L'appartenenza di claws (/viewuser.php?uid=117343)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 1 *** Capitolo I ***
Titolo:
L'appartenenza
Personaggi:
Principali: Fem!Danimarca/Ester Nexø (agente
Ørsted); compare, nei flashback, anche
Male!Danimarca/Jørgen Nexø (agente Andersen);
Fem!Macao/Amàlia Liu (agente Aviz).
Comparse: Vietnam/Pham Lan, Hong Kong/Li Xiao Chun, Norvegia/Lars
Nesbø, Svezia/Berwald Oxenstierna, OC!Scozia/Walter Doyle.
Pairing:
Danimarca & Macao.
Rating:
Giallo.
Avvertimenti:
Linguaggio volgare, Genderbender, AU.
Genere:
Azione, Introspettivo, Malinconico.
Note: La
canzone cantata da Ester è «007 is also gonna
die», dei Nephew.
Degli stessi autori, ma della canzone «Danish way to
rock», sono le citazioni che ho utilizzato per dividere i
flashback dal resto del racconto e sono, in questo capitolo:
«Og hvis de sparker os ned» --- «E se
loro ci buttano a terra a calci»,
«Så si’r vi / Op igen – den
sved» --- «Diremo - in piedi di nuovo, fa
male».
[1] «Drømte mig en drøm i
nat» significa «Ho fatto un sogno,
stanotte.»
Vi auguro buon lettura! C:
L'appartenenza
Capitolo I
«What is black, and what is brown.»
Uno, due, tre giri di
bende lungo il braccio.
«What is field, and what is town.»
In un lasso di tempo
pari a poco più di un minuto lo straccio bianco ripiegato
sul polso era già screziato di sangue.
«What is silence, what is shout.»
Con un sorriso
sofferto, che si rifletteva sulla mano libera, strinse quella
medicazione affrettata. Le sembra di avere un laccio emostatico al
braccio.
«What is fear, and what is doubt.»
Non era paura,
nè dubbio. Era un'angoscia che le raspava la gola, che le
mordeva il sorriso, che le corrodeva le labbra. Era una furia che
l'allegria aveva sempre scacciato, che il buonumore aveva schiacciato e
sbattuto in uno scantinato profondo, dove essa s'era alimentata di buio
e di silenzio.
Era un dolore esploso
come una bomba a orologeria. Il ticchettare nervoso era solo un
sussurro che Ester aveva preferito accantonare, come si dimenticano le
raccomandazioni preoccupate delle madri in una notte di follia e
frammenti di pelle misti a sangue.
Edimburgo era penosa e
offensiva, nel suo grigio nebbia, quella notte.
«Double-oh-seven is also gonna
die.»
«Jørgen!
Dov'è Jørgen!»
«Nell'infermeria
del QG. Agente Ørsted, datti una calmata.»
«No che non
mi calmo, capo! È mio fratello, accidenti!»
L'altra figura si
sedette sulla sedia al di là della scrivania, con un
profondo respiro.
«Agente
Ørsted. Non voglio capricci da marmocchi, nella mia
agenzia.»
«Capricci? Capricci?!»
Mi prende in giro, capo?!,
pensò. Ma per evitare un licenziamento in tronco, tacque.
Sarebbe stato il colmo.
«Il taccuino
degli appunti.» Ordinò, con un cenno della mano.
Ester gli porse il quaderno con la trascrizione in danese delle
informazioni fornite loro dalla macaense. «E poi mi hai
parlato di una prova lasciata dal killer.»
«Dalla killer,
capo.» Precisò Ester, adagiando sulla scrivania un
fiore di loto chiuso in uno di quei sacchetti di rito dei suoi colleghi
poliziotti.
L'uomo
sembrò soddisfatto del materiale, ma non altrettanto della
propria agente - in evidente stato di shock. «Bene. Ora va'
all'infermeria anche tu, e fatti dare una tisana. Sei sollevata dal tuo
incarico di agente speciale a tempo indeterminato.»
La danese non rispose
immediatamente; e quando parlò, si limitò ad un
«Ja»
fermo. Deciso, sì, ma per un altro motivo: era determinata a
ritrovare quella bastarda che aveva ridotto in fin di vita il fratello.
Lei aveva ricavato
solo una ferita al braccio, benché profonda, in quella
missione ad Edimburgo; suo fratello vi aveva trovato la Morte, seduta a
qualche tavolo più in là rispetto al suo, in uno
di quei pub scozzesi. E grazie al cielo Ella non s'era accomodata al
suo fianco, perché Ester non avrebbe mai più
potuto riabbracciare il suo amato fratello - tre volte avrebbe tentato
di cingergli il collo, e tre volte le sue mani avrebbero smosso
soltanto aria, e non capelli.
«Non
lasciare la Danimarca.» Ordinò l'altra figura.
«La pena la conosci perfettamente.»
Dopo aver varcato la
soglia dell'ufficio del proprio capo, l'agente Ørsted
sbattè la porta. Che l'allegria gliela strappassero pure!
Che le proibissero di partire per l'estero! Nessuno avrebbe mai vinto
contro di lei in grinta e forza di volontà. Soprattutto nel
caso in cui avesse a disposizione un indizio in più rispetto
alla propria agenzia.
Il foglietto
spiegazzato nella tasca del suo cappotto s'era appisolato tra la carta
di una caramella per il mal di gola e il mozzicone di un carboncino, ma
rimaneva leggibile.
Era un biglietto di
sola andata per Macao. Ed era un regalo di quella bastarda, lasciato
accanto al suo corpo, quando era ancora incosciente, in quella notte
scozzese. Come poter resistere a quel dono tanto invitante?
Similmente a una barca
a vela incagliata nella bonaccia, dove i marinai s'apprestano a remare
pur di perseguire la loro meta, Ester si armò di pazienza,
perizia, e di un computer portatile.
Avrebbe raggiunto
quell'assassina nella sua tana, e lì l'avrebbe colta di
sorpresa. La rabbia per non essere stata in grado di proteggere un
affetto le maciullava spirito e nervi. Sapeva perfettamente che il
dolore non può essere disperso da altro dolore; sapeva che
due azioni cattive non ne fanno una buona. Tuttavia, voleva vedere in
viso quella bastarda.
Voleva guardarla
dall'alto in basso, con il disprezzo di chi è combattuto tra
l'odio e la più sporca compassione; avvicinarsi fino a
trafiggere il suo sguardo con i propri occhi di ghiaccio; e
sì, anche darle una sonora gomitata tra le costole,
all'altezza del diaframma.
[Og hvis de sparker os ned]
«Jørgen!»
«Oh, agente
Ørsted!» Disse il ragazzo, dandole un pizzicotto
su una guancia. «Ora sono l'agente Andersen, non
Jørgen!»
«Tu sei il
mio fratellone. Non posso chiamarti agente Andersen!»
Chi era ad avergli
detto che sarebbe stato meglio non lavorare con dei familiari? Oh, non
lo ricordava. In ogni caso, non si sarebbe mai ricreduto: lavorare con
la propria sorella minore era uno spasso!
«Andersen
è un cognome importante! Ricordi Hans Christian Andersen,
no?»
«Certo che
lo ricordo! Ma non lo trovo giusto.»
Le
stropicciò i capelli. «Non fare come la
principessa sul pisello! Muoviamoci, piuttosto!»
L'aria di Edimburgo
era satura di rumori, fumo e cenere, quella sera. E lo era quel pub,
stretto in una morsa di sigarette e bicchieri di alcol, dove avrebbero
dovuto incontrare il loro informatore.
Jørgen ed
Ester non erano stupidi. Certo, potevano sembrarlo, ma erano tutt'altro
che poco svegli. Uno dei loro talenti era illudere i nemici di trovarsi
davanti a una coppia di idioti ubriachi dal sorriso grande e dal
prurito forte alle mani.
Tuttavia, se loro
erano i proiettili infiammabili di un caricatore, se erano il re e tre
in una partita di briscola, Amàlia era un asso nascosto
dall'uniforme di una regina inglese. Alta, dall'aria attenta e
raffinata, come un'orchidea all'apice della fioritura, quando i petali
intrappolano con un caleidoscopio di colori i piccoli insetti
impollinatori, si era seduta al loro tavolo; e con lei s'era accomodato
il sentore di un ricordo, quello degli amici che si incontrano solo al
bar, raccontandosi quelle vecchie avventure tra un crostino intinto
nella zuppa e una pinta di birra. Un profumo rilassante, senza dubbio:
che ebbe tuttavia l'effetto opposto, dal momento che non avevano mai
frequentato una donna asiatica tanto affascinante - in
realtà, il tempo non era sufficiente perché
potessero costruirsi una vita sociale al di fuori dell'agenzia.
«Agente
Aviz?»
«In
persona.»
[Så si’r vi
Op igen – den sved]
Aveva programmato
tutto.
Copenaghen-Hong Kong,
Hong Kong-Macao. Con l'aiuto e la connivenza di Berwald, uno degli
agenti in sonno dell'agenzia, che aveva attraversato il ponte di
Øresund per aiutarla a lasciare il Paese, era sicura di
poter compiere il primo passo di quella missione. Inizialmente
controvoglia, poi coinvolto dalla situazione in cui versava il fratello
di Ester, lo svedese le fornì un nome, un cognome, una vita
nuova.
I giorni erano
scanditi con esasperante lentezza dalla macchina che monitorava le
condizioni di Jørgen, incosciente ormai da più di
settantacinque ore. Ore che scivolavano come delle lacrime mai espresse
sulle guance e sul collo.
«Drømte mig en
drøm i nat [1].»
Non si considerava
più un agente segreto. Tutto ciò che aveva scelto
di conservare della propria carriera nel settore erano le tecniche
insegnate nella palestra e al poligono di tiro.
Il suo nuovo cellulare
vibrò - era una sveglia che aveva inserito giorni prima.
Aveva già chiuso nel cassettone del proprio studio il
telefono che le avevano dato appena entrata nell'agenzia, e la chiave
di esso era stata fusa e buttata sul fondo del Mar Baltico.
Si alzò
dalla poltrona della propria casa, con un sospiro. Mentre attraversava
il salone, il suo sguardo accarezzò una fotografia sbiadita
di quando Jørgen e lei erano due marmocchi. Chiusasi alle
spalle la porta, scrollò la testa, riacquistando
lucidità e ottimismo.
Avrebbe stravolto le
strategie a cui erano abituati tutti i suoi colleghi. Si sarebbe mossa
al di fuori delle previsioni del proprio capo, e ne avrebbe pagato le
conseguenze con un sorriso strafottente e felice. Al diavolo il mondo
intero.
Una risata divertita
sbatté sulle sue labbra dalla gola. Tino e gli altri agenti
in sonno erano rimasti interdetti dai soldi che aveva chiesto loro in
prestito, ma anche loro, come Berwald, apprese le condizioni del
danese, si dissero che non avrebbero mai potuto persuadere Ester a non
partire per quella follia extracontinentale.
L'automobile cinerea
di Berwald l'aspettava all'uscita del condominio - lo svedese aveva la
solita espressione impassibile, come se non avesse mai imparato dai
sorrisi dei due fratelli danesi.
Gli occhi color
lapislazzulo di Ester adocchiarono una nuvola bianca, morbida come la
panna montata su una crêpe - da bambini, ricordò,
un giorno Jørgen e lei ne avevano fatto indigestione.
Amàlia si
tolse l'asciugamano dai capelli, adagiandolo sul tavolo del proprio
bagno.
Prese un pettine di
legno, e inforcò la prima ciocca di capelli scuri -
guardandosi allo specchio, sospirò per quei tagli sulla
gamba e sul collo. Adagio, si vestì e lasciò la
camera per recarsi nella cucina - un dim sum
l'attendeva, bollente.
Finalmente le avevano
concesso la possibilità di recuperare dei giorni lavorativi,
così avrebbe potuto dedicarsi a una delle proprie passioni
con la razionalità necessaria. In fondo, abitava vicino a
uno dei vecchi casinò, e da tempo non vi aveva messo piede:
era la buona occasione per distrarsi dalla frenesia della vita che
conduceva, e dall'offesa che il suo orgoglio aveva subito qualche
giorno prima.
Similmente a un
operaio che solo la notte può trovare la pace, tra le
lenzuola della propria camera o tra l'aria intrisa di frammenti di
grano e fumo di un locale, Amàlia lasciò, qualche
manciata di minuti dopo, il proprio quartiere, alzando lo sguardo verso
il cielo cobalto, illuminato a giorno dalle lampade degli alberghi e
dalle luci al neon dei locali, sparsi per la città come
lucciole metalliche in un bosco di slarghi e grattacieli.
Le strade erano
affollate, e vomitavano gente come tanti affluenti in piena.
Amàlia non era né particolarmente alta,
né facilmente riconoscibile, tra quei volti tutti
pressoché identici; però da quando mise piede
fuori dal proprio appartamento sotterraneo non abbassò mai
la guardia.
Quell'uomo di Hong
Kong poteva nascondersi dovunque. Nel giovane che l'aveva sorpassata
dandole uno spintone al braccio, nel gruppo di ragazzi là,
all'angolo di un vicolo, che gridavano e sghignazzavano per
chissà quale motivo. Non poteva permettersi un passo se non
ben misurato, non aveva il diritto di fermarsi a pensare, né
tantomeno quello di parlare con persone all'esterno del
casinò.
Nel palazzo dov'era
diretta, dopotutto, c'erano persone a cui interessava
l'incolumità della macaense; per quello che sapeva,
certamente, ma anche per la rapidità delle sue pistole e del
suo intuito. Per questo, una volta entrata, poteva ritenersi al sicuro.
Tanti turisti
ruggivano a voce bassa seduti ai vari tavoli da gioco - pochi i visi a
lei noti. Quasi le parve di aver vissuto assorbita dal proprio lavoro,
fino a quel momento, e fu difficile raggiungere le scale che portavano
ai piani superiori, dove avrebbe potuto osservare la situazione
più agevolmente.
«Signorina
Liu.» Una voce finalmente riconoscibile raggiunse la
macaense, che stava salendo proprio gli ultimi gradini.
Amàlia
alzò lo sguardo. «Signorina Lan.»
Rispose, con un inchino e un sorriso serafico.
«Per stasera
non potrò farvi compagnia. Sono attesa altrove.»
«Macao
sarà sempre sveglia per voi, signorina Lan. Ma non fatela
aspettare troppo.»
«Voi state
attenta. Chi colpisce per primo deve mantenere gli occhi aperti come
una civetta, signorina Liu.»
L'altra donna le
lanciò un cenno di cortesia, infine scomparve alle sue
spalle.
Non si
stupì delle parole di Pham Lan. Era una donna che conosceva
bene il mondo, e i suoi parassiti: qualcuno di quei vermi era
strisciato fino alle gambe della vietnamita e le aveva raccontato di
quella notte a Edinburgo. Poco male. Non avrebbe sprecato tempo a
spiegarlo ai suoi superiori.
Prese posto al suo
tavolo preferito - blackjack
- con l'aria composta e rilassata di chi ha previsto tutto, e si
sistemò gli occhiali.
Era abituata a sfidare
la sorte - ogni singolo giorno; giocare una partita con la sfortuna era
pericoloso, vero, ma divertente allo stesso modo.
Chiuse gli occhi, per
concentrarsi. Nel buio della gabbia delle palpebre, però,
lampeggiarono dei cerchi luminosi di vari colori, il cui raggio
aumentava e diminuiva mentre si spostavano disordinatamente nella sua
visuale, per poi formare un vortice di colori indefinibili
perché fusi insieme.
Appena le ciglia
inferiori e superiori si divisero, il sogno scomparve, e la luce
soffusa abbracciò i suoi occhi scuri. Erano trascorsi forse
dieci secondi, e i giocatori stavano aspettando la sua puntata, con
degli sguardi che avrebbero messo in soggezione uno di quei turisti
novellini.
Ma Amàlia
sorrise, indecifrabile, mentre le sue mani spostarono vicino al banco
le fiches.
Non aveva mai lasciato
perdere un sogno, che sembrasse premonitore o meno. D'accordo, forse
lei non avrebbe mai comunque abbassato la guardia, ma quella breve
visione la rese ancora più vigile, come un cane da guardia
che, quando scende la notte, appoggia il muso sulle zampe e gli occhi
sulle orecchie, pronto ad avvertire qualsiasi pericolo e rumore che
fosse anormale.
Tuttavia, nonostante
un udito sensibilissimo, non avrebbe mai potuto udire il suono di un
battello al largo dell'isola di Macao.
Era abituata alle
capitali europee, vecchie, inebrianti per quel loro profumo antico, che
sa di vecchio, ma un vecchio buono, come un vino d'annata o un liquore
maturato nell'inerzia di una bottiglia.
Invece, Macao era
frenetica. Era tutto un fervore, un tremito continuo e improvviso, che
rendeva le persone nervose; era un gioco di lampi fluorescenti, di
grattacieli che non tendevano più verso il cielo,
perché credevano di averlo raggiunto.
Non che le
dispiacesse. Amava il divertimento, le uscite e le bevute con gli
amici, le follie raccontate nelle storie da ubriachi; ma in quel
momento aveva solo voglia di raggiungere l'albergo, di stendersi sul
letto per concentrarsi e ripartire dopo un breve momento di riposo.
Arrivare a Macao non
era stato un viaggio comodo, specie nell'ultimo tratto, che aveva
dovuto percorrere su un battello partito da Hong Kong: ma tutto, tutto,
pur di trovare l'agente Aviz.
«What is less in less is more»,
canticchiò, buttandosi sul letto della propria stanza,
«What if God
won't bless the whore. What if words like boy and girl did not rhyme
with joy and whirl.»
Che cosa succederebbe
se, quelle parole la tormentavano, che cosa sarebbe successo se, che
cosa, che cosa. Ester aveva capito che la propria anima s'era agitata
fino a scatenare una tempesta, in cui era sbattuta in lungo e in largo,
senza trovare riposo, né pace. E anche quando la sua piccola
barca sarebbe affondata, quel maledetto disastro non l'avrebbe mai
lasciata andare, fino all'arrivo di quella nera compagna che
Jørgen aveva appena scorto.
A volte le sembrava
che le acque si calmassero. Però era solo una minuscola
consapevolezza, che ancora non sapeva ben definire; allora,
perché Ester non potesse esaminarla, le tempeste
riprendevano con più vigore, turbinando come il vento che
s'era spostato nella deflagrazione di quei tre maledetti proiettili.
Note
Autrice:
Bien, eccomi qui con
una piccola fanfiction - tre capitoli - tutta dedicata, ancora una
volta, a un ambiente di spie e agenti segreti.
L'idea di questa storia è nata per il contest a cui alla
fine ho partecipato, indetto da _Ayame_
e reilin
sul forum di EFP, [Hetalia]
La Fiera del Crack.
Inutile dire che prima di realizzare il risultato sono partita di testa per
la gioia, ecco! xD
Oltre al giudizio - che mi ha fatto notare che, nonostante le millemila
riletture, gli orrori mi scappano lo stesso -, le due giudici hanno
preparato dei banner adorabili sia per le storie che per i premi
speciali.
Il titolo della storia è anche il titolo di una canzone di Giorgio Gaber a cui sono molto legata: è speciale. Ecco, si spiegherà alla fine il motivo per cui è stato scelto questo titolo; tutto (o quasi) verrà al pettine, parola di Jo! C:
Questa storia ha anche ricevuto i premi Best Plot e Best
Couple Award, rispettivamente:
E questo penso sia tutto. C:
Vi ringrazio per esser giunti fin qui, che abbiate solo dato
un'occhiata alla pagina o meno.
Infine, al prossimo venerdì! E ricordate: Thank God It's Friday!
xD
See you soon! :D
claws_Jo
|
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Capitolo 2 *** Capitolo II ***
Le citazioni che ho utilizzato per dividere i
flashback dal resto del racconto in questo capitolo sono:
«Vi
kommer sammen» --- «Arriviamo insieme»,
«Vi går sammen mod nyt land» ---
«Partiamo insieme per una nuova terra».
Di seguito:
[2] Li Xiao chiama Ester
«Agente Jin» perché Jin può
significare anche «traghetto», il mezzo
utilizzato da Ester per raggiungere Macao.
[3] Dato che Li Xiao la chiama Jin, Ester lo canzona definendolo signor
Etciù, a causa del suo cognome.
Buona lettura! ^__^
Capitolo II
«Allora?»
Esclamò Li Xiao, indifferente.
Occidentali. Tutti
uguali! Sempre a dire di dover portare avanti diecimila impegni, e poi
non essere capaci di prendere una decisione.
Ester, da qualche
minuto, taceva. Lo stanzone dove l'aveva portata quel cinese l'aveva
messa in allarme, ma non poteva rischiare di perdere un'occasione
simile. Uno delle triadi - sì, quelle dannate triadi che
infestavano la sua amata Copenaghen! - l'aveva contattata. Ne era
certa, l'avevano scelta appositamente perché lei aveva
intenzione di stanare e colpire l'agente macaense Aviz.
«Cosa vi ha
fatto l'agente Aviz?»
«Ha ucciso
uno dei nostri, agente Jin [2]. Non le serve sapere di più.
Vuole accettare questo incarico oppure no?»
«Sentiamo.»
«Noi le
forniremo tutte le informazioni di cui siamo in possesso riguardo Aviz.
Lei dovrà eliminarla.»
Oh, Ester sapeva
perché glielo stavano chiedendo. Era stata l'agente Aviz in
persona a fornire ai due danesi le informazioni sulle triadi. E non le
sembrò strano che avessero contattato proprio lei: non
avrebbe mai potuto far trapelare informazioni sui gruppi della
criminalità organizzata cinese, ora che aveva un obiettivo
più importante da fare fuori. Un bersaglio in comune con
quei criminali, vero. Ma aveva lasciato tutto alle spalle, non poteva
far emergere i sensi di colpa in quel momento.
«Accetto,
signor Etciù.
[3]»
[Vi kommer sammen]
Ester aveva riempito
il quadernetto di appunti e informazioni. Parole che solo lei e
Jørgen avrebbero potuto decifrare, sia per com'erano scritte
- dovevano ammetterlo, scrivere seguendo le righe non era mai stato il
loro forte, specie se erano costretti a farlo senza guardare per non
farsi notare -, sia per il linguaggio in codice, che avevano creato per
gioco nell'infanzia, poi sviluppato nel corso delle loro carriere nei
servizi segreti.
L'agente Aviz parlava
sottovoce, e le sue parole si dissolvevano nell'aroma del rum con la
grazia di un'essenza preparatoria per profumi. Parlava in un misto di
cinese e danese, tutt'altro che stentato, e con quegli occhi mandorlati
sembrava rendere la conversazione un discorso tra amici - che non era
proprio la loro discussione, visto che stavano parlando di triadi nel
Nord Europa.
Puntellandosi sui
gomiti, Amàlia adagiò il mento sul dorso della
mano, sorridendo serafica. «E questo era tutto ciò
che mi è stato ordinato di dirvi.»
In poche parole, ora
toccava ai due danesi seguire le istruzioni del loro capo.
«Ja.»
Disse Ester, facendo scivolare sulle gambe il blocco degli appunti fin
dentro gli stivali. «Jør- cioè, agente
Andersen.» Si corresse, dandosi mentalmente dell'idiota.
Il fratello la
guardò un attimo, divertito e preoccupato al contempo.
«Seafield Road East, A199,
sulla costa. Superato un magazzino» e dalla manica
sfilò un biglietto, che sistemò sotto il
bicchiere di rum mezzo vuoto dell'agente Aviz, dove le veniva
comunicato il nome del negozio, «troverà una Opel
Frontera del '98 parcheggiata sulla spiaggia. Alla guida c'è
un nostro agente. Faccia i fari per due volte, tre colpi brevi, uno
lungo.»
«E chieda di
Hans Christian.» Aggiunse Ester.
La macaense
sembrò registrare nella propria testa tutte le informazioni,
veloce come una dattilografa. Infine, lasciando qualche sterlina sul
banco, si alzò, infilò il cappotto e con lo
stesso sorriso indecifrabile uscì dal locale. Li aveva
ringraziati e aveva dato loro le spalle, come se si fidasse ciecamente
dei due danesi - quando in realtà la sua fiducia era solo ed
esclusivamente per se stessa e le sue capacità.
Ester si
rilassò sulla sedia. «È fatta,
fratello.»
«Non ancora,
agente Ørsted. Dobbiamo andarcene.»
«Quello
è il meno. Walter ci aspetta.»
«Aspetta noi
e Lars. Sbrighiamoci.»
Tre fari brevi, uno
lungo. Ancora tre brevi, uno lungo, che illuminarono la notte scozzese
e l'acqua del Mare del Nord come comete.
Dalla Frontera
parcheggiata una ventina di metri più in là
comparve una figura sottile, che sembrava quasi invitarla ad
avvicinarsi. Amàlia controllò le pistole che
aveva ai fianchi, quindi uscì dall'auto, e raggiunse l'altro
agente.
La sicurezza dei due
personaggi al pub l'aveva insospettita. Poco male, avrebbe controllato
la merce con estrema calma, in cambio.
«Ha
bisogno?» Domandò quello, indifferente.
«Stavo
cercando Hans Christian.» Rispose la macaense, con l'ennesimo
sorriso incomprensibile.
L'altro agente, Lars,
non ci mise molto. Riprese in mano le chiavi dell'auto, le
infilò nella serratura del bagagliaio, e lo aprì.
Davanti agli occhi dell'agente Aviz si stendevano una dozzina di
valigie nere, simili a cuccioli di pantera addormentati.
«C'è
tutto.»
«Sarà
mia premura verificarlo.» Aggiunse Amàlia,
cominciando a controllare la prima ventiquattrore che prese in mano.
Lars sbuffò
impercettibilmente.
Orientali. Tutti
uguali! Sempre a fare ogni cosa con un sorriso snervante. E se a
ciò doveva sommare il rivedere quei due danesi fin troppo
amichevoli, insomma, capì che non sarebbe stata la sua
nottata più rilassante e tranquilla, nemmeno se il cielo era
cucito da tante stelle minute e le onde ricamate da sassi scuri e
qualche animaletto che prendeva la luce della luna.
Amàlia
sorrise, sì; ma chiunque non lo avrebbe definito un sorriso
amichevole.
Forse credevano di
averla raggirata - e questo già la rendeva furiosa.
Forse credevano che la
sua missione fosse finita col ritirare delle semplici valigie ripiene
di armi e soldi - non avevano fatto i conti con il segnalatore GPS che
aveva inserito in un coprimozzo della Frontera, evidentemente.
Brandì il
telefono, aprì l'applicazione per le segnalazioni,
inumidendo un labbro ferito con la lingua. Quella banda di poliziotti,
che aveva fatto irruzione nel minuscolo albergo dove aveva prenotato
una stanza, le aveva procurato qualche taglio e una dolorosa bruciatura
all'orgoglio.
Quei tre bastardi,
sottovalutarla fino a quel punto! Aver nascosto un timer in una delle
pareti di una valigetta, perché all'orario stabilito
inviasse una segnalazione alla stazione di polizia più
vicina, era un trucco meschino. Lei aveva degli ordini da eseguire, e
tra questi c'era anche il compito "eliminare fisicamente gli agenti
nordeuropei che le avrebbero fornito l'equipaggiamento". Non avrebbe
mai barato: barare era scegliere di propria ed esclusiva iniziativa
cosa fare per vincere, e lei, almeno come singolo individuo, non aveva
mai commesso un reato simile verso se stessa.
Invece, invece loro...!
Qualche minuto, e
finalmente vide sullo schermo del cellulare la posizione dell'auto: si
stava dirigendo verso l'interno, probabilmente all'aeroporto di
Edimburgo.
Oh, avrebbe fatto
vedere loro con chi avevano a che fare. Li avrebbe spezzati.
[Vi går sammen mod nyt
land]
Ester si
sistemò la cravatta, maledicendo quell'aggeggio infernale.
Non aveva mai
immaginato che sarebbe finita a Macao, a cercare una dannata che aveva
colpito a morte il suo amato fratellone, e che per fare ciò
si sarebbe dovuta vestire da uomo e tagliare i capelli.
«Tanto sei piatta.»
Gli aveva detto l'insensibile Li Xiao Chun, e solo con una buona dose
di forza di volontà Ester non gli aveva rotto quel nasino
perfetto. Comunque se l'era legata al dito, e al termine della missione
come minimo gli avrebbe dato un pugno e spaccato il mento, se se ne
fosse presentata la possibilità.
Erano trascorsi ormai
cinque giorni da quella
notte. Ester non riusciva ancora a capire se quel sentimento furioso
che prima avrebbe definito rancore si fosse trasformato in
qualcos'altro, impetuoso ma fragile. Si sentiva come se quello che
avesse intenzione di portare avanti fosse una pura follia.
I capelli - ora corti
- del color del miele dondolarono come scossi dai pensieri che le
vorticavano nella testa. Rise, rise per non piangere.
Jørgen, oh, Jørgen, chissà se s'era
svegliato! Chissà se Lars gli aveva già spiegato
cos'era accaduto, e dov'era finita lei!
Infine, i suoi
pensieri si focalizzarono sulla figura dell'agente Aviz, alta,
splendida e lontana dal mondo, così come crudele, cinica, e
terrificante con quel sorriso improbabile a imperlarle il viso bianco.
Lanciò
un'occhiata al biglietto dove aveva segnato l'indirizzo del
casinò, segnalatole da Li Xiao. Egli le aveva spiegato che
l'agente Aviz trascorreva buona parte delle sue serate libere a giocare
d'azzardo, e che in quel palazzo aveva trascorso le ultime notti. Non
aveva chiesto perché non si fossero mossi loro, ma non era
difficile immaginarlo: con un'estranea alla faida tra la macaense e
quelle triadi, la criminalità organizzata poteva ottenere
ciò che voleva senza uscire allo scoperto, mentre lei
avrebbe potuto raggiungere il suo scopo.
Strinse il nodo della
cravatta, si spettinò i capelli - doveva ammettere che
quello smoking, tutto sommato, le donava - e si disse pronta. Quella
sera ci sarebbe stata la resa dei conti.
Voleva guardarla
dall'alto in basso, con il disprezzo di chi sta lottando tra l'odio e
la più rabbiosa compassione; avvicinarsi fino a trafiggere
il suo sguardo con i propri occhi di neve; e sì, anche darle
un sonoro calcio tra le costole, all'altezza dei polmoni.
Amàlia
lasciò il proprio appartamento, da un'uscita diversa a un
orario diverso. Con lo sguardo attento di un fotografo, si diresse
verso il suo abituale passatempo; le pareva una serata simile alle
precedenti. L'unico fattore che si modificava ogni volta, e solo in
minima parte, era la moltitudine di avventori - i turisti se ne
andavano, i perdenti cambiavano casinò, e i miliardari
decidevano di costruirne uno di
loro proprietà.
Salì i
soliti gradini, salutò con un cenno i soliti riccastri con
cui aveva rapporti di lavoro, e si sedette al solito tavolo di
blackjack. Non poteva non dirsi una persona tradizionalista, in effetti.
«Signorina
Liu, anche oggi qui?»
«Buonasera,
signorina Lan.» Inchino e sorriso serafico, al solito.
«Quando un banco mi sceglie come favorita, sono solita non
allontanarmene.»
«Ne sono
lieta. Ma ve lo ricordo, signorina Liu, non seguite troppo le vostre
abitudini, o qualcuno ne approfitterà.»
«Non vi
preoccupate. È tutto calcolato.»
«Allora,
signorina Liu, vi saluto.»
«Arrivederci,
signorina Lan.»
La vietnamita sorrise,
amabile, e scomparve dietro un croupier.
Oh, era vero.
Amàlia era sicura che quel trio di agenti l'avrebbe cercata
e, un giorno, raggiunta: con l'indizio che aveva lasciato, di certo ci
avrebbero messo poco, quantomeno a raggiungere Macao.
Che si fosse trattato
di uno dei due del pub o del pezzo di marmo, tutti e tre avrebbero
preso la stessa decisione, perché erano esseri umani, e lei
aveva imparato a conoscerli, come uno psicologo esplora la mente del
proprio paziente.
La vendetta, il
desiderio di fare fuori l'assassino di una persona cara è un
sentimento incontrollabile. Lo puoi reprimere una, due, tre volte, ma
esso tornerà sempre a torturare il malcapitato. Sempre.
«Chiedo
carta.» Disse al banchiere, dopo aver osservato la propria
carta scoperta. Il ragazzo al banco ne poggiò una coperta
sul tavolo, davanti alla macaense, che la guardò per un solo
secondo. «Blackjack.» Aggiunse quella, scoprendole
entrambe.
Un asso di picche e
una regina di quadri.
La carta scoperta del
banchiere era un otto di fiori. Egli ne prese un'altra dal mazzo, visto
che dovevano stabilire se sarebbe stata una giocata finita alla pari o
se la giocatrice davanti a lui avrebbe vinto.
Tre di quadri.
Un'altra ancora.
Due di cuori.
Le mani del ragazzo al
banco tremarono appena nel prendere l'ultima carta dal mazzo. Dieci di
picche.
«Il banco
perde.» Esclamò una voce alle spalle della
macaense, proveniente dalle scale. L'agente Aviz fece appena in tempo a
voltarsi che si trovò una pistola puntata alla tempia.
«Dunque...
Agente Andersen?»
«Spiacente
di averla ingannata con il mio cambio d'abito,» rispose la
figura appena comparsa con un ghigno eccitato, «ma non sono
l'agente Andersen.»
«Oh,
allora... L'agente Ørsted, giusto?»
La danese sorrise
tranquillamente al banchiere, che nel frattempo s'era congelato sul
posto. «Ah, ragazzo, le conviene andarsene, e spargere la
voce. Penso che nel giro di mezzo minuto cominceremo a fare
casino.»
Quello non se lo fece
ripetere. Sgattaiolò via dal tavolo, sgusciando tra le sedie
ormai vuote di quelli che erano scappati prima di lui.
«Agente
Ørsted, questo gioco di parole con "casino" e
"casinò" era davvero penoso.»
Solo allora Ester si
accorse della canna di una pistola che le accarezzava lo stomaco.
Imprecò tra sé e sé.
«Vedrà,
agente Aviz, come si sentirà in pena tra qualche
ora!» Rispose, con un sorriso allegro.
Non aveva certo
dimenticato il motivo della sua comparsa in quel casinò;
però, non poteva negarlo, il sangue pulsava con fervore fino
alle cellule più distanti dal cuore. Erano quegli istanti
che si cercano in una vita, quelli in cui ci si sente più
vivo che mai, perché si potrebbe perdere la vita per
qualsiasi inezia.
Note Autrice:
Eccomi qui ancora una volta.
Non ho granchè da dire, se non grazie a reilin e _Ayame_, e
a coloro i quali hanno aperto la pagina di questo secondo capitolo.
Spero che vi sia piaciuto. C:
Al prossimo venerdì!
claws_Jo
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Capitolo 3 *** Capitolo III ***
In questo capitolo, le citazioni usate per dividere il flashback dal
resto del racconto sono:
«Og
hvis de sparker den ind»
--- «E
se loro lo buttano a terra a calci»,
«Så si’r vi
/ Fuck nu det – kom igen» --- «Diremo /
Fanculo - vieni qua di nuovo».
Vi lascio a quest'ultimo capitolo! C:
Capitolo III
[Og hvis de sparker den ind]
«Men, come on! Shake a leg!»
Urlò Walter, dalla cabina di pilotaggio.
«Che palle,
Wal! Ci siamo!» Gli gridò di rimando
Jørgen, mentre correva al fianco di Ester e Lars verso il
piccolo aeroplano privato.
Il norvegese stava
salendo i quattro gradini che lo separavano dal proprio sedile, quando
udì uno sparo. Poi un altro, e un ultimo colpo.
«Lars,
muoviti! Andate!» Ester imprecò, sfilando la
pistola dalla cintura e mirando verso quella figura alta e sinuosa
nascosta dalla nebbia.
Jørgen era
caduto in ginocchio, con una tosse strozzata. Un proiettile doveva
essersi conficcato nel suo fianco, e un altro nella coscia. Il terzo,
Ester non lo sapeva, non lo aveva visto, come non aveva visto quegli
altri: ma mentre i primi due avevano procurato ferite al fratello,
l'ultimo le fu d'aiuto. Il loro nemico doveva avere ancora sette - o
meno probabilmente nove - bossoli pronti a far fuoco.
Trascinò il
corpo del danese dietro un paio di container cubici, strappandosi la
manica del cappotto per legarglielo attorno al fianco e alla coscia
come laccio emostatico. Prima era doveroso eliminare o rendere innocuo
l'avversario, poi avrebbe potuto pensare al fratello.
L'aereo si trovava
ancora immobile sulla pista di decollo.
Lars era sceso,
perché potevano dirgli qualsiasi cosa, ma non avrebbe mai
lasciato indietro dei compagni, men che meno in gravi condizioni.
«Lars!»
Gli disse la danese quando le fu accanto, dietro quegli enormi cubi
metallici. «Carica Jørgen sull'aereo e filate a
Copenaghen. Ci rivedremo il prima possibile.»
L'altro
annuì, in silenzio. Non avrebbe potuto fare altro,
perché Ester non glielo avrebbe in alcun modo permesso.
«Vi copro
io!» Aggiunse l'agente Ørsted, uscendo dal proprio
nascondiglio armata di due pistole cariche e di una rabbia cieca. La
nebbia rendeva più complicato distinguere bene le forme
delle cose e delle persone, ma non aveva altra scelta.
Sparò un
colpo, poi un altro, e così via, a ritmi diversi, verso
quella silhouette che aveva riconosciuto per l'andatura.
«Sappiate,
agenti,» disse Amàlia, «che accetto i
bari solo nei casinò.»
«Lars!»
«Ja, ci sono. Puoi
andare, Wal.»
«Non li
sopporto, se non nel gioco d'azzardo.»
Un rombo che
fracassò i timpani proruppe dall'aereo. Una fiammata
illuminò la pista, e fu in quel momento che Ester vide
l'altro sorriso dell'agente Aviz.
Terrificante. Come un
bambino che ha paura dei fantasmi e ne trova uno nel proprio incubo, la
danese rimase immobile per qualche secondo. Per riprendersi dovette
scrollare la testa: solo allora ricominciò a sparare, con
una grintosa rabbia che emergeva dalle dita.
Un bossolo doveva aver
colpito l'avversaria - udì gemiti di dolore poco
più in là -, ma molti di più erano
andati a vuoto, sia dalla sua parte, che da quella della nemica. Si
rannicchiò dietro quel container un'ultima volta.
«Vanno
sradicati, come la malerba.»
Con un ultimo ringhio
il veicolo s'era sollevato in aria, abbandonando nella sera lunghi
sbuffi di fumo nero.
Ester baciò
la canna della pistola. Era il suo ultimo colpo.
«E, agente,
mi faccia un favore.»
«Col cavolo!
Non scendo a patti con una stronza che cerca di far fuori mio
fratello!»
«Ripeta
quattro volte la frase: "Io baro".»
Ester
ruggì, come un'orsa che ha annusato un pericolo per propri
cuccioli. Si alzò da dietro il grande cubo di metallo.
Faccia a faccia,
sorriso a sorriso.
«Mio
fratello non mi ha abituato a dire bugie!» Gridò,
premendo il grilletto. Mezzo secondo dopo, si ritrovò
riversa a terra, un braccio insanguinato e un ginocchio contuso.
La nebbia era
insopportabile tanto quanto il furore, per Amàlia.
Le ginocchia si erano
sciolte sotto quell'ultimo sparo. La gamba destra, prima bianca e
lunga, ora era macchiata di rosso e contratta in quello che pareva un
singhiozzo.
Anche la sua
avversaria era finita col viso a terra.
Rotolò su
un fianco, per guardare il cielo. S'era lasciata coinvolgere da un
disonorevole oltraggio, e forse quella consapevolezza, più
dell'essere stata ferita a un polpaccio, le inumidì gli
occhi.
O forse era solo la
bellezza di quel cielo che si rifletteva nei suoi occhi e li perforava,
fino a far sanguinare acqua?
Ricordò che
a Macao il cielo era piastrellato da grattacieli.
La mattina successiva
una pattuglia di poliziotti raggiunse il luogo della sparatoria, dietro
segnalazione di alcuni addetti dell'aeroporto. Ma non trovarono due
corpi stesi sul cemento, bensì due pozzanghere di sangue
ancora fresco, e il lamento del vento freddo del Nord.
[Så si’r vi /
Fuck nu det – kom igen]
Ester
scattò di lato, premendo il grilletto. Il colpo
partì, ma si conficcò nel pavimento, lontano
dall'agente Aviz - che scartò lateralmente, e con una
capriola tornò in piedi.
Si squadrarono come
due arieti che stanno per cominciare un duello.
«Come sta
l'agente Andersen?» Amàlia camminava in linea
trasversale, la pistola diritta e ferma rivolta alla testa della
danese. Danzavano in cerchio, spostandosi su una circonferenza
immaginaria.
Ester sorrise,
strafottente. Non poteva mostrare oltre la propria rabbia. «Top secret, agente
Aviz. Non ha i requisiti per accedere alle informazioni
desiderate.»
«Capisco.
Allora dovrò scoprire di persona le sue
condizioni.»
I tavoli da gioco,
rovesciati a causa della fuga del resto degli avventori, tacevano. Era
un silenzio pesante, interrotto solo qualche minuto dopo dall'arrivo di
una squadra di guardie, armate di pistole e di spalle larghe.
Amàlia li
vide. E li fermò, alzando una mano e un sorriso
indecifrabile.
«Dite alla
signorina che non deve preoccuparsi. Sistemerò io
quest'intrusa.»
La danese
approfittò dell'occasione. Con un rùgghio
penetrante sparò altri due colpi. Sfortunatamente per lei,
la macaense alle spalle aveva la balconata che si apriva sul piano
inferiore, e con un salto e una capriola si lanciò di sotto,
atterrando come una gatta in piedi.
Minacciata da quei
tipacci in smoking, l'agente Ørsted optò per
l'inseguimento della propria avversaria: tuttavia, per evitare di
ammazzarsi da sola - conoscere i propri limiti era parte del suo lavoro
-, scelse di prendere le scale. Con una rapida rincorsa
saltò sul corrimano in piedi e, come se si trovasse alle
Hawaii durante una gara di surf, scivolò lungo il marmo
lucido, raggiungendo illesa il piano inferiore.
«Si sta
divertendo, eh, agente Ørsted?»
«Oh, la
prego, mi chiami Ester, Amàlia.» Disse la danese,
facendo la vocina di una bambinaia sottomessa. Si nascose dietro un
tavolo rotolato vicino alla parete, mentre la macaense trovò
riparo dietro una colonna.
«Scommetto
che sono state le triadi.» A dirle dove l'avrebbe potuta
trovare, a dirle il nome, il cognome, qual era il suo piatto preferito,
che incenso amava, e che fiore portava tra i capelli.
Ester parve
rifletterci su. «Ha iniziato lei sparando a mio fratello,
agente Aviz.»
Doveva trovare un
espediente per avvicinarla e da lì combattere corpo a corpo.
Aveva meno proiettili della sua nemica e ciò incrinava tutte
le sue probabilità di uscirne viva e vittoriosa.
«Oh, la
prego, mi chiami Amàlia, signorina Ester.»
Rispose, imitando la voce dell'europea - che si sentì in
dovere di farle conoscere il proprio risentimento sparandole a qualche
centimetro dagli occhi. «Devo dedurre che lei è
qui per l'agente Andersen.»
«Non solo,
Amàlia. In fondo, me lo ha consigliato lei, di venire, con
quel biglietto di sola andata per Macao. Sono qui per lui e per me
stessa.»
«Il rancore
è un demone della peggior specie, signorina Ester.»
La risposta
tardò ad arrivare. La donna si insospettì. O
aveva di fronte un'avversaria furibonda - il che era a proprio
vantaggio, perché l'ira percuote la concentrazione -, o
stava macchinando qualcosa.
«Nej. No, non
è rancore.» Una piccola pausa.
«Piuttosto, la paura di perdere una persona cara.»
«Allora, mi
dica, perché sta cercando di uccidermi?»
Domandò Amàlia, togliendo la sicura da entrambe
le pistole. C'era troppo silenzio. Non le piaceva per nulla: senza
contare le fiches sparse sul pavimento come coriandoli, le carte
rimaste impigliate tra una sedia e un ventaglio, e perfino qualche
bicchiere ancora pieno di champagne - o qualcosa di simile - che,
caduto in terra, s'era spaccato in tanti minuscoli frammenti di vetro,
all'apparenza anche eleganti, disposti a raggiera attorno alle lacrime
di spumante, ma sottili e pungenti come degli aghi.
Il suo nascondiglio
distava circa venti metri dal tavolo dietro cui si era rifugiata Ester;
tra loro, una terra di nessuno composta dai tavoli e da tutto
ciò che era rotolato giù da essi, con la
malagrazia di uno spavento.
«Perché
le voglio far capire cosa si prova ad essere lì, sul filo
del rasoio, con le dita della Morte che ticchettano sulla
spalla.»
Niente. La voce
proveniva ancora da dietro quel tavolo rovesciato. Dov'era il trucco?
Perché non avvertiva nessun rumore?
Alzò lo
sguardo.
Accidenti. E dire che
in tutti i film di spionaggio di terza categoria c'era sempre un
dannato lampadario che si sfracellava!
In effetti, Ester
sparò alla catena che reggeva l'enorme lampadario di
cristallo al soffitto. Ed esso crollò, con il sibilo di un
missile, disintegrandosi sul terreno. Il cristallo si spezzò
in tante gocce che rimbalzarono in aria, come se fossero le stille di
una fontana italiana, una di quelle che sottraggono il fiato dalla
gola, e lasciano esterrefatti da tanta bellezza.
Amàlia si
riparò dietro la colonna di marmo, coprendosi il viso con le
braccia. Qualche pezzetto di vetro raggiunse le sue gambe, ma furono
taglietti di poco valore. Ben più problematico fu capire
qual era l'attuale posizione della danese.
«Amàlia,
io l'ho vista, la Morte. Le posso assicurare che vorrei non rivederla
per un bel po'.»
Strano. Stranissimo.
L'origine della voce era ancora dall'altra parte della stanza, dietro
quel dannato tavolo. Ma allora perché far saltare i ganci
del lampadario e aggiungere disordine a un terreno di battaglia
già dissestato? Non era vantaggioso per nessuna delle due,
specie per Ester, che aveva già utilizzato almeno mezzo
caricatore.
«Però
avevo deciso che le avrebbe fatto bene guardarla in faccia,
Amàlia. Lasci che l'aiuti a incontrarla.»
Di per sè,
la luce all'interno del casinò era già molto
soffusa. Con la distruzione del lampadario, s'era ridotta alle applique
sulle pareti, che comunque non rendevano molto nitida la visione delle
cose. Questo tornava a vantaggio della danese, a ben pensarci, come
tornava utile a lei. L'agente Aviz conosceva perfettamente l'edificio,
si sarebbe potuta muovere agilmente anche a luci spente - certo, si
sarebbe ferita, con tutti quei vetri per terra, e avrebbe fatto rumore,
ma anche la sua nemica avrebbe corso rischi simili. Tacque. No, ancora
nessun suono.
Ma dove...?
«Mi stava
cercando, Amàlia?»
Stavolta proveniva
dall'alto. Vide di sfuggita un'ombra balzare giù dalla
balconata, e subito quella figura le fu addosso, sbattendola per terra.
«Sa,»
disse la danese, calciando lontano le pistole della macaense
«mi sto divertendo. Ma i giochi sono finiti.»
«Lei era
dietro il tavolo.»
«Come? Lei
stessa ha affermato che c'entravano le triadi. Non le ho risposto
subito, ma ora posso assicurarglielo. Ja, loro c'entrano.
Loro e la loro tecnologia. Anche se, a ben pensarci,»
aggiunse, «chiunque può trovare in un negozio un
registratore.» Era un sorrisone arrogante e divertito
insieme, quello di Ester, soddisfatta per l'effetto che aveva sortito.
«Se poi aggiunge quelle belle tende spesse alle finestre, e
il tappeto rosso su tutti i gradini e parte del piano superiore, posso
dirle che è stato facile muoversi in mezzo alla confusione
creata dal lampadario.»
S'era fatta fregare.
Quel lampadario era uno specchio per le allodole!
Il piede schiacciato
sul torace non permetteva ad Amàlia di respirare normalmente.
«Cosa spera
di fare, ora, signorina Ester? Ha intenzione di farmi fuori?»
«No,
gliel'ho detto.» Non aveva intenzione di ucciderla, come
avrebbero voluto le triadi e quell'insopportabile Li Xiao Chun; non
voleva neanche annientarla psicologicamente - e forse non ne sarebbe
stata nemmeno capace.
Fin dall'inizio Ester
aveva deciso di portare a termine uno e un solo compito.
Infine, l'aveva
guardata dall'alto in basso, con il disprezzo di chi ha scelto tra
l'odio e la più pietosa compassione; s'era avvicinata fino a
trafiggere il suo sguardo con i propri occhi d'acqua; e sì,
le aveva anche dato un sonoro pugno tra le costole, all'altezza del
cuore.
Silenzio.
Ssh.
«Perché,
Ester?
Perché?» La voce di Amàlia si era
dischiusa in un rantolo. Si aspettava calci, pugni, sberle, insulti,
tutto. Si aspettava tutto, ma non quello.
Ester l'aveva
pugnalata con uno sguardo liquido, limpido, puro.
Era veramente fuori
dagli schemi, quella donna.
«La mia
unica intenzione era capire cosa provavo. Se quella sensazione che mi
tormentava era l'esasperazione dell'egoismo, o era l'apice dell'affetto
fraterno.» Cominciò Ester, riparando gli occhi
dietro una mano. «Ma poi ho capito. Quello che sentivo era un
forte sentimento di appartenenza. Ho sentito dolore perché
mio fratello è dentro di me, e dato che era stato ferito,
soffrivo anch'io.» Scoppiò a ridere, sinceramente
sollevata. «Era una forza che mi ha sconvolto, che mi ha
distrutto, ma che mi ha fatto sentire viva.»
La macaense chiuse gli
occhi, stupefatta. Credeva di aver capito tutto, quando ciò
che custodiva tra le mani era solo la cenere di un sentimento. Di un
modo di vivere.
«Deve essere
bello.»
Ester sorrise, senza
abbassare la guardia - ma si permise uno sguardo lontano, rivolto al
fratello, o forse solo a quel rancore che, scacciato, tentava invano di
ingannarla ancora.
Un sussurro, che
sfumò nell'aria.
«Lo
è.»
[L'appartenenza è
avere gli altri dentro di sé.]
FINE
Note
Autrice:
Eccoci qui per
l'ultimo capitolo.
Ringrazio tutti coloro
che mi hanno seguito, aspettando quest'ultimo aggiornamento. Grazie!
*Piccolo inchino.*
E
un grazie anche a chi ha aperto la pagina pensando di trovare qualcosa
di suo
gradimento: chi lo sa, spero l'abbia trovato, almeno un po'. C:
Se avete domande da
porre, critiche da presentarmi, sono sempre - o quasi - qui,
disponibile.
Alla prossima! :D
claws_Jo
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