Rosso sangue

di Mephistopheles
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***



Capitolo 1
*** I ***






Rosso sangue
I.




Aveva delle bellissime dita. Sottili. Con le unghie dritte e lunghe. Qualcuno direbbe: “dita da pianista”. Non è vero; è la prima cosa che ti dicono quando inizi a suonare il piano, di tagliarti le unghie. Quello delle dita da pianista è un luogo comune.
Comunque lei non suonava il piano, quindi non si faceva tutti questi problemi. Da viva. Tanto meno se li faceva adesso.
Adesso si trovava sul pavimento, in un lago di sangue. Il colore rosso dominava la scala cromatica ovunque si posasse lo sguardo. Una linea cremisi, magnificamente irregolare, spezzava la perfezione del suo viso. Neppure mentre stava morendo aveva potuto fare a meno di sistemarsi i capelli, di spostarsi una delle ciocche nere dagli occhi. Ironico. C'era un grande specchio sulla parete, che allargava idealmente la stanza, immergendo la scena in un'atmosfera surreale. Le donne morte sembravano due.
La sua era una posa teatrale. Lì, per terra. I capelli lavati di fresco, si vedeva. Profumati, si sentiva. Ci teneva alla sua immagine, evidentemente. Conservare la cura dell'estetica quando ormai tutto ha perso il suo significato: ammirevole. Tipico di lei. L'ultima sua apparizione sulla scena doveva essere perfetta. Perché tutti potessero ammirarla un'altra volta. Perché io potessi ammirarla.
La sua posa era teatrale davvero, come nei film. Quelle posizioni a metà che quando le vedi sulla pellicola non credi davvero che qualcuno possa morire così. Le gambe leggermente di lato, un ginocchio sovrapposto all'altro, il braccio piegato sopra la testa. Quello destro; il sinistro era abbandonato a se stesso, lungo lungo, bianchissimo, poco distante dal fianco. La linea di rubino sul polso ben visibile. Aveva addosso il suo vestito migliore.
Proprio una scenetta ben congegnata. Un bel palcoscenico. Tutto al suo posto, tutto come ci si aspetterebbe. Ci avrebbe creduto chiunque.
Non nego che siano state le sue dita a premere la lama sulle vene, no. Ma dell'esecutore materiale importava poco. Non sto dicendo questo.
Com'era bella. La bocca semiaperta. Le labbra vermiglio. Gli occhi chiusi.
Non sto dicendo che non sia stata lei a scegliere il vestito da mettersi per togliersi la vita. Non sto dicendo che non si sia stesa a terra e non si sia tagliata di sua spontanea volontà.
La osservai piegando la testa di lato.
Spogliata della dimensione teatrale, era semplicemente un cadavere femminile in una stanza poco arredata. Il vestito avvolgeva una statua di ghiaccio, bianca e rossa. Il corpo immobile trasmetteva una sensazione di pesantezza.
Chissà se stavano già arrivando.
Mi lasciai cadere a sedere sul letto, le mani incrociate. Rimasi a guardare un punto fisso sulla parete per qualche minuto. Mi girava un po' la testa. Forse per tutto il sangue.
C'era un buon odore. Nonostante il cadavere, intendo. Quanto ci mette un morto ad iniziare a puzzare? Lei profumava sempre di buono. Forse era morta da poco. Se fossi stato un medico o avessi avuto almeno delle conoscenze di base, avrei potuto sentirle il calore corporeo o altre cazzatine, calcolare l'ora del decesso. Ma non me ne fregava niente. E poi ero preoccupato che potessero trovare un'impronta, o un po' del mio DNA sul suo viso. Magari avevo già pestato la pozza di sangue e avevo lasciato le mie orme dappertutto. In quel caso la scientifica avrebbe indagato su tutte le persone del mondo con delle scarpe come le mie. Questo avrebbe ristretto sensibilmente il campo dei sospettati, dato il mio pessimo gusto per quanto riguarda le calzature. Magari avevo già lasciato un mio capello da qualche parte. Maledetti capelli. Se solo avessi usato uno shampoo rinforzante.
Mi stesi sul letto con le mani dietro la nuca, fissando il soffitto.
Magari avrebbero chiesto ai vicini chi è che la frequentava spesso. Qualcuno avrebbe detto: « Ah, quel tizio lì. ». Incrociando i dati delle testimonianze dei vicini con quelli delle scarpe, il campo si sarebbe ridotto ancora di moltissime unità. Chissà quanti “tizi lì” che la frequentavano spesso portavano le mie stesse scarpe. Pochissimi.
Pensai che il caso del capello sarebbe stato ancora più drammatico. Chissà in quanti la frequentavano spesso con il mio stesso DNA. Ancora meno delle scarpe, credo.
Avrei potuto chiamare la polizia. In quel caso sarei diventato “quello che ha trovato il morto” – penso ci sia un nome tecnico per questo ruolo, ma non me lo ricordo. Lunghi interrogatori. Non ne avevo la minima voglia. Il braccio diventava di marmo al pensiero di tirar fuori il telefono dalla tasca. Parlare, poi, sembrava impossibile. Certo, se me ne fossi andato così, e avessero successivamente scoperto che ero stato lì, sarei stato nei guai fino al collo. Sarei stato promosso da “persona qualunque con delle brutte scarpe” a “scintillante sospettato numero uno”. E non mi andava. In più, anche se fossi riuscito a dimostrare la mia innocenza, neanche l'accusa di omissione di soccorso sarebbe stata piacevole. Non mi andava neanche di telefonare, però. Non mi andava niente in particolare, così rimasi seduto lì dov'ero.
Più tempo avrei passato lì, più bulbi capillari avrebbero avuto la possibilità di deteriorarsi e lasciare la mia firma lì sulla trapunta. Oppure dei capelli già caduti potevano semplicemente staccarsi dalla mia maglia, o dai miei pantaloni. Lo sapevo.
Rimasi lì. Mi girava un po' la testa. Forse perché la donna che amavo si era appena uccisa.


 

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Capitolo 2
*** II ***







Rosso sangue
II.



 

Ero lì, sul letto.
Il soffitto era dipinto di bianco, ma intorno agli spigoli riportava un motivo. Ghirigori neri, morbide pennellate, lasciate da lei. Volute scure come fuliggine. Partivano dai quattro angoli e si ramificavano, facendosi più sottili e articolate tendendo verso il centro. Come braccia e mani di bambini rachitici e deformi, con poche o troppe piccolissime dita. Non credo avesse veramente pensato ai bambini, lei. L'effetto era piuttosto intrigante lo stesso.
Respirai a pieni polmoni il suo profumo. Chissà se se l'era spruzzato addosso prima di compiere l'estremo gesto o se riuscivo a sentirlo perché aleggiava semplicemente nella stanza. Mi venne la tentazione di andarle ad odorare il collo, ma non mi mossi. Iniziai invece a tamburellare con le mani sulla trapunta. Tum, tap. Pat, pat.
Improvvisamente pensai che avrei dovuto fare qualcosa. Qualunque cosa. “Metabolizzare il lutto”, tanto per cominciare. Molte persone reagiscono in maniera immediata ed emotivamente esplicita a cose del genere. Pianti, grida. Io non ero evidentemente una di loro. Credo mi trovassi in una sorta di fase mentale intermedia, sospesa.
Il cervello isola in qualche modo la parte emotiva, impedendole di entrare in contatto con la coscienza. Qualcosa del genere; è un meccanismo di autodifesa. Qualsiasi cosa appare filtrata, lontana, aliena, surreale. Come se ogni percezione facesse parte della vita di qualcun altro, osservata da una certa distanza, qualcuno che magari non vorresti essere tu.
Pensai che prima o poi le due parti sarebbero venute a contatto, la bolla emotiva sarebbe esplosa e io sarei crollato. Ma forse no. In quel momento, in ogni caso, ero lucidissimo.
Registrai le nuove informazioni con una freddezza ultraterrena. Lei era morta. Era andata così. Forse doveva succedere.
Amen.
Mi chiesi se avrei reagito allo stesso modo alla mia, di morte. “Ehi, quello è un autotreno, quello che ti sta arrivando in faccia”. Ok, voglio dire, perché no.
Mi alzai e mi stiracchiai, bello lungo, braccia e schiena. Avevo veramente intenzione di andare a casa? Impegnare la mente in attività ordinarie, cercando di mantenere viva quella dimensione di parziale incoscienza: non suonava come un brutto programma. Del resto, non riuscivo a pensare a nient'altro che potesse avere altrettanto senso.
Posai lo sguardo sul suo viso per l'ultima volta. Cosa stava fissando lei, prima di chiudere gli occhi?
Beh, il suo stesso braccio, apparentemente. Il braccio che aveva disteso per il lungo, con la mano in fondo semiaperta. Con l'indice che sporgeva leggermente rispetto alle altre dita. Rabbrividii. Il profilo del suo volto tracciava una retta ideale che coincideva perfettamente con la direzione dell'arto, come a voler puntare qualcosa. L'indicazione era, in effetti, delle più banali ed esplicite. Mi riproverai di non essermene accorto prima. La ringraziai mentalmente: sapeva che non ero esattamente un tipo sveglio.
Improvvisamente avevo trovato qualcosa da fare.
La retta immaginaria terminava dritta sulla piccola cassettiera addossata alla parete, uno dei pochi mobili della stanza. Mi avvicinai e aprii tutti i cassetti. Chi cazzo se ne fregava delle impronte digitali.
Afferravo vestiti e altra robaccia con una naturalezza meccanica, lanciandola alle mie spalle. Raschiai con le dita il fondo del primo cassetto. Bianco, vuoto. Il secondo, il terzo. Niente. Non c'era niente.
Forse non importava davvero: era già stato abbastanza bello crederci, per un attimo. Ma credere a cosa? Che avesse lasciato un messaggio nascosto in uno dei cassetti? Piuttosto banale da parte sua. Forse c'era ancora una possibilità.
Mi piazzai a fianco della cassettiera e la spinsi con entrambe le braccia. Sorrisi nel vedere che c'avevo preso. Sulla parete, tracce di inchiostro nero riportavano, nella sua inconfondibile morbida grafia, una scritta. Tutta per me.

Stanno arrivando anche per te. Scusa. Ti amo”.


 

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