L'appartenenza

di claws
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***





Titolo: L'appartenenza
Personaggi:
Principali: Fem!Danimarca/Ester Nexø (agente Ørsted); compare, nei flashback, anche Male!Danimarca/Jørgen Nexø (agente Andersen); Fem!Macao/Amàlia Liu (agente Aviz).
Comparse: Vietnam/Pham Lan, Hong Kong/Li Xiao Chun, Norvegia/Lars Nesbø, Svezia/Berwald Oxenstierna, OC!Scozia/Walter Doyle.
Pairing: Danimarca & Macao.
Rating: Giallo.
Avvertimenti: Linguaggio volgare, Genderbender, AU.
Genere: Azione, Introspettivo, Malinconico.
Note: La canzone cantata da Ester è «007 is also gonna die», dei Nephew.
Degli stessi autori, ma della canzone «Danish way to rock», sono le citazioni che ho utilizzato per dividere i flashback dal resto del racconto e sono, in questo capitolo:
«Og hvis de sparker os ned» --- «E se loro ci buttano a terra a calci»,
«Så si’r vi / Op igen – den sved» --- «Diremo - in piedi di nuovo, fa male».
[1] «Drømte mig en drøm i nat» significa «Ho fatto un sogno, stanotte.»
Vi auguro buon lettura! C:









L'appartenenza


Capitolo I

«What is black, and what is brown.»
Uno, due, tre giri di bende lungo il braccio.
«What is field, and what is town.»
In un lasso di tempo pari a poco più di un minuto lo straccio bianco ripiegato sul polso era già screziato di sangue.
«What is silence, what is shout.»
Con un sorriso sofferto, che si rifletteva sulla mano libera, strinse quella medicazione affrettata. Le sembra di avere un laccio emostatico al braccio.
«What is fear, and what is doubt.»
Non era paura, nè dubbio. Era un'angoscia che le raspava la gola, che le mordeva il sorriso, che le corrodeva le labbra. Era una furia che l'allegria aveva sempre scacciato, che il buonumore aveva schiacciato e sbattuto in uno scantinato profondo, dove essa s'era alimentata di buio e di silenzio.
Era un dolore esploso come una bomba a orologeria. Il ticchettare nervoso era solo un sussurro che Ester aveva preferito accantonare, come si dimenticano le raccomandazioni preoccupate delle madri in una notte di follia e frammenti di pelle misti a sangue.
Edimburgo era penosa e offensiva, nel suo grigio nebbia, quella notte.
«Double-oh-seven is also gonna die.»


«Jørgen! Dov'è Jørgen!»
«Nell'infermeria del QG. Agente Ørsted, datti una calmata.»
«No che non mi calmo, capo! È mio fratello, accidenti!»
L'altra figura si sedette sulla sedia al di là della scrivania, con un profondo respiro.
«Agente Ørsted. Non voglio capricci da marmocchi, nella mia agenzia.»
«Capricci? Capricci?!» Mi prende in giro, capo?!, pensò. Ma per evitare un licenziamento in tronco, tacque. Sarebbe stato il colmo.
«Il taccuino degli appunti.» Ordinò, con un cenno della mano. Ester gli porse il quaderno con la trascrizione in danese delle informazioni fornite loro dalla macaense. «E poi mi hai parlato di una prova lasciata dal killer.»
«Dalla killer, capo.» Precisò Ester, adagiando sulla scrivania un fiore di loto chiuso in uno di quei sacchetti di rito dei suoi colleghi poliziotti.
L'uomo sembrò soddisfatto del materiale, ma non altrettanto della propria agente - in evidente stato di shock. «Bene. Ora va' all'infermeria anche tu, e fatti dare una tisana. Sei sollevata dal tuo incarico di agente speciale a tempo indeterminato.»
La danese non rispose immediatamente; e quando parlò, si limitò ad un «Ja» fermo. Deciso, sì, ma per un altro motivo: era determinata a ritrovare quella bastarda che aveva ridotto in fin di vita il fratello.
Lei aveva ricavato solo una ferita al braccio, benché profonda, in quella missione ad Edimburgo; suo fratello vi aveva trovato la Morte, seduta a qualche tavolo più in là rispetto al suo, in uno di quei pub scozzesi. E grazie al cielo Ella non s'era accomodata al suo fianco, perché Ester non avrebbe mai più potuto riabbracciare il suo amato fratello - tre volte avrebbe tentato di cingergli il collo, e tre volte le sue mani avrebbero smosso soltanto aria, e non capelli.
«Non lasciare la Danimarca.» Ordinò l'altra figura. «La pena la conosci perfettamente.»
Dopo aver varcato la soglia dell'ufficio del proprio capo, l'agente Ørsted sbattè la porta. Che l'allegria gliela strappassero pure! Che le proibissero di partire per l'estero! Nessuno avrebbe mai vinto contro di lei in grinta e forza di volontà. Soprattutto nel caso in cui avesse a disposizione un indizio in più rispetto alla propria agenzia.
Il foglietto spiegazzato nella tasca del suo cappotto s'era appisolato tra la carta di una caramella per il mal di gola e il mozzicone di un carboncino, ma rimaneva leggibile.
Era un biglietto di sola andata per Macao. Ed era un regalo di quella bastarda, lasciato accanto al suo corpo, quando era ancora incosciente, in quella notte scozzese. Come poter resistere a quel dono tanto invitante?
Similmente a una barca a vela incagliata nella bonaccia, dove i marinai s'apprestano a remare pur di perseguire la loro meta, Ester si armò di pazienza, perizia, e di un computer portatile.
Avrebbe raggiunto quell'assassina nella sua tana, e lì l'avrebbe colta di sorpresa. La rabbia per non essere stata in grado di proteggere un affetto le maciullava spirito e nervi. Sapeva perfettamente che il dolore non può essere disperso da altro dolore; sapeva che due azioni cattive non ne fanno una buona. Tuttavia, voleva vedere in viso quella bastarda.
Voleva guardarla dall'alto in basso, con il disprezzo di chi è combattuto tra l'odio e la più sporca compassione; avvicinarsi fino a trafiggere il suo sguardo con i propri occhi di ghiaccio; e sì, anche darle una sonora gomitata tra le costole, all'altezza del diaframma.




[Og hvis de sparker os ned]

«Jørgen!»
«Oh, agente Ørsted!» Disse il ragazzo, dandole un pizzicotto su una guancia. «Ora sono l'agente Andersen, non Jørgen!»
«Tu sei il mio fratellone. Non posso chiamarti agente Andersen!»
Chi era ad avergli detto che sarebbe stato meglio non lavorare con dei familiari? Oh, non lo ricordava. In ogni caso, non si sarebbe mai ricreduto: lavorare con la propria sorella minore era uno spasso!
«Andersen è un cognome importante! Ricordi Hans Christian Andersen, no?»
«Certo che lo ricordo! Ma non lo trovo giusto.»
Le stropicciò i capelli. «Non fare come la principessa sul pisello! Muoviamoci, piuttosto!»
L'aria di Edimburgo era satura di rumori, fumo e cenere, quella sera. E lo era quel pub, stretto in una morsa di sigarette e bicchieri di alcol, dove avrebbero dovuto incontrare il loro informatore.
Jørgen ed Ester non erano stupidi. Certo, potevano sembrarlo, ma erano tutt'altro che poco svegli. Uno dei loro talenti era illudere i nemici di trovarsi davanti a una coppia di idioti ubriachi dal sorriso grande e dal prurito forte alle mani.
Tuttavia, se loro erano i proiettili infiammabili di un caricatore, se erano il re e tre in una partita di briscola, Amàlia era un asso nascosto dall'uniforme di una regina inglese. Alta, dall'aria attenta e raffinata, come un'orchidea all'apice della fioritura, quando i petali intrappolano con un caleidoscopio di colori i piccoli insetti impollinatori, si era seduta al loro tavolo; e con lei s'era accomodato il sentore di un ricordo, quello degli amici che si incontrano solo al bar, raccontandosi quelle vecchie avventure tra un crostino intinto nella zuppa e una pinta di birra. Un profumo rilassante, senza dubbio: che ebbe tuttavia l'effetto opposto, dal momento che non avevano mai frequentato una donna asiatica tanto affascinante - in realtà, il tempo non era sufficiente perché potessero costruirsi una vita sociale al di fuori dell'agenzia.
«Agente Aviz?»
«In persona.»

[Så si’r vi
Op igen – den sved]




Aveva programmato tutto.
Copenaghen-Hong Kong, Hong Kong-Macao. Con l'aiuto e la connivenza di Berwald, uno degli agenti in sonno dell'agenzia, che aveva attraversato il ponte di Øresund per aiutarla a lasciare il Paese, era sicura di poter compiere il primo passo di quella missione. Inizialmente controvoglia, poi coinvolto dalla situazione in cui versava il fratello di Ester, lo svedese le fornì un nome, un cognome, una vita nuova.
I giorni erano scanditi con esasperante lentezza dalla macchina che monitorava le condizioni di Jørgen, incosciente ormai da più di settantacinque ore. Ore che scivolavano come delle lacrime mai espresse sulle guance e sul collo.
«Drømte mig en drøm i nat [1].»
Non si considerava più un agente segreto. Tutto ciò che aveva scelto di conservare della propria carriera nel settore erano le tecniche insegnate nella palestra e al poligono di tiro.
Il suo nuovo cellulare vibrò - era una sveglia che aveva inserito giorni prima. Aveva già chiuso nel cassettone del proprio studio il telefono che le avevano dato appena entrata nell'agenzia, e la chiave di esso era stata fusa e buttata sul fondo del Mar Baltico.
Si alzò dalla poltrona della propria casa, con un sospiro. Mentre attraversava il salone, il suo sguardo accarezzò una fotografia sbiadita di quando Jørgen e lei erano due marmocchi. Chiusasi alle spalle la porta, scrollò la testa, riacquistando lucidità e ottimismo.
Avrebbe stravolto le strategie a cui erano abituati tutti i suoi colleghi. Si sarebbe mossa al di fuori delle previsioni del proprio capo, e ne avrebbe pagato le conseguenze con un sorriso strafottente e felice. Al diavolo il mondo intero.
Una risata divertita sbatté sulle sue labbra dalla gola. Tino e gli altri agenti in sonno erano rimasti interdetti dai soldi che aveva chiesto loro in prestito, ma anche loro, come Berwald, apprese le condizioni del danese, si dissero che non avrebbero mai potuto persuadere Ester a non partire per quella follia extracontinentale.
L'automobile cinerea di Berwald l'aspettava all'uscita del condominio - lo svedese aveva la solita espressione impassibile, come se non avesse mai imparato dai sorrisi dei due fratelli danesi.
Gli occhi color lapislazzulo di Ester adocchiarono una nuvola bianca, morbida come la panna montata su una crêpe - da bambini, ricordò, un giorno Jørgen e lei ne avevano fatto indigestione.


Amàlia si tolse l'asciugamano dai capelli, adagiandolo sul tavolo del proprio bagno.
Prese un pettine di legno, e inforcò la prima ciocca di capelli scuri - guardandosi allo specchio, sospirò per quei tagli sulla gamba e sul collo. Adagio, si vestì e lasciò la camera per recarsi nella cucina - un dim sum l'attendeva, bollente.
Finalmente le avevano concesso la possibilità di recuperare dei giorni lavorativi, così avrebbe potuto dedicarsi a una delle proprie passioni con la razionalità necessaria. In fondo, abitava vicino a uno dei vecchi casinò, e da tempo non vi aveva messo piede: era la buona occasione per distrarsi dalla frenesia della vita che conduceva, e dall'offesa che il suo orgoglio aveva subito qualche giorno prima.
Similmente a un operaio che solo la notte può trovare la pace, tra le lenzuola della propria camera o tra l'aria intrisa di frammenti di grano e fumo di un locale, Amàlia lasciò, qualche manciata di minuti dopo, il proprio quartiere, alzando lo sguardo verso il cielo cobalto, illuminato a giorno dalle lampade degli alberghi e dalle luci al neon dei locali, sparsi per la città come lucciole metalliche in un bosco di slarghi e grattacieli.
Le strade erano affollate, e vomitavano gente come tanti affluenti in piena. Amàlia non era né particolarmente alta, né facilmente riconoscibile, tra quei volti tutti pressoché identici; però da quando mise piede fuori dal proprio appartamento sotterraneo non abbassò mai la guardia.
Quell'uomo di Hong Kong poteva nascondersi dovunque. Nel giovane che l'aveva sorpassata dandole uno spintone al braccio, nel gruppo di ragazzi là, all'angolo di un vicolo, che gridavano e sghignazzavano per chissà quale motivo. Non poteva permettersi un passo se non ben misurato, non aveva il diritto di fermarsi a pensare, né tantomeno quello di parlare con persone all'esterno del casinò.
Nel palazzo dov'era diretta, dopotutto, c'erano persone a cui interessava l'incolumità della macaense; per quello che sapeva, certamente, ma anche per la rapidità delle sue pistole e del suo intuito. Per questo, una volta entrata, poteva ritenersi al sicuro.
Tanti turisti ruggivano a voce bassa seduti ai vari tavoli da gioco - pochi i visi a lei noti. Quasi le parve di aver vissuto assorbita dal proprio lavoro, fino a quel momento, e fu difficile raggiungere le scale che portavano ai piani superiori, dove avrebbe potuto osservare la situazione più agevolmente.
«Signorina Liu.» Una voce finalmente riconoscibile raggiunse la macaense, che stava salendo proprio gli ultimi gradini.
Amàlia alzò lo sguardo. «Signorina Lan.» Rispose, con un inchino e un sorriso serafico.
«Per stasera non potrò farvi compagnia. Sono attesa altrove.»
«Macao sarà sempre sveglia per voi, signorina Lan. Ma non fatela aspettare troppo.»
«Voi state attenta. Chi colpisce per primo deve mantenere gli occhi aperti come una civetta, signorina Liu.»
L'altra donna le lanciò un cenno di cortesia, infine scomparve alle sue spalle.
Non si stupì delle parole di Pham Lan. Era una donna che conosceva bene il mondo, e i suoi parassiti: qualcuno di quei vermi era strisciato fino alle gambe della vietnamita e le aveva raccontato di quella notte a Edinburgo. Poco male. Non avrebbe sprecato tempo a spiegarlo ai suoi superiori.
Prese posto al suo tavolo preferito - blackjack - con l'aria composta e rilassata di chi ha previsto tutto, e si sistemò gli occhiali.
Era abituata a sfidare la sorte - ogni singolo giorno; giocare una partita con la sfortuna era pericoloso, vero, ma divertente allo stesso modo.
Chiuse gli occhi, per concentrarsi. Nel buio della gabbia delle palpebre, però, lampeggiarono dei cerchi luminosi di vari colori, il cui raggio aumentava e diminuiva mentre si spostavano disordinatamente nella sua visuale, per poi formare un vortice di colori indefinibili perché fusi insieme.
Appena le ciglia inferiori e superiori si divisero, il sogno scomparve, e la luce soffusa abbracciò i suoi occhi scuri. Erano trascorsi forse dieci secondi, e i giocatori stavano aspettando la sua puntata, con degli sguardi che avrebbero messo in soggezione uno di quei turisti novellini.
Ma Amàlia sorrise, indecifrabile, mentre le sue mani spostarono vicino al banco le fiches.
Non aveva mai lasciato perdere un sogno, che sembrasse premonitore o meno. D'accordo, forse lei non avrebbe mai comunque abbassato la guardia, ma quella breve visione la rese ancora più vigile, come un cane da guardia che, quando scende la notte, appoggia il muso sulle zampe e gli occhi sulle orecchie, pronto ad avvertire qualsiasi pericolo e rumore che fosse anormale.
Tuttavia, nonostante un udito sensibilissimo, non avrebbe mai potuto udire il suono di un battello al largo dell'isola di Macao.


Era abituata alle capitali europee, vecchie, inebrianti per quel loro profumo antico, che sa di vecchio, ma un vecchio buono, come un vino d'annata o un liquore maturato nell'inerzia di una bottiglia.
Invece, Macao era frenetica. Era tutto un fervore, un tremito continuo e improvviso, che rendeva le persone nervose; era un gioco di lampi fluorescenti, di grattacieli che non tendevano più verso il cielo, perché credevano di averlo raggiunto.
Non che le dispiacesse. Amava il divertimento, le uscite e le bevute con gli amici, le follie raccontate nelle storie da ubriachi; ma in quel momento aveva solo voglia di raggiungere l'albergo, di stendersi sul letto per concentrarsi e ripartire dopo un breve momento di riposo.
Arrivare a Macao non era stato un viaggio comodo, specie nell'ultimo tratto, che aveva dovuto percorrere su un battello partito da Hong Kong: ma tutto, tutto, pur di trovare l'agente Aviz.
«What is less in less is more», canticchiò, buttandosi sul letto della propria stanza, «What if God won't bless the whore. What if words like boy and girl did not rhyme with joy and whirl.»
Che cosa succederebbe se, quelle parole la tormentavano, che cosa sarebbe successo se, che cosa, che cosa. Ester aveva capito che la propria anima s'era agitata fino a scatenare una tempesta, in cui era sbattuta in lungo e in largo, senza trovare riposo, né pace. E anche quando la sua piccola barca sarebbe affondata, quel maledetto disastro non l'avrebbe mai lasciata andare, fino all'arrivo di quella nera compagna che Jørgen aveva appena scorto.
A volte le sembrava che le acque si calmassero. Però era solo una minuscola consapevolezza, che ancora non sapeva ben definire; allora, perché Ester non potesse esaminarla, le tempeste riprendevano con più vigore, turbinando come il vento che s'era spostato nella deflagrazione di quei tre maledetti proiettili.





Note Autrice:
Bien, eccomi qui con una piccola fanfiction - tre capitoli - tutta dedicata, ancora una volta, a un ambiente di spie e agenti segreti.
L'idea di questa storia è nata per il contest a cui alla fine ho partecipato, indetto da _Ayame_ e reilin sul forum di EFP, [Hetalia] La Fiera del Crack.
Inutile dire che prima di realizzare il risultato sono partita di testa per la gioia, ecco! xD
Oltre al giudizio - che mi ha fatto notare che, nonostante le millemila riletture, gli orrori mi scappano lo stesso -, le due giudici hanno preparato dei banner adorabili sia per le storie che per i premi speciali.
Il titolo della storia è anche il titolo di una canzone di Giorgio Gaber a cui sono molto legata: è speciale. Ecco, si spiegherà alla fine il motivo per cui è stato scelto questo titolo; tutto (o quasi) verrà al pettine, parola di Jo! C:
Questa storia ha anche ricevuto i premi Best Plot e Best Couple Award, rispettivamente:
       

E questo penso sia tutto. C:
Vi ringrazio per esser giunti fin qui, che abbiate solo dato un'occhiata alla pagina o meno.
Infine, al prossimo venerdì! E ricordate: Thank God It's Friday! xD
See you soon! :D
claws_Jo





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Capitolo 2
*** Capitolo II ***




Le citazioni che ho utilizzato per dividere i flashback dal resto del racconto in questo capitolo sono:

«Vi kommer sammen» --- «Arriviamo insieme»,
«Vi går sammen mod nyt land» --- «Partiamo insieme per una nuova terra».
Di seguito:
[2] Li Xiao chiama Ester «Agente Jin» perché Jin può significare anche «traghetto», il mezzo utilizzato da Ester per raggiungere Macao.
[3] Dato che Li Xiao la chiama Jin, Ester lo canzona definendolo signor Etciù, a causa del suo cognome.
Buona lettura! ^__^





Capitolo II


«Allora?» Esclamò Li Xiao, indifferente.
Occidentali. Tutti uguali! Sempre a dire di dover portare avanti diecimila impegni, e poi non essere capaci di prendere una decisione.
Ester, da qualche minuto, taceva. Lo stanzone dove l'aveva portata quel cinese l'aveva messa in allarme, ma non poteva rischiare di perdere un'occasione simile. Uno delle triadi - sì, quelle dannate triadi che infestavano la sua amata Copenaghen! - l'aveva contattata. Ne era certa, l'avevano scelta appositamente perché lei aveva intenzione di stanare e colpire l'agente macaense Aviz.
«Cosa vi ha fatto l'agente Aviz?»
«Ha ucciso uno dei nostri, agente Jin [2]. Non le serve sapere di più. Vuole accettare questo incarico oppure no?»
«Sentiamo.»
«Noi le forniremo tutte le informazioni di cui siamo in possesso riguardo Aviz. Lei dovrà eliminarla.»
Oh, Ester sapeva perché glielo stavano chiedendo. Era stata l'agente Aviz in persona a fornire ai due danesi le informazioni sulle triadi. E non le sembrò strano che avessero contattato proprio lei: non avrebbe mai potuto far trapelare informazioni sui gruppi della criminalità organizzata cinese, ora che aveva un obiettivo più importante da fare fuori. Un bersaglio in comune con quei criminali, vero. Ma aveva lasciato tutto alle spalle, non poteva far emergere i sensi di colpa in quel momento.
«Accetto, signor Etciù. [3]»




[Vi kommer sammen]

Ester aveva riempito il quadernetto di appunti e informazioni. Parole che solo lei e Jørgen avrebbero potuto decifrare, sia per com'erano scritte - dovevano ammetterlo, scrivere seguendo le righe non era mai stato il loro forte, specie se erano costretti a farlo senza guardare per non farsi notare -, sia per il linguaggio in codice, che avevano creato per gioco nell'infanzia, poi sviluppato nel corso delle loro carriere nei servizi segreti.
L'agente Aviz parlava sottovoce, e le sue parole si dissolvevano nell'aroma del rum con la grazia di un'essenza preparatoria per profumi. Parlava in un misto di cinese e danese, tutt'altro che stentato, e con quegli occhi mandorlati sembrava rendere la conversazione un discorso tra amici - che non era proprio la loro discussione, visto che stavano parlando di triadi nel Nord Europa.
Puntellandosi sui gomiti, Amàlia adagiò il mento sul dorso della mano, sorridendo serafica. «E questo era tutto ciò che mi è stato ordinato di dirvi.»
In poche parole, ora toccava ai due danesi seguire le istruzioni del loro capo.
«Ja.» Disse Ester, facendo scivolare sulle gambe il blocco degli appunti fin dentro gli stivali. «Jør- cioè, agente Andersen.» Si corresse, dandosi mentalmente dell'idiota.
Il fratello la guardò un attimo, divertito e preoccupato al contempo.
«Seafield Road East, A199, sulla costa. Superato un magazzino» e dalla manica sfilò un biglietto, che sistemò sotto il bicchiere di rum mezzo vuoto dell'agente Aviz, dove le veniva comunicato il nome del negozio, «troverà una Opel Frontera del '98 parcheggiata sulla spiaggia. Alla guida c'è un nostro agente. Faccia i fari per due volte, tre colpi brevi, uno lungo.»
«E chieda di Hans Christian.» Aggiunse Ester.
La macaense sembrò registrare nella propria testa tutte le informazioni, veloce come una dattilografa. Infine, lasciando qualche sterlina sul banco, si alzò, infilò il cappotto e con lo stesso sorriso indecifrabile uscì dal locale. Li aveva ringraziati e aveva dato loro le spalle, come se si fidasse ciecamente dei due danesi - quando in realtà la sua fiducia era solo ed esclusivamente per se stessa e le sue capacità.
Ester si rilassò sulla sedia. «È fatta, fratello.»
«Non ancora, agente Ørsted. Dobbiamo andarcene.»
«Quello è il meno. Walter ci aspetta.»
«Aspetta noi e Lars. Sbrighiamoci.»


Tre fari brevi, uno lungo. Ancora tre brevi, uno lungo, che illuminarono la notte scozzese e l'acqua del Mare del Nord come comete.
Dalla Frontera parcheggiata una ventina di metri più in là comparve una figura sottile, che sembrava quasi invitarla ad avvicinarsi. Amàlia controllò le pistole che aveva ai fianchi, quindi uscì dall'auto, e raggiunse l'altro agente.
La sicurezza dei due personaggi al pub l'aveva insospettita. Poco male, avrebbe controllato la merce con estrema calma, in cambio.
«Ha bisogno?» Domandò quello, indifferente.
«Stavo cercando Hans Christian.» Rispose la macaense, con l'ennesimo sorriso incomprensibile.
L'altro agente, Lars, non ci mise molto. Riprese in mano le chiavi dell'auto, le infilò nella serratura del bagagliaio, e lo aprì. Davanti agli occhi dell'agente Aviz si stendevano una dozzina di valigie nere, simili a cuccioli di pantera addormentati.
«C'è tutto.»
«Sarà mia premura verificarlo.» Aggiunse Amàlia, cominciando a controllare la prima ventiquattrore che prese in mano.
Lars sbuffò impercettibilmente.
Orientali. Tutti uguali! Sempre a fare ogni cosa con un sorriso snervante. E se a ciò doveva sommare il rivedere quei due danesi fin troppo amichevoli, insomma, capì che non sarebbe stata la sua nottata più rilassante e tranquilla, nemmeno se il cielo era cucito da tante stelle minute e le onde ricamate da sassi scuri e qualche animaletto che prendeva la luce della luna.


Amàlia sorrise, sì; ma chiunque non lo avrebbe definito un sorriso amichevole.
Forse credevano di averla raggirata - e questo già la rendeva furiosa.
Forse credevano che la sua missione fosse finita col ritirare delle semplici valigie ripiene di armi e soldi - non avevano fatto i conti con il segnalatore GPS che aveva inserito in un coprimozzo della Frontera, evidentemente.
Brandì il telefono, aprì l'applicazione per le segnalazioni, inumidendo un labbro ferito con la lingua. Quella banda di poliziotti, che aveva fatto irruzione nel minuscolo albergo dove aveva prenotato una stanza, le aveva procurato qualche taglio e una dolorosa bruciatura all'orgoglio.
Quei tre bastardi, sottovalutarla fino a quel punto! Aver nascosto un timer in una delle pareti di una valigetta, perché all'orario stabilito inviasse una segnalazione alla stazione di polizia più vicina, era un trucco meschino. Lei aveva degli ordini da eseguire, e tra questi c'era anche il compito "eliminare fisicamente gli agenti nordeuropei che le avrebbero fornito l'equipaggiamento". Non avrebbe mai barato: barare era scegliere di propria ed esclusiva iniziativa cosa fare per vincere, e lei, almeno come singolo individuo, non aveva mai commesso un reato simile verso se stessa.
Invece, invece loro...!
Qualche minuto, e finalmente vide sullo schermo del cellulare la posizione dell'auto: si stava dirigendo verso l'interno, probabilmente all'aeroporto di Edimburgo.
Oh, avrebbe fatto vedere loro con chi avevano a che fare. Li avrebbe spezzati.

[Vi går sammen mod nyt land]




Ester si sistemò la cravatta, maledicendo quell'aggeggio infernale.
Non aveva mai immaginato che sarebbe finita a Macao, a cercare una dannata che aveva colpito a morte il suo amato fratellone, e che per fare ciò si sarebbe dovuta vestire da uomo e tagliare i capelli.
«Tanto sei piatta.» Gli aveva detto l'insensibile Li Xiao Chun, e solo con una buona dose di forza di volontà Ester non gli aveva rotto quel nasino perfetto. Comunque se l'era legata al dito, e al termine della missione come minimo gli avrebbe dato un pugno e spaccato il mento, se se ne fosse presentata la possibilità.
Erano trascorsi ormai cinque giorni da quella notte. Ester non riusciva ancora a capire se quel sentimento furioso che prima avrebbe definito rancore si fosse trasformato in qualcos'altro, impetuoso ma fragile. Si sentiva come se quello che avesse intenzione di portare avanti fosse una pura follia.
I capelli - ora corti - del color del miele dondolarono come scossi dai pensieri che le vorticavano nella testa. Rise, rise per non piangere. Jørgen, oh, Jørgen, chissà se s'era svegliato! Chissà se Lars gli aveva già spiegato cos'era accaduto, e dov'era finita lei!
Infine, i suoi pensieri si focalizzarono sulla figura dell'agente Aviz, alta, splendida e lontana dal mondo, così come crudele, cinica, e terrificante con quel sorriso improbabile a imperlarle il viso bianco.
Lanciò un'occhiata al biglietto dove aveva segnato l'indirizzo del casinò, segnalatole da Li Xiao. Egli le aveva spiegato che l'agente Aviz trascorreva buona parte delle sue serate libere a giocare d'azzardo, e che in quel palazzo aveva trascorso le ultime notti. Non aveva chiesto perché non si fossero mossi loro, ma non era difficile immaginarlo: con un'estranea alla faida tra la macaense e quelle triadi, la criminalità organizzata poteva ottenere ciò che voleva senza uscire allo scoperto, mentre lei avrebbe potuto raggiungere il suo scopo.
Strinse il nodo della cravatta, si spettinò i capelli - doveva ammettere che quello smoking, tutto sommato, le donava - e si disse pronta. Quella sera ci sarebbe stata la resa dei conti.
Voleva guardarla dall'alto in basso, con il disprezzo di chi sta lottando tra l'odio e la più rabbiosa compassione; avvicinarsi fino a trafiggere il suo sguardo con i propri occhi di neve; e sì, anche darle un sonoro calcio tra le costole, all'altezza dei polmoni.


Amàlia lasciò il proprio appartamento, da un'uscita diversa a un orario diverso. Con lo sguardo attento di un fotografo, si diresse verso il suo abituale passatempo; le pareva una serata simile alle precedenti. L'unico fattore che si modificava ogni volta, e solo in minima parte, era la moltitudine di avventori - i turisti se ne andavano, i perdenti cambiavano casinò, e i miliardari decidevano di costruirne uno di loro proprietà.
Salì i soliti gradini, salutò con un cenno i soliti riccastri con cui aveva rapporti di lavoro, e si sedette al solito tavolo di blackjack. Non poteva non dirsi una persona tradizionalista, in effetti.
«Signorina Liu, anche oggi qui?»
«Buonasera, signorina Lan.» Inchino e sorriso serafico, al solito. «Quando un banco mi sceglie come favorita, sono solita non allontanarmene.»
«Ne sono lieta. Ma ve lo ricordo, signorina Liu, non seguite troppo le vostre abitudini, o qualcuno ne approfitterà.»
«Non vi preoccupate. È tutto calcolato.»
«Allora, signorina Liu, vi saluto.»
«Arrivederci, signorina Lan.»
La vietnamita sorrise, amabile, e scomparve dietro un croupier.
Oh, era vero. Amàlia era sicura che quel trio di agenti l'avrebbe cercata e, un giorno, raggiunta: con l'indizio che aveva lasciato, di certo ci avrebbero messo poco, quantomeno a raggiungere Macao.
Che si fosse trattato di uno dei due del pub o del pezzo di marmo, tutti e tre avrebbero preso la stessa decisione, perché erano esseri umani, e lei aveva imparato a conoscerli, come uno psicologo esplora la mente del proprio paziente.
La vendetta, il desiderio di fare fuori l'assassino di una persona cara è un sentimento incontrollabile. Lo puoi reprimere una, due, tre volte, ma esso tornerà sempre a torturare il malcapitato. Sempre.
«Chiedo carta.» Disse al banchiere, dopo aver osservato la propria carta scoperta. Il ragazzo al banco ne poggiò una coperta sul tavolo, davanti alla macaense, che la guardò per un solo secondo. «Blackjack.» Aggiunse quella, scoprendole entrambe.
Un asso di picche e una regina di quadri.
La carta scoperta del banchiere era un otto di fiori. Egli ne prese un'altra dal mazzo, visto che dovevano stabilire se sarebbe stata una giocata finita alla pari o se la giocatrice davanti a lui avrebbe vinto.
Tre di quadri.
Un'altra ancora.
Due di cuori.
Le mani del ragazzo al banco tremarono appena nel prendere l'ultima carta dal mazzo. Dieci di picche.
«Il banco perde.» Esclamò una voce alle spalle della macaense, proveniente dalle scale. L'agente Aviz fece appena in tempo a voltarsi che si trovò una pistola puntata alla tempia.
«Dunque... Agente Andersen?»
«Spiacente di averla ingannata con il mio cambio d'abito,» rispose la figura appena comparsa con un ghigno eccitato, «ma non sono l'agente Andersen.»
«Oh, allora... L'agente Ørsted, giusto?»
La danese sorrise tranquillamente al banchiere, che nel frattempo s'era congelato sul posto. «Ah, ragazzo, le conviene andarsene, e spargere la voce. Penso che nel giro di mezzo minuto cominceremo a fare casino.»
Quello non se lo fece ripetere. Sgattaiolò via dal tavolo, sgusciando tra le sedie ormai vuote di quelli che erano scappati prima di lui.
«Agente Ørsted, questo gioco di parole con "casino" e "casinò" era davvero penoso.»
Solo allora Ester si accorse della canna di una pistola che le accarezzava lo stomaco. Imprecò tra sé e sé.
«Vedrà, agente Aviz, come si sentirà in pena tra qualche ora!» Rispose, con un sorriso allegro.
Non aveva certo dimenticato il motivo della sua comparsa in quel casinò; però, non poteva negarlo, il sangue pulsava con fervore fino alle cellule più distanti dal cuore. Erano quegli istanti che si cercano in una vita, quelli in cui ci si sente più vivo che mai, perché si potrebbe perdere la vita per qualsiasi inezia.






Note Autrice:
Eccomi qui ancora una volta.
Non ho granchè da dire, se non grazie a reilin e _Ayame_, e a coloro i quali hanno aperto la pagina di questo secondo capitolo.
Spero che vi sia piaciuto. C:
Al prossimo venerdì!
claws_Jo

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***



In questo capitolo, le citazioni usate per dividere il flashback dal resto del racconto sono:
«Og hvis de sparker den ind» --- «E se loro lo buttano a terra a calci»,
«Så si’r vi / Fuck nu det – kom igen» --- «Diremo / Fanculo - vieni qua di nuovo».
Vi lascio a quest'ultimo capitolo! C:



Capitolo III


[Og hvis de sparker den ind]

«Men, come on! Shake a leg!» Urlò Walter, dalla cabina di pilotaggio.
«Che palle, Wal! Ci siamo!» Gli gridò di rimando Jørgen, mentre correva al fianco di Ester e Lars verso il piccolo aeroplano privato.
Il norvegese stava salendo i quattro gradini che lo separavano dal proprio sedile, quando udì uno sparo. Poi un altro, e un ultimo colpo.
«Lars, muoviti! Andate!» Ester imprecò, sfilando la pistola dalla cintura e mirando verso quella figura alta e sinuosa nascosta dalla nebbia.
Jørgen era caduto in ginocchio, con una tosse strozzata. Un proiettile doveva essersi conficcato nel suo fianco, e un altro nella coscia. Il terzo, Ester non lo sapeva, non lo aveva visto, come non aveva visto quegli altri: ma mentre i primi due avevano procurato ferite al fratello, l'ultimo le fu d'aiuto. Il loro nemico doveva avere ancora sette - o meno probabilmente nove - bossoli pronti a far fuoco.
Trascinò il corpo del danese dietro un paio di container cubici, strappandosi la manica del cappotto per legarglielo attorno al fianco e alla coscia come laccio emostatico. Prima era doveroso eliminare o rendere innocuo l'avversario, poi avrebbe potuto pensare al fratello.
L'aereo si trovava ancora immobile sulla pista di decollo.
Lars era sceso, perché potevano dirgli qualsiasi cosa, ma non avrebbe mai lasciato indietro dei compagni, men che meno in gravi condizioni.
«Lars!» Gli disse la danese quando le fu accanto, dietro quegli enormi cubi metallici. «Carica Jørgen sull'aereo e filate a Copenaghen. Ci rivedremo il prima possibile.»
L'altro annuì, in silenzio. Non avrebbe potuto fare altro, perché Ester non glielo avrebbe in alcun modo permesso.
«Vi copro io!» Aggiunse l'agente Ørsted, uscendo dal proprio nascondiglio armata di due pistole cariche e di una rabbia cieca. La nebbia rendeva più complicato distinguere bene le forme delle cose e delle persone, ma non aveva altra scelta.
Sparò un colpo, poi un altro, e così via, a ritmi diversi, verso quella silhouette che aveva riconosciuto per l'andatura.
«Sappiate, agenti,» disse Amàlia, «che accetto i bari solo nei casinò.»
«Lars!»
«Ja, ci sono. Puoi andare, Wal.»
«Non li sopporto, se non nel gioco d'azzardo.»
Un rombo che fracassò i timpani proruppe dall'aereo. Una fiammata illuminò la pista, e fu in quel momento che Ester vide l'altro sorriso dell'agente Aviz.
Terrificante. Come un bambino che ha paura dei fantasmi e ne trova uno nel proprio incubo, la danese rimase immobile per qualche secondo. Per riprendersi dovette scrollare la testa: solo allora ricominciò a sparare, con una grintosa rabbia che emergeva dalle dita.
Un bossolo doveva aver colpito l'avversaria - udì gemiti di dolore poco più in là -, ma molti di più erano andati a vuoto, sia dalla sua parte, che da quella della nemica. Si rannicchiò dietro quel container un'ultima volta.
«Vanno sradicati, come la malerba.»
Con un ultimo ringhio il veicolo s'era sollevato in aria, abbandonando nella sera lunghi sbuffi di fumo nero.
Ester baciò la canna della pistola. Era il suo ultimo colpo.
«E, agente, mi faccia un favore.»
«Col cavolo! Non scendo a patti con una stronza che cerca di far fuori mio fratello!»
«Ripeta quattro volte la frase: "Io baro".»
Ester ruggì, come un'orsa che ha annusato un pericolo per propri cuccioli. Si alzò da dietro il grande cubo di metallo.
Faccia a faccia, sorriso a sorriso.
«Mio fratello non mi ha abituato a dire bugie!» Gridò, premendo il grilletto. Mezzo secondo dopo, si ritrovò riversa a terra, un braccio insanguinato e un ginocchio contuso.


La nebbia era insopportabile tanto quanto il furore, per Amàlia.
Le ginocchia si erano sciolte sotto quell'ultimo sparo. La gamba destra, prima bianca e lunga, ora era macchiata di rosso e contratta in quello che pareva un singhiozzo.
Anche la sua avversaria era finita col viso a terra.
Rotolò su un fianco, per guardare il cielo. S'era lasciata coinvolgere da un disonorevole oltraggio, e forse quella consapevolezza, più dell'essere stata ferita a un polpaccio, le inumidì gli occhi.
O forse era solo la bellezza di quel cielo che si rifletteva nei suoi occhi e li perforava, fino a far sanguinare acqua?
Ricordò che a Macao il cielo era piastrellato da grattacieli.


La mattina successiva una pattuglia di poliziotti raggiunse il luogo della sparatoria, dietro segnalazione di alcuni addetti dell'aeroporto. Ma non trovarono due corpi stesi sul cemento, bensì due pozzanghere di sangue ancora fresco, e il lamento del vento freddo del Nord.

[Så si’r vi / Fuck nu det – kom igen]




Ester scattò di lato, premendo il grilletto. Il colpo partì, ma si conficcò nel pavimento, lontano dall'agente Aviz - che scartò lateralmente, e con una capriola tornò in piedi.
Si squadrarono come due arieti che stanno per cominciare un duello.
«Come sta l'agente Andersen?» Amàlia camminava in linea trasversale, la pistola diritta e ferma rivolta alla testa della danese. Danzavano in cerchio, spostandosi su una circonferenza immaginaria.
Ester sorrise, strafottente. Non poteva mostrare oltre la propria rabbia. «Top secret, agente Aviz. Non ha i requisiti per accedere alle informazioni desiderate.»
«Capisco. Allora dovrò scoprire di persona le sue condizioni.»
I tavoli da gioco, rovesciati a causa della fuga del resto degli avventori, tacevano. Era un silenzio pesante, interrotto solo qualche minuto dopo dall'arrivo di una squadra di guardie, armate di pistole e di spalle larghe.
Amàlia li vide. E li fermò, alzando una mano e un sorriso indecifrabile.
«Dite alla signorina che non deve preoccuparsi. Sistemerò io quest'intrusa.»
La danese approfittò dell'occasione. Con un rùgghio penetrante sparò altri due colpi. Sfortunatamente per lei, la macaense alle spalle aveva la balconata che si apriva sul piano inferiore, e con un salto e una capriola si lanciò di sotto, atterrando come una gatta in piedi.
Minacciata da quei tipacci in smoking, l'agente Ørsted optò per l'inseguimento della propria avversaria: tuttavia, per evitare di ammazzarsi da sola - conoscere i propri limiti era parte del suo lavoro -, scelse di prendere le scale. Con una rapida rincorsa saltò sul corrimano in piedi e, come se si trovasse alle Hawaii durante una gara di surf, scivolò lungo il marmo lucido, raggiungendo illesa il piano inferiore.
«Si sta divertendo, eh, agente Ørsted?»
«Oh, la prego, mi chiami Ester, Amàlia.» Disse la danese, facendo la vocina di una bambinaia sottomessa. Si nascose dietro un tavolo rotolato vicino alla parete, mentre la macaense trovò riparo dietro una colonna.
«Scommetto che sono state le triadi.» A dirle dove l'avrebbe potuta trovare, a dirle il nome, il cognome, qual era il suo piatto preferito, che incenso amava, e che fiore portava tra i capelli.
Ester parve rifletterci su. «Ha iniziato lei sparando a mio fratello, agente Aviz.»
Doveva trovare un espediente per avvicinarla e da lì combattere corpo a corpo. Aveva meno proiettili della sua nemica e ciò incrinava tutte le sue probabilità di uscirne viva e vittoriosa.
«Oh, la prego, mi chiami Amàlia, signorina Ester.» Rispose, imitando la voce dell'europea - che si sentì in dovere di farle conoscere il proprio risentimento sparandole a qualche centimetro dagli occhi. «Devo dedurre che lei è qui per l'agente Andersen.»
«Non solo, Amàlia. In fondo, me lo ha consigliato lei, di venire, con quel biglietto di sola andata per Macao. Sono qui per lui e per me stessa.»
«Il rancore è un demone della peggior specie, signorina Ester.»
La risposta tardò ad arrivare. La donna si insospettì. O aveva di fronte un'avversaria furibonda - il che era a proprio vantaggio, perché l'ira percuote la concentrazione -, o stava macchinando qualcosa.
«Nej. No, non è rancore.» Una piccola pausa. «Piuttosto, la paura di perdere una persona cara.»
«Allora, mi dica, perché sta cercando di uccidermi?» Domandò Amàlia, togliendo la sicura da entrambe le pistole. C'era troppo silenzio. Non le piaceva per nulla: senza contare le fiches sparse sul pavimento come coriandoli, le carte rimaste impigliate tra una sedia e un ventaglio, e perfino qualche bicchiere ancora pieno di champagne - o qualcosa di simile - che, caduto in terra, s'era spaccato in tanti minuscoli frammenti di vetro, all'apparenza anche eleganti, disposti a raggiera attorno alle lacrime di spumante, ma sottili e pungenti come degli aghi.
Il suo nascondiglio distava circa venti metri dal tavolo dietro cui si era rifugiata Ester; tra loro, una terra di nessuno composta dai tavoli e da tutto ciò che era rotolato giù da essi, con la malagrazia di uno spavento.
«Perché le voglio far capire cosa si prova ad essere lì, sul filo del rasoio, con le dita della Morte che ticchettano sulla spalla.»
Niente. La voce proveniva ancora da dietro quel tavolo rovesciato. Dov'era il trucco? Perché non avvertiva nessun rumore?
Alzò lo sguardo.
Accidenti. E dire che in tutti i film di spionaggio di terza categoria c'era sempre un dannato lampadario che si sfracellava!
In effetti, Ester sparò alla catena che reggeva l'enorme lampadario di cristallo al soffitto. Ed esso crollò, con il sibilo di un missile, disintegrandosi sul terreno. Il cristallo si spezzò in tante gocce che rimbalzarono in aria, come se fossero le stille di una fontana italiana, una di quelle che sottraggono il fiato dalla gola, e lasciano esterrefatti da tanta bellezza.
Amàlia si riparò dietro la colonna di marmo, coprendosi il viso con le braccia. Qualche pezzetto di vetro raggiunse le sue gambe, ma furono taglietti di poco valore. Ben più problematico fu capire qual era l'attuale posizione della danese.
«Amàlia, io l'ho vista, la Morte. Le posso assicurare che vorrei non rivederla per un bel po'.»
Strano. Stranissimo. L'origine della voce era ancora dall'altra parte della stanza, dietro quel dannato tavolo. Ma allora perché far saltare i ganci del lampadario e aggiungere disordine a un terreno di battaglia già dissestato? Non era vantaggioso per nessuna delle due, specie per Ester, che aveva già utilizzato almeno mezzo caricatore.
«Però avevo deciso che le avrebbe fatto bene guardarla in faccia, Amàlia. Lasci che l'aiuti a incontrarla.»
Di per sè, la luce all'interno del casinò era già molto soffusa. Con la distruzione del lampadario, s'era ridotta alle applique sulle pareti, che comunque non rendevano molto nitida la visione delle cose. Questo tornava a vantaggio della danese, a ben pensarci, come tornava utile a lei. L'agente Aviz conosceva perfettamente l'edificio, si sarebbe potuta muovere agilmente anche a luci spente - certo, si sarebbe ferita, con tutti quei vetri per terra, e avrebbe fatto rumore, ma anche la sua nemica avrebbe corso rischi simili. Tacque. No, ancora nessun suono.
Ma dove...?
«Mi stava cercando, Amàlia
Stavolta proveniva dall'alto. Vide di sfuggita un'ombra balzare giù dalla balconata, e subito quella figura le fu addosso, sbattendola per terra.
«Sa,» disse la danese, calciando lontano le pistole della macaense «mi sto divertendo. Ma i giochi sono finiti.»
«Lei era dietro il tavolo.»
«Come? Lei stessa ha affermato che c'entravano le triadi. Non le ho risposto subito, ma ora posso assicurarglielo. Ja, loro c'entrano. Loro e la loro tecnologia. Anche se, a ben pensarci,» aggiunse, «chiunque può trovare in un negozio un registratore.» Era un sorrisone arrogante e divertito insieme, quello di Ester, soddisfatta per l'effetto che aveva sortito. «Se poi aggiunge quelle belle tende spesse alle finestre, e il tappeto rosso su tutti i gradini e parte del piano superiore, posso dirle che è stato facile muoversi in mezzo alla confusione creata dal lampadario.»
S'era fatta fregare. Quel lampadario era uno specchio per le allodole!
Il piede schiacciato sul torace non permetteva ad Amàlia di respirare normalmente.
«Cosa spera di fare, ora, signorina Ester? Ha intenzione di farmi fuori?»
«No, gliel'ho detto.» Non aveva intenzione di ucciderla, come avrebbero voluto le triadi e quell'insopportabile Li Xiao Chun; non voleva neanche annientarla psicologicamente - e forse non ne sarebbe stata nemmeno capace.
Fin dall'inizio Ester aveva deciso di portare a termine uno e un solo compito.
Infine, l'aveva guardata dall'alto in basso, con il disprezzo di chi ha scelto tra l'odio e la più pietosa compassione; s'era avvicinata fino a trafiggere il suo sguardo con i propri occhi d'acqua; e sì, le aveva anche dato un sonoro pugno tra le costole, all'altezza del cuore.
Silenzio.

Ssh.
«Perché, Ester? Perché?» La voce di Amàlia si era dischiusa in un rantolo. Si aspettava calci, pugni, sberle, insulti, tutto. Si aspettava tutto, ma non quello.
Ester l'aveva pugnalata con uno sguardo liquido, limpido, puro.
Era veramente fuori dagli schemi, quella donna.
«La mia unica intenzione era capire cosa provavo. Se quella sensazione che mi tormentava era l'esasperazione dell'egoismo, o era l'apice dell'affetto fraterno.» Cominciò Ester, riparando gli occhi dietro una mano. «Ma poi ho capito. Quello che sentivo era un forte sentimento di appartenenza. Ho sentito dolore perché mio fratello è dentro di me, e dato che era stato ferito, soffrivo anch'io.» Scoppiò a ridere, sinceramente sollevata. «Era una forza che mi ha sconvolto, che mi ha distrutto, ma che mi ha fatto sentire viva.»
La macaense chiuse gli occhi, stupefatta. Credeva di aver capito tutto, quando ciò che custodiva tra le mani era solo la cenere di un sentimento. Di un modo di vivere.
«Deve essere bello.»
Ester sorrise, senza abbassare la guardia - ma si permise uno sguardo lontano, rivolto al fratello, o forse solo a quel rancore che, scacciato, tentava invano di ingannarla ancora.

Un sussurro, che sfumò nell'aria.
«Lo è.»




[L'appartenenza è avere gli altri dentro di sé.]




FINE








Note Autrice:
Eccoci qui per l'ultimo capitolo.
Ringrazio tutti coloro che mi hanno seguito, aspettando quest'ultimo aggiornamento. Grazie! *Piccolo inchino.*
E un grazie anche a chi ha aperto la pagina pensando di trovare qualcosa di suo gradimento: chi lo sa, spero l'abbia trovato, almeno un po'. C:
Se avete domande da porre, critiche da presentarmi, sono sempre - o quasi - qui, disponibile.
Alla prossima! :D
claws_Jo

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