Nana Osaki

di Ocean_09
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il cielo di Osaka ***
Capitolo 2: *** Yasu ***
Capitolo 3: *** Shin ***
Capitolo 4: *** La magia. ***
Capitolo 5: *** Yasu e l'altra. Diciamo due forme di amore. ***
Capitolo 6: *** Quasi un nuovo orizzonte. ***
Capitolo 7: *** La dolce vecchina e il dolce nipotino. (?) ***
Capitolo 8: *** Novità. ***
Capitolo 9: *** Fottiti. ***
Capitolo 10: *** Fiori di loto. ***



Capitolo 1
*** Il cielo di Osaka ***


Quella mattina il cielo di Osaka non era dei più chiari: nuvoloni grigi e carichi di pioggia attraversavano il cielo trasversalmente, correndo veloci, come dei grossi cavalli irosi. È strano come, quando ti senti in un certo modo, con delle emozioni difficili da spiegare, il mondo attorno a te cambi e si plagi attorno a quel tuo unico modo di essere, diverso dalla monotona rigidità degli altri giorni.
Camminavo su una stradina del villaggio, stretta e lunga, per raggiungere il locale. L’avevo fatta chissà quante volte e, anche se non era così allegra, aiutava a distendere i nervi e rilassare la mente. In quella stradina mi erano venute tante idee e tanti pensieri, diversi ogni giorno, dipendendo dagli avvenimenti di quel periodo. Quella volta stavo pensando a tante cose, diverse per importanza e valore: alla difficoltà di quella misera vita, al rancore che provavo ancora e che avrei voluto volentieri eliminare per sempre. E soprattutto al fatto che era quasi impossibile trascorrere una vita facendo quello che amavo, in quel periodo. Così, quando arrivai davanti alla porta del locale, ero ancora più carica del solito. Ero decisa a sfruttare quel poco di giovinezza bruciata che avevo per farlo, quello che amavo, l’ossigeno dei miei giorni: cantare. Ho scoperto questa passione da circa una vita e ancora non me ne sono stancata e ancora non riesco a chiamarla “hobby” perché è più di un semplice passatempo: è un qualcosa attraverso cui riuscivo a sfogare la rabbia, la frustrazione, il dolore represso per troppo tempo. E la solitudine. Soprattutto quella stramaledetta solitudine.
Poggiai la mano sulla maniglia di ottone, lucida e sporca. Ruotai. Non avevo ancora visto l’interno del locale: meglio di ciò che pensavo. Gli altri mi avevano detto che non era tanto male … Al centro c’erano tanti tavoli rotondi di legno scuro, quasi neri per la scarsa luce che vi soggiornava. Scendeva da un buco di vetro posto al centro del locale, sotto il quale vi era questo bancone circolare del medesimo legno dei tavoli. C’era, al suo interno, un barista allampanato, dai folti baffi brizzolati e un gilet su cui torreggiava un papillon rosso.
Sollevò lo sguardo su di me, squadrandomi da testa a piedi. Capì chi ero.
< Puoi andare dietro, i tuoi amici sono già lì >. Il luogo, a dir la verità, m’inquietava non poco. Non si sentiva volare una mosca e credevo di essere sola in compagnia di quel vecchio barman: < Ah, va bene … vado un attimo fuori … > sentii lo sguardo del vecchio fisso sulla mia schiena e chissà dov’altro.
La luce della luna, mista a quella delle stelle che cominciavano a spuntare, come piccoli funghi, nel firmamento, rendeva l’atmosfera ancora più aliena. Tirai fuori una Seven e accesi con l’accendino.
Il fumo della sigaretta che voluttuosamente si levava verso il cielo, come avrei voluto fare io, mi consolava. Chissà perché, ma era così. Inspirai decisa, pensando al catrame e al metano che stavo ingoiando volontariamente. Pensavo che la maggior parte dei fumatori cerchi riparo nel fumo di una sigaretta come dolore impresso a forza, masochismo. In fondo tutti lo sono un po’, altrimenti a questo mondo non ci sarebbe tanto dolore e solitudine: se il genere umano smettesse di farsi male, probabilmente il dolore mondiale sarebbe dimezzato. Forse lo fanno per bisogno di attenzione o per avere qualcosa da raccontare il sabato sera al bar con gli amici, ma non mi sembra lo stesso degno di ammirazione. Anzi, è puramente egoista.
Aprii gli occhi. La strada era sempre più scarsamente illuminata, ma la testa calva brillava sotto la luce dei lampioni. Gli andai lentamente incontro: < Yasu … >

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Capitolo 2
*** Yasu ***


< Nana … > rimasi attaccata al muro, con un piede al muro e l’altro per terra. L’anfibio nero e lucido non scivolava sulla ghiaia. Ci sputai sopra.
< Gli altri sono già arrivati? > < Non so … prima sono entrata ma c’era solo quel barista > < Quindi sei rimasta fuori ad aspettarmi … hai così paura di stare da sola … ma mi sembra che tu sappia come difenderti … >.
Quello che diceva Yasu era vero. Sicuramente aveva ragione, ma gli mancava la logica femminile: naturalmente, anche se avessi potuto uscirne fuori, non era certo piacevole, la situazione, direi. Ma non erano discorsi da fare in quel momento. Yasu era il leader della band: era uno skinhead di 21 anni che sognava di diventare avvocato e diciamo pure che lo consideravo quasi un padre, il padre che non avevo mai avuto. Fare l’avvocato era una vocazione, per lui. Appena vedeva qualcuno bisognoso o in cerca di aiuto, certamente non si tirava indietro. E io, così bisognosa si cure e affetto, ero adatta per lui. E lui, così premuroso, ero adatto per me. Non che stessimo insieme, chiaramente, ma stavamo sempre insieme. Nessuno dei due era fidanzato e stavamo bene così, senza troppe preoccupazioni e inibizioni. Era il batterista della band, nonché fondatore di tale setta e organizzazioni criminale. L’ultima parte era quello che pensava la gente che i vedeva passare per la strada. Associavano la nostra figura, la nostra immagine, a un giro di cose che non andavano mica bene … quali spaccio, prostituzione e delinquenza varia. Solo noi potevamo sapere quanto eravamo lontani da quelle idee e mentalità. A parte che la filosofia da skinhead del capo non ci avrebbe permesso tali svaghi, d’altronde. E meno male.
Gli feci spazio sul muretto e lui tirò fuori dal taschino un pacchetto di sigarette. Un tipo dolce e amaro insieme, non riuscivo a sopportarle, erano assolutamente schifose. Sapevano di ciliegia … assolutamente ripugnanti.
Dopo la breve pausa-fumo (espressione coniata sul momento) lo seguii dentro il locale. Con lui vicino avrei potuto andare da qualunque parte, senza paura. Forse era quello il mio guaio. Come quando un bambino crede talmente tanto nel proprio padre da considerarlo quasi un superuomo, io riponevo talmente tanta fiducia in Yasu che tutte le mie ambizioni di indipendenza erano svanite alla luce di quella lampadina che portava al posto della testa. Talmente rasato che riluceva sotto la luce del lampione.
Il barista lo squadrò da testa a piedi, leggermente preoccupato. In effetti, anche io mi chiedevo sempre come faceva a entrare in tribunale con quel fisico da armadio. Eppure sembrava che se la cavasse, dato che non l’avevano ancora cacciato via. In quel momento spuntò da dietro la porta il nostro bassista:
< Shin! Ma prima sono entrata e non ti sei neanche fatto vedere! Lo fai apposta? > < No, no, è solo che stavo accordando il basso e non ho fatto in tempo ad uscire dal camerino che te ne sei andata, quindi ho pensato che, dato che saresti rientrata, no? > < Eh, sì … A inventarsi scuse sono bravi tutti, a inventarsi basi o testi nessuno … > lo punzecchiavo nuovamente sul fatto che non riusciva più a comporre una melodia orecchiabile. Mi guardò impassibile. Era bravissimo, in quello.

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Capitolo 3
*** Shin ***


Ma mi accorsi troppo presto che non era il caso, in quel momento, sotto lo sguardo del barista, ma accadde quello che ogni tanto capita a tutti, prima o poi, siano o non siano come me. Quel qualcosa che ti prende la mente e ti impedisce di fermarti, di bloccarti, anche se sai che ciò che stai facendo in quel momento non è giusto, non dovrebbe essere. Così la mia bocca continuò imperterrita, mentre la mia mente si divideva fra il piacere dello sfogo e la pietà, la rabbia, l’impotenza: < Eh sì, povero, il nostro bambino, vero? Quanto si dà da fare, non sta mai un attimo in casa … Sì, perché sapete, lui ha di meglio da fare, no? Deve andare dalla sua padroncina, dato che è ancora un bimbo, non può andare a lavorare e guadagnarsi un po’ di pane invece di farsi mantenere da quella schifosa … Non so proprio dire fra voi due chi sia il peggiore: lei che ti ha instradato così o tu che ci stai e continui … Dimmelo tu, dai, caro il mio Shin’ichi Okazaki! >
Sembrava quasi che avessi una sbronza. Ma la sbronza cattiva, altrimenti non avrei potuto delirare in questa maniera. Solitamente non me la prendevo così, anche se probabilmente avrei dovuto, dato che la cosa che mi faceva più male era il fatto che io e lui ci assomigliavamo. Avevamo la stessa concezione della famiglia ma per due casi opposti: io non ce l’avevo e questo era chiaro ed evidente, mentre lui, a rigor di legge, ce l’aveva, ma non nella realtà. Quindi questa era rabbia. Rabbia nei suoi confronti, nei confronti di quella donna, nei confronti di quella specie di tutore che si limitava a dargli badilate di soldi e neanche un briciolo di umanità. Come si può passare anni e anni di fianco a un bambino, vederlo crescere, diventare grande e non riuscire a provare un minimo di affetto per lui.
Ma anche io in quel momento non ero da meno. Mentre avrei dovuto aiutarlo a non affogare nell’oscuro baratro in cui si era impantanato, continuavo a dargli contro e insultarlo. Bella persona, io.

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Capitolo 4
*** La magia. ***


Luce soffusa sopra di me. Brusio di sottofondo. Missione: eliminarlo sul nascere. Mezzi: la mia voce, questo microfono e l’amplificatore. Quella sala angusta che sapeva di fumo di lì a poco sarebbe stata soffocata dalla mia voce, dai miei urli e dalle note. Tante, tante note. Una cascata di note. Tutti quei poveri commensali e ragazzi di periferia si sarebbero trovati sotto una pioggia di note, non avrebbero più capito da dove provenissero, dove fossero mai capitati. In un universo e in un paradiso suonato, che galleggiava sul ritmo del sangue che scorreva nelle mie vene. Li avrei fatti sognare. Per una volta.
E quelle parole urlate, cantate, mormorate nella nebbia di fumo del locale, in quell’inglese senza senso, sembravano aiutare, in qualche modo, il misero pubblico di quella sera: ragazzine tutt’al più scappate da casa, tossici, gente che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, nel senso che non aveva proprio più niente da perdere. Erano quelli, gli ultimi, i più pericolosi. Ma per un attimo tutto il rancore e l’odio venivano messi da parte, oscurati dal mio canto. Pensare che io detestavo stare al centro dell’attenzione, ma in quel caso avrei dato l’anima per farmi sentire da qualcuno. Diventavo una persona estremamente altruista. Sentivo un forte calore alla nuca e dietro alle orecchie, come quando capita di essere arrabbiati, ma è solo l’effetto dell’adrenalina.
 
Il concerto andò alla grande. Nessun ferito, nessuna rissa. Da dio. Nel senso che mi ero sentita da dio. Non fosse stata per una leggera sensazione che mi capitava di avvertire quando guardavo verso il fondo della sala, non avrei saputo dire cosa fosse, come una leggera angoscia. Quasi impotenza. Ma ormai c’ero talmente abituata che non ci feci più caso e riprendevo a urlare con più foga, per nascondere quello che la mia mente urlava e sussurrava.

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Capitolo 5
*** Yasu e l'altra. Diciamo due forme di amore. ***


 
Il mattino dopo avevo un mal di testa tremendo. Avevo bevuto un po’ per carburare durante il concerto.                  < Yasu! Ce l’hai un’aspirina? >. Silenzio.
Svoltai l’angolo-cucina e lo vidi a dormire in una posizione improbabile. Non sembrava dormire, ma aveva il caratteristico movimento ondulatorio che prendeva il suo petto mentre dormiva: ormai lo conoscevo troppo bene … Con quegli occhiali scuri che gli nascondevano gli occhi, sembrava semplicemente pensieroso. Quello era il suo modo di dormire, il modo di dormire delle persone che mettono davanti ad esse tutto il mondo. Ogni volta pensavo che nel suo piccolo laboratorio dove faceva il tirocinio per avvocati, lo considerassero tutti un po’ come un dio, mentre probabilmente si stava ancora facendo soltanto le ossa. Aveva una calma, una tranquillità, una lucidità, un savoir-faire, chiamatelo come vi pare, che lasciava tutti sbalorditi, forse anche per la sua giovane età. Era il leader della band, cioè colui che l’aveva fondata. All’inizio era solo lui, ma, essendo ogni santo giorno sotto la sua influenza, parlando di note, sogni, ambizioni, concerti, esibizioni e palchi, venne la voglia anche a me di provarci. Non sapevo cos’avrei potuto fare, perché nel tempo libero non avevo certo mai avuto il tempo di provare a suonare qualche strumento … Dovendo arrangiarmi dato che l’unica parente che conoscevo e che comunque avesse accettato di crescermi era costretta a letto, quando non ero a scuola lavoravo (vedendo poi i risultati del mancato studio nelle pagelle a fine anno), cercando di mandare avanti il ristorante della nonna, un posticino neanche così malmesso, che era in fondo una viuzza, nascosto da tutto e da tutti, ma che era conosciutissimo fra i compaesani. A quei tempi, ero una ragazzina ingenua e decisamente asociale, molto scontrosa e magari anche un goccio inquietante. Un mix di tutto rispetto, non c’è che dire. Nessuno aveva mai osato dirmelo, ma era quello che riuscivo a capire da quanto mi succedeva intorno. Non che io fossi così cattiva o avessi mai provato a minacciare qualcuno o tantomeno a mandargli messaggi minatori (cosa che mi fa ancor ridere, pensando all’improbabilità di tale gesto, per loro invece così veritiero). Fortuna che anche a quei tempi c’era Yasu … altrimenti la mia vita probabilmente si sarebbe ridotta sicuramente, senza ombra di un dubbio, a quella di un cane randagio.
L’unica parente che avevo identificato come vago punto di riferimento era mia nonna.
Era una tipa tosta. Ma molto tosta. Non si buttava giù neanche con la febbre a 40°. In quei giorni ricordo che era a letto per dei cali continui di pressione, ma non aveva perso il suo odiosissimo vizio di obbligarmi a fare cose anche assolutamente inutili solo per togliersi lo sfizio di comandare ancora un po’, in quella che era, dopotutto, la sua squallida vita. Poi, quando hanno cominciato a urlarmi dietro, mandarmi biglietti legati a sassi contro la finestra, tutti legati alla parola “puttana”, è finita.
Il suo funerale, ricordo, è stato una cosa molto sobria, con i soldi che aveva già da tempo racimolato per lo scopo, con un capannello sfoltito di persone, soprattutto vecchietti incuriositi che non avevano altro da fare … devo dire che mi è dispiaciuto.
Ma Yasu non era come lei. Per fortuna. Sapeva essere anche di un dolce incredibile. Anche se non glielo avevo mai detto in così tanti anni di conoscenza, gli volevo un bene dell’anima. Un bene che la maggior parte delle persone si sogna soltanto e nessuno pensa possa uscire, in così tante ondate, copiose, ma mai uguali le une alle altre, come le maree, da una come me, e riversarsi addosso a tutto, addosso a tutti, addosso a tutto il mondo, per dargli ancora motivo di continuare a salvare questa mia vita, anche se facevo di tutto per non farlo vedere. Sapevo perfettamente che era l’unica maniera di restare ancorata a lui, ma non ero mai stata abituata a mostrare questi sentimenti. Mi sentivo nuda, esposta, come se sotto la crosta dura e spigolosa del mio cuore ci fosse soltanto un’anima, un fuco fragile e gracile, incapace anche di muoversi, bloccato da quello che potrebbe arrivargli improvvisamente addosso, senza riuscire neanche a muoversi, impotente. Ma per fortuna sapevo a chi potevo mostrarla, questa mia parte debole. E con Yasu ero sicura di poterlo fare.

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Capitolo 6
*** Quasi un nuovo orizzonte. ***


L’ondeggiare lento e molle dell’autobus mi faceva ballonzolare la testa su e giù, su e giù, su e giù … diventavo pian piano un corpo inerme, un sacco di patate informe con un movimento inerte, con il cervello, immagino ora, che gradualmente andava trasformandosi in un composto amorfo. I miei pensieri vagavano, senza guida e senza logica, solo per il piacere di vagare e di esserci. Pensavo che magari erano solo i pensieri a esistere in questo mondo, mentre magari la nostra presenza, di corpi viventi e dotati apparentemente di una qualche possibilità decisionale, era solo illusione e sogno. I pensieri continuavano così.  E anche se sapevo che non sarei riuscita a smettere, sapevo che dovevo piantarla di andare ad imparaionarmi duro.
La voce metallica di una donna fredda e distaccata pronunciò il nome della mia fermata. Vidi le porte aprirsi e sentii i freni della corriera. Mi feci strada in mezzo a tutta quella gente con l’ansia che la corriera partisse, lasciandomi lì a metà strada. Era già capitato molte volte e la sensazione la ricordavo benissimo: un misto di rabbia, frustrazione e, soprattutto, impotenza. Ma questa volta non andò così. A spallate con l’enorme custodia della chitarra sulla spalla, emersi da quella massa di gente sudata, sporca, di fretta, che costituiva il più dei pendolari. Qualche volta pensavo di aver passato circa metà della mia vita in autobus, per tutte le volte che lo prendevo per andare a lavorare in fabbrica, quando ancora nevicava e uscire fuori con il mio giubbottino di pelle sarebbe stato come andare incontro non a morte sicura ma quasi. Quando andavo a scuola, invece, per fortuna ci potevo andare a piedi. Ma ormai era già passato tanto tempo. Non bisognava andare a rivangare ricordi così lontani, di tempi passati e mai voluti indietro.
 
La stanza dell’ostello era piccola e asfissiante, con i muri bianchi a cui erano addossati (quanti?! Troppi …) letti a castello con le lenzuola sprimacciate e quasi untuose, passate e ripassate sulla pelle di chissà chi e quante persone. I vestiti erano sparsi alla rinfusa, lasciati in disordine come solo due mesi di convivenza forzata a dieci potevano ridurli. Su quello che doveva essere il mio letto c’era un felpone verde smeraldo con una stampa gigante di Bob Marley. Come minimo dentro c’avrei trovato due grammi di ganja purissima. Ma non osai toccarla. Semplicemente, le mie gambe fecero retromarcia in automatico e mi diressero fuori da quell’edificio. Non avevo alcuna intenzione di tornarci, ma dopo due ore di vagabondaggio solitario mi decisi a prendere a due mani il coraggio e presentarmi lì. Dopotutto avevo pagato e i soldi non me li avrebbero sicuramente ridati indietro. Così, con la mia bella gonnellina rossa e nera scozzese tenuta su da una sfilza di spille da balia, i miei anfibi neri lucidi, e le mie giarrettiere che cadevano quasi a pezzi (anzi, cadono a pezzi, perché da qualche parte ce le ho ancora. Adesso, mentre scrivo, mi sto guardando intorno perché nel buio della stanza potrei riuscire a scorgere oltre alle masse dei vestiti e dei pochi mobili …), mi fermai davanti al portone dell’edificio, abbastanza lontana da poterlo vedere in tutta la sua ridicola presenza. La neve di inizio Gennaio era stata tutta calpestata dalle macchine e dalle biciclette. Lì, almeno, nevicava ancora. Tanto tempo fa, quando c’era stato l’ultimo concerto, eravamo capitati in un posto dove neanche nevicava più, e anzi, mi chiedevo se sarebbe mai più potuto nevicare, con rammarico. La neve, così candida e pura, mi aveva sempre dato l’impressione di un qualcosa ancora più purificatore della pioggia, che andava e veniva per tutto l’anno, mentre la neve aveva un periodo preciso. E quel periodo coincideva con la purificazione che la natura metteva a disposizione dell’umanità. E ogni volta, ogni inverno, mi ritrovavo almeno una volta fuori, all’aperto, con il viso rivolto verso il cielo ad accogliere quella neve fresca che mi si pietrificava sul viso, con l’impressione che avrei potuto fermarmi lì e diventare una immobile, eterna statua di ghiaccio. Per sempre purificata e superiore alle meschinità del mondo a cui invece ero così a stretto contatto tutti i giorni, anche nel mio corpo. Ma era solo una patetica illusione.
Lì in quella cittadina c’era una ragazza mingherlina, esile come una spiga al vento d’autunno, davanti ad una secolare quercia, e che comunque se ne faceva beffe. Mi sentivo così, davanti all’idea, alla sola idea del contatto con altri ragazzi. Avevo paura, e la mia mente faceva dei trip assolutamente inaspettati per cercare di sconfiggere e domare la mia avversione. Ero una persona estremamente asociale, se non si fosse capito. Ero finita in quella situazione dopo esser andata via di casa un bel po’ di anni fa, e ora, tra le prove della band che singhiozzavano, a seconda degli impegni di ogni singolo membro della band, e l’idea di far fruttare la mia gioventù, cercando in tutti i modi di non rimanere ferma in un solo posto e, soprattutto, di non instaurare rapporti duraturi e costanti che potessero, in qualche modo, nuocere al mio già martoriato cuore. In pratica, la mia idea di vita sociale si riduceva al non dare e al non ricevere. In questo modo mi risparmiai un’infinità di dolori inutili. Ma non si sa cos’è la sete prima di aver bevuto.
Dall’interno dell’ostello veniva fuori un coro di voci impastate dall’alcool, voci di giovani ragazzi che farneticavano e voci acute di giovani donne. Il tutto dava un’impressione di rito orgiastico. All’improvviso una figura, pareva una ragazza, uscì barcollando dal locale. M’irrigidii sul posto. Andava talmente a zigzag che non riuscivo a capire e in tal modo l’unica cosa che mi venne da fare fu starmene sul posto e vedere la sua prossima mossa. Il vero problema, a quanto avrete capito, era che m’impuntavo nell’avere sempre un definito piano, una determinata strategia, anche in relazione con le persone, come quella povera ragazzina, che le strategie non sapevano neanche dove stessero di casa, specialmente dopo bottiglioni di rum. E così, quando quella mi si accasciò ai piedi l’unica cosa che riuscii a fare fu di irrigidire tutti i muscoli e guardarla dall’alto. E aspettare, l’unica cosa che mi riusciva bene. La ragazza aveva dei capelli di un biondo sporco che le coprivano il viso, in più rivolto verso il terreno, ora che era collassata sul terreno. Con quel freddo era uscita in canottiera, sotto la neve. Come se non bastasse, portava una minigonna simile alla mia. Dopo qualche minuto di reciproca immobilità mi mossi: mi limitai a muovere un nervo del piede per vedere se reagiva alla punta del mio anfibio. La saggiai, ma non reagì. Chissà quanto aveva bevuto … allora mi decisi e la trascinai, per quanto mi permetteva il mio fisico, dentro all’edificio. Ero arrivata all’anticamera, passando davanti alla taverna dove quella gente faceva baldoria, pensando di lasciarla lì o fino a dove sarei riuscita ad arrivare, e poi approfittare ed entrare in camera senza dover passare sotto gli occhi di tutti. Ma, proprio per smentire i miei sogni di tranquillità, sentii una mano che mi tirava da dietro. Un ragazzo giovane, più giovane di me, mi stava tirando dalla giacca: < Ehi, tu! Dove stai andando? Ti pare il caso? > aveva un sorriso storto e non sembrava guardare me, ma decisi che era per via dell’alcool. Si era appoggiato al muro e ora guardava per terra, come per cercare di respirare meglio. < Faresti meglio ad andartene a dormire >, conclusi. E lo lasciai lì da solo, mentre ancora cercava di formulare le parole che aveva in gola.
Lasciai la ragazza lì. Anche il mio altruismo aveva un limite. E poi me ne andai in camera. Fortunatamente non c’era nessuno e così mi stesi a dormire, ancora tutta vestita e decisa a mantenermi tale. Nell’evenienza avevo un coltellino nascosto nella giarrettiera. Gli anfibi li avevo messi in un borsone, nonostante la sporcizia. Più sicura, ora cercavo di addormentarmi: avevo quasi la sensazione che sarei rimasta da sola in quella stanza per tutta la notte, quindi ero molto più tranquilla. Ma il sonno tardava a venire. Avevo fame. Un buco lancinante in cui sembrava esserci l’intero universo, per dirla in termini prosaici. Pensavo alla possibilità di aver lasciato magari qualche spuntino dentro la valigia, ma la cosa era a dir poco improbabile. Guardare negli zaini degli altri ragazzi era assolutamente fuori discussione: ci mancava pure che mi additassero da ladra. Un lampo a cielo aperto. Il ragazzo giù al primo piano. Lì si beveva. Di conseguenza, quasi sicuramente, c’era anche cibo! Così, guidata nella mia audacia dal bisogno primario, mi rimisi gli anfibi e scesi giù. Le scale scricchiolavano ad ogni passo. Dal secondo piano scorsi la ragazza ancora nella stessa posizione di prima. Aveva il collo in criccato malamente sulla spalla, ma pensai di metterla a posto mentre tornavo su, tanto se c’era stata tutto quel tempo poteva restarci ancora un quarto d’ora, no?! Mi diressi incerta verso la tavernetta. C’era qualche fioca luce che traballava nel vento delle finestre. La mia testa che sbucò dietro la porta doveva esser proprio messa male, per far fare quei balzi sulla sedia ai ragazzi rimanenti. Il resto del gruppo era in gran parte crollato per terra, sui tavoli, soli o accompagnati, con boccali e bottiglie di birra a ogni dove, come dopo un campionato di calcio fortunatamente vinto. I tre o quattro ragazzi seduti al tavolo mi guardarono sospettosi. Poi quando videro la mia mano posata sulla pancia a cercare di placare i suoi guaiti lamentosi e la mia espressione, scoppiarono in una risata sollevata. Riconobbi il ragazzo di prima, quello di prima, che mi sorrise lievemente: < Hai fame, eh?! > . Sembrava si fosse ripreso, in quell’oretta. Potei constatare che la sua andatura era ancora un goccio traballante, mentre lo seguivo, ma pareva abbastanza sobrio. Tagliammo per il piccolo corridoio e arrivammo nella cucina, opposta alla taverna. Lì il ragazzo mi diede le spalle per cominciare a frugare nella credenza alla ricerca di qualcosa da darmi. Ero estremamente in imbarazzo, anche se lui sembrava talmente più piccola di me … sapevo perfettamente che non dimostravo i miei ventitré anni, anzi, sembravo più vecchia, quindi probabilmente avrei dovuto sentirmi anche avvantaggiata, ma ero in presenza di un estraneo, e questo non mi aggradava. Lo sembrò capire quando, dopo avermi ceduto delle fette biscottate e un barattolino di marmellata di lamponi, si appoggiò al mobiletto della cucina e mi guardò con le labbra incurvate in un leggero sorriso. I miei occhi eran diventati tutti lucidi e brillanti alla vista del cibo, che probabilmente sembravo un piccolo cucciolo selvaggio, sporco e affamato che raccoglie cibo dalle mani dei suoi salvatori. 

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Capitolo 7
*** La dolce vecchina e il dolce nipotino. (?) ***


< Allora, una nuova inquilina, eh?!> mi disse, cercando di instaurare una conversazione. Annuii, in silenzio. Almeno quello … < Ah beh, avrai visto che comunque siamo in tanti, tutti più o meno nella stessa situazione, c’è poco spazio, ma cercheremo di farlo bastare, come dopotutto abbiamo fatto quando c’era anche Aaron>. Sollevai lo sguardo. Non sapevo di chi parlasse. Scossi la testa. Lui s’incupì: < Ah, beh, certo, come fai a conoscerlo? … Lui è … è … cioè, lui non c’è più>. Mi guardò un po’ ansioso e preoccupato che mi spaventassi: < Ah, sì? > fu la mia unica reazione. Lo spiazzai. Credo avesse paura che fossi tipo superstiziosa e di conseguenza me ne andassi, dopo la morte del mio predecessore. Ma forse ero io che lo spaventai, con la mia reazione glaciale. I suoi occhi sembravano quelli di un bimbo, un bimbo durante una fiera in città che nella ressa generale perdeva la mano della madre e vagava per strade e vicoli sconosciuti, urlando e chiamando a gran voce. Mi dispiacque in quel momento, essere come ero. Non sapevo ancora che quella sarebbe stata la prima di una lunga lista di volte in cui lui mi avrebbe fatto sentire una merda. A proposito, il lui che mi aveva salvato dalla fame, non sapevo neanche come si chiamasse: < Ah, ma tu … come ti chiami?> Una luce nuova nei suoi occhi : < Oh! Hai ragione, non ci siamo presentati. Beh, io …> all’improvviso sembrava tutto imbarazzato. I suoi capelli, penso tinti, biondo cenere, gli coprivano a tratti gli occhi castani: < Sono Nobu>. Disse d’un fiato, tanto che non ero sicura avesse detto proprio “Nobu”. < Ah. Bene. Nana>. Gli tesi la mano. Aveva una mano calda, talmente calda che pensai di scottarmi. Lui pensò la stessa cosa, ma al contrario. Dovevo avere la temperatura di un cadavere, e si preoccupò di trasformarsi in una statua di ghiaccio, o di diventare un morto vivente. Notai in un secondo momento che anche lui aveva un look piuttosto punk, con pantaloni attillatissimi, da fermare la circolazione, scozzesi, anfibi, un maglione strappato, varie borchie sparse per il corpo, e dei piercing sul viso e sulle orecchie. Ebbi paura che fosse un bambinetto che giocava a fare il punk …
Ormai avevo finito di mangiare, e mi stavo spazzolando le briciole dalla gonna, quando lui balzò giù dall’angolo cucina e mi disse: < Dai, andiamo di là, ti presento gli altri.> Oltrepassammo la ragazzina crollata sul pavimento, che lui mi spiegò si chiamava Hikaru e scappava da una realtà familiare non molto gradita a lei. Avrei voluto dirle che la propria famiglia era importante, comunque fosse. Almeno lei ce l’aveva.
Nella piccola tavernetta i ragazzi rimanenti erano coinvolti da una discussione accalorata. Uno di loro, messo a capotavola in modo da poter tenere d’occhio la porta, mi indicò senza guardare gli altri, che si zittirono. Poco dopo mi sorrisero calorosamente. Erano ancora agitati da quella discussione, apparentemente talmente importante da tenergli svegli alle 3 di notte. < Ehi, ciao, bella! Io sono Oda. È bello vedere facce nuove, qui dentro, solitamente siamo sempre quattro gatti …> feci un sorrisetto forzato mentre andavano avanti con le presentazioni. < Chikahito, per te Chika.> mi fece l’ultimo, un ragazzetto con al massimo la metà dei miei anni, che mi squadrò da capo a piedi, con aria da snob tremendo. Ora era il mio turno: < Nana. Piacere.> e dopo di questo sfuggì a tutti uno sbadiglio collettivo, seguito da una leggera risata: < Dai, è ora di andare a letto.> Così ci alzammo tutti e, nell’uscire dalla taverna, scavalcammo il corpo di Hikaru. Io la guardai un po’ perplessa. Il ragazzetto snob la guardò due secondi in più, poi si decise e la tirò su dal pavimento freddo e umido.
Quando arrivammo in camera fu un incubo. Cominciarono tutti a spogliarsi e a infilarsi sotto le coperte, mentre io ero estremamente in imbarazzo, con il mio fisico che ritenevo poco più che patetico: i miei seni erano all’incirca due noccioline, ero estremamente magra, forse per via del fumo e dell’irregolarità nei pranzi. Così alla fine, vedendo che Akechi aveva infilato sul letto, sopra le coperte, Hikaru, completamente vestita, mi sdraiai vestita sul letto. Nobu mi guardò perplesso dal suo letto, ma preferì non commentare. Mi stava più simpatico sicuramente degli altri, forse perché si faceva i cazzi suoi. Ma non sapevo quanto mi sbagliavo.
 
Il mattino dopo (cioè 4 ore dopo), mi svegliai prima degli altri, accorgendomi di un dettaglio che la sera prima mi era sfuggito: la metà dei letti non era occupata, ma erano disfatti, così probabilmente i proprietari non erano morti come quell’altro. La notte, scomodissima per i vestiti e il freddo, non mi aveva ristorato per nulla. Caracollai al piano terra, dove una dolce vecchina usciva da una porticina nascosta fino a poco prima. Che pazienza, a sopportare una notte sì e l’altra pure la baldoria di quei tipi … le sorrisi, sinceramente, e lei ricambiò: < La nuova ragazza, vero? Come avevi detto di chiamarti, cara? Hana, forse?> disse con una nota di rammarico. Mi dispiacque sinceramente. Nel dirmi tutto questo, eravamo finite in cucina, dove in apparenza mi stava preparando una bella tazza di caffè, ma ero troppo presa da quel che diceva, svelandole un dettaglio: < Davvero?... Anche mia nonna si chiamava Sakura …> ci guardammo un po’ sorprese. Continuai: < È morta l’inverno scorso.> < Anche mia figlia …> adesso avevamo la bocca spalancata tutt’e due. Riuscivo a vedermi nello specchio delle sue pupille. Avevo l’impressione che, se avessi allungato le dita, anche lei l’avrebbe fatto, e al tocco dei nostri polpastrelli, l’immagine sarebbe svanita, come in quei sogni misteriosi, perché magari in fondo, io ero lei. Ma lei mi dette una nuova versione:  Tutto questo lo disse quasi senza respirare, non vidi la sua bocca perché ero intenta a scrutarla negli occhi, cercando una briciola, solo un rimasuglio, di quel che era stata la donna. Mi sembravano talmente diverse, lei così calda e la nonna così fredda … ma dopotutto, noi non ci conoscevamo, e la nonna era sempre gentilissima e affettuosissima con i forestieri che arrivavano durante notti fredde di tempesta alla locanda.
Il nostro scrutigno fu interrotto da Nobu, che era sceso per le scale ancora in pigiama, scalzo. Entrò con un clamoroso sbadiglio. La vecchietta si riscosse, e lo additò con rimprovero: < Nobuo!> un grugnito di risposta. < Lo sai, vero, che questa ragazza si chiama Nana, vero? E … > si rivolse a me: < Scusami, ma … quanti anni hai? > < Ehm … Io, io ho … > < E nonna, lasciala stare! > < Vent’anni. > Temetti che alla dolce vecchina venisse un infarto, perché si portò una mano al cuore, e le ginocchia cedettero visibilmente. Mi feci in avanti per sostenerla, ma lei non mi guardò, il suo viso era rivolto verso il basso, e chiare perle trasparenti scivolavano fra le pieghe della sua pelle raggrinzita, incastrandosi negli anfratti della vecchiaia. Vedere un vecchio piangere è uno degli spettacoli possibili quotidiani più sconvolgenti. Mi sembrò di vedere mia nonna, nel riflesso di quelle lacrime. Pregai perché sembrava fossi io, che mi riflettevo lì dentro. Ma la vecchina continuava a piangere silenziosamente, senza singhiozzi, senza movimenti alterati della respirazione, e perle bianche continuavano a caderle giù per il viso, e sembravano per davvero preziose, quasi la linfa interna della personcina che ora tenevo fra le braccia, sentendo, materialmente, la sua fragilità: provavi l’impulso di raccoglierle tutte, quelle gemme, una dietro l’altra, velocemente, non lasciartene sfuggire nemmeno una. Ma poi mi venne il dubbio che fosse proprio il mio contatto a provocare quella reazione, e Nobu, provvisoriamente, si fece subito avanti e me la sfilò da sotto le mani, guardandomi, cercando di tranquillizzarmi: < Tranquilla, la porto di là. > mormorò.
Troppo scossa per aiutarlo, tornai su, ma poi decisi di lasciare le cose giù in cucina, perché, stranamente, provavo quasi un senso di fiducia verso Nobu. Pensavo che lasciando le cose vicino a lui sarebbero state al sicuro. Non sapevo quante altre volte mi sarebbe ritornato alla mente quel pensiero.
Così uscii di casa, guardando per terra la neve che sporcavano i miei anfibi neri.
La metro era piena.

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Capitolo 8
*** Novità. ***


Il negozio aveva i vetri sporchi, e la gente, anche di prima mattina, non sembrava troppo lucida. Ma la cosa che mi importava era quel foglietto di carta straccia, quel “volantino”, troppo grande come parola per quello schifo di bigliettino appiccicato con lo scotch al vetro unto da ditate di chissà quanta gente.
“Affittasi sala prove. Prezzo modico. Attrezzature già presenti. Contattare il numero: 0234909267”.
Una frase, una speranza. La mente cominciò a formicolare, a lavorare, scarabocchiare e pensare. Ora che ero lì da sola, potevo sempre continuare a provare a esercitarmi: là all’ostello sicuramente non mi avrebbero mai permesso di strimpellare tutto il giorno, quindi … improvvisamente, dal pub uscì un uomo: < Ehi, ragazzina! Sei interessata alla saletta? > mi fece. Sorvolai sul fatto che mi avesse dato della ragazzina, e anche lui, dopo un’analisi del mio viso, si rese conto che si era sbagliato. Annuii. < Dai, allora, vieni dentro che ne discutiamo. >
Mezz’ora dopo uscivo dal pub tutta sorridente, con in mano il bigliettino del numero da chiamare. Ora c’era solo un piccolo problema: dovevo trovare un lavoro. Sicuramente non ero una di quelle ragazze che hanno paura di sporcarsi le mani, perché ero sempre stata abituata a fare tutti i lavori possibili, nel limite della decenza, chiaramente. Quindi cominciai la ricerca.
Quella era la mia giornata fortunata: quando tornai all’ostello, il mio umore era completamente cambiato. Nobu mi si avvicinò, sorpreso e compiaciuto dal mio umore: < Ehi, Nana! Che è successo? Perché così felice? > io lo guardai raggiante, e lui s’istupidì ancora di più, sempre più sconvolto da tale manifestazione di felicità: < Ehi, dai! Così son curioso … > fece una faccetta buffa. < Ho trovato lavoro, ho trovato lavoro ... > cantilenai, saltellando in tondo per la cucinina. Mi avvicinai al suo viso, ammiccando : < E in più … Ho trovato persino una saletta prove! > e cominciai a ridere come un’idiota, dalla felicità, seguita a ruota da lui. Le nostre risate furono interrotte da una presenza forte e palese sulla soglia della porta, che avvertii anche se non aveva emesso nessun suono. Pensando che fosse uno dei ragazzi, mi girai ancora sorridente e piegata in due dalle risate. Quello che mi si piazzò davanti furono un paio di anfibi come i miei, lucidi ma sporchi di neve. Alzai lentamente lo sguardo su un paio di jeans stracciati, una cintura di borchie nere, e un giubbotto di pelle : < Che cazzo … > per un istante pensai che fosse uno scherzo e che qualcuno di quei ragazzi avesse preso la mia roba e se la fosse infilata, ma poi realizzai che era un’idea alquanto assurda. Alzai di scatto il viso verso quello del nuovo arrivato e vidi uno che non avevo assolutamente mai visto: me lo sarei ricordata, altrimenti. Quello tese una mano, sorridendomi, e mi aiutò ad alzarsi. Ripensai al cambiamento drastico del mio viso, da una maschera di felicità al muso di un bulldog contrariato. Ma a quanto pareva ero l’unica a non conoscerlo: < Ren! > disse candidamente Nobu. Balzò giù dallo sgabello e lo abbracciò calorosamente. Con quella faccia da bambinetto, Nobu avrebbe potuto benissimo essere l’amichetto gay … la voce dello sconosciuto disse: < Non mi presenti la tua nuova amichetta? > assunsi ora un’espressione ancor più contrariata: se mi ero lasciata andare a gaie risate con Nobu non era certo perché eravamo amici, ma solo perché ero immensamente felice, ed essere vista da uno improvvisamente piombato lì, in quello stato, come a malapena Yasu mi aveva vista, mi irritava parecchio. Prima che Nobu dicesse qualcosa, dissi con voce fredda e calcolata, guardandolo negli occhi: < Nana. > e detto questo sparii fuori dalla porta, dicendo a Nobu: < Devo cominciare subito a lavorare, ci vediamo stasera. >

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Capitolo 9
*** Fottiti. ***


Il lavoro che avevo trovato era in un negozio di dischi, lavoro che non avrebbe potuto essere più adatto a me. In più, come se non bastasse, potevo scegliere io lo stesso background del posto. Quindi, quando entravano ragazzine benpensanti, moraliste e di buona famiglia, era tutto un carnevale di mascheroni da teatro, al sentire la voce di quello scoppiato, genio incredibile, di Rotten. E io me la spassavo vergognosamente. Non riuscivo a trattenere alcune risatine, e addirittura quando una signora si avvicinò per chiedermi, con modo arrogante, di cambiare colonna sonora, risi, anzi, per essere precisi, sghignazzai sguaiatamente, per poi cercare di ricompormi e fissarla negli occhi, asciugandomi una lacrimuccia all’angolo dell’occhio. Che persona maligna …
Quando tornai all’ostello, vidi da fuori le luci accese della tavernetta e sentii delle voci. Entrai e feci per togliermi il giubbotto. Mi salutarono tutti calorosamente. La vecchina sembrava quasi sul punto di piangere per la commozione. L’unico che non si alzò per salutarmi fu quel tipo. Il nuovo arrivato, Ren. Mi guardò con aria di sufficienza. Ricambiai. La notte la passai sulla branda, molto più tranquilla di com’ero la prima notte. Fortunatamente quel tipo nuovo dormiva in un’altra stanza. Non ci tenevo ad avere qualche rapporto con lui.
La mattina dopo, di buon umore e presa benissimo, uscii dall’ostello saltellando per la strada. Ma lì fuori c’era già il nuovo. Era girato di schiena. Mi chiesi cosa stava facendo. Lo superai senza uno sguardo, ma pareva che lui non fosse d’accordo: < Ehi >. Mi fermai, immobile. Stavo rimuginando su cosa avrei potuto fare. Lo sentii avvicinarsi. Adesso mi stava proprio dietro. Mi girai, improvvisamente, per squadrarlo da capo a piedi, e mi spaventai a vederlo così vicino, ma non arretrai : < Cosa vuoi? > < Oh, io proprio niente. Mi chiedevo tu cosa ci facevi, qui. > < Perché? Sono una cliente. > < Ah, sì?! > mi disse con finto stupore. < Ma a me pareva che con Nobuo fossi più aperta. E perché non lo sei anche con me? > adesso aveva piegato la testa leggermente, con un leggero sorriso storto in quel suo viso bello ma odioso. < Ma fottiti. >
E me ne andai.
Ora come ora, non so cosa darei per vedere la sua faccia in quel momento. Doveva esserci rimasto malissimo. Penso ancora alla soddisfazione con cui poi mi rigirai e andai dritta dritta per la mia strada.
Avevo le vene che ribollivano di sangue caldo per quell’improvviso scontro a fuoco con Ren, ora mi ricordavo come si chiamasse. Arrivai al negozio tutta gasata. Il proprietario mi guardò, sorridendo compiaciuto: < Eheh, cos’è successo, piccola? >.
In una situazione normale, l’avrei fulminato, invece mi limitai a lanciargli un sorriso storto e continuai a lavorare, ora più tranquilla.
Ma quello che avevo fatto non sarebbe rimasto impunito.
All’incirca verso le quattro del pomeriggio, entrò una figura dentro al negozio. Avevo un certo presentimento a riguardo, ma mi limitai a stare ferma e aspettare che la figura si ponesse sotto la luce della lampada, e si rivelasse. Non tardò, il momento. Era Ren.
Sotto quella luce aveva un’aura anche un po’ inquietante, come dire. La luce gli illuminava la fronte bianca, il naso diritto e il labbro inferiore. Il resto era completamente in ombra, oscurato. Poi il ghigno che portava in faccia completava l’opera. Era il chiaro ritratto del maniaco psicotico.
Improvvisai un sorrisetto imbarazzato perché ero davanti al proprietario, che mi guardava stranito e con una mezza idea nei confronti del nuovo arrivato. Gli feci segno con una mano che era tutto a posto. Poi presi per un angolo del chiodo Ren e lo trascinai fuori. Lì, lo guardai, interrogativa e con la mia solita impassibilità: < Beh? > < Beh niente, sono venuto a vedere dove lavori. Davvero sei riuscita a trovarti un lavoro qua? Non avrei mai detto che avresti avuto una possibilità del genere, una come te … Dovresti essere sottopagata, mi sa. >
L’irritazione lasciò posto alla rabbia pura. Non sapevo che quella era una delle prime volte in cui quel sentimento avrebbe preso posto nel mio cuore per una sua frase, un suo gesto, un suo sguardo. L’esistenza costellata di piccole freccette in cui era segnalata la faccetta pallida e scavata. 

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Capitolo 10
*** Fiori di loto. ***


La sera, quando tornai a casa, non sapevo che era prevista una dolce e gigantesca cena di famiglia, o, per essere precisi, di ostello. Mi venne quasi la nausea a vederli tutti lì, riuniti, ridendo e scherzando, sentendomi un peso e un fastidio. Mi venne alla mente la possibilità che magari stessero parlando di me, magari dicendo “Speriamo che non venga! Non voglio quella tizia in mezzo ai piedi anche stasera …”. Dopo di questa, non riuscii a entrare nella sala e manifestare la mia presenza, così feci retromarcia e mi avviai verso la mia camera.
In quei giorni ero talmente occupata, che non fumavo quasi più. L’astinenza si faceva sentire e alle volte al negozio, la cassa si trovava scoperta perché io, in un attimo di auto convincimento, ero sgattaiolata fuori di nascosto per fumarmi una Seven in santa pace, e poi farmi fare il cazziatone dal proprietario, che mi minacciava dicendomi che, se in uno di quei momenti, qualcuno avesse svuotato la cassa, avrei dovuto pagare tutto io, di tasca mia.
Sdraiata sul letto, avvolta in una coperta, con le cuffie nelle orecchie e una sigaretta spenta per terra, mi ero addormentata.
Sentii un leggero senso di freddo o solletico, non ricordo, sull’intero braccio. Aprii gli occhi di scatto e vidi quel tizio che mi stava … Oh Cristo, non lo so … Magari mi sono sbagliata. Ma sembrava proprio mi stesse accarezzando il braccio. No, va bene, ne sono sicura: il suo polpastrello bianco andava avanti e indietro sul mio braccio scoperto. Capii che mi stava accarezzando il tatuaggio. Quando avevo aperto gli occhi, l’avevo visto, quasi in trans, che guardava solamente quello, percorrendone i contorni. Avevo aperto solamente gli occhi, il resto del mio corpo non si era mosso e lui era talmente preso dalla sua analisi che non se ne accorse, ma l’odore della paura riempì il poco spazio che c’era attorno a noi. Si risvegliò dalla sua trans e mi guardò in volto, spaventandosi a morte quando vide che lo stavo fissando. Vidi il bianco attorno ai suoi occhi e poi lo vidi che si alzava velocemente dallo sgabellino che aveva messo ai piedi del mio letto, ribaltandolo dall’agitazione. Alzò le mani a mo’ di rapina e mi disse, affrettato e balbuziente: < No … Non è come pensi. Mi hanno mandato a chiamarti, e io … Beh, non so … Praticamente stavo guardando quel coso … Sì, quel tatuaggio, no?! >. Non volevo dirgli che mi stavo divertendo, così lo guardai il più trucemente possibile e sibilai: < Prova ancora a toccarmi e vedi che quella mano preferiresti non avercela proprio >.
Rimasi lì in piedi, ferma, e aspettai che se ne andasse. Afferrò e si diresse verso la porta, girandosi poi per mormorare: < Fiori di loto? >.

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