzo tranquillo con sguardo basso, spostandosi dalla porta, per farla entrare.
Aveva conosciuto quella ragazza dai capelli corvini il giorno prima, in biblioteca. Non avevano parlato moltissimo, a causa del distaccato mutismo di Edward, ma in qualche modo era riuscita ad approcciarsi a lui, come solo Charlotte prima di lei era riuscita a fare.
- Scusa il disturbo, volevo solo vederti.. e darti questo. - disse la ragazza, mentre faceva due passi dentro la stanza. Il ragazzo notò un pacchetto, nelle sue mani.
Edward chiuse la porta piano.
La guardò negli occhi. Poi sorrise, all’espressione della ragazza.
Un’espressione confusa, pasticciata. Era un misto fra sorpresa, paura, meraviglia e attrazione.
“Li hai notati dolcezza eh?”
Edward si passò una mano tra i capelli, con una smorfia. - No, non ho usato lo shampoo sbagliato o messo un collirio scaduto. - disse atono.
- C-cavoli. Mai vista una cosa simile.. - sussurrò la ragazza, stupita.
Lei era l’unica che non sapeva veramente della particolarità di quell’uomo tanto silenzioso quanto affascinante. Gli altri se ne erano solo dimenticati, o non volevano ricordarselo.
Era arrivata nell’orfanotrofio da poco meno di due settimane. Non l’aveva visto prima dell’”incidente” e, a quanto pare, nessuno era stato interessato a parlarle dell’ex mostro.
- Ci sono nato, non è una strana malattia. - disse Edward, camminando a passi lenti verso il letto, sedendocisi.
- Capisco. - fece la ragazza, facendo alcuni passi verso di lui.
- Se vuoi scappare fallo adesso, prima che ti uccida staccandoti la testa a morsi.. o roba simile. - disse Edward ironicamente, guardandola con uno strano sorriso sulle labbra.
- No, non vedo perché dovrei farlo. - rispose tranquilla la ragazza.
Si attorcigliò una ciocca dei lunghi capelli lisci, sorridendo.
- Sono solo occhi. - continuò, inclinando la testa di lato.
“Charlotte. Questa ragazza non ti assomiglia affatto.
Ma.. penso che dovrei darle una possibilità.”

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Capitolo 7
*** Love (?). ***


Ed eccomi tornata alla carica con il Capitolo 7! Spero che abbiate passato un bianco e gioioso Natale :3
Questo capitolo è un po' speciale.. ma non vi anticipo nulla :). Buona lettura!


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{ Capitolo 7. "Love (?)." }

- Edward. - disse la ragazza, sedendosi accanto a lui, con un gran sorriso. - Tieni. -
Blair gli porse una busta con un movimento fluido. - Ovviamente è solo un prestito. - continuò, arrossendo leggermente.
Edward fissò prima il suo viso macchiato di rosso, poi il pacchetto, senza espressione. Prese la busta e ne trasse fuori un libro.
- Cercavi questo vero ieri? Era di mio padre. Una delle poche cose che si è salvata da… l’incendio.. - sussurrò la ragazza con un piccolo sorriso forzato. Edward le mise una mano sulla testa, dolcemente. I suoi capelli morbidi gli carezzarono il palmo. Sorrise, dopo aver provocato un’esplosione di rosso nelle guancie della ragazza. Posò gli occhi sulla scritta bianca nella copertina rigida del libro. "Il ritratto di Dorian Gray", Oscar Wilde.
- Si, è que… sto. - Un cellulare vibrava. Il suo cellulare.
Allungò il braccio verso il comodino, quasi distendendosi sopra le gambe della ragazza, mormorando uno scusa.
Nello schermo, il nome tanto bramato. Charlotte.
Gli occhi di Edward lampeggiarono.
- Blair, scusa, è una telefonata importante.. -
- Tranquillo, tranquillo. Vado, dovevo solo darti il libro. - fece la ragazza, con in faccia un sorriso a trentasei denti, alzandosi dal letto ed avviandosi verso la porta.
- Grazie. - sussurrò Edward, premendo il tasto verde.
Blair chiuse la porta dietro di se. Fece un sospiro che le lasciò l’amaro in bocca.

- Pronto. - disse Edward, atono. Dentro di lui, un’esplosione di emozioni.
- Edward, ciao. - rispose Charlotte, con la sua voce cristallina.
- Perché non mi hai chiamato prima? - Dritto al dunque, ovvio.
- Sono stata occupata. - rispose la ragazza. Si aspettava questa domanda. Aveva mille risposte già pronte, alle mille domande che si aspettava. Erano due settimane che preparava questa telefonata.
- Occupata talmente tanto da non poter chiamare il tuo migliore amico? -
- Già. - rispose atona.
- Capisco. - Delusione, rabbia. "Ti hanno fatto il lavaggio del cervello, ammettilo."
- Edward, resto con loro. - proruppe, con voce forzatamente dura. Ma nell’ultima sillaba, si spezzò. Ma il ragazzo non colse quel tentennamento. Si soffermò soprattutto sul significato della frase.
Mai più risate insieme. Mai più nulla.
- Ok. - disse secco. "Bene, benissimo. Grandioso."
- Scusa Edward, devo andare, Emy mi chiama. Ciao, a… presto. - sussurrò la ragazza.

Due ragazze, due corpi.
Dentro di loro, lo stesso uragano gli devastava l’anima.
Il vento che tempestoso le distruggeva, era sfumato della stessa tonalità di rosso, produceva lo stesso suono delicato e aveva lo stesso profumo penetrante.

Blair.
Distesa nel suo piccolo letto, nella sua stanza bianca e disadorna, guardava il soffitto, in cerca di una risposta, come un marinaio che fissa le stelle per trovare la giusta direzione da seguire.
Nella sua mente, un solo volto. Un volto macchiato di rosso.
Lo stesso rosso fuoco che aveva distrutto la sua vita.
Lo stesso rosso fuoco che aveva ucciso i suoi genitori.
Lo stesso rosso fuoco in cui si sentiva avvolta tutte le volte che lo pensava.
Quel volto aveva un nome che la trafiggeva tutte le volte che lo pronunciava. Edward.
Edward era il suo nord, il suo sud, il suo est e il suo ovest. Si sentiva come circondata dalla sua presenza, era il suo tutto ed il suo niente.
Ma perché era così indifferente? Perché quando parlava con lui sentiva solo gelo intorno a se? Perché però… quel sorriso che aveva illuminato il viso si Edward una sola volta l’aveva dilaniata dentro?

Charlotte.
Accoccolata sotto le sue morbide coperte azzurre, era persa in un sogno ad occhi aperti che profumava di limoni appena colti e rose rosse.
Rosso, ancora. Perché la sua vita sembrava impregnata di quel colore?
Rosso come i suoi maledetti capelli, rosso come l’asso di cuori mancato che aveva fatto perdere a sua madre tutti i suoi averi, rosso come la grossa porta dell’orfanotrofio che l’aveva ospitata per ben otto anni della sua esistenza, che per lei era sia una prigione, sia una dolce casa accogliente, solo perché sotto quel tetto e dentro quelle mura c’era anche lui. Poi.. poi il rosso dei suoi dannati occhi. Al solo pensiero, si sentiva rintontita, dissanguata, come se una sanguisuga le stesse succhiando ogni linfa vitale.
Perché diamine non era là con lui? Perché non era là a prendersi ciò che era suo, che le spettava di diritto?
Affondò la testa nel cuscino a questo pensiero.
Edward non era suo, non lo era mai stato, e a lei non spettava proprio nulla. Per lui era solo una sorella, l’unica persona con la quale era riuscito a stringere un rapporto.
Ma no, non poteva pretendere nulla di più da lui. Lui non l’amava, affatto. Lui non poteva amare.
Lui nascondeva qualcosa dentro che lo divorava famelico, ma non faceva nulla per fermarlo.
Se hai una morsa che ti stringe il cuore tutte le volte che batte provocandoti dolore, alla fine smette di farlo.
Smette di palpitare, semplicemente. Smetti di provare emozioni, felici o tristi che siano.

Come poteva pretendere che il suo cuore ricominciasse a battere nel pensare ad una sciocca come lei? Impossibile. Strinse il cuscino forte, sospirando.
"Dio Edward, quanto vorrei che questo cuscino fossi tu."

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Capitolo 8
*** Oops, i did it again. ***


Ammetto di essermi divertita come una matta a scrivere questo capitolo.. ma non anticipo nulla u.u Buona letturaa!

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{ Capitolo 8. "Oops i did it again" }

Charlotte sbatté il proprio armadietto, piena di libri in braccio, bisbigliando imprecazioni.
Ma quanti libri doveva portarsi dietro maledizione? I professori della nuova scuola erano terribili, non gli interessava minimamente della spina dorsale dei propri studenti.
Con un sospiro iniziò ad avviarsi verso la sua classe, con le braccia tremanti sotto il peso di due vocabolari e due grossi volumi.
A volte però, il destino decide di farti gambetta. Quando lo fa, cadi a terra, a volte ti fracassi la testa, a volte una gamba, o nei casi più fortunati, rimani illeso.
Illeso, a danni di qualcun altro.
Un gemito, un’imprecazione dalla voce nuova, profonda.
Charlotte era inciampata e caduta tra le braccia di un ragazzo moro, piegato in due a terra, con le mani in mezzo alle gambe.
- Oddio mio scusa! Scusascusascusascusa! - fece Charlotte, con le mani sulla bocca, in ginocchio a terra.
- Vallo a dire alle mie palle e al tuo vocabolario! - ansimò il ragazzo, alzandosi piano, con delicatezza.
Charlotte, sbilanciata dai libri, era caduta in avanti addosso il ragazzo, che cercando di riprenderla era caduto a terra, le braccia della ragazza avevano ceduto e, per uno scherzo del destino, uno dei vocabolari era finito in un punto piuttosto delicato.
- Mi dispiace, le mie braccia non ce la facevano più.. -
sussurrò la ragazza, con il viso rosso quanto i suoi capelli.
Il ragazzo rinvigorì tutto ad un tratto. Con un sorriso malizioso mise un dito sotto il mento della ragazza, alzandole il viso.
La fissò incuriosito, senza smettere di sorridere.
- Oh beh, abbiamo qui una bella Rossa. - disse con aria saccente, fissando la ragazza nei suoi profondi occhi azzurri.
- Eh, si scusa ancora… eh? - Charlotte si risvegliò come da un sogno.
“Bella Rossa chi?”
- Bene, visto che per causa tua sono appena diventato sterile, mi devi un’uscita. -
- Cosa? -
- Si, direi che un giro in centro possa andare bene. - disse il ragazzo, guardando un punto indeterminato sopra la testa di Charlotte, con una mano sotto il mento, assumendo la posa da grande filosofo pensatore.
- Ma stai scherzando vero? - fece Charlotte, guardandolo fisso negli occhi.
Neri. Si sentì avvolta dall’oscurità. “Quegli occhi…”
- No, Rossa, non sto scherzando. Rossa, ce l’hai un nome almeno? - Il ragazzo ricambiò lo sguardo, con una smorfia maliziosa.
“… così semplicemente favolosi…”
- Rossa? - fece il ragazzo, inclinando la testa.
“… profondi…”
- Oh mio Dio, si è incantata a fissarmi. Rossa, sveglia! - Il ragazzo senza nome scosse la mano davanti alla faccia persa di Charlotte, ridendo.
- Oh, emh, si scusa.. Cha…Charlotte. - rispose lei rintontita, imbarazzata più che mai.
- Alex, piacere. – Con un gesto fluido e delicato prese la mano della ragazza e la sfiorò appena con le labbra, guardandola dritto negli occhi azzurri.
- Piacere.. - sussurrò lei. Le sue gambe stavano per cedere.
- Mi rifaccio vivo io Rossa, emh, Charlotte. Dopo avermi sfracassato le palle, un’uscita me la devi davvero. Ciao. -
Lasciò la mano facendole l’occhiolino, incamminandosi veloce verso la sua classe.
Charlotte rimase impalata a fissare quel ragazzo con i jeans stretti, le sneakers e la felpa nera allontanarsi.
"Dio se era figo."

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Capitolo 9
*** My fucking brother Brian. ***


In questo capitolo vi introdurrò (oltre che sottolineare la confusione totale della nostra Charlotte) il mio personaggio preferito: Brian.
Come sempre, buona lettura


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{ Capitolo 9. "My fucking brother Brian." }

Colpa. Questa puzza che le penetrava nel naso era colpa.
Uscire con un ragazzo quando ne ami un altro (anche se era stata praticamente costretta) era davvero stupido.
Ma quel ragazzo le aveva fatto andare in tilt il cervello.
Era così dannatamente diverso da Edward. Così arrogante, sicuro di sé..
Basta pensare a lui, aveva una lezione di biologia da seguire.
Iniziò a scarabocchiare con la matita sul banco, distratta.
Mise a fuoco quello che involontariamente aveva scritto.
“Alex” al centro di un cuore.
Fece un salto sulla sedia con gli occhi spalancati, scioccata.
- Oh cazzo! - sibilò.
Tutta la classe si girò verso di lei, confusi e divertiti.
I più vicini avvistarono la scritta nel banco e annuirono con una smorfia sulle labbra. Le donne con un sorriso divertito, gli uomini con una punta di gelosia nello sguardo.
Il professore la richiamò all’attenzione, ritornando a spiegare tutti quegli stramaledetti tessuti umani.
Charlotte rimase a testa bassa per tutto il seguito della lezione, pensando.
Quindi quel ragazzo era conosciuto. Era evidente che tutti sapevano chi fosse, per di più non credeva che ci fossero tanti "Alex" in quell'istituto.
Era amato e bramato dalle ragazze e invidiato dai ragazzi.
Ecco, si era presa la cotta per il figo della scuola, l’amato ed odiato figo.
"Cazzo."
Uscì dalla classe con la solita pila di libri.
Stavolta non sarebbe caduta, per nessun motivo al mondo.
Camminava tranquilla nei corridoi, a testa bassa, con mille pensieri in testa, quando si sentì scippare il peso che teneva tra le braccia.
- Co..sa? - mormorò, alzando lo sguardo.
- Rossa, sei maledettamente distratta. - rispose l’uomo che aveva affollato i suoi pensieri tutta la mattina, con i suoi libri tra le braccia e una smorfia divertita.
- Non sono poi molto pesanti, ho sacrificato le mie palle per la imbranataggine di una Rossa. Cavoli, non potrò mettere al mondo dei figli per colpa tua, dovresti davvero prostrarti ai miei piedi e.. - il suo monologo venne interrotto dall’esplosione scocciata di Charlotte.
- Accidenti scusa non ho fatto apposta! Mi stai facendo sentire in colpa da morire e magari stai solo scherzando! - Cercò di afferrare i suoi libri e riprenderseli, inutilmente.
- Forse si, forse no.. - sussurrò, con un sorriso malizioso.
Charlotte lo fissò con sguardo crudele, stanca della sua arroganza.
- Su Rossa, tranquilla. - disse mettendole una mano sulla testa, tenendo i libri con una sola mano.
Le dita scesero in basso, seguendo la linea dei suoi capelli morbidi e fluenti, che frusciavano al suo tocco.
La ragazza ammorbidì lo sguardo, era come un gattino nelle sue mani.
Socchiuse gli occhi, quasi impercettibilmente.
La mano del ragazzo finì il suo viaggio sotto il mento, che tirò delicatamente verso di sé. Le loro labbra si incontrarono, morbide e umide, provocando un’esplosione di rosso nel candido viso della ragazza.
Il suo primo bacio, rubato ma non troppo, lo dette proprio a lui, il ragazzo figo, l’amato ed odiato figo.
Alex.


Altra giornata piena di nulla, o almeno così sembrava.
Edward era in giardino, a rilassarsi dopo una lunga giornata di scuola.
Aveva come un brutto presentimento che non sapeva spiegarsi.
Chissà cosa stava facendo Charlotte in quel
Ormai erano passate due settimane dalla sua ultima chiamata, della esimia durata di due secondi e mezzo.
Blair. Lei si che era una presenza attiva nella sua vita.
Stavano sempre insieme, era l’unica che riusciva a strappargli mezzo sorriso dalla partenza di Charlotte.
Apparve il suo viso nella sua mente. I suoi occhi verdi, i suoi lunghi capelli neri, le sue labbra chiare..
- Edward! - Strillò la preside dal grande portone dell’istituto, tirandolo via dal suo sogno ad occhi aperti. - Muoviti, c’è qualcuno per te! -
"Charlotte, Charlotte, Charlotte, Charlotte."
I suoi occhi si illuminarono.
Era venuta. Per lui. Per loro. Per strappargli l’ennesimo sorriso.
Si alzò e corse veloce, come non aveva mai corso in vita sua, con il sorriso sulle labbra.
Salì le scale, attraversò il portone, sbatté dietro di sé la porta della presidenza..
- Che cazzo?! - fece, spalancando gli occhi e con una voce strozzata.
- Ma guarda un po’ che figo, mi ricorda qualcuno. - disse un ragazzo comodamente seduto nella sedia davanti alla scrivania della preside, sorridendo subdolamente.
Era la copia sputata di Edward. Stessi capelli biondi chiarissimi, stesso fisico asciutto, stessa pelle chiara, stessa fisionomia.
L’unica differenza evidente erano due macchie grigie nell’iride, al posto delle rosse di Edward.
Quegli occhi color ghiaccio lo fissavano superbi e sicuri di sé. "Ma chi è questo qua? Perché è identico a me?"
- Ebbene Edward, lui è il tuo fratellastro. - disse la preside, indicandolo. - Me ne vado, sono di troppo. - aggiunse, andandosene dalla stanza senza fare storie.
"Finalmente, un problema in meno. Quell’idiota se ne sarebbe andato, l’orfanotrofio avrebbe riniziato a respirare, dopo 10 anni di asfissia."
Un leggero tonfo annunciò la chiusura della porta.
La copia di Edward emise un sospiro scocciato.
- Prima cosa, sei tu ad essere identico a me e non il contrario. Ho 22 anni. Seconda cosa, non posso prenderti in adozione perché sono troppo giovane e in ogni caso la burocrazia mi annoia. Detesto le cose lente e noiose. - fece una pausa, mettendosi una mano sotto al mento, pensieroso - Anche se penso che la preside farebbe di tutto per buttarti fuori di qua il prima possibile vero? Devi avergliene fatte passare di tutti i colori, ottimo. - Ammiccò con sguardo complice, fissandolo negli occhi.
- Terza cosa, togliti quelle maledette lenti a contatto, non ne hai bisogno. O almeno, ne hai bisogno adesso, ma se tutto va secondo i miei piani, non ne avrai più bisogno per un bel po’, se ti comporti bene, per sempre. Ma non è caratteristico della nostra famiglia comportarsi bene, quindi tranquillo, sei uno dei tanti. Quarta cosa, scommetto che non hai capito un cazzo di quello che ho detto. -
Edward era rimasto immobile in stato catatonico per tutto il monologo del nuovo acquisito fratellastro.
I suoi occhi per un attimo si illuminarono, poi rispose.
- Esattamente. -

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Capitolo 10
*** Guilty. ***


In questo capitolo vi darò finalmente molte risposte :)
Commentate pure per ulteriori spiegazioni (a meno che non vi spoilerizzi sarò felicissima di rispondervi). Buona lettura!


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{ Capitolo 10. "Guilty." }

Edward-occhi-grigi annuì tranquillo.
- Si, è normale che tu non ci capisca nulla, non ti ho fatto le dovute premesse. Innanzitutto, il mio nome è Brian. Ma questo non è importante, o almeno non ti interessa. Secondo, si ho 22 anni e abbiamo lo stesso padre. Probabilmente le nostre madri non hanno mai saputo neanche della nostra reciproca esistenza. Ma non è importante nemmeno questo, perché entrambe sono cadaveri sotto terra adesso, e non lo sapranno mai. -
Continuava il suo monologo rilassato, fissando Edward dritto negli occhi, come se stesse raccontando una novella ad un moccioso.
- Beh, terzo, nostro padre è morto circa un mese fa, lasciandomi una lettera con su scritta la tua esistenza. Nonostante girasse il mondo per lavoro e non lo vedessi che per tre mesi all’anno era il mio unico familiare. Sinceramente non so perché non ci avesse fatto incontrare prima, e nemmeno perché non ti abbia dato una casa alla morte di tua madre. Ma considerato che non siamo altro che due errori dati da due delle sue migliaia di scappatelle, mi stupisco che abbia deciso di tenere anche solo me. Ma anche questo non è importante in effetti, ormai il passato è passato, caput. Quarto, tu hai un peccato da confessare e non hai nessuna intenzione di farlo. E penso che sia questa l’unica frase rilevante che ho detto fino ad ora. -
Il suo monologo finì, con una smorfia solenne.
Edward si sedette davanti a lui, scomposto e con sguardo inespressivo. Stare in piedi per ore a fissare quell’individuo pieno di sé lo faceva sentire un idiota.
- Deduci questo da cosa? - disse semplicemente, atono.
- Dai tuoi occhi, mi sembra ovvio. Probabilmente lo noterei anche dalla tua Nebbia, ma considerando che la preside non sa della sua esistenza, credo che tu abbia fatto in modo di reprimerla e rinnegarla con tutte le tue forze per tutta la tua durata del tuo soggiorno in questa catapecchia, e devo dire che hai fatto bene. - rispose Brian, con il solito tono deciso. Edward allargò per alcuni secondi gli occhi, inebriato dallo stupore.
- Come fai a sapere.. -
- Oh beh, ce l’ho anche io. Ce l’hanno tutti nella nostra famiglia. O almeno, da parte di padre. -
- E perché la mia dovrebbe essere diversa dalla tua? - continuò Edward, sempre con il suo tono atono.
Brian sorrise, il suo viso era pervaso dalla sua perenne tranquillità.
Alzò una mano, con il palmo rivolto verso l’alto.
Una fiamma semi-trasparente bianca apparve sulla sua superficie.
Non era inchiostro nero, come quella di Edward.
Era bianca come il latte, e sembrava la cosa più innocente e pura che avesse mai visto.

Blair camminava in giardino, fissando il cellulare, distratta da mille pensieri.
Non vedeva Edward da appena due ore ma si sentiva già vuota.
Negli ultimi tempi il loro rapporto si era notevolmente rafforzato. Erano nella stessa classe, le loro camere erano sullo stesso piano, e per uno strano scherzo del destino Edward sembrava deciso ad aprirsi con lei.
Lo notava dai suoi gesti, dalle sue poche parole.
Ci stava provando, le stava dando una possibilità.
Una possibilità.. per diventare cosa? Amici? Conoscenti? Migliori amici? Buoni compagni di classe?
Ma lei non lo vedeva come un amico. Lei non lo vedeva come un conoscente. Di migliori amici per lui c’era solo Charlotte, almeno prima che se ne andasse. Non lo vedeva nemmeno come un buon compagno di classe, il loro legame era più stretto.
Ma il problema era che non lo era abbastanza.
Lei lo voleva tutto per sé. Voleva amarlo, voleva che diventasse suo, voleva che diventasse tutto il suo mondo.
Perché quando erano insieme lei si sentiva come se tutto il resto fosse solo un universo lontano. Esistevano solo loro due, nel loro piccolo angolo di cielo, a parlare tra le stelle.
Ma lui non l’amava, e sembrava come se non volesse essere amato. O almeno non da lei.
Il problema era dello stesso color rosso degli occhi di Edward. Il colore dei suoi dannati capelli. Il colore delle sue malefiche labbra.
"Si, lui ama lei. Lei ama lui.
Ma non mi interessa.
Quando io voglio una cosa me la prendo, punto.
Hai sbagliato a scappare via Charlotte.
Lui sarà mio, fosse l’ultima cosa che faccio."

Presidenza. Stessa ora, stesso minuto, stesso secondo.
La fiamma bianca nel palmo di Brian, rifletteva la sua luce nell’iride rosso di Edward.
Che significava tutto questo?
- Avanti Edward, fatti sotto. Puoi cambiare, puoi essere un uomo migliore. Devi solo confessare di aver peccato. Avanti. - disse Brian, con fare comprensivo. In realtà se la stava spassando.
- Perché dovrei dirlo a te scusa? Arrivi nella mia vita come fossi un Dio, dicendo di sapere tutte le risposte e di poter migliorare la mia esistenza. Ma chi te l’ha chiesto? Chi vuole il tuo aiuto? Chi mi dice che tutte le cazzate che mi hai detto siano realtà? - disse Edward, mettendo una mano nella maniglia scoccato, come se stesse per andarsene.
- Ma io sono Dio Edward, e si, posso cambiare la tua vita. Ma perché non ti fidi di me e basta? Cosa hai da perdere? Nulla. Non hai nulla Edward. Solo una fottuta stanza in un pidocchioso orfanotrofio in mezzo alla campagna, fuori dal mondo dei vivi. Reagisci Edward. Unisciti al mondo dei viventi. Esci dal tuo mondo di apatia e freddezza. Sei felice? Avanti, rispondimi. Sei felice nella tua gabbia di ghiaccio? Ti senti bene, appagato? No Edward, non permetterò che sprechi tutta la tua esistenza rinchiuso in un fottuto frigorifero. Cazzo, ti porterò nel mio forno, che tu ci voglia o no. -
Pronunciate queste parole Brian fece un lungo sospiro. Sapeva che se il fratellastro non si fosse svegliato con queste parole, niente al mondo avrebbe potuto aiutarlo.
Quando quel sospiro ebbe fine, successe qualcosa di incredibile.
Nel corpo di Edward schizzò una nuova scintilla, che gli scottò il cuore.
Si rese conto di quanti anni della sua vita aveva sprecato nel silenzio, di quanti attimi si era perso a causa della sua gabbia ghiacciata e il suo sguardo neutro. Si rese conto che se non fosse stato per Charlotte forse non avrebbe nemmeno mai sorriso. Lei, lei era stata l’unica in grado a far increspare quelle labbra. Ma anche con lei aveva fallito.
Se ne era andata, stanca probabilmente di avere a che fare con un’ameba con le gambe e gli ho occhi vermigli.
Quella scottatura si allargò. Calore, fuoco, fiamme. Il suo cuore era come una pira, un falò, un vulcano in eruzione.
Si portò una mano nel petto, nella speranza di bloccare la lava che sembrava scaturire da sotto il suo petto.
Guardò Brian con sguardo perso e sussurrò: - Dimmi che devo fare. -
Quel sussurro, quel bisbiglio, era un urlo soffocato, di un dolore che nemmeno lui sarebbe riuscito a celare.
Le labbra di Brian si piegarono in un sorriso.
- E’ facile Ed. Ammetti il tuo peccato. Ti assicuro che la tua vita.. - tossì con un pugno sulle labbra, nascondendo malamente un sorriso - prenderà tutta un’altra piega. -
Non era certo il momento di discutere su quel colpo di tosse e quel sorriso. Non era certo il momento di preoccuparsi di cosa sarebbe accaduto quando avrebbe pronunciato quelle parole. Non era certo il momento di tremare. C’era la sua vita in gioco.
Edward lasciò cadere le braccia ai lati del suo corpo, con le mani strette in un pugno. A testa alta e con uno strano sorriso sulle labbra, pronunciò le parole che non avrebbe mai creduto di pronunciare.
- Ho ucciso mia madre. -
Nel preciso istante in cui finì la frase, nel preciso attimo in cui pronunciò la lettera “e”, il mondo attorno a lui scoppiò.
Il suo corpo scoppiò, la sua testa scoppiò, la stanza scoppiò.
Cadde in ginocchio con un urlo soffocato e fu circondato dalle tenebre più nere, dal nero più buio che esista.
Un tonfo risuonò nella stanza, insieme ad un risolino soffocato.

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Capitolo 11
*** Killer. ***


Primo capitolo dell'anno! Auguri mondo :)

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{ Capitolo 11. Killer. }

- Alex avanti, dobbiamo andare al cinema. - disse Charlotte con tono scocciato ma allo stesso tempo divertito.
- Amore dai.. - sussurrò Alex, soffiandole dolce aria sul collo nudo.
Un letto azzurro, una camera azzurra, il soffitto azzurro. Era forse il cielo quello?
- Alex, il nostro spettacolo inizia tra 30 minuti.. - bisbigliò la Rossa, persa in quell’aria che le carezzava la pelle morbida.
No, erano solo due ragazzi su un letto, che scoprivano insieme per la prima volta cosa significava stare con la persona che ci piace su un letto, vicini, attaccati come sardine e uno deli due con una mano sul seno dell’altra.
La Rossa e il Figo-della-scuola si scambiarono un bacio fin troppo passionale.
Alex si staccò dalle sue labbra di malavoglia, guardandole gli occhi con sguardo dolce.
- Mi hai dilaniato il cuore dal primo momento che ti ho vista, Charlotte. - sussurrò.
Charlotte sorrise e lo strinse a se.
Lei.. lei cosa aveva provato la prima volta che l’aveva visto? Attrazione. Ma non quell’attrazione innocente e pura che si prova per una persona che si ama. Un’attrazione animale, passionale. Niente di più.
Perché non poteva donare il cuore a quel ragazzo?
Più passata tempo con lui, più si rendeva conto di quanto fosse stupendo, divertente, dolce, perfetto. Ormai era un mese che stavano insieme, ogni ragazza della scuola avrebbe dato ogni cosa per essere al suo posto.
Perché dunque non poteva donarle il suo cuore?
Forse perché non lo possedeva più. Il suo cuore non era più suo da tempo. Già da molto tempo qualcuno glielo aveva rubato.
E i suoi occhi rossi lo custodivano con orgoglio e gelosia.

Tre mesi. Tre mesi dalla sua partenza.
Probabilmente non l’avrebbe riconosciuto.
Cosa era rimasto dell’uomo che era tre mesi prima? Niente.
All’alba dei suoi diciassette anni, nel giro di un mese, la sua vita si era ribaltata, trasformata completamente. Persino il suo aspetto era cambiato. Si era alzato come minimo di cinque centimetri, il suo fisico si era ulteriormente sviluppato, muscoli scolpiti aderivano sotto la maglietta stretta, i suoi capelli si erano sbiancati come se avessero fatto un bagno di ammoniaca e alla luce di quel soleggiato mattino rilucevano di un accecante grigio perla.
Ma non era tutto questo che lo rendeva diverso.
Erano quelle macchie grigie che avevano sostituito le sue rosse iridi.
Non gli interessava quanto avesse dovuto penare per avere quegli occhi rari, ma non unici. Era questo il suo vero io. Era questo il vero Edward.
Spense la televisione, la sigaretta, la luce, il cervello.
Spense tutto.
Si distese sul letto, con il profumo del fumo che gli stuzzicava le narici, mille pensieri che gli stuzzicavano la mente. Brian sarebbe tornato da un momento all’altro. Chissà cosa avrebbe avuto da raccontargli oggi. Chissà quante persone inventerà di aver quasi ucciso e quante altre avrà ucciso davvero.
Quella casa gli piaceva. Ci veniva solo nei weekend perché Brian era troppo giovane per adottarlo totalmente.
Probabilmente se avesse fatto quattro chiacchiere da solo con la preside avrebbe ottenuto l’adozione totale senza grossi problemi, ma preferiva non farlo, per due motivi.
Il primo, per mantenere l’anonimato il più possibile. Brian mostrava quello che davvero era solo a coloro che chiamava i "Condannati a morte" o i "Due Secondi" (perché gli rimanevano solo due secondi di vita). Secondo, durante tutta la settimana non era praticamente mai a casa, spesso il suo “lavoro” lo costringeva a viaggiare molto, per tutto il paese o, a volte, per il mondo.
Sentì la porta di casa aprirsi. Alcuni secondi, poi, la sua voce.
- Eeeeeed, vieni qua e abbracciami, piccolo figlio di puttana! -
Quel soprannome iniziava a dargli i nervi.
Edward si alzò dal letto e uscì dalla sua stanza, con una faccia scocciata.
- Puoi smetterla di sottolineare l’omicidio di mia madre ogni volta che ne hai l’occasione, per favore? -
- Neanche per idea, in fondo ammettere a me il tuo peccato è la cosa migliore che hai fatto in tutta la tua esistenza, piccolo figlio di puttana. - rispose, con un sorriso tra il diabolico e il divertito. Fece qualche passo verso di lui e gli mise una mano tra i capelli, spettinandolo violentemente.
- E allora io come dovrei chiamarti? Tu che vivi per nuotare tra i cadaveri? - disse, dimenandosi per toglierselo di torno, facendo un passo indietro.
- Chiamami pure come più ti aggrada, basta che non lo fai in pubblico. - rispose Brian ritirando la mano, sorridendo. - Potrebbe essere un problema. -
- Ti chiamerò semplicemente Brian, non sono fastidioso come te. -
Edward incontrò gli occhi di Brian. Tutte le volte che Brian tornava era come guardare il vecchio se stesso.
- Avanti Brian, confessa. Quanti ne hai fatti fuori oggi? - disse Edward tranquillo.
D’altra parte era il suo compito, il suo modo di ripagare il suo fratellastro per tutto quello che aveva fatto per lui. Ascoltarlo, renderlo “puro”, cancellare quelle macchie rosso sangue dal suo volto.
- Tre. Tre uomini. Erano della mafia cinese credo. Morte veloce. Anche se si meritavano di peggio, quei fottuti bastardi gestivano gran parte della droga di Manhattan. Trovarli non è stato semplice, tutte le volte che vado a New York mi perdo in quella maledetta metropolitana. Ho scoperto che il cinese mi piace sai, come suona. Anche se erano solo urla, adoravo il suono di quelle parole strampalate. Figo. -
Mano a mano che il ragazzo parlava, i suoi occhi si decoloravano. L’ultima parola segnò la scomparsa di quel colore vermiglio dalle sue iridi, sostituito da un grigio glaciale.
Era diventato questo Edward. Una “spugna assorbi peccati”. Ma stava maledettamente bene. Era con l’ultimo membro vivente della sua famiglia, era pur sempre un killer professionista, ma non poteva chiedere di meglio.
Desiderava solo una cosa a tre giorni dal suo diciassettesimo compleanno.
Una chiamata.

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Capitolo 12
*** I love you. ***


Penso di essere arrivata al capitolo che tuuutti attendevamo. Vi lascio dunque :3. Recensitemi se mi state leggendo che mi sto deprimendo :( anche se vi fa schifo ditemelo, almeno cercherò di migliorare :)

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{ Capitolo 12. I love you. }

Una piccola donna, scusate, una piccola pantera, camminava su e giù per la sua piccola stanza disordinata.
Stringeva le mani in pugni e si mordicchiava il labbro inferiore, fino a farsi male.
Se non hai modo di usare le labbra come vorresti, tanto vale distruggerle.
- Vaffanculo. Vaffanculo al mondo, vaffanculo a te, vaffanculo alla mia fottuta stupidità.
Così sei stato mezzo adottato. Te ne vai tre giorni alla settimana, non mi chiami mai, non mi pensi, ti ostini ad amare ancora lei.
La sento, la puzza dei tuoi pensieri diretti a me, puzzano di cadavere da quanto sono morti e sepolti. Quelli diretti a lei, al contrario, sono più vivi che mai. Me li immagino, con il fisico da palestrato e il sorriso beffardo, guardare i miei pensieri che come zombie cercano di uscire dalla loro tomba, strisciando fuori dalla terra. Non appena quei poveri cadaveri riescono a mettere una mano fuori, loro la rificcano dentro con un calcio. Presto accetteranno il loro eterno riposo, morendo definitivamente. Giaceranno là, rigidi e morti, sotto la terra dura, e il loro ultimo pensiero sarà chiedersi il perché della loro triste fine. Vaffanculo Edward, ti ho promesso. Ti ho giurato che sarai mio.
Un giorno lo sarai, cazzo. -

A duecentotrentacinque chilometri di distanza un cellulare squillò.
Un piatto con sopra un dolce comprato nella pasticceria più buona della città cadde a terra, frantumandosi.
Un cucchiaio arrivò due centesimi di secondo dopo, inficcandosi nella fetta di torta, perpendicolare al terreno.
Un apprezzamento risuonò nella stanza, come a sottolineare l'incredibilità della cosa.
Risuonò nel vuoto perché, il ragazzo che aveva causato il danno\miracolo era sparito dalla stanza correndo.
Un sorriso spuntò nel viso di Brian, che con il gesto di una mano e la repentina apparizione di una strana nebbia bianca intorno ai resti di torta e pezzi di porcellana, riparò il danno facendo sparire nel nulla il tutto.
Nella stanza accanto ci fu un gran baccano e una quantità industriale di imprecazioni, poi, il silenzio.
Silenzio che durò solo un secondo virgola due millesimi di secondo.
Silenzio che venne succeduto da due parole.
- Ciao, Charlotte. -
- Edward. Da quanto. - sussurrò Charlotte atona, distante.
- Molto. - rispose lui. No, non era il momento di desiderare che fosse meno distaccata. Lo stava chiamando, non poteva chiedere di meglio.
"55 giorni, per l’esattezza." Pensarono, all’unisono.
- Sì. -
- Sì. -
Silenzio.
Entrambi aspettavano qualcosa. Lei, che lui dicesse qualcosa. Lui, che lei dicesse qualcosa. Quindi il silenzio regnò sovrano.
- Charlotte.. - sussurrò Edward, proprio nel preciso istante in cui Charlotte sospirò - Edward.. -
- No, scusa, dimmi. - esordì lui.
- No dimmi tu. - rispose lei.
E proprio nel momento in cui una risata fragorosa ruppe il silenzio nella stanza di Edward, il ragazzo si accorse che Brian era appoggiato allo stipite della porta, e aveva assistito a quella scena ridicola.
Il suo orecchio finissimo aveva sicuramente captato anche le risposte di Charlotte, per non parlare del fatto che Edward stava torturando il corpo di un leone di peluche che Brian gli aveva comprato per il suo compleanno. La testa pelosa giaceva nel letto, insieme a qualche ciuffo morbido bianco d’imbottitura. Esordì con l’abituale tono strafottente e sguardo furbo.
- Ma le vuoi dire semplicemente che ti è mancata e che vorresti vederla o, meglio ancora, farle una dichiarazione d’amore in stile “romanzo rosa”? Meglio che continuare questa scena patetica, scusate tanto. -
Scese il gelo nel viso di Edward.
Iniziò a tremare e a fumare di una nebbia grigia, probabilmente anche solo i suoi pensieri sanguinari la stavano inquinando.
Brian indietreggiò leggermente mormorando “Non si può proprio dire niente..” e chiuse la porta con un ultimo sorriso smagliante, accompagnato da una strizzata d’occhio affettuosa.
Edward fece un lungo sospiro e placò come meglio poteva la sua ira, cioè strappando quello che rimaneva del peluche.
In fondo era stato quel fottuttissimofigliodiputtanaaccidentiallasuaboccadimerda a regalarglielo, massacrare quel pezzo di stoffa era come massacrare lui, anche se indirettamente.
- Edward chiunque sia ha ragione. - disse Charlotte con tono divertito. - Cioè non su quella cosa del… romanzo rosa… ma per il resto ha ragione, siamo patetici. - disse, arrossendo. Per fortuna non poteva vederla.
- Insomma.. Ed.. - sussurrò, usando il suo vecchio soprannome abituale, che quando lo pronunciò le provocò una fitta al cuore - Insomma, ho chiamato io e devo parlare io. - concluse, con voce che voleva essere decisa e ferma, ma non lo era affatto.
- Va bene. - disse Edward con espressione e tono di uno che ha appena preso una mazzata in testa.
Un rumore di un foglio stropicciato risuonò nella cornetta del ragazzo.
"Ma che..? Si è fatta una lista?"
Edward si lasciò scappare una risatina. Lei, la ragazza-lista, per qualunque cosa ne faceva una.
"Che piccola sciocca."
Charlotte aprì la sua dannata lista, ci aveva messo giorni a scriverla, perché appena finiva la strappava e la buttava nel cestino senza nemmeno rileggerla.
Questa, anche se si era classificata come quella definitiva, non fece una fine migliore.
Charlotte ne fece una palla e la buttò nel cestino lontano due metri circa con un colpo perfetto da giocatore di pallacanestro.
Charlotte sospirò. Non aveva bisogno di una lista, di un sacco di punti senza valore. L’unica cosa davvero importante era riassumibile in un punto. Un solo, fottutissimo punto. Un punto paragonabile ad un buco nero che la succhiava al suo interno buio, profondo e gelido.
Un punto formato da cinque lettere, prima due e poi tre.
Due parole, separate da un piccolo spazio.
Le pronunciò con un lieve sussurro tentennante, il riccio che le si era accucciato in fondo alla gola non le permetteva di far passante nient’altro che sussurri. - Ti amo. -
Quelle due piccole parole, pronunciate da quella voce soave tanto bramata in questi due mesi di assenza, penetrarono nel suo timpano, perforandolo come un coltello.
"Ti amo..Ti amo..Ti amo..Ti amo.."
Come un eco, rimbombavano nel suo cervello, senza che fosse in grado di comprenderle pienamente.
La mascella era come bloccata.
Le labbra sembravano come separate da un sottile strato di colla che non le lasciava dischiudere.
Con un enorme sforzo, ingoiò un litro di saliva e si decise a dire qualcosa.
- Charlotte.. - riuscì a sussurrare.
La bocca impastata, lo sguardo perso, il cuore che gli usciva dal petto, il groppo alla gola. Si può svenire di felicità?
"Dopo tutta questa attesa.. dopo tutte queste notti insonni.. eccomi qua, ad aspettare una tua risposta sicuramente negativa. Ti vedo solo come un’amica, Non funzionerà mai!… oppure mi riderai in faccia, anzi, tra un momento lo farai, ne sono certa. Meglio.. meglio un suo silenzio che un suo rifiuto."
- Non sei costretto a dire nulla, io.. posso capire.. - sussurrò. Era una richiesta di pietà. Significava: se è un no (e lo è), stai zitto.
Le dita tamburellavano nervose e tremolanti il bordo del letto, in attesa di una risata che le avrebbe sfondato le orecchie e il cuore.
Edward sorrise leggermente.
"Oh, Charlotte, avrei tante cose da dirti."
Ingoiò un altro litro di saliva e si sbatté un pugno all'altezza del petto per buttare fuori il groppo alla gola.
Poi, con enorme sforzo e con la voce un po' traballante disse: - Charlotte. Sei sempre stata l'unica donna della mia vita che valeva la pena di amare. Ti ho amata da subito, quando tra i tuoi capelli di quel colore così familiare apparve il tuo meraviglioso sorriso. Ma preferivo tenermi tutto dentro, perché avevo paura. -
Il respiro nervoso che udiva dalla cornetta cessò istantaneamente.
Charlotte sorrideva. Sorrideva, come non faceva da molto tempo, mentre lacrime di gioia le rigavano il volto.
"Come possono essere le sue parole tanto perfette e così simili a quello che provo io? Ho aspettato tanto tempo inutilmente, sono scappata da lui inutilmente, ho dimenticarlo inutilmente. Si, mi merito il Nobel per l’idiozia."
Dentro di sé urlava di felicità, ma non riusciva a formulare nessuna frase di senso logico, solo qualche parola leggermente balbettata.
- E mi sei mancata tantissimo.. ovviamente. - aggiunse Edward con tono quasi annoiato, gli sembrava di affermare la cosa più banale del mondo.
La gioia della piccola ragazza era arrivata a livelli incontenibili. Scoppiò in un pianto-riso e mentre si asciugava con una mano le lacrime, mormorò: - Anche tu, tanto. -
Continuarono a lungo a parlare. Si persero in ricordi passati, in tentennamenti, in rammarichi. I loro timidi sorrisi nascosti dietro la cornetta pregiudicavano l’imbarazzo che ci sarebbe stato il giorno che si sarebbero incontrati di nuovo. Concordavano che doveva essere il prima possibile. Concordarono che dovesse essere proprio nel luogo in cui si erano incontrati, otto anni prima. Concordarono che non vedevano l’ora di baciarsi. Concordarono che sarebbe stato difficile all’inizio, vedersi come fidanzati. Concordarono però che in fondo, lo erano sempre stati.

Brian bussò alla porta. - Oh amico, le stai facendo spendere un patrimonio, per non parlare poi che mi sta venendo il diabete. Potresti venire a cena, thank you? - disse, facendo capolino dalla porta, un sorriso giocoso e lo sguardo furbo.
Ricevette un cuscino in faccia, che decise di non deviare perché sapeva di meritarselo.
Si defilò in cucina con una strana smorfia che gli deformava il volto.
Edward era solito fare molte domande sul suo passato, che spesso scansava o censurava. Alcuni ricordi gli facevano ancora tremare le vene e incendiare le arterie.
Era felice che ancora non avesse dovuto scansare una domanda che temeva sopra a tutte. Il giorno in cui quella domanda sarebbe arrivata, una parte del suo cuore si sarebbe volatilizzata.
Si, era ancora difficile pensare alla persona che prima di Edward gli aveva fatto da “confessore”.
Prese il suo portafogli dalla tasca dei jeans chiari, lo aprì e fissò una foto al suo interno. I suoi occhi grigi incontrano dei grandi occhi marroni, dolci e lucidi come quelli di un cerbiatto.
Si, era ancora dannatamente doloroso pensare a lei.

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Capitolo 13
*** Blood x2. ***


Penso seriamente che mi odierete alla fine di questo capitolo. Come sempre scrivete pure per chiarimenti o spiegazioni :)

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{ Capitolo 13. Blood x2. }

- Em? -
Brian si alzò dal bianco divano di un loft luminoso e spazioso, al suono di una serratura che sia apriva indecisa.
La luce che filtrava da una parete di vetro illuminava il volto preoccupato del ragazzo.
Quell'uomo eterno bambino, con il sorriso strafottente fisso sulle labbra e la battuta ironica sempre pronta, adesso sembrava un vecchio in apprensione.
Presagiva, presagiva il peggio.
Erano tre giorni che non si faceva viva.
I suoi occhi rossi ne erano la dimostrazione.
"Emily, Emily, amore mio, dove sei stata? Che sta succedendo?" pensava, camminando veloce verso la porta.
Tre giorni di cellulare spento, tre giorni di attesa chiuso in casa senza mai uscire per paura che rientrasse proprio mentre era via. Se fosse uscito le lenti a contatto avrebbero potuto nascondere i suoi occhi, ma non la sua angoscia.
La vide, indecisa, con la mano sulla maniglia della porta.
Fissava il nulla. Si era fermata sulla porta, priva del coraggio necessario per varcarla.
Vuota, senza espressione. Un guscio vuoto.
Gli occhi le si riempirono di lacrime, che lentamente presero a scendere, alla vista di lui, preoccupato, angosciato. Non pronunciò parola, corse verso la loro stanza e prese a riempire un borsone di vestiti, singhiozzando.
- Em? - fece Brian, seguendola a grandi passi.
- Emily cosa stai facendo? - sussurrò come un bambino che chiede scusa alla mamma per aver rubato un biscotto.
- Che... succede... - mormorò ancora, allungando una mano verso la spalla della donna indaffarata e singhiozzante.
Il tocco della sua mano le provocò un violento sussulto, che non fece altro che aumentare il flusso delle lacrime.
- Vado via. - Disse senza neppure voltarsi. Vederlo, guardarlo negli occhi, l'avrebbe fatta soffrire a tal punto che avrebbe cambiato idea, e non voleva.
- P-Perché? - balbettò Brian, traballando leggermente.
"No, non rispondermi. Lo so. Lo so. No Emily.. no.."
Strinse i pugni, lo sguardo basso, incapace di muoversi. Impotente.
- Sta diventando.. difficile. - continuò lei, fermando i suoi veloci movimenti, fissando i vestiti arraffati dentro il borsone. Cercava di controllarsi, cercava di fermare quel flusso di dolore che voleva uscirle fuori.
- Em... Amore... lo so. Lo so davvero. Capisco, capisco quello che provi.. ma Em, ti prego.. abbiamo sempre detto che insieme ce l'avremmo fatta, che con il nostro amore potevamo fare tutto insieme, che bastava tenersi per mano e anche l'abisso più buio poteva illuminarsi. Piccola mia.. resta con me, ti supplico.. - disse Brian tutto d'un fiato, abbracciandola da dietro e affondando il viso nell'incavo del suo collo, bagnandoglielo.
Emily posò una mano sulla sua, accarezzandogliela lievemente, per poi intrecciarla.
- Tenersi per mano non basta più.. non ora, non per questo. - disse con voce che doveva essere impassibile, ma l’ultima sillaba traballante fece trasparire tutto il suo dolore.
- Non basta.. non basta il fatto che io senza te non sono nulla? Nulla Emily. Un cadavere, proprio come quando mi hai conosciuto. Oppure non basta il nostro amore Emily? Non mi ami più? È solo un pretesto per andartene il tuo? - mormorò con voce quasi soffocata, respirando sul suo collo morbido, inspirandone il profumo a grandi boccate. Sapeva che doveva farne rifornimento. Presto gli sarebbe mancato molto.
Il panico invase Emily. Sapeva, sapeva cosa doveva fare. Ma farlo era tremendamente difficile.
- E' anche questo. Ti amavo, ma adesso mi sono stancata di questo modo angosciante di vivere, credo che sia ora di darci un taglio. - Pronunciò queste parole crudeli con tono freddo e glaciale, finto. Nobel per la miglior bugiarda.
"Emily... non scappare da me. Non scappare. Sai che non ti sfiorerei mai. Sai che non posso farti del male. Sono un assassino, un killer spietato. Ma a te, piccola mia, ho sempre trattato come una rosa delicata e rara. Mi hai dato la forza per vivere con il sorriso, mi hai teso la mano dall’alto del tuo paradiso verso il mio profondo e rosso inferno. Sapevi a cosa andavi in contro. Ma mi hai salvato rendendomi un uomo migliore. E no, non credo che tu sia appassita amore mio. Non ci credo."
Brian la fece girare nelle sue braccia e la guardò dritta negli occhi.
Il segno vermiglio del peccato era ancora visibile nelle sue iridi. Mise una mano sopra gli occhi delle donna, che non poteva far altro che essere in balia dei suoi movimenti.
Poi mise l'altra sotto il mento. Con una leggera pressione, avvicinò il viso al suo.
Poggiò le sue labbra sulle sue, delicato e morbido.
"Ti amo Emily." pensò, perso in quella dolce morbidezza, trattandola come se fosse l'ultima volta che l'avrebbe sfiorata.

Brian scosse la testa.
Tornò alla realtà, con un sospiro e un gemito soffocato.
Edward tornò nella stanza, barcollando, come un ubriaco.
Ubriaco si, ma di felicità. E drogato. Drogato d’amore.
Non si accorse del cambiamento d’espressione di Brian, mangiarono insieme come nulla fosse.
In silenzio, l’uno con un dolore celato malamente, l’altro che tratteneva a malapena la sua gioia.
Dopo pranzo, Brian andò al “lavoro”, Edward si chiuse in camera e si buttò sul letto.
Il primo, uccise un killer professionista che inseguiva da mesi, a Manhattan. Il secondo, scambiò sms con Charlotte tutto il pomeriggio.

Sabato.
Orfanotrofio Charlotte Brontë.
Due ragazzi, all’ombra di un castagno, si scambiano promesse d’amore.
Si baciano, si abbracciano, si coccolano.
Una ragazza, dall’alto della sua finestra, li osserva.
Li odia, li detesta, li uccide con lo sguardo.
Gelosa, gelosa marcia, stringeva i pugni e si disperava.
Se avesse posseduto una bomba atomica l’avrebbe usata.
Ma anche una pistola sarebbe potuta bastare.
Perché erano venuti qua? Per piazzarsi davanti alla sua finestra e sputarle in faccia il loro amore?
Oh, anche lei avrebbe voluto sputargli in faccia si, ma saliva e tutto il suo dolore.
Si legò i capelli in una coda alta, si truccò pesantemente, con tutti i trucchi che aveva.
Si sciolse i capelli, se li appuntò di lato con due forcine, si mise le scarpe e fece un lungo sospiro.
"Basta, ora li uccido." Pensò, stringendo i pugni e correndo fuori dalla stanza.
Il suo corpo slanciato attraversava i corridoi spenti e bui, facendoli risuonare ad ogni suo balzo.
Ogni passo che la divideva dalla coppia era un passo verso la sua fine.
Quei corridoi bui non avrebbero più risuonato della sua rabbia.
La sua stanza non si sarebbe mai più distrutta ad ogni suo scatto d’ira.
La preside non si sarebbe mai più lamentata della sua testa perennemente tra le nuvole.
Tutto, solo per una maledetta mano.
Tutto, solo per un dannato schiaffo.
Cinque dita stampate sulla guancia di una rivale, cinque dita che sigillarono il suo oblio.

I muri non hanno memoria.

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Capitolo 14
*** The End. ***


Questo è l'ultimo capitolo di Red Eyes. Spero che sarete felici di sapere che.. continuerà :)
Il seguito si chiama "Welcome, Ghosts" e spero che lo leggerete :)
Ps. Alla fine del capitolo vi farò un altra piccola irruzione!

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{ Capitolo 14. The End. }

Il tempo si fermò. Gli occhi della Rossa si spensero, il viso contratto in un urlo soffocato, la mano poggiata su una guancia arrossata cadde aderendo ai suoi fianchi.
Come un'inondazione gli occhi di Edward affogarono nell'abituale rosso acceso.
La mano bianca si sporcò di nero e rosso. Gocciolava, la nebbia impalpabile e scura.
Il rumore delle goccie che cadevano sfracellandosi a terra provocavano lo stesso rumore di un martello pneumatico.
La mora poggiò le ginocchia a terra, fissando il vuoto, l'ombra dell'ultima cattiveria impressa nelle iridi.
Nella mente di Edward venivano ripetute le stesse parole all'ennesima potenza. "Le ha dato uno schiaffo, le ha dato uno schiaffo!".
Ma nel giro di pochi secondi, vennero sostituite da altre lettere, ben più terribili.
"E'..morta."
Come per dare conferma a questo pensiero, il corpo di Blair cadde da un lato, gli occhi semiaperti si rovesciarono indietro e i capelli neri si sparsero a terra, bagnandosi di una sostanza rossa, appiccicosa e bagnata.

Grida, urla, lacrime e sangue.
Una corsa in mezzo ai boschi, ginocchia sbucciate, stinchi graffiati, odore di terra appena smossa, il suono di un fiume sempre più vicino e guance rigate di lacrime.
Poi, silenzio, rotto solo dal movimento impetuoso del torace e sospiri e singhiozzi strozzati.
Edward, con gli occhi rossi come il tramonto che affondava nell’orizzonte, guardava a terra, ormai incapace di proferire parola.
Charlotte piangeva come non aveva mai pianto in vita sua. Gli occhi spenti di Blair, il sangue che usciva dal suo torace, la voce strozzata e le sue ultime parole, sputate in faccia a chi l’aveva appena colpite a morte.
Le stesse due parole che un’ora prima aveva detto lei, alla stessa persona. Risuonarono nella sua mente come pugnalate. “ T-Ti.. amo.. “
Alzò lo sguardo verso di lui. Aprì la bocca, come per dire qualcosa.
Ma non ne aveva la forza. Non aveva parole per lui. Niente più da dire, niente più da raccontare.
Niente più d’amare.
Il suo amore appena sbocciato, era già appassito.
Lei, Charlotte, non amava più. Come il sangue che era fluito dalle arterie e dalle vene di Blair, il suo amore era fluito via dal suo cuore.
Non poteva, non poteva più amarlo.
Strinse i pugni e distolse lo sguardo da lui.
Si girò in direzione dell’orfanotrofio. Era certa che almeno un’orfana avesse visto la scena. Gli aveva dato una spallata mentre era corsa via.
Con un po’ di fortuna se la sarebbe cavata.
L’ultimo suono che Edward sentì, fu il calpestio di piedi veloci allontanarsi.
Poi, il nulla lo avvolse e si lasciò cadere verso di esso.

25 Dicembre, alcuni anni dopo.
Brian accese una candela rossa posta sopra il tavolo.
Prese il tacchino dentro il forno con l’aiuto di un guanto morbido.
Solo, di nuovo.
Le lenti a contatto gli davano fastidio.
Dalla scomparsa di Edward si era dovuto abituare ad usarle.
Le detestava, soprattutto perché gli facevano sentire ancora si più la sua mancanza, la sua assenza, il suo essere lontano. Quel ragazzo alla fine, aveva fatto la sua fine. Aveva fatto di tutto per evitarlo, ma non ci era riuscito. Un fuggiasco, un eremita, un uomo senza nome dato che sicuramente era stato costretto a cambiarlo.
Non aveva dato mai notizie di se. Ma qualcosa dentro Brian gli faceva credere che era ancora vivo. Glielo diceva il suo cuore.
Iniziò a mangiare. Il suono delle posate contro il piatto rimbombava sordo nella stanza. Nella strada, un’ambulanza passò. La grandine sbatteva sul vetro del salotto. Il vento faceva muovere le fronde degli alberi in giardino.
Ma un suono ben più gradevole, provenne dall’ingresso.
Uno squillo indeciso del citofono, lo fece saltare sulla sedia.
Un sorriso smagliante apparve sul suo viso.
“Edward, Edward, Edward!” pensava, esultante.
Corse veloce come il vento alla porta.
L’aprì, tremando di felicità.
Una ventata ghiacciata entrò nella stanza, alcune gocce di pioggia mista a grandine, bagnarono i suoi vestiti.
La sua mascella decise di cadere verso il basso.
Sicuramente, se non fosse stata attaccata al viso, sarebbe caduta a terra, rimbalzando sullo zerbino.
Occhi cerbiatto sbatterono contro le sue iridi.
Bagnati di lacrime e pioggia lo fissavano.
Sogno? Visione? No, realtà.
Nei sogni non ti senti svenire. Non senti la pelle d’oca, il tuo corpo non freme. Il tuo cuore non smette di battere per più di un minuto.
- E….Emily.. - sussurrò. La sua bocca impastata fu allagata dalla saliva.
Un ombrello sospeso, cadde a terra poi volò via, gonfiato dal vento.
Improvvisamente, si sentì stretto in un abbraccio bagnato e caldo.
La porta sbatté e il suo cuore ricominciò a palpitare.




Scuse, ringraziamenti e spiegazioni.
Prima di tutto, spero di non avervi deluso.
Ma visto che vi ho deluso, ne sono certa, mi giustifico così.
La vita è come un’opera teatrale. A volte è una commedia a lieto fine, a volte, una tragedia.
So che voi tutti desideravate una certa conclusione. Ma non sarebbe stata banale, scontata, illusoria?
So che non vi consola, ma ci ho provato.
Secondo, ringrazio tutti coloro che mi hanno seguito e sostenuto. Ringrazio ad uno ad uno voi, Lettori miei.
Vorrei molto pubblicare (sogno!) e allargare questa "storia", perché molte domande e spiegazioni sono rimaste in sospeso, a causa della natura stessa di un racconto, non potevo mettere troppi dettagli.

Spero di avervi fatto emozionare, nel bene e nel male, con queste mie umili parole. Spero di avervi fatto sognare e sperare.
Infine, ricordate: Le storie non hanno mai fine. Continueranno a vivere per sempre nei nostri ricordi.

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