L'equilibrista

di LucyCassiopeia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 처음 Cheoeum – Inizio ***
Capitolo 2: *** 운명 Unmyeong - Destino ***
Capitolo 3: *** 빈 Bin - Vuoto ***
Capitolo 4: *** 꿈 Kkum – Sogno ***



Capitolo 1
*** 처음 Cheoeum – Inizio ***


Capitolo I
 
처음 Cheoeum – Inizio

 







Stava piovendo di nuovo, il vento infuriava contro ogni cosa si trovasse sul suo cammino. Soffiava, adirato, cercando di scaricare la sua rabbia contro persone, animali e cose. Travolgeva tutto.
Samuele lottava contro il vento e la pioggia, mentre chiamava Cassi a gran voce perché questa si decidesse a scendere di casa. Avrebbero perso il treno, ne era sicuro, e sarebbero arrivati in ritardo come al solito. Ma cosa doveva fare con quella ragazza?
Dal canto suo Cassi non si preoccupava più di tanto di arrivare in ritardo o meno, tanto l’unico che si accorgeva della sua presenza era Samuele. Gli altri compagni? No, loro non sapevano nemmeno dell’esistenza di Cassiopea. Era un fantasma, nessuno la vedeva, nessuno la sentiva. Samuele la rimproverava spesso per questo. Ma non poteva farci nulla, lei aveva paura delle persone, aveva paura delle parole, più di una lama puntata al collo, perché le parole ferivano cento volte più di un coltello. Lo sapeva bene lei, che era stata ferita fin troppe volte da quelli che per lei erano stati amici. Le avevano sempre mentito tutti. E non li aveva ancora perdonato per questo.
Samuele era la sua ancora di salvezza. Grazie a lui era ancora viva, altrimenti si sarebbe già suicidata da tempo.
Posò la spazzola sul bordo del lavandino, osservando i suoi lunghi capelli color oro spento e gli occhi verde melma cerchiati da occhiaie d’insonnia. Da quanto era che non dormiva bene? Fin troppo. C’erano incubi che la perseguitavano, che le impedivano di dormire serenamente. Afferrò il correttore con un sospiro, per poi abbandonarlo nuovamente sulla mensola. In fondo a chi sarebbe importato se fosse sembrata un panda? Solo a Samuele. Riprese il correttore e mascherò le occhiaie.
Uscì dal bagno strisciando a terra le converse che portava ai piedi. Metteva sempre le converse nere, che stesse piovendo, che nevicasse o che facessero 40°.
Indossò il solito giubbotto di pelle nera che ormai cominciava a consumarsi. D’altronde lo aveva comprato al mercato per 10€, non poteva pretendere che durasse in eterno.
Sistemò lo zaino verde mela sulla spalla destra e si trascinò fino a fuori, dove Samuele la aspettava con aria irritata, più irritata del solito. Ah, già, lui odiava la pioggia. Cassi si era sempre chiesta come facesse a non amarla, lei la trovava poetica e riusciva a infonderle calma. Sebbene la pioggia sbattesse violentemente sui tetti delle case, lei provava una strana pace osservandola scendere dal cielo grigio.
«Se perdiamo il treno giuro che ti infilzo con la punta della matita!» le intimò Samuele.
Cassi cercò di trattenere una risata. Sapeva che lui stava cercando di spaventarla, ma era troppo buono per riuscirci. Non sarebbe mai riuscito a farle veramente paura e questo non andava bene. Cassi aveva bisogno di qualcuno che la minacciasse, che le dicesse cosa fare. Samuele era sempre riuscito a farsi ascoltare, ma solo perché Cassi lo adorava. Lo vedeva come il suo angelo, giunto dal Paradiso per salvarla da una vita di paura e solitudine.
«Allora corri!» urlò Cassi iniziando a correre verso la stazione a pochi passi dal suo palazzo.
Correre sotto la pioggia, correre contro il vento, era una sensazione che a Cassi piaceva molto. Si sentiva libera e la paura spariva quando correva sotto la pioggia, assieme a Samuele.
Samuele era il suo migliore amico dalla prima superiore. Era stato l’unico a cercare di capirla veramente, quando gli altri l’avevano lasciata in disparte perché la ritenevano “una depressa senza speranza”. Samuele l’aveva fatta uscire dal suo guscio, facendola parlare e aiutandola nella vita quotidiana. Purtroppo non era ancora riuscita a farla diventare un po’ più sociale. Non aveva ancora guarito la sua fobia per la gente. Avrebbe dovuto lavorare molto per farle cambiare quella prospettiva. Sembrava che Cassi vedesse le persone come mostri pronti a sbranarla da un momento all’altro. E non aveva tutti i torti. Gli umani erano tra gli esseri più subdoli e malvagi che potessero esistere, ma non tutti erano così e Cassi non lo aveva ancora capito. Non esistevano solo persone pronte a ferirti, c’erano anche le persone gentili e sincere. Come Samuele. Ma Cassi si rifiutava di credere che al mondo, oltre a Samuele ci fosse qualcuno di tanto gentile.
«Visto? Lo abbiamo preso, che motivo c’era di arrabbiarsi tanto?» disse Cassiopea, sedendo su uno dei sedili in finta pelle blu del treno.
«C’è che a forza di correre per prendere il treno ogni santo giorno, mi farai diventare anoressico come te da quanto dimagrirò!» disse in tono tragico.
Lui era sempre così di prima mattina: tragico, pessimista ed estremamente irritabile. Ma gli bastava un sorriso e delle scuse mormorate da Cassi, per farsi passare ogni punta di malumore.
«Il solito esagerato…» disse alzando gli occhi, per poi accigliarsi facendo più attenzione a ciò che aveva detto «Ehi, io non sono anoressica!» esclamò dandogli un colpetto sulla spalla.
«Il primo passo è ammettere di avere un problema» disse fingendosi uno psicologo come sempre.
Tra una risata e l’altra arrivarono sani e salvi a scuola.
Cassi esitò sulla soglia della terrificante prigione in cui stava per entrare.
«Oh, ancora…» pensò Samuele al limite dell’esasperazione «Non puoi fare così tutte le volte che dobbiamo entrare a scuola!» esclamò con voce troppo alta rispetto ai suoi soliti standard. Si passò una mano tra i capelli color castano chiaro leggermente mossi.
Cassi fece un passo indietro. Samuele le faceva sempre una paura bestiale ogni volta che si arrabbiava sul serio, e questo non capitava mai. Era successo forse una volta che si arrabbiasse pesantemente con lei, ma le aveva telefonato lo stesso pomeriggio, scusandosi per esser stato tanto duro. Sapeva benissimo che Cassi era estremamente fragile e che se lui mai l’avesse abbandonata, lei ne sarebbe potuta morire.
«Perché ti arrabbi tanto?» chiese ingenuamente Cassi
Lui alzò gli occhi al cielo, stava per scoppiare. «Perché non ce la faccio più! Hai una paura irrazionale di questo posto, tu hai una vera e propria fobia per le persone, per la scuola e tutti gli altri posti affollati come… Oh, ma guarda, il mondo! In caso tu non lo avessi notato, il mondo è sovrappopolato e se non ti abitui a stare a contatto con le persone, non riuscirai mai a sopravvivere in questo universo!» le urlò contro gesticolando con enfasi.
Cassi lo guardò con aria sconvolta. Fece un passo indietro, poi un altro. Voleva scappare, scappare via da lui e Samuele sapeva bene che stava di nuovo cercando di rinviare inutilmente la discussione.
Si avvicinò a lei e la prese per un braccio.
«Non fuggire!» le intimò.
Cassi puntò i suoi occhi verdi in quelli azzurri di lui. Aggrottò le sopracciglia e con le lacrime che minacciavano di scendere dai suoi occhi, si liberò e corse dentro la scuola, lontana da lui.
«Brava, scappa ancora!» le urlò lui contro, attirando l’attenzione di qualche curioso.
Era vero, lei stava scappando dai problemi ancora una volta, ma non poteva fare altrimenti. Non era abbastanza forte per affrontare Samuele, non poteva reggere il confronto con lui.
 
La giornata passò lenta come sempre quando a scuola non c’erano interrogazioni né progetti speciali. Cassi passò tutte e cinque le ore a disegnare sul quaderno di matematica i personaggi dei suoi manga preferiti. Disegnava tutte le volte che si sentiva triste. E data la sua immensa tristezza, avrebbe dovuto disegnare per giorni interi. Non sapeva con che faccia presentarsi davanti a Samuele per prendere il treno assieme a lui, cosa si sarebbero detti? Anzi, la domanda era: si sarebbero parlati? Cassi aveva una paura tremenda che lui avrebbe deciso di tenerle il broncio.
Ma non dovette preoccuparsene più di tanto, perché all’uscita da scuola trovò l’auto di suo madre che l’attendeva.
Pioveva ancora.
Lanciò uno sguardo triste a Samuele. Anche lui la stava fissando.
“Vai con lui, prendi il treno anche tu” urlava una voce nella sua testa. Da dove veniva quella voce bassa e profonda? Non era la voce di Samuele.
“Vai da lui!” urlò la voce che sembrava tanto quella di Jaejoong, il suo cantante preferito.
Lo ignorò. Ignorò la voce e salì il macchina dopo aver salutato Samuele con un piccolo movimento della mano. Gli occhi tristi di lui si soffermarono su di lei qualche minuto, prima di voltarsi e camminare lentamente verso la stazione.


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Spazio autrice : D

Eccoci al primo capitolo di questa nuova Long Fiction!!
Vi avverto anticipatamente che:
1. I primi due capitoli potranno sembrare non centrare nulla con il resto della storia, ma, fidatevi, alla fine filerà tutto
2. Non potrò postare molto spesso perché questa Fan Fic ho intenzione di scriverla bene e senza fretta, quindi scusatemi!

I nomi dei capitoli saranno messi in coreano con accanto la traduzione in italiano. Sì, c'è un motivo.
Questa è una fan fiction mezza fantasy, non saprei come definirla, ma lo sarà solo nell'ultimo capitolo probabilmente.
No, non sarà una fiction corta, prevedo un bel po' di capitoli.

Spero vi piaccia : )
Grazie per aver letto questo primo capitolo, aspetto con ansia le vostre recensioni per sapere cosa ne pensate : )

Baci,
LucyCassiopeia : )

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Capitolo 2
*** 운명 Unmyeong - Destino ***


Capitolo II

 
운명 Unmyeong - Destino

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il sermone di Don Carlo risuonava nella testa priva di qualsiasi pensiero di Cassi. Non aveva la forza di reggersi in piedi, nemmeno di piangere. Le sue guance erano prive di segni del passaggio delle lacrime e negli occhi non si intravedeva un briciolo di commozione. Vuoto. Era quello che si leggeva nello sguardo di Cassiopea durante il funerale del suo unico e migliore amico.
Un treno omicida si era portato via la giovane vita del suo amico e lei non aveva potuto far nulla per impedirlo, non era stata lì quando lui aveva avuto bisogno del suo aiuto. Eppure lui c’era sempre stato per lei. Era sempre stato al suo fianco con una parola di conforto, una battuta, uno schiaffo leggero che la tirava su, consigli, prediche. Lui era sempre stato lì e invece lei? Non aveva fatto nulla per impedire la morte del suo unico amico, non lo aveva salvato. Poteva sentire la voce roca di lui urlare nella sua testa. Le sue grida disperate e piene di rabbia sbattevano violentemente contro le pareti della sua testa. Urlava Perché non mi hai salvato? Dov’eri mentre io morivo?. Quelle parole la logoravano lentamente, pezzo per pezzo, portando via ogni secondo che passava, una parte sempre più grande del suo cuore e della sua anima vacua.
Sapeva benissimo che Samuele non le avrebbe mai e poi mai rivolto delle parole così dure, sapeva che lui non le avrebbe mai nemmeno pensate, ma non poteva fare a meno di credere a quelle frasi con le quali lei stessa si stava accusando.
Era lei la vera colpevole.
Se quel giorno fosse andata anche lei in stazione, piuttosto che tornare a casa in macchina, lo avrebbe potuto salvare e ora non sarebbe a quel triste funerale, pieno solo di persone a cui non importava nulla di Samuele. Nessuna di quelle persone lo conosceva realmente, nessuno aveva il diritto di stare lì. Solo lei e i genitori di Samuele potevano capire, solo loro sentivano quel dolore lancinante che impediva di respirare, che lasciava il corpo privo dell’anima. Quel treno, aveva portato via Samuele e lui aveva portato via con sé il cuore di Cassi.
Cos’avrebbe fatto senza di lui?
Com’era crudele la vita. Le aveva donato un unico vero amico e glielo aveva già portato via. Come aveva potuto essere tanto spietata?  Cassiopea aveva bisogno di Samuele, ne aveva un bisogno vitale, senza di lui non era nulla. Chi l’avrebbe sgridata quando faceva una cavolata? Chi l’avrebbe istigata a fare la cosa giusta? Chi ci sarebbe stato durante i momenti di sconforto più grandi? C’era sempre stato Samuele, solo lui, e Cassiopea aveva bisogno di lui, del suo sorriso e dei suoi occhi sinceri.
L’immagine del viso sorridente di Samuele la tormentava ormai da giorni. Da quando aveva saputo che il suo migliore amico era morto, aveva smesso di mangiare, non usciva di casa, non parlava con nessuno, si rifiutava di vivere oltre. Credeva non fosse giusto restare in vita, quando il suo amico non c’era più. Ora che lui non era lì con lei, cos’avrebbe potuto fare se non raggiungerlo?
Ci aveva pensato costantemente per giorni interi, ma alla fine la paura l’aveva sempre frenata. Temeva la morte ma allo stesso tempo la bramava. Si odiava per la sua incapacità di prendere una decisione definitiva. Voleva morire, raggiungerlo nel Paradiso, nell’Inferno o in qualsiasi posto lui si trovasse. Non poteva stare senza di lui. Aveva bisogno di averlo accanto. Senza di lui era persa. Eppure non aveva il coraggio di buttarsi dal balcone di casa sua al settimo piano o di avvelenarsi. Non era abbastanza forte da lasciare il suo corpo in quel mondo che ormai non aveva più alcun significato per lei. Che senso aveva restare in vita se l’unica persona a cui avesse mai voluto bene sul serio non c’era più? Ormai vivere o morire non sarebbe stato uguale? Se fosse rimasta in vita avrebbe comunque vissuto da morta, come uno zombie, priva dell’anima e di qualsiasi slancio vitale negli occhi.
Il sermone di Don Carlo terminò e le persone cominciarono a sfilare una dopo l’altra davanti a Cassi e ai genitori di Samuele. Con falso rammarico posavano una mano sulle loro spalle e pronunciavano le solite frasi fatte, come: Mi dispiace o Era un bravo ragazzo, Lassù starà bene, Le mie condoglianze
Il fatto che tutti dicessero le stesse parole, stava a confermare la teoria di Cassi sul fatto che a nessuno importava un bel niente di Samuele. Si leggeva nei loro occhi che erano andati lì solo per far notare la loro sensibilità. Nessuno aveva speso una parola su Samuele, solo Cassi aveva tentato di farsi avanti dopo il piccolo discorso dei genitori di Samuele, Manuela e Stefano, ma nessuno l’aveva sentita. Si sentiva invisibile, come se fosse morta anche lei e il suo spirito fosse rimasto ancorato a terra. Perché anche lei non poteva spiccare il volo e raggiungere Samuele? No, aveva troppa paura per farlo.
La cugina di Samuele, Dafne, le passò accanto senza degnarla di uno sguardo e Cassi non poteva biasimarla per questo. Dafne odiava Cassiopea ed era un dato di fatto che ritenesse quest’ultima colpevole di tutto ciò che di male accadeva a Samuele. Ma oltretutto non aveva tutti i torti. Quando Samuele si era rotto un braccio era stato solo ed unicamente per salvare Cassi da morte certa; tutti i malanni di Samuele gli erano stati passati da Cassi; quando si era fratturato una mano era sempre stata colpa di Cassi… Insomma, tutte le volte che Samuele si era fatto male era stato a causa sua, proprio per quello non poteva difendersi contro le accuse di omicidio da parte di Dafne. Oltretutto riteneva che avesse ragione. Era proprio colpa sua se Samuele era morto. Avrebbe potuto salvarlo, ma non era stata capace di farlo. Eppure quel giorno aveva sentito una strana sensazione che le aveva detto di prendere il treno, qualcosa dentro le aveva urlato non andare in macchina, una voce le aveva detto che sarebbe accaduto qualcosa di brutto a cui lei avrebbe potuto rimediare. Ma non aveva dato ascolto a questa vocina dentro di lei, l’aveva ignorata ed era salita in macchina con sua madre, salutando Samuele con un sorriso tirato. Proprio quella mattina avevano litigato.
Non gli ho nemmeno potuto chiedere scusa… pensò mentre una lacrima solitaria attraversava per la prima volta il viso di Cassi.
Non piangeva mai in pubblico, Cassi. Piangeva quando era nella sua stanza, al buio, sola. Ma per Samuele poteva anche abbandonare il suo orgoglio, per lui avrebbe potuto anche buttare tutta la sua vita, tutti i suoi progetti, all’aria. Avrebbe fatto di tutto per il suo amico e non glielo aveva mai potuto dire. Non gli aveva mai detto ti voglio bene e questo pensiero la tormentava. Avrebbe vissuto, forse, con il rammarico di non averglielo detto. Chissà se Samuele però lo aveva capito da solo che lei gli voleva bene. Sì, doveva per forza saperlo, altrimenti non le sarebbe sempre stato accanto.
«Noi torniamo a casa, prenditi il tempo che ti serve» disse sua madre. Ma la sua voce le giungeva distante, quasi impercettibile.
Era ormai sola nel grande cimitero. C’erano solo lei e il corpo freddo di Samuele sepolto sotto metri di terra, dentro una bara nera rivestita di velluto color bianco, il suo colore preferito. Quel colore gli calzava a pennello. Era un colore puro e neutro, proprio come lui. Era un ragazzo gentile, dolce e un po’ ingenuo. Cassi ricordava perfettamente la sua falsa espressione imbronciata quando soffiava via il solito ciuffo ribelle dei capelli castani-ramati dal viso e, spazientito, batteva nervosamente il piede per terra attendendo che lei terminassi di girare per la casa cercando i fazzoletti, la bottiglietta dell’acqua, la ricerca di scienze stampata la sera prima ed abbandonata sul tavolo della cucina… Eppure non diceva mai niente, si limitava a trascinarla fuori casa e cominciare a correre per non perdere il treno, perché se avessero perso quello sarebbero dovuti entrare a scuola con un’ora di ritardo e lui odiava essere in ritardo. Cassi si sorprendeva sempre, infatti, che potesse essere amico di un’esemplare di ritardataria cronica come lei.  Era così paziente con una pasticciona del genere… Anche se lo faceva arrabbiare dopo poco gli spuntava sempre un sorriso e, scuotendo la testa, rideva di una risata bassa e vellutata, posava una mano sul capo della ragazza e spettinandola le diceva Come si può restare arrabbiati con te?.
Non aveva mai capito veramente cosa fosse la loro amicizia. Era particolare. A volte sospettava di essere innamorata di lui e quando gliene parlava con schiettezza, come facevano sempre, le diceva con naturalezza E’ normale essere innamorati del nostro migliore amico, se non fossi innamorato di te, se tu non mi piacessi, non potresti essere la mia migliore amica, non credi? e a quel punto lei si rilassava, credendo alle sue parole. Eppure c’erano giorni in cui vederlo la innervosiva stranamente, quando la abbracciava il cuore batteva più forte e ogni qual volta la prendeva per mano cominciava a sentirsi stranamente a disagio. Accadeva raramente, perché abbracciarsi e tenersi per mano per loro facevano parte della quotidianità. Forse poteva sembrare strano, ma non poteva farci nulla, perché lei aveva sviluppato nei confronti di Samuele un attaccamento quasi morboso. Se stava lontana da lui per troppo tempo cominciava a sentirsi irrequieta. Nella sua testa ricomparve per l’ennesima volta il suo sorriso, i suoi occhi dolci e la nostalgia la invase come un fiume in piena.
Altre lacrime sfuggirono al suo controllo, rigando il viso coperto dagli occhiali neri e dai capelli biondo grano. Le gambe cedettero e lei si ritrovò in ginocchio su un cumulo di terra umida, di fronte alla lapide che riportava il nome di Samuele. Le mani strette a pugno sbatterono sulla terra bagnata davanti a lei. Pochi metri più sotto, il corpo di Samuele era steso in una fredda bara, permettendogli di dormire in eterno. Lui amava dormire quasi più di mangiare.
«Perché…» sussurrò piano Cassi «Perché…» continuò aumentando il tono della voce «Perché te ne sei andato? Perché mi hai lasciata qui sola? Dovevi portarmi via con te! Dovevo ancora dirti tante cose! Mi dispiace per quella lite, non volevo farti arrabbiare, mi dispiace per tutte le volte che ti ho ferito, mi dispiace per tutte le volte in cui non ti ho chiesto scusa! Ma ora esci da questa dannata bara, lo so che sei vivo, lo so che mi senti! Tu non puoi essere morto! SAMUELE!» urlò Cassi, in preda alla disperazione battendo i pugni sulla terra, mentre mille lacrime correvano sul suo viso come a fare una gara.
Poggiò la fronte sulla lapide di marmo, piangendo ancora.
Si stese lentamente sulla terra sotto cui riposava Samuele, scossa dai fremiti e dai singhiozzi delle lacrime. Non riusciva a respirare, le faceva male inspirare aria pulita, perché respirare era sinonimo di vivere e questo Samuele non poteva più farlo. Si sentiva egoista a respirare quell’aria senza che lui potesse farlo.
Restò stesa su quella terra per ore, finché non fece buio. Solo allora si decise ad alzarsi. Cacciò via le lacrime dal viso, asciugandole con la manica del giubbotto.
«Verrò a trovarti tutti i giorni, te lo prometto» disse per poi voltarsi ed incamminarsi lentamente verso casa. Non ebbe cura di rimuovere la terra dai propri vestiti e dai capelli, non le importava di quello che la gente avrebbe pensato.
 
Quella sera non mangiò, come ormai capitava da una settimana o forse più. Mangiava qualcosa perché obbligata, ma mai più di mezzo piatto di pasta o metà panino al tonno. Non aveva fame, non aveva né la voglia né la forza di mangiare.
Si rintanò nella sua stanza, si lasciò cadere sul letto come un peso morto e prese a fissare il soffitto con espressione accigliata. Si vedeva lontano un miglio che tratteneva le lacrime.
Si rigirò nel grande letto, stringendo il cuscino.
Era stanca, voleva dormire, voleva pensare che il giorno dopo si sarebbe svegliata e sarebbe tornato tutto alla normalità, che fosse stato tutto solo un brutto sogno. Voleva svegliarsi e ritrovare Samuele sotto casa imbronciato perché erano di nuovo in ritardo. Voleva essere rimproverata per la sua negligenza e i suoi continui ritardi, per poi fargli gli occhi dolci e farsi perdonare con un dolcetto. Voleva indietro il suo migliore amico.
Ti prego… pensò fa che sia stato tutto solo un incubo e con questo pensiero di addormentò.





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Spazio autrice : D

Eccoci qui al secondo capitolo! Mi scuso per il capitolo corto, prometto che i prossimi saranno più lunghi!
Preparatevi psicologicamente, perché nei prossimi capitoli non capirete una mazza!
Non ho nient'altro da aggiungere se non che spero leggiate in tanti e recensiate, in modo che io possa migliorare... Ho ancora tanto da imparare *depressione*
Sì, sono depressa come Cassiopea u.u
Ci "vediamo" al prossimo capitolo!

Baci,
LucyCassiopeia : D

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Capitolo 3
*** 빈 Bin - Vuoto ***


Capitolo III

Bin- Vuoto

 
 
 
 
 
 
 
 
Vuoto.










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Spazio autrice : D

In caso ve lo steste chiedendo, sì, il capitolo è fatto proprio così, non è un errore nè tantomeno è un capitolo da scrivere. E' fatto così e alla fine della storia spero potrete capire il perché : )

Questo è tutto, spero che vi piaccia il prossimo capitolo : )

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Capitolo 4
*** 꿈 Kkum – Sogno ***


Capitolo IV
 

Kkum – Sogno

 
  

Svegliarsi la mattina era sempre stato traumatico per una persona a cui piaceva dormire come lei e quella mattina il risveglio non fu meno tragico.
Il suono martellante della sveglia le rimbombò nella testa come un suono estraneo che non aveva mai sentito. Ebbe un momento di smarrimento. Non capiva da dove venisse quella musichetta insistente e fastidiosa, finché non notò un cellulare dall’aria complicata poggiato sul comodino bianco candido posto a lato del letto dalla struttura in color nero lucido.
Prese in mano il telefono lampeggiante, cercando di capirne in funzionamento. Cercò una tastiera ma capì subito dopo che doveva trattarsi di un cellulare touch-screen. Provò a schiacciare il tasto rosso e fortunatamente funzionò, così quella musica insopportabile cessò.
Rimase seduta sul letto dalle lenzuola bianche e si guardò attorno. La stanza profumava di lavanda, un profumo che le piaceva molto, e aveva un aspetto moderno ma vissuto. La persona che aveva scelto l’arredamento doveva avere buon gusto. Chissà chi aveva arredato la camera. Era stata lei? Non lo ricordava. Evidentemente quel giorno la sua memoria aveva qualche lacuna. Effettivamente non si ricordava nemmeno dove si trovasse. Di chi era quella casa? Se era casa sua allora doveva avere molti soldi, perché dall’armadio bianco aperto spuntavano fuori vari vestiti di marca.
Si meravigliò nel capire di non ricordarsi com’era fatta lei stessa e nemmeno quale fosse il suo nome. Quella situazione la incuriosiva tanto quanto la spaventava.
Vide un grande specchio a figura intera di fronte al letto, ma non riusciva a vedere nitidamente la sua immagine, vedeva tutto sfocato.
Lo sguardo ricadde sul comodino, su cui riposava placido un paio d’occhiali color nero. La montatura era in stile anni 70’. Li indossò e finalmente riuscì a vedere chiaramente ciò che le stava intorno.
Si alzò lentamente osservando i suoi piedi piccoli e chiari. Si guardò le gambe, longilinee e magre e poi le mani dalle dita lunghe ed affusolate dalle unghie curate smaltate di nero.
Si avvicinò allo specchio cautamente, con la paura che il suo aspetto non sarebbe stato all’altezza delle sue aspettative. Non che si immaginasse come una modella, ma era fermamente convinta di avere lunghi capelli biondo grano lisci scalati e con il ciuffo e occhi verdi-grigi, labbra piccole e sottili e naso alla francese. Si immaginava così e non sapeva nemmeno lei il perché preciso.
Ma il riflesso nello specchio era di una ragazza dal viso piccolo con occhi a mandorla marrone scuro, un naso piccolo e labbra piene rosee. I capelli erano legati in una coda alta. Li sciolse, trovandosi davanti a lunghi capelli neri scalati lisci come spaghetti.
Piegò leggermente la testa di lato con espressione accigliata. Non perché fosse insoddisfatta del proprio aspetto fisico, ma perché incuriosita da sé stessa. Era veramente lei la ragazza la cui immagine si rifletteva nello specchio?
Si toccò il viso esaminandolo attentamente. Quell’aspetto le era completamente nuovo. Non avrebbe mai pensato di essere una ragazza asiatica, effettivamente si pensava più come una ragazza italiana con origini tedesche. Non sentiva quel viso come suo e nemmeno quel corpo, troppo magro e perfetto. Non avrebbe mai potuto immaginare di essere una ragazza così carina. Si pensava piuttosto bassina e magrolina, un po’ sgraziata e più trasandata di quel che invece appariva in quel momento. Indossava un pigiama di cotone azzurro con pantaloncini e canottiera con bordatura di pizzo dall’aria costosa e di marca. Decise che era il caso di vestirsi, visto che non aveva la minima idea di chi altro potesse esserci in quella casa oltre a lei. Chissà, magari uscendo da quella stanza si sarebbe trovata davanti ad un bel ragazzo oppure ad una bambina con i codini neri che giocava con un bell’uomo, suo papà. Non sapeva se avesse una famiglia, un marito, un fidanzato, figli, sorelle o fratelli. Non sapeva nulla della sua vita, non ricordava di essere mai stata in quella casa né di essere una ragazza asiatica dal viso dai lineamenti dolci e gentili. Diede un'altra occhiata alla ragazza nello specchio e decise che doveva avere intorno ai 20 anni, non di meno. Chissà se aveva già una figlia e un marito o se fosse una donna sola e disperata. Si augurava vivamente di non essere sola, altrimenti a chi avrebbe chiesto aiuto per ricordarsi chi diamine era e cosa ci faceva in quella casa?
Prese dall’armadio aperto il primo paio di jeans che trovò e una maglietta a caso, disinteressandosi completamente all’abbinamento. Non le sembrava il caso di mettersi a scegliere un bel completo per apparire carina a chiunque si sarebbe trovata davanti.
Uscì dalla stanza, ritrovandosi in un salotto enorme, grande forse il doppio di un campo da basket. Vuoto. Nella stanza c’erano solo elementi moderni e dall’aspetto costoso, compresi oggetti strani posti su scaffali di cui non capiva né l’utilità né il funzionamento. Su una parete si ergeva in tutta la sua maestosità, un enorme televisore al plasma. Non aveva mai visto nulla di più esagerato.
Di fronte c’erano un tavolino da caffè sul quale poggiavano un computer portatile da un lato e un libro dall’altro, un divano bianco e una poltrona trasparente sospesa nell’aria grazie ad alcune catene legate al soffitto. Dietro questi due vi erano un tavolo di cristallo con alcune sedie bianche e nere attorno. Due poltrone bianche e un tavolino di vetro a dividerle. Dietro di queste un’enorme libreria.
Si avvicinò a quest’ultima, osservando i titoli dei libri. Erano scritti in una lingua con svariati e complicati segni che lei riusciva a capire benissimo, sebbene non si spiegasse come. Era una lingua strana che le pareva sconosciuta ma che era proprio la sua. Bizzarro… Era proprio convinta che quella non fosse la sua vera e propria lingua. Non sapeva spiegarsi perché ne fosse tanto convinta. Sfiorò i libri, cercando come un contatto con quei volumi, come sperando che sfiorandoli si sarebbe ricordata di quali libri aveva letto, quel’era il suo preferito e quante volte lo aveva letto. E invece quel contatto non risvegliò nessun ricordo. Quasi rise di sé per aver anche solo pensato che toccandoli con mano avrebbe ricordato qualcosa.
Vicino alla libreria trovò una porta che aprì senza alcuna esitazione, tanto dopo aver visto il lusso che caratterizzava il salotto, cosa poteva esserci di più spettacolare dietro quella porta? 
Una cucina moderna color rosso occupava gran parte della stanza in cui era appena entrata. Una penisola coordinata alla cucina era posizionata al centro della stanza con alcune sedie davanti. Un grande frigo color argento, una vetrina piena di calici e un grande mobile completavano l’arredamento della stanza. Anche questa stanza era vuota.
Uscì da una porta sulla sua sinistra e si trovò in un corridoio. Di fronte a sé c’era un’altra, ennesima, porta, alla sua sinistra dopo poco iniziava il salotto e di fronte la porta dietro cui c’era la camera da letto. Varcò la soglia dietro la quale si estendeva l’ultima stanza della casa grande e vuota casa in cui si trovava. Si sentiva sola in quell’abitazione, troppo grande e maestosa per una singola persona. Non si era mai sentita inquieta e triste sola in quella casa? Non ricordava, non riusciva proprio a ricordare e più che paura, le metteva addosso una strana rabbia e la frustrazione le invadeva corpo e anima, facendole venir voglia di sbattere la testa contro il muro. Magari il colpo l’avrebbe fatta rinsanire.
Si ritrovò dentro un grande bagno dalle piastrelle bianche. Un’enorme vasca era posizionata contro uno dei quattro muri e su quello opposto c’era invece un grande box doccia. Lavandino, wc, un mobile bianco contenente vari asciugamani, shampoo, beauty case e pettini vari e una scarpiera dalla quale prese subito un paio di scarpe da ginnastica.
Anche il bagno era vuoto e lei si sentì invadere da una sensazione di tristezza ancor più grande di quella che aveva provato fino a quel momento. Era sola in quella casa che non sembrava le appartenesse e che non riusciva a rievocarle alcun ricordo. Nemmeno un piccolo barlume, non una singola lucina si accendeva nel suo cervello, facendole ricordare anche solo di essere mai stata lì dentro. Non le importavano i dettagli, le bastava sapere se viveva realmente in quel posto, voleva sapere se fosse sola o avesse qualcuno a cui voleva bene e che la amava, voleva sapere se lavorasse o studiasse. Si accontentava anche di informazioni più generali. Le bastava conoscere il suo nome e quello del paese in cui si trovava. Basta, le bastava anche solo quello, avrebbe poi in seguito cercato qualcuno che l’avrebbe aiutata, ma perché intanto il cervello non faceva la sua parte e collaborava per farle tornare alla mente anche solo il più insignificante dei ricordi? Di certo non le stava facilitando la ricerca. Se quel cervello non si metteva a lavorare sarebbe stato difficile scoprire qualche dettaglio sulla propria vita e riuscire a contattare qualcuno in grado di aiutarla.
Cercò di non demoralizzarsi. Avrebbe cercato qualcosa dentro la casa che la potesse aiutare.
Tornò nel salotto, nel quale cercò qualche indizio che le potesse suggerire il proprio nome o dove si trovasse. Purtroppo non c’era nulla che potesse darle qualche indizio. Non un giornale che le suggerisse il paese dove abitava, né un diploma appeso al muro per indicarle il proprio nome. Sugli scaffali posti su tutto il perimetro della stanza c’erano foto e oggetti strani. Nelle foto comparivano quasi sempre lei e un ragazzo (a suo parere molto carino) abbracciati o sorridenti. Il ragazzo era giovane almeno quanto lei, con capelli non troppo lunghi e con un ciuffo color castano chiaro-rossicci. Era alto almeno dieci centimetri più di lei e sfoggiava un sorriso raggiante che metteva allegria. Sembravano felici insieme. Chissà chi era quel ragazzo. Il suo fidanzato, suo fratello, un suo cugino?
C’erano anche altre foto che ritraevano alcuni ragazzi e una ragazza, oppure lei con quella stessa ragazza… Insomma, nelle foto vi erano sempre i medesimi soggetti, sempre cinque ragazzi e due ragazze. Una delle due ragazze sembrava lei, anche se sembrava fosse più giovane. L’altra ragazza aveva capelli neri come la pece lunghi fino alle spalle, occhi a mandorla scuri, era minuta e ciò le conferiva un aspetto grazioso. Sembrava fragile, così piccola, attorniata dai cinque ragazzi alti e muscolosi che in confronto a lei sembravano degli orsi.
Aveva un viso piccolo con labbra a forma di cuore, un naso dritto e lungo e la fronte ampia.
Chissà chi era quella ragazza. Poteva essere una sua parente o una sua amica, chi lo poteva sapere? Di certo non lei. No, quella ragazza non le era per nulla familiare e tantomeno gli altri cinque ragazzi nella foto. Nemmeno l’altra ragazza nella foto, lei stessa, sapeva chi fosse. Non conosceva la propria vita né riusciva a ricordarla. Altra frustrazione.
Provò a togliere tutte le foto dai portaritratti, cercando qualche nota dietro le foto, ma dietro nessuna delle immagini c’era scritto qualcosa che potesse aiutarla. Sospirò, rimettendole tutte esattamente al loro posto, tra strani oggetti inutili, statuine, trofei.
Si voltò, guardandosi attorno, cercando disperatamente informazioni. Il suo primo pensiero andò al cellulare che l’aveva svegliata quella mattina con la musica martellante che evidentemente rappresentava la sua quotidiana e rumorosa sveglia. Tornò in camera e prese il cellulare dal comodino, dove lo aveva lasciato dopo averlo zittito. Se lo rigirò tra le mani osservandolo curiosa. Sembrava costoso. Premette il pulsante centrale del telefono e questo cominciò ad accendersi. Pensò finalmente di aver trovato qualcosa in grado di aiutarla, ma il suo entusiasmo si spense dopo poche secondi, quando sul cellulare comparve una scritta “Inserire il codice PIN”. Sbuffò e spense di nuovo il cellulare per poi infilarlo nella tasca dei pantaloni.
Stava quasi per darsi per vinta, quando si ricordò del computer in salotto. Corse nella stanza, fiondandosi ad afferrarlo, con il timore che potesse scomparire da un momento all’altro, come per magia, cancellando qualsiasi indizio possibile.
Si sedette sul divano, si tolse le scarpe da ginnastica e si mise a gambe incrociate sul divano di pelle bianco, poggiando il computer sulle sue ginocchia. Lo accese e cominciò a girare tra i vari file, alla disperata ricerca di nomi di persona o luoghi.
Guardando tra le immagini ritrovò foto delle stesse persone nelle fotografie sparse per il salotto. Questo le poteva solo confermare ciò che aveva precedentemente capito, ovvero che quei ragazzi dovevano per forza essere suoi amici. Un particolare in più le fu noto, ovvero i loro nomi. La ragazza dai capelli neri si chiamava Mina, mentre non era certa che i nomi degli altri ragazzi corrispondessero ai volti a cui li aveva associati, oltretutto le sembravano tutti uguali, eccetto per i cambi di look che erano fin troppo frequenti e questo rendeva difficile riconoscerli. I loro nomi erano Junsu, Yuchun, Yunho, Changmin e Jaejoong. L’unico di cui era certa di aver azzeccato il viso erano Jaejoong e Yunho, perché erano quelli che più comparivano nelle foto, uno con lei e l’altro con Mina. Jaejoong avrebbe potuto essere il suo fidanzato, mentre Yunho quello di Mina, ma non ne era sicura, potevano anche solo essere amici o parenti dall’indole affettuosa.
Tra i documenti non trovò altro che file intitolati “Trama”, “Personaggi”, “Capitolo I”, “Capitolo II” ecc. Da questo poteva dedurre che qualcuno stava scrivendo una storia. Magari era proprio lei l’autrice del racconto in questione. Chi altri sennò? A meno che lei non avesse una o un coinquilino, chi altro avrebbe potuto scrivere tutte quelle cose? E se lei fosse una scrittrice? Magari il suo lavoro era proprio quello. Era solo una supposizione, certo, ma era pur sempre qualcosa. Meglio di niente.
Purtroppo non trovò nient’altro che potesse aiutarla.
Spense il computer, lo appoggiò nuovamente sul tavolino e si rimise le scarpe.
Si alzò dal comodo divano e si avvicinò ad una delle tante finestre che rendevano la stanza luminosa. Fuori, sopra di lei, si apriva un cielo azzurro limpido. Era meraviglioso. Non ricordava di aver mai visto un cielo tanto bello, ma d’altronde non ricordava nemmeno il proprio nome. Chissà quante volte si era fermata a guardarlo come in quel momento.
Grandi palazzi e grattacieli si innalzavano. Sembrava quasi che volessero toccare quel cielo limpido, stregati anche loro dalla sua bellezza.
Sotto, in strada, c’era un via vai di persone incredibile. C’era talmente tanta gente che sembrava i marciapiedi non fossero abbastanza grandi per contenerla tutta. Anche per strada le macchine sembravano infinite. Quante volte lei aveva fatto parte di quella massa? Quante volte si era mescolata tra la gente seguendo la corrente, andando chissà dove?
Viste da lassù, le automobili e le persone non erano altro che piccoli puntini quasi indistinguibili. Doveva trovarsi al decimo piano, se non di più.
Si allontanò dalla finestra e si diresse verso la porta che evidentemente doveva portare all’uscita. Se dentro quella casa non c’era nulla che potesse aiutarla a ricordare, sarebbe uscita. Magari avrebbe trovato qualcuno che la conosceva e avrebbe ricordato qualcosa. Non si aspettava di certo di trovare un’enorme insegna luminosa con scritto sopra a caratteri cubitali “Ti chiami Pinco Pallino e ti trovi nel Paese delle Meraviglie”, ma sperava di incontrare una persona che potesse dirle qualcosa.
Avrebbe mentito. Non avrebbe detto a nessuno “Non ricordo chi sei”, lo avrebbe fatto solo se avesse trovato una delle persone che aveva visto nelle foto sparse per la casa. In quel momento ebbe il timore di poter dimenticare quei sei volti, tornò quindi indietro e prese una foto di gruppo da uno dei portaritratti. La infilò nella tasca posteriore dei jeans scuri, cercando di non stropicciarla. Guardò un ultima volta dalla finestra, cercando di capire se facesse freddo o caldo. Decise di non rischiare uscendo con indosso solo la maglietta a maniche corte bianche con su scritto in rosso “TVXQ, AlwaysKeepThe Faith”. Tornò nella camera da letto e prese dal mobile bianco una felpa nera con dietro la stessa scritta, stavolta in bianco, della maglietta che portava. Sotto la scritta della felpa troneggiavano maestosi cinque autografi.
Chissà cosa volevano dire quelle scritte. Dovevano avere un significato importante, visto che erano riportate su entrambi i capi d’abbigliamento. O magari era solo lo slogan della marca dei vestiti.
Rivolse uno sguardo allo specchio e notò per la prima volta un dettaglio a cui precedentemente non aveva prestato attenzione: al collo portava due medagliette a forma di cuore. Su una vi era scritto “AlwaysKeepThe Faith”, sull’altra “Jaejoong”. Con espressione accigliata continuò a fissare le collanine. Non capire il perché delle cose la faceva arrabbiare e non poco. Non riusciva a capire il significato della frase e che importanza avesse per lei. Jaejoong era uno dei ragazzi delle foto, quello che più spesso compariva in atteggiamenti affettuosi assieme a lei. Ora che aveva trovato il suo nome sulla catenina, era quasi certa che fosse il suo ragazzo/marito. E se non lo era, beh, doveva essere un migliore amico o un parente veramente molto affettuoso. Lasciò ricadere le due catenine sul suo petto, con un tintinnio, per poi rivolgere uno sguardo al cassetto del comodino nero. Andò ad aprirlo senza esitazione. Dentro ci trovò un portafoglio di Chanel, una scatola blu e dei fogli. La scatola blu conteneva un anello in argento con la stessa scritta della felpa e della maglietta.
“Dannata scritta...” pensò, non riuscendo ancora a coglierne in significato.
Ripose la scatola al suo posto e prese i fogli. Erano fotocopie di alcuni documenti, contratti. Uno riportava il nome di Jaejoong e diceva “Kim Jaejoong” e ora conosceva anche il suo cognome “in concordanza con i patti stretti, le sarà vietato di avere contatti con i membri del gruppo TVXQ, Jung Yunho e Shim Changmin, cui precedentemente prendeva parte. Amici e familiari legati a lei e agli altri membri dovranno scegliere se avere il diritto di mantenere i contatti con lei o Jung Yunho e Shim Changmin.
Le apparizioni televisive saranno ristrette e dovranno essere prima discusse ed approvate dalla SM Entertainment . Le sarà permesso di trovare una nuova casa discografica e di formare un nuovo gruppo con gli altri precedenti membri dei TVXQ, Kim Junsu e Park Yuchun, ma non potrete produrre più di un disco all’anno. Se queste condizioni non verranno rispettate, il suo precedente contratto tornerà in vigore e dovrà tornare a lavorare per la SM Entertainment”.
Queste erano alcune delle parole recitate nel documento. Ma non era finita lì. Un altro file diceva: “Jil Yui, essendo lei attualmente la compagna di Kim Jaejoong, sarà sottoposta anche lei al contratto vincolante imposto a Kim Jaejoong, Kim Junsu e Park Yuchun. Avendo scelto di mantenere i contatti con gli ultimi tre indicati, le sarà vietato avvicinarsi a Jung Yunho e Shim Changmin, membri dei TVXQ da cui i tre sopra citati hanno deciso di ritirarsi, annullando il proprio contratto con la SM Entertainment.
Lei non potrà vedere, contattare o trovarsi nello stesso luogo di Shim Changmin e Jung Yunho; non potrà accedere alla sede e alle succursali della SM Entertainment e non le sarà permesso entrare a far parte della nostra società finché non deciderà lei stessa di annullare il presente atto per poter firmare un altro contratto”.
Quei due documenti l’avevano lasciata perplessa ed esterrefatta. Da quanto aveva capito i cinque ragazzi, i suoi amici presenti nelle foto che c’erano nella casa, avevano un gruppo chiamato “TVXQ” (ed ecco il perché delle scritte trovate) e si erano divisi per non si sa quale motivo. Jaejoong, Junsu e Yuchun avevano lasciato il gruppo, mentre Yunho e Changmin erano rimasti con la casa produttrice, la SM Entertainment. I contratti erano pieni di restrizioni e la più ingiusta le sembrava quella di non poter avere più contatti con Yunho e Changmin. A quale scopo? A cosa serviva tenerli lontani? Se si fossero potuti tenere in contatto cosa avrebbero potuto fare di tanto dannoso alla società? Organizzare un attentato? No, decisamente non capiva, ma non se ne fece un problema, perché aveva capito molte più cose di quanto sperava. Non era certa di alcuni particolari, come che Jaejoong fosse proprio la persona che aveva in mente (anche se in cuor suo era più che certa che fosse lui; avrebbe potuto riconoscerlo al primo sguardo, seppur non si spiegasse perché) e che quei contratti fossero veri, ma i dati forniti in quegli attestati erano molto preziosi per lei.
Il nome sull’altro documento era Jil Yui. Pensava fosse quello il suo nome, ma non ne era sicura e non voleva far affidamento su una supposizione.
Osservò di nuovo la maglietta che indossava. Always Keep The Faith significava all’incirca “mantenere sempre la fede” e ora finalmente riusciva a capire perché. Quella maglietta era un chiaro avviso che diceva a caratteri cubitali “Ehi, io sono una fan dei TVXQ e crederò sempre in loro e nella possibilità che torneranno assieme come gruppo”.
Ora che comprendeva le scritte che portava addosso e poteva supporre che Yui Jil fosse il suo nome, si sentiva più tranquilla, ma non abbandonava comunque l’idea di uscire a cercare qualcuno che le fosse d’aiuto. Di sicuro qualcuno avrebbe trovato.
Uscì dalla camera da letto dopo aver riposto i documenti al loro posto, come se toccare qualcosa avrebbe provocato una catastrofe. Tornò in salotto e andò dritta verso l’unica porta la cui soglia non aveva ancora varcato. Doveva essere quella la porta dell’uscita, per forza. Prese le chiavi che si trovavano sopra lo scaffale vicino alla porta e dopo aver preso un grande respiro, uscì cercando di tenere la testa alta ed un atteggiamento di risolutezza, come se sapesse esattamente ciò che stava facendo, anche se non ne aveva la minima idea.
Sospirò, cercando di farsi forza. La sua missione era capire dove si trovava e magari incontrare qualcuno di conosciuto che le confermasse la propria identità.  
Prese l’ascensore e scese al piano terra, dove si ritrovò in un atrio dall’aria imponente, con una portineria e una portinaia dall’aria bisbetica dietro ad un bancone.
«Salve» salutò timidamente rivolta alla portiera dall’aria annoiata e terribilmente frustrata
«Buongiorno» rispose controvoglia quella.
La ragazza uscì in strada, ritrovandosi davanti ad un fiume di persone che correvano frenetiche a destra e sinistra. Quasi tutti quelli che vedeva avevano gli occhi a mandorla. Doveva trovarsi in una qualche città dell’immensa Asia. Sì, ma chissà quale. L’Asia era così grande che sarebbe stato difficile identificare la propria posizione geografica. Poteva essere Giappone, Corea, Cina… E poi? Che altri paesi utilizzavano come caratteri di scrittura i segni? Non lo ricordava. Non sapeva se era mai stata brava in geografia, visto che non ricordava assolutamente nulla, ma non doveva essere molto brava, visto che ricordava solo quei tre paesi. Oh, com’era frustrante non ricordare nulla…
Decise di non allontanarsi troppo dall’edificio, altrimenti non avrebbe saputo come tornare indietro e avrebbe passato la notte e chissà ancora quanti giorni, fuori casa.   
Si guardò attorno, cercando il nome della via in cui si trovava. Almeno se si fosse smarrita avrebbe chiesto a qualcuno il nome della via per tornare indietro. Dopo aver memorizzato nome e numero civico dell’ubicazione della sua abitazione, cominciò a camminare senza una meta precisa. Ma cosa le era passato per la testa? In che modo avrebbe mai potuto trovare qualcosa che le dicesse dove si trovava? Non poteva certo andare da qualche passante e chiedergli “Scusi, sa dirmi dove mi trovo?”, avrebbe fatto la figura della pazza. No, doveva per forza trovare un altro modo.
Si ritrovò davanti ad un giornalaio dal quale uscì un uomo robusto con i capelli bianchi ed un sorriso sul viso.
«Salve Jil-sshi!»salutò «E’ da parecchio che non viene a prendere il giornale. Comunque, ecco a lei, “Seoul news” come sempre, vero?» disse dandole in mano un giornale scritto nella stessa strana lingua in cui erano scritti i libri che aveva trovato in casa.
L’uomo doveva per forza stare parlando con lei, d’altronde le aveva messo in mano un giornale. L’aveva chiamata Jil-sshi. Ebbene era quello il suo nome? Aveva letto sul documento ritrovato in casa quel nome: Yui Jil. Ma l’anziano signore dall’aria gentile l’aveva chiamata Jil-sshi. Decisamente, non stava capendo nulla. Insomma, quale diamine era il suo nome?!
«Ah, sì, molte grazie» disse con un piccolo sorriso cercando di apparire naturale.
Strinse il giornale con le due mani. Il titolo del quotidiano diceva “Seoul News, dal 1800 il primo giornale della capitale della Corea del Sud”. Dopo aver letto il titolo, la ragazza si tranquillizzò, avendo finalmente capito il luogo in cui si trovava. Era nella Corea del Sud e abitava nella capitale, Seoul. O era lì forse di vacanza? No, doveva per forza abitarci, visto che l’edicolante le aveva parlato con familiarità, come se lei andasse sempre lì a prendere lo stesso giornale. Una quotidianità che, a quanto detto dall’anziano signore, si era interrotta da un po’ di tempo. Chissà come mai. Sentiva quel luogo estremamente familiare e allo stesso tempo distante. Sentiva di appartenere a quel luogo, ma anche che non era casa sua. Era una sensazione strana da esprimere a parole, la stessa ragazza non sapeva spiegarlo. 
«Jil-sshi, è sicura di stare bene? Non vorrei mancarle di rispetto, ma mi sembra un po’ strana oggi…» disse cauto l’uomo. Quell’uomo, con la lunga barba, il pancione, i baffi bianco candido… sì, quell’uomo le ricordava un po’ Babbo Natale. Le faceva tenerezza.
«Sto bene, grazie. E’ solo che per un istante ho dimenticato di essere qui» disse con un sorriso.
L’uomo sorrise ed annuì, come se potesse capire le parole enigmatiche della ragazza dai lunghi capelli neri.
«Posso chiederle come procede il suo libro?» chiese lui
La ragazza ebbe l’ennesimo attimo di smarrimento, colta per un secondo dal panico. Non aveva una risposta pronta, non sapeva di cosa lui stesse parlando. All’improvviso però si ricordò dei file di cui aveva letto i nomi sul computer che aveva esaminato in cerca di indizi sulla propria vita.
«Si può dire che procede bene. Sono a buon punto».
«Spero lo pubblicherà presto, sono ansioso di leggerlo. Come ben sa, sono un suo grande fan…» ammise l’edicolante arrossendo ed abbassando lo sguardo.
La ragazza sorrise «Le riserverò una copia in esclusiva con dedica personalizzata».
L’uomo fece un piccolo inchino evidentemente pieno di gioia nell’aver udito quelle sue parole «La ringrazio infinitamente Jil-sshi».
«Si figuri» disse con l’ennesimo sorriso. Era impossibile non sorridere trovandosi di fronte a quel caro signore. Aveva un aspetto dolce, le trasmetteva tenerezza e quel suo modo di sorridere le metteva allegria. Chissà qual’era il suo nome. Ma non glielo avrebbe chiesto, sarebbe stato scortese e probabilmente lui ci sarebbe rimasto male nel sentire la ragazza chiedergli il nome dopo chissà quanto tempo che lei probabilmente andava a comprare il giornale da lui.
«Ah, quanto le devo per il giornale?» chiese la ragazza con un sorriso. Non aveva un soldo dietro, ma tornando a casa avrebbe di sicuro trovato dei soldi da dargli.
«Si è già dimenticata di avermi pagato il giornale per una durata di tre anni?» chiese con una piccola risata
Yui scosse lentamente la testa con un sorriso, interpretando perfettamente il suo ruolo «Ah, me n’ero veramente scordata!» si portò una mano alla fronte con gesto teatrale, per poi fare un piccolo inchino verso l’uomo e dire «Mi scusi, ma ora devo proprio andare.Domani tornerò a prendere il giornale» disse come se fosse una solenne promessa.
«Allora a domani Jil-sshi!»
La ragazza fece un ultimo sorriso all’uomo e fece retro front. Ormai sapeva dove si trovava e il proprio nome – o almeno secondo gli indizi era sicuro al 90% che Yui Jil fosse il suo nome.
Così non le rimaneva che tornare a quella che riteneva casa sua e trovare dei numeri di telefono e il modo in cui chiamare, visto che usare il cellulare era impossibile!
Ora che sapeva quelle cose si sentiva più tranquilla.
Strano, la memoria proprio non le tornava, però. Aveva scoperto di trovarsi a Seoul, in Corea, ma questo particolare non le faceva tornare alla mente assolutamente nulla della sua vita. Quella perdita di memoria era proprio insolita, ma lei non se ne sentiva spaventata, più che altro era incuriosita dal fatto che non riuscisse a ricordare assolutamente nulla. Comunque il fatto di dover ritrovare il suo passato la emozionava. Si sentiva un po’ un detective, perché proprio come facevano questi ultimi, doveva trovare informazioni sulla sua vita senza destare sospetti nelle persone che evidentemente la conoscevano. Un sorriso storto comparve sul suo viso, mentre quasi rideva di sé stessa. Ogni persona si sarebbe spaventata di fronte ad un fatto così strano come la perdita di memoria improvvisa, invece a lei stuzzicava curiosità. Certo che era proprio strana come persona. Evidentemente non era una ragazza comune, doveva essere una pazza uscita da poco da un manicomio. Oppure un po’ fuori di testa perché, da quanto aveva capito, era una scrittrice.
Camminò immersa nei suoi pensieri e non si accorse di aver già passato da un pezzo il numero civico del suo palazzo. Non ci fece per nulla caso, lei semplicemente continuò a camminare, rapita dalla maestosità dei palazzi attorno a lei e dai visi delle persone. Tutto le era nuovo, quella vita le era completamente estranea. Chissà quante volte aveva percorso quelle strade con espressione annoiata, chissà quante volte era passata davanti allo stesso negozietto di orologi senza dargli importanza, continuando a camminare come un automa proprio come facevano le persone che le passavano accanto. Come potevano non fermarsi a guardare ogni vetrina, ogni più piccolo particolare? Era tutto così meraviglioso che era impossibile ignorare lo spazio circostante. Si chiedeva come facesse la gente a non rimanere impressionata ogni volta. Doveva per forza essere perché, vedendole tutti i giorni, avevano smesso di meravigliarsi e trovare tutto magico. Evidentemente lei guardava ciò che le stava attorno con occhi diversi perché tutto quello era qualcosa di nuovo per lei. Non ricordava di aver mai visto nulla di tutto ciò, così per lei era come se fosse una turista appena arrivata in città, sorprendendosi anche solo per la quantità di persone che scorreva sul marciapiedi senza mai sosta. Sembrava che quella folla fosse infinita, interminabile.
Che ore erano? Per quanto tempo aveva camminato?
Non si era accorta del tempo che passava né capiva dove si trovasse e come ci fosse arrivata. Provò a guardarsi attorno, cercando qualche punto di riferimento. Guardò il nome della via in cui si trovava, ma non le diceva nulla.
Il panico cominciò ad assalirla, ma si impose di rimanere calma. Chiuse gli occhi, prese un gran respiro e tentò di calmarsi. Decise di chiedere a qualche passante. Chiese a tre o quattro persone, ma tutti le avevano risposto “Scusi, non lo so” oppure “Non ho tempo mi spiace” o non l’avevano calcolata di striscio.
Notò una ragazza con vari pacchi in mano camminare lentamente. Decise di chiedere a lei, riponendo la sua fiducia nella sconosciuta.
La ragazza in questione era bassina e magra, con capelli castano chiaro lisci e con una frangetta ordinata che evitava di coprirle gli occhi, arrivando all’altezza delle sopracciglia. Aveva grandi occhi a mandorla marrone scuro, labbra piccole a forma di cuore e un naso sottile.
«Scusami…» provò a dire gentilmente toccandole un braccio per fermarla.
La ragazza si voltò verso di lei e il suo volto esplose in un sorriso.
«Yui! Che sorpresa trovarti in giro a quest’ora!» disse la ragazza con un gran sorriso. L’aveva chiamata Yui, quindi quello era il suo nome, ne poteva essere sicura al 100% ora.
Osservando meglio la ragazza, notò che somigliava molto alla ragazza che ricorreva spesso nelle foto che c’erano in casa sua. Anzi, era proprio lei!
Se era una sua amica poteva quindi anche smetterla di fingere. A che scopo mentire con una sua amica che avrebbe invece potuto aiutarla? Ma cosa le poteva dire?
«Scusami, noi ci conosciamo?» provò a dire Yui
La ragazza sgranò gli occhi. Sembrò quasi che potessero saltare via dal viso.
«Yui, ti senti bene? Effettivamente è strano che tu esca, soprattutto in questi ultimi mesi…» disse la ragazza con espressione pensierosa. Avvicinò una mano alla fronte di Yui, toccandogliela per verificare se avesse la febbre.
«No, la febbre non ce l’hai» disse con un sorriso
«Mi spiace, ma non ricordo chi tu sia… Sei una mia amica?» chiese cauta Yui
La “sconosciuta” scosse la testa leggermente con espressione contrariata «Yui, io sono la tua migliore amica, come puoi non ricordarti di me?»
Un’espressione mortificata comparve sul viso di Yui. Se quella ragazza era la sua migliore amica doveva averle appena detto qualcosa di terribile. Dimenticare la propria migliore amica non era esattamente un gesto d’amicizia profonda.
«Non sai quanto mi spiace, ma è da stamattina che non ricordo assolutamente nulla. Non conosco nemmeno la mia stessa identità…»
«Cosa?! Yui, mi stai dicendo la verità? Guarda che se è uno scherzo non te lo perdono!» disse con espressione accigliata.
Yui scosse la testa «Non ti sto mentendo e, se è vero che sei la mia migliore amica, per favore, aiutami… Non ricordo assolutamente nulla della mia vita» disse con aria di sconforto.
La ragazza che doveva chiamarsi Rina o Mina o qualcosa di simile, sospirò, massaggiandosi le tempie.
«Sicura di non ricordare proprio nulla?» chiese ancora una volta.
Yui scosse la testa in segno negativo.
«Ok… Se vieni a casa mia ti spiego un po’ di cose… Prima di tutto: ricordi almeno il tuo nome completo?»
«Ho scoperto di chiamarmi Jin Yui e che siamo a Seoul in Corea del Sud» ammise con sincerità.
«E’ già qualcosa…» borbottò Mina «Forza, aiutami e seguimi» ordinò, porgendo a Yui alcune delle pesanti buste che portava in mano.
Camminarono in silenzio, come fossero due sconosciute. Ed effettivamente era così, almeno per Yui. Per lei, trovarsi accanto a quella ragazza era come stare accanto ad un’estranea. Lei non si ricordava di Mina, non ricordava la loro amicizia, quante volte avessero riso o litigato. Non ricordava assolutamente nulla, quindi era più che plausibile il loro silenzio.
Dal canto suo, Mina soffriva molto per quella situazione. La sua migliore amica aveva dimenticato tutta la sua vita, aveva dimenticato tutti i loro ricordi, le volte in cui si erano quasi uccise per la sbadataggine, le volte in cui si erano ubriacate con il succo d’arancia, quando si accapigliavano per l’ultima fetta di torta al cioccolato… Come poteva aver dimenticato tutto quello? Per Mina era inconcepibile la perdita di memoria dell’amica, si sentiva vuota e persa pensandoci. Era come aver perso una parte fondamentale di sé.
No, Yui non poteva aver dimenticato tutto di punto in bianco. Doveva aver per forza preso un brutto colpo in testa o qualcosa di simile. Aveva sentito di persone che, in seguito ad un esperienza traumatica, perdevano la memoria. Dicevano fosse un tentativo di autodifesa del cervello e del cuore. Il cuore aveva deciso di dimenticare qualcosa di troppo doloroso da affrontare e quei ricordi erano pressoché impossibili da recuperare. Ma in caso fosse successo qualcosa del genere a Yui, quale avvenimento avrebbe potuto sconvolgerla al punto da dimenticare la sua intera vita? Magari la lontananza di Jaejoong le era cominciata a pesare tanto che aveva preferito dimenticare tutto? No, non era plausibile. Altrimenti avrebbe perso la memoria tre mesi prima, quando Jaejoong era partito.
Inutile, Mina non riusciva a venirne a capo da sola. Quanto avrebbe voluto avere accanto quel genio di Yunho in quel momento. Il suo migliore amico di sicuro sarebbe riuscito a capirci qualcosa, intelligente com’era. Ma non potevano vedersi, non finché c’era nei paraggi Yui. Se avesse avuto dietro una parrucca di scorta gliel’avrebbe fatta indossare e avrebbe potuto incontrare Yunho, ma ne aveva solo dietro una, la sua. Se ne portava sempre dietro una, in caso “d’emergenza”. Non si sapeva mai… Aveva sempre bisogno del suo aiuto e avrebbe potuto necessitarne in qualsiasi momento. Almeno era pronta all’evenienza.
Magari gli avrebbe telefonato per cercare di risolvere quella strana situazione. Una soluzione l’avrebbero trovata assieme. Mina sperava solo che non si sarebbe intromesso anche Changmin. Quel ragazzo aveva la capacità di far saltare completamente i suoi nervi. Si chiedeva come potesse essere tanto amico di Yui. Chissà come avrebbe reagito lui di fronte al vuoto mentale di Yui. Avrebbe avuto la stessa reazione di Mina? No, Changmin non era assolutamente come lei e non doveva nemmeno pensarci. Anzi, non doveva proprio pensare a lui, non in quel momento e in quelle circostanze. Avrebbe potuto coltivare il suo odio per lui in un altro momento. Ora doveva pensare alla sua amica e ad un modo per farle tornare la memoria.

 
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Spazio autrice : D

Scusate, so che il capitolo 4 era stato già postato! Purtroppo quello era il capitolo sbagliato! Essendo che sto scrivendo due versioni di questa storia (una con i nomi dei TVXQ e l’altra con nomi diversi per far sì che risulti una storia originale), mantenendo però sempre lo stesso titolo, ho confuso i due file con dentro la storia e ho postato il capitolo sbagliato!
Comunque gli unici elementi differenti di questo capitolo con quello precedente sono i vestiti della protagonista e i contratti ^^
Spero il capitolo vi sia piaciuto!
Il prossimo capitolo, il capitolo V chiamato “추억  Chueok – Ricordi” sarà presto postato. Ho già fatto la prima stesura del capitolo, adesso non resta che rivederlo per bene ^^ Spero potrete leggerlo presto : )
Un saluto, grazie a chi legge questa fan fiction!
Recensite, recensite, recensite, mi raccomando u.u
 
Baci,
LucyCassiopeia : )
 

 

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