The Street's Jacksons -RIVEDUTA E CORRETTA-

di Wendy_magic_forever
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** New Life ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


-Prologo-

(25 giugno 2001, ore 21:30)


Le persone molto spesso nascono in un modo e crescono in un altro; quando una persona viene alla luce in una certa famiglia dove le insegnano certi regimi, non è detto che essa segua le orme dei propri padri, anche se questo vuol dire andare contro tutto e tutti.
Questo era successo a Eveline, la zia della prima protagonista che incontreremo: la sua famiglia aveva un piede nel ventunesimo secolo e uno nel diciottesimo, e i suoi genitori allevavano i figli secondo rigidi schemi di educazione e apprendimento.
Ma Eveline era diversa dagli altri; si ribellò al loro volere e s'incamminò per la sua strada. Anche se questo le costò una diseredazione, continuò per il sentiero che aveva scelto e non si pentì mai delle sue scelte.
E, tra un rimorso, un tentativo e svariati fallimenti, arrivò in cima dove voleva arrivare; diventò una grande insegnante di danza moderna, molto famosa e molto ricca.

In Italia, a Portofino, c'era una delle sue ville; baciata dal sole, accarezzata dal vento marino, circondata dal verde e così larga da poter accogliere trenta persone.

In questa bella villa ci giocava felicemente una dei nostri protagonisti: una dolce bambina di cinque anni dai riccioletti biondo cenere e un vestitino rosa che amava indossare.
Come ogni bambina fa alla sua età, scorrazzava tra le grandi sale illuminate, nonostante la madre le chiedesse, inutilmente, di non fare troppo rumore.

«Sorella, lasciala giocare.» disse Eveline incitando la sorella a sedersi con un gesto della mano «È normale, per la sua età, correre in quel modo!»
La donna si arrese e si sedette, lasciando la piccola Miki ai suoi giochi.

«Michela somiglia più a te che a me.» disse Caroline, la madre
«Lei si chiama Miki!» disse Eveline, alterata «Non voglio che papà la rovini come ha rovinato te! Guardati! Moglie a uno che manco conosci e con una figlia! E aspetti altri due gemelli! Karo, devi smetterla di chiamarla Michela e insegnarle a vivere veramente!» Eveline ci teneva che sua nipote non entrasse in quel baratro di rigidità dove sua sorella era caduta e a fatica si stava rialzando. In teoria, né lei, né sua nipote dovevano essere lì presenti, secondo i voleri dei loro genitori.
«Scusami, Ev. Sono troppo abituata a chiamarla col suo nome di battesimo. Vorrei che fosse una bambina come tutte le altre, ma non riesco a educarla in quel modo. È difficile cambiare mentalità dopo che ti hanno impresso un regime così... così...»
«Duro? Impossibile? Demotivante? Peggio dei lager nazisti?»
«Sì, esatto.»
Eveline amava sua sorella, e l'avrebbe aiutata in qualunque modo. «Se ti trovi in difficoltà, rivolgiti a me, sorella!», le disse, prendendole una mano.
«Ma se i nostri genitori ci beccano...»
«Non ti preoccupare per loro. Mi avranno anche diseredata, ma non mi impediranno di aiutare la mia nipotina!»

Pov Miki:


Mentre mia madre e mia zia discutevano tra di loro, io correvo come una matta, a discapito del mio bel vestitino rosa.

I miei capelli, a quell'epoca riccioli, sventolavano per la velocità, che mi sembrava aumentare e aumentare e aumentare. Amavo correre, giocare, saltare, girare e non stare mai ferma; come ogni bambina di cinque anni. Per me poterlo fare era quasi un sollievo: a casa mia era vietato essere bambini.

Saltando da una piastrella all'altra, arrivai alla camera di zia Eveline e, guardando la porta di ebano, mi accorsi che era socchiusa.
A me, curiosa piccola peste, bastò spingerla per aprirla.

Fino ad allora, non ero mai entrata nella camera di zia Eveline, perciò rimasi affascinata dall'ampiezza di quella stanza e dai meravigliosi motivi decorativi a fiori sui muri e negli angoli.

L'oro e il bianco sembravano i colori dominanti, nella camera della zia; a parte per il letto a baldacchino di un color blu caldo e accogliente.

E proprio sul muro dietro al cuscino, c'era un grande poster del cantante che da lì a tre secondi dopo sarebbe diventato il mio idolo: Michael Jackson.

Era l'unica cosa nera di quel luogo, anche perché indossava il suo completo della “Bad Era”.
Rimasi affascinata da quella sua immagine: lo sguardo duro e imbronciato, i lineamenti sottili e allo stesso tempo scolpiti, gli occhi profondi dove scorgevi ogni sfumatura della sua anima: rabbia, frustrazione, solitudine, amore... mistero.

Salii sul letto per guardarlo meglio, e rimasi a contemplarlo per ore...

... fino a che zia Eveline non mi sorprese: «Bello, vero?»

Sobbalzai, girandomi verso di lei; era seduta sulle ginocchia dietro di me e mi guardava con quello sguardo amorevole che io di rado ottenevo da un parente. Portava una tuta da ginnastica arancione acceso, in forte contrasto con le lenzuola del letto, ma perfettamente in sincronia con la sua personalità; non bastavano due rughe e i capelli grigi a levarle la sua vitalità giovanile.

«Ehm...sì, credo di sì, zia.» le risposi «Chi è?»
«È un cantante. Ed è la persona che mi ha aiutato a non stare sotto il controllo dei tuoi adorabili nonni!» le ultime parole le disse con una forte nota sarcastica
«Davvero?»
«Sì... mi ha convinto a diventare insegnante di ballo. È molto bravo. O, per lo meno... a me le sue canzoni piacciono!»
«Posso sentirle?»

La zia si alzò con estrema facilità e andò ad accendere lo stereo. Le grandi casse rimbombarono delle prime note di “Heal The World”.

Trovai fin da subito la voce di Michael unica nel suo genere. Non era un uomo, era un angelo.

Dopo un po' di tempo, avevo imparato a memoria il ritornello, e cominciai a cantarlo sopra la sua voce. La mia voce argentina si sincronizzava perfettamente con la sua eterea, creando un duo unico nel suo genere.

A fine canzone, zia Eveline mi fece un applauso: «Hai una voce bellissima, Miki!»
«Mai quanto la sua...» risposi, ancora presa dalla canzone.

Zia Eveline ridacchiò: «Sai, Michael ha proprio ragione nel dire che i bambini dicono le cose con sincerità assoluta!» la guardai, lei continuò: «E lo sai una cosa? I bambini sono ciò che Michael ama più di tutto!»
«Sul serio?» chiesi, estasiata.
«Sì. Solo che... purtroppo c'è della gente che riempe di fango la sua reputazione.»
rimasi quasi scioccata a sentire questa frase: come potevano fare una cosa del genere a una persona come lui???
«Come?» chiesi
«Dicendo cose del tipo “Si è sbiancato”, “Dorme in camere iperbariche”, “Ha il terrore dei germi”...» man mano che elencava, sul suo volto si dipinse una furia incontenibile, le vene pulsarono e la pelle di venne rossa come il fuoco «...“È una donna travestita da uomo”, “È  omosessuale”, “Si è fatto trentamila plastiche” ma in realtà sono tutti falsi, approfittatori, ingannatori, adulatori, voltafaccia , figli di pu...»
«Zia, mi fai paura!»

Detto questo, zia Eveline si calmò, la sua pelle tornò del suo colore originale e le vene si rilassarono. Mi chiese scusa per quella sfuriata: «È che non sopporto le persone come loro! Le detesto.» poi mi guardò negli occhi «Tu non credere mai a una sola parola di quello che dicono. È facile prendere in giro una persona se è buona e sa perdonare.»
Annuii.

La zia pensò un attimo, poi mi disse: «Miki, sai che lui sa anche ballare?»
«Ballare? Davvero? Anch'io so ballare!»
«Sì, ma non le cose classiche che ti insegnano in quella scuola per figli di nobili con la puzza sotto il naso, lui ha uno stile tutto suo. Te lo faccio vedere.»

Guardammo insieme un dvd di clip con lui protagonista, potei assistere a tutte le sue performance di “Smooth Criminal”, “Black Or White”, “Beat It” e “Scream”.

Il suo stile mi colpì subito e, appena il dvd finì, io gridai: «Quello stile è più interessante della danza classica, voglio impararlo!»
«Tesoro, anch'io ho voluto impararlo, ma purtroppo ho dovuto fare da sola perché in quella scuola non lo insegnano il suo stile!»
«Ma se devo farlo da sola, come faccio?»

Lei pensò un attimo: «Puoi imitarlo finché non imparerai. È così che ho fatto io.»
«E ha funzionato?»
Mi lanciò uno sguardo strano: «Vuoi vedere?»

Saltò nel guardaroba, ne uscì con un completo bianco stile “Smooth Criminal”, io applaudii, contenta.

Mise la canzone in questione e iniziò a ballare. Non era come Michael, ma ci andava vicino.

Alla fine, applaudii di nuovo: «Funziona! Funziona! Perché non sei andata da lui a ballare?»
«Perché poi ho scelto un'altra strada.»
Presi un tono triste: «Ma io vorrei diventare una ballerina...»
«E allora fallo. Sai... se ti allenerai con tutte le tue forze, potresti anche farcela. Magari, un giorno, potresti essere in una delle sue clip, a ballare al suo fianco.»
«Dici?»
«Sì, ma lui vorrà solo i migliori. Devi diventare una dei migliori per essere al suo fianco su un palcoscenico.»
Annuii con forza e mi alzai in piedi sul letto con fare orgoglioso: «E allora io diventerò una ballerina cantante così brava, ma così brava, ma così brava che dovrà prendermi per forza!»
«Brava la mia nipotina!!!» mi disse la zia prendendomi in braccio «E sai che faccio?» disse sorridendomi. Con una mano libera prese il dvd di clip e me lo diede: «Te lo regalo. Così ti potrai allenare per bene quando vorrai!»
«Davvero?!?» ero così contenta che me lo regalasse; mi sentivo come se fosse Natale e Compleanno allo stesso tempo
«Sì, tesoro!» rispose «Ma attenta a non farti beccare dall'orco cattivo!» mi disse scherzosamente. L'orco cattivo era il nonno.
Felice come non mai, la strinsi forte, poi mi fece scendere e corsi verso l'ingresso, per metterlo nella borsa di mamma e portarmelo via, a casa mia in California.

(25 giugno 2009, ore 21:30)


Chi conosce la sua storia, sa che cosa è successo a Michael in questo giorno.

E chi sa cosa è successo a Michael in questo giorno, sa perché ero sdraiata sul letto, con la faccia nascosta nel cuscino a piangere.

Il mio cuscino era diventato troppo umido, eppure le mie lacrime non smettevano di cadere sul mio cuore spezzato per questa mancanza.
Era il mio più grande punto di riferimento, la mia vita e la mia meta. Il mio mondo intero.
  “Ora che lui non c'è più, cosa farò?”   mi chiedevo, disperatamente

Il mio cellulare squillò: avevo scelto il ritornello di “Heal The World” come suoneria, la prima canzone che avevo imparato.

La foto e il numero di zia Eveline brillava sullo schermo, accettai la chiamata, nonostante non riuscissi a dire una parola. Poggiai l'orecchio sul cellulare, senza dire nulla.

Fu zia Eveline a parlare per prima, con voce triste e profonda, come se fosse appena tornata da un funerale:   «Miki... ho saputo cosa è successo.»   rimase in pausa, come se anche lei tentasse di tirare indietro le lacrime  «Sai quanto condivido il tuo dolore.»  aggiunse, con la voce contorta dal pianto 

Tirai su col naso rumorosamente: «È morto, zia... ero a tanto così dal diventare brava come lui e se n'è andato...» in preda a una rabbia e disperazione improvvisa, gridai forte: «Perché ora?!? Non poteva aspettare ancora qualche anno?!? Perché così presto?!?»
 «La morte ci chiama quando meno ce lo aspettiamo. Ma tu non devi scoraggiarti.»  tirò su col naso e la sua voce s'incrinò di nuovo «Non è questo che vorrebbe Michael.» 
«Non dire il suo nome... il cuore mi fa tanto male...»
«Anche a me. E pensa che io sono sua fan dai tempi di Thriller!»
«...Questa è la fine, zia?»
«No, tesoro. È un nuovo inizio. Vedi... quando un sogno s'infrange devi prendere la colla e crearne uno nuovo.»
«...ma dove la trovo la colla?»
«Questa è una cosa che dovrai scoprire te. Sii forte, piccola mia.»

Chiuse la chiamata.

Non l'avesse mai fatto. Mi sentii abbandonata a me stessa e al mio dolore. Un dolore che non potevo sopportare.
Mi aveva chiesto di essere forte, ma io avevo avuto così tanti problemi tutti in una volta che non potevo esserlo.

Quella sera feci qualcosa che pochi hanno il coraggio di fare e solo in occasioni davvero disperate.

Tuttavia, quel qualcosa che feci, mi assicurò la felicità. Felicità che avrei ritrovato pochi anni dopo, a New York, in una strada che avrei portato sempre nel cuore: la 136esima strada.

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Capitolo 2
*** New Life ***


-1° parte-

New Life

 

 

(25 giugno 2014, New York)

 

Pov Miki:

 

Cos'era successo nel giro di cinque anni? Niente. Solo che avevo continuato a ballare e cantare, mi ero ribellata ai voleri dei miei nonni ed ero stata diseredata.

 

Ero dentro alla mia nuova casa, che era appartenuta a mia zia prima che avesse fortuna e andasse a lavorare e a vivere a Portofino, in Italia.

 

Il cellulare squillò, col suo numero in sovrimpressione; quasi lei sapesse che ero arrivata.

Accettai la chiamata e sentii la sua voce, solare e raggiante come al solito: «Ciao, tesoro, come va?»

«Ciao, zia, sto bene.»

«Sei già arrivata alla tua nuova casa?»

«Sì, zia...»

«E ti piace?» c'era una certa aspettativa nella sua voce

«Bhe...» la “casa” in questione era un monolocale dai muri crollanti, i tubi che perdevano acqua e l'aspetto poco abitabile «...non sembra molto resistente.»

«Oh, non ti preoccupare, io ho vissuto in quella casa per tredici anni!»

«... Sicura che resisterà altri tredici?»

«Ma ovviamente! Tranquilla! Tu continua solo a seguire il tuo sogno, va bene?»

«Certo.»

«Allora ti saluto! Goditi la tua nuova casa, ok?»

«Ok, ciao.»

 

Misi giù.

 

Guardai la mia nuova casa ancora per un po' e sospirai: dopo tutta la vita passata in saloni dorati e ville grandi quanto città, ero finita in un buco per topi, e tutto a causa di un cantante morto da cinque anni che ancora amavo alla follia.

Non ero per nulla pentita della mia scelta, ma al ricordo della grande casa in cui abitavo prima che mi diseredassero non potevo non struggermi.

 

Avevo rinunciato a vita nel lusso, grandi sale e tantissimi regali per poter ballare e seguire i miei sogni; in più avevo rifiutato il matrimonio combinato che mio nonno aveva programmato per me e per questo ero stata cacciata da quella che ormai consideravo una prigione dorata. Devo a mettere; a passarmi la chiave per primo era stato Michael; la stella che mi aveva guidato per tutta la vita da quando avevo esordito nella danza.

 

Un sorriso tenero si dipinse sulle mie labbra al pensiero di tutto ciò che mi aveva regalato, indirettamente. Per tutta la vita ho imitato i suoi passi da sola, nascondendomi in un angolino poco illuminato della grande villa dove abitavo, lontano dagli occhi vigili dei miei nonni, che non approvavano la mia scelta. Sognavo di imparare le sue mosse alla perfezione e un giorno ballare al suo fianco; ma, purtroppo, lui se n'era andato prima.

Prima che tutti i miei sogni diventassero realtà. Lì per lì pensai che la mia vita fosse finita, ma poi mi ripresi e continuai a impegnarmi per continuare la sua strada e guarire il mondo.

Anche a cinque anni dalla sua morte, continuavo ad amarlo come una fangirl e, a essere onesta, non smettevo mai di sperare che lui fosse ancora vivo da qualche parte nel mondo.

 

Quando smisi di rimuginare sul mio passato, strinsi la benda che portavo sul polso e cominciai a svuotare le valigie; feci uscire i vestiti dal mio bagaglio viola e li sistemai nel vecchio armadio, le scarpe nei cassetti e i poster sui muri.

 

Dopo aver messo a posto, guardai il calendario: 25 giugno.

Giorno di lutto!”, pensai, sarcasticamente.

E anche anniversario di quello che feci al mio polso... strinsi la benda ed evitai di pensarci.

 

Aprii l'armadio e presi una t-shirt con le maniche lunghe, un paio di pantaloni neri attillati, una fascia nera che avrei messo sul braccio sinistro con su scritto “777” in bianco, e delle scarpe da ginnastica nere. Avrei preferito i mocassini, ma non li avevo; quelli che avevo comprato tempo fa si erano consumati per il troppo uso.

 

Mi guardai allo specchio. Ero cambiata molto nel giro di quasi quindici anni: i miei capelli biondo cenere erano diventati scuri e lunghi, i miei occhi erano ancora azzurri, ma avevano smesso di brillare come una volta, e la benda che portavo sul polso sinistro era il mio più grande cambiamento.

 

 

Ricordai la bambina ricciolina che aveva detto a sua zia che sarebbe diventata una cantante ballerina del calibro di Michael Jackson e sospirai, piena di nostalgia.


 

La mia vera storia, però, iniziò quando uscii di casa per conoscere il mio quartiere.

 

Camminavo lentamente, a testa bassa, seguendo il ritmo di “Stranger In Moscow”, che stavo ascoltando ascoltando a volume altissimo e mi rimbombava nelle orecchie.

L'avevo scelta perché era molto adatta alla mia situazione; dopotutto, ero una straniera in quella città. Certo, non ero a Mosca, ma il discorso era lo stesso.

 

Alla fine della canzone, passai a “You Are Not Alone”; in un giorno di lutto hai soltanto voglia di struggerti nella memoria del caro che hai perso tempo prima, e questa era la più adatta.

 

 

Another day has gone
I'm still all alone
How could this be
You're not here with me

You never said goodbye
Someone tell me why
Did you have to go
And leave my world so cold

 

 

Al solo pensare a quanto queste parole fossero vere, le lacrime salirono negli occhi per poi scivolare lungo le guance.

 

Diamine, Michael, sei morto troppo presto!” pensai “Perché mi hai lasciata da sola quando avevo più bisogno di te?”

 

Michael, il mio unico sostegno in quel lager del libero pensiero dove vivevo, era morto in un periodo critico della mia vita; la sua morte era stato il colpo di grazia alla mia felicità: da quel giorno i miei occhi si erano spenti e il mio cuore batteva più lentamente. Quel giorno mi aveva segnata per sempre.

 

Ma il dolore prima o dopo è destinato a morire: il primo passo verso la mia nuova felicità fu quello che feci per voltare l'angolo ed entrare nella 136esima strada.

 

Camminai ancora per qualche minuto, come se fossi più morta che viva, quando qualcosa attirò la mia attenzione: un ragazzino sui quindici anni che correva, portando in spalla un enorme stereo portatile.

Era medio-basso, aveva i capelli corti e riccioli e vestiva in jeans; mi passò davanti come se non esistessi ed entrò in un giardino interno, correndo col fiatone.

 

 

Arrancò col suo enorme stereo verso un cancello di rete, lo aprì ed entrò, lasciandolo aperto dietro di sé.

Incuriosita, mi avvicinai a quella sottospecie recinzione per vedere che cosa avesse di così importante per correre in quel modo, e rimasi lì ad attendere cosa sarebbe successo.

 

«L'ho trovato!» sentii gridare

«Ottimo lavoro, fratellino!» rispose una voce più adulta

 

Pov Mike:

 

«Sono stanco morto!» mio cugino Tommy non aveva più fiato in corpo, Stella lo fece sedere su un copertone

«Secondo voi funzionerà ancora?» chiesi agli altri

«Eh, speriamo!» rispose Erik «È rimasto nella polvere per tutto questo tempo!» tolse un po' di sporcizia dallo stereo che avrà avuto trenta-quarantanni

«Ellen e Diana arrivano con le cassette?» chiesi a Sarah, che ancora messaggiava alle due gemelle

«Arrivano; sono a due isolati da qui.» rispose la rossa

«Ne sei sicura?» chiesi

Perse la pazienza come al suo solito e gridò: «Sono loro che me l'hanno detto, che cosa vuoi che ne sappia??? La prossima volta mi iscrivo a un corso per indovini e poi te lo so dire!»

 

Lo so, Sarah era piuttosto sgarbata e irritabile, ma era una brava ballerina. E anche una brava ragazza, in fondo; noi del nostro gruppo la conoscevamo da quando andavamo all'asilo, quindi sapevamo che era fatta così.

«E se lo stereo non va, che facciamo?» chiese mio cugino Ash

«Lo portiamo a DJ. Lui lo saprà riparare.» risposi, sicuro

 

Pov Miki:

 

Non riuscivo a sentire nulla da lì dov'ero, sapevo solo che saranno stati in circa cinque o poco più.

 

Cercavo di captare qualcos'altro quando...

«Cosa ci fai qui?» una voce femminile non troppo amichevole bloccò i miei tentativi di spionaggio.

Mi girai di colpo e vidi due ragazze palesemente gemelle in tuta l'una verde e l'altra rosa, con i capelli biondi legati e iper-truccate. Quella in tuta rosa portava una borsa a sacchetto pieno di chissà che cosa.

 

 

Cercai di uscire da quella situazione: «Niente, ho visto un ragazzino trasportare uno stereo gigante e mi sono detta: “cosa ci fa con quell'affare?”, e mi sono appostata qui... pensavo... gli stereo come quello esistevano solo negli anni '80...»

«Non sono affari tuoi quello che facciamo.» disse la ragazza in tuta verde «Ora levati dai piedi, piccola...»

«Ferma un secondo, Ellen!» l'altra la fermò prima che m'insultasse «Il suo abbigliamento non ti ricorda qualcosa?»

La ragazza in verde, chiamata Ellen, si fermò a osservarmi per qualche secondo.

 

«... ... ... Black or White?»

«Infatti!» disse l'altra

 

Le due gemelle si girarono, dandomi le spalle, e confabularono sottovoce qualcosa che quasi non capii riguardo “essere fan”, “non lo conosce”, e “io penso di sì”.

 

Si rigirarono verso di me e Ellen mi chiese: «Perché ti sei vestita così?»

«Sono in lutto.» ci girai intorno per sicurezza

«E perché non porti i mocassini?»

«Perché sono consumati per il troppo uso.»

«E il numero 777 che porti sul braccio sai cosa significa?»

indicai i numeri mentre spiegavo «Il primo 7 significa “settimo figlio” e l'altro 77 è la somma di 19+58.»

 

Ellen rimase in silenzio per un poco.

 

«Ci credi adesso?» disse la ragazza in rosa all'altra

Ellen rimase in silenzio, poi esordì: «In questo caso, credo che tu debba conoscere il nostro gruppo!» finalmente la ragazza in verde si degnò di non essere avversa nei miei confronti «Io sono Ellen, lei è Diana; siamo gemelle.»

«Tanto piacere, Ellen e Diana. Il mio nome è Miki.»

«Quello stereo che hai visto è il tesoro più prezioso di Erik, il nostro capogruppo. È uno stereo di quarantanni che speriamo di far funzionare.»

«E con che cassette?» chiesi

«Con queste!» Diana abbassò di poco la borsa e mi fece vedere che era piena di vecchie cassette.

«Wow.» esclamai «Che forza!»

Ellen mi fece girare e mi spinse gentilmente oltre il cancello: «E vedrai che forza quando incontrerai il nostro gruppo!»

 

Mi lasciai trasportare dalle sue spinte cordiali, sotto i miei piedi l'asfalto finì e cominciò il cemento.

Oltre quel cancello c'era un cortile, limitato dai palazzi intorno ad esso, e al centro di quel cortile di cemento c'erano sei copertoni da camion divisi in tre parti e sistemati l'uno sopra all'altro.

In uno di questi era seduto il ragazzo che avevo visto prima, in un altro una ragazza ricciola e rosso chinata su un cellulare; dalla sua magrezza e altezza pensai che fosse una ballerina o qualcosa di simile.

 

 

Lì vicino ai copertoni c'era un'altra ragazza, anche lei molto snella e vestita attillata, con un caschetto biondo e gli occhi azzurri vispi, da ficcanaso.

 

 

Intorno a loro, c'erano altri tre. Il primo era un ragazzo che avrà avuto la mia età, se non un anno di più. Aveva la pelle nera, i riccioli e gli occhi scuri. Vestiva con una giacchetta di pelle nera come nere erano le sue scarpe e i suoi pantaloni, e un fisico “alleggerito”. Sì, un fisico che diceva ben poco di maschile; piatto, delicato, flessibile, femminile, il fisico che molto spesso causa accuse di omosessualità, oppure la provoca.

 

 

Il secondo avrà avuto 19/20 anni ed era grande, muscoloso, con dei bicipiti abbastanza sviluppati. In più era in canottiera, con dei pantaloni super-attillati che evidenziavano anche i muscoli sulle gambe e dei guanti senza dita alle mani; insomma, era il totale contrario del nero! Anche di faccia era super-attraente; biondo, leggermente pallido di pelle, ma dagli occhi di un verde brillante stupendo che ti faceva girare la testa, uguale a quello del ragazzino seduto sul copertone.

 

 

L'ultimo, invece aveva gli stessi occhi verdi del primo, ma era sui sedici anni, aveva la pelle color caffellatte, i capelli castani e i baffi scuri. Vestiva stile rap, con tre berretti in testa e la giacca super-larga rossa e bianca, jeans a metà sedere, con la cintura super stretta per evitare che i pantaloni cadessero e boxer bianchi in bella vista.

 

 

«Buon giorno, ragazzi!» fecero le gemelle, ma quando gli altri si girarono verso di loro per salutarle, sul gruppo calò un silenzio tombale.

Accorgendosi della mia presenza, mi scrutarono con occhi curiosi.

Quei loro sguardi indagatori mi fecero sentire piccola piccola, imbarazzata e timida; accennai un sorriso e un saluto con la mano.

 

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